Questo Manuale nasce dall’esperienza, ormai ultraventennale, di docenza universitaria dei suoi Autori. Ma nasce, forse a
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Italian Pages [449] Year 2024
Table of contents :
Indice sommario
Gli Autori
Premessa
Capitolo I. Diritto, stato, costituzione
Capitolo II. I grandi principi del diritto pubblico
Capitolo III. I diritti e le libertà
Capitolo IV. Le fonti e l’interpretazione nell’ordinamento italiano
Capitolo V. Diritto internazionale e diritto dell’unione europea
Capitolo VI. L’ordinamento repubblicano: gli organi costituzionali
Capitolo VII. L’ordinamento repubblicano: l’articolazione territoriale
Capitolo VIII. L’amministrazione pubblica
Capitolo IX. La giurisdizione
Capitolo X. La giustizia costituzionale
Indice analitico
SCUOLA di GIURISPRUDENZA diretta da Enrico Gabrielli
La casa editrice Giappichelli, che, con apprezzabile dedizione e meritevole impegno culturale, accompagna e sostiene gli studi giuridici in Italia, ha deciso di inaugurare una nuova collana di manuali e mi ha chiesto, nel segno di un’antica e costante collaborazione, di assumerne la direzione e la responsabilità scientifica. Invito che ho accettato, anzitutto, come testimonianza di amicizia. Il progetto editoriale è aperto allo studio di tutti i settori dell’esperienza giuridica compresi i ‘nuovi diritti’, e nasce con l’obiettivo di dar vita a strumenti didattici esaustivi, moderni ed efficaci. E.G.
In copertina:
Max Ernst, Ubu imperator, olio su tela, 1923, Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre George Pompidou. © by SIAE
ANdREA CARdONE - FULViO CORTESE - ANdREA dEFFENU
iSTiTUZiONi di diRiTTO PUbbLiCO
G. Giappichelli Editore
© Copyright 2024 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111
http://www.giappichelli.it
ISBN/EAN 979-12-211-0595-7
Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino
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a Giulio, Letizia e Luca
VI
Indice
Indice
VII
PADRE UBU Prima di tutto riformerò la giustizia, poi ci occuperemo delle finanze NUMEROSI MAGISTRATI Noi ci opponiamo ad ogni cambiamento PADRE UBU Merdre. Per prima cosa i magistrati non saranno più pagati MAGISTRATI Di che cosa vivremo? Siamo poveri, noi PADRE UBU Intascherete le multe che farete pagare e i beni dei condannati a morte UN MAGISTRATO Orrore SECONDO Infamia TERZO Scandalo QUARTO Vergogna TUTTI Ci rifiutiamo di giudicare in simili condizioni PADRE UBU Nella botola i magistrati! (A. JARRY, Ubu re (1896), Torino, 1988, p. 26)
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Indice
Indice
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INDICE SOMMARIO
pag.
Gli Autori
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Premessa
XVII
CAPITOLO I DIRITTO, STATO, COSTITUZIONE 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15.
Le istituzioni del diritto pubblico: che cosa è il diritto, cosa significa diritto pubblico e cosa si intende per istituzioni Lo Stato e i suoi elementi costitutivi La cittadinanza L’idea di Costituzione dalle “Grandi rivoluzioni” agli albori del XX secolo I tipi di Costituzione Cenni di storia costituzionale italiana Le forme di stato: dallo stato assoluto allo stato sociale Le forme di stato: Stati unitari e Stati federali Le forme di governo e gli organi costituzionali La forma di governo parlamentare La razionalizzazione della forma di governo parlamentare e il cancellierato tedesco La forma di governo presidenziale La forma di governo direttoriale La forma di governo semipresidenziale I sistemi elettorali in generale
1 5 8 11 17 18 21 24 25 25 27 28 30 31 34
CAPITOLO II I GRANDI PRINCIPI DEL DIRITTO PUBBLICO 1.
Che cos’è un principio? Nozione e dinamica
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X
Indice
pag. 2. 3. 4. 5.
I grandi principi dell’identità costituzionale repubblicana Ancora sulle distinzioni costituzionali: principi supremi e/o fondamentali (segue): principi fondamentali della legislazione statale, principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, principi inderogabili I principi del diritto europeo
40 45 48 51
CAPITOLO III I DIRITTI E LE LIBERTÀ 1. 2.
3. 4. 5. 6.
La tutela dei diritti e delle libertà nella Costituzione repubblicana tra trasformazioni della forma di stato e tutela internazionale Le libertà civili: la libertà personale 2.1. (segue): le libertà di domicilio, di corrispondenza e di circolazione e soggiorno 2.2. (segue): la libertà di manifestazione del pensiero Le libertà collettive: libertà di riunione e libertà di associazione 3.1. (segue): la libertà sindacale 3.2. (segue): la libertà di associazione partitica Le libertà economiche. L’iniziativa economica privata e la proprietà I diritti sociali, in particolare il diritto al lavoro, il diritto alla salute e il diritto all’istruzione I doveri costituzionali
55 63 68 75 82 85 88 93 97 107
CAPITOLO IV LE FONTI E L’INTERPRETAZIONE NELL’ORDINAMENTO ITALIANO 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.
Le principali classificazioni e la qualificazione delle fonti del diritto La natura dell’interpretazione giuridica e la sua disciplina legale Il problema delle antinomie normative e i criteri per la loro risoluzione La Costituzione e leggi costituzionali Le fonti primarie: la legge Gli atti aventi forza di legge: decreti legislativi e decreti-legge Le fonti secondarie: i regolamenti dell’Esecutivo Le fonti extra ordinem Le fonti consuetudinarie Le tendenze evolutive del sistema delle fonti del diritto
115 120 128 134 139 146 151 153 155 157
Indice
XI pag.
CAPITOLO V DIRITTO INTERNAZIONALE E DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.
L’ordinamento italiano oltre i confini dello Stato Le fonti del diritto internazionale e i loro rapporti con le fonti interne La genesi e le trasformazioni dell’Unione europea L’assetto istituzionale dell’Unione Le fonti del diritto UE e la partecipazione dell’Italia alla loro formazione e attuazione I rapporti tra fonti interne e fonti UE e i criteri di risoluzione delle relative antinomie Il diritto straniero
161 163 166 168 173 178 184
CAPITOLO VI L’ORDINAMENTO REPUBBLICANO: GLI ORGANI COSTITUZIONALI 1.
Il Parlamento 1.1. Caratteri del Parlamento in generale e del Parlamento italiano in particolare 1.2. L’assetto bicamerale del Parlamento e il Parlamento in seduta comune 1.3. La composizione della Camera e del Senato 1.4. La nomina presidenziale dei senatori a vita 1.5. La legge elettorale per la Camera e il Senato: dal 1948 al 1993 1.6. (segue): dal 2005 alla sent. n. 35/2017 della Corte costituzionale 1.7. La legge elettorale vigente per la Camera e il Senato 1.8. Le cause di ineleggibilità, incompatibilità e incandidabilità 1.9. La durata delle Camere e la prorogatio dei poteri 1.10. I quorum di validità delle sedute e delle deliberazioni delle Camere e i principi di funzionamento dell’attività parlamentare 1.11. I Presidenti della Camera e del Senato 1.12. I gruppi parlamentari, le commissioni e le giunte 1.13. Lo status di parlamentare 1.13.1. Il divieto di mandato imperativo 1.13.2. Le immunità parlamentari 1.13.3. L’indennità 1.14. Le funzioni del Parlamento 1.14.1. La funzione di indirizzo e controllo politico 1.14.2. La funzione ispettiva
187 187 189 190 191 192 194 198 199 203 204 206 207 210 210 211 214 215 215 219
XII
Indice
pag. 2.
3.
Il Presidente della Repubblica 2.1. L’elezione del Presidente della Repubblica 2.2. I poteri e il ruolo del Presidente della Repubblica 2.3. La controfirma ministeriale e la responsabilità presidenziale Il Governo 3.1. Gli organi necessari e non necessari del Governo 3.2. I rapporti tra gli organi del Governo 3.3. Le attribuzioni del Consiglio dei Ministri e del Presidente del Consiglio 3.4. La struttura dei Ministeri e le attribuzioni dei Ministri 3.5. I sottosegretari di Stato e i viceministri 3.6. La formazione del Governo e le crisi 3.7. Lo scioglimento anticipato delle Camere 3.8. Il rimpasto governativo e le crisi 3.9. La questione di fiducia 3.10. La mozione di sfiducia individuale 3.11. I reati ministeriali 3.12. Gli organi ausiliari
221 221 223 226 229 229 230 231 231 232 233 237 238 239 239 240 241
CAPITOLO VII L’ORDINAMENTO REPUBBLICANO: L’ARTICOLAZIONE TERRITORIALE 1. 2. 3. 4. 5. 6.
Il principio autonomistico e il sistema delle autonomie territoriali Gli statuti degli enti territoriali e i gradi della differenziazione regionale Il riparto della potestà normativa tra Stato e Regioni ordinarie e speciali (e Province Autonome di Trento e Bolzano) Il riparto delle funzioni amministrative La forma di governo e l’attività amministrativa delle Regioni Attività amministrativa e forma di governo degli altri enti territoriali
245 251 261 277 283 294
CAPITOLO VIII L’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA 1. 2. 3. 4. 5.
L’amministrazione pubblica e le sue molteplici nozioni La funzione amministrativa, le sue forme e il rapporto tra amministrazione e soggetti privati Il procedimento amministrativo Il provvedimento amministrativo La tutela nei confronti dell’amministrazione
303 308 314 327 335
Indice
XIII pag.
6. 7.
Le risorse dell’amministrazione La responsabilità dell’amministrazione e dei suoi funzionari
344 348
CAPITOLO IX LA GIURISDIZIONE 1. 2. 3. 4. 5. 6.
La funzione giurisdizionale: cenni generali Gli organi giudiziari nell’ordinamento italiano: schema complessivo I principi costituzionali sulla giurisdizione: un’introduzione I principi sull’organizzazione: i magistrati ordinari, il Consiglio Superiore della Magistratura, le magistrature speciali I principi sull’attività: il modello processuale e lo standard della tutela giurisdizionale La responsabilità del giudice
353 355 361 364 375 381
CAPITOLO X LA GIUSTIZIA COSTITUZIONALE 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.
I modelli di giustizia costituzionale nel panorama comparato e in Italia La Corte costituzionale: composizione, nomina e status di giudice costituzionale Il giudizio in via incidentale Il giudizio in via principale Le decisioni della Corte costituzionale Il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato Il conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni e tra Regioni Il referendum abrogativo e il giudizio di ammissibilità Il giudizio sulla messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica
Indice analitico
385 389 392 398 400 405 408 409 413 415
XIV
Indice
GLI AUTORI
Andrea Cardone Fulvio Cortese Andrea Deffenu
Professore Ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Firenze Professore Ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Trento Professore Ordinario di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Cagliari
XX
Autori
PREMESSA
Questo Manuale nasce dall’esperienza, ormai ultraventennale, di docenza universitaria dei suoi Autori. Ma nasce, forse ancor di più, dal sentimento di amicizia che li lega e dalla comune sensibilità che i medesimi hanno scoperto negli anni di avere maturato nello studio e nell’insegnamento del diritto pubblico. Esso rappresenta, dunque, innanzitutto il tentativo di “fare ordine” e di “accordare i suoni” in una pluralità di esperienze, di studi, di idee e di convincimenti che si spera possano essere d’aiuto agli studenti e alle studentesse che intraprendono un percorso di formazione universitaria nel campo delle scienze giuridiche, politiche ed economiche, quindi a coloro che frequentano innanzitutto, ma non solo, le scuole o le facoltà di giurisprudenza, scienze politiche ed economia del nostro sistema universitario. Proprio da tale unità d’intenti è nata, innanzitutto, la scelta per il titolo, Istituzioni di diritto pubblico, che richiama la gloriosa tradizione della giuspubblicistica italiana, ma che a chi scrive pare giustificata oggi, non meno di ieri, dalla necessità di ribadire l’unitarietà del metodo nello studio del diritto pubblico. A fronte della sempre maggiore complessità che caratterizza gli ordinamenti pluralistici contemporanei, infatti, acquisire fin dai primi passi della formazione giuridica la consapevolezza della matrice storicamente e concettualmente unitaria del diritto pubblico italiano, e per molti versi europeo, rappresenta la maniera più efficace per comprendere in chiave unitaria quei contenuti essenziali dell’ordinamento costituzionale che costituiscono l’imprescindibile sfondo la cui conoscenza è necessaria per poter affrontare le difficili questioni poste non solo dai vari rami dell’ordinamento medesimo, ma anche dai fenomeni che trasversalmente li attraversano, come, per fare alcuni esempi, l’erompere del diritto internazionale e dell’Unione europea, la crisi dell’unità e dell’autonomia della comunità politica, la rimodulazione del rapporto tra diritto pubblico e privato, la crescente delegittimazione dei pubblici poteri, l’affermarsi dei poteri privati, l’impatto della scienza e della tecnica. Tutti questi fenomeni, uniti al ricordato carattere pluralistico – e, quindi, inevitabilmente frammentato – degli ordinamenti contemporanei, rendono sempre più difficile individuare quali sono i soggetti che decidono i contenuti che la convivenza civile e politica tra gli individui assume in un determinato momento storico e in un dato territorio per rispondere alle esigenze, sempre mutevoli, dei tempi. Così come è sempre meno immediato comprendere quali sono le forme – e, quindi, le garanzie, innanzitutto democratiche – con cui queste decisioni vengono pre-
XVIII
Premessa
se e quali responsabilità esse generano in capo a chi le prende. Per questo motivo, nel condiviso convincimento che la ricerca delle risposte a queste domande possa essere un utile viatico per lo studio del diritto pubblico e delle questioni essenziali che esso pone, la trattazione degli argomenti affrontati nei vari Capitoli è accompagnata dal ricorrere di una domanda: Chi decide? Tale interrogativo, infatti, si è affermato come ineludibile nello studio di tutte le principali tematiche del diritto pubblico. Chi decide nei rapporti internazionali? Chi decide all’interno dell’Unione europea e quale sovranità rimane agli Stati membri? E “dentro” l’ordinamento repubblicano: Chi decide nei rapporti tra Stato, Regioni ed autonomie locali? Chi decide tra Parlamento e Governo nelle dinamiche della forma di governo parlamentare? Chi decide sul significato da attribuire alle norme dell’ordinamento nelle fitte relazioni tra amministrazione, giudici, Corte costituzionale e Parlamento? Naturalmente, la dottrina giuridica non può avere la pretesa di dare a queste domande risposte ultimative ed univoche, ma tale constatazione non toglie nulla al dovere che grava su di essa di cercarle e di trasmettere alle nuove generazioni il senso di questa ricerca, che si radica non tanto nell’obiettivo, pure da perseguire, di provare a dare ordine alla comprensione e allo studio del diritto pubblico, quanto nell’assai più oneroso tentativo di rinsaldare le – sempre più spesso vacillanti – fondamenta della convivenza civile e politica. Il che spiega anche il significato della dedica che accompagna questo Manuale: Giulio, Letizia e Luca, come tutti i figli e i figli di tutti, rappresentano il nostro futuro e per questa ragione ad essi dobbiamo l’impegno di non deflettere da quel poco che possiamo fare – e che speriamo ci riesca nell’insegnamento delle nostre discipline – perché tale convivenza consenta a chiunque un’esistenza pacifica, libera e dignitosa. Gennaio 2024 Andrea Cardone Fulvio Cortese Andrea Deffenu
Pur nella condivisione complessiva del lavoro, ad Andrea Cardone è riferibile la stesura dei Capitoli III, IV e V; a Fulvio Cortese la stesura dei Capitoli II, VII, VIII e IX; ad Andrea Deffenu la stesura dei Capitoli I, VI e X. Gli Autori sono grati nei confronti di chiunque voglia inoltrare segnalazioni o commenti o proposte di miglioramento o approfondimento agli indirizzi [email protected]; [email protected]; [email protected]
CAPITOLO I
DIRITTO, STATO, COSTITUZIONE SOMMARIO: 1. Le istituzioni del diritto pubblico: che cosa è il diritto, cosa significa diritto pubblico e cosa si intende per istituzioni. – 2. Lo Stato e i suoi elementi costitutivi. – 3. La cittadinanza. – 4. L’idea di Costituzione dalle “Grandi rivoluzioni” agli albori del XX secolo. – 5. I tipi di Costituzione. – 6. Cenni di storia costituzionale italiana. – 7. Le forme di stato: dallo stato assoluto allo stato sociale. – 8. Le forme di stato: Stati unitari e Stati federali. – 9. Le forme di governo e gli organi costituzionali. – 10. La forma di governo parlamentare. – 11. La razionalizzazione della forma di governo parlamentare e il cancellierato tedesco. – 12. La forma di governo presidenziale. – 13. La forma di governo direttoriale. – 14. La forma di governo semipresidenziale. – 15. I sistemi elettorali in generale.
1. Le istituzioni del diritto pubblico: che cosa è il diritto, cosa significa diritto pubblico e cosa si intende per istituzioni Il presente Manuale ha ad oggetto le Istituzioni del diritto pubblico. Il titolo evoca una serie di questioni preliminari alle quali si cercherà di offrire una prima risposta, ovverosia: 1) che cosa è il diritto; 2) nell’ambito del diritto, che cosa significa diritto pubblico; 3) cosa si intende con l’espressione istituzioni. Per rispondere alla prima domanda – formidabile per ampiezza e complessità e più direttamente affrontata in altre discipline come la filosofia del diritto e la teoria generale del diritto – sarà sufficiente soffermarsi non su tutti, ma solo su quegli aspetti del fenomeno giuridico più utili per la piena comprensione delle pagine di questo Manuale. Intanto, si può convenire con la constatazione che il diritto è un fenomeno sociale e che un’organizzazione sociale, per esistere e conservarsi, necessita di regole giuridiche: ubi societas ibi ius. Affinché un gruppo di individui resti unito, non si disgreghi e possa anzi stabilizzarsi e prosperare, così da dar vita a una vera e propria comunità politico-sociale, deve dotarsi di norme di comportamento. Storicamente, si può osservare come più questi gruppi diventano numerosi e insediati in territori sempre più vasti,
Che cosa è il diritto
2
La vincolatività e l’esteriorità
Capitolo I
maggiore è la necessità che tali gruppi si diano regole più complesse e articolate e si dotino di apparati organizzativi in grado di governare. Ciò che ha reso possibile agli esseri umani, fin dai tempi più antichi, di prevalere sulle altre specie animali è stata, con ogni probabilità, la capacità di elaborare un linguaggio raffinato e articolato, facilmente adattabile e modificabile, fondamentale per rafforzare la cooperazione e l’interazione tra individui, presupposto indefettibile per il mantenimento dell’ordine sociale. Un linguaggio, si badi, prima verbale e poi anche scritto, in grado di elaborare e comunicare concetti astratti come lo sono, d’altra parte, le stesse norme giuridiche che compongono il diritto. Si pensi all’incredibile volano per lo sviluppo economico di una fictio iuris quale la persona giuridica, concetto astratto, che non esiste materialmente, ma che opera da secoli nella vita economica, come se fosse una persona vera, attraverso una molteplicità di varianti e forme diverse (società per azioni, società a responsabilità limitata, etc.). Che il diritto sia un fenomeno sociale non significa che diritto e società coincidano e neppure che qualsiasi regola di comportamento rinvenibile nell’ambito di una comunità sociale sia di per sé giuridica. Proviamo a soffermarci meglio su questi aspetti cercando di enucleare gli elementi che caratterizzano il diritto e, quindi, le norme giuridiche, così da poterle distinguere dagli altri tipi di norme. Il diritto è tale se le norme che lo compongono sono, nel loro complesso: 1) vincolanti; 2) coercibili; 3) esclusive (su generalità, astrattezza e innovatività vedi Cap. IV, par. 1). In primo luogo, dunque, le norme possono qualificarsi giuridiche se sono vincolanti ovverosia prescrittive e accompagnate (tipicamente) da una sanzione in caso di loro violazione: di conseguenza, i destinatari di tali norme devono conformare i loro comportamenti alle prescrizioni normative. Il carattere della vincolatività ci consente di cogliere la struttura tipica delle norme giuridiche: se è A, deve essere B. Il diritto, che prescrive dei comportamenti per garantire l’ordine sociale è, in questi termini, strutturalmente diverso dalle norme naturali, il cui schema è il seguente: se è A, allora è B. Si pensi alla differenza tra l’art. 575 c.p. («Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno») e il primo principio della dinamica («Ogni corpo non soggetto a forze persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme»). Nel primo caso siamo di fronte a una norma prescrittiva, che fa parte del mondo del dover essere: vieta un comportamento e stabilisce una sanzione in caso di violazione della regola medesima; nel secondo caso siamo di fronte a una norma descrittiva, che fa parte del mondo dell’essere: se si realizzano le condizioni della premessa si realizzerà il fenomeno fisico del moto perpetuo.
Diritto, Stato, Costituzione
3
L’articolo del codice penale che prevede il delitto di omicidio è utile per comprendere, in generale, come il diritto nasca dall’esigenza di garantire l’ordine sociale guidando le condotte degli individui lungo binari predefiniti. Poiché, però, gli esseri umani possono obbedire, ma anche trasgredire le norme di comportamento stabilite, è frequentissimo che si preveda una sanzione in caso di sua violazione, tanto da poter ritenere che la sanzione sia non tanto un elemento essenziale (possono esistere norme giuridiche prive di sanzione) quanto un elemento tipico della norma. Dovrebbe essere chiaro, da quanto detto, come il diritto si caratterizzi per l’intervenire sul versante delle condotte (commissive od omissive) dell’individuo e non su quello, per così dire, della coscienza di una persona, quando ancora il pensiero non si è tradotto in atto. Il diritto, e dunque le norme giuridiche, si caratterizzano per l’esteriorità, mentre la morale, e dunque le norme morali o religiose, che possono orientare il pensiero degli esseri umani, per l’interiorità. Questa differenza ci consente di tenere distinta una norma certamente giuridica, che opera nella sfera dell’esteriorità, come l’art. 94, co. 2, primo periodo, Cost. («Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri»), da una norma di tipo morale, come l’aiutare i bisognosi con disinteresse, e che opera nella sfera dell’interiorità, generando tutt’al più un senso di pentimento in caso di sua trasgressione. In secondo luogo, le norme giuridiche presentano il carattere della coercibilità poiché, a differenza delle altre norme sociali (religiose, di costume, etc.), sono corredate di appositi meccanismi che consentono di imporne il rispetto tramite l’uso, ove occorra, della forza fisica. Questa seconda caratteristica può essere considerata, se si vuole, un corollario della vincolatività: il diritto può agire sia sul versante della prevenzione di comportamenti che si ritiene non debbano essere realizzati, al fine di impedirne la concretizzazione (coattività del diritto); sia sul versante della reazione ad un comportamento illecito tramite l’irrogazione di apposite sanzioni. Su quest’ultimo aspetto, si consideri che il diritto, nelle sue manifestazioni relativamente più recenti e articolate, non si limita a irrogare sanzioni negative (si pensi, in particolare, al diritto penale), ma è sempre più spesso un diritto che svolge una funzione promozionale che ricollega, in molte sue norme, al compimento di un’azione la previsione di conseguenze positive, ovverosia di una sanzione positiva. In terzo luogo, le norme giuridiche si caratterizzano per l’esclusività, nel senso che esse prevalgono sulle altre norme, siano esse sociali o di costume, religiose piuttosto che morali. Lo stretto legame tra diritto e società ci consente di comprendere con maggiore contezza come lo studio del diritto debba essere ricondotto alle cosiddette scienze dello spirito e non alle ben differenti scienze della natu-
La coercibilità
L’esclusività
Il diritto come scienza dello spirito
4
Che cosa è il diritto pubblico
Capitolo I
ra. L’uso di tale terminologia nella contrapposizione tra i due tipi di scienza risale alla fine del XIX secolo quale risposta alle preoccupazioni paventate a seguito del processo di razionalizzazione tecnica del lavoro industriale. Il timore, allora, era che scienze come la fisica e la chimica assurgessero a modello per qualunque altra branca del sapere e che lo stesso essere umano fosse concepito come un mero meccanismo misurabile e organizzabile, privo di una sua individualità. Con questa distinzione, dunque, si cercava di salvaguardare le peculiarità di discipline come la filosofia, la storia, ma anche il diritto che, come già abbiamo spiegato, non hanno come obiettivo il classificare i fenomeni analizzati alla luce di leggi generali e quindi spiegare la realtà, come è tipico delle scienze della natura, ma cercare, più in profondità, di comprendere fenomeni (politici, giuridici, etc.) visti nella loro peculiarità, unicità e storicità, come è appunto caratteristico delle scienze dello spirito. A distanza di oltre un secolo, la difesa del proprium delle scienze sociali e del diritto – e alla fin fine della stessa individualità e infungibilità dell’essere umano (v. art. 2 Cost.) – contro i pericoli della tendenza bulimica delle innovazioni tecnologiche (si pensi alla sfida che lo sviluppo senza limiti dell’intelligenza artificiale pone non solo al diritto, ma alla stessa umanità) appare quanto mai attuale e problematica. Per tornare, in particolare, al diritto, comprendere significa, in sostanza, essere consapevoli della storicità del diritto, della sua mutevolezza nel tempo e nei luoghi e pertanto interpretare fenomeni giuridici come le regole di un ordinamento, ovverosia qualificare una fattispecie concreta alla luce di una fattispecie astratta. Per chi si approccia per la prima volta a tale scienza significa apprendere e saper usare i metodi interpretativi e sovente, come accade per operatori del diritto quali i giudici e gli avvocati, saper individuare e applicare la norma più adatta ad un caso concreto. Operazione questa che, come vedremo nelle pagine del Manuale, non è quasi mai meccanica, ma complessa per almeno due ragioni: a) perché gli ordinamenti pluralistici contemporanei sono essi stessi complessi, stratificati e caratterizzati da norme molto diverse tra loro, formulate non solo come regole auto-applicative, ma sovente come principi (sulla differenza tra regole e principi v. infra, Cap. II, par. 1); b) perché per comprendere e dunque interpretare siffatti insiemi di disposizioni al fine di individuare la norma da applicare al caso concreto, l’interprete è chiamato a svolgere un’attività la cui natura è intrinsecamente creativa (v. infra, Cap. IV, par. 2). La risposta al secondo quesito che ci siamo posti (cosa significa diritto pubblico) – oggetto, nei secoli, di numerose dispute e contrapposizioni – si fonda su quella che Norberto Bobbio ha chiamato la “grande dicotomia” tra pubblico e privato. Il criterio che consente di distinguere con maggior approssimazione le due principali branche del diritto è quello
Diritto, Stato, Costituzione
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dell’interesse tutelato dalla norma per cui, come si può leggere in un celebre passo del Digesto, è qualificabile diritto pubblico «quod ad statum rei romanae spectat», mentre è diritto privato «quod ad singulorum utilitatem». Pertanto, sono da considerare di diritto pubblico quegli ambiti normativi che tutelano un interesse della collettività, come ad esempio la salute pubblica (vedi l’art. 32 Cost.); viceversa, sono di diritto privato quegli ambiti normativi che tutelano interessi individuali, si pensi alla disciplina del contratto di compravendita. In genere, le norme di diritto pubblico sono inderogabili, mentre le norme di diritto privato sono disponibili, entro certi limiti, dalle parti (si pensi all’art. 1475 c.c., secondo cui «le spese del contratto di vendita e le altre accessorie sono a carico del compratore, se non è stato pattuito diversamente»). L’oggetto del Manuale (per giungere così all’ultima delle tre domande che ci siamo posti) non ricomprende lo studio di tutto il diritto pubblico, perché col tempo la complessità dell’ordinamento ha portato alla nascita, al suo interno, di discipline dotate di una propria autonomia e specializzazione (si pensi al diritto penale e al diritto processuale penale). Il Manuale vorrebbe fornire, piuttosto, come abbiamo già anticipato nella Premessa, una visione di insieme del diritto pubblico italiano, o meglio delle sue Istituzioni, intendendo con esse – come richiama l’etimo della parola – i fondamenti e, dunque, i principi del diritto pubblico in una prospettiva unitaria. Sarà prestata particolare attenzione, pertanto, ai principi che stanno alla base del nostro ordinamento costituzionale (v. il Cap. II) e, come da tradizione, il Manuale si soffermerà, in particolare, sui diritti e sulle libertà, sull’articolazione costituzionale e amministrativa della Repubblica, sulle fonti del diritto e sull’interazione del diritto italiano con il diritto internazionale e dell’Unione europea.
Che cosa sono le Istituzioni del diritto pubblico
2. Lo Stato e i suoi elementi costitutivi Secondo il prezioso insegnamento di Costantino Mortati, lo Stato è un «ordinamento giuridico a fini generali esercitante il potere sovrano su un dato territorio, cui sono subordinati in modo necessario i soggetti ad esso appartenenti». Da tale definizione si possono ricavare i tre tradizionali elementi costitutivi dello Stato, ovverosia: a) la sovranità; b) il territorio; c) il popolo. Il concetto di sovranità si traduce nell’esistenza di un soggetto, appunto lo Stato, in grado di esercitare il monopolio legittimo della forza in un determinato territorio. A tale soggetto è riconosciuto il carattere della originarietà, in quanto esso non discende da altri ordinamenti e trova in
La sovranità
6
Il territorio
Il popolo
Capitolo I
sé medesimo la giustificazione giuridica della propria esistenza. A tale soggetto è riconosciuta, inoltre, una posizione di supremazia rispetto a tutti gli altri ordinamenti esistenti nel medesimo ambito territoriale. Tuttavia, affinché lo Stato possa esercitare la sua sovranità, non basta il riconoscimento di una posizione sovraordinata all’interno della sua cornice territoriale, ma occorre anche che esso sia indipendente dagli altri soggetti statuali. Infatti, se così non fosse, lo Stato non sarebbe in grado di esercitare in via esclusiva la sua forza legittima all’interno della propria area territoriale di riferimento. L’esercizio della sovranità richiede, dunque, che lo Stato disponga di un territorio, i cui confini siano precisamente delimitati. È il diritto internazionale a chiarire quali siano i parametri da adottare per una effettiva delimitazione del territorio statale. Quest’ultimo è da intendersi definito sulla base delle seguenti componenti: a) la “terraferma”, che si ricava tramite i confini naturali e artificiali; b) il “mare territoriale”, sulla base di quanto previsto dall’art. 2 del Codice della navigazione; c) la “piattaforma continentale”, cioè quella parte di fondo marino contiguo alle terre emerse; d) lo spazio atmosferico sovrastante e lo spazio sottostante; e) le navi in alto mare e gli aeromobili battenti bandiera dello Stato laddove si trovino in un luogo o spazio non soggetto alla sovranità di altro Stato; f) le sedi e le rappresentanze diplomatiche all’estero. L’ultimo elemento costitutivo dello Stato è rappresentato dal popolo, ovvero da quella aggregazione di soggetti legati da interessi e bisogni comuni e dalla appartenenza al medesimo territorio, entro il quale sono sottoposti stabilmente all’esercizio della sovranità statuale. È importante rilevare che il concetto di popolo si distingue sia dal concetto di nazione che da quello di popolazione. Per popolo, infatti, si intende quel gruppo di soggetti che condividono, in un dato momento storico, lo status di cittadini. Viceversa, il concetto di nazione valorizza il profilo storico, etnico e culturale di una comunità, che consente di tenere insieme, dunque, non solo la generazione presente, ma anche le generazioni passate e quelle future. Ancora diverso è, poi, il concetto di popolazione. Per popolazione, infatti, si intende la somma degli individui che in un dato momento storico vivono nel territorio dello Stato. È un concetto che non coincide, dunque, con quello di popolo: ad esempio, gli stranieri residenti in Italia e gli apolidi fanno parte della popolazione, ma non del popolo. In definitiva, non tutti gli individui facenti parte della popolazione sono cittadini dello Stato, perché la cittadinanza è riconosciuta non a tutti gli individui residenti, ma in linea generale soltanto a coloro che compongono stabilmente la sfera personale dello Stato. Lo Stato quale insieme di cittadini stanziati su un territorio e retti da un apparato organizzativo “sovrano” è da intendere come Stato-ordina-
Diritto, Stato, Costituzione
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mento e da tenere distinto dallo Stato-soggetto (o Stato-apparato), ente pubblico territoriale dotato di personalità giuridica e che può essere identificato con il vertice del potere esecutivo (ad esempio, è contro lo Statosoggetto che è possibile agire in sede giurisdizionale e non contro lo Stato-ordinamento: ad essere citato in giudizio, se del caso, è il Ministro competente ratione materiae, ma – è la tesi più accreditata – in quanto rappresentante dello Stato-soggetto). Lo Stato-ordinamento italiano coesiste, a livello internazionale, con gli altri Stati e con la presenza di organizzazioni internazionali di varia natura (v. il Cap. V) e, a livello interno, con la presenza di altri ordinamenti giuridici. Si pensi, dal primo punto di vista, all’art. 7 Cost., secondo cui «lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani», ma anche all’art. 11, co. 2, Cost., secondo cui l’Italia «… consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Come ha osservato Norberto Bobbio, la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici nasce nella prima metà del XX secolo come reazione alla teoria statualistica del diritto e dunque all’idea che il diritto coincida con il solo diritto dello Stato. Se questo appare oggi indubitabile sul versante sovranazionale (basti pensare al rapporto tra Stati membri e Unione europea), non è meno vero sul versante interno. Così, a fianco allo Stato-soggetto, inteso come ente pubblico territoriale, coesistono altri enti pubblici territoriali – Regioni ed enti locali – che sono direttamente riconosciuti dalla Costituzione come centri di produzione normativa, al di là del fatto che solo al primo si riconosca l’attributo della sovranità e ai secondi quello dell’autonomia. Lo stesso legislatore non manca di riconoscere e disciplinare soggetti giuridici dotati di un grado di autonomia tale da poterli qualificare come dei veri e propri ordinamenti giuridici, con conseguenze pratiche rilevanti. Si pensi, a questo proposito, all’ordinamento sportivo, al quale è riconosciuta un’ampia funzione giustiziale esercitata dai propri organi interni nei confronti degli iscritti. Come ha affermato con chiarezza la Corte costituzionale, «nel quadro della struttura pluralistica della Costituzione, orientata all’apertura dell’ordinamento dello Stato ad altri ordinamenti, anche il sistema dell’organizzazione sportiva, in quanto tale e nelle sue diverse articolazioni organizzative e funzionali, trova protezione nelle previsioni costituzionali che garantiscono i diritti dell’individuo, non solo come singolo, ma anche nelle formazioni sociali in cui si esprime la sua personalità (art. 2 Cost.) e che assicurano il diritto di associarsi liberamente per fini che non sono vietati al singolo dalla legge penale (art. 18 Cost.). Con la conseguenza che eventuali collegamenti con l’ordinamento statale, allorché i due ordinamenti entrino reciprocamente in con-
Lo Statoordinamento e lo Statosoggetto
La pluralità degli ordinamenti giuridici
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Capitolo I
tatto per intervento del legislatore statale, devono essere disciplinati tenendo conto dell’autonomia di quello sportivo e delle previsioni costituzionali in cui essa trova radice» (sent. n. 160/2019).
3. La cittadinanza
I principi in tema di cittadinanza
L’acquisto della cittadinanza per “ius sanguinis”
Sono i singoli Stati a determinare i soggetti che costituiscono il proprio “popolo”, attribuendo loro la cittadinanza. Il riconoscimento, da parte dell’ordinamento giuridico, dello status di cittadino, comporta l’attribuzione generale ed astratta di una serie di diritti e doveri che possono essere fatti valere nei confronti dello Stato-soggetto. Si parla a tale proposito di status civitatis per ricomprendere quel fascio non divisibile di diritti e doveri attribuiti ai cittadini di uno Stato. In particolare, si pensi al diritto di voto, che qualifica lo status di cittadino, o al diritto di candidarsi alle cariche elettive. Si è detto che la cittadinanza è riconosciuta da tutti gli ordinamenti statali in base a delle regole che variano da Stato a Stato e che si fondano, in sostanza, su due principi fondamentali: 1) lo ius sanguinis, per cui la cittadinanza è riconosciuta automaticamente per il fatto di essere discendente di un cittadino; 2) lo ius soli, per cui l’acquisto della cittadinanza si ricollega al fatto di nascere nel territorio dello Stato. Gli ordinamenti dei singoli Stati, inoltre, possono dare maggiore o minore rilievo alla volontà del soggetto, come quando si subordina l’ottenimento della cittadinanza ad una espressa richiesta dell’interessato. Per quanto riguarda l’Italia, occorre segnalare che la Costituzione non si occupa di disciplinare direttamente le condizioni per l’acquisto o la perdita della cittadinanza, ma si limita a stabilire che «Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome» (art. 22 Cost.). La disciplina sulla cittadinanza è rinvenibile, invece, nella legge n. 91/1992 che, come vedremo, privilegia in maniera particolare lo ius sanguinis e ricollega ad ipotesi tutto sommato residuali l’acquisto della cittadinanza in base al principio dello ius soli. Tale legge stabilisce che è cittadino fin dalla nascita, con evidente riferimento allo ius sanguinis, il figlio di padre o madre cittadini italiani. È poi cittadino per nascita chi è nato nel territorio della Repubblica, se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato alla quale appartengono (art. 1, legge n. 91/1992). È ancora considerato cittadino per nascita il figlio di ignoti trovato nel territorio della Repubblica, se non venga trovato in possesso di altra cittadinanza. Si tratta di un’ipotesi residuale,
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volta a tutelare il nascituro che, in assenza di tale previsione, resterebbe senza cittadinanza. Sono previste ulteriori ipotesi di acquisto della cittadinanza. Così, lo straniero o l’apolide del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, diviene cittadino: a) se presta effettivo servizio militare per lo Stato italiano e dichiara preventivamente di voler acquistare la cittadinanza italiana (è necessaria, dunque, una richiesta da parte dell’interessato); b) se assume pubblico impiego alle dipendenze dello Stato anche all’estero e dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana; c) se, al raggiungimento della maggiore età, risiede legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica e dichiara, entro un anno dal raggiungimento, di voler acquistare la cittadinanza italiana (art. 4, legge n. 91/1992). Inoltre, lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data (art. 4, co. 2, legge n. 91/1992). L’art. 33 del d.l. n. 69/2013 ha inteso semplificare tale modalità di acquisto della cittadinanza, disponendo che all’interessato: a) non sono imputabili eventuali inadempimenti riconducibili ai genitori o alla pubblica amministrazione; b) può dimostrare il possesso dei requisiti richiesti dall’art. 4, co. 2, con ogni tipo di documentazione, ad esempio anche tramite i certificati di frequenza scolastica. Ancora, l’acquisto della cittadinanza italiana può avvenire “per matrimonio”. Più in particolare, il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano, può acquistare la cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero (art. 5, legge n. 91/1992). Oltre alle ipotesi di attribuzione della cittadinanza italiana sulla base del principio dello ius sanguinis e – seppur marginalmente – dello ius soli, la cittadinanza è attribuita, come abbiamo visto, su richiesta, laddove sussistano i presupposti richiesti dalla legge. In questi ultimi casi, pertanto, se il richiedente ha maturato tali requisiti, la pubblica amministrazione deve, senza margini di discrezionalità, riconoscere la cittadinanza. Vi è, infine, un ulteriore gruppo di ipotesi per le quali la legge stabilisce le condizioni affinché lo straniero possa chiedere la cittadinanza, ma riserva alla pubblica amministrazione un ampio margine di discrezionalità quanto al concederla o negarla. In sintesi, il compito dell’amministrazione competente è di verificare sia l’avvenuta integrazione dello straniero in Italia tramite indici quali il possesso di fonti di sussistenza adeguate e l’ottemperanza agli obblighi tributari e contributivi, sia la presenza di
L’acquisto della cittadinanza per “beneficio di legge”
L’acquisto della cittadinanza “per matrimonio”
La cittadinanza “per naturalizzazione”
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Le proposte di riforma della cittadinanza
La perdita della cittadinanza
La revoca della cittadinanza
Capitolo I
eventuali cause ostative all’acquisto di cittadinanza, collegate a ragioni di sicurezza della Repubblica ed all’ordine pubblico. Tali ipotesi, dette di acquisto della cittadinanza “per naturalizzazione”, sono previste dall’art. 9 della legge n. 91/1992. La disposizione richiamata stabilisce che, con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato e su proposta del Ministro dell’Interno, la cittadinanza italiana può essere concessa, tra le numerose ipotesi: a) allo straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita o è nato nel territorio della Repubblica, e in entrambi i casi vi risiede legalmente da almeno tre anni; b) al cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea se risiede legalmente da almeno quattro anni nel territorio della Repubblica; c) allo straniero che risiede legalmente da almeno 10 anni nel territorio della Repubblica. È interessante dar conto, inoltre, del fatto che, sul finire della XVII Legislatura, è stato discusso un disegno di legge volto a riconoscere la possibilità di acquisto della cittadinanza italiana: a) per chi sia nato nel territorio italiano da genitori stranieri, di cui almeno uno in possesso del diritto di soggiorno permanente o del permesso di soggiorno di lungo periodo (c.d. ius soli); b) per il minore straniero, nato in Italia o che vi abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età, che abbia frequentato regolarmente la scuola nel territorio nazionale per cinque anni (c.d. ius culturae); c) per lo straniero che sia entrato in Italia prima del compimento della maggiore età e vi risieda regolarmente da almeno sei anni, che abbia frequentato un ciclo scolastico, ovvero un percorso di istruzione e formazione professionale. Tale disegno di legge non ha concluso il suo iter di approvazione, a dimostrazione di quanto sia delicato, sul piano politico, il tema della cittadinanza e del suo riconoscimento al di là delle forme più tradizionali conosciute all’ordinamento. La cittadinanza, inoltre, può essere perduta, revocata e riacquisita. I casi di perdita della cittadinanza possono essere determinati da una rinuncia o da un “automatismo”. Può rinunciare alla cittadinanza il cittadino che possiede, acquista o riacquista una cittadinanza straniera, qualora risieda o decida di stabilire la propria residenza all’estero. Perde, invece, automaticamente la cittadinanza italiana colui che, ad esempio, presti servizio militare per uno Stato estero (artt. 11-12, legge n. 91/1992). La revoca della cittadinanza è una misura sanzionatoria prevista nei confronti di coloro che abbiano ottenuto la cittadinanza per matrimonio e naturalizzazione, e di coloro che la abbiano scelta al raggiungimento della maggiore età e che siano stati condannati con sentenza definitiva per reati particolarmente gravi (art. 10-bis, legge n. 91/1992).
Diritto, Stato, Costituzione
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Infine, chi ha perduto la cittadinanza può riacquisirla: a) se presta effettivo servizio militare per lo Stato italiano e dichiara previamente di volerla riacquistare; b) se, assumendo o avendo assunto un pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche all’estero, dichiara di volerla riacquistare; c) se dichiara di volerla riacquistare ed ha stabilito o stabilisce, entro un anno dalla dichiarazione, la residenza nel territorio della Repubblica; d) dopo un anno dalla data in cui ha stabilito la residenza nel territorio della Repubblica, salvo espressa rinuncia entro lo stesso termine (art. 13, legge n. 91/1992). Resta da esaminare, infine, la modalità d’acquisto della cittadinanza europea. A partire dal 1992, i Trattati comunitari riconoscono la cittadinanza europea, che si aggiunge, ma non si sostituisce, a quella posseduta dai cittadini degli Stati membri dell’Unione europea. Si tratta di una cittadinanza riconosciuta in maniera automatica, che comporta l’attribuzione di uno status e, dunque, la titolarità di una serie di diritti e doveri. In particolare, il cittadino europeo ha il diritto di circolare liberamente e di stabilirsi nel territorio di uno degli Stati membri; ha il diritto di elettorato attivo e passivo nelle elezioni locali (ad es. un cittadino francese residente a Roma ha il diritto di voto alle elezioni comunali e provinciali, ma ha altresì il diritto di candidarsi come consigliere comunale o consigliere provinciale, anche se non come sindaco o Presidente della Provincia); il diritto di petizione al Parlamento europeo; la tutela diplomatica e consolare nei paesi extra-europei nei quali il suo Stato non è rappresentato da parte delle autorità degli altri Stati membri.
Il riacquisto della cittadinanza
La cittadinanza europea
4. L’idea di Costituzione dalle “Grandi rivoluzioni” agli albori del XX secolo Le elaborazioni filosofiche di Bodin e, soprattutto, di Hobbes, hanno segnato – come ha rilevato Maurizio Fioravanti – una rottura con l’idea medievale di costituzione mista, intesa come un insieme di regole e accordi, anche consuetudinari, finalizzati a garantire una sorta di equilibrio tra i vari e plurali corpi sociali che caratterizzavano la società medievale. Le riflessioni di Hobbes si concentrano, in particolare, sull’idea di fondare la comunità politica su un soggetto detentore della sovranità, in grado di assicurare l’unità dell’ordinamento. Nel Leviatano (1651), Hobbes teorizza come «il potere sovrano, sia esso posto in un uomo, come nella monarchia o in un’assemblea di uomini, come negli stati popolari e aristocratici, è tanto grande quanto gli uomini possono immaginare di farlo. E sebbene si possano immaginar molte cattive conseguenze da un potere
La sovranità in Hobbes
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Il costituzionalismo e i limiti al potere
La “Gloriosa rivoluzione”
Montesquieu e la separazione dei poteri
Capitolo I
così illimitato, pure le conseguenze della mancanza di esso, la guerra di ognuno contro il suo vicino, sono di gran lunga peggiori». Ciò è possibile, tuttavia, solamente laddove gli individui accettino di uscire dallo stato di natura, foriero di guerre e lotte continue (pactum unionis) e, successivamente, decidano di sottomettersi al potere del sovrano, sia esso il monarca o un’assemblea, accettando la sua protezione (pactum subiectionis). In sostanza, una comunità politica non si può più reggere attraverso un insieme di accordi e pattuizioni disomogenee, ma è necessario individuare una sorta di legge fondamentale che dia unità e compattezza al corpo sociale. Siamo ancora lontani, chiaramente, dal concetto moderno di Costituzione, le cui radici vanno ricercate nel costituzionalismo, ovverosia in quell’insieme di dottrine filosofiche e politiche che, a partire dalla seconda metà del XVII secolo, propugnavano l’esigenza del limite e dell’equilibrio dei poteri contro l’assolutismo monarchico. John Locke, in particolare, osteggiava l’idea di concentrare la sovranità nelle mani di un unico soggetto e, contro la monarchia assoluta, riteneva che una società moderna dovesse reggersi su forme di potere moderato e bilanciato. Si affacciava, pertanto, l’idea, alla base del costituzionalismo moderno, che occorresse limitare l’esercizio del potere, distribuendolo tra più organi. Locke elaborava tali teorie negli anni della “Gloriosa rivoluzione” e dell’adozione del Bill of Rights del 1689, celebre documento con il quale si depotenziò il ruolo del Re in favore di una sempre maggiore centralità parlamentare. Locke, invero, evidenziava la necessità che lo stesso potere legislativo fosse, a sua volta, limitato e che, pertanto, dovesse coesistere, separato, il potere esecutivo affidato al Re. Parlamento e Re si sarebbero dovuti bilanciare a vicenda, distribuendo i poteri: il primo, esercitando il potere legislativo e potendo decidere sull’utilizzo delle risorse finanziare; il secondo, disponendo del potere di veto e dell’amministrazione dello Stato: «Quando il potere esecutivo e il legislativo sono affidati in mani diverse (come avviene in tutte le monarchie moderate, e in tutti i governi ben costituiti), il bene della società esige che alcune cose siano lasciate alla discrezione di colui che ha il potere esecutivo». Sulla scia di tali elaborazioni filosofiche si colloca anche il pensiero di Montesquieu e la sua teoria della separazione dei poteri: «Tutto sarebbe perduto se lo stesso uomo, o lo stesso corpo di maggiorenti, o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche, e quello di giudicare i delitti o le controversie dei privati». Considerata la tendenza naturale del potere ad assumere su di sé altro potere, risultava, dunque, necessario costruire una forma di governo nella quale nessuno degli organi potesse prevaricare sugli altri ed anzi, dove ciascun potere fosse in grado di limitare le ten-
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denze espansive altrui: «Ecco, dunque, la costituzione fondamentale del governo di cui stiamo parlando. Il corpo legislativo essendo composto di due parti [il corpo rappresentativo dei nobili e il corpo rappresentativo del popolo], l’una terrà legata l’altra con la mutua facoltà d’impedire. Tutte e due saranno vincolate dal potere esecutivo, che lo sarà a sua volta da quello legislativo. Questi tre poteri dovrebbero rimanere in stato di riposo, o di inazione. Ma siccome, per il necessario movimento delle cose, sono costretti ad andare avanti, saranno costretti ad andare avanti di concerto». Tale teoria sarà alla base di molte delle Costituzioni elaborate alla fine del XVIII secolo. È in questo contesto che si inseriscono le altre due grandi rivoluzioni dopo quella inglese: la rivoluzione americana e la rivoluzione francese. Per comprendere l’impatto di questi eventi sullo sviluppo dell’idea di Costituzione sarà sufficiente richiamare alcuni passaggi delle costituzioni e dichiarazioni che furono proclamate in quegli anni. Innanzitutto, è con la rivoluzione dei coloni contro la madrepatria inglese che prendono avvio una serie di eventi che porteranno all’affermazione dell’idea di Costituzione come higher law, ovverosia come legge fondamentale posta al di sopra di tutte le altre leggi. Una Costituzione, questa è la grande novità, che procede dal basso, dalla sovranità popolare, che a sua volta esprime il potere costituente: «Noi, Popolo degli Stati Uniti … ordiniamo e stabiliamo questa Costituzione per gli Stati Uniti d’America» (Preambolo alla Cost. USA). La Costituzione americana del 1787 recepisce, nello stesso tempo, le grandi teorizzazioni europee sulla necessità di dar vita a una forma di governo equilibrata, espressione del principio della separazione dei poteri. Difatti: a) «Di tutti i poteri legislativi qui concessi sarà investito un Congresso degli Stati Uniti» (art. I, par. 1); b) «Del potere esecutivo sarà investito un Presidente degli Stati Uniti d’America (art. II, par. 1); c) del potere giudiziario degli Stati Uniti saranno investite una Corte Suprema e le Corti inferiori» (art. III, par. 1). Si osservi fin d’ora come, diversamente da quanto pensava Montesquieu, il potere giudiziario non è concepito come «un potere in qualche senso nullo», chiamato ad applicare pedissequamente le leggi, ma per poter fungere da contrappeso rispetto agli altri poteri gode di una pari dignità costituzionale, tanto che, come vedremo, una storica decisione della Corte Suprema stabilirà, agli inizi del XIX secolo, che i giudici possono disapplicare le leggi in contrasto con la Costituzione (v. infra, Cap. X, par. 1). Della Francia rivoluzionaria ci limiteremo a richiamare quattro documenti estremamente significativi per il diritto pubblico e l’evolversi dell’idea di Costituzione: a) la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: nel
La Costituzione americana del 1787
Le Costituzioni francesi e la Dichiarazione dei diritti
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Capitolo I
rappresentare un momento di vera e propria rupture col passato feudale e gli antichi privilegi nobiliari («Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune», art. 1), la Dichiarazione dell’89 enuclea i diritti naturali dell’individuo, elementi fondativi e insopprimibili del nuovo ordine sociale: «Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione» (art. 2). Nella Dichiarazione sono condensati i principi che poi saranno ripresi, con diverse sfumature e con non poche difficoltà nel conciliarli, nelle Costituzioni degli anni successivi, ovverosia che «Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione» (art. 3) e che «La legge è l’espressione della volontà generale» (art. 6). Nella Dichiarazione dell’89 è contenuta, inoltre, quella che è stata definita la norma-manifesto del costituzionalismo (Ferrara), ovverosia che «Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione» (art. 16); b) la Costituzione “moderata” del 3 settembre del 1791 che, pur mantenendo un governo monarchico e assegnando al Re il potere esecutivo, assegna alla legge e, pertanto, all’Assemblea nazionale – composta di rappresentanti a tempo determinato liberamente eletti dal popolo (cap. 1, art. 1) un ruolo centrale nell’ordinamento costituzionale; c) l’Atto costituzionale del 24 giugno 1793 (la c.d. Costituzione giacobina) che, nella sua radicalità, proclama la Repubblica francese (art. 1), attribuisce la sovranità, senza ambiguità, non più alla nazione, ma al popolo («il popolo sovrano è l’universalità dei cittadini francesi», art. 2), introduce il suffragio universale; d) la Costituzione del 22 agosto 1795, che espunge le parti più avanzate della precedente Costituzione giacobina e cerca di costruire una forma di governo più vicina all’idea di equilibrio e distribuzione del potere trasformando, ad esempio, l’Assemblea nazionale in un organo bicamerale (Consiglio dei 500 e Camera del Consiglio degli anziani). L’idea di Costituzione nel XIX secolo
Ai fasti della fine del ’700, ove si colloca uno dei momenti più alti della storia del costituzionalismo, segue un secolo nel quale l’idea di Costituzione assume un ruolo per alcuni versi “salvifico” (si pensi ai moti del 1848 e alle Carte concesse da numerosi sovrani europei), per altro verso, invece, recessivo (si pensi alla grande elaborazione teorica dello Stato tedesco e alla centralità assegnata, più che alla Costituzione, alla legge). Si diffonde l’idea che per garantire l’unità e stabilità dell’ordinamento il centro dell’organizzazione giuridica deve essere lo Stato sovrano. È lo Stato a riconoscere e garantire i diritti dei cittadini, in primis la libertà personale e la proprietà privata. I diritti, di conseguenza, non sono più
Diritto, Stato, Costituzione
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concepiti come naturali, ma sono il prodotto essi stessi dello Stato, unico soggetto che, per il tramite della legge, è in grado sia di riconoscerli che, eventualmente, di negarli. In tutto questo, lo spazio della Costituzione coincide con lo spazio dello Stato ed è in qualche modo funzionale e servente rispetto ad esso. In un contesto siffatto i testi costituzionali servono tutt’al più per regolare i rapporti tra i poteri, lasciando invece in ombra la dimensione dei diritti, riservata alla legge. Testi costituzionali che, peraltro, si caratterizzano per essere flessibili, in quanto tali modificabili e derogabili dalla fonte legislativa. È sufficiente quest’ultimo elemento per misurare la distanza di tali concezioni dalle elaborazioni teoriche che avevano condotto a riconoscere la Costituzione americana come higher law. Il XIX secolo segna, dunque, da un lato, l’appannamento dell’idea di Costituzione e, dall’altro, la primazia dello Stato e della legge intesa quale strumento di estrinsecazione massima della sua volontà: una elaborazione teorica funzionale solo in parte, però, al ritorno delle monarchie nello scenario europeo. Difatti, la legittimazione delle monarchie è, al contempo, contrastata dai parlamenti, espressione, a loro volta, delle forze politiche ed economiche dominanti, si pensi solamente alla rapida ascesa, in quei decenni, della borghesia industriale. D’altronde, è comprensibile che chi detiene il potere economico avanzi la pretesa di incidere sulle forme e sulle modalità di organizzazione della comunità statuale di riferimento. Questo spiega come mai, progressivamente, la borghesia diventi essa stessa protagonista della centralità del Parlamento. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che i parlamentari erano eletti attraverso un sistema elettorale censitario, per cui soltanto coloro che potevano vantare determinate condizioni economiche o dimostrare di possedere delle proprietà, potevano avere accesso al diritto di voto e al diritto di candidarsi a rivestire cariche pubbliche. Ne conseguiva, dunque, e si tratta di un aspetto caratterizzante di quella fase storica, che la composizione dei parlamenti risultasse, nella sostanza, monoclasse, essendo le Assemblee rappresentative composte da soli esponenti della classe borghese. È questa la modalità con la quale si è consolidato, nella prima metà del XIX secolo, il “patto” tra la monarchia e la borghesia, che trovava pieno riconoscimento nelle carte costituzionali. Si pensi, ad esempio, allo Statuto Albertino del 1848, una Costituzione flessibile che stabiliva una forma di governo che si reggeva sull’equilibrio tra Re e Parlamento e nella quale il Governo era sottoposto a un regime di doppia fiducia, sia nei confronti del Monarca che dell’organo legislativo. Sennonché, con il passare degli anni, questa forma di parlamentarismo dualista si è progressivamente trasformata in una forma di parlamentarismo sostanzialmente monista, in ragione di un processo che ha visto sempre più la mar-
Chi decide?
Parlamentarismo dualista e parlamentarismo monista
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Il suffragio universale e le democrazie pluraliste
Le Costituzioni del XX secolo
Capitolo I
ginalizzazione del Re e il progressivo avvicinamento del Governo al Parlamento. Tanto è vero che, alla fine di tale percorso, le leggi saranno approvate dal Parlamento e il Re non potrà più impedirne, se non in casi eccezionali, l’entrata in vigore. Il passaggio dalla monarchia costituzionale alla monarchia parlamentare determina l’avvio di una nuova fase che, passando per l’introduzione del suffragio universale, condurrà, finalmente, a una rinnovata centralità dell’idea di Costituzione e di costituzionalismo. Con l’avvento del suffragio universale, le assemblee rappresentative divengono la sede della rappresentanza non solo della classe borghese, ma della società nel suo complesso, certificando così il passaggio dai parlamenti monoclasse ai parlamenti pluriclasse. In questa fase, un ruolo centrale è svolto dai partiti politici, i quali, per il tramite delle elezioni, ambiscono a diventare maggioranza nelle assemblee rappresentative, allo scopo di realizzare un programma politico in linea con le istanze provenienti dai propri iscritti e simpatizzanti. Questo processo di trasformazione rafforza ulteriormente il ruolo del Parlamento, con la sostanziale differenza, però, rispetto al passato, che la legge non è più espressiva di un’assemblea legislativa politicamente omogenea, ma è il prodotto di maggioranze variabili, portatrici di valori e proposte spesso confliggenti e difficilmente conciliabili. Questo grande processo di trasformazione riporta al centro del dibattito politico e giuridico l’idea di Costituzione come garanzia. Detto in altri termini, matura l’esigenza di dotare gli ordinamenti statali di Costituzioni che, collocate al di sopra delle leggi, garantiscano l’unità dell’ordinamento, sottraendo alla disponibilità della maggioranza parlamentare di turno le regole fondamentali di funzionamento della forma di governo e della forma di stato, da un lato, e la tutela delle libertà e dei diritti fondamentali, dall’altro lato. La garanzia fondamentale delle democrazie pluraliste del XX secolo è, pertanto, la Costituzione, nella quale viene sovente tradotto in principi e regole giuridiche un nuovo patto sociale che rappresenta il passaggio da assetti istituzionali autoritari a regimi democratici (si pensi alla Spagna, all’Italia e al Portogallo). Le Costituzioni del XX secolo, dunque, da un lato, recepiscono i principi emersi dalle rivoluzioni del Settecento, ossia il porsi come strumento di limitazione del potere; dall’altro, risentono delle esperienze dei totalitarismi, che inducono gli Stati europei a costruire democrazie che ruotino attorno a forme di governo moderate, in grado di scongiurare eventuali nuove degenerazioni autoritarie. In questo senso, si può affermare che le Costituzioni contemporanee sono chiamate a svolgere, in primis, una funzione di garanzia, il cui più robusto fondamento teorico e simbolico può essere ancora rinvenuto in quell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 più sopra richiamato. Le Costituzioni del
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XX secolo hanno, però, anche ulteriori aspetti innovativi. Alle libertà di prima generazione, si aggiunge, infatti, il riconoscimento e la tutela dei diritti sociali (si pensi al diritto alla salute e all’istruzione) che, per il loro effettivo inveramento, richiedono, invece, un ruolo attivo e propulsore dello Stato (v. infra, Cap. III, par. 5). Le Costituzioni del Novecento assumono, pertanto, sia la funzione di garantire il regolare funzionamento del circuito democratico e proteggere i diritti fondamentali, sia il ruolo di guidare lo Stato nel perseguimento di compiti e obiettivi fissati direttamente nel testo costituzionale (si pensi al compito di rimozione delle diseguaglianze di fatto che l’art. 3, co. 2, Cost. assegna alle istituzioni repubblicane).
5. I tipi di Costituzione Possiamo distinguere, in sintesi, diversi tipi di Costituzione. La prima distinzione è tra “Costituzione democratica” e “Costituzione concessa”. Le “Costituzioni democratiche” sono il prodotto di una deliberazione assunta “dal basso”, si pensi al processo di elaborazione della Costituzione italiana affidato ad una Assemblea costituente eletta a suffragio universale e diretto. Le “Costituzioni concesse”, viceversa, sono l’esito di una decisione presa “dall’alto” e, storicamente, sono state adottate nel continente europeo nella prima metà del XIX secolo, si pensi alla concessione dello Statuto Albertino da parte di Carlo Alberto: «Perciò di Nostra certa scienza, Regia autorità, … abbiamo ordinato ed ordiniamo in forza di Statuto e Legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della Monarchia, quanto segue …». Possiamo distinguere, in secondo luogo, tra “Costituzioni rigide” e “Costituzioni flessibili”. Le Costituzioni rigide si sono affermate, in Europa, nel XX secolo e sono tali per due ragioni: 1) possono essere modificate solo con un procedimento di revisione costituzionale, diverso e più complesso rispetto a quello previsto per approvare una legge ordinaria; 2) è previsto un sistema di giustizia costituzionale che consente di invalidare gli atti normativi subordinati alla Costituzione e con essa incompatibili. Le Costituzioni flessibili sono tipiche del XIX secolo, si pensi ancora una volta allo Statuto Albertino, e sono tali per due motivi: 1) possono essere modificate o derogate da una legge ordinaria del Parlamento; 2) non è previsto un sistema di giustizia costituzionale in grado di far prevalere la Costituzione sulle altre fonti. La terza distinzione utile è quella tra “Costituzioni scritte” e “Costituzioni non scritte”. Le Costituzioni contemporanee sono quasi sempre scritte. L’unica eccezione nel panorama europeo è rinvenibile nel Regno
“Costituzione democratica” e “Costituzione concessa”
“Costituzioni rigide” e “Costituzioni flessibili”
“Costituzioni scritte” e “Costituzioni non scritte”
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“Costituzioni brevi” e “Costituzioni lunghe”
Capitolo I
Unito, la cui “Costituzione” è l’esito di una lenta stratificazione di norme consuetudinarie, convenzioni costituzionali e testi scritti, come la Magna Carta Libertatum del 1215 e l’Act of Settlement del 1701. Infine, la quarta distinzione è tra “Costituzioni brevi” e “Costituzioni lunghe”. Sono “brevi” le Costituzioni ottocentesche, che si limitavano a riconoscere le libertà negative (diritto di proprietà e libertà personale). Viceversa, sono “lunghe” le Costituzioni del XX secolo che, come abbiamo visto, oltre a prevedere le libertà negative, riconoscono anche i diritti sociali (salute, istruzione, lavoro, previdenza sociale, etc.). Più in generale, poi, le Costituzioni brevi si limitano a disciplinare le regole generali dell’esercizio del potere pubblico e della produzione degli atti normativi, mentre le Costituzioni lunghe risultano più articolate, prevedendo, sovente, anche alcune specifiche declinazioni dei principi in esse contenuti.
6. Cenni di storia costituzionale italiana Lo Statuto Albertino
La monarchia costituzionale
La monarchia parlamentare
Lo Statuto Albertino, Costituzione del Regno di Sardegna e poi, dal 17 marzo 1861, del Regno d’Italia, fa parte di quella fase della storia costituzionale nella quale numerose monarchie europee, di fronte al timore di un loro rovesciamento in seguito ai moti rivoluzionari del 1848, si convinsero della necessità di concedere delle carte costituzionali che riconoscessero dignità costituzionale al Parlamento elettivo. Concesso da Carlo Alberto e flessibile (v. supra, par. 5), lo Statuto Albertino era il frutto di un compromesso tra le forze reazionarie, favorevoli alla monarchia e all’accentramento delle principali funzioni dello Stato in capo al Re, e le forze liberali, propugnatrici della valorizzazione del Parlamento elettivo e del principio rappresentativo. La forma di governo prevista dallo Statuto era una monarchia costituzionale. Il Re partecipava all’esercizio dei principali poteri dello Stato: a) era titolare, assieme al Parlamento, della funzione legislativa (art. 2), poteva presentare proposte di legge (art. 10), sanzionava e promulgava le leggi (art. 7); b) era il solo titolare del potere esecutivo (art. 5), che concretamente veniva svolto con l’ausilio di ministri da lui nominati, chiamati a svolgere funzioni consultive (artt. 65 e 66); c) nominava i giudici (art. 68). Il Parlamento era composto dalla Camera dei deputati, eletta con un sistema elettorale censitario e dal Senato, i cui membri erano nominati dal Re (art. 7). L’assetto istituzionale delineato dallo Statuto Albertino subì, nei decenni successivi, una lenta e graduale trasformazione che rafforzò il ruo-
Diritto, Stato, Costituzione
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lo del Parlamento e indebolì la posizione della Monarchia. Si consolidò, infatti, la prassi per cui il Gabinetto, nominato dal Re, impegnava la propria responsabilità davanti al Parlamento, instaurando così un vero e proprio rapporto fiduciario tra esecutivo e legislativo. In tal modo, la forma di governo assunse, gradualmente, i caratteri tipici di una monarchia parlamentare. Tali mutazioni non impedirono la c.d. crisi di fine secolo del Regno d’Italia. I frequenti rigurgiti autoritari che si manifestarono, ad esempio, con la mancata convocazione del Parlamento anche per lunghi lassi di tempo, così da ostacolare il controllo politico sull’attività dell’Esecutivo, oltre a una serie di ragioni politiche e istituzionali, quali la difficoltà dell’assemblea legislativa di affrontare la recessione economica, acuite dal primo conflitto mondiale, aprirono inesorabilmente le porte all’avvento del fascismo. Analizzato dalla prospettiva del diritto pubblico, possiamo affermare che il regime fascista si affermò attraverso la sistematica demolizione dell’ordinamento giuridico dello stato liberale, sostituito da una nuova legislazione ispirata ai principi del fascismo. Sarà sufficiente ricordare i passaggi istituzionali più significativi. Successivamente alla nomina regia di Benito Mussolini come Presidente del Consiglio il 29 ottobre 1922, fu approvata l’anno successivo una nuova legge elettorale per la Camera – la c.d. legge Acerbo – che attribuiva 2/3 dei seggi alla lista che avesse ottenuto almeno il 25% dei voti. Il c.d. Listone Mussolini ottenne 355 seggi su 535, assicurando all’Esecutivo una robusta maggioranza parlamentare che favorì, negli anni successivi, la “fascistizzazione” dello Stato. Si pensi, tra le tante: a) alla legge n. 2263/1925, che attribuì al Presidente del Consiglio la qualifica di Capo del Governo, soppresse il rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento, attribuì al Re il potere di nominare i ministri, ma su proposta del Capo del Governo e, infine, assegnò a quest’ultimo il compito di stabilire l’ordine del giorno delle Camere; b) alla legge n. 100/1926 che, da un lato, consentì al Parlamento di approvare ampie deleghe legislative a favore del Governo e, dall’altro lato, attribuì al Governo il potere di adottare atti con forza di legge; c) alla legge n. 2693/1928 che istituì il Gran Consiglio del fascismo, titolare di poteri di grande rilievo, come proporre al Re le candidature per la nomina del Capo del Governo e predisporre una lista unica di candidati alla Camera che il corpo elettorale, con un sistema censitario, era chiamato semplicemente a confermare; d) alla legge n. 129/1939, che istituì la Camera dei fasci e delle corporazioni, organo ausiliario del Governo, composta da soli membri di diritto e che sostituì la Camera dei deputati. Numerose altre leggi intervennero per limitare le libertà fondamenta-
La crisi di fine secolo
Il regime fascista
Le leggi fascistissime
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La caduta del regime fascista
La transizione dal fascismo alla Repubblica
La svolta di Salerno
La prima Costituzione provvisoria
Capitolo I
li, vietare l’associazione sindacale e impedire la nascita di partiti diversi da quello fascista. All’alba del secondo conflitto mondiale Benito Mussolini, Capo del Governo e duce del fascismo, poteva controllare, in sostanza, tutti gli apparati istituzionali dello Stato: il regime aveva assunto caratteri pienamente autoritari. Il regime crollò, per ragioni che non è possibile ripercorrere in questa sede, dopo un ventennio circa. Il Gran Consiglio del fascismo, nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943, approvò un ordine del giorno col quale si invitava Mussolini a rassegnare le dimissioni da Capo del Governo e si auspicava il ripristino della piena vigenza dello Statuto Albertino, mai abrogato formalmente e, di conseguenza, «… l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali». Mussolini fu arrestato su ordine di Vittorio Emanuele II e, in sua sostituzione, fu nominato nuovo Capo del governo Pietro Badoglio. Si aprì così una fase di transizione dal fascismo alla Repubblica che si concluderà solamente il 1° gennaio 1948 con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Con i suoi primi atti, il Governo Badoglio cominciò l’opera di bonifica dell’ordinamento dalla legislazione fascista: fu soppresso il partito nazionale fascista (r.d.l. n. 704/1943), fu sciolta la Camera dei fasci e delle corporazioni e si stabilì che le nuove elezioni della Camera dei deputati sarebbero state indette entro quattro mesi dalla fine dello stato di guerra (r.d.l. n. 705/1943). Non è possibile ricostruire in questa sede i numerosi eventi di rilievo istituzionale del periodo transitorio, si pensi solamente all’armistizio dell’8 settembre del 1943 tra Italia e forze alleate e alle complesse questioni giuridiche derivanti dall’istituzione, rispettivamente, del c.d. Governo del Sud e della Repubblica sociale italiana. Deve però essere ricordata, tra i tanti, la c.d. svolta di Salerno dell’aprile 1944: un compromesso politico tra i partiti antifascisti (la c.d. esarchia, composta dal partito popolare, dal partito socialista, dal partito comunista, dal partito liberale, dal partito d’azione e dalla democrazia del lavoro), il re e il Governo Badoglio che comportò: a) la nascita di un governo di unità nazionale presieduto dallo stesso Badoglio; b) l’impegno del Re a trasferire le funzioni regie al figlio Umberto di Savoia con la qualifica, dal significato chiaramente “provvisorio”, di Luogotenente del Regno; c) il rinvio, al termine della guerra, della scelta tra Monarchia e Repubblica. Il d.l.lgt. 25 giugno 1944, n. 151, adottato dal Governo Bonomi e noto come prima Costituzione provvisoria, recepì quanto stabilito con la svolta di Salerno e stabilì che «Dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà, a suffragio universale diretto e segreto, una Assemblea costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato».
Diritto, Stato, Costituzione
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Sulle modalità di espressione della volontà popolare intervenne il d.lgs.lgt. 16 marzo 1946, n. 98 – la c.d. seconda Costituzione provvisoria – che stabilì come la scelta tra Monarchia e Repubblica sarebbe stata effettuata direttamente dai cittadini tramite l’indizione di un referendum fissato per la data del 2 giugno 1946, in concomitanza con l’elezione dell’Assemblea costituente. Fu previsto, inoltre, che durante i lavori dell’Assemblea costituente e fino alla convocazione del Parlamento a norma della nuova Costituzione: a) il potere legislativo sarebbe rimasto delegato, salva la materia costituzionale, al Governo, e ad eccezione delle leggi elettorali e delle leggi di approvazione dei trattati internazionali, deliberate direttamente dall’Assemblea costituente; b) il Governo sarebbe stato responsabile davanti all’Assemblea costituente. Il referendum del 2 giugno 1946 sancì la vittoria della Repubblica sulla Monarchia: 12.718.641 (pari al 54,27%) di voti furono espressi a favore della Repubblica; 10.718.582 (pari al 45,73%) di voti andarono alla Monarchia. Contestualmente, fu eletta l’Assemblea costituente con un sistema proporzionale, sulla base di liste presentate dai partiti. La Democrazia cristiana conquistò il 35% dei voti (207 seggi), il Partito socialista il 20% (115 seggi), il Partito Comunista il 18,9% (104 seggi) e, a seguire, i partiti più piccoli, per un totale di 556 membri. I lavori dell’Assemblea costituente si svolsero tra il 2 giugno del 1946 e il 27 dicembre 1947, data di approvazione della Costituzione. L’Assemblea nominò al suo interno la c.d. Commissione dei 75, i cui componenti furono scelti in modo da rispecchiare la proporzione dei partiti e alla quale fu affidato il compito di redigere una proposta di Costituzione da sottoporre all’approvazione dell’intera Assemblea. La stessa Commissione dei 75 distribuì il lavoro in ulteriori tre sottocommissioni, chiamate ad analizzare e approfondire alcuni aspetti della futura Costituzione: diritti e doveri dei cittadini, organizzazione costituzionale dello Stato, rapporti economici e sociali. Il 1° gennaio 1948 entrò in vigore la Costituzione della Repubblica italiana. In attuazione della nuova Costituzione, tra il 18 e il 19 aprile 1948, si tennero le prime elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
7. Le forme di stato: dallo stato assoluto allo stato sociale In una prima accezione, per forma di stato si intendono i criteri di regolazione dei rapporti tra governanti e governati e, quindi, tra autorità
La seconda Costituzione provvisoria
Il referendum del 2 giugno 1946
L’elezione dell’Assemblea costituente
L’entrata in vigore della Costituzione italiana
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Lo stato assoluto
Lo stato liberale di diritto
Capitolo I
esercitata dai primi e libertà riconosciuta ai secondi (Mortati). In una seconda accezione, si fa riferimento alla distribuzione del potere politico tra i diversi enti territoriali e, quindi, tra Stato, Regioni ed enti locali. Lo studio delle forme di stato, nel primo significato, prende avvio con l’affermarsi dello Stato moderno in Europa dalla seconda metà del XIV secolo e, in particolare, con lo stato assoluto. Lo stato assoluto si caratterizza per la concentrazione di tutti e tre i poteri dello Stato in capo alla Corona, il cui vertice era il Re. La Corona era un organo dello Stato, la cui impersonalità e continuità delle funzioni era garantita da leggi di successione che impedivano la vacanza del trono. Il Re, a parte le leggi divine o naturali di successione al trono, era legibus solutus (slegato da limiti legali) e, inoltre, poteva far valere il principio di autorità negli ordinamenti autonomi e corporativi che vigevano in quel periodo. Il potere giudiziario, invece, era esercitato concretamente dalle corti, ma i membri erano nominati dal Re e, in ultima istanza, ci si poteva comunque appellare alla decisione finale del sovrano. Alla luce di questa peculiare ripartizione dei poteri, si può affermare che nello stato assoluto il potere sovrano era in capo alla Corona e, quindi, al Re, mentre le persone sottoposte al suo dominio erano caratterizzate da un rapporto di mera sudditanza. Tuttavia, lo stato assoluto subirà un irreversibile e progressivo disfacimento prima in Inghilterra, poi in Francia e, infine, nel resto d’Europa. Le ragioni della crisi dello stato assoluto sono essenzialmente tre: la prima è di carattere finanziario, riconducibile all’insostenibile costo dell’apparato burocratico e militare; la seconda è di tipo economico-sociale, derivante dalla rivoluzione industriale e dall’emersione della borghesia; la terza è di tipo politico, concernente la richiesta di potere e di tutela dei propri interessi da parte della stessa borghesia. La decisione di fondare la legittimazione del potere assoluto del re sulla grazia divina non era più sufficiente nelle società europee. Alla legittimazione del potere politico dall’alto, quindi, si contrappose l’elaborazione di altre concezioni che si fondavano, in sostanza, sul principio della legittimazione del potere dal basso, vuoi dalla Nazione, vuoi dal popolo e sulla centralità dell’assemblea legislativa. Sarà, infine, la Rivoluzione francese del 1789 e la decapitazione del re Luigi XVI nel 1793, a segnare il superamento storico dell’assolutismo regio. Alla fine del ’700, dunque, lo stato assoluto può dirsi superato. Il potere politico è assunto da una classe sociale, la borghesia che, anche a seguito della sua ascesa economica, ha acquistato una forza politica che il Re non riuscirà più a contrastare del tutto e comporterà una limitazione dei suoi poteri, sovente sancita da apposite Costituzioni di “compromesso” (v. supra, par. 5). In questo contesto nasce lo stato liberale di diritto. Più precisamente, esso si afferma dapprima in Inghilterra, a seguito delle
Diritto, Stato, Costituzione
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rivoluzioni del 1649 e del 1689, che sancirono la vittoria del Parlamento sulla dinastia degli Stuart. In seguito, si afferma negli Stati Uniti, quale esito naturale della rivoluzione d’indipendenza dalla Gran Bretagna e con la nascita della Costituzione di Filadelfia del 1787. Infine, in Francia, in seguito alla Rivoluzione francese, con l’affermazione dei principi di eguaglianza, libertà e solidarietà, contro gli antichi privilegi della nobiltà, del clero e dell’Ancien Régime, sanciti dalle Costituzioni del 1791 e del 1793 (v. supra, par. 4). Lo stato liberale si caratterizza, anzitutto, nelle sue teorizzazioni iniziali per il tentativo di tenere assieme: 1) il principio della separazione dei poteri (v. supra, par. 4); 2) il principio della sovranità popolare, detenuto dalla Nazione, come sancito dall’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789; 3) il principio della rappresentanza politica tramite libere elezioni e il divieto di mandato imperativo, come stabilito dalla Costituzione francese del 1791. Lo stato liberale fu oggetto di una profonda e progressiva evoluzione culminata con l’affermazione del suffragio universale diretto e il definitivo superamento della sua caratterizzazione monoclasse a favore di una struttura pluriclasse (v. supra, par. 4). In questo modo, si aprirono le porte all’avvento dello stato democratico non prima, però, della profonda crisi di alcuni Paesi europei che degenerò in ordinamenti autoritari, come l’Italia fascista del 1922-1943 e la Germania nazionalsocialista del 19331945. In questo periodo, le principali conquiste dello stato liberale furono messe in discussione, si pensi alla sostituzione della rappresentanza elettiva con quella corporativa; all’instaurazione del partito unico; alla concentrazione dei poteri nelle mani del Capo del Governo; alla negazione dei diritti politici e alla forte limitazione di quelli civili. Sicché, è solo con il secondo dopoguerra che può considerarsi stabilizzato il passaggio dallo stato liberale allo stato democratico, con il conseguente avvento dello stato sociale. Lo stato sociale, oltre a caratterizzarsi per alcune peculiarità proprie dello stato democratico – ad esempio, l’appartenenza della sovranità al popolo, la caratterizzazione dello Stato come rappresentativo e pluralistico, il suffragio universale, l’eguaglianza del voto, la responsabilità politica, il divieto di mandato imperativo – assume dei connotati suoi propri. In particolare, si assiste alla creazione di corpi intermedi tra cittadini e Stato e taluni di questi, peraltro, divengono determinanti per il funzionamento del sistema democratico, come i sindacati e i partiti politici. Inoltre, l’azione dei pubblici poteri risulta essere diretta a promuovere il benessere dei cittadini (Welfare State), mediante un intervento programmato sempre più esteso nelle attività economico-sociali e nel campo della protezione sociale. Lo stato sociale non rinuncia ovviamen-
Lo stato sociale
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Capitolo I
te alle libertà del periodo liberale e all’eguaglianza formale (art. 3, co. 1, Cost.), ma si pone quale obiettivo il raggiungimento di un’eguaglianza sostanziale (art. 3, co. 2, Cost.) per tutti i cittadini attraverso la piena attuazione dei diritti sociali all’istruzione, alla salute, alla previdenza sociale, al lavoro, etc.
8. Le forme di stato: Stati unitari e Stati federali Stati unitari e Stati confederali
Stati unitari accentrati e decentrati
Gli Stati federali
In una seconda accezione, le forme di stato si distinguono in base alle modalità di distribuzione verticale del potere politico tra i diversi enti territoriali. E così, mentre negli Stati unitari il potere sovrano su un determinato popolo, stanziato in un territorio, è attribuito ad un unico ente, negli Stati confederali (o Confederazioni di Stati), più Stati, che mantengono la propria sovranità e indipendenza, attribuiscono alcune, limitate competenze, come la politica estera e la difesa, ad un governo centrale. Tra gli Stati unitari, inoltre, è possibile differenziare ulteriormente gli Stati a seconda del grado di autonomia riconosciuta agli enti territoriali. Si tratta di una distinzione che ha generato ampie dispute dottrinali in quanto non esiste un criterio in grado di misurare “oggettivamente” il rapporto tra centro e periferia. È possibile affermare, in ogni caso che, nell’esperienza concreta, sono rinvenibili sia Stati unitari caratterizzati da una organizzazione fortemente accentrata (si pensi agli Stati europei del XIX secolo) sia Stati unitari dotati di un grado più o meno elevato di decentramento (sull’Italia si veda il Cap. VII). Quando il livello di decentramento assume una dimensione particolarmente elevata – si pensi alla Germania, alla Svizzera o agli Stati Uniti d’America – si suole parlare (e sovente sono le stesse Costituzioni ad auto-qualificarsi in tal modo) di Stati federali, che possono essere considerati un ulteriore sottotipo degli Stati unitari. I rapporti tra l’organizzazione centrale dello Stato federale e gli enti che lo compongono (Stati membri, Länder, Cantoni, etc.) variano a seconda delle previsioni sancite nelle singole Costituzioni, ma sono rinvenibili, singolarmente o cumulativamente, alcune costanti: 1) la presenza di Costituzioni federali scritte e rigide che prevedono, oltre allo Stato centrale, anche enti territoriali dotati, a loro volta, di proprie Costituzioni; 2) la previsione costituzionale di una ripartizione della funzione legislativa, esecutiva e giurisdizionale tra Stato centrale e Stati membri; 3) la presenza di un Parlamento bicamerale, con una seconda camera rappresentativa degli Stati membri; 4) la partecipazione degli Stati membri al procedimento di revisione della Costituzione (si pensi all’art. V della Costituzione degli Stati Uniti).
Diritto, Stato, Costituzione
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9. Le forme di governo e gli organi costituzionali Per forma di governo si intende, come insegna Costantino Mortati, il modo con cui le funzioni dello Stato sono distribuite ed organizzate – dalla Costituzione – fra gli organi costituzionali. Gli organi costituzionali, posti al vertice dell’organizzazione statale, sono quegli organi previsti dalla Costituzione che caratterizzano la forma di governo e che, oltre a porsi tra loro in una posizione di indipendenza reciproca, sono indefettibili ed essenziali. In base alla Costituzione italiana sono organi costituzionali il Parlamento, il Presidente della Repubblica, il Governo e, secondo alcuni, anche la Corte costituzionale e il corpo elettorale. Di conseguenza, interrogarsi su quali siano i poteri del Presidente della Repubblica o sui rapporti intercorrenti tra Governo e Parlamento ovvero, con riferimento agli Stati Uniti, sul modo di elezione del Presidente e del suo rapporto col Congresso, non significa altro che interrogarsi sulle caratteristiche di una determinata forma di governo. Le forme di governo si distinguono tra loro a seconda delle diverse modalità di distribuzione dei poteri tra gli organi costituzionali. Lo studio delle forme di governo prende perciò in considerazione: 1) i poteri attribuiti a ciascun organo (ad esempio, quali sono i poteri del Presidente della Repubblica francese, quali quelli del Re in Spagna); 2) i rapporti tra gli organi in base a quanto previsto da una determinata Costituzione (ad esempio, quali sono i rapporti tra il Presidente della Repubblica e il Primo ministro in Francia); 3) il modo di elezione e formazione degli organi costituzionali (ad esempio, come viene eletto il Presidente della Repubblica italiana).
10. La forma di governo parlamentare Le forme di governo delle democrazie contemporanee possono essere ricondotte a due tipi fondamentali: la forma di governo parlamentare e la forma di governo presidenziale. La forma di governo parlamentare affonda le sue radici nella monarchia costituzionale nata in Inghilterra nel XVII secolo. La monarchia costituzionale si caratterizzava per la forte separazione, nonché per la diversa legittimazione, tra il Re, individuato sulla base della successione ereditaria e titolare del potere esecutivo e (formalmente) del potere giurisdizionale e il Parlamento, eletto – seppur sulla base di un sistema censi-
La monarchia costituzionale
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Il rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo
Capitolo I
tario – dai cittadini e titolare del potere legislativo. Il “grande assente” nella monarchia costituzionale era il Governo, il quale, nominato dal Re, svolgeva un ruolo meramente consultivo. Ed è proprio con la graduale emersione del Governo quale organo espressione delle forze politiche maggioritarie in Parlamento che si consumerà il passaggio dalla monarchia costituzionale alla forma di governo parlamentare, alla quale si aggiungerà, oltre al Re e al Parlamento, un terzo polo di decisione politica rappresentato, appunto, dal Governo. La forma di governo parlamentare si è progressivamente affermata in Europa assumendo diverse configurazioni. Tuttavia, essa possiede una caratteristica comune alle varie esperienze storiche che vale a distinguerla dalle altre forme di governo: l’esistenza di un rapporto fiduciario che lega il Parlamento al Governo. L’Esecutivo, detto in altri termini, per poter iniziare a svolgere la propria attività deve ottenere la fiducia dalla maggioranza dei parlamentari. La fiducia non è però un atto ad efficacia istantanea, ma un rapporto ad efficacia prolungata, che deve sussistere nel corso della legislatura, per cui se in qualunque momento il rapporto fiduciario viene meno il Governo è obbligato a rassegnare le dimissioni. Il voto di fiducia, con il quale la maggioranza dei parlamentari consente al Governo di iniziare a svolgere le sue attività, è posto sul programma politico che esso presenta in Parlamento e si impegna a realizzare nel corso del suo mandato. La rottura del rapporto fiduciario è, dunque, la conseguenza del venir meno di quella omogeneità politica tra maggioranza in Parlamento e Governo che la fiducia, per sua natura, presuppone. In altri termini, la fiducia è quell’istituto giuridico attraverso il quale il Parlamento può far valere la responsabilità politica del Governo, costringendolo a dimettersi. Le origini storiche del rapporto di fiducia sono da ricercare nel passaggio dallo stato assoluto allo stato liberale. Infatti, durante lo stato assoluto e nella parentesi della Restaurazione, il Re nominava e revocava liberamente i ministri, veri e propri fiduciari del sovrano. L’ascesa in campo economico della borghesia comportò l’aumento del peso politico del Parlamento, che ne rappresentava gli interessi, il tutto a discapito del potere del monarca. È in conseguenza di ciò che, progressivamente, si indebolì il legame tra Re e ministri, mentre si rinforzò quello tra ministri e Parlamento. I ministri, e più in generale il Governo, diventarono così, nel corso del tempo, politicamente responsabili di fronte al Parlamento. Alla fine di tale processo, al Re rimase un potere formale di nomina e revoca dei componenti il Governo, la cui scelta sostanziale era, però, riconducibile alla volontà parlamentare. Per queste ragioni, ancora oggi, nelle democrazie parlamentari, come quella italiana, il Capo dello Stato ha conservato – quale retaggio del passato – il solo potere “formale” di
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nomina del Governo (vedi l’art. 92, co. 2, Cost.), la cui piena legittimazione giuridica è però subordinata all’approvazione della mozione di fiducia in Parlamento (v. infra, Cap. VI, par. 3.6). Anche negli Stati monarchici, nei quali il Capo dello Stato è ancora oggi il Re, il sovrano ha conservato poteri meramente formali di nomina del Governo. In Inghilterra, ad esempio, il Re esercita un ruolo politico del tutto marginale, anche perché il principio dinastico, che legittima il suo potere, lo pone in una posizione di indubbia debolezza rispetto al Parlamento che, al contrario, gode della legittimazione democratica derivante dall’elezione a suffragio universale e diretto. Tenuto conto di quanto detto, si può dire che la forma di governo parlamentare si caratterizza per due elementi essenziali: 1) la previsione di un rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento; 2) l’attribuzione al Capo dello Stato di una funzione di garanzia e la sua conseguente esclusione dal circuito politico di maggioranza che lega il Governo al Parlamento. Si consideri, peraltro, che il funzionamento effettivo della forma di governo parlamentare può variare a seconda delle specificità che caratterizzano i singoli ordinamenti e che possono dipendere: 1) dalle peculiari norme costituzionali che disciplinano la forma di governo; 2) dalla legge elettorale; 3) dal sistema dei partiti; 4) dalla cultura politica.
Gli elementi essenziali della forma di governo parlamentare
11. La razionalizzazione della forma di governo parlamentare e il cancellierato tedesco La stabilità dei Governi nelle forme di governo parlamentari, dipendendo dalla fiducia della maggioranza parlamentare, è subordinata alla capacità del sistema politico di un Paese di generare coalizioni di maggioranza coese e compatte. Difatti, nei sistemi politici caratterizzati da una eccessiva frammentazione partitica e da una scarsa omogeneità, crisi di governo e instabilità rischiano di minare la stabilità della forma di governo. È per questo che le Costituzioni del primo e, soprattutto, del secondo dopoguerra, hanno introdotto degli istituti volti a “razionalizzare” tale forma di governo al fine di garantire una maggiore stabilità dell’Esecutivo. Tali istituti hanno cercato, in particolare, di incidere sulla disciplina del rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento. Significativi, a questo proposito, i tentativi di razionalizzazione della Legge Fondamentale tedesca del 1949. L’originalità di tale forma di governo parlamentare, il c.d. cancellierato tedesco (Kanzlerdemokratie), risiede in una serie di elementi: 1) il Bundestag non approva la fiducia al
La Legge Fondamentale tedesca del 1949
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Capitolo I
Governo nella sua collegialità, come avviene in Italia (v. infra, Cap. VI, par. 3.6), ma direttamente al suo vertice, il Cancelliere, che, solo successivamente, nomina i ministri (e, di conseguenza, può anche, qualora lo ritenga, revocarli). È evidente, tuttavia, che nell’esercitare il potere di nomina e di revoca dei ministri, il Cancelliere dovrà pur sempre tenere in considerazione gli equilibri politici della maggioranza parlamentare; 2) l’istituto della mozione di sfiducia costruttiva, in forza del quale il Bundestag può sfiduciare il Cancelliere solo se, contestualmente, nomina un suo sostituto a maggioranza assoluta (art. 67 del Grundgesetz). Tale obbligo assolve a tre finalità principali: a) garantire una risoluzione rapida della crisi di governo; b) impedire le c.d. crisi al buio, ossia determinare le dimissioni di un Governo senza sapere se e quando sarà possibile individuarne uno nuovo in Parlamento, oppure, in alternativa, se sarà necessario sciogliere anticipatamente il Parlamento e ricorrere a nuove elezioni; c) fungere, nel caso specifico dell’ordinamento tedesco, da deterrente. Difatti, nel corso della storia della Repubblica Federale tedesca si è fatto ricorso all’istituto della mozione di sfiducia solamente due volte e ciò, come si è visto, in quanto al momento della sua proposizione è necessario avere già a disposizione – elemento, questo, che può essere politicamente complesso – il nome di un nuovo Cancelliere in grado di ottenere la maggioranza assoluta dei voti parlamentari.
12. La forma di governo presidenziale
Il Presidente degli Stati Uniti
L’archetipo della forma di governo presidenziale è delineato dalla Costituzione degli Stati Uniti del 1787. I Padri fondatori americani (Framers), profondamente influenzati dal pensiero di Montesquieu, applicarono rigorosamente la teoria della separazione dei poteri prevedendo un Presidente – vertice dell’Esecutivo – e un Congresso – titolare del potere legislativo – legittimati da autonomi meccanismi elettivi (v. supra, par. 4). Il Presidente degli Stati Uniti, dunque, ai sensi dell’art. II, sez. 1, della Costituzione americana, fonda la propria legittimazione sul principio democratico, dal momento che la sua elezione avviene direttamente da parte del corpo elettorale. Proprio la legittimazione diretta del Presidente degli Stati Uniti giustifica l’assenza del rapporto di fiducia col Congresso. L’Esecutivo e il suo vertice, infatti, non essendo espressione della maggioranza parlamentare, non sono necessariamente collegati, dal punto di vista politico, all’Assemblea legislativa. Diversamente, nella forma di governo parlamentare, poiché il Governo è espressione politica della
Diritto, Stato, Costituzione
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maggioranza, potrà essere chiamato dal Parlamento a rispondere politicamente del proprio operato e, se del caso, potrà essere sfiduciato. Alla luce di quanto detto, gli elementi essenziali della forma di governo presidenziale sono: 1) l’assenza di un rapporto fiduciario tra Esecutivo e Assemblea legislativa; 2) l’elezione popolare diretta del Capo del Governo, al quale si riconosce anche la qualità di Capo dello Stato. Si consideri, tuttavia, come l’assenza di un rapporto di fiducia tra Congresso e Presidente sia calmierata da una serie di istituti previsti dalla Costituzione americana volti a strutturare un sistema di checks and balances (pesi e contrappesi) tra i due poteri, in primis con la mancata attribuzione al Presidente del potere di sciogliere anticipatamente il Congresso. Così, il potere di veto sospensivo attribuito al Presidente americano sulle leggi approvate dal Congresso è controbilanciato dalla possibilità del Congresso di superarlo attraverso una seconda votazione, da parte di entrambe le Camere, a maggioranza qualificata dei due terzi. Ancora, si consideri che l’assenza di un meccanismo volto a far valere la responsabilità politica del Presidente davanti al Congresso è controbilanciata dalla possibilità della stessa Assemblea legislativa di far valere la responsabilità giuridica del Presidente attraverso l’impeachment per «tradimento, corruzione o altri gravi crimini e misfatti» (art. II, sez. 4). Nella quotidianità della vita politica e istituzionale, peraltro, il Presidente e il Congresso, in quanto titolari, rispettivamente, del potere legislativo e del potere esecutivo, devono necessariamente collaborare. L’iniziativa legislativa, in particolare, è attribuita dalla Costituzione esclusivamente al Congresso, per cui il Presidente, per attuare il proprio programma politico, dovrà necessariamente rapportarsi con i deputati e i Senatori per la presentazione delle proposte di legge (bill), a partire da quella di bilancio e di spesa. Il dialogo tra Presidente e Congresso è, dal punto di vista politico più semplice, quando le maggioranze dei due rami del Congresso sono espressione dello stesso partito del Presidente. Viceversa, quando il Presidente non può più contare su una maggioranza a lui favorevole in uno o in entrambi i rami del Congresso, si apre una fase politica più difficile e complessa che prende il nome di “governo diviso”. Si tratta di un’eventualità che si concretizza di frequente in quanto, mentre il mandato presidenziale dura quattro anni, i deputati della Camera dei Rappresentanti durano in carica solo due anni e i senatori sei anni, con l’ulteriore disallineamento temporale dovuto al rinnovo del Senato, per un terzo dei suoi membri, ogni due anni (art. I, sez. 3). La non coincidenza dell’elezione presidenziale e di quella dei parlamentari, pertanto, rende possibile l’ipotesi, nel corso delle c.d. elezioni di metà mandato (midterm elections) o già dal suo inizio, del “governo diviso”. La fase politica del “governo di-
Checks and balances
Il governo diviso
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Capitolo I
viso” può comportare, in astratto, due conseguenze diverse sul versante della forma di governo: a) un compromesso, più o meno esteso, tra Presidente e Congresso in merito alle leggi da approvare sul versante legislativo e attuare su quello esecutivo e amministrativo, così da garantire il regolare funzionamento delle istituzioni; b) il mancato accordo tra i due organi e la conseguente paralisi del sistema costituzionale americano. Benché non siano infrequenti periodi di stallo nel corso delle fasi di “governo diviso” in grado di causare il blocco delle attività amministrative federali (è il c.d. government shutdown), accade per lo più che – grazie all’assenza di una forte contrapposizione ideologica tra le forze politiche americane – tra democratici e repubblicani si raggiungano degli accordi di mediazione.
13. La forma di governo direttoriale
La forma di governo direttoriale svizzera
Si distingue dalla due principali forme di governo più sopra esaminate la forma di governo direttoriale, le cui origini risalgono al Direttorio francese previsto dalla Costituzione del 1795 e finalizzato a una separazione rigida tra il potere legislativo e quello esecutivo. La forma di governo direttoriale è oggi vigente solamente nella Confederazione Svizzera. La Costituzione svizzera attribuisce la funzione legislativa al Parlamento, denominato Assemblea federale, composto dal Consiglio nazionale e dal Consiglio degli Stati. L’organo esecutivo, chiamato Consiglio federale, è composto da sette membri nominati dall’Assemblea federale che durano in carica quattro anni e, una volta nominati, non possono essere sfiduciati. L’individuazione dei membri del Consiglio federale è effettuata, più che per ragioni strettamente politiche, al fine di garantire una adeguata rappresentanza dei Cantoni. Inoltre, se da una parte i membri dell’Esecutivo non possono essere sfiduciati, dall’altra parte essi non possono deliberare lo scioglimento anticipato dell’Assemblea federale. Si consideri, poi, che il Consiglio federale svolge anche, collegialmente, la funzione di Capo dello Stato. Il ruolo di Presidente della Confederazione, per prassi, è assunto a rotazione da ciascuno dei sette membri del Consiglio federale per la durata di un anno. Peraltro, ad ulteriore riprova della natura collegiale della funzione di Capo dello Stato, il Presidente della Confederazione non è titolare di poteri che gli consentono di esercitare una posizione di preminenza sugli altri membri del Consiglio federale.
Diritto, Stato, Costituzione
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14. La forma di governo semipresidenziale Secondo una parte della dottrina, nella Costituzione francese del 1958 sarebbe rinvenibile l’archetipo di una forma di governo concettualmente autonoma rispetto a quella parlamentare e presidenziale: la c.d. forma di governo semipresidenziale. Tale modello è stato elaborato dal politologo francese Maurice Duverger, secondo il quale le forme di governo previste dalle Costituzioni della Francia, della Finlandia, dell’Austria, dell’Irlanda e del Portogallo presenterebbero dei caratteri peculiari che, in particolare in Francia, giustificherebbero il ruolo politicamente attivo esercitato dal Capo dello Stato. La forma di governo semipresidenziale, più in particolare, si caratterizzerebbe per la presenza di elementi tipici sia della forma di governo presidenziale sia della forma di governo parlamentare: a) della prima, replicherebbe l’elezione diretta del Capo dello Stato, al quale sarebbero riservate alcune prerogative nell’ambito della sfera governativa; b) della seconda, invece, conserverebbe la previsione di un rapporto di fiducia tra il Governo – organo distinto e autonomo dal Capo dello Stato e diretto da un Primo ministro – e il Parlamento. In realtà, la teoria di Duverger, utile dal punto di vista politologico per spiegare il funzionamento effettivo di alcuni sistemi politici, e in particolare di quello francese, appare infondata dal punto di vista giuridico e, pertanto, deve essere respinta. Difatti, ad un esame più attento della Costituzione francese del 1958, emerge come quegli elementi che, secondo Duverger, renderebbero peculiare tale forma di governo, possono essere spiegati ricorrendo alla modellistica tradizionale. Anzitutto, la Costituzione della V Repubblica tratteggia la figura di un Presidente della Repubblica quale organo super partes, che «garantisce il rispetto della Costituzione. Mediante il suo arbitrato, assicura il regolare funzionamento dei poteri pubblici e la continuità dello Stato. È garante della indipendenza nazionale, della integrità del territorio e del rispetto dei trattati» (art. 5 Cost. fr.). In funzione di tale previsione, il Presidente francese è titolare di una serie di prerogative, molte delle quali sono tipiche dei Capi di Stato “parlamentari”: 1) può sciogliere anticipatamente l’Assemblea nazionale; 2) nomina il Primo ministro e, su proposta di questi, i Ministri; 3) è il Capo delle forze armate; 4) presiede, in funzione di garanzia, il Consiglio dei ministri (quest’ultima previsione è espressione di una lunga e costante tradizione francese). In secondo luogo, non spetta al Presidente, ma all’organo Governo, composto dal Primo ministro e dai ministri, determinare e dirigere la politica nazionale oltre che disporre dell’amministrazione e delle forze ar-
La tesi di Duverger
La forma di governo della V Repubblica
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Capitolo I
mate (art. 20 Cost.). È il Primo ministro, inoltre, a dirigere l’azione del Governo e ad essere responsabile della difesa nazionale (art. 21, co. 1, Cost.). Il Governo, come è tipico delle forme di governo parlamentari, è responsabile davanti al Parlamento e, in caso di sfiducia approvata dall’Assemblea nazionale, ha l’obbligo giuridico di dimettersi (art. 49 Cost.). In coerenza con quanto sopra tratteggiato, la Costituzione del 1958, nella sua prima versione, stabiliva che il Presidente della Repubblica fosse eletto da un collegio di grandi elettori. Solamente nel 1962 fu approvata una revisione costituzionale che introdusse l’elezione a suffragio universale del Capo dello Stato che, nelle intenzioni dei promotori, avrebbe dovuto accentuarne la posizione super partes grazie al rapporto diretto con i cittadini non intermediato dai partiti. Sennonché, fin dalla prima elezione diretta, i partiti presentarono dei loro candidati – con un programma politico – alla presidenza della Repubblica, dando avvio a una prassi che avrebbe favorito, nel tempo, delle rilevanti torsioni interpretative delle norme costituzionali francesi sulla forma di governo. La delicata questione costituzionale – sulla quale il lettore è invitato a riflettere – era, ed è ancora oggi, che la Costituzione francese non attribuisce al Presidente della Repubblica una vera e propria funzione di governo. Tanto è vero che i Presidenti della Repubblica francesi, da Pompidou fino a Mitterrand, per poter esercitare un ruolo attivo nelle decisioni politiche del Governo, hanno “forzato” l’interpretazione delle disposizioni costituzionali sui poteri presidenziali, pensate per un Capo dello stato parlamentare, e sono riusciti de facto a far assumere al Presidente della Repubblica una posizione centrale nella determinazione dell’indirizzo politico della maggioranza parlamentare. Più in particolare, quando vi è omogeneità politica tra Presidente della Repubblica e maggioranza in Assemblea Nazionale, il Presidente si trasforma, di fatto, in una sorta di Capo del Governo, riuscendo a porre in una condizione di subalternità il Primo Ministro, la cui nomina presidenziale, con l’avallo della maggioranza parlamentare della quale il Presidente è quasi sempre il leader, ricade sovente su personaggi politici secondari, disponibili ad assecondare l’espansione di ruolo del Capo dello Stato (è nota la prassi presidenziale, chiaramente incostituzionale, di far firmare al Primo ministro, al momento della nomina, un foglio di dimissioni in bianco). In questo modo, il Presidente della Repubblica si pone, in sostanza, al vertice del Governo (o, se si vuole, il Governo si trasforma in un organo “a due teste”), indica le principali direttive politiche che l’Esecutivo dovrà realizzare e sovra-interpreta i poteri che la Costituzione gli attribuisce, trasformandosi in un Presidente “politico” (si pensi, tra tutti, al potere di scioglimento anticipato dell’Assemblea nazionale, la cui “minaccia” può aiutare a tenere “sotto controllo” l’organo legislativo).
Diritto, Stato, Costituzione
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Che su tali prassi distorsive i dubbi di legittimità costituzionale siano fondati è confermato dai periodi di c.d. coabitazione che, prima della riduzione del mandato presidenziale – nel 2000 – da sette a cinque anni, hanno caratterizzato la storia della V Repubblica francese. Si ha coabitazione quando l’Assemblea Nazionale e il Presidente della Repubblica non sono espressione della stessa maggioranza politica, per cui vengono meno le precondizioni politiche che consentono al Capo dello Stato di porsi, de facto, al vertice dell’Esecutivo. In questi casi, infatti, non potendo contare su una maggioranza parlamentare a lui favorevole, il Presidente non può che nominare il Primo Ministro indicato dalla maggioranza parlamentare a lui avversa. Nelle fasi di coabitazione, come parte della dottrina ha messo in luce, le prassi interpretative distorsive della Costituzione vengono neutralizzate grazie al riemergere dell’elemento essenziale che caratterizza la V Repubblica, ovverosia il rapporto fiduciario tra Parlamento e Governo: la forma di governo riacquista le sue logiche pienamente parlamentari, il Primo ministro può esercitare il ruolo di vertice del Governo e il Capo dello Stato riassume la sua funzione di garanzia del regolare funzionamento delle istituzioni. Alla luce di quanto osservato, risulta doveroso per il giurista tenere ben distinte, da un lato, le regole costituzionali sulla forma di governo e, dall’altro lato, le prassi (o regolarità) della politica. Detto in altri termini, se dal punto di vista politologico ciò che interessa è spiegare come funziona effettivamente un sistema politico, così da non rilevare se un certo esercizio del potere derivi da una norma costituzionale o da una prassi contra constitutionem; dal punto di vista del diritto pubblico, viceversa, è essenziale verificare che l’esercizio in concreto del potere e le eventuali prassi interpretative siano conformi o meno alle norme costituzionali. E infatti, se si segue il secondo approccio metodologico, emerge che: 1) al Presidente della Repubblica sono attribuiti, salve alcune particolarità, i poteri tipici di un Capo dello Stato parlamentare; 2) il rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento è l’asse fondamentale che lega la maggioranza all’Esecutivo. La stessa elezione a suffragio universale del Presidente della Repubblica, oltretutto, non è di per sé incompatibile con una forma di governo parlamentare, come è dimostrato, ad esempio, dall’Austria, regime politico parlamentare in cui il Capo dello Stato, eletto a suffragio universale, ma privo di funzioni di governo, è chiamato a svolgere un ruolo di garanzia. In conclusione, il caso francese può essere considerato un caso unico e problematico ove, ad un assetto costituzionale che delinea una forma di governo parlamentare si è sovrapposta una prassi di dubbia legittimità costituzionale che ha comportato una vera e propria degenerazione “presidenzialista” delle istituzioni.
La coabitazione
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Capitolo I
15. I sistemi elettorali in generale
I sistemi elettorali proporzionali
Le clausole di sbarramento
Le liste elettorali
In linea generale, i sistemi elettorali delineano le diverse modalità volte alla trasformazione dei voti espressi dagli elettori in seggi. Detto in altri termini, i sistemi elettorali stabiliscono le regole per eleggere le assemblee rappresentative, dal consiglio comunale al Parlamento europeo, ma anche organi monocratici come il Presidente di una Regione. Vi sono due grandi famiglie di sistemi elettorali: i sistemi elettorali proporzionali e i sistemi elettorali maggioritari. I sistemi elettorali proporzionali sono, in primo luogo, rappresentativi, in quanto tendono a tramutare in seggi, nell’assemblea elettiva, la proporzione dei voti ottenuti dalle diverse liste di candidati. I sistemi proporzionali hanno anche una seconda caratteristica, speculare alla prima: non sono selettivi, ovverosia sono dei sistemi che non selezionano le formazioni politiche al fine di ridurne o alterarne il numero o la consistenza, ma cercano di rispecchiare i rapporti di forza reali tra le forze politiche. Se è vero che il carattere rappresentativo caratterizza, in generale, i sistemi elettorali proporzionali, in concreto, le singole normative possono prevedere misure volte a ridurre in maniera più o meno accentuata il tasso di proporzionalità. In Germania, ad esempio, sono previste delle clausole di sbarramento in forza delle quali le liste che non superano una certa percentuale minima di voti non hanno diritto ad ottenere seggi in Parlamento. Più in particolare, la Sperrklausel è fissata al 5%, per cui le liste di candidati che non ottengono almeno il 5% dei voti a livello nazionale non hanno diritto ad avere nessun seggio nel Bundestag. Si tratta di una misura volta ad evitare un eccessivo frazionamento dell’assemblea legislativa, così da ridurre l’instabilità dei Governi derivante da maggioranze parlamentari poco coese. Al sistema elettorale proporzionale si ricollega la previsione, normalmente, di liste elettorali. Poiché si tratta di eleggere i rappresentanti di un’assemblea elettiva, ciascuna formazione politica è tenuta a presentare una lista di candidati dal cui elenco sono individuati gli eletti chiamati a ricoprire la carica. Tale lista può essere aperta oppure bloccata. Si ha una lista elettorale aperta quando gli elettori possono esprimere uno o più voti di preferenza nei confronti dei candidati. Il numero delle preferenze esprimibili muta di legislazione in legislazione, passando dalla preferenza unica alla preferenza multipla. La lista è bloccata quando l’elettore si limita ad esprimere un voto nei confronti della lista, mentre l’ordine dei candidati da eleggere è individuato, di solito, in base all’ordine di presentazione dei candidati nella lista medesima.
Diritto, Stato, Costituzione
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Uno dei problemi più delicati che si pone nei sistemi elettorali proporzionali è l’individuazione della specifica formula matematica di ripartizione dei seggi, che deve tenere conto anche dei c.d. resti delle liste, ovverosia dei voti non sufficienti per attribuire un seggio, più o meno alti a seconda della lista, e che devono essere redistribuiti. Tali metodi sono numerosi e, in base a quello prescelto, possono accentuare o ridurre il tasso di proporzionalità complessivo del sistema elettorale adottato (i più noti sono quelli della formula d’Hondt, di Sainte-Lague, di Hare, dei resti più alti). I sistemi elettorali maggioritari, a differenza di quelli proporzionali, sono selettivi e non rappresentativi e, storicamente, sono tipici di quei Paesi il cui numero di partiti è particolarmente ridotto o, seppur con esiti incerti, sono riscontrabili in quelle legislazioni che aspirano a ridurre il numero delle formazioni politiche in contesti multipartitici. I sistemi elettorali maggioritari possono essere plurinominali o uninominali. Nei sistemi plurinominali sono eletti più candidati all’interno di ciascun collegio. Viceversa, nei sistemi uninominali – in ogni collegio viene eletto un candidato – il territorio dello Stato è suddiviso in un numero di collegi pari al numero di seggi da assegnare (se, ad esempio, il Parlamento è composto da cento seggi, il territorio sarà suddiviso in cento collegi). Questi sistemi possono essere di due tipi: 1) a turno unico (o plurality), per cui vince, tra i candidati nel collegio, chi ha ottenuto il maggior numero di voti (è sufficiente, pertanto, la maggioranza relativa); 2) a doppio turno (o majority), per cui vince il candidato che ottiene al primo turno la maggioranza assoluta dei voti validi; se nessun candidato raggiunge la maggioranza assoluta, si ricorre a un secondo turno elettorale, al quale accedono, sulla base delle specifiche discipline, i migliori votati e ove viene eletto chi ottiene più voti. Si pensi, ad esempio, al sistema uninominale a turno unico che vige per l’elezione dei deputati della Camera dei comuni nel Regno Unito: in ciascun collegio vince il candidato che ottiene più voti. Un sistema elettorale di questo genere ha una forte componente selettiva perché un partito presente nei diversi collegi in maniera omogenea, potrebbe vincere in un elevato numero di questi, alterando così la realtà dei rapporti di forza rispetto agli altri partiti. Potrebbe trattarsi di un partito che, su base nazionale non supera il 30% dei consensi, ma che, tuttavia, grazie al sistema maggioritario uninominale, potrebbe ottenere una percentuale di eletti nettamente superiore. È frequente, negli ultimi decenni, che il legislatore prediliga sistemi elettorali misti, ovverosia sistemi che mettono assieme elementi tipici dei sistemi proporzionali e dei sistemi maggioritari, ottenendo dei risultati
I sistemi elettorali maggioritari
I sistemi maggioritari plurinominali e uninominali
I sistemi elettorali misti
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Capitolo I
che, a seconda dei casi, sono più o meno proporzionali, più o meno maggioritari. La legge oggi vigente in Italia per l’elezione della Camera e del Senato (v. infra, Cap. VI, par. 1.7), ad esempio, si basa su un sistema elettorale misto, in quanto i seggi sono attribuiti in parte in modo maggioritario (in collegi uninominali) e in parte in modo proporzionale (in collegi plurinominali).
CAPITOLO II
I GRANDI PRINCIPI DEL DIRITTO PUBBLICO SOMMARIO: 1. Che cos’è un principio? Nozione e dinamica. – 2. I grandi principi dell’identità costituzionale repubblicana. – 3. Ancora sulle distinzioni costituzionali: principi supremi e/o fondamentali. – 4. (segue): principi fondamentali della legislazione statale, principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, principi inderogabili. – 5. I principi del diritto europeo.
1. Che cos’è un principio? Nozione e dinamica L’esperienza giuridica è frequentemente caratterizzata dal richiamo a principi dal contenuto e dalla natura più vari. Si pensi, ad esempio, al principio democratico, al principio di eguaglianza, al principio di legalità, al principio di buona fede, al principio dell’affidamento, al principio del neminem laedere, al principio della finalità rieducativa della pena, al principio di presunzione di non colpevolezza, etc. Già da questa casuale e sommaria rassegna si comprende, quasi intuitivamente, quale possa essere il significato immediato dell’evocazione di un qualsiasi principio: ci si vuole collegare a una dimensione “macro”, ad uno strumento argomentativo dalle proporzioni volutamente ampie, nella convinzione che esso possa abbracciare il discorso e condurlo nel quadro di un riferimento maggiormente condiviso e, come tale, virtualmente risolutivo. In realtà, per un giurista, questo tipo di collegamento, se per un verso assume i connotati di un’operazione usuale e pacificamente ammessa, per altro verso pone una serie di interrogativi, che non sono di semplice decifrazione. È un passaggio che richiede qualche svolgimento. Se è vero che il senso del riferirsi a un principio è quello anzidetto, è evidente che anche al principio si attribuisce un valore prescrittivo, in ipotesi superiore, o comunque condizionante, rispetto a quello che è veicolato da norme di diversa provenienza. Il principio è un’altra fonte normativa, che si vuole coinvolgere nella questione concernente l’individua-
Principi e argomenti
Principi come fonti normative
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Anteriorità delle norme di principio?
Principi e diritto positivo
Capitolo II
zione della regola del caso concreto, ciò perché quelle già presenti non si rivelano sufficienti. E infatti, in modo sintomatico, la dottrina distingue, all’interno dell’ordinamento giuridico, le norme di principio e le norme di dettaglio, con un’intenzione, dunque, che è espressamente coerente con il significato, poc’anzi introdotto, dell’evocazione di un principio: essa prefigura uno spazio normativo anteriore ad un altro, che, a sua volta, e di conseguenza, va letto, compreso e applicato in conformità al primo. Il fatto è che la ricognizione di questo genere di anteriorità non è sempre scontata: un po’ perché non è così frequente che sia il diritto positivo a delinearla in modo chiaro (non sempre, cioè, si trovano testuali statuizioni sul fatto che una certa disposizione affermi un principio); un po’ perché, anche laddove essa sia comunque apprezzabile come tale (per il tenore o per la collocazione sistematica delle disposizioni da cui la si può evincere), non è detto che sia possibile attribuirvi un contenuto omogeneo (il principio, se veramente anteriore alle altre norme, è sempre connotato da una generalità che lo rende strutturalmente suscettibile di molteplici oscillazioni di significato, bisognose del ricorso ad altri, aggiuntivi referenti). Nell’uno come nell’altro caso, pertanto, il principio è il frutto di una ricostruzione eminentemente interpretativa, dunque incerta e controvertibile per definizione. Più di tutto, però, a pesare sul meccanismo complessivo di individuazione di un principio è l’idea stessa che esso proceda davvero anteriormente allo spazio normativo che è lasciato a norme di altra derivazione. Sembra quasi un paradosso: anche dal punto di vista etimologico, un principio è senz’altro un inizio; quindi è qualcosa di logicamente precedente ad altro. Ma da dove si ricava che vi sia, o che vi debba essere, prima di alcune norme – e, innanzitutto, di quelle di diritto positivo – un certo inizio? Anche a leggere soltanto superficialmente la nota (e pur datata, e per molti versi “storica”) disciplina dell’interpretazione, quale fissata all’art. 12 Preleggi, si avverte che la direzione che l’ordinamento intende assegnare all’azione dell’interprete è di attribuire valenza normativa ai principi (e segnatamente ai cc.dd. “principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”) solo in via sussidiaria (ossia quando dalle disposizioni puntuali dell’ordinamento “scritto” non sia possibile estrarre, direttamente o indirettamente, la norma tanto cercata). Se si assume questa prospettiva, verrebbe da dire che l’anteriorità di uno spazio normativo di principio è giustificabile o nelle ipotesi in cui vi sia una disposizione che la esprime inequivocabilmente (si è già detto che questi casi non sono tantissimi) o in presenza di lacune tali da doverne giustificare ex post la sua effettiva capacità ordinante, procedendo
I grandi principi del diritto pubblico
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mediante ulteriori scavi su tutta l’estensione del diritto obbiettivo di riferimento (come suggerisce, metodologicamente, l’art. 12, quando pone come oggetto di analisi previa e necessaria l’«ordinamento giuridico dello Stato»). Un appiglio positivo, così, si dovrebbe sempre trovare. Non è una conclusione particolarmente soddisfacente – se ne potrebbe tacciare la forte ipoteca positivista, ad esempio – ma è difficile negare che essa abbia comunque un radicamento in altri principi, come sono quelli che vogliono che il modello di Stato di diritto in cui si inscrive anche la Repubblica italiana sia improntato al carattere rappresentativo dello Stato e, così, al principio democratico e alla posizione baricentrica della “legge” come prodotto proveniente o comunque “controllabile” dalle istituzioni che promanano dal popolo. È dalla “legge” che si dovrebbero ricavare i principi. Allo stesso tempo, tuttavia, si può osservare che, proprio nel riprodurre il contenuto dell’interpretazione ora fornita, si è ragionato sul ruolo dei principi provando a isolare uno spazio normativo anteriore (quello del principio democratico) capace di confermare per la disciplina scritta (in ipotesi, quella dell’art. 12 Preleggi) una certa direzione. Ciò facendo – e qui si può constatare l’estrema delicatezza dell’operazione e, per l’appunto, il tenore degli interrogativi profondi cui va incontro il giurista allorché si discuta di principi – ci si è “aperti” ad un livello di fonti superiori, come può essere quello costituzionale (il principio democratico è affermato all’art. 1 Cost.); un livello in cui, come si vedrà nel corso della trattazione, se non si può dubitare, sul piano positivo, del carattere rappresentativo dello Stato, non si può, contemporaneamente, dubitare del riconoscimento di norme provenienti anche da altri contesti che a quel circuito di legittimazione sono estranei (si pensi all’Unione europea) e che pure, per il tramite di altri principi (costituzionali anch’essi: artt. 11 e 117, co. 1, Cost.), vanno necessariamente considerati. Si conferma, dunque, che ragionare per principi è attività tanto apparentemente naturale, e quasi spontanea, quanto praticamente insidiosa, perché non univoca e, soprattutto, suscettibile di coinvolgere l’operatoreinterprete nella formazione progressiva di una catena di principi. Meglio: vi sono principi che, più di altri, rivelano il carattere non invariabilmente “chiuso” della ricerca di un’anteriorità normativa, mettendo, dunque, in forte discussione l’approccio più classico, in base al quale i principi dovrebbero sempre essere “sintesi” di blocchi o complessi di precetti positivi che, uniti in un’unica ratio, portano ad emersione l’esistenza di un comune e superiore indirizzo ispiratore. Nonostante ciò, e simultaneamente, proprio la rivelazione dei percorsi articolati che l’individuazione di un principio può comportare anche sul
Principi e Costituzione
40 Pluralità di principi e dinamica del principio
Capitolo II
piano costituzionale consente di acquisire che ad essere difficile non è soltanto vedere e capire il principio di cui si tratta, bensì metterlo in correlazione con altri fattori, pur sempre normativi, capaci di relativizzarlo o di ri-contestualizzarlo. O, meglio, con altri principi, con cui sovente ogni principio convive e deve armonizzarsi. È come se, in definitiva, la nozione di principio giuridico derivasse, in qualche modo, dalla presa d’atto della sua stessa dinamica e dall’ambiente più ampio in cui essa si svolge. È questo il dato preliminare che occorre avere chiaro, poiché è per detta ragione che, comunemente, si definisce come principio una norma di carattere generale esprimente interessi o valori cui sono chiamate a conformarsi le altre norme dell’ordinamento. Cosicché il tema si sposta dall’accertamento del principio alla valutazione, per nulla automatica, dell’interesse o del valore di cui esso è portavoce e, più di tutto, del grado di riconoscimento che l’ordinamento gli ha conferito con riguardo alla regolazione di una data fattispecie.
2. I grandi principi dell’identità costituzionale repubblicana
Principi della Repubblica
Il luogo in cui interessi o valori trovano un massimo riconoscimento all’interno della forma dello Stato è la costituzione: nel caso italiano, quella repubblicana entrata in vigore il 1° gennaio 1948, con le sue successive modificazioni. In quella cornice emergono alcuni importanti principi, che, oltre a dirigersi verso sviluppi interpretativi e applicativi anche assai concreti e specifici, definiscono la fisionomia della forma di stato e, di conseguenza, l’identità costituzionale della Repubblica. Sono principi che operano su di un piano molto elevato e cui si possono ricondurre non solo altri principi, ma anche il significato di interi ambiti normativi della disciplina costituzionale integralmente considerata e dell’ordinamento nella sua interezza. Si potrebbero qualificare come principi-guida, visto che il loro compito è quello di configurare ciò che l’ordinamento repubblicano dev’essere in ogni sua potenziale espressione. Essi forniscono sia irrinunciabili criteri di orientamento all’azione politica che è destinata a svolgersi nella comunità, sia parametri di raffronto per la valutazione della correttezza di quanto fanno le istituzioni (e, in una qualche misura, tutti i soggetti dell’ordinamento medesimo), sia, ancora, chiavi di lettura per un’interpretazione coerente e adeguata delle altre norme che ad essi possano essere ricondotte. Pur nella molteplicità delle classificazioni operate dalla dottrina, si è
I grandi principi del diritto pubblico
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soliti ricondurre questa tipologia di grandi principi alle disposizioni di cui ai primi dodici articoli della Costituzione (dedicati testualmente ai «Principi fondamentali»), evidenziandone soprattutto alcuni, e in particolare: I) il principio democratico; II) il principio personalista; III) il principio pluralista; IV) il principio di eguaglianza; V) il principio lavorista; VI) il principio autonomistico. Il primo di tali principi – il principio democratico – si trova sancito all’art. 1 Cost. («L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro»: così al co. 1), dove se ne accoglie la versione più coerente con la tradizione giuridica del costituzionalismo: la sovranità popolare è il perno della legittimazione delle istituzioni pubbliche e del loro operato, ma in uno stato costituzionale essa è legittimata soltanto se vincolata al rispetto di taluni limiti invalicabili («La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»: così al co. 2). È il principio personalista – il secondo dei principi in elenco – a portare ad emersione il limite maggiore del principio democratico, ossia il rispetto della persona e dei suoi diritti inviolabili, come statuiti dall’art. 2 Cost. (specie nella sua prima parte: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo»). Dunque, non è il soggetto per lo Stato, ma è il potere pubblico per la persona. La combinazione dei principi democratico e personalista, da un lato, pone evidentemente l’identità costituzionale italiana nel solco della celebre affermazione di cui all’art. 16 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino («Toute société dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée ni la séparation des pouvoirs déterminée, n’a point de Constitution»: Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione). È un intreccio di principi che, così, apre la via alla giustificazione teleologica fondamentale del principio di separazione dei poteri, ma anche alla necessità che la limitazione in questione sia effettiva, e dunque che vi sia una coercibilità del comportamento del legislatore sovrano come delle funzioni di governo che da esso dipendono, ovvero un controllo su ciò che esso pone in essere. Questo specifico profilo, nella trama della Costituzione, alimenta tutte le proiezioni del principio di legalità quale caposaldo dello stato costituzionale di diritto, attribuendo un significato determinato al principio della gerarchia delle fonti e ad ogni manifestazione del principio che vuole che ogni “potere” sia vincolato al diritto,
Principio democratico
Principio personalista
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Principio pluralista e principio di eguaglianza
Capitolo II
ivi compresa quella implicante un diffuso principio di giustiziabilità (anche costituzionale). Dall’altro lato, però, non si può non segnalare che nel principio personalista la Costituzione repubblicana metabolizza il superamento della concezione dei diritti dell’uomo intesi in senso strettamente individualistico, com’era l’impostazione classica delle prime costituzioni scritte e di tutte le Carte dei Governi liberali dell’Ottocento. Il soggetto i cui diritti fungono da barriera all’espressione potenzialmente onnipotente del sovrano è un soggetto visto nella sua realtà materiale, concreta, suscettibile di evoluzione e animata dalle relazioni che esso vive all’interno delle «formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» (così sempre all’art. 2 Cost.). Quindi si tratta di un soggetto che dev’essere garantito anche nella pari tutela di quei contesti di rapporto intersoggettivo (la famiglia, l’associazionismo della più varia natura, le confessioni religiose, i partiti politici, i sindacati, le scuole, etc.) che tanto possono rivelarsi costrittivi, quanto sono, nei fatti, determinanti per la sua esistenza. È in questo modo che, accanto al principio personalista, si colloca il principio pluralista, che presuppone e implica, al contempo, che ogni soggetto – pur caratterizzato dal e nel proprio contesto (anche di minoranza etnico-linguistica o di religione: artt. 6 e 8 Cost.) – sia considerato nella sua pari «dignità sociale» e sia così «eguale davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (art. 3, co. 1, Cost.: principio di eguaglianza c.d. formale). È sempre per tali ragioni che la persona, i cui diritti si frappongono all’arbitrio del legislatore, non è, a sua volta, “sovrana” in modo assoluto o autoreferenziale, ma è chiamata a confrontarsi con gli altri, come in un percorso di crescita. Si tratta, precisamente, di un percorso di cui rileva anche il grado di appartenenza alla comunità (e di ottemperanza ai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» che da quell’appartenenza discendono: principio solidaristico, sempre ex art. 2 Cost.) e nel quale è la Repubblica – innanzitutto col riconoscimento di diritti sociali (all’istruzione, alla salute, all’assistenza, al lavoro) – a prendersi carico di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, co. 2: principio di eguaglianza c.d. sostanziale). Un tale nesso (persona-solidarietà-eguaglianza) rappresenta il “cuore” dell’identità costituzionale repubblicana ed è indice rivelatore di come essa abbracci pienamente il passaggio dalla forma dello stato liberale a
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quella dello stato democratico. Nel primo, del resto, l’eguaglianza non implica l’impegno alla trasformazione economico-sociale che è, viceversa, sotteso alle aspirazioni che animano la fondazione del secondo, e che, come si vede, vincola la Repubblica a stringersi in una continua e caratterizzante azione solidale di promozione. È un obiettivo che promuove a necessari criteri di raffronto anche le coordinate che possono essere decisive per il concreto realizzarsi di quell’azione, ossia quella culturale e quella paesaggistico-ambientale (art. 9 Cost.), quali matrici su cui costruire la nuova cittadinanza repubblicana. Ed è proprio in tal modo che, in anni più risalenti, ci si è riferiti, specie in dottrina, ad una potenziale classificazione della Repubblica quale Stato di cultura; mentre, in anni più recenti, si è segnalata la formale recezione nel novero dei principi fondamentali anche del principio dello sviluppo sostenibile (ciò, precisamente, per effetto della modifica costituzionale dell’art. 9, come apportata dalla legge cost. n. 1/2022, che ha aggiunto un nuovo comma, per cui la Repubblica «[t]utela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni», e «[l]a legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali»). Si noti, poi, che nella progressione in cui il principio di eguaglianza coinvolge la Repubblica trovano collocazione anche il principio lavorista (art. 4 Cost.) e il principio autonomistico (art. 5 Cost.). Nell’un caso, infatti, viene in gioco la valenza decisiva del diritto al lavoro come uno dei diritti sociali posti alla base della nascita e della realizzazione graduale dello stato democratico (si ricordi che l’affermazione del principio democratico è unita, nell’art. 1 Cost., all’affermazione sul lavoro come elemento centrale della legittimazione della Repubblica, che, anche in base a quanto espresso dall’art. 3, co. 2, considera quell’elemento come uno dei più forti ed essenziali presidi per la garanzia della dignità e dello sviluppo di ogni persona). Nell’altro caso, invece, viene in considerazione una declinazione specifica del principio pluralista, che implica sia, tramite il decentramento amministrativo, l’adeguamento della struttura delle istituzioni pubbliche ad un criterio di massima vicinanza agli interessi da curare (con la più ampia partecipazione dei soggetti che ne sono titolari), sia il riconoscimento e la valorizzazione, anche nei processi decisionali statali, delle autonomie territoriali (dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane, delle Regioni, ordinarie e speciali, e delle Province Autonome di Trento e Bolzano). In quest’ultimo senso, la Costituzione rivela, anticipandola, la natura composita della Repubblica (artt. 114 e 116 Cost.), ossia il suo non essere assorbibile in tutto e per tutto nello Stato e il costituirsi in ragione, come in funzione, di realtà sociali e collettive anteriori al potere costitui-
Principio lavorista e principio autonomistico
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Grandi principi repubblicani e tecniche del giurista
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to, alla stessa stregua di quanto vale per ogni persona. Con l’accettazione, pertanto, di un dispositivo sussidiario di differenziazione (v. art. 118) che non è altro che il portato più ragionevole degli orizzonti del pluralismo e dell’eguaglianza sostanziale. Come si è anticipato, dai principi così descritti si possono ricavare interpretazioni capaci di avere ridondanze molto puntuali e importanti sul piano pratico. Talvolta può trattarsi di avallare tecniche di sindacato giurisdizionale molto complesse; talaltra, ci si può trovare di fronte alla possibilità di generare aree di meritevolezza giuridica non espressamente previste dal legislatore ovvero di orientare la riconfigurazione generale di un’intera disciplina, facilitando l’affermazione di altri principi. Nel primo senso, il principio di eguaglianza, ad esempio, offre un amplissimo spettro di occasioni nelle quali, come dimostrato da tempo dalla Corte costituzionale, poter giudicare illegittimo un intervento del legislatore: vuoi perché introduttivo di discriminazioni, per così dire, pure e semplici (escludendo da una certa disciplina, irragionevolmente, una fattispecie che, viceversa, dovrebbe esservi ricompresa; ovvero limitando, sempre irragionevolmente, la vigenza di una certa disciplina ad una singola fattispecie o ad un singolo destinatario, come accade per le cc.dd. leggi ad personam); vuoi perché latore di discriminazioni indirette (estendendo, cioè, un trattamento regolativo omogeneo a situazioni tra loro diverse, che meriterebbero, invece, una considerazione specifica); vuoi, ancora, perché idoneo a dar vita a norme del tutto irrazionali (contemplando differenziazioni che sul piano degli interessi o dei valori costituzionalmente tutelati non hanno alcuna giustificazione) o sproporzionate (vale a dire, recanti regole che, pur occupandosi di garantire interessi meritevoli, sono eccessivamente sbilanciate e trascurano l’importanza di ulteriori valutazioni, anch’esse meritevoli). E così via. Conseguenze notevoli sul piano applicativo ha anche il principio personalista nel suo nucleo di garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo. Esso è un buon esempio di come un principio possa ampliare in modo molto esteso il novero degli interessi necessariamente bisognosi di tutela. A lungo la dottrina si è interrogata sul significato delle statuizioni espresse sul punto dall’art. 2 Cost.: quali sono i diritti inviolabili? Quelli che già la Costituzione, in altre sue parti, definisce tali o tratta come fondamentali? Oppure quelli che si possono definire inviolabili o fondamentali in base al riscontro positivo desumibile da altre fonti scritte? Oppure, al contrario, tutte quelle situazioni soggettive che siano autonomamente considerabili come inviolabili in relazione alle mutazioni sopravvenute del contesto culturale, economico e sociale? I primi due interrogativi sembrano postulare che il principio in questione evochi una fattispecie
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chiusa, delimitata da riconoscimenti già presenti nell’ordinamento; l’ultimo, viceversa, concepisce l’art. 2 Cost. come una fattispecie aperta, implementabile, in primo luogo, dal giudice. Quale che sia la lettura più corretta, non si può che constatare che nel corso del tempo la giurisprudenza (comune come costituzionale) ha affermato il carattere inviolabile di diritti che non sono testualmente accolti come tali nella Costituzione (ad esempio, tra i tanti, il diritto alla privacy; il diritto al riconoscimento della possibilità di esprimere la propria affettività in un’unione con una persona dello stesso sesso; il diritto ad esprimere il proprio orientamento di genere anche al di fuori di un corrispondente mutamento fisico; il nucleo forte del diritto alla salute, come diritto a ricevere tutte le cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti e comunque essenziali ancorché continuative; etc.). Potrebbero, poi, rammentarsi anche le numerose direzioni in cui si è sviluppato il principio di solidarietà, che è statuito, come si è ricordato, unitamente al principio personalista. Al riguardo gli interpreti sono stati capaci di attribuire proiezioni innovative a discipline pre-esistenti. È da lì, ad esempio, che si è giustificata la dottrina del c.d. “abuso del diritto” oppure la concezione che vede le regole della responsabilità civile come inscritte in una ratio di tipo compensativo e non sanzionatorio.
3. Ancora sulle distinzioni costituzionali: principi supremi e/o fondamentali Il tessuto dei principi descritti al paragrafo precedente, proprio perché rappresentativo dell’identità costituzionale repubblicana, ha fornito la materia, se non l’humus ideale, per elaborazioni ulteriori, nella dottrina come nella giurisprudenza costituzionale. Vale a dire, per l’estrazione, dal medesimo substrato assiologico, di altre e peculiari nozioni. Quel substrato, infatti, è stato utile per agevolare l’individuazione di norme integranti il complesso di ciò che della Costituzione non è possibile cambiare mai, nemmeno ricorrendo al procedimento aggravato che è testualmente previsto dall’art. 138 Cost. (i limiti cc.dd. “impliciti” al processo di revisione costituzionale); ma anche di norme concernenti il nucleo essenziale di ciò che nell’ordinamento interno non può essere comunque superato per effetto della primazia del diritto dell’Unione europea (artt. 11 e 117, co. 1, Cost.) o della diretta operatività del diritto internazionale generale (art. 10, co. 1, Cost.) o delle fonti dotate di altra puntuale copertura costituzionale (come possono essere quelle pattizie
Assiologia costituzionale e principi intangibili
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Principi supremi come limiti alla revisione costituzionale
Ordinamento costituzionale e principi non superabili …
… nei rapporti tra Stato e Chiesa …
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sui rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica, ex art. 7, co. 2, Cost.). Si tratta di una sorta di “setaccio”, da utilizzarsi, specie ad opera dei giudici, per la protezione specifica rispetto all’ingresso nell’ordinamento nazionale di norme tali da stravolgere un certo e non rinunciabile equilibrio di interessi o valori, e di corrispondenti e intangibili principi. Dal che si constata che dai principi che sintetizzano gli interessi o i valori su cui poggia l’identità repubblicana è possibile trarre anche un criterio di demarcazione in merito al diritto realmente applicabile ad una fattispecie. Da un lato, la Corte costituzionale ha teorizzato apertamente e sistematicamente (sin da una nota pronuncia, n. 1146/1988) l’esistenza di «principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali». Tali sono «tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana». Di questi principi supremi la Corte non ha fornito un’elencazione. Essa vi si è riferita caso per caso, molte volte in via soltanto incidentale. Dalla giurisprudenza in tal modo espressa, ad esempio, sappiamo che sono considerati supremi il principio di eguaglianza, il principio di tutela dei diritti inviolabili dell’uomo (nelle loro diverse specie e declinazioni), il principio di laicità dello Stato, il principio di unità e indivisibilità della Repubblica, il principio che vuole garantito a tutti il diritto alla tutela giurisdizionale (in primis come diritto di accesso alla giustizia, esso stesso inviolabile). Il giudice costituzionale, inoltre, ha richiamato l’esistenza di principi, per così dire, non superabili negli orientamenti con cui ha gradualmente fissato i confini della permeabilità dell’ordinamento interno, anche costituzionale, di fronte a norme di diversa provenienza. Come si può notare – e come è stato, del resto, sottolineato anche da molti interpreti – nel ricostruire quali siano i predetti principi non superabili, si compie un’attività che dà per presupposta la chiara affermazione, nel contesto costituzionale, di un ulteriore, e parimenti, grande principio repubblicano, ossia quello dell’apertura dell’ordinamento dinanzi al pluralismo dei sistemi normativi. Le prime pronunce in assoluto – cui la Corte costituzionale si è anche riferita quando ha elaborato la teoria sui principi non modificabili con il procedimento della revisione costituzionale – hanno avuto ad oggetto norme contenute negli strumenti pattizi richiamati per i rapporti tra lo
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Stato e la Chiesa cattolica dall’art. 7, co. 2, Cost. In quel contesto (a partire specialmente da sentenze che risalgono ai primi anni ’70 del secolo scorso), la Corte – trovandosi di fronte a controversie in cui si dibatteva variamente sulla garanzia del diritto alla tutela giurisdizionale – ha predicato la configurabilità di «principi supremi dell’ordinamento costituzionale dello Stato» o di «principi supremi dell’ordinamento» tout court, con una tassonomia che, evidentemente, è in tutto e per tutto coincidente rispetto a quella già descritta. La Corte, però, si è anche occupata della fissazione di alcuni dispositivi di regolazione dei rapporti tra il diritto prodotto all’interno dell’ordinamento interno e il diritto prodotto secondo i meccanismi istituzionali dell’integrazione sovranazionale, prima comunitaria e poi europea. In questa cornice, pur accettando che ci siano delle norme sovranazionali capaci di imporsi, all’atto applicativo, anche a norme prodotte da fonti di diritto nazionale – e pure dalla Costituzione – la Corte ha individuato un limite di legittimità costituzionale dei Trattati nella parte in cui consentano l’ingresso nella Repubblica di norme (direttamente applicabili e/o dotate di efficacia diretta) confliggenti con quelle relative «ai principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e ai diritti inalienabili della persona umana» (sent. n. 170/1984). Qui la Corte ha utilizzato i principi per individuare i cc.dd. “controlimiti” alle «limitazioni di sovranità» che la Costituzione (art. 11) ammette in ragione dell’appartenenza dell’Italia «ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni»: è così che la Corte stessa ha inquadrato l’adesione italiana alla Comunità economica europea, prima, e all’Unione europea, poi. Certi principi, in questa teoria, sono utili a fermare l’operatività del criterio di competenza cui – per la ricostruzione sempre seguita nella giurisprudenza costituzionale – sono tendenzialmente informati i rapporti tra l’ordinamento interno e quello sovranazionale. Come si può osservare, la tassonomia utilizzata per identificare i controlimiti è parzialmente diversa da quella definita per raggruppare i limiti impliciti alla revisione costituzionale: non più principi supremi, bensì principi fondamentali e diritti inalienabili della persona; in ciò dandosi quasi l’idea che ci si trovi al cospetto di due distinti insiemi di principi. Come se, in altre parole, il nucleo dei principi che non possono essere soggetti a revisione costituzionale fosse un po’ più stretto del nucleo dei principi che si oppongono all’ingresso nell’ordinamento giuridico nazionale del diritto europeo. Naturalmente è delicato enfatizzare le diversità lessicali delle espressioni cui la Corte costituzionale ha fatto ricorso. Peraltro l’attivazione del “filtro” per le norme europee si è palesata concretamente in un solo caso
… nei rapporti con l’integrazione europea …
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… e nei rapporti con il diritto internazionale generale
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(il c.d. “caso Taricco”: ord. n. 24/2017), nel quale essa è stata prospettata soltanto come possibilità, sollecitando un intervento interpretativo della Corte di giustizia UE. E quest’ultima, interrogata in via pregiudiziale dalla Consulta, ha offerto una via d’uscita, riconoscendo un margine per letture della disciplina in questione compatibili con i principi espressi dal giudice costituzionale italiano (Corte giust., causa C-42/17), ed evitando così che questo attivasse i controlimiti. Da quell’unico caso, ad ogni modo, sappiamo, da un lato, che un controlimite è stato individuato in una specifica interpretazione del principio di legalità in materia penale, che così rientra a pieno diritto nel paniere costituito da principi fondamentali e diritti inviolabili della persona; dall’altro, che la Corte si è riferita ai controlimiti indicandoli con il complesso «dei principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona», confermando, con ciò, l’impossibilità di dare troppa rilevanza alle concrete formulazioni linguistiche utilizzate volta per volta nelle pronunce. La Corte, d’altra parte, ha utilizzato la tecnica del rinvio a principi anche per porre un freno all’ingresso delle norme del diritto internazionale generale (o consuetudinario), ossia le «norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» (come interpretate sul piano internazionale) cui «l’ordinamento giuridico italiano si conforma» automaticamente ex art. 10, co. 1, Cost. In questo frangente, la Corte, pur richiamandosi soprattutto a «principi fondamentali e diritti inviolabili», come nel caso dei controlimiti, si è riferita simultaneamente sia a quest’ultimi, sia ai principi supremi sopra richiamati, qualificandoli tutti, invariabilmente, come «elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale» (v. sent. n. 238/2014, in cui è stata “bloccata alla frontiera” la norma di diritto internazionale generale consistente nella regola dell’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile di altri Stati per i danni perpetrati iure imperii, laddove comprenda l’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile in relazione ad azioni di danni derivanti da crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona).
4. (segue): principi fondamentali della legislazione statale, principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, principi inderogabili Nell’area costituzionalmente rilevante ci sono anche riferimenti espressi a principi che possono essere utilizzati per delimitare lo spazio normativo da riconoscersi ad alcune fonti anziché ad altre.
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È ciò che avviene nell’assetto del riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni (e Province Autonome). In queste ipotesi, non è la Corte, ma è direttamente la fonte costituzionale, in modo testuale, a evocare alcuni principi e a renderli parametro normativo di riferimento: così che la Corte medesima, chiamata a decidere i ricorsi che Stato e Regioni (e Province Autonome) propongano per far valere il rispetto delle reciproche prerogative (i ricorsi in via principale), potrà utilizzare quei principi per comprendere “chi” abbia superato confini che non avrebbe potuto valicare. Si dice, in proposito, che il rinvio a questi principi opera come un tipico “parametro interposto” di legittimità costituzionale: il che significa che violare quei principi equivale a violare le norme costituzionali che li richiamano. Prima fattispecie di principi operanti in tal modo è quella dei «principi fondamentali» la cui definizione nelle materie di competenza concorrente è riservata allo Stato (art. 117, co. 3, Cost.). Secondo un’impostazione originaria – immaginata dalla dottrina nella vigenza della disciplina costituzionale anteriore all’importante riforma che nel 2001 (legge cost. n. 1) ha mutato l’intero Titolo V della Carta (dedicato, per l’appunto, ai rapporti tra lo Stato e gli altri enti pubblici territoriali: v. infra, Cap. VII) – la fissazione dei principi fondamentali in esame avrebbe dovuto avvenire per il tramite di “leggi quadro” (o “leggi cornice”), con cui stabilire l’architettura e le direzioni di fondo della disciplina di interi settori, lasciando poi alle Regioni lo spazio per dettagliare quanto prefigurato in via generale mediante l’adozione di una normativa differenziata a seconda delle peculiarità di ogni territorio. In realtà, nella giurisprudenza costituzionale, il carattere fondamentale dei principi rientranti nella disponibilità esclusiva dello Stato è stato presto concepito come qualcosa di variabile, potendo lo Stato dettare anche disposizioni minute, specifiche, capaci come tali di ridurre in maniera sensibile l’esercizio della potestà legislativa regionale. Questo orientamento interpretativo, paradossalmente, si è ancor più enfatizzato con il vigore della nuova disciplina dei rapporti Stato-Regioni, dove la sopravvivenza di molti ambiti materiali di competenza concorrente non ha escluso anche l’influenza, sul margine del legislatore regionale, di altre potestà statali (e precisamente di molte e significative potestà indicate al co. 2 del nuovo art. 117 Cost., che hanno per questa via contribuito a comprimere ancor più la potestà delle Regioni). Allo stesso tempo, però, la Corte costituzionale ha talvolta ricavato, dall’interno dello scrutinio sul corretto esercizio di potestà esclusive statali, un nucleo di principi che in certe materie dovrebbero fungere da “punto di equilibrio” per il contemperamento ragionevole delle competenze “centrali” e di quelle “territoriali”. Sicché, se un riferimento, pur testuale, ad un
Ruolo della definizione di principi nei rapporti tra Stato e Regioni ordinarie
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Autonomie speciali e principi generali dell’ordinamento giuridico
Autonomie locali e principi inderogabili della legislazione statale
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limite di principio (come si è detto, al suo carattere fondamentale) che lo Stato non potrebbe superare non si è rivelato così resistente, è altrettanto vero che il giudice costituzionale ha utilizzato la tecnica dell’individuazione di principi, questa volta non scritti, per graduare il livello di approfondimento nell’esercizio unilaterale di specifiche potestà statali. Nelle fonti costituzionali esiste anche un altro riferimento ai principi quali vettori di una corretta regolazione di rapporti tra Stato e Regioni (e Province Autonome). Si tratta delle disposizioni, presenti negli statuti delle autonomie speciali (quindi delle cinque Regioni a statuto speciale che la Costituzione riconosce come titolari di forme e condizioni particolari di autonomia: art. 116, co. 1, Cost.), che identificano nei principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica uno dei limiti all’esercizio, da parte di quelle autonomie, della potestà legislativa c.d. “primaria” che ad essa compete in molti ambiti. Sul punto la Corte costituzionale ha sempre trattato la concreta individuazione di simili principi assieme al richiamo di altri limiti della potestà in questione (quali principi costituzionali o esigenze unitarie manifestate da norme fondamentali delle riforme economico-sociali o obblighi internazionali), con un approccio che non pare sempre perspicuo (nel senso che non è sempre chiaro se una certa norma prevista dal legislatore statale si imponga in quanto riconducibile alla categoria dei principi in esame ovvero ad altre tipologie di norme). Ciò che si può dire, dunque, con riferimento all’utilizzazione del riferimento alla nozione di “principio” in tutte queste situazioni è che essa è funzionale ad una grande flessibilità ed eterogeneità di soluzioni. Caratteristica che si rinviene, sempre in situazioni analoghe, anche laddove il rinvio alla medesima nozione non sia espresso, ma venga ricavato dalla necessità di armonizzare l’interpretazione congiunta di discipline costituzionali tra loro apparentemente contraddittorie. È questa l’ipotesi della peculiare lettura con cui la giurisprudenza (in questo caso quella della Corte di cassazione) è arrivata a riconoscere agli statuti dei Comuni la possibilità, occasionalmente, di esprimere una disciplina diversa da quella prevista nella legge statale di riferimento (ossia nel c.d. “Testo unico degli enti locali”, d.lgs. n. 267/2000). Formalmente, come si vedrà (v. sempre infra, Cap. VII), quegli statuti sono fonti secondarie: dunque, mai potrebbero violare norme prodotte da fonti primarie, quali sono la legge e gli altri atti aventi la medesima forza (il decreto legislativo è uno di questi). Inoltre, secondo il già richiamato Titolo V della Costituzione (art. 117, co. 1, lett. p), spetta allo Stato determinare, tra l’altro, la disciplina degli organi di governo e delle funzioni fondamentali degli enti locali; gli statuti di quest’ultimi enti, infatti, sono espressione di una loro potestà regolamentare, volta a manifestarsi
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«in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite» (art. 117, co. 6). Eppure, si è sostenuto che, essendo i Comuni enti autonomi, «con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi fissati dalla Costituzione» (art. 114, co. 2, Cost.), essi potrebbero, per il tramite della fonte statutaria, discostarsi da principi posti dalla legge statale laddove questi non siano inderogabili (e, nello specifico, si sono ritenuti derogabili sia il principio che vuole che la rappresentanza processuale del Comune spetti al Sindaco, sia il principio che normalmente pone una corrispondenza tra rappresentanza sostanziale e rappresentanza processuale: con il risultato che si è giudicato legittimo che uno statuto comunale possa attribuire il potere di rappresentare il Comune in giudizio a un dirigente della rispettiva amministrazione, e se del caso anche al dirigente dell’ufficio legale). Come si può capire facilmente, quale sia l’esatta estensione di tali principi inderogabili non è acquisizione di facile e certa comprensione.
5. I principi del diritto europeo Come si è già visto, e come meglio si vedrà anche in seguito (cfr. infra, Cap. V), ordinamento nazionale e ordinamento dell’Unione europea sono tra loro comunicanti e coordinati, ed esistono principi che all’interno del primo possono funzionare quali limiti all’ingresso di norme provenienti dal secondo. Il fatto è che anche in quest’ultimo ordinamento esistono principi, a loro volta operanti a vario livello: alcuni sono espressi nelle fonti del diritto positivo dell’Unione (primario o derivato); altri sono ricavati in via interpretativa dalla Corte di giustizia UE nell’esercizio delle sue funzioni. E si tratta di principi che incidono moltissimo anche sull’attività e sull’organizzazione delle istituzioni pubbliche nazionali allorché operanti quali snodi attivi dell’attuazione del diritto dell’Unione europea, poiché considerabili come “porzioni” dell’Italia quale Stato membro dell’Unione medesima. Alla prima tipologia appartengono senz’altro i principi che possono dirsi costitutivi dell’identità costituzionale dell’Unione, e che possono trarsi specialmente dal Trattato sull’Unione europea (TUE) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (conosciuta anche come “Carta di Nizza”). In proposito, corre d’obbligo evidenziare che l’assenza formale di un testo costituzionale dell’Unione non impedisce di rilevare, all’interno delle fonti che formano il diritto primario dell’Unione stessa, norme, e così anche principi, che svolgano la funzione che è tradizionalmente tipica di ogni costituzione.
Principi costituzionali dell’Unione europea …
52 … tra valori presupposti …
… indirizzi strutturali …
Capitolo II
In questo blocco di principi vanno sicuramente segnalati, innanzitutto, i «valori» il cui riconoscimento e rispetto giustifica e misura il grado di appartenenza di uno Stato all’Unione (art. 2 TUE: «L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini»). La violazione grave di tali valori da parte di uno Stato membro può dare luogo ad una complessa procedura (v. art. 7 TUE), in cui quello Stato non solo può essere chiamato a formulare osservazioni, ma può essere anche sospeso dall’esercizio di alcune facoltà previste dai Trattati. Devono poi essere ricordati anche i principi che definiscono la costituzione strutturale del processo di integrazione, perché ne fissano gli obiettivi e perché affermano i limiti che i poteri dell’Unione incontrano nel loro esplicarsi. Per un verso, si può ricordare quanto stabilisce l’art. 3 TUE, che pone come orizzonte necessario la realizzazione di alcune politiche (la pace e il benessere dei popoli dell’Unione; la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone; l’istituzione di un mercato interno, ispirato da un principio di sviluppo sostenibile, nell’accettazione del modello dell’economia sociale di mercato e per il conseguimento di un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente; la lotta all’esclusione sociale e alla discriminazione; la coesione economica, sociale e territoriale, e la solidarietà tra gli Stati membri; la garanzia della diversità culturale e linguistica e del patrimonio culturale europeo). Per altro verso si devono evidenziare i principi che legittimano l’azione delle istituzioni dell’Unione sul piano della sua stessa fondazione e nei confronti della sovranità degli Stati membri, e così in particolare: il principio di attribuzione («l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri»: art. 5.2 TUE); il principio di sussidiarietà («nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell’azione in questione, essere conseguiti meglio a livello di Unione»: art. 5.3); il principio di proporzionalità («il contenuto e la forma dell’azione dell’Unione si limi-
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tano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati»: art. 5.4); il principio di leale cooperazione («l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati»: art. 4.3). Infine vanno rammentati i diritti e le libertà il cui rispetto la già menzionata Carta di Nizza impone a tutte le istituzioni e agli organismi europei, ma anche agli Stati membri allorché si trovino ad attuare il diritto dell’Unione (la Carta, che è composta da un preambolo introduttivo e da 54 articoli, prevede disposizioni assai articolare, suddivise in sette capi, ciascuno dedicato ad un “nucleo” di riferimento: la dignità umana, la libertà, l’uguaglianza, la solidarietà, la cittadinanza, la giustizia). La semplice lettura della Carta permette di comprendere che si danno facilmente fattispecie in cui si possa porre il problema della conformità della “legge” italiana sia con il parametro costituito dalla Carta medesima, sia con la Costituzione. Sul punto la Corte costituzionale (sent. n. 269/2017) ha avuto modo di precisare che di fronte a casi di doppia pregiudizialità – vale a dire di controversie che possono dare luogo a questioni di illegittimità costituzionale e, simultaneamente, a questioni di compatibilità con il diritto dell’Unione – laddove una legge italiana sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso, da parte della stessa Corte costituzionale, al rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia UE per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione (ai sensi dell’art. 267 TFUE). L’Unione si è anche vincolata ad aderire alla Cedu: ciò non è ancora avvenuto, anche se è stabilito sin d’ora che «[i] diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali» (art. 6.3 TUE). Molto interessanti, e importanti, peraltro, sono proprio i principi generali del diritto dell’Unione, che, tradizionalmente, sono stati ricostruiti e affermati dal giudice europeo, sin dalla sua istituzione (è alla Corte di giustizia UE, infatti, che si affida il compito di garantire «il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati»: art. 19.1 TUE). Non si tratta di principi di omogenea e univoca derivazione. In alcuni casi, essi sono stati tratti dalla trama del diritto primario nelle sue diverse evoluzioni, quali specificazioni o sviluppi di altri principi espressi ovvero quali declinazioni logicamente implicate allo stabilimento di una certa disciplina. Si pensi al principio dell’effetto utile nel-
… e limiti assiologici
Principi europei e Cedu
Principi generali del diritto dell’Unione europea
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Capitolo II
l’interpretazione del diritto europeo; o al principio dell’equilibrio istituzionale. In altri casi, invece, i principi vengono estratti dalla ricognizione del pertinente diritto degli Stati membri (vi sono settori o fattispecie in cui il giudice europeo è tenuto a compiere questa attività di “comparazione sintetizzante”, come accade per ciò che concerne l’elaborazione della disciplina della responsabilità civile extracontrattuale delle istituzioni dell’Unione: l’art. 340.2 TFUE rinvia espressamente ai «principi generali comuni ai diritti degli Stati membri»); oppure da un nucleo di principi comunque irrinunciabili perché caratterizzanti il patrimonio costituzionale comune a tutti gli Stati membri (così è accaduto per il principio di irretroattività della legge, il principio di certezza del diritto, il principio che vuole garantiti i diritti quesiti, il principio di proporzionalità dell’azione amministrativa, il principio di affidamento, etc.).
CAPITOLO III
I DIRITTI E LE LIBERTÀ SOMMARIO: 1. La tutela dei diritti e delle libertà nella Costituzione repubblicana tra trasformazioni della forma di stato e tutela internazionale. – 2. Le libertà civili: la libertà personale. – 2.1. (segue): le libertà di domicilio, di corrispondenza e di circolazione e soggiorno. – 2.2. (segue): la libertà di manifestazione del pensiero. – 3. Le libertà collettive: libertà di riunione e libertà di associazione. – 3.1. (segue): la libertà sindacale. – 3.2. (segue): la libertà di associazione partitica. – 4. Le libertà economiche. L’iniziativa economica privata e la proprietà. – 5. I diritti sociali, in particolare il diritto al lavoro, il diritto alla salute e il diritto all’istruzione. – 6. I doveri costituzionali.
1. La tutela dei diritti e delle libertà nella Costituzione repubblicana tra trasformazioni della forma di stato e tutela internazionale Come si è già avuto modo di sottolineare (v. supra, Cap. I, par. 7), i diritti e le libertà costituiscono uno dei profili qualificanti della forma di stato. Per tale ragione, l’evoluzione storica del modo stesso in cui essi sono stati concepiti, ancor prima che la loro disciplina da parte delle singole costituzioni, testimonia quali trasformazioni la forma di stato di un determinato ordinamento abbia subito nel corso dei secoli. Così, lo stato feudale è contraddistinto da una concezione contrattualistica dei diritti, perché il riconoscimento dei margini di autonomia privata è il frutto di quello stesso accordo tra principe e feudatari su cui si fonda l’organizzazione dello Stato. Nella forma di stato assoluto, invece, si afferma una concezione di stampo statualista, in cui gli unici diritti sono quelli riconosciuti unilateralmente dalla volontà del sovrano, che coincide con la volontà dell’ordinamento. Solo per effetto della rivoluzione francese (si pensi alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789) e dell’avvento dello stato liberale di diritto, i diritti, declinati come “diritti di libertà” (si prenda ad esempio paradigmatico la libertà personale, ma lo stesso si può dire per la libertà di domicilio, la
I diritti e le libertà nelle diverse forme di stato
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Dalla concezione negativa dello Statuto Albertino alla concezione positiva della Costituzione repubblicana
Capitolo III
libertà di stampa, il diritto di proprietà), vengono percepiti come il contenuto di una sfera giuridica dell’individuo che preesiste allo Stato e che può essere opposta allo stesso per respingere i tentativi del pubblico potere di intromettersi al suo interno, secondo una concezione che, proprio per questo, si può definire difensiva o oppositivo-garantistica. Con le costituzioni democratico-sociali del secondo dopoguerra, infine, alla tradizionale garanzia dei diritti di libertà come sfera di autonomia dell’individuo si affiancano, da un lato, la tutela dei diritti dei gruppi e delle formazioni sociali (si pensi, a titolo di esempio, alla famiglia), dall’altro, il riconoscimento dei c.d. “diritti sociali” (come il diritto al lavoro, all’istruzione, alla salute: v. infra, par. 5); entrambi – ovvero tutela dei primi e riconoscimento dei secondi – intesi quale mezzo di rimozione delle disuguaglianze e come strumento di partecipazione alla vita della comunità politica. A quest’ultima concezione, che può essere qualificata come democratica, proprio per la finalità che viene assegnata alla tutela delle formazioni intermedie e ai diritti sociali, oltre che ai tradizionali diritti di libertà, si ispira la Costituzione repubblicana. Infatti, mentre lo Statuto Albertino era manifestazione di una concezione difensivo-oppositivo-garantista dei diritti di libertà, incardinata essenzialmente nella garanzia che la legge – uguale per tutti, dal punto di vista formale (cfr. art. 24 Stat. Alb.) – offriva alla sfera di autonomia individuale (concezione negativa o di libertà dallo Stato), la Costituzione repubblicana è, invece, una delle più riuscite espressioni di quella diversa concezione dei diritti (non solo di libertà) che considera il riconoscimento dei «diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» (art. 2 Cost.) come strumentale alla rimozione degli «ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, co. 2, Cost.): una prospettiva, dunque, che vede nella tutela dei diritti e nelle libertà un fondamentale mezzo di realizzazione dell’uguaglianza in senso anche sostanziale e della partecipazione democratica (concezione positiva o di libertà nello Stato). La differenza tra i due modelli di tutela ben si coglie sotto il profilo delle fonti del diritto. Sotto la vigenza dello Statuto Albertino, che in ciò mostrava il suo modo d’essere quale tipica costituzione dello stato liberale di diritto, la legge del Parlamento era il vero perno del sistema, perché ad essa spettava il compito di definire il contenuto e i limiti dei diritti solo formalmente proclamati a livello statutario. Emblematica sul punto era la formulazione dell’art. 28, secondo cui «La Stampa sarà libera, ma una legge ne
I diritti e le libertà
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reprime gli abusi», la quale testimoniava proprio l’idea che il contenuto sostanziale dei diritti fosse rimesso alla discrezionalità del legislatore; il che rappresentava la vera forza e novità dello stato liberale di diritto rispetto allo stato assoluto, in cui, come detto, il contenuto dei diritti era rimesso alla volontà del sovrano, ma anche il grande limite di quel modello: dal punto di vista democratico, poiché il diritto di voto aveva carattere censitario e, quindi, la legge era scarsamente rappresentativa; dal punto di vista delle garanzie, poiché lo Statuto, come visto, era una costituzione flessibile e consegnava alla maggioranza parlamentare l’effettivo grado di tutela dei diritti, esponendo così gli individui anche all’arbitrio di quest’ultima, come avrebbe poi dimostrato l’esperienza del regime fascista, ma ancor prima quella delle leggi di polizia del 1869 e del 1889. In estrema sintesi, allora, si può dire che, in questo contesto, la vera fonte della disciplina dei diritti era la legge. Conseguentemente, chi avesse voluto prendere contezza, ad esempio, dei diritti e dei doveri che il genitore aveva nei confronti dei figli avrebbe trovato le relative norme nel Codice civile del 1865, che per molti aspetti rappresentava quello che rappresenta oggi la Costituzione repubblicana per la disciplina dei rapporti civili, etico-sociali ed economici. Con l’entrata in vigore di quest’ultima, invece, il principio di rigidità costituzionale fa proprio della Costituzione la prima essenziale fonte di disciplina del contenuto e dei limiti dei diritti e delle libertà. Essa, infatti, non si limita più alla solenne, ma esclusivamente formale, proclamazione dei singoli diritti accompagnata da un mero rinvio alla legge per la definizione dei limiti che il loro concreto esercizio incontra, ma introduce un nuovo istituto, che prende il nome di “riserva di legge”, attraverso cui fissa rigorosamente il contenuto normativo che il legislatore dovrà rispettare nel prevedere i «soli casi e modi» (secondo la formulazione paradigmatica di cui all’art. 13, co. 2, Cost.) in cui è possibile la compressione dei diritti, con la conseguenza che il rinvio alla legge non risulta più costruito alla stregua di una “delega in bianco”. L’istituto della “riserva di legge”, dunque, comporta un duplice ordine di divieti: il primo rivolto al Parlamento, che non può introdurre limitazioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle consentite dalla Costituzione (è questo il c.d. principio di tassatività dei limiti); il secondo indirizzato al Governo, che può, con le proprie norme secondarie (cioè i regolamenti: v. infra, Cap. IV, par. 7), prevedere ipotesi limitative dei diritti e delle libertà «nei soli casi e modi previsti dalla legge». Entrambe queste dimensioni della “riserva di legge” rappresentano la reazione dei Costituenti alla degenerazione illiberale che la monarchia sabauda ha conosciuto alla fine del XIX secolo e all’esperienza del regime fascista, perché tutelano l’effettività dei diritti sia nei confronti dei possibili arbitri
La “riserva di legge”
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La “funzione democratica” della riserva di legge
La “funzione garantista” della riserva di legge
Riserva assoluta, relativa e rinforzata
Capitolo III
della maggioranza parlamentare, sia rispetto alle possibili derive autoritarie dell’esecutivo. In particolare, due sono le funzioni che l’istituto assolve nel modello di tutela definito dalla Costituzione repubblicana. La prima è quella che si tematizza attraverso la locuzione “funzione democratica”, attraverso cui si mette in luce che la riserva esclusiva al legislatore, cioè all’organo eletto a suffragio universale e diretto, della competenza a disciplinare i «soli casi e modi» in cui è ammessa la limitazione dei diritti rende non autoritaria la percezione di tali compressioni da parte di chi le subisce perché, appunto, frutto della volontà di un organo che egli stesso ha contribuito ad eleggere e di cui, in una certa misura, sente proprie le scelte discrezionali (riecheggia qui la massima kantiana della Pace perpetua, secondo cui volenti non fit iniuria). La seconda è quella che si esprime attraverso la concorrente formula della “funzione garantista”, la quale evidenzia che il soggetto che si assume leso nella titolarità di una posizione giuridica soggettiva costituzionalmente tutelata trova nella legge, che definisce nel rispetto della Costituzione i «soli casi e modi» in cui tale limitazione è ammessa, il parametro sulla cui base chiedere al giudice se il singolo atto lesivo sia, in concreto, legittimo o meno e, nel secondo caso, ottenere la rimozione della lesione o, quando quest’ultima non sia possibile, il risarcimento del danno subito. Si è soliti distinguere tre tipi di riserva di legge. Si ragiona di riserva di legge assoluta quando la Costituzione preclude ogni spazio all’intervento delle fonti secondarie del Governo, di talché tutta la disciplina dei «soli casi e modi» in cui è ammessa la limitazione dei diritti e delle libertà è rimessa al legislatore e sono ammissibili regolamenti solo di stretta esecuzione della legge (ad esempio, artt. 13 e 14 Cost.). Si discorre, invece, di riserva relativa nei casi in cui la Costituzione riserva alla legge la disciplina dei principi della materia, con la conseguenza che alle fonti secondarie è consentito dettare la normativa attuativa e integrativa di detti principi (secondo la giurisprudenza costituzionale, è il caso delle riserve di cui agli artt. 23 e 97, co. 2, Cost., attraverso formule come «se non in base alle legge» o «secondo disposizioni di legge»). Infine, una terza tipologia è rappresentata dalle riserve rinforzate, che ricorrono quando è la stessa disposizione costituzionale a predeterminare in parte quali sono i casi e i modi in cui il legislatore può prevedere una misura limitativa (è il caso, ad esempio, della libertà di circolazione e soggiorno, in relazione alla quale un’eventuale legge limitativa può intervenire solo «per motivi di sanità o di sicurezza»: cfr. art. 16, co. 1, Cost.). Oltre che sul piano delle fonti (ruolo e significato di costituzione e legge), il modello di tutela dei diritti e delle libertà accolto dai Costituen-
I diritti e le libertà
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ti del 1948 si caratterizza – ed in ciò si distingue da quello previgente dello Statuto Albertino – per due ulteriori profili. Il primo è quello che deriva dall’istituto della riserva di giurisdizione, in forza del quale nessuna limitazione dei diritti è ammessa – per usare ancora la formula dell’art. 13, co. 2, Cost. – «se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria», a significare che l’applicazione dei limiti definiti dal legislatore alle singole fattispecie concrete è riservata al giudice e deve avvenire con le garanzie proprie della giurisdizione (v. infra, Cap. IX, par. 5), con la conseguenza che essa è interdetta all’autorità amministrativa. È il caso di sottolineare al riguardo che tale istituto viene ad assumere un significato assai più pregnante di quanto non avvenisse sotto la vigenza dello Statuto Albertino non solo per effetto dei diritti e delle garanzie riconosciute alle parti all’interno dei giudizi, ma anche perché la Costituzione repubblicana ha trasformato la magistratura in un potere indipendente rispetto al Governo (v. infra, Cap. IX, par. 4). Una seconda significativa novità che la Costituzione introduce rispetto al modello di tutela dei diritti tipico dello stato liberale ottocentesco dipende, infine, dall’apertura alla tutela internazionale derivante dagli artt. 10 e 11 Cost. (v. infra, Cap. V, par. 1). L’ingresso del diritto internazionale nel campo della tutela dei diritti dell’uomo rappresenta, infatti, un fenomeno nuovo che si è sviluppato a partire dal secondo dopoguerra, perché tradizionalmente quella dei diritti era considerata una “materia” rientrante nel c.d. “dominio riservato” degli Stati, gli unici soggetti del diritto internazionale, considerato alla stregua di una comunità degli Stati, e gli unici in grado di concedere diritti ai propri cittadini, secondo il modello tipico della costituzione ottriata o concessa. La tutela internazionale dei diritti prende le mosse dall’approvazione da parte dell’Assemblea generale dell’ONU della «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» del dicembre del 1948, cui hanno fatto, poi, seguito, il «Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali» e il «Patto internazionale sui diritti civili e politici», entrambi del 1966 e resi esecutivi in Italia con la legge n. 881/1977. Questi e molti altri atti internazionali hanno carattere essenzialmente programmatico perché si limitano ad impegnare gli Stati nell’assicurare adeguata tutela ai diritti e alle libertà che prevedono, senza, però, stabilire specifici meccanismi sanzionatori. Nel continente europeo, invece, contengono specifici strumenti di tutela e non mere proclamazioni formali di impegni due “Carte”, presidiate da altrettante “Corti”, la cui considerazione è essenziale per comprendere come funziona la tutela costituzionale delle posizioni soggettive nel c.d. “sistema di tutela multilivello dei diritti fondamentali”, ovvero all’interno di quello spazio giuridico europeo in cui si trovano ad operare più
La riserva di giurisdizione
La tutela internazionale (artt. 10 e 11 Cost.)
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La Cedu
Capitolo III
giudici, appartenenti ad ordinamenti diversi e “in dialogo” tra loro per effetto delle proprie giurisprudenze. La prima è la «Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (Cedu), sottoscritta a Roma nel 1950 dagli Stati membri del Consiglio d’Europa, cui sono seguiti numerosi Protocolli addizionali. Essa, dopo l’approvazione del Protocollo di Strasburgo del 1994, affida la garanzia dei diritti enunciati al suo interno ad un giudice speciale, la Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU), con sede a Strasburgo, composta da un numero di componenti pari al numero degli Stati contraenti (ad oggi 46), la quale decide in via definitiva le controversie instaurate dai ricorrenti (che possono essere sia gli Stati contraenti, sia le persone fisiche o i gruppi di privati) nei confronti degli Stati che non hanno rispettato il livello minimo di tutela che la Cedu impone. Infatti, ai sensi dell’art. 53 Cedu, è sempre ammessa la tutela ulteriore che gli Stati contraenti dovessero prevedere attraverso le proprie costituzioni e leggi nazionali. La tutela c.d. “convenzionale” ha carattere sussidiario perché, ai sensi dell’art. 35 Cedu, ci si può rivolgere alla Corte europea solo dopo aver inutilmente esperito tutti i rimedi giurisdizionali interni, essendo altrimenti il ricorso irricevibile. In caso di accertata violazione della Convenzione, la Corte europea condanna lo Stato contraente ad eliminare le conseguenze di tale violazione (restitutio in integrum) e, se ciò non è possibile, assicura al ricorrente un’equa soddisfazione, ovvero un equo risarcimento del danno subìto (art. 41 Cedu). Nel nostro ordinamento le potenzialità di tutela derivanti dalla Cedu sono state notevolmente ampliate per effetto dell’introduzione, con la legge cost. n. 3/2001 (su cui v. infra, Cap. VII, par. 3), del nuovo testo dell’art. 117, co. 1, Cost., il quale impone non solo alla legge regionale, ma anche a quella dello Stato, di rispettare i «vincoli derivanti […] dagli obblighi internazionali», come lo sono quelli che derivano dalla stipulazione e ratifica di un trattato internazionale come la Cedu. Ne deriva, infatti, come anticipato a proposito delle fonti internazionali (v. supra, Cap. II, par. 3), che l’eventuale contrasto tra una legge interna e la Cedu determina una questione di legittimità costituzionale che può essere sollevata all’interno di ogni giudizio (v. infra, Cap. V, par. 2). Al riguardo, la Corte costituzionale, con due storiche sentenze (sentt. nn. 348 e 349/2007, cui adde la n. 39/2008 e le nn. 311 e 317/2009), ha chiarito come deve agire il giudice comune che dubiti della conformità della norma interna rispetto a quella della Cedu. Egli deve, preliminarmente, tentare di risolvere il dubbio in via interpretativa assegnando alla norma interna un significato compatibile con la Convenzione e con l’interpretazione che di essa fornisce la Corte di Strasburgo con la sua giurisprudenza (obbligo di interpretazione conforme) e, ove ciò non risulti possibile,
I diritti e le libertà
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deve sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto indiretto con il nuovo parametro costituzionale previsto dal citato art. 117, co. 1, Cost. La Corte costituzionale, infatti, in detto ultimo caso, non controllerà la legittimità costituzionale della legge con riferimento diretto ad una norma costituzionale, ma in relazione alla norma della Cedu che si assume violata e il cui rispetto integra un obbligo internazionale ai sensi dell’art. 117, co. 1, Cost. Si parla in tal caso delle norme della Cedu come “norme interposte” nel giudizio di costituzionalità, proprio per evidenziare che esse si “mettono tra” l’art. 117, co. 1, Cost. e la legge interna per riempire di contenuto l’obbligo di rispettare i vincoli internazionali che grava sul legislatore. Con le medesime sentenze, inoltre, la Corte ha chiarito che, a causa della collocazione intermedia che le norme Cedu assumono nel sistema delle fonti tra la Costituzione e le leggi, essa, prima di controllare se la legge è conforme alla Cedu, deve sindacare se la norma della Cedu invocata come parametro interposto sia conforme alla Costituzione, per evitare che una legge venga dichiarata incostituzionale per contrasto con una norma convenzionale, a sua volta, contrastante con la Costituzione. La seconda “Carta” che costituisce pilastro della c.d. “tutela multilivello” è la «Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea», proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e dotata di efficacia giuridica per effetto del Trattato di Lisbona, che le ha conferito «lo stesso valore giuridico dei trattati» (art. 6 TUE). La Carta contiene un analitico e dettagliato catalogo di diritti di cui ogni cittadino UE può chiedere tutela dinnanzi al Tribunale dell’Unione europea e, in secondo grado, alla Corte di giustizia, la quale ha sede a Lussemburgo ed è composta da 27 giudici (uno per Stato membro, in modo da rappresentare tutti gli ordinamenti giuridici nazionali dell’UE) e da 11 avvocati generali, sia gli uni che gli altri designati di comune accordo dai governi degli Stati membri per un mandato di sei anni rinnovabile. La Corte di giustizia, in applicazione dei diritti e delle libertà tutelati dalla Carta, giudica: a) sui ricorsi con cui uno Stato membro, una persona fisica o giuridica o una istituzione UE chiede l’annullamento di un atto presumibilmente contrario al diritto dell’Unione (art. 263 TFUE); b) sui ricorsi con cui i medesimi ricorrenti si lamentino che un’istituzione, un organo o un organismo UE si sia astenuto dal pronunciarsi (art. 265 TFUE); c) sulle questioni di interpretazione o di validità del diritto dell’Unione sollevate dalle autorità giurisdizionali nazionali che si trovino ad applicare il diritto UE (art. 267 TFUE). La Carta, inoltre, gioca un ruolo fondamentale nel sistema di tutela dei diritti fondamentali in considerazione degli obblighi che gravano sul giudice comune per effetto dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento UE (v. supra, Cap. II, par. 3, e infra, Cap. V, par. 6). In partico-
Le norme della Cedu come norme interposte
La Carta dei diritti fondamentali dell’UE
I rapporti tra ordinamento interno e ordinamento UE
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Capitolo III
lare, il giudice italiano, a tutela dei diritti riconosciuti dal diritto UE, deve: a) disapplicare (rectius, non applicare v. infra, Cap. V, par. 6) la norma interna che contrasta con le norme della Carta che abbiano effetto diretto; b) applicare direttamente la Carta come regola del caso concreto; c) interpretare il diritto interno alla luce della Carta. L’ambito di applicazione della Carta è definito da alcune sue norme che contengono le c.d. “clausole orizzontali”. L’art. 51, in particolare, afferma che le norme della Carta si applicano agli Stati membri «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione» e che essa «non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione». Il successivo art. 52, invece, stabilisce che, ove la Carta contiene diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Cedu, «il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione» (co. 3) e che «laddove la […] Carta riconosca i diritti fondamentali quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, tali diritti sono interpretati in armonia con dette tradizioni» (co. 4). Ancora, l’art. 53 prevede che nessuna norma della Carta può essere interpretata come limitativa dei diritti garantiti dalla Cedu o dalle Costituzioni nazionali. La Carta, dunque, mira, per un verso, a non alterare il riparto di competenze tra l’Unione e gli Stati membri, per l’altro, a creare un sistema integrato di tutele tra il livello nazionale, quello europeo e quello convenzionale, che si ispiri al principio della massima espansione dei diritti riconosciuti nello spazio giuridico europeo (principio dell’interpretazione magis ut valeant delle libertà fondamentali). Una variabile estremamente significativa della possibile evoluzione di questo “sistema multilivello” è rappresentata dall’adesione dell’Unione alla Cedu, prevista dal Trattato di Lisbona (art. 6, co. 2, TUE), che sottoporrà la prima (e tutte le sue istituzioni, compresa la Corte di giustizia) all’obbligo di rispettare il livello minimo di tutela dei vari diritti previsto dalla seconda. Ad oggi, però, il processo di adesione ha subito un traumatico arresto per effetto del parere 2/2013 della Corte di giustizia, la quale ha affermato che l’obbligo per l’Unione di rispettare il livello di tutela minimo previsto dalla Cedu si porrebbe in contrasto con il principio di supremazia del diritto dell’Unione in tutti quei casi in cui gli Stati membri UE dovessero prevedere, per un determinato diritto, un livello di tutela superiore a quello dell’Unione. Infatti, questo livello di tutela ulteriore, compatibile con la Cedu, che, come detto, ha carattere sussidiario, prevarrebbe su quello inferiore previsto dal diritto UE, pregiudicando così la sua omogenea applicazione negli Stati membri. Anche, ma non soltanto per effetto della proiezione ultrastatale della tutela dei diritti, si è, dunque, definitivamente affermata nell’ordinamen-
I diritti e le libertà
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to costituzionale l’interpretazione dell’art. 2 Cost. come “clausola aperta”, ovvero come norma che non limita il catalogo dei «diritti inviolabili» ai soli diritti sanciti espressamente dalla Costituzione, come pure potrebbe pensarsi alla stregua di un criterio di interpretazione letterale perché lo stesso art. 2 afferma che la Repubblica «riconosce» i diritti, come se appunto quelle ad essere tutelate fossero solo le posizioni soggettive analiticamente indicate dalla Costituzione. Infatti, per effetto non solo delle Carte internazionali e sovranazionali dei diritti, ma anche delle scelte del legislatore e, soprattutto, dell’elaborazione della giurisprudenza costituzionale e comune, si sono affermati all’interno dell’ordinamento costituzionale “nuovi” diritti, come l’obiezione di coscienza, la privacy, il diritto all’ambiente, il diritto ad essere informati, il diritto all’abitazione, il diritto all’aborto, il diritto alla partecipazione nei procedimenti amministrativi.
2. Le libertà civili: la libertà personale Il Titolo I della Parte I della Costituzione si apre con la disciplina dei «Rapporti civili» (artt. 13-28 Cost.) e, segnatamente, con l’art. 13 Cost., in materia di libertà personale, di cui si è già sottolineato il carattere paradigmatico rispetto ai due istituti di garanzia della riserva di legge e della riserva di giurisdizione, che appunto assistono anche i diritti e le libertà disciplinati dalle successive previsioni costituzionali. L’affermazione dell’inviolabilità della libertà personale (co. 1), infatti, è accompagnata dall’individuazione delle misure limitative ammissibili (ovvero la detenzione, l’ispezione e la perquisizione personale) e dal divieto di praticarle «se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge»; garanzie che si applicano, secondo una formula di chiusura, anche a «qualsiasi altra restrizione della libertà personale» (co. 2). Proprio in materia di libertà personale, del resto, si comprende con particolare chiarezza come la riserva in capo al giudice di provvedere all’applicazione dei provvedimenti restrittivi della libertà con «atto motivato» sia funzionale al duplice obiettivo di consentire al soggetto sottoposto a misura restrittiva, da un lato, di esercitare il diritto alla difesa giurisdizionale (cfr. art. 111, co. 7, Cost., secondo cui «contro i provvedimenti sulla libertà personale […] è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge»), che sarebbe impossibile se non vi fosse una motivazione in fatto e in diritto da poter censurare con il gravame proposto, dall’altro, di prendere contezza delle ragioni dell’applicazione dell’eventuale pena detentiva perché essa possa svolgere la sua necessa-
L’art. 2 Cost. come clausola aperta
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Il fermo e l’arresto: le misure precautelari
Le misure cautelari
Le misure di sicurezza
Capitolo III
ria funzione rieducativa (art. 27, co. 3, Cost., su cui v. infra, in questo paragrafo). Solo «in casi eccezionali di necessità ed urgenza», anch’essi indicati tassativamente dal legislatore, il successivo co. 3 consente all’autorità di pubblica sicurezza di «adottare provvedimenti provvisori», che, per consentire comunque l’operatività della riserva di giurisdizione, devono essere comunicati entro 48 ore all’autorità giudiziaria e da questa convalidati nelle successive 48 ore, pena l’immediata perdita di efficacia della misura. Si tratta degli istituti del fermo e dell’arresto in flagranza di reato, per i quali il “nuovo” codice procedura penale del 1988 (c.d. “Codice Vassalli”) ha previsto una disciplina più garantista di quella dell’art. 13 Cost., di cui ha dimezzato i termini stabilendo che il soggetto privato della libertà personale venga posto a disposizione del pubblico ministero entro 24 ore, unitamente al verbale applicativo della misura (art. 386, co. 3, c.p.p.). Il fermo e l’arresto – le cui garanzie sono state rafforzate dal diritto dell’UE con l’introduzione del c.d. mandato di arresto europeo per i casi in cui ciascuno Stato membro dia esecuzione alla decisione giudiziaria assunta da altro Stato membro (cfr. legge n. 69/2005, adottata in esecuzione della decisione quadro 2002/584/GAI) – sono comunemente definite dalla dottrina come “misure precautelari”, in quanto disposte in un momento antecedente e strumentale rispetto all’adozione delle “misure cautelari” applicate dal giudice, su richiesta del pubblico ministero, quando ricorrono gravi indizi di colpevolezza (art. 273 c.p.p.) e si ravvisino le c.d. esigenze cautelari (pericolo di reiterazione del reato, di inquinamento delle prove, di fuga: cfr. art. 274 c.p.p.). In attuazione delle garanzie costituzionali e innovando rispetto al sistema previgente (quello del “Codice Rocco” del 1930), il codice del 1988 ha introdotto una serie di garanzie nell’applicazione delle misure cautelari, riservando al giudice (e non al pubblico ministero, che le richiede) l’applicazione dei provvedimenti restrittivi della libertà personale, definendone, come già detto, i presupposti in maniera tassativa (anche in relazione ai vari tipi di reato), affermando il principio della necessaria gradualità delle misure (per cui la custodia cautelare in carcere rappresenta una extrema ratio, cui si può ricorrere quando le altre – ad esempio, divieto di espatrio, obbligo di firma, arresti domiciliari – non sono sufficienti a soddisfare le esigenze cautelari), introducendo un regime di impugnazione (il c.d. “riesame” davanti all’apposito Tribunale) e riconoscendo il diritto ad un’equa riparazione anche per la detenzione subita in via preventiva (oltre che per quella applicata in esecuzione delle condanne definitive a pena detentiva). Diverse dalle misure “precautelari” e “cautelari” sono le c.d. “misure di sicurezza”, provvedimenti limitativi della libertà personale tradizio-
I diritti e le libertà
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nalmente considerati alla stregua di sanzioni amministrative, ma la cui afflittività è pari a quella delle pene. Esse si distinguono in due categorie: le misure di sicurezza post delictum e le misure ante delictum o misure di prevenzione. Le prime sono applicate nei confronti di soggetti, indiziati o condannati, che hanno comunque già commesso dei reati e che sono considerati socialmente pericolosi. Le seconde, invece, pur richiedendo sempre l’accertamento della pericolosità sociale, prescindono dall’affermazione della responsabilità penale. La Costituzione si limita a prevedere soltanto le prime, imponendo il rispetto della riserva di legge (art. 25, co. 3, Cost.) e tale circostanza rende particolarmente problematica la compatibilità costituzionale delle seconde, atteso che la medesima Costituzione afferma il principio di non colpevolezza, in forza del quale nessuno «è considerato colpevole sino alla condanna definitiva» (art. 27, co. 2, Cost.). Da tale norma, infatti, dovrebbe discendere il divieto di misure, quali quelle di prevenzione, che limitano la libertà personale (ma anche della libertà di circolazione e soggiorno) non come conseguenza dell’accertamento della responsabilità penale dei soggetti socialmente pericolosi, ma sulla base della presunzione che tali individui siano inclini a commettere dei reati. La Corte costituzionale, però, ha considerato tali misure costituzionalmente legittime riconducendo la loro finalità c.d. “special preventiva” (diversa da quella “general preventiva” perseguita dalle pene) all’obbligo costituzionale implicito che graverebbe sull’ordinamento non solo di reprimere, ma anche di prevenire la commissione dei reati (cfr. sentt. nn. 2 e 11/1956). L’attrito di tale istituto con la Costituzione repubblicana è stato, comunque, in buona parte smussato per effetto della disciplina introdotta con i dd.llgs. n. 159/2011 e n. 218/2012, i quali hanno previsto la riserva al giudice del potere di applicare le misure in questione (con l’eccezione del c.d. “foglio di via obbligatorio”, applicabile dal Questore e che comporta il divieto di ritorno nel Comune da cui si è allontanati per tre anni), hanno contenuto la durata nel tempo delle limitazioni applicabili (da 1 a 5 anni per le misure personali, di cui si dirà appresso) e hanno definito in maniera più puntuale i presupposti che ne giustificano l’adozione. In particolare, è oggi previsto che siano applicabili solo nei confronti di coloro che sono «abitualmente dediti a traffici delittuosi», di coloro che «per la loro condotta ed il tenore di vita debba ritenersi che vivano abitualmente con i proventi di attività delittuose» o di coloro che «per il loro comportamento debba ritenersi che siano dediti alla commissione di reati che offendono o mettono a repentaglio l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica» o che, infine, partecipino ad associazioni criminali di tipo mafioso o abbiano compiuto atti preparatori di atti terroristici ovvero atti preordinati alla ricostituzione del partito fascista.
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Misure di prevenzione personali
Misure di prevenzione patrimoniali
La finalità rieducativa delle pene
Capitolo III
Dal punto di vista contenutistico le misure di prevenzione possono essere di due tipologie: misure personali e misure patrimoniali. Oltre al foglio di via obbligatorio, hanno carattere personale la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, che comporta l’applicazione di una serie di limitazioni e di obblighi, il divieto di soggiorno in uno o più Comuni o Province, l’obbligo di dimora e il c.d. “Daspo”, introdotto con il d.l. n. 8/2007, conv. in legge n. 41/2007, consistente nel divieto di accedere ai luoghi nei quali si tengono eventi sportivi ed applicabile anch’esso dal Questore nei confronti dei soggetti indiziati di aver preso parte a manifestazioni di violenza negli stadi (d.l. n. 8/2007, conv. in legge n. 41/2007). Sono, invece, misure di prevenzione a carattere patrimoniale il sequestro dei beni che possano essere il frutto di attività illecite o abbiano valore sproporzionato al reddito dichiarato, la confisca dei beni sequestrati di cui il soggetto, sottoposto a procedimento, non sia in grado di dimostrare la legittima provenienza e il divieto di ottenere (o la revoca) di finanziamenti e agevolazioni, autorizzazioni e concessioni, patenti e iscrizioni ad Albi professionali di appaltatori e costruttori. In relazione al trattamento detentivo, il quadro delle garanzie di cui all’art. 13 Cost. è, poi, arricchito di due ulteriori previsioni: la prima è quella di cui al co. 4, che vieta «ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà»; la seconda è quella del co. 5, secondo cui spetta alla legge stabilire i limiti massimi della carcerazione preventiva, ossia della misura cautelare rappresentata dalla custodia cautelare in carcere (limiti stabiliti dal codice di rito in relazione alle varie fasi del procedimento e del processo penale – indagini, udienza preliminare, dibattimento, giudizio di appello, giudizio in cassazione – e alle varie tipologie di reati, classificati in base alla pena irrogabile con la condanna). Il novero delle garanzie costituzionali delle limitazioni della libertà personale derivanti dall’esecuzione della sentenza penale di condanna definitiva è completato dalle due previsioni di cui all’art. 27, co. 3, Cost., ai sensi del quale «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità» e «devono tendere alla rieducazione del condannato». In particolare, la funzione necessariamente rieducativa della pena spiega anche il divieto della pena di morte di cui al successivo co. 4, che, nell’originario testo della Costituzione, faceva salvi i casi previsti dalle leggi militari di guerra attraverso un inciso poi abrogato dalla legge cost. n. 1/2007. Un fondamentale contributo all’effettività del valore rieducativo della pena è venuto dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale, per un verso, ha dichiarato l’illegittimità delle leggi di esecuzione di trattati di estradizione (che, ai sensi dell’art. 26 Cost., è possibile soltanto ove sia espressamente prevista dalle con-
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venzioni internazionali e mai per reati politici) verso Paesi il cui ordinamento penale prevede la pena di morte (cfr. sentt. n. 54/1979 e n. 223/1996), per l’altro, ha chiarito (senza ancora giungere ad una dichiarazione di incostituzionalità) che non è conforme all’art. 27, co. 3, Cost. il regime penitenziario del c.d. “ergastolo ostativo”, ossia la pena detentiva non solo perpetua, ma che non consente nemmeno di essere ammessi a fruire di alcuni benefici penitenziari come la liberazione condizionale o anticipata (ord. n. 97/2021). Altro aspetto problematico della vigente disciplina della libertà personale è quello che riguarda le norme limitative previste dall’ordinamento per la gestione degli immigrati irregolarmente presenti nel territorio nazionale, nei cui confronti è pacifica l’operatività delle garanzie di cui all’art. 13 Cost. (Corte cost., sent. n. 105/2001). In particolare, il d.lgs. n. 286/1998 (c.d. “TU sull’immigrazione”), come integrato dalla legge n. 189/2002 e da successive e ripetute modifiche, ha introdotto un meccanismo che ha sollevato rilevanti dubbi di legittimità costituzionale in quanto basato sul trattenimento in un centro di permanenza temporanea ai fini dell’identificazione e sull’espulsione amministrativa. Questo sistema è stato giudicato conforme a Costituzione dalla Corte costituzionale, che ha, però, affermato, l’esigenza che sia pienamente consentito il controllo giurisdizionale sulle misure limitative della libertà personale degli immigrati; principio rispetto al quale alcuni profili della disciplina continuano a stridere, in particolare quelli relativi ai termini molto brevi previsti per la richiesta di tutela giurisdizionale e alla immediata esecutività del decreto di espulsione impugnato, che incidono entrambi negativamente sull’effettività della tutela somministrabile dal giudice. Non minori problemi di compatibilità costituzionale sollevano le ulteriori modifiche introdotte con la legge n. 94/2009, che ha previsto, tra le altre cose, la qualificazione come reato dell’ingresso e del soggiorno dello straniero in Italia in violazione delle norme contenute nel testo unico e ha consentito al Questore, senza la previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria, di procedere all’espulsione immediata dei soggetti denunziati per tale fattispecie di reato; disciplina ancora una volta considerata conforme a Costituzione dalla Corte con la sent. n. 250/2010. Analoghe considerazioni valgono per le ulteriori misure adottate dal d.l. n. 113/2018, il quale prevede numerose misure restrittive, tra cui l’ampliamento da 90 a 180 giorni del periodo massimo di trattenimento dello straniero nei rinominati «Centri di permanenza per i rimpatri».
Libertà personale e status di straniero irregolare
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Capitolo III
2.1. (segue): le libertà di domicilio, di corrispondenza e di circolazione e soggiorno
La nozione di domicilio accolta dalla Costituzione
Il modello di tutela che si ricava dall’art. 13 Cost., basato sulla riserva di legge e sulla riserva di giurisdizione, trova applicazione anche con riferimento alla libertà del domicilio, che l’art. 14, co. 1, Cost., definisce, esattamente come l’art. 13, co. 1 fa per la libertà personale, «inviolabile». Il co. 2 stabilisce, infatti, che non si possono eseguire ispezioni, perquisizioni o sequestri presso il domicilio «se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale», da cui si ricava che in casi eccezionali può provvedere direttamente l’autorità di pubblica sicurezza, salva sempre la successiva convalida da parte del giudice. La comune qualificazione di diritto inviolabile e l’assoggettamento al medesimo regime della libertà personale dimostra come il domicilio oggetto della tutela costituzionale sia la proiezione nello spazio della libertà fisica dagli arresti ed integri, pertanto, una nozione più ampia tanto di quella civilistica, che considera il domicilio come la sede prevalente degli interessi della persona (come tale distinta dalla residenza, che è il luogo in cui il soggetto è stabilmente presente, cfr. art. 43 c.c.), quanto di quella penalistica, che assume ad oggetto di tutela la dimora privata (art. 614 c.p.). Una nozione che, sulla scorta di alcune pronunce della Corte costituzionale (sentt. n. 88/1987 e n. 135/2002), può esser così riassunta: qualunque spazio isolato dall’ambiente esterno legittimamente e attualmente adibito allo svolgimento delle mansioni della vita e dal quale il soggetto o i soggetti titolari intendano normalmente escludere la presenza dei terzi. Il successivo co. 3, invece, prevede che «gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali». Secondo la dottrina prevalente, questa previsione deve essere interpretata come una deroga al regime della riserva di giurisdizione, ovvero come norma legittimante anche provvedimenti limitativi (ispezioni, perquisizioni e sequestri) dell’autorità amministrativa (ad esempio, quella sanitaria o tributaria) non assistiti dall’autorizzazione preventiva o successiva (convalida) del giudice. E ciò sulla base del rilievo che, nelle fattispecie in esame, diverso potrebbe essere il bilanciamento tra l’interesse privato alla tutela dell’inviolabilità del domicilio e l’esigenza pubblica di procedere agli accertamenti e alle ispezioni (ma non alle perquisizioni e ai sequestri), perché, da un lato, verrebbero in considerazione interessi pubblici particolarmente pressanti (come quelli sanitari o fiscali), dall’altro, il domicilio rileverebbe prevalentemente come centro degli interessi economici e non personali/familiari dell’individuo.
I diritti e le libertà
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L’art. 15, co. 1, Cost. predica la prerogativa dell’inviolabilità anche della libertà e della segretezza «della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione» e anche in relazione ad esse il co. 2 stabilisce le garanzie della riserva di legge e della riserva di giurisdizione. Anche in questo caso l’identità di regime con la libertà personale si comprende in funzione del carattere strumentale e servente che la libertà e la segretezza della corrispondenza svolgono rispetto alla libertà dell’individuo, di cui rappresentano, potrebbe dirsi, la proiezione relazionale, ovvero la dimensione comunicativa che mette le persone le une in rapporto con le altre. Come nel caso del domicilio, la nozione costituzionale assunta a base della tutela è più ampia di quanto il riferimento al tradizionale mezzo di comunicazione rappresentato dalla «corrispondenza» – quella epistolare, telegrafica e telefonica che i Costituenti avevano di fronte – potrebbe far ritenere, come testimonia il richiamo espresso ad «ogni altra forma di comunicazione». Tale formula, infatti, ha reso la previsione costituzionale aperta a tutte le innovazioni tecnologiche che l’ordinamento delle comunicazioni, soprattutto elettroniche, ha conosciuto nel passaggio dei decenni, per cui si può considerare pacifico che la garanzia costituzionale si estenda oggi anche alle nuove forme di comunicazione che si sviluppano all’interno della rete Internet e che vengono offerte dai fornitori dei servizi di connettività e dagli sviluppatori di applicazioni software, come la posta elettronica, i servizi di messaggistica istantanea o quelli integrati nei Social Networks. La derivante ampiezza della nozione costituzionale di «forma di comunicazione» finisce, conseguentemente per trovare un limite solo nell’esistenza di uno specifico regime di tutela e di limiti costituzionali per quelle espressioni comunicative dell’individuo che rientrano nella diversa libertà di manifestazione del pensiero (cfr. art. 21 Cost., su cui infra, par. 2.2). Proprio il contesto della rete Internet consente di comprendere come non sia sempre facile distinguere queste due libertà. Infatti, il tradizionale criterio ancorato al novero determinato o determinabile dei destinatari della comunicazione, che farebbe propendere per l’inquadramento dell’attività comunicativa nel quadro della libertà dell’art. 15 Cost. (e, ove i destinatari non siano determinati per la ricorrenza della libertà di cui all’art. 21 Cost.) diventa scarsamente fruibile nell’ambito della rete. Si pensi, ad esempio, alle pay TV, allo streaming, alla televisione interattiva, ai post sui Social Networks in cui ciascuno di noi esprime le proprie opinioni o, ancora, alle mailing-lists c.d. “aperte”, ai newsgroups, alle chat-lines, alle videoconferenze ad accesso libero, etc. Ci si può, infatti, chiedere se questi tipi di attività di comunicazione, per il loro carattere per così dire personalizzato, rientrino nell’ambito della libertà di corrispondenza o della libertà di libera manifestazione del pensiero, in ragione del contenuto del
La libertà e segretezza della corrispondenza
Il nuovo concetto di “forma di comunicazione”
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La matrice unitaria della tutela nelle nuove forme di comunicazione
Capitolo III
messaggio (informazione o opinione) che, ancorché ricevuto da una cerchia limitata di soggetti, è concepito non per un destinatario indeterminato. Si tratta, con ogni evidenza, di una questione non meramente formale o nominalistica perché le conseguenze della sussunzione della concreta fattispecie in una libertà piuttosto che nell’altra sono rilevanti: solo il diritto costituzionale alla segretezza della corrispondenza di cui all’art. 15 Cost., infatti, non incontra limiti di contenuto ed è assistito dalla garanzia della segretezza, mentre la libertà di manifestazione del pensiero è caratterizzata (lo si dirà meglio infra), dall’esistenza di una serie di limiti espliciti (il buon costume) o riconducibili ad altri interessi costituzionalmente protetti (quali l’onore, la riservatezza, l’identità personale, la sicurezza dello Stato, la buona amministrazione della giustizia, etc.). L’indirizzo prevalente in dottrina e in giurisprudenza è quello che valorizza soprattutto l’elemento soggettivo, inteso come volontà di selezionare nell’ambito di un pubblico indifferenziato un numero definito di destinatari del messaggio comunicativo infungibili (in quanto scelti a priori sulla base di determinate caratteristiche); elemento al cui accertamento concorre la scelta di un particolare mezzo di trasmissione che consenta di realizzare la suddetta selezione. È sulla base di questa impostazione che, riprendendo gli esempi fatti, mentre devono ritenersi ricomprese nell’ambito dell’art. 21 Cost. sia le pay TV che la televisione interattiva, così come i c.d. newsgroups aperti e le mailing-lists aperte, i post sui Social Networks (quando le impostazioni di privacy consentono ad essi di essere visti da tutti gli utenti), ossia quelle forme che consentono comunicazioni tra un numero ampio di soggetti, non delimitato dalla necessità di avere il proprio indirizzo inserito in un’apposita lista, vanno invece inquadrate nell’ambito delle attività comunicative coperte dall’art. 15 Cost. le mailing-lists chiuse e le videoconferenze riservate ad un numero limitato di persone. Ma, al di là di questi problemi più specifici, seppure di rilievo non certo secondario, il venir meno nei più moderni mezzi di comunicazione di una linea di confine certa tra corrispondenza intersoggettiva e attività comunicative di tipo diffusivo ha spinto parte della dottrina a chiedersi se oggi non si imponga una lettura combinata delle due disposizioni costituzionali in grado di ricomprendere in un disegno organico ed omogeneo l’insieme delle attività di comunicazione sociale oggi rese possibili. Più in particolare, proprio muovendo dalla considerazione delle caratteristiche che presentano quelle forme comunicative che si collocano su un terreno di interferenza tra le due libertà costituzionali in questione, della pluralità di funzioni cui esse assolvono, si è proposta una interpretazione delle due disposizioni costituzionali che le riconduce ad un’unica matrice (quella di assicurare a tutti la libertà di comunicare ad altri il proprio
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pensiero attraverso qualunque mezzo; quella che è chiamata libertà della comunicazione) differendo il grado di tutela essenzialmente in ragione delle concrete modalità comunicative prescelte, idonee o meno a trasmettere messaggi informativi a singoli o alla generalità (verifica questa da farsi caso per caso e non determinabile a priori). Quanto al contenuto della disciplina costituzionale della comunicazione (come detto, di cui all’art. 15 Cost.), va osservato che libertà e segretezza, pur rappresentando due aspetti strettamente connessi perché, in termini generali, la corrispondenza può dirsi libera in quanto ne sia assicurata la segretezza, possono essere oggetto di violazioni differenti e non necessariamente contemporanee. Si pensi, ad esempio, al caso dell’apertura di una corrispondenza epistolare da parte di chi non è il destinatario, che non inficia la libertà che il mittente ha avuto nello scrivere. L’esempio appena proposto consente anche di chiarire che la tutela costituzionale si riferisce allo stesso modo alle due posizioni soggettive, quella del mittente e quella del destinatario, per cui ad essere garantita è la libertà di ognuno di comunicare con gli altri, sia come autore che come destinatario delle comunicazioni. La tutela costituzionale è destinata ad operare innanzitutto nei confronti dei pubblici poteri ed è in questo campo che si pongono le questioni più delicate. Emblematico il caso delle intercettazioni telefoniche e informatiche (ossia quelle realizzate attraverso applicazioni di captazione installate in computer, tablet e telefoni) disposte dall’autorità inquirente nell’ambito delle indagini giudiziarie per l’accertamento delle responsabilità penali connesse al compimento di reati. Le intercettazioni rientrano a pieno titolo tra i cosiddetti “atti di indagine” e sono soggette al regime della segretezza di cui all’art. 329 c.p.p. Ciò nonostante, la gestione del materiale raccolto porta all’indebita pubblicazione di stralci delle comunicazioni di ignari cittadini che apprendono così dagli organi di stampa non solo di essere stati intercettati, ma anche di essere indagati, senza che sia loro riconosciuto alcun mezzo di difesa rispetto al contenuto non veritiero delle comunicazioni riportate. E ciò per la paradossale ragione che quel segreto degli atti di indagine, che non ha impedito la pubblicazione, magari non fedele, delle loro conversazioni, preclude loro di prendere visione delle trascrizioni e di ascoltare le registrazioni. Ispirata, invece, ad una logica garantista sarebbe la disciplina del codice di procedura penale, la quale prevede (artt. 266 ss. c.p.p.) che le intercettazioni possano essere disposte solo per i reati più gravi ed esclusivamente su iniziativa del pubblico ministero (quindi, non della polizia giudiziaria), previa autorizzazione del giudice e per un periodo di tempo limitato e commisurato alle necessità investigative. Ad arginare il fenomeno descritto è intervenuto il d.lgs. n. 216/2017, il quale, tra le altre co-
Le intercettazioni
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La libertà di circolazione e soggiorno: la riserva rinforzata
Capitolo III
se, ha limitato la trascrizione e la conservazione del materiale captato a quello che è strettamente necessario a fini investigativi, ha ampliato le ipotesi in cui l’indagato può prenderne visione (c.d. discovery degli atti di indagine) e ha introdotto nel codice penale l’art. 617-sexies che punisce chiunque, al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di incontri privati o registrazioni di conversazioni, anche telefoniche o telematiche ma con la scriminante dell’esercizio del diritto di difesa e del diritto di cronaca. Il quadro dei diritti strumentali alla libertà personale è completato, infine, dalle posizioni giuridiche soggettive tutelate dall’art. 16 Cost., il quale riconosce, al co. 1, a tutti i cittadini il diritto di soggiornare e circolare liberamente all’interno del territorio dello Stato e, al co. 2, la libertà di espatrio, ovvero quella di uscirne e farvi rientro. Dalla norma deriva il divieto per lo Stato di introdurre previsioni limitative del libero spostamento e stabilimento dei cittadini all’interno del proprio territorio e un analogo limite è imposto dall’art. 120, co. 1, Cost. alle Regioni, le quali non possono conseguentemente adottare provvedimenti che ostacolino la libera circolazione delle persone. Il co. 1 precisa, poi, che le prime due libertà (circolazione e soggiorno) possono essere limitate solo nei casi «che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza». Si tratta, dunque, di una riserva di legge rinforzata, assistita dall’ulteriore garanzia della parte finale del co. 1, la quale esclude espressamente che possano essere praticate limitazioni per motivi politici. I motivi di sanità attengono prevalentemente alla tutela della salute, collettiva e individuale, come l’ordinamento ha potuto recentemente sperimentare in relazione alle misure di contenimento e di contrasto alla pandemia da Covid-19 del 2020. Un’esperienza che, attraverso l’ampio ricorso a fonti secondarie come i DPCM, ha confermato l’interpretazione della riserva di legge come relativa, sulla scorta delle riflessioni della dottrina maggioritaria. I motivi di sicurezza, invece, possono riguardare la prevenzione delle attività illecite nel territorio della Repubblica, come avviene nel già citato caso delle misure di prevenzione (v. supra, par. 2). Il riferimento alla «via generale» viene comunemente interpretato come preclusivo di limiti della libertà di circolazione e soggiorno che vengano indirizzati dal legislatore a singoli individui o a specifici gruppi sociali, mentre il divieto di limitazioni per «motivi politici» viene tradizionalmente considerato una forma di reazione alle misure liberticide che il regime fascista praticò in materia. Parimenti legata alla storia costituzionale italiana era l’eccezione alla libertà di espatrio contenuta nel co. 2 della XIII disposizione finale della
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Costituzione, che vietava agli «ex re di Casa Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi» di fare rientro e di soggiornare nel territorio nazionale e che è stata, però, abrogata dalla legge cost. n. 1/2002. Quanto al contenuto della garanzia costituzionale, si ritiene tradizionalmente che essa si differenzi da quella del domicilio in considerazione del carattere di stabilità rispetto agli interessi personali che la permanenza in un determinato luogo presenta nel caso della libertà di cui all’art. 14 Cost., mentre la libertà di soggiorno di cui all’art. 16 Cost. comporta la libertà di stabilirsi in un determinato luogo e di restarvi per il periodo che si desidera senza essere costretti a fermarvisi oltre quanto si desideri e, comunque, anche per breve tempo (ad esempio, per motivi di vacanza). Non mancano, comunque, ipotesi di possibili limitazioni che devono ritenersi non consentite sia alla stregua della tutela costituzionale del domicilio, sia di quella della libertà di soggiorno, come quelle limitative della libertà di scegliere il proprio luogo di lavoro, che altrimenti potrebbe essere pregiudicata da norme che imponessero, ad esempio, ai dipendenti di risiedere nel luogo di prestazione dell’attività lavorativa. La libertà di circolazione e soggiorno ha visto crescere in maniera esponenziale il suo significato per effetto del processo di integrazione europea perché i Trattati istitutivi tutelano non solo la libera circolazione degli allora cittadini comunitari all’interno degli Stati membri, ma anche la libertà di stabilimento, ovvero la libertà dei medesimi di essere presenti nel territorio di uno degli Stati membri per variabili periodi di tempo (potenzialmente anche molto lunghi) e anche per ragioni di lavoro. Un decisivo momento espansivo delle libertà in questione è stato rappresentato dall’accordo di Schengen (firmato originariamente il 14 giugno 1985 tra Belgio, Repubblica Federale di Germania, Francia, Lussemburgo e Paesi Bassi e ratificato e reso esecutivo in Italia con le leggi n. 338/1993 e n. 675/1996), che ha previsto la creazione di uno spazio comune con la progressiva eliminazione dei controlli alle frontiere sia delle merci, sia delle persone. Per effetto, poi, delle novità introdotte dal Trattato di Amsterdam del 1997 e dal Trattato di Lisbona del 2009, la libertà di circolazione e soggiorno è divenuta uno dei pilatri fondamentali del diritto dell’Unione e non è più, quindi, limitata ai lavoratori, essendo riconosciuta ad ogni individuo come corollario del possesso della cittadinanza europea. Il perno della tutela costituzionale europea della libertà in parola è oggi rappresentato dall’art. 21 TFUE, secondo cui «ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dai trattati e dalle disposizioni adottate in applicazione degli stessi». Il soggiorno dei cittadini UE nel nostro territorio nazionale, dunque, segue un regime di maggior favore rispetto a quello che è riservato alla
La libertà di stabilimento e l’accordo di Schengen
L’art. 21 TFUE
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La libertà di espatrio
Capitolo III
generalità degli stranieri. In particolare, il d.lgs. n. 30/2007, adottato in attuazione della direttiva 2004/38/CE, prevede che il soggiorno dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari è libero e senza alcun onere se inferiore a tre mesi (art. 6), mentre se superiore a detto periodo comporta per l’interessato di dimostrare (ai sensi del successivo art. 7) di avere un rapporto di lavoro e di disporre di risorse sufficienti per il sostentamento proprio e dei familiari che lo raggiungono (c.d. “ricongiungimento familiare”). Se, sulla base di detti presupposti, il soggiorno si estende continuativamente per cinque anni, il cittadino dell’Unione acquista il diritto di soggiorno permanente (art. 14). Una disciplina parzialmente restrittiva è stata, invece, adottata con il successivo d.lgs. n. 32/2008, che ha modificato il d.lgs. n. 30/2007 prevedendo che il diritto di ingresso e soggiorno dei cittadini UE e dei loro familiari possa essere limitato con apposito provvedimento per motivi di sicurezza dello Stato, per motivi imperativi di pubblica sicurezza, nonché per altri motivi di ordine pubblico (art. 20, co. 1). Tale ultimo decreto ha riformato anche la disciplina dei provvedimenti di allontanamento dei soggiornanti irregolari, i quali sono adottati nel rispetto del principio di proporzionalità e non possono essere motivati da ragioni di ordine economico, ma solo per «comportamenti individuali dell’interessato che rappresentino una minaccia concreta e attuale all’ordine pubblico o alla pubblica sicurezza» (art. 20, co. 1). La libertà di espatrio non incontra alcun limite costituzionale specifico, perché l’art. 16, co. 2, Cost. sancisce il diritto di uscire e rientrare nel territorio della Repubblica facendo salvo l’adempimento da parte del cittadino italiano dei soli «obblighi di legge» che possono condizionare l’esercizio della libertà, come era l’obbligo del servizio militare di leva prima della sua abolizione (v. infra, par. 6) e come sono le possibili misure cautelari o di prevenzione che impediscono di uscire dai confini nazionali (di cui si è detto supra, par. 3). Più in particolare, la legge n. 1185/1967, che ha riformato la disciplina previgente in tema di rilascio del passaporto, ha previsto limitazioni alla facoltà di espatrio, tra gli altri, per i minori privi del necessario assenso dei genitori, per i soggetti per cui sia stato emanato un mandato o ordine di cattura e per coloro che debbano adempiere agli obblighi di collaborazione con la giustizia. La qualificazione dell’espatrio come diritto costituzionale comporta che il potere esercitato dall’autorità amministrativa nel rilascio della documentazione necessaria per il suo esercizio, ovvero il passaporto della Repubblica Italiana, non abbia alcun carattere discrezionale e che la questura territorialmente competente si debba limitare, sempre ai sensi della citata legge n. 1185/1967, a verificare il possesso della cittadinanza, della maggiore età e l’assenza di obblighi di legge che possano limitare la libera facoltà di uscire dal territorio nazionale.
I diritti e le libertà
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Una specifica fattispecie di espatrio è quella che ricorre quando il cittadino italiano si reca stabilmente all’estero per motivi di lavoro, in relazione alla quale l’art. 35, co. 4, Cost. prevede una apposita tutela costituzionale, stabilendo che la Repubblica «riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell’interesse generale». Nel caso dell’emigrazione verso paesi dell’Unione varranno poi le garanzie di cui il cittadino italiano può godere in quanto cittadino europeo, perché, come detto, fin dai Trattati istitutivi i cittadini degli Stati membri sono titolari non solo della libertà di circolazione e soggiorno, ma anche della libertà di stabilimento, ovvero del diritto di svolgere, senza restrizioni dovute alla loro diversa cittadinanza, la propria attività lavorativa in ciascuno degli Stati membri. Problemi di ordine del tutto diverso pone, invece, l’immigrazione di lavoratori da Paesi terzi, soprattutto non appartenenti all’Unione, che ha assunto proporzioni sempre più rilevanti anche in considerazioni delle condizioni di oppressione, miseria e guerra che milioni di persone sopportano in tutto il mondo e che è oggetto di un’apposita disciplina, adottata con il d.lgs. n. 286/1998 e le sue successive modificazioni e integrazioni, che regola espressamente i presupposti che consentono l’ingresso e il soggiorno degli immigrati per motivi di lavoro e i diritti che loro spettano sul territorio nazionale (v. supra, par. 2).
La libertà di emigrazione
2.2. (segue): la libertà di manifestazione del pensiero Si è già detto quale (e quanto problematica nel contesto delle nuove tecnologie) sia la differenza che intercorre tra la libertà di corrispondenza di cui all’art. 15 Cost. e la libertà di comunicare il proprio pensiero ad una pluralità indistinta di possibili destinatari «con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione» (art. 21, co. 1, Cost.). Nonostante l’ampiezza della formula, la disciplina costituzionale fu pensata dai Costituenti in relazione ad una specifica libertà, quella c.d. “di stampa”, che costituiva ai loro occhi, per ragioni storiche legate allo sviluppo tecnico-scientifico, il principale mezzo di esercizio della libera manifestazione del pensiero (l’altro era la radio) e comunque quella che appariva più bisognosa di garanzie per le penetranti limitazioni subite in età liberale e, soprattutto, durante il regime fascista. Come si è già avuto modo di sottolineare all’inizio di questo Capitolo, l’art. 28 Stat. Alb., infatti, proclamava la libertà di stampa e prevedeva che essa potesse essere limitata solo in via successiva per reprimerne «gli abusi» legati al suo concreto esercizio (secondo la disciplina dell’“Editto sulla stampa”, emanato con r.d. n. 695/1848), ma già durante il periodo liberale la prassi
La libertà di stampa
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I controlli politici del regime fascista
Il limite del buon costume
Capitolo III
attuativa dell’Editto e il progressivo inasprimento della disciplina di pubblica sicurezza (cfr. le leggi di polizia del 1859, 1865, 1889) avevano portato all’introduzione di misure di autorizzazione preventiva e di forme di sequestro degli stampati da parte dell’autorità amministrativa (senza, cioè, il previo provvedimento del giudice). Durante il regime, poi, il controllo politico della stampa divenne sistematico attraverso una serie di misure, come la creazione della figura del direttore responsabile delle pubblicazioni periodiche (cui venivano attribuite – a titolo oggettivo – le responsabilità penali per i reati commessi a mezzo della stampa), l’istituzione dell’Ordine e dell’Albo dei giornalisti (con funzioni di controllo dell’accesso al giornalismo professionista: cfr. r.d. n. 384/1928), l’inasprimento del regime autorizzatorio (le c.d. “licenze di polizia”), la trasformazione del sequestro da strumento repressivo a mezzo preventivo di controllo dell’informazione, la previsione di un sistema di provvidenze economiche somministrate in considerazione della vicinanza al regime (cfr. legge n. 1453/1935, istitutivo dell’Ente nazionale per la cellulosa e la carta). Si comprende alla luce di questa involuzione illiberale la disciplina dettata dall’art. 21 Cost. a tutela della libertà di stampa, la quale si articola in alcune garanzie fondamentali: i) il divieto di sottoporre la stampa ad autorizzazioni o censure (co. 2), che vieta qualsiasi forma di controllo preventivo; ii) il divieto di sequestro, che trova eccezione esclusivamente «nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili» (è la riserva di legge) e sulla base di un atto motivato dell’autorità giudiziaria (è la riserva di giurisdizione) (co. 3); iii) l’obbligo per la polizia giudiziaria che proceda al sequestro, in casi di assoluta urgenza che non consentano il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, di comunicare il provvedimento a quest’ultima entro 24 ore, con la previsione che «se entro le 24 ore successive non interviene la convalida del giudice, il sequestro si intende revocato e privo di ogni effetto» (co. 4); iv) la possibilità che il legislatore imponga alle imprese editrici della stampa periodica l’obbligo di rendere noti i loro mezzi di finanziamento (co. 5). Rivolta, invece, a tutte le possibili manifestazioni del pensiero, e non solo alla stampa, è la previsione dell’ultimo comma dell’art. 21 Cost., che individua come unico limite espresso a tale libertà il «buon costume», il cui rispetto è affidato dalla legge a «provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni». Al riguardo deve essere osservato che, nonostante il citato co. 6 vieti «le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume», si deve ritenere che il limite non operi con riferimento alle manifestazioni scienti-
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fiche ed artistiche, che godono della tutela rafforzata dell’art. 33, co. 1, Cost., ai sensi del quale «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Quanto al significato da attribuire a questo limite, va evidenziato che esso è stato oggetto fin dai primi anni della Repubblica di un’interpretazione giurisprudenziale restrittiva (e, quindi, ampliativa della libertà di manifestazione del pensiero) che ne ha adeguato la portata precettiva al carattere pluralistico dell’ordinamento costituzionale e alla diversa sensibilità maturata dalla comunità politica col passare del tempo (c.d. “interpretazione adeguatrice”, su cui v. infra, Cap. IV, par. 2). In particolare, detto limite non viene più riferito al necessario rispetto di una morale comune, anche religiosa (incompatibile appunto con il carattere laico e pluralista della Repubblica), ma esclusivamente alla possibile violazione della sfera del pudore sessuale, con particolare riferimento alla tutela dello sviluppo della personalità dei minori (Corte cost., sent. n. 9/1956). Il «buon costume», però, ancorché sia l’unico espresso in Costituzione, non esaurisce il quadro dei limiti che la manifestazione del pensiero incontra nell’ordinamento costituzionale, perché esistono anche altri interessi costituzionalmente protetti che comprimono la libertà dell’art. 21 Cost. in quanto entrano in un bilanciamento (fatto, in astratto, dal legislatore e, in concreto, dal giudice) che è necessario a garantire che nessun diritto o interesse costituzionale possa vedere annullata la sua prescrittività a causa del concreto esercizio di una libertà. Si è soliti indicare tra i c.d. “limiti impliciti” alla libertà di manifestazione del pensiero: i) l’onore e la reputazione delle persone, presidiata dalla tutela penale della repressione della diffamazione, aggravata dall’uso del mezzo della stampa (art. 595, co. 3, c.p.). Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito, a partire dalla celebre “sentenza decalogo” (Cass., sent. n. 5259/1984), che la lesione dell’onore e della reputazione altrui è scriminata dall’esercizio del diritto di critica e di cronaca giornalistica ai sensi dell’art. 21 Cost. solo se ricorrono i tre elementi della rilevanza (ovvero l’interesse sociale all’informazione), della verità (ovvero della corrispondenza dei fatti narrati a quelli realmente accaduti o a quelli che un diligente uso delle fonti potrebbe far considerare tali: c.d. verità putativa) e della continenza (ossia dell’appropriatezza del linguaggio utilizzato, che deve essere sereno e non operare “sottintesi sapienti”). A fronte del non corretto esercizio del diritto di cronaca e/o di critica, che si traduca nella divulgazione di notizie false o inesatte che direttamente lo riguardino, l’interessato può esercitare il diritto di rettifica, che consente di chiedere la correzione delle notizie con lo stesso rilievo tipografico e alla prima pubblicazione periodica successiva (cfr. art. 42, legge n. 416/1981);
I limiti impliciti
Onore e reputazione
78 Riservatezza
Segretezza nell’interesse dello Stato
Buon andamento dell’amministrazione della giustizia
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ii) la riservatezza delle persone in relazione a tutte «quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari, le quali, anche se verificatesi fuori del domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile» (Cass., sent. n. 2199/1975), che è tutelata dal d.lgs. n. 196/2003 (c.d. “Codice della privacy”) e dal Reg. UE 2016/679 (c.d. “GDPR”), i quali pongono il principio del necessario consenso dell’interessato per il trattamento dei dati personali e prevedono una particolare tutela per i dati c.d. “sensibili”, ovvero quelli che sono suscettibili di essere usati a fini discriminatori (malattie, opinioni religiose, politiche, sindacali, orientamenti sessuali, etc.), i quali non possono essere trattati, senza il consenso dell’interessato, se non in casi eccezionali; iii) la segretezza nell’interesse dello Stato di tutti quegli atti, documenti, notizie, attività e «ogni altra cosa» la cui diffusione sia idonea a recare danno all’integrità della Repubblica, alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati, alla preparazione e alla difesa militare (cfr. art. 39, legge n. 124/2007, recante la disciplina del segreto di Stato). Al riguardo, la Corte costituzionale, con una discussa pronuncia ha statuito che l’interesse a tutelare la sicurezza dello Stato attraverso la secretazione di atti, notizie e documenti costituisce un interesse supremo e come tale da ritenersi prevalente su ogni altro interesse anche se costituzionalmente tutelato (sent. n. 42/2012). Nell’ambito dei giudizi in cui dovesse venire in considerazione la natura segreta di atti o notizie, il segreto è opposto (cioè confermato) dal Presidente del Consiglio, il quale ne dà comunicazione al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (c.d. “Copasir”), che, se ritiene infondata la conferma del segreto, ne dà a sua volta comunicazione alle Camere. Se il segreto viene opposto anche nei casi nei quali la legge stessa ne vieta l’opposizione, l’autorità giudiziaria può sollevare conflitto d’attribuzione davanti alla Corte costituzionale (v. infra, Cap. X, par. 6), la quale ritiene di non dover entrare nel merito del carattere segreto del documento o dell’informazione, ma di dover verificare solo la sussistenza dei presupposti formali per l’opposizione del segreto (sent. n. 106/2009), essendo ogni valutazione di merito rimessa esclusivamente al controllo politico-parlamentare del Copasir; iv) il buon andamento dell’amministrazione della giustizia, che richiede di assicurare, al contempo, la corretta informazione sulle vicende giudiziarie e di non compromettere lo svolgimento di procedimenti giudiziari in corso a causa di possibili fughe di notizie e che giustifica il segreto sugli atti di indagine dei procedimenti penali (art. 329 c.p.p.), la cui pubblicazione, anche parziale, costituisce reato (art. 684 c.p.). In proposito, però, non può non rilevarsi che tale protezione penalistica si sia ri-
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velata del tutto insufficiente a fronte della ricordata inammissibile prassi di pubblicare ampli stralci delle intercettazioni telefoniche disposte nei confronti degli indagati (v. supra, par. 2.1); v) l’ordine pubblico, che, come ha insegnato l’esperienza liberale, assume caratteri incerti e si presta a pratiche restrittive delle libertà, il quale gode di una specifica tutela penalistica, della cui conformità all’art. 21 Cost. è dato dubitare, in relazione ai vari reati di vilipendio delle istituzioni (il Presidente della Repubblica, le Assemblee parlamentari, il Governo, la Corte costituzionale, la magistratura, le forze armate: cfr. artt. 290 ss. c.p.), ritenuti dalla giurisprudenza costituzionale non contrastanti con le garanzie a favore della libertà di manifestazione del pensiero, in quanto riconducibili al limite rappresentato dalla necessaria tutela delle massime istituzioni dello Stato (Corte cost., sent. n. 20/1974); vi) il contrasto alla diffusione dell’odio razziale, oggetto della disciplina di cui alla legge n. 115/2016, la quale ha integrato la disciplina penalistica volta a reprimere manifestazioni di odio razziale, punendo chi diffonde idee che si fondino «in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità»; si tratta delle c.d. norme “antinegazionismo”, criticate da quanti ritengono che le opinioni negazioniste debbano godere della tutela di cui all’art. 21 Cost., non prevedendo la disciplina costituzionale limiti di contenuto ai pensieri manifestabili. La disciplina dell’art. 21 Cost., grazie soprattutto all’opera della giurisprudenza costituzionale e comune, ha mostrato, negli oltre 70 anni di storia repubblicana che abbiamo alle spalle, una straordinaria capacità di fornire un quadro costituzionale idoneo a garantire lo sviluppo di tutte le libertà espressive e a fronteggiare i pericoli che tali libertà hanno dovuto affrontare nei più vari contesti, la cui ampiezza e problematicità merita di essere oggetto per lo meno di un accenno. Si pensi, innanzitutto, al settore della stampa, nel quale l’art. 21 Cost. ha consentito, fin dai primi anni della Repubblica, da un lato, di depurare l’ordinamento, con il fondamentale contributo della Corte costituzionale, dalla legislazione del regime fascista (si pensi, soprattutto, alla disciplina del sequestro, che è stato sottratto ai poteri dell’autorità di polizia e ricondotto alla garanzia della ricerca di giurisdizione, ma anche alle sentt. n. 1/1956 sulle licenze di affissione degli stampati e n. 38/1961 sulla licenza per l’esercizio dell’arte tipografica), dall’altro, di guidare la legislazione repubblicana (si veda la legge n. 47/1948, approvata dall’Assemblea Costituente nel periodo di proroga dei suoi lavori) verso una nuova disciplina dell’avvio dell’impresa editoriale conforme al divieto di ogni forma di autorizzazione preventiva (vi si prevede, infatti, solo l’ob-
Ordine pubblico
Contrasto alle manifestazioni di odio razziale
L’evoluzione delle garanzie legate alla stampa
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Lo sviluppo del sistema radiotelevisivo
Capitolo III
bligo di registrazione presso il Tribunale del nome della testata, del proprietario, del direttore responsabile e della data di inizio della pubblicazione). Allo stesso modo, la tutela costituzionale ha permesso di chiarire che la nuova disciplina dell’Ordine e dell’Albo dei giornalisti (legge n. 69/1963) non rappresenta una limitazione alla libertà di manifestazione del pensiero, ma una garanzia dei giornalisti nei confronti di condizionamenti esterni e di quelli dell’impresa editoriale (Corte cost., sent. n. 11/1968). Ancora, il riferimento dell’art. 21 Cost. ad «ogni altro mezzo di diffusione» ha permesso al legislatore di disciplinare, secondo l’impianto costituzionale, l’editoria on line sia attraverso l’estensione alle imprese giornalistiche che operano nel web degli obblighi relativi alla registrazione e alle indicazioni obbligatorie previsti per la carta stampata dalla legge citata n. 47/1948 (cfr. legge n. 62/2001), sia mediante l’individuazione di quali caratteristiche devono soddisfare i quotidiani on line al fine dell’applicazione della normativa vigente in tema di quotidiani cartacei. Ma l’art. 21 Cost. è stato anche il faro che ha guidato lo sviluppo del sistema radiotelevisivo, innanzitutto attraverso il superamento del monopolio pubblico, basato sulla riserva allo Stato di ogni servizio di telecomunicazione e di trasmissione su frequenze nazionali (ricevibili, cioè, su tutto il territorio nazionale) e sulla concessione in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo ad un’unica società di diritto privato, ma a totale capitale pubblico, la Rai s.p.a., la quale era sottoposta a uno stringente controllo del Governo sulla programmazione radio e tv e sulla gestione finanziaria. Tale sistema, infatti, proprio per quest’ultima caratteristica, non dava adeguate garanzie di pluralismo dell’informazione e andava adeguato ai principi costituzionali. Grazie all’evoluzione tecnologica, ma soprattutto alla perseveranza con cui la Corte costituzionale ha insistito sul principio del pluralismo informativo (sentt. nn. 225, 226/1974), il legislatore ha, in prima battuta, riformato la disciplina del monopolio pubblico per assicurare l’indipendenza della RAI dal Governo, assoggettandola al controllo del Parlamento (legge n. 103/1975). Questo finì per determinare una “lottizzazione” dell’informazione pubblica da parte delle principali aree politico-partitiche, che estendevano su ciascuna rete la propria sfera di influenza editoriale (la DC su Rai 1, il PSI su Rai 2, il PCI su Rai 3). Nel frattempo, nel contesto della liberalizzazione delle trasmissioni locali derivanti dalle nuove possibilità trasmissive rese disponibili dalla tecnologia (evoluzione considerata legittima da Corte cost., sent. n. 202/1976), alcune emittenti private (di proprietà della Fininvest) avevano iniziato a trasmettere su tutto il territorio nazionale in simultanea, sebbene le trasmissioni nazionali fossero riservate al monopolista pubblico, semplicemente trasmettendo, attraverso l’interconnessione dei ripetitori, la stessa programmazione su frequenze locali con
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orari sfasati di pochi minuti. Alcuni pretori di città capoluogo (Torino, Roma e Pescara) ingiunsero alla Fininvest di interrompere l’interconnessione tra i suoi ripetitori e la Fininvest reagì oscurando di propria iniziativa i propri ripetitori in Piemonte, Lazio e Abruzzo, creando così un “caso politico” che il “Governo Craxi I” affrontò con alcuni decretilegge del 1984-5 (i c.d. “decreti Berlusconi”) che autorizzarono in via temporanea le reti nazionali private a trasmettere. Per superare questa situazione di stallo di fatto si è passati, quindi (con la legge n. 223/1990, c.d. “legge Mammì”), ad un sistema misto pubblico-privato (basato, di fatto, sul duopolio Rai/Mediaset), in cui la garanzia del rispetto del pluralismo dell’informazione è stata affidata ad un’apposita Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM), istituita con la legge n. 249/1997 (c.d. “legge Maccanico”), oggi composta da un Presidente (nominato dal Capo dello Stato, su proposta del Presidente del Consiglio, previo parere delle commissioni parlamentari competenti) e da quattro componenti di nomina parlamentare, cui sono stati attribuiti poteri regolatori, di controllo, sanzionatori e paragiurisdizionali (per la risoluzione delle controversie tra utenti e gestori dei servizi di telecomunicazione, affidata alle articolazioni regionali dei Co.re.com). Il sistema misto, strutturato sostanzialmente come un duopolio, non ha, però, garantito un maggior pluralismo dell’informazione e la delicatezza costituzionale del tema è cresciuta anche per effetto della circostanza che l’imprenditore privato di questo duopolio sia poi divenuto, dopo il 1993, anche il leader politico di uno dei principali partiti nazionali e, in più occasioni, il Presidente del Consiglio (ci si riferisce ovviamente all’on. Berlusconi). Conseguentemente, anche il nuovo sistema misto è andato incontro alle censure della Corte costituzionale per ragioni legate al pluralismo dell’informazione (sent. n. 420/1994) e il legislatore – dopo numerose proroghe del termine entro cui sia Rai che Mediaset avrebbero dovuto “mandare sul satellite” una delle tre reti (come previsto dalla legge n. 249/1997: cfr. Corte cost., sent. n. 466/2002) – ha pensato di incrementarne il livello sfruttando la nuova tecnica di comunicazione digitale del c.d. “digitale terrestre”, che amplia la capacità trasmissiva delle frequenze terrestri, rendendole, almeno potenzialmente, utilizzabili da un maggior numero di soggetti (cfr. legge n. 112/2004 e d.lgs. n. 177/2005, recante quello che ora è denominato TU dei servizi media audiovisivi e radiofonici). Il sistema attuale si basa, dunque, sul carattere privato dell’attività radiotelevisiva, sulla distinzione tra operatori di rete (le imprese che gestiscono le reti di trasmissione) e fornitori di servizi (le imprese che forniscono i programmi, le quali hanno diritto di accedere alla rete in condizioni di parità, non discriminazione e trasparenza), sulla definizione di soglie anticoncentrazionistiche (c.d. “antitrust”) calcolate in relazione
La legge Mammì: il sistema misto pubblicoprivato
Il passaggio al “digitale terrestre”
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non solo alla televisione ma al c.d. “S.i.c.”, ovvero il sistema integrato della comunicazione (che contiene anche editoria, pubblicità commerciale, cinematografia, radio, etc.) e sul mantenimento del servizio pubblico radiotelevisivo in capo alla Rai (di cui si prevede la privatizzazione) secondo un apposito contratto di servizio, oltre che sui già ricordati poteri di regolazione, controllo e vigilanza dell’AGCOM. I dubbi di legittimità costituzionale di questo nuovo sistema non sono, però, venuti meno perché il grado effettivo di pluralismo non dipende dal numero astratto di operatori che possono essere ospitati dalla piattaforma del digitale terrestre, quanto dalla loro effettiva presenza e dalla loro diffusione nelle abitudini di ascolto e visione degli utenti.
3. Le libertà collettive: libertà di riunione e libertà di associazione
La libertà di riunione
Gli artt. 17 e 18 Cost. disciplinano le due generali figure di libertà c.d. “collettive”. Attraverso questa espressione si intende mettere in evidenza che esistono diritti e libertà che, pur essendo riconosciuti in capo al singolo individuo, presuppongono per il loro concreto esercizio il concorso e la partecipazione di più persone. In questo senso, dunque, le libertà collettive si differenziano dalle libertà individuali, di cui ci si è occupati finora, solo rispetto al profilo delle modalità di esercizio del diritto, ma non a quello della sua titolarità. Segnatamente, l’art. 17 Cost. tutela la libertà di riunione, mentre l’art. 18 Cost. tutela la libertà di associazione. Tali norme, tuttavia, non esauriscono il quadro delle libertà collettive espressamente considerate dalla Costituzione repubblicana, la quale contiene anche una specifica disciplina per alcune rilevanti declinazioni della seconda, quali sono l’associazione sindacale (art. 39 Cost.) e l’associazione partitica (art. 49 Cost.). Nel suo complesso, questo quadro normativo segna un netto scarto rispetto alla precedente esperienza costituzionale del Regno d’Italia, perché lo Statuto Albertino concedeva unicamente il diritto di adunarsi in luogo privato (ad esempio, il proprio domicilio, tutelato dall’art. 27 Stat. Alb.), mentre assoggettava «intieramente […] alle leggi di polizia» le adunanze in luoghi pubblici od aperti al pubblico (art. 32 Stat. Alb. su questi concetti v. infra, in questo paragrafo). L’art. 17, co. 1, Cost. si apre con il riconoscimento generale del diritto di tutti i cittadini di riunirsi in qualsiasi luogo (privato e non), purché vengano rispettati i due limiti, anch’essi generali, del carattere pacifico e senz’armi della riunione. La riunione si intende non pacifica quando essa
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è realizzata come conseguenza della violenza fisica e/o morale che viene esercitata nei confronti delle singole persone perché prendano parte ad essa o non la abbandonino. La riunione è, invece, armata quando uno e più soggetti che organizzino o partecipino alla riunione portano con sé armi tradizionali o oggetti che per le loro caratteristiche sono idonei ad offendere l’integrità fisica altrui. Il co. 2 detta, poi, il regime delle riunioni in luogo privato o aperto al pubblico, il cui tratto essenziale è che per la loro organizzazione e realizzazione non «è richiesto preavviso». Tale previsione manifesta l’intento dei Costituenti di superare il sistema sostanzialmente autorizzatorio che il progressivo inasprimento delle leggi di pubblica sicurezza aveva determinato in epoca statutaria (e, soprattutto, durante il ventennio fascista), stante la ricordata disciplina dell’art. 32 Stat. Alb. Come si accennava, il divieto di preavviso accomuna le riunioni in luogo privato e quelle in luogo aperto al pubblico, intendendosi per luogo privato quello la cui disponibilità è riservata ad uno o più soggetti in forza di un diritto di godimento reale (si pensi al proprietario o all’usufruttuario) o personale (ad esempio, il conduttore di un immobile in locazione) o per il possesso di un determinato status (ad esempio il socio di una associazione) e per luogo aperto al pubblico quello al quale possono accedere tutti coloro che, pur non vantando diritti reali o personali su di esso o uno specifico status, hanno comunque un titolo giuridico che permette loro di prendere parte all’attività che vi si svolge (si pensi, ad esempio, agli stadi, ai cinema, ai teatri, cui si accede in quanto muniti di biglietto/abbonamento). Un differente regime è dettato, invece, dal successivo co. 3 per le riunioni in luogo pubblico, ovvero nei luoghi c.d. “di pubblico transito” (come vie, piazze, etc.). Di tali riunioni, infatti, «deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica». Il preavviso deve essere tenuto distinto dall’autorizzazione perché consiste in un mero obbligo di notificare all’autorità di pubblica sicurezza l’intenzione di dar luogo alla riunione in luogo pubblico (si pensi ad un corteo o una manifestazione) e le relative modalità organizzative dell’evento (luogo, eventuale percorso, giorno e orario, numero stimato di partecipanti, etc.), cui segue il potere amministrativo di sindacare eventuali pericoli per gli interessi tassativamente indicati dalla riserva di legge rinforzata del co. 3 cit., per cui in caso di silenzio dell’amministrazione gli organizzatori e i partecipanti possono procedere senza attendere alcun suo preventivo atto formale. La libertà di riunione trova ancora oggi la sua disciplina di attuazione nelle norme del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (c.d. “TULPS”, adottato con r.d. n. 773/1931), il quale (art. 18) prevede che il preavviso deve essere dato al questore almeno tre giorni prima della riu-
L’obbligo di preavviso per le riunioni in luogo pubblico
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Scioglimento delle riunioni
Libertà di associazione: positiva e negativa
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nione, pena l’arresto e l’ammenda a carico degli organizzatori (ma non degli eventuali oratori, che esercitano la libertà di manifestazione del pensiero: cfr. Corte cost., sent. n. 11/1979). Se a seguito del preavviso, l’autorità di pubblica sicurezza dovesse negare il diritto alla riunione per i comprovati motivi di «sicurezza o di incolumità pubblica» di cui all’art. 17, co. 3, Cost. (ad esempio, perché la riunione è programmata in luogo che impedisce l’accesso a servizi essenziali, come un ospedale), gli organizzatori potranno impugnare tale provvedimento dinanzi al TAR competente per territorio, chiedendo al Presidente l’adozione di una misura cautelare provvisoria (sospensione/obbligo di riesame), ma i tempi di tale tutela rischiano di non essere compatibili con il programmato svolgimento della riunione, atteso che il diniego perviene nei tre giorni precedenti la data stabilita. Il TULPS, inoltre, stabilisce (cfr. art. 22 ss.) che la riunione di cui non sia stato dato preavviso, quella non pacifica e quella armata possano essere sciolte (negli ultimi due casi quando non è possibile isolare i violenti e gli armati) attraverso una procedura che contempla l’intimazione a sciogliersi, tre ulteriori formali intimazioni con squilli di tromba e l’intervento delle forze di polizia, con conseguenti responsabilità penali dei partecipanti alla riunione che non si siano allontanati. La dottrina prevalente ritiene che non debba essere dato preavviso, e ciò nondimeno la polizia non possa procedere allo scioglimento coattivo se non per i motivi di cui all’art. 17, co. 3, Cost., dei c.d. “assembramenti”, ovvero delle riunioni in luogo pubblico cui le persone possono occasionalmente dar luogo in maniera spontanea e non organizzata. La seconda figura generale di libertà collettiva è la libertà di associazione, che comporta sia il diritto individuale di associarsi (c.d. libertà positiva) per perseguire ogni fine costituzionale (con la sola esclusione della ricostituzione del partito nazionale fascista ai sensi della XII disposizione transitoria e finale), sia il diritto di non essere costretto a partecipare ad associazioni per esercitare le libertà costituzionalmente garantite (c.d. libertà negativa). Essa è tutelata dall’art. 18 Cost., ai sensi del cui co. 1 tutti «i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale». La norma comporta, dunque, il divieto per il legislatore di configurare limiti specifici che possano comprimere la libertà degli associati in maniera ulteriore rispetto a quanto avviene in forza delle norme penali che limitano i comportamenti dei singoli, con la conseguenza che è solo la legge penale a poter vietare ai singoli determinate condotte associative per il compimento di atti che, compiuti individualmente sarebbero configurati come reati (si pensi, ad esempio, all’associazione a delinquere o all’associazione terroristica).
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Che il legislatore non possa introdurre limiti specifici alla libertà di associazione è confermato anche dal co. 2 dell’art. 18 Cost., che prevede due tassativi limiti generali al diritto in parola, rappresentati dalle «associazioni segrete» e dalle associazioni «che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare». Si intendono per associazioni segrete quelle che, ai sensi della legge n. 17/1982 (che ha disposto anche lo scioglimento della loggia massonica “P2”), integrano la duplice caratteristica di occultare alcuni elementi essenziali (non solo l’esistenza, ma anche i fini e i soci) e di perseguire il fine di interferire sull’esercizio delle funzioni degli organi costituzionali o delle pubbliche amministrazioni. Tali associazioni non possono essere sciolte in via meramente amministrativa, ma solo previo accertamento del carattere segreto dell’associazione con sentenza definitiva. Il divieto di costituire associazioni che perseguono fini politici attraverso strutture di carattere militare trova la sua ratio nella necessità di evitare che la lotta politica si svolga in maniera violenta e ha un corollario nell’obbligo che grava sui partiti politici, ai sensi dell’art. 49 Cost., di operare con «metodo democratico». Al divieto è stata data attuazione con il d.lgs. n. 43/1948 (singolarmente abrogato con il d.lgs. n. 66/2010, ma poi tornato in vigore con il d.lgs. n. 20/2012), il quale considera associazioni di carattere militare quelle costituite mediante l’inquadramento degli associati in «corpi, reparti o nuclei» e che praticano una disciplina gerarchica analoga a quella militare (fondata sull’obbligo di obbedire ai comandi dei superiori), con l’eventuale adozione di «gradi o di uniformi» e con organizzazione «atta anche all’impiego collettivo in azioni di violenza o di minaccia» (art. 1, co. 4). Ai sensi del medesimo decreto, la promozione e la direzione di associazioni militari vietate, ma anche la mera partecipazione ad esse, costituisce reato ed è sanzionata anche con lo scioglimento.
Le associazioni segrete
Le associazioni politiche a carattere militare
3.1. (segue): la libertà sindacale Come si è già detto, la libertà di associazione gode, poi, di una tutela costituzionale specifica relativa alla libertà sindacale e all’associazione partitica. L’art. 39 Cost., in particolare, enuncia, al co. 1, la libertà dell’organizzazione sindacale, manifestando in maniera molto netta, anche su questo punto, una reazione rispetto all’esperienza del regime fascista, che aveva vietato i sindacati dei lavoratori diversi dal sindacato nazionale fascista (legge n. 563/1926). La libertà sindacale, però, è innanzitutto libertà del singolo lavoratore, che può costituire un sindacato o iscriversi a uno esistente (libertà positiva) e che non può subire conseguenze nega-
La libertà di associazione sindacale
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La mancata attuazione dell’art. 39 Cost.
Lo “Statuto dei lavoratori”
Capitolo III
tive nel rapporto di lavoro in forza della sua scelta di non aderire a nessuna associazione sindacale (libertà negativa: cfr. art. 15, legge n. 300/1970). Limiti alla libertà positiva di associazione sindacale sono previsti per gli appartenenti alle forze di polizia, che possono associarsi in sindacati di categoria che, però, non abbiano alcun legame con le altre organizzazioni sindacali che operano nei settori del mondo del lavoro (legge n. 121/1981) e per i militari di carriera (legge n. 46/2022). Questa recente legge è intervenuta dopo che la Corte costituzionale, con la sent. n. 120/2018, ha dichiarato parzialmente fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1475, co. 2, del Codice dell’ordinamento militare nella parte in cui vietava ai militari di costituire associazioni professionali a carattere sindacale, mentre in precedenza, con la sent. n. 444/1999, aveva ritenuto legittima tale limitazione, facendo leva sul carattere di neutralità che connota le forze armate. Nella prospettiva del Costituente, la principale funzione dei sindacati doveva essere la stipulazione – in rappresentanze unitarie formate in proporzione agli iscritti – di contratti collettivi aventi efficacia erga omnes, ossia obbligatori «per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce» (co. 4). Al tal fine, il medesimo comma richiedeva che i sindacati avessero personalità giuridica e che quest’ultima si acquistasse con la registrazione, mentre il co. 3 poneva come unica condizione della registrazione (a sua volta qualificata come unico obbligo possibile dal co. 2) che gli statuti delle associazioni sindacali avessero un «ordinamento interno a base democratica». I sindacati maggiormente rappresentativi sul piano nazionale (i c.d. “sindacati confederali”: Cgil, Cisl e Uil), però, non hanno mai voluto sottostare al controllo previsto dalla Costituzione (anche per paura di non essere maggioritari nelle rappresentanze unitarie) e la legge che avrebbe dovuto disciplinare la registrazione e l’acquisto della personalità giuridica non è stata mai adottata dal Parlamento, per cui l’art. 39 Cost. è rimasto sostanzialmente inattuato. Conseguentemente, i sindacati sono rimasti delle mere associazioni non riconosciute o di fatto, come tali disciplinate dal codice civile (art. 36 ss. c.c.) e non hanno acquistato la capacità di stipulare contratti efficaci erga omnes, ma contratti obbligatori solo per le parti contraenti (art. 1372 c.c.), ovvero per i soli iscritti alle associazioni sindacali che li sottoscrivono. La loro importanza sul piano sociale ed economico è tuttavia cresciuta per effetto del c.d. “Statuto dei lavoratori”, approvato con legge n. 300/1970, il quale ha riconosciuto non solo ai singoli lavoratori, ma anche alle associazioni sindacali, una corposa serie di diritti da esercitarsi all’interno dei luoghi di lavoro, come il diritto di svolgere propaganda e proselitismo, il diritto di riunione, il diritto di avere a disposizione un lo-
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cale per l’esercizio delle attività sindacali aziendali, il diritto dei dirigenti sindacali ai permessi per la partecipazione ad attività sindacali, il diritto dei medesimi di non vedersi trasferiti senza il previo consenso delle associazioni sindacali, etc. Ma, soprattutto, ha punito la condotta antisindacale del datore di lavoro (art. 28). Alla crescita del ruolo e delle funzioni dei sindacati maggiormente rappresentativi si è accompagnato, però, anche il diffondersi di prassi (normative e giurisprudenziali) difficilmente compatibili con la disciplina costituzionale della contrattazione collettiva, che hanno determinato l’acquisto, da parte dei contratti collettivi stipulati dai sindacati, di efficacia sostanzialmente erga omnes anche in difetto dei requisiti dell’art. 39 Cost. (registrazione e personalità giuridica). Ciò è avvenuto, in un primo momento, con la legge n. 741/1959 (c.d. “legge Vigorelli”), che ha delegato il Governo ad emanare decreti legislativi aventi lo scopo di recepire (soprattutto in materia di minimi inderogabili di trattamento economico e normativo, ma non solo) quanto già statuito dagli accordi collettivi. Al medesimo sostanziale risultato si è, poi, ugualmente giunti in forza di quella giurisprudenza del lavoro che, dando applicazione diretta alla clausola dell’art. 36, co. 1, Cost. (secondo cui deve essere comunque garantita al lavoratore una retribuzione «sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»), ha affermato che la retribuzione costituzionalmente dovuta non può essere inferiore ai minimi salariali stabiliti dai contratti collettivi di lavoro, che, per questa via, finiscono per avere efficacia obbligatoria anche per coloro che non sono iscritti ai sindacati che hanno sottoscritto il contratto. Infine, ad una efficacia sostanzialmente erga omnes si è giunti nel settore del pubblico impiego per effetto di quelle norme che stabiliscono che i contratti collettivi vengano stipulati fra l’apposita Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (la c.d. “Aran”, istituita con il d.lgs. n. 29/1993 e i cui poteri sono stati accresciuti dai dd.llgs. n. 165/2001 e n. 150/2009) e le organizzazioni sindacali più rappresentative, sia livello nazionale che nei singoli comparti. Per ragioni storiche, strettamente connessa alla libertà sindacale è la tutela costituzionale del diritto di sciopero (art. 40 Cost.): per un verso, perché i due istituti hanno rappresentato, fin dal principio delle lotte dei lavoratori salariati (fine XIX secolo), i principali strumenti di rivendicazione della classe dipendente; per l’altro, perché l’esercizio del diritto di sciopero è progressivamente divenuto il più significativo strumento nelle mani del sindacato nella contrattazione collettiva. Ai sensi dell’art. 40 Cost. «il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano». La mancanza di una disciplina legislativa attuativa (fatta eccezione per quella relativa allo sciopero nei servizi
La sostanziale efficacia erga omnes dei contratti collettivi
Il diritto di sciopero
La definizione giurisprudenziale …
88 … dei limiti al diritto di sciopero
Lo sciopero nei servizi pubblici essenziali
Capitolo III
pubblici essenziali) ha, però, rimesso la definizione dei limiti al diritto di sciopero alla giurisprudenza, soprattutto quella costituzionale, che ha dichiarato illegittime le norme del Codice penale che punivano (art. 502 c.p.) lo sciopero a fini contrattuali (sentt. n. 29/1960 e n. 141/1967, questa seconda in relazione alla serrata del datore di lavoro), quelle che reprimevano (art. 330 c.p.) lo sciopero del pubblico dipendente che non compromettesse servizi pubblici essenziali (sent. n. 31/1969), nonché quelle che punivano (art. 503 c.p.) lo sciopero a fini politici, chiarendo che lo sciopero è legittimo anche per finalità non strettamente economiche, ma appunto di rivendicazione politica legata alle condizioni dei lavoratori, sempre che non sia diretto al sovvertimento dell’ordine costituzionale o a condizionare il normale svolgimento delle attività degli organi rappresentativi (sent. n. 290/1974). Come si accennava, l’unica disciplina attuativa dell’art. 40 Cost. dettata dal legislatore è quella dello sciopero nei c.d. “servizi pubblici essenziali” (legge n. 146/1990). Sono tali, ai sensi dell’art. 1 della legge, quelli che garantiscono «il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione». Si può ritenere che tra tali diritti rientri oggi anche quello “alla cultura”, atteso che il d.l. n. 146/2015 (conv. in legge n. 182/2015) ha esteso la disciplina dello sciopero nei servizi pubblici essenziali anche ai musei e luoghi di cultura, qualificando come servizio essenziale l’apertura al pubblico. Per coniugare l’esercizio del diritto di sciopero con l’effettività dei diritti costituzionalmente garantiti che da esso potrebbero essere pregiudicati, il legislatore ha previsto, tra le altre misure, che: i) lo sciopero debba essere proclamato con un congruo anticipo e comunicato alla Commissione di garanzia, che può invitare i soggetti che lo hanno proclamato a differirlo quando sia necessario per l’esperimento del tentativo di composizione della controversia (c.d. “procedure di raffreddamento” o “di conciliazione) o quando non siano rispettati i limiti contrattuali o legali; ii) le amministrazioni definiscano, con il concorso delle associazioni sindacali, misure dirette a consentire, nei vari servizi, l’erogazione delle prestazioni indispensabili; iii) possa essere disposta la precettazione dei lavoratori necessari a garantire l’erogazione delle prestazioni indispensabili.
3.2. (segue): la libertà di associazione partitica La seconda figura generale di associazione cui i Costituenti hanno inteso dare specifica tutela è quella che deriva dal riconoscimento del dirit-
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to che «tutti i cittadini» hanno «di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49 Cost.). Il novero dei cittadini «tutti» cui la libertà è riconosciuta dall’art. 49 Cost. va letto alla luce dell’art. 98, co. 3, Cost., il quale stabilisce che la legge può introdurre limitazioni al diritto di iscriversi ai partiti politici in relazione ad alcune categorie di dipendenti pubblici, come i magistrati, i militari, i funzionari ed agenti di polizia, i diplomatici; divieto di iscrizione che si giustifica per le funzioni che tali soggetti esercitano e che richiedono un elevato grado di imparzialità, ritenuto incompatibile con una militanza politica attiva. Tra le poche leggi intervenute ad attuare il divieto costituzionale merita ricordare la legge n. 121/1981, che lo ha introdotto con riferimento al personale civile e militare dell’amministrazione di pubblica sicurezza, e il d.lgs. n. 109/2006, che ha qualificato come illecito disciplinare dei magistrati l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa all’attività dei partiti politici (disciplina considerata conforme a Costituzione da Corte cost., sent. n. 224/2009). Tra le libertà collettive, quella di associazione politica è quella che si pone in rapporto di più diretta strumentalità con l’obiettivo, cui tutta la forma di convivenza civile politica repubblicana si ispira ex art. 3, co. 2, Cost., di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono l’effettiva partecipazione di tutti all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. La libertà di associazione politica (forse, più correttamente, dovrebbe dirsi partitica), infatti, rappresenta il mezzo principale attraverso cui può esplicarsi il diritto del singolo di concorrere a determinare l’evoluzione di quella forma di convivenza civile e politica e, costituisce, dunque, il fondamentale – ma, certamente, non esclusivo – mezzo attraverso cui il popolo può esercitare la sovranità che gli spetta ai sensi dell’art. 1 Cost. È tradizionale oggetto di discussione nella dottrina costituzionalistica se, proprio in considerazione di questa loro delicatissima funzione (ovvero consentire la partecipazione politica), i partiti debbano essere considerati come titolari di una specifica attribuzione costituzionale, in quanto tale garantita dall’art. 49 Cost. o se, invece, la norma tuteli primariamente il diritto di partecipazione politica dei cittadini, rispetto al quale i partiti svolgono un ruolo fondamentale, ma certamente strumentale e, quindi, solo indirettamente tutelato. Nella prima direzione sembra orientare non solo il tenore letterale della disposizione, che è costruita – come detto – a partire dal diritto dei singoli di concorrere alla determinazione della politica nazionale, ma anche il rilevato carattere servente che l’associazione partitica svolge ai sensi degli artt. 1 e 3, co. 2, Cost. Utili argomenti in questo senso si traggono dalla giurisprudenza costituzionale, la quale ha affermato che i partiti politici «vanno considerati
Limiti all’iscrizione ai partiti politici
I partiti politici
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I partiti come strumento di legittimazione democratica
Capitolo III
come organizzazioni proprie della società civile» e ha, pertanto escluso che essi siano titolari di attribuzioni costituzionali, sottolineando che la legge affida ad essi fondamentali funzioni pubbliche nel procedimento elettorale attraverso cui si formano le assemblee elettive (si pensi, ad esempio, alla selezione delle candidature, alla presentazione delle liste, alla scelta dei contrassegni elettorali, alla formazione delle coalizioni); funzioni che rappresentano «il modo in cui il legislatore ordinario ha ritenuto di raccordare il diritto, costituzionalmente riconosciuto ai cittadini, di associarsi in una pluralità di partiti con la rappresentanza politica, necessaria per concorrere nell’ambito del procedimento elettorale» (Corte cost., ord. n. 76/2007). Proprio il collegamento tra le funzioni dei partiti e il meccanismo della rappresentanza politica nazionale consente di apprezzare come il mancato riconoscimento di attribuzioni costituzionali non debba essere interpretato come una deminutio del ruolo dei medesimi all’interno della forma di stato. Come detto, infatti, la Costituzione repubblicana, come le altre Costituzioni europee del secondo dopoguerra, si ispira ai dogmi della liberaldemocrazia parlamentare e, quindi, si fonda sulla rappresentanza politica generale e, conseguentemente, sui partiti come principale circuito espressivo della sovranità popolare, che si manifesta sia nelle forme della legittimazione c.d. per input, ovvero attraverso gli atti di investitura o di selezione dei “migliori” rappresentanti, sia nelle forme di legittimazione c.d. per output, ovvero tramite le forme di emersione della responsabilità politica che consentono di cambiare i “peggiori” governanti. Per dirla con la dottrina tedesca, dunque, la nostra è una Parteienstaatliche Verfassung, ovvero una costituzione dello “Stato dei partiti”. Per comprendere le vicende che hanno caratterizzato l’evoluzione dei partiti politici di massa (quelli corrispondenti alle classi sociali) dalla loro nascita (ovvero dalla fine del XIX secolo) ad oggi è fondamentale evidenziare che proprio nella loro qualificazione come imprescindibile strumento di legittimazione democratica è storicamente risieduta la grande forza dell’idea della rappresentanza politica generale, che, dopo gli albori del parlamentarismo inglese, ha saputo così intercettare le ragioni politiche dello stato liberale, prima, e della liberaldemocrazia parlamentare, poi, e ha prodotto quella che, per ragioni di sintesi, si può chiamare “democrazia della rappresentanza”, intendendo con questa espressione quel particolare modo di guardare al fenomeno della democrazia rappresentativa che vede nell’uguaglianza, anche sostanziale, del voto, il fondamentale fattore di legittimazione della decisione politica: una legittimazione, quindi, che dal punto di vista storico nasce essenzialmente per input, ovvero che punta a fondare come democratiche le decisioni che sono prese dai rappresentanti eletti attraverso la competizione elettorale dei partiti.
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Come noto, però, questa carica di legittimazione democratica si è in gran parte esaurita per effetto dell’erompere del pluralismo fattuale, che ha disarticolato la società divisa in classi sociali omogenee e ha frantumato l’individuo in una molteplicità di appartenenze che non sono più suscettibili di essere ricondotte ad unità attraverso l’appartenenza di classe (c.d. “crisi del rappresentato”). Il che ha reso claudicante ed incerta la legittimazione che si basa sulla rappresentanza politica generale, e in particolare sul rapporto d’investitura (ovvero sull’elezione dei rappresentanti), e ha fatto deflagrare quella difficoltà delle categorie fondanti del costituzionalismo politico cui ci si è soliti riferire attraverso le, ormai abusate, formule della “crisi del Parlamento”, della “crisi della legge” e della “crisi dei partiti”, che possono tutte essere considerate modi di guardare al più generale e presupposto problema della “crisi della rappresentanza”. Crisi, tutte, che sono state acuite dalla circostanza che all’attenuarsi della legittimazione per input non ha fatto da contrappeso l’affermarsi di adeguati strumenti di emersione della responsabilità politica, in grado di puntellare sul versante degli output del rapporto rappresentativo – ossia del giudizio politico che i rappresentati/governati devono poter essere messi in grado di esprimere nei confronti dell’azione dei rappresentanti/governanti – la carenza di legittimazione democratica generata dal pluralismo. Ed in effetti, se non altro nel nostro ordinamento costituzionale, sono sotto gli occhi di tutti i problemi cui la sistematica fuga dalla responsabilità politica dei partiti ha dato luogo negli ultimi decenni, dalle difficoltà nell’elezione del Capo dello Stato (si pensi alle rielezioni di Napolitano e Mattarella), al proliferare dei governi c.d. tecnici, dall’espansione dell’attività normativa, anche di livello costituzionale, delle Camere sciolte, all’ampliamento dei poteri emergenziali, etc. ... Il discorso sulle ragioni della crisi dei partiti politici appare particolarmente utile non solo per comprendere l’attuale quadro politico-costituzionale, ma anche per assumere consapevolezza dell’importanza sempre crescente che ha assunto il tema dell’attuazione dell’art. 49 Cost. in relazione al «metodo democratico», cui si vede ispirare il concorso, ovvero la concorrenza, dei partiti nella determinazione della politica nazionale. Dalla lettura dei lavori dell’Assemblea Costituente emerge come la clausola del «metodo democratico» fosse stata pensata essenzialmente in riferimento all’azione esterna dei partiti politici, ossia alle relazioni che gli uni intrattengono con gli altri e tutti con gli organi costituzionali, affinché, a differenza di quanto avvenuto durante il regime fascista, fosse sempre vietato l’uso della violenza e, più, in generale, il ricorso a tutti quei comportamenti che sono incompatibili con un sistema autenticamente rappresentativo. Oggi, invece, proprio a causa delle crisi di cui si è detto, la più impor-
La “crisi della rappresentanza”
L’art. 49 e il metodo democratico
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L’accesso alla contribuzione pubblica
Capitolo III
tante frontiera dell’attuazione costituzionale del «metodo democratico» è divenuta quella del c.d. “metodo democratico interno”, ovvero quella dell’introduzione legislativa di adeguate forme e istituti in grado di rendere la vita interna ai partiti trasparentemente ispirata ad una logica democratica. Numerose, nel corso delle ultime legislature, sono state le proposte avanzate in Parlamento per disciplinare la c.d. “vita democratica interna” ai partiti, ma l’ordinamento resta tuttora carente di adeguati presidi di democraticità della dialettica che si sviluppa in seno ai medesimi. Si pensi, ad esempio, all’urgenza di una disciplina del conflitto di interessi, della parità di genere, della trasparenza del finanziamento privato, della selezione delle candidature per le elezioni, della giustizia domestica e dei controlli sull’operato dei partiti. Certamente, tali previsioni finirebbero per limitare l’autonomia statutaria delle associazioni partitiche, che, come i sindacati, operano alla stregua di associazioni non riconosciute disciplinate dal diritto privato (art. 36 ss. c.c.), ma la loro introduzione non pare, francamente, più procrastinabile se si vuole seriamente mettere mano alla risoluzione dei problemi di legittimazione democratica in cui versa la nostra forma di stato democratico-rappresentativa. Un timido passo in questa direzione è stato compiuto con il d.l. n. 149/2013 (convertito dalla legge n. 13/2014), che condiziona, secondo una logica non impositiva ma premiale (ovvero di incentivo), l’accesso alla contribuzione pubblica ad una serie di condizioni, tra cui l’adozione di uno statuto che preveda, fra le altre cose e per quanto qui di più prossimo interesse, i diritti e i doveri degli iscritti e i relativi organi di garanzia, le norme a tutela delle eventuali minoranze, le modalità di partecipazione degli iscritti all’attività del partito, il numero, la composizione e le attribuzioni degli organi deliberativi, esecutivi e di controllo, le modalità della loro elezione e la durata dei relativi incarichi, le procedure richieste per l’approvazione degli atti che impegnano il partito, la cadenza delle assemblee congressuali, i criteri con i quali è promossa la presenza delle minoranze (ove presenti) negli organi collegiali non esecutivi, le forme di promovimento della parità tra i sessi negli organismi collegiali e per le cariche elettive (questo in attuazione dell’art. 51 Cost.). La modesta efficacia di queste forme di controllo sulla vita democratica interna dei partiti si apprezza se si tiene presente che si tratta, come si diceva, di norme promozionali, che possono non essere rispettate dai partiti che rinuncino ad accedere al sistema di contributi introdotto dal d.l. n. 149/2013, il quale ha sostituito il previgente sistema di finanziamento pubblico dei partiti previsto dalla legge n. 195/1974 (in gran parte abrogata per via referendaria nel 1993), dando così ancora maggiore problematicità al tema della perdurante assenza di una compiuta disciplina del finanziamento privato.
I diritti e le libertà
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4. Le libertà economiche. L’iniziativa economica privata e la proprietà Il Titolo III della Parte I della Costituzione è dedicato ai «rapporti economici» e al suo interno, in particolare, gli artt. 41-47 Cost. declinano con riferimento alla tutela delle posizioni giuridiche soggettive i capisaldi della c.d. “Costituzione economica”, ovvero quell’insieme di principi che regolano il ruolo dello Stato nell’economia e le garanzie, nonché i limiti, di cui godono i privati nell’esercizio delle attività economiche. Da essa emerge un quadro articolato, che non consente di dire che la nostra forma di stato si ispiri ad un modello “puro” (liberista, socialista, etc..) e che ha permesso all’ordinamento costituzionale di attraversare varie fasi e di sperimentare diverse forme di intervento del pubblico potere nell’economia (statalizzazioni, programmazione, liberalizzazioni). Le norme indicate, infatti, lasciano ampi margini di discrezionalità al legislatore affinché l’attività economica pubblica e quella privata possano essere coordinate ai fini della rimozione delle disuguaglianze e dell’inveramento del principio di uguaglianza in senso sostanziale di cui all’art. 3, co. 2, Cost. Lo si ricava innanzitutto dalla disciplina costituzionale dei due veri pilastri della “Costituzione economica”, ovvero la libertà dell’iniziativa economica privata e la tutela del diritto di proprietà (di cui si dirà infra), ma anche dal riconoscimento della «funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata» (art. 45, co. 1, Cost.), dall’impegno della Repubblica nella «tutela e […] sviluppo dell’artigianato» (art. 45, co. 2), dall’attribuzione ai lavoratori del diritto a collaborare alla gestione delle aziende «ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione» (art. 46), nonché dalla specifica protezione accordata alla tutela del risparmio e all’accesso alla proprietà dell’abitazione (art. 47). Tutte le citate previsioni costituzionali, infatti, sono accompagnate da riserve di legge, proprio allo scopo di affidare al legislatore il compito di coordinare indirizzi, programmazione, interventi diretti, incentivi, garanzie e controlli affinché il funzionamento del sistema produttivo della Repubblica, nelle sue varie articolazioni, possa contribuire in maniera decisiva a favorire il superamento delle disuguaglianze esistenti come fattore di incremento del grado effettivo di partecipazione dei consociati all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Ma, come si diceva, l’architrave su cui riposa la funzionalizzazione della disciplina costituzionale dei rapporti economici al programma della forma di stato democratico-sociale è rappresentato dalla tutela e dai limiti dell’iniziativa economica privata e della proprietà.
La “Costituzione economica” a trama aperta
94 La libertà di iniziativa economica privata
Il sistema misto ed il binomio persona/ mercato
L’integrazione europea e il mercato comune
Capitolo III
Segnatamente, l’art. 41 Cost., dopo aver proclamato la libertà dell’iniziativa economica privata (co. 1), stabilisce che essa «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (co. 2) e riserva alla legge il compito di determinare «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali» (co. 3). Tale ultima previsione va letta insieme a quella del successivo art. 43 Cost., che consente alla legge, sempre «a fini di utilità generale», anche di riservare o di trasferire alla mano pubblica o alle comunità di lavoratori o utenti – in questo secondo caso mediante espropriazione e salvo indennizzo – determinate imprese o categorie di imprese «che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale». Si apprezza, dunque, anche sotto questo ulteriore profilo come il legislatore sia il sostanziale dominus della strutturazione, della gestione e del controllo di un sistema economico-produttivo, quello nazionale, che è stato concepito dai Costituenti come essenzialmente misto, per la contemporanea presenza di pubblico e privato, e ad assetto variabile, per la possibilità che la sua struttura venga adeguata, nei suoi vari segmenti e nei vari contesti storici ed economici, all’esigenza fondamentale di promuovere l’effettività dei diritti dei singoli e il benessere dei consociati complessivamente considerati. È questo il tema centrale della conciliazione tra “persona” e “mercato”. Dalla necessità costituzionale di tale conciliazione deriva che l’affermazione della libertà dell’iniziativa economica privata, contenuta nel co. 1 dell’art. 41 Cost., viene a subire una significativa riduzione per effetto dei commi successivi e dell’art. 43 Cost. Al riguardo, la giurisprudenza costituzionale ha avuto modo di chiarire che la legittimità dei numerosi limiti, diretti e indiretti, che il legislatore può porre all’iniziativa economica privata in nome dell’utilità sociale non possono però renderne impossibile o estremamente oneroso l’esercizio, che i programmi imposti ad una attività economica privata non debbono equivalere ad una sua sostanziale soppressione, ma possono soltanto tendere a indirizzarla e a coordinarla, e che gli interventi del legislatore non possono condizionare le scelte imprenditoriali in modo così penetrante, sacrificandone le opzioni di fondo o restringendone in rigidi confini lo spazio o l’oggetto delle stesse scelte organizzative» (sent. n. 388/1992). La libertà di iniziativa economica privata comprende non soltanto la libertà di promuovere un’attività artigianale, commerciale, industriale, finanziaria o di qualsiasi altra natura, ma anche la libertà di accedere ai relativi mercati e, quindi, la libertà di competere con altri imprenditori senza
I diritti e le libertà
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limiti, restrizioni e discriminazioni. In particolare, tale libertà è stata rafforzata dal diritto dell’Unione europea, che riconosce la libertà di stabilimento anche gli imprenditori in relazione alle sedi e agli impianti produttivi, con la conseguenza che l’apertura di uno di essi in uno Stato membro dell’Unione non può essere assoggettata ad una disciplina più onerosa di quella che regola la medesima attività nel paese dove l’impresa ha la sua sede principale. E questo perché tra i vari Stati membri deve esistere un mercato comune, la cui creazione sarebbe ostacolata da regimi nazionali diversi. Si comprende, allora, come proprio grazie al diritto UE si sia venuto rinsaldando il legame tra effettività dell’iniziativa economica privata e tutela della concorrenza, il quale è strumentale anche alla garanzia dei diritti delle persone che agiscono all’interno di quei mercati in veste di consumatori e di utenti per l’acquisto dei beni e servizi necessari al soddisfacimento di tali diritti, perché essi trovano proprio nella concorrenzialità dei mercati il principale presidio della libertà delle loro scelte di acquisto, che si alimenta appunto dalla trasparenza dei mercati e dalla completezza delle informazioni che riguardano i beni e i servizi venduti al loro interno. Poiché le regole giuridiche del mercato non si esauriscono nella tutela della concorrenza, ma devono estendersi anche alla tutela dei consumatori e alla tutela del risparmio che in essi viene versato, si comprende perché è sempre per effetto dell’integrazione europea che abbia conosciuto una grande espansione nel nostro ordinamento la tutela dei diritti legati al consumo di beni e servizi (cfr. d.lgs. n. 206/2005, recante il c.d. “Codice del consumo”, che ha introdotto anche l’istituto delle c.d. “class actions”, ovvero delle azioni collettive a tutela dei consumatori). In tema di tutela della concorrenza, tra gli interventi legislativi più rilevanti va certamente menzionata la legge n. 287/1990, che, sulla spinta proprio delle norme UE, ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento una disciplina “antitrust” di carattere generale, che si somma a quelle previste per specifici mercati, come quella di cui si è detto in relazione al mercato delle comunicazioni (v. supra, par. 2.2). Detta disciplina reprime l’abuso di posizione dominante sul mercato come fattore di alterazione della libera concorrenza (art. 3) e introduce limiti a tutte quelle pratiche d’impresa (le intese di cui all’art. 2 e le concentrazioni di cui all’art. 5) che producono effetti distorsivi del mercato. Per vigilare sul rispetto dei limiti introdotti, la legge ha istituito un’autorità amministrativa indipendente (l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, c.d. AGCM), composta da 3 membri, designati d’intesa dai Presidenti delle Camere, alla quale, analogamente a quanto è stato fatto con l’AGCOM (v. supra, par. 2.2) sono stati attribuiti poteri di vigilanza sulle condizioni dei mercati, poteri di controllo e sanzionatori, nonché di poteri consultivi e di informazione nei confronti del Parlamento.
La normativa “antitrust”
96 La proprietà
I limiti derivanti dagli interessi pubblici
L’indennizzo
Capitolo III
Come si accennava, anche la tutela costituzionale della proprietà privata manifesta in maniera chiara l’intenzione del Costituente di contemperare le libertà economiche con l’interesse sociale, come testimonia innanzitutto il dato letterale relativo alla scomparsa del carattere dell’inviolabilità, che era invece presente nell’art. 29 Stat. Alb. L’art. 42 Cost., infatti, dopo aver chiarito al co. 1 che «la proprietà è pubblica o privata» e che «i beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati», riserva alla legge, che riconosce e garantisce la proprietà privata, la disciplina dei modi di acquisto, di godimento e i limiti «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti» (co. 2), la determinazione dei casi in cui essa può essere espropriata, salvo indennizzo, «per motivi di interesse generale» (co. 3), nonché l’introduzione delle «norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità» (co. 4). Alla medesima logica di funzionalizzazione della proprietà alla dimensione sociale rispondono, poi, anche l’art. 44 Cost., che prevede la possibilità che il legislatore introduca limiti di estensione alla proprietà terriera al fine di «stabilire equi rapporti sociali», e l’art. 47, co. 2, Cost., che impegna la Repubblica a favorire l’accesso del risparmio dei meno abbienti a determinate forme di proprietà, quale quella dell’abitazione, quella coltivatrice diretta e quella nell’investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese. Quanto ai limiti alla proprietà privata di cui al co. 2, essi derivano dalla fitta trama di norme dell’ordinamento che conformano il diritto rispetto a determinati interessi pubblici. Si pensi, ad esempio, al c.d. “vincolo idrogeologico”, a quello “sismico”, a quello “paesaggistico”, a quello “storico-artistico, a quelli “urbanistici”, nonché a quelli derivanti dalla disciplina che regola l’esercizio dello ius aedificandi (cfr. d.lgs. n. 380/2001, recante il c.d. “Testo unico dell’edilizia”), i quali vengono “apposti” dagli atti c.d. di “pianificazione territoriale” (come, ad esempio, il piano urbanistico comunale, c.d. “P.u.c.”, o il piano paesaggistico territoriale, c.d. “P.p.t.”). Tale complesso di limiti e vincoli può in concreto risultare così penetrante (si pensi, ad esempio, al caso del c.d. “vincolo di inedificabilità assoluta”) da rendere la limitazione della facoltà di godimento del proprietario (ammessa dal co. 2) tale da comprimere il contenuto essenziale del diritto e da determinarne un esproprio sostanziale, come tale postulante il riconoscimento di un indennizzo (imposto dal co. 3). Al riguardo, la Corte costituzionale (cfr. sent. n. 179/1999) ha chiarito che non comportano indennizzo i vincoli che incidono con carattere di generalità su intere categorie di beni ritenuti oggettivamente di interesse pubblico (come, ad esempio, i vincoli ambientali e paesaggistici), i vincoli derivanti dalla pianificazione urbanistica che non si traducono in espropri formali (come i limiti di altezze, cubature, distanze,
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etc.), nonché i vincoli che non superino, dal punto di vista quantitativo, la normale tollerabilità e, dal punto di vista della durata, la ragionevole sopportabilità (è il c.d. “periodo di franchigia”). Ne deriva, quindi, che l’indennizzo va riconosciuto quando il vincolo comporta l’assoluta inedificabilità e quando è preordinato all’espropriazione ma sia apposto per un tempo irragionevole oppure non risulti certo il termine di inizio della procedura espropriativa (decorso il quale il vincolo decade). Quanto all’espropriazione di cui al co. 3, essa si traduce, all’esito di una procedura che inizia con l’apposizione del relativo vincolo (cfr. d.lgs. n. 327/2001, recante il c.d. “Testo unico degli espropri”), nel trasferimento coattivo della proprietà dal privato alla p.a. espropriante, che acquista la proprietà a titolo derivativo. Particolarmente travagliata è stata la sorte nel nostro ordinamento della disciplina dell’«indennizzo» richiesto dalla tutela costituzionale della proprietà, che è stato oggetto di diversi interventi del legislatore e della Corte costituzionale. Tale «indennizzo», infatti, declinato dall’art. 834 c.c. come «giusta indennità», non corrispondeva nemmeno lontanamente al valore venale del bene (cioè al suo valore di mercato), tanto che la Corte costituzionale ha sentito l’esigenza di chiarire che esso deve rappresentare per il proprietario «un serio ristoro» (sentt. n. 61/1957, n. 67/1959, n. 5/1960, n. 91/1963, n. 22/1965) e non può, quindi, essere né simbolico, né irrisorio (sent. n. 155/1972), non potendo il legislatore che lo determina prescindere completamente dal valore venale del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali (sent. n. 283/1993). A questa vicenda si è posto fine grazie alla giurisprudenza della Corte EDU, che ha ripetutamente condannato l’Italia per violazione del Protocollo 1 alla Cedu (che tutela, appunto, la proprietà privata) proprio per il carattere insufficiente dell’indennità di esproprio per come disciplinata dal legislatore italiano. Infatti, con le già citate sentt. nn. 348 e 349/2007 (v. infra, Cap. V, par. 2), la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della disciplina vigente in materia e, in seguito a dette sentenze, il “Testo unico degli espropri” (art. 37) ha previsto che «l’indennità di espropriazione di un’area edificabile è determinata nella misura pari al valore venale del bene», salvo che l’espropriazione sia finalizzata ad attuare interventi di riforma economico-sociale, essendo in tal caso l’indennità ridotta del 25%.
5. I diritti sociali, in particolare il diritto al lavoro, il diritto alla salute e il diritto all’istruzione Si è già avuto modo di dire che uno degli aspetti qualificanti della forma di stato democratico-sociale posta alla base della Costituzione del
L’espropriazione e il serio «ristoro»
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Diritti sociali ed eguaglianza sostanziale
Capitolo III
1948 è rappresentato dalla previsione, accanto ai tradizionali diritti di libertà ereditati dallo stato liberale di diritto, dei c.d. “diritti sociali” (si pensi, in prima battuta, al diritto alla salute o a quello all’istruzione). Analogamente, infatti, a quanto fanno le altre costituzioni europee continentali del secondo dopoguerra, la Costituzione repubblicana riconosce e tutela questi diritti come momento fondamentale di realizzazione dell’uguaglianza in senso sostanziale, ovvero, per utilizzare ancora la formula dell’art. 3, co. 2, Cost., come strumento per «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica e sociale del Paese». Nella prospettiva del Costituente, dunque, l’effettività dei c.d. “diritti di libertà” richiede che tutti coloro che ne sono formalmente titolari siano messi in grado di esercitarli in condizioni di fatto paritarie e non discriminatorie; motivo per cui è fatto carico alla Repubblica di rimuovere tali disuguaglianze proprio attraverso la realizzazione di politiche che rendano pienamente godibili da parte di tutti i consociati i diritti sociali, perché da tale pieno godimento deriva il superamento delle disparità economiche e sociali e, quindi, anche l’effettività dei diritti di libertà. Ne deriva, quindi, l’incompatibilità con l’ordinamento costituzionale vigente di quella tradizionale lettura dei diritti sociali come antagonisti rispetto ai diritti di libertà, in quanto postulanti necessarie politiche redistributive della ricchezza presente all’interno della comunità politica. Secondo l’impostazione repubblicana, infatti, gli uni sono complementari agli altri e, segnatamente, i primi funzionali all’effettività dei secondi, essendo evidente che il pieno godimento di diritti come quelli civili, politici ed economici presuppone il soddisfacimento delle condizioni economico-sociali minime che sono necessarie per accedere a detto godimento. Altrettanto tradizionalmente si ritiene che la principale differenza tra i diritti di libertà e i diritti sociali derivi dal diverso ruolo assegnato al pubblico potere. Mentre, infatti, i diritti di libertà richiedono, per il loro godimento, solo che il titolare si attivi con la sua autonoma condotta (si pensi al caso del proprietario di un bene che decide di utilizzarlo), con la conseguenza che grava sul pubblico potere solo il compito di astenersi da turbative e di assicurare al privato adeguati strumenti di tutela nei confronti degli altri privati che dovessero intromettersi nella sua sfera giuridica in violazione del principio del neminem laedere (cfr. art. 2043 c.c.), nel caso dei diritti sociali, il loro effettivo godimento è condizionato ad un previo intervento positivo dell’ordinamento, che deve creare le condizioni presupposte perché il titolare del diritto possa effettivamente eser-
I diritti e le libertà
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citarlo (si pensi all’organizzazione del servizio sanitario pubblico perché si possa esercitare il diritto alla cura come manifestazione del diritto alla salute). Per tale ragione si discorre dei diritti sociali come di “diritti condizionati” ovvero come di diritti “a prestazione”, proprio per evidenziare che il loro esercizio necessita dell’erogazione da parte del pubblico potere di “prestazioni” che presuppongono l’organizzazione di beni, servizi e lavoro, come quelle sanitarie, assistenziali, previdenziali, didattiche, etc. Ciò che è fondamentale rimarcare è che tale ricostruzione può essere considerata corretta solo a patto di non equivocare la differente struttura di queste due tipologie di diritti e, quindi, il differente ruolo del pubblico potere, per una diversa intensità della tutela accordata dall’ordinamento costituzionale. In particolare, non appare corretto affermare che la tutela dei diritti sociali è esclusivamente affidata alle scelte politiche del legislatore, che deve decidere quali e quante risorse investire per l’erogazione delle varie prestazioni necessarie a soddisfare i diversi diritti sociali (le c.d. “decisioni di bilancio”), mentre i diritti di libertà possono essere oggetto di tutela giurisdizionale, ossia davanti ad un giudice. E ciò per due ordini di motivi. Il primo è che, a loro volta, le scelte discrezionali del legislatore sono soggette al controllo di costituzionalità della Corte, che sindaca sia l’insufficienza delle scelte legislative di attuazione dei diritti sociali fornendo uno stimolo affinché il Parlamento provveda (sono le c.d. “sentenze monito”, su cui v. infra, Cap. X, par. 3), sia la ragionevolezza delle scelte legislative che riconoscono certi diritti a prestazione a determinate categorie soggettive e non ad altre che si trovano in situazioni analoghe, obbligando così lo Stato a far fronte alle maggiori spese dovute all’ampliamento della platea dei titolari dei diritti in questione (sono le c.d. “sentenze di spesa”, di cui si dirà infra), sia infine che le scelte di bilancio non pregiudichino il contenuto essenziale dei diritti sociali, che deve comunque essere garantito, previo bilanciamento tra i vari diritti e le esigenze di equilibrio della finanza pubblica (Corte cost., sent. n. 275/2016). Il secondo motivo è che l’evoluzione giurisprudenziale successiva all’entrata in vigore della Costituzione ha dimostrato che vi sono non pochi casi in cui anche i diritti sociali assumono la veste di diritti soggettivi giustiziabili perché nell’ambito della loro portata precettiva sono individuabili posizioni giuridiche soggettive pienamente azionabili davanti al giudice alla stregua dei diritti di libertà (si pensi al diritto al consenso informato o al diritto all’ambiente salubre nell’ambito del diritto alla salute, oppure al diritto alla scelta della professione lavorativa o del luogo di lavoro o al diritto a una retribuzione dignitosa nell’ambito del diritto al lavoro). Il novero dei diritti costituzionali contenuto in Costituzione o comun-
I diritti sociali come diritti “a prestazione”
Il controllo di costituzionalità sulle scelte legislative
La giustiziabilità dei diritti sociali
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I diritti sociali legati a posizioni di svantaggio
I diritti sociali riconosciuti indistintamente
Il diritto al lavoro
Capitolo III
que affermatosi all’interno dell’ordinamento, essenzialmente grazie alla giurisprudenza della Corte costituzionale, è particolarmente ampio. Al suo interno è possibile distinguere tra quei diritti sociali che sono riconosciuti in relazione alla particolare debolezza della situazione in cui si trova il titolare e quelli che vengono riconosciuti a tutti indipendentemente dall’esistenza di una condizione di svantaggio. Appartengono ai diritti sociali del primo tipo il diritto al lavoro di cui all’art. 4 Cost., il diritto dei «non abbienti» di avere «i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione» di cui all’art. 24, co. 3, Cost., il diritto alle cure gratuite per gli indigenti di cui all’art. 32, co. 1, Cost., il diritto dei «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi», di «raggiungere i gradi più alti degli studi» di cui all’art. 34, co. 3, Cost., i diritti (retributivi, assistenziali e previdenziali, ma non solo) riconosciuti ai lavoratori, alle lavoratrici e ai lavoratori minori di età dagli artt. 36-39 Cost., il già citato diritto di sciopero di cui all’art. 40 Cost., il diritto all’abitazione di coloro che non hanno risparmi per accedervi. Appartengono, invece, alla seconda categoria di diritti sociali il diritto all’istruzione di cui agli artt. 33, co. 2 e 34, co. 1, Cost., il diritto ad un periodo di istruzione obbligatoria e gratuita (art. 34, co. 2, Cost.), il diritto alla salute come «fondamentale diritto dell’individuo» (art. 32 Cost.), il diritto all’ambiente, il diritto all’informazione. Per la loro rilevanza ai fini dell’esercizio di molti altri diritti costituzionali, meritano una specifica, per quanto sintetica, considerazione il diritto al lavoro, il diritto alla salute e il diritto all’istruzione. La dimensione precettiva del diritto al lavoro si ricava dall’incipit dell’art. 4 Cost., ai sensi del quale la «Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». A tale impegno corrisponde, ai sensi del co. 2, il dovere di ogni cittadino di «svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». Dalla lettura combinata delle due previsioni emerge che compito della Repubblica è quello di porre in essere tutte le politiche pubbliche necessarie perché i consociati possano esprimere le proprie capacità e coltivare le proprie aspirazioni lavorative in modo profittevole non solo per sé stessi ma anche per la comunità. Come, infatti, risulta chiaramente dal dibattito svoltosi in Assemblea costituente, il ricorso all’espressione «diritto» non postula né per l’ordinamento l’obbligo di garantire a tutti un posto di lavoro, né per gli aspiranti lavoratori la possibilità di ricorrere al giudice per avere soddisfazione di tale diritto. La norma, dunque, costituisce un impegno essenzialmente per il legislatore, al quale è fatto carico di praticare politiche economiche e sociali che perseguano l’obiettivo della piena occupazione dei cittadini, con la
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conseguenza che il mancato raggiungimento di tale risultato non potrà essere giustiziato in un’aula di tribunale, ma dovrà essere oggetto di un giudizio politico alle successive periodiche revisioni del consenso elettorale. Hanno, invece, carattere di posizioni giuridiche soggettive direttamente azionabili in giudizio alcuni diritti che derivano dall’esistenza di un rapporto di lavoro, come il diritto ad una «retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto e comunque sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» (art. 36, co. 1), il diritto al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite, l’unico ad essere qualificato espressamente come irrinunziabile (art. 36, co. 3), il diritto ad avere assicurati mezzi adeguati alle esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia o disoccupazione involontaria (art. 38, co. 2). Partecipa di questa stessa natura anche il diritto alla conservazione del posto di lavoro, perché la giurisprudenza costituzionale, dopo aver in un primo momento escluso la qualificazione di tale diritto come costituzionalmente garantito (sent. n. 45/1965), ha poi ammesso che dall’art. 4 Cost. si possa ricavare in via interpretativa un diritto a non essere licenziati in maniera discriminatoria o arbitraria (ord. n. 56/2006). Al riguardo, vale la pena di ricordare che l’art. 18 del già citato “Statuto dei lavoratori” (legge n. 300/1970) prevedeva che, in caso di licenziamento ingiustificato, al lavoratore di impresa con più di 15 dipendenti spettasse non solo un indennizzo, ma anche la reintegrazione nel posto di lavoro. La legge n. 183/2014, però, nell’ambito di una riforma del mercato del lavoro ispirata alla logica dei contratti c.d. “a tutele crescenti” ha limitato il diritto alla reintegrazione a poche residuali fattispecie, consentendo nella generalità dei casi al datore di lavoro di non procedere alla riassegnazione del posto a fronte del pagamento di un adeguato indennizzo al lavoratore. Va, inoltre, sottolineato che la previsione dell’art. 4 Cost. non ha un valore meramente programmatico, ovvero del tutto rimesso alla discrezionalità politica, perché, oltre a legittimare tutti gli interventi legislativi volti a favorire i più elevati livelli occupazionali, comporta anche l’illegittimità costituzionale di ogni misura volta ad interferire nella libertà di scelta e nelle modalità di esercizio dell’attività lavorativa e di ogni ingiustificata discriminazione e/o ostacolo all’accesso al mondo del lavoro. È questo, infatti, quanto si ricava da quella giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. sentt. n. 248/1986, n. 108/1994, n. 332/2000, n. 391/2000) che ha dichiarato l’incostituzionalità di quelle norme che condizionavano l’accesso al lavoro a requisiti di ordine morale valutati discrezionalmente dalla pubblica amministrazione e che richiedevano quale requisito per l’assunzione nel pubblico impiego la condizione personale di non avere figli. Viceversa,
Diritti connessi al rapporto di lavoro
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La tutela costituzionale della salute
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la medesima giurisprudenza costituzionale ha chiarito che nella portata precettiva dell’art. 4 Cost. non rientra la libertà di svolgere qualsiasi attività lavorativa si possa desiderare perché il legislatore può fissare requisiti di qualificazione professionale per accedere a determinati lavori o professioni, al fine di tutelare i diritti costituzionali che sono coinvolti dall’esercizio delle relative attività lavorative, ma sempre secondo i principi del ragionevole bilanciamento e senza che l’imposizione di tali requisiti non renda eccessivamente oneroso l’accesso al lavoro (sent. n. 428/2008). Ai sensi dell’art. 32, co. 1, Cost., come in parte già accennato, la «Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti». Il diritto alla salute appare paradigmatico di tutte le caratteristiche dei diritti sociali che sono state evidenziate in termini generali a proposito della loro diversità rispetto ai diritti di libertà (v. supra, par. 1). In particolare, il diritto alla salute è, innanzitutto, un diritto a prestazione, ovvero alle cure mediche. In attuazione di tale diritto, il legislatore, con la legge n. 833/1978, ha istituito il c.d. “Servizio Sanitario Nazionale”, finanziato a carico dei bilanci pubblici (soprattutto quello regionale, cui si provvede con trasferimenti erariali), composto da tutti gli enti che compongono la Repubblica ai sensi dell’art. 114 Cost. (lo Stato, le Regioni, le Città metropolitane, le Province e i Comuni) e organizzato in apposite strutture assistenziali per l’erogazione delle prestazioni sanitarie. Esso presenta, inoltre, le caratteristiche tipiche del diritto condizionato, perché come ha affermato la giurisprudenza costituzionale, da un lato, il legislatore nel dare ad esso attuazione deve effettuare un bilanciamento con gli altri interessi costituzionalmente rilevanti e con il limite delle risorse finanziarie disponibili (sent. n. 445/1990), dall’altro, però, non può pregiudicare il nucleo essenziale del diritto inteso come «ambito inviolabile della persona umana» (sent. n. 94/2009). Altro aspetto paradigmatico del diritto alla salute in quanto diritto sociale è la riconducibilità all’interno del suo alveo di tutela di numerose posizioni giuridiche soggettive, alcune delle quali suscettibili anche di essere oggetto di tutela giurisdizionale. Si pensi, innanzitutto, al diritto di non essere sottoposti a trattamenti sanitari obbligatori (come i tanto controversi vaccini anti Covid-19) se non nei casi previsti dalla legge (si pensi sempre alla lotta alle malattie infettive) e, comunque, nel rispetto del limite della dignità umana (art. 32, co. 2, Cost.). Oppure si pensi al diritto all’integrità psico-fisica, che è assistito da una speciale tutela penalistica (cfr. art. 582 c.p., che punisce il reato di lesioni personali) e dal diritto ad ottenere, sul piano civilistico il risarcimento del pregiudizio subito anche nei casi in cui la condotta lesiva non produca un danno di natura patrimoniale (è il c.d. “danno biologico”).
I diritti e le libertà
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Ancora, si deve effettuare qualche considerazione più approfondita su due ulteriori diritti che si ricavano dall’art. 32 Cost. e cui si è fatto prima riferimento ad altro fine. Il primo è il c.d. “diritto all’ambiente”, che la giurisprudenza della Corte di cassazione ha storicamente ricavato dalla disciplina civilistica del rapporto di lavoro (cfr. art. 2087 c.c. sulla sicurezza dei luoghi di lavoro), interpretandolo proprio alla luce della tutela costituzionale della salute e che la Corte costituzionale ha riconosciuto come interesse costituzionalmente protetto pur nel silenzio originario della Costituzione, che all’art. 9 Cost. tutelava solo il paesaggio (ord. n. 184/1983, sentt. nn. 94 e 359/1985, nn. 39 e 151/1986, nn. 167 e 191/1987), giungendo a qualificare diritto alla salute e diritto all’ambiente come «valori costituzionali primari» (sent. n. 210/1987) e il secondo come «valore assoluto», quasi addirittura non bilanciabile e prevalente su tutti gli altri, e comunque configurabile come oggetto di tutela giuridica alla stregua di un «bene unitario» (sent. n. 1029/1988). Una poderosa spinta alla tutela dell’ambiente è, poi, venuta anche dal diritto internazionale e dal diritto UE. In particolare, quest’ultimo ha dato un contributo fondamentale a sviluppare due principi che hanno rivoluzionato gli strumenti di tutela dell’ambiente, ovvero il principio di precauzione, in forza del quale, in assenza di dati certi circa gli effetti sull’ambiente di una data attività antropica si deve seguire la via più cautelativa per le risorse naturali (cfr. art. 191 TFUE), e il principio di integrazione, ai sensi del quale gli interessi ambientali devono essere valutati trasversalmente nella formazione di tutte le politiche pubbliche (industriali, turistiche, infrastrutturali, agricole, etc.) (cfr. art. 11 TFUE). Nel nostro ordinamento costituzionale, infine, un decisivo passo in avanti verso la tutela costituzionale dell’ambiente è stato recentemente realizzato con la legge cost. n. 1/2022, la quale ha inserito nell’art. 9 Cost. un co. 3, il quale fa carico alla Repubblica di «tutela[re] l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni» e ha contestualmente novellato l’art. 41 Cost., prevedendo, al co. 2, che l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno, oltre che alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, altresì «alla salute» e «all’ambiente» e, al co. 3, che l’attività economica possa essere indirizzata e coordinata dalla legge anche a «fini ambientali», oltre che sociali. Si può, dunque, concludere che, per effetto dell’evoluzione fin qui sinteticamente ricostruita, l’ambiente è ormai assunto come oggetto di tutela giuridica in quanto bene unitario alla stregua di un valore primario complementare al diritto alla salute, la cui effettività è incrementata dalle norme dirette a proteggere i consociati dai vari tipi di inquinamento, a conservare e sviluppare le risorse naturali, a tutelare le aree di particolare
Il “diritto all’ambiente”
L’ambiente in Costituzione (legge cost. n. 1/2022)
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Il consenso informato
Le DAT
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pregio naturalistico, ad assicurare condizioni ambientali in grado di migliorare la qualità della vita, come ben compendia l’efficace formula del “diritto ad un ambiente salubre”. Il secondo ulteriore (e già citato) diritto che trova protezione costituzionale nell’art. 32 Cost. è il diritto al consenso informato, che l’ordinamento riconosce in capo al paziente che deve essere sottoposto a trattamento sanitario e che comporta il correlato obbligo del personale sanitario di informare il paziente su tutte le conseguenze possibili della pratica medica che deve essere eseguita e, solo dopo, di acquisire l’assenso del paziente; obbligo la cui violazione determina una responsabilità specifica del medico, anche indipendentemente dall’esito favorevole del trattamento terapeutico praticato. Come è stato precisato dalla giurisprudenza oltre che dalle discipline di settore, per essere validamente acquisito il consenso deve soddisfare alcuni requisiti, ovvero deve essere: 1) informato, cioè avere a monte una informazione esaustiva, veritiera e comprensibile; 2) consapevole, ovvero essere espresso da una persona che, ricevuta correttamente e completamente l’informazione, sia capace di intendere e di manifestare una volontà; 3) personale, cioè rilasciato esclusivamente dal paziente (in linea di principio, non dai familiari); 4) espresso, perché la volontà deve essere esplicita, inequivocabile e tendenzialmente manifestata per iscritto; 5) specifico, perché relativo ad uno specifico trattamento sanitario, con la conseguenza che il consenso prestato per una determinata prestazione non legittima il medico ad eseguirne una diversa, salvo che sopraggiunga una situazione di necessità ed urgenza, che per la sua imprevedibilità non permettere di chiedere un nuovo consenso; 6) revocabile, perché il paziente deve sempre essere messo in condizione di ritirare il consenso, anche nelle immediatezze dell’esecuzione del trattamento; 7) attuale, perché va manifestato prima della prestazione sanitaria proposta e non molto tempo prima (perché il paziente nel frattempo potrebbe aver cambiato idea). Il soddisfacimento di quest’ultimo requisito appare difficile in relazione ai trattamenti finalizzati alla sopravvivenza meramente biologica del paziente, soprattutto quando quest’ultimo non sia in grado di esprimere direttamente la sua volontà proprio per le gravi condizioni di salute in cui versa. Per affrontare il problema, la legge n. 219/2017 ha disciplinato il c.d. “testamento biologico”, consentendo che la persona, in relazione alla possibilità di trovarsi in futuro in stato di incapacità, possa esprimere anticipatamente la propria volontà di essere sottoposta ad eventuali trattamenti sanitari per situazioni di estrema gravità attraverso le c.d. “disposizioni anticipate di trattamento”. Tali disposizioni, secondo la legge, possono sempre essere revocate e il medico non ne può prescindere se non nel caso in cui si la scienza e la tecnica abbiano reso disponibili trattamenti curativi inesistenti all’epoca della redazione delle disposizioni.
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Da ultimo, conviene accennare ad un tema di sicura rilevanza costituzionalistica, tradizionalmente ricondotto alle problematiche dell’effettività del diritto alla salute: l’obiezione di coscienza, in particolare, quella degli operatori sanitari rispetto all’esecuzione di trattamenti sanitari che sollevino conflitti con le loro convinzioni personali, religiose, morali, etc. Nel nostro ordinamento il problema storicamente si pone in tutta la sua delicatezza in occasione dell’introduzione della legge sull’interruzione volontaria della gravidanza (legge n. 194/1978, c.d. “sull’aborto”), la quale prevede espressamente che il medico possa sollevare obiezione di coscienza e non essere costretto, quindi, ad eseguire la pratica abortiva in necessario adempimento dei propri doveri d’ufficio (art. 9). Il diritto all’obiezione di coscienza può, però, essere considerato un diritto costituzionalmente garantito anche nel silenzio del legislatore, atteso che la Corte costituzionale ha definitivamente chiarito che «la protezione della coscienza individuale si ricava dalla tutela delle libertà fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti e garantiti all’uomo come singolo, ai sensi dell’art. 2 Cost.» (sent. n. 467/1991, in tema di servizio di leva obbligatorio). Naturalmente, tale diritto deve andare soggetto alla ordinaria logica di bilanciamento, per cui, nel caso dell’obiezione di coscienza del medico, sembra doversi ritenere che, ove esso non sia stato espressamente riconosciuto (e bilanciato in astratto dal legislatore con la tutela della salute), l’eventuale rifiuto del personale sanitario di praticare il trattamento deve ritenersi legittimo solo quando non comporta un grave ed irreparabile pregiudizio alla vita da curare o da salvare. Quanto al diritto all’istruzione, anch’esso presenta al suo interno diverse posizioni giuridiche soggettive costituzionalmente tutelate, alcune delle quali riconosciute non solo alle persone fisiche, ma anche a talune persone giuridiche: il diritto a frequentare scuole statali di ogni ordine e grado (art. 33, co. 2, Cost.) e di farlo gratuitamente per i primi otto anni dell’istruzione inferiore (art. 34, co. 2, ove si prevede anche che per tale periodo la frequenza della scuola è obbligatoria. Si veda anche l’art. 156, co. 1, d.lgs. n. 297/1994, che stabilisce la gratuità dei libri di testo per le elementari); il diritto riconosciuto ai privati e agli Enti di istituire scuole senza oneri per lo Stato (art. 33, co. 3); il diritto degli studenti delle scuole private di avere un trattamento equipollente a quello delle scuole statali (art. 33, co. 4); il diritto di istituzioni di alta cultura, Università ed accademie, di «darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato» (art. 33, co. 6); il già citato diritto dei «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi» di «raggiungere i gradi più alti degli studi» (art. 34, co. 3); il c.d. “diritto allo studio”, inteso come diritto a che la Repubblica (ma si veda la legge n. 390/1981 che ha affidato alle Regioni tale compito sotto l’indirizzo e il coordinamento dello Stato) sostenga i capa-
L’obiezione di coscienza
Il diritto all’istruzione
Il “diritto allo studio”
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I corsi universitari a numero chiuso
I corsi di studio in lingua diversa dall’italiano
Capitolo III
ci e meritevoli in condizioni di bisogno economico con «borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso» (art. 34, co. 4). Nella disciplina costituzionale dell’istruzione, dunque, convivono due anime, una rivolta alla tutela delle posizioni giuridiche soggettive che ruotano intorno all’organizzazione del servizio didattico (la libertà di insegnamento, il diritto di istituire scuole e Università private, la libertà delle istituzioni private di organizzare la didattica nel rispetto dei requisiti e degli obblighi per l’ottenimento di un regime paritario rispetto a quello statale), una indirizzata, invece, alla platea degli utenti di tale servizio (i diritti degli studenti e delle loro famiglie). In particolare, l’incipit dell’art. 34, co. 1, Cost., nell’affermare che «la scuola è aperta a tutti» declina in relazione al diritto all’istruzione il principio di uguaglianza in senso formale, vietando ogni forma di discriminazione nell’accesso al sistema scolastico, mentre il carattere gratuito e obbligatorio della scuola inferiore e la previsione del c.d. “diritto allo studio” per l’istruzione superiore e universitaria garantiscono che il sistema pubblico e privato di accesso all’istruzione si informi anche al principio di uguaglianza in senso sostanziale. In tema di parità di accesso all’istruzione, una delle questioni più spinose che l’ordinamento costituzionale ha dovuto affrontare è quella della legittimità dell’imposizione del numero chiuso in certi corsi di studio universitari, che è conseguito alla diffusione dell’università di massa dopo la c.d. “rivoluzione del 1968”. Il tema è stato affrontato dalla Corte costituzionale, la quale ha avuto modo di chiarire che le limitazioni del diritto di iscriversi ai corsi universitari in base alle proprie inclinazioni e aspirazioni non si pongono in contrasto con la libertà di accesso ad ogni ordine di scuola, che si deve ritenere applicabile anche alle Università, solo se il legislatore le prevede in astratto per assicurare che l’erogazione delle prestazioni universitarie sia compatibile con le risorse finanziarie e organizzative a disposizione, in modo che il servizio erogato risulti sempre adeguato e pienamente satisfattivo del diritto degli studenti iscritti (sent. n. 383/1998). Altra questione che ha fatto molto discutere e che impatta non solo sulla parità di accesso ai corsi universitari, ma anche sulla libertà dell’insegnamento tutelata dall’art. 33, co. 1, Cost., è quella relativa alla legittimità dell’istituzione di interi corsi di studio (non quindi soltanto di alcuni insegnamenti) in lingua diversa da quella italiana, cui alcuni Atenei hanno proceduto nell’ambito delle politiche di internazionalizzazione previste dalla legge n. 240/2010. Il problema si è posto perché la Costituzione prevede solo implicitamente l’italiano come lingua ufficiale della Repubblica, come si ricava dall’art. 6 Cost. che tutela le minoranze linguistiche, cui è stato dato attuazione dalla legge n. 482/1999, il cui art. 1
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si apre proprio con l’enucleazione del principio di ufficialità della lingua italiana, mentre l’obbligatorietà dell’uso dell’italiano nell’insegnamento universitario è prevista solo da una vecchia normativa prerepubblicana (art. 271, r.d. n. 159/1933). Anche su tale questione è intervenuta la giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha affermato che il principio di ufficialità della lingua italiana ha rango costituzionale e che esso comporta un primato della lingua italiana «costituzionalmente indefettibile», il quale non consente che ad essa venga attribuito uno spazio marginale nell’insegnamento universitario (sent. n. 42/2017).
6. I doveri costituzionali Ai sensi dell’art. 2 Cost., la Repubblica, oltre a riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». La scelta del Costituente di associare nella medesima sedes la previsione generale dei diritti inviolabili e l’adempimento dei doveri inderogabili si spiega alla luce del principio solidaristico (v. supra, Cap. II, par. 2) e dell’obbligo di perseguire l’obiettivo dell’uguaglianza in senso sostanziale e testimonia come i due aspetti siano complementari ed inscindibili nel contesto dell’ordinamento pluralista, non dovendosi, dunque, concepire l’imposizione dei doveri costituzionali come una mera limitazione dei diritti di libertà a scopo sociale, ma come lo strumento per la realizzazione di una comunità politica integrata e coesa e, quindi, di una cittadinanza attiva nell’esercizio dei diritti e nella contribuzione agli interessi costituzionali comuni. Il primo dovere costituzionale che si incontra nello studio della Carta costituzionale è il dovere di lavorare, in relazione al quale l’art. 4, co. 2, Cost. prescrive che «ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». La norma costituisce l’altra faccia dell’impegno della Repubblica nel perseguimento delle politiche di piena occupazione e rappresenta uno sviluppo del principio lavoristico di cui all’art. 1 Cost. (v. supra, Cap. II, par. 2). Il riferimento alle «proprie possibilità», poi, trova un corollario nel già citato «diritto al mantenimento e all’assistenza sociale» che l’art. 38, co. 1, Cost. garantisce ad ogni cittadino inabile al lavoro e privo dei mezzi necessari per vivere. Secondo la dottrina maggioritaria si tratta di un dovere morale, più che di un obbligo giuridicamente sanzionato, potendosi ragionare di un vero e proprio obbligo solo quando questo sia imposto dal legislatore in
Il dovere di lavorare
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L’art. 23 Cost.
Il sacro dovere di difesa della Patria
Capitolo III
considerazione di situazioni eccezionali di particolare gravità (come guerre, pandemie, emergenze nazionali) che rendano qualificabile la prestazione lavorativa come adempimento del dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. Non si può, però, escludere che, proprio in relazione agli strumenti che l’ordinamento pone in essere per rendere effettivo il diritto al lavoro come diritto all’occupazione, il legislatore possa ricollegare delle conseguenze negative alla scelta del cittadino di non prestare la propria attività lavorativa nelle forme in cui gli è reso possibile farlo (ad esempio il disoccupato che ha diritto all’indennità mensile di disoccupazione, c.d. “Naspi”, perde il beneficio se rifiuta un’offerta di lavoro congrua). Un secondo dovere espressamente considerato dal testo costituzionale è quello dell’art. 23 Cost., secondo cui «nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge», dal quale si ricava che il legislatore può imporre doveri personali e patrimoniali strumentali all’attuazione del principio solidaristico e del principio di uguaglianza sostanziale; riserva di legge di cui si ammette il carattere relativo, consentendo, quindi, che le prestazioni siano specificate anche da fonti secondarie, purché nei limiti espressamente autorizzati dalle legge. Vi è concordia in dottrina sull’idea che per prestazioni personali vanno intese tutte quelle attività che comportino l’impiego di risorse fisiche o mentali e che, quindi, l’imposizione di esse funzioni come limitazione alla libera scelta dell’individuo di dedicare tempo, risorse ed energie materiali e intellettuali a ciò che desidera. Secondo la dottrina maggioritaria, inoltre, le prestazioni imposte possono avere anche ad oggetto un non facere, ovvero un comportamento negativo. In genere, però, tali prestazioni risiedono in comportamenti attivi che astrattamente potrebbero dar diritto ad una controprestazione (si pensi alla retribuzione della prestazione lavorativa), ma che l’ordinamento prescrive venga erogata a titolo gratuito proprio in quanto collegata al soddisfacimento di un interesse costituzionalmente rilevante. Si pensi, ad esempio, ad alcuni uffici pubblici, cui è ricollegato un compenso economico che non ha carattere retributivo della prestazione, come quello di presidente e scrutatore di seggio, di giudice popolare, di tutore. Ma si pensi anche alla miriade di prestazioni personali che l’ordinamento prevede per lo stato di guerra (come l’obbligo per chiunque ne sia richiesto di prestare la propria opera), per gli stati di emergenza sanitaria (come l’obbligo per i medici di mettersi a disposizione) o per le situazioni di pericolo per l’ordine pubblico (come l’obbligo per i pubblici ufficiali di dare informazioni in caso di tumulto). Un dovere costituzionale comportante prestazioni personali è quello previsto e disciplinato dall’art. 52 Cost., secondo il cui co. 1 «la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino». In quanto tale, esso si impone
I diritti e le libertà
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dunque a tutti i cittadini, può essere adempiuto nei modi più vari e può comportare tutte le limitazioni ai diritti di libertà che l’obiettivo cui è preordinato, ossia la difesa del territorio nazionale da minacce esterne, richiede. I successivi co. 2 e 3, poi, disciplinano la forma più tradizionale di adempimento del dovere di difendere la patria, ovvero la difesa armata, quella storicamente affermatasi come strumento di reazione alle minacce belliche provenienti dall’esterno. Essi dettano alcune garanzie per assicurare che le pur possibili limitazioni di diritti e libertà connessi con l’adempimento del dovere (si pensi, ad esempio, alla libertà di espatrio o di manifestazione del pensiero di colui che sia chiamato alle armi in caso di guerra) rimangano compatibili con l’ordinamento democratico. Si tratta della riserva di legge in tema di obbligatorietà del servizio militare (co. 2), del diritto del cittadino militare di mantenere il posto di lavoro (co. 2) e di non vedere limitati i suoi diritti politici (co. 2), nonché dell’obbligo per l’ordinamento delle forze armate di conformarsi «allo spirito democratico della Repubblica» (co. 3). È bene chiarire che la difesa armata rappresenta solo una delle possibili prestazioni che la Repubblica può pretendere per l’adempimento del dovere di cui all’art. 52 Cost., come testimonia l’evoluzione dell’istituto del servizio di leva obbligatorio, che è stato sospeso dalla legge n. 331/2000 in funzione della trasformazione delle forze armate in corpi formati esclusivamente da personale professionale (carriera cui nell’esercito e nella guardia di finanza, per effetto del d.lgs. 24/2000, possono accedere anche le donne). Contemporaneamente la legge n. 64/2001 ha istituito il servizio civile nazionale, che, dopo un periodo in cui era posto in alternativa alla leva obbligatoria, viene oggi prestato su base esclusivamente volontaria. A tale assetto l’ordinamento è pervenuto per tutelare l’obiezione di coscienza di coloro che sono soggetti al dovere di difesa ma che, per ragioni morali o religiose, rifiutavano l’uso delle armi come modalità di adempimento del predetto obbligo, i quali venivano puniti penalmente in quanto renitenti alla leva. Con la legge n. 230/1998, in particolare, l’obiezione di coscienza è stata riconosciuta per la prima volta come un vero e proprio diritto, che consentiva, fino al 2000, al cittadino di adempiere l’obbligo di difesa attraverso il servizio civile sostitutivo, in tutto parificato a quello militare; diritto che era precluso solo per specifiche categorie di soggetti, come i titolari di licenze o autorizzazioni a tenere armi, coloro che avevano presentato domanda per prestare il servizio militare in un corpo armato, coloro che avevano riportato condanne per detenzione, uso, trasporto, importazione o esportazione di armi o per delitti non colposi commessi con l’uso della violenza contro persone o riguardanti l’appartenenza a gruppi eversivi o di criminalità organizzata. Sono prestazioni patrimoniali, invece, quelle che incidono sul patri-
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Le obbligazioni tributarie
Il concetto di capacità contributiva
La progressività del sistema tributario
Capitolo III
monio del soggetto tenuto all’adempimento del dovere determinandone una diminuzione. A questa categoria appartengono essenzialmente le obbligazioni di carattere tributario, che possono essere distinte in tre diverse tipologie: le imposte, ovvero i tributi imposti dalla legge in considerazione del possesso di una capacità contributiva (si pensi all’Irpef, l’imposta sul reddito delle persone fisiche); le tasse, ossia quei tributi imposti a coloro che usufruiscono di determinati beni o servizi pubblici o che servono per indennizzare la collettività di un pregiudizio subito (si pensi alle tasse sui rifiuti o a quella di soggiorno per i visitatori delle città); i contributi speciali, ovvero i tributi corrisposti da quei soggetti che ricevono un particolare beneficio da un’attività amministrativa avente fini generali (si pensi al contributo di bonifica, dovuto dai proprietari degli immobili siti in zone soggette a manutenzione idraulica). In materia di dovere di contribuzione fiscale, in particolare, l’art. 53 Cost. detta due fondamentali principi. Secondo il primo, «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» (co. 1). La capacità contributiva di cui discorre il co. 1 può essere considerata come la complessiva capacità economica del soggetto passivo dell’obbligo contributivo e viene misurata attraverso appositi “indici”. La Corte costituzionale ha chiarito, infatti, che la capacità contributiva richiede che «vi sia un collegamento tra prestazione imposta e presupposti economici presi in considerazione, in termini di forza e consistenza economica dei contribuenti o di loro disponibilità monetarie attuali, quali indici concreti di situazione economica degli stessi contribuenti» (sent. n. 155/2001). I principali indici di capacità contributiva sono il reddito, il consumo e il patrimonio. Il reddito è il flusso di ricchezza che ogni soggetto variabilmente destina al consumo e al risparmio. Il consumo è la quota del reddito non risparmiata. Il patrimonio, infine, è lo stock di ricchezza mobiliare e immobiliare detenuto in un determinato momento. Non ogni condizione economicamente rilevante è, però, indice di capacità contributiva: ad esempio, al di sotto di un certo livello reddituale, il c.d. “reddito minimo” determinato dalla legge, non vi è capacità contributiva e non si pratica, quindi, imposizione fiscale. La capacità contributiva è allo stesso tempo un limite per il legislatore, perché le leggi tributarie non devono colpire fatti che non siano espressivi di capacità contributiva, e una garanzia per il contribuente, il quale non può essere sottoposto ad imposizione se non in presenza di fatti che esprimono capacità contributiva (il complesso delle garanzie, anche procedimentali, del contribuente è ora previsto dalla legge n. 212/2000, recante il c.d. “Statuto del contribuente”). In forza del secondo principio, poi, il «sistema tributario è informato a criteri di progressività». Detto principio postula che la percentuale di base imponibile che individua quanto dovuto dal contribuente, la c.d.
I diritti e le libertà
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“aliquota di imposizione”, deve crescere in modo più che proporzionale rispetto al reddito, in modo che a redditi maggiori corrisponda una imposizione maggiore non solo in termini assoluti; il che consente quella redistribuzione della ricchezza che è necessaria ai fini dell’attuazione dell’art. 3, co. 2, Cost. Il principio di progressività può essere attuato dal legislatore con diverse modalità: 1) con “detrazioni”, quando si colpisce la base imponibile con un’aliquota costante, dopo aver detratto un ammontare fisso direttamente dalla base imponibile; 2) attraverso “classi”, quando ad ogni classe imponibile corrisponde un’aliquota costante, che cresce passando da una classe inferiore ad una superiore; 3) con “scaglioni”, quando per ogni classe di imponibile è prevista un’aliquota che si applica solo allo scaglione di imponibile previsto in quella determinata classe; 4) con “aliquota continua”, quando l’aliquota aumenta continuamente con l’aumentare della base imponibile, fino ad un tetto massimo, raggiunto il quale essa rimane invariata. È bene chiarire che la norma costituzionale non richiede che ogni singolo tributo rispetti il principio di progressività, ma che ad esso si ispiri il sistema tributario complessivamente considerato; il che rende non facile il controllo di costituzionalità sul rispetto del principio da parte del legislatore, anche perché esso non si applica alle c.d. “imposte indirette”, ovvero quelle che vengono riscosse su beni e servizi prima che vengano forniti al consumatore finale, il quale paga dunque l’imposta indiretta come parte del prezzo di mercato del bene o del servizio acquistato (si pensi all’Iva o alle c.d. “accise” su carburanti, alcool, tabacco e prodotti energetici). L’art. 48 individua, poi, un ulteriore dovere costituzionale nel qualificare l’esercizio del diritto di voto come «dovere civico». La norma rappresenta il punto di arrivo di un intenso dibattito svoltosi in Assemblea costituente, il quale ha visto contrapposti quanti ritenevano che il voto andasse qualificato esclusivamente come diritto di libertà, al massimo connotandolo come mero obbligo morale, quindi giuridicamente non sanzionato, a quanti sostenevano, invece, che la necessaria valorizzazione della funzione elettorale come strumento di legittimazione democratica dell’ordinamento costituzionale dovesse comportare l’introduzione di un vero obbligo di voto, la cui violazione avrebbe potuto essere anche penalmente sanzionata. Tale scelta intermedia è stata attuata dal legislatore prevedendo alcune lievi sanzioni amministrative per coloro che, senza giustificazione, non esercitavano il diritto di voto nelle elezioni politiche, tra cui l’obbligo di dare giustificazione al Sindaco e l’inserimento del nome in un elenco affisso nell’albo comunale per un mese (art. 115, d.p.r. n. 361/1957). Tale disciplina è stata abrogata nel 1993, ma ancora oggi la legislazione elettorale prevede il carattere doveroso del voto, cui non segue più, però, alcuna forma di sanzione.
Il dovere civico di voto
112 Fedeltà alla Repubblica e osservanza della Costituzione
Capitolo III
Infine, altro dovere costituzionale è quello di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione e delle sue leggi, posto in capo a tutti i cittadini dall’art. 54, co. 1, Cost., il quale prevede anche, al co. 2, che i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno «il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge». I due doveri, di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione e delle sue leggi, sono tra loro complementari perché il secondo, in una prospettiva analitica, richiede il rispetto di tutte le norme che compongono l’ordinamento, mentre il primo, dettato in una prospettiva sintetica e riassuntiva dello spirito repubblicano, ha una portata più ampia in quanto riferita a tutti i doveri pubblici complessivamente considerati, al principio solidaristico e, più in generale, a quel nucleo immodificabile della Costituzione che è sottratto anche al procedimento di revisione costituzionale (v. infra, Cap. IV, par. 4). A fronte dell’ampiezza di tale dovere, la dottrina ha sottolineato come esso non possa, però, comportare limitazioni ai diritti e alle libertà riconosciuti dalla Costituzione stessa, perché questi ultimi fanno certamente parte proprio di quel “nucleo duro” di cui il dovere dell’art. 54 Cost. pretende l’osservanza. Se ne ricava, sul piano più concreto, che, in aggiunta al rispetto dei singoli doveri previsti espressamente in Costituzione, il dovere di fedeltà alla Repubblica comporti l’obbligo di non tenere alcuna condotta vietata in funzione della repressione di comportamenti diretti al sovvertimento violento del sistema costituzionale o comunque volti a realizzare interferenze indebite nell’ordinario esercizio dell’attività degli organi costituzionali e, più in generale, degli altri organi titolari di funzioni pubbliche funzioni. Quanto al citato dovere di adempiere con disciplina ed onore alle funzioni pubbliche, esso, come detto, si accompagna al giuramento, che la legge prevede solo per alcuni titolari di uffici pubblici, come ad esempio, i giudici della Corte costituzionale, i magistrati in genere, i Sindaci ed i Presidenti delle Province, etc. Le conseguenze della violazione di detto dovere sono in alcuni casi previste dalla stessa Costituzione, come nel caso della responsabilità del Presidente della Repubblica per alto tradimento o attentato alla Costituzione di cui all’art. 90 Cost. (v. infra, Cap. VI, par. 2.3) e della responsabilità dei membri del Governo per i c.d. “reati ministeriali” (v. infra, Cap. VI, par. 3.11), ma per la generalità dei titolari di munera pubblici sono disciplinate dalla legge, anche attraverso l’introduzione di apposite ipotesi di responsabilità c.d. “disciplinare”, la quale comporta l’applicazione di sanzioni di varia natura (rimproveri, ammende, sospensioni dal servizio e, in casi estremi, licenziamento) all’esito di un giudizio in cui al pubblico dipendente viene riconosciuto un pieno diritto di difesa. Una controversa sanzione legata alla violazione del dovere in questione è quella prevista dal legislatore sotto forma di
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sospensione del diritto a ricoprire cariche elettive locali o regionali nei confronti dei titolari di dette cariche che abbiano riportato sentenze di condanna, anche non definitive, per reati connessi con l’esercizio delle loro funzioni (d.lgs. n. 235/2012, c.d. “legge Severino”), la quale ha posto evidenti problemi di compatibilità con il principio di non colpevolezza di cui all’art. 27 Cost., secondo cui nessuno può essere considerato colpevole fino alla condanna definitiva. Al riguardo, la Corte costituzionale, nel dichiarare infondata la questione di costituzionalità, ha affermato che anche una condanna non definitiva per un delitto contro la pubblica amministrazione comporta l’accertamento di una violazione sia del principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost., sia dell’obbligo di agire con disciplina e onore di cui all’art. 54 Cost.
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Capitolo III
CAPITOLO IV
LE FONTI E L’INTERPRETAZIONE NELL’ORDINAMENTO ITALIANO SOMMARIO: 1. Le principali classificazioni e la qualificazione delle fonti del diritto. – 2. La natura dell’interpretazione giuridica e la sua disciplina legale. – 3. Il problema delle antinomie normative e i criteri per la loro risoluzione. – 4. La Costituzione e leggi costituzionali. – 5. Le fonti primarie: la legge. – 6. Gli atti aventi forza di legge: decreti legislativi e decreti-legge. – 7. Le fonti secondarie: i regolamenti dell’Esecutivo. – 8. Le fonti extra ordinem. – 9. Le fonti consuetudinarie. – 10. Le tendenze evolutive del sistema delle fonti del diritto.
1. Le principali classificazioni e la qualificazione delle fonti del diritto Il sistema delle fonti del diritto muta con l’evolversi delle forme di stato e di governo, nonché a seguito dell’interazione con altri ordinamenti, in particolare a livello sovranazionale e internazionale. Per questa ragione, è particolarmente importante, alla luce delle tendenze in atto, delineare alcune classificazioni di rilievo che consentono di ridurre a sistema i rapporti che intercorrono tra le diverse fonti ed enucleare alcune caratteristiche che valgono a differenziare le fonti del diritto da altri atti pubblici. Una visione complessiva delle fonti normative operanti nel nostro ordinamento e dei criteri mediante i quali una vasta pluralità di fonti tra loro eterogenee si risolve in un sistema unitario è, infatti, un elemento indispensabile per la funzionalità di ogni ordinamento giuridico. Una classica definizione di fonti del diritto è quella che individua in esse gli atti o fatti cui l’ordinamento giuridico connette la nascita, oppure la modificazione o l’estinzione di una norma giuridica, in quanto tale dotata di efficacia erga omnes; ovvero gli atti e i fatti attraverso i quali un determinato ordinamento è posto e continuamente si rinnova. Indubbiamente, tra le tendenze evolutive che contraddistinguono l’ordinamento nel suo fare “sistema” vi è la prevalenza delle c.d. “fonti-atto”, ovvero di
Fonti-atto e fonti-fatto
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Fonti di produzione e fonti di cognizione
Le fonti sulla normazione
Capitolo IV
quegli atti giuridici caratterizzati dalla forma scritta, rispetto alle c.d. “fonti-fatto”, ovvero quelle fonti non scritte del diritto che derivano dalle condotte dei consociati e che si originano quando tali comportamenti hanno determinate caratteristiche, che ne definiscono la regolarità strutturale (v. infra, par. 9). Un’altra classificazione fondamentale nell’ambito delle fonti del diritto concerne la distinzione tra le c.d. “fonti di produzione”, ovvero quegli atti o fatti capaci di creare una nuova norma di comportamento o di organizzazione, individuando l’organo titolare e il procedimento di produzione dell’atto normativo, e le c.d. “fonti di cognizione”, che sono invece quei supporti documentali attraverso i quali l’ordinamento rende pubblica e conoscibile l’avvenuta introduzione di una nuova norma per effetto delle fonti di produzione. Tra le fonti di produzione assumono particolare rilievo le c.d. “fonti sulla normazione” o “fonti sulla produzione”, che sono chiamate a disciplinare gli ambiti materiali (ovvero le materie su cui possono intervenire), il procedimento di formazione e l’efficacia delle fonti di produzione. Nel nostro ordinamento la fondamentale fonte sulla normazione è la Costituzione, la quale, per un verso, contiene la disciplina delle altre fonti c.d. “primarie”, ovvero quelle che traggono il loro diretto fondamento di validità nelle norme costituzionali e, per questo, trovano in esse il loro parametro di legittimità (si pensi, ad esempio, alle leggi, ai decreti-legge e ai decreti-legislativi), dall’altro, occasionalmente rinvia ad altre fonti la regolazione parziale dei processi creativi di norme giuridiche (si pensi al caso dei regolamentari parlamentari, cui è demandata la definizione di alcune fasi del procedimento di formazione delle leggi ordinarie). Vi sono, poi, norme sulla produzione contenute in fonti primarie che non sono espressamente oggetto di rinvio da parte delle norme costituzionali. Come si dirà meglio infra (par. 6 ss.), è questo il caso, ad esempio, della legge n. 400/1988, la quale contiene norme in ordine al procedimento di formazione, al contenuto e ai limiti dei decreti legislativi (art. 14), dei decreti-legge (art. 15) e dei regolamenti dell’esecutivo come fonti c.d. “secondarie” (art. 17). Proprio come nel caso della legge n. 400/1988 rispetto ai regolamenti, infatti, le fonti di rango primario possono non solo regolare altre fonti primarie (con o senza una espressa “copertura” costituzionale), ma anche istituire altre fonti, che traggono il loro fondamento di validità e trovano il loro parametro di legittimità non direttamente nelle norme della Costituzione, ma, appunto nelle norme primarie, e che, per questa ragione, sono dette “fonti secondarie”. Pertanto, si è soliti affermare che il nostro ordinamento conosce un “numero chiuso” di fonti primarie, e, invece, un “numero aperto” di fonti secondarie, poiché la legge può prevedere diverse ulteriori tipologie di fonti secondarie.
Le fonti e l’interpretazione nell’ordinamento italiano
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Nel nostro ordinamento le “fonti del diritto” sono state per la prima volta individuate sistematicamente nelle c.d. “preleggi”, cioè nelle “disposizioni sulla legge in generale” che aprono il Codice civile approvato nel 1942. L’art. 1 delle “preleggi” qualificava come fonti: 1) le leggi; 2) i regolamenti; 3) le norme corporative (soppresse con la caduta dell’ordinamento corporativo fascista); 4) gli usi. Questa elencazione risulta oggi ampiamente superata alla luce della Costituzione del 1948, in base alla quale si possono annoverare tra le fonti di produzione del nostro ordinamento giuridico in primis la Costituzione e le leggi costituzionali e di revisione costituzionale (art. 138 Cost.); le leggi formali del Parlamento (artt. 70 ss. Cost.); gli atti con forza di legge del Governo (artt. 76 e 77 Cost.); i regolamenti parlamentari (art. 64 Cost.) e quelli degli organi dotati di particolare indipendenza; i regolamenti dell’esecutivo e degli enti locali (art. 117 Cost.); gli statuti (art. 123 Cost.), le leggi e i regolamenti regionali (ancora art. 117 Cost.); le norme di attuazione degli statuti speciali (art. 116 Cost.); i contratti collettivi di lavoro e gli accordi sindacali nel pubblico impiego; le fonti eurounitarie; le fonti internazionali, consuetudinarie e convenzionali (artt. 10 e 11 Cost.); il diritto non scritto, quali le convenzioni, le consuetudini costituzionali e le consuetudini e gli usi integrativi della legge. Vi sono, poi, altre fonti di produzione del diritto scritto che trovano applicazione nel nostro ordinamento anche se non sono espressamente previste da nessuna delle norme della Costituzione, come avviene, ad esempio, con gli atti normativi prodotti dalle Autorità amministrative indipendenti cui la legge affida il compito di regolare e governare alcuni settori che, per la loro complessità tecnica, pongono delicati problemi di tutela dei diritti e delle libertà fondamentali (si pensi, ad esempio, ai regolamenti della CONSOB, dell’IVASS, del Garante della privacy, dell’AGCOM e dell’AGCM). Dall’eterogeneità e complessità di questo quadro emergono due ineludibili domande: come distinguere le fonti del diritto da ogni altro atto espressione di un potere pubblico? come ricondurre ad unità il complesso delle norme che emanano da questo ampio e articolato sistema di fonti? Per rispondere ad esse è necessario ricorrere ad alcuni criteri e principi. Vi sono, infatti, innanzitutto, dei criteri che consentono di individuare se un atto che promana dal pubblico potere ha carattere normativo oppure no. La qualificazione di un atto giuridico quale fonte del diritto è questione di fondamentale rilievo, e non meramente classificatoria, perché da tale classificazione discende l’applicabilità di una significativa serie di previsioni che determinano il regime giuridico dell’atto, quali le norme sulla pubblicazione, sulla vacatio legis, nonché la previsione di specifici criteri di interpretazione, oltre che di determinati effetti giuridici.
Le fonti del diritto nelle “preleggi”
Le fonti del diritto oggi
118 I criteri sostanziali: generalità, astrattezza, innovatività
Eguaglianza sostanziale e leggiprovvedimento
Le fonti di cognizione
Capitolo IV
Tradizionalmente, ovvero a partire dall’affermazione dello stato liberale di diritto (ancorato, come detto supra, ad una concezione esclusivamente formale del principio di uguaglianza), tali criteri si appuntano sui profili sostanziali delle prescrizioni che sono contenute all’interno dell’atto, per cui si afferma che ci si trova dinnanzi a fonti di produzione quando esse contengono norme contraddistinte da generalità, astrattezza e innovatività, ovvero quando esse sono indirizzate ad una pluralità indistinta di destinatari (generalità), sono suscettibili di essere applicate ripetutamente nel tempo a tutte le fattispecie concrete che appaiono sussumibili nella fattispecie astratta (astrattezza) e sono capaci di determinare un cambiamento all’interno dell’ordinamento giuridico (innovatività). Tali criteri di carattere sostanziale (in particolare, i primi due) hanno, però, progressivamente perso la propria capacità di individuare in modo certo gli atti normativi per effetto dell’avvento della Costituzione repubblicana, che impronta l’ordinamento al rispetto del principio di eguaglianza in senso non solo formale, ma anche sostanziale (v. supra, Cap. II, par. 2), ammettendo che i requisiti della astrattezza e generalità possono essere derogati quando questo è necessario per rimuovere delle disuguaglianze di fatto. Emblematico in tal senso il caso delle c.d. “leggi-provvedimento”, o più in generale delle norme a carattere provvedimentale, che hanno un contenuto particolare (in quanto rivolte a uno o più destinatari determinati) e concreto (in quanto destinate ad essere applicate una volta o in una serie limitata di occasioni) e che la giurisprudenza costituzionale considera costituzionalmente legittime se capaci di superare un “controllo stretto di ragionevolezza” volto a verificare che il diverso regime giuridico introdotto per alcune fattispecie concrete sia giustificato e commisurato a quanto strettamente necessario per dare attuazione al principio di cui all’art. 3, co. 2, Cost.; scrutinio eventualmente condotto anche a partire dai lavori preparatori (cfr., ex multis, già sent. n. 1/1962). I criteri sostanziali di individuazione delle norme, dunque, non sono più autonomamente in grado di consentire l’inequivoca determinazione di quali siano le fonti del diritto, per cui è necessario ricorrere anche a criteri formali quali l’organo titolare del potere di introdurre la presunta norma, la qualificazione della fonte da parte della fonte stessa o di altre norme sulla normazione, il procedimento di formazione della norma, l’entrata in vigore e l’efficacia giuridica. Le fonti di cognizione sono quelle che assicurano la pubblicità legale, che consente di far conoscere l’atto normativo e determina il decorso della vacatio legis necessaria per la sua entrata in vigore. La pubblicazione integra, quindi, l’efficacia dell’atto ed è sempre necessaria all’interno del suo procedimento di adozione perché da essa si presume la conoscenza dell’atto da parte di tutti i soggetti dell’ordinamento che sono
Le fonti e l’interpretazione nell’ordinamento italiano
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chiamati ad applicarlo e rispettarlo. Le principali forme di pubblicazione sono quelle nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica per le fonti statali, nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea per le fonti eurounitarie, nei Bollettini ufficiali delle Regioni e delle Province autonome per le fonti regionali e negli Albi pretori dei Comuni per le fonti locali. In particolare, la Gazzetta Ufficiale assicura la pubblicità legale non solo di tutti gli atti normativi statali, ma anche delle sentenze e delle ordinanze della Corte costituzionale, mentre il successivo inserimento degli atti statali nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica costituisce una semplice ripubblicazione che non incide sull’efficacia dell’atto (si pensi ad es. alla ripubblicazione di leggi costituzionali, leggi statali ordinarie, decreti con forza di legge, etc.). Diversa dalla pubblicazione c.d. “necessaria”, preordinata come detto all’entrata in vigore dell’atto normativo, è la pubblicazione c.d. “a fini notiziali” che ha l’unico scopo di rendere conoscibile l’atto affinché coloro che ne hanno facoltà possano attivare le forme di controllo previste, come nel caso della pubblicazione notiziale del progetto di legge costituzionale approvato da entrambe le Camere, dalla quale decorrono i tre mesi entro cui può essere richiesto il referendum previsto dall’art. 138 Cost., e nel caso della pubblicazione notiziale della proposta di statuto ordinario approvato dal Consiglio regionale, dalla quale decorrono i trenta giorni per la proposizione del ricorso alla Corte costituzionale da parte del Governo e i due mesi per la richiesta di referendum ai sensi dell’art. 123 Cost. Al tema della conoscibilità delle fonti normative è collegato quello della loro comprensibilità da parte di coloro che sono chiamati a darvi attuazione e a rispettarne le previsioni, la quale è fortemente ostacolata dalla tendenza del legislatore ad adottare atti normativi dal contenuto assai ampio ed eterogeneo e che tendono a sovrapporsi ad altri atti normativi e a stratificarsi nel tempo in modo così caotico da rendere in non pochi casi assai difficile individuare quale è il diritto vigente nei vari rami dell’ordinamento giuridico e in relazione alle diverse fattispecie. A tal proposito, con una storica sentenza (sent. n. 364/1988), la Corte costituzionale ha chiarito che il principio di inescusabilità delle condotte penalmente rilevanti in forza dell’ignoranza della legge (ignorantia legis non excusat) di cui all’art. 5 c.p. non trova applicazione quando la legge ha carattere “oscuro”, ovvero quando non è dato comprendere quale sia la condotta che il legislatore ha inteso imporre come obbligatoria o vietare come illecita.
La pubblicazione a fini notiziali
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Capitolo IV
2. La natura dell’interpretazione giuridica e la sua disciplina legale
Disposizione e norma
Nella determinazione del significato di una norma contenuta all’interno di una fonte di produzione assume un ruolo imprescindibile l’interpretazione giuridica, la quale può essere definita come l’insieme delle attività di conoscenza, ma anche di volontà, che colui che intende determinare cosa una norma prescrive, ovvero l’interprete, pone in essere per attribuire un significato normativo alla formulazione linguistica testuale in cui si è storicamente articolata la volontà del legislatore. Si può, quindi, sinteticamente affermare che oggetto dell’interpretazione sono le disposizioni, ossia i testi per come sono formulati linguisticamente, mentre risultato dell’attività interpretativa sono le norme, ossia i comandi, i divieti e, più in generale i precetti, che quelle disposizioni esprimono una volta che attraverso l’interpretazione è stato individuato il loro significato – appunto, detto normativo – all’interno dell’ordinamento. Non è mai facile capire in maniera inequivoca cosa ha voluto chi ha posto la norma, quali fini ha voluto raggiungere, in seno ai vari gruppi di rapporti giuridici e in relazione alle diverse fattispecie concrete. Per tale motivo, appare corretto affermare che l’attività ermeneutica – come si può utilmente chiamare l’interpretazione proprio per evidenziare la sua natura di attività di attribuzione di significato normativo – è sempre necessaria e non pretermissibile. Negli ordinamenti pluralistici contemporanei, caratterizzati come visto dalla moltiplicazione del numero delle fonti, infatti, il classico adagio romanistico in claris non fit interpretatio, secondo cui non è necessario procedere ad interpretazione giuridica quando la volontà del legislatore è chiara, trova applicazione in casi sempre più residuali, mentre nella generalità delle fattispecie è impossibile determinare con certezza quale sia il significato normativo di una disposizione, o per lo meno raggiungere una sufficiente approssimazione in merito ad esso, senza procedere ad una più o meno complessa attività interpretativa. Ciò accade non solo perché, negli ordinamenti pluralistici contemporanei, la moltiplicazione delle fonti del diritto si accompagna ad una sempre maggiore complessità dei precetti normativi, ma anche perché la norma giuridica non è un dato di natura che può essere oggetto di semplice constatazione empirica, ma è una articolata manifestazione di volontà che in genere promana da organi collegiali (e, quindi, non coincide con la volontà di un singolo) e che riguarda il modo in cui il titolare della funzione normativa intende conformare parti della realtà politica, economica e sociale su cui la norma interviene. Conseguentemente, l’attività
Le fonti e l’interpretazione nell’ordinamento italiano
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interpretativa finisce per avere una natura intrinsecamente creativa, perché rivolta alla ricostruzione di quel coacervo di volizioni e di condizionamenti morali, culturali, religiosi, educativi, politici, e di qualsivoglia altra natura, che entrano nel processo di produzione del diritto e che chiamano in causa, quando si tratta di determinare come sono stati “precipitati” all’interno della norma, altrettante sensibilità dell’interprete. Per questo si è detto che l’interpretazione giuridica può essere definita come l’insieme delle attività di conoscenza, ma anche di volontà, attraverso cui l’interprete giunge ad individuare la norma a partire dalla disposizione. In relazione all’attività ermeneutica posta in essere dal giudice in sede di applicazione del diritto, ben ha espresso questo concetto Max Weber affermando che il giudice decide le controversie e individua il diritto oggettivo applicabile al caso concreto non solo attraverso una serie di operazioni logiche di sussunzione della fattispecie concreta sottoposta alla sua cognizione nella fattispecie astratta disegnata dal legislatore, ma anche grazie al suo “bagaglio di personalità”; concetto dai contorni sfumati che esprime proprio l’idea che le valutazioni che l’interprete compie per individuare la norma possono avere la più varia natura (morale, culturale, religiosa, educativa, politica, etc.) e non tutte vengono necessariamente esplicitate dal giudice nella motivazione, facendo alcune di esse parte di quell’opera – che Josef Esser chiamava – di “precomprensione” del diritto, ovvero di quei condizionamenti che operano “a monte” dello stretto processo interpretativo e che ne influenzano in maniera determinante il risultato. Vale la pena di sottolineare che la natura inevitabilmente creativa dell’interpretazione giuridica è cresciuta esponenzialmente per effetto dell’erompere del pluralismo, il quale ha moltiplicato a dismisura le opzioni morali, religiose, culturali, politiche, etc., che sia il legislatore che l’interprete – si pensi al citato caso del giudice – seguono nelle rispettive attività di introduzione e applicazione delle norme. Questa notazione consente di comprendere come l’interpretazione sia diventata nel contesto degli ordinamenti costituzionali contemporanei qualcosa di molto diverso da quello che essa rappresentava nel quadro dello stato liberale diritto, che era politicamente, socialmente ed economicamente omogeno e appariva dominato dalla centralità della legge e della volontà del legislatore, per cui il ruolo del giudice – nell’ambito di una rigida separazione dei poteri che chiamava il primo a introdurre il diritto e il secondo ad applicarlo – risultava limitato, senza alcun apporto personale alla determinazione del significato della norma, a quello che Montesquieu definiva di “bouche de la loì”. Oggi, come detto, è, invece, pacifico che l’interpretazione giuridica si risolva in un’operazione intrinsecamente ed ineluttabilmente creativa e che la volontà riconosciuta all’interprete si appunti sulla distinzione fon-
La natura creativa dell’interpretazione
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L’art. 12 delle preleggi
Capitolo IV
damentale presente all’interno delle fonti-atto tra disposizione, come insieme di formule linguistiche testuali, e norma, ovvero il contenuto di senso, il significato della disposizione, quale risulta dal processo interpretativo. Quanto detto consente di comprendere in che misura la norma non si può considerare preesistente all’attività interpretativa, ma esiste solo in funzione e come risultato di essa. Il che spiega, sotto un diverso ma concorrente punto di vista, perché l’interpretazione non è solo attività di conoscenza, ma anche di volontà, potendosi conoscere solo quello che esiste prima ed indipendentemente dal processo conoscitivo e dovendosi invece ritenere che sia anche voluto ciò che viene ad esistenza solo in forza del medesimo processo. Si può dire, allora, che la fisionomia assunta dall’interpretazione giuridica nel quadro degli ordinamenti pluralistici contemporanei corrisponda al tramonto, per usare il linguaggio della storia dell’arte, di un ideale neoclassico; quell’ideale che portava Fidia a dire che il Partenone era già nei blocchi di marmo e Canova che il bravo scultore deve solo togliere il marmo soverchio per far emergere la statua che è già presente al suo interno. Nell’attività ermeneutica, infatti, non basta all’interprete “scartare” i significati “sbagliati” per trovare il significato “giusto”, proprio perché non preesiste un’interpretazione “giusta” che debba essere individuata con il sapiente uso degli strumenti della logica e della ragione, ma solo una interpretazione ragionevole che possa essere costruita, e quindi voluta, in quanto considerata la più rispondente alle esigenze regolative che sono sollevate dal caso concreto. Nonostante quanto detto, permangono anche nel nostro ordinamento diverse manifestazioni della concezione logico-formale dell’interpretazione, ossia di quella concezione che tende a considerare l’interpretazione come manifestazione di pura conoscenza e non di volontà. Si pensi, ad esempio, alla c.d. “funzione nomofilattica” che l’art. 65 della legge sull’ordinamento giudiziario (r.d. n. 12/1941) attribuisce alla Corte di cassazione, definendola come il compito di «garantire l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale», con ciò presupponendo proprio che preesista all’attività ermeneutica un’interpretazione “esatta” e che il giudice abbia il compito di individuarla. Allo stesso orizzonte concettuale si ispira anche la principale disciplina che l’ordinamento detta per regolare l’interpretazione del giudice, quella contenuta nell’art. 12 delle “preleggi”, di cui si deve sottolineare come anch’essa appaia ispirata all’idea di disciplinare l’attività ermeneutica come una serie di operazioni logiche di tipo deduttivo/induttivo che devono essere compiute secondo uno specifico ordine perché attraverso di esse è possibile, senza errori, giungere all’individuazione corretta del significato normativo della disposizione interpretata.
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Stabilisce, infatti, la norma, con il suo co. 1, che «nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dall’intenzione del legislatore». Da tale previsione si ricava l’esistenza di due tipologie di interpretazione: quella lessicale o grammaticale, attraverso la quale il significato normativo di una disposizione viene individuato in base a cosa le singole parole e le singole frasi vogliono dire secondo il lessico della lingua italiana e secondo le regole della grammatica e della sintassi; l’interpretazione logico-sistematica, mediante la quale si procede all’accertamento di quella che si presume essere stata la volontà del legislatore, anche attraverso la ricostruzione del contesto normativo in cui la disposizione è inserita, attribuendo significato a ciascuna sua disposizione in funzione delle altre. Nell’alveo della nozione di volontà del legislatore, si è soliti distinguere due nozioni: la prima è la ratio legis, ovvero la volontà del legislatore storico, ricostruibile anche attraverso i lavori preparatori, la seconda è la mens legis, ovvero il significato che la disposizione interpretata assume se intesa in forza di una canone astratto di razionalità e coerenza che prescinde dalla volontà dei singoli componenti dell’organo che l’ha adottata; la prima è la volontà del legislatore concreto storicamente situato, la seconda quella del legislatore astratto e razionale; la prima dice all’interprete cosa il legislatore, fatto di persone fisiche, ha voluto in forza di tutti gli interessi e condizionamenti che ha subito, la seconda cosa avrebbe voluto se avesse agito in maniera razionale e nell’interesse spersonalizzato dell’ordinamento. Il co. 2 prevede, invece, che «se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato». Da tale previsione derivano due ulteriori criteri interpretativi, sussidiari sia rispetto a quelli del co. 1 sia tra di loro (nel senso che al secondo si deve accedere solo in caso di esperimento infruttuoso del primo): l’analogia legis, in base alla quale, quando il giudice non trova una norma applicabile alla fattispecie concreta per la formulazione letterale della disposizione da cui è tratta, ne individua una che disciplina una fattispecie affine dalla quale sia possibile, con maggiore o minore approssimazione, ricavare la regola del caso concreto (ma si veda l’art. 14 delle preleggi, che vieta di fare applicazione analogica delle leggi eccezionali, ovvero di quelle che derogano a principi giuridici, e delle leggi penali); l’analogia iuris, che consiste nel ricorrere all’ausilio dei principi generali del diritto, individuando il significato normativo attraverso un principio generale dell’ordinamento che informa di sé varie fattispecie, tra cui anche quella sottoposta alla cognizione del giudice.
Interpretazione lessicale e interpretazione logicosistematica
La volontà del legislatore
I criteri sussidiari
Analogia legis e analogia iuris
124 La recessività dei criteri interpretativi dell’art. 12 delle preleggi
Gli altri criteri ermeneutici
Capitolo IV
Dal contenuto dell’art. 12 delle preleggi si dovrebbe adesso comprendere bene come esso sia chiaramente ispirato a quella concezione logicoformale dell’interpretazione giuridica che è tipica dello stato liberale di diritto: e ciò non solo perché presuppone che scopo del giudice sia quello di individuare la volontà del legislatore (secondo uno schema che rinvia ad una idea di rigida separazione dei poteri, in cui il secondo applica ciò che il primo vuole) e perché detta una disciplina che configura l’attività ermeneutica come una serie standardizzata di operazioni di conoscenza (e non di volontà), ma anche perché concepisce l’ordinamento giuridico come una realtà normativa che non presenta lacune, le quali, ove si manifestino, possono essere colmate attraverso il procedimento analogico. Ma, come si è detto, l’interpretazione è, nel contesto degli ordinamenti pluralistici contemporanei, qualcosa di molto diverso da quello che era nel contesto storico e teorico dello stato liberale di diritto, perché la complessità e l’articolazione delle volizioni del legislatore rende sempre più difficile comprendere quale sia la sua volontà (anche perché i centri di produzione normativa si sono moltiplicati e tale volontà è solo un tassello), perché l’attività del giudice diventa sempre più creativa e perché le lacune sono da considerare un fenomeno fisiologico e non patologico (si pensi alla difficoltà di introdurre normative sulle questioni eticamente controverse in materia di vita umana). Quanto appena detto spiega perché, nella vita concreta dell’ordinamento, i criteri di interpretazione di cui all’art. 12 tendano ad essere accompagnati, se non sopravanzati, da altri canoni ermeneutici, che meglio rispondono all’effettiva sostanza che l’attività ermeneutica viene ad assumere nel contesto attuale. Tra gli altri, merita in questa sede ricordare: l’interpretazione conforme a Costituzione, secondo cui, tra i possibili significati che è possibile ricavare dalla lettera della legge, il giudice deve utilizzare quello che è maggiormente coerente con le regole e i principi posti dalla Costituzione; l’interpretazione conforme al diritto UE, alla stregua del quale deve essere sempre preferita l’interpretazione del diritto interno che risulta compatibile con il diritto eurounitario, come interpretato dalla Corte di giustizia; l’interpretazione conforme alla Cedu, in base alla quale il giudice ha il dovere di interpretare la legge in modo da evitare che essa si ponga in contrasto con le norme della Convenzione europea, come interpretate dalla Corte EDU; l’interpretazione evolutiva o adeguatrice, in forza della quale il giudice individua il significato della disposizione scegliendo quello che appare maggiormente coerente con l’evoluzione dell’ordinamento. A ciò si aggiunga che l’interpretazione giurisprudenziale ha assunto una fisionomia del tutto diversa rispetto a quella che aveva in passato anche per effetto della sempre più frequente applicazione diretta delle nor-
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me costituzionali che viene fatta nelle aule giudiziarie per rispondere a bisogni di giustizia che non trovano più nella legge una forma di soddisfacimento generale e astratta e che, per questo, finiscono per essere portati davanti al giudice per l’individuazione di una soluzione limitata al caso concreto. In questi casi, l’interpretazione giurisdizionale, nell’assenza di una disciplina dettata dal legislatore, si appunta direttamente sulle norme costituzionali, ricavando da esse la regola iuris attraverso delicate operazioni di bilanciamento tra principi e interessi tutti costituzionalmente protetti, che consentono di individuare, rispetto al singolo caso concreto e non in termini generali e astratti, qual è la misura in cui un diritto o un interesse costituzionale può vedere ragionevolmente limitata la propria effettività per garantire il soddisfacimento di un altro diritto o interesse costituzionale concorrente (cioè, che reclama di essere applicato nel caso di specie insieme al primo) o antagonista (cioè, che pretende di essere applicato contro il primo). Nonostante la recessività appena evidenziata, la giurisprudenza continua ad enfatizzare il ruolo dell’art. 12 e il suo carattere vincolante per l’interpretazione del giudice. Ancora di recente, ad esempio, le Sezioni Unite della Cassazione civile (sent. n. 38596/2021) hanno affermato che: «quando una norma, o un sistema di norme, si prestino a diverse interpretazioni, tutte plausibili, dovere primario dell’interprete, e specie del giudice, è di perseguire l’interpretazione più corretta e non una qualsiasi di quelle che il testo consente»; «il giudice non crea il diritto, ma opera secondo i criteri ermeneutici noti e dentro i limiti del diritto positivo» (cfr. anche Cass., Sez. Un., n. 2061/2021); le scelte di politica del diritto «sono riservate al legislatore», mentre al giudice, «compete solo di interpretare la norma nei limiti delle opzioni ermeneutiche più corrette dell’enunciato» (cfr. anche Cass., Sez. Un., n. 19597/2020); la natura dell’interpretazione del giudice è «dichiarativa», in quanto «riferita ad una preesistente disposizione di legge, della quale è volta a riconoscere l’esistenza e l’effettiva portata». Alla luce delle considerazioni svolte sull’evoluzione che l’attività interpretativa ha subito nel quadro degli ordinamenti pluralistici contemporanei, tali affermazioni giurisprudenziali – se non fossero accompagnate da alcune ulteriori riflessioni – rischierebbero di suonare alle orecchie del giurista come la musica che gli orchestranti suonavano mentre il Titanic andava a fondo. Tali riflessioni vanno al cuore di quello che si è indicato come il vero e proprio leitmotiv dello studio del diritto pubblico per come esso è stato impostato all’interno del presente Manuale, ovvero l’individuazione di chi decide, nel caso di specie nella dinamica tra legislatore e giudice, ovvero tra creazione e applicazione delle norme. In particolare, deve essere tenuto presente che la sempre maggiore
L’applicazione diretta della Costituzione
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L’interpretazione dottrinale
L’interpretazione burocraticoamministrativa
L’interpretazione autentica
Capitolo IV
creatività dell’interpretazione del giudice (massima nel caso del giudice costituzionale, che interpreta quotidianamente non solo le norme di legge, ma anche quelle della Costituzione), se, per un verso, svolge, nei singoli casi giurisprudenziali e rispetto ai bisogni di giustizia ivi avanzati, un’inevitabile funzione di supplenza nei confronti dell’usurata capacità della legge di dare soluzioni percepite come legittimate democraticamente a problemi sempre più complessi e divisivi (si pensi, ancora, alle questioni eticamente controverse), per altro verso, pone delicatissimi problemi di responsabilità della funzione giurisdizionale, perché il giudice attraverso l’interpretazione finisce per introdurre all’interno dell’ordinamento una sorta di “norma del caso concreto” che non è in alcun modo collegata al circuito democratico-rappresentativo, il quale, pur essendo entrato in una crisi strutturale per effetto del principio pluralista, rappresenta comunque il prevalente, se non l’esclusivo, canale di legittimazione democratica della produzione del diritto. La riaffermazione della centralità dell’art. 12 delle preleggi, ma soprattutto, più in generale, la rivendicazione della lettera della legge quale limite alla funzione creativa dell’interpretazione giurisprudenziale, dunque, da un lato, sconta l’evidente affanno in cui è caduta la concezione logico-formale dell’ermeneutica giuridica, dall’altro, risponde all’insopprimibile esigenza di mantenere i processi di produzione del diritto all’interno dell’alveo di legittimazione democratica costruito intorno al meccanismo della rappresentanza politica generale. Per la portata decisiva delle questioni che pone, ci si è fin qui soffermati sull’interpretazione del giudice, ma è necessario dar conto che, a seconda dell’autore che pone in essere l’attività ermeneutica, si possono distinguere altre figure. Si discorre, ad esempio, di interpretazione dottrinale, quando essa è opera dei giuristi, ovvero degli studiosi di diritto per professione, i quali producono orientamenti interpretativi che negli ordinamenti moderni, a differenza che in quelli antichi, non sono vincolanti, ma comunque suscettibili di orientare gli altri operatori del diritto, tra cui i giudici. Per interpretazione burocratico-amministrativa, invece, si intende quella che viene effettuata all’interno di apparati amministrativi organizzati secondo un principio gerarchico (come, ad esempio, un ministero) dall’organo di vertice, il quale impartisce direttive e/o circolari agli organi subordinati su come devono essere interpretate e applicate le disposizioni di legge o regolamentari. Ancora, si parla di interpretazione autentica quando l’attribuzione del significato normativo alla disposizione proviene dalla stessa autorità che ha posto la norma, ad esempio dal legislatore se la norma è una norma di legge, dal potere esecutivo se la norma è una norma regolamentare. Que-
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sta tipologia di interpretazione, che ha come effetto quello di rendere impraticabili all’interno dell’ordinamento i significati differenti, risulta particolarmente problematica in relazione al suo carattere retroattivo, che deriva dalla circostanza che la fattispecie della norma di interpretazione autentica non è un caso della vita ovvero una determinata porzione della realtà sostanziale, ma la norma astratta interpretata, per cui il significato attribuito in via autentica si applicherà indefinitamente a tutti i casi che la norma interpretata è in grado di regolare, anche a quelli verificatisi prima dell’entrata in vigore della norma interpretativa. Il sempre più frequente utilizzo delle leggi di interpretazione autentica, infatti, determina non pochi problemi di certezza del diritto perché, spesso, l’interpretazione imposta autenticamente è diversa da quella praticata dalla giurisprudenza e, anzi, viene appositamente introdotta per obbligare il giudice a seguire la data interpretazione che l’autore della norma considera preferibile. Queste criticità si aggravano quando le norme di interpretazione autentica incidono su procedimenti giurisdizionali pendenti in cui il carattere retroattivo dell’interpretazione imposta può pregiudicare il legittimo affidamento che il singolo ha riposto sul fatto che a una data disposizione si desse un certo significato, magari adottato dalla giurisprudenza maggioritaria; il che determina una evidente disparità di trattamento tra i soggetti cui la norma viene applicata a seconda che tale applicazione preceda o segua l’interpretazione autentica. Sul punto, peraltro, si registra un diverso orientamento della Corte EDU rispetto alla Corte costituzionale. Mentre la prima, infatti, ha condannato in diverse occasioni lo Stato italiano per violazione dell’art. 6 Cedu (in particolare, dei principi del giusto processo) assumendo che le norme di interpretazione autentica incidono direttamente sulla sorte dei giudizi in corso in spregio della separazione dei poteri e cancellando la necessaria cesura tra prevedere in astratto (compito del legislatore) e provvedere in concreto (ufficio del giudice) (cfr. sent. Maggio e altri c. Italia, 31 maggio 2011), la Corte costituzionale considera le leggi che recano interpretazioni autentiche legittime purché le disparità di trattamento siano ragionevolmente giustificate da motivi di interesse generale (sentt. n. 349/1985, n. 416/1999, nn. 78 e 264/2012). Il quadro dei possibili soggetti chiamati a interpretare professionalmente il diritto è completato dalla già analizzata interpretazione giurisprudenziale, che nel nostro ordinamento è effettuata da tutti i giudici in regime diffuso (argomento che si trae dall’art. 107, co. 3, Cost., secondo cui «I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni») e che è basata sulla già ricordata funzione nomofilattica della Corte di cassazione (e del Consiglio di Stato nella giurisdizione amministrativa e della Corte dei conti nella giurisdizione contabile), ovvero sulla funzione che alle giurisdizioni superiori spetta di assicurare che il diritto sia
Le leggi di interpretazione autentica
L’interpretazione giurisprudenziale
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Effetti dell’interpretazione sull’ambito di applicazione della norma
Capitolo IV
interpretato dai vari giudici dell’ordinamento in maniera uniforme, mentre alla Corte costituzionale è riservata la particolare funzione di interpretare la legge quando essa diventa oggetto del giudizio di legittimità costituzionale: non quindi, direttamente, nella prospettiva della sua applicazione al caso concreto, ma ai fini dell’individuazione della norma che deve essere sottoposta al controllo di costituzionalità (v. infra, Cap. X, par. 3). L’interpretazione giurisprudenziale, avendo il nostro ordinamento i caratteri di un sistema di civil law, non è formalmente vincolante per i giudici diversi da quelli che l’hanno posta in essere. Ciò non significa che i precedenti giudiziari non abbiano alcun valore. Al contrario, essi ne hanno uno molto significativo, il quale non deriva, però, dalla forza formale riconosciuta all’interpretazione giurisprudenziale come obbligo per i giudici di non discostarsene (forza ratione imperii), ma dalla bontà degli argomenti che sorreggono la decisione giudiziaria, che non può essere disattesa nei successivi casi se non in forza di considerazioni e di argomenti diversi considerati prevalenti nel processo interpretativo (imperio rationis). Quanto, invece, agli effetti che l’attività interpretativa produce sull’ambito materiale di applicabilità della norma, ovvero sull’ampiezza del novero delle fattispecie concrete che possono essere sussunte nella fattispecie astratta, si è soliti osservare che talvolta l’interpretazione porta ad estendere la portata precettiva della disposizione (si parla, in tali casi, di interpretazione estensiva), talaltra, all’opposto, conduce a restringerla (si discorre, allora, di interpretazione restrittiva), mentre altre volte ancora porta all’individuazione di un significato diverso rispetto a quello che la disposizione aveva all’origine nel diverso contesto sociale e economico in cui è stata introdotta (in tali circostanza si parla di interpretazione storico-evolutiva).
3. Il problema delle antinomie normative e i criteri per la loro risoluzione
L’antinomia normativa
La pluralità delle fonti del diritto vigenti nell’ordinamento rende tutt’affatto che peregrina l’ipotesi di un contrasto tra norme poste da fonti diverse. A tale contrasto si attribuisce il nome di antinomia normativa. Cosa accade se due norme giuridiche pongono tra di loro regole contraddittorie? Cosa accade se, ad esempio, una regola prescrive un certo comportamento ed un’altra invece lo vieta? Ogni ordinamento che intenda assicurare la certezza del diritto deve predisporre idonei strumenti affinché le antinomie normative si pongano nel minor numero di casi possibi-
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li e perché, quando si originano, possano essere risolte, in modo che sia sempre possibile comprendere quale è il comportamento che i consociati devono o non devono tenere in una data situazione. Diversamente, il diritto, inteso come sistema di norme composte in ordinamento, non sarebbe in grado di assolvere una delle sue funzioni essenziali: quella di orientare e conformare il comportamento dei consociati. Gli strumenti che l’ordinamento predispone per risolvere i conflitti logici e strutturali che si pongono al suo interno prendono il nome di criteri di risoluzione delle antinomie normative. Poiché attraverso detti criteri è possibile stabilire quale posto una fonte occupa rispetto alle altre con cui può venire a confliggere, i criteri di risoluzione delle antinomie sono chiamati anche criteri ordinatori del sistema delle fonti. Detti criteri sono essenzialmente quattro: quello gerarchico, quello di competenza, quello cronologico e quello di specialità. In base al criterio gerarchico, nel conflitto tra le norme poste da due fonti, prevale la norma di rango più elevato, ovvero quella posta dalla fonte superiore. Tale criterio si ispira ad una concezione tipicamente kelseniana dell’ordinamento giuridico perché presuppone che le fonti normative siano ordinate “a gradi”, ovvero presuppone che sia sempre possibile identificare fonti “superiori” e fonti “inferiori” in una ipotetica scala normativa basata sulla diversa “forza” degli atti normativi (Stufenbau Theorie). Quando si dice che la collocazione nella scala gerarchica dipende dalla “forza” normativa delle diverse fonti si intende fare riferimento ad una duplice caratteristica di ogni fonte: da un lato la sua capacità di produrre nuovo diritto, anche modificando, derogando o abrogando le norme preesistenti (è la c.d. forza attiva); dall’altro la capacità di resistere al mutamento e, quindi, all’abrogazione, la modifica e/o la deroga da parte di un’altra fonte (è la c.d. forza passiva). Quando due fonti sono collocate su gradi diversi, la fonte che ha una forza attiva superiore, ha anche una forza passiva superiore, per cui, per un verso, può modificare, abrogare e/o derogare quella inferiore, per l’altro, non può essere modificata, derogata e/o abrogata da quest’ultima. In un ordinamento a Costituzione rigida, come quello italiano, al vertice della scala gerarchica si collocano, ai sensi dell’art. 138 Cost., la Costituzione, leggi di revisione costituzionale (quelle che modificano la Costituzione) e le altre leggi costituzionali (quelle che non incidono sul testo della Carta fondamentale, ma introducono un diritto che ha la stessa forza). Allo stesso livello si pongono anche le leggi costituzionali “rinforzate”, per la cui adozione la Costituzione prevede un aggravamento procedurale, come nel caso di fusione di Regioni esistenti o creazione di nuove Regioni (art. 132, co. 1 Cost.), così come si collocano a livello co-
I criteri di risoluzione delle antinomie
Criterio gerarchico
Forza attiva e forza passiva
Le fonti di livello costituzionale
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Le fonti primarie Fonti primarie statali
Fonti primarie non statali
Capitolo IV
stituzionale le norme di modifica in via unilaterale dei Patti Lateranensi (art. 7 Cost.) e le norme internazionali generalmente riconosciute cui il nostro ordinamento si adegua automaticamente ex art. 10 Cost. Questa collocazione è la conseguenza del principio di legalità costituzionale che, nella forma dello stato costituzionale pluralista (o stato democratico-sociale), affianca il principio di legalità tipico dello stato liberale di diritto, creando così due “circuiti” della legalità: quello della legalità costituzionale, che comprende tutti gli atti che traggono direttamente il proprio fondamento di legittimità e il proprio parametro di validità nella Costituzione (si pensi, ad esempio, alle leggi dello Stato) e quello della legalità ordinaria, di cui partecipano tutti gli atti che trovano il proprio fondamento di legittimità e il proprio parametro di validità nella legge (si pensi, ai regolamenti del Governo). Al di sotto del livello costituzionale si collocano, dunque, quanto alle fonti statali, le c.d. “fonti primarie”, ovvero, innanzitutto, le leggi formali del Parlamento e gli atti aventi forza di legge del Governo (decreti-legge e decreti legislativi). Tra le fonti primarie, ma a competenza riservata (su tale concetto v. infra, in questo paragrafo) e non generale come la legge, rientrano, altresì, i regolamenti interni degli organi costituzionali, in particolare delle Camere (art. 64 Cost.), della Corte costituzionale, della Presidenza della Repubblica e del Consiglio dei Ministri quali fonti poste a garanzia della autonomia e indipendenza di tali organi. Pacificamente, in dottrina, è annoverato tra le fonti primarie il decreto presidenziale che dichiara l’abrogazione di disposizioni oggetto del referendum previsto dall’art. 75 Cost. Una parte della dottrina ritiene, altresì, che le sentenze manipolative di accoglimento della Corte costituzionale, introducendo nuove norme giuridiche, possano essere allocate tra le fonti primarie (v. infra, Cap. X, par. 5) ed una qualificazione analoga viene data pure all’intero procedimento riguardante il referendum abrogativo di leggi (art. 75 Cost.), perché anch’esso ha la capacità di innovare il diritto primario attraverso l’abrogazione di leggi e di atti aventi forza di legge. Tra le norme non statali, si collocano nell’alveo delle fonti primarie sia le leggi regionali e delle Province autonome di Trento e Bolzano, che operano secondi i criteri di competenza previsti dall’art. 117 Cost. per le Regioni ordinarie e dai singoli Statuti per le Regioni speciali (v. infra, Cap. VII, parr. 2 e 3), sia le fonti dell’Unione europea a effetti diretti dinanzi alle quali il giudice, come detto, in caso di contrasto tra fonte nazionale e sovranazionale, deve procedere alla non applicazione della legge nazionale, purché la fonte esterna intervenga in materie di competenza dell’Unione, nel rispetto dei trattati e non contrasti con i “principi supremi” del nostro ordinamento costituzionale (v. infra, Cap. V, par. 6). Quanto, invece, alle fonti internazionali, si è già detto delle norme con-
Le fonti e l’interpretazione nell’ordinamento italiano
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suetudinarie di cui all’art. 10 Cost., mentre le norme dei trattati ripetono la loro posizione dalla norma che ne reca l’ordine di esecuzione: primaria se la norma ha rango legislativo, secondaria se è contenuta in un regolamento. I trattati che entrano nell’ordinamento per il tramite di una fonte primaria, in realtà, si collocano “a metà strada” tra il livello costituzionale e quello primario, perché possono essere utilizzati come parametro interposto nel giudizio di costituzionalità delle leggi per effetto dalla formulazione dell’art. 117, co. 1, Cost. (v. supra, Cap. III, par. 1). Al terzo gradino della scala gerarchica trovano collocazione le c.d. “fonti secondarie” dello Stato (come i regolamenti del Governo o di altre autorità amministrative) e i regolamenti delle Regioni e degli enti locali (v. infra, Cap. VII, par. 3). Il quarto e ultimo posto, infine, è occupato dagli usi e dalle consuetudini, salvo quelle costituzionali cui la dottrina riconosce forza pari a quella della Costituzione. Dalla definizione che si è dato di legalità costituzionale e ordinaria deriva che la violazione del criterio gerarchico si traduce in una patologia dell’ordinamento, la quale comporta l’invalidità dell’atto gerarchicamente sottordinato, ovvero la sua non conformità alle norme (appunto sovraordinate) dell’ordinamento giuridico che ne disciplinano procedimento di formazione (invalidità formale) e limiti di contenuto (invalidità sostanziale). L’invalidità che deriva dal contrasto delle norme primarie con quelle di rango costituzionale prende il nome di incostituzionalità o illegittimità costituzionale, quella che risulta dal contrasto delle norme secondarie con le fonti primarie, invece, si denomina illegittimità. Per entrambe queste figure di invalidità, la sanzione che l’ordinamento prevede è l’annullabilità, ovvero la caducazione con effetti erga omnes ed efficacia ex tunc (ovvero retroattiva): l’accertamento dell’illegittimità costituzionale della legge e il relativo annullamento è oggetto di giurisdizione esclusiva della Corte costituzionale (art. 134 Cost.), mentre l’accertamento dell’illegittimità delle fonti secondarie rientra nella competenza del giudice amministrativo, cui spetta di giudicare della legittimità degli atti amministrativi all’interno della c.d. “giurisdizione generale di legittimità”. Questo significa che, a fronte di una norma invalida, il giudice chiamato ad applicarla non può – se non in casi eccezionali (v. infra, in questo paragrafo) – comportarsi tamquam non esset, ovvero non può disapplicarla, ma ne deve fare applicazione fino a che essa non venga dichiarata invalida dal giudice (costituzionale o amministrativo) che ha giurisdizione su detta invalidità. Vi sono, tuttavia, dei casi in cui la deroga all’assetto gradualistico del sistema delle fonti non determina l’invalidità della fonte inferiore in quanto è prevista da norme della stessa fonte superiore: è il caso dei fenomeni di c.d. “decostituzionalizzazione”, che si ha quando la fonte primaria si sostituisce a norme costituzio-
Fonti secondarie Usi e consuetudini L’invalidità
Sanzione: l’annullabilità
Decostituzionalizzazione e delegificazione
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Criterio di competenza
Capitolo IV
nali (es. art. 122, co. 5, Cost., riguardo alla possibilità per gli statuti regionali di discostarsi dal modello costituzionale di elezione di diretta del Presidente della Giunta), e di c.d. “delegificazione”, che ricorre quando la fonte secondaria è autorizzata dalla legge a sostituirsi alla disciplina legislativa precedente (v. infra, Cap. IV, par. 7). Un diverso criterio di risoluzione delle antinomie è tradizionalmente individuato nel criterio di competenza, il quale deriva dalla ricordata presenza all’interno dell’ordinamento di norme sulla produzione giuridica, generalmente costituzionali, che definiscono, tra le altre cose, gli ambiti materiali in cui le fonti di produzione possono intervenire (v. supra, par. 3). Ciò fa sì che ogni fonte nasca con un ambito materiale limitato ab origine dalla fonte, generalmente sovraordinata, che la istituisce, con la conseguenza che, in un certo senso, il criterio di competenza è una manifestazione del principio di gerarchia e non qualcosa di concettualmente distinto da esso. In forza del principio di competenza la Costituzione introduce per determinate fonti delle riserve di competenza o dei particolari procedimenti di formazione c.d. “aggravati” (che fanno sì che le relative fonti si definiscano “rinforzate” perché il loro iter formativo ha alcuni passaggi ulteriori rispetto a quelli “ordinari”), per cui una data materia può essere disciplinata solo dalla fonte cui è riservata o che si è formata secondo il procedimento aggravato. Questo consente di risolvere l’eventuale conflitto tra le norme poste da due fonti diverse e confliggenti considerando prevalente la norma posta dalla fonte competente. A titolo meramente esemplificativo possono essere risolte attraverso il criterio di competenza le antinomie che coinvolgono i regolamenti parlamentari (oggetto della riserva di cui all’art. 64 Cost.) o le leggi regionali e statali che eccedono la propria competenza ai sensi dell’art. 117 Cost., che distribuisce la competenza legislativa per materia tra Stato e Regioni o, ancora, o i regolamenti dell’Unione europea (cui i Trattati istitutivi attribuiscono un ambito materiale riservato) o, ancora, le c.d. “fonti rinforzate”, come le leggi ex art. 8 Cost. che disciplinano i rapporti fra Stato e le confessioni religiose diverse da quella cattolica sulla base di “intese”. Anche la violazione del principio di competenza rappresenta un fenomeno patologico nella vita dell’ordinamento, perché l’atto incompetente è da considerarsi invalido rispetto alla norma gerarchicamente sovraordinata, che ne ha definito la competenza o ne ha “aggravato” il procedimento. Anche in questo caso, la sanzione è l’annullabilità da parte del giudice costituzionale, se si tratta di fonti primarie, e del giudice amministrativo in caso di fonti secondarie. Costituisce un’eccezione la risoluzione dell’antonimia normativa che si dovesse originare tra la legge italiana e il diritto UE produttivo di effetti diretti, perché in tal caso il giudice, come già
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visto, può e deve procedere alla disapplicazione o, meglio, non-applicazione del diritto interno contrastante (v. infra, Cap. V, par. 6). Proprio l’espansione dell’ambito applicativo del diritto dell’Unione europea negli ordinamenti interni rappresenta un esempio molto chiaro di come, se per molto tempo il principio gerarchico ha avuto una funzione predominante tra i criteri di risoluzione delle antinomie, con l’affermarsi del principio pluralista il criterio di competenza è divenuto sempre più centrale nelle dinamiche di funzionamento del sistema delle fonti. Vi sono, infine, dei casi in cui le antinomie normative non possono essere risolte attraverso né il criterio gerarchico, né attraverso quello di competenza, perché le norme che si pongono in conflitto occupano la medesima posizione nella scala gerarchica e sono entrambe competenti. In tali fattispecie trova applicazione un terzo criterio, quello cronologico, che si fonda sul principio lex posterior derogat priori, in forza del quale la norma successiva prevale sempre su quella anteriore che ha la stessa forza attiva e passiva e che è parimenti competente. Ciò che vale la pena mettere in evidenza è che, mentre la violazione dei criteri gerarchico e di competenza rappresenta una patologia dell’ordinamento, la successione delle norme nel tempo è un fenomeno assolutamente naturale perché le norme giuridiche vengono cambiate per adeguarle alla realtà sociale ed economica. Ne deriva che la conseguenza dell’applicazione del criterio cronologico non è una sanzione che opera sul piano della validità normativa, ma una rimodulazione degli effetti nel tempo che opera sul piano dell’efficacia della norma, che resta perfettamente valida, nonostante veda limitata la sua applicabilità. L’istituto che dà applicazione al criterio cronologico, regolando la successione delle norme nel tempo, è l’abrogazione, ovvero l’istituto giuridico che limita temporalmente l’ambito di applicazione della norma precedente rendendola non applicabile per il futuro, quindi a fattispecie nuove, a partire dal momento dell’entrata in vigore della norma successiva, ma lasciandola all’interno dell’ordinamento per disciplinare le fattispecie che si sono verificate prima dell’abrogazione. Ai sensi dell’art. 15 delle “preleggi” si possono distinguere tre tipi di abrogazione: espressa, quando il legislatore individua espressamente le disposizioni abrogate; tacita, quando c’è un’incompatibilità tra la nuova norma e la precedente; implicita, quando il nuovo atto disciplina tutta la materia regolata dall’atto precedente. La differenza fondamentale tra queste figure deriva dalla circostanza che, mentre l’abrogazione espressa opera in astratto, una volta per tutte, per effetto della volontà del legislatore, l’abrogazione tacita e quella implicita operano in concreto e con effetti limitati al singolo caso per effetto dell’interpretazione del giudice, che ritiene che la norma successiva detti una normativa incompatibile
Criterio cronologico
L’abrogazione
Abrogazione espressa, tacita e implicita
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Criterio di specialità
Capitolo IV
con quella precedente (che sarà considerata abrogata tacitamente) o che abbia ridisciplinato l’intera materia (e allora si avrà abrogazione implicita). Per tale ragione, a fini di certezza di quale sia il diritto applicabile, l’abrogazione espressa è certamente da preferirsi quando si vuole abrogare una disciplina precedente, anche se la prassi normativa ha dimostrato che il ricorso frequente a numerose abrogazioni espresse disposte contestualmente all’interno di atti c.d. di “manutenzione normativa” (si pensi ai c.d. “taglia-leggi”) pongono a loro volta problemi interpretativi complessi e possono dar luogo all’abrogazione di norme a loro volta abrogatrici, da cui deriva teoricamente la “reviviscenza” delle norme abrogate. Un ultimo criterio di risoluzione delle antinomie è quello di specialità, che opera come un’eccezione al principio cronologico quando l’antinomia tra norme di pari rango e parimenti competenti non può essere risolta attraverso l’abrogazione perché la norma anteriore presenta la particolare caratteristica di essere riferita ad una particolare species di fattispecie (per questo chiamata norma “speciale”) rispetto al più ampio genus disciplinato dalla legge successiva (perciò detta “generale”). Si pensi, ad esempio, alla disciplina legislativa che regola il reclutamento dei professori universitari (art. 18, legge n. 240/2010), la quale ha carattere di specialità rispetto alla disciplina dell’accesso per concorso ai pubblici uffici (art. 35, d.lgs. n. 165/2001, recante il c.d. “Testo unico del pubblico impiego”). Da tale carattere speciale deriva che, nel contrasto tra la modifica del Testo unico e la disciplina dei concorsi universitari (che sono una species del più ampio genus dei concorsi pubblici), a prevalere non sarà la norma successiva generale, come dovrebbe accadere in forza del criterio cronologico, ma quella precedente speciale in applicazione del criterio di specialità.
4. La Costituzione e leggi costituzionali Alla luce di quanto detto sui caratteri essenziali del sistema delle fonti, è possibile procedere all’analisi delle principali fonti del diritto del nostro ordinamento. In questa sede, l’attenzione verrà portata sulle fonti statali, avendo già accennato quelle internazionali e sovranazionali trattando della comunità internazionale (v. supra, Cap. II, par. 5, e poi infra, Cap. V, par. 1) e rinviando lo studio di quelle delle autonomie territoriali a quanto si dirà a proposito dell’organizzazione territoriale della Repubblica (v. infra, Cap. VII). Come osservato, al vertice della scala gerarchica delle fonti statali si
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colloca, in ossequio al principio di legalità costituzionale, la Costituzione, che rappresenta la norma sulla produzione per eccellenza, ovvero l’atto fondativo dell’intero sistema normativo. Essa, infatti, gode della massima forza attiva e passiva, potendo essere modificata solo attraverso il procedimento di revisione costituzionale aggravato previsto ex art. 138 Cost. e non potendo la legge del Parlamento in alcun modo derogarla o modificarla, né tanto meno abrogarla, essendo, altrimenti, incostituzionale ed essendo conseguentemente soggetta all’annullamento da parte della Corte costituzionale (artt. 134 e 136 Cost.). In proposito si è soliti affermare che il procedimento di revisione aggravato e la presenza di un sistema di giustizia costituzionale costituiscono il contenuto e l’essenza della c.d. “rigidità costituzionale”, ossia di quella sua peculiare forza normativa che la rende immodificabile da parte del legislatore ordinario. In realtà, anche muovendo dalla constatazione che gli artt. 134, 136 e 138 sono inseriti nel Titolo VI della Parte II, dedicata alle «Garanzie costituzionali», appare più corretto dire che non è tanto che la Costituzione è rigida perché per la sua modifica è previsto un procedimento aggravato e perché è assistita da un sistema di giustizia costituzionale, ma, al contrario, che è necessario un procedimento aggravato per modificarla ed è garantita da un controllo accentrato di costituzionalità perché è rigida. Le due caratteristiche individuate, dunque, sono più propriamente da considerare delle garanzie della rigidità. Il tema della Costituzione come fonte del diritto non si esaurisce con la ricostruzione della particolarissima posizione che le spetta nel sistema delle fonti, giacché esso pone anche delicate questioni circa l’efficacia delle norme costituzionali. Per quanto, allo stato attuale, il problema dell’efficacia delle previsioni della Costituzione repubblicana possa essere avvertito come meno pressante o, come si dirà di qui a poco, tenda a porsi in termini radicalmente diversi da quanto avveniva in passato, va ricordato che, dopo il 1° gennaio del 1948, ovvero quando essa è entrata in vigore, non pochi furono i dubbi circa la sua reale portata (e, quindi, efficacia normativa). Del resto, l’ordinamento italiano usciva dall’esperienza dello Statuto Albertino, che, come detto (v. supra, Cap. I, par. 6), era una “Costituzione flessibile” e non era considerata una vera e propria fonte normativa, quanto piuttosto una sorta di compromesso politico tra la Monarchia e la nascente classe liberale borghese; compromesso il cui rispetto era rimesso alla volontà del legislatore, che infatti ben poteva derogare le previsioni statutarie, come l’esperienza del regime fascista ha tristemente messo dinnanzi agli occhi di tutti. Anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, molta parte della magistratura, ma anche della dottrina, che si erano formate quando imperavano i dogmi dello stato liberale di diritto ed erano, quindi, scarsamente sensibili
La rigidità costituzionale
Norme precettive e norme programmatiche
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Capitolo IV
alla “rivoluzione” determinata dalla rigidità costituzionale, sostennero che era necessario distinguere all’interno delle previsioni della Costituzione quelle che ponevano in essere norme direttamente precettive e quelle che, invece, avevano carattere meramente programmatico. Secondo tale distinzione – che la Corte costituzionale, a partire dalla sua prima storica sentenza (sent. n. 1/1956), cercò di ridimensionare per lo meno sul piano dell’utilizzabilità di tutte le norme costituzionali come parametro nel giudizio di costituzionalità delle leggi – la stragrande maggioranza delle norme della nuova Costituzione si limitavano ad indicare un programma politico da realizzare per trasformare la società italiana, con la conseguenza che fino a quando il Parlamento non avesse dato loro concreta attuazione, approvando leggi ordinarie che attuassero i principi costituzionali, esse non erano considerate in grado di innovare l’ordinamento giuridico e, conseguentemente, a differenza delle poche giudicate direttamente precettive, di essere invocate e applicate nelle aule di tribunale. Grazie soprattutto alla giurisprudenza costituzionale e alla progressiva apertura della magistratura nei confronti dei valori repubblicani – emblematica in tal senso la “svolta” del Convegno dell’Associazione Nazionale Magistrati di Gardone del 25-28 settembre 1965, con cui si riconosce per la prima volta l’impegno della magistratura a interpretare la legge in maniera conforme a Costituzione – la distinzione tra norme programmatiche e norme precettive viene progressivamente abbandonata. Come si accennava, però, l’efficacia normativa della Costituzione è, col passare dei decenni, divenuta problematica in un senso – potrebbe dirsi – opposto a quello dell’originaria interpretazione svalutativa delle norme costituzionali (minus ut valeant). Oggi, infatti, per effetto dell’affermarsi del canone dell’interpretazione conforme a Costituzione e della riconosciuta capacità dei principi costituzionali di essere applicati al caso concreto, ricavando da essi regole per dirimere le controversie sottoposte alla cognizione del giudice (quella che la dottrina tedesca chiama Drittwirkung), si pone l’opposto problema di un’efficacia delle norme costituzionali che, nella conclamata crisi della rappresentanza politica generale e nella conseguente incapacità del legislatore di dare soluzioni generali e astratte a questioni di tutela poste dalla Costituzione (si pensi al riconoscimento di tutti i diritti resi possibili dalla scienza e dalla tecnica nelle materie eticamente controverse), tende a rendere pretermissibile il ruolo del legislatore e a comprimerne gli spazi di intervento, ponendo delicatissimi problemi di legittimazione e di responsabilità della funzione giurisdizionale che opera attraverso queste tecniche interpretative, le quali valorizzano al massimo la capacità delle norme costituzionali di essere applicate direttamente come regole del caso concreto (magis ut valeant).
Le fonti e l’interpretazione nell’ordinamento italiano
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Come detto, sempre al livello costituzionale si trovano le leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali, approvate anch’esse con il procedimento aggravato di cui all’art. 138 Cost.: le prime sono quelle attraverso cui si procede ad emendare il dettato costituzionale, intervenendo direttamente sulle disposizioni inserite nel testo della Carta costituzionale; le seconde, invece, sono quelle cui si ricorre per dare attuazione a istituti previsti dalla Costituzione senza modificare formalmente il documento costituzionale, ma introducendo nell’ordinamento una nuova disciplina di pari rango (un esempio è ricavabile dall’art. 61 Cost., secondo cui l’iniziativa legislativa può essere riconosciuta agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale). Da quanto detto dovrebbe risultare chiaro che la funzione di revisione costituzionale costituisce un aspetto centrale delle dinamiche attraverso cui le fonti costituzionali vivono all’interno dell’ordinamento. Al riguardo, si deve premettere che detta funzione costituisce una manifestazione di potere costituito, in quanto essa è prevista e disciplinata dalla stessa Costituzione attraverso l’art. 138 Cost., come tale da non confondere con le manifestazioni di potere costituente, ossia con quegli istituti che sono alla base dell’instaurazione di un nuovo ordinamento costituzionale, ovvero di un nuovo ordine politico-giuridico che sostituisce in maniera netta, se non traumatica (ad esempio, a seguito di una rivoluzione), quello precedente. Nel nostro ordinamento costituzionale la funzione di revisione costituzionale è attribuita allo stesso Parlamento che è competente ad adottare le leggi ordinarie, ma esso non può esercitare il potere in questione se non attraverso un procedimento speciale che costituisce, insieme al controllo di costituzionalità, una delle garanzie della rigidità. Secondo l’art. 138 Cost., il procedimento di revisione è, quindi, aggravato e tale aggravamento deriva, innanzitutto, dalla sua composizione in due fasi: una necessaria, parlamentare, e una eventuale, che vede il coinvolgimento del corpo elettorale attraverso lo strumento del referendum costituzionale. Un secondo aggravamento deriva dalla circostanza che l’art. 138 Cost. prevede che devono esservi due successive deliberazioni conformi da parte di ciascuna camera a intervallo non minore di tre mesi. I regolamenti di Camera e Senato hanno interpretato la disposizione costituzionale ritenendo che essa ammetta le c.d. “letture alternate”, ovvero che l’intervallo dei tre mesi deve decorrere tra le due letture del medesimo ramo del Parlamento, con la conseguenza che nel frattempo si può effettuare una lettura da parte dell’altro ramo per esigenze di maggiore celerità. Durante la seconda votazione non è consentita l’introduzione di emendamenti, per fare in modo che non vengano ridiscusse le singole scelte contenute nel testo già approvato in prima lettura, ma ci si concen-
Le leggi di revisione costituzionale e le altre leggi costituzionali
Il procedimento di revisione costituzionale
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Il referendum costituzionale come strumento a tutela delle minoranze
Capitolo IV
tri solo sull’opportunità politica della legge nel suo complesso, e l’art. 138 Cost. prescrive che l’approvazione all’esito della seconda lettura venga effettuata con una maggioranza almeno pari a quella assoluta dei componenti. Se l’approvazione avviene a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, ma inferiore ai due terzi dei componenti, entro tre mesi dalla prima pubblicazione a fini meramente notiziali (quindi, prima della promulgazione preordinata all’entrata in vigore), un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali possono richiedere il referendum costituzionale. Precisa, poi, il co. 3 che «Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti». A differenza di quanto avviene nel referendum abrogativo di cui all’art. 75 Cost., non è previsto un quorum partecipativo, ma solo deliberativo, per cui la legge è promulgata se è approvata dalla maggioranza dei voti validamente espressi (co. 2). Come si diceva, la fase referendaria è solo eventuale e questo conferma che il procedimento di revisione costituzionale è stato voluto dai Costituenti come una competenza esclusivamente parlamentare, il cui scopo è far sì che ogni modifica della Costituzione sia adottata con il consenso politico più ampio possibile; compromesso politico rispetto al quale, se non viene raggiunta l’elevata maggioranza qualificata dei due terzi, le minoranze, innanzitutto parlamentari, possono chiedere che attraverso il referendum si verifichi che la volontà della maggioranza parlamentare corrisponda alla volontà della maggioranza del corpo elettorale. Il referendum costituzionale, in questo senso, assume i caratteri di uno strumento a tutela delle minoranze e si connota come meramente confermativo rispetto a una volontà, quella parlamentare, che, una volta confermata, deve essere considerata di per sé sufficiente a legittimare il procedimento di revisione della Costituzione, senza che il corpo elettorale esprima una volontà concorrente con funzione autonoma di legittimazione della riforma costituzionale. Tale ultima precisazione appare doverosa perché, in occasione della riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione (v. infra, Cap. VII) effettuata con la legge cost. n. 3/2001 e, successivamente, in occasione delle c.d. “grandi riforme” approvate dal Parlamento (ma “bocciate” dal corpo elettorale) nel 2006, su iniziativa del Governo Berlusconi III, e nel 2016, su proposta del Governo Renzi, il referendum costituzionale è stato richiesto dalle stesse forze politiche che avevano approvato il testo di riforma per legittimare ex post le scelte della maggioranza parlamentare, imprimendo così all’istituto una torsione plebiscitaria del tutto estranea alla sua logica costituzionale. Peraltro, si deve ricordare che le torsioni determinate dalla prassi referendaria non costituiscono le uniche ipotesi
Le fonti e l’interpretazione nell’ordinamento italiano
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in cui si è inteso derogare alla disciplina del procedimento di revisione costituzionale, che, proprio perché rappresenta una garanzia della rigidità della Costituzione, dovrebbe considerarsi esso stesso, per primo, inderogabile. Ciò, infatti, è quanto si è ipotizzato di fare sia con le leggi cost. n. 1/1993 e n. 1/1997, che hanno rispettivamente istituito le Commissioni bicamerali “De Mita-Iotti” e “D’Alema”, prevedendo, tra le altre cose, che il referendum fosse obbligatorio, sia con alcuni successivi tentativi di “grande riforma”, che hanno preso le mosse da ipotesi derogatorie dell’art. 138 Cost e sono stati successivamente inalveati nel relativo procedimento (è il caso della c.d. “riforma Renzi-Boschi” del 2016). Da ultimo, è necessario dar conto che la Costituzione si chiude con una seconda norma sulla revisione costituzionale, l’art. 139 Cost., che individua nella «forma repubblicana» il solo limite espresso di contenuto alle possibili modificazioni della Carta repubblicana. Con tale limite si intende, innanzitutto, fare riferimento a quelle norme della Costituzione che delineano i caratteri essenziali della Repubblica come forma di governo distinta dalla Monarchia, quindi essenzialmente alla previsione che il Capo dello Stato sia elettivo (art. 83, co. 1, Cost.) e abbia una durata in carica limitata nel tempo, ossia non vitalizia (art. 85, co. 1 Cost.). Oltre a quello esplicito posto dall’art. 139 Cost., però, sia la dottrina che la Corte costituzionale – con la storica sent. n. 1146/1988 – hanno riconosciuto l’esistenza di ulteriori “limiti impliciti”, individuati nei c.d. «principi supremi», ovvero nei «principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale» e nei «diritti inalienabili della persona umana». Tra tali principi supremi, la cui individuazione è in definitiva rimessa alla giurisprudenza della Corte costituzionale, la dottrina ritiene che si possano annoverare il principio della sovranità popolare, come base del carattere democratico della Repubblica, e tutti quei principi e diritti definiti inviolabili dalla Costituzione (artt. 2, 13 ss.) (in tema v. anche supra, Cap. II, par. 3).
Il limite espresso alla revisione costituzionale: l’art. 139
I limiti impliciti
5. Le fonti primarie: la legge Come detto, rispetto alla Costituzione e alle leggi costituzionali si collocano nel gradino inferiore della scala gerarchica le fonti primarie, tra le quali merita di essere considerata per prima la legge ordinaria dello Stato, più opportunamente dovrebbe dirsi la legge in senso formale, ovvero quella di produzione parlamentare, la quale si contraddistingue come fonte a competenza generale per essere quella che più direttamente manifesta la volontà del popolo sovrano (art. 1 Cost.) in quanto approvata dal Parlamento, che trasferisce ad essa la legittimazione democratica
La legge parlamentare
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Leggi rinforzate o atipiche
Capitolo IV
derivante dal meccanismo della rappresentanza politica generale. Come si è detto, però, la centralità della legge nel sistema delle fonti, massima nell’ambito delle esperienze che ruotano intorno allo stato liberale di diritto subisce un netto ridimensionamento con le Costituzioni pluralistiche del secondo dopoguerra, che determinano un ampliamento del catalogo delle fonti e prevedono numerose fonti che concorrono con essa. Da questa sua particolare legittimazione la legge deriva la sua forza sia attiva, ovvero, come detto, la capacità di derogare e/o modificare e/o abrogare qualsiasi fonte primaria e secondaria, sia passiva, ovvero la capacità di resistere alla deroga e/o la modifica e/o l’abrogazione da parte delle fonti inferiori. Esistono, poi, leggi che, in considerazione del loro particolare procedimento aggravato o “atipico” presentano una forza passiva superiore a quella delle leggi ordinarie in quanto possono essere derogate e/o modificate e/o abrogate solo da leggi che hanno rispettato lo stesso procedimento di formazione. È il caso, ad esempio, delle leggi statali che trasferiscono Comuni o Province da una Regione all’altra, che devono essere adottate con l’approvazione della maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati, espressa mediante referendum, e sentiti i Consigli regionali (art. 132, co. 2, Cost.), oppure delle leggi che istituiscono nuove Province, che possono essere approvate solo su «iniziativa dei Comuni, sentita la stessa Regione» (art. 133, co. 1, Cost.), oppure ancora delle leggi che modificano la legge di esecuzione dei Patti Lateranensi, che, se «accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale» e, quindi, presuppongono un accordo con la Santa Sede (art. 7, co. 3, Cost.). All’interno di un ordinamento, come il nostro, a Costituzione rigida, proprio in quanto perno del circuito della legalità ordinaria, la legge parlamentare deve soggiacere alle norme della Costituzione che esprimono il circuito della legalità costituzionale, quindi innanzitutto a quelle che disciplinano il procedimento legislativo ordinario (artt. 70 ss. Cost.) – ma anche a quelle che riguardano le c.d. leggi ordinarie rinforzate o atipiche di cui si è appena detto – e a quelle che pongono limiti sostanziali al suo possibile contenuto (ad esempio, una legge non può introdurre discriminazioni di genere perché sarebbe contraria al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.). La stessa Costituzione, però, oltre a esprimere una serie di limiti di forma e di contenuto che il potere legislativo deve rispettare, detta alcune significative norme che riservano alla legge la disciplina di determinati ambiti materiali, soprattutto in tema di diritti e libertà fondamentali (artt. 13 ss. Cost.), ma non solo (si pensi, ad esempio, all’organizzazione dei pubblici uffici di cui all’art. 97, co. 2, Cost. o alla partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia di cui all’art. 102, co. 3,
Le fonti e l’interpretazione nell’ordinamento italiano
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Cost.). Si tratta dell’istituto della riserva di legge, che assolve all’interno dell’ordinamento costituzionale ad una duplice funzione, che ben si comprende proprio in relazione ai diritti e alle libertà. Una prima funzione è quella democratica, la quale consiste nell’escludere il possibile carattere autoritario delle concrete limitazioni dei diritti dei singoli in quanto le stesse possono aver luogo solo se previste in via generale e astratta dal legislatore, la cui volontà si è formata grazie al concorso della volontà di tutti gli individui (permesso dalla rappresentanza politica generale) e, quindi, idealmente, anche con il concorso della volontà di chi subisce, poi, la limitazione della propria sfera giuridica (riecheggia qui la visione tipicamente illuministica che si compendia nella massima kantiana del volenti non fit iniuria). La seconda funzione è quella garantista, che deriva – sempre in forza della necessaria corrispondenza della misura concreta adottata a limitazione dei diritti e delle libertà del singolo allo schema legale tipico previsto in astratto dal legislatore, che istituisce e limita la facoltà dei pubblici poteri di incidere negativamente nella sfera giuridica dei consociati – dalla possibilità che a ciascuna persona fisica o giuridica è riconosciuta di rivolgersi ad un giudice per far accertare che la misura limitativa subita non rispetta i vincoli di forma e di contenuto previsti dalla legge e ottenerne, quindi, l’annullamento. Come si è detto, a proposito dei diritti e delle libertà (v. supra, Cap. III, par. 1), la Costituzione prevede tre diverse tipologie di riserva di legge. Si parla di riserva di legge “assoluta” quando le norme costituzionali riservano tutta la materia al legislatore, impedendo qualsiasi intervento da parte del Governo, titolare del potere di adottare norme secondarie (è il caso della libertà personale di cui all’art. 13 Cost.). Si discorre, invece, di riserva di legge “relativa”, quando la Costituzione lascia un limitato spazio di intervento alle fonti secondarie, che possono dunque disciplinare aspetti esecuti e attuativi della disciplina principale che deve essere contenuta nella legge (cfr., ad esempio, la ricordata riserva di cui all’art. 97 Cost.). Una terza tipologia di riserva di legge, infine, è quella c.d. “rinforzata”, che ricorre tutte le volte in cui la Costituzione non si limita a riservare alla Costituzione una data disciplina, ma impone al legislatore di rispettare alcuni limiti specifici (è il caso, ad esempio, della riserva di legge in tema di libertà di circolazione, in relazione alla quale l’art. 16 prevede che la legge possa introdurre limiti al suo esercizio solo per motivi di sanità o di sicurezza). Nonostante la sua recessività nell’impianto delle forme di stato pluralistiche, come la nostra, dunque, la legge continua a conservare un ruolo essenziale, come testimoniano anche altri istituti che la Costituzione detta a garanzia della duplice funzione democratica e garantistica assolta dalle riserve di legge e, più, in generale dal principio di legalità. Si pensi,
La riserva di legge: funzione democratica e garantista
Riserva assoluta, relativa e rinforzata
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Il procedimento legislativo ordinario
Capitolo IV
in questa prospettiva, alla possibilità che la legge venga abrogata solo per via referendaria, oltre che per volontà dello stesso legislatore (art. 75 Cost.), alla soggezione dei giudici «soltanto alla legge» di cui all’art. 101, co. 2, Cost., alla sindacabilità della legge esclusivamente da parte della Corte costituzionale, con conseguente divieto per il giudice di disapplicarla (art. 134 Cost., salva la progressiva “diffusione” del controllo di costituzionalità delle leggi di cui si dirà infra, Capp. V, par. 6, e X) e alla ricorribilità diretta in Cassazione contro i provvedimenti limitativi della libertà personale afflitti da violazione di legge (art. 111, co. 7, Cost.). Per quanto attiene al suo procedimento di formazione la regola generale è che la funzione legislativa ordinaria spetta al Parlamento in via esclusiva, salvo l’eccezione costituita dagli atti aventi forza di legge approvati dal Governo e del referendum abrogativo (artt. 70-79 Cost.). L’art. 70 Cost. afferma che «la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere», cosicché, in ossequio al bicameralismo paritario, la legge ordinaria è il frutto dell’approvazione dello stesso testo da parte di entrambe le Camere, il che determina il fenomeno della c.d. navette, per cui il testo va da una Camera all’altra fino a quando non è approvato nella stessa identica formulazione. Per mitigare il possibile allungamento dei tempi di approvazione, i regolamenti parlamentari prevedono che, in caso di modifiche, la Camera che ha approvato per prima il testo dovrà limitare il suo esame alle sole parti emendate. Al riguardo si deve segnalare, però, che negli ultimi anni il procedimento legislativo si sta strutturando secondo quello che la dottrina chiama un “monocameralismo di fatto” o “bicameralismo alternato”, nel quale solo la Camera che avvia l’esame della legge interviene sul testo, mentre l’altra si limita a confermare o ratificare la decisione presa nell’altro ramo. Il procedimento legislativo si articola in tre fasi: a) l’iniziativa legislativa, che consiste nella presentazione di un progetto o disegno di legge ad una Camera, accompagnato da una relazione che ha lo scopo di illustrare obiettivi e caratteristiche della proposta; b) la fase istruttoria, consistente nell’esame, discussione e nella approvazione del testo, in relazione alle modifiche proposte dall’altra Camera e secondo diversi possibili sub-procedimenti; c) la fase deliberativa, che porta all’approvazione definitiva di un identico testo da parte di entrambe le Camere, anch’essa strutturata secondo differenti possibili sub-procedimenti a seconda della struttura della fase istruttoria (v. infra, in questo paragrafo). Ad esse si aggiunge una ulteriore fase, che a rigore non fa parte del procedimento di formazione perché la volontà del Parlamento si è già compiutamente definita con la deliberazione finale, quella c.d. integrativa dell’efficacia, la quale comprende la promulgazione, l’inserzione nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti della Repubblica e la pubblicazione nella Gaz-
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zetta Ufficiale; nome che deriva dal fatto che da tali adempimenti deriva la capacità della legge, già formatasi, di produrre i propri effetti giuridici nei confronti della generalità dei consociati. Quanto all’iniziativa, essa è disciplinata dall’art. 71 Cost., che attribuisce il potere di proporre alle Camere l’approvazione di una legge «al Governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale». Tra tali enti rientrano: il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) cui l’art. 99, co. 3, Cost., attribuisce «l’iniziativa legislativa»; i Consigli regionali, che secondo l’art. 121, co. 2, Cost. possono «fare proposte di legge alle Camere»; i Comuni, che hanno iniziativa legislativa esclusivamente ai sensi dell’art. 133, co. 1, Cost. per le già ricordate leggi rinforzate che determinano «il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Province nell’ambito di una Regione». Il co. 2 dell’art. 71 Cost. prevede poi l’iniziativa legislativa popolare, un istituto di democrazia diretta che permette ad una frazione del corpo elettorale costituita da cinquantamila elettori di presentare un «progetto redatto in articoli» alle Camere, le quali non devono obbligatoriamente approvarlo, ma devono deliberare sulla proposta. Quale elemento di garanzia nei regolamenti parlamentari è stabilito che le proposte di legge di iniziativa popolare, a differenza di tutte le altre, non decadono allo scadere della legislatura. Ciò nonostante, l’istituto ha avuto scarsa applicazione, principalmente a causa delle difficoltà tecnico-giuridiche connesse alla predisposizione, come la norma impone, di un «progetto redatto in articoli», che richiede specifiche competenze (c.d. drafting). Nella prassi, l’iniziativa legislativa più rilevante e suscettibile con maggior frequenza di completare il proprio iter è, senza dubbio, quella del Governo (si parla, allora, di “disegni di legge”, mentre a quelle parlamentari si dà il nome di “proposte di legge”); Governo cui in alcuni casi la Costituzione riserva l’avvio del procedimento di formazione della legge: è quanto avviene, ad esempio, per il disegno della legge di bilancio (art. 81 Cost.) e per quello della legge di conversione dei decreti legge (art. 77 Cost.). Le fasi dell’istruttoria e della deliberazione sono regolate sommariamente dall’art. 72 Cost. – mentre la disciplina analitica si trova nei regolamenti parlamentari, cui la stessa norma la riserva – il quale impone che un progetto di legge sia esaminato, prima dell’approvazione in Aula, dalla commissione permanente competente per materia (co. 1). A seconda della funzione della commissione competente nel procedimento si distinguono tre sub-procedimenti. Il primo, quello imposto come ordinario, è quello della commissione in sede referente o “procedura normale”: il Presidente dell’Assemblea affida l’esame del progetto di legge alla commissione competente, la
L’iniziativa legislativa
La fase istruttoria Commissione in sede referente
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Commissione in sede deliberante
Commissione in sede redigente
La riserva di assemblea
Capitolo IV
quale procede alle c.d. “tre letture”, ovvero la discussione sulle linee generali del testo, la votazione articolo per articolo e degli eventuali emendamenti, l’approvazione dell’intero testo e di una relazione rivolta all’Assemblea. In commissione si svolge anche quella parte dell’istruttoria che è necessaria allo scopo di acquisire gli elementi di conoscenza necessari per verificare la qualità e l’efficacia dell’intervento normativo proposto, valutando ad esempio, la necessità dell’intervento legislativo, la compatibilità costituzionale, la chiarezza delle disposizioni. Sui testi emendati in commissione può essere acquisito il parere delle altre commissioni interessate. Di particolare rilievo è il ruolo delle c.d. “commissioni filtro”, tra le quali la Commissione bilancio che verifica la copertura finanziaria delle previsioni di spesa, la Commissione affari costituzionali e la Commissione politiche dell’Unione europea. I lavori della commissione si esauriscono con la votazione del mandato a riferire in Aula, che può anche prevedere la nomina di un relatore di minoranza. Quando la commissione ha operato in sede referente, in Assemblea si procede nuovamente alle “tre letture”: discussione generale; esame degli articoli, degli emendamenti e dei subemendamenti (in relazione alla cui ammissibilità il Presidente si vede attribuito un importante ruolo di filtro con funzione anti-ostruzionistica) e voto sugli emendamenti, su ciascun articolo e, infine, sul testo nel suo complesso, con le relative dichiarazioni di voto finali. Il secondo possibile sub-procedimento, avente carattere speciale ai sensi del co. 3, è quello della commissione in sede deliberante o legislativa. Ciò che lo caratterizza è che l’approvazione del testo inizia e finisce in commissione, senza passare dall’Aula. A tutela delle minoranze, ma anche delle prerogative governative, l’art. 72, co. 3, Cost. prevede la possibilità − in ogni momento – di “tornare” al procedimento ordinario su richiesta del Governo o di un decimo dei componenti di una camera o di un quinto dei componenti della commissione. Il terzo possibile procedimento, avente anch’esso natura speciale rispetto a quello ordinario, è quello che vede la commissione operare in sede redigente. Si tratta di una procedura, per alcuni aspetti divergente tra Camera e Senato, caratterizzata dalla circostanza che la commissione svolge la discussione generale e la votazione articolo per articolo e degli emendamenti, mentre all’Assemblea spetta unicamente l’approvazione finale del testo senza possibilità di apportare modifiche. Le due procedure speciali non possono essere seguite per l’approvazione di quelle leggi per cui l’art. 72, co. 4, Cost. prevede la c.d. “riserva di assemblea”, ovvero impone di adottare sempre il procedimento normale, con maggiori garanzie di trasparenza e partecipazione, ovvero per i
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disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale, per quelli di delegazione legislativa, per quelli di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali e per quelli di approvazione di bilanci e consuntivi. La fase successiva, integrativa dell’efficacia, è, come detto, quella della promulgazione e della pubblicazione. Una volta approvato il testo, la legge, per divenire efficace, dovrà essere promulgata da parte del Presidente della Repubblica entro un mese, salvo che, in caso di urgenza, sia assegnato un termine inferiore dalle Camere, con deliberazione adottata a maggioranza assoluta dei componenti (art. 73 Cost.). La promulgazione, da cui discende l’obbligo di osservanza della legge, consiste in un’attività di controllo, sia sulla correttezza formale del procedimento legislativo e sull’eadem consensus delle due Camere, sia di carattere sostanziale. Il controllo sostanziale attiene al c.d. “merito costituzionale”, una nozione che si pone al confine tra la legittimità (intesa come conformità alle norme giuridiche) e il merito (inteso come conformità alle norme non giuridiche, di opportunità e buona legislazione), che ancora il veto sospensivo alla promulgazione della legge che il Presidente della Repubblica può opporre al rilievo di evidenti vizi di legittimità o di palesi ragioni di inopportunità costituzionale, ma che non può tradursi nella valutazione sull’opportunità politica rimessa alla discrezionalità legislativa. Si parla di veto sospensivo perché il Presidente della Repubblica, in sede di promulgazione può, con messaggio motivato, rinviare la legge alle Camere, ma se la legge viene riapprovata è tenuto a promulgarla (art. 74 Cost.). Detto altrimenti, il Capo dello Stato non può impedire definitivamente la successiva pubblicazione, ma solo chiedere per una volta alle Camere di modificare il testo in accoglimento dei rilievi che formula e che costituiscono l’oggetto della motivazione del messaggio di rinvio, che si connota conseguentemente come un potere non informale. Secondo la dottrina, esiste un’unica ipotesi in cui il Presidente della Repubblica potrebbe rinviare la legge una seconda volta o, comunque, rifiutarsi definitivamente di promulgarla, ovvero quando l’incostituzionalità della legge è talmente manifesta e talmente grave che la promulgazione da parte sua potrebbe integrare gli estremi dell’attentato alla Costituzione ai sensi dell’art. 90 Cost. (si pensi al caso – di scuola, si spera – di una legge razziale). Alla promulgazione segue, infine, la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale ad opera del Ministro della Giustizia, che concorre ad integrare l’efficacia delle leggi e, nondimeno, di renderle conoscibili, in modo che tutti i consociati possano esserne resi edotti ai fini del loro rispetto. Per tale motivo è prevista la vacatio legis, ossia l’entrata in vigore posticipata al quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione (art. 73, co. 3, Cost., che fa salva l’ipotesi che le leggi stesse stabiliscano un termine diverso),
La fase integrativa dell’efficacia La promulgazione
Il potere di rinvio
La pubblicazione
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Capitolo IV
da cui deriva l’operatività del già ricordato principio ignorantia legis non excusat (art. 5 c.p.), ovvero la presunzione di conoscenza da parte della legge della generalità dei consociati (v. supra, par. 1). Nella prassi, la funzione legislativa ha conosciuto diverse stagioni: una prima, negli anni ’50 e ’60, in cui essa ha stentato ad affermarsi come strumento principe di attuazione delle norme costituzionali nel più generale quadro di inattuazione della Costituzione determinato anche dalla conventio ad excludendum; una seconda, negli anni ’70, in cui il c.d. “disgelo costituzionale” ha favorito le grandi leggi di riforma economico-sociali (Sistema Sanitario Nazionale, riforma del diritto di famiglia, introduzione del divorzio e dell’aborto, riforma del servizio pubblico radiotelevisivo, approvazione dello Statuto dei lavoratori); una terza, negli anni ’80 e ’90, in cui la degenerazione del sistema dei partiti ha favorito l’ipertrofia legislativa e il dilagare di leggi per interessi particolari e concreti (le già citate “leggi-provvedimento” e le leggi c.d. ad personam); una quarta, che si estende fino ai giorni nostri, in cui la legge parlamentare è andata incontro ad una apparentemente irreversibile marginalizzazione, testimoniata dal numero sempre inferiore di leggi (rispetto al numero di decreti legislativi e dei decreti-legge) e al carattere meramente formale della maggior parte delle poche leggi approvate (come nel caso delle leggi di bilancio – prima della riforma costituzionale del 2012 e della sua attuazione – e delle leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali), che, ancorché adottate dalle Camere, non hanno un reale contenuto innovativo dell’ordinamento (e, quindi, non si considerano leggi in senso anche sostanziale).
6. Gli atti aventi forza di legge: decreti legislativi e decretilegge Come anticipato, tra le fonti primarie si collocano, altresì, i c.d. “atti aventi forza di legge” del Governo. Si tratta, dunque, di fonti che, ancorché non approvate dal Parlamento con il procedimento ordinario previsto per la legge formale, hanno lo stesso rango di quest’ultima nella gerarchia delle fonti. Gli atti aventi forza di legge adottati dal Governo sono tassativamente previsti e sinteticamente disciplinati dagli artt. 76, 77 e 78 Cost. e sono: i decreti legislativi, i decreti-legge e i decreti del Governo in caso di guerra, cui si aggiungono i peculiari decreti legislativi con i quali vengono adottate le norme di attuazione degli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale.
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Il decreto legislativo trova la sua disciplina nell’art. 76 Cost. secondo il quale «L’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti». Ne discende che il decreto legislativo può essere adottato solo dal Governo e nel rispetto di una legge di delegazione del Parlamento che preveda principi e criteri direttivi, individui un determinato oggetto e fissi un termine per l’esercizio della delega. Attraverso i princìpi e criteri direttivi il Parlamento limita la discrezionalità governativa ed esercita la funzione di indirizzo politico. Per principi si intendono le norme fondamentali della materia da regolare (ad esempio, il principio di pubblicità in una delega a riformare i concorsi del pubblico impiego), mentre i criteri attengono agli adempimenti formali del procedimento di formazione (ad esempio, l’acquisizione di un parere dell’Istituto nazionale di Sanità in una delega a riformare il Servizio Sanitario Nazionale). Quanto all’oggetto, non tutte le materie sono suscettibili di delegazione legislativa, come si desume da una lettura sistematica delle norme costituzionali ed in particolare dai casi in cui sia prevista la riserva di legge formale, che cioè vincola all’utilizzo della sola legge del Parlamento, approvata con il procedimento legislativo normale (ex art. 72, co. 4, Cost.). Gli «oggetti definiti» ex art. 76 Cost. costituiscono un limite di contenuto della delega perché è necessario che il Parlamento individui in maniera chiara e inequivoca la materia da regolare, anche se la delega può riferirsi ad una pluralità di oggetti distinti, suscettibili di separata disciplina. Quanto al termine, poiché il fenomeno della delegazione si basa su una scissione tra titolarità della funzione legislativa (che resta alle Camere) e suo esercizio (che viene trasferito al Governo), il Parlamento può sempre revocare la delega prima del suo esercizio, ad nutum, cioè senza alcuna espressa motivazione, ed anche implicitamente, approvando cioè una legge successiva incompatibile con la legge di delegazione che ne determini l’abrogazione per incompatibilità. Dal punto di vista procedurale si deve sottolineare che i decreti legislativi sono deliberati dal Consiglio dei Ministri e sono emanati dal Presidente della Repubblica (art. 87, co. 5, Cost.). Come si accennava, ulteriori adempimenti possono essere previsti nella delega. In particolare, nella prassi la legge di delegazione prevede l’intervento delle commissioni parlamentari competenti per materia, chiamate a fornire pareri obbligatori ma, di regola, non vincolanti sugli schemi dei decreti legislativi da adottare. L’art. 14 della legge n. 400/1988 prevede che in caso di deleghe ultrabiennali il Governo deve richiedere il parere delle competenti commissioni parlamentari sugli schemi dei decreti delegati anche se detto parere non è richiesto dalla legge di delega e che detto parere deve essere reso entro sessanta giorni (co. 4). La medesima norma, inoltre, al co.
Decreto legislativo
Principi e criteri direttivi
Oggetto
Termine
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Legge delega come parametro interposto
Decreto-legge
Capitolo IV
2, prevede che l’emanazione del decreto legislativo deve avvenire entro il termine fissato dalla legge di delegazione e a tal fine, per consentire un effettivo controllo presidenziale, il testo del decreto legislativo è trasmesso al Presidente della Repubblica, per la emanazione, almeno venti giorni prima della scadenza. Dunque, in considerazione della natura di eccezione al principio della generale competenza legislativa del Parlamento, il decreto legislativo soggiace a limiti ulteriori rispetto alla legge ordinaria, ossia ai principi e criteri direttivi, al termine e all’oggetto previsti nella legge di delegazione. Le relative norme della legge di delegazione possono essere utilizzate dalla Corte costituzionale per sindacare il rispetto dell’art. 76 Cost. da parte dei decreti legislativi. In tali casi, le norme di delega costituiscono “parametro interposto” nel giudizio di legittimità costituzionale; ovvero norme che, anche se formalmente sprovviste di rango costituzionale, vengono utilizzate come parametro per controllare la costituzionalità dei decreti legislativi perché dalla loro violazione discende una violazione indiretta dell’art. 76 Cost. (sent. n. 3/1957). Il particolare vizio di costituzionalità che affligge i decreti legislativi che non rispettano i limiti della legge di delega prende il nome di “eccesso di delega”. Nella prassi, però, grazie anche ad orientamenti “tolleranti” della giustizia costituzionale, si riscontrano deleghe eterogenee, con principi e criteri direttivi ampi e generici, non di rado con il ricorso alla proroga dei termini della delega o ai c.d. “decreti correttivi”, ovvero decreti volti a modificare decreti legislativi già in vigore. Tali tendenze testimoniano un parziale indebolimento del Parlamento nella forma di governo che nella prassi è bilanciato solo parzialmente dall’intervento delle commissioni parlamentari chiamate ad esprimere parere sugli schemi di decreto, perché l’esame da esse svolto è spesso superficiale e affrettato. Il ricorso alla delegazione legislativa ha conosciuto un notevole incremento nelle ultime legislature e, in particolare, è utilizzata per l’adozione di codici e testi unici, che riuniscono in un unico corpus normativo le fonti vigenti in una data materia. Al riguardo va precisato che nel caso di testi unici meramente compilativi non si ha innovazione dell’ordinamento e non occorre, quindi, delega legislativa. Il testo unico innovativo, invece, poiché provvede non solo a razionalizzare un certo ambito normativo, ma anche a modificarlo parzialmente, ponendo in essere una nuova fonte normativa, necessita di apposita delegazione parlamentare. La seconda rilevante categoria di atti con forza di legge è rappresentata dai decreti-legge disciplinati dall’art. 77 Cost., secondo il quale «Il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria. Quando, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedi-
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menti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni. I decreti perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione. Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti». La norma costituzionale si riferisce, pertanto, a situazioni straordinarie, oggettivamente eccezionali, imprevedibili, di necessità e urgenza (come nel classico esempio delle catastrofi naturali), da cui deriva l’applicazione immediata del provvedimento, che, proprio in quanto eccezionale, ha carattere provvisorio, ovvero è caratterizzato dalla non irreversibilità degli effetti, che per essere stabilizzati abbisognano della legge di conversione, che riporta la produzione di diritto primario nell’alveo della competenza legislativa del Parlamento. Il decreto-legge è, dunque, una fonte primaria peculiare, che resta in vigore solo per un tempo limitato perché, decorsi sessanta giorni, o decade, con perdita di efficacia retroattiva (ex tunc), o è convertito con legge di conversione. Costituiscono un’eccezione alla perdita di efficacia retroattiva degli effetti del decreto-legge non convertito i c.d. “rapporti esauriti”, ossia quei rapporti (civili, penali, amministrativi) che hanno ultimato di produrre i propri effetti in forza delle norme del decreto-legge prima della sua decadenza; effetti che non vengono travolti, per cui la perdita di efficacia non è retroattiva (ex nunc). Costituisce, infine, un’eccezione all’eccezione il caso del giudicato penale di condanna a pena detentiva, che è un rapporto esaurito, ma che viene travolto, con scarcerazione dell’imputato che è stato condannato con sentenza definitiva in base ad una norma introdotta per via di decretazione d’urgenza, ma non convertita, in ossequio al principio del favor libertatis. A fronte della mancata conversione o del diniego, il legislatore può intervenire con una legge di sanatoria che stabilizzi gli effetti prodottisi medio tempore, facendo salvi gli atti ed i provvedimenti adottati e gli effetti prodottisi sulla base del decreto-legge decaduto. Dal punto di vista procedurale, anche i decreti-legge sono deliberati dal Consiglio dei Ministri e sono emanati dal Presidente della Repubblica (art. 87, co. 5, Cost.). Dalla pubblicazione del decreto-legge decorrono i suoi effetti e il termine perentorio per la conversione, mentre alla presentazione del disegno di legge di conversione può provvedere esclusivamente il Governo. La disciplina attuativa dell’art. 77 Cost. è stata dettata dall’art. 15 della legge n. 400/1988, che prevede, al co. 2, alcuni limiti ulteriori alla decretazione d’urgenza. Segnatamente, il Governo non può, mediante decreto-legge, conferire deleghe legislative o intervenire nelle materie co-
Provvisorietà
I rapporti esauriti
Limiti ulteriori: art. 15, legge n. 400/1988
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La problematica prassi applicativa
La giurisprudenza della Corte costituzionale
Capitolo IV
perte da riserva di assemblea ex art. 72, co. 4, Cost., né reintrodurre disposizioni di decreti-legge non convertiti per il voto contrario di una delle due Camere, né ancora regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti o ripristinare disposizioni dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale per vizi sostanziali. Il successivo co. 3 precisa che i decreti devono contenere misure di immediata applicazione e che il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo. Il co. 5, invece, chiarisce che le modifiche apportate in sede di conversione hanno efficacia dal giorno successivo a quello della pubblicazione della relativa legge, salvo che quest’ultima non disponga diversamente. Nella prassi, i limiti alla decretazione d’urgenza vengono di sovente superati, tanto che essa è divenuta uno strumento ordinario di intervento normativo del Governo, da esso praticato al posto dell’iniziativa legislativa al fine di bypassare i tempi dell’ordinario procedimento legislativo e per dare risposte immediate a temi particolarmente rilevanti per la sua agenda politica. Questo ha finito per trasformare la c.d. urgenza del provvedimento, quella oggettiva richiesta dall’art. 77 Cost., nella c.d. urgenza del provvedere, che dipende invece dalle valutazioni politiche soggettive del Governo. Altro annoso problema che connota la prassi applicativa dell’istituto concerne la necessaria omogeneità del contenuto della legge di conversione rispetto alla fonte originaria, che si ricava dal citato art. 15, co. 3, oltre che dal carattere eccezionale dell’istituto, che comporta un procedimento legislativo (per la conversione) compresso in ragione del termine di decadenza di sessanta giorni. Da anni, infatti, si assiste a leggi di conversione omnibus e, in più occasioni, i Presidenti della Repubblica hanno richiamato l’attenzione delle Camere sulla eterogeneità degli emendamenti introdotti in sede di conversione al testo originario del decreto-legge. Spesso, poi, tale prassi si accompagna all’apposizione della questione di fiducia su maxi-emendamenti al contenuto del decreto-legge, con la conseguenza che in sede di conversione il controllo parlamentare sull’indirizzo politico espresso dal Governo attraverso il decreto perde ogni sostanza ed effettività, trasformandosi il voto sulla legge in una decisione sulla permanenza in carica o meno dell’Esecutivo. La giurisprudenza costituzionale è spesso intervenuta sulla decretazione d’urgenza per arginare prassi incompatibili con l’art. 77 Cost. In particolare, con la storica sent. n. 360/1996, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della prassi della reiterazione dei decreti-legge non convertiti, ossia della riproduzione in un nuovo decreto-legge dello stesso contenuto di uno precedente. Con la successiva sent. n. 171/2007, invece, è stata per la prima volta dichiarata l’incostituzionalità di alcune disposizioni di decreti-legge convertiti in legge per evidente mancanza
Le fonti e l’interpretazione nell’ordinamento italiano
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dei presupposti ex art. 77 Cost. di straordinaria necessità ed urgenza e, pochi anni dopo, con la sent. n. 22/2012 la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli emendamenti introdotti in sede di conversione quando del tutto estranei all’oggetto e alle finalità del testo originario del decreto-legge.
7. Le fonti secondarie: i regolamenti dell’Esecutivo Come detto, le fonti secondarie nel nostro sistema delle fonti non costituiscono un “numero chiuso”, perché sono suscettibili di essere “modellate” dalla fonte primaria, che si configura come fonte sulla produzione. Data l’articolazione del nostro sistema costituzionale si distinguono fonti secondarie dello Stato, delle Regioni, degli enti locali. Ad esse si devono aggiungere le fonti secondarie introdotte da Autorità amministrative distinte dall’Esecutivo, come i già citati regolamenti adottati dalle Autorità amministrative indipendenti, che con il passare degli anni hanno assunto sempre più importanza. In questa sede si tratterà esclusivamente delle prime (per le fonti regionali e locali si v. infra, Cap. VII, par. 3). I regolamenti dell’Esecutivo sono gerarchicamente subordinati alle fonti primarie, per cui non possono ad esse derogare, come chiarisce l’art. 4 delle “preleggi”, secondo cui «i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni delle leggi». Molto si è discusso in dottrina su quale sia il fondamento di tale potere normativo, se un’espressa previsione legislativa o la Costituzione. Da un lato, infatti, non è dubbio che il regolamento come fonte secondaria deve trovare la propria fonte nella legge in forza del principio di legalità e ha la funzione primaria di specificare il contenuto delle leggi, dando loro attuazione e/o esecuzione. Dall’altro, la Costituzione se, per un verso, si limita ad affermare, all’art. 87, co. 5, Cost. che il Presidente della Repubblica emana i regolamenti e, all’art. 117, co. 6, Cost., che il potere regolamentare statale è circoscritto alle sole materie di potestà esclusiva statale, salva delega alle Regioni (v. infra, Cap. VII, par. 3), per altro verso, costituisce il fondamento implicito della potestà regolamentare del Governo perché, affidando ad esso la funzione esecutiva, presuppone logicamente che rientri tra le sue competenze anche l’introduzione di quelle norme che sono necessarie per dare esecuzione e attuazione alle leggi, quando esse non hanno un grado di completezza e di dettaglio da poter essere applicate direttamente alle fattispecie concrete (c.d. “leggi autoaplicative”). All’interno della categoria dei regolamenti dell’Esecutivo è possibile distinguere tre categorie: i regolamenti governativi “in senso stretto”, i
Il fondamento del potere regolamentare statale
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I regolamenti governativi
Regolamenti di esecuzione Regolamenti di attuazione e integrazione
Regolamenti di organizzazione e funzionamento Regolamenti indipendenti Regolamenti di delegificazione
Capitolo IV
regolamenti ministeriali e i regolamenti interministeriali. L’elemento che consente di distinguerli prima facie è, oltre alla loro autoqualificazione e alla forma dell’atto (v. infra), il procedimento di formazione. Il procedimento di formazione dei regolamenti governativi è disciplinato dall’art. 17 della legge n. 400/1988, il quale prevede che essi: sono deliberati dal Consiglio dei Ministri, previo parere obbligatorio non vincolante del Consiglio di Stato; sono emanati dal Presidente della Repubblica; sono registrati presso la Corte dei conti; sono pubblicati in Gazzetta Ufficiale; entrano in vigore decorso il medesimo termine di vacatio legis di quindici giorni previsto per le leggi (cfr. art. 10 delle “preleggi”). Dal punto di vista contenutistico, l’art. 17 consente di distinguere cinque tipologie di regolamenti governativi: i “regolamenti di esecuzione” di leggi, decreti legislativi e regolamenti UE, nei quali il margine di discrezionalità dell’Esecutivo è significativamente circoscritto dalla fonte primaria, che reca una disciplina di dettaglio; i “regolamenti di attuazione e integrazione” di leggi e decreti legislativi contenenti norme di principio, che esercitano una discrezionalità più ampia perché la fonte primaria non reca norme dettagliate, ma non possono intervenire nelle materie di competenza regionale, né in caso di riserva assoluta di legge; i “regolamenti di organizzazione e funzionamento” delle pubbliche amministrazioni in ossequio alla riserva di legge in materia disposta dall’art. 97 Cost.; i c.d. “regolamenti indipendenti”, i quali intervengono in ambiti in cui manca la disciplina di una fonte primaria purché non ci siano riserve di legge, né assolute, né relative; i c.d. “regolamenti delegati o di delegificazione”, qualora una previa legge di autorizzazione consenta al Governo di esercitare la potestà regolamentare per disciplinare una certa materia, già disciplinata da una precedente legge, consentendone l’abrogazione «differita» a partire dall’entrata in vigore del regolamento, con la conseguenza che la materia risulta “delegificata” perché la disciplina primaria viene ad essere sostituita con una secondaria, che dopo la delegificazione potrà essere oggetto di successive modifiche da parte del Governo senza più la necessità dell’intervento parlamentare. Riguardo a quest’ultima tipologia deve essere sottolineato che l’intervento “a monte” della legge di autorizzazione alla delegificazione – che deve contenere le norme fondamentali regolatrici della materia e le singole norme da abrogare – serve per rendere il fenomeno della delegificazione compatibile con il principio di legalità e con il criterio di gerarchia perché è la legge che autorizza l’abrogazione della fonte primaria previgente, con la conseguenza che l’effetto abrogativo non si determina in forza del regolamento, ma è solo differito temporalmente al momento della sua entrata in vigore. La suddivisione in categorie prevista dall’art. 17, in realtà, non trova
Le fonti e l’interpretazione nell’ordinamento italiano
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pieno riscontro nella prassi, che evidenzia l’esistenza di atti normativi secondari del Governo che non appartengono a nessuno dei suddetti “tipi”, che hanno un contenuto misto (in parte di esecuzione e in parte di attuazione/integrazione), che vengono qualificati dalla legge come appartenenti a una tipologia, ma hanno il contenuto di un’altra, e che introducono contenuti normativi attraverso “piani” e “programmi”. Sempre nella prassi, poi, il “modello” di delegificazione previsto dal co. 2 subisce frequenti deroghe, soprattutto attraverso leggi di autorizzazione sprovviste del loro contenuto tipizzato dal legislatore. I regolamenti ministeriali ed interministeriali sono disciplinati dal successivo co. 3 dell’art. 17, il quale prevede che i Ministri e le loro autorità sottordinate possono adottare regolamenti nelle materie di competenza del Ministero quando la legge espressamente conferisca tale potere. Ferma restando la necessità di apposita autorizzazione da parte della legge, tali regolamenti, quando la materia risulti di competenza di più Ministri, possono essere adottati con decreti interministeriali. I regolamenti ministeriali ed interministeriali non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo, per cui sono ad essi gerarchicamente sottordinati, e debbono essere comunicati al Presidente del Consiglio dei Ministri prima della loro emanazione. Ancorché non previsti dall’art. 17, tra i regolamenti dell’Esecutivo non deliberati dal Consiglio dei Ministri hanno avuto particolare utilizzo nella prassi, soprattutto in relazione alle misure di contrasto alla pandemia da Covid-19, i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM). La tendenza alla loro diffusione si inserisce in un fenomeno più ampio, che la dottrina definisce di “fuga dal regolamento” per sottolineare la proliferazione di atti normativi secondari di produzione dell’Esecutivo che, in quanto non hanno la forma dei regolamenti, non ne rispettano il procedimento di formazione e i controlli.
I regolamenti ministeriali ed interministeriali
I DPCM
8. Le fonti extra ordinem Come detto, le situazioni di necessità che l’ordinamento si può trovare a dover affrontare possono giustificare l’adozione dei decreti-legge o l’esercizio di peculiari poteri normativi in caso di guerra da parte del Governo. Nondimeno le situazioni di necessità possono giustificare anche l’esercizio di un ulteriore potere normativo, detto potere di ordinanza. Esso ricorre quando la legge conferisce a organi amministrativi la competenza ad adottare ordinanze contingibili ed urgenti in casi di grave pericolo per la sanità o la sicurezza pubblica, quando tali situazioni im-
Le ordinanze contingibili ed urgenti
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Il Codice della protezione civile
Capitolo IV
previste e imprevedibili non possono essere fronteggiate attraverso gli atti normativi e ammnistrativi ordinariamente previsti. Le ordinanze in questione derogano al principio di tipicità dei provvedimenti emananti dalle autorità amministrative proprio perché il loro contenuto non può essere tipizzato nel dettaglio dal legislatore, stante l’impossibilità di prevedere quali misure si renderanno necessarie per fronteggiare il caso contingibile e urgente, e per tale ragione sono dette ordinanze extra ordinem. Tali atti normativi, conosciuti già nell’esperienza degli antichi stati preunitari e presenti anche in epoca statutaria, sono stati progressivamente ricondotti nell’alveo della Costituzione repubblicana dalla giurisprudenza amministrativa e, soprattutto, da quella costituzionale, che ne hanno definito un regime giuridico compatibile con il principio di legalità e con la tutela dei diritti e delle libertà costituzionali, realizzando così un percorso che è stato definito in dottrina di “normalizzazione dell’emergenza”. Nonostante questo, ancora in occasione della pandemia da Covid-19, una parte della dottrina ha sostenuto che la necessità può essere qualificata anche come un fatto normativo non suscettibile di regolazione giuridica che può determinare una modifica o uno stravolgimento dell’ordinamento giuridico, rievocando così la nota teoria di Santi Romano della necessità come autonoma fonte del diritto. In particolare, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha chiarito che tali ordinanze hanno effetti limitati nel tempo, devono essere oggetto di pubblicità e devono recare una idonea motivazione sul perché non è possibile procedere in via ordinaria (sentt. n. 8/1956, n. 26/1961). Nel rispetto di questi limiti – e del generale principio di proporzionalità, che obbliga l’autorità amministrativa a non disporre limitazioni dei diritti fondamentali che non siano strettamente necessarie a fronteggiare l’emergenza – tali fonti extra ordinem possono derogare anche alle leggi in vigore, salvo il rispetto dei principi generali dell’ordinamento, oltre che del diritto dell’Unione e della Costituzione, comprese le norme di quest’ultima che ripartiscono le competenze tra Stato e Regioni (sent. n. 127/1995). Tra le più rilevanti previsioni che attribuiscono poteri contingibili e urgenti deve essere menzionato l’art. 25 del d.lgs. n. 1/2018, recante il «Codice della protezione civile», il quale prevede che per gli interventi da effettuare durante lo stato di emergenza di rilievo nazionale si interviene con ordinanze «da adottarsi in deroga ad ogni disposizione vigente, nei limiti e con le modalità indicati nella deliberazione dello stato di emergenza e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e delle norme dell’Unione europea», previa intesa delle Regioni e Province autonome interessate. Analogamente, anche i Sindaci, in veste di ufficiali territoriali del Governo, possono adottare ordinanze contingibili
Le fonti e l’interpretazione nell’ordinamento italiano
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ed urgenti per fronteggiare emergenze a carattere locale «al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana» (art. 54, co. 4, d.lgs. n. 267/2000, recante il «Testo unico degli enti locali»). Sempre quanto ai poteri sindacali, la Corte costituzionale (sent. n. 115/2011) ha chiarito che, invece, non possono derogare la legge, per quanto potenzialmente atipici, i provvedimenti che il Sindaco adotta «quale rappresentante della comunità locale, in relazione all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche» (art. 50, co. 5, TUEL). I poteri contingibili e urgenti, soprattutto quelli del Governo, hanno rappresentato e rappresentano tutt’ora un “nervo scoperto” perché non di rado le singole misure emergenziali non rispettano i ricordati limiti enucleati dalla giurisprudenza costituzionale e amministrativa e perché il legislatore ha introdotto negli anni alcune fattispecie di ordinanze extra ordinem non correlate a specifiche situazioni di emergenza imprevista e imprevedibile, come nel caso delle ordinanze per la realizzazione dei c.d. “grandi eventi” (d.l. n. 343/2001), che, per definizione, in quanto pianificati nel tempo, non possono rappresentare un caso contingibile e urgente.
9. Le fonti consuetudinarie Come si è detto in apertura del capitolo (v. supra, par. 1), esistono nel nostro ordinamento giuridico anche “fonti fatto” che non nascono dalla volontà di un organo qualificato competente a introdurre nuovo diritto da una norma sulla produzione giuridica, ma da accadimenti che si realizzano nella realtà. Si tratta delle fonti consuetudinarie. Nella consuetudine la regola giuridica nasce dalla ripetizione di un determinato comportamento da parte di una pluralità di soggetti, in quanto ritenuto giusto o necessario e percepito come giuridicamente obbligatorio. Perché si origini una consuetudine, dunque, è necessario il concorso di due elementi: un elemento oggettivo, la c.d. diuturnitas, e un elemento soggettivo, la c.d. opinio iuris ac necessitatis. Non qualsiasi condotta ripetuta nel tempo può generare diritto, ma solo quella che appaia generale (tenuta in tutte le fattispecie che presentano determinate caratteristiche), costante (realizzata in maniera regolare nel tempo) ed uniforme (contraddistinta da modalità sempre uguali). Allo stesso modo, non tutte le
Diurnitas e opinio iuris ac necessitatis
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Le consuetudini costituzionali
Le convenzioni costituzionali
Capitolo IV
condotte ripetute in maniera generale, costante ed uniforme generano nuove norme, ma solo quelle che sono assistite dal collettivo convincimento che dette condotte siano non solo lecite, ma anche doverose. Il nostro ordinamento giuridico, come tutti quelli appartenenti alla tradizione di civil law, è caratterizzato dalla prevalenza delle fonti-atto; prevalenza che si riscontra non solo dal punto di vista quantitativo, ma anche da quello qualitativo, ovvero della forza normativa della consuetudine, come si ricava dalle più volte citate preleggi, in cui si afferma che gli usi hanno efficacia «nelle materie regolate dalle leggi e dai regolamenti in quanto sono da essi richiamati» (art. 8). Esse sono, dunque, fonti gerarchicamente sottordinate sia alle fonti primarie, sia alle fonti secondarie. Anche per il diritto consuetudinario vale il principio jura novit curia, in virtù del quale spetta al giudice conoscere il diritto applicabile ai fatti allegati dalle parti. Proprio perché si tratta di diritto non scritto, però, l’accertamento e la prova dell’esistenza della norma consuetudinaria può essere problematico. A tal fine, l’art. 9 delle preleggi stabilisce che gli usi pubblicati nelle raccolte ufficiali degli enti e degli organi a ciò autorizzati (come, ad esempio, le Camere di commercio) «si presumono esistenti fino a prova contraria». Si tratta, pertanto, di una presunzione c.d. juris tantum o relativa, ovvero di una presunzione che consente alla parte del giudizio interessata alla non applicazione della norma consuetudinaria di provare la sua inesistenza. Per converso, la presunzione non esonera la parte che vuol far valere la norma consuetudinaria dall’obbligo di collaborare con il giudice per provare l’esistenza dell’uso di cui questi non abbia diretta conoscenza. Le consuetudini assumono particolare rilievo in ambito costituzionale perché la “materia costituzionale” non è interamente disciplinata dalla Costituzione e ben si presta a integrazioni promananti da fatti normativi derivanti dalle condotte degli organi costituzionali o di soggetti che non lo sono formalmente (come i partiti politici), soprattutto in tema di funzionamento della forma di governo parlamentare. A titolo esemplificativo, si pensi alle consultazioni espletate dal Presidente della Repubblica nell’ambito della procedura di formazione del Governo o al potere di esternazione presidenziale. Si distinguono dalle consuetudini costituzionali le c.d. “convenzioni costituzionali”, ovvero regole di funzionamento di organi costituzionali, sanzionabili solo a livello politico, ma non giuridico, ovvero non invocabili in un giudizio (è il caso, ad esempio, delle mancate dimissioni del Governo quando viene nominato un nuovo Presidente della Repubblica). Esse non sono, infatti, che regole politiche, valide e applicate fintantoché non vengono mutate da quegli stessi attori politici o soggetti istituzionali
Le fonti e l’interpretazione nell’ordinamento italiano
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che le hanno poste in essere. In questo senso, dunque, esse hanno una propria vincolatività, nonostante non possano essere considerate norme giuridiche. Al riguardo si deve, però, tenere presente che un comportamento, disciplinato da una convenzione, può, con il passare del tempo e la sua generale, costante ed uniforme reiterazione, trasformarsi in una vera e propria consuetudine costituzionale, quando lo sorregga la convinzione soggettiva, oggettivamente verificabile, della sua obbligatorietà giuridica.
10. Le tendenze evolutive del sistema delle fonti del diritto Nei paragrafi che precedono si è dato sinteticamente conto delle evoluzioni che le varie fonti del diritto hanno subito nella prassi. In sede conclusiva, può essere il caso di accennare a quelle trasformazioni che il sistema delle fonti complessivamente considerato ha subito in relazione alla parallela evoluzione che ha contraddistinto la forma di governo parlamentare. L’evoluzione del sistema delle fonti del diritto è, infatti, un’importante “cartina di tornasole” delle trasformazioni che animano la nostra forma di governo, perché consente di comprendere se e quanto essa si muova verso un accentramento di poteri in capo all’Esecutivo e un parallelo ridimensionato dell’assemblea parlamentare e della sua centralità e di interrogarsi, quindi, sulla costituzionalità di queste tendenze alla luce del modello costituzionale originario. Il tendenziale monopolio parlamentare della funzione normativa, che connotava il modello costituzionale (anche grazie al ricordato istituto della riserva di legge), infatti, traeva il suo fondamento dalla convinzione che i Costituenti ebbero circa la capacità di generare legittimazione democratica propria della logica compromissoria del “metodo parlamentare”, ovvero si radicava nel convincimento che, quanto più ampia fosse stata la ricerca del consenso politico sulle norme da introdurre (e massimo era nel confronto parlamentare), tanto più legittimate sarebbero state tali norme. Rispetto a quest’idea, la forma di governo parlamentare, completata da una legge elettorale di tipo proporzionale, rappresentò agli occhi dei Costituenti il sistema istituzionale ideale per il raggiungimento del compromesso politico tra i partiti di massa per l’attuazione del “programma” scritto nella prima parte della Costituzione (principi, diritti e doveri) e per riempire di contenuti auspicabilmente stabili e duraturi l’unità politica realizzata solo “in potenza” dalla Carta del 1948. Ciò nonostante, la logica compromissoria (o assembleare) del metodo parlamentare ha mostrato molte difficoltà ad operare nella prassi fin dalle
La dinamica compromissoria
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La logica maggioritaria
Capitolo IV
prime legislature repubblicane, soprattutto per effetto della ricordata conventio ad excludendum e dell’inattuazione costituzionale, che creano un clima favorevole ad alcuni fenomeni scarsamente coerenti con il modello costituzionale del sistema delle fonti, come il proliferare della commissione legislativa in sede deliberante, l’accentramento dell’iniziativa legislativa nelle mani del Governo, l’“intasamento” dei lavori parlamentari con più iniziative sulla stessa materia, i primissimi casi di apposizione della questione di fiducia su maxi-emendamenti (come nel caso della “legge truffa” del 1953), la lettura “disinvolta” dell’obbligo di copertura finanziaria delle leggi di cui all’art. 81 Cost. Negli anni ’70, quando la “rivoluzione” del 1968 ha fornito ai partiti in Parlamento una chiara indicazione riformista, invece, quello stesso sistema parlamentare ha prodotto la nascita delle Regioni (legge n. 382/1975) e le grandi riforme economico-sociali, dallo Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970) al nuovo diritto di famiglia (legge n. 151/1975), dall’istituzione del Sistema Sanitario Nazionale (legge n. 833/1978) all’introduzione del divorzio (legge n. 898/1970) e dell’aborto (legge n. 194/1978), dalla riforma del sistema radiotelevisivo (legge n. 103/1975) al conferimento delle funzioni amministrative alle Regioni (d.p.r. n. 616/1977). Negli anni ’80, invece, la forte frammentazione politico-parlamentare determina una significativa instabilità degli Esecutivi, che a sua volta usura la logica compromissoria voluta dai Costituenti e il sistema delle fonti conosce una serie di degenerazioni: dilagano le leggi-provvedimento per la cura degli interessi di singoli o di particolari categorie di soggetti; prolifera il ricorso alla decretazione d’urgenza in sostanziale carenza di qualsivoglia eccezionale situazione di necessità e urgenza; nasce la prassi della reiterazione del decreto-legge; la legge di conversione diventa il “treno” cui agganciare i “vagoni” più disparati e con contenuti radicalmente disomogenei rispetto al decreto-legge; si consolida nella decretazione d’urgenza a fronte di calamità naturali la prassi di nominare un commissario extra ordinem, attribuendo ad esso tutti i poteri contingibili e urgenti necessari per fronteggiare l’emergenza; la legge finanziaria assume le caratteristiche di uno strumento “omnibus”, comprensivo di tutti gli aggiustamenti e le innovazioni alla legislazione vigente che per ogni esercizio finanziario si ritengono necessari per il compromesso politico del momento, spesso raggiunto su questioni microsettoriali e in contrasto con gli indirizzi generali di politica economica e varato con questioni di fiducia apposte su maxi-emendamenti. Negli anni ’90, dopo l’evoluzione in senso maggioritario della forma di governo determinata dal referendum elettorale del 18 aprile 1993, si manifesta una sempre più marcata tendenza all’accentramento dei poteri normativi in capo ai singoli Governi, che si manifesta attraverso una
Le fonti e l’interpretazione nell’ordinamento italiano
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produzione quantitativamente rilevante di atti aventi forza di legge e l’uso frequente dell’istituto della questione fiducia volta a “blindare” i provvedimenti normativi e ricompattare la maggioranza a fronte di possibili crisi extraparlamentari. A favorire questo accentramento di poteri in capo all’esecutivo hanno contribuito anche spinte “esogene”, come il proliferare dei rapporti internazionali e degli obblighi derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea (tra questi merita di esser ricordata l’interlocuzione con le istituzioni europee in materia di bilancio e finanza pubblica). Negli ultimi quindici anni tali degenerazioni si sono manifestate in tutta la loro consistenza anche per effetto della crisi economico-finanziaria del 2008, della pandemia del 2020 e della guerra determinata dall’invasione russa in Ucraina del febbraio 2022, che hanno accentuato l’indebolimento del ruolo del Parlamento nella forma di governo e della legge parlamentare nel sistema delle fonti. Tale tendenza è testimoniata da numerose prassi, che contraddistinguono anche l’attuale dimensione problematica della produzione normativa nel nostro ordinamento: l’abuso della decretazione d’urgenza (in difetto dei presupposti costituzionali) e della questione di fiducia sulla legge di conversione; le delibere del Governo “salvo intese” e la pubblicazione tardiva dei decreti-legge; la non coincidenza dei testi approvati con quelli sottoposti all’emanazione del Capo dello Stato; la mancata approvazione in Consiglio dei Ministri dei testi dei decreti-legge medesimi nella più ampia elusione della collegialità ministeriale; i maxi-emendamenti in sede di conversione; la disomogeneità della stessa legge di conversione; il fenomeno delle deleghe legislative inattuate; la realizzazione del già citato “bicameralismo alternato” o “monocameralismo di fatto”; le difficoltà e le aberrazioni delle politiche di semplificazione e riordino normativo (si pensi al già ricordato meccanismo del “taglia-leggi”); il ricorso ai decreti di natura non regolamentare; l’atrofia legislativa, tale da indurre la dottrina a ragionare di una vera e propria “fuga dalla legge” come strumento di normazione.
Lo stato dell’arte attuale
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Capitolo IV
CAPITOLO V
DIRITTO INTERNAZIONALE E DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA SOMMARIO: 1. L’ordinamento italiano oltre i confini dello Stato. – 2. Le fonti del diritto internazionale e i loro rapporti con le fonti interne. – 3. La genesi e le trasformazioni dell’Unione europea. – 4. L’assetto istituzionale dell’Unione. – 5. Le fonti del diritto UE e la partecipazione dell’Italia alla loro formazione e attuazione. – 6. I rapporti tra fonti interne e fonti UE e i criteri di risoluzione delle relative antinomie. – 7. Il diritto straniero.
1. L’ordinamento italiano oltre i confini dello Stato Un aspetto essenziale per comprendere come nel nostro ordinamento costituzionale è allocato il potere di prendere le decisioni pubbliche che incidono sui contenuti della convivenza civile e politica è senza dubbio rappresentato dall’inserimento della Repubblica italiana all’interno della comunità internazionale. Per comunità internazionale si può intendere la società formata dall’insieme degli Stati, degli enti, delle organizzazioni e delle istituzioni che vedono regolati i loro rapporti dal diritto internazionale. Tradizionalmente la sua origine viene fatta risalire alla pace di Vestfalia del 1648, che segna la fine della Guerra dei Trent’anni tra paesi cattolici e protestanti e rappresenta il momento in cui cominciano ad affermarsi Stati sovrani e indipendenti, il cui potere assoluto si impone sulla precedente frammentazione della società feudale, dominata, da un lato, dal potere ecclesiastico del Papato, dall’altro, da quello temporale del Sacro Romano Impero. Essa nasce, dunque, tendenzialmente anarchica perché basata su Stati ciascuno dei quali superiorem non recognoscens. Nel corso del XX secolo essa si è evoluta in una duplice direzione. La prima è quella di conoscere lo sviluppo di un novero significativo di organizzazioni internazionali, a carattere mondiale o regionale, attraverso cui gli Stati perseguono fini comuni. Si pensi, per tutte, all’Orga-
La comunità internazionale
Lo sviluppo delle organizzazioni internazionali
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La centralità dell’individuo
Art. 11 Cost.
Capitolo V
nizzazione delle Nazioni Unite (ONU), nata dopo la seconda guerra mondiale per assicurare il mantenimento della pace, o all’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), all’Organizzazione per la Cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), all’organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), al Consiglio d’Europa, che ha promosso la ricordata Convenzione europea per i diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu). Ma, soprattutto, si pensi all’Unione europea, di cui si dirà meglio infra, la quale rappresenta, per il contesto regionale europeo, certamente la principale novità che la comunità internazionale ha conosciuto nella sua evoluzione. La seconda linea di sviluppo cui si accennava, invece, è rappresentata dal progressivo ridimensionamento della centralità del ruolo degli Stati. Sempre di più, infatti, il diritto internazionale considera come soggetti della comunità anche le persone fisiche e giuridiche, come testimonia la nascita di alcune sue sempre più rilevanti branche, come, ad esempio, il diritto internazionale umanitario, il diritto penale internazionale, il diritto tributario internazionale, il diritto internazionale dell’ambiente. Lo sviluppo delle organizzazioni internazionali, con i loro organi, competenze e funzioni, da un lato, e la sempre maggiore centralità delle persone con i loro diritti, dall’altro, stanno determinando una sorta di “costituzionalizzazione” del diritto internazionale, in forza della quale l’ordinamento internazionale tende a funzionare sempre di più secondo una logica costituzionale di limitazione del potere e parallelo riconoscimento di diritti. Questa tendenza è speculare ad un’altra, che ha interessato tutte le costituzioni europeo-continentali del secondo dopoguerra, che potrebbe definirsi come “internazionalizzazione” del diritto costituzionale, per sottolineare la marcata apertura verso l’esterno che caratterizza queste costituzioni. Nel caso della Costituzione repubblicana, tale apertura trova fondamento nell’art. 11, il quale lega indissolubilmente la dimensione internazionale della Repubblica al principio pacifista, stabilendo che «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
Diritto internazionale e diritto dell’Unione europea
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2. Le fonti del diritto internazionale e i loro rapporti con le fonti interne Sono fonti di produzione del diritto internazionale la consuetudine, obbligatoria per tutti i soggetti della comunità internazionale, gli accordi o trattati internazionali conclusi da Stati e/o organizzazioni su base consensuale e vincolanti solo nei rapporti reciproci tra essi, nonché gli atti delle organizzazioni internazionali, quando ad esse sia attribuito il potere di creare norme cogenti per gli Stati membri e gli atti unilaterali ai quali il diritto internazionale ricolleghi determinati effetti giuridici. Esattamente come per le fonti non scritte del diritto interno, la consuetudine di diritto internazionale nasce per effetto di talune condotte ripetute nel tempo, nel caso di specie dagli Stati, quando ricorrono due elementi: un elemento oggettivo, la c.d. diuturnitas, ovvero la ripetizione generale (tenuta in tutte le fattispecie che presentano determinate caratteristiche), costante (realizzata in maniera regolare nel tempo) ed uniforme (contraddistinta da modalità sempre uguali) di una data condotta; un elemento soggettivo, la c.d. opinio iuris ac necessitatis, il collettivo convincimento che detta condotta sia non solo lecita, ma anche doverosa. L’art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia, che contiene l’individuazione del diritto applicabile per la soluzione delle controversie tra Stati indica la consuetudine «come prova di una pratica generale accettata come diritto». Le norme consuetudinarie sono dette, altresì, diritto internazionale generale (o generalmente riconosciute) per sottolineare che, a differenza dei trattati, vincolanti solo nei rapporti tra le parti che li hanno stipulati, esse obbligano tutti i soggetti del diritto internazionale, indipendentemente dal fatto che essi abbiano partecipato al loro procedimento di formazione. Per ridurre i dubbi circa l’effettiva esistenza di una consuetudine, la cui vigenza potrebbe essere controversa tra due o più Stati, e quindi in definitiva per assicurare la certezza del diritto internazionale, periodicamente si procede alla loro codificazione attraverso l’inserimento in trattati giuridicamente vincolanti. Secondo l’opinione dottrinaria prevalente, norme consuetudinarie e trattati restano fonti autonome l’una dall’altra e anzi si ritiene che i trattati debbano considerarsi una fonte che trae il proprio fondamento di validità dalla norma consuetudinaria pacta sunt servanda. Questo non determina, però, un rapporto gerarchico tra le due fonti, che sono reciprocamente derogabili, con la sola eccezione di quelle norme generalmente riconosciute che, in quanto dettate a presidio di beni e/o valori fondanti della comunità internazionale, sono considerate inderogabili e per questo
La consuetudine di diritto internazionale
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Il meccanismo di adattamento automatico (art. 10, co. 1, Cost.)
I trattati internazionali
Capitolo V
si definiscono ius cogens (come, ad esempio, l’autodeterminazione dei popoli, il divieto di aggressione, la proibizione della schiavitù, del genocidio, della discriminazione razziale e dell’apartheid). La Costituzione italiana prevede un meccanismo di adattamento automatico del diritto interno alle norme del diritto internazionale generale. L’art. 10, co. 1, Cost., infatti, stabilisce che «L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Tale norma comporta che le norme consuetudinarie entrino nel sistema delle fonti interne per effetto della circostanza di essersi formate nel diritto internazionale, senza che sia necessario alcun atto interno di recepimento che manifesti la volontà dello Stato di adeguarsi alla nuova norma. In questo senso si tratta di una clausola di adattamento non solo automatico, ma anche permanente. Secondo la dottrina tradizionalmente prevalente, tali norme entrano nel sistema interno delle fonti con rango costituzionale, anche se la questione è da sempre molto controversa, non mancando autori che ritengono che il diritto consuetudinario si collochi addirittura in posizione gerarchicamente sovraordinata alla Costituzione. Come anche vi sono studiosi secondo cui esso sarebbe subordinato alla Costituzione ma sovraordinato alla legge ed altri ancora secondo cui le norme consuetudinarie prevarrebbero sulle norme costituzionali, ma non su quelle di esse che sono qualificabili come “principi supremi dell’ordinamento costituzionale”. Quest’ultima tesi sembra quella da considerare preferibile alla luce della giurisprudenza costituzionale. La Corte costituzionale, infatti, con la sent. n. 238/2014 ha chiarito che le norme del diritto internazionale generale devono rispettare i principi supremi del nostro ordinamento, ossia i principi fondamentali e diritti inviolabili. Come detto, gli accordi o trattati internazionali si fondano sul principio consensualistico e sono vincolanti solo per le parti che li hanno sottoscritti. Nella prassi del diritto internazionale il procedimento di formazione dei trattati prevede che essi vengano negoziati dai c.d. “plenipotenziari” del Governo, ovvero i soggetti politici, diplomatici o militari individuati dalle autorità governative degli Stati per manifestare la volontà del singolo ordinamento nazionale circa il contenuto dell’accordo. Se i plenipotenziarî raggiungono un’intesa su un testo, lo sottoscrivono, per accertarne il contenuto, e lo trasmettono agli organi competenti dei rispettivi Stati perché questi lo approvino, secondo le norme del diritto costituzionale interno, attraverso la ratifica, che è l’atto con cui lo Stato manifesta l’intenzione di confermare la volontà espressa dal proprio plenipotenziario. Ciascuno Stato, quindi, comunica la propria ratifica agli altri Stati (è il c.d. scambio delle ratifiche) oppure la deposita presso lo Stato incaricato di raccoglierle (si parla, in tal caso, di deposito delle rati-
Diritto internazionale e diritto dell’Unione europea
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fiche). Con lo scambio o deposito delle ratifiche, il trattato diventa vincolante per le parti contraenti. Alcuni accordi sono detti “aperti” perché i loro contraenti consentono ad altri Stati aderirvi in un secondo momento, liberamente o dietro atto di assenso dei contraenti originari. La Costituzione repubblicana prevede che la ratifica dei trattati internazionali è prerogativa del Presidente della Repubblica (art. 87, co. 8), il quale esercita questa sua competenza in qualità di rappresentante dell’unità nazionale (co. 1). L’art. 80 Cost. prevede che la ratifica presidenziale dei «trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi» debba essere preceduta da una legge di autorizzazione delle Camere. Rispetto a questi accordi si parla di trattati in “forma solenne”, distinguendoli da quelli in “forma semplificata”, per i quali non è necessaria la legge di autorizzazione alla ratifica. Tale legge rappresenta uno strumento attraverso cui il Parlamento esercita un controllo sull’indirizzo politico del Governo in materia di politica estera e presenta le particolari caratteristiche di essere una legge in senso formale (perché non innova direttamente l’ordinamento), di essere sottoposta alla riserva d’assemblea (art. 72, co. 4) e di essere sottratta all’abrogazione referendaria (art. 75, co. 2). L’atto che determina l’ingresso del trattato nel sistema delle fonti è rappresentato dall’ordine di esecuzione, ovvero da una norma “in bianco”, contenuta generalmente nella legge, ma che può essere recata anche da una fonte secondaria (ove non si tratti di trattati in forma solenne e di materie coperte da riserve di legge), che contiene un rinvio al testo del trattato accompagnato dalla formula “si dà piena ed intera esecuzione al trattato” o da altra similare. Si è tradizionalmente detto in dottrina che dalla forza della fonte che contiene l’ordine di esecuzione dipende il rango del trattato nel sistema delle fonti, per cui esso si collocherebbe a livello delle fonti primarie o secondarie a seconda che l’ordine sia contenuto in una legge o in un regolamento. Su questo tema è, però, intervenuta la legge cost. n. 3/2001, la quale, nel riformare l’art. 117, co. 1, Cost., ha stabilito che «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto […] dei vincoli derivanti […] dagli obblighi internazionali». Tale previsione è stata interpretata da due storiche sentenze della Corte costituzionale, le c.d. “sentenze gemelle” nn. 348 e 349/2007, nel senso di ritenere che i trattati internazionali costituiscono norme interposte del giudizio di costituzionalità delle leggi statali e regionali perché la loro violazione da parte del legislatore determina una violazione indiretta dell’obbligo, sancito dall’art. 117, co. 1, Cost., di rispettare gli obblighi internazionali assunti dallo Stato. Inoltre, con questa giurisprudenza, la Corte costituzionale ha
La ratifica presidenziale
I trattati in forma solenne
L’ordine di esecuzione
I trattati internazionali come norma interposta
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Capitolo V
affermato la propria competenza a sindacare, sempre nel giudizio di legittimità costituzionale in cui si discute della conformità di una legge all’art. 117 Cost., la conformità dei trattati internazionali alla Costituzione. Da ciò deriva che i trattati internazionali vengono ad assumere nel sistema delle fonti una posizione “intermedia” tra la Costituzione tutta, cui devono soggiacere, e la legge, di cui rappresenta, insieme all’art. 117, co. 1, Cost., il parametro di costituzionalità, tanto che a tal proposito la stessa Corte costituzionale discorre di integrazione del parametro di costituzionalità.
3. La genesi e le trasformazioni dell’Unione europea
Le Comunità europee
Trattato di Bruxelles (1965)
Come si è accennato, l’Unione europea è un ordinamento sovranazionale. Esso ha assunto la conformazione attuale a partire dalla sua istituzione attraverso tre storici trattati, conclusi da alcuni paesi Europei (la Repubblica Federale di Germania, la Francia, l’Italia, i Paesi Bassi, il Belgio e il Lussemburgo) dopo il secondo conflitto mondiale, per scongiurare il rischio che divergenze di interessi di carattere essenzialmente economico potessero portare nuovamente l’Europa sull’orlo della guerra. Il 18 aprile del 1951 questi paesi, dando seguito alla “Dichiarazione Schuman” del 9 maggio 1950, firmano il Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), con cui riuniscono le rispettive industrie statali del carbone e dell’acciaio sotto una gestione comune per evitare che, come in passato, gli uni possano fabbricare armi da utilizzare contro gli altri. Il 25 marzo 1957 gli stessi sei paesi firmano a Roma i due Trattati che istituiscono la Comunità europea dell’energia atomica (EURATOM) e la Comunità economica europea (CEE). Nascevano, così, le tre Comunità europee, il cui scopo essenziale è quello di concorrere a creare un mercato unico europeo in grado di assicurare la libera circolazione dei capitali, delle merci e delle persone (originariamente considerate nella loro veste di lavoratori) sulla base del ricordato convincimento che questo avrebbe favorito le condizioni di una pace duratura. Da quel momento l’assetto istituzionale dell’ordinamento sovranazionale europeo ha conosciuto una profonda evoluzione. Con il Trattato di Bruxelles del 1965 si realizza una prima forma di coordinamento istituzionale tra le tre Comunità che vengono dotate di un medesimo esecutivo con una sola Commissione europea e un solo Consiglio, cui si accompagna la previsione della prima forma di bilancio europeo. Con l’Atto unico europeo del 1986 si manifesta la volontà di perseguire una più intensa
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cooperazione tra gli Stati membri, avente carattere politico e non solo economico. Per questo, oltre ad ampliare le competenze delle Comunità (si introducono quelle in tema di ricerca scientifica e ambiente) e ad avviare la cooperazione europea in materia di politica estera, si accelera nell’abbattimento delle barriere al mercato unico, si istituzionalizza il Consiglio europeo quale organo di indirizzo politico sulle questioni strategiche e si rafforza il ruolo del Parlamento europeo all’interno dei processi decisionali. Un salto di qualità nel processo di integrazione europea si realizza con il Trattato di Maastricht o Trattato sull’Unione Europea (TUE) del 1992, che fonda la cooperazione in materia di politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la cooperazione in materia di giustizia e affari interni (GAI), ovvero i c.d. “secondo” e “terzo pilastro” che si aggiungono a quello originario rappresentato dalle tre Comunità economiche europee. Viene, inoltre, istituito il Comitato delle Regioni e delle autonomie locali, quale organo consultivo di rappresentanza dei governi locali, e si prefigurano l’introduzione della moneta unica europea e l’istituzione di una Banca centrale europea (BCE) con la funzione fondamentale di garantire la stabilità dei prezzi nella zona euro. A questa ridefinizione istituzionale si accompagna l’ampliamento delle competenze devolute a livello sovranazionale (ad esempio, l’industria, la cultura, l’istruzione e la formazione professionale, la protezione dei consumatori, le reti di comunicazione) e l’introduzione di uno dei principi cardine del diritto dell’Unione, il principio di sussidiarietà, in base al quale le Comunità europee possono esercitare funzioni nelle materie che non sono di loro esclusiva competenza solo quando l’intervento comunitario si rende necessario per le dimensioni e gli effetti dell’azione da intraprendere, che non consentono agli Stati di intervenire autonomamente. Sul piano dei diritti, viene istituita la cittadinanza europea e si impone alle istituzioni comunitarie il rispetto dei diritti fondamentali, quali sono garantiti dalla Cedu e dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali dell’allora diritto comunitario. Un ulteriore significativo passaggio è rappresentato dal Trattato di Amsterdam del 1997, che intensifica le competenze e gli interventi comunitari in tema di diritti di cittadinanza (soprattutto in tema di uguaglianza di genere, diritto al lavoro e trattamento dei dati personali) e realizza una semplificazione delle procedure di partecipazione del Parlamento europeo al procedimento legislativo. Con il Trattato di Nizza del 2001, al dichiarato fine di adeguare le istituzioni comunitarie al progettato allargamento dell’Unione, vengono introdotte alcune rilevanti novità istituzionali, tra cui la modifica della composizione della Commissione e del Parlamento europeo, la riforma
Atto unico europeo (1986)
Trattato di Maastricht (1992)
Trattato di Amsterdam (1997)
Trattato di Nizza (2001)
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Trattato di Lisbona (2009)
La Carta di Nizza
Capitolo V
del sistema di voto all’interno del Consiglio dell’Unione e del funzionamento della Corte di giustizia, la riforma della cooperazione rafforzata e la previsione dell’applicabilità di sanzioni agli Stati membri in caso di violazione dei diritti fondamentali. Ad Atene, il 16 aprile 2003, viene firmato il trattato di adesione tra i 15 Stati allora membri dell’Unione europea e i 10 nuovi Stati che entrano a farne parte dal 1° maggio 2004 (si parla, a tal proposito, di “allargamento a Est” dell’Unione). Dopo il fallimento del percorso di ratifica del “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa” sottoscritto a Roma il 29 ottobre 2004, il principale snodo successivo del processo di integrazione è rappresentato dal trattato sottoscritto a Lisbona il 13 dicembre 2007 ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009. Per effetto di tale Trattato, oggi le due fonti fondamentali dell’architettura istituzionale europea sono il Trattato sull’Unione Europea (TUE) e il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Nonostante l’espunzione di tutte quelle espressioni che più facevano pensare ad una evoluzione dell’Unione in senso propriamente costituzionale, come ad esempio Costituzione e legge europea, il Trattato di Lisbona recepisce molti dei contenuti del “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa”, a partire dal riconoscimento del valore giuridico vincolante della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata ufficialmente a Nizza nel dicembre 2000 dal Parlamento europeo, dal Consiglio dell’Unione europea e dalla Commissione, la quale era stata inutilmente inserita nella Parte II del trattato costituzionale del 2004. Nel corso dei decenni scanditi dal susseguirsi dei ricordati Trattati, come detto, l’Unione europea ha coltivato il proprio allargamento. Il 23 giugno 2016, però, per effetto di un referendum sulla permanenza o meno nell’Unione (la c.d. Brexit) la Gran Bretagna ha avviato il processo di uscita dall’Unione, che si è realizzato a partire dal 1° febbraio 2020, dopo un negoziato lungo e complesso, tanto che sono ancora in corso ulteriori trattative per disciplinare l’assetto dei nuovi rapporti tra il Regno Unito e l’Unione.
4. L’assetto istituzionale dell’Unione Per comprendere l’attuale assetto istituzionale dell’Unione è necessario accennare alla composizione e alle funzioni dei principali organi di tale ordinamento sovranazionale, ovvero il Parlamento europeo, la Commissione europea, il Consiglio europeo, il Consiglio dei Ministri e la Corte di giustizia dell’Unione europea, con l’avvertimento, però, che il
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quadro istituzionale europeo è assai più composito per effetto dell’esistenza di numerosi organi, spesso chiamati “Comitati” (tanto che la disciplina che li riguarda viene detta “Comitatologia” o “Comitologia”), che svolgono funzioni istruttorie o consultive a vantaggio di procedimenti decisionali molto complessi. Il Parlamento europeo è l’organo rappresentativo dei cittadini europei. I suoi componenti, infatti, dal 1979 (prima era composto da soggetti designati dai Parlamenti nazionali) durano in carica per cinque anni e sono eletti a suffragio universale e diretto dai cittadini degli Stati membri dell’Unione sulla base di leggi elettorali nazionali. In Italia, si tratta della legge n. 18/1979, che prevede un sistema proporzionale con soglia di sbarramento al 4%, con possibilità di voto di preferenza e assegnazione dei seggi in un unico collegio nazionale. A ciascuno Stato membro spetta un numero di seggi (da un minimo di 6 a un massimo di 96) calcolato in rapporto alla sua popolazione, per cui gli Stati più popolosi esprimono più parlamentari europei. Attualmente, il Parlamento europeo è composto da 705 deputati, di cui 76 italiani, e rappresenta circa 450 milioni di cittadini europei. A differenza di quanto avviene negli ordinamenti costituzionali nazionali, il Parlamento non nasce come il titolare della funzione normativa, ma gli vengono assegnati compiti fondamentalmente consultivi, i quali, anche per colmare il deficit di legittimazione democratica delle istituzioni europee, sono stati progressivamente rafforzati proprio con riferimento al procedimento legislativo (si pensi alla c.d. “procedura di codecisione”, che il Trattato di Lisbona definisce “procedura legislativa ordinaria” e che vede il Parlamento come un co-legislatore insieme al Consiglio: v. infra, par. 5) e all’approvazione del bilancio dell’Unione, che è di sua competenza. Al Parlamento spettano, poi, una serie di poteri di indirizzo e controllo nei confronti della Commissione (titolare del potere esecutivo), come il potere di approvare la nomina dei Commissari, l’elezione del Presidente della Commissione, il potere di audire i Commissari designati, di votare mozioni di censura. Esso, inoltre: nomina il Mediatore europeo, che esamina le denunce di cattiva amministrazione delle istituzioni e degli organi dell’UE; riceve, esamina e decide sulle petizioni inviate dai cittadini europei; interviene nella conclusione di accordi internazionali tra l’Unione e i paesi terzi (in alcuni casi esprimendo un parere obbligatorio). La Commissione europea, come si accennava, è il titolare del potere esecutivo dell’Unione. Essa risulta composta da 27 membri nominati dai Governi degli Stati membri, i quali durano in carica cinque anni e godono di particolari garanzie di indipendenza dagli Stati di appartenenza, per favorire l’autonomia del processo politico e decisionale dell’Unione ri-
Parlamento europeo
Commissione europea
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Consiglio europeo
Capitolo V
spetto agli interessi nazionali. Il Presidente della Commissione viene indicato dai leader nazionali nel Consiglio europeo, tenendo conto dei risultati delle elezioni del Parlamento europeo, il quale lo elegge a maggioranza assoluta, conferendogli così una particolare legittimazione che si traduce nella sua primazia politica all’interno dell’organo. Gli altri commissari sono proposti dagli Stati membri e vengono individuati d’intesa dal Presidente della Commissione e dal Consiglio europeo per essere sottoposti ad un voto collettivo di approvazione da parte del Parlamento. La Commissione esercita rilevanti funzioni. In primo luogo, essa è titolare del potere di iniziativa del procedimento legislativo europeo e in questa veste elabora le proposte di atti (si pensi, soprattutto, ai regolamenti e alle direttive) da sottoporre all’approvazione del Parlamento e del Consiglio. All’iniziativa esclusiva della Commissione è sottoposto anche il bilancio dell’Unione, come alla Commissione spetta il potere di negoziare gli accordi internazionali conclusi dalla medesima. I Trattati, inoltre, affidano alla Commissione il compito di assicurare la loro corretta applicazione da parte delle istituzioni europee e degli Stati membri. Nei confronti di questi ultimi la Commissione, proprio in funzione di “custode dei Trattati”, può avviare la c.d. “procedura d’infrazione” quando ritiene che uno di essi si sia illegittimamente sottratto al rispetto degli obblighi derivanti dal diritto dei Trattati o dal c.d. “diritto derivato” (v. infra, in questo paragrafo). In alcuni casi, poi, come in materia di concorrenza, la Commissione dispone di poteri sanzionatori da esercitare direttamente nei confronti delle imprese che adottino condotte e politiche commerciali e/o industriali che ostacolino gli obiettivi del mercato comune. Tra le funzioni esecutive di titolarità della Commissione vi è, ancora, quella di assicurare la corretta esecuzione di tutte le decisioni adottate dagli organi UE, tra cui quelle relative alla gestione del bilancio. Ancora, alla Commissione spettano i poteri di gestione dell’Unione economia monetaria (UEM) e, nell’esercizio di tale competenza, essa presenta al Consiglio, tra i vari atti, le raccomandazioni per il progetto di indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri, gli avvertimenti qualora dette politiche rischino di essere incompatibili con gli indirizzi (art. 121, par. 4, TFUE) e le proposte di valutazione da parte del Consiglio al fine di decidere se in un determinato Stato membro esiste un disavanzo eccessivo (art. 126, par. 6, TFUE). Il Consiglio europeo è l’organo titolare del potere di definire le priorità e gli indirizzi politici generali dell’Unione. Di esso fanno parte i capi di Stato o di governo dei 27 Stati membri, il suo Presidente e il Presidente della Commissione. Il Presidente è eletto dai membri del Consiglio europeo, dura in carica due anni e mezzo, è rinnovabile una volta sola ed è
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incompatibile con qualsiasi mandato nazionale. Esso presiede le riunioni, garantisce la continuità dei lavori e rappresenta l’Unione a livello internazionale. Ai lavori del Consiglio europeo partecipa anche l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ovvero quello che secondo il Trattato costituzionale del 2004 doveva essere un vero e proprio Ministro degli esteri dell’Unione. Il Consiglio europeo si riunisce almeno quattro volte l’anno per individuare le priorità dello sviluppo dell’Unione e definire i suoi orientamenti politici generali, ma non partecipa alla funzione legislativa. Si occupa inoltre di determinare la politica estera e di sicurezza dell’UE e di nominare ed eleggere i candidati per ruoli di alto profilo nelle istituzioni dell’Unione. Il Consiglio dei Ministri (detto anche Consiglio dell’Unione europea) era, soprattutto nell’impianto originario dei Trattati, il soggetto titolare del potere normativo. Esso si riunisce in diverse formazioni e ha, dunque, una composizione variabile in funzione degli affari da trattare in quanto ai suoi lavori partecipano i Ministri (o i loro delegati) degli Stati membri competenti per l’oggetto della discussione. È presieduto, con rotazione semestrale (il c.d. “semestre di Presidenza”), dai rappresentanti di tutti gli Stati membri. Continuità e stabilità ai lavori dell’organo vengono date dal Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER), composto da rappresentanti diplomatici degli Stati membri, che istruiscono le deliberazioni del Consiglio. Con il Trattato di Lisbona è stata abbandonata la tradizionale regola di adozione delle decisioni fondata sull’unanimità, concorrendo così in maniera significativa ad allontanare il funzionamento dell’Unione dalla logica internazionalistica basata sulla volontà paritaria degli Stati. Salvo eccezioni, oggi, infatti, il Consiglio delibera col raggiungimento di una maggioranza qualificata calcolata in base ad un duplice criterio numerico e consistenza demografica per cui si richiede il voto favorevole del 55% dei membri del Consiglio che rappresentino almeno il 65% della popolazione dell’Unione. La Corte di giustizia dell’Unione europea è l’organo titolare delle funzioni giurisdizionali dell’Unione. Essa è composta da 27 giudici e 11 avvocati generali, nominati, per sei anni (rinnovabili), dai Governi degli Stati membri. La sua funzione fondamentale è quella di assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati. In particolare, la Corte di giustizia è competente: a sindacare la legittimità degli atti delle istituzioni dell’Unione europea rispetto ai Trattati e alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ai sensi dell’art. 6 TUE ha la stessa forza dei Trattati (sono i c.d. “giudizi di annullamento” o di validità, instaurati dai ricorsi di cittadini, imprese e Stati UE); a giu-
Consiglio dell’Unione europea
Corte di giustizia dell’UE (CGUE)
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Un’evoluzione in chiave parlamentare
Capitolo V
dicare sull’osservanza da parte degli Stati membri degli obblighi derivanti dai Trattati (sono le c.d. “procedure di infrazione”, avviate, come detto, dalla Commissione oppure dal ricorso di uno Stato membro); a interpretare il diritto dell’Unione quando i giudici nazionali degli Stati membri, i quali devono assicurare la corretta e uniforme applicazione del diritto europeo, hanno un dubbio sull’interpretazione o sulla validità di un atto normativo dell’Unione (sono le c.d. “pronunce pregiudiziali” interpretative o di validità); assicurare l’intervento degli organi dell’UE quando il Parlamento, il Consiglio e la Commissione devono prendere determinate decisioni (sono i c.d. “ricorsi per omissione”, proposti dai Governi nazionali, da altre istituzioni dell’UE e, a certe condizioni, anche dai privati cittadini o dalle imprese); sanzionare le istituzioni dell’Unione quando qualsiasi cittadino o impresa si assuma leso nei propri interessi da un’azione o omissione di organi dell’UE (sono le c.d. “azioni di risarcimento del danno”). La Corte di giustizia ha sede a Lussemburgo e comprende, in realtà, due organi giurisdizionali: la Corte di giustizia vera e propria e il Tribunale di primo grado, creato nel 1988 per far fronte all’aumento del contenzioso allora comunitario e composto da due giudici per ogni Stato membro. Il quadro degli organi giurisdizionali era, poi, completato dal Tribunale della funzione pubblica, istituito nel 2004 per la risoluzione delle controversie del pubblico impiego dell’Unione, il quale ha cessato le sue attività il 1° settembre 2016 con il trasferimento delle sue competenze al Tribunale. Alla luce degli organi, delle loro competenze e dei loro rapporti, pare di poter dire che la “forma di governo” dell’Unione europea si sia evoluta con il susseguirsi delle modifiche dei Trattati in senso parlamentare (cfr. art. 10 TUE). Pur con tutte le peculiarità istituzionali che si sono evidenziate, infatti, sembrano orientare in questo senso soprattutto alcuni elementi, come l’elezione da parte del Parlamento del Presidente della Commissione, la possibilità per il Parlamento stesso di votare mozioni di censura nei confronti dei membri della Commissione e l’inserimento dell’Assemblea rappresentativa nel circuito del procedimento legislativo, dai quali si desume che il rapporto CommissioneParlamento europeo presuppone una consonanza politica che appare non molto dissimile da quella che è alla base del rapporto fiduciario nelle forme di governo parlamentare.
Diritto internazionale e diritto dell’Unione europea
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5. Le fonti del diritto UE e la partecipazione dell’Italia alla loro formazione e attuazione La sistematica delle fonti del diritto dell’Unione si regge sulla summa divisio tra fonti del diritto primario (o dei trattati o originario) e fonti del diritto derivato. Il c.d. “diritto primario” è costituito dai Trattati istitutivi, i quali definiscono gli obiettivi dell’UE, le relazioni tra l’UE e gli Stati membri, con particolare riferimento – per quanto qui interessa – al carattere vincolante degli atti giuridici, le competenze e le regole di funzionamento delle sue istituzioni, tra cui le procedure per l’adozione degli atti avente carattere giuridico, che costituiscono appunto il c.d. “diritto derivato”. Il c.d. “diritto primario” rappresenta nell’ordinamento UE una sorta di “diritto costituzionale” perché esso costituisce il fondamento di legittimità e, allo stesso tempo, il parametro di validità degli atti normativi che le istituzioni europee adottano nell’esercizio delle loro competenze, definite appunto nei Trattati, i quali, come detto, prevedono anche che il controllo sulla legittimità degli atti normativi dell’Unione spetti alla Corte di giustizia in sede di ricorso per annullamento o di pregiudiziale di validità. A conferma del ruolo sostanzialmente costituzionale che i Trattati svolgono nel sistema delle fonti UE si deve ricordare che, come si è già evidenziato, ad essi è equiparata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, alla quale l’art. 6 TUE ha riconosciuto la stessa forza dei Trattati, con la conseguenza che anche le norme sui diritti e sulle libertà prevalgono sulle fonti del “diritto derivato” e, in caso di contrasto, possono determinarne l’annullamento. Altra distinzione preliminare di cui tenere conto è quella tra “atti legislativi” e “atti non legislativi”, derivante dall’art. 289 TFUE. “Atti legislativi” sono quelli adottati dalle istituzioni a ciò competenti attraverso una delle procedure legislative stabilite nei Trattati dell’UE (procedura ordinaria o speciale) e sono, quindi, atti normativi a tutti gli effetti. Gli atti non legislativi, invece, sono manifestazioni di volontà che vengono adottate, nella generalità dei casi, dalla Commissione europea in base a norme specifiche, o in seguito a una delega del Parlamento o del Consiglio (si parla in tal caso di “atti delegati”) o per l’esecuzione di un atto legislativo (si ragiona, allora, di “atti di esecuzione”), e che non seguono l’iter previsto per gli atti legislativi. Il c.d. “diritto derivato” è composto da regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri. Solo i primi tre hanno carattere giuridico vincolante per il loro destinatari (art. 288 TFUE) e, se sono adottati con il procedimento legislativo (art. 289 TFUE), rappresentano gli “atti legi-
Il diritto primario
Il diritto derivato
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Procedimento ordinario
Procedimenti speciali
Regolamenti
Direttive
Direttive selfexecuting
Capitolo V
slativi” dell’Unione ovvero gli atti attraverso cui le istituzioni UE esercitano le competenze normative nelle materie in cui i Trattati istitutivi le autorizzano a farlo. Il TFUE prevede per gli atti legislativi un procedimento ordinario che affida l’iniziativa alla Commissione e la competenza a deliberare a Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione, secondo il modello della co-decisione, che contempla l’attivazione di un comitato di conciliazione qualora i due organi non siano concordi sullo stesso testo (art. 294 TFUE). L’art. 289, co. 2, TFUE prevede, poi, che singoli atti normativi possano essere adottati procedimenti speciali, i quali generalmente prevedono l’iniziativa della Commissione, l’approvazione del Consiglio dell’Unione e che il Parlamento europeo abbia il potere di accettare o respingere una proposta legislativa con votazione a maggioranza assoluta, senza poterla modificare (c.d. “procedura di approvazione”), o che possa formulare un parere favorevole o meno alla proposta legislativa o proporre emendamenti (c.d. “procedura di consultazione”). I regolamenti UE, secondo l’art. 288, co. 2, TFUE, sono gli atti legislativi dell’Unione che hanno portata generale, sono vincolanti in tutti i loro elementi e direttamente applicabili negli Stati membri dell’Unione. Questo significa che essi sono vincolanti rispetto a tutte le persone fisiche e giuridiche che operano all’interno dei vari ordinamenti nazionali, sia in relazione agli obiettivi che perseguono che agli strumenti utilizzati, senza che sia necessaria alcuna normativa interna di recepimento. Ne deriva che i regolamenti possono creare diritti e doveri per le persone (fisiche e giuridiche) e possono, quindi, essere fatti valere dinanzi ai tribunali nazionali nei confronti sia di soggetti privati che degli stessi Stati membri. Le direttive, invece, ai sensi dell’art. 288, co. 3, TFUE, sono vincolanti «per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi». La norma comporta che le direttive non sono fonti direttamente applicabili, per cui non radicano direttamente nelle persone diritti e/o obblighi, ma impongono agli Stati di attivarsi con una normativa interna di recepimento per individuare, attraverso l’esercizio della propria discrezionalità, gli strumenti per raggiungere gli obiettivi fissati nella direttiva. Ciò determina che le norme delle direttive, fino a quando non interviene la normativa interna di recepimento, non possono essere invocate dinnanzi ai giudici degli ordinamenti nazionali. Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, però, costituiscono una eccezione quelle direttive, dette self-executing, le quali contengono norme che, per il loro carattere chiaro, preciso e incondizionato, sono sufficientemente dettagliate da produrre “effetti diretti”, ovvero da poter essere applicate dai giudici nazionali anche prima ed indipendentemente dal loro recepimento. In tali casi, il privato può invocare la direttiva davanti al giudice nazionale per
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vedere tutelato in concreto un diritto che la norma ad “effetti diretti” gli riconosce nei confronti dello Stato di appartenenza (c.d. effetti diretti “verticali”), ma non nei confronti di un altro privato (c.d. effetti diretti “orizzontali”). È il caso di chiarire che, mentre la “diretta applicabilità” intesa come non necessità di una normativa statale di recepimento è una caratteristica della fonte del diritto come “contenitore” di norme giuridiche e, quindi, prescinde dal contenuto dei singoli enunciati normativi (per cui i regolamenti sono direttamente applicabili e le direttive necessitano della interpositio del legislatore interno), gli “effetti diretti” sono una caratteristica delle singole norme, le quali possono essere applicate dal giudice nazionale perché la loro formulazione linguistica testuale è sufficientemente dettagliata da consentirgli di ricavare da esse la regola del caso concreto. Come si possono, quindi, avere norme aventi effetti diretti all’interno di fonti non direttamente applicabili (è il caso delle direttive self-executing), allo stesso modo si possono avere fonti direttamente applicabili che contengono norme sprovviste di effetti diretti (è il caso delle norme dei regolamenti le cui previsioni non sono dettagliate a tal punto da essere applicate dal giudice nazionale). Ai sensi dell’art. 288, co. 4, TFUE, infine, «la decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi». Destinatari delle decisioni possono essere sia singoli Stati membri, sia persone fisiche che giuridiche, come nel caso, ad esempio, delle decisioni della Commissione in materia di concorrenza, rivolte a singole imprese. In tali casi, poiché viene meno il carattere generale e astratto, le decisioni assumono caratteri molto simili a quelli che, nel diritto interno, sarebbero propri del provvedimento amministrativo. In via eccezionale, possono essere rivolte anche tutti gli Stati membri, come, ad esempio, accade in occasione delle decisioni, sempre della Commissione, in materia di aiuti di stato. Pareri e raccomandazioni, invece, a differenza di regolamenti, direttive e decisioni, sono atti giuridici non vincolanti (art. 288, co. 5, TFUE). I pareri sono gli atti del diritto derivato attraverso cui le istituzioni UE generalmente manifestano la propria posizione politica circa una questione di interesse dell’Unione senza imporre obblighi o vincoli. Le raccomandazioni sono normalmente rivolte agli Stati membri e contengono l’invito a conformarsi ad un determinato comportamento. Il Trattato di Lisbona ha previsto che alla formazione del diritto UE partecipino anche gli Stati membri, in modo da rendere meno conflittuale la successiva fase dell’attuazione e da favorire l’integrazione democratica tra gli ordinamenti nazionali e quello dell’Unione. Per questo un ruolo centrale nella fase di formazione del diritto UE, la c.d. “fase ascendente”,
Decisioni
Pareri e raccomandazioni
La fase ascendente di formazione del diritto UE
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La legge n. 234/2012
Capitolo V
è riconosciuto ai Parlamenti nazionali (oggetto di un apposito Protocollo allegato al Trattato). Il nostro ordinamento ha dato attuazione alle previsioni del Trattato di Lisbona in materia attraverso la legge n. 234/2012, che regola la partecipazione dell’Italia non solo alla formazione ma anche all’attuazione della normativa europea, sostituendo integralmente la legge n. 11/2005 (la c.d. “legge Buttiglione”), che a sua volta aveva abrogato la legge n. 86/1989 (la celebre “legge La Pergola”). L’art. 3 della legge n. 234 stabilisce che le Camere partecipano al processo decisionale dell’Unione europea in coordinamento con il Governo. Per rendere effettiva questa partecipazione l’art. 4 prevede una serie di obblighi informativi del Governo nei confronti del Parlamento, che riguardano non solo le riunioni del Consiglio europeo, ma anche quelle informali delle altre istituzioni europee. In particolare, è previsto l’obbligo del Governo di informare e consultare periodicamente le Camere nell’ambito delle procedure individuate dalla legge rinforzata di cui all’art. 81, co. 6, Cost. in relazione all’equilibrio di bilancio. Sempre a fini informativi, l’art. 13 prevede che il Governo debba presentare al Parlamento ogni anno due relazioni sulla partecipazione dell’Italia all’UE: una relazione programmatica, entro il 31 dicembre, in cui devono essere indicati gli orientamenti e le priorità che il Governo intende perseguire con riguardo a ciascuna politica dell’UE e al processo di integrazione europea; una relazione consuntiva, entro il 28 febbraio, che reca il rendiconto delle attività e delle posizioni assunte dall’Italia nella partecipazione all’attività e al processo normativo dell’Unione europea. Tali relazioni sono trasmesse anche alla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, alla Conferenza Stato-Regioni e alla Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome, ed alla Conferenza Stato-città ed autonomie locali. Tra gli istituti più rilevanti per consentire la partecipazione parlamentare al processo decisionale europeo meritano di essere ricordati quelli di cui all’art. 7, secondo cui il Governo ha l’obbligo di assicurare che la posizione rappresentata in sede di Consiglio dell’Unione (o di altre istituzioni od organi UE) sia coerente con gli atti di indirizzo approvati dalle Camere; all’art. 8, che prevede che le Camere possano verificare il rispetto del principio di sussidiarietà da parte degli adottandi atti dell’Unione e all’art. 9, che disciplina la c.d. “riserva di esame parlamentare”, che comporta che il Governo, in attesa della pronuncia delle Camere, non può procedere per 30 giorni alle attività dirette alla formazione degli atti dell’UE oggetto di esame parlamentare. La legge prevede, ancora, che le Camere possano partecipare agli accordi in materia finanziaria o monetaria, conclusi anche al di fuori delle disposizioni dei
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trattati (art. 5), alle procedure semplificate di modifica dei Trattati (art. 11), che le stesse possano esercitare un controllo sulle procedure di infrazione che riguardano l’Italia (art. 15) e che siano previamente informate delle nomine che il Governo intende effettuare nelle istituzioni dell’Unione (art. 17). Merita ricordare, ancora, che la legge n. 234/2012 prevede la partecipazione alla “fase ascendente” anche delle autonomie territoriali, stabilendo in proposito che la Conferenza Stato-Regioni e la Conferenza Stato-città e autonomie locali tengano ogni anno una “sessione europea” (artt. 23-24), che le Regioni e le Province autonome partecipino alle decisioni relative alla formazione degli atti normativi dell’Unione attraverso i Consigli regionali, che possono trasmettere alle Camere osservazioni sul rispetto del principio di sussidiarietà da parte di detti atti (art. 25) e che il Governo assicuri, per il tramite della Conferenza Stato-città e autonomie locali, un’adeguata consultazione dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane ai fini della formazione della posizione dell’Italia in relazione alle politiche UE che presentino specifica rilevanza negli ambiti di competenza degli enti locali (art. 26). Una specifica disciplina, infine, è recata dall’art. 28 in merito al coinvolgimento delle categorie produttive e delle parti sociali nella formazione della posizione italiana su iniziative UE rilevanti nelle materie di loro interesse. Come si accennava, la legge n. 234/2012 regola anche la c.d. “fase discendente”, ovvero l’attuazione del diritto UE da parte dell’ordinamento nazionale. In proposito la disciplina (artt. 29-41) prevede la sostituzione della “vecchia” legge comunitaria con due distinti strumenti di carattere generale, cui se ne sommano altri più specifici. Il primo è la legge di delegazione europea, che il Governo deve presentare alle Camere entro il 28 febbraio di ogni anno (ma entro il 31 luglio, ove necessario, può essere presentato un ulteriore disegno di legge di delegazione europea relativo al secondo semestre dell’anno in corso) e che contiene le norme di delega con cui il Governo stesso è chiamato a recepire le direttive UE o a modificare e/o abrogare disposizioni vigenti limitatamente a quanto necessario per garantire il rispetto da parte della Repubblica dei pareri motivati o delle sentenze di condanna della Corte di giustizia. Quanto al termine della delega, si prevede che esso sia anticipato di 4 mesi rispetto al termine di recepimento delle direttive, in modo da evitare l’avvio di procedure di infrazione per mancato recepimento, e che, scaduto il termine, il Governo possa adottare disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi entro 24 mesi dall’entrata in vigore o nel diverso termine fissato dalla stessa legge di delegazione europea (art. 31). L’art. 35 prevede, poi, che la legge di delegazione europea può prevedere che, nelle materie di cui all’art. 117, co. 2, Cost., già di-
La partecipazione delle autonomie territoriali
La fase discendente
Legge di delegazione europea
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Legge europea
Capitolo V
sciplinate con legge, ma non coperte da riserva assoluta di legge, le direttive dell’Unione possano essere recepite mediante regolamento. La legge europea, per il cui disegno di legge non è stabilito un termine specifico di presentazione, essendo essa eventuale, contiene invece, ai sensi dell’art. 30, le disposizioni modificative o abrogative di norme interne oggetto di procedure di infrazione o di sentenze della Corte di giustizia, quelle necessarie per dare attuazione agli atti dell’Unione europea ed ai Trattati internazionali conclusi dall’UE e quelle emanate nell’ambito del potere sostitutivo. Nelle materie di competenza legislativa delle Regioni e delle Province autonome, spetta a tali enti provvedere all’attuazione del diritto UE, ma l’art. 41 della legge n. 234/2012 prevede che, al fine di porre rimedio all’eventuale inerzia dei suddetti enti, i provvedimenti di attuazione degli atti dell’Unione possono essere adottati dallo Stato. In tal caso, i provvedimenti statali adottati si applicano nelle Regioni e nelle Province autonome inadempienti a decorrere dalla scadenza del termine stabilito per l’attuazione della rispettiva normativa UE e fino alla data di entrata in vigore dei provvedimenti di attuazione di ciascuna Regione e Provincia autonoma.
6. I rapporti tra fonti interne e fonti UE e i criteri di risoluzione delle relative antinomie Il tema dei rapporti tra fonti interne e fonti UE riveste carattere centrale da un duplice punto di vista. In primo luogo, a causa dell’elevato stadio raggiunto dal processo di integrazione tra l’ordinamento interno e quello dell’Unione, esso è fondamentale per porre un importante tassello nel complesso mosaico che rappresenta la possibile risposta alla domanda da cui questo testo ha preso le mosse, ovvero quella che porta a interrogarsi su “chi decide” nell’ordinamento costituzionale pluralista in cui siamo chiamati a sviluppare le nostre esistenze di cittadini, ma ancor prima di persone. Si pensi al caso della c.d. legge di bilancio di cui all’art. 81 Cost., ovvero la legge annuale che contiene l’indicazione delle entrate e delle spese pubbliche previste per l’esercizio successivo in base alla legislazione vigente, la quale viene approvata dal Parlamento nell’ambito di un complesso di procedure disciplinate dal diritto UE, il c.d. “semestre europeo”, le quali prevedono che gli Stati membri, dapprima, ricevano una sorta di consulenza dalle Istituzioni dell’Unione attraverso i c.d. “orientamenti”, successivamente, presentino i propri piani strategici sotto forma di “pro-
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grammi nazionali di riforma” e di “programmi di stabilità e convergenza” perché siano valutati a livello europeo, infine, ricevano delle raccomandazioni individuali, le c.d. “raccomandazioni specifiche per paese”, di cui tenere conto nell’elaborazione della legge di bilancio e dei progetti di riforma. Queste procedure, infatti, ancorché basate su atti non vincolanti dell’UE, condizionano in maniera determinante le politiche nazionali, tanto che numerosi sono ormai i conflitti di attribuzione (su cui v. infra, Cap. X, par. 6) sollevati dai singoli parlamentari contro le leggi di bilancio per la compressione dei tempi di approvazione e, quindi, delle loro prerogative nel procedimento legislativo che il semestre europeo determina (cfr. Corte cost., ord. n. 17/2019, che ha considerato il conflitto inammissibile per difetto di legittimazione del singolo parlamentare). In secondo luogo, l’analisi dei rapporti tra diritto interno e diritto UE è imprescindibile per comprendere come si realizza il processo di integrazione europea, ovvero attraverso quali dinamiche si perviene ad assicurare quella omogenea applicazione del diritto UE all’interno degli Stati membri che rappresenta il principale “motore” della costruzione dell’ordinamento europeo fin dalle sue origini, quando, come si è detto, tale uniforme applicazione rappresentava innanzitutto lo strumento per la creazione del mercato unico europeo. Tale secondo aspetto è particolarmente utile per spiegare perché il rapporto tra fonti UE e fonti interne sia stato, in passato, oggetto di un acceso contrasto giurisprudenziale tra la Corte di giustizia e Corte costituzionale italiana: contrasto determinato dalla volontà della prima di regolare gli eventuali contrasti tra diritto UE e diritto interno in modo da assicurare la più veloce e omogenea applicazione delle norme UE e dalla iniziale contrapposta intenzione della seconda di assicurare comunque, per quanto possibile, il monopolio legislativo del Parlamento e il controllo di conformità del diritto europeo alla Costituzione. Fin dalla sua prima giurisprudenza in materia, la Corte costituzionale ha individuato il fondamento della partecipazione dell’Italia all’Unione europea nell’art. 11 Cost., affermando che le norme europee producono effetti nel sistema interno delle fonti in forza delle «limitazioni di sovranità» che lo Stato italiano ha accettato attraverso i Trattati istitutivi per consentire, «in condizioni di parità con gli altri Stati» membri, l’instaurazione di un «ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni»; motivo per cui, appunto, «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» (art. 11, co. 2, Cost.). Da questa impostazione è stato ricavato il carattere derogatorio dei Trattati rispetto alla Costituzione e, in particolar modo, all’art. 70 Cost., che riserva la funzione legislativa alle Camere, consentendo così che un mero fatto prodottosi al di fuori dell’ordinamento (si pensi all’approvazione di un regolamento o di una direttiva UE) determini una modifica al suo interno.
Il contrasto tra CGUE e Corte cost.
180 I fase: criterio cronologico
II fase: il primato del diritto UE
III fase: la non applicazione della norma interna contrastante
Capitolo V
Essa, tuttavia, in un primo momento, ritiene che l’eventuale contrasto (ovvero antinomia normativa: v. supra, Cap. IV, par. 3) tra la legge italiana e il diritto derivato (si pensi sempre al caso dei regolamenti e delle direttive) deve essere risolto attraverso l’applicazione del criterio cronologico o della successione delle leggi nel tempo (v. supra, ancora Cap. IV, par. 3), ovvero considerando abrogate le leggi interne anteriori all’entrata in vigore del diritto UE, senza che questo contrasto determinasse l’insorgere di questioni di costituzionalità (Corte cost., sentt. n. 14/1964, nota come “sentenza Costa/Enel”, e n. 98/1965). In una seconda fase, invece, la giurisprudenza costituzionale avverte che le limitazioni di sovranità di cui all’art. 11 Cost. accettate con i Trattati si risolvono in una separazione delle competenze tra UE e Stato membro, con la conseguenza che, fin tanto che le fonti europee non siano intervenute a disciplinare le materie loro affidate dai Trattati istitutivi, continuano a vigere le norme nazionali, ma anche che, una volta esercitata tale potestà normativa, il legislatore interno non può dettare né norme in contrasto con il diritto derivato, né norme meramente riproduttive del suo contenuto, essendo entrambe le categorie di norme incostituzionali perché in violazione indiretta dell’art. 11 Cost. per il tramite della legge di esecuzione dei Trattati, che funge da “norma interposta” (v. supra, Cap. III, par. 1) nel giudizio di costituzionalità (Corte cost., sentt. n. 183/1973, c.d. “sentenza Frontini”, e n. 232/1975). Si giunge così, in sintonia con quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia a riconoscere sempre la supremazia (c.d. “primauté”) del diritto derivato UE sul diritto interno: in caso di contrasto del primo con la legge italiana anteriore attraverso il criterio cronologico e lo strumento dell’abrogazione; in caso di antinomia con la legge interna successiva attraverso il criterio gerarchico e lo strumento del controllo di costituzionalità. Con la sent. 9 marzo 1978 (in causa C-106/77, c.d. Simmenthal), la Corte di giustizia, praticando una interpretazione “monista” dei rapporti tra ordinamento UE e ordinamento interno (così detta – in contrapposizione alla lettura “dualista” dei medesimi rapporti – perché tratta i due ordinamenti come se fossero uno solo, perfettamente “integrato”) chiarisce, però, che la diretta applicabilità dei regolamenti UE richiede la loro uniforme applicazione in tutti gli Stati membri attraverso la non applicazione della legge interna contrastante (anche se successiva al diritto derivato) da parte del giudice, senza che questa omogenea applicazione possa essere ritardata dal controllo di costituzionalità della legge da parte del Giudice costituzionale nazionale. Tale posizione è stata, alla fine, accettata dalla Corte costituzionale italiana, la quale, portando a compimento la descritta evoluzione giurisprudenziale (che Paolo Barile ha efficacemente chiamato il “cammino comunitario della Corte”), è pervenuta ad
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ammettere che il giudice nazionale deve sempre dare applicazione, a preferenza della legge interna contrastante, al diritto dell’Unione che deriva non solo da fonti “direttamente applicabili” (come i regolamenti) ma anche da norme produttive di “effetti diretti” (come le direttive self executing), senza quindi previamente sollevare la questione di costituzionalità della legge successiva, che conseguentemente resta limitata al solo caso del contrasto di tale legge con norme sprovviste di “effetti diretti” (Corte cost., sentt. n. 170/1984, nota come “sentenza Granital”, e n. 389/1989). Il giudice italiano, quindi, deve innanzitutto accertare la capacità della norma dell’Unione di produrre effetti diretti, indagando se — a prescindere dal fatto che essa sia contenuta in una fonte direttamente applicabile o meno (quindi, regolamento o direttiva) — l’idoneità della norma a fondare pretese immediatamente azionabili in sede giurisdizionale sia stata già affermata dalla Corte di giustizia, oppure, in difetto di precedenti giurisprudenziali, se essa possa essere comunque desunta dal carattere dettagliato, preciso e incondizionato delle singole norme. È il caso di precisare che, nonostante si parli comunemente di “disapplicazione” del diritto interno contrastante, in realtà, come efficacemente chiarito dalla stessa giurisprudenza costituzionale con la successiva sent. n. 169/1991, è maggiormente corretto parlare di “non applicazione” perché il meccanismo delineato nella pronuncia del 1984 non può essere interpretato nei termini di una disapplicazione in senso stretto, poiché essa presupporrebbe un previo giudizio di legittimità e l’individuazione di vizi «in realtà non sussistenti in ragione proprio dell’autonomia dei due ordinamenti». Tale rilievo consente anche di chiarire che il criterio fondamentale di risoluzione delle antinomie tra diritto UE e diritto interno su cui l’ordinamento si è attestato per effetto della “sentenza Granital” è quello di competenza – quindi, non quello cronologico di cui alla “sentenza Costa/Enel” del 1964, né quello gerarchico di cui alla successiva “sentenza Frontini” del 1973 – in forza del quale le fonti interne “si ritraggono” per lasciare posto all’applicazione del diritto derivato produttivo di effetti diretti in tutte le materie che i Trattati hanno affidato alla competenza legislativa dell’Unione. Il che consente anche di apprezzare come, nonostante la giurisprudenza costituzionale sia giunta ad ammettere, come richiesto dalla Corte di giustizia, che le antinomie tra i due ordinamenti si risolvano attraverso la “non applicazione” e, quindi, senza il previo controllo di costituzionalità, essa, però, non ha affatto abbracciato la lettura “monista” della giurisprudenza di Lussemburgo, perché ricostruendo i rapporti tra i predetti ordinamenti in termini di separazione di competenze ha, invece, fatto propria un’interpretazione “dualista”, che guarda all’Italia e all’Unione europea come due ordinamenti distinti, ancorché coordinati in forza delle limitazioni
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I controlimiti
Capitolo V
di sovranità che la Repubblica italiana ha accettato nelle materie indicate dai Trattati. Vale ancora la pena di mettere in evidenza che, in forza delle conclusioni raggiunte a partire dalla “sentenza Granital”, poiché l’eventuale contrasto tra il diritto UE “a effetti diretti” e la legge interna successiva non è più risolto attraverso il promovimento della questione di legittimità costituzionale e l’annullamento della legge da parte della Corte costituzionale per contrasto indiretto con l’art. 11 Cost., ma attraverso la non applicazione da parte del giudice, l’attuale assetto dei rapporti tra fonti interne e fonti UE ha finito per incidere in maniera assai significativa sui caratteri del nostro modello di giustizia costituzionale (v. infra, Cap. X, par. 1). Si può, infatti, affermare che, proprio per effetto del meccanismo della non applicazione, il controllo di costituzionalità della legge interna contrastante con il diritto UE ha assunto carattere “diffuso”, ovvero viene svolto con efficacia inter partes dal singolo giudice nell’ambito delle operazioni logiche che gli sono necessarie per individuare qual è il diritto applicabile alla fattispecie concreta sottoposta alla sua cognizione, tutte le volte in cui l’antinomia coinvolge una norma UE provvista di “effetti diretti”, mentre conserva carattere “accentrato”, cioè viene svolto dalla Corte costituzionale con efficacia erga omnes, quando l’antinomia riguarda una norma sprovvista di “effetti diretti”. Alla luce dell’assetto giurisprudenziale ricostruito, dunque, si può concludere che i Trattati e le fonti del diritto derivato dell’Unione, in ossequio al ricordato principio della “primauté”, prevalgono non solo nei confronti del diritto interno di rango primario o legislativo (v. supra, Cap. IV, par. 5), ma anche della stessa Costituzione, con il limite dei principi supremi e dei diritti inviolabili da essa posti o comunque da essa desumibili, che costituiscono i c.d. “controlimiti” all’ingresso del diritto UE nel nostro ordinamento. Con la già citata sent. n. 183/1973, infatti, la Corte costituzionale ha affermato che deve escludersi che le limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost. «possano comunque comportare per gli organi della CEE un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana». E se la stessa Corte costituzionale ha, poi, mostrato di ritenere «improbabile» l’ipotesi che il diritto dell’Unione violi i principi supremi o i diritti inviolabili con la sent. n. 170/1984, essa ha comunque precisato nella successiva sent. n. 232/1989 che «quel che è sommamente improbabile è pur sempre possibile» e che la propria competenza non concerne solo il controllo sul sistema UE nel suo complesso ma si estende a «verificare, attraverso il controllo di costituzionalità della legge di esecuzione, se una qualsiasi norma del Trattato, così come essa è interpretata ed applicata dalle istituzioni e dagli organi comunitari, non
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venga in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale o non attenti ai diritti inalienabili della persona umana». Alle singole norme del diritto dell’Unione vengono, così, opposti gli stessi limiti precisati dalla giurisprudenza costituzionale in relazione al potere di revisione costituzionale ed agli accordi concordatari (v. Capp. II, par. 3 e IV, par. 4). Il compito di definire quali siano i “controlimiti”, ovvero i principi supremi e i diritti inviolabili dell’ordinamento costituzionale dinnanzi ai quali si arresta l’ingresso delle norme UE nel sistema interno delle fonti, spetta prevalentemente all’interpretazione della Corte costituzionale. Tale opera può dare luogo anche a contrasti giurisprudenziali con la Corte di giustizia, come detto chiamata a vigilare sull’omogenea e uniforme applicazione del diritto UE nei vari Stati membri e, quindi, in definitiva, sulla sua prevalenza nei confronti delle norme degli ordinamenti nazionali. Una vicenda paradigmatica di tali potenziali contrasti ha interessato l’ordinamento italiano in relazione al c.d. “caso Taricco”, che rappresenta un esempio problematico del c.d. “dialogo tra Corti”, ovvero delle complesse relazioni che si vengono a stabilire tra le pronunce di giudici di ordinamenti diversi che, nell’esercizio ciascuno delle proprie competenze, intervengono sulla medesima fattispecie concreta. Con la sent. 8 settembre 2015 della Grande sezione (appunto, la nota “sentenza Taricco”), la Corte di giustizia, muovendo da una considerazione della prescrizione come norma “procedurale” sulla perseguibilità di determinati reati e non come norma “sostanziale” sulla punibilità del reo, aveva statuito che l’Italia dovesse disapplicare la disciplina del codice penale in tema di prescrizione dei reati per consentire la repressione di alcune frodi in danno dell’Unione europea anche in relazione ai reati commessi prima dell’enucleazione, da parte sua, di detta regola giurisprudenziale. Ciò al ricorrere di due alternative condizioni, ovvero qualora l’operatività della prescrizione non avesse consentito di reprimere con pena effettiva “gravi frodi” in un “numero considerevole di casi” o qualora il termine di prescrizione per le analoghe frodi nei confronti dello Stato fosse inferiore a quello previsto per le frodi comunitarie. La Corte di cassazione e la Corte d’appello di Milano, però, ritenevano che la regola affermata dalla “sentenza Taricco” fosse in contrasto con alcuni principi supremi dell’ordinamento costituzionale italiano, in particolare con i principi di irretroattività e determinatezza della norma penale (perché non era sufficientemente chiaro quali fossero le “gravi frodi” e il “numero considerevole di casi” che facevano scattare l’obbligo di non applicare la prescrizione), e sollevavano per questo alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge n. 130/2008, sulla ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona, nella parte
Il caso Taricco
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Capitolo V
in cui imponeva l’applicazione della “regola Taricco”. La Corte costituzionale, con l’ord. n. 24/2017, disponeva un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per l’interpretazione del significato da attribuire alla “sentenza Taricco” e alla norma dei Trattati di cui essa aveva fatto applicazione nella sua sentenza. La Grande sezione della Corte di giustizia, con sent. 5 dicembre 2017, in causa C-42/17, M.A. S. e M. B., non superando del tutto una considerazione prevalentemente procedurale dell’istituto della prescrizione, affermava che l’obbligo per il giudice nazionale di disapplicare, sulla base della “regola Taricco”, la normativa interna in materia di prescrizione dei reati di frode in danno dell’Unione viene meno solo quando si determini – a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile o dell’applicazione retroattiva di una normativa più severa di quella vigente al momento della commissione del reato – una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene. A valle del rinvio pregiudiziale, con la sent. n. 115/2018, la Corte costituzionale ha definitivamente chiarito che la prescrizione dei reati ha carattere di “norma penale sostanziale” in quanto incide direttamente sulla punibilità e che la “regola Taricco” non può trovare applicazione nell’ordinamento italiano nemmeno con riferimento ai fatti successivi alla sua affermazione perché in contrasto con il principio di determinatezza della fattispecie penale incriminatrice di cui all’art. 25, co. 2, Cost., il quale rappresenta “principio supremo dell’ordinamento costituzionale” (e, quindi, controlimite) e come tale elemento dell’“identità costituzionale degli Stati membri”, di cui l’art. 6 TUE impone il rispetto al diritto dell’Unione.
7. Il diritto straniero
Il diritto internazionale privato
In linea di principio, il diritto straniero, ovvero il diritto prodotto all’interno di altri ordinamenti secondo le norme sulla produzione giuridica dei medesimi (v. supra, Cap. IV, par. 1), non trova applicazione nel nostro ordinamento proprio perché “estraneo” ad esso. Fanno eccezione i casi in cui sono norme dell’ordinamento repubblicano a prescrivere l’applicazione a determinate fattispecie di norme appartenenti al diritto di un altro Stato. I casi certamente più significativi di applicazione di nome del diritto straniero sono quelli regolati dal c.d. “diritto internazionale privato”, ovvero da quella branca dell’ordinamento interno che disciplina in quali casi il giudice italiano deve fare applicazione del diritto straniero e, in particolare, quale sia la legge straniera applicabile al caso concreto. Le norme che individuano quale sia la legge straniera che deve trovare applicazione quando il giudice italiano deve pronunciarsi su fattispe-
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cie che presentano elementi di “estraneità” rispetto all’ordinamento nazionale (si pensi, ad esempio, al caso della successione di cittadino italiano con beni immobili in un altro Stato o al divorzio di coniugi di cui uno solo è cittadino italiano) prendono il nome di “criteri di collegamento”, proprio perché stabiliscono un “ponte” tra l’ordinamento nazionale e l’ordinamento straniero le cui norme devono essere applicate dal giudice italiano, e sono contenute nella legge n. 218/1995, recante la «Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato». L’istituto attraverso cui la norma interna prescrive l’applicazione di quella straniera prende il nome di “rinvio”. Si distinguono due tipi di rinvii. Si parla di rinvio formale (o mobile o non recettizio) quando la norma interna prescrive l’applicazione della norma straniera non individuata nella sua formulazione linguistica testuale, ma come individuata, secondo le norme dell’ordinamento straniero, nel momento in cui deve essere applicata. Si discorre, invece, di rinvio materiale (o fisso o recettizio) quando le norme straniere sono recepite nel nostro ordinamento nel tenore letterale che hanno al momento dell’adozione della norma interna che contiene il rinvio. La differenza, quindi, tra le due tipologie di rinvio riguarda essenzialmente la determinazione del significato della norma straniera applicabile: in caso di rinvio fisso, esso sarà sempre quello che era al momento dell’entrata in vigore della norma interna di rinvio, essendo irrilevante che la norma straniera sia stata nel frattempo modificata nel rispettivo ordinamento; in caso di rinvio mobile, invece, il giudice italiano dovrà utilizzare la norma straniera nella formulazione testuale e, quindi, nel significato che essa ha al momento della sua applicazione alla fattispecie concreta, tenendo quindi conto di tutte le modifiche eventualmente intervenute dopo l’adozione della norma interna di rinvio. Istituto diverso dal rinvio, ma che comporta anch’esso l’applicazione del diritto straniero all’interno dei confini nazionali, è quello della c.d. “presupposizione”. Esso ricorre tutte le volte in cui la norma italiana non prescrive di applicare una norma straniera, ma utilizza istituti che hanno definizioni e discipline diverse nei vari ordinamenti nazionali, dando appunto per presupposte le definizioni normative di tali istituti che sono disciplinate dal diritto straniero. Questa tecnica normativa comporta che il giudice italiano, che si trova ad applicare una norma interna che utilizza un istituto disciplinato dal diritto di un altro ordinamento (si pensi all’espressione “cittadino”), debba assumere quell’istituto nella definizione che è propria di quell’ordinamento.
Il rinvio Rinvio formale
Rinvio materiale
La presupposizione
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Capitolo V
CAPITOLO VI
L’ORDINAMENTO REPUBBLICANO: GLI ORGANI COSTITUZIONALI SOMMARIO: 1. Il Parlamento. – 1.1. Caratteri del Parlamento in generale e del Parlamento italiano in particolare. – 1.2. L’assetto bicamerale del Parlamento e il Parlamento in seduta comune. – 1.3. La composizione della Camera e del Senato. – 1.4. La nomina presidenziale dei senatori a vita. – 1.5. La legge elettorale per la Camera e il Senato: dal 1948 al 1993. – 1.6. (segue): dal 2005 alla sent. n. 35/2017 della Corte costituzionale. – 1.7. La legge elettorale vigente per la Camera e il Senato. – 1.8. Le cause di ineleggibilità, incompatibilità e incandidabilità. – 1.9. La durata delle Camere e la prorogatio dei poteri. – 1.10. I quorum di validità delle sedute e delle deliberazioni delle Camere e i principi di funzionamento dell’attività parlamentare. – 1.11. I Presidenti della Camera e del Senato. – 1.12. I gruppi parlamentari, le commissioni e le giunte. – 1.13. Lo status di parlamentare. – 1.13.1. Il divieto di mandato imperativo. – 1.13.2. Le immunità parlamentari. – 1.13.3. L’indennità. – 1.14. Le funzioni del Parlamento. – 1.14.1. La funzione di indirizzo e controllo politico. – 1.14.2. La funzione ispettiva. – 2. Il Presidente della Repubblica. – 2.1. L’elezione del Presidente della Repubblica. – 2.2. I poteri e il ruolo del Presidente della Repubblica. – 2.3. La controfirma ministeriale e la responsabilità presidenziale. – 3. Il Governo. – 3.1. Gli organi necessari e non necessari del Governo. – 3.2. I rapporti tra gli organi del Governo. – 3.3. Le attribuzioni del Consiglio dei Ministri e del Presidente del Consiglio. – 3.4. La struttura dei Ministeri e le attribuzioni dei Ministri. – 3.5. I sottosegretari di Stato e i viceministri. – 3.6. La formazione del Governo e le crisi. – 3.7. Lo scioglimento anticipato delle Camere. – 3.8. Il rimpasto governativo e le crisi. – 3.9. La questione di fiducia. – 3.10. La mozione di sfiducia individuale. – 3.11. I reati ministeriali. – 3.12. Gli organi ausiliari.
1. Il Parlamento 1.1. Caratteri del Parlamento in generale e del Parlamento italiano in particolare Il parlamento moderno è un’istituzione le cui origini storiche possono farsi risalire ai parlamenti medievali, antiche assemblee chiamate a operare in un contesto sociale frammentato, composte dai grandi feudatari e
Parlamenti medievali e parlamenti moderni
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Il Parlamento italiano
Capitolo VI
poi anche dai delegati dei centri urbani e che fungono, inizialmente, da mera cassa di risonanza di interessi, situazioni e privilegi alquanto eterogenei. Tra il XII e il XIV secolo quei parlamenti acquisiscono una sempre maggiore capacità di portare al centro dell’ordinamento le istanze provenienti dalle periferie e, a seconda dei contesti, riescono anche a svolgere una funzione di controllo in merito al corretto utilizzo dei tributi da parte del re. L’eclissi parlamentare che si registra nei secoli successivi, dovuta alla forza accentratrice e monopolizzatrice delle monarchie assolute, riesce solamente a rallentare un processo modificativo che, con le tre grandi rivoluzioni, porta alla nascita dei parlamenti tipici degli Stati moderni. E così, il Parlamento inglese a partire dalla Gloriosa rivoluzione del 1688, il Congresso americano nato con la Costituzione degli Stati Uniti del 1787 e l’Assemblea nazionale in Francia nel 1789, pur espressione di realtà storiche e culturali diverse tra loro, ispirano e delineano i tratti fondamentali delle istituzioni parlamentari che si sono via via affermate nella nostra epoca e che possiamo ritrovare nelle Costituzioni democratiche del XX secolo. Chi meglio spiega che cosa sia il parlamento oggi e il ruolo che esso riveste nell’assetto costituzionale è Hans Kelsen che, nell’opera Il primato del Parlamento afferma come «la democrazia moderna ha … carattere parlamentare e il parlamentarismo sembra, almeno secondo l’esperienza che se n’è fatta, l’unica forma in cui la democrazia sia realizzabile nella odierna realtà sociale» e che «parlamentarismo significa formazione di una valida volontà statale attraverso un organo collegiale eletto dal popolo». Le democrazie affermatesi nel XX secolo, dunque, a prescindere dalla forma di governo adottata, sono tutte democrazie rappresentative, non democrazie dirette: le leggi non sono discusse e approvate direttamente dal popolo radunato in un luogo ad hoc, ma da un gruppo di cittadini eletti dal popolo e dunque di quest’ultimo rappresentanti riuniti in un’assemblea. I tratti fondamentali del parlamento moderno li ritroviamo, mutatis mutandis, anche nel Parlamento italiano. Si tratta del primo tra gli organi costituzionali previsti e disciplinati dalla Costituzione. Non si tratta di una scelta casuale, infatti i costituenti vollero con ciò sottolineare la centralità, nella forma di governo italiana, del Parlamento, unico organo eletto direttamente dai cittadini e quindi immediata espressione della sovranità popolare sancita dall’art. 1 Cost. La previsione, in Costituzione, di un’Assemblea legislativa eletta a suffragio universale e dunque l’opzione per un assetto istituzionale retto dal principio della rappresentanza politica costituisce, pertanto, il naturale corollario per cui l’Italia è, sempre ai sensi dell’art. 1 Cost., una Repubblica democratica.
L’ordinamento repubblicano: gli organi costituzionali
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1.2. L’assetto bicamerale del Parlamento e il Parlamento in seduta comune L’art. 55 Cost. stabilisce che il Parlamento si compone della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Il Parlamento italiano è, dunque, bicamerale, in quanto composto da due Camere. La particolarità del bicameralismo italiano è data dall’essere un bicameralismo perfetto o paritario, in quanto le due Camere, oltre all’essere strutturalmente molto simili, esercitano funzioni analoghe per cui, ad esempio: le leggi devono essere sempre approvate in un testo identico sia alla Camera che al Senato (art. 70 Cost.); il rapporto fiduciario che lega il governo al Parlamento deve sussistere sia alla Camera che al Senato (art. 94, co. 1, Cost.). Il bicameralismo perfetto italiano è oggi un unicum nelle democrazie europee, le cui Costituzioni differenziano in maniera più o meno accentuata le funzioni delle due Camere, affiancando ad una prima assemblea portatrice della funzione di rappresentanza nazionale, una seconda assemblea chiamata a portare al centro dello Stato istanze diverse, come quelle territoriali. È anche in conseguenza di tale specializzazione dei due rami parlamentati che nelle altre Costituzioni europee: a) il rapporto fiduciario che lega il Governo al Parlamento è limitato, come accade in Francia, alla sola Assemblea nazionale e non coinvolge il Senato; b) l’esercizio della funzione legislativa non è esercitato in maniera paritaria, ma la seconda Camera, si pensi al Senato in Spagna, esercita funzioni più o meno ridotte. Le ragioni che hanno portato, in Assemblea costituente, alla scelta di un bicameralismo perfetto sono rinvenibili nella ricerca di un compromesso tra chi optava per un assetto monocamerale dell’istituzione parlamentare e chi, viceversa, sosteneva l’ipotesi di una seconda Camera fortemente differenziata rispetto alla prima, in quanto espressione vuoi degli interessi territoriali, vuoi di quelli corporativi. In dottrina, i sostenitori del bicameralismo paritario ne hanno messo in luce i presunti pregi. Si è detto, in particolare, che la navette tra le due Camere favorirebbe la redazione di un testo legislativo tecnicamente e qualitativamente superiore e che due assemblee elette a suffragio universale e dotate di funzioni analoghe fungerebbero da contrappeso e da camera di raffreddamento l’una rispetto all’altra. Di recente, peraltro, si è riacceso il dibattito sulla opportunità di ripensare il bicameralismo perfetto italiano differenziandolo oppure riducendolo ad un assetto monocamerale, in conseguenza dell’ulteriore riduzione delle già poche differenze strutturali tra i due rami del Parlamento (si pensi alla parificazione dell’elettorato attivo, su cui v. infra, par. 1.3) e della prassi del cosiddetto “monocameralismo di fatto” (v. supra, Cap. IV, par. 5).
Il bicameralismo perfetto
190 Il Parlamento in seduta comune
Capitolo VI
Il Parlamento si riunisce in seduta comune dei suoi membri nei casi previsti dalla Costituzione (art. 55, co. 2, Cost.). In tal caso il Presidente e l’Ufficio di presidenza sono quelli della Camera dei deputati (art. 63, co. 2, Cost.). La Costituzione prevede che esso si debba riunire, in sostanza, per svolgere da un lato funzioni elettive e, dall’altro lato, per intervenire nel procedimento concernente la responsabilità del Capo dello Stato in caso di altro tradimento e attentato alla Costituzione, ovverosia, più nello specifico: 1) per l’elezione del Presidente della Repubblica (art. 83, co. 1, Cost.); 2) per la nomina dei cinque giudici costituzionali di spettanza parlamentare (art. 135 Cost.); 3) per l’elezione di un terzo dei componenti il Consiglio superiore della magistratura (art. 104, co. 4, Cost.); 4) per la periodica compilazione degli elenchi dai quali estrarre a sorte i giudici costituzionali aggregati per il giudizio di accusa nei confronti del Capo dello Stato (art. 135, co. 7, Cost.); 5) per deliberare la messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica (art. 90, co. 2, Cost.). Quanto alla qualificazione giuridica, appare oggi maggiormente diffusa la tesi che, negando che si tratti una mera riunione della Camera e del Senato, considera il Parlamento in seduta comune un organo terzo, dotato di un suo grado di autonomia.
1.3. La composizione della Camera e del Senato La Camera dei deputati
Il Senato della Repubblica
La Camera dei deputati è eletta a suffragio universale e diretto. I deputati, in seguito alla riduzione del numero dei parlamentari introdotta dalla legge cost. n. 1/2020, non sono più seicentotrenta, ma quattrocento, otto dei quali eletti, con modalità separate, nella circoscrizione estero (art. 56, co. 1, Cost.). Sono eleggibili a deputati tutti gli elettori che, nel giorno delle elezioni, hanno compiuto i venticinque anni di età (si tratta del c.d. elettorato passivo, ovverosia l’età minima richiesta per essere eletti alle cariche elettive). Quanto al c.d. elettorato attivo – l’età minima richiesta per esercitare il diritto di voto – in mancanza di una diversa statuizione sono elettori tutti cittadini che hanno raggiunto la maggiore età (art. 48, co. 1, Cost.), ad oggi fissata al compimento dei diciotto anni. Anche i senatori, come i deputati, sono eletti a suffragio universale e diretto (art. 58, co. 1, Cost.). Il numero dei senatori elettivi è stato ridotto dalla legge cost. n. 1/2020 da trecentoquindici a duecento, quattro dei quali eletti, con modalità separate, nella circoscrizione estero. Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a sette, tranne il Molise che ne ha due e la Valle d’Aosta uno (art. 57 Cost.). L’elettorato passivo è attribuito agli elettori che hanno compiuto i quarant’anni di età,
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mentre l’elettorato attivo, prima riservato solamente ai cittadini che avevano superato i venticinque anni, è stato equiparato a quello previsto per i deputati e, dunque, si considera raggiunto al compimento della maggiore età (legge cost. n. 1/2021). L’art. 57, co. 1, Cost. prevede, inoltre, che il Senato è eletto a base regionale. Con questa e con altre previsioni i costituenti cercarono, senza incidere sul versante funzionale, di differenziare le due Camere, seppur in misura minimale, sul versante strutturale. Sulla stessa linea si poneva, prima della sua soppressione, anche la diversa età richiesta per godere dell’elettorato attivo. Queste previsioni, tuttavia, non hanno inciso in maniera significativa sulla composizione politica delle due assemblee che, nel corso delle legislature repubblicane, si sono caratterizzate per una sostanziale omogeneità. Invero, la disposizione per cui il Senato è eletto su base regionale è stata interpretata come limite negativo alla discrezionalità del legislatore in sede di approvazione della legge elettorale n. 270/2005. Il testo iniziale di tale legge prevedeva l’attribuzione di un premio di maggioranza in seggi, calcolato a livello nazionale, sia alla Camera che al Senato, ma fu modificato nel corso dell’iter legis. Difatti, si ritenne che l’elezione su base regionale del Senato potesse consentire, tutt’al più, di prevedere dei premi conferiti a livello di circoscrizione regionale e non nazionale. Quest’ultima scelta normativa fu infine dichiarata incostituzionale in quanto comportava, irragionevolmente, che la maggioranza in Senato fosse il risultato casuale di una somma di premi regionali, che poteva finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle coalizioni di liste su base nazionale, favorendo così la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea (Corte cost., sent. n. 1/2014).
1.4. La nomina presidenziale dei senatori a vita Il Senato della Repubblica è composto oltre che dai senatori elettivi anche da un numero limitato di senatori a vita. Più in particolare, è senatore a vita di diritto, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica. Inoltre, il Capo dello Stato può nominare senatori a vita quei cittadini che hanno illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario, il cui numero complessivo non può in alcun caso essere superiore a cinque (art. 59 Cost.). Quest’ultima specificazione è stata introdotta dalla legge cost. n. 1/2020 al fine di superare le divergenze interpretative della formula precedente che si limitava a indicare in cinque il numero dei senatori di nomina presidenziale. Nella sto-
L’elezione del Senato su base regionale
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Capitolo VI
ria costituzionale passata, infatti, i Presidenti della Repubblica si erano attenuti alla prima interpretazione dell’art. 59 Cost., con l’eccezione di Sandro Pertini che, nel 1984, procedette alla nomina di due nuovi senatori quando ne erano già presenti cinque e di Francesco Cossiga che, nel 1991, ne nominò ben quattro oltre ai cinque già in carica. Benché superate, è comunque utile richiamare le ragioni di tali differenti approcci al testo costituzionale in quanto mostrano come anche disposizioni in apparenza chiare e semplici possano generare letture alternative e, dunque, norme diverse. Per una prima tesi, più restrittiva, la nomina dei senatori a vita era da intendersi come attribuita all’organo Presidente della Repubblica e non alla persona fisica che ricopriva temporaneamente la carica. Di conseguenza, si osservava, il numero massimo di senatori a vita di nomina presidenziale non poteva superare comunque i cinque. In base ad una seconda posizione, che faceva leva sulla formulazione lessicale del previgente art. 59 Cost., priva di una espressa limitazione numerica, ciascun Presidente eletto poteva nominare cinque senatori durante il proprio mandato, indipendentemente dal numero di senatori a vita già presenti in Senato. Questa seconda posizione appariva già allora più debole rispetto alla tesi restrittiva che, in una prospettiva ermeneutica logico-sistematica osservava come il Senato, come stabilisce l’art. 58 Cost., è eletto a suffragio universale e diretto, per cui la previsione di senatori di diritto o di nomina presidenziale doveva considerarsi una circoscritta deroga al principio democratico. Un’interpretazione estensiva del potere presidenziale di nomina dei senatori, a ben riflettere, avrebbe aumentato la possibilità di alterare, con una “infornata” di senatori “presidenziali”, i rapporti numerici tra maggioranza e opposizione, soprattutto in presenza di maggioranze politiche risicate. La revisione costituzionale dell’art. 59 Cost., pertanto, ha fatto confluire nel testo costituzionale, pietrificandola, una delle possibili interpretazioni di tale disposizione e tra queste, come mostrato, quella più ragionevole e coerente con i principi costituzionali.
1.5. La legge elettorale per la Camera e il Senato: dal 1948 al 1993 L’ordine del giorno Giolitti
La Costituzione non impone espressamente l’adozione di un determinato sistema elettorale. I costituenti, pur ritenendo che per la realtà politica di allora il sistema elettorale più adatto fosse quello proporzionale, convennero di non irrigidire tale preferenza nel testo costituzionale, così
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da lasciare aperta al legislatore la possibilità di adottare soluzioni differenti. Può essere letta in questa chiave la disponibilità dell’on. Giolitti a trasformare una sua proposta emendativa, volta a costituzionalizzare il sistema proporzionale in un ordine del giorno, non vincolante giuridicamente, ma dal chiaro significato politico, col quale l’Assemblea costituente auspicò, rivolgendosi al legislatore futuro, che «l’elezione dei membri della Camera dei deputati debba avvenire secondo il sistema proporzionale» (c.d. ordine del giorno Giolitti). Pur in mancanza di un espresso richiamo al metodo proporzionale, è stato sostenuto da Carlo Lavagna, nei primi decenni di attuazione della Costituzione, che da una interpretazione logico-sistematica della Carta costituzionale si potesse evincere un vincolo, per la legge, a favore del sistema elettorale proporzionale. In particolare, Lavagna partiva dalla considerazione che, poiché la nostra Costituzione si ispira al principio pluralista e a quello di eguaglianza del voto (art. 48 Cost.), da intendere come eguaglianza non solo “in entrata” (divieto del voto plurimo o del voto ponderato), ma anche “in uscita” (in relazione alla ripartizione dei seggi), sarebbe conforme a tali principi soltanto un sistema in grado di convertire, in maniera proporzionale, i voti espressi dagli elettori in seggi parlamentari. Diversamente, concludeva Lavagna, una legge elettorale di tipo maggioritario sarebbe stata incostituzionale. Questa tesi, che ci mostra ancora una volta come l’attività interpretativa del giurista possa giungere, se fondata su argomentazioni logicamente coerenti e non implausibili, a soluzioni ermeneutiche non immediatamente ricavabili dal testo costituzionale, non ha trovato conferma nell’evoluzione della legislazione elettorale e nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Difatti, la previsione inziale di una ripartizione dei seggi su base proporzionale sia alla Camera che al Senato, in linea con quanto auspicato con l’ordine del giorno Giolitti, venne meno nel 1993, quando fu approvata una legge elettorale prevalentemente maggioritaria. Ma procediamo con ordine. Il sistema proporzionale adottato nel periodo 1948-1993 era funzionale all’assetto multipartitico di allora in quanto consentiva di rappresentare in Parlamento i reali rapporti di forza tra le forze politiche, a cominciare dalla Democrazia cristiana, uno dei due maggiori partiti assieme al Partito comunista italiano, quale premessa per la sovente complessa e articolata costruzione delle coalizioni di maggioranza. La riforma elettorale del 1993, intervenuta per dare seguito all’esito positivo di un referendum avente ad oggetto la legislazione elettorale proporzionale, può essere spiegato in molti modi. Certamente, tra il 1989 e il 1993 alcuni eventi epocali incisero fortemente sul sistema partitico. Si pensi al crollo dell’Unione sovietica, che creò le premesse per lo scio-
La tesi di Lavagna
La fase del proporzionale
La fase del maggioritario
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Capitolo VI
glimento del PCI e la nascita di nuove formazioni politiche e, quindi, per la fine della conventio ad excludendum, ovverosia di quell’accordo tacito tra numerose forze politiche volto ad escludere il PCI da qualunque accordo di coalizione e, dunque, dalla partecipazione attiva al governo del Paese. Si consideri, inoltre, che tra il 1989 e il 1993, non solamente il PCI, ma quasi tutti i partiti politici che fecero la storia dei primi quaranta anni della Repubblica, scomparvero, sia per motivi legati alla storia delle relazioni internazionali, sia a causa delle inchieste giudiziarie contro i fenomeni di corruzione e finanziamento illecito che coinvolsero quasi tutte le forze politiche. Da questi eventi scaturì, tra le altre, la richiesta di un referendum abrogativo sulla legge elettorale proporzionale, considerata una delle cause della corruzione e della decadenza partitica. Il referendum, che si caratterizzò per una grande partecipazione popolare e per la netta vittoria dei voti favorevoli, portò alla riforma della legislazione elettorale delle Camere. La legge elettorale del 1993 prevedeva, sia per la Camera che per il Senato, che 3/4 dei seggi fossero attribuiti in altrettanti collegi uninominali con formula maggioritaria plurality (modello inglese), e che il restante 1/4 dei seggi fosse attribuito con formula proporzionale. Tale legge rappresentò, in sostanza, un compromesso tra i partiti maggiori, che spingevano per un assetto più spiccatamente maggioritario del sistema elettorale, e quelli più piccoli, che ottennero il mantenimento di una quota proporzionale in grado di garantire la loro presenza in Parlamento.
1.6. (segue): dal 2005 alla sent. n. 35/2017 della Corte costituzionale La legge n. 270/2005
Il 2005 ha segnato l’abbandono, per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, del sistema elettorale prevalentemente maggioritario. La legge n. 270/2005, difatti, contemplava un sistema di tipo proporzionale, pur ad effetti maggioritari, grazie alla presenza di un articolato meccanismo di soglie di sbarramento e all’attribuzione di un robusto premio di maggioranza. Più in particolare, per quanto riguarda la Camera, si prevedeva una soglia di sbarramento nazionale pari al 10% per le coalizioni, al 2% per le singole liste collegate alla coalizione e al 4% per le liste non facenti parte di una coalizione. Per quanto concerne il Senato, invece, le soglie previste erano addirittura più alte rispetto alla Camera: il 20% dei voti per la coalizione nel suo complesso; il 3% dei voti per le liste singole coalizzate; l’8% dei voti per le liste non coalizzate. Con riferimento, invece, al premio di maggioranza, la legge n. 270/2005
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stabiliva che venisse attribuito alla coalizione o alla lista che avesse conseguito il maggior numero di voti validi il 55% dei seggi, alla Camera su base nazionale, mentre al Senato su base regionale. Tale previsione, come poi si è concretamente verificato nelle elezioni politiche del 2006, accentuava il rischio (o comunque non lo riduceva) che si formassero delle maggioranze politicamente diverse tra Camera e Senato, dato che in Senato la conquista della maggioranza dei seggi da parte di una coalizione o di una lista dipendeva dalla somma dei premi di maggioranza vinti nelle singole Regioni (v. supra, par. 1.3). Il sistema elettorale contemplato dalla legge n. 270/2005 si caratterizzava, inoltre, per il meccanismo delle c.d. “liste bloccate”, che non consente all’elettore di esprimere una preferenza per il candidato, ma solo per la lista e per la preventiva indicazione del capo della coalizione. Tale ultima previsione ha fatto molto discutere tra i costituzionalisti quanto alla sua legittimità costituzionale. In effetti, laddove si interpretasse l’indicazione del capo della coalizione come vincolante e obbligatoria, si tratterebbe di una previsione manifestamente incostituzionale. Infatti, in base alla nostra Costituzione: 1) spetta al Presidente della Repubblica nominare il Presidente del Consiglio; 2) spetta alla Camera e al Senato esprimere o negare la fiducia nei confronti del Governo nominato dal Capo dello Stato. Quindi, il fatto che una legge elettorale preveda l’obbligo per la coalizione di liste di indicare il capo della coalizione non muta in alcun modo la considerazione che, poiché la forma di governo italiana è parlamentare, è rimessa al Capo dello Stato la nomina del Presidente del Consiglio sulla base delle indicazioni espresse dalla maggioranza dei deputati e dei senatori. A suscitare perplessità sono state, inoltre, le previsioni relative al premio di maggioranza e quelle concernenti l’impossibilità per gli elettori di esprimere il voto preferenza in favore di uno o più candidati. Quanto alla prima, è stata oggetto di critica la scelta operata dal legislatore di non prevedere una soglia minima di voti per l’accesso all’assegnazione del premio di maggioranza. Tale regola, in effetti, implicava la possibilità che il premio venisse attribuito alla coalizione o alla lista che avesse ricevuto, in ipotesi, anche un numero di voti in più molto esiguo rispetto alle liste o alle coalizioni “perdenti”, con la conseguenza di determinare una vistosa distorsione del principio di rappresentatività. Quanto, invece, alla previsione relativa alle “liste bloccate”, il punto di criticità risiedeva, secondo una parte della dottrina, nel fatto che fosse attribuito alla decisione dei singoli partiti sia la scelta sui candidati sia la decisione in merito alla loro collocazione all’interno della lista, così determinando, in modo aprioristico, i possibili vincitori dei seggi.
196 La sent. n. 1/2014 della Corte costituzionale
Capitolo VI
Su tali aspetti è intervenuta la sent. n. 1/2014 della Corte costituzionale, che ha dichiarato incostituzionale sia la previsione relativa al premio di maggioranza, sia quella inerente alle “liste bloccate”. Più in particolare, per quanto riguarda il premio di maggioranza, la Corte ha affermato che la mancata previsione di una soglia minima, oltre che «un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48 Cost.)», determina anche una «illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della “rappresentanza politica nazionale” (art. 67 Cost.)». Detto in altri termini, la previsione di un premio di maggioranza senza una soglia minima di accesso, proseguiva la Corte, «non è proporzionata rispetto all’obiettivo perseguito, posto che determina una compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea, nonché dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente». Per quanto concerne, invece, il sistema delle “liste bloccate”, il Giudice delle leggi ha affermato che tale meccanismo, applicato in circoscrizioni elettorali molto ampie, è da ritenersi in contrasto con la logica della rappresentanza contemplata dalla Costituzione. Difatti, «simili condizioni di voto, che impongono al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori, rendono la disciplina in esame non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali)». In definitiva, dunque, dalla sent. n. 1/2014 sono emersi i seguenti principi: a) il premio di maggioranza deve essere assegnato al raggiungimento di una soglia minima di voti; b) il sistema delle “liste bloccate” non è di per sé illegittimo, ma occorre che le circoscrizioni elettorali siano di dimensioni ridotte e il numero dei candidati da eleggere contenuto, così da garantire la loro conoscibilità agli elettori. A seguito dell’intervento caducatorio della Corte, la normativa di risulta restituiva un sistema elettorale proporzionale, con voto di preferenza e diversificate soglie di sbarramento. Tale modello è stato superato di
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lì a poco con l’entrata in vigore della legge n. 52/2015, la quale, presupponendo il superamento dell’elezione diretta del Senato, prefigurata dal progetto di revisione costituzionale in discussione in quegli anni, si limitava a disciplinare le modalità di elezione per la sola Camera dei deputati. Più in particolare, si prevedeva un sistema elettorale proporzionale, con eventuale doppio turno e soglia di sbarramento al 3% su base nazionale. Rimosse le liste bloccate, restava la possibilità per i capilista di candidarsi in più collegi (fino a 10). All’elettore era consentito esprimere una o due preferenze (in tale caso in favore di due candidati di genere diverso), ma non nei confronti dei capilista, ai quali, dunque, si garantiva una corsia preferenziale di elezione. Si prevedeva, inoltre, l’assegnazione al primo turno di un premio di maggioranza di 340 seggi alla lista (e non alla coalizione) che avesse ottenuto il 40% dei voti validi su base nazionale. Laddove nessuna delle liste in competizione avesse raggiunto, al primo turno, tale consenso, si sarebbe proceduto allo svolgimento di un turno di ballottaggio tra le due liste più votate e all’assegnazione del premio di maggioranza alla lista risultata vincente. Non mancarono, anche in questo caso, le critiche di una parte della dottrina, che riteneva tale disciplina non pienamente in linea con le indicazioni emerse dalla richiamata giurisprudenza costituzionale. E in effetti, con la sent. n. 35/2017, il Giudice delle leggi ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune delle previsioni contenute nella legge n. 52/2015. Se, da un lato, la Corte ha rigettato la questione relativa all’attribuzione del premio di maggioranza al primo turno, precisando che la soglia minima del 40% «non appare in sé manifestamente irragionevole», dall’altro lato, ha accolto le questioni relative alle concrete modalità di disciplina del turno di ballottaggio, all’attribuzione del premio di maggioranza al secondo turno (sulla base delle medesime argomentazioni addotte nella sent. n. 1/2014) e alla facoltà, riconosciuta al capolista eletto in più collegi, di scegliere in maniera del tutto discrezionale il proprio collegio d’elezione. All’esito della pronuncia si configurava, dunque, un sistema di elezione della Camera dei deputati privato del turno di ballottaggio e con una diversa disciplina in ordine alle candidature multiple. Nel frattempo, il 4 dicembre 2016, il referendum respingeva il progetto di revisione costituzionale, determinando, in tal modo, il mantenimento in vita dell’elezione diretta del Senato. Si è venuto così a creare un disallineamento nelle modalità d’elezione delle due Camere: la Camera dei deputati da eleggersi sulla base della legge n. 52/2015, come “corretta” dalla sent. n. 35/2017; il Senato della Repubblica da rinnovarsi sulla base della disciplina risultante dagli approdi raggiunti dal Giudice delle leggi nella sent. n. 1/2014. Risultava, dunque, necessario, un intervento normativo volto a
La legge n. 52/2015
La sent. n. 35/2017 della Corte costituzionale
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Capitolo VI
restituire omogeneità alle modalità di elezione dei due rami del Parlamento.
1.7. La legge elettorale vigente per la Camera e il Senato La legge n. 165/2017
La parità di genere
La risposta all’esigenza di omogeneità della disciplina elettorale è stata data con l’approvazione della legge n. 165/2017. Quest’ultima configura un sistema elettorale misto, in parte maggioritario e in parte proporzionale: il 37% dei seggi viene attribuito in collegi uninominali ai candidati che ottengono il maggior numero di voti; il 61% dei seggi viene attribuito, invece, con metodo proporzionale, in collegi plurinominali di dimensioni ridotte, sulla base dei voti ottenuti dalle singole liste o dalle coalizioni che abbiano superato le soglie di sbarramento; infine, il restante 2% dei seggi viene attribuito sulla base del voto espresso dagli italiani all’estero. Il territorio nazionale è ripartito in 28 circoscrizioni per la Camera dei deputati e 20 (corrispondenti alle Regioni) per il Senato. Le circoscrizioni sono suddivise in collegi uninominali e collegi plurinominali, questi ultimi derivanti dall’unione dei collegi uninominali contigui tra loro. Nei collegi plurinominali resta in piedi il meccanismo delle “liste bloccate”, in linea, però, con gli approdi della giurisprudenza costituzionale in materia. Infatti, si tratta di liste formate da un minimo di due a un massimo di quattro candidati, così da garantire la loro conoscibilità tra gli elettori. È riconosciuta, inoltre, la possibilità di candidature multiple, nel senso che il candidato in un collegio uninominale può essere candidato contestualmente anche in cinque collegi plurinominali. In caso di elezione sia nel collegio uninominale che plurinominale, il seggio riconosciuto sarà quello uninominale. Viceversa, in caso di elezione in più collegi plurinominali, il seggio assegnato sarà quello in cui è stata ottenuta la cifra elettorale più bassa. Per quanto riguarda la formazione delle liste, il sistema tiene in considerazione la necessità di assicurare un’equilibrata rappresentanza di genere. Si prevede, infatti, che, a pena di inammissibilità della lista, nei collegi plurinominali i candidati devono essere collocati secondo il principio dell’alternanza di genere. Si stabilisce, inoltre, che per quanto riguarda il complesso delle candidature presentate nei collegi uninominali a livello nazionale e l’individuazione dei capilista nei collegi plurinominali, occorre rispettare il principio per cui nessuno dei due generi può essere rappresentato oltre la soglia del 60%. Quanto alle concrete modalità di espressione del voto, il sistema non contempla il voto disgiunto e l’elettore dispone di un unico voto: tale
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preferenza varrà tanto per la lista di candidati al collegio plurinominale, quanto per il candidato al collegio uninominale. Non è possibile esprimere un voto di preferenza per il candidato al collegio plurinominale, in quanto il sistema prevede, come anticipato, il meccanismo delle liste bloccate. Quanto, invece, all’attribuzione dei seggi, occorre dar conto delle diverse soglie di sbarramento previste dalla legge n. 165/2017 rispetto ai collegi plurinominali. Sono coinvolte nel riparto dei seggi le liste o le coalizioni di liste che abbiano superato le seguenti soglie: 3% su base nazionale, sia alla Camera che al Senato, per le singole liste; 10% su base nazionale, sia alla Camera che al Senato, per le coalizioni. All’interno della coalizione che abbia raggiunto la soglia di sbarramento (10%), partecipano alla ripartizione dei seggi solo le liste che abbiano traguardato il 3%. Rispetto alle liste che non raggiungano tale soglia, si stabilisce che, superato l’1% su base nazionale, pur non partecipando alla distribuzione dei seggi, i voti da esse conseguiti vengono attribuiti alla coalizione di riferimento. Viceversa, laddove non si varchi la soglia dell’1%, i voti conseguiti da tale lista sono da intendersi perduti. Sono previste, inoltre, due ulteriori soglie di sbarramento su base regionale: il 20% dei voti espressi al Senato per le singole liste e il 20% dei voti per le liste rappresentative delle minoranze linguistiche nelle Regioni a statuto speciale. Resta da segnalare, infine, l’intervento della legge n. 51/2019, che ha garantito l’applicabilità del sistema elettorale vigente indipendentemente dal numero dei Parlamentari, e del d.lgs. n. 177/2020, con il quale sono stati ridisegnati i collegi elettorali uninominali e plurinominali per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
Disciplina elettorale e riduzione del numero dei Parlamentari
1.8. Le cause di ineleggibilità, incompatibilità e incandidabilità L’art. 65 Cost. affida alla legge la determinazione dei casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di deputato e senatore. Le cause di ineleggibilità determinano l’invalidità dell’elezione a seguito di un accertamento che viene effettuato successivamente rispetto alla tornata elettorale. Si tratta di misure volte ad evitare che la posizione ricoperta da un candidato possa porlo in una situazione di vantaggio rispetto ad altri candidati o, soprattutto, possa influenzare la libertà di scelta degli elettori. Trattandosi di misure limitative dell’esercizio del diritto di elettorato passivo, queste devono essere interpretate restrittivamente e devono essere contenute entro i limiti di quanto sia ragionevolmente indispensabile per garantire la soddisfazione delle esigenze di pubblico interesse cui sono preordinate. Difatti, come ha ribadito la Corte costitu-
Le cause di ineleggibilità
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Le cause di incompatibilità
Capitolo VI
zionale, «per l’art. 51 Cost., l’eleggibilità è la regola, l’ineleggibilità l’eccezione» (sent. n. 46/1969). Ciò, dunque, impone che i casi di ineleggibilità siano «tipizzati dalla legge con determinatezza e precisione sufficienti ad evitare, quanto più possibile, situazioni di persistente incertezza, troppo frequenti contestazioni, soluzioni giurisprudenziali contraddittorie, che finirebbero per incrinare gravemente, in fatto, la proclamata pari capacità elettorale passiva dei cittadini» (sent. n. 166/1972). Le cause di ineleggibilità a livello parlamentare sono fissate dal d.p.r. n. 361/1957 e riguardano: i Presidenti delle Giunte provinciali; i Sindaci dei Comuni con popolazione superiore ai 20.000 abitanti; il capo e vice capo della polizia e gli ispettori generali di pubblica sicurezza; i capi di Gabinetto dei Ministri; i prefetti, i viceprefetti e i funzionari di pubblica sicurezza; gli ufficiali generali, gli ammiragli e gli ufficiali superiori delle forze armate dello Stato, nella circoscrizione del loro comando territoriali. Sono, inoltre, ineleggibili: i diplomatici, i consoli, i vice-consoli ed in generale gli ufficiali «addetti alle ambasciate, legazioni e consolati esteri, tanto residenti in Italia quanto all’estero». Risultano, infine, ineleggibili, sempre ai sensi del medesimo provvedimento, i soggetti aventi particolari rapporti economici con lo Stato, come i concessionari di pubblici servizi, i titolari di società sovvenzionate dallo Stato, etc. All’elenco richiamato si aggiungono le ineleggibilità riferite a coloro rispetto ai quali sia stata accertata la «violazione delle norme che disciplinano la campagna elettorale», ai sensi dell’art. 15, co. 7, della legge n. 515/1993, ai Giudici della Corte costituzionale e ai direttori generali delle Aziende sanitarie. Di recente, con l’art. 15 della legge n. 71/2022 sono stati nuovamente disciplinati i casi di ineleggibilità dei magistrati. Si è previsto, in particolare, che non sono eleggibili alla carica di senatore e deputato i magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari «se prestano servizio, o lo hanno prestato nei tre anni precedenti la data di accettazione della candidatura, presso sedi o uffici giudiziari con competenza ricadente, in tutto o in parte, nella Regione nella quale è compresa la circoscrizione elettorale». La causa di ineleggibilità non è prevista, invece, per i «magistrati in servizio da almeno tre anni presso le giurisdizioni superiori o presso uffici giudiziari con competenza territoriale a carattere nazionale». Le cause di incompatibilità, invece, sono volte ad escludere che un soggetto possa contestualmente svolgere cariche ritenute tra loro inconciliabili. Tali cause possono essere rimosse mediante la scelta dell’esercizio di una tra le cariche incompatibili tra loro. Occorre soffermarsi, anzitutto, sulle situazioni di incompatibilità previste direttamente dalla Costituzione. Risultano incompatibili: a) la carica di deputato e senatore (art. 65, co. 2, Cost.); b) la carica di parlamentare e Presidente della Repub-
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blica (art. 84, co. 2, Cost.); c) la carica di parlamentare e di membro del CSM (art. 104, co. 7, Cost.); d) la carica di parlamentare e di consigliere regionale (art. 122, co. 2, Cost.); e) la carica di parlamentare e di giudice della Corte costituzionale (art. 135, co. 6, Cost.). Vi sono poi delle cause di incompatibilità che sono previste nella legislazione ordinaria e, in particolare, nella legge n. 60/1953. Ad esempio, l’art. 1 di tale provvedimento stabilisce che i membri del Parlamento non possono ricoprire cariche o uffici di qualsiasi specie in enti pubblici o provati, per nomina o designazione del Governo o di organi dell’Amministrazione dello Stato. I parlamentari, inoltre, ai sensi dell’art. 2, non possono ricoprire cariche, né esercitare funzioni di «amministratore, presidente, liquidatore, sindaco revisore direttore generale o centrale, consulente legale o amministrativo con prestazioni di carattere permanente, in associazioni o enti che gestiscano servizi di qualunque genere per conto dello Stato o della pubblica Amministrazione, o ai quali lo Stato contribuisca in via ordinaria, direttamente o indirettamente». Infine, risulta incompatibile con il ruolo di Parlamentare anche lo svolgimento di cariche in istituti bancari o in società per azioni che abbiano, come scopo prevalente, l’esercizio di attività finanziarie (art. 3), così come lo svolgimento di ruoli di «assistenza o consulenza ad imprese di carattere finanziario od economico in loro vertenze o rapporti di affari con lo Stato» (art. 4). È importante segnalare, infine, che, con la sent. n. 277/2011, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni richiamate, nella parte in cui non prevedevano l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco di Comune con una popolazione superiore ai 20.000 abitanti. Di lì a poco, poi, l’art. 13, co. 3, del d.l. n. 138/2011, ha abbassato ulteriormente tale soglia, prevedendo l’incompatibilità tra il ruolo di parlamentare e quello di sindaco in un Comune con popolazione superiore a 15.000 abitanti. L’art. 66 Cost. attribuisce alle Camere il compito di giudicare «dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità». L’attività di verifica dei poteri è affidata, in prima battuta, alla Giunta delle elezioni, chiamata ad elaborare una proposta da sottoporre all’Assemblea, che, a maggioranza, decide in via definitiva. Occorre precisare che, contro la decisione assunta dall’Assemblea, non è ammesso ricorso giurisdizionale. Si tratta, evidentemente, di una previsione posta a garanzia dell’indipendenza del Parlamento, la cui applicazione nel nostro ordinamento ha dato adito a non poche polemiche, in ragione del rischio di abuso sotteso alla natura esclusiva di una prerogativa siffatta. Si tenga conto, a tal proposito, del fatto che, in altri ordinamenti, come la Germania, si prevede che, contro la decisione della Camera, l’interessato possa ricorrere alla Corte costituzionale.
La verifica dei poteri
202 Le cause di incandidabilità
Capitolo VI
Restano da esaminare le cause di incandidabilità, che trovano la loro disciplina organica nel d.lgs. n. 235/2012. La normativa prevede che non possano essere candidati e non possano comunque ricoprire la carica di deputato o senatore: a) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti dall’art. 51, co. 3-bis e 3-quater, c.p.p. (reati di stampo mafioso, con finalità di terrorismo, etc.) o nel libro II, titolo II, capo I, del codice penale (delitti contro la pubblica amministrazione: es. concussione, corruzione, peculato, etc.); b) coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione, per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni. Laddove sia rilevata una delle cause di incandidabilità, in sede di presentazione delle liste, la candidatura viene dichiarata inammissibile. La causa di incandidabilità può anche sopravvenire nel periodo che intercorre tra la consultazione elettorale e la proclamazione degli eletti o anche nel corso del mandato elettivo. Nel primo caso, sarà cura dell’Ufficio centrale circoscrizionale, nel caso della Camera o dell’Ufficio elettorale regionale, per il Senato, dichiarare la mancata proclamazione del soggetto interessato. Nel secondo caso, invece, come è avvenuto all’on. Silvio Berlusconi nel 2013, l’eletto divenuto incandidabile verrà dichiarato decaduto dalla Camera di appartenenza, ai sensi dell’art. 66 Cost. È in parte diversa, invece, la disciplina stabilita per il livello locale e regionale. In questo caso, infatti, è prevista la sospensione dalla carica ex lege anche laddove il candidato non sia stato condannato con sentenza definitiva. Nonostante le critiche di una parte della dottrina, tali misure hanno trovato piena copertura nella giurisprudenza costituzionale, laddove si afferma in modo netto che ben può «il legislatore, nel disciplinare i requisiti per l’accesso e il mantenimento delle cariche che comportano l’esercizio di quelle funzioni, ricercare un bilanciamento tra gli interessi in gioco, ossia tra il diritto di elettorato passivo, da un lato, e il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, dall’altro» (sent. n. 236/2015). Indirizzo successivamente ribadito, con riferimento alle cariche regionali, dalla sent. n. 276/2016, che ha altresì escluso l’irragionevolezza del diverso trattamento previsto per i parlamentari. Occorre segnalare, da ultimo, che nel 2022 si è tenuto un referendum volto, tra le altre cose, all’abrogazione integrale del d.lgs. n. 235/2012. La scarsa affluenza alle urne, di poco superiore al 20% degli aventi diritto, ha decretato l’invalidità della consultazione referendaria per mancanza del raggiungimento del quorum.
L’ordinamento repubblicano: gli organi costituzionali
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1.9. La durata delle Camere e la prorogatio dei poteri La Camera dei deputati e il Senato della Repubblica sono eletti per cinque anni (art. 60 Cost.). Nella versione originaria del testo costituzionale la durata del Senato era di sei anni. Nelle prime legislature, tuttavia, il Capo dello Stato procedette comunque allo scioglimento simultaneo di entrambe le Camere per ridurre il rischio di una composizione politica disomogenea delle due Assemblee fino a quando, sul finire della terza legislatura, si procedette definitivamente, con la legge cost. n. 2/1963, a stabilire una durata eguale per le due assemblee. La durata quinquennale delle Camere può ridursi laddove il Presidente della Repubblica ne decreti lo scioglimento anticipato, sempre che ne ricorrano i presupposti costituzionali (v. infra, par. 3.7). È bene precisare che lo scioglimento delle Camere è, dal punto di vista formale, sempre decretato dal Capo dello Stato, anche quando maturi alla scadenza naturale della legislatura. Le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti e la prima riunione ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni (art. 61 Cost.). Per quanto concerne l’intervallo temporale che inizia con lo scioglimento delle Camere e termina con l’insediamento delle Camere neoelette, la Costituzione stabilisce, da un lato, il divieto di proroga della durata delle Camere se non in caso di guerra e soltanto per legge (art. 60, co. 2, Cost.) e, dall’altro lato, che medio tempore sono prorogati i poteri delle Camere sciolte (art. 61 Cost.). La distinzione tra proroga dell’organo e prorogatio dei poteri è di fondamentale importanza, perché un organo la cui durata fosse prorogata potrebbe esercitare a pieno titolo tutte le attribuzioni allo stesso conferite, senza forma alcuna di limitazione. Al contrario, con la prorogatio dei poteri, si ritiene che l’organo possa adottare solamente gli atti di ordinaria amministrazione e quelli indifferibili e urgenti. Quindi, le Camere in regime di prorogatio non potrebbero, ad esempio, approvare leggi espressione dell’indirizzo politico di maggioranza oppure, certamente nel caso in cui fossero state sciolte anticipatamente, approvare una mozione di sfiducia nei confronti del Governo. Si consideri peraltro che, per fugare ogni dubbio, alcune disposizioni costituzionali prevedono espressamente che le Camere sciolte possano adottare taluni atti, come la conversione dei decreti-legge (art. 77, co. 2, Cost.) o, viceversa, non adottarli, come l’elezione del Presidente della Repubblica (art. 85, co. 3, Cost.). La prorogatio dei poteri delle Assemblee parlamentari è un corollario del principio di continuità dell’ordinamento costituzionale e, dunque, della necessità che un organo costituzionale quale il Parlamento, per sua
La durata delle Camere
La prorogatio delle Camere
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Capitolo VI
natura indefettibile, non cessi mai di funzionare completamente e possa così esercitare eventuali poteri di controllo e azione.
1.10. I quorum di validità delle sedute e delle deliberazioni delle Camere e i principi di funzionamento dell’attività parlamentare
Il quorum costitutivo
Il quorum deliberativo
La Costituzione prevede un doppio requisito per la validità dei lavori parlamentari. In primo luogo, le deliberazioni di ciascuna Camera non sono valide se non è presente la maggioranza dei loro componenti (art. 64, co. 3, Cost.). Si tratta del c.d. quorum costitutivo (o numero legale), ovverosia del numero minimo di parlamentari necessari per rendere valida la seduta di ciascuna assemblea. Di conseguenza, una seduta dell’Assemblea non potrebbe svolgersi, o se cominciata, dovrebbe essere sospesa dal proprio Presidente per mancanza del numero legale. Si tenga presente, peraltro, che l’espressione «maggioranza dei loro componenti» è stata interpretata “a maglie larghe”, cosicché: a) il quorum costitutivo si presume, per cui se non viene richiesta la verifica del numero legale (da venti deputati alla Camera e da sette senatori al Senato) i lavori si possono svolgere regolarmente; b) ai fini del calcolo del numero legale sono considerati presenti i parlamentari fuorisede, impegnati per incarico avuto dalla Camera stessa o in quanto membri del Governo assenti per ragioni d’ufficio (art. 46, co. 2, Reg. Camera e art. 108, co. 2, Reg. Senato). In secondo luogo, le deliberazioni di ciascuna Camera non sono valide se non sono adottate a maggioranza dei presenti (art. 64, co. 3, Cost.). È il c.d. quorum deliberativo, ovverosia il numero minimo di parlamentari che deve votare a favore di una delibera affinché la stessa sia validamente approvata. Come regola generale, pertanto, la Costituzione richiede, per la validità delle delibere, la maggioranza dei presenti (c.d. maggioranza semplice o relativa), salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale. La maggioranza speciale può essere di due tipi: a) maggioranza assoluta: si ha quando è richiesta, per la valida approvazione di una delibera parlamentare, il voto favorevole della metà più uno degli aventi diritto al voto. Ad esempio, l’art. 83 Cost. richiede, a partire dalla quarta votazione, la maggioranza assoluta per l’elezione del Capo dello Stato; b) maggioranza qualificata: si ha quando è richiesta, per la valida approvazione di una delibera parlamentare, una maggioranza superiore a quella assoluta. Ad esempio, ai sensi dell’art. 79 Cost., la legge avente ad oggetto l’amnistia e l’indulto deve essere deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti ciascuna Camera, in ogni suo articolo e nella votazione finale.
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È importante sottolineare che se la Costituzione non richiede, per la valida approvazione di una determinata delibera, una maggioranza speciale, deve reputarsi sufficiente la sola maggioranza relativa (si pensi, ad es., all’art. 94 Cost. che non richiede una maggioranza speciale per l’approvazione della mozione di fiducia al Governo). Per quanto concerne il calcolo del quorum ai fini della validità delle delibere delle due Camere, rileva la questione del computo degli astenuti. Il regolamento del Senato considerava gli astenuti come presenti non solo per la validità della seduta, ma anche ai fini della deliberazione, poiché ritenuti partecipanti comunque al voto. Diversamente, l’art. 46, co. 3, del Regolamento della Camera considera i deputati che hanno dichiarato di astenersi come presenti solamente per la constatazione del numero legale. Tale discrasia interpretativa dell’art. 64 Cost. è venuta meno in seguito alla riforma del regolamento del Senato del 27 luglio 2022; ne segue che oggi, anche per i senatori, si applica la regola secondo cui se essi dichiarano di astenersi dal voto sono considerati presenti ai soli fini del calcolo del quorum costitutivo, mentre per essere considerati tali ai fini del quorum deliberativo devono sempre esprimere voto favorevole o contrario (art. 108 Reg. Senato). Per quanto concerne l’organizzazione dei lavori delle Camere, si consideri, in primo luogo, che oltre alle riunioni periodiche fissate sulla base del calendario dei lavori parlamentari, l’art. 62 Cost. prevede: a) la convocazione automatica di entrambi i rami del Parlamento il primo giorno non festivo di febbraio e di ottobre (questa seconda data fu pensata in relazione alle scadenze della legge di bilancio); b) l’autoconvocazione straordinaria di ciascuna Camera, in funzione di garanzia delle minoranze, per iniziativa dei rispettivi Presidenti, del Presidente della Repubblica o di un terzo dei componenti. Considerata l’eccezionalità dell’evento, quando si riunisce in via straordinaria una Camera, è convocata di diritto anche l’altra (art. 62 Cost.). Le sedute delle Camere sono pubbliche, ma possono deliberare, eccezionalmente, di riunirsi in seduta segreta (art. 64, co. 2, Cost.). Il principio di pubblicità dei lavori parlamentari, che fu approvato in Assemblea costituente senza discussione, è un corollario del principio democratico. La Costituzione si esprime sulle modalità di esercizio del voto alle Camere solamente per quanto concerne le mozioni di fiducia e sfiducia nei confronti del Governo richiedendo il voto per appello nominale e, dunque, palese. Per il resto, è rimessa ai regolamenti parlamentari la disciplina del voto, oggi caratterizzata, a differenza del passato, dal principio del voto palese (art. 49 Reg. Camera e art. 113 Reg. Senato). Sono effettuate a scrutinio segreto le votazioni riguardanti le persone e, quando ne facciano richiesta una minoranza di parlamentari, le votazioni sulle
Gli astenuti
La convocazione delle Camere
La pubblicità delle sedute
Voto palese e voto segreto
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Autodichia e autonomia finanziaria
Capitolo VI
delibere che incidono sui diritti di libertà e le votazioni sulle modifiche regolamentari. Solamente alla Camera si può chiedere il voto segreto anche per le votazioni sull’istituzione delle commissioni di inchiesta e sulle leggi ordinarie relative agli organi costituzionali dello Stato e agli organi delle Regioni, nonché sulle leggi elettorali (art. 49, co. 1, Reg. Camera). Sono riconducibili al principio di autonomia del Parlamento, tra gli altri, due tradizionali istituti del parlamentarismo italiano, ovverosia: 1) l’autodichia (o giurisdizione domestica), per cui le Camere giudicano sulle controversie relative ai propri dipendenti; 2) l’autonomia finanziaria e contabile delle Camere.
1.11. I Presidenti della Camera e del Senato
Le funzioni dei Presidenti di Assemblea
L’elezione dei Presidenti di Assemblea
Come è tipico degli organi collegiali caratterizzati da un certo grado di complessità, anche la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica sono dotati di una articolata organizzazione interna. Innanzitutto, tra i primi adempimenti di inizio legislatura, ciascuna Camera elegge fra i suoi componenti il Presidente e l’Ufficio di presidenza (art. 63 Cost.). I Presidenti di Camera e Senato esercitano funzioni particolarmente delicate in quanto, oltre a rappresentare all’esterno le rispettive Assemblee, sono chiamati a sovraintendere i lavori parlamentari in modo tale da garantire la regolarità e il buon andamento delle attività oltre al corretto svolgimento del confronto dialettico tra la maggioranza di governo e le forze politiche di opposizione. I Presidenti di Assemblea, più in particolare: a) assicurano il rispetto dei Regolamenti; b) nell’ambito delle procedure parlamentari danno la parola, dirigono e moderano la discussione, stabiliscono l’ordine delle votazioni, chiariscono il significato del voto e ne annunziano il risultato; c) convocano la Conferenza dei presidenti dei gruppi parlamentari; d) convocano l’Ufficio di Presidenza – che coadiuva il Presidente nelle varie attività ed è composto da parlamentari eletti in modo da garantire la presenza delle minoranze – e ne fissano l’ordine del giorno. Per l’elezione del Presidente della Camera dei deputati, che si svolge a scrutinio segreto, è richiesta la maggioranza dei due terzi dei componenti la Camera. In caso di mancata elezione al primo turno, per il secondo e terzo scrutinio è richiesta la maggioranza dei due terzi dei voti, computando tra i voti anche le schede bianche; a partire dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta dei voti (art. 4 Reg. Camera). Il regolamento del Senato prevede, per l’elezione del suo Presidente, anch’essa a scrutinio segreto, la maggioranza assoluta dei componenti. Se tale quorum non viene raggiunto si richiede, anche al secondo turno,
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la maggioranza assoluta dei componenti e, nella terza votazione, la maggioranza assoluta dei presenti. In caso di mancata elezione al terzo turno, si svolge il ballottaggio fra i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti e viene proclamato eletto colui che consegue la maggioranza, anche se relativa (art. 4 Reg. Senato). I quorum elevati richiesti per l’elezione e volti a indurre maggioranza e minoranze a trovare l’accordo su un candidato condiviso, avvalorano la qualificazione dei Presidenti come organi di garanzia, in primis per le minoranze. Effettivamente, nel corso del tempo si era consolidata la prassi per cui i due Presidenti di Camera e Senato erano indicati, rispettivamente, uno dalla maggioranza e uno dall’opposizione, per poi essere votati da tutti i parlamentari. La destrutturazione del sistema partitico e l’entrata in vigore delle leggi elettorali maggioritarie nei primi anni ’90, tuttavia, hanno comportato il dissolversi di tale convenzione e ad oggi non è ancora dato registrare l’assestarsi di una nuova prassi. Nelle ultime legislature, di conseguenza, la ricerca di possibili intese trasversali tra le forze politiche non ha avuto esito quasi mai positivo, così da comportare l’elezione di Presidenti scelti e votati dalla sola maggioranza parlamentare, comportando il rischio di una perdita di legittimazione della posizione super partes Presidenti di Assemblea.
1.12. I gruppi parlamentari, le commissioni e le giunte I gruppi parlamentari possono essere definiti come la proiezione, nelle Camere, dei partiti e movimenti politici che prendono parte alle competizioni elettorali. Si tratta di soggetti associativi, rispettivamente, di deputati e senatori, necessari per il funzionamento della Camera e del Senato. Subito dopo la prima seduta, i deputati (entro due giorni) e i senatori (entro tre giorni) devono iscriversi a un gruppo parlamentare in modo da consentire lo svolgimento di tutti i successivi adempimenti e attività parlamentari. Infatti: a) vi sono specifiche disposizioni costituzionali che fanno riferimento alla loro consistenza per costituire, in modo proporzionale, alcuni organi interni delle Camere, quali le commissioni permanenti (art. 72, co. 3, Cost.) e le commissioni di inchiesta (art. 82 Cost.); b) i regolamenti parlamentari prendono in considerazione i gruppi, al cui interno eleggono un loro Presidente, per definire il programma e il calendario dei lavori delle Camere, indicare i propri rappresentanti nelle varie commissioni e giunte, ripartire il tempo disponibile per la discussione degli argomenti iscritti nel calendario dei lavori, presentare interpellanze urgenti al Governo, etc. Ancora, si consideri che il Presidente della Repubblica, durante le consultazioni, convoca i rappresentanti dei gruppi
I gruppi parlamentari
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Capitolo VI
parlamentari per verificare la presenza, nelle Camere, di una maggioranza disponibile a votare la fiducia al Governo. In questi termini, è possibile affermare che i gruppi parlamentari sono un fondamentale punto di snodo del circuito democratico-rappresentativo: i partiti concorrono a determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.) attraverso i propri eletti in Parlamento che, nel dar vita a gruppi parlamentari tendenzialmente corrispondenti alle stesse formazioni politiche di provenienza, sono chiamati a trasferire nelle Aule parlamentari programmi, proposte, esigenze e punti di vista. Grazie ai gruppi, inoltre, è possibile mantenere l’unità politica e programmatica dei parlamentari iscritti e, dunque, elaborare strategie e modalità di azione comuni nell’ambito delle diverse attività parlamentari che si svolgono nelle commissioni e in aula. Da quanto detto si può comprendere come, nel corso del tempo, le norme dei regolamenti parlamentari che disciplinano la costituzione dei gruppi e la possibilità, per deputati e senatori, di cambiare gruppo di appartenenza nel corso della legislatura, siano state via via modificate al fine di garantire una maggiore stabilità dei gruppi e il contenimento del c.d. transfughismo parlamentare. Tali esigenze, invero, non possono irrigidire eccessivamente la mobilità dei parlamentari, ma devono essere bilanciate con il principio del libero mandato e, dunque, con la funzione di rappresentanza nazionale che deputati e senatori sono chiamati ad assolvere e che può entrare in conflitto con la disciplina di partito (art. 67 Cost.). Il regolamento della Camera richiede almeno venti deputati per costituire un gruppo parlamentare, anche se l’Ufficio di Presidenza può autorizzare la costituzione di un gruppo più piccolo purché rappresenti, in base a una serie di requisiti, un partito organizzato nel Paese (art. 14 Reg. Camera). Se un deputato non è in grado di costituire con altri un gruppo autonomo e non intende iscriversi a quelli costituiti confluisce automaticamente nel gruppo misto, al cui interno è possibile dar vita ad ulteriori componenti politiche dotate di alcune, limitate, prerogative. Non sono previste limitazioni al cambio di gruppo dei deputati nel corso della legislatura. Il regolamento del Senato, in seguito alle modifiche introdotte nel 2022, prevede vincoli più stringenti sia rispetto alle modalità di costituzione dei gruppi, sia rispetto ai cambi di gruppo dei senatori. Ciascun gruppo, infatti, non solo deve essere composto da almeno sei senatori, ma deve altresì rappresentare un partito o movimento politico, anche risultante dall’aggregazione di più partiti o movimenti politici, che abbia presentato alle ultime elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno, conseguendo l’elezione di almeno un senatore» (art. 14, co. 4, Reg. Senato e ivi per ulteriori precisazioni). Anche per i senatori, come per i deputati, vale la regola per cui, in caso di mancata iscrizione a un gruppo, sono iscritti automaticamente al gruppo misto. Tuttavia, men-
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tre i deputati devono necessariamente essere iscritti a un gruppo parlamentare, per i senatori sono previste delle eccezioni. Più in particolare: a) i senatori a vita possono decidere di non entrare a far parte di alcun gruppo; b) quale deterrente volto a limitare cambi di gruppo non giustificati da ragioni strettamente politiche, sono considerati non iscritti ad alcun gruppo i senatori che si dimettono dal gruppo di appartenenza, compreso il gruppo misto, o ne vengono espulsi, salvo che entro il termine di tre giorni aderiscano ad un altro gruppo già costituito, ad eccezione del gruppo misto (v., anche per le ulteriori eccezioni ivi stabilite, l’art. 14, co. 1, Reg. Senato); c) i senatori che entrano in un altro gruppo decadono dagli incarichi di componente del consiglio di presidenza (art. 13, co. 1bis, Reg. Senato) e dell’ufficio di presidenza delle commissioni permanenti (art. 27, co. 3-bis, Reg. Senato), di membro della giunta per il regolamento (art. 18, co. 1, Reg. Senato) e della giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari (art. 19, co. 1, Reg. Senato). L’art. 72 Cost. attribuisce alle commissioni parlamentari permanenti un ruolo fondamentale nell’iter legislativo (v. supra, Cap. IV, par. 5) e sancisce il principio per cui esse devono essere composte in modo da rispettare la proporzione dei gruppi parlamentari. I regolamenti di Camera e Senato stabiliscono che i gruppi designano i propri rappresentanti nelle singole commissioni sulla base di una serie di vincoli numerici, di rotazione e di incompatibilità. Ogni commissione elegge un proprio ufficio di presidenza, composto da un presidente e da un certo numero di vicepresidenti e segretari. Le commissioni sono rinnovate dopo ogni biennio, anche se i componenti possono essere riconfermati (artt. 19, 20 Reg. Camera e art. 21 Reg. Senato). Le quattordici commissioni permanenti della Camera e le dieci del Senato hanno competenze in ambiti materiali tendenzialmente corrispondenti ai vari dicasteri ministeriali per cui, ad es., al Senato la prima commissione si occupa degli affari costituzionali, di quelli interni e della pubblica amministrazione, la seconda della giustizia e la terza degli affari esteri e difesa; alla Camera, la sesta commissione si occupa delle finanze, la settima di cultura, scienza e istruzione e l’ottava di ambiente, territorio e lavori pubblici. La principale funzione delle commissioni permanenti, come più sopra si accennava, è di consentire una adeguata organizzazione dei lavori parlamentari, riservando alle decisioni dell’Assemblea in seduta plenaria la discussione e la votazione di deliberazioni già istruite dalle commissioni. Inoltre, le commissioni permanenti svolgono non meno importanti attività consultive, di indirizzo, controllo e ispezione. I regolamenti parlamentari prevedono, inoltre, diverse e ulteriori commissioni alle quali sono attribuiti compiti specifici. Tra queste, si possono ricordare: a) la giunta per il regolamento, cui spetta l’iniziativa e l’esame
Le commissioni permanenti
Le giunte e gli altri organi interni
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Capitolo VI
di ogni proposta di modificazione del Regolamento e il parere sulle questioni di interpretazione del regolamento ad essa sottoposte; b) le giunte che si occupano delle elezioni e delle immunità parlamentari, distinte alla Camera e riunite in un unico organismo al Senato; c) il comitato per la legislazione, che esprime un parere sui disegni di legge per quanto riguarda la c.d. valutazione d’impatto e la qualità dei testi relativamente alla loro omogeneità, semplicità, chiarezza e proprietà della formulazione (art. 20-bis Reg. Senato, ma v. anche art. 16-bis Reg. Camera).
1.13. Lo status di parlamentare Sono riconducibili allo status di parlamentare: 1) il divieto di mandato imperativo; 2) le immunità; 3) l’indennità; 4) la verifica dei poteri (sulla quale v. supra, par. 1.8).
1.13.1. Il divieto di mandato imperativo
Il principio della rappresentanza politica
Il libero mandato parlamentare
L’art. 67 Cost. si compone di due disposizioni strettamente connesse fra loro. La prima, secondo la quale «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione», sancisce il principio della rappresentanza politica, in forza del quale i parlamentari non rappresentano solamente i propri elettori, ma più in generale la comunità nel suo complesso, in forza di un mandato di natura “politica”, non assimilabile al rapporto di mandato tipico del diritto privato. Quindi, in caso di divergenza tra l’operato del rappresentante e la volontà dei rappresentati, questi ultimi non potranno far valere una responsabilità di tipo giuridico (consistente, ad esempio, nella revocazione anzitempo del mandato per violazione delle indicazioni impartite), bensì soltanto una di tipo politico consistente, ad esempio, nella non rielezione dei medesimi parlamentari da parte del corpo elettorale. Ciò detto, si comprende quanto sia strettamente connessa alla rappresentanza della Nazione la seconda disposizione sancita nell’art. 67 Cost., a mente della quale ciascun parlamentare «esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Il divieto di mandato imperativo affonda le sue radici storiche nella Rivoluzione francese. La visione giacobina di matrice roussoviana, per cui la sovranità del popolo (c.d. “volontà generale”) non può essere rappresentata (“o è essa stessa o è un’altra; una via di mezzo non esiste”), ragion per cui i rappresentanti devono essere vincolati dal mandato imperativo conferito dai rappresentati, è risultata soccombente rispetto alla teoria del gouvernement représentatif e del divieto di mandato imperativo. Stabiliva l’art. 7, sez. III, della Costituzione francese del
L’ordinamento repubblicano: gli organi costituzionali
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1791, infatti, che «I rappresentanti nominati nei dipartimenti non saranno rappresentanti di un dipartimento particolare, ma dell’intera nazione, e non potrà esser dato loro alcun mandato». Il divieto di mandato imperativo, recepito poi dalle Costituzioni liberali (es. art. 41, co. 2, Stat. Alb.), è giunto fino alle Costituzioni delle democrazie pluraliste, inclusa la Carta del ’48. Il parlamentare eletto, quindi, non soltanto rappresenta gli interessi generali della Nazione, ma è altresì libero da vincoli “esterni” nell’assunzione delle sue decisioni politiche, siano essi i suoi elettori o il partito politico a cui appartiene (Corte cost., sent. n. 14/1964). Gli eventuali negozi giuridici aventi ad oggetto vincoli di mandato, pertanto, sarebbero nulli per contrarietà a norme imperative ex art. 1418 c.c. o, secondo altra interpretazione, sarebbero qualificabili alla stregua di “obbligazioni naturali” ex art. 2034 c.c., quindi irrilevanti sul piano giuridico in quanto sprovvisti di garanzie giuridiche e di azionabilità in giudizio.
1.13.2. Le immunità parlamentari In Assemblea costituente si ritenne opportuno introdurre l’immunità parlamentare per impedire che un atto dell’autorità giudiziaria o di polizia potesse essere ispirato – come evidenziò il costituente Giovanni Leone nel corso del dibattito – da una valutazione o da un orientamento politico, così da rendere impossibile ad un deputato la libera esplicazione del suo mandato parlamentare. Con l’immunità ci si prefiggeva, pertanto, non di attribuire un privilegio ai parlamentari, ma di proteggere l’autonomia e l’indipendenza del Parlamento in ossequio al principio di separazione dei poteri. L’art. 68 Cost. prevede due forme di immunità: la c.d. immunità sostanziale (co. 1) e la c.d. immunità processuale (co. 2 e 3). Quanto al primo tipo di immunità, l’art. 68, co. 1, Cost., stabilisce che «i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni». È un’immunità che copre due attività tipiche della funzione parlamentare, il cui svolgimento non può implicare alcuna forma di responsabilità giuridica (penale, civile, contabile e amministrativa), per cui neppure al termine del mandato il parlamentare può essere chiamato a risponderne. Ha suscitato forti divergenze interpretative tra autorità giudiziaria e Parlamento la questione relativa all’esatta individuazione del confine entro il quale si possa ritenere che il parlamentare eserciti le proprie funzioni. Difatti, mentre è indubbio che le dichiarazioni del parlamentare espresse nel corso dello svolgimento delle sue attività all’interno degli organi parlamentari, anche se, ad es., di contenuto astrattamente diffamatorio, sono coperte da immunità (c.d. dichiarazioni intra moenia), più
Le immunità parlamentari
L’immunità sostanziale
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L’immunità processuale
Capitolo VI
difficile è capire quando le dichiarazioni rese fuori dal Parlamento possano ricondursi all’esercizio delle proprie funzioni (c.d. dichiarazioni extra moenia). In seguito ai numerosi conflitti di attribuzione sollevati dall’autorità giudiziaria contro le delibere di Camera e Senato che offrivano una interpretazione particolarmente estensiva dell’art. 68, co. 1, Cost., la Corte costituzionale ha chiarito che le dichiarazioni extra moenia possono considerarsi coperte da immunità sostanziale solamente laddove sussista un nesso funzionale con le funzioni del parlamentare medesimo. Detto in altri termini, per esservi nesso funzionale deve potersi ravvisare un collegamento logico-concettuale fra le opinioni espresse dal parlamentare e l’attività politico-istituzionale svolta all’interno delle Camere. Dovrà, quindi, valutarsi in concreto il legame esistente fra le dichiarazioni extra moenia del parlamentare e l’attività che quest’ultimo ha esercitato nel corso della sua attività di parlamentare (v. la sent. n. 120/2004). La legge n. 140/2003, che ha dato attuazione all’art. 68 Cost., ha stabilito che è in ogni caso configurabile l’immunità «per la presentazione di disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni e risoluzioni, per le interpellanze e le interrogazioni, per gli interventi nelle Assemblee e negli altri organi delle Camere, per qualsiasi espressione di voto comunque formulata, per ogni altro atto parlamentare, per ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento». È bene precisare, peraltro, che tale tipizzazione non può precludere la verifica, di volta in volta, della sussistenza del nesso funzionale per le attività svolte extra moenia. Spetta alle giunte parlamentari di Camera e Senato pronunciarsi, su richiesta dell’autorità giudiziaria, sulla insindacabilità delle opinioni in conseguenza delle quali sia stato avviato un procedimento giurisdizionale, sempre che il giudice non ritenga di procedere de plano all’archiviazione del procedimento (art. 3, legge n. 140/2003). Se la Camera di appartenenza del parlamentare ritiene che le dichiarazioni per le quali si procede sono insindacabili, il giudice può sempre sollevare davanti alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato laddove ritenga la delibera incompatibile con l’art. 68 Cost. Per quanto riguarda la c.d. immunità processuale, l’art. 68 Cost. stabilisce, in seguito alle modifiche apportate dalla legge cost. n. 3/1993 che, «senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza»
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(co. 2), e che «analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazione, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza» (co. 3). Pertanto, solamente nel caso in cui l’autorità giudiziaria intenda intercettare un parlamentare o adottare nei suoi confronti un provvedimento limitativo della libertà personale, salve le eccezioni sopra richiamate, deve previamente ottenere dalla Camera di appartenenza l’autorizzazione a procedere. Prima del 1993, al contrario, l’autorizzazione a procedere era richiesta anche nella semplice ipotesi in cui la magistratura inquirente ritenesse di aprire un’indagine nei confronti di un parlamentare. Pertanto, in ipotesi, un parlamentare potrebbe oggi essere indagato, processato e condannato senza che l’autorità giudiziaria ravvisi, rispetto al caso concreto, la necessità di richiedere l’adozione di uno o più degli atti per i quali è richiesta l’autorizzazione a procedere. Se l’autorità giudiziaria ritiene di adottare uno dei provvedimenti per i quali è prevista l’autorizzazione a procedere, prima di darne esecuzione deve adire direttamente la Camera di appartenenza del parlamentare, enunciando il fatto per il quale è in corso il procedimento e indicando le norme di legge che si assumono violate, fornendo altresì gli elementi su cui fonda il provvedimento (artt. 4 e 5, legge n. 140/2003). Compito della Camera di appartenenza e, in particolare, delle giunte parlamentari titolari di tale specifica competenza, non è entrare nel merito della richiesta formulata dall’autorità giudiziaria ma valutare, in una prospettiva estrinseca, la presenza di una sorta di intento persecutorio verso il parlamentare, il c.d. fumus persecutionis. A tal proposito, si distinguono nella prassi parlamentare e nella giurisprudenza tre tipi di fumus che devono essere valutati dalle giunte: a) un fumus di primo grado, inteso come la soggettiva intenzione persecutoria dell’autorità giudiziaria; b) un fumus di secondo grado, concernente le modalità particolari dell’azione promossa dall’autorità giudiziaria e che siano tali da far trapelare, da elementi oggettivi, il fumus; c) un fumus di terzo grado, evincibile dalla presenza, nel provvedimento richiesto, di aspetti di infondatezza manifesti e macroscopici, percepibili ictu oculi e in maniera indubbia. Nel caso in cui la Camera di appartenenza neghi l’autorizzazione a procedere, l’autorità giudiziaria competente, se ritiene che la relativa delibera sia stata adottata in violazione dell’art. 68 Cost., può sempre sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato davanti alla Corte costituzionale. Per quanto concerne, infine, le intercettazioni di comunicazioni, si possono distinguere: a) le intercettazioni dirette, per le quali, essendo rivolte ex ante ad un parlamentare, è imprescindibile la previa autorizzazione della Camera di appartenenza; b) le intercettazioni indirette, volte a
Il fumus persecutionis
Le intercettazioni di comunicazioni
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Capitolo VI
captare le comunicazione di un soggetto terzo, ma con la ragionevole aspettativa, da parte dell’autorità giudiziaria, di intercettare anche un determinato parlamentare e per le quali, analogamente al punto precedente, è comunque richiesta l’autorizzazione a procedere; c) le intercettazioni fortuite, ove la presenza del parlamentare risulta casuale e non prevedibile, per le quali è possibile richiedere una autorizzazione a procedere ex post.
1.13.3. L’indennità L’art. 69 Cost. prevede che «I membri del Parlamento ricevono un’indennità stabilita dalla legge». L’indennità è un importante istituto attraverso il quale la Costituzione assicura l’indipendenza dei membri del Parlamento da pressioni economiche. In passato, lo Statuto Albertino, in ragione di una concezione elitaria della rappresentanza politica, prevedeva il principio della gratuità del mandato parlamentare (art. 50). Tuttavia, tale principio cominciò a essere scardinato già con la legge n. 655/1912, che riconosceva un rimborso spese periodico per l’attività svolta e poi venne definitivamente superato con l’entrata in vigore della Costituzione del 1948. L’attuazione dell’art. 69 Cost. è oggi affidata alla legge n. 1261/1965, la quale prevede due principali voci di corresponsione monetaria per ciascun parlamentare: l’indennità (art. 1) e la diaria (art. 2). L’indennità, ovverosia la retribuzione vera e propria, è costituita da quote mensili comprensive anche del rimborso spesa di segreteria e di rappresentanza ed è calcolato dagli Uffici di Presidenza delle due Camere sulla base di un determinato ammontare massimo (si v. art. 1, co. 2). La diaria, invece, è un rimborso per le spese sostenute per il soggiorno a Roma, il quale viene calcolato dagli Uffici di Presidenza delle due Camere sulla base di determinati criteri previsti dalla legge (si v. art. 2, co. 1). In aggiunta all’indennità e alla diaria, gli Uffici di Presidenza delle due Camere hanno previsto diverse altre provvidenze e utilità a favore dei parlamentari, riguardanti, ad esempio, le spese telefoniche, di trasporto e di viaggio. Infine, ai membri delle camere è assicurato anche un trattamento previdenziale, il quale, in passato, era parametrato alla durata del mandato del parlamentare (c.d. vitalizio). Tra il 2011 e il 2012, invece, gli Uffici di Presidenza hanno superato il sistema del c.d. assegno vitalizio a favore di una pensione calcolata sulla base dei contributi versati.
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1.14. Le funzioni del Parlamento Il Parlamento esercita le seguenti funzioni: 1) la funzione legislativa (v. supra, Cap. IV, par. 5); 2) la funzione di revisione costituzionale (v. supra, Cap. IV, par. 4); 3) la funzione di indirizzo e controllo politico; 4) la funzione ispettiva.
1.14.1. La funzione di indirizzo e controllo politico Sono riconducibili alla funzione di indirizzo e controllo politico che il Parlamento esercita nei confronti del Governo: a) la legge di bilancio; b) la legge di approvazione dei trattati internazionali (v. supra, Cap. V, par. 2); c) il rapporto fiduciario (v. infra, par. 3.6); d) le mozioni, le risoluzioni e gli ordini del giorno. La crisi economica del 2007-2008, che ha investito prima gli Stati Uniti e poi l’Unione europea, ha messo a nudo la difficoltà di alcuni Stati membri, tra cui l’Italia, nella gestione della propria finanza pubblica. Si è determinato, in conseguenza di ciò, un inasprimento delle regole poste in sede europea, che si è tradotto nell’adozione, nel 2012, del c.d. Fiscal compact. Tale Trattato, che è stato ratificato dall’Italia con la legge n. 114/2012, ha imposto agli Stati aderenti il principio del pareggio di bilancio e della riduzione del debito pubblico al di sotto della soglia del 60% del rapporto debito/PIL, così da scongiurare o comunque ridurre al minimo i rischi sulla sostenibilità della finanza pubblica. Il Trattato ha stabilito, inoltre, all’art. 3, co. 2, che tali regole avrebbero prodotto effetti per gli Stati contraenti «tramite disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale – o il cui rispetto fedele è in altro modo rigorosamente garantito lungo tutto il processo nazionale di bilancio». La scelta operata dall’Italia è stata quella di procedere alla modifica dell’art. 81 Cost., intervenuta con l’approvazione della legge cost. n. 1/2012. Nonostante la rubrica della legge costituzionale rechi “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”, il nuovo art. 81, co. 1, Cost., è stato modificato prevedendo che «lo Stato assicura l’equilibrio di bilancio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico». Si tratta di una scelta non priva di effetti giuridici. Difatti, se il pareggio è dato dalla mera equivalenza tra entrate e spese, l’equilibrio è un concetto più flessibile e dinamico, in grado di tenere in considerazione anche eventuali fattori esogeni o endogeni di natura congiunturale. Il principio dell’equilibrio di bilancio è stato esteso a tutto il complesso delle pubbliche amministrazioni e agli enti territoriali. Difatti, la revi-
La legge di bilancio
La revisione dell’art. 81 Cost.
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Capitolo VI
sione costituzionale del 2012 ha modificato anche gli artt. 97 e 119 Cost., prevedendo, nel primo caso, che «le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico», e, nel secondo caso, che «i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e spesa, nel rispetto dell’equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea». Tornando alle novità introdotte dal nuovo art. 81 Cost., occorre segnalare che, ai sensi del co. 2, «il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali», quali gravi recessioni economiche, crisi finanziarie e gravi calamità naturali. La riforma costituzionale è intervenuta anche sul co. 3 dell’art. 81 Cost., il quale, prima della legge cost. n. 1/2012, stabiliva che «ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte». Dopo la riforma, non solo l’obbligo di copertura finanziaria è previsto anche per la stessa legge di bilancio, ma si stabilisce che tale copertura riguardi, oltre le spese, anche gli oneri (riduzione di entrate). Inoltre, nello statuire che «ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte», la disposizione costituzionale impone al singolo provvedimento di prevedere una clausola finanziaria che identifichi i mezzi per compensare i relativi effetti onerosi, non potendosi più limitare a un generale rinvio alla fonte di finanziamento. Dopo aver previsto che «le Camere ogni anno approvano con legge il bilancio e il rendiconto consuntivo presentati dal Governo», e che «l’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi», l’art. 81 Cost. stabilisce, al co. 6, che «il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con legge costituzionale». Tale ultima previsione ha trovato attuazione con la legge n. 243/2012, approvata sulla base dei principi e dei contenuti enucleati dall’art. 5 della legge cost. n. 1/2012. La legge n. 243/2012, oltre a precisare che cosa debba intendersi per equilibrio di bilancio dello Stato (art. 14) e ad istituire l’Ufficio parlamentare di bilancio (art. 16), ha definito, all’art. 15, i contenuti e la struttura del bilancio, rinviando a una successiva legge ordinaria la definizione delle modalità di attuazione di tale previsione.
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È così intervenuta la legge n. 163/2016, che ha modificato la legge n. 196/2009 e dato attuazione al richiamato art. 15 della legge n. 243/2012. Nel nuovo art. 7 della legge n. 196/2009 e nelle disposizioni seguenti, sono scandite, con precisione, le tappe del “ciclo di bilancio”, che si informano al metodo della programmazione. Gli strumenti di tale programmazione sono: a) Il Documento di economia e finanza (DEF), da presentare alle Camere entro il 10 aprile di ogni anno, per le conseguenti deliberazioni parlamentari. Il DEF si compone di tre sezioni: – La prima sezione del DEF reca lo schema del Programma di stabilità, che contiene gli elementi e le informazioni richieste dai regolamenti dell’Unione europea vigenti in materia e dal Codice di condotta sull’attuazione del Patto di stabilità e crescita, con specifico riferimento agli obiettivi da conseguire per accelerare la riduzione del debito pubblico. – La seconda sezione contiene una ricognizione degli indicatori di finanza pubblica e le previsioni, a legislazione vigente e a politiche invariate, per il triennio successivo, in ordine ai flussi in entrata e in uscita. – La terza sezione contiene lo schema del Programma nazionale di riforma, nel quale sono individuate le misure da attuare per il superamento degli squilibri macroeconomici e per la crescita della competitività. b) La Nota di aggiornamento del DEF (NADEF), da presentare alle Camere entro il 27 settembre di ogni anno, per le conseguenti deliberazioni parlamentari. Tale atto è necessario sia per adeguare la manovra finanziaria al diverso andamento rispetto alle previsioni contenute nel DEF, sia per recepire le raccomandazioni formulate dal Consiglio dell’Unione europea, cui sono presentati, entro il 30 aprile, sia il Programma di stabilità che il Programma nazionale di riforma. c) Il disegno di legge di bilancio dello Stato, da presentare alle Camere entro il 20 ottobre di ogni anno, che condensa, in un unico documento, le precedenti leggi di stabilità e di bilancio ed è strutturata su base annuale e pluriennale. d) Il disegno di legge di assestamento delle previsioni di bilancio, da presentare alle Camere entro il 30 giugno di ogni anno. Tale strumento è volto ad adeguare le previsioni contenute nella legge di bilancio all’effettivo andamento finanziario, tenuto conto anche della consistenza dei residui attivi e passivi accertata in sede di rendiconto dell’esercizio precedente, scaduto il 31 dicembre. e) Gli eventuali disegni di legge collegati alla manovra di finanza pubblica, da presentare alle Camere entro il mese di gennaio di ogni anno. Questi ultimi sono allegati al DEF e devono recare disposizioni omogenee per materia, tenendo conto delle competenze delle amministrazio-
Il ciclo di bilancio
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Capitolo VI
ni e concorrere al raggiungimento degli obiettivi programmatici nonché all’attuazione del Programma nazionale di riforma. f) Gli specifici strumenti di programmazione delle amministrazioni pubbliche diverse dallo Stato.
Le mozioni
Le risoluzioni
Agli strumenti richiamati si aggiunge, infine, il Rendiconto generale dello Stato dell’esercizio scaduto il 31 dicembre dell’anno precedente, che deve essere presentato alle Camere, corredato di apposita nota preliminare generale, dal Ministro dell’economia e delle finanze entro il mese di giugno. Il rendiconto, la cui sottoposizione alle Camere è subordinata al previo giudizio di parificazione da parte della Corte dei conti, deve essere approvato dal Parlamento con legge. La ricostruzione delle tappe del “ciclo di bilancio” ci restituisce un processo articolato e complesso, che mostra come siano sempre più strette, in tale ambito, le relazioni tra gli ordinamenti degli Stati membri e le istituzioni europee. A livello interno, inoltre, il processo di bilancio mantiene la sua centralità, non solo poiché è in tale sede che si assumono le decisioni più impattanti per l’inveramento dello stato sociale, ma anche perché, insieme all’autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali, si tratta di uno degli strumenti con cui il Parlamento, tramite fonte primaria, è in grado di esercitare un potere di indirizzo e controllo nei confronti dell’attività di governo. Non si può non segnalare, tuttavia, come negli ultimi anni le prassi emerse in sede di approvazione della legge di bilancio (questione di fiducia, monocameralismo di fatto, etc.) testimoniano un sempre più deciso scolorimento di tale prerogativa parlamentare. Ulteriori istituti giuridici necessari per esercitare la funzione di indirizzo e controllo sono previsti dai regolamenti parlamentari della Camera e del Senato. Si tratta, in particolare, delle mozioni, delle risoluzioni e degli ordini del giorno. Le mozioni sono un istituto volto a provocare una deliberazione dell’Assemblea su un determinato argomento che incide sull’attività del Governo. Alla Camera possono essere presentate dal presidente di un Gruppo parlamentare o da sette deputati (art. 110, co. 1, Reg. Camera). Al Senato, invece, possono essere presentate da almeno cinque senatori (art. 157, co. 1, Reg. Senato). Il dispositivo della mozione contiene indicazioni che vincolano politicamente il Governo in ordine a un determinato comportamento che esso deve assumere rispetto alla questione oggetto della deliberazione. L’Esecutivo stesso può decidere di porre la questione di fiducia su una determinata mozione. Le risoluzioni sono volte a manifestare orientamenti o definire indirizzi su specifici argomenti. In comune con le mozioni hanno la finalità, dal momento che entrambe hanno il compito di fornire indicazioni che
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vincolano il Governo solo politicamente su un determinato comportamento da assumere. A differenza delle mozioni, però, le risoluzioni possono essere presentate da ciascuna Commissione parlamentare, su proposta di un suo componente, sugli affari di propria competenza per i quali non deve riferire all’Assemblea, ovvero anche da ciascun deputato in occasione di dibattiti in Assemblea su comunicazioni del Governo o su mozioni (artt. 117 e 118 Reg. Camera; artt. 50 e 105 Reg. Senato). Analogamente a quanto accade con le mozioni, anche con riguardo alle risoluzioni l’esecutivo può decidere di porre la questione di fiducia. Ciascun parlamentare, nel corso del procedimento di approvazione della legge o di una mozione, può presentare e sottoporre al voto della commissione competente o dell’Aula un ordine del giorno finalizzato a fornire istruzioni al Governo in ordine all’attuazione delle leggi (ad es. come interpretare una certa disposizione) ovvero per sottolineare taluni aspetti particolarmente importanti di una mozione (art. 122 Reg. Camera; art. 95 Reg. Senato). Al pari delle indicazioni contenute nelle mozioni e nelle risoluzioni, anche quelle presenti negli ordini del giorno approvati vincolano il Governo solo sul piano politico.
Gli ordini del giorno
1.14.2. La funzione ispettiva Per un efficace esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo politico e di quella legislativa, al Parlamento è attribuita la titolarità della funzione ispettiva di acquisizione e valutazione delle informazioni. Anzitutto, l’art. 82 Cost. attribuisce a ciascuna Camera la facoltà di istituire Commissioni d’inchiesta su materie di pubblico interesse. La Commissione, mono o bicamerale, è istituita con delibera monocamerale o con due delibere identiche delle due Camere, ovvero con legge. Dal punto di vista strutturale, la Commissione d’inchiesta deve essere formata in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari, in modo tale da assicurare al suo interno il contraddittorio tra maggioranza e opposizione. Dal punto di vista funzionale, la Commissione esercita la potestà ispettiva con i medesimi poteri e le medesime limitazioni dell’autorità giudiziaria. Di conseguenza, essa può disporre indagini ed esami sia con gli strumenti tipici previsti dal codice di procedura penale, si pensi alla testimonianza, sia con quelli più duttili e più slegati da formalismi giuridici previsti per lo svolgimento dell’attività parlamentare, come ad esempio la libera audizione parlamentare. Tuttavia, non bisogna confondere i fini che caratterizzano l’attività di indagine dell’autorità giudiziaria con quella propria delle Commissioni parlamentari d’inchiesta. Come specificato dalla Corte costituzionale nella sent. n. 231/1975, il compito delle Commissioni d’inchiesta non è
Le Commissioni di inchiesta
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Le interrogazioni
Le interpellanze
Le indagini conoscitive
Capitolo VI
di emanare dele sentenze, con le quali si accerta la commissione di reati e la responsabilità giuridica. Il compito delle Commissioni di inchiesta, invece, «muove da cause politiche ed ha finalità del pari politiche». La sua attività si conclude con semplici “relazioni” e lo scopo è quello di raccogliere notizie, dati e qualunque elemento utile a consentire un proficuo esercizio delle funzioni delle Camere. Si pensi alla promozione di misure legislative e all’intimazione al Governo di adottare provvedimenti di sua competenza. Di conseguenza, da una parte le Commissioni parlamentari sono particolarmente libere di scegliere il loro modo di azione, giungendo finanche ad apporre il “segreto” sulle risultanze acquisite nel corso della loro indagine; dall’altra parte, esse sono tenute a riferire all’autorità giudiziaria se nel corso delle indagini svolte venissero a conoscenza di fatti che potrebbero costituire reato. Ulteriori strumenti fondamentali per l’esercizio della funzione parlamentare d’ispezione sono previsti nei regolamenti parlamentari e, nello specifico, si tratta delle interrogazioni, delle interpellanze e delle indagini conoscitive. Le interrogazioni sono un istituto attraverso il quale ciascun parlamentare domanda al Governo, di regola in Aula, per iscritto od oralmente (cc.dd. interrogazioni a risposta immediata), se un determinato fatto o informazione sia vera, se intenda comunicare una precisa notizia alle Camere, ovvero se abbia preso alcun provvedimento, o sia in procinto di farlo, in ordine a un oggetto specifico (artt. 128 ss. Reg. Camera; artt. 145 ss. Reg. Senato). Con le interpellanze ciascun parlamentare domanda al Governo, in Aula e per iscritto, circa i motivi o gli intendimenti della condotta del Governo in specifici aspetti che riguardano la sua politica. È prevista, inoltre, la possibilità che su iniziativa dei gruppi o di un determinato numero di deputati, si possano rivolgere delle cc.dd. interpellanze urgenti (alla Camera) o con procedimento abbreviato (al Senato), su questioni di particolare rilievo e attualità, a cui il Governo deve rispondere in tempi più brevi (Camera) o precisi (Senato) rispetto a quelli previsti di regola (artt. 136 ss. Reg. Camera; artt. 154 ss. Reg. Senato). Tramite le indagini conoscitive le Commissioni della Camera e del Senato, nelle materie di loro competenza, previa intesa col Presidente della Camera di appartenenza, possono disporre un’attività ispettiva diretta ad acquisire notizie, informazioni e documenti utili all’attività delle Camere stesse. Nel corso delle sedute dedicate alle indagini, le Commissioni possono invitare qualsiasi persona in grado di fornire elementi utili all’indagine. Si badi bene, però, che a differenza delle Commissioni d’inchiesta di cui all’art. 82 Cost., le Commissioni d’indagine conoscitiva
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non dispongono dei medesimi poteri di cui è titolare l’autorità giudiziaria (art. 144 Reg. Camera; art. 48 Reg. Senato).
2. Il Presidente della Repubblica 2.1. L’elezione del Presidente della Repubblica Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri. All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione (eccetto la Valle d’Aosta che ha un solo delegato) eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze (art. 83, co. 1 e 2, Cost.). Per assicurare la rappresentanza delle minoranze, la prassi prevede che due delegati siano scelti dalla maggioranza in Consiglio regionale e il terzo dall’opposizione. Si consideri che, dai tempi della prima elezione presidenziale fino ad oggi i delegati regionali, una volta eletti, vanno a posizionarsi in base alla propria appartenenza partitica. La presenza dei delegati regionali vuole significare che il Presidente della Repubblica non è espressione del solo Stato apparato, ma della Repubblica nel suo complesso. Difatti, il Presidente della Repubblica, non è solamente il Capo dello Stato, ma rappresenta anche l’unità nazionale (art. 87, co. 1, Cost.). L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi dell’assemblea (art. 83, co. 3, Cost.). La previsione di maggioranze elevate è stata pensata per favorire l’elezione di un candidato preferibilmente condiviso sia dalla maggioranza che dall’opposizione e per sottolineare il ruolo super partes che la Carta costituzionale attribuisce al Capo dello Stato. I costituenti hanno previsto, per consentire l’elezione del Presidente della Repubblica anche in mancanza di un’ampia convergenza parlamentare che, a partire dalla quarta votazione, è comunque sufficiente la maggioranza assoluta. Nel corso della storia della Repubblica italiana è capitato solo in tre occasioni che un candidato sia stato eletto Presidente della Repubblica alla prima votazione. Si tratta, in particolare, dei Presidenti Enrico de Nicola (giugno 1946-dicembre 1947), Francesco Cossiga (giugno 1985aprile 1992) e Carlo Azeglio Ciampi (maggio 1999-maggio 2006). Nella maggioranza dei casi, invece, è stato necessario procedere oltre il terzo scrutinio. È il caso, ad esempio, del Presidente Giuseppe Saragat (dicembre 1964-dicembre 1971), eletto al ventunesimo scrutinio e di Giovanni Leone (dicembre 1971-giugno 1978), eletto Presidente al ventitreesimo scrutinio. Peraltro, è anche capitato che taluni candidati, benché
I delegati regionali
Le maggioranze
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I requisiti di eleggibilità
La durata del mandato e la rielezione
Il procedimento di elezione
Capitolo VI
eletti oltre il terzo scrutinio, abbiano comunque ottenuto un numero di voti superiore, addirittura, alla maggioranza qualificata dei due terzi: Sandro Pertini (luglio 1978-giugno1985) è stato eletto al sedicesimo scrutinio con l’83,6% dei consensi, così come le rielezioni dei Presidenti Giorgio Napolitano (aprile 2013-gennaio 2015) e Sergio Mattarella (gennaio 2022-in corso), sono avvenute, rispettivamente, al sesto scrutinio col 74,0% dei voti e all’ottavo scrutinio col 77,2% dei voti. «Può essere eletto Presidente della Repubblica ogni cittadino che abbia compiuto 50 anni di età e goda dei diritti civili e politici» (art. 84 Cost.), senza che sia necessario ricoprire la carica di deputato o senatore. L’ufficio di Presidente della Repubblica è incompatibile con qualsiasi altra carica. Di conseguenza, il Capo dello Stato non può cumulare l’ufficio di Presidente della Repubblica con quello, ad esempio, di Presidente della Camera o del Senato, ovvero di Consigliere regionale o, ancora, di sindaco. Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni (art. 85 Cost.). La scelta del settennato non è casuale, ma è stata operata per creare discontinuità fra il momento di elezione delle due Camere e il momento di elezione del Presidente ed evitare, in questo modo, che si possa ritenere sussistente un vincolo politico con la maggioranza che lo ha eletto. Il settennato, quindi, è volto a favorire un’interpretazione imparziale della carica del Capo dello Stato. Si è sostenuto che esisterebbe una vera e propria consuetudine costituzionale consistente nel divieto di rieleggere il Presidente della Repubblica uscente (come sostenuto dal Presidente Ciampi in un discorso del 3 maggio 2006) o, ancora, che la rielezione sarebbe ammissibile solo come extrema ratio. Invero, il testo costituzionale non pone alcun divieto né implicito né tantomeno esplicito alla sua rielezione. Pertanto, la decisione sulla rielezione del Presidente della Repubblica deve ritenersi rimessa alla prudente valutazione delle forze politiche. La rielezione del Presidente della Repubblica si è concretizzata con gli ultimi due Capi dello Stato: Napolitano nel 2013 (ma si è dimesso nel 2015) e Mattarella il 29 gennaio 2022 all’ottavo scrutinio. Per quanto riguarda il procedimento di elezione del Capo dello Stato, trenta giorni prima che scada il settennato, il Presidente della Camera dei deputati convoca in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali per eleggere il nuovo Presidente. Se le Camere sono sciolte, o mancano meno di tre mesi alla loro cessazione, l’elezione del nuovo Presidente ha luogo entro quindici giorni dalla riunione delle nuove Camere. Nel frattempo, sono prorogati i poteri del Presidente in carica. La proroga dei poteri, come già evidenziato con riferimento al Parlamento (v. supra, par. 1.9) è un corollario del principio di continuità degli organi costituzionali e, dunque, della loro indefettibilità.
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Il Presidente della Repubblica, una volta eletto, e ancor prima di assumere le sue funzioni, deve prestare giuramento di fedeltà alla Repubblica e di leale osservanza della Costituzione dinanzi al Parlamento in seduta comune, non integrato dai delegati regionali (art. 91 Cost.). Questa fase, per prassi, è accompagnata da un messaggio presidenziale al Parlamento ove il Capo dello Stato neoeletto espone i principi a cui intendere conformare il suo mandato. Durante il suo mandato, il Presidente della Repubblica dispone di un assegno, di una dotazione personale (art. 84, co. 3, Cost.), nonché di una struttura amministrativa posta alle sue dipendenze denominata Segretariato generale della Presidenza della Repubblica. La Costituzione non prevede, come accade in altri ordinamenti, la carica di Vicepresidente della Repubblica, ma è la seconda carica più alta dello Stato, ossia il Presidente del Senato, a supplire in caso di impedimento temporaneo del Capo dello Stato (art. 86 Cost.). Diversamente, in caso di impedimento permanente, morte o dimissioni del Presidente della Repubblica si procede all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica entro quindici giorni, salvo il maggior termine previsto se le Camere sono sciolte o mancano meno di tre mesi alla loro cessazione. Temporaneamente, sarà sempre il Presidente del Senato a supplire l’assenza del Presidente della Repubblica (art. 85, co. 3, Cost.). Ricapitolando, la carica presidenziale può cessare per: 1) conclusione del mandato settennale; 2) impedimento permanente; 3) morte; 4) dimissioni; 5) perdita di uno dei requisiti di eleggibilità; 6) destituzione per effetto di una sentenza di condanna per alto tradimento o attentato alla Costituzione decisa dalla Corte costituzionale. Qualora la carica sia cessata per conclusione del mandato, impedimento permanente o dimissioni, il Presidente della Repubblica diventa di diritto, salvo rinuncia, senatore a vita (art. 59, co. 1, Cost.).
La supplenza e l’impedimento del Capo dello Stato
2.2. I poteri e il ruolo del Presidente della Repubblica Gli artt. 87 e 89 Cost. elencano la maggior parte dei poteri del Presidente della Repubblica, ai quali però devono aggiungersi anche quelli attribuiti da altre disposizioni costituzionali come, in particolare, gli artt. 59, 74, 92, co. 2, 104, co. 2, 135, Cost. Intanto, è necessario interrogarsi sul significato da attribuire alla previsione secondo cui il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale (art. 87, co. 1, Cost.). L’essere Capo dello Stato può considerarsi una qualità del Presidente della Repubblica che si esplica attraverso il ruolo di rappresentanza dell’unità nazionale e di ga-
Il Presidente della Repubblica come Capo dello Stato
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I poteri del Presidente della Repubblica
Capitolo VI
ranzia del mantenimento dell’unità della Repubblica, in coerenza con l’art. 5 Cost. dove si stabilisce il principio di unità e indivisibilità della Repubblica. L’art. 87, co. 1, Cost., configura quindi il Presidente della Repubblica come un organo super partes, il cui ruolo si colloca al di sopra delle contrapposizioni tra maggioranza e opposizione, ma anche fuori dal circuito fiduciario, e dunque dall’indirizzo politico, che lega maggioranza parlamentare e Governo. Il Presidente della Repubblica, oltre a rappresentare l’unità territoriale dello Stato, è chiamato a favorire la coesione e l’armonico funzionamento dei poteri politici. Si tratta, insomma, di un organo che ha il compito non solo di moderare ma anche, quando necessario, di stimolare gli altri poteri. Proprio per svolgere questa cruciale funzione di garanzia dell’equilibrio costituzionale e di “influenza” nei confronti degli altri poteri, il Presidente della Repubblica ha a disposizione, non soltanto un importante novero di poteri “formali”, che verranno analizzati di seguito, ma anche una sorta di “potere di persuasione”, il quale si sostanzia in tutta una serie di attività informali che accompagnano l’esercizio delle funzioni presidenziali. Si pensi agli incontri e alle interlocuzioni, anche telefoniche, che costantemente il Capo dello Stato intrattiene durante il suo mandato nell’esercizio della funzione di garanzia e mediazione. Dichiarazioni che, evidentemente, per essere efficaci dovrebbero restare circoscritte entro la sfera dell’informalità. Proprio al fine di preservare la segretezza e la riservatezza delle comunicazioni informali del Presidente della Repubblica, intese quali modalità imprescindibili di esercizio della sua peculiare funzione di equilibrio costituzionale, la Corte costituzionale, con la sent. n. 1/2013, ha ribadito l’illegittimità delle intercettazioni delle comunicazioni del Capo dello Stato, salvo le ipotesi in cui esse, nei modi previsti dalla legge (art. 7, legge n. 219/1989), siano direttamente volte ad accertare la sua responsabilità per il compimento dei reati di alto tradimento o attentato alla Costituzione. I poteri presidenziali possono essere utilmente classificati facendo riferimento all’organo cui sono rivolti. E così, rispetto al Parlamento, il Capo dello Stato: a) può inviare messaggi alle Camere; b) indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione; c) promulga le leggi; d) ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere; e) nomina cinque senatori a vita (art. 59 Cost.); f) prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere, chiedere una nuova deliberazione, ma se le Camere approvano
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nuovamente la legge, questa deve essere promulgata (art. 74 Cost.); g) può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche solo una di esse (art. 88 Cost.). In secondo luogo, nei confronti del Governo, il Presidente della Repubblica: a) promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti; b) autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo; c) emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti; d) accredita e riceve i rappresentanti diplomatici; e) ha il comando delle forze armate e presiede il Consiglio supremo di difesa; f) può concedere la grazia e commutare le pene; g) nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i Ministri (art. 92 Cost.). In terzo luogo, rispetto al corpo elettorale, il Presidente della Repubblica indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione. In quarto luogo, nei confronti della magistratura e della Corte costituzionale, il Capo dello Stato: a) presiede il Consiglio superiore della Magistratura; b) nomina cinque giudici della Corte costituzionale. Dalla lettura dei poteri del Presidente della Repubblica si evince la posizione di rilievo attribuitagli nella forma di governo parlamentare. Trattasi di un organo non riconducibile a nessuno dei tre tradizionali poteri dello Stato, chiamato a svolgere: a) un ruolo di garanzia, mirante a tutelare il regolare e buon funzionamento degli altri poteri alla luce dei principi costituzionali; b) un ruolo, complementare rispetto al precedente, finalizzato a svolgere tutte quelle attività (formali e informali) in grado di preservare i principi di unità e indivisibilità della Repubblica. I poteri del Capo dello Stato, pertanto, devono essere interpretati alla luce del ruolo presidenziale, ovverosia come facenti capo ad un organo non espressione di una maggioranza politica, il cui scopo principale è garantire l’unitarietà del sistema repubblicano e il suo corretto funzionamento.
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Capitolo VI
2.3. La controfirma ministeriale e la responsabilità presidenziale La controfirma in generale
La responsabilità presidenziale
Le ragioni della controfirma ministeriale
I poteri del Presidente della Repubblica elencati nell’art. 87 Cost. e quelli previsti in altre disposizioni costituzionali devono essere letti alla luce dell’art. 89 Cost., secondo cui «nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità. Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri». Detto in altri termini, ciascuna delle disposizioni che attribuiscono un potere al Capo dello Stato deve essere ricollegata, in sede interpretativo-applicativa, all’art. 89 Cost., per cui la norma finale attributiva del potere presidenziale è data dal loro combinato disposto. Per comprendere appieno il significato della controfirma si consideri, inoltre, che «Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione» (art. 90 Cost.). Sia l’art. 89 Cost. che l’art. 90 Cost. richiamano il concetto di responsabilità, il primo per attribuirla (al Governo), il secondo per escluderla (in capo al Presidente della Repubblica), salvo casi eccezionali. La ragione è semplice e deriva dal basilare principio per cui a qualunque atto giuridico espressione di un potere di diritto pubblico deve corrispondere un organo responsabile della sua adozione, il quale potrà, eventualmente, anche esser chiamato a risponderne ove l’atto si riveli illegittimo e cagioni dei danni. L’art. 90 Cost. esclude, a parte i reati presidenziali, qualunque forma di responsabilità in capo al Presidente e, dunque, anche quella più strettamente politica (non può essere né sfiduciato, né revocato), diversamente dal Governo, organo responsabile sia giuridicamente che politicamente. Ciò conferma il ruolo super partes attribuito al Capo dello Stato, non responsabile per le conseguenze degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne le due fattispecie penali sopra richiamate. Fuori dall’esercizio delle sue funzioni, quindi nell’ipotesi in cui agisca da privato cittadino, il Presidente è penalmente responsabile al pari di chiunque, con la sola differenza che, come ritiene la dottrina prevalente, l’esercizio dell’azione penale sarebbe improcedibile per tutta la durata del suo mandato; sul piano della responsabilità civile, invece, e sempre con riferimento ad atti o fatti estranei alle sue funzioni, il Presidente è responsabile esattamente come qualunque cittadino. Lo schema generale che si ricava dalle disposizioni analizzate, dunque, assegna a uno o più componenti del Governo il ruolo di proposta vincolante e, dunque, di elaborazione del contenuto materiale dell’atto presidenziale e al Presidente della Repubblica, di converso, il compito di adottare l’atto nelle forme previste svolgendo, tutt’al più, una funzione di
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controllo – senza entrare nel merito – sull’atto medesimo. Come ha messo correttamente in luce Livio Paladin, tuttavia, l’art. 89 Cost. non può essere interpretato isolatamente, ma deve essere calato, in una prospettiva logico-sistematica, nell’insieme delle norme costituzionali che disciplinano la forma di governo parlamentare. All’esito di tale operazione interpretativa, anche considerando la ratio dei singoli poteri presidenziali, emerge come vi siano degli atti del Capo dello Stato che non sono incasellabili nello schema generale sopra richiamato. Si pensi, ad esempio, alla nomina dei cinque senatori a vita ex art. 59 Cost. Se si applicasse lo schema dell’art. 89 Cost., consentendo al Governo di individuare i nomi dei senatori a vita, esso potrebbe rafforzare la propria maggioranza al Senato, così da alterare, in contrasto col principio della sovranità popolare, gli esiti delle elezioni democratiche. Appare preferibile, pertanto, per ragioni di sistema complessivo, che l’autore dell’atto, non solo formalmente, ma anche materialmente, sia il Presidente della Repubblica che, come abbiamo visto, svolgendo un ruolo super partes, può procedere alla nomina dei senatori a vita secondo logiche estranee alla maggioranza politica di turno. La controfirma ministeriale, in questo caso, sarà chiamata ad attestare lo svolgimento, da parte del Governo, di un controllo dell’atto presidenziale sotto il profilo della sua legittimità (che il potere esercitato rientri nelle attribuzioni presidenziali, che la firma del Capo dello Stato, sia autentica, etc.). Si pensi, ancora, alla nomina del Presidente del Consiglio da parte del Capo dello Stato ex art. 92 Cost. Lo schema prefigurato dall’art. 89 Cost., pure in questo caso, non è in alcun modo applicabile perché significherebbe precludere al Presidente della Repubblica l’esercizio di un ruolo – individuare un Presidente del Consiglio in grado di ricevere la fiducia delle Camere – che rientra nelle più tipiche logiche della forma di governo parlamentare. Oltretutto, se si applicasse lo schema dell’art. 89 Cost. ad una fattispecie di questo genere, la proposta di nomina dovrebbe provenire, assurdamente, dal Governo dimissionario. Nello stesso tempo, tuttavia, è evidente che l’accettazione della nomina da parte del nuovo Presidente del Consiglio ha un significato politico e non di mero controllo esterno dell’attività presidenziale, per cui si deve concludere che in casi come questi l’atto del Capo dello Stato sia complesso, derivando dalla eguale partecipazione sostanziale sia del firmante, sia del controfirmante. In conclusione, è possibile affermare che, se da un lato e fino a “prova contraria” gli atti presidenziali devono essere ricondotti alla regola generale desumibile dall’art. 89 Cost., così da essere qualificati come atti formalmente presidenziali ma sostanzialmente governativi, ve ne sono
Gli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali
Gli atti complessi
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Capitolo VI
alcuni che, considerata la loro ratio e i principi che governano la forma di governo parlamentare, devono essere qualificati, più ragionevolmente, come atti formalmente e sostanzialmente presidenziali oppure come atti complessi. Tale tripartizione degli atti presidenziali appare, oggi, la ricostruzione maggiormente condivisa in dottrina e recepita dalla giurisprudenza costituzionale, anche se permangono significative posizioni critiche non solo sul valore della controfirma, ma anche sulla riconducibilità dei singoli atti presidenziali ad una delle tre categorie elaborate. Al netto delle possibili divergenze interpretative e considerando, invero, che alcune prassi interpretative risultano sufficientemente consolidate, è possibile affermare che gli atti del Presidente della Repubblica sono atti formalmente presidenziali, ma sostanzialmente governativi tranne: a) gli atti complessi: 1) lo scioglimento anticipato delle Camere (art. 88 Cost., v. infra, par. 3.7); 2) la nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 92, co. 2, Cost., v. infra, par. 3.6); b) gli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali: 1) la nomina dei senatori a vita (art. 59 Cost., v. supra, par. 1.4); 2) la nomina dei giudici costituzionali (art. 135 Cost., v. infra, Cap. X, par. 2); 3) il rinvio delle leggi (art. 74 Cost., v. supra, par. Cap. IV, par. 5); 4) l’invio di messaggi alle Camere (art. 87, co. 2, Cost.); 5) la concessione della grazia e la commutazione delle pene (art. 87, co. 11, Cost.). Il potere di grazia
Il significato della controfirma
La qualificazione del potere di grazia come atto formalmente e sostanzialmente presidenziale è stata affermata dalla Corte costituzionale nella sent. n. 200/2006, che ha anche precisato come tale potere possa essere esercitato solamente per eccezionali ragioni di carattere umanitario e non, come pure in passato era capitato, per motivi di ordine politico. Tuttavia, tale approdo giurisprudenziale, sebbene già di per sé non privo di criticità, risulta essere stato smentito dalla prassi degli anni successivi alla decisione della Corte. Difatti, dalla Presidenza Napolitano in poi, il potere di clemenza individuale è stato utilizzato non solo per ragioni umanitarie, ma anche per ragioni politiche, comportando un improprio enlargement della funzione presidenziale di clemenza. Sarebbe auspicabile, in un caso del genere, ritornare alla più ragionevole prassi interpretativa che risultava prevalente prima della sentenza della Corte costituzionale e che qualificava la grazia come atto complesso, frutto della codecisione e, quindi, del reciproco controllo da parte del Capo dello Stato e del Ministro della Giustizia. Conclusivamente, si può affermare che la controfirma ministeriale, nonostante lo schema generale previsto dall’art. 89 Cost. possa far pensare che essa svolga sempre la stessa funzione, può in realtà, in alcuni casi, assumere un significato diverso, così da avere carattere polifunzionale.
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Pertanto, la funzione della controfirma varia sulla base del tipo di atto adottato dal Presidente, ovverosia a seconda che lo si consideri: 1) un atto formalmente e sostanzialmente presidenziale, nel qual caso la controfirma svolge una funzione di controllo da parte del Governo rispetto alla decisione assunta dal Capo dello Stato; 2) un atto complesso, per cui le due firme apposte sull’atto presidenziale da parte del Presidente della Repubblica e di un componente del Governo esprimono l’accordo raggiunto tra i due organi coinvolti sul contenuto della decisione; 3) un atto formalmente presidenziale e sostanzialmente governativo, nel qual caso è la firma del Presidente della Repubblica a svolgere una funzione di controllo sulla decisione assunta dal Governo. Sono sottratti alla controfirma: a) gli atti c.d. personalissimi, come le dimissioni; b) i messaggi orali rientranti nel c.d. potere di esternazione del Presidente della Repubblica; c) gli atti adottati dal Capo dello Stato in quanto presidente di organi collegiali quali il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio supremo di difesa.
Gli atti non soggetti a controfirma
3. Il Governo 3.1. Gli organi necessari e non necessari del Governo L’organo costituzionale Governo è disciplinato nel Titolo III della Parte seconda della Costituzione. Le disposizioni costituzionali sul Governo possono essere suddivise in due gruppi: al primo sono riconducibili le norme che si occupano delle funzioni e della composizione; al secondo sono riconducibili quelle concernenti le modalità di formazione e di cessazione. Iniziamo dal primo gruppo di disposizioni. Ai sensi dell’art. 92 Cost., il Governo della Repubblica è composto dal Presidente del Consiglio dei ministri e dai Ministri, che insieme costituiscono il Consiglio dei ministri. Il Governo è quindi un organo complesso, composto dal Consiglio dei Ministri, organo collegiale, e dal Presidente del Consiglio e dai Ministri, organi individuali. Innanzitutto, dobbiamo distinguere, nell’ambito dell’organizzazione del Governo, gli organi necessari dagli organi non necessari. La Costituzione individua gli organi necessari del Governo, che in quanto tali sono indefettibili e non possono mancare: Consiglio dei Ministri, Presidente del Consiglio dei ministri, Ministri. Tuttavia, nulla vieta al legislatore di istituire ulteriori articolazioni interne del Governo, chiamate per questo organi non necessari. Sono organi non necessari il Vicepresidente del Consiglio, i Ministri senza portafoglio, i Sottosegretari di Stato e i Comi-
Gli organi necessari
Gli organi non necessari
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Capitolo VI
tati interministeriali, come, ad esempio, il C.I.P.E.S.S. (Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile), composto dai ministri coinvolti direttamente o indirettamente nelle questioni di carattere economico e di coordinamento delle politiche pubbliche in vista del perseguimento degli obiettivi in materia di sviluppo sostenibile.
3.2. I rapporti tra gli organi del Governo
La posizione costituzionale del Presidente del Consiglio
L’art. 95 Cost. tratteggia le figure del Presidente del Consiglio e dei Ministri, per cui: a) il Presidente del Consiglio dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile; mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo promuovendo e coordinando l’attività dei ministri; b) i Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri e individualmente degli atti dei loro dicasteri. La prima questione da affrontare è quella relativa al rapporto tra Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministri, considerato che l’art. 95 Cost., particolarmente vago, lascia ampi spazi interpretativi. È oggi consolidata la posizione di chi ritiene che, in realtà, l’art. 95 Cost. non attribuisca al Presidente del Consiglio il compito di determinare la politica generale del Governo, ma solamente di dirigerla e di coordinarla, senza che sia configurabile un rapporto di gerarchia tra Presidente e Ministri. A conferma di questa tesi, la legge n. 400/1988 stabilisce che «il Consiglio dei Ministri determina la politica generale del Governo», mentre il Presidente del Consiglio dei Ministri ha il compito di dirigere, garantire, coordinare i ministri affinché in maniera unitaria diano attuazione alla politica del Governo individuata e determinata nello stesso Consiglio dei ministri. Il Presidente del Consiglio dei Ministri esercitata il ruolo, pertanto, di primus inter pares, nel senso che è chiamato ad esercitare una funzione di direzione e coordinamento al fine di favorire e mantenere l’unitarietà dell’indirizzo politico e amministrativo, così da realizzare il programma politico per il quale l’Esecutivo ha ottenuto il voto di fiducia in Parlamento. L’attività di coordinamento e direzione del Presidente deve conciliarsi con l’attribuzione, ai singoli ministri, di una responsabilità collegiale per gli atti deliberati dal Consiglio dei ministri e, soprattutto, di una responsabilità individuale per gli atti adottati dai singoli dicasteri rispetto ai quali i Ministri esercitano, pertanto, una propria sfera di autonomia.
L’ordinamento repubblicano: gli organi costituzionali
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3.3. Le attribuzioni del Consiglio dei Ministri e del Presidente del Consiglio La legge n. 400/1988 che, in attuazione dell’art. 95 Cost., disciplina l’attività del Governo e l’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri, stabilisce altresì il ruolo e i compiti, rispettivamente, del Consiglio dei ministri e del Presidente del Consiglio. La scelta del legislatore è stata quella di valorizzare il principio di collegialità di cui è espressione il Consiglio dei Ministri, a discapito del ruolo di vertice del Presidente del Consiglio, la cui sfera decisionale autonoma risulta circoscritta, come rilevato più sopra, ad attività di coordinamento e direzione tipiche di un soggetto primus inter pares. Si consideri, in particolare, che spetta al Consiglio dei Ministri determinare la politica generale del Governo e l’indirizzo generale dell’azione amministrativa, nonché deliberare su ogni questione relativa all’indirizzo politico fissato dal rapporto fiduciario con le Camere ed esprimere l’assenso all’iniziativa del Presidente del Consiglio di porre la questione di fiducia dinanzi alle Camere (art. 2, co. 1 e 2, legge n. 400/1988). Inoltre, sono sottoposti alla deliberazione del Consiglio dei Ministri, tra i tanti: la presentazione dei disegni di legge; l’adozione degli atti aventi valore di legge e degli atti di indirizzo e di coordinamento nei confronti delle Regioni; gli atti concernenti i rapporti tra Stato e Chiesa (art. 2, co. 3, legge n. 400/1988). Il Presidente del Consiglio dei Ministri esercita, innanzitutto, una serie di attribuzioni in nome del Governo, per cui sottopone le leggi al Presidente della Repubblica per la promulgazione e presenta alle Camere i disegni di legge di iniziativa governativa. In secondo luogo, egli è titolare di una serie di poteri, funzionali al ruolo direttivo assegnatogli dalla Costituzione, per cui, ad es.: indirizza ai ministri le direttive politiche e amministrative in attuazione alle deliberazioni del Consiglio dei ministri nonché quelle connesse alla propria responsabilità di direzione della politica generale del Governo; coordina e promuove l’attività dei singoli ministri; può sospendere l’adozione di atti da parte dei ministri competenti in ordine alle questioni politiche amministrative per sottoporli al Consiglio dei Ministri.
3.4. La struttura dei Ministeri e le attribuzioni dei Ministri L’organizzazione e le attribuzioni dei Ministeri sono stabiliti dal d.lgs. n. 300/1999, che ne ha fissato in 15 il numero (d.l. n. 173/2022): Ministero degli Affari Esteri e della cooperazione internazionale, Ministero dell’Inter-
Le attribuzioni del Consiglio dei Ministri
Le attribuzioni del Presidente del Consiglio
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I Ministri con portafoglio e senza portafoglio
Il Vicepresidente del Consiglio dei Ministri
Capitolo VI
no, Ministero della Giustizia, Ministero della Difesa, Ministero dell’Economia e delle Finanze, Ministero delle Imprese e del made in Italy, Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Ministero dell’Istruzione e del Merito, Ministero dell’Università e della Ricerca, Ministero della Cultura, Ministero della Salute e Ministero del Turismo. Si possono distinguere i Ministri con portafoglio e i Ministri senza portafoglio. I Ministri con portafoglio sono i 15 ministri responsabili dei dicasteri sopra elencati: sono titolari di un vero e proprio settore dell’amministrazione centrale dello Stato e hanno autonomia finanziaria. I Ministri senza portafoglio sono nominati dal Presidente del Consiglio e non sono a capo di uno specifico dicastero, ma esercitano le deleghe loro attribuite in relazione a compiti e funzioni attribuiti alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ad es., presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, strutturata per Dipartimenti, la direzione del Dipartimento per le politiche della Famiglia è stata affidata a un Ministro senza portafoglio. Infatti, in base all’art. 9 della legge n. 400/1988, «all’atto della costituzione del Governo, il Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, può nominare … ministri senza portafoglio, i quali svolgono le funzioni loro delegate dal Presidente del Consiglio dei Ministri sentito il Consiglio dei Ministri». Tra le numerose articolazioni ministeriali rileva la figura del Vicepresidente del Consiglio dei Ministri, la cui nomina è proposta dal Presidente del Consiglio al Consiglio dei Ministri. Tale ruolo, che può essere attribuito a uno o più Ministri, comporta che «in caso di assenza o impedimento temporaneo del Presidente del Consiglio dei ministri, la supplenza spetta al Vicepresidente o, qualora siano nominati più Vicepresidenti, al Vicepresidente più anziano secondo l’età» (art. 8, co. 1, legge n. 400/1988).
3.5. I sottosegretari di Stato e i viceministri
Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio
L’art. 10 della legge n. 400/1988 prevede la figura dei sottosegretari di Stato, nominati con decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro di riferimento, sentito il Consiglio dei Ministri. I sottosegretari coadiuvano i Ministri, per cui devono ritenersi a questi subordinati, ed esercitano i compiti ad essi delegati con decreto ministeriale. Un ruolo peculiare è attribuito al sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, nominato dal Consiglio dei Ministri all’inizio della sua prima riunione. Tale figura, oltre a curare «la verbalizzazione e la
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conservazione del registro delle deliberazioni», dirige «l’ufficio di segreteria del Consiglio dei ministri nonché i dipartimenti ed uffici per i quali il sottosegretario abbia ricevuto delega dal Presidente del Consiglio dei ministri». A una parte dei sottosegretari – non più di dieci – può essere attribuito il titolo di viceministro. In tal caso la delega conferita dal Ministro competente è approvata dal Consiglio dei Ministri su proposta del Presidente del Consiglio. I Sottosegretari di Stato possono intervenire, quali rappresentanti del Governo, alle sedute delle Camere e delle commissioni parlamentari; possono anche essere invitati dal Presidente del Consiglio dei Ministri, d’intesa con il Ministro competente, a partecipare alle sedute del Consiglio dei Ministri, senza diritto di voto, per riferire su argomenti e questioni attinenti alla materia loro delegata.
I viceministri
3.6. La formazione del Governo e le crisi L’apertura di una crisi e l’avvio del procedimento di formazione del Governo possono essere cagionati: a) dalle nuove elezioni del Parlamento che, per prassi consolidata, comportano le dimissioni del Governo in carica; b) dalle dimissioni volontarie del Governo nel corso della legislatura; c) dall’approvazione di una mozione di sfiducia ai sensi dell’art. 94 Cost.; d) dalla morte o dall’impedimento permanente del Presidente del Consiglio. Fino alla nomina del nuovo Esecutivo, il Governo dimissionario resta in carica per il disbrigo degli affari correnti e per l’eventuale adozione di eventuali atti indifferibili e urgenti, quale logico corollario del principio di continuità degli organi costituzionali. Spetta al Presidente della Repubblica nominare il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri (art. 92, co. 2, Cost.). La Costituzione non disciplina il procedimento in forza del quale il Capo dello Stato possa addivenire a tale decisione. Tale mancanza è stata integrata, fin dagli albori della Repubblica, dalla prassi delle consultazioni di personalità politiche e soggetti istituzionali, fondamentali affinché il Capo dello Stato possa avere contezza in merito alla possibilità di formare un Governo in grado di ricevere la fiducia dalle Camere ai sensi dell’art. 94 Cost. Detto in altri termini, lo scopo delle consultazioni, logicamente coerenti con il dettato costituzionale, è di consentire al Presidente della Repubblica di verificare la presenza di una maggioranza parlamentare disponibile a sostenere un nuovo Esecutivo. La fase delle consultazioni può essere considerata una convenzione costituzionale se non – ad avviso di parte della dottrina – una vera e pro-
I poteri del Governo dimissionario
Le consultazioni
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Nomina del Governo o scioglimento delle Camere?
Il mandato esplorativo
Lo scioglimento anticipato come extrema ratio Il Presidente del Consiglio incaricato
Capitolo VI
pria consuetudine costituzionale, che il Presidente della Repubblica difficilmente può omettere. Le modalità di svolgimento delle consultazioni e il novero dei soggetti da sentire sono rimessi al prudente apprezzamento del Capo dello Stato. Tuttavia, è una prassi costantemente seguita dai Presidenti della Repubblica, interloquire, quantomeno, con i capigruppo parlamentari della Camera e del Senato, con i Presidenti delle due Camere e con gli ex Presidenti della Repubblica. Se, al termine delle consultazioni, il Presidente della Repubblica ritiene possa sussistere una maggioranza parlamentare disponibile a sostenere un Governo procede di conseguenza, in caso contrario dovrà decretare lo scioglimento anticipato delle Camere. La valutazione e, dunque, il grado di discrezionalità del Capo dello Stato nella individuazione del Presidente del Consiglio dipende, fondamentalmente, da variabili politico-partitiche: in presenza di una maggioranza parlamentare forte e coesa, la discrezionalità del Presidente della Repubblica si riduce; al contrario, in presenza di un contesto politico confuso e incerto il ruolo del Capo dello Stato è maggiore, nel senso che, se le forze politiche lo consentono, può cercare lui stesso di adoperarsi attivamente per far convergere una maggioranza parlamentare non precostituita su un determinato Governo. Si pensi, a questo proposito, al ruolo esercitato da Giorgio Napolitano nella formazione del Governo Monti e da Sergio Mattarella nella formazione del Governo Draghi e, più in generale, ai c.d. governi tecnici degli anni 19921995 (Ciampi e Dini), fortemente sostenuti dal Capo dello Stato. Può accadere che, al termine delle consultazioni, il Presidente della Repubblica non sia in grado di stabilire con ragionevole certezza la presenza di una maggioranza in Parlamento. In questo caso è invalsa la prassi di affidare a un esponente politico o istituzionale il c.d. mandato esplorativo, consistente nel procedere ad ulteriori consultazioni con le forze politiche per individuare un possibile Governo e una maggioranza (si pensi, ad esempio, al mandato esplorativo affidato al Presidente della Camera dei deputati nel 2021, nell’ambito delle consultazioni scaturite dalle elezioni politiche del 2018). Il possibile esito negativo del mandato esplorativo sarà valutato dal Presidente della Repubblica entro la cornice più ampia delle consultazioni. Al termine delle consultazioni, pertanto, il Presidente della Repubblica può procedere allo scioglimento anticipato delle Camere soltanto nell’ipotesi in cui accerti la mancanza, in Parlamento, di una maggioranza parlamentare disponibile a dar vita ad un nuovo Governo, indipendentemente dalla configurazione politica di tale maggioranza. Diversamente, se il Capo dello Stato, al termine delle consultazioni, ritiene di aver individuato un candidato alla carica di Presidente del Consiglio sostenuto da una maggioranza parlamentare, per prassi non proce-
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de immediatamente alla sua nomina, ma gli affida verbalmente l’incarico di formare un nuovo Governo, che sempre per prassi viene accettato con riserva. Il compito del Presidente del Consiglio incaricato è di verificare, in prima persona, l’effettiva disponibilità delle forze politiche a dar vita al Governo e, pertanto, di stilare la lista dei ministri. In seguito allo scioglimento della riserva, il Presidente della Repubblica procede alla nomina del Presidente del Consiglio e, su proposta di quest’ultimo, dei Ministri. Prima di assumere le funzioni, il Presidente del Consiglio e i Ministri devono prestare giuramento nelle mani del Capo dello Stato (art. 93 Cost.). Il decreto presidenziale di nomina del nuovo Presidente del Consiglio, i decreti di nomina dei nuovi Ministri e il decreto di accettazione delle dimissioni del Governo uscente sono controfirmati, per prassi consolidata, dal nuovo Presidente del Consiglio e non, come pure accadeva in passato, dal Presidente del Consiglio dimissionario. Tale prassi trova oggi espressa previsione nell’art. 1, co. 2, della legge n. 400/1988, secondo cui «il decreto di nomina del Presidente del Consiglio dei ministri è da lui controfirmato, insieme ai decreti di accettazione delle dimissioni del precedente Governo». Per quanto riguarda la nomina dei Ministri, ci si è chiesti se il Capo dello Stato possa rifiutarsi di nominare un Ministro proposto dal Presidente del Consiglio. È pacifico che la nomina dei Ministri sia un atto formalmente presidenziale, ma sostanzialmente governativo, per cui il Presidente della Repubblica svolge, sottoscrivendo il decreto di nomina, un’attività di mero controllo rispetto ad una scelta che rientra nella sfera di valutazione politica del Presidente del Consiglio. Tuttavia, non sono altrettanto definite le ragioni che, nello svolgimento della funzione di controllo, possano indurre il Capo dello Stato a rifiutare la proposta di nomina di un Ministro, ipotesi questa che presuppone l’insuccesso dell’attività informale di moral suasion presidenziale. È noto, in particolare, che il Presidente Scalfaro, nel 1994, si rifiutò di nominare Cesare Previti quale Ministro della Giustizia su proposta del Presidente del Consiglio incaricato Silvio Berlusconi. Più di recente, si segnala, invece, il rifiuto da parte del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di nominare Paolo Savona Ministro dell’Economia e delle Finanze, a seguito della proposta formulata dal Presidente del Consiglio incaricato Giuseppe Conte. Tale decisione è stata motivata dal Capo dello Stato in un comunicato ufficiale, col richiamo alla difesa della Costituzione e alla tutela della comunità nazionale. Secondo Mattarella la nomina di un Ministro che aveva in passato manifestato posizioni contrarie all’euro avrebbe potuto minare la stabilità del Paese e mettere in pericolo i risparmi degli italiani, attentando così a principi di rango costituzionale che il Capo dello Stato sarebbe chiamato a proteggere e preservare.
La nomina del Presidente del Consiglio e dei Ministri
236 Il Governo in attesa di fiducia
La mozione di fiducia
Crisi parlamentari ed extraparlamentari
Capitolo VI
Con la nomina dei componenti del Governo e del rispettivo giuramento il Governo è in carica ma in attesa di fiducia, per cui non può esercitare appieno le proprie prerogative costituzionali, ma deve attenersi al solo esercizio dell’ordinaria amministrazione e degli atti indifferibili e urgenti. Soltanto dopo l’ottenimento della fiducia il Governo sarà pienamente in carica. Ai sensi dell’art. 94 Cost. la fiducia è conferita da ciascuna Camera mediante una mozione motivata e votata per appello nominale. Il Governo deve presentarsi alla Camera e al Senato per ottenerne la fiducia entro dieci giorni dalla sua formazione. La motivazione della mozione corrisponde al programma politico che il Governo si impegna a realizzare. La Costituzione non prevede una particolare maggioranza per l’approvazione della mozione di fiducia, per cui ai sensi dell’art. 64 Cost. si deve ritenere sufficiente la maggioranza semplice anche se, sul piano politico, difficilmente un Governo potrebbe governare con un certo grado di stabilità senza contare su una maggioranza effettiva di parlamentari. La fiducia può essere revocata, a maggioranza semplice, tramite l’approvazione di una mozione firmata da almeno un decimo dei componenti della Camera, ma può essere posta in discussione non prima del temine dilatorio di tre giorni dalla sua presentazione. Se la mozione di sfiducia è approvata il Governo ha l’obbligo giuridico di rassegnare le dimissioni. In realtà, dal 1948 ad oggi nessun Governo si è dimesso a seguito dell’approvazione di una mozione di sfiducia. Solamente in due casi (Governo Prodi I nel 1998 e Governo Prodi II nel 2008) il Governo ha dovuto dimettersi a seguito della mancata approvazione di una questione di fiducia. In tutti gli altri casi la caduta del Governo è stata determinata dalle dimissioni volontarie del Presidente del Consiglio o dell’Esecutivo nella sua collegialità. In questi termini, si ha una crisi parlamentare quando il Governo si dimette doverosamente a seguito dell’approvazione di una mozione di sfiducia o, come vedremo, nel caso di mancata approvazione di un provvedimento sul quale sia stata posta la questione di fiducia; si ha una crisi extra-parlamentare quando il Governo si dimette a seguito delle dimissioni volontarie dello stesso o – ma l’effetto è identico – del Presidente del Consiglio. Le crisi extraparlamentari non appaiono in linea con la forma di governo parlamentare, in quanto le dimissioni volontarie del Governo precludono l’avvio di un dibattito pubblico e trasparente in Parlamento che ne faccia emergere le ragioni politiche. Per questi motivi, già a partire dalle presidenze Pertini e Cossiga, i Presidenti della Repubblica hanno cercato di arginare il fenomeno delle crisi extraparlamentari con la c.d. parlamentarizzazione delle crisi di governo, ovverosia rifiutando le dimissioni del Presidente del Consiglio e invitandolo a presen-
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tarsi in Parlamento per verificare – in seguito all’apertura di un dibattito parlamentare – la sussistenza o meno della maggioranza. Si tratta di una prassi utile, ma non decisiva perché, se in seguito al dibattito parlamentare, il Presidente del Consiglio conferma la volontà di dimettersi senza attendere l’approvazione della mozione di sfiducia, il Capo dello Stato dovrà ovviamente accettare le dimissioni.
3.7. Lo scioglimento anticipato delle Camere Nel paragrafo precedente sono state evidenziate le ragioni che possono indurre il Presidente della Repubblica a sciogliere anticipatamente le Camere (art. 88 Cost.). L’unico vincolo di ordine procedurale sancito in Costituzione è che, prima di adottare il decreto di scioglimento il Capo dello Stato senta i rispettivi Presidenti delle Camere. Si tratta di un parere obbligatorio, ma non vincolante, nel senso che omettere del tutto tale consultazione configurerebbe un vizio di legittimità della procedura di scioglimento. Nel merito, tuttavia, le indicazioni fornite dai Presidenti delle Camere non impediscono una eventuale decisione del Capo dello Stato diversa da quella suggerita. Come tutti gli atti presidenziali, il decreto di scioglimento anticipato deve essere controfirmato da un componente del Governo che, nel caso specifico, è il Presidente del Consiglio. Si ritiene che il potere di scioglimento sia un atto complesso e che quindi necessiti, nel merito, del consenso di entrambi gli organi coinvolti. Le sottoscrizioni apposte in calce all’atto dal Presidente della Repubblica e dal Presidente del Consiglio attestano, pertanto, l’eguale partecipazione alla decisione finale. Il Presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che coincidano in tutto in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura (art. 88 Cost.). La ratio del c.d. semestre bianco è volta ad evitare che la minaccia dello scioglimento anticipato possa essere utilizzata dal Presidente per imporre al Parlamento la sua rielezione. Vi è un’eccezione a tale regola, perché il Capo dello Stato può comunque procedere allo scioglimento delle Camere nel caso in cui gli ultimi sei mesi del suo mandato coincidano, in tutto o in parte, con gli ultimi sei mesi della legislatura. Tale eccezione è stata introdotta dalla legge cost. n. 1/1991 per evitare il c.d. ingorgo istituzionale, che si verifica quando il Presidente della Repubblica e il Parlamento terminano i rispettivi mandati contemporaneamente. In questo caso, grazie alla modifica richiamata, il Presidente della Repubblica può comunque decretare lo scioglimento naturale delle Camere.
Il parere dei Presidenti delle Camere
Lo scioglimento come atto complesso
Il semestre bianco
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Capitolo VI
3.8. Il rimpasto governativo e le crisi
Le dimissioni dei Ministri
Il rimpasto
La fiducia, ai sensi dell’art. 94 Cost., è votata nei confronti del Governo nella sua collegialità e non del solo Presidente del Consiglio come accade, ad esempio, in Germania. Ci si chiede, pertanto, quali siano le conseguenze di ordine costituzionale nel caso in cui uno o più Ministri rassegnino le dimissioni. Mentre le dimissioni del Presidente del Consiglio comportano automaticamente le dimissioni dell’intero Esecutivo e l’apertura di una crisi di governo, le dimissioni degli altri componenti del Governo non comportano necessariamente l’inizio di una crisi. Infatti, quest’ultima evenienza dipende dal possibile significato politico che i partiti della coalizione di maggioranza fanno discendere dalle dimissioni dei Ministri. Le dimissioni di un Ministro per ragioni personali, ad esempio, non comportano normalmente l’apertura di una crisi. Diversamente, quando uno o più ministri si dimettono in quanto rappresentanti di un partito della maggioranza che fuoriesce dalla coalizione governativa, può verificarsi una crisi di governo o più semplicemente il c.d. rimpasto, che comporta la sostituzione dei Ministri dimissionari senza l’apertura di una crisi formale. Durante la vita di un Governo può accadere che mutino gli equilibri tra i partiti della coalizione di maggioranza. Si pensi, ad esempio, alle conseguenze politiche derivanti dai risultati delle elezioni locali o regionali, che potrebbero avviare un confronto tra le forze politiche di maggioranza in vista di una rimodulazione della compagine governativa. Pertanto, se il Presidente del Consiglio procede alla sostituzione di uno o più Ministri dimessisi per motivi politici, l’apertura o meno di una crisi di governo è rimessa ad una valutazione che coinvolge, inevitabilmente, anche il Presidente della Repubblica e che potrebbe, in ipotesi, invitare il Governo a presentarsi in Parlamento per verificare la sussistenza del rapporto fiduciario tramite l’apertura di un dibattito senza votazione finale. Detto in altri termini, se si ritiene che la sostituzione di uno o più Ministri lasci sostanzialmente inalterato il legame fiduciario originario, si può procedere al semplice rimpasto, senza che il Governo debba chiedere un nuovo voto di fiducia alle Camere, pur non potendosi escludere l’opportunità di un dibattito parlamentare sulle ragioni della variazione governativa; in caso contrario, il Governo deve dimettersi così da aprire una crisi di governo che, come abbiamo visto, è aperta ai possibili sbocchi costituzionalmente previsti: la formazione di un nuovo Governo o lo scioglimento anticipato delle Camere.
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3.9. La questione di fiducia La mozione di sfiducia e la questione di fiducia sono istituti differenti. La mozione di sfiducia è disciplinata, come abbiamo visto, dall’art. 94 Cost. ed è l’atto contrario alla mozione di fiducia che, se approvata, obbliga il Governo a rassegnare le dimissioni. Al contrario, la questione di fiducia è un istituto previsto dai regolamenti parlamentari che consente al Governo di intervenire nei lavori delle Camere per accelerare l’approvazione delle delibere parlamentari (art. 116 Reg. Camera e art. 161 Reg. Senato). Apponendo la questione di fiducia il Presidente del Consiglio, a nome del Governo, impegna la propria responsabilità in merito all’approvazione di una delibera parlamentare (un intero progetto di legge o un suo articolo, una mozione o una risoluzione, etc.), con la conseguenza che se il voto della Camera è favorevole la delibera è approvata e tutti gli emendamenti eventualmente presentati si intendono decaduti; viceversa, se la questione di fiducia è respinta, non soltanto la delibera parlamentare non è approvata, ma il Governo ha l’obbligo giuridico di dimettersi. Si tratta, quindi, di un istituto che, se utilizzato con capacità politica, consente al Governo di accelerare l’iter parlamentare di un provvedimento ritenuto prioritario per la maggioranza e compattare i partiti della coalizione ma che, per le conseguenze estreme che comporta può rivelarsi, sempre dal punto di vista politico, controproducente. Il 24 gennaio 2008 il Governo Prodi II, in un contesto politicamente delicato a causa dell’uscita dalla maggioranza di un partito della coalizione dell’Udeur, pose la questione di fiducia su una risoluzione che esprimeva un giudizio di apprezzamento e condivisione per il lavoro svolto fino a quel momento dal Governo e fissava ulteriori punti programmatici da realizzare. Con l’apposizione della questione di fiducia il Governo cercava di ricompattare la propria maggioranza ma, contrariamente alle previsioni la questione di fiducia fu respinta con 156 voti favorevoli e 161 voti contrari, costringendo il Governo a rassegnare le dimissioni.
3.10. La mozione di sfiducia individuale Considerato che l’art. 94 Cost. stabilisce che la mozione di sfiducia è approvata nei confronti del Governo nella sua collegialità, si è discusso in passato se sia ammissibile presentare una mozione di sfiducia nei confronti di un singolo Ministro. Pur prevista fin dal 1986 nel Regolamento della Camera dei deputati, e dunque ritenuta ammissibile, fino agli anni ’90 non si era mai verificata la necessità di attivare tale procedura perché, nella logica degli accordi di coalizione, sfiduciare un
La caduta del Governo Prodi II
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Il caso Mancuso
Capitolo VI
Ministro avrebbe rischiato (e rischierebbe ancora oggi) di coinvolgere il partito di appartenenza dello stesso Ministro, così da aprire una crisi di governo. Nel 1994, tuttavia, in un particolare momento storico caratterizzato dalla presenza di un Governo “tecnico”, il Presidente del Consiglio di allora, in seguito ad una serie di comportamenti giudicati incompatibili con permanenza nell’Esecutivo, invitò il Ministro della Giustizia Mancuso a rassegnare le dimissioni, ma questi si rifiutò. Di conseguenza, in Senato fu presentata e approvata una mozione di sfiducia individuale nei suoi confronti. Dall’ulteriore rifiuto di Mancuso e da successivi scontri istituzionali nacque un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dallo stesso Ministro. La Corte costituzionale, con la sent. n. 7/1996, ha stabilito che «il fatto che l’istituto della sfiducia individuale non sia stato tradotto in una espressa previsione in Costituzione non porta a farlo ritenere fuori dal quadro costituzionale. Non avendo l’Assemblea costituente preso esplicita posizione sul tema è da ritenere che essa non abbia inteso pregiudicare le modalità attuative che la forma di governo così come definita avrebbe consentito». Secondo la Corte, «nell’interpretazione della Costituzione occorre privilegiare l’argomento logico-sistematico, occorre accertare cioè se la sfiducia individuale benché non contemplata espressamente, possa tuttavia reputarsi un elemento intrinseco al disegno tracciato negli articoli 92, 94 e 95 Cost., suscettibile di essere esplicitato in relazione alle esigenze poste allo sviluppo storico del governo parlamentare». Nell’art. 95, co. 2, Cost., prosegue la Corte, si legge che i Ministri, a parte la responsabilità collegiale, sono altresì responsabili individualmente degli atti dei singoli dicasteri, per cui possono esserne chiamati a rispondere a rispondere, anche politicamente: «nella forma di governo parlamentare la relazione tra Parlamento e Governo si snoda secondo uno schema nel quale laddove esiste l’indirizzo politico esiste responsabilità nelle due accennate varianti individuale e collegiale e laddove esiste responsabilità non può non esistere anche un rapporto fiduciario». La Corte costituzionale, quindi, nel ritenere la mozione di sfiducia individuale costituzionalmente ammissibile, ha respinto il ricorso sollevato dal ministro Mancuso determinandone le inevitabili dimissioni.
3.11. I reati ministeriali La formulazione originaria dell’art. 96 Cost. stabiliva che il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri potessero essere posti in stato
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d’accusa dal Parlamento in seduta comune per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni. Il conseguente giudizio si svolgeva innanzi alla Corte costituzionale. A seguito dell’approvazione della legge cost. n. 1/1989, che ha modificato la richiamata disposizione costituzionale, il compito di giudicare i c.d. reati ministeriali è stato attribuito alla magistratura ordinaria, «previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale». Tale autorizzazione può essere negata laddove l’Assemblea «reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo» (art. 9, co. 3, legge cost. n. 1/1989). Per i reati commessi dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dai Ministri nell’esercizio delle loro funzioni, la competenza appartiene in primo grado al Tribunale del capoluogo del Distretto di Corte d’appello competente per territorio. Per le impugnazioni e gli ulteriori gradi di giudizio si applicano le norme del codice di procedura penale.
3.12. Gli organi ausiliari Gli organi ausiliari, previsti dalla Costituzione e disciplinati nel Titolo III, sez. III, sono tre: il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti. Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, che trova la sua disciplina nell’art. 99 Cost., è composto «di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa». La legge n. 936/1986 ha stabilito, in particolare, che il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro si compone di 64 membri, oltre al Presidente, secondo la seguente ripartizione: a) dieci esperti, qualificati esponenti della cultura economica, sociale e giuridica, dei quali otto nominati dal Presidente della Repubblica e due proposti dal Presidente del Consiglio dei Ministri; b) quarantotto rappresentanti delle categorie produttive, dei quali ventidue rappresentanti dei lavoratori dipendenti, di cui tre in rappresentanza dei dirigenti e quadri pubblici e privati, nove rappresentanti dei lavoratori autonomi e delle professioni e diciassette rappresentanti delle imprese; c) sei rappresentanti delle associazioni di promozione sociale e delle organizzazioni di volontariato, dei quali, rispettivamente, tre designati dall’Osservatorio nazionale dell’associazionismo e tre designati dall’Osservatorio nazionale per il volontariato. I membri di cui alla lettera a) sono nominati con decreto del Presi-
Il CNEL
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Il Consiglio di Stato
La Corte dei conti
Capitolo VI
dente della Repubblica, mentre i membri di cui alle lettere b) e c) sono nominati sempre con decreto del Presidente della Repubblica, ma su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri. Il CNEL, i cui componenti durano in carica 5 anni, è organo di consulenza delle Camere e del Governo per le materie e secondo le funzioni che gli sono attribuite dalla legge, dispone dell’iniziativa legislativa e può contribuire alla elaborazione della legislazione economica e sociale secondo i principi ed entro i limiti stabiliti dalla legge. Il Consiglio di Stato, ai sensi dell’art. 100 Cost., è organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione (su questa seconda funzione del Consiglio di Stato v. infra, Cap. IX, par. 4). Composto da un numero di magistrati di poco superiore alle 120 unità, il Consiglio di Stato è articolato in sette sezioni, la prima delle quali – assieme alla Sezione consultiva per gli atti normativi, a sé stante – con competenze consultive, mentre le altre sei con competenze giurisdizionali. In sede consultiva opera anche l’Adunanza Generale, composta da tutti i Consiglieri di Stato; mentre l’Adunanza Plenaria, formata dal Presidente del Consiglio di Stato e da dodici magistrati, è dotata di funzioni giurisdizionali. Nella sua veste consultiva, il Consiglio di Stato è chiamato a esprimere pareri facoltativi, obbligatori e vincolanti. In linea generale, i pareri richiesti su provvedimenti normativi o amministrativi del Governo sono facoltativi e possono essere disattesi senza che sull’amministrazione richiedente gravi alcun un onere motivazionale. Diverso è, invece, il caso dei pareri richiesti al Consiglio di Stato ai sensi dell’art. 17, co. 25, della legge n. 127/1997. Tale disposizione, infatti, impone che il parere sia richiesto in via obbligatoria: a) per l’emanazione degli atti normativi del Governo e dei singoli Ministri, ai sensi dell’art. 17 della legge n. 400/1988, nonché per l’emanazione dei testi unici; b) per la decisione dei ricorsi straordinari al Presidente della Repubblica; c) sugli schemi generali di contratti-tipo, accordi e convenzioni predisposti da uno o più Ministri. In tali circostanze, la pubblica amministrazione può discostarsi dal parere reso dal Consiglio di Stato, ma deve motivare in ordine alla sua diversa determinazione. Sono residuali, invece, i casi in cui il parere del Consiglio di Stato risulta addirittura vincolante, imponendo alla pubblica amministrazione, laddove adotti l’atto, di conformarsi al suo contenuto. Resta da esaminare, infine, il ruolo svolto dalla Corte dei conti, che si articola in sezioni di controllo e sezioni giurisdizionali. Ai sensi dell’art. 100, co. 2, Cost., la Corte dei conti esercita «il controllo preventivo di legittimità sugli atti di Governo, e anche quello successivo sulla gestione
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del bilancio dello Stato. Partecipa, nei casi e nelle forme stabiliti dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria. Riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito». Il controllo preventivo di legittimità è previsto per un numero limitato di atti, stabiliti dall’art. 3, della legge n. 20/1994, a cui si aggiungono gli «atti che il Presidente del Consiglio dei Ministri richieda di sottoporre temporaneamente a controllo preventivo o che la Corte dei conti deliberi di assoggettare, per un periodo determinato, a controllo preventivo in relazione a situazioni di diffusa e ripetuta irregolarità rilevate in sede di controllo successivo». Per quanto riguarda i termini del controllo, l’art. 27, co. 1, della legge n. 340/2000, stabilisce che «gli atti trasmessi alla Corte dei conti per il controllo preventivo di legittimità divengono in ogni caso esecutivi trascorsi sessanta giorni dalla loro ricezione, senza che sia intervenuta una pronuncia della Sezione del controllo, salvo che la Corte, nel predetto termine, abbia sollevato questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 81 della Costituzione, delle norme aventi forza di legge che costituiscono il presupposto dell’atto, ovvero abbia sollevato, in relazione all’atto, conflitto di attribuzione». In caso di esito positivo, il magistrato appone un visto all’atto e lo “registra”, attestandone la conformità alla legge. Laddove, invece, si rilevino motivi di illegittimità, si avviano le interlocuzioni con l’amministrazione interessata a cui segue l’eventuale deliberazione della sezione di controllo. Se il Ministro competente ritiene comunque che «l’atto o decreto debba aver corso» (art. 25, co. 2, r.d. n. 1214/1934), sottopone la questione al Consiglio dei ministri affinché deliberi in tal senso. In questa circostanza, la Corte «è chiamata a deliberare a sezioni riunite, e qualora non riconosca cessata la causa del rifiuto, ne ordina la registrazione e vi appone il visto con riserva». La registrazione con riserva è esclusa, invece, in alcuni specifici casi, come le «nomine e promozioni di personale di qualsiasi ordine e grado, disposte oltre i limiti dei rispettivi organici», con la conseguenza che, in tali circostanze, il rifiuto della registrazione da parte della Corte rende inefficace il provvedimento. Per quanto concerne, infine, i controlli successivi, occorre dar conto del controllo sulla gestione delle amministrazioni pubbliche e del più risalente controllo di parificazione del rendiconto generale dello Stato e dei rendiconti annessi. Quanto al primo, disciplinato all’art. 3, co. 4, 5 e 6, della legge n. 20/1994, si tratta di un controllo successivo «sulla gestione del bilancio e del patrimonio delle amministrazioni pubbliche, nonché sulle gestioni
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Capitolo VI
fuori bilancio e sui fondi di provenienza comunitaria». In questo ambito, la Corte è chiamata a verificare «la legittimità e la regolarità delle gestioni» e ad accertare «la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa agli obiettivi stabiliti dalla legge, valutando comparativamente costi, modi e tempi dello svolgimento dell’azione amministrativa». La Corte predispone annualmente una relazione e riferisce al Parlamento ed ai Consigli regionali sull’esito del controllo eseguito. Le relazioni sono trasmesse, inoltre, alle amministrazioni interessate, le quali, entro sei mesi dalla data di ricezione, devono comunicare le misure conseguenzialmente adottate. Quanto al controllo di parificazione, l’art. 38 del r.d. n. 1214/1934, stabilisce che il Ministro delle finanze deve trasmettere alla Corte dei conti il rendiconto generale dello Stato, alla fine di ogni esercizio finanziario, prima che sia presentato all’approvazione delle Camere. La Corte, a sezioni riunite, verifica il rendiconto e ne confronta i risultati tanto per le entrate, quanto per le spese, ponendoli a riscontro con le leggi di bilancio. Inoltre, valuta i rendiconti, allegati al rendiconto generale, delle aziende, gestioni ed amministrazioni statali con ordinamento autonomo soggette al suo riscontro. Sugli esiti di tale controllo, la Corte dei conti trasmette una relazione al Governo e al Parlamento, affinché possano prendere visione delle eventuali criticità nel funzionamento della pubblica amministrazione, sia in ambito finanziario che con riferimento all’efficacia e all’efficienza dell’azione amministrativa.
CAPITOLO VII
L’ORDINAMENTO REPUBBLICANO: L’ARTICOLAZIONE TERRITORIALE SOMMARIO: 1. Il principio autonomistico e il sistema delle autonomie territoriali. – 2. Gli statuti degli enti territoriali e i gradi della differenziazione regionale. – 3. Il riparto della potestà normativa tra Stato e Regioni ordinarie e speciali (e Province Autonome di Trento e Bolzano). – 4. Il riparto delle funzioni amministrative. – 5. La forma di governo e l’attività amministrativa delle Regioni. – 6. Attività amministrativa e forma di governo degli altri enti territoriali.
1. Il principio autonomistico e il sistema delle autonomie territoriali L’organizzazione istituzionale della Repubblica è informata al principio autonomistico (art. 5 Cost.), risolvendosi nell’accoglimento di una forma di stato regionale, la cui fisionomia, sul piano territoriale, è assai varia. Si è soliti affermare, dunque, che la Repubblica italiana non coincide con lo Stato-apparato o con lo Stato-persona. Quest’ultimo, infatti, rappresenterebbe soltanto uno dei diversi soggetti in cui si articola lo Statocomunità come ordinamento giuridico pluralista, sia sul piano sociale nel senso più ampio, sia sul piano territoriale: un ordinamento nel quale persone e comunità sono chiamate a compartecipare in modo propositivo alla costruzione della cornice democratica, seguendo l’obiettivo di “trasformazione” indirizzato alla Repubblica nel suo complesso (art. 3, co. 2, Cost.). Il sistema delle autonomie territoriali è un tassello essenziale di questa ricostruzione, contribuendo a definire l’accezione comunitaria della Repubblica sotto due diverse angolazioni: quella della strutturazione stessa degli enti territoriali quali comunità politico-rappresentative, esponenziali di interessi propri e capaci di amministrazione; quella della contribuzione diretta dei medesimi enti alla formazione della Repubblica come entità composita.
Stato-apparato e Stato comunità
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Alcuni dati quantitativi
Capitolo VII
Quest’ultimo elemento, dopo la riforma costituzionale avvenuta con legge cost. n. 1/2001, risulta in modo tanto più evidente dalla formulazione testuale dell’art. 114, co. 1, Cost., in cui si afferma che la Repubblica «è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». La disposizione è meritevole di alcune precisazioni, specie alla luce del significato desumibile dal confronto con altri articoli. In primo luogo, stabilendo uno specifico ordine nell’elencazione delle “parti” della Repubblica (dapprima i Comuni e gli altri enti locali), la Costituzione anticipa la complessiva proiezione sussidiaria del rapporto tra le comunità territoriali, proiezione che è espressamente sancita nel successivo art. 118, co. 1, Cost., in merito alla disciplina dell’allocazione delle funzioni amministrative. In secondo luogo, ponendo ogni singola “parte” accanto alle altre, la Costituzione sottolinea la pari dignità istituzionale di ciascuna di esse, sia nel senso della partecipazione di ognuna al disegno repubblicano, sia nel senso della necessità che l’esercizio delle rispettive prerogative da parte di ciascuna non possa mai essere dimentico dell’esistenza delle altre in quanto anelli ineludibili della medesima catena. In tale direzione, l’art. 114, co. 1, chiarisce l’esistenza di un principio di equiordinazione dei diversi enti e rafforza la consistenza del principio di leale collaborazione (già desumibile, come si è visto, dalla lettura dell’art. 5 Cost., ma poi affermato testualmente nell’art. 120, co. 2, Cost.). In terzo luogo, l’elencazione “gradualistica” posta dall’art. 114, co. 1, è richiamata e opportunamente qualificata anche dall’art. 118, co. 4, Cost., allorché, affermandosi il principio di sussidiarietà orizzontale, si chiarisce che esiste un nesso molto evidente tra il principio autonomistico come espressione dell’opzione pluralistica sul piano delle comunità territoriali e il principio autonomistico come espressione di un’opzione pluralistica sul piano sociale e, dunque, sulla possibilità che l’amministrazione della cosa pubblica debba preferenzialmente svolgersi in modo partecipato e condiviso. È anche bene ricordare che, quanto alla sua dimensione strettamente territoriale, la comunità repubblicana è composta da un numero molto alto di soggetti: 20 Regioni (di cui 5 “speciali”: Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige/ Südtirol; quest’ultimo è formato da due Province Autonome, quella di Trento e quella di Bolzano: v. artt. 131 e 116, co. 1 e 2, Cost.); 80 Province (escluse le Province Autonome già ricordate e le ex-Province già operanti in Sicilia e in Friuli-Venezia Giulia, sostituite, rispettivamente nel 2015 e nel 2016, da 6 liberi consorzi comunali e da 3 enti di decentramento regionale); 14 Città metropolitane (Bari, Bologna, Cagliari, Ca-
L’ordinamento repubblicano: l’articolazione territoriale
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tania, Firenze, Genova, Messina, Milano, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Torino, Venezia); 7.901 Comuni (dei quali la maggioranza è distribuita nel Nord del Paese). Un dato particolarmente elevato è, evidentemente, quello dei Comuni, caratterizzati, per lo più, da una popolazione residente spesso molto esigua (sono 5.488 i Comuni che hanno meno di 5000 abitanti). In proposito gli studiosi hanno da tempo osservato che dimensioni troppo piccole non giovano di per sé a uno sviluppo efficace ed efficiente dell’autonomia comunale. Non è un caso, quindi, che negli ultimi anni, anche in ragione della sopravvenuta necessità di mantenere in equilibrio la finanza pubblica nazionale, il legislatore abbia stimolato in modo molto deciso processi di fusione, di unione o di gestione associata di numerose funzioni e di altrettanti servizi pubblici di originaria competenza dei singoli Comuni, alla ricerca della costituzione di nuove comunità, più ampie e meglio dimensionate rispetto all’evoluzione socio-economica del territorio. Con quest’ultimo profilo si è intrecciato anche il tema della revisione delle Province, avviata con il d.l. “Monti” (n. 201/2011) e confermata dalla legge “Delrio” (n. 56/2014), in funzione di una loro possibile abolizione, prevista da una riforma costituzionale del 2016, che è stata, però, bocciata dai cittadini con referendum. La revisione in questione è consistita soprattutto nella configurazione delle Province quali enti di secondo grado, con un Presidente e un Consiglio eletti dai Sindaci e dai consiglieri dei Comuni del territorio provinciale (mediante un sistema di voto ponderato, in relazione al numero di abitanti presenti in ciascun Comune), e con un’Assemblea costituita da tutti i Sindaci del medesimo territorio. Ma occorre subito segnalare che, negli ultimi anni, è in corso, sostenuto da gran parte delle forze politiche, un rilancio delle Province, anche per il tramite di riforme volte a riconferire loro un’autonomia radicata sull’esistenza di un proprio circuito politico-rappresentativo. Altri flussi riformatori hanno portato alla definitiva trasformazione di 14 Province in Città metropolitana, il nuovo ente territoriale già costituzionalizzato nel 2001, e dotato oggi, oltre che delle funzioni delle Province, anche di significative ed ulteriori funzioni di pianificazione e di organizzazione di servizi pubblici di ambito metropolitano (il Sindaco metropolitano coincide, di regola, salva diversa determinazione statutaria, col Sindaco del capoluogo della ex-Provincia; altri organi della Città metropolitana sono il Consiglio metropolitano, organo rappresentativo di secondo grado, eletto dai sindaci e dai consiglieri dei Comuni dell’area metropolitana, e la Conferenza metropolitana, composta da tutti i Sindaci del territorio di riferimento). Una peculiare e aggiuntiva configurazione, espressamente speciale, ha il Comune di Roma, capitale della Repubblica (Roma Capitale), per la
Processi di riforma
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Numero chiuso degli enti e variazioni territoriali
Capitolo VII
quale la Costituzione, sempre dal 2001, prevede che una legge dello Stato disciplini il suo ordinamento (art. 114, co. 3; v. legge n. 42/2009, e dd.llgs. n. 156/2010; n. 61/2012; n. 51/2013). Al legislatore ordinario non è mai possibile mutare la tipologia degli enti territoriali costituzionalmente previsti, le cui singole rappresentazioni costituiscono, dunque, un numerus clausus. Ma occorre ricordare, ad ogni modo, che la Costituzione stessa contempla altre potenziali mutazioni, quelle territoriali. E ciò vale sia in termini di creazione di nuove Regioni (per fusione o per scissione di alcuni territori), sia in termini di spostamento di enti locali da una Regione a un’altra, sia, ancora, in termini di mutamento delle loro circoscrizioni ovvero di creazione di nuovi Comuni o di nuove Province. Nel primo caso – creazione di una nuova Regione: ipotesi possibile, purché il nuovo ente territoriale abbia un minimo di un milione di abitanti – si stabilisce che sia necessaria una legge costituzionale: il Parlamento potrà adottarla soltanto dopo aver sentito i Consigli regionali interessati e sempre che «ne facciano richiesta tanti Consigli comunali che rappresentino almeno un terzo delle popolazioni interessate, e la proposta sia approvata con referendum dalla maggioranza delle popolazioni stesse» (art. 131, co. 1, Cost.). Nel secondo caso – spostamento di enti locali – è necessaria una legge statale, che tuttavia potrà essere adottata soltanto sentiti i Consigli regionali e «con l’approvazione della maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati espressa mediante referendum» (art. 132, co. 2). Nel terzo caso – mutamento delle circoscrizioni o comunali o provinciali ovvero creazione di nuovi Comuni o Province – sono necessarie: per il caso delle mutazioni che interessino le Province, una legge statale (da adottarsi su iniziativa dei Comuni interessati e solo dopo aver sentito la Regione: art. 133, co. 1); per il caso delle mutazioni che interessino i Comuni (anche se relative al mutamento della loro sola denominazione:), una legge regionale (da adottarsi solo dopo aver sentito le popolazioni interessate: art. 133, co. 2). In anni recenti le possibilità della disciplina volta a regolare gli spostamenti di Comuni da una Regione all’altra si sono guadagnate una certa attenzione, specialmente con riguardo alle aspirazioni dimostrate da quegli enti locali che, confinanti con i territori di alcune autonomie speciali, hanno promosso la complessa procedura prevista dalla Costituzione per rendersi partecipi di un sistema istituzionale del tutto diverso e considerato migliore. Si tratta delle note vicende concernenti il passaggio alla Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol o alla Regione Friuli-Venezia Giulia di alcuni Comuni della montagna veneta, vicende che in qualche caso (ad esempio, quello del Comune di Sappada, transitato in territorio
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friulano) hanno avuto esito completamente positivo, in altri casi (ad esempio, per molti altri Comuni confinanti con la Provincia di Trento o con la Provincia di Bolzano) hanno stimolato soprattutto l’attivazione delle autonomie speciali interessate in merito all’intensificazione della cooperazione con i territori di confine o hanno anche portato il legislatore regionale e statale a “promuovere” la peculiare condizione delle Province montane tout court considerate. La tendenziale equiordinazione tra gli enti territoriali del sistema repubblicano non comporta che essi possano considerarsi “alla pari” a tutti gli effetti. Lo sono, come si è affermato, sul piano della dignità istituzionale, del riconoscimento reciproco e della compartecipazione al progetto collettivo che è sinteticamente, ma simbolicamente, posto all’art. 3, co. 2, Cost. Ma il margine della rispettiva autonomia è assai diverso. Se è vero che l’autonomia regionale ha la sua fonte diretta nella Costituzione, è altrettanto vero che essa è destinata ad esprimersi nel contesto di un articolato rapporto di dialogo-conflitto con le competenze legislative e amministrative dello Stato e, al contempo, delle altre autonomie. E lo stesso può dirsi con riferimento ai Comuni, alle Province e alle Città metropolitane, per i quali le funzioni fondamentali di cui sono titolari o gli organi di governo o la legislazione elettorale sono integralmente rimessi all’esercizio della potestà legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, co. 2, lett. p). Vi è anche un altro aspetto da considerare, non meno significativo e capace di chiarire in maniera esplicita il rapporto che tuttora esiste, anche dopo l’importante riforma costituzionale del 2001, tra lo Stato – come spina dorsale del sistema – e le autonomie territoriali. Con ciò si allude al regime di perdurante uniformità organizzativa che sia la Costituzione, sia le leggi statali continuano a conferire alle predette autonomie, con l’eccezione (pur sempre relativa, anche se concettualmente significativa) delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e di Bolzano. In questo singolare, ma efficacissimo, meccanismo, ad esempio, il Comune – che pure integra, sul piano storico, l’entità socio-economica e culturale di più lunga e consolidata esistenza nel contesto delle autorità pubbliche del Paese – è sempre e invariabilmente lo stesso Comune, al Nord, come al Centro, come al Sud. Sembra, dunque, che sia possibile ravvisare ancora le tracce, nell’ordito dell’organizzazione, pur pluralistica e policentrica, della Repubblica, dell’insegnamento che la dottrina giuridica italiana aveva metabolizzato e che era già stato tradotto in coerente legislazione nell’ambito dello Stato unitario di matrice liberale, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento: affinché sia garantita l’eguaglianza di tutti i cittadini, è necessario che la dimensione pubblica si rapporti ad essi sempre nel medesimo mo-
Principio di equiordinazione e tendenza baricentrica dello Stato
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Strumenti di coordinamento
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do, dunque con il medesimo volto; non solo per ciò che concerne i principi dell’azione amministrativa, ma anche per ciò che riguarda la “figura” idonea a rappresentare la “sovranità” dello Stato. La sopravvivenza di questo imprinting spiega in modo molto razionale la sopravvivenza di una concezione “stato-centrica”, che funge da “baricentro” dell’ordinamento repubblicano. Tuttavia, essa entra in parziale disarmonia con l’obiettivo di eguaglianza, non solo formale, ma anche sostanziale, che questo ordinamento si propone con la costituzionalizzazione dello stato democratico e, per ciò solo, con l’acquisizione che il pluralismo e il policentrismo territoriali e istituzionali, lungi dal costituire una minaccia per l’eguaglianza, ne possono integrare l’occasione più proficua. In merito al modo con cui lo Stato e le autonomie si integrano tra loro e contribuiscono così a formare un ordinamento composito anche al livello dell’interazione tra l’esercizio delle pur preponderanti prerogative statali e gli spazi di manovra che devono comunque essere riconosciuti ai territori regionali e locali, non va dimenticato il c.d. “sistema delle Conferenze”, formalmente rilanciato e “strutturato” dal d.lgs. n. 281/1997. Nato in via di prassi governativa, sin dagli anni ’80, esso si è gradualmente affermato come sede di coordinamento, espressione del principio costituzionale di leale collaborazione, ed è composto dalla Conferenza Stato-Regioni, dalla Conferenza Stato-Città e autonomie locali, nonché dalla c.d. “Conferenza unificata”, data dall’unione delle prime due «per le materie ed i compiti di interesse comune» (art. 1, co. 1, d.lgs. n. 281, cit.). La Conferenza Stato-Regioni, in particolare, ha un ruolo fondamentale, quale organo consultivo del Governo statale allorché questo debba esercitare competenze che lo portino ad interferire, anche in sede di formulazione di indirizzi generali della politica del “centro”, nelle materie di spettanza regionale. Essa è composta, oltre che dal Presidente del Consiglio dei Ministri (o, su sua delega, dal Ministro per gli Affari regionali), che la presiede, dai Presidenti (o da loro rappresentanti o assessori) di tutte le Regioni italiane, ordinarie e speciali, e delle Province autonome di Trento e di Bolzano, nonché, eventualmente e volta per volta, dai Ministri interessati e/o da rappresentanti di amministrazioni statali e di enti pubblici. Al di là della necessità del consenso del Governo, la Conferenza costituisce un organo collegiale che può lavorare anche a maggioranza. In sede di Conferenza, ad esempio, si promuovono e sanciscono le intese che la legge caso per caso richieda tra Stato e Regioni (v. art. 4, d.lgs. n. 281, cit.) o gli accordi che Stato e Regioni decidano di concludere «al fine di coordinare l’esercizio delle rispettive competenze e svolge-
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re attività di interesse comune» (v. successivo art. 5); ovvero, e ancora, si assicura lo scambio di dati o informazioni tra Stato e Regioni, si determinano (laddove previsto) i criteri per l’individuazione dei trasferimenti finanziari da effettuarsi per finalità di perequazione territoriale, si acquisisce il parere obbligatorio delle Regioni sui disegni di legge o sugli schemi di decreto legislativo o di regolamento che il Governo intenda promuovere nelle materie di competenza regionale, o si raccoglie, più in generale, il parere che il Governo intenda richiedere alle Regioni o che le stesse vogliano esprimere «su ogni oggetto di interesse regionale» (art. 2, co. 4, d.lgs. n. 281, cit.). Il settore nel quale la Conferenza ha prerogative molto importanti, avendo avuto, così, occasione di dare nel tempo buona prova di sé, è quello sanitario, sia in ragione delle funzioni che esplicitamente la legge attribuisce a quest’organo, sia per la frequenza con cui esso ha affrontato e risolto snodi strategici di sviluppo delle relative questioni amministrative. Come si vedrà, in ogni caso, la Conferenza ha assunto anche una valenza propriamente costituzionale, non solo perché espressione del principio di leale collaborazione, ma anche perché individuata dalla Corte costituzionale quale luogo di ideale realizzazione delle negoziazioni che sono richieste dall’applicazione del principio di sussidiarietà verticale (art. 118, co. 1, Cost.: v. sin d’ora Corte cost., n. 303/2003). Più in generale, il giudice costituzionale ha visto nella Conferenza l’istituto ordinamentale capace, in mancanza di una riforma costituzionale volta a integrare la presenza delle autonomie territoriali nel corpo degli organi statali sovrani, di agevolare e garantire l’adeguata valutazione da parte del legislatore nazionale di interessi pubblici sempre più complessi, e come tali non facilmente attribuibili ad una chiara ripartizione di competenze e di responsabilità tra il “centro” e la “periferia” (v. Corte cost. n. 251/2016).
2. Gli statuti degli enti territoriali e i gradi della differenziazione regionale Il pilastro formale dell’autonomia territoriale e del principio di equiordinazione sopra descritto si rinviene nelle previsioni costituzionali che ricollegano il riconoscimento di quell’autonomia al simultaneo riconoscimento di una specifica potestà statutaria in capo agli enti che ne sono dotati. L’affermazione di questa potestà, infatti, ha, in via di principio, una significato molto profondo: ammettere che per gli enti territoriali c’è un nucleo originario di autonomia, che ha le sue radici in una fonte la cui
Ruolo dell’autonomia statutaria
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Approvazione degli statuti regionali
Natura degli statuti regionali
Capitolo VII
stessa denominazione evoca una lunga e nobile “storia” di rivendicazione e di legittimazione; ma anche fondare l’autonomia su una sorta di gradiente minimo ed essenziale, proprio di ogni soggetto pubblico, quello auto-organizzativo, che non si può mai cancellare e che, anzi, può sprigionare spontaneamente forze ed energie idonee ad accrescere in concreto le articolazioni e le funzioni dell’ente medesimo. La disciplina costituzionale degli statuti regionali si trova collocata tra l’art. 114, co. 2, già ricordato, e l’art. 123 Cost. Quest’ultima disposizione, in particolare, consente di individuare come debbano essere approvati gli statuti e quali siano i contenuti che la Costituzione rimette nella loro disponibilità. Nell’assetto anteriore al 2001 gli statuti venivano adottati dal Consiglio regionale, per essere poi approvati con legge dal Parlamento. La nuova procedura prevede l’approvazione da parte del solo Consiglio regionale e ricalca altresì un modello che conferma la volontà di riconoscere a questa fonte un rango sovraordinato a quello della legge regionale, e che, per molti aspetti, e anche per la sua connotazione spiccatamente garantistica, ricalca le scansioni e le possibilità che sono previste per l’approvazione di leggi costituzionali o di revisione costituzionale: è necessaria una duplice approvazione ad un intervallo prestabilito (non minore di due mesi); l’approvazione deve avvenire in entrami i casi a maggioranza qualificata (la maggioranza assoluta dei componenti del Consiglio); è possibile che, entro tre mesi dalla sua pubblicazione, lo statuto sia sottoposto a referendum popolare (laddove lo richiedano un cinquantesimo degli elettori della Regione o un quinto dei componenti del Consiglio regionale; lo statuto non viene, dunque, promulgato se non è approvato dalla maggioranza dei voti validi). Lo statuto regionale – che può essere impugnato dal Governo dinanzi alla Corte costituzionale, entro trenta giorni dalla sua pubblicazione (e dunque anche prima che esso venga sottoposto, se del caso, a referendum popolare) – può quindi dare l’impressione che ci si trovi davvero dinanzi ad una piccola “costituzione regionale”. Tale conclusione, se per un verso è condivisibile, quanto meno nel senso che valorizza il senso della speciale procedura ora descritta e declina in modo facilmente afferrabile la valenza che questa fonte peculiare assume anche per effetto della disciplina già vista di cui all’art. 114, co. 2, Cost., per altro verso rischierebbe di condurre a risultati ingannevoli. Accrediterebbe, cioè, l’idea che negli statuti le Regioni possano esprimere, con pieno e “superiore” effetto, giuridicamente vincolante, la “tavola dei valori” di ciascuna comunità regionale o indicazioni di carattere programmatico o di principio. Si tratta di una proiezione che, in realtà, non è di per sé vietata, e che molte Regioni, per l’appunto, hanno seguito, tal-
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volta con affermazioni generiche o ridondanti, talaltra con manifestazioni di indirizzo assai connotanti. Ma la Corte costituzionale ha chiarito da tempo, ormai, che gli statuti debbono essere approvati in armonia con la Costituzione (non più, però, in armonia con il contenuto delle leggi statali), e quindi con il tessuto dei principi e dei diritti che la Costituzione stessa pone all’intera comunità nazionale. Laddove la Regione intendesse prefigurare sin dallo statuto specifici obiettivi di sviluppo per la comunità di riferimento, ciò potrebbe fare, dal punto di vista tecnico, solo per mezzo di quanto è consentito dai limiti dell’esercizio legittimo delle proprie competenze legislative: affermazioni volte a tradurre in norme cogenti la sensibilità politica diffusa in un territorio, se presenti, non avrebbero valore giuridico (v. Corte cost. n. 372/2004). Non vi sono dubbi, invece, per quello che è il tradizionale contenuto necessario degli statuti, dal momento che esso è specificato dalla Costituzione: la forma di governo regionale (su cui v. anche legge cost. n. 1/1999); i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento dell’apparato istituzionale regionale; la disciplina del diritto di iniziativa legislativa regionale, del referendum su leggi e atti amministrativi regionali e della pubblicazione delle leggi e dei regolamenti regionali; la disciplina del Consiglio delle autonomie locali, «quale organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali» (art. 123, co. 4). In proposito, una importante distinzione va compiuta tra gli statuti delle Regioni ordinarie e le cc.dd. “leggi statutarie” (o “leggi di governo”), che per effetto della legge cost. n. 2/2001, possono essere approvate anche dalle autonomie speciali per raggiungere le finalità che, in seguito alla legge cost. n. 1/1999, sono permesse alle Regioni ordinarie in tema di forma di governo e legislazione elettorale. Si tratta di una diversa e peculiare fonte del diritto, sia per ciò che concerne l’iter della sua approvazione, sia per quanto riguarda il suo oggetto. Anche gli statuti di Comuni e Province trovano la loro disciplina costituzionale a cavallo di diverse disposizioni costituzionali: i già visti artt. 114, co. 2, e 117, co. 2, lett. p), innanzitutto, ma anche l’art. 117, co. 6, secondo cui gli enti locali «hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite». Tradizionalmente, infatti, la potestà statutaria degli enti locali è sempre stata assimilata alla potestà normativa di rango regolamentare, sia pur nel riconoscimento del valore gerarchicamente superiore delle norme dello statuto rispetto alle norme degli altri regolamenti locali (v. art. 7 TUEL, d.lgs. n. 267/2000). La superiorità dello statuto locale rispetto ai regolamenti risulta chiaramente anche dalla procedura per la loro approvazione, che segue uno schema “aggravato” (art. 6, co. 4, TUEL): è ne-
Contenuto necessario degli statuti regionali
Disciplina degli statuti comunali e provinciali
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Natura delle fonti statutarie locali
Regime statutario delle Città metropolitane
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cessaria, infatti, la duplice approvazione da parte del Consiglio dell’ente locale, che deve avvenire a maggioranza assoluta dei suoi componenti entro un termine non superiore a trenta giorni; il Consiglio, però, può anche approvare lo statuto in un’unica e immediata soluzione laddove a ciò concorra la maggioranza dei due terzi dei suoi componenti. Occorre rammentare, tuttavia, che proprio l’affermazione costituzionale del principio di equiordinazione ha spinto larga parte della dottrina a constatare che, probabilmente, nell’assetto disegnato nel 2001, gli statuti locali – in quanto fonti dell’autonomia locale in diretta “comunicazione” con la Costituzione – potrebbero configurarsi quali fonti para-primarie o para-legislative, capaci, cioè, di occupare tutti gli spazi di disciplina non riservati al legislatore statale (che dovrebbe limitarsi alle funzioni fondamentali, agli organi di governo e alla legislazione elettorale). La tesi, non pacifica in giurisprudenza, è stata riconosciuta anche dalla Corte di cassazione (Sez. Un., n. 12868/2005), in tema di rappresentanza processuale del Comune. La Cassazione, in particolare, ha definito lo statuto comunale quale atto normativo atipico, con caratteristiche specifiche, di rango paraprimario o subprimario, posto in posizione di primazia rispetto alle fonti secondarie dei regolamenti e al di sotto delle leggi di principio, in quanto diretto a fissare le norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente ed a porre i criteri generali per il suo funzionamento, eventualmente derogando anche alle disposizioni di legge che non contengano principi inderogabili (v. anche supra, Cap. II). Nel caso di specie, quindi, la Corte ha ritenuto che la disciplina statale sulla spettanza al Sindaco della rappresentanza processuale in giudizio del Comune possa essere derogata dallo statuto comunale, prevedendosi che essa competa al dirigente del rispettivo settore o anche ad altri esponenti della struttura apicale amministrativa del Comune, eventualmente anche in via disgiunta dal riconoscimento di una rappresentanza sostanziale (quindi, ad esempio, anche al dirigente dell’Ufficio legale del Comune) e senza la previa autorizzazione della Giunta comunale. Anche per le Città metropolitane – l’innovativo ente territoriale definitivamente costituzionalizzato nel 2001 – deve ribadirsi, in generale, quanto si è detto circa la configurazione costituzionale della potestà statutaria degli altri enti locali. Non vi è dubbio, però, che, sul piano del diritto di fonte primaria, la potestà statutaria delle Città metropolitane merita qualche rilievo in più. Ciò vale, in primo luogo, sul piano contenutistico, poiché lo statuto della Città metropolitana non è chiamato ad occuparsi soltanto delle «norme fondamentali dell’organizzazione dell’ente» (art. 1, co. 10, legge “Delrio” cit.), ma si vede attribuite una serie significativa di ambiti di potenziale intervento (v. il successivo co. 11), quali: a) la regolazione delle
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modalità e degli strumenti di coordinamento dell’azione complessiva di governo del territorio metropolitano; b) la disciplina dei rapporti tra i Comuni e le loro unioni facenti parte della Città metropolitana e la Città metropolitana stessa, in ordine alle modalità di organizzazione e di esercizio delle funzioni metropolitane e comunali, potendo anche prevedere forme di organizzazione in comune, anche differenziate per aree territoriali; c) la costituzione, anche su proposta della Regione e comunque d’intesa con la medesima, di zone omogenee, per specifiche funzioni e tenendo conto delle specificità territoriali, con l’istituzione di organismi di coordinamento comunque collegati agli organi della Città metropolitana; d) la regolazione delle modalità in base alle quali i Comuni non compresi nel territorio metropolitano possono istituire accordi con la Città metropolitana. Ancor più d’impatto, inoltre, è la possibilità che lo statuto determini o meno l’elezione diretta del Sindaco metropolitano, stabilendo così anche la forma di governo dell’ente (v. il co. 22 dell’art. 1 cit.). Si può notare, dunque, che alla potestà statutaria delle Città metropolitane è rimesso un ruolo strategico di configurazione organizzativa di funzioni che competono ad altri enti – ruolo rispetto al quale questi ultimi non possono che svolgere una “parte” lato sensu esecutiva o, quanto meno, intrinsecamente cooperativa – ma anche un margine di manovra sul piano delle ricomposizioni “politiche” necessarie a rendere, caso per caso, più efficace e più stabile l’assunzione di detto ruolo. Le peculiarità, poi, si estendono anche alle modalità dell’adozione dello statuto e, a monte, alla titolarità stessa della correlata potestà. Quest’ultima, infatti, spetta alla Conferenza metropolitana, ossia all’organo composto dal Sindaco metropolitano e dai Sindaci dei Comuni appartenenti alla Città metropolitana. Ma la Conferenza può procedere solo su proposta del Consiglio metropolitano, l’organo che, invece, è composto dal Sindaco metropolitano e da un numero variabile di consiglieri eletti, a seconda del numero complessivo della popolazione residente. Sicché l’iter procedurale è così configurato: adozione della proposta di statuto da parte del Consiglio; su tale proposta la Conferenza metropolitana può esprimersi, positivamente o negativamente, con i voti che rappresentino almeno un terzo dei Comuni compresi nella Città metropolitana e la maggioranza della popolazione complessivamente residente (v. co. 9 dell’art. 1 cit.). Si tratta, evidentemente, di un assetto compromissorio, volto a garantire che l’esistenza nell’area metropolitana di un circuito politico-rappresentativo di nuova formazione – cui dovrebbe riconoscersi l’esercizio legittimo delle prerogative autonome della comunità di cui la Città metropolitana è esponenziale – possa superare o assorbire del tutto il consenso delle comunità di pre-esistente e persistente radicamento.
Adozione dello statuto metropolitano
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Autonomie speciali e statuti
Asimmetria della specialità
Capitolo VII
Il quadro dell’articolazione territoriale repubblicana, come si è già anticipato, non è finito qui. Nel pluralismo che la connota, una posizione istituzionale singolare è riconosciuta alle autonomie speciali. Sono tali cinque Regioni: Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste; Trentino-Alto Adige/Südtirol; Friuli-Venezia Giulia; Sicilia; Sardegna (art. 116, co. 1, Cost.). Esse sono dotate ciascuna di uno statuto, le cui norme hanno il rango della legge costituzionale e possono essere modificate soltanto mediante una procedura a sua volta originale rispetto a quella contemplata dall’art. 138 Cost. (essa prevede che l’iniziativa spetti non solo allo Stato, ma anche al Consiglio regionale, il quale peraltro deve obbligatoriamente esprimersi laddove il progetto di modifica sia del Governo o del Parlamento; è escluso, inoltre, che si possa fare ricorso al referendum). Il Trentino-Alto Adige/Südtirol, inoltre, è suddiviso in due Province Autonome, quella di Trento e quella di Bolzano, che in verità assorbono in larghissima parte il ruolo della Regione, con un proprio status di specialità parimenti riconosciuto dalla Costituzione (art. 116, co. 2, Cost.) e con rispettive attribuzioni definite puntualmente nello statuto speciale. Il modello delle autonomie speciali non risponde, di per sé, ad una logica unitaria, com’è del resto intuibile dalla stessa denominazione della “specialità”, che tradisce come la scelta di garantire peculiari condizioni di maggiore autonomia in taluni territori sia stata dovuta a situazioni volta per volta differenti, in talune ipotesi anteriori alla stessa formazione della Repubblica e della sua Costituzione. In molti casi si è trattato di una scelta apertamente condizionata dalla definizione delle trattative successive alla conclusione del secondo conflitto mondiale e dalla necessità di “certificare”, per così dire, i confini della Repubblica: riconoscendo e valorizzando l’autonomia di specifiche comunità etnico-linguistiche di storico insediamento, in coerenza con il principio di cui all’art. 6 Cost. (v., ad esempio, il caso del Trentino-Alto Adige/Südtirol o quello del Friuli-Venezia Giulia; ma non può dirsi estraneo a questa motivazione anche il caso della Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste); ovvero delineando un regime del tutto visibile e rafforzato all’autonomia di territori tradizionalmente attraversati da forti e ricorrenti spinte separatistiche e connotati dalla condizione dell’insularità, di per sé meritevole di un intervento ad hoc (v. la Sicilia e la Sardegna). Ad ogni modo, è opportuno sottolineare che è stata “asimmetrica” anche l’evoluzione successiva del modello, nel senso che l’attuazione dei diversi statuti e le vicende istituzionali delle singole specialità si sono rivelate assai eterogenee. Nonostante ciò, l’autonomia speciale è percorsa, sin dall’origine, da alcuni tratti comuni, che la caratterizzano in modo molto significativo
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rispetto all’autonomia delle Regioni ordinarie, e che sono apprezzabili soprattutto su due distinti piani, quello delle competenze legislative e quello finanziario. Sul piano delle competenze legislative, le autonomie speciali – oltre a poter esercitare le proprie prerogative normative e amministrative su elenchi di materie più ampi di quello di cui al previgente art. 117 Cost. – hanno sempre goduto di forme di potestà legislativa diverse e aggiuntive rispetto a quelle delle Regioni ordinarie: in primo luogo, di una potestà di integrazione/attuazione “a regime” (senza, cioè, che sia necessaria una delega da parte dello Stato); in secondo luogo, di una potestà legislativa primaria (o piena). Quest’ultima, di regola, è soggetta a limiti più “larghi” di quelli previsti per la normale potestà concorrente (e coincidenti con i principi generali dell’ordinamento giuridico e con le norme fondamentali delle riforme economico-sociali, oltre ai consueti e non valicabili confini del diritto penale e del diritto privato). Le autonomie speciali, però, sempre sul piano della produzione normativa, hanno anche la possibilità che una specifica Commissione paritetica formata da rappresentanti dello Stato e della Regione elabori, a seconda delle ipotesi, una proposta o un parere obbligatorio sull’adozione da parte del Governo di decreti legislativi di attuazione degli statuti, in materie (tra cui il trasferimento di tutte le funzioni amministrative) che sono espressamente riservate a questo tipo di fonte dallo statuto stesso e che, dunque, non possono essere disciplinate unilateralmente né da leggi statali, né da leggi regionali (o provinciali, nel caso delle Province Autonome). È a livello dell’autonomia finanziaria, comunque, che si misurano le peculiarità maggiormente significative. L’elemento differenziale più evidente, rispetto alla condizione delle Regioni ordinarie, consiste nell’entità – di volta in volta variabile – della compartecipazione regionale al gettito dei tributi statali correlati al territorio di ciascuna autonomia speciale, entità che è solitamente molto elevata e la cui concreta determinazione risponde tendenzialmente a due criteri fondamentali: a) in linea di principio i tributi statali devono, come si è soliti affermare, “restare” per la maggior parte sul territorio di riferimento; b) le leggi statali sul punto devono rispettare un fondamentale principio negoziale, nel senso che devono uniformarsi al contenuto di uno specifico accordo tra lo Stato e l’autonomia speciale interessata (il principio negoziale è stato confermato sia dalla Corte costituzionale, sia dall’evoluzione del diritto positivo statale in materia di “federalismo fiscale” – v. art. 27, legge n. 42/2009, laddove si rinvia allo strumento, nominato poc’anzi, dei decreti di attuazione). Il nodo delle risorse è, naturalmente, quello che più contraddistingue
Prerogative delle autonomie speciali
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Ulteriori gradi di differenziazione regionale
Capitolo VII
anche l’evoluzione delle discussioni sulle perduranti ragioni del modello della specialità: dalla parte delle stesse autonomie speciali, in primo luogo, visto che esse vi hanno anche trovato l’occasione per provare a proporre l’estensione dell’approccio negoziale previsto in quella sede anche alla definizione di una nuova disciplina per la revisione degli statuti speciali; da parte delle Regioni ordinarie, in secondo luogo, dal momento che l’assetto da ultimo illustrato è sempre stato concepito come una sorta di “privilegio”, capace di fornire l’ente territoriale così “agevolato” di margini di manovra, e dunque di scelta, molto più ampi di quelli comuni. A tale ultimo riguardo, va segnalato che la riforma costituzionale del 2001, se per un verso ha confermato queste specificità – e ha, anzi, previsto l’applicazione delle nuove norme del Titolo V modificato anche alle autonomie speciali, ma soltanto se più favorevole – per altro verso ha impegnato il giudice costituzionale, lo Stato e le stesse autonomie speciali in una complessa operazione di ri-adeguamento progressivo dei “confini” delle competenze e dei titoli di potenziale interferenza del “centro” (si pensi, ad esempio, agli effetti determinati, anche sulle competenze delle autonomie speciali, delle potestà statali di regolare in modo esclusivo le cc.dd. “materie trasversali”, quali la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni o la tutela della concorrenza o, ancora, la tutela dell’ambiente). Proprio in materia finanziaria, poi, al di là di vistose e ripetute applicazioni, anche alle autonomie speciali, dei limiti concernenti i principi di coordinamento della finanza pubblica di cui all’art. 119 Cost., va segnalato che lo Stato, anche in coerenza con la ratio della sopravvenuta riforma costituzionale dell’art. 81 Cost. (introdotta con legge cost. n. 1/2012), ha sperimentato spesso iniziative unilaterali, volte alla salvaguardia dell’equilibrio di bilancio e della sostenibilità complessiva del debito pubblico nazionale. Una delle maggiori innovazioni della riforma costituzionale del 2001 è data dalla possibilità che «[u]lteriori forme e condizioni particolari di autonomia» siano riconosciute anche alle Regioni che lo richiedano, secondo la procedura prevista dall’art. 116, co. 3, Cost. La disposizione in questione stabilisce quali siano i presupposti di forma e di contenuto per perseguire un tale obiettivo: è necessaria l’istanza della Regione interessata; la richiesta di maggiore autonomia può riguardare le materie di potestà legislativa concorrente Stato-Regioni (art. 117, co. 3, Cost.), nonché alcune materie di potestà esclusiva statale (la giustizia di pace; le norme generali sull’istruzione; la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali); la Regione deve anche sentire gli enti locali del suo territorio; è indispensabile che questa iniziativa venga perseguita nel rispetto dei principi affermati dall’art. 119 Cost., in
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termini di integrale finanziamento delle funzioni trasferite alle Regioni, ma anche di coordinamento della finanza pubblica e di solidarietà e coesione; la Regione deve stipulare quindi un’intesa con lo Stato; l’intesa deve formare oggetto di una legge statale, da approvarsi da parte di ciascuna Camera del Parlamento a maggioranza assoluta dei componenti. Rimasta a lungo quiescente, questa disciplina – che da molti è stata definita sotto l’etichetta convenzionale di regionalismo differenziato – ha ripreso vigore in anni recenti, specialmente allorché le domande di rafforzamento dell’autonomia regionale e, più in generale, di chiarimento complessivo del rapporto tra Stato e autonomie territoriali non hanno trovato sbocco nel contesto delle riforme costituzionali approvate dal Parlamento e bocciate dai cittadini. Di queste domande si sono fatte interpreti soprattutto tre Regioni: il Veneto, la Lombardia e l’Emilia-Romagna. Le prime due, in particolare, hanno dato forte impulso all’operatività concreta della disciplina, promuovendo nel 2017, con un certo successo, una consultazione referendaria regionale, volta a confermare l’iniziativa assunta dagli Esecutivi locali e a dare visibilità, anche sul piano della politica nazionale, al forte sostegno dell’opinione pubblica territoriale di riferimento e, per ciò solo, dell’elettorato. La stessa Corte costituzionale, del resto, ha precisato che la Costituzione non esclude in alcun modo che le Regioni possano disciplinare autonomamente fasi procedurali anteriori a quella propriamente delineata dall’art. 116, co. 3 e prevedere, dunque, forme di coinvolgimento della popolazione (v. sent. n. 118/2015). Ne è sortito un dibattito assai acceso, che da un lato ha motivato il Governo a intraprendere delle vere e proprie trattative con le predette Regioni, per la stipula delle intese previste dalla Costituzione, dall’altro ha spinto molte altre Regioni a “partecipare” alla relativa dinamica politico-istituzionale, formulando, sia pur in via per lo più generica, analoghe proposte. Queste trattative, ad ogni modo, hanno dato luogo a delle bozze di intesa, la cui formazione definitiva, però, si è arrestata. Al contempo la discussione di contorno, sia sul piano teorico, sia sul piano pratico, ha fatto emergere alcune perduranti criticità strutturali, quali la mancanza di una legislazione di diretta ed espressa attuazione dell’art. 116, co. 3, capace di delineare in dettaglio tutte le articolazioni della relativa procedura, e la difficoltà di individuare in modo corretto gli strumenti per la determinazione e l’allocazione delle risorse finanziarie necessarie allo svolgimento delle competenze correlate alle singole richieste di maggiore autonomia. Quest’ultimo tema, specialmente, è parso da subito come il più delicato, e ciò per diversi motivi: per l’impossibilità assoluta – pena la violazione dell’art. 119 Cost. – di prendere a riferimento, sul piano finanziario, il c.d. “residuo fiscale”, ossia la differenza
Iter attuativo complesso del regionalismo differenziato
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Limiti del regionalismo differenziato
Capitolo VII
tra le entrate tributarie che si raccolgono nei territori delle Regioni interessate e l’entità delle risorse pubbliche che vengono spese sui medesimi territori; per la pari ambiguità del criterio della c.d. “spesa storica”, ossia della spesa corrispondente al costo delle funzioni statali corrispondenti alle competenze oggetto di trasferimento; o per la non facile previsione del modo con cui raccordare le soluzioni di differenziazione con il finanziamento a regime delle funzioni che resterebbero statali per i territori non interessati. Sono sorti, peraltro, anche dubbi di carattere diverso, concernenti la profondità della riserva di legge rinforzata e le modalità effettive di intervento del Parlamento. Ci si è chiesti, ad esempio, se quest’ultimo, dinanzi all’intesa, abbia la sola opzione di approvare o non approvarne il relativo testo (senza, dunque, la possibilità di apportare modifiche o di indirizzare ulteriormente l’attività di negoziazione del Governo, analogamente a quanto accade per l’approvazione delle leggi di recezione delle intese tra lo Stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica, in base all’art. 8 Cost.). Ma ci si è chiesti anche se la legge statale in esame possa strutturarsi, sul piano contenutistico, come una legge delega, o se possa, addirittura, rinviare la concreta definizione di competenze e risorse ad un procedimento aggiuntivo e successivo, esso stesso negoziato, da compiersi integralmente nella disponibilità del Governo e delle Regioni interessate, previa fissazione di alcuni principi di cornice. Un rilancio operativo, concreto, dell’iter di realizzazione effettiva del regionalismo differenziato si è avuto con la XIX Legislatura. Nell’accoglimento dell’idea che non sia possibile procedere senza previa definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) che devono essere garantiti uniformemente sul piano nazionale in merito alla tutela dei diritti civili e sociali (art. 117, co. 2, lett. m), Cost.), si è, da un lato, insediata una commissione ad hoc, composta da un alto numero di esperti, proprio per la determinazione dei LEP e dei relativi costi standard (come parametri per l’individuazione dei trasferimenti di competenze e del loro impatto finanziario), e, dall’altro, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri un disegno di legge (c.d. “Calderoli”), che prevede la fissazione di principi generali, ma anche di modalità procedurali originali per l’approvazione delle intese fra lo Stato e una Regione (alle quali verrebbe assegnato anche un limite decennale di durata). Ciò premesso, sono comunque certe tre acquisizioni: la differenziazione prevista dall’art. 116, co. 3, Cost. non consente alle Regioni ordinarie di diventare, in tutto o in parte “speciali” (le autonomie speciali sono espressamente nominate al co. 1 e al co. 2 dello stesso art. 116 e presuppongono uno statuto approvato con legge costituzionale); pur inscrivendosi in un elenco di possibili materie, la maggiore autonomia che è
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conseguibile dalle Regioni ordinarie è pur sempre connessa alla definizione dettagliata delle funzioni amministrative che sono individuabili in quelle materie (e quindi richiede che nell’intesa tra lo Stato e la Regione, e nella successiva legge statale che la recepisce, le funzioni siano indicate, disciplinate e, dove necessario, reciprocamente coordinate); il margine di manovra concretamente riconoscibile allo Stato e alle Regioni si deve fondare sull’elaborazione di discipline rispettose anche dell’art. 118 Cost. e dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, dal momento che, in estrema analisi, ciò che nel sistema repubblicano delle autonomie territoriali può giustificare il regionalismo differenziato è la sua migliore corrispondenza, in termini di efficienza ed efficacia, agli obiettivi dell’intervento pubblico tout court considerato, non solo a rivendicazioni di matrice esclusivamente localistica o identitaria.
3. Il riparto della potestà normativa tra Stato e Regioni ordinarie e speciali (e Province Autonome di Trento e Bolzano) L’assetto attuale del riparto della potestà legislativa tra lo Stato e le Regioni è quello ricavabile dalle disposizioni di cui al Titolo V della Costituzione, così come riformato nel 2001 e interpretato dalla Corte costituzionale nel corso di più di un ventennio. La disposizione-chiave è senz’altro l’art. 117 Cost.: dal co. 1 al co. 4 essa getta le basi per la gran parte delle ricostruzioni finora effettuate. Il co. 1 merita subito un po’ di attenzione: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali». Da un lato, il tenore testuale sottolinea il carattere unitario della potestà legislativa, in una cornice, quella repubblicana, in cui Stato e Regioni compartecipano all’esercizio della medesima funzione sovrana. Dall’altro, si può osservare che l’occasione per l’affermazione di tale carattere è stata utilizzata dal legislatore costituzionale per indicare in modo parzialmente innovativo quali siano i riferimenti necessari e comuni per lo svolgimento di quella funzione, sia essa esercitata dallo Stato, sia essa esercitata dalle Regioni. Si tratta, precisamente, di tre limiti: l’osservanza della Costituzione; l’osservanza del diritto dell’Unione europea; l’osservanza degli obblighi internazionali. Il primo limite, naturalmente, non è certo inedito. Sul punto è opportuno ricordare che la possibilità di farlo valere, per lo Stato e per le Re-
Limiti generali alla potestà legislativa
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Capitolo VII
gioni, è asimmetrica. Diversamente da ciò che è permesso alle Regioni, lo Stato può rivolgersi alla Corte costituzionale attivando tempestivamente un giudizio di legittimità costituzionale in via principale (art. 127 Cost.) non solo per contestare il superamento da parte delle Regioni dei limiti delle loro competenze materiali in senso stretto, ma anche per rilevare il contrasto delle discipline legislative regionali con qualsiasi regola o principio costituzionale. Il secondo limite, allo stesso modo, non integra qualche cosa di rivoluzionario. Esso dà visibilità formale al principio della tendenziale prevalenza (o supremazia) del diritto dell’Unione europea e non muta in alcun modo il senso delle letture cui la Corte costituzionale era già giunta sin dalla metà degli anni ’80 (v. sent. n. 170/1984), sulla base dell’interpretazione evolutiva dell’art. 11 Cost. (cfr. supra, Capp. II e V). Difatti, resta sempre valido il principio per il quale – salva la pertinenza concreta della c.d. “teoria dei controlimiti” – dinanzi a diritto dell’Unione europea che sia qualificabile come self executing (dunque avente efficacia diretta) il giudice che lo debba considerare per la risoluzione di una controversia non è tenuto a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’eventuale norma interna (statale o regionale) che sia contrastante con la norma sovranazionale, ma deve semplicemente non applicare la prima e applicare la seconda. Il problema, dunque, della proposizione di una questione di legittimità costituzionale per violazione, da parte dei legislatori nazionali, del “parametro interposto” di legittimità costituzionale integrato dal diritto dell’Unione europea è circoscritto alle norme che non siano self executing (ad esempio, v. il caso di direttive che non abbiano i caratteri richiesti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia UE per essere considerate espressive di norme di quel genere: Corte cost. n. 129/2006). Come si vedrà, ad ogni modo, il tema della rispondenza delle leggi regionali al diritto dell’Unione europea è rilevante anche in forza di quanto dispone l’art. 117, co. 5, in merito alla possibilità che le Regioni stesse diano attuazione diretta, nelle materie di loro competenza, agli atti dell’Unione europea, come, del resto, agli accordi internazionali. Il terzo limite («obblighi internazionali») è, viceversa, molto più delicato, poiché ha impegnato ben presto sia la dottrina sia il giudice costituzionale ad individuare quali siano, nel contesto del diritto internazionale pattizio, quegli obblighi che possono validamente fungere da parametro interposto di legittimità costituzionale, e quale sia il contegno che, a fronte di obblighi così configurabili, debba tenere il giudice che ne consideri l’effettiva riferibilità ad una determinata fattispecie. Come è noto, alla soluzione di tali quesiti ha contribuito la Corte costituzionale con le “sentenze gemelle” del 2007 (nn. 348 e 349), pronunciate in merito alla riconducibilità alla categoria degli obblighi internazionali delle norme di
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cui alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu). Occorrerà verificare, innanzitutto, se effettivamente vi sia contrasto non risolvibile in via interpretativa tra la norma interna e le norme della Cedu, come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo ed assunte come fonti integratrici del parametro interposto di costituzionalità; quindi si dovrà anche verificare se le norme della Cedu invocate come integrazione del parametro, nell’interpretazione ad esse data dalla medesima Corte, siano compatibili con l’ordinamento costituzionale italiano; in caso positivo, sarà necessario sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma interna censurata alla luce della norma Cedu. In caso negativo, invece, sarà necessario sollevare la questione di legittimità costituzionale della legge italiana che ha dato attuazione alla Cedu nella parte in cui si fa concretamente veicolo della norma Cedu contrastante con la Costituzione. Fatta salva la comune cornice repubblicana per l’esercizio della potestà legislativa da parte di Stato e Regioni, il co. 2, il co. 3 e il co. 4 stabiliscono che cosa, di tale potestà, spetti allo Stato e che cosa, invece, spetti alle Regioni. La distribuzione così definita è orientata da un criterio ispiratore che, almeno sul piano formale, “inverte” (o “ribalta”) la logica della disciplina entrata in vigore nel 1948 e operante dagli anni ’70 al 2001: al legislatore statale non compete più un ruolo generale, bensì la possibilità di esprimersi, in via esclusiva, in un elenco specifico e “chiuso” di materie. Prima del 2001, l’impostazione era differente, poiché, ad esempio, era previsto l’interesse nazionale, come clausola generale di intervento legislativo dello Stato. Oggi, invece, almeno sul piano testuale, l’unico interesse nazionale che nel Titolo V riformato si può ancora affermare è quello presupposto alla declinazione delle singole materie tassativamente rimesse alla responsabilità dello Stato. Dunque, fatta salva la valenza di alcuni limiti logici all’esercizio delle prerogative regionali (su tutti, naturalmente, il limite territoriale), il pendolo della potestà legislativa si sposta, dal punto di vista concettuale, dallo Stato alle Regioni: a queste non solo compete una competenza concorrente molto più arricchita – in termini di numero e di qualità di materie – rispetto a quella previgente, ma corrisponde anche una generale potestà legislativa c.d. “residuale”, attivabile per ogni altra materia che non sia compresa nell’elencazione delle materie di competenza esclusiva statale e delle materie di competenza concorrente. L’elenco delle materie che, in base a questa ripartizione, rientrano nella disponibilità esclusiva dello Stato è posto dal co. 2 dell’art. 117 ed è il seguente: a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea; diritto di asilo e condizione giu-
Potestà legislativa di Stato e Regioni
Potestà esclusiva dello Stato
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ridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea; b) immigrazione; c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; d) difesa e forze armate; sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi; e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari; tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei bilanci pubblici; perequazione delle risorse finanziarie; f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo; g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali; h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; i) cittadinanza, stato civile e anagrafi; l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa; m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; n) norme generali sull’istruzione; o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane; q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; r) pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione statale, regionale e locale; opere dell’ingegno; s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali . A prima lettura, si può osservare che un simile catalogo materiale è espressione di “filosofie” tra loro diverse. In alcuni casi si tratta di riconfermare il carattere comunque unitario dell’ordinamento repubblicano, mantenendo in capo allo Stato ambiti classici del potere sovrano (v., ad esempio, la politica estera, l’immigrazione, la difesa, la moneta, l’ordine pubblico e la sicurezza, la cittadinanza, la giurisdizione, l’ordinamento civile e penale, la protezione dei confini). In altre ipotesi, poi, l’allocazione allo Stato corrisponde allo stesso meccanismo che implica il potere di autoorganizzazione di un ente (v., ad esempio, la disciplina degli organi statali, delle relative leggi elettorali, del referendum), confermandosi, peraltro, che, in questa prospettiva, anche il potere di organizzazione delle autonomie locali è ancora, e in larga parte, riconducibile alla medesima ratio. In altri casi, lo scopo dell’attribuzione statale deve rinvenirsi nella convinzione che vi siano interessi che, di regola, e salve alcune eccezioni nei regimi dell’autonomia speciale e del c.d. “regionalismo differenziato” (art. 116, co. 3, Cost.), non sono suscettibili di una differenziazione in senso proprio (v., ad esempio, la tutela della concorrenza, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali e civili, la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali).
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Alle materie nelle quali lo Stato può esercitare in via esclusiva la potestà legislativa repubblicana si affiancano i casi in cui la Costituzione individua l’esercizio di una potestà legislativa concorrente Stato-Regioni. Si tratta di una tipologia di potestà già sperimentata nel vigore del “vecchio” Titolo V – di cui si è già detto – e destinata a svolgersi secondo la nota dinamica per cui la potestà legislativa spetta alle Regioni, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato. Il dettaglio delle materie su cui insiste questa potestà è espresso al co. 3 dell’art. 117: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale. Non può sfuggire, in primo luogo, che questa rassegna è virtualmente molto ricca e consentirebbe alle Regioni di continuare a svolgere e a consolidare un ruolo assai significativo nella gestione di politiche pubbliche di rilevante importanza, come la sanità o come l’urbanistica, l’edilizia e il paesaggio (tutte ricomprese nella nozione amplissima di «governo del territorio»): politiche, cioè, nelle quali, già in applicazione della disciplina costituzionale previgente, il livello regionale aveva espresso tutte le proprie potenzialità, in chiave di realizzazione gestionale degli obiettivi definiti dal “centro”, ma anche in chiave di sperimentazione autonoma. In secondo luogo, però, l’elencazione del co. 3 dell’art. 117 ricomprende anche la “codificazione” di materie strategiche, per le quali si intuisce la volontà del legislatore costituzionale di affidare al livello regionale una missione sostanziale di amministrazione differenziata, o contestualizzata, di settori per i quali lo Stato si dovrebbe riservare, almeno di regola, soltanto i compiti del regolatore. Si pensi, in proposito, ai trasporti, alla ricerca o all’energia, ma anche, almeno tendenzialmente, all’istruzione.
Potestà concorrente dello Stato e delle Regioni
266 Potestà residuale delle Regioni
Profili critici del criterio di riparto
Capitolo VII
La norma di chiusura del sistema di riparto della potestà legislativa si trova al co. 4 dell’art. 117: «Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato». Su di un piano astratto, o se si vuole puramente teorico, ma non certo indifferente circa l’estrapolazione di un indirizzo interpretativo che il legislatore costituzionale avrebbe voluto senz’altro incentivare, la disposizione in esame ha la significativa valenza che si è già segnalata: grazie ad essa, infatti, sono le Regioni a costituire il livello legislativo di completamento di tutto il sistema produttivo delle norme giuridiche. In un’ottica più pratica, quasi tutti gli interpreti hanno valutato la disposizione in parola soprattutto come il veicolo mediante il quale si è riconosciuta alle Regioni una posizione di immediato e naturale riferimento per la fissazione della disciplina legislativa in materie che in precedenza erano attratte negli ambiti della competenza concorrente. È il caso, ad esempio, della caccia e della pesca, ma anche del turismo ovvero dell’istruzione e della formazione professionali. Il quadro finora descritto, abbastanza chiaro nella forma e nelle aspirazioni che il legislatore costituzionale intendeva conferirgli, si è rapidamente rivelato assai ambiguo nella sostanza, vale a dire nei risultati cui esso ha condotto. Molti autori, infatti, si sono espressi in termini di “fallimento” della riforma del 2001; e non è mancato chi ha osservato come, già qualche anno dopo l’entrata in vigore del nuovo riparto, la potestà legislativa regionale potesse talvolta sembrare, in diversi contesti, più contenuta o circoscritta di quanto non lo fosse nell’applicazione della disciplina costituzionale originaria. A che cosa si devono giudizi così negativi? L’elemento critico per eccellenza è sicuramente caratterizzato dall’inconsapevole ingenuità dell’approccio di rafforzamento dell’autonomia legislativa regionale mediante la tecnica della definizione materiale delle competenze. Nella distribuzione delle materie tra l’ambito della potestà esclusiva statale, quello della potestà concorrente e quello della potestà residuale regionale tutto sembra facile e scandito con precisione, ma così non è. Si prenda, sul punto, un esempio, tratto dalla giurisprudenza costituzionale, da subito attiva nel districare l’altissimo numero di controversie cui Stato e Regioni hanno dato vita: a chi spetta disciplinare la formazione professionale dei restauratori? Assumendo il punto di vista regionale, la risposta è facile: alle Regioni, poiché la formazione professionale è collocabile senz’altro nel novero delle materie in cui la Costituzione riconosce addirittura l’esercizio della potestà residuale regionale. Assumendo il punto di vista statale, la risposta è diametralmente opposta: allo
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Stato, e pure in via esclusiva, visto che i restauratori altro non sono che operatori professionali di una tecnica di tutela dei beni culturali, materia che la Costituzione alloca integralmente al “centro”. La Corte costituzionale (sent. n. 9/2004) ha risolto il caso a favore dello Stato: da un lato mettendo praticamente in chiaro ciò che tanti studiosi avevano subito evidenziato, ossia che le materie su cui le Regioni possono esercitare la potestà legislativa residuale non sono materie di “esclusiva” pertinenza regionale; dall’altro realizzando ciò che altrettanti regionalisti avevano temuto, ossia che il carattere testualmente tassativo delle competenze esclusive statali nascondesse al suo interno la possibilità ricorrente di sistematiche “invasioni di campo”, dovute alla presenza, in quel catalogo, di “materie-non materie”. Difatti, non tutte le materie di competenza esclusiva statale corrispondono a settori omogenei di intervento: in alcune di esse – quelle che in questa sede sono già state raggruppate come rappresentative dell’esigenza di garanzia uniforme di taluni interessi (ad esempio, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, la tutela della concorrenza, la tutela dell’ambiente, la tutela dei beni culturali, etc.) – lo Stato può trarre spunto per proiettare una specifica istanza di tutela in ogni ambito materiale, sia esso di competenza residuale regionale, sia esso di competenza concorrente. Proprio per questa peculiarità, si è anche parlato, al riguardo, di “materie trasversali”, di materie, cioè, capaci di abilitare l’esercizio esclusivo della potestà legislativa statale in modo assai esteso e “ambulante”, al di là dei confini segnati dal co. 2, dal co. 3 e dal co. 4 dell’art. 117 Cost. Ma dall’esempio in esame si trae spunto per un ulteriore rilievo. Nel definire il restauratore come il profilo professionale che concerne l’attività di tutela del bene culturale, la Corte costituzionale finisce per premiare, quasi naturalmente, la definizione che del restauro offre la legislazione statale. In buona sostanza, è come se, anche al di là delle “materie trasversali”, il contenuto stesso di tutte le definizioni materiali che riguardino l’attivazione della potestà statale venisse rimesso allo Stato stesso, con una sorta di ricorso ad una tecnica, a prima vista paradossale, di autoqualificazione: poiché per individuare il limite della rispettiva potestà statale occorre vedere a che cosa corrisponde la tutela dei beni culturali, è sufficiente – anzi, è indispensabile … – considerare la definizione che la stessa potestà statale offre. Il ricorso a questa tecnica, nell’interpretazione costituzionale, si è rivelato assai frequente e ha fatto riemergere, altresì, tutta una serie di “dispositivi” del modello “stato-centrico” previgente. Sempre in via esemplificativa, la tecnica dell’autoqualificazione è stata largamente seguita anche nella individuazione dei principi fondamentali che nella compe-
Peculiarità delle materie trasversali
Autoqualificazioni statali
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Modalità di esercizio delle potestà esclusive statali
Assenza di attuazione legislativa della disciplina costituzionale
Diritto dell’UE e ruolo di Stato e Regioni
Capitolo VII
tenza concorrente possono fungere da limite per l’intervento legislativo regionale, scoprendosi, così, che quei principi possono talvolta realizzarsi non solo con norme di principio in senso stretto, ma anche con norme che pur non potendo essere di vero dettaglio, sono più specifiche (con il solo limite del loro carattere necessariamente non auto-applicativo, altrimenti ogni intervento regionale sarebbe precluso per definizione), ovvero, ancora, con norme ricavabili, oltre che da fonti primarie, anche da fonti regolamentari o, in qualche occasione, da atti più amministrativi che normativi in senso stretto (cosa che è accaduta, ad esempio, con alcune “linee guida” adottate in specifici settori). Più in generale, si è affermata una lettura per la quale l’esclusività della competenza statale – anche con riferimento alle “materie trasversali” (emblematico il caso della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni) – vale pure ad assorbire la necessità che lo Stato si esprima con legge, potendo esaurire la sua funzione anche mediante atti di rango inferiore. A rigore, quest’ultimo corollario non deve stupire più di tanto: il riparto dell’esercizio concreto della potestà legislativa tra Stato e Regioni è informato ad una relazione di competenza, non di gerarchia. Il fatto è tuttavia, che, così facendo, alcune tendenze operative del sistema previgente si sono trasposte anche nel sistema potenzialmente rivoluzionario che il legislatore costituzionale intendeva affermare nel 2001, contribuendo per ciò solo a frenarne od ostacolarne l’impatto. Più di tutto, in definitiva, è emerso velocemente un grave problema: in mancanza di una definizione parimenti innovativa delle materie e delle funzioni a loro corrispondenti – operazione da condursi per mezzo di una esplicita e coerente attuazione legislativa della riforma da parte dello Stato – la ripetizione dell’approccio per definizioni materiali ha legato le sorti delle “novità” al sovrapporsi “pre-esistente” della legislazione statale di volta in volta applicabile e della relativa prassi esecutiva; come se, in altri termini, il nuovo Titolo V fosse stato costretto a muovere i suoi passi con una palla al piede assai pesante. Una compressione di fatto ancor più forte delle competenze regionali si ha quasi sempre laddove si tratti di attuare il diritto dell’Unione europea. Anche qui si registra una divaricazione sensibile tra forma e sostanza, anche se occorre ricordare che la responsabilità dell’attuazione grava tutta sullo Stato: quindi non è del tutto innaturale che esso abbia, sul punto, prerogative rafforzate. Il tenore testuale dell’art. 117, co. 5, Cost., in verità, pare del tutto in linea con l’impostazione “equiordinante”, sottesa anche al significato del co. 1: nei limiti delle loro competenze, Stato e Regioni possono attuare il diritto dell’Unione europea direttamente. Lo Stato si vede riconosciuto
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un potere sostitutivo – anche di matrice legislativa – solo in caso di inerzia del livello regionale. La legge statale che ha dato esecuzione a questa disposizione (legge n. 11/2005, poi sostituita dalla legge n. 234/2012) sembra seguire la medesima linea. Nelle materie di competenza concorrente lo Stato attua il diritto dell’Unione dettando i principi fondamentali; nelle materie di competenza residuale regionale, per rimediare all’inerzia delle Regioni, lo Stato può porre proprie norme, anche di natura regolamentare, che si applicano, però, finché le Regioni non adottano la propria disciplina; nelle materie di potestà esclusiva, invece, il Governo può esercitare un potere di indirizzo e coordinamento, da formalizzarsi con decreti del Presidente del Consiglio, previa intesa da raggiungersi nella Conferenza Stato-Regioni. Va tuttavia enfatizzato che, in concreto, l’attinenza “europea” di una disciplina è sempre servita al giudice costituzionale per compiere due ulteriori operazioni: a) argomentare, in presenza di intrecci complessi di materie, la preminenza di alcune competenze esclusive statali, in quanto volte a tutelare in modo omogeneo interessi oggetto di discipline europee (della cui effettiva e uniforme garanzia è responsabile, per l’appunto, lo Stato: il caso tipico è quello della tutela della concorrenza); b) sostenere anche la possibilità che, laddove vengano in essere situazioni di questo tipo, lo Stato possa, nel dettare i principi fondamentali all’interno della competenza concorrente, spingersi al di là della definizione di norme di principio in senso stretto, predisponendo anche in dettaglio la disciplina di procedimenti amministrativi in cui si debba applicare il diritto dell’Unione. A fronte di queste dinamiche, la Corte costituzionale ha anche cercato di porre un argine al potenziale ri-accentramento diffuso di molte competenze. A questo scopo, ad esempio, è stato utile, per la stessa Corte, anche il riferimento alla disciplina statale previgente di trasferimento delle funzioni amministrative. Se per un verso questo riferimento riproduce il “vizio” dell’autoqualificazione, per altro verso esso ha avuto il merito di porre in talune occasioni una sorta di “punto di non ritorno”, quanto meno relativamente all’autonomia che le Regioni avevano raggiunto in certi settori prima ancora della riforma del 2001 e per effetto delle riforme avviate nel 1997 all’insegna del c.d. “federalismo amministrativo”. Allo stesso modo, però, la Corte ha anche ribadito alcune precisazioni che aveva elaborato con riguardo alla lettura delle “vecchie” materie di potestà concorrente, al fine di permettere anche l’effettività applicativa delle evoluzioni normative dovute all’approvazione di nuovi principi fondamentali nella legislazione statale. Il legislatore statale, cioè, può approvare, oltre ai principi, anche norme di dettaglio, le quali, in attesa
Tendenza stato-centrica e ruolo del giudice costituzionale
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Capitolo VII
dell’approvazione di nuove leggi regionali, costituiscono il riferimento obbligato per la disciplina della materia, ma sono destinate a “cedere” dinanzi all’attivazione successiva del legislatore regionale. Questa interpretazione era stata elaborata dalla Corte costituzionale sulla base di una specifica disposizione di legge (tuttora in vigore: v. l’art. 10, legge n. 62/1953, c.d. “legge Scelba”), che prevede quanto segue: «Le leggi della Repubblica che modificano i principi fondamentali […] abrogano le norme regionali che siano in contrasto con esse. I Consigli regionali dovranno portare alle leggi regionali le conseguenti necessarie modificazioni entro novanta giorni». Naturalmente, nel momento in cui la “cedevolezza” delle norme statali di dettaglio si verifica, in favore della “preferenza” delle norme regionali, lo Stato resta sempre libero di contestare la legittimità costituzionale di queste ultime mediante l’attivazione del giudizio di legittimità in via principale. Un’altra via per razionalizzare la potenziale invasività delle potestà statali deriva dalla combinazione di tre criteri interpretativi differenti, utili a districare il problema dell’individuazione di quale possa essere il legislatore competente dinanzi ai casi massimamente frequenti in cui vengano in gioco discipline complesse: discipline, cioè, caratterizzate da intrecci apparentemente inestricabili di più materie, statali e regionali. Per queste ipotesi, la Corte ha innanzitutto precisato che occorre effettuare un’interpretazione teleologica delle norme considerate potenzialmente lesive del criterio di riparto: occorre, in altre parole, ricavare lo scopo preponderante in funzione del quale quelle norme sono state approvate. Individuato questo scopo, e sempre che tale strumentalità possa ritenersi congrua, se ciò consente di individuare una corrispondente materia, allora proprio tale materia sarà qualificabile come la materia di prevalente attribuzione, capace di determinare la connessa prevalenza della potestà statale o regionale. Se, invece, non è possibile compiere in modo univoco una siffatta operazione di individuazione previa dello scopo prevalente, allora, nel caso in cui sia in gioco l’esercizio da parte dello Stato di una competenza esclusiva, questa può dispiegarsi legittimamente o prevedendo forme di coordinamento amministrativo tra l’apparato statale e l’amministrazione regionale o limitandosi a dettare principi fondamentali. Nel primo caso, la compensazione all’invasione statale è costituita dall’applicazione del principio di leale collaborazione; nel secondo caso, invece, il riconoscimento della primazia del legislatore statale avviene per il tramite della definizione, da parte dello stesso, di un c.d. “punto di equilibrio” tra gli interessi costituzionalmente rilevanti che vengano concretamente in considerazione. Per quanto queste elaborazioni consentano di mettere un po’ di ordine
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nel contesto delle difficili valutazioni sull’intreccio di materie e di interessi, va segnalato che si tratta comunque di elaborazioni che o tendono a salvare con frequenza l’esercizio della potestà legislativa statale (alla quale, in fondo, consentono comunque occasioni di espressione privilegiata, salvo il richiederne l’aderenza ad una sorta di canone di ragionevolezza o proporzionalità) o tendono a riproporre la generalizzazione di uno schema operativo simile a quello della potestà concorrente. E ciò accade, a ben vedere, perché proprio l’estrema mobilità delle “materie trasversali” rivela come le sovrapposizioni tra competenze statali e competenze regionali siano in realtà molto più sistematiche e frequenti di quanto potesse in ipotesi ritenere il legislatore costituzionale del 2001. Il carattere effettivamente articolato della vigente disciplina costituzionale del riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni si rivela ancor più fluido a fronte di un’ulteriore acquisizione, cui la Corte costituzionale, in particolare, è giunta abbastanza rapidamente. Infatti, ai fini della piena comprensione di questa disciplina non è decisivo il solo art. 117 Cost., ma dev’essere tenuto in opportuna considerazione anche l’art. 118 Cost. Quest’ultimo si occupa dell’allocazione delle funzioni amministrative, ma ciò facendo, per via della ineludibile applicazione del principio di legalità, non può che stimolare anche il legittimo esercizio della funzione legislativa, segnatamente di quella volta a disciplinare quelle funzioni, e a farlo, precisamente, «per assicurarne l’esercizio unitario» e seguendo i principi di «sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza» (art. 118, co. 1). Il caso che ha portato ad evidenza il senso di questo riferimento, e che permette anche di comprenderne appieno tutte le potenziali implicazioni, è abbastanza semplice da rievocare. Lo Stato aveva adottato una legge (n. 443/2001) che aveva quale scopo la disciplina, secondo regole speciali, delle procedure volte alla realizzazione (programmazione ed esecuzione) di infrastrutture e insediamenti strategici. Molte Regioni hanno contestato in vario modo tale disciplina, e ciò anche per il fatto che con essa, nonostante la sopravvenuta scomparsa della “vecchia” clausola sull’interesse nazionale, lo Stato era intervenuto unilateralmente e in dettaglio in materie che non figurano tra quelle che gli competono in via esclusiva. Dinanzi alla necessità di sciogliere questo nodo, il giudice costituzionale (sent. n. 303/2003) è giunto ad una ricostruzione peculiare e a sua volta “creativa”, fondata sulle seguenti osservazioni: l’intervento unilaterale dello Stato non può limitarsi ai casi in cui esso ha formalmente una potestà esclusiva o la potestà di definire principi fondamentali; quando si tratti di disciplinare funzioni amministrative per le quali i diversi livelli di governo risultino non adeguati, allora è legittimo che, in forza di quan-
Chiamata in sussidiarietà e principio dell’intesa
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Sviluppi accentratori della giurisprudenza costituzionale
Capitolo VII
to stabilito dall’art. 118, co. 1, Cost., sia il legislatore statale ad assumere quelle funzioni e a dettarne la disciplina, dunque a organizzarle e regolarle, in applicazione del principio di legalità; questa soluzione è tanto più legittima quando la disciplina sia animata dalla necessità di tutelare interessi che (nel caso di specie, la tutela della concorrenza) sono comunque rimessi, in prevalenza, alla potestà statale; tuttavia questa soluzione non comporta che lo Stato possa superare automaticamente la pertinenza delle fattispecie oggetto di disciplina a materie di competenza concorrente o residuale delle Regioni: il rispetto del principio di sussidiarietà di cui al citato art. 118, co. 1, Cost. esige che lo Stato approvi una disciplina nella quale l’esercizio delle funzioni amministrative trattenute allo Stato stesso non avvenga in modo unilaterale, ma contempli il coinvolgimento delle Regioni interessate nelle relative decisioni, mediante la stipula di apposite intese. Va sottolineato, dunque, che mediante una peculiare «concezione procedimentale e consensuale della sussidiarietà e dell’adeguatezza», la Corte costituzionale: a) ha ammesso, a regime, un potenziale intervento trasversale dello Stato per tutti i casi in cui venga in gioco un oggetto di amministrazione che possa essere trattato in modo idoneo solo al livello centrale; b) ha temperato la profondità concreta di tale intervento con l’imposizione di un criterio di configurazione metodologica dell’esercizio delle funzioni amministrative che lo Stato decida di avocare a sé, trasformando, così, l’incidenza potenziale di competenze legislative regionali concorrenti o residuali in titoli di necessaria condivisione delle decisioni del “centro”. L’effetto, per così dire, ulteriormente “centralizzante” di questa teoria è abbastanza evidente. Tale impressione non muta neanche a fronte di un’ulteriore evoluzione di questo approccio, che ha condotto la Corte ad affermare il principio della necessità dell’intesa tra Stato e Regioni anche per i casi in cui – trovandosi di fronte all’opportunità di «disciplinare, in maniera unitaria, fenomeni sociali complessi» suscettibili di attraversate simultaneamente molteplici materie di competenza statale e regionale – lo Stato provveda con legge delega e debba, pertanto, far sì che anche l’approvazione dei rispettivi decreti legislativi rispetti il principio di leale collaborazione (sent. n. 251/2016). In questa evoluzione, infatti, se è vero che la Corte ha potenzialmente esteso il ruolo del “sistema delle Conferenze”, dando adesso spazio nel contesto di un procedimento normativo statale, è altrettanto vero che si è conclamato un criterio assorbente di unilaterale e diffusa iniziativa statale, moderato solo per il tramite di un dispositivo di consultazione/negoziazione. Per mezzo dell’impostazione qui riferita, infine, il giudice costituzionale ha posto le basi anche per un’altra lettura, di impatto non minore.
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Proprio nel caso di specie da cui la teoria ha tratto le sue prime mosse (ossia dalla sent. n. 303/2003, su cui supra), la Corte costituzionale ha avuto occasione di rilevare che il legislatore statale si era occupato di una disciplina che, astrattamente, avrebbe potuto essere considerata come attratta alla potestà residuale delle Regioni. Vertendosi, infatti, in tema di lavori pubblici, ci si poteva avvedere facilmente che questi non sono contemplati né nell’elencazione delle materie di potestà esclusiva statale, né nell’elencazione delle materie di potestà concorrente. La Corte, però, ha anche specificato che la violazione delle competenze regionali era soltanto apparente, poiché i lavori pubblici non sono propriamente una materia, riferendosi ad «ambiti di legislazione» che «si qualificano a seconda dell’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà legislative concorrenti». Dunque, come ha notato la dottrina, vi sono “materie” che tecnicamente sono tali solo ad un primo e superficiale sguardo, e che, in verità, appartengono al novero delle materie c.d. “strumentali”, ossia oggetti di disciplina che volta per volta possono orientare il criterio interpretativo teleologico di cui si è già riferito, al fine di svolgere il giudizio in concreto sulla prevalenza di una certa competenza. Da tale conclusione si è presto compreso che l’ampiezza della potestà residuale non corrisponde veramente a quella di una formula di chiusura vera e propria, favorevole alle Regioni, e che pertanto, di regola, e come ha annotato acuta dottrina, ad essere residuale è la stessa invocabilità della potestà residuale. Molto più semplice e lineare, almeno in apparenza, è la disciplina costituzionale sull’allocazione della potestà regolamentare. In proposito è rilevante quanto dispone l’art. 117, co. 6: «La potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia». A ben vedere, l’attenta lettura di questa disposizione rivela snodi applicativi non scontati. Tutto può essere chiaro, infatti, se lo Stato delega espressamente alle Regioni la potestà regolamentare in una materia che ha provveduto a disciplinare con propria legge: in questa ipotesi, lo Stato non potrà approvare regolamenti e le Regioni, invece, potranno approvare i propri, sia pur nel rispetto della legge statale e seguendo la disciplina prevista nel rispettivo statuto. Il quadro, però, si complica nelle ipotesi in cui lo Stato, lungi dal delegare la potestà regolamentare – che potrebbe, quindi, sempre esercitare – si limiti ad attribuire alle Regioni alcune funzioni amministrative. Per alcuni interpreti, in questo caso, che è assai frequente, si dovrebbe immaginare che l’attribuzione di funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni porti necessariamente con sé l’esigenza che siano le Regioni a
Potestà regolamentare di Stato e Regioni
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Rapporto con la potestà normativa degli enti locali
Capitolo VII
disciplinarle, con legge o con regolamento (ciò in forza del principio di legalità: è una lettura, se si vuole, analoga a quella già richiamata in precedenza in merito alle conseguenze dell’applicazione dell’art. 118, co. 1, Cost.). Ma non c’è dubbio che potrebbe anche immaginarsi che le Regioni siano tenute soltanto ad esercitare le funzioni attribuite, restando al solo legislatore nazionale di porre la relativa disciplina. E non c’è nemmeno dubbio che – in ragione della giurisprudenza costituzionale già richiamata sulla profondità e sulla tipologia della normazione che lo Stato può adottare in sede di definizione dei principi fondamentali nelle materie di competenza concorrente – la potestà regolamentare regionale sia, di fatto, decisamente compressa anche laddove l’art. 117, co. 6, Cost. sembra riconoscerla in pieno. Altra complicazione, nella lettura dell’art. 117, co. 6, Cost., è il rapporto tra quanto in esso previsto circa i rapporti tra potestà regolamentare statale e potestà regolamentare regionale e quanto in esso stabilito sulla potestà regolamentare degli enti locali. A quest’ultimo riguardo, infatti, la disposizione in esame precisa che «[i] Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite». Da un lato questa formulazione contribuisce parzialmente ad “arricchire” il quadro delle ambiguità già constatate con riferimento alla definizione dell’autonomia statutaria degli enti locali e della possibilità che con i propri statuti – pur tradizionalmente inquadrati in fonti di natura regolamentare – quegli enti possano eventualmente derogare a principi posti dal legislatore statale che siano sostanzialmente qualificabili come non inderogabili. Si potrebbe, cioè, leggere l’art. 117, co. 6, come una sorta di riserva di potestà regolamentare in capo agli enti locali, con preferenza di tale fonte per alcuni profili, sui quali neppure il legislatore (statale o regionale) potrebbe mai avere la meglio. Per altro verso, tuttavia, la stessa riserva potrebbe essere anche intesa soltanto con riguardo alla potestà regolamentare di Stato e Regioni (disciplinata, per l’appunto, nel corpo della medesima disposizione), e in particolare in ordine alla potestà regolamentare sia sulle funzioni specificamente «conferite» agli enti locali dal legislatore statale e/o regionale in applicazione dell’art. 118, co. 1, Cost., sia su quelle cc.dd. «proprie» di cui al co. 2 di quest’ultima disposizione. Ma, a prescindere della nota, ed intuibile, difficoltà di differenziare in modo univoco le funzioni conferite da quelle proprie, occorre evidenziare che, se questa fosse la corretta collocazione della norma in commento, il suo spazio operativo sarebbe molto esiguo, di fatto ristretto a profili micro-organizzativi o ad accorgimenti puramente interni all’articolazione pratica delle competenze tipiche dei diversi organi e uffici degli enti locali.
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Ciò premesso, va segnalato in questa sede anche un ulteriore problema, che concerne la potestà normativa degli enti locali – e dei Comuni in particolare – in un senso più ampio, e che, di per sé, non pare potersi risolvere alla luce di quanto stabilito dal solo art. 117, co. 6, Cost. Il tema è quello dell’esistenza, o meno, in capo agli enti locali, di una potestà normativa, e nella specie regolamentare, generale, volta, nel rispetto della Costituzione, a dare contenuto a funzioni o a soddisfare interessi che siano doverosamente contemplati nella Costituzione medesima e che non siano del tutto disciplinati dal legislatore. Il profilo non è soltanto teorico, dal momento che, sulla base di quanto stabilito dall’art. 118, co. 4, Cost., in materia di sussidiarietà orizzontale, molti Comuni, in tutta Italia, hanno approvato negli ultimi dieci anni appositi regolamenti per la disciplina delle attività di manutenzione e rigenerazione di beni comuni urbani; e ciò facendo hanno introdotto soluzioni organizzative e procedimentali talvolta assai innovative. Come si è già appreso, il riparto della potestà legislativa tra lo Stato e le autonomie speciali trova i suoi criteri ordinatori all’interno dei singoli statuti speciali. Esso è caratterizzato da una logica complessiva che riprende la “struttura” del criterio di riparto originariamente previsto nel testo originario della Costituzione per le Regioni ordinarie, ma da quello si differenzia per il riconoscimento di attribuzioni più estese ed intense. Va dunque rammentato che le principali tipologie di potestà legislative presenti negli statuti sono le seguenti: potestà primaria (o piena), che ha come limiti i principi generali dell’ordinamento giuridico e le norme fondamentali delle riforme economico-sociali; potestà concorrente, che è analoga anche a quella prevista per le Regioni ordinarie (anche se l’elenco delle materie è di volta in volta diverso) e ha come limite quello dei principi fondamentali della legislazione statale (questa potestà, però, non è presente nello statuto della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste); potestà integrativa o di attuazione, prevista per consentire alle autonomie speciali di adeguare la legislazione statale alle specificità territoriali in talune materie. Occorre anche ricordare che per tutte queste tipologie di potestà operano sempre e comunque, di regola, oltre al limite del territorio, anche due altri limiti generali, che del resto valgono anche con riferimento alle potestà delle Regioni ordinarie, ossia il limite del diritto privato e quello del diritto penale. Oltre a ciò, di solito, negli statuti speciali (dal 1993, ma per la Sicilia già da prima) l’ordinamento degli enti locali è materia regionale. Dunque le Regioni speciali possono anche contribuire ad una parziale differenziazione, rispetto alla disciplina statale, delle funzioni svolte dai livelli di governo territorialmente più vicini ai cittadini.
Potestà normativa nelle autonomie speciali
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Clausola di maggior favore
Capitolo VII
Allo stesso modo, è opportuno precisare che, per effetto della legge cost. n. 1/2001 (art. 10), alle autonomie speciali si applicano anche le norme del vigente Titolo V della Costituzione, ma soltanto «nelle parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite» (c.d. “clausola di maggior favore”). Ciò ha alcune conseguenze, rispetto all’assetto complessivo del criterio di riparto ora sintetizzato, ossia: anche alle autonomie speciali si estende la previsione di cui all’art. 117, co. 4, Cost. sul riconoscimento della potestà legislativa residuale, con arricchimento, pertanto, delle prerogative della specialità con riguardo a materie che, ad esempio, non siano previste nell’elencazione delle diverse tipologie di potestà sopra richiamate o che, diversamente, siano previste nella sola competenza concorrente o primaria, e possano, così, ritenersi “promosse” verso una competenza di intensità potenzialmente maggiore; questa estensione comporta anche la parallela estensione dei limiti, previsti nel Titolo V della Costituzione, per le materie di nuova attribuzione, ivi compresi quelli concernenti l’invasività delle (già viste) “materie trasversali” di competenza esclusiva statale; la clausola di maggior favore permette comunque alle autonomie speciali di continuare ad esercitare in modo compiuto la potestà legislativa che esse di regola hanno in materia di ordinamento degli enti locali (il riferimento espresso che la clausola opera all’autonomia riguarda la sola condizione delle autonomie speciali, non tutte le forme di autonomie ricomprese all’interno del loro territorio); la stessa clausola ha anche comportato che pure per le autonomie speciali siano scomparse le forme di controllo preventivo – originariamente previste anche dalla Costituzione – in merito alla legittimità delle leggi regionali, con la sola, e singolarissima, eccezione della Regione Sicilia, per la quale rimane in vigore una disciplina da sempre assai peculiare (precisamente, il sistema di controllo preventivo previsto dallo statuto speciale siciliano è così regolato: tutte le leggi approvate dall’assemblea regionale sono inviate entro tre giorni dall’approvazione a un Commissario dello Stato, che entro i successivi cinque giorni può impugnarle davanti alla Corte costituzionale; decorsi otto giorni, senza che al Presidente della Regione sia pervenuta copia dell’impugnazione ovvero trascorsi trenta giorni dalla impugnazione, senza che al Presidente della Regione sia pervenuta la sentenza della Corte, le leggi sono promulgate ed immediatamente pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Regione. È bene sottolineare, comunque, che la sentenza della Corte può essere pronunciata anche in un termine successivo alla pubblicazione della legge). Bisogna, ad ogni modo, rilevare che, nonostante la diversità dell’assetto del riparto della potestà legislativa tra Stato e autonomie speciali, rispetto a quello sussistente tra Stato e Regioni ordinarie, la tendenza interpretativa stato-centrica già illustrata si è manifestata in ogni caso: vuoi
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per mezzo dell’invocazione di ambiti materiali attinenti all’ambito di influenza del diritto dell’Unione europea (e, per il tramite di essi, di titoli corrispondenti di potestà esclusive statali); vuoi per il tramite della “traduzione” di alcuni spezzoni della legislazione nazionale nel contesto delle nozioni statutarie sui limiti alle potestà normative delle Regioni speciali e delle Province Autonome. Salvo quanto si è già anticipato sulle cc.dd. “leggi statutarie” – una fonte peculiare e rinforzata, che consente alle autonomie speciali di esercitare una competenza riservata capace di disciplinare la forma di governo in modo diverso da quello previsto nello statuto speciale – qualche chiarimento, infine, deve essere riservato ad un’altra peculiare fonte, anch’essa presente soltanto nel contesto degli statuti speciali. Si tratta delle c.d. “norme di attuazione” degli statuti, adottabili con specifici decreti del Presidente della Repubblica, espressivi di una competenza del tutto riservata, che si evince non solo sul piano degli ambiti in cui essi possono essere adottati, ma anche sul piano delle relative procedure di adozione. Essi, infatti, sono funzionali al trasferimento di nuove funzioni amministrative alle autonomie speciali, che può avvenire soltanto per loro tramite, con esclusione dell’intervento di altre fonti; oltre a ciò, essi sono adottati dal Governo, ma previo il parere obbligatorio di una commissione paritetica composta da rappresentanti dello Stato e della singola autonomia speciale, commissione che, secondo molti interpreti, ha il ruolo non solo di integrare la sede visibile di un prevalente principio di leale collaborazione, ma anche quello di sostituire il controllo parlamentare su ciò che, in questo frangente, può fare il Governo. Il ricorso a questa fonte così originale non è stato omogeneo da parte delle autonomie speciali. Eppure esso è stato in molte occasioni valorizzato per condurre a delle modifiche (o a delle “manutenzioni”) quasi sostanziali degli statuti, arricchendo di fatto il novero delle materie in cui le autonomie speciali possono vantare particolari prerogative e instaurando, nel regime dei rapporti con lo Stato, una prassi di negozialità diffusa.
4. Il riparto delle funzioni amministrative Prima della riforma del 2001, nella cornice dell’originario Titolo V della Costituzione, l’allocazione delle funzioni amministrative tra Stato e Regioni seguiva il c.d. “principio del parallelismo”: alle Regioni veniva riconosciuta la potestà amministrativa nelle materie in cui esse erano titolari della potestà legislativa. Il principio valeva anche nell’ambito dei rapporti tra lo Stato e le autonomie speciali.
Peculiarità delle norme di attuazione degli statuti speciali
278 Assetto anteriore al 2001
Principi costituzionali vigenti
Capitolo VII
Si trattava di un assetto che aveva consentito di definire a contrario l’ambito delle competenze normative regionali. Negli anni ’70 del secolo scorso, infatti, in seguito alla loro effettiva istituzione, alle Regioni ordinarie sono state in primo luogo trasferite, materia per materia, proprio le potestà amministrative. Sicché è a partire dalla definizione di queste che si è ragionato per dare, poi, contenuto concreto, specie da parte della Corte costituzionale, ai confini delle definizioni offerte dalla Costituzione in ordine ai settori di pertinenza regionale (v., soprattutto, l’importante d.p.r. n. 616/1977, che disciplinava il passaggio, dallo Stato, del pacchetto più ampio di funzioni). Al di là del parallelismo – che tuttavia non coinvolgeva le materie di interesse strettamente locale, che avrebbero potuto essere attribuite dalla legge direttamente agli enti locali – lo Stato poteva anche delegare alle Regioni altre funzioni amministrative. Stabilito ciò, inoltre, la Costituzione disponeva che “normalmente” le Regioni esercitassero le funzioni amministrative di loro competenza delegandole agli enti locali o valendosi dei loro uffici. Potenzialmente, il disegno contemplato da simile quadro era assai chiaro. La Regione avrebbe dovuto porsi quale ente di programmazione e di esercizio di funzioni di coordinamento all’interno del proprio territorio. L’amministrazione attiva, preferenzialmente, avrebbe dovuto essere organizzata e gestita nelle sedi istituzionali più prossime ai cittadini. Un criterio, quest’ultimo, che, in forza dell’inequivocabile indirizzo di cui all’art. 5 Cost., avrebbe dovuto operare anche per lo Stato, tenuto a riarticolarsi secondo un indirizzo di maggior decentramento. Un simile quadro non aveva trovato un’effettiva possibilità di manifestazione. Per un verso, le Regioni hanno gradualmente dato vita ad un sistema amministrativo a sua volta accentrato. Per altro verso, lo Stato non è stato capace di ricostruire e adattare i modi della propria articolazione amministrativa decentrata. Con la riforma del 2001 – e così nella vigenza del nuovo art. 118 Cost. – l’impianto ora descritto è stato virtualmente stravolto. Salva, infatti, la condizione delle autonomie speciali (i cui statuti sono rimasti invariati e hanno, pertanto, continuato a rimanere legati alla logica allocativa anteriore), il principio del parallelismo è stato abbandonato a favore di un criterio mobile di distribuzione delle funzioni amministrative, pur nella ribadita priorità dei livelli di governo più vicini alle fattispecie da affrontare. In particolare, il co. 1 dell’art. 118 Cost. esprime, oggi, due principi: quello di sussidiarietà verticale e quello di differenziazione e adeguatezza.
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A tenore del primo – sia che si tratti di materia in cui la potestà legislativa è statale, sia che si tratti di materia regionale – le funzioni amministrative devono, tendenzialmente, essere sempre affidate ai Comuni; per il secondo, tale opzione può essere derogata se, «per assicurarne l’esercizio unitario», esse debbano essere viceversa affidate agli altri enti territoriali (ed anche allo Stato), valutando volta per volta quale sia la soluzione migliore e più consona alle fattispecie considerate. Non sono meno significativi gli altri commi della disposizione in esame. Il secondo, innanzitutto, stabilisce che, comunque, gli enti locali, oltre alla titolarità delle funzioni loro «conferite» da Stato o Regioni secondo la dinamica da ultimo esposta (o per la delega che le Regioni possano comunque definire), debbano disporre di «funzioni amministrative proprie». Questo non è altro che il riconoscimento conseguenziale dell’autonomia di cui gli enti locali godono già in forza della loro qualità di soggetti della Repubblica (v. art. 114 Cost.): è naturale che essi non possano non essere direttamente titolari di specifiche funzioni amministrative, ciò perché sono rappresentativi degli interessi di una comunità politica di riferimento, che ne legittima democraticamente il relativo governo allo scopo della risoluzione dei problemi reali e numerosi del territorio su cui esso esercita i suoi poteri. Simile riconoscimento, peraltro, va di pari passo con quello correlato all’affermazione di importanti potestà regolamentari (v. all’art. 117, co. 6, Cost., di cui si è già detto) in merito all’organizzazione e allo svolgimento delle funzioni, con accresciuto ruolo (almeno virtualmente) anche degli statuti locali (per i quali, parimenti, si è già riferito l’indirizzo interpretativo volto a valorizzarne la natura di fonti paraprimarie, suscettibili di esprimersi in senso difforme rispetto a principi non inderogabili della legislazione statale). Il co. 3, quindi, impone un raccordo tra Stato e Regioni nello svolgimento delle funzioni in materia di immigrazione e di quelle in materia di ordine pubblico e sicurezza, oltre che nel settore della tutela dei beni culturali. La ratio di questa disciplina si riconnette, per un verso, alla potestà legislativa concorrente riconosciuta alle Regioni in merito alla valorizzazione dei beni culturali, per altro verso, al fatto che la polizia amministrativa locale è di disciplina regionale. Dunque, nell’uno come nell’altro caso, la Costituzione ha voluto enfatizzare l’importanza di un rapporto sinergico tra livelli di governo, soprattutto dove l’oggetto dell’azione amministrativa si caratterizzi per l’esigenza di sistematiche e sinergiche interazioni di interventi di differente provenienza, eppure insistenti sui medesimi fenomeni. Il co. 4, infine, introduce un orizzonte nuovo per tutti gli enti pubblici
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Eliminazione dei controlli
Potere sostitutivo statale
Capitolo VII
territoriali: affermando il principio di sussidiarietà orizzontale, esso statuisce il dovere di tutti i diversi soggetti del sistema territoriale repubblicano (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato) di favorire «l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale». Ci troviamo dinanzi ad un dispositivo che consente di considerare l’intera società civile, in tutte le sue articolazioni, come risorsa propositiva e impegnata per l’intera amministrazione, prefigurando, per questo mezzo, non solo un coinvolgimento più ampio dei tradizionali destinatari dell’azione amministrativa nello svolgimento di attività rilevanti per la comunità, ma anche un loro riconoscimento come soggetti capaci di amministrazione; e, in ultima analisi, come soggetti occasionalmente attraibili nella realizzazione effettiva delle funzioni che competono alle istituzioni pubbliche. Ma un’ulteriore e grande modifica la riforma del 2001 l’ha apportata con l’eliminazione della disciplina generalizzata dei controlli preventivi di legittimità e di merito sull’azione amministrativa degli enti territoriali. Le disposizioni costituzionali che sul punto riconoscevano un ruolo rilevante ad organi statali decentrati (nei confronti dell’attività regionale) e ad organi regionali (nei confronti dell’attività degli altri enti) sono state abrogate, ponendo così fine ad un’impostazione gerarchizzante, che potenzialmente poteva coinvolgere ogni aspetto della vita istituzionale. L’opzione per questa sorta di responsabilizzazione sussidiaria di carattere generale è confermata anche dalla disciplina del potere sostitutivo dello Stato (art. 120 Cost.): esso, infatti, può esercitarsi soltanto «nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali»; e laddove lo Stato decida di intervenire in tal senso, lo può fare solo mediante una procedura ad hoc (che è stata normata dall’art. 8, legge n. 131/2003, cit.), per garantire il rispetto del principio di sussidiarietà e, soprattutto, il principio di leale collaborazione; principio, quest’ultimo, che per tale via assume, anche esplicitamente, il ruolo dell’autentico e più importante criterio di relazione tra i soggetti del sistema repubblicano delle autonomie territoriali. Il carattere virtualmente rivoluzionario di queste trasformazioni – informate ad un criterio molto variabile e dinamico – si può capire facilmente. Tuttavia non si può che constatare che la corrispondenza tra tale affresco e la realtà dei fatti è rimasta ancora molto lontana. E ciò è accaduto per la convergenza di una serie di molteplici elementi.
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Il primo di questi fattori è insito, di per sé, in quanto si è già descritto circa la graduale prevalenza del ruolo del legislatore statale. È un meccanismo che, come si è visto, ha consentito di concepire le potestà legislative regionali (concorrenti come residuali) nei termini di un fascio di prerogative strutturalmente penetrabili, indebolite, in tal modo, pure nella generale capacità regolativa che esse avrebbero dovuto comunque esprimere sul piano territoriale, anche sul piano della compartecipazione alle scelte allocative ex art. 118, co. 1, Cost. Il secondo dato da prendere in considerazione consiste in un’accelerazione, per così dire, del primo: è la sopravvivenza, sempre in capo al solo Stato, del potere di dettare la disciplina delle «funzioni fondamentali» degli enti locali (art. 117, co. 2, lett. p), e di farlo in tutte le materie, sia in quelle di potestà statale, sia in quelle di potestà regionale. In altre parole: anche a tale riguardo l’attività unilaterale del solo legislatore statale può ulteriormente comprimere lo spazio dell’intervento regionale. In proposito merita osservare che il legislatore statale non ha tardato, dopo la riforma del 2001, ad affermare (v. legge n. 131/2003) che le funzioni fondamentali in questione non possono che essere non solo quelle connaturate alle caratteristiche di ciascun ente – ossia quelle essenziali e imprescindibili per il suo funzionamento e per la soddisfazione dei bisogni primari delle comunità di riferimento – ma, innanzitutto, quelle «storicamente svolte». Sicché, non solo il ruolo delle Regioni, nel disegno delle funzioni amministrative, è stato ristretto per definizione dall’operatività stato-centrica del criterio di riparto della potestà legislativa; esso è stato ulteriormente limitato dal condizionamento derivante dalla statica uniformità della unica disciplina statale circa la configurazione e la “missione” degli enti locali. Una situazione, questa, che non ha conosciuto peculiari sviluppi: da un lato, infatti, quando vi sono stati cambiamenti significativi (come in occasione delle “legislazioni della crisi”, già sopra richiamate), essi sono stati il frutto di norme esclusivamente statali e connotate dalla rigorosa omogeneità di applicazione; dall’altro lato, poi, lo stesso Stato non ha ancora proceduto ad approvare una nuova e sistematica riforma della vigente disciplina degli enti locali, la cui sedes materiae è ancora in un atto normativo anteriore alla riforma del 2001 e assai dettagliato, se non analitico, nei suoi precetti (il c.d. Testo unico degli enti locali, d.lgs. n. 267/2000, già più volte ricordato). Oltre a ciò bisogna evidenziare altri due profili. Uno è connesso all’interazione tra la centralità perdurante della potestà normativa statale e il complicato intreccio terminologico cui ricorre la Costituzione stessa laddove qualifica le funzioni degli enti locali (come proprie, conferite, fondamentali …).
Elementi critici dell’assetto attuale
282 Confusioni terminologiche e concettuali
Complessità della materia finanziaria
Capitolo VII
A lasciare sempre larghi margini di incertezza, infatti, è il rapporto tra le funzioni proprie, da una parte, e quelle fondamentali e quelle conferite, dall’altra. Poiché, se la distinzione deve avere un senso, essa non può che alludere all’esistenza di funzioni (quelle proprie) di cui gli enti locali sono titolari indipendentemente da un’attribuzione statale. Ma se così è, e se le funzioni che dipendono da quest’ultima attribuzione sono quelle fondamentali (nel senso anzidetto), le funzioni proprie sono solo quelle che l’ente può auto-assegnarsi, nella direzione di rispondere ad esigenze che promanano dalla collettività di riferimento e che non sono “coperte” da decisioni normative di altri livelli di governo. A ben vedere, non si tratta, concettualmente, di un risultato di poco conto, dal momento che pare implicare il riconoscimento di un’autonomia normativa generale degli enti locali, idonea a “riempire” lo spazio normativo che non sia già occupato da altre fonti. È un’autonomia normativa di cui tantissimi Comuni, ad esempio, e come si è già visto, si sono avvalsi allorquando hanno adottato discipline regolamentari ad hoc per la cura, manutenzione e rigenerazione dei cc.dd. “beni comuni urbani”, individuando una tipologia di interesse generale per cui riconoscere la rilevanza delle iniziative spontanee dei cittadini e applicare appieno il principio di sussidiarietà orizzontale. Il fatto è, però, e la stessa esperienza ora citata lo dimostra, che i margini di una tale autonomia sono assai ristretti, poiché pochi sono i luoghi in cui il principio di legalità non è già stato implementato dal legislatore statale. Un altro aspetto frenante rispetto alla dinamicità che ci si poteva attendere dalla nuova disciplina del Titolo V della Costituzione deriva dalla mancata attuazione di quanto essa prevede in merito al finanziamento delle funzioni. A tal proposito viene in gioco l’art. 119 Cost., che formalmente predispone un sistema nel quale tutti gli enti territoriali hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, devono poter contare su risorse proprie (e quindi devono poter stabilire e applicare tributi da esse istituiti, pur «in armonia con la Costituzione e secondo i princìpi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario»: co. 2) e disporre anche di compartecipazioni al gettito tributario statale maturato sul proprio territorio. Oltre a ciò, è anche previsto che si istituisca un fondo perequativo statale con cui finanziare i territori dotati di minore capacità fiscale per abitante. L’architrave di questo assetto è il principio il base al quale esso deve poter garantire agli enti «di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite» (co. 4). Lo Stato potrà comunque intervenire destinando risorse aggiuntive a determinati enti territoriali «[p]er promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere
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gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni» (co. 5). Il disegno così definito, però, si è subito rivelato di difficile realizzazione. In parte perché il legislatore statale non ha realmente “liberato” le possibilità tributarie degli enti: il complesso iter per l’attuazione del c.d. “federalismo fiscale” (legge n. 42/2009) – che avrebbe dovuto definire in concreto i confini dei poteri territoriali in materia tributaria – è rimasto incompiuto. In parte, poi, perché lo stesso legislatore statale, essendosi trovato a fronteggiare ciclicamente le emergenze sempre stringenti dell’equilibrio della finanza pubblica, ha utilizzato la potestà legislativa esclusiva finalizzata a definire i principi di coordinamento della finanza pubblica come sede in cui operare scelte organizzative e allocative di funzioni, contribuendo a rideterminare in modo sempre uniforme i lineamenti stessi del sistema degli enti locali (è ciò che è avvenuto, come si è ricordato, negli anni della “legislazione della crisi”, con forti incentivi alla fusione dei Comuni, introduzione di vincoli stringenti per l’esercizio associato delle relative funzioni, revisione della fisionomia dell’ente provinciale quale ente territoriale di secondo grado: v. sia il d.l. n. 78/2010, conv. in legge n. 122/2010, sia il d.l. n. 95/2012, conv. in legge n. 135/2012). Sicché, allo stato dell’arte, le Regioni godono di tributi istituiti e regolati da leggi statali, ma il cui gettito è ad esse attribuito (ad esempio, le tasse per l’abilitazione all’esercizio professionale, l’imposta regionale sulle concessioni statali di demanio, la tassa per l’occupazione di spazi pubblici regionali, le tasse sulle concessioni regionali, la tassa automobilistica regionale, etc.); di tributi propri a tutti gli effetti (pochissimi e non rilevanti); della compartecipazione (questa molto più significativa) a tributi dello Stato (in particolare, della compartecipazione ad una quota del reddito delle persone fisiche e dell’IVA). Per gli enti locali, invece, lo Stato ha differenziato il finanziamento delle funzioni fondamentali dalle altre. Per le prime, le fonti di entrata dei Comuni sono individuate in compartecipazioni a tributi erariali (quello sul reddito delle persone fisiche e l’IVA) e nelle imposte sugli immobili.
5. La forma di governo e l’attività amministrativa delle Regioni La forma di governo regionale è espressamente contemplata, dall’art. 123, co. 1, Cost., quale ambito rimesso ad una competenza riservata: ogni Regione può determinarla nel proprio statuto.
284 Preferenza per un modello presidenziale
Capitolo VII
Questo assetto è una delle conseguenze più rilevanti della combinazione tra due diverse riforme costituzionali, quella del 2001 (legge cost. n. 3) e quella del 1999 (legge cost. n. 1), che in proposito l’aveva anticipata ed è stata confermata. Prima di quest’ultima novella, infatti, da un lato, lo statuto poteva occuparsi della sola organizzazione interna dell’ente Regione, dall’altro, la forma di governo regionale era predefinita dalla Costituzione come unica per tutte le Regioni ordinarie ed era caratterizzata da un modello – in senso lato qualificabile come assembleare – nel quale il Consiglio regionale veniva eletto direttamente dai cittadini della Regione, mentre il Presidente e la Giunta venivano eletti dal Consiglio tra i suoi componenti. Nel regime vigente, invece, la Costituzione (art. 122, co. 5) stabilisce che il Presidente sia «eletto a suffragio universale e diretto», a meno che «lo statuto regionale disponga diversamente». Si comprende, dunque, che, pur esprimendosi oggi una preferenza per un modello, sia pur peculiare, di tipo presidenziale, ogni Regione può, nel proprio statuto, optare per un modello diverso (di impronta in senso lato parlamentare), ma nella cornice di alcuni vincoli, che restano comunque validi sempre, e che sono così enumerabili: il Presidente deve essere configurato come il vertice dell’esecutivo regionale, visto che, oltre a rappresentare l’ente, «dirige la politica della Giunta e ne è responsabile» (art. 121, co. 4); il Consiglio deve poter sfiduciare il Presidente (art. 126, co. 2, Cost.); alle dimissioni contestuali di tutti i componenti del Consiglio deve sempre conseguire lo scioglimento automatico di tutta la Giunta (art. 126, co. 3, Cost.); il Presidente della Repubblica conserva sempre il potere di sciogliere anticipatamente il Consiglio e di rimuovere il Presidente laddove abbiano compiuto gravi atti contrari alla Costituzione o gravi violazioni di legge o per ragioni di sicurezza nazionale (art. 126, co. 3, Cost.). Ciò premesso, si può osservare che tutte le Regioni ordinarie hanno mantenuto fermo, anche in sede statutaria, il modello “preferito” dalla Costituzione, nel quale, peraltro, all’elezione diretta del Presidente – che nomina e revoca i componenti della Giunta (art. 122, co. 5) – corrisponde anche un’altra peculiarità, in tutto e per tutto inderogabile, ossia l’applicabilità del principio simul stabunt, simul cadent: così come l’autoscioglimento del Consiglio determina sempre lo scioglimento della Giunta, nel modello “presidenziale” le dimissioni, l’impedimento permanente, la rimozione o la morte del Presidente travolgono sia la Giunta, sia il Consiglio. Il favore della Costituzione per il modello presidenziale, largamente assecondato dagli statuti, rappresenta un ulteriore sintomo del legame tradizionalmente stretto tra le evoluzioni del sistema delle autonomie territoriali e gli sviluppi del sistema politico nazionale.
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Come è noto, infatti, è proprio nel corso degli anni ’90 che, nel quadro del circuito politico-rappresentativo statale, il sistema elettorale per l’elezione delle Camere cambia radicalmente ispirazione, muovendo – sotto i colpi di una consultazione referendaria di portata storica (1993) – dall’opzione di tipo proporzionale, che aveva connotato tutta la c.d. “Prima Repubblica”, ad una scelta di tipo prevalentemente maggioritario (consacrata del corpo di un sistema elettorale misto, il c.d. “Mattarellum”, di cui alle leggi nn. 276 e 277/1993). Stimolati dagli effetti di inchieste giudiziarie che avevano travolto larga parte della classe politica, questi sommovimenti erano animati già di per sé dalla diffusa evocazione di un riconoscimento più chiaro e univoco della volontà elettorale e delle sue conseguenze sull’azione di governo del Paese. Essi hanno condotto gli organi costituzionali statali ad un’interpretazione nuova della forma di governo parlamentare cristallizzata dalla Costituzione. Questa, infatti, pur rimanendo formalmente invariata, ha cominciato ben presto ad abbracciare, in virtù della spiccata proiezione istituzionale della sopravvenuta legislazione elettorale, anche dinamiche tipiche della forma presidenziale, con meccanismi di forte fidelizzazione del Parlamento nei confronti del Governo. Pertanto le scelte dei riformatori costituzionali del 1999 e del 2001, in punto di rinnovazione profonda della forma di governo regionale nella prospettiva presidenziale sopra raffigurata, risentono senz’altro dell’onda lunga di questo percorso. Si tratta di un percorso, che, oltre ad aver introdotto una nuova disciplina elettorale per i Comuni (legge n. 81/1993), aveva già portato all’approvazione da parte dello Stato di una legge elettorale per le Regioni che introduceva un sistema “misto” (80% proporzionale; 20% maggioritario) e contemplava anche l’assegnazione di un particolare premio di maggioranza (v. legge n. 43/1995, c.d. “Tatarellum”). Ma è stato anche un percorso, peraltro, che a tratti, assieme ai contenuti di quella che sarebbe poi diventata la riforma del Titolo V della Costituzione, aveva elaborato un assetto potenzialmente innovativo, e parimenti orientato (in quel caso in senso “semipresidenziale”), anche per la forma di governo operante sul piano statale. Coerentemente con la variabilità di opzioni permesse sul piano dell’individuazione della forma di governo, la Costituzione vigente (art. 122, co. 1) rimette alla potestà legislativa regionale anche la definizione del «sistema d’elezione» e i «casi di ineleggibilità e di incompatibilità» del Presidente, degli altri componenti della Giunta regionale e dei consiglieri regionali. Ma ciò la Regione può disciplinare soltanto «nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi elettivi». Le Regioni, quindi, dispongono nella materia elettorale di una potestà
Disciplina elettorale
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Capitolo VII
legislativa concorrente, che deve anche sottostare ad ulteriori indicazioni, al di là dei principi fondamentali della legge statale: essa deve, infatti, rispettare le disposizioni del singolo statuto regionale in punto di forma di governo e, naturalmente, di procedimento legislativo regionale; ma deve anche promuovere «la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive» (art. 117, co. 7, Cost.). Lo Stato si è espresso – fissando i principi fondamentali rilevanti nella materia de qua – con la legge n. 165/2004. Da un lato la legge statale ha precisato alcuni snodi che sono validi per qualsiasi tipo di opzione statutaria: ha individuato i vincoli che le Regioni devono osservare per disciplinare le cause di ineleggibilità e di incompatibilità, stabilendo, altresì, che devono comunque osservarsi anche le diverse cause di incandidabilità previste dalla legge nazionale «per coloro che hanno riportato sentenze di condanna o nei cui confronti sono state applicate misure di prevenzione»; ha in ogni caso espresso il principio per il quale le Regioni devono individuare un «un sistema elettorale che agevoli la formazione di stabili maggioranze nel Consiglio regionale e assicuri la rappresentanza delle minoranze»; ha fissato alcuni criteri inderogabili in tema di promozione della parità di accesso di uomini e donne alle cariche elettive; ha affermato il divieto di mandato imperativo, analogamente a quanto previsto dall’art. 67 Cost. per i parlamentari nazionali; ha definito la durata degli organi elettivi in cinque anni. Dall’altro lato, invece, la medesima legge statale ha previsto dei dispositivi che devono necessariamente essere tradotti dalle Regioni a seconda della rispettiva opzione statutaria sulla forma di governo: per quanto riguarda il modello “preferito” di matrice presidenziale: ha sancito sia la regola della contestualità dell’elezione del Presidente e del Consiglio, sia la regola della non immediata rieleggibilità del Presidente dopo il secondo mandato; per ciò che concerne il modello “diverso” che non preveda l’elezione diretta del Presidente: ha obbligato il legislatore regionale a prevedere un termine perentorio di novanta giorni per l’elezione del Presidente stesso e per l’elezione (o la nomina, a seconda della scelta regionale) degli altri membri della Giunta. Se si pone attenzione all’insieme delle leggi elettorali regionali, adottate per dare attuazione al vigente assetto, e in esecuzione, dunque, della riforma già operante dal 1999, si può evidenziare che – salvi in casi in cui è rimasta espressamente operante la legge del 1995 (Piemonte, Basilicata, Liguria) – molte Regioni ordinarie (ad esempio, Calabria, Puglia, Abruzzo, Umbria, Campania, Emilia-Romagna, Veneto, Marche, Molise, Lazio, Lombardia) si sono orientate a mantenere comunque fermo l’impianto che era stato introdotto, pur a Costituzione invariata, con la legge del 1995, operando le variazioni consentite loro dalla legge statale del
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2004, dalle opzioni statutarie e dalla generalizzata scelta, in esse contenuta, sul modello dell’elezione diretta del Presidente. Da questo punto di vista, i cambiamenti più significativi, di volta in volta, riguardano l’introduzione di soglie di sbarramento, le differenti modalità di attribuzione di un premio di maggioranza (talvolta con la previsione di un apposito “listino del Presidente”) e la possibilità, per l’elettore, di praticare o meno il c.d. “voto disgiunto” (la Toscana, invece, ha messo mano ad una formale revisione integrale della disciplina elettorale, mantenendo, però, l’ispirazione di fondo del c.d. “Tatarellum”). Come già precisato in precedenza, il flusso delle riforme costituzionali del 1999 e del 2001 e delle modifiche da esse apportate in tema di forma di governo delle Regioni ordinarie e di legislazione elettorale regionale ha avuto delle conseguenze sull’estensione anche alle autonomie speciali (in base alla legge cost. n. 2/2001) delle relative e sopravvenute possibilità di scelta istituzionale. Ciò è possibile mediante l’approvazione, da parte delle autonomie speciali, di apposite “leggi statutarie”, ossia di una nuova tipologia di fonti, caratterizzate per un contenuto particolare e per una procedura di approvazione diversa da quella delle altre leggi. Quanto al contenuto, queste leggi possono occuparsi sia della scelta che dell’articolazione della forma di governo, dell’iniziativa legislativa popolare e della disciplina del referendum abrogativo, propositivo e consultivo (dunque di tutto ciò che è consentito agli statuti delle Regioni ordinarie, con l’eccezione, però, dei principi di organizzazione e di funzionamento dell’ente), sia, ancora, della legislazione elettorale (e quindi delle modalità di elezione del Consiglio, del Presidente e della Giunta, oltre che dei casi di ineleggibilità e incompatibilità). Tali leggi, tuttavia, hanno dei limiti: oltre alla Costituzione (e dunque, ad esempio, anche a ciò che da essa è sempre desumibile sul piano della scelta della forma di governo), esse sono tenute a rispettare anche i principi dell’ordinamento giuridico repubblicano. Dal punto di vista procedurale, inoltre, le “leggi statutarie” devono essere approvate dal Consiglio a maggioranza assoluta, possono essere assoggettate, prima della loro entrata in vigore, ad un referendum confermativo e – dato ancor più caratterizzante – sono sottoposte ad un controllo preventivo di legittimità costituzionale, analogo a quello operante per gli statuti delle Regioni ordinarie. Sul piano delle scelte concretamente operate dalle autonomie speciali, va segnalato che in Sicilia, in Sardegna e in Friuli-Venezia Giulia il Presidente della Regione è eletto direttamente dai cittadini (contestualmente all’elezione del Consiglio, che in Sicilia assume la denominazione di As-
Leggi statutarie
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Organi politici delle Regioni
Consiglio regionale
Capitolo VII
semblea regionale siciliana: in Sicilia, precisamente, il sistema elettorale è misto, con previsione di un listino del Presidente; lo è anche in Sardegna, con soglie di sbarramento e diversa attribuzione di un premio di maggioranza; il sistema operante in Friuli-Venezia-Giulia è proporzionale, anch’esso con attribuzione di un premio di maggioranza). In Valle d’Aosta è rimasto fermo, viceversa, in modello di elezione indiretta, ad opera del Consiglio regionale (eletto, a sua volta, con un sistema proporzionale corretto da specifiche soglie di sbarramento e dall’attribuzione di un premio di maggioranza). Per quanto riguarda il Trentino-Alto Adige, l’assetto complessivo riflette la peculiarità della configurazione della Regione come ente costituito da due Province Autonome: per la massima parte, dunque, e sia pur con alcune rilevanti eccezioni (ad esempio, le competenze in tema di gestione dei libri fondiari, cooperative, enti locali, servizi antincendi e giustizia di pace), la Regione è considerabile quasi come una sorta di “scatola vuota”. Sicché il Consiglio regionale è composto dai consiglieri provinciali eletti a Trento e a Bolzano, e il ruolo di Presidente della Regione è ricoperto, alternativamente, dai Presidenti delle Province autonome di Trento e Bolzano. Quanto a questi due Presidenti, nella Provincia di Bolzano il Presidente e gli assessori vengono eletti dal Consiglio provinciale (a sua volta eletto dai cittadini mediante un sistema proporzionale) in distinte votazioni a scrutinio segreto e a maggioranza assoluta dei componenti del Consiglio medesimo, mentre nella Provincia di Trento il Presidente viene eletto direttamente dai cittadini, contestualmente all’elezione del Consiglio (che avviene con un sistema elettorale proporzionale, corretto dall’attribuzione di un premio di maggioranza). Gli organi politici regionali sono inderogabilmente tre: il Consiglio regionale; il Presidente; la Giunta. La Costituzione (art. 123, co. 4) prevede anche, quale organo ulteriormente necessario – «di consultazione fra la Regione e gli enti locali» – il Consiglio delle autonomie locali (CAL), da disciplinarsi in sede statutaria. Il Consiglio regionale è composto da consiglieri regionali eletti secondo le regole variamente previste dalle discipline elettorali regionali, già richiamate, cui si deve rinviare anche per quanto concerne l’individuazione specifica delle cause di incandidabilità, ineleggibilità e incompatibilità. Lo status dei consiglieri è in senso lato paragonabile a quello dei parlamentari: come si è già visto, vige per essi il divieto di mandato imperativo; oltre a ciò, godono dell’insindacabilità (art. 122, co. 4, Cost.), anche se la Corte costituzionale non ritiene che ad essi si applichi la c.d. “pregiudiziale parlamentare”. Al Consiglio spettano prerogative importantissime: l’approvazione dello statuto (nelle Regioni ordinarie); l’approvazione del proprio rego-
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lamento interno; l’esercizio della funzione legislativa regionale; l’esercizio della generale funzione di controllo e di indirizzo politico nei confronti dell’Esecutivo regionale (con possibilità, dunque, di presentare, oltre alla mozione di sfiducia nei confronti del Presidente, anche altre mozioni o risoluzioni od ordini del giorno, per vincolare la Giunta al rispetto di alcuni orientamenti o per meglio definire le modalità del proprio lavoro assembleare; e con possibilità, allo stesso modo, di formulare interrogazioni e interpellanze, promuovere audizioni, inchieste e indagini conoscitive); l’esercizio dell’iniziativa legislativa statale (art. 121, co. 2, Cost.); l’esercizio dell’iniziativa referendaria statale (sia pur congiuntamente ad altri Consigli regionali: v. artt. 75 e 138 Cost.); l’esercizio delle prerogative che la Costituzione gli riconosce nei procedimenti di variazione territoriale (v. art. 132 Cost.). Molti statuti, poi, hanno mantenuto in capo al Consiglio anche l’esercizio del potere regolamentare regionale, nonché l’esercizio di alcune funzioni consultive (talvolta, specie laddove alla Giunta sia riconosciuto potere regolamentare, lo statuto prevede il parere obbligatorio di alcune commissioni consiliari) o propriamente amministrative (di nomina dei titolari di alcuni organi regionali o di approvazione di alcuni atti generali o, ancora, di monitoraggio o di controllo rispetto ai processi di attuazione di alcune politiche regionali). Dal punto di vista dell’organizzazione interna, la Costituzione prevede direttamente che «[i]l Consiglio elegge tra i suoi componenti un Presidente e un ufficio di presidenza» (art. 122, co. 3). Dopodiché un largo margine di manovra spetta agli statuti e alle norme regolamentari interne che, come si è detto, il Consiglio può approvare (pur sempre nei limiti di ciò che preveda lo statuto, il quale spesso prevede, oltre al regolamento interno vero e proprio, anche altri regolamenti, per la disciplina di profili specifici). Alla disciplina dello statuto e dei regolamenti è interamente rimessa l’indicazione dei quorum necessari per l’adozione di specifici atti, del conteggio in concreto delle relative maggioranze e delle modalità di votazione. Il “capo” dell’Esecutivo regionale, a tutti gli effetti, è il Presidente. La centralità di questa figura è anche testimoniata dall’uso frequente, nel linguaggio politico e nel discorso pubblico, della qualifica – per vero non tecnicamente corretta – di “Governatore”. Non c’è da stupirsi, in realtà. Sul piano della forma di governo, la forte e chiara “preferenza” manifestata dalla Costituzione per un modello presidenziale si esprime anche nella definizione del ruolo determinante del Presidente circa la formazione in senso stretto dell’Esecutivo, visto che, nel caso (ormai generalizzato) della sua elezione diretta, ad esso spetta la nomina e l’eventuale revoca di membri della Giunta (art. 122,
Presidente
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Giunta
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co. 5, Cost.), sia pur nei limiti di volta in volta fissati dagli statuti (in termini di numerosità della Giunta o di presenza di un Vicepresidente o di garanzia della pari rappresentanza di uomini e donne). Si tratta, dunque, di un organo le cui prerogative hanno spinto larga parte degli studiosi a qualificare il Governo regionale come un Governo improntato ad un generale principio di direzione monocratica, che per ciò solo differenzierebbe in modo assai pronunciato le prerogative del Presidente della Giunta regionale da quelle del Presidente del Consiglio dei Ministri sul piano del Governo nazionale. Si è soliti anche affermare, non a caso, che in sede regionale l’Esecutivo non è caratterizzato dall’adozione di un modello ministeriale. Del resto, per espressa previsione costituzionale, il Presidente della Giunta regionale «dirige la politica della Giunta e ne è responsabile» (art. 121, co. 4, Cost.): si tratta di un’attribuzione inequivoca, che è confermata dalla regola già descritta per la quale il Consiglio può promuovere mozioni di sfiducia non contro la Giunta tout court o contro i singoli assessori regionali, ma contro il Presidente. In questo suo ruolo il Presidente convoca e presiede le sedute della Giunta, fissando anche l’ordine del giorno, distribuisce i compiti tra gli assessori e definisce eventuali contrasti che tra gli stessi dovessero emergere, adotta direttive e, se previsto dagli statuti, avoca a sé le funzioni eventualmente delegate ai membri della Giunta, adotta in via d’urgenza gli atti di Giunta (da sottoporre poi alla ratifica della stessa), presenta al Consiglio i disegni di legge deliberati dalla Giunta etc. Il Presidente della Giunta regionale, inoltre: rappresenta la Regione (in giudizio, ma anche in ogni altra sede istituzionale in cui sia chiamato a farlo: ad esempio, nel c.d. “sistema delle Conferenze” o nel Consiglio dei Ministri, laddove previsto dalla legge); indice i referendum e le elezioni regionali; promulga le leggi ed emana i regolamenti regionali; dirige le funzioni amministrative delegate dallo Stato alla Regione, conformandosi alle istruzioni del Governo statale. L’organo esecutivo – il Governo in senso proprio – della Regione è la Giunta, nominata, come si è detto, dal Presidente, laddove questo sia direttamente eletto. È dunque formata, in base alle diverse previsioni statutarie, dagli assessori regionali, ed è frequente che ai membri della Giunta nominati dal Presidente siano affidate, contestualmente alla nomina, funzioni di cura di determinati settori di competenza regionale. In questa prospettiva, non manca tra gli interpreti chi segnala che tali opzioni statutarie, del tutto diffuse, tendono a temperare la diversità del modello del Governo regionale rispetto al modello ministeriale e ad introdurre anche delle ulteriori mitigazioni del generale principio di collegialità che impronta il lavoro della Giunta.
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Alla Giunta spettano alcune prerogative specifiche: lo svolgimento del programma di governo, come è tipico di ogni Esecutivo; la formazione e la gestione dei bilanci; le deliberazioni concernenti l’autorizzazione a stare in giudizio del Presidente nelle controversie di cui sia parte la Regione; l’adozione di atti di nomina di rappresentanti regionali in organi od enti; le delibere concernenti contratti di cui sia parte la Regione; un generale potere di vigilanza su tutti gli enti dipendenti dalla Regione; il potere (se previsto dallo statuto) di adottare regolamenti. Come si è anticipato, un organo specifico, il Consiglio delle autonomie locali (Cal), è chiamato in sede regionale a rappresentare le autonomie locali e a svolgere una funzione consultiva, e come tale dev’essere obbligatoriamente previsto dagli statuti. Non si tratta, a ben vedere, di una innovazione, se non nella previsione della necessaria istituzione dell’organo. Già prima della riforma del 2001, infatti, in molte Regioni esistevano già organismi simili, volti a configurare un’occasione strutturale di raccordo tra le politiche regionali e le funzioni degli enti locali. È al livello locale, d’altra parte, che “atterrano” molte funzioni amministrative, e ciò non solo in ragione di quanto prescrive l’art. 118, co. 1, Cost.; è del tutto naturale, quindi, che si sia immaginato di configurare un luogo istituzionale in cui quel livello ha la possibilità di esprimersi circa il contenuto dell’azione politico-amministrativa della Regione di riferimento. La disciplina del Cal varia da contesto a contesto, anche se vi sono alcuni caratteri abbastanza costanti: la collocazione della normativa che lo regola è spesso posta al di fuori dello statuto, nel senso che quest’ultimo ne prevede l’istituzione, ma rinvia per lo più alla legge regionale; si tratta di un organo largamente concepito come organo di rappresentanza in senso stretto degli enti locali: altri soggetti sono talvolta ammessi alle sue sedute (le autonomie funzionali, ad esempio; o anche i rappresentanti di altri organi regionali), ma senza diritto di voto; il criterio che ne informa la composizione è variabile, nel senso che non vi è un indirizzo univoco sul fatto che esso sia formato dai rappresentanti degli Esecutivi locali o dei rispettivi Consigli o di entrambe le tipologie di organi; la sua vita è spesso collegata esplicitamente alla durata in carica del Consiglio regionale; è previsto che, al di là di quanto già dispone la legge statale, rilasci pareri obbligatori in alcune materie (ad esempio, la modifica dello statuto o l’approvazione di bilanci o leggi finanziarie ovvero l’approvazione di atti che comportano il riconoscimento in capi agli enti locali di nuove funzioni); è titolare anche di altre funzioni, non consultive, quali quella di iniziativa legislativa sul piano regionale; quella di proposta e di osservazione nei confronti dell’attività dell’apparato politico-amministrativo regionale; quella di sollecitazione della Giunta nei confronti della possibilità che la
Consiglio delle autonomie locali
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Organi di garanzia
Altri organi
Attività amministrativa delle Regioni (cenni)
Capitolo VII
Regione impugni dinanzi alla Corte costituzionale atti statali lesivi delle competenze locali; quella di rivolgersi agli organi di garanzia statutaria. Proprio questi ultimi organi rappresentano un’altra tipologia di organi regionali, parimenti consultivi, che gli statuti possono istituire. Di solito assumono la denominazione di Consulte statutarie (o di garanzia statutaria) e sono organi collegiali composti da un numero variabile di membri (da cinque a sette, non immediatamente rieleggibili e destinati a rimanere in carica per un tempo superiore a quello della legislatura regionale), scelti a maggioranza qualificata dal Consiglio regionale sulla base di profili di expertise tecnico-giuridica e di indipendenza proporzionali al ruolo di garanzia che devono svolgere. A tali organi – che eleggono in autonomia il loro Presidente e possono dotarsi di un proprio regolamento – sono attribuite diverse funzioni: formulare pareri sulla legittimità statutaria di specifici atti regionali (normativi o amministrativi), su eventuali conflitti di competenza tra organi regionali o sui ricorsi che la Regione voglia promuovere dinanzi alla Corte costituzionale; rispondere a quesiti sull’interpretazione di atti o leggi regionali; valutare l’ammissibilità dei referendum regionali previsti dagli statuti; valutare, dove previsto dagli statuti, l’ammissibilità delle forme di iniziativa legislativa popolare; accertare la sussistenza delle ipotesi relative alla sopravvenuta cessazione degli organi elettivi, affinché si verifichino tutte le conseguenze stabilite per questa ipotesi. Tali funzioni possono essere attivate, di norma, sia dagli organi che compongono l’Esecutivo regionale, sia da minoranze qualificate o un certo numero di capigruppo o dal Presidente del Consiglio regionale, sia, ancora, dal Cal o da altri organi regionali. Gli statuti, peraltro, possono anche istituire altri organi: tra i più importanti, si segnalano il difensore civico; la commissione per le pari opportunità; il consiglio regionale dell’economia e del lavoro; il garante per l’infanzia e l’adolescenza; il garante dei diritti dei detenuti. In alcuni casi l’istituzione di un certo organo è prevista anche dalla legge statale (v., ad esempio, il comitato regionale per le comunicazioni, Corecom, che svolge importanti funzioni di vigilanza e consultive in materie che ricadono anche nell’orbita delle funzioni dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni). Come si è già chiarito, nel contesto della riforma costituzionale del 2001 non vige più un principio di “parallelismo” tra materie di competenza legislativa regionale e materie nelle quali le Regioni ordinarie possono esercitare funzioni amministrative. A questo criterio “fisso” di attribuzione – che però continua a costituire il criterio di riferimento nell’ambito della disciplina posta per le autonomie speciali – se ne è sostituito uno “mobile”, caratterizzato dalle oscillazioni variabili del principio di sussidiarietà verticale di cui all’art. 118, co. 1, Cost.
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Si è anche parimenti osservato che proprio quest’ultimo criterio ha influenzato in maniera sensibile anche la definizione del criterio di riparto della potestà legislativa, con una sorta di effetto “di ritorno”, che spesso finisce per riportare al “centro” anche le attribuzioni normative. Nonostante ciò le Regioni ordinarie si sono viste riconoscere, già prima del 2001, e sin dalla fine degli anni ’70, rilevanti spazi di operatività amministrativa, specie in materie in cui i limiti della loro competenza concorrente non erano, e non sono tuttora, particolarmente incisivi, e specie per i profili di determinazione delle strutture organizzative e/o delle procedure volte alla realizzazione di talune importanti politiche. Così è stato, ad esempio, nei settori dell’urbanistica, dell’edilizia e del paesaggio, dove se è vero che larga parte dell’azione amministrativa è rimessa al livello comunale e/o provinciale, è altrettanto vero che quell’attività si svolge secondo scansioni funzionali disciplinate dalla legislazione regionale e con importanti competenze – di pianificazione o programmazione – trattenute nella titolarità degli organi regionali. In questi settori, peraltro, le Regioni hanno avuto anche modo di farsi promotrici di avanzati e spesso proficui modelli di partecipazione (v. soprattutto il caso della Toscana), volti a “provare”, anche a vantaggio di potenziali interventi nazionali di riforma, meccanismi innovativi di legittimazione dei processi decisionali complessi. In altri casi, non meno significativi, le Regioni hanno anche agito mediante l’istituzione di enti sottoposti alla loro stessa vigilanza, con diretta assunzione, dunque, dell’onere di finanziare e indirizzare l’organizzazione e l’attività di strutture amministrative ad hoc (in proposito, valga il riferimento alle diverse “agenzie” istituite per supportare le politiche regionali nell’ambito forestale, in quello agricolo e agroalimentare in generale o nella materia della pesca). Una materia nella quale le Regioni hanno avuto modo di esprimere al massimo la loro competenza organizzativa è quella sanitaria, al punto che, dalla riforma concernente l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (legge n. 833/1978), e soprattutto con le riforme degli anni ’90 (d.lgs. n. 502/1992 e d.lgs. n. 229/1999) ad oggi, si sono creati dei sistemi sanitari regionali veri e propri, con profili di differenziazione reciproca anche assai evidenti. Fatta salva, infatti, l’incidenza della potestà esclusiva statale di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP; art. 117, co. 2, lett. m) – operazione, peraltro, nella quale il ruolo regionale è comunque assai pronunciato, vista la circostanza che essa è condotta per mezzo di accordi che si finalizzano nel contesto della Conferenza Stato-Regioni – ogni Regione è responsabile delle risorse, delle strutture e dei mezzi strumentali alla prestazione del servizio pubblico in questione.
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Capitolo VII
Il modello-base che in proposito si è radicato concerne la presenza, sul territorio regionale, di aziende sanitarie locali (ASL), che sono istituite dalla Regione, hanno autonomia finanziaria (nei limiti di quanto riconosciuto dal fondo sanitario regionale), operano ciascuna all’interno del proprio ambito territoriale (a tale riguardo possono essere suddivise in distretti) e attuano il piano regionale sanitario (alla cui formazione partecipano anche i Comuni, che cooperano anche all’attività di vigilanza), nel contesto di una rete di cui fanno parte anche strutture sanitarie private, accreditate sempre dall’amministrazione regionale . Questa “cornice”, tuttavia, conosce declinazioni o ri-articolazioni anche assai diverse: talune Regioni, ad esempio, hanno largamente sviluppato l’interazione con il settore privato (così è avvenuto nel c.d. “modello lombardo”); altre hanno ridotto in modo sensibile il numero delle aziende, riorganizzando servizi e prestazioni sulla base della considerazione delle mutazioni socio-economiche avvenute sul territorio; altre ancora (come nel caso del c.d. “modello emiliano”) hanno introdotto dei livelli territoriali più ampi (“aree vaste” vere e proprie), per facilitare su quella base l’integrazione tra i servizi propriamente sanitari e quelli socio-assistenziali (che rientrano sempre nella competenza regionale – salva la definizione statale di livelli essenziali di assistenza: LEA – ma in una tradizionale rete che prevede come protagonisti delle relative attività di erogazione soprattutto i Comuni). A ciò si aggiunga che il Presidente della Giunta regionale è l’autorità sanitaria territorialmente competente, titolare come tale di un peculiare potere di ordinanza, soprattutto in caso di emergenza (e salva – verso l’alto – la pari competenza del Ministro della salute per questioni che coinvolgano il territorio nazionale o, comunque, il territorio di più Regioni, nonché – verso il basso – la competenza altrettanto assimilabile del Sindaco, per situazioni che si verifichino eccezionalmente nel territorio comunale).
6. Attività amministrativa e forma di governo degli altri enti territoriali Il Comune, come si è anticipato, rappresenta, in forza del principio di sussidiarietà verticale, il tendenziale baricentro dell’attività amministrativa, quale ente locale più vicino alla cittadinanza e, dunque, ai bisogni e interessi della comunità territoriale di riferimento. Come tale, il Comune è un laboratorio democratico vero e proprio, perché costituisce lo spazio politico-amministrativo in cui la partecipazione è potenzialmente più alta.
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D’altra parte, molte delle sue funzioni sono di cruciale importanza, specie per ciò che riguarda lo svolgimento della vita quotidiana. Ad esempio, il Comune adotta gli strumenti della pianificazione urbanistica, con ciò intendendosi gli atti amministrativi generali che prevedono quali siano le linee dello sviluppo e della conseguente trasformazione del territorio; autorizza, sulla base di tali atti, le modificazioni edilizie, rilasciando i permessi di costruire; organizza i servizi pubblici locali di trasporto urbano, di distribuzione dell’acqua, di smaltimento dei rifiuti; regola il traffico urbano; organizza anche i servizi sociali (di assistenza alla persona); si occupa della polizia locale; tiene i registri dello stato civile e della popolazione; è responsabile della protezione civile e dei primi soccorsi nel relativo ambito territoriale; etc. Come si può vedere, pertanto, ciò che il Comune compie ha molto a che fare con alcune istanze essenziali della convivenza delle persone. La forma di governo del Comune – che tradizionalmente si articola attorno al ruolo di tre diversi organi: il Sindaco, la Giunta comunale e il Consiglio comunale – è informata, da circa trent’anni (legge n. 81/1993), al modello dell’elezione diretta del Sindaco, che come tale assume le funzioni sia di rappresentante dell’ente e della collettività che lo legittima democraticamente, sia di vertice dell’amministrazione locale di competenza dell’ente medesimo. L’elezione del Sindaco, in particolare, avviene assieme all’elezione del Consiglio, secondo una disciplina che, tuttavia, distingue i Comuni con più di 15.000 abitanti da quelli che hanno una popolazione inferiore. Nei primi vige un sistema maggioritario a doppio turno. Ciò significa che da subito può considerarsi eletto il candidato Sindaco che abbia conseguito almeno la maggioranza assoluta dei voti. Laddove, però, tale maggioranza non venga raggiunta, si passa ad una seconda votazione (c.d. “ballottaggio”), alla quale vengono ammessi i soli due candidati che abbiano raggiunto il numero più alto di consensi: risulterà eletto colui che prenderà il maggior numero di voti. Simultaneamente al voto per il Sindaco i cittadini esprimono anche il voto per eleggere i consiglieri comunali, che si devono presentare alla competizione elettorale in liste (o coalizioni di liste) collegate ad uno dei candidati Sindaco. In ciascuna lista nessun genere può essere rappresentato per oltre i due terzi. Gli elettori possono esprimere un massimo di due preferenze individuali (in questo caso le preferenze dovranno riguardare candidati di sesso diverso: c.d. “doppia preferenza di genere”). Si osservi, poi, che il voto dato alla sola lista vale anche come voto al candidato Sindaco collegato e che, tuttavia, è ammesso anche il c.d. “voto disgiunto” (l’elettore può scegliere un candidato Sindaco e votare per una lista ad esso non collegata) ed è possibile votare per il solo Sindaco (senza, dunque, che il voto venga
Funzioni del Comune
Forma di governo del Comune
Sistema elettorale
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Capitolo VII
conteggiato per l’attribuzione dei seggi in Consiglio). Alle liste (o alle coalizioni di liste) collegate al Sindaco eletto (al primo o al secondo turno) che non abbiano già conseguito (al primo turno delle elezioni) almeno il 60 per cento dei seggi del Consiglio, ma abbiano ottenuto almeno il 40 per cento dei voti validi, è assegnato il 60 per cento dei seggi (sempre che non abbiano ottenuto più voti). I restanti seggi vengono assegnati alle altre liste o coalizioni con metodo proporzionale. Alla distribuzione dei seggi non sono ammesse le liste e le coalizioni che non abbiano superato al primo turno la soglia di sbarramento del 3 per cento del numero complessivo dei votanti. Si può annotare che può accadere pacificamente che vi siano candidati Sindaci eletti in modo maggioritario, ma senza che lo sia la lista collegata (perché abbia ottenuto, ad esempio, meno del 40 per cento dei voti), determinandosi così, in Consiglio, la presenza di una maggioranza non “allineata” al colore politico del candidato Sindaco vincitore. Nei Comuni più piccoli, invece, viene eletto subito Sindaco il candidato che abbia raggiunto la maggioranza relativa dei voti (salvo il caso di parità con altro candidato: ipotesi in cui si ricorre al ballottaggio). Anche in questo caso, alla votazione del Consiglio si procede simultaneamente a quella per il Sindaco. In tutte le liste devono essere espressi candidati di entrambi i sessi e, nel caso dei Comuni con più di 5.000 abitanti, il genere più rappresentato non può superare i due terzi. L’elettore deve indicare sia il candidato Sindaco, sia la lista collegata, potendo esprimere, a quest’ultimo riguardo, o una preferenza, per i Comuni che hanno fino a 5.000 abitanti, o due preferenze, per gli altri Comuni: in tale caso vale il medesimo meccanismo, già visto poc’anzi, della “doppia preferenza di genere”). Alla lista collegata al candidato Sindaco che abbia riportato il maggior numero di voti sono attribuiti due terzi dei seggi assegnati al Consiglio, con arrotondamento all’unità superiore. Se è stata ammessa e votata una sola lista, sono eletti tutti i candidati compresi nella lista e il candidato Sindaco collegato, purché quella lista abbia riportato un numero di voti validi non inferiore al 50 per cento dei votanti ed il numero dei votanti non sia stato inferiore al 50 per cento degli elettori. Qualora non si siano raggiunte tali percentuali, l’elezione è nulla. Queste regole elettorali possono variare nelle autonomie speciali, i cui Statuti, come si è visto, attribuiscono la materia dell’ordinamento degli enti locali all’ambito di esercizio della potestà legislativa regionale. In Sardegna, per vero, il sistema elettorale è identico a quello da ultimo descritto. In Friuli-Venezia Giulia e Sicilia, invece, vi sono delle piccole variazioni, anche se il complesso della disciplina risponde alla medesima logica. Più sensibili sono le differenze concernenti la Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste e le Province Autonome di Trento e di Bolzano. Nel primo
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caso, infatti, si elegge direttamente non solo il Sindaco, ma anche il Vice-Sindaco; inoltre, non è possibile il voto disgiunto e il premio di maggioranza riconosciuto alle liste collegate al Sindaco vincitore è di entità variabile tra primo e secondo turno. Nel caso delle Province Autonome, poi, occorre distinguere: in quella di Trento il sistema coincide, pressoché totalmente, con quello nazionale, salvo che le regole per i Comuni più piccoli scattano sotto i 3.000 abitanti e non è previsto il voto disgiunto; in quella di Bolzano valgono regole analoghe a quelle vigenti a Trento per quanto concerne l’impossibilità del voto disgiunto, ma – oltre alla peculiarità consistente nella possibilità di esprimere ben quattro preferenze, e senza distinzione di genere – la differenza più rilevante è che il Consiglio è eletto solo con metodo proporzionale (senza, cioè, l’attribuzione di un premio di maggioranza). Una volta eletto, il Sindaco forma la Giunta, che non è altro che un organo collegiale i cui membri (gli “assessori”) sono preposti a sovrintendere alle diverse branche dell’amministrazione comunale. Essi sono scelti dal solo Sindaco, che può anche revocarne il mandato. Sicché si comprende immediatamente che, mentre il Consiglio svolge le funzioni tipiche dell’organo assembleare rappresentativo – è, in altre parole, l’organo di controllo e di indirizzo politico-amministrativo – il complesso formato dal Sindaco e dalla Giunta riveste il ruolo dell’Esecutivo. La specifica distribuzione dei poteri tra Sindaco, Giunta e Consiglio è assai semplice. La legge, infatti, assegna al Sindaco e al Consiglio specifiche competenze. Il Sindaco, per l’appunto, è responsabile dell’amministrazione dell’ente, di cui ha la legale rappresentanza, ed è chiamato a presiedere la Giunta. Oltre a ciò, assume anche la funzione di Ufficiale del Governo, ossia di organo decentrato dell’amministrazione statale, occupandosi, così, di alcune rilevanti funzioni, concernenti lo stato civile nonché l’adozione di ordinanze contingibili e urgenti a tutela della sicurezza urbana e dell’incolumità pubblica (art. 54, TUEL). Un pari potere di ordinanza, peraltro, è esercitato dal Sindaco anche quale rappresentante della propria comunità, ma solo in caso di emergenze sanitarie o di igiene, ovvero per «superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio, dell’ambiente e del patrimonio culturale o di pregiudizio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquillità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche» (art. 50, co. 5, TUEL). Il Consiglio comunale adotta, per lo più, una serie di «atti fondamentali» (art. 42 TUEL). Ad esso spetta, ad esempio, approvare o modificare
Competenze degli organi di governo del Comune
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Ruolo del Segretario comunale
Rapporti politica e amm. a livello locale
Capitolo VII
lo statuto comunale e/o i regolamenti comunali; adottare i criteri generali in materia di ordinamento degli uffici e dei servizi; adottare, altresì, tutti gli atti programmatici o di pianificazione, ivi compresi bilanci e rendiconti; approvare le convenzioni che il Comune stipuli con altri enti locali; disciplinare gli organismi di decentramento comunale e le forme della partecipazione popolare; organizzare i servizi pubblici e gestire le partecipazioni alle società pubbliche di cui il Comune faccia parte; determinare la disciplina generale delle relative tariffe; istituire e disciplinare tributi, per quanto di pertinenza comunale; contrarre mutui; decidere acquisti o permute di immobili; definire gli indirizzi per la nomina e la designazione dei rappresentanti del Comune presso enti, aziende ed istituzioni, ovvero nominare propri rappresentanti (dove previsto dalla legge). Tutto ciò che non compete a Sindaco o Consiglio spetta, in via residuale, alla Giunta (art. 48, co. 2, TUEL). Va evidenziato che, nella forma di governo comunale, la “crisi” del Sindaco o del Consiglio determina, rispettivamente, la “crisi” del secondo o del primo. Vale, cioè, il principio simul stabunt, simul cadent: le dimissioni del Sindaco (come i casi di impedimento permanente, rimozione, decadenza o decesso) implicano lo scioglimento del Consiglio (oltre che, naturalmente, della Giunta); e quest’ultimo evento implica la decadenza dalla carica del Sindaco (oltre che, analogamente, lo scioglimento della Giunta). Un posto importante, nel contesto dell’organizzazione amministrativa comunale, è ricoperto dal Segretario comunale, che è chiamato a svolgere «compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti» (art. 97, co. 2, TUEL). Il Segretario viene “scelto” dal Sindaco all’interno di un apposito Albo, cui si accede per concorso e che è articolato in sezioni regionali. Il suo mandato è legato a quello del Sindaco stesso. Salve le ipotesi in cui il Sindaco può procedere a nominare un direttore generale, il Segretario sovrintende all’attività di tutti i dirigenti del Comune. Gli spettano in ogni caso alcune funzioni specifiche (come la partecipazione alle riunioni di Giunta e Consiglio, delle quali cura la verbalizzazione, prestando se del caso la consulenza richiesta; o come la rogazione di tutti gli atti e contratti di cui sia parte il Comune). Circa i rapporti tra gli organi di governo e l’amministrazione, vale il principio di separazione funzionale (art. 107 TUEL): agli organi di governo spetta il potere di formulare l’indirizzo politico-amministrativo e di dare direttive circa il conseguimento dei risultati attesi; viceversa, agli organi amministrativi (e in particolare ai dirigenti che ne siano titolari) compete ogni potere gestionale e di amministrazione concreta e attiva
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(avere la responsabilità delle procedure di gara, stipulare contratti, adottare gli atti e i provvedimenti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, gestire i rapporti di lavoro con i dipendenti etc.). Così definito lo scheletro essenziale dell’attività e dell’organizzazione comunale, risulta più agevole comprendere le articolazioni e i compiti della Provincia e della Città metropolitana. Per quanto riguarda la Provincia, essa è titolare di funzioni cc.dd. “di area vasta”, che sono destinate a compiersi con riferimento alla cura di interessi di ampiezza sovracomunale. La legge (legge n. 56/2014) ha affidato alle Province alcune funzioni fondamentali: a) pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché tutela e valorizzazione dell’ambiente, per gli aspetti di competenza; pianificazione dei servizi di trasporto in ambito provinciale, autorizzazione e controllo in materia di trasporto privato, nonché costruzione e gestione delle strade provinciali; programmazione provinciale della rete scolastica; raccolta ed elaborazione dati ed assistenza tecnico-amministrativa agli enti locali; gestione dell’edilizia scolastica; controllo dei fenomeni discriminatori in ambito occupazionale e promozione delle pari opportunità sul territorio provinciale. Anche la Provincia è dotata di una forma di governo a tre organi, anche se si tratta di una struttura che, dopo la riforma del 2014, non ricalca più quella del Comune. In particolare, organi di governo della Provincia sono il Presidente, posto a “capo” dell’Esecutivo; il Consiglio provinciale; l’Assemblea dei Sindaci. Diversamente dal Comune, infatti, oggi la Provincia è un ente di secondo grado (o di secondo livello), nel senso che i suoi organi di governo non sono eletti direttamente dai cittadini del relativo territorio di riferimento, ma promanano dai Comuni. In particolare, il Presidente rimane in carica quattro anni ed è eletto, con metodo maggioritario, dai Sindaci e dai consiglieri comunali dei Comuni del territorio provinciale (ma il voto che questi possono esprimere è diversamente ponderato a seconda della grandezza del Comune). Può candidarsi a ricoprire tale ruolo uno dei Sindaci stessi. Il Presidente è il “capo” dell’Esecutivo provinciale. Il Consiglio provinciale, invece, rimane in carica due anni ed è composto dal Presidente e da un certo numero di membri, che varia a seconda della popolazione provinciale (16 consiglieri, se la popolazione è superiore a 700.000 abitanti; 12 consiglieri, se la popolazione è compresa tra 300.000 e 700.000 abitanti; 10 consiglieri, se la popolazione è inferiore a 300.000 abitanti). Il diritto di elettorato attivo e passivo per l’elezione di tale organo spetta ai Sindaci e ai consiglieri comunali dei Comuni del territorio provinciale. Il sistema elettorale è di tipo proporziona-
Funzioni della Provincia
Organi di governo della Provincia
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Funzioni delle Città metropolitane
Organi di governo delle Città metropolitane
Capitolo VII
le. Il Consiglio è l’organo di indirizzo e controllo; approva regolamenti, piani, programmi; approva o adotta ogni altro atto ad esso sottoposto dal Presidente; ha altresì potere di proposta dello statuto (o delle relative modifiche) e quello di approvare il bilancio. L’Assemblea dei Sindaci – come rivela anche la sua denominazione – riunisce tutti i Sindaci del territorio provinciale. Ad essa spetta, specialmente, approvare lo statuto dell’ente (o le relative modifiche) ed esprimere un parere in vista dell’approvazione del bilancio. Le Città metropolitane sono enti territoriali che, in alcuni casi, sostituiscono le Province, svolgendo importanti funzioni in un’area sovracomunale particolarmente ampia. Più precisamente, la legge ha previsto che alle Città metropolitane spettino: le funzioni fondamentali delle Province; altre funzioni spiccatamente “proprie” (quali, ad esempio, l’adozione del piano strategico del territorio metropolitano, di carattere triennale, che costituisce atto di indirizzo per i Comuni e le unioni di comuni del territorio, anche in relazione a funzioni delegate o attribuite dalle Regioni; l’approvazione degli atti di pianificazione territoriale generale, comprese le strutture di comunicazione, le reti di servizi e delle infrastrutture, anche fissando vincoli e obiettivi all’attività e all’esercizio delle funzioni dei Comuni; la strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano; la cura di mobilità e viabilità; le attività di promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale; quelle di promozione e coordinamento dei sistemi di informatizzazione e di digitalizzazione in ambito metropolitano); le ulteriori funzioni che di volta in volta vengano loro attribuite dallo Stato o dalle Regioni. Gli organi della Città metropolitana sono tre: il Sindaco metropolitano; il Consiglio metropolitano; la Conferenza metropolitana. Lo “schema” di questa articolazione è in qualche modo simile a quello provinciale. Il Sindaco metropolitano coincide, normalmente, con il Sindaco del Comune capoluogo: è “capo” dell’Esecutivo metropolitano, ha la rappresentanza dell’ente, e convoca e presiede il Consiglio e la Conferenza. Il Consiglio è organo elettivo di secondo grado: infatti, salvo il suo Presidente (che coincide con il Sindaco metropolitano, che, dunque, vi fa parte di diritto), è composto da un certo numero di consiglieri, che varia a seconda della popolazione residente (da un minimo di 14 a un massimo di 24 consiglieri). Il sistema elettorale è proporzionale, per liste. Il diritto di elettorato attivo e passivo spetta ai Sindaci e consiglieri comunali del territorio metropolitano. Il Consiglio dura in carica cinque anni, ma, in caso di rinnovo del Consiglio del Comune capoluogo, si procede comunque a nuove elezioni. È l’organo di indirizzo e controllo (approva regolamenti, piani, programmi; approva o adotta ogni altro atto ad esso sotto-
L’ordinamento repubblicano: l’articolazione territoriale
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posto dal Sindaco metropolitano ed esercita le altre funzioni attribuite dallo statuto; ha anche potere di proposta sullo statuto e sulle sue modifiche e approva il bilancio. La Conferenza metropolitana, infine, è composta dal Sindaco metropolitano e dai Sindaci dei Comuni del territorio metropolitano. È competente per l’adozione dello statuto e ha potere consultivo per l’approvazione dei bilanci; lo statuto può attribuirle altri poteri propositivi e consultivi.
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Capitolo VII
CAPITOLO VIII
L’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA SOMMARIO: 1. L’amministrazione pubblica e le sue molteplici nozioni. – 2. La funzione amministrativa, le sue forme e il rapporto tra amministrazione e soggetti privati. – 3. Il procedimento amministrativo. – 4. Il provvedimento amministrativo. – 5. La tutela nei confronti dell’amministrazione. – 6. Le risorse dell’amministrazione. – 7. La responsabilità dell’amministrazione e dei suoi funzionari.
1. L’amministrazione pubblica e le sue molteplici nozioni Comunemente è assai semplice identificare l’amministrazione pubblica e, allo stesso modo, quale ne sia il volto. Se l’amministrazione pubblica altro non è che cura concreta degli interessi imputabili alla collettività, le amministrazioni pubbliche si possono facilmente individuare in quei soggetti che di tale cura si prendono carico istituzionalmente. Si è soliti, dunque, distinguere, in questa prospettiva, tra due nozioni di amministrazione pubblica: quella dell’amministrazione in senso oggettivo (che cosa è amministrazione pubblica) e quella dell’amministrazione in senso soggettivo (chi è l’amministrazione pubblica). Dal primo punto di vista, ad esempio, vengono in gioco moltissime attività: quelle relative all’ordinato sviluppo del territorio, e quindi all’urbanistica e all’edilizia; quelle concernenti la tutela dell’ambiente o dei beni culturali; quelle attinenti alla sicurezza pubblica; quelle che si risolvono nell’organizzazione e nell’erogazione dell’istruzione o delle prestazioni sanitarie o sociali; quelle finalizzate a realizzare le infrastrutture (strade, ferrovie, ponti, porti, aeroporti, scuole, ospedali, etc.) o quelle che consistono nella distribuzione dell’acqua, dell’energia elettrica, del gas; quelle che sono dedicate all’accertamento e/o alla riscossione dei tributi, etc. Dal secondo punto di vista, vanno considerati i tanti protagonisti di queste azioni, ossia le organizzazioni che se ne devono occupare per con-
P.a. in senso soggettivo e in senso oggettivo
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Variabilità della nozione di p.a.
Capitolo VIII
to della comunità: e così, e sempre in via esemplificativa, possiamo pensare ai Comuni e alle loro Unioni, alle Province, alle Regioni, allo Stato (cc.dd. “enti pubblici territoriali”), come ad altre entità che parimenti possono riconoscersi agevolmente come pubbliche, quali le università o le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura (che godono di una certa autonomia) o la galassia degli enti pubblici strumentali (come l’INPS-Istituto nazionale della previdenza sociale o l’ENIT-Agenzia nazionale del turismo o il CONI-Comitato olimpico nazionale italiano) o associativi (come possono qualificarsi gli ordini professionali), etc. Nonostante si tratti di nozioni dalla comprensione pressoché intuitiva, esse richiedono alcune precisazioni. Amministrazione in senso oggettivo e amministrazione in senso soggettivo costituiscono variabili tra loro interconnesse, che possono mutare a seconda della forma di stato, dell’articolazione della forma di governo e delle diverse e possibili opzioni di gestione della cosa pubblica che, in ogni caso, la collettività e chi la rappresenta vogliano intraprendere nel quadro costituzionale di riferimento. A ben vedere, questa specificazione non è particolarmente complicata. È chiaro che la definizione di che cosa l’amministrazione pubblica sia chiamata a fare, come anche la declinazione di chi sia l’amministrazione pubblica, dipende largamente dai fini ultimi che una comunità si prefigge di raggiungere, dall’equilibrio che si costituisce tra i differenti poteri che la reggono e, in definitiva, dalle ragioni fondamentali che legittimano gli uni e gli altri. Il che equivale a rammentare che l’amministrazione di uno stato liberale non è quella di uno stato democratico; ovvero che l’amministrazione di uno Stato unitario non è quella di uno Stato federale o di uno Stato regionale. Ma anche che le politiche che un qualsiasi Stato può prefiggersi di perseguire possono essere più o meno elaborate o strutturate, come possono, altresì, cambiare, nel loro contenuto o nella loro intensità, a seconda delle esigenze di intervento maggiormente sentite in una determinata congiuntura. Un esempio lampante di che cosa queste variazioni possono comportare è quello concernente le forme dell’organizzazione pubblica diversa da quella territoriale. Si tratta di un ambito eterogeneo che, se specie nel corso del Novecento è stato caratterizzato anche dall’iperattivismo di soggetti propriamente pubblici nel settore economico (i cc.dd. “enti pubblici economici”, quali erano l’ENI, l’ENEL, l’ANAS, ovvero le aziende speciali dei Comuni), progressivamente ha subito processi di privatizzazione (solo formale o anche in tutto o in parte sostanziale, con sostituzione del modello soggettivamente pubblico mediante il modello della società per azioni). Ciò detto, è opportuno evidenziare che, nel contesto delle evoluzioni
L’amministrazione pubblica
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storiche che hanno condotto all’affermazione del paradigma dello Stato di diritto, e dunque alla centralità della “legge” e dei corpi che la producono, amministrazione in senso oggettivo e amministrazione in senso soggettivo rientrano nel dominio di quanto la “legge” stessa stabilisce. È la “legge” che prefigura le finalità in vista delle quali l’amministrazione deve agire e le modalità, strutturali come gestionali, che essa è tenuta a seguire. All’interno dell’ordinamento italiano tale assetto – che corrisponde al primo e fondamentale significato del c.d. principio di legalità – è espressamente riconosciuto, in via generale, dall’art. 97 Cost., che in proposito pone (coerentemente) una riserva di legge (relativa): il co. 2 afferma che i «pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione»; il co. 3 specifica, poi, che nell’ordinamento degli uffici «sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari». Declinazione dello stesso assetto, per ciò che attiene, più precisamente, all’Esecutivo è anche il rinvio, operato dall’art. 95, co. 3, Cost., a quella legge (costituzionalmente necessaria) che «provvede all’ordinamento della Presidenza del Consiglio e determina il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei Ministeri». Da quanto ora richiamato si ricavano due ulteriori puntualizzazioni: una serve a mettere in luce quanto l’assetto in esame rappresenti il precipitato di una tradizione di lungo periodo, capace di esprimere una serie di declinazioni dogmatiche, molto importanti anche sul piano operativo e tuttora valide; un’altra, invece, è utile a valutare quanto sia esteso o, se si vuole, aperto, il campo del parametro di legalità. In primo luogo, è il caso di sottolineare che è dal principio di legalità così inteso che deriva l’idea che la “legge” sia la fonte dell’organizzazione e dell’azione dell’amministrazione, in tutte le sue articolazioni istituzionali e in tutte le sue forme. È alla “legge” che si deve, ad esempio, la specificazione di ogni branca dell’amministrazione statale e l’assegnazione a ciascuna di corrispondenti attribuzioni; è alla “legge” che va imputata l’individuazione delle unità elementari che compongono ciascuna amministrazione (anche non statale), distinguendo i meri uffici dagli organi in senso proprio, ossia dagli uffici cui, nei limiti delle rispettive competenze, anch’esse normativamente stabilite, spetta il potere di rappresentare l’intera amministrazione e di produrre verso l’esterno specifici effetti (c.d. rappresentanza organica); è sempre la “legge” ad affermare, in applicazione del criterio di imparzialità, già menzionato, il c.d. principio di separazione tra politica e amministrazione, secondo il quale agli organi di governo compete formulare l’indirizzo politico-amministrativo e a quelli tecnico-ammini-
Centralità della “legge”
Ricadute sistemiche della legalità
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Estensione del parametro della legalità
Capitolo VIII
strativi (c.d. dirigenziali) realizzare i risultati così prefigurati gestendo il settore di attività loro affidato (art. 4, d.lgs. n. 165/2001; art. 107, d.lgs. n. 267/2000); è la “legge” (art. 1, co. 2, d.lgs. n. 165/2001) che, a certi scopi (ad esempio, definire come debba essere regolato il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici), elenca il novero delle pubbliche amministrazioni; è la “legge” che delimita i criteri e i modi con cui la p.a. agisce (legge n. 241/1990, come si vedrà; ma anche tutte le leggi di settore sulle tante attività amministrative); è ancora la “legge” (art. 4, legge n. 70/1975) che identifica altri enti pubblici che non siano già previsti dalla Costituzione; ed è quest’ultima, a sua volta, che, come “legge” per eccellenza, per ciò che riguarda l’ordinamento italiano repubblicano istituisce un sistema amministrativo pluralistico (che al di là, e prima, dello Stato contempla gli enti pubblici territoriali, quali i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni, ordinarie e speciali, ivi comprese le Province Autonome di Trento e Bolzano: v. artt. 114 e 116 Cost.) e gli affida (determinandone le prerogative: artt. e 118 117 Cost.) il «compito» di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, co. 2, Cost.). Si può passare così alla seconda puntualizzazione. Perché, proprio sulla scorta di quando da ultimo illustrato, si capisce che la “legge” cui ci si riferisce nell’individuazione del parametro che deve fungere da strumento di definizione, delimitazione e orientamento di ciò che l’amministrazione è e ha il dovere di compiere è nozione a sua volta oscillante: è idonea, cioè, a ricomprendere anche la norma costituzionale o la norma secondaria o altre norme provenienti da fonti diverse, ma parimenti riconosciute dalla Costituzione come idonee a integrare detto parametro. In questo modo ci si può avvedere del fatto che nella Costituzione vi sono numerosissime disposizioni che integrano il parametro della legalità che le amministrazioni devono osservare (si pensi, ad esempio, a tutte le disposizioni in tema di tutela dei diritti). Oltre a ciò, anche al di là dei casi in cui possano essere formalmente preposti all’esercizio di pubbliche funzioni (qual è quello dei notai, che esercitano una funzione certificativa, o dei privati che svolgono dietro concessione pubblica il servizio di riscossione dei tributi), la Costituzione riconosce ai soggetti privati uno spazio immediato di azione pubblica (come è per coloro, «singoli e associati», che si attivino autonomamente «per lo svolgimento di attività di interesse generale», sulla base del principio di sussidiarietà affermato dall’art. 118, co. 4, Cost.). Parametro di legalità dell’organizzazione e dell’azione amministrati-
L’amministrazione pubblica
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va, poi, è anche il diritto dell’Unione europea (v. artt. 11 e 117, co. 1, Cost.), che, dunque, è riconosciuto – anche oltre l’esplicito rinvio ai suoi principi, quale effettuato dal legislatore nazionale: art. 1, legge n. 241/1990) – come fonte di legittimazione di un’articolazione amministrativa vera e propria (costituita dalle istituzioni dell’Unione, in primis dalla Commissione) e di un’attività altrettanto amministrativa diretta o anche indiretta (cioè promossa dalle istituzioni e dai differenti organismi sovranazionali ovvero per il tramite delle amministrazioni nazionali e delle loro differenti fisionomie). È sempre il diritto dell’Unione europea, d’altra parte, che nel corso del tempo ha anche mutato la definizione di ciò che può essere pubblica amministrazione in senso soggettivo, rendendo necessaria l’introduzione nell’ordinamento positivo italiano di nozioni di matrice sostanziale, funzionali a garantire l’applicazione della disciplina sovranazionale anche da parte di soggetti formalmente privati, ma comunque attratti in vario modo all’ambito della sfera pubblica. È il caso, ad esempio, della nozione di organismo di diritto pubblico, volta a rendere cogente l’osservanza della normativa europea in tema di contratti pubblici anche a soggetti di diritto privato, dotati di capacità giuridica, ma istituiti per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale attraverso lo svolgimento di un’attività priva di carattere industriale o commerciale e finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico (oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi, oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico: v. art. 1, co. 1, lett. e), d.lgs. n. 36/2023). Ma l’influenza del diritto dell’Unione europea circa la conformazione dell’organizzazione amministrativa nazionale ha avuto anche altri, significativi impatti. Si pensi alla diffusione delle c.d. Autorità amministrative indipendenti, quali l’Autorità garante della concorrenza e del mercato o l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni o il Garante per la protezione dei dati personali o l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) o, ancora, e sempre in via meramente esemplificativa, l’Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni (IVASS) o la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB) o l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC). In questo caso la “legge” ha introdotto nell’ordinamento un modello di amministrazione assai originale, che formalmente non ha un testuale riscontro nella Costituzione. Infatti, i vertici di tutte queste autorità – che
Ruolo del diritto dell’Unione europea
Organismo di diritto pubblico
Autorità amministrative indipendenti
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Capitolo VIII
solitamente vengono individuati tra soggetti dotati di una specifica expertise tecnica mediante procedure cui partecipano più organi costituzionali – non rispondono politicamente agli organi di governo: sono, cioè, sottratti all’influenza dell’indirizzo politico-amministrativo (che viceversa costituisce la regola per tutta l’amministrazione che “risponde” alle dinamiche della rappresentanza politica: v., ad esempio, art. 95, co. 1, Cost.). Eppure, nonostante ciò, tali autorità esercitano prerogative sovente molto forti. Da un lato, contribuiscono, infatti, alla definizione delle regole che moltissimi operatori privati devono seguire nel mercato di riferimento (c.d. “attività di regolazione”): si pensi alla determinazione delle tariffe in materia energetica da parte di ARERA. Dall’altro, intervengono, se del caso anche con l’adozione di sanzioni particolarmente afflittive, nei confronti di tutti coloro che si comportino in modo scorretto: si pensi al potere di controllo e sanzionatorio che, ad esempio, il Garante per la protezione dei dati personali esercita nei confronti di soggetti pubblici e privati che trattano – a vario titolo – i nostri dati personali. Il fatto è che la legittimazione di questa specifica tipologia di amministrazioni in senso soggettivo deriva dalle esigenze di neutralizzazione della disciplina di taluni settori: istanza che proviene, per l’appunto, e specialmente, dal diritto dell’Unione europea e che giustifica l’istituzione, da parte del legislatore nazionale, di organizzazioni capaci di interpretare al massimo grado l’imparzialità amministrativa (affermata, come si è visto, nell’art. 97, co. 2, Cost.) e di operare, per ciò solo, per spazi riservati di competenza.
2. La funzione amministrativa, le sue forme e il rapporto tra amministrazione e soggetti privati
Modalità espressive della funzione
Tutto ciò che spetta all’amministrazione pubblica rientra in quanto si definisce come funzione amministrativa (per distinguerla dalle altre, classiche funzioni dello Stato, quella normativa e quella giurisdizionale). Lo svolgimento di tale funzione comporta l’esercizio di attività assai eterogenee. Da un lato si può isolare una serie di attività materiali, che consistono, ad esempio, nell’erogazione di prestazioni a favore della collettività (come sono i c.d. servizi pubblici: di istruzione, sanitari, assistenziali, di trasporto, di distribuzione dell’acqua, dell’energia elettrica o del gas, etc.) o nella realizzazione di opere o di infrastrutture (ospedali, scuole, strade, aeroporti, etc.). Dall’altro lato, invece, la funzione amministrativa si esplica nell’ado-
L’amministrazione pubblica
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zione di manifestazioni di volontà, di decisioni (i c.d. provvedimenti amministrativi) che hanno lo scopo, producendo specifici effetti giuridici, di definire ciò che i soggetti privati possono o non possono o devono fare, ovvero di limitarne le prerogative in concreto, per la realizzazione delle finalità pubbliche stabilite dalla legge. Si pensi, ad esempio, al rilascio del permesso di costruire, che consente di esercitare lo ius aedificandi su un terreno di cui si è proprietari; o al diniego dell’autorizzazione a far circolare all’estero un bene di cui si sia accertato l’interesse culturale; o all’adozione di un ordine di demolizione di un edificio pericolante oppure, ancora, di un decreto volto ad espropriare una porzione di un immobile per realizzare una pista ciclabile, con trasferimento della proprietà di quella porzione in capo alla pubblica amministrazione. Ma si pensi anche all’adozione di atti amministrativi generali – quale è un atto di pianificazione urbanistica, volto a disciplinare i possibili utilizzi del suolo, coerentemente con determinate linee di sviluppo territoriale – o di atti normativi – quali possono essere i regolamenti governativi, ministeriali, regionali o locali – ovvero, ancora, agli atti di regolazione propri delle autorità amministrative indipendenti, già menzionati supra. Specie in tutti questi casi, l’amministrazione pubblica fa ricorso ai peculiari poteri che la legge le conferisce: agisce, così, in modo autoritativo, unilaterale e imperativo, definendo (modificando, regolando, estinguendo o costituendo) situazioni soggettive nella sfera giuridica dei destinatari della sua azione. In forza del principio di legalità, naturalmente, l’amministrazione può agire soltanto osservando ciò che la legge prescrive. Può dunque assumere solo i provvedimenti che la legge prevede (principio di nominatività) e questi possono avere solo il contenuto e gli effetti normativamente definiti (principio di tipicità). In altri termini, non è consentito all’amministrazione agire con la libertà e l’autonomia che sono caratteristiche dei soggetti privati. Né è sufficiente, pertanto, che la legge attribuisca un certo potere in capo a un’autorità amministrativa (principio di legalità in senso formale): è necessario che l’esercizio di quel potere sia delimitato anche nella predeterminazione delle sue declinazioni giuridiche e nei suoi potenziali esiti fattuali (principio di legalità in senso sostanziale). Ciò non toglie che esistano eccezionalmente anche poteri c.d. atipici, poteri, cioè, con riguardo ai quali è data all’amministrazione un’ampia possibilità di modulare il contenuto e l’estensione delle proprie decisioni. È il caso dei poteri di ordinanza. Un classico esempio è quello concernente il potere del Sindaco, quale ufficiale del Governo, di adottare ordinanze contingibili e urgenti nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana (art. 54, co. 4, d.lgs. n.
Attività amministrativa e corollari della legalità
Eccezionalità dei poteri atipici
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Potere discrezionale
Capitolo VIII
267/2000). Sono, queste, fattispecie assai delicate, perché esse – pur comprensibili, se si tratti di porre rimedio temporaneamente a situazioni imprevedibili e non altrimenti fronteggiabili, che vanno comunque motivate in modo analitico – rischiano di dare vita a significative e profonde limitazioni dei diritti e delle libertà individuali e collettive (tanto più che, restando all’esemplificazione dei poteri sindacali di ordinanza, l’atipicità dei poteri si somma talvolta con la pluralità di occasioni in cui essi possono essere esercitati, contribuendo così ad aumentare il senso di incertezza cui i potenziali destinatari rischiano di trovarsi: v. anche art. 50, co. 5, d.lgs. n. 267 cit.). Occorre evidenziare, ad ogni modo, che, in generale, la legge non può predefinire sempre e completamente il contenuto delle decisioni dell’amministrazione. È per questa ragione che, nel contesto dell’attività che l’amministrazione pubblica svolge esercitando i propri poteri, e tenendo conto del grado di dettaglio o del metodo con cui il legislatore se ne occupa, si è soliti distinguere diverse tipologie di azione amministrativa. Più precisamente, si distingue l’attività discrezionale da quella vincolata e si differenzia da entrambe quella che, tradizionalmente, si qualifica in termini di attività tecnico-discrezionale. Nel caso dell’attività discrezionale, la legge indica all’amministrazione un fine di pubblico interesse da raggiungere, lasciandole, tuttavia, un significativo margine di manovra, dunque potendo essa decidere se o quando o come o quanto intervenire. Ad esempio, è discrezionale la decisione con cui l’amministrazione individua se collocare il tracciato di una nuova pista ciclabile lungo la riva destra o lungo la riva sinistra di un fiume; oppure quella con cui si definiscono le linee fondamentali dello sviluppo urbanistico-edilizio di un certo territorio. Si badi che questa discrezionalità non equivale a libertà: l’amministrazione non può scegliere a suo piacimento, ossia in modo arbitrario. L’azione discrezionale, oltre a dover sempre rimanere ancorata al fine che la legge prescrive, trova sempre il limite di una valutazione che sia ispirata ai principi (già ricordati) di imparzialità e buon andamento. È il principio di imparzialità, segnatamente, a obbligare l’amministrazione, che agisca discrezionalmente, a prendere doverosamente in considerazione tutti gli interessi (pubblici e privati) che siano rilevanti nella fattispecie in questione e che le consentano, in questo modo, dopo adeguata ponderazione, di individuare in modo motivato la soluzione più adeguata (più ragionevole e meno lesiva degli interessi tra loro comparati, e perciò proporzionata). È solo per questa via che l’interesse pubblico primario (così si definisce il fine che la legge assegna all’amministrazio-
L’amministrazione pubblica
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ne che agisce) può diventare interesse pubblico concreto (ossia lo scopo specifico da realizzare materialmente in quella singola ipotesi). D’altra parte, e richiamando uno degli esempi da ultimo citati, l’amministrazione che si proponga di realizzare la pista ciclabile sarà condizionata da molteplici fattori, dovendo valutare l’impatto dell’opera sulla viabilità e sull’ambiente, la presenza di eventuali immobili da espropriare, etc. Del tutto diverse sono le ipotesi di attività vincolata. Qui l’amministrazione altro non deve fare che accertare i presupposti che la legge prevede specificamente affinché essa debba determinarsi in un modo anziché in un altro. Non esiste un margine di scelta: in presenza degli elementi che la legge prescrive, l’amministrazione non può che esprimersi in una certa maniera. Un esempio classico di attività vincolata è l’istanza che un cittadino può presentare al Comune di residenza per ottenere, al raggiungimento di una specifica età, il proprio documento di identità. Qui non vi sono interessi pubblici e/o privati da bilanciare; si tratta soltanto di accertare se i requisiti normativamente posti siano o meno presenti in concreto, visto che, se lo sono, l’amministrazione dovrà rilasciare il documento. Ancora diverse sono le ipotesi di discrezionalità tecnica, nelle quali all’amministrazione è conferito dalla legge il compito di effettuare valutazioni che richiedono l’applicazione in concreto di conoscenze tecniche. Si pensi al rilascio della patente di guida, dove l’autorità a ciò preposta deve valutare non solo il possesso in capo al richiedente di alcune nozioni, ma anche accertare la sua idoneità effettiva a condurre un determinato veicolo. Oppure si pensi all’esame universitario, laddove la commissione d’esame deve verificare il grado delle conoscenze e competenze che uno studente ha maturato in uno specifico ambito scientifico. Oppure, ancora, si rifletta sugli accertamenti che deve compiere l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato per verificare se una certa impresa abbia compiuto o meno un abuso di posizione dominante, dovendo preliminarmente delimitare il mercato rilevante. In tutte queste fattispecie, l’amministrazione non esercita un’attività vincolata, ma deve scegliere tra più opzioni. Allo stesso tempo, però, la scelta non è discrezionale in senso proprio, poiché nel compiere le valutazioni che le spettano l’amministrazione non compara interessi di varia natura, ma si avvale di cognizioni di settore (tecniche, appunto) per applicare norme che le richiedono di interpretare determinati presupposti. In questa prospettiva, larga parte della dottrina ritiene da tempo che non si possa parlare di discrezionalità tecnica, bensì dell’applicazione di concetti giuridici indeterminati ovvero dell’esercizio di poteri condizionati dall’accertamento di presupposti da valutare.
Potere vincolato
Potere tecnicodiscrezionale
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Poteri e situazioni soggettive
Capitolo VIII
Tutte le distinzioni ora illustrate non sono di poco conto, poiché non rispondono solo a un’istanza classificatoria. Esse servono a comprendere meglio come l’amministrazione si debba comportare in ciascuno di quei contesti e, specialmente, quale sia la possibilità, per i soggetti privati, di mettere in dubbio la correttezza delle relative azioni. È, questo, un aspetto che richiede una spiegazione preliminare. Di fronte all’esercizio dei poteri che la legge conferisce alla pubblica amministrazione, la posizione del soggetto privato – che in tal modo si trova in una situazione di soggezione – è qualificabile, nell’ordinamento italiano, come interesse legittimo. Si tratta di una situazione giuridica soggettiva molto particolare, poiché è distinta dal diritto soggettivo. Essa permette, infatti, al suo titolare di essere soddisfatto soltanto nella misura in cui l’amministrazione si pronunci in senso a lui favorevole. Per ottenere questo risultato, il titolare dell’interesse legittimo potrà partecipare alla serie di atti che l’amministrazione debba porre in essere per determinarsi (all’interno del c.d. procedimento amministrativo) e, se del caso, potrà anche reagire contro decisioni eventualmente sfavorevoli (presentando un apposito ricorso di fronte ad un giudice), ma solo nei limiti della violazione, da parte dell’amministrazione, della disciplina normativa che essa deve osservare. Il che significa che, se l’amministrazione si determina in modo sfavorevole, ma rispettando la legge, l’interesse del soggetto privato non può essere soddisfatto. Ad esempio, è titolare di un interesse legittimo (c.d. oppositivo) il proprietario di un bene immobile (un pezzo di terreno) che l’amministrazione intenda espropriare per realizzare un’opera pubblica (allargare una strada). Se l’amministrazione rispetterà la legge, il proprietario perderà il proprio diritto reale sul bene, che verrà trasferito all’amministrazione stessa per effetto del decreto di esproprio. Laddove, invece, quest’ultimo fosse viziato perché adottato in violazione della legge, allora il proprietario potrà rivolgersi al giudice per ottenerne l’annullamento. Sempre in via esemplificativa, è titolare di interesse legittimo (c.d. pretensivo) colui che chieda all’amministrazione un permesso di costruire per poter edificare un garage su di un proprio terreno: egli non ha “diritto” ad esercitare questa facoltà, perché l’amministrazione deve poter verificare la conformità della modificazione in questione con gli atti, parimenti amministrativi, che dettano le regole da seguire per l’attività edilizia in quella specifica porzione di territorio; se l’amministrazione gli rispondesse con un diniego, il titolare dell’interesse legittimo potrebbe impugnarlo dinanzi al giudice, affinché lo annulli. Ciò premesso, l’individuazione degli interessi legittimi e la loro distinzione dalle ipotesi in cui sussistano diritti soggettivi è molto importante, per un motivo fondamentale.
L’amministrazione pubblica
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Infatti, come si vedrà, la tutela dei primi è rimessa ad un giudice speciale (il giudice amministrativo) ed è sottoposta ad un regime di decadenza (il soggetto privato deve, cioè, contestare dinanzi a quel giudice il provvedimento a sé sfavorevole e illegittimo entro uno specifico termine, che di norma è di 60 gg.), mentre la garanzia dei secondi è affidata alla giurisdizione ordinaria ed è caratterizzata dall’operatività di un regime di prescrizione (v. art. 103 Cost.; art. 2, legge n. 2248/1865; art. 7, d.lgs. n. 104/2010). Soprattutto, però, la tutela che è, di regola, ammissibile di fronte al giudice amministrativo è quella che permette di contestare la mancata osservanza del parametro normativo (i. cc.dd. vizi di legittimità), non anche di ottenere un sindacato sul contenuto di ciò che l’amministrazione deve decidere (il c.d. merito amministrativo). Ciò accade perché, come si è precisato, la soddisfazione dell’interesse legittimo è tale nei limiti dell’osservanza della legge da parte della p.a. E, oltre a ciò, il giudice non può, almeno in via di principio, sostituirsi all’amministrazione, pena l’inosservanza del principio di separazione dei poteri attorno al quale è strutturato il modello dello Stato di diritto. Nonostante ciò, tuttavia, è evidente che le doglianze che il titolare dell’interesse legittimo può sollevare di fronte al giudice possono comunque condurre a risultati assai diversi a seconda della tipologia dell’azione amministrativa che venga materialmente contestata. In caso di attività vincolata, se il giudice accertasse che l’amministrazione ha errato nel considerare l’esistenza di uno dei presupposti stabiliti dalla legge per l’adozione del relativo provvedimento (ad esempio, negandone la sussistenza), all’annullamento di quanto deciso potrebbe seguire facilmente il risultato che la stessa amministrazione si pronunci in modo favorevole, non avendo margini di scelta (essendosi, cioè, accertato che il presupposto apparentemente mancante in realtà esiste). Viceversa, dove l’amministrazione esercita poteri discrezionali propriamente detti, ciò che dovrà fare l’amministrazione in seguito ad un’eventuale sentenza di annullamento è non ripetere il vizio in cui è incorsa, essendo così facile che ad essa restino comunque accessibili ulteriori margini di manovra, che non coincidano con quelli erroneamente percorsi in precedenza e che non consentano di soddisfare del tutto l’interesse del soggetto privato. Analogamente può dirsi per il sindacato del giudice sull’attività tecnico-discrezionale, per la quale si afferma che essa sarebbe controllabile solo nei limiti dell’illogicità manifesta o del difetto della motivazione. Da diversi anni, però, la dottrina e la giurisprudenza tendono ad ammettere che sia possibile che l’accertamento giurisdizionale si spinga a controllare la correttezza delle valutazioni sui fatti o sulle interpretazioni
Tipi di potere e controllo giurisdizionale
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Capitolo VIII
dei concetti giuridici indeterminati che fungono da presupposto per l’esercizio del potere amministrativo, e che, pertanto, la discrezionalità tecnica non costituisca sempre un ostacolo a pronunce sostitutive da parte del giudice.
3. Il procedimento amministrativo
Fasi e ragioni del procedimento
Come si è già sottolineato, nell’esercizio dei suoi poteri, l’amministrazione pubblica agisce osservando principi e regole posti dalla legge. Ed è la legge che, in via generale, conforma questo tipo di azione secondo il modello procedimentale, ossia strutturandola come una serie di atti tra loro coordinati e disposti in fasi successive in vista di uno scopo finale, che è l’adozione del provvedimento. Più precisamente, tale modello comporta che l’amministrazione avvii l’esercizio del suo potere in una fase di iniziativa. Ad essa segue una apposita fase istruttoria in cui l’amministrazione svolge ogni accertamento e valutazione, in fatto come in diritto. Infine, la p.a. assume le sue determinazioni in una fase decisoria e osserva, in una fase c.d. integrativa dell’efficacia, tutte quelle prescrizioni che sono necessarie per rendere conosciuto ed operativo il proprio provvedimento nei confronti dei suoi destinatari (ad esempio, pubblicazione del provvedimento, notifica ai destinatari, etc.). L’opzione procedimentale poggia su un ordine di differenti ragioni. In primo luogo, si tratta di un modello funzionale che sistematizza e scandisce tutte le attività che l’amministrazione deve usualmente compiere, consentendole, ad esempio, di raccogliere e ponderare tutti gli interessi pubblici e privati di cui deve tener conto per provvedere in concreto ovvero di acquisire tutti i dati di fatto e normativi per verificare se risultino materialmente i presupposti positivamente stabiliti per agire in un modo anziché in un altro. Da questo punto di vista, si comprende che il procedimento altro non è che una declinazione dei principi di imparzialità e di buon andamento. In secondo luogo, poi, la scelta del procedimento ha un’altra motivazione: il procedimento è la cornice in cui consentire al meglio che i soggetti privati più direttamente riguardati dall’attività amministrativa possano interagire con l’autorità e contribuire, prendendo parte alle sue attività, sia ad arricchirne le valutazioni, sia a renderle potenzialmente più condivise, stabili ed effettive. È un obiettivo, questo, che, in parte, ha a che fare con una ricerca di efficienza dell’azione amministrativa, in altra parte, invece, ha una giustificazione quasi assiologica, poiché corrispon-
L’amministrazione pubblica
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de alla necessaria integrazione che, in uno stato democratico, vi dev’essere tra il governo della cosa pubblica e la libertà e l’autonomia degli individui e della collettività. I principi e le regole del procedimento amministrativo sono fissati da una fonte di centrale importanza: la legge n. 241/1990. Il suo art. 1, co. 1, non a caso, chiarisce e sviluppa i principi posti dall’art. 97 Cost. (ponendo, così, a ineludibile e trasversale osservanza da parte della p.a., «criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza»), e dà esplicita visibilità anche al carattere “aperto” del parametro di legalità (dato che, mediante un rinvio mobile alla fonte, impone anche la cogenza – come si è già appreso – dei «principi dell’ordinamento comunitario»). Questa legge – che è stata più volte modificata e che, in un certo senso, rappresenta oggi una sorta di piccolo “codice” dell’azione amministrativa – detta prescrizioni che sono di applicazione generale e che valgono per qualsiasi procedimento, salvo che per i casi in cui non siano previste disposizioni speciali. Sappiamo, ad esempio, che le norme che essa prevede sulla partecipazione dei privati non valgono per i procedimenti normativi o per quelli concernenti l’adozione di atti amministrativi generali, di pianificazione o di programmazione, ovvero, ancora, per quelli tributari (v. art. 13). Ma sappiamo anche (art. 29) che, con riferimento a tutto ciò che è regolato dalla legge n. 241, pur trattandosi di una legislazione che formalmente interessa solo le amministrazioni dello Stato, essa contiene numerosissime disposizioni che, vuoi perché attinenti al rispetto delle garanzie del cittadino nei confronti della p.a., vuoi perché relative ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, co. 2, lett. m), Cost., sono applicabili da ogni altra amministrazione. La generalità della legge in esame si può apprezzare anche per altri profili. Due di questi meritano subito una menzione, se non altro perché esprimono, a loro volta, principi significativi e sintomatici del modo con cui è caratterizzata la disciplina dell’azione amministrativa. Il primo riguarda un’affermazione che è posta in esordio alla legge medesima: «La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente» (art. 1, co. 1-bis, legge n. 241/1990). Come è stato opportunamente osservato, la disposizione conferma, sia pur a contrario, un dato tradizionalissimo, vale a dire il fatto che il principio di legalità prefigura, per le prerogative più connotanti la superiorità della p.a. rispetto agli altri soggetti dell’ordinamento, l’esistenza di un diritto speciale, il diritto amministrativo, per l’appunto. Allo stesso tempo, va rimarcato un altro principio: «I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazio-
Legge n. 241/1990: ambito di applicazione
Specialità del diritto della p.a.
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Forme dell’iniziativa
Carattere patologico dell’inerzia
Comunicazione di avvio del procedimento
Capitolo VIII
ne e della buona fede» (art. 1, co. 2-bis). Ciò significa che, pur nel contesto di relazioni autoritative che, come si diceva, sono conformate a un paradigma di soggezione del destinatario dell’azione pubblica, l’amministrazione e i suoi interlocutori danno vita a rapporti nei quali ciascuno, in quanto portatore di una propria dignità riconosciuta dall’ordinamento, deve comunque rispettare il ruolo e la posizione dell’altro. Ciò premesso, la legge n. 241 si occupa di dettagliare quali siano i contorni essenziali della cornice procedimentale, in tutte le sue fasi. Ed è su questi aspetti che ora è doveroso soffermarsi. Innanzitutto, la trama normativa lascia intendere che un procedimento possa avviarsi a iniziativa di parte (perché un soggetto privato o un’altra amministrazione lo richieda) o d’ufficio (perché sia la stessa amministrazione procedente a decidere di attivarsi). È una fenomenologia nota e facilmente afferrabile: si ha iniziativa di parte quando un soggetto privato domandi all’amministrazione qualcosa, ad esempio in quanto bisognoso di aprire un esercizio commerciale (e dunque richieda un’autorizzazione); si ha iniziativa d’ufficio, viceversa, quando sia la p.a. ad agire, senza bisogno di alcuno stimolo, ossia spontaneamente, cosa di solito che accade, ad esempio, in presenza di procedimenti sanzionatori. In ogni caso, l’amministrazione ha (art. 2) il dovere di agire in modo espresso (non può, cioè, rimanere inerte) e di farlo entro un termine prestabilito (che la legge fissa, laddove non sia diversamente disposto, in 30 gg.): se ciò non accade – quindi in caso di silenzio, che si qualifica tradizionalmente come silenzio-inadempimento o silenzio-rifiuto – può essere convenuta di fronte al giudice (amministrativo) per ottenere una pronuncia che la condanni a pronunciarsi in qualche modo (o, se si tratti di poteri non discrezionali e non sia necessaria alcuna aggiuntiva istruttoria, a pronunciarsi in un modo specifico, in ipotesi anche nel modo più favorevole e satisfattivo per il soggetto interessato). La legge, in verità, al di là della possibilità di accesso diretto alla tutela giurisdizionale, prevede, per questo tipo di silenzio – in tutto e per tutto patologico – anche rimedi puramente interni all’organizzazione amministrativa: è possibile, cioè, attivare l’esercizio di un potere sostitutivo da parte di un organo amministrativo, che si surroghi, d’ufficio, all’organo inadempiente. Sia nel caso che il procedimento si avvii d’ufficio, sia in quello in cui si avvii a istanza di parte, l’amministrazione deve farne specifica comunicazione (artt. 7 e 8), non solo ai potenziali destinatari diretti del futuro provvedimento, ma anche a tutti coloro che per legge debbano intervenire nel procedimento o che comunque, purché siano facilmente individuabili, ne possano trarre un pregiudizio. Questa comunicazione (la c.d. “comunicazione di avvio del procedimento”) deve specialmente contenere l’indicazione dell’amministrazione che procede, del suo ufficio e del
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relativo domicilio digitale, dell’oggetto del procedimento, dei termini entro i quali il procedimento deve concludersi e del nominativo della persona responsabile del procedimento, ossia del funzionario cui ci si può rivolgere per avere informazioni sull’attività che l’amministrazione sta svolgendo e per esercitare tutti i diritti che la partecipazione procedimentale consente (accedere agli atti e ai documenti in possesso dell’amministrazione, depositare documenti o memorie). La comunicazione è obbligatoria. Se ne può prescindere soltanto per esigenze d’urgenza o cautelari (e, trattandosi di istituto che è funzionale alla partecipazione, da molto tempo gli interpreti ritengono che essa non sia necessaria nei casi in cui l’amministrazione eserciti un potere vincolato – visto che i suoi esiti sarebbero comunque indipendenti dal contributo partecipativo degli interessati – né che la sua mancanza rappresenti un vizio nelle ipotesi in cui i soggetti che avrebbero dovuto riceverla abbiano già saputo del procedimento e vi abbiano preso parte). Dopo la fase di iniziativa si apre una seconda fase procedimentale, quella istruttoria. È un momento particolarmente importante del procedimento, giacché in esso l’amministrazione procedente deve raccogliere ed esaminare tutto ciò che le serve per decidere. Naturalmente, pur trovandoci al cospetto di un’attività per definizione variabile (l’istruttoria sarà più o meno difficile, o più o meno articolata, a seconda del tipo di potere esercitato come della fattispecie concreta), all’amministrazione non è dato superare il termine (già visto) di conclusione del procedimento, a meno che essa non abbisogni di un tempo più adeguato. In tal caso – ma solo «per l’acquisizione di informazioni o di certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell’amministrazione stessa o non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni» – il decorso del predetto termine potrà essere sospeso (soltanto per una volta: v. art. 2, co. 7). Va rilevato, in proposito, che sull’amministrazione grava anche il divieto di aggravamento del procedimento: in funzione dell’istruttoria, essa può prendere più tempo o soffermarsi su specifici adempimenti solo «per straordinarie e motivate esigenze» (art. 1, co. 2). In particolare, per il tramite del responsabile del procedimento, potrà accertare d’ufficio i fatti, chiedere il rilascio di dichiarazioni e la rettifica di dichiarazioni o istanze erronee o incomplete (c.d. soccorso istruttorio procedimentale) ed esperire accertamenti tecnici e ispezioni, ed ordinare esibizioni; ma evidentemente analizzerà anche i dati normativi rilevanti e le indicazioni che emergessero dalla partecipazione (dei soggetti che hanno ricevuto la comunicazione d’avvio come di coloro che – soggetti pubblici o privati o «portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati» (art. 9) – decidano comunque di intervenire nel procedimen-
Snodi dell’istruttoria
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Diritto di accesso
Pareri e valutazioni tecniche
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to: accedendo agli atti e ai documenti, ma anche depositandone essi stessi o predisponendo apposite memorie: art. 10). L’istituto del diritto di accesso (artt. 22 ss.) ha, in questo contesto, un’importanza peculiare: a chi abbia l’esigenza di conoscere atti o documenti amministrativi che siano in possesso della p.a. e risultino, però, necessari per tutelare una propria situazione soggettiva è riconosciuto un “diritto” alla visione e all’estrazione di copia; una pretesa che, in verità, può esercitarsi anche al di fuori dell’esistenza di un procedimento e la cui soddisfazione, di regola, non può essere esclusa (salvi i casi eccezionali di atti o documenti ancora coperti dal c.d. “segreto”), dovendo tuttavia essere armonizzata dalla p.a. con riferimento alla garanzia di altri “diritti” (come può essere, ad esempio, la riservatezza altrui) e potendo essere vieppiù circoscritta, in concreto, anche per altre, determinate ragioni di interesse pubblico (art. 24, co. 6). La p.a. ha, peraltro, il potere di differire l’accesso e anche quello di consentirlo soltanto parzialmente. Dinanzi a una specifica istanza deve rispondere entro 30 gg.: la mancata risposta nel termine integra un’ipotesi di silenzio-diniego, a fronte dal quale l’interessato può sia attivare un rimedio amministrativo interno all’organizzazione dell’autorità cui si è rivolto (art. 25, co. 4), sia rivolgersi al giudice amministrativo, affinché la condanni a rilasciare quanto domandato. Va precisato che questa non è l’unica forma di accesso disciplinata dalla legge: esistono anche il c.d. “accesso civico” (che permette a chiunque di esigere la pubblicazione di informazioni, atti e documenti che la legge medesima impone a ogni p.a. di rendere accessibili online, nella sezione “Amministrazione trasparente” del proprio portale istituzionale) e il c.d. “accesso generalizzato” (che permette, sempre a chiunque, di chiedere l’accesso anche a categorie di informazioni, atti e documenti per i quali non sia già previsto l’accesso civico, ma con alcune limitazioni previste per tutelare specifici interessi pubblici e privati), entrambe regolate dal d.lgs. n. 33/2013, ed entrambe “tutelabili” nelle stesse forme del diritto di accesso regolato dalla legge n. 241. La fase istruttoria è anche quella in cui l’amministrazione procedente raccoglie pareri (art. 16) o valutazioni tecniche (art. 17) da parte di altri organi o di altre amministrazioni. Come si è già accennato, infatti, può accadere che si debbano effettuare valutazioni assai complesse e che esigano, quindi, una certa attenzione e il contributo di saperi specifici. I pareri possono essere obbligatori, perché richiesti dalla legge ai fini dell’adozione di specifici provvedimenti, o facoltativi, e in tal caso spetta all’amministrazione procedente valutare se avvalersene o meno. Di regola, devono essere resi in un termine che non può mai essere superiore a 20 gg.: se l’organo che li deve rilasciare non adempie nel ter-
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mine o non rappresenta esigenze istruttorie che richiedono un tempo maggiore, l’amministrazione procedente provvede indipendentemente dal loro rilascio. Diverse dai pareri sono le valutazioni tecniche, per le quali, salva la possibilità di invocare la necessità di un tempo superiore, la risposta deve avvenire entro il termine previsto dalle norme che le prevedono; in mancanza, se il riscontro non arriva entro 90 gg., il responsabile del procedimento può interpellare altri organi dell’amministrazione pubblica o enti pubblici che siano dotati di qualificazione e capacità tecnica equipollenti, ovvero istituti universitari. Tuttavia questa disciplina non vale per i pareri e per le valutazioni tecniche che competano ad amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistica, territoriale e della salute dei cittadini: vi sono, cioè, anche nello svolgimento dei bilanciamenti e delle ponderazioni che connotano l’azione discrezionale, interessi pubblici che meritano un peculiare ed esplicito apprezzamento, non altrimenti superabile, neppure nelle ipotesi in cui gli organi e le amministrazioni richiesti restino inerti. Per facilitare e semplificare gli apprezzamenti di natura discrezionale, la legge prevede anche che l’amministrazione procedente possa convocare una conferenza di servizi istruttoria (art. 14, co. 2): una riunione in cui convergono tutti i rappresentanti dei soggetti pubblici e privati interessati, «per effettuare un esame contestuale degli interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, ovvero in più procedimenti amministrativi connessi, riguardanti medesime attività o risultati». Nei procedimenti a istanza di parte, la conclusione della fase istruttoria non implica il passaggio immediato alla fase decisoria, vale a dire all’adozione formale del provvedimento. Per quei procedimenti, infatti, è previsto che, laddove l’esito dell’istruttoria abbia condotto a valutazioni di tipo negativo su quanto richiesto dal soggetto privato, sia necessario trasmettergli il c.d. “preavviso di rigetto”, ossia una specifica comunicazione sui motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza (art. 10-bis). Il destinatario di tale comunicazione – che è obbligatoria e che, però, non si effettua nei procedimenti concorsuali o in quelli gestiti dalle amministrazioni previdenziali o assistenziali – deve avere almeno 10 gg. di tempo per presentare eventuali osservazioni o documenti, sui quali l’amministrazione, quando opti per confermare la propria decisione negativa, deve comunque esprimersi con un’adeguata motivazione, segnalando eventualmente ulteriori motivi ostativi solo se derivanti dai rilievi mossi dal privato. È, questo, un istituto che si propone di rafforzare il dialogo che scaturisce dalla partecipazione, instaurando una specie di contraddittorio tra l’amministrazione e il destinatario di un suo potenziale provvedimento negativo, con un duplice scopo: permettere una correzione di eventuali errori o mancanze imputabili alla
Conferenza di servizi istruttoria
Preavviso di rigetto
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Forme del provvedimento
Struttura della decisione
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p.a.; anticipare e provare a risolvere nel procedimento una dialettica che potrebbe radicarsi in una successiva controversia. Alla fase istruttoria segue la fase decisoria. Come si è precisato, si tratta dello snodo in cui l’amministrazione, facendo frutto delle acquisizioni maturate nel corso dell’istruttoria, adotta l’atto finale della serie procedimentale, quello che è destinato a produrre gli effetti giuridici verso l’esterno, il provvedimento. È il “fuoco”, per così dire, di tutto il movimento in cui si articola l’esercizio del potere ed è, come tale, il punto di gravità di tutte le altre attività svolte nel procedimento, ossia di tutto lo svolgimento della funzione amministrativa. Questa è la ragione per cui – al di là del fatto che ogni atto amministrativo dev’essere motivato, con la sola eccezione degli atti normativi e di quelli a contenuto generale (v. art. 3, co. 2) – la motivazione del provvedimento, e quindi l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto che lo reggono, in relazione alle risultanze dell’istruttoria, acquista un significato determinante. La motivazione, in questa prospettiva, è sia una manifestazione della trasparenza cui l’agire amministrativo è vincolato, ma è anche il luogo in cui si legittima, si spiega, ciò che l’amministrazione ha deciso, aprendo, così, la via ad un possibile controllo da parte dei destinatari. Che potranno, se si riterranno pregiudicati in modo illegittimo, rivolgersi al giudice. È bene ricordare che, a prescindere da tutta l’articolazione procedimentale finora illustrata, la definizione del procedimento potrebbe anche essere estremamente contratta: la legge stessa consente all’amministrazione procedente di concludere il procedimento con un provvedimento redatto in forma semplificata, «la cui motivazione può consistere in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo». Ciò è possibile, nei procedimenti avviati a istanza di parte, laddove si ravvisino «la manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda» (art. 2, co. 1). Ad adottare il provvedimento, usualmente, è l’organo cui compete la direzione e la responsabilità dell’ufficio, ma può essere anche il responsabile del procedimento, ove a ciò delegato. Ciò è quanto accade, normalmente, nell’ipotesi in cui la fase decisoria sia monostrutturata e consti nell’adozione di un singolo provvedimento, ossia nella manifestazione di volontà di una sola amministrazione. Può, tuttavia, darsi l’ipotesi in cui la legge richieda, per l’adozione del provvedimento, che essa avvenga d’intesa o di concerto con un’altra amministrazione ovvero previo nulla osta o assenso di quest’ultima. In questi casi la fase decisoria è pluristrutturata: le volontà di più autorità, infatti, convergono nella produzione di uno specifico effetto. Questa evenienza può dar luogo ad alcune complicazioni, se non a veri e propri rallentamenti o “blocchi”, dell’attività amministrativa, dovuti alla necessità
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di acquisire e riunire la posizione di tutte le amministrazioni. Le quali, ad esempio, potrebbero temporeggiare in modo ingiustificato o, semplicemente, non essere d’accordo. Per rimediare a tali situazioni, la legge n. 241 prevede due discipline peculiari. La prima (art. 17-bis) consiste nella prefigurazione di una fattispecie a formazione progressiva, ossia di una serie di attività alla cui verificazione seguono, o non seguono, altre attività o altri fatti, fino alla decisione finale. Più precisamente, la legge assegna alle amministrazioni che devono esprimersi sull’ipotesi provvedimentale immaginata dall’amministrazione procedente un termine, entro il quale esse devono comunicare l’assenso, il nulla osta, l’intesa o il concerto (il termine è di 30 gg. ovvero di 90 gg. se si tratta di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini). Se nel termine in esame – che può essere sospeso una sola volta per motivate ragioni istruttorie – non giunge alcun riscontro, allora l’assenso, il nulla osta, l’intesa o il concerto si intendono implicitamente acquisiti. Unico limite all’applicazione di tale disciplina è il caso in cui sia il diritto dell’Unione europea ad esigere l’adozione di valutazioni espresse. Ad ogni modo, se non vi è l’accordo, la soluzione sulle eventuali proposte di modifica manifestate dalle amministrazioni coinvolte è adottata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. La seconda opzione prefigurata dalla legge (artt. 14 ss.) consiste nella conferenza di servizi decisoria. L’amministrazione procedente, in altre parole, non attende di ricevere le valutazioni delle altre amministrazioni, ma le convoca in una riunione in cui definire assieme il contenuto della decisione finale. Occorre osservare che, in realtà, nell’assetto normativo vigente, questa opzione – che è quella cui l’amministrazione procedente si deve, di regola, attenere – segue le forme della c.d. conferenza semplificata e asincrona. Ciò significa che la “riunione” delle amministrazioni è solo virtuale, non avviene materialmente e in un luogo fisico. L’amministrazione procedente, semplicemente, “convoca” preventivamente la consultazione, trasmette alle altre lo schema di provvedimento e attende che queste, entro un certo termine (45 gg. o 90 gg., laddove vi siano amministrazioni preposte alla tutela degli interessi “forti” identificati anche dall’art. 17-bis), si esprimano. L’unico aspetto a suo modo interessante di questa disciplina è che le espressioni delle amministrazioni convocate debbano essere preferibilmente costruttive: devono, cioè, indicare le «modifiche eventualmente necessarie ai fini dell’assenso» (art. 14-bis, co. 3). Una volta acquisite le valutazioni o i “silenzi” delle altre amministrazioni, l’amministrazione procedente, se ritiene di poter superare le
Forme di intesa e silenzio
Conferenza di servizi decisoria
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posizioni eventualmente critiche, può adottare la determinazione motivata conclusiva della conferenza, che equivale a provvedimento finale e sostituisce per ciò solo tutte le manifestazioni di volontà delle amministrazioni implicate nella fattispecie. Se, invece, le posizioni di queste amministrazioni risultano ostative all’adozione del provvedimento, allora la conclusione della conferenza consisterà in una determinazione negativa, che, laddove si tratti di procedimenti a istanza di parte, vale come “preavviso di rigetto” (ex art. 10-bis) e verrà comunicata al soggetto interessato per le sue potenziali osservazioni. Queste ultime saranno poi condivise con tutte le amministrazioni partecipanti alla conferenza, che dovranno, così, rideterminarsi. Esiste, ad ogni buon conto, anche una c.d. conferenza simultanea e sincrona (art. 14-ter), che l’amministrazione procedente può convocare discrezionalmente in presenza di determinazioni particolarmente complesse. Tale conferenza può svolgersi in più riunioni, ma entro un termine massimo (similmente ai tempi scanditi per la conferenza semplificata e asincrona). Ad essa deve partecipare, per ogni p.a. coinvolta, un rappresentante unico, dotato della capacità di impegnare in modo univoco e vincolante l’autorità di cui è portavoce (nel caso in cui partecipino, oltre ad altre amministrazioni, più amministrazioni statali, esse devono avvalersi, a loro volta, di un solo rappresentante unico, nominato, a seconda dei casi, dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dal Prefetto). All’esito dell’ultima riunione, e comunque non oltre il termine massimo già anticipato, l’amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione della conferenza, «sulla base delle posizioni prevalenti espresse dalle amministrazioni partecipanti alla conferenza tramite i rispettivi rappresentanti» (art. 14-ter, co. 7). Si considera acquisito l’assenso senza condizioni delle amministrazioni il cui rappresentante non abbia partecipato alle riunioni ovvero, pur partecipandovi, non abbia espresso la propria posizione, ovvero abbia espresso un dissenso non motivato o riferito a questioni che non costituiscono oggetto della conferenza. Va anche aggiunto, tuttavia, che, per entrambe le tipologie di conferenza, la determinazione finale, che equivale ad un provvedimento, è efficace a tutti gli effetti come tale soltanto se vi sia una unanimità di consensi. Nel caso, invece, in cui quella determinazione sia stata assunta discrezionalmente da parte dell’amministrazione procedente, allora i suoi effetti sono sospesi per i termini (10 gg.) che la legge prevede a favore delle amministrazioni preposte alla tutela degli interessi “forti” già rammentati in precedenza e che siano dissenzienti, affinché possano proporre una specifica opposizione (art. 14-quinquies). In caso di opposizione, peraltro, l’efficacia della determinazione resta sospesa e si deve attivare la Presidenza del Consiglio dei Ministri, cui si affida il compito di convocare una
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nuova riunione e di stimolare, secondo il principio di leale collaborazione, una soluzione condivisa. Se si trova l’accordo, l’amministrazione procedente adotta una nuova, conforme determinazione. Se l’accordo non si raggiunge, la decisione è rimessa al Consiglio dei Ministri. Come si può osservare agevolmente, la conferenza di servizi, lungi dal costituire un vero e proprio modello di semplificazione e snellimento, si è tradotta in un adempimento foriero di evenienze non facili da superare. Soprattutto, si dimostra non idonea a raggiungere il risultato che, probabilmente, il legislatore avrebbe voluto ottenere sin dal 1990: l’incentivo per le amministrazioni a decidere congiuntamente; a trovare, in altri termini, un accordo sostanziale sulla definizione dell’interesse pubblico concreto, al di là delle rappresentazioni, tendenzialmente autoreferenziali, di ogni singola autorità (si noti che l’art. 15, legge n. 241/1990, prevede che possano ben esservi accordi tra pubbliche amministrazioni «per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune», e ciò anche al di fuori della conferenza di servizi decisoria). La disciplina vigente, però, e come si è visto, è uscita dichiaratamente da tale orizzonte, prefigurando una forma di semplificazione che procede per termini perentori, possibili silenzi e opposizioni da risolvere con il criterio, in sé e per sé molto tradizionale, ma anche molto “politico”, dell’intervento risolutore del Governo (con qualche “frizione”, dunque, rispetto al generale e importante principio di separazione tra politica e amministrazione, su cui ci si è già soffermati). Sempre con riferimento alla fase decisoria del procedimento, la legge n. 241/1990 si sofferma su un altro istituto interessante, perché anche in esso trova accoglimento l’idea che si possa giungere a conclusioni negoziate sull’attività amministrativa. Si tratta degli accordi amministrativi (art. 11), ossia di quegli accordi che pubblica amministrazione procedente e soggetti privati interessati dalla definizione del procedimento possono stipulare per integrare in modo condiviso il contenuto discrezionale del provvedimento finale (accordi integrativi) ovvero, addirittura, per sostituire il provvedimento stesso (accordi sostitutivi). La legge prevede che debbano essere stipulati in forma scritta, a pena di nullità, e che, se del caso, sia il responsabile del procedimento ad organizzare un calendario di incontri per negoziare con la parte privata. Si è molto discusso sulla natura giuridica di questi accordi (se siano davvero dei negozi di matrice privatistica a tutti gli effetti ovvero se abbiano una configurazione sostanzialmente pubblicistica). In realtà, ciò che è certo è che il diritto positivo stesso li configura come un istituto molto speciale, cui è davvero complesso applicare una logica integralmente tratta dal diritto comune. In primo luogo, infatti, essi devono esse-
Accordi amministrativi
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Segnalazione certificata di inizio attività e silenzioassenso
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re sempre motivati, alla stessa stregua degli atti amministrativi (art. 11, co. 2). In secondo luogo, una volta stipulati, sono soggetti a una disciplina che è per definizione ibrida, visto che si dispone che ad essi si applichino «i princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili» (ibid.). In terzo luogo, la legge n. 241 riconosce all’amministrazione procedente un singolare potere di recesso unilaterale dall’accordo per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, «salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato» (art. 11, co. 4). Oltre a ciò, il regime effettivo di tali accordi risente largamente di una interna struttura provvedimentale, poiché, a garanzia «dell’imparzialità e del buon andamento dell’azione amministrativa», la stipulazione dell’accordo «è preceduta da una determinazione dell’organo che sarebbe competente per l’adozione del provvedimento» (art. 11, co. 4-bis): alla base, dunque, vi è sempre una manifestazione formalizzata di volontà, contro la quale i terzi eventualmente pregiudicati dalla decisione negoziata potranno agire in giudizio. La legge n. 241/1990 si occupa, nel contesto della disciplina del procedimento, anche di due altri istituti, che paiono assomigliarsi e che, tuttavia, sono distinti: la c.d. SCIA (acronimo di “segnalazione certificata di inizio attività) e il silenzio-assenso (come forma positiva del silenzio significativo, ossia dell’ipotesi in cui la legge assegni all’inerzia della p.a. una proiezione specifica, che potrebbe anche essere negativa, dovendosi allora parlare di silenzio-diniego o silenzio-rigetto). L’unico motivo per considerare tali istituti l’uno vicino all’altro consiste nel fatto che, in entrambi i casi, il realizzarsi di determinati presupposti permette al soggetto privato, che abbia rivolto all’amministrazione una qualche istanza, di agire anche in assenza di una esplicita decisione in tal senso. Nel c.d. silenzio-assenso (art. 20), ciò è possibile quando, per espressa scelta del legislatore, la stasi dell’amministrazione equivale ad un espresso provvedimento, favorevole a chi lo abbia richiesto. Il che equivale a dire che può accadere, in contrasto con quanto già chiarito sopra circa il regime del c.d. silenzio-inadempimento, che il silenzio della p.a. non sia soltanto un dato patologico, ma possa tradursi in un tacito provvedimento positivo. Nelle diverse stagioni normative, che si sono avvicendate producendo numerose modifiche della legge n. 241, il regime del silenzio-assenso si è formalmente trasformato da regime eccezionale a regime tendenzialmente generale: oggi, infatti, la legge stabilisce che, decorso il termine positivamente previsto per la conclusione del procedimento, il silenzio della p.a. equivale ad un assenso (art. 20, co. 1), e la stessa amministrazione è tenuta a rilasciare all’interessato «un’attestazione circa il decorso
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dei termini del procedimento e pertanto dell’intervenuto accoglimento della domanda» (art. 20, co. 2-bis). È, questa, un’evoluzione che è stata dovuta alla volontà di facilitare il più possibile il conseguimento, da parte dei privati, della possibilità di svolgere determinate attività, senza dover incorrere nei ritardi della p.a., e rafforzandosi, con ciò, l’implicito incentivo, per la stessa amministrazione, a migliorare la propria performance e a “rispondere” ai cittadini in modo tempestivo. Tuttavia la formale generalizzazione del silenzio-assenso è parzialmente, ma sensibilmente, contraddetta dalla previsione sulle eccezioni a tale regime, che non sono poche e, anzi, si estendono a settori rilevanti: difatti, non si può produrre il silenzio-assenso (ma, semmai, solo il silenzio-inadempimento) in ordine agli «atti e procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ambiente, la tutela dal rischio idrogeologico, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità», ma anche in ordine «ai casi in cui la normativa comunitaria impone l’adozione di provvedimenti amministrativi formali, […] nonché agli atti e procedimenti individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti» (art. 20, co. 4). Ovviamente, oltre a ciò, il silenzio-assenso non vi può essere anche dove la legge qualifichi l’inerzia in senso negativo (cosa che accade, ad esempio, e come si è visto, se la p.a. non risponda entro il termine previsto ad una istanza di accesso, ovvero, e come si vedrà, se l’organo competente a decidere il ricorso gerarchico non si pronunci entro 90 gg.). Non meno peculiare è l’istituto della SCIA (che originariamente era definito come DIA, ossia “denuncia di inizio attività”: v. art. 19). La dinamica di questo istituto è abbastanza semplice. Se un soggetto privato abbia bisogno di ottenere un provvedimento amministrativo che gli consenta di fare qualcosa (ad esempio, un’autorizzazione, una licenza, un permesso, un nulla osta o un qualsiasi altro atto di assenso funzionale a permettere l’esercizio di un’attività), egli non è necessariamente tenuto a formulare un’istanza e a stimolare, così, l’avvio di un procedimento a tutti gli effetti. Infatti, laddove si tratti, da parte della p.a., di svolgere accertamenti puramente vincolati e non ci si trovi, al contempo, in ipotesi in cui la p.a. possa rilasciare solo un certo numero di provvedimenti positivi, né in casi in cui si tratti di valutare la sussistenza di vincoli ambientali, paesaggistici o culturali (o, ancora, di casi in cui si discuta di atti da rilasciarsi da parte delle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, alla pubblica sicurezza, all’immigrazione, all’asilo, alla cittadinanza, all’amministrazione della giustizia, all’amministrazione
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delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco, nonché di quelli previsti dalla normativa per le costruzioni in zone sismiche e di quelli imposti dalla normativa comunitaria), è sufficiente che il privato interessato segnali all’amministrazione la sua intenzione di esercitare l’attività in questione, corredando tale comunicazione di tutte le dichiarazioni e dei documenti necessari a consentire le verifiche sulla conformità di quanto affermato. Dal giorno della segnalazione, quel privato può cominciare l’attività, e all’amministrazione (art. 19, co. 3) residua il solo potere di controllare, entro il termine di 60 gg., se sussistano davvero i requisiti e i presupposti richiesti dalla legge per svolgerla, e, in caso negativo, di vietarne la prosecuzione, di rimuoverne gli effetti dannosi e, se possibile, di invitare il privato ad assumere le misure necessarie a rispettare la disciplina positiva (se non rispettasse questo invito, il divieto scatterebbe in modo automatico al decorso di un certo, ulteriore spazio temporale). Decorsi detti termini, la p.a. potrà intervenire in senso ostativo soltanto in presenza delle condizioni previste dalla legge per l’annullamento d’ufficio (art. 19, co. 4). Come si può rilevare, in questa fattispecie non sono presenti provvedimenti taciti di assenso, contestabili da terzi eventualmente pregiudicati dall’inerzia della p.a. (v., esplicitamente, l’art. 19, co. 6-ter). Né si può considerare che sia un atto amministrativo la stessa segnalazione certificata di attività (che taluno, in passato, e per vero anche ingegnosamente, aveva qualificato come un’ipotesi di sostituzione amministrativa, ossia di ipotesi in cui il privato “si fa” eccezionalmente “amministrazione”, surrogandosi alle prerogative di questa e assumendosene le responsabilità). Con la SCIA, semplicemente, ci troviamo dinanzi a una vera e propria liberalizzazione graduale dell’attività, soggetta al verificarsi di certi presupposti. Se qualcuno risulti leso dal puntuale formarsi di questa fattispecie, potrà sollecitare la p.a. a esercitare i poteri di verifica sopra illustrati e, in caso di silenzio, rivolgersi al giudice affinché si pronunci sull’inerzia. Nulla di più. Anche se, naturalmente, rimangono pur sempre impregiudicate le conseguenze penali di chi abbia svolto l’attività avendo dichiarato il falso o avendo messo comunque in atto specifiche fattispecie di reato. Questa peculiarità è stata chiarita anche dalla Corte costituzionale, che in una sua nota pronuncia (sent. n. 45/2019) ha spiegato: «Il dato di fondo è che si deve dare per acquisita la scelta del legislatore nel senso della liberalizzazione dell’attività oggetto di segnalazione, cosicché la fase amministrativa che ad essa accede costituisce una – sia pur importante – parentesi puntualmente delimitata nei modi e nei tempi. Una dilatazione temporale dei poteri di verifica, per di più con modalità indeterminate, comporterebbe, invece, quel recupero dell’istituto all’area am-
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ministrativa tradizionale, che il legislatore ha inteso inequivocabilmente escludere. […] Le verifiche cui è chiamata l’amministrazione […] sono dunque quelle già puntualmente disciplinate dall’art. 19 […]. Decorsi questi termini, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione, ormai priva di poteri, e quindi anche del terzo. Questi, infatti, è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, e quindi, venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche l’interesse si estingue». Tutta la disciplina procedimentale qui illustrata è sottoposta a forti tensioni allorché l’amministrazione ricorra, per assumere le proprie decisioni, all’utilizzo di strumenti informatici e algoritmi. Nell’ambito di una nota controversia – sull’utilizzo di un algoritmo ai fini della definizione dei trasferimenti e delle assegnazioni del personale docente nel contesto dell’attuazione del piano straordinario di assunzioni stabilito dalla riforma c.d. della “Buona Scuola” (legge n. 107/2015) – il Consiglio di Stato (Sez. VI, n. 8472/2019) ha esplicitamente evidenziato che «per ogni ipotesi di utilizzo di algoritmi in sede decisoria pubblica» prevalgono principi di matrice sovranazionale, specie quelli attinenti alla protezione dei dati personali (e dettati dal GDPR, Regolamento (UE) 2016/679): sono principi che non solo esigono la garanzia della conoscibilità a monte, e dunque della trasparenza, della logica sottesa al procedimento automatizzato, ma impongono anche che, nel contesto del medesimo procedimento, sia comunque garantito l’esercizio di un potere di verifica ultima in capo al soggetto titolare della prerogativa autoritativa riconosciuta dalla legge.
Procedimento e algoritmi
4. Il provvedimento amministrativo L’adozione del provvedimento non rappresenta la conclusione del procedimento. Come si è anticipato, quest’ultimo conosce un’ulteriore fase, definibile come fase integrativa dell’efficacia. Si è soliti affermare che con la sua formale adozione il provvedimento amministrativo può dirsi perfetto, ossia compiuto in tutti i suoi elementi. Ciò che ancora gli difetta, tuttavia, è l’efficacia, vale a dire la capacità di produrre le conseguenze giuridiche e fattuali che gli sono ricondotte dalla legge, e ciò avviene solo allorché esso sia stato portato a conoscenza dei suoi destinatari. Il corrispondente principio è affermato, per tutti gli atti sfavorevoli – quelli che comportano, cioè, limitazioni nella sfera giuridica dei privati –
Perfezione ed efficacia
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Esecutività ed esecutorietà
Controlli
Capitolo VIII
dalla legge n. 241 (art. 21-bis), laddove si stabilisce che, di regola, il provvedimento debba essere comunicato ai soggetti interessati e che, se ciò non sia possibile o risulti comunque gravoso per l’alto numero dei soggetti da raggiungere, la comunicazione individuale possa essere sostituita da altre e idonee forme di pubblicità, da stabilirsi a cura dell’amministrazione procedente (ad esempio, con la pubblicazione per estratto su alcuni quotidiani; o con la pubblicazione in appositi albi pubblici, adempimento che è talvolta previsto espressamente dalla legge per specifiche tipologie di provvedimenti). Fanno eccezione a tale principio i provvedimenti cautelari e urgenti (che diventano efficaci immediatamente) ed è anche previsto che la p.a. possa stabilire comunque una clausola di immediata efficacia per tutti i provvedimenti sfavorevoli che non abbiano carattere sanzionatorio. Tre precisazioni sono ineludibili. Il momento in cui il provvedimento acquista efficacia è assai rilevante, perché individua il terminus a quo ai fini della decorrenza dei termini entro cui il soggetto che si veda concretamente pregiudicato da esso può rivolgersi al giudice (amministrativo) per contestarne la legittimità. Dalla perfezione e dall’efficacia, poi, vanno distinte altre due caratteristiche, che sono proprie di taluni provvedimenti, ossia l’esecutività e l’esecutorietà. L’esecutività di un provvedimento contraddistingue il momento in cui esso, già di per sé efficace, può essere materialmente eseguito da parte della pubblica amministrazione: è la legge (o la p.a.) a stabilire quando un provvedimento efficace abbia bisogno, per essere eseguito, di divenire esecutivo. L’esecutorietà, invece, è un carattere che riguarda principalmente i provvedimenti sfavorevoli e, in particolare, quelli ablatori, ossia le manifestazioni del potere che si risolvono nel “togliere” qualcosa alla sfera giuridica del loro destinatario (ad esempio, un decreto di esproprio o un ordine di demolizione): essa consiste nella idoneità del provvedimento ad essere suscettibile di esecuzione forzata; sicché, se il destinatario non lo esegue, sarà l’amministrazione a poterlo fare, ovviamente addebitando ogni spesa al soggetto privato rimasto inadempiente. Infine, è opportuno segnalare che nella fase integrativa dell’efficacia rientrano non solo le attività finalizzate a rendere noto il contenuto del provvedimento, nel senso anzidetto. Di questa fase fanno parte, di norma, anche gli eventuali controlli amministrativi di carattere preventivo, che la legge può, a seconda del tipo di provvedimento, disporre e regolare. Ciò chiarito, il provvedimento potrebbe anche risultare invalido. Comunemente, le invalidità da cui può essere affetto il provvedimento sono
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classificabili in due generi di vizi: quelli che ne comportano la nullità; quelli che ne comportano l’annullabilità. I primi fanno sì che il provvedimento non abbia alcun effetto; i secondi, invece, non intaccano l’efficacia dello stesso, fino a che (e se) il giudice ne pronunci l’annullamento. La nullità del provvedimento rappresenta la patologia più grave dell’azione amministrativa. Essa si ha in una serie di ipotesi contemplate dalla legge (art. 21-septies, legge n. 241/1990): la mancanza degli elementi essenziali del provvedimento; il difetto assoluto di attribuzione; la violazione o elusione del giudicato; tutti gli altri casi stabiliti puntualmente dalla legge (cc.dd. “nullità testuali”). Di tutte queste, specifiche, cause di nullità, la più tradizionale è il difetto assoluto di attribuzione, che storicamente ha assunto anche altre definizioni (come quella di “carenza di potere” ovvero di “incompetenza assoluta”). Essa identifica l’ipotesi in cui un’amministrazione agisca esercitando o un potere rimesso dalla legge ad altra amministrazione o un potere che non sia previsto da alcuna norma (si pensi a un provvedimento emesso dal Sindaco quando la competenza spetta ad un’altra amministrazione, ad esempio al Questore). Come si avrà modo di precisare anche in seguito, in un’ipotesi come questa il soggetto privato che venga di fatto colpito da un’azione di questo genere può rivolgersi, per tutelarsi, al giudice ordinario: ciò perché la situazione soggettiva di cui è titolare, di fronte ad un potere del tutto “assente”, non può dirsi di interesse legittimo. Diversa è la mancanza degli elementi essenziali del provvedimento, eventualità di cui, peraltro, la legge non offre alcun dettaglio: non ci dice, in altre parole, quali siano tali elementi. Sul punto gli interpreti, operando una sorta di assimilazione parziale con il regime giuridico dell’atto nullo nell’ambito del diritto civile, ritengono che siano elementi essenziali: il soggetto (dunque la possibilità di riconoscere o identificare la p.a. agente ovvero l’imputabilità dell’atto in questione al novero di quelle azioni che rientrano nell’attività amministrativa, cosa che non accade, ad esempio, se si tratti di atto posto in essere da un funzionario pubblico al di fuori della propria relazione con l’ente presso cui presta servizio); l’oggetto (il dato o il contenuto dell’atto ovvero la loro riconduzione al tipo di elementi che possono essere destinatari di quello specifico potere: ad esempio, si pensi all’espropriazione di un bene mobile, che non è possibile); la forma (quella scritta, ad esempio, ma solo, però, se prevista espressamente a pena di nullità: del resto esistono anche provvedimenti non scritti, come possono essere gli ordini pronunciati in alcuni contesti dall’autorità di pubblica sicurezza). Incorre in nullità anche il provvedimento amministrativo che sia stato adottato in aperta violazione di una sentenza definitiva (passata in giudi-
Nullità
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Annullabilità e vizi di legittimità
Capitolo VIII
cato) ovvero in sua elusione. Come vedremo, la p.a. è tenuta a eseguire queste statuizioni e, se non procede in tal senso, è possibile agire dinanzi al giudice (amministrativo) con uno specifico rimedio (il giudizio di ottemperanza) entro il termine di prescrizione dell’actio iudicati (che è decennale). Vi sono, infine, le menzionate nullità testuali, di cui costituisce un noto esempio il vizio in cui incorrono gli atti e provvedimenti adottati da organi “scaduti” (purché non si tratti di atti e provvedimenti di ordinaria amministrazione ovvero cautelari o urgenti: cfr. artt. 2 e 3, d.l. n. 293/1994, conv. in legge n. 444/1994). Assai differente dalla nullità è l’annullabilità, il cui regime (art. 21octies, legge n. 241/1990) comporta che la presenza di taluni vizi – violazione di legge, incompetenza, eccesso di potere – non rende l’atto inefficace, ma consente al soggetto privato interessato di impugnarlo di fronte al giudice (amministrativo) al fine di ottenerne l’annullamento. La violazione di legge è un vizio che si può agevolmente capire: si è già chiarito, infatti, che la pubblica amministrazione deve rispettare il principio di legalità e che, quindi, le sue azioni devono essere conformi alla “legge”, intesa come parametro normativo aperto, suscettibile di rinviare ad una grande quantità di fonti (primarie, secondarie, costituzionali, europee, etc.). La violazione di legge è una violazione di questo parametro: ad esempio, violazione di una norma di una legge in senso formale, di un decreto-legge, della Costituzione, di un regolamento del Governo, di uno statuto comunale, di un regolamento europeo, di una legge regionale, etc. L’incompetenza non è altro che una specificazione della violazione di legge: si ha quando un provvedimento è adottato da un organo che non è quello cui la legge affida tale prerogativa, pur trattandosi dell’amministrazione dotata del relativo potere. Non bisogna, però, confondersi con l’incompetenza “assoluta” che, come già visto, integra un’ipotesi di nullità; per questa ragione, l’incompetenza che determina l’annullabilità si dice “relativa”. Un esempio assai semplice di tale vizio consiste nel caso in cui il diniego di un permesso di costruire sia pronunciato dal Consiglio comunale anziché dal dirigente responsabile del settore edilizia del Comune. L’eccesso di potere è, rispetto ai vizi ora descritti, quello più complesso. Esso racchiude sia ipotesi di c.d. “sviamento di potere”, sia ulteriori manifestazioni patologiche, che la dottrina e la giurisprudenza hanno isolato nel corso del tempo e definito in termini di “figure sintomatiche” dell’eccesso di potere. Lo sviamento di potere si ha in tutti i casi in cui l’amministrazione titolare di uno specifico potere lo eserciti non per lo scopo per cui la legge
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lo ha previsto, bensì per raggiungere obiettivi diversi: dunque, si tratta di un vizio che consiste nella strumentalizzazione del potere affidato dalla legge, con sua sottrazione al vincolo finalistico di cura di uno specifico interesse e sua conseguente funzionalizzazione alla cura di altri interessi. Un esempio assai presente nelle illustrazioni più ricorrenti di tale tipologia di vizio è quello consistente nell’azione dell’amministrazione comunale che, per “liberarsi” del funzionario addetto alla biblioteca civica, perché pigro o nullafacente, decida di sopprimere il relativo posto in organico e, conseguentemente, di licenziare l’impiegato scomodo, perché non più corrispondente al bisogno di personale, salvo provvedere, poi, alla ricostituzione dell’organico e all’assunzione di un nuovo bibliotecario. Circa, invece, le figure sintomatiche di eccesso di potere, occorre pensare che questo tipo di vizio non è altro che un amplificatore di violazioni di legge che possono non apparire formalmente visibili e che, tuttavia, si possono ricavare dall’esame del modo unitario con cui l’amministrazione ha esercitato la propria funzione e dal riscontro, che da quell’esame derivi, di un esercizio scorretto di detta funzione. È il caso, ad esempio, della motivazione difettosa o insufficiente o illogica o contraddittoria (la motivazione c’è, eppure non è convincente e lascia margine a dubbi sul corretto iter decisionale della p.a.); del difetto di istruttoria o del travisamento dei fatti (che vi sono se la p.a. ha omesso di considerare ovvero non ha del tutto compreso, o ha frainteso in modo esiziale, dati rilevanti per la sua decisione); della contraddittorietà con atti dello stesso procedimento (o di altri precedenti procedimenti); della violazione della prassi amministrativa (ossia di ciò che l’amministrazione ha legittimamente compiuto fino a quel momento in situazioni analoghe); della disparità di trattamento (e dunque, in concreto, del principio di eguaglianza); dell’ingiustizia manifesta (che si ha quanto ci si trovi di fronte ad un provvedimento del tutto arbitrario o aberrante). Come si può notare, queste figure sintomatiche non sono altro che punti di emersione di una patologia che, in fondo, conclama il mancato rispetto del parametro normativo di riferimento e che, come tale, per il suo carattere induttivo, si confà in maniera peculiare alla verifica sulla correttezza del potere discrezionale. Si ha sempre eccesso di potere anche per la violazione di grandi principi dell’azione amministrativa, quali derivabili dal tessuto costituzionale o dal diritto dell’Unione europea: così è, ad esempio, per la violazione del principio di proporzionalità. Una notazione, però, è d’obbligo: il sindacato sul modo con cui il potere viene esercitato non può, né deve, trasmodare in un sindacato sul merito dell’azione amministrativa; il vizio in esame, infatti, resta un vizio di legittimità, per quanto esso possa comportare una valutazione sulla ragionevolezza (estrinseca) dell’attività svolta.
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Autotutela
Capitolo VIII
Con riferimento ai vizi che determinano l’annullabilità del provvedimento, è bene anche sottolineare che la legge prevede una peculiare disciplina, che consente al giudice, in specifiche fattispecie, di non procedere all’annullamento del provvedimento viziato. È quanto stabilito dall’art. 21-octies, co. 2, legge n. 241, nella parte in cui descrive due ipotesi, alla cui sussistenza l’astratta presenza di un vizio lascia spazio, di fatto, a una sorta di pura irregolarità, priva di qualunque effetto caducante. La prima ipotesi consiste nel caso in cui l’attività sindacata sia vincolata e i vizi di cui si tratti siano meramente formali o procedimentali: qui – poiché è possibile che l’eventuale annullamento del provvedimento viziato non impedisca alla p.a. di riesercitare il potere adottandone uno dal contenuto esattamente identico a quello precedente – la legge consente al giudice di non annullare il provvedimento se «sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». La giurisprudenza non considera tra i vizi formali o procedimentali il vizio dell’incompetenza. La seconda ipotesi, invece, riguarda un vizio puntuale di violazione di legge, ossia l’omissione della (già vista) comunicazione di avvio del procedimento: trattandosi di istituto volto a stimolare la partecipazione e a far sì che essa possa dare un contributo alla formazione della decisione amministrativa, la sua mancanza potrebbe essere del tutto ininfluente – e consentirebbe, così, al giudice di non annullare il provvedimento – laddove «l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». Si noti che – pur essendo un istituto apparentemente analogo, perché finalizzato a rafforzare proprio la partecipazione e le sue potenzialità propositive – il c.d. “preavviso di rigetto” non può considerarsi soggetto allo stesso regime, per espressa esclusione legislativa. Come si può apprendere, la disciplina particolare ora esaminata ha una ratio ben precisa, quella di evitare l’inutile moltiplicazione di azioni e di giudizi in tutte le circostanze in cui la doglianza formalmente sostenibile dal soggetto privato rischi di rivelarsi come una mera “vittoria di Pirro”. Un ultimo aspetto che giova analizzare per quanto concerne il regime del provvedimento amministrativo ha a che fare con l’esistenza, in capo alla p.a., di quello che, storicamente, si definisce come potere di autotutela. Si tratta, in generale, di una nozione che abbraccia un’ampia gamma di istituti, che non è sempre facile ricondurre ad unità. Nonostante ciò, si tratta anche di istituti che afferiscono tutti a una fenomenologia per certi versi comune, visto che individuano i tanti modi con cui la pubblica amministrazione può tornare sui propri passi, riesaminando quanto compiu-
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to. Un elemento realmente condiviso a simili fattispecie, ad ogni modo, esiste: ci si trova di fronte, sempre, a procedimenti di secondo grado, ossia a procedimenti amministrativi che hanno ad oggetto i risultati, i provvedimenti, di precedenti procedimenti amministrativi. Tra i casi più diffusi e importanti di procedimenti (e provvedimenti) di secondo grado figurano l’annullamento d’ufficio, la convalida, la revoca e la conferma. L’annullamento d’ufficio (art. 21-nonies, co. 1, legge n. 241/1990) è il provvedimento discrezionale con cui l’organo che ha adottato un precedente provvedimento (o l’organo gerarchicamente sovraordinato) può decidere di annullarlo, con effetto retroattivo, laddove ne accerti l’illegittimità (perché viziato da violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere, ma al di fuori dei casi di cui all’art. 21-octies, co. 2) e, soprattutto, laddove tale rimozione corrisponda a un interesse pubblico della stessa amministrazione agente. Va rimarcato il fatto che non è, questa, una forma di controllo della legalità della p.a.: quest’ultima esercita spontaneamente la sua prerogativa di riesame (non è tenuta, quindi, a rispondere a istanze di annullamento d’ufficio presentate da soggetti privati) e i casi di c.d. “annullamento doveroso” sono davvero eccezionali (ad esempio, quando si tratti di prendere atto dell’illegittimità di erogazioni di denaro che costituiscono violazione delle norme europee sugli aiuti di Stato ovvero quando si tratti di dare esecuzione a un giudicato del giudice civile che abbia incidentalmente accertato l’illegittimità di un provvedimento). Oltre a ciò, va anche evidenziato che, nel complesso degli interessi, pubblici e privati, che si devono ponderare per poter adottare questo tipo di annullamento, occorre tenere in debito conto l’affidamento di coloro che dal provvedimento abbiano ricevuto delle utilità: è per questo che la legge stabilisce che l’annullamento d’ufficio sia possibile solo se esercitato entro un termine ragionevole e, comunque, laddove si discuta di atti autorizzativi o attributivi di vantaggi economici, entro un termine massimo di 12 mesi dall’adozione dell’originario provvedimento (a questa “tagliola” temporale, però, sfuggono i provvedimenti che siano stati rilasciati «sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato»: art. 21-nonies, co. 2-bis). La convalida (art. 21-nonies, co. 2) è, almeno a prima vista, un istituto, per così dire, eguale e contrario all’annullamento d’ufficio: i provvedimenti illegittimi, infatti, possono anche essere “salvati” dalla p.a., purché ne sussistano «le ragioni di interesse pubblico ed entro un termine ragionevole». In realtà, non è sempre vero che la convalida rappresenti l’equivalente funzionale opposto dell’annullamento d’ufficio. Ciò perché
Annullamento d’ufficio
Convalida
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Revoca
Capitolo VIII
non è vero che si possa rimediare, per il tramite di essa, a qualsiasi vizio di legittimità. Il punto è che la convalida, a sua volta, riunisce una serie di fattispecie assai eterogenee, come può essere, ad esempio, la ratifica, che non è altro che la convalida del provvedimento adottato dall’organo incompetente per effetto di un atto espresso dell’organo competente. Analogamente, si può “salvare” l’atto colpito da un vizio consistente nella violazione di legge operata dalla p.a. che non abbia chiesto un nulla osta normativamente previsto: se questo nulla osta sopraggiunge, anche ex post, l’atto adottato in sua mancanza si intende sanato. Da queste esemplificazioni si comprende che sono rimediabili con la convalida i vizi la cui presenza non determina un inevitabile ridondanza sul contenuto del provvedimento. Altri vizi (che si risolvano in un puntuale contrasto materiale del contenuto provvedimentale con singole disposizioni di legge ovvero in una violazione dei principi di imparzialità o di parità di trattamento) non possono essere “superati”. D’altra parte, per orientarsi sul piano pratico in merito a tali distinzioni, è sufficiente porre attenzione al fatto che ciò che si può convalidare è, per l’appunto, il provvedimento, non ciò che l’amministrazione ha sostanzialmente compiuto: se si può eliminare la patologia senza intaccare il provvedimento, allora la convalida è praticabile; se, invece, l’eliminazione del vizio implica il riarticolarsi della funzione, allora la convalida non è accessibile. Assume una configurazione del tutto diversa la revoca (art. 21-quinquies, legge n. 241/1990). Pure con questo provvedimento, per vero, si suole richiamare fattispecie tra loro un po’ diverse, anche se sono sempre caratterizzate da un “ritorno indietro”, che, però, a differenza di quanto si dà con l’annullamento d’ufficio, non implica valutazioni sulla legittimità dell’azione amministrativa, bensì sulla perdurante opportunità delle determinazioni già assunte. Si può dunque, revocare un provvedimento per «sopravvenuti motivi di pubblico interesse» ovvero «nel caso di mutamento della situazione di fatto non prevedibile al momento dell’adozione del provvedimento» ovvero, ancora, per «nuova valutazione dell’interesse pubblico originario» (c.d. “jus poenitendi” della p.a.: ma in quest’ultima ipotesi la revoca non è possibile se opera nei confronti di provvedimenti autorizzativi o attributivi di vantaggi economici). Oltre a ciò, può esistere anche una revoca c.d. “sanzionatoria” (come può essere, ad esempio, allorché venga revocata la patente di guida, in presenza di violazioni particolarmente gravi delle regole attinenti alla circolazione stradale). Il dato comune a tutte le fattispecie di revoca è che, di regola, esse hanno quale oggetto provvedimenti ad efficacia durevole, destinati, cioè, a non esaurire istantaneamente i loro effetti, e che, proprio per tale motivo, esse non possono avere mai efficacia retroattiva (sicché si afferma, comunemente, che mentre l’annullamento d’ufficio ha efficacia ex tunc,
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la revoca ha efficacia ex nunc: la revoca, in altri termini, lascia inalterati gli effetti prodotti nel frattempo dal provvedimento revocato). La legge (art. 21-quinquies, co. 1-bis) prevede che, nell’ipotesi in cui la revoca concerna atti amministrativi da cui dipendono specifici vincoli negoziali, l’amministrazione debba corrispondere al soggetto privato danneggiato dallo scioglimento del vincolo un indennizzo (che «è parametrato al solo danno emergente e tiene conto sia dell’eventuale conoscenza o conoscibilità da parte dei contraenti della contrarietà dell’atto amministrativo oggetto di revoca all’interesse pubblico, sia dell’eventuale concorso dei contraenti o di altri soggetti all’erronea valutazione della compatibilità di tale atto con l’interesse pubblico»). Un’ipotesi distante da quelle finora illustrate è quella relativa agli atti di conferma (detti anche atti confermativi). È il caso in cui l’amministrazione che abbia già adottato un provvedimento, vuoi perché richiesta da un soggetto privato o perché agisca spontaneamente, adotta un nuovo atto con cui “ritorna” sulle valutazioni già compiute, ma ribadendo il contenuto della precedente decisione. In proposito, la giurisprudenza ha elaborato un’interpretazione che tende a distinguere gli atti di conferma vera e propria da quelli meramente confermativi: nel primo caso, infatti, si tratterebbe di nuovi provvedimenti, che sostituiscono i precedenti; nel secondo caso, invece, si tratterebbe di semplici rinvii a quanto già definito. Con la conseguenza che, nel primo caso, il soggetto eventualmente leso dalla determinazione della p.a. può contestare ex novo il secondo provvedimento, mentre nel secondo caso, laddove fossero già decorsi i termini per l’impugnazione dinanzi al giudice, egli non potrebbe fare alcunché, trovandosi al cospetto di una “fotocopia” (se così si vuol dire) del medesimo provvedimento.
Atti confermativi
5. La tutela nei confronti dell’amministrazione L’ordinamento predispone per il soggetto privato che intenda dolersi dell’azione della pubblica amministrazione una serie di rimedi, giurisdizionali e non giurisdizionali. Con riguardo a quelli giurisdizionali, si è già premesso che la diversa qualificazione della situazione giuridica soggettiva del privato, come interesse legittimo o come diritto soggettivo, implica la possibilità di rivolgersi a due giurisdizioni diverse, rispettivamente quella del giudice amministrativo e quella del giudice civile. Una tale distinzione è radicata nell’evoluzione storica della legislazione nazionale: essa risale alla fine dell’Ottocento, quando, con l’istitu-
Giudice amministrativo e giudice civile
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Interesse legittimo e diritto soggettivo
Capitolo VIII
zione della IV Sezione del Consiglio di Stato (legge n. 5992/1889), si è affermato il potere dei cittadini di agire dinanzi a quell’organo entro il termine di decadenza di 60 gg. per tutelare i propri interessi, in particolare facendo valere i vizi illustrati nel paragrafo precedente, ossia la violazione di legge, l’incompetenza e l’eccesso di potere, e chiedendo l’annullamento dei relativi provvedimenti. Prima di tale intervento legislativo vigeva esclusivamente l’art. 2 dell’Allegato E della legge n. 2248/1865, che, contribuendo a definire alcuni dei lineamenti essenziali dell’ordinamento amministrativo del nuovo e unitario Regno d’Italia, aveva introdotto un modello di giurisdizione unica, affidando al giudice ordinario «le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione d’un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa». La garanzia di ogni altro interesse non riconducibile alla nozione di “diritto civile o politico” era stata, così, rimessa a rimedi esclusivamente interni all’autorità amministrativa (v. art. 3, legge n. 2248, cit.). L’insoddisfazione per le interpretazioni assai restrittive di quella nozione – che in questo modo finivano per allontanare dalla tutela giurisdizionale una serie significativa di fattispecie – ha motivato il Parlamento a creare un nuovo rimedio, da esercitarsi, come si è detto, di fronte a una specifica articolazione del Consiglio di Stato, le cui funzioni, fino a quel momento, erano essenzialmente di natura consultiva. La dicotomia tra giudice civile e giudice amministrativo, dunque, si è sviluppata e consolidata nel tempo, e la Costituzione l’ha accolta, da un lato affermando la tendenziale generalità della giurisdizione del giudice ordinario (art. 102), dall’altro ammettendo che rimanga ferma la giurisdizione del giudice amministrativo come giudice speciale quando si tratti di tutelare gli interessi legittimi (v. art. 103 Cost., dove si “salva” anche una ulteriore proiezione della giurisdizione amministrativa, comparsa sin dagli anni ’20 del Novecento, vale a dire la giurisdizione esclusiva, come serie di ipotesi – «materie» – in cui la legge affida al giudice amministrativo anche la tutela dei diritti soggettivi). La Costituzione, peraltro, ha anche previsto che vi siano «organi di giustizia amministrativa di primo grado» (art. 125), che sono stati rivisti ex novo con l’istituzione (nel 1971) dei Tribunali amministrativi regionali (TAR): sicché il Consiglio di Stato, con le sue sezioni giurisdizionali, opera solo come giudice d’appello nei confronti delle sentenze dei TAR. Nonostante possa apparire semplice, l’operatività di questa dicotomia non è stata sempre senza intoppi, poiché occorre individuare in concreto quando ci si trova in presenza di un interesse legittimo e quando di un
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diritto soggettivo. Nel corso degli anni, dottrina e giurisprudenza hanno elaborato, in proposito, diversi criteri interpretativi, distinguendo, ad esempio, lo scopo delle norme che vengono di volta in volta in gioco (norme di azione: interesse legittimo; norme di relazione: diritto soggettivo), il tipo di vizio che venga effettivamente sollevato dal soggetto privato (carenza di potere: diritto soggettivo; cattivo esercizio del potere: interesse legittimo) ovvero, ancora, la natura dell’attività amministrativa realmente esercitata (discrezionale: interesse legittimo; vincolata: diritto soggettivo). Sono gli orientamenti della Corte di cassazione, e in particolare delle sue Sezioni Unite, in quanto titolari della competenza a dirimere le cc.dd. “questioni di giurisdizione”, a darci un quadro pratico di quali siano le convinzioni più diffuse in corrispondenza delle differenti fattispecie (va precisato che alla Corte di cassazione ci si può rivolgere anche per impugnare le sentenze del Consiglio di Stato, ma solo per «motivi inerenti alla giurisdizione»: dunque, soltanto per far rispettare il riparto della giurisdizione ora descritto; sul tema si tornerà anche infra, Cap. IX). Ciò che si può senz’altro affermare, ad ogni modo, è che, oggi, le forme della tutela giurisdizionale dell’interesse legittimo si sono assai evolute, sia in relazione al fatto che progressivamente si è data una lettura sempre più intensa alla disciplina costituzionale (in termini di garanzia di una certa qualità e ampiezza della tutela: artt. 24 e 113 Cost.), sia per effetto dell’influenza determinante del diritto dell’Unione europea (e dei principi di pienezza ed effettività della tutela, che in quella sede sono stati promossi e che attualmente sono divenuti diritto vigente anche nella cornice dell’ordinamento interno: v. art. 1, d.lgs. n. 104/2010, c.d. “codice del processo amministrativo”, c.p.a.) e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (c.d. Cedu). Tant’è vero che lo stato dell’arte delle possibilità di tutela che sono offerte dalla giurisdizione amministrativa risulta sensibilmente arricchito rispetto all’unica, originaria, opzione del rimedio consistente nella richiesta dell’annullamento del provvedimento illegittimo. Quest’ultimo rimedio, certamente, rimane ancora il cuore della tutela giurisdizionale amministrativa (art. 29 c.p.a.). Esso comporta la rimozione, con effetto retroattivo, del provvedimento di cui il giudice accerti l’illegittimità. Si fa valere con un atto di ricorso, normalmente nel termine di 60 gg., davanti al TAR territorialmente competente (anche se vi sono ipotesi in cui è prevista, per certe tipologie di provvedimenti, la competenza funzionale di un determinato TAR). Al ricorrente è anche dato di agire in via cautelare, chiedendo allo stesso giudice di sospendere l’efficacia del provvedimento impugnato nelle more della definizione del giudizio (cosa che sarà possibile disporre, con ordinanza da adottarsi ad esito di specifica udienza in camera di consiglio, se si accertino i requisiti
Giurisdizione amministrativa e annullamento del provvedimento
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Capitolo VIII
del fumus boni iuris e del periculum in mora: ossia, e rispettivamente, se vi sia una ragionevole previsione sul buon esito del ricorso e se il ricorrente possa dimostrare di rischiare, nel frattempo, di ricavare dal provvedimento un danno grave e irreparabile; la legge, peraltro, in presenza di casi di periculum più intensi, ammette anche forme accelerate di tutela cautelare, pure ante causam, a cura del Presidente del collegio, che può pronunciarsi con decreto). La struttura del giudizio di annullamento – nella sua estrema linearità, che funge da prototipo per tutti gli altri rimedi attivabili nella giurisdizione amministrativa – è caratterizzata da questa sequenza: notificazione del ricorso (alla p.a. “resistente” e, se presente, a pena di inammissibilità, ad almeno un “controinteressato”, ossia a quel soggetto che risulti concretamente titolare di un interesse alla conservazione del provvedimento impugnato); deposito presso la segreteria del giudice (è il momento da cui può dirsi pendente il processo); costituzione delle altre parti; svolgimento dell’eventuale fase cautelare, con fissazione dell’udienza di discussione (le pronunce cautelari possono essere appellate al Consiglio di Stato); presentazione (entro certi termini, anteriori all’udienza di discussione) di documenti, memorie ed eventuali memorie di replica a quelle dell’avversario; svolgimento dell’udienza di discussione; decisione in camera di consiglio e deposito della motivazione della pronuncia. Di fronte al giudice amministrativo occorre l’assistenza di un avvocato. Tutte le amministrazioni statali sono difese, d’ufficio, dall’Avvocatura dello Stato, che è struttura amministrativa posta alle dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri e ha sede presso ogni Corte d’appello (sicché i ricorsi contro atti e provvedimenti di amministrazioni statali devono essere notificati direttamente all’Avvocatura Distrettuale competente, a pena di inammissibilità). Un’importante caratteristica del giudizio di annullamento è che il controinteressato può presentare ricorso incidentale: può, cioè, contestare egli stesso la legittimità degli atti compiuti dalla p.a., ma al solo scopo di bloccare l’utilità concreta dell’eventuale accoglimento della domanda di annullamento presentata dal ricorrente (ad esempio, in un giudizio che abbia ad oggetto la graduatoria di un concorso pubblico e che sia stato introdotto da colui che è arrivato secondo, lamentandosi la mancata considerazione di alcuni titoli, il vincitore, che è il soggetto controinteressato, può impugnare la medesima graduatoria, rilevando che titoli analoghi non sono stati valutati anche nel suo caso e che, quindi, anche nell’ipotesi in cui il ricorrente avesse ragione, la graduatoria non dovrebbe cambiare). Oltre a ciò, è sempre data la possibilità di presentare ricorso per motivi aggiunti (ossia un ricorso con cui si fanno valere vizi che non potevano essere conosciuti precedentemente o con cui si impugnano atti
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ulteriormente adottati dalla p.a., ma connessi con quello già contestato). L’annullamento del provvedimento – che si è soliti definire in termini di “tutela costitutiva”, per la sua capacità di incidere sull’ordinario effetto del provvedimento, che, come si è descritto in precedenza, può costituire, modificare, regolare o estinguere situazioni giuridiche soggettive – è assai utile in presenza della necessità di tutelare interessi legittimi oppositivi: ad esempio, l’annullamento di un decreto di esproprio ha l’effetto di ristabilire il diritto di proprietà del soggetto espropriato, obbligando la p.a. anche a restituire lo stato delle cose per come si presentavano prima dell’esecuzione dell’espropriazione, laddove ad essa si fosse già materialmente posto mano. Meno utile si rivela, di per sé, l’annullamento a fronte dell’esigenza di tutelare interessi legittimi pretensivi: ad esempio, l’annullamento del diniego di un’autorizzazione non comporta l’ottenimento da parte del soggetto privato istante del provvedimento permissivo cui aspirava. Comporta, di regola, solo l’obbligo della p.a. di rideterminarsi, evitando di compiere gli errori accertati dal giudice (a meno che si tratti di attività vincolata ovvero dalla motivazione della sentenza del giudice non si possa constatare comunque che, in forza degli accertamenti in essa compiuti, il margine di manovra della p.a. si sia esaurito, producendosi in questi casi il risultato di un’indicazione anche positiva e più cogente: c.d. “effetti conformativo” della sentenza di annullamento). V’è da dire che, in anni recenti, il legislatore ha anche cercato di risolvere il problema nella sede procedimentale, in particolare mediante il potenziamento dell’istituto, già visto, del preavviso di rigetto: è, infatti, previsto che, in caso di annullamento in giudizio del provvedimento di diniego, nell’esercitare nuovamente il suo potere l’amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato (art. 10-bis, legge n. 241/1990). Analoga insoddisfazione, poi, si può provare, tradizionalmente, di fronte alla tutela che gradualmente il giudice amministrativo ha elaborato per il silenzio-inadempimento della p.a. e che è riconosciuta anche dal legislatore, che ha predisposto un peculiare e accelerato rito speciale (art. 31, co. 1 e 2): se di fronte all’inerzia dell’amministrazione la condanna a pronunciarsi rappresenta comunque un risultato importante – è ciò che il titolare dell’interesse legittimo può chiedere, sempre con ricorso, entro un anno dalla scadenza del termine positivamente previsto per la conclusione del procedimento, laddove esso non sia stato osservato – è altrettanto vero che la p.a. potrebbe rimanere libera di esprimersi in senso sfavorevole al soggetto privato. Tuttavia, in ragione di interpretazioni via via più orientate a garantire al cittadino una piena giustiziabilità dell’azione amministrativa, il titolare
Giurisdizione amministrativa e condanna della p.a.
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Giurisdizione esclusiva
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dell’interesse legittimo pretensivo può accedere ad una tutela più forte, riconosciuta anche dal legislatore. Nel caso di silenzio, ad esempio, egli può anche chiedere la condanna dell’amministrazione inerte all’adozione di un provvedimento specifico, se si tratti di azione non discrezionale e se non sia indispensabile svolgere ulteriori accertamenti istruttori (art. 31, co. 3, c.p.a.). In presenza dei medesimi presupposti, poi, il titolare dell’interesse pretensivo può chiedere con ricorso la condanna della p.a. al rilascio del provvedimento richiesto anche dinanzi ad un illegittimo atto di diniego, purché lo impugni entro il termine di 60 gg. (c.d. “azione di adempimento”: art. 34, co. 1, lett. c). Ma l’innovazione forse maggiore dell’intero quadro della tutela giurisdizionale amministrativa consiste nella previsione dell’azione di condanna per il risarcimento del danno subito dall’interesse legittimo (v. oggi art. 30, co. 3, c.p.a.): innovazione, questa, che, divenuta operativa sin dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso per effetto di un’importante pronuncia in tema di responsabilità civile della p.a.: sent. n. 500/1999 delle Sez. Un. della Corte di cassazione), permette al soggetto privato danneggiato da un provvedimento illegittimo di chiederne l’annullamento, ma anche di ottenere un ristoro patrimoniale per i pregiudizi conseguentemente subiti nell’ambito della sua sfera giuridica. L’azione risarcitoria si può esercitare con ricorso entro il termine di 120 gg. dalla comunicazione del provvedimento o dal verificarsi del danno, ed è esperibile anche senza aver previamente impugnato il provvedimento: in quest’ultima ipotesi, però, il giudice amministrativo – che può comunque condannare l’amministrazione anche alla reintegrazione in forma specifica, esclude «il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti» (art. 30, co. 3, cit., che in questo modo, secondo la giurisprudenza amministrativa, avrebbe inteso sancire il c.d. “divieto di abuso del processo”, in armonia con principi desumibili dall’art. 1227, co. 2, c.c. e dall’art. 2 Cost.). Bisogna ricordare che, in sede di giurisdizione esclusiva (le materie rientranti in questa ipotesi sono davvero numerose: v. art. 133 c.p.a., che, ad esempio, comprende l’impugnazione dei provvedimenti in materia di contratti pubblici, le controversie sul diritto di accesso, quelle relative agli accordi amministrativi, quelle in materia di servizi pubblici, urbanistica ed edilizia etc.), il giudice amministrativo ha potuto garantire da tempo al soggetto privato una tutela più estesa, trattandosi di assicurare protezione a diritti soggettivi, e dunque di poter pronunciare non solo sentenze di condanna al risarcimento del danno, ma anche pronunce di accertamento. E nella medesima sede, inoltre, si può anche avviare il procedimento monitorio, per il rilascio, da parte del giudice, di un decreto ingiuntivo.
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Dinanzi al giudice amministrativo, peraltro, si possono anche esercitare un’azione di nullità (art. 31, co. 4, c.p.a.: ciò, essenzialmente, agendo con ricorso entro il termine di 180 gg., per l’accertamento delle nullità testuali o di quelle relative alla mancanza degli elementi essenziali del provvedimento, visto che le “altre” nullità, come anticipato, sono soggette ad altro regime) e ulteriori rimedi veicolabili con riti processuali speciali (come quello per contestare un diniego del diritto di accesso; o quello per ottenere l’esecuzione di una pronuncia esecutiva del giudice amministrativo o di un giudicato del giudice ordinario: è il c.d. “giudizio di ottemperanza”, che rappresenta uno dei pochi casi in cui il giudice amministrativo esercita una giurisdizione di merito – v. artt. 112 ss. e 134 c.p.a. – potendo obbligare l’amministrazione ad adottare un certo provvedimento o sostituirsi ad essa, nominando, se del caso, anche un apposito commissario ad acta, che si surroghi a ciò che la p.a. non ha fatto). Riti speciali – con abbreviazioni significative dei termini processuali – sono previsti anche per l’impugnazione di provvedimenti specifici (artt. 119 ss. c.p.a., e in tali ipotesi spiccano le controversie in materia di contratti pubblici) e in materia elettorale (artt. 126 ss.). Infine, al di là dell’appello al Consiglio di Stato e del ricorso per cassazione, la disciplina del giudizio amministrativo prevede anche altre forme di impugnazione delle pronunce giurisdizionali, quali la revocazione (art. 106 c.p.a.) e l’opposizione di terzo (art. 108 c.p.a.). Se questo è il quadro – sia pur sommariamente descritto – della tutela giurisdizionale amministrativa, giova evidenziare che la sua previsione e diretta accessibilità non hanno mai fatto venir meno l’esistenza di rimedi interni all’amministrazione, ossia di quelli che si definiscono come ricorsi amministrativi (disciplinati dal d.p.r. n. 1199/1971). Si tratta di rimedi che non richiedono l’assistenza di una difesa tecnica. Il più comune è il ricorso gerarchico, che ha carattere generale, perché si può azionare ogni qual volta vi sia una relazione di gerarchia: esso va proposto, infatti, nel termine di 30 gg., di fronte all’organo gerarchicamente sovraordinato rispetto a quello che ha adottato l’atto da contestare (nei casi previsti dalla legge, è un rimedio che si può percorrere anche dove la gerarchia non vi sia, e in tali ipotesi è definibile come ricorso gerarchico improprio). Con esso si possono sollevare sia vizi di legittimità, sia vizi di merito, sicché la decisione del ricorso può consistere anche nella modifica o nella riforma del provvedimento impugnato, non solo nel suo annullamento. Nell’eventualità in cui l’organo che deve pronunciarsi non lo faccia nel termine di 90 gg. dalla presentazione del ricorso, allora quest’ultimo si intende rigettato (ipotesi di c.d. silenzio-rigetto) e la legge consente al ricorrente di rivolgersi direttamente al giudice amministrativo, impu-
Altri rimedi dinanzi al giudice amministrativo
Rimedi amministrativi
Ricorso gerarchico
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Ricorso in opposizione
Ricorso straordinario
Capitolo VIII
gnando l’originario provvedimento contestato in sede gerarchica (la giurisprudenza, peraltro, ammette anche che il ricorrente possa agire contro il silenzio-inadempimento, allo scopo di ottenere una pronuncia espressa, che potrebbe essergli utile, visto che, come si è detto, con il ricorso gerarchico si possono argomentare anche doglianze di merito). Si noti che in forza di un certo (ma discutibile) orientamento interpretativo, di fronte al giudice amministrativo il ricorrente non potrebbe far valere vizi di legittimità diversi da quelli già illustrati nel ricorso gerarchico. Ulteriore ricorso amministrativo è quello in opposizione: quello, cioè, che si presenta alla stessa autorità che ha adottato il provvedimento (circostanza che lo rende, di solito, poco appetibile). Per tale rimedio, che è possibile solo nei casi testualmente previsti dalla legge, valgono le medesime regole del ricorso gerarchico. Il ricorso amministrativo più peculiare di tutti è, invece, il ricorso straordinario al Capo dello Stato. Non è deciso, in verità, dal Presidente della Repubblica, ma va diretto all’organo che ha emanato l’atto o al Ministero competente ratione materiae; sarà quest’ultimo a istruire la decisione, per la quale, però, è necessario il parere vincolante del Consiglio di Stato: quindi è proprio quest’ultimo, in una sua sezione consultiva, ad esprimersi, con un atto rispetto al quale il Ministro non può discostarsi; la decisione finale assumerà le forme del decreto del Presidente della Repubblica. Il ricorso straordinario ha alcune caratteristiche che vanno rimarcate in modo particolare: si può esercitare solo per lamentare vizi di legittimità; va proposto entro 120 gg.; è alternativo a quello giurisdizionale, nel senso che la sua proposizione esclude la possibilità di rivolgersi al giudice amministrativo (e viceversa: electa una via non datur recursus ad alteram); va notificato, a pena di inammissibilità, ad almeno un controinteressato (come nel caso del ricorso giurisdizionale), il quale, però, ha 60 gg. di tempo per fare opposizione e chiedere che la controversia sia decisa dal giudice amministrativo (in tal caso il ricorrente, entro 60 gg., dovrà radicare il ricorso in sede giurisdizionale); la sua decisione è impugnabile di fronte al giudice amministrativo solo per vizi di forma e procedura ovvero mediante l’istituto della revocazione (c.d. ordinaria) ex art. 395 (nn. 4 e 5) c.p.c. Il carattere vincolante del parere del Consiglio di Stato (che è divenuto tale per effetto della legge n. 69/2009) come la possibilità che quest’ultimo, in questo genere di ricorso, sollevi questioni di legittimità costituzionale o pratichi il rinvio pregiudiziale disciplinato dal diritto dell’Unione europea (opzioni che sono accessibili ai giudici propriamente detti) sono considerati da tempo indici sostanziali assai forti, per tale rimedio, di una natura non più amministrativa, ma materialmente giurisdizionale (anche se
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la giurisprudenza, pur rilevando le trasformazioni in atto, tende tuttora a esprimersi in senso opposto; v., recentemente, Corte cost., n. 63/2023). Il campo dei rimedi non giurisdizionali, in ambito amministrativo, non è occupato soltanto dai ricorsi ora illustrati. Specie dagli anni 2000 in poi, infatti, si sono diffusi, anche in quest’ambito, meccanismi di risoluzione alternativa delle controversie (sistemi di Alternative Dispute Resolution: ADR), caratterizzati dalla possibilità di rivolgersi a un organismo terzo rispetto all’amministrazione agente e dal riconoscimento, in capo a tale organismo, del potere di definire la vertenza, se del caso anche mediante formule di conciliazione o di mediazione. Pur essendo un modello che ha trovato riconoscimento anche nel diritto dell’Unione europea (v. specialmente la direttiva 2013/11/UE, in tema di tutela dei consumatori), occorre dire che è assai difficile, nel vigente ordito delle diverse disposizioni di diritto nazionale finora riconducibili a questi sistemi, individuare dei caratteri del tutto comuni. Si tratta, infatti, di regimi volta per volta speciali, previsti per finalità anche assai diverse. Per esempio, si vedano i particolari regimi di ADR operanti in materia di consumatori (finalizzati a dirimere le controversie tra operatori e utenti: artt. 141 ss., d.lgs. n. 206/2005), in materia di comunicazioni (dinanzi ai Comitati regionali per le comunicazioni e all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni: art. 84, legge n. 249/1997; art. 23, d.lgs. n. 259/2003) o in materia di tutela di dati personali (art. 140-bis, d.lgs. n. 196/2003). Ma si vedano anche, in materia di contratti pubblici, le peculiari prerogative dell’ANAC (Autorità nazionale anticorruzione), disciplinate dall’art. 220, d.lgs. n. 36/2023, o i rimedi alternativi (definiti espressamente come tali) di cui agli artt. 210-219 del medesimo decreto. Si è già chiarito che anche il giudice ordinario ha a che fare con la pubblica amministrazione, visto che il criterio di riparto della giurisdizione con il giudice amministrativo è fondato sulle situazioni soggettive. Quando ci sono diritti soggettivi, dunque, e sempre che non ci si trovi in un’ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, la giurisdizione appartiene al giudice comune, non al giudice speciale. La tutela giurisdizionale di fronte al giudice ordinario segue le forme – e offre le possibilità di protezione e soddisfazione – che sono contemplate dalla disciplina del processo civile. Ma ci sono delle singolarità di cui occorre tenere nota e che riguardano i poteri che sono propri del giudice allorché, nella sua giurisdizione, debba comunque, per decidere la controversia, accertare se l’azione amministrativa sia stata o meno legittima. Come si è già ricordato, infatti, in presenza di controversie concernenti i diritti soggettivi, il giudice civile ha giurisdizione indipendentemente dal fatto che vengano in gioco atti o provvedimenti amministrativi (cfr. l’art. 2, All. E, legge n. 2248/1865, cit.).
ADR
Giudice ordinario e p.a.
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Orbene, in queste situazioni, se di questi atti o provvedimenti il giudice debba occuparsi incidentalmente – al solo scopo, cioè, di tutelare il diritto soggettivo azionato in giudizio – ne potrà valutare senz’altro la conformità alla legge, ma con effetti limitati a quella singola controversia, senza annullarlo; tuttavia, egli potrà, laddove ne riscontrasse l’illegittimità, disapplicare l’atto o provvedimento in questione (artt. 4 e 5, legge n. 2248, cit.). Ad esempio, si pensi alla lite tra un gestore di un servizio pubblico e un utente del medesimo servizio, nella quale il primo pretenda dal secondo il pagamento di una tariffa applicata sulla base di un regolamento tariffario approvato dall’amministrazione, ma illegittimo. Da non confondere con casi come questo sono le fattispecie nelle quali la legge assegna comunque al giudice civile la giurisdizione sull’annullamento di atti o provvedimenti amministrativi (cosa che è consentita anche dall’art. 113, co. 3, Cost.: si pensi, ad esempio, al caso delle sanzioni amministrative pecuniarie o a quello relativo all’impugnazione dei provvedimenti del Garante per la protezione dei dati personali o a quello della contestazione di buona parte dei provvedimenti di espulsione degli stranieri ovvero di quelli relativi al diniego delle diverse forme di protezione internazionale). Non vanno ulteriormente confuse, e assimilate ai casi di disapplicazione, anche le ipotesi in cui la legge preveda, eccezionalmente, forme di c.d. “doppia tutela” (v., per esempio, l’art. 872, co. 2, c.c., che permette al vicino di casa di far valere la violazione delle norme sulle distanze legali anche di fronte al giudice ordinario e indipendentemente dal rilascio di un permesso di costruire; e forse può considerarsi tale, almeno in parte, anche la disciplina posta dagli artt. 4344, d.lgs. n. 286/1998, in tema di tutela contro la discriminazione). Né, secondo la migliore dottrina, ha molto senso discutere di disapplicazione laddove la cognizione di atti o provvedimenti da parte del giudice ordinario avvenga nel corso di un giudizio penale relativo all’accertamento di reati per i quali l’atto o il provvedimento costituisca un elemento costitutivo dell’illecito (cosa che avviene, per esempio, con riferimento al reato di inosservanza dei provvedimenti dell’autorità ex art. 650 c.p.).
6. Le risorse dell’amministrazione
Personale della p.a.
L’amministrazione pubblica, per poter operare, si serve di molteplici risorse, umane come materiali. Dal primo punto di vista, vengono in gioco i dipendenti pubblici: tutti coloro, cioè, che – dirigenti o funzionari di vario grado – sono alle dipendenze della pubblica amministrazione, avendo con essa un rapporto
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di lavoro (la fonte dei principi e delle regole su questa materia è il d.lgs. n. 165/2001, che detta prescrizioni analitiche sull’organizzazione di detto rapporto come sulla sua gestione). Tradizionalmente questo rapporto era improntato a una disciplina speciale, diversa da quella dei rapporti di lavoro di diritto comune, e tale specialità si ripercuoteva sul fatto che le relative controversie rientrassero nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, rappresentandone, anzi, il primo e più rilevante ambito. Per effetto del d.lgs. n. 29/1993, tuttavia, si è prevista la contrattualizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, con la sola eccezione di quello relativo ad alcune categorie professionali specifiche (tra le quali figurano, ad esempio, militari, giudici, avvocati dello Stato, appartenenti alle forze di polizia, professori universitari). Sicché, a decorrere dal d.lgs. n. 80/1998, le liti tra dipendente pubblico e p.a. presso cui presta servizio sono da incardinarsi dinanzi al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro (mediante il rito speciale di cui agli artt. 413 ss. c.p.c.). Restano, però, ferme le regole peculiari che dispongono che i dipendenti pubblici non possano che assumersi per concorso (art. 97, co. 4, Cost.) e che, più in generale, con un principio che vale non solo per chi sia assunto da una p.a., ma anche per tutti coloro che vi prestino servizio o esercitino funzioni pubbliche, anche temporaneamente, essi debbano comportarsi con disciplina e onore (art. 54 Cost.). La violazione di quest’ultimo principio – che si dettaglia nella posizione di norme disciplinari, per lo più raccolte nel codice di comportamento di cui deve dotarsi ogni amministrazione, oltre che nei contratti collettivi – può dar luogo a una corrispondente forma di responsabilità, la quale, nei casi più gravi, una volta accertata a seguito di apposito procedimento in contraddittorio con l’interessato, giustifica anche il licenziamento. Sul piano delle risorse materiali, non possono che prendersi in considerazione, in primo luogo, i c.d. beni pubblici, ossia i beni, mobili e immobili, di cui sono proprietari lo Stato e gli altri enti pubblici, territoriali e non. Come è noto, è il codice civile (art. 822 ss.) a classificare e definire le categorie tradizionali – beni demaniali, beni patrimoniali indisponibili, beni patrimoniali disponibili – in cui si articola questa tipologia di beni. Ai beni demaniali appartengono (demanio necessario) il lido del mare, la spiaggia, le rade, i porti, i fiumi, i torrenti e tutte le acque definite pubbliche dalla legge, nonché le opere destinate alla difesa nazionale. Possono farvi parte, se appartengono allo Stato (demanio eventuale) le strade, le autostrade e le strade ferrate, gli aerodromi, gli acquedotti, gli
Beni pubblici
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immobili riconosciuti di interesse storico, archeologico e artistico a norma delle leggi in materia, le raccolte dei musei, delle pinacoteche, degli archivi, delle biblioteche. La proprietà dei beni demaniali non può essere usucapita, né vi si possono costituire diritti da parte dei terzi, salva la possibilità che la p.a. ne riconosca l’utilizzo a mezzo di specifica concessione, dietro il pagamento di un canone. Essi possono anche essere sdemanializzati e ricondotti, così, alla categoria dei beni patrimoniali indisponibili come di quelli disponibili (ciò è accaduto, segnatamente, soprattutto a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, in cui lo Stato ha “patrimonializzato” molti beni demaniali, per poterli cedere a privati e far fronte, per questa via, alle cicliche esigenze del bilancio pubblico). Ma i beni demaniali statali possono anche essere affidati alla gestione di enti pubblici territoriali diversi dallo Stato, come le Regioni, le Province e i Comuni (come è accaduto, ad esempio, in esecuzione della disciplina del c.d. “federalismo demaniale”, di cui al d.lgs. n. 85/2010). A prendere nota della disciplina normativa che li riguarda (art. 826 c.c.), i beni patrimoniali indisponibili rappresentano un insieme ancor più eterogeneo. Di essi, ad esempio, fanno parte «le foreste che a norma delle leggi in materia costituiscono il demanio forestale dello Stato, le miniere, le cave e torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo, le cose d’interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo, i beni costituenti la dotazione della Presidenza della Repubblica, le caserme, gli armamenti, gli aeromobili militari e le navi da guerra». Ma, ancora, sono beni patrimoniali indisponibili – con una definizione che pare rivelare il senso complessivo della disciplina che li riguarda – «gli edifici destinati a sede di uffici pubblici, con i loro arredi, e gli altri beni destinati a un pubblico servizio». Del resto, la peculiarità di questi beni è di non poter essere sottratti alla destinazione che li riguarda, se non dietro apposita procedura che prenda atto del venir meno dello scopo in funzione dei quali essi possono essere utilizzati. Ciò detto, la p.a. può essere anche titolare di beni disponibili, il cui classico e più importante esempio è il denaro, anche se la disponibilità viene meno nel momento in cui sussistano, nel bilancio dell’ente, dei precisi vincoli di utilizzazione. È opportuno rilevare che la classificazione dei beni operata dal codice civile, come ora rammentata, risponde, oggi, con fatica alla diffusa istanza di revisione delle discipline delle differenti forme di proprietà pubblica che a quella sono sopravvenute nel tempo. Oltre a ciò, non sono mancate anche esperienze pratiche volte all’introduzione, specie sul piano locale, di una specifica e originale categoria di “beni comuni urbani”, la cui cura, rigenerazione e manutenzione sono oggetto di appositi regola-
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menti comunali (v. anche supra, Cap. VII, in part. par. 4) e si realizzano per mezzo della collaborazione tra cittadini e p.a. (mediante la stipula di veri e propri “patti”). Oltre che sui propri beni, tuttavia, la p.a. può anche contare sulle prestazioni che non sia in grado di reperire al proprio interno, e che possono consistere in forniture, lavori pubblici o servizi prestati da parte di soggetti privati, con cui la stessa p.a. stipuli appositi contratti. L’amministrazione, del resto, gode della capacità giuridica che spetta anche ai soggetti privati e pertanto, oltre ad agire mediante le prerogative speciali (i poteri) che le sono attribuiti dalla legge, può anche pacificamente compiere attività di diritto comune. Tuttavia, anche in quest’ambito vige il principio di legalità e si devono osservare gli ulteriori principi costituzionali (già visti) di imparzialità e di buon andamento: ciò significa che, nella scelta del contraente con cui avviare un rapporto, l’amministrazione deve osservare regole speciali, quelle dei cc.dd. “procedimenti ad evidenza pubblica”, allo scopo di optare per l’offerta migliore possibile, sia sotto il profilo economico che sotto quello qualitativo, e senza discriminazioni tra i potenziali offerenti. Questi procedimenti, nel corso del tempo, sono diventati cruciali anche per il diritto dell’Unione europea, che se ne è ben presto occupato adottando specifiche direttive di armonizzazione, volte a far sì che, nel quadro del mercato interno dell’Unione, tutte le amministrazioni (o i soggetti comunque considerabili come tali) osservino regole e principi uniformi, a tutela della concorrenza tra gli operatori economici provenienti da tutti gli Stati membri. Nell’ordinamento italiano (v. il d.lgs. n. 36/2023, c.d. “codice dei contratti pubblici”), l’attività contrattuale della p.a. è distinta ordinariamente in due fasi, una pubblicistica (che è caratterizzata dallo svolgimento del procedimento ad evidenza pubblica e serve ad individuare il privato contraente) e una privatistica (che consiste nell’esecuzione dell’attività contrattuale: quindi, nello specifico, a realizzare il lavoro, a prestare il servizio o ad effettuare la fornitura). La prima fase può essere diversamente articolata (può consistere in una procedura aperta, rivolta a sollecitare la partecipazione di tutti gli operatori potenzialmente interessati, o in una procedura ristretta, riservata ad un novero limitato di partecipanti, o, ancora, ma eccezionalmente, in una procedura negoziata, da intraprendersi direttamente con uno specifico operatore). È introdotta, usualmente, da una determinazione a contrarre (l’atto con cui la p.a. sceglie di rivolgersi al mercato) e da un bando di gara (o, nel caso di procedure ristrette, da un invito a partecipare), che costituisce la lex specialis della procedura e fissa i requisiti di partecipazione e i criteri che la p.a. può utilizzare per aggiudicare il contratto (di norma, il criterio dell’offer-
Attività contrattuale della p.a.
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ta economicamente più vantaggiosa; in casi specifici, il criterio del prezzo più basso). Dopo l’aggiudicazione, passato un certo periodo di tempo, la p.a. e il privato vincitore stipulano il contratto, aprendosi, quindi, la fase esecutiva. Pur trattandosi, come si è anticipato, di un rapporto negoziale, anche la fase esecutiva può risentire di peculiarità di disciplina dovute alla presenza, tra i contraenti, di un soggetto che deve realizzare l’interesse pubblico (sicché la legge, ad esempio, prevede accorgimenti ad hoc per le variazioni dell’accordo o circa l’esercizio pubblico di un potere di recesso o per tutti i casi in cui sopraggiunga la crisi dell’impresa privata e, con essa, il rischio che l’esecuzione contrattuale si arresti o venga pregiudicata). La dicotomia fase pubblicistica-fase privatistica, segna anche, di norma, il riparto della giurisdizione per le controversie che eventualmente sorgano tra le parti: al giudice amministrativo spettano quelle concernenti le procedure di scelta del contraente (secondo un rito speciale che si è già menzionato supra e che permette al giudice amministrativo non solo di annullare l’aggiudicazione illegittima, ma anche di dichiarare l’inefficacia del contratto che fosse stato stipulato sulla base di essa), mentre al giudice civile spettano quelle attinenti alla fase esecutiva.
7. La responsabilità dell’amministrazione e dei suoi funzionari Il risarcimento degli interessi legittimi
Come si è segnalato, tra i rimedi che il soggetto privato, titolare di un interesse legittimo, può attivare nei confronti dell’amministrazione che abbia adottato un provvedimento illegittimo esiste anche un’azione di condanna, da rivolgere al giudice amministrativo al fine di ottenere un ristoro patrimoniale del pregiudizio subito (art. 30, co. 3, c.p.a.). Questa specifica azione risarcitoria è il punto di arrivo di un lungo percorso, poiché per molto tempo si è ritenuto che di fronte alle manifestazioni del potere amministrativo non si potesse ottenere una tutela risarcitoria, se non nelle ipotesi in cui venissero in gioco diritti soggettivi e questi fossero stati illegittimamente compressi da parte della p.a. In sostanza, si sosteneva che, di fronte all’esercizio unilaterale del potere autoritativo e imperativo, i diritti del cittadino potessero essere “degradati” a interesse legittimo e che, tuttavia, tale “degradazione” non operasse più laddove il provvedimento, che se ne fosse fatto autore, venisse rimosso dal giudice amministrativo, tramite il suo annullamento. Difatti, una volta ottenuto l’annullamento, il cittadino, tornato titolare del suo diritto, avrebbe potuto agire, ex art. 2043 c.c., di fronte al giudice or-
L’amministrazione pubblica
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dinario, per ottenere il ristoro della lesione subita a causa di una “degradazione” avvenuta contra legem. Questa ricostruzione – per la quale, quindi, sarebbe stato possibile invocare la responsabilità civile extracontrattuale della p.a. soltanto per la lesione di interessi legittimi oppositivi e soltanto dopo che il giudice amministrativo avesse accertato l’illegittimità dell’azione amministrativa pregiudizievole – è stata superata dalla Corte di cassazione, con la sent. n. 500/1999 delle sue Sezioni Unite. In tale pronuncia, in particolare, la Cassazione, che ha operato una generale rivisitazione dei modi più tradizionali di concepire la disciplina posta dall’art. 2043 c.c., ha evidenziato che tramite lo strumento risarcitorio extracontrattuale è possibile offrire ristoro a qualsiasi interesse giuridicamente rilevante che si riveli meritevole di simile protezione e, così, anche agli interessi – sia oppositivi, sia pretensivi – che i titolari di un interesse legittimo vantino nei confronti della p.a. La Corte, poi, ha anche sancito il superamento della regola concernente la necessità di ottenere dal giudice amministrativo il previo annullamento del provvedimento illegittimo e dannoso; ha, però, chiarito che, laddove si tratti di risarcire un interesse pretensivo, il giudice del risarcimento non possa limitarsi a constatare l’illegittimità dell’atto amministrativo che lo ha pregiudicato, ma debba anche accertare se il suo titolare, in caso di esercizio legittimo del potere, avrebbe o meno conseguito il bene cui aspirava (è, questa, la c.d. “teoria della spettanza”, come presto è stata definita dalla dottrina). Sicché appare evidente che, in una tale prospettazione, il giudizio di accertamento richiesto per poter risarcire un interesse pretensivo è concretamente praticabile soltanto laddove l’attività della p.a. sia vincolata ovvero laddove essa, a seguito dell’accertamento sulla legittimità dei suoi atti, abbia esaurito ogni margine di valutazione discrezionale. Ad ogni modo, simile impostazione è stata – non senza dibattito – accolta anche negli sviluppi ulteriori dell’ordinamento, e segnatamente dal giudice amministrativo (che a decorrere dalla legge n. 205/2000 ha assunto espressamente la giurisdizione sul risarcimento degli interessi legittimi, oggi confermata anche dal c.p.a., secondo l’assetto normativo in precedenza descritto, e dalla legge n. 241/1990, che all’art. 2-bis estende il regime risarcitorio anche al c.d. “danno da ritardo”, ossia ai pregiudizi subiti dai cittadini in ragione dell’inerzia della p.a.; in quest’ultima fattispecie, peraltro, la legge dispone anche la possibilità – più teorica che pratica – di ricevere comunque in indennizzo parametrato sul numero dei giorni di inadempienza della p.a.). Va, tuttavia, rammentato che molti interpreti – e anche parte della giurisprudenza – hanno, in più occasioni, contestato la generale riconducibilità della responsabilità civile per lesione di interessi legittimi al
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La responsabilità da attività materiale
Capitolo VIII
paradigma della responsabilità civile extracontrattuale: ad esempio, si sono isolate, anche sul piano applicativo, ipotesi di responsabilità paracontrattuale (o da “contatto sociale qualificato”, intendendo come tale il procedimento amministrativo e la logica relazionale che esso viene a generare) o si è osservato che, lungi dal potersi fare una pacifica applicazione dell’art. 2043 c.c., si dovrebbe discutere di una responsabilità speciale a tutti gli effetti; e si è anche immaginato, per talune fattispecie, che si possa predicare una responsabilità civile della p.a. da atto legittimo (come può verificarsi, ad esempio, nei casi in cui l’amministrazione, che abbia individuato il soggetto privato con cui stipulare un contratto, revochi la sua scelta per sopravvenute ragioni di interesse pubblico concernenti l’improvvisa incapienza delle disponibilità finanziarie occorrenti, incorrendo in tal modo in una responsabilità di natura precontrattuale). Se l’affermazione di una responsabilità della p.a. per danni cagionati nell’esercizio dei suoi poteri è stata così “tormentata”, le cose sono sempre state parzialmente più chiare per ciò che concerne la c.d. responsabilità da attività materiale (o da comportamento) dell’amministrazione. Si pensi, ad esempio, ai sinistri stradali cagionati dai veicoli delle forze di polizia; oppure ai danni che possano derivare ai cittadini a causa della cattiva manutenzione degli spazi pubblici (strade, piazze, edifici di proprietà della p.a.) o in quanto causati dalla fauna selvatica; oppure agli infortuni scolastici (che si provocano, cioè, in un ambito in cui gli alunni sono soggetti alla diligente vigilanza dei loro insegnanti) oppure, ancora, ai pregiudizi (in molti casi gravissimi) che possono essere subiti da tutti coloro che si rivolgano al Servizio Sanitario Nazionale (per i casi di c.d. malpractice medica). In tutte queste fattispecie – che per la verità sono molto eterogenee e presentano, ciascuna, delle specificità facilmente riducibili ad un comune quadro sintetico – l’estensione tendenzialmente diretta del diritto civile è pacifica, salva la peculiarità consistente nel fatto che la responsabilità che si può imputare al singolo agente pubblico che abbia concretamente cagionato il danno è soltanto quella affermabile per dolo o colpa grave: dei danni cagionati per colpa lieve risponde solo la p.a. Ma è opportuno segnalare, a quest’ultimo riguardo, che è sempre la p.a. a venire in gioco quale soggetto innanzitutto imputabile, poiché – al di là dei casi in cui si possano invocare gli artt. 2050 e 2051 c.c. – si tende sempre ad applicare, prevalentemente, lo “schema” concettuale di cui all’art. 2049 c.c., che, a rispondere dei danni arrecati da «domestici e commessi» chiama sempre «[i] padroni e i committenti». D’altra parte, come è noto, la p.a., come datore di lavoro dei propri dipendenti, garantisce una solvibilità, per definizione, maggiore di quella che potrebbero garantire le singole persone fisiche che prestino servizio a favore dell’ente pubblico.
L’amministrazione pubblica
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Le precisazioni ora formulate aiutano anche a comprendere il motivo della perdurante “dequotazione” (se così si può dire) dell’art. 28 Cost., quanto meno nella parte in cui statuisce la diretta responsabilità civile, penale e amministrativa dei funzionari e dei dipendenti pubblici e la conseguente estensione di quella civile allo Stato e agli enti di appartenenza: a rigore, dunque, in caso di responsabilità civile, il “primo” responsabile dovrebbe essere il soggetto agente, nei cui confronti la p.a. svolgerebbe, in un certo senso, il ruolo di “garante”. Ciò che sicuramente si deve sempre sottolineare è che – qualsivoglia tesi si intenda seguire – la responsabilità della p.a. viene in gioco solo ed esclusivamente laddove il comportamento illecito sia posto in essere dal dipendente pubblico nel corso della (o in correlazione con la) sua attività istituzionale (secondo quello che viene definito “rapporto di occasionalità necessaria”: al di fuori, infatti, il dipendente risponde personalmente). Dell’art. 28 Cost., inoltre, sono sicuramente più “vive” le parti concernenti la responsabilità penale e quella amministrativa del funzionario, intendendosi, a quest’ultimo riguardo, sia la responsabilità disciplinare (su cui si è già detto supra), sia quella più propriamente amministrativocontabile (sulla quale ha giurisdizione la Corte dei conti). Questa forma di responsabilità si verifica allorché sia possibile imputare al comportamento doloso o gravemente colposo del dipendente pubblico (ma, più in generale, di chiunque si trovi in un rapporto di servizio con la p.a.) un danno erariale, vale a dire un pregiudizio al patrimonio pubblico considerato nella sua interezza. Ad esempio, può trattarsi di un danno indiretto, come quello causato dalla grave negligenza del poliziotto che abbia cagionato un incidente stradale e che abbia, così, costretto l’amministrazione a risarcire i danni patiti dal privato leso dal sinistro. O come quello imputabile al dirigente che, adottando un provvedimento palesemente illegittimo, abbia preferito, nella procedura per l’affidamento di un contratto pubblico, un’impresa anziché un’altra, che così ha subito un ingiusto pregiudizio al cui ristoro la p.a. è stata condannata. Ma può trattarsi anche di un danno diretto, di una lesione, cioè, arrecata alla p.a. dalla medesima condotta del funzionario: è questo il caso, ad esempio, del dipendente che abbia distrutto un’attrezzatura posta nella sua disponibilità o che abbia anche esercitato la propria funzione per lo svolgimento di attività che non vi rientrano o per il conseguimento di utilità personali. È risarcibile, poi, come danno erariale, anche il danno all’immagine che l’amministrazione abbia subito in ragione del comportamento rimproverabile del proprio dipendente (evenienza che spesso si può dare quando quest’ultimo si sia reso autore di condotte penalmente illecite, sia se si tratti di reati propri del funzionario pubblico, quali la concussione o
Art. 28 Cost.
Danno erariale e responsabilità amministrativa
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Capitolo VIII
la corruzione o l’abuso d’ufficio, sia se si tratti di fattispecie comuni, ma in ogni caso pregiudizievoli dell’identità della p.a. e della sua “professionalità”). La sussistenza dell’elemento soggettivo di tale forma di responsabilità (che è assimilata, di solito, a quella civile extracontrattuale, e non a caso si prescrive in cinque anni) può essere elemento di difficile riscontro in presenza di azioni condotte da organi collegiali: per queste ipotesi, la legge prevede che la responsabilità si imputi «esclusivamente a coloro che hanno espresso voto favorevole» (art. 1, co. 1-ter, legge n. 20/1994). L’accertamento della responsabilità erariale compete ad un peculiare pubblico ministero, il pubblico ministero contabile, operante presso ogni sezione giurisdizionale della Corte dei conti (dunque, in ogni Regione), cui è rimesso il potere di valutare se ne sussistano gli estremi e di citare in giudizio, sempre dinanzi alla Corte, coloro che ritenga di accusare. Il processo che così si svolge è assai particolare, un po’ perché è una sorta di sintesi tra il processo civile e quello penale, un po’ perché il giudice, una volta accertata la responsabilità dell’incolpato, può anche esercitare un c.d. “potere riduttivo”, diminuendo in modo discrezionale l’entità del risarcimento (e ciò, sovente, accade laddove, ad esempio, la condotta dannosa abbia comunque contribuito al raggiungimento di una qualche utilità pubblica ovvero si tratti di azioni riconducibili ad attività “sensibili”, per le quali l’assunzione del relativo rischio da parte dell’agente possa valere come strutturale scusante; a quest’ultimo riguardo si può segnalare che il legislatore, recentemente, per evitare che il “timore” della responsabilità amministrativa possa ingenerare un “blocco” delle azioni amministrative richieste per l’attuazione del c.d. PNRR-Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ha anche previsto la momentanea delimitazione di questa forma di responsabilità alle sole ipotesi dolose). Va ricordato, infine, che la Corte dei conti è giudice anche sui processi di responsabilità contabile in senso stretto, ossia relativi alle condotte degli agenti pubblici chiamati a gestire beni o valori.
CAPITOLO IX
LA GIURISDIZIONE SOMMARIO: 1. La funzione giurisdizionale: cenni generali. – 2. Gli organi giudiziari nell’ordinamento italiano: schema complessivo. – 3. I principi costituzionali sulla giurisdizione: un’introduzione. – 4. I principi sull’organizzazione: i magistrati ordinari, il Consiglio Superiore della Magistratura, le magistrature speciali. – 5. I principi sull’attività: il modello processuale e lo standard della tutela giurisdizionale. – 6. La responsabilità del giudice.
1. La funzione giurisdizionale: cenni generali Accanto alle altre tipiche, e classiche, funzioni dello Stato (quella normativa e quella amministrativa) si pone la funzione giurisdizionale, che consiste nell’attività rivolta alla risoluzione delle controversie che possano insorgere circa l’applicazione del diritto. Sul piano storico, l’emersione della giurisdizione come autonoma espressione di un corrispondente potere all’interno dell’organizzazione statale segna senz’altro l’affermazione visibile e concreta dello Stato di diritto. Va anche detto che, tradizionalmente, il termine iurisdictio è valso a identificare non solo ciò che oggi è giurisdizione nel senso ora richiamato, bensì l’ambito delle prerogative proprie di ciascuna istituzione o autorità. È una nozione, questa, che tuttora sopravvive in specifici contesti e, parzialmente, anche nel linguaggio dei giuristi. D’altra parte, anche nello stato costituzionale, il potere in cui si riunisce la giurisdizione in senso stretto concorre, assieme agli altri, all’attuazione delle finalità che la costituzione prefigura alla collettività e, per ciò che lo concerne in particolare, contribuisce in modo essenziale alla garanzia dei diritti e delle libertà individuali e collettive. In quest’ultima prospettiva, poi, non è difficile comprendere come la funzione giurisdizionale corrisponda anche a un fondamentale servizio, che lo Stato presta nei confronti dei soggetti dell’ordinamento a presidio
Giurisdizione e iurisdictio
Giurisdizione e servizio pubblico
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Giurisdizione e processo
Capitolo IX
della certezza delle loro posizioni giuridiche, da conseguirsi per mezzo dell’accertamento del diritto che le disciplina. In questo suo profilo la giurisdizione diventa sempre più spesso l’oggetto privilegiato di importanti politiche di riforma, volte a renderla maggiormente efficiente, più rapida, meglio adeguata alle sfide che le stesse trasformazioni della realtà socio-economica pongono per chi debba “sciogliere” i conflitti che in essa si generano. La forma tipica della giurisdizione è quella del processo: si tratta di quella serie coordinata di atti che, con la partecipazione di specifici soggetti (il giudice e le parti), ha come scopo l’adozione di una decisione (di norma, una sentenza, un atto, cioè, con cui il giudice formula statuizioni che si impongono alle parti e che sono suscettibili – se non contestate entro precise scansioni temporali e attraverso specifici rimedi, le cc.dd. “impugnazioni” – di passare in giudicato, diventando definitive e integrando, così, la regola, a tutti gli effetti, di quel conflitto: v. art. 2909 c.c.). Solitamente la forma processuale – che nell’impostazione accolta nei sistemi giuridici occidentali non può che realizzarsi in ciò che nel pensiero giuridico medievale viene coscientemente definito come actus trium personarum, a suggello della centralità di quanto in esso si svolge, dunque del dibattito e del contraddittorio, dentro e fuori le udienze stabilite dal giudice – varia a seconda dell’oggetto della lite (e così, ad esempio, della materia civile o di quella penale, visto che nella prima il giudizio è nella disponibilità della parte privata che abbia interesse a promuoverlo, mentre nella seconda esso è attivato dalla parte pubblica cui l’ordinamento affida il ruolo dell’accusa) e può essere anche configurato secondo riti differenti (ad esempio, in ragione della fattispecie specifica di cui si tratta o della singola e peculiare “domanda” che una delle parti formuli dinanzi al giudice). Se è vero, però, che il processo ha un suo “cuore” che lo caratterizza – la dinamica, per l’appunto, della discussione – la profondità di dette variazioni è spesso al centro di grandi confronti, o scontri, tra opinioni anche assai diverse od opposte: esiste, in altri termini, una dialettica diffusa tra chi invoca una specie di irrinunciabilità di alcune delle declinazioni più classiche della forma processuale e chi, invece, ritiene che, anche in direzione di enfatizzazione del ruolo di servizio che la giurisdizione assume di fronte alla comunità, quella forma possa darsi secondo scansioni o modalità innovative (si rifletta, ad esempio, alle mutazioni che può comportare il ricorso ai tanti mezzi tecnologici della società dell’informazione e, precisamente, all’impatto che possono avere, sull’actus trium personarum nel suo effettivo atteggiarsi, la possibilità di svolgere le udienze da remoto, di far interloquire le parti e il giudice in via telematica, o più in generale di dotare tutta l’organizzazione della giustizia
La giurisdizione
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di strumenti informatici idonei a sostenere o facilitare o velocizzare l’attività della decisione giudiziale sin dal suo pratico costruirsi, se del caso anche attraverso il ricorso all’intelligenza artificiale). Ciò premesso, in tutte le espressioni degli aspetti finora introdotti (la definizione della funzione che la giurisdizione svolge; la sua autonomia come potere e la sua manifestazione operativa come servizio e come processo) la Costituzione prescrive alcuni importanti principi, dettando quelli che si possono definire come le linee portanti di tutto il sistema giudiziario e prefigurando, così, la cornice di senso alla luce della quale poter valutare sia la legittimità specifica di singole scelte legislative, sia la conformità complessiva delle metamorfosi che l’ordinamento e la prassi imprimano, in fatto come in diritto, all’amministrazione della giustizia.
2. Gli organi giudiziari nell’ordinamento italiano: schema complessivo Prima di passare alla disamina dei principi che la Costituzione italiana dedica alla tutela giurisdizionale e al suo concreto esercizio, è opportuno offrire una descrizione schematica di quelli che sono i diversi organi giudiziari, ossia gli uffici cui è affidata la funzione giurisdizionale. La Costituzione, infatti, vi si riferisce in modo preciso – in parte registrando l’assetto esistente al momento della sua entrata in vigore, il 1° gennaio 1948, in parte prefigurando significative mutazioni – sicché la comprensione della disciplina da essa posta non è del tutto afferrabile in mancanza della contestuale presa d’atto dei lineamenti essenziali del sistema giudiziario. Innanzitutto, occorre isolare gli organi giudiziari che esercitano la funzione giurisdizionale giudicante in materia civile e penale. Si tratta della c.d. “giurisdizione ordinaria”. In primo grado, operano, distinguendosi secondo criteri di competenza (per valore, per materia, per territorio), il Giudice di pace, il Tribunale e la Corte d’assise. Il primo è un ufficio ricoperto da giudici onorari, nominati tra soggetti in possesso di determinati requisiti; il secondo, invece, è composto da giudici professionali, reclutati per concorso, come sono, di norma, tutti gli atri giudici ordinari; il terzo, infine, ha una composizione mista, poiché si tratta di un collegio di otto membri, di cui sono chiamati a far parte sia due giudici professionali (cc.dd. “giudici togati”: il Presidente e il giudice a latere), sia sei giudici scelti a sorte tra comuni cittadini iscritti ad un albo ad hoc (cc.dd. “giudici laici”, che – si
Giurisdizione ordinaria
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Giudice di pace
Tribunale
Capitolo IX
badi – non vanno a costituire una sorta di giuria popolare, ma concorrono alla formazione del collegio giudicante in senso proprio, essendo chiamati a lavorare e, dunque, a decidere assieme ai giudici togati). Al Giudice di pace – che è giudice monocratico – spettano, di regola, controversie specifiche, caratterizzate dal valore non eccessivamente elevato (non superiori, cioè, a diecimila euro) o dalla peculiarità dei rapporti giuridici che ne costituiscono oggetto (e che hanno a che fare, per lo più con la micro-conflittualità della vita quotidiana: liti condominiali; regolamenti di confini; sinistri derivanti dalla circolazione di veicoli, purché non superino il valore di venticinquemila euro; etc.). Da qualche tempo, tuttavia, al Giudice di pace è stata attribuita anche la giurisdizione su alcuni reati (c.d. “minori”, quali percosse, lesioni personali non gravi, diffamazione, furti punibili a querela, danneggiamento, etc.), oltre che su alcuni provvedimenti concernenti la condizione giuridica degli stranieri (ad esempio, il provvedimento di espulsione adottato dal Prefetto o quello di convalida del trattenimento presso un centro di identificazione ed espulsione). Il Giudice di pace, poi, ha anche una generale funzione di conciliazione, per la quale possono rivolgersi ad esso le parti di una qualsiasi controversia. Peculiarità del processo dinanzi al Giudice di pace sono: entro un certo limite di valore (millecento euro) ci si può difendere personalmente, senza l’ausilio di un avvocato; il rito che si segue è improntato ad una certa libertà e informalità; il giudice può occasionalmente decidere anche secondo equità (cosa che può accadere, su richiesta delle parti, per le cause di valore non superiore ad millecento euro; ciò non significa che egli possa decidere a sua completa discrezione, potendo, piuttosto, utilizzare quale parametro di valutazione i principi generali che governano la materia). Al Tribunale – che di norma, oggi, opera come giudice monocratico, pur essendo chiamato, in taluni casi, a funzionare come giudice collegiale (art. 50-bis c.p.c. e art. 33-bis c.p.p.) – è riconosciuta, invece, la competenza sulla generalità delle controversie civili o penali all’interno del proprio circondario (che corrisponde quasi sempre con il territorio di una Provincia, salva l’esistenza di sezioni staccate). È il tradizionale baricentro della giurisdizione ordinaria. In merito alle competenze in materia civile, peraltro, il Tribunale ha sezioni specializzate (ad esempio, in materia di imprese; in materia di lavoro; in materia di immigrazione e protezione internazionale). E va anche detto che presso la sede della Corte d’appello è istituito un Tribunale per i minorenni, che è un organo collegiale specializzato, composto da giudici professionali e integrato dalla partecipazione di esperti, e ha competenze di primo grado circa una vasta ed eterogenea serie di fattispecie (civili e penali) relative a soggetti che non abbiano compiuto i diciotto anni.
La giurisdizione
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Alla Corte d’assise – che, come si è detto, è organo collegiale; essa ha sede, spesso, nei capoluoghi delle Province – sono affidati i giudizi relativi alla commissione di taluni gravi reati, capaci di offendere in modo peculiare la comune sensibilità della collettività (v. art. 5 c.p.p., che fornisce un elenco di tali reati, fra i quali l’esempio più classico è l’omicidio). In grado d’appello (o secondo grado), operano il Tribunale (nei confronti delle sentenze del Giudice di pace), la Corte d’appello (nei confronti delle sentenze del Tribunale e, con apposite sezioni specializzate, anche delle sentenze del Tribunale per i minorenni) e la Corte d’assise d’appello (nei confronti delle sentenze della Corte d’assise; è organo che ha sempre la medesima, e già vista, composizione mista). Corte d’appello e Corte d’assise d’appello sono sempre organi collegiali. In linea di massima, il distretto della Corte d’appello (che è divisa in sezioni di almeno tre giudici) è regionale (ma ci sono Regioni in cui vi è più di una Corte). Il “grado”, in questo contesto, non implica la sussistenza di un rapporto gerarchico; meglio, la gerarchia di cui esso è indice è esclusivamente di tipo funzionale: serve, cioè, ad individuare l’organo giudiziario cui è potenzialmente rimessa una nuova decisione della controversia (ossia, una nuova decisione nel merito o, come si dice, un giudizio rinnovatorio), se ciò venga sollecitato dalle parti del giudizio di primo grado (che, per l’appunto, possono proporre appello entro un termine definito e ottenere, così, un nuovo giudizio, che sarà deciso nei soli confini delle doglianze che essi intendano illustrare contro la sentenza: vale, infatti, il principio tantum devolutum quantum appellatum). Le sentenze pronunciate dai giudici dell’appello possono essere poi impugnate con apposito ricorso di fronte alla Suprema Corte di cassazione (che ha sede a Roma). Il ricorso per cassazione – per il quale occorre essere rappresentati da un avvocato iscritto all’albo per il patrocinio dinanzi alle giurisdizioni superiori – non costituisce un terzo grado di giurisdizione: la Corte di cassazione non può, infatti, decidere la causa con la stessa ampiezza di poteri con cui la decide il giudice di secondo grado (vale a dire, non può decidere nel merito); alla Cassazione è rimesso solo il compito – peraltro assai importante – di garantire «l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni» (art. 65, co. 1, r.d. n. 12/1941). È la c.d. “funzione nomofilattica”, che configura, dunque, il ricorso che le parti di un giudizio possono fare avverso le sentenze di appello come rimedio agli errori di diritto (v. art. 360 c.p.c., che individua i “vizi di legittimità” che possono formare oggetto del ricorso). Se la Corte accoglie il ricorso, annulla (“cassa”) il provvedimento impugnato, con o senza rinvio degli
Giudici d’appello
Ruolo della Corte di cassazione
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Ruolo della magistratura requirente
Capitolo IX
atti al giudice di merito per un nuovo giudizio. Nel primo caso, il giudice di rinvio deve attenersi strettamente al principio di diritto affermato nella sentenza della Cassazione e applicarlo nella nuova sentenza che è tenuto a emanare. Su questioni suscettibili di alimentare contrasti giurisprudenziali o che riguardano un’interpretazione del diritto già controversa possono essere chiamate a pronunciarsi le Sezioni Unite della Cassazione (che è comunque competente sulle questioni concernenti l’individuazione della giurisdizione, ossia quando c’è discordia tra le parti circa l’individuazione del giudice – ordinario o speciale: v. subito infra – che deve decidere la causa). Se questa è, quanto alle funzioni giudicanti, la normale struttura della giurisdizione ordinaria, è bene segnalare, in primo luogo, che esistono pronunce che possono essere adottate in primo e unico grado, ma che pure possono essere impugnate per cassazione; e che sempre alla Corte di cassazione viene garantito sia un accesso per saltum (per l’impugnazione, cioè, di sentenze di Tribunale, purché ci sia l’accordo delle parti), sia un accesso diretto per l’impugnazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali restrittivi della libertà personale. In secondo luogo, occorre anche sottolineare che nella trama organizzativa così descritta operano anche “giudici” che si occupano di fattispecie particolari, come il Giudice tutelare (che è attivo in ogni sede di Tribunale e si occupa di proteggere gli interessi di categorie di soggetti deboli, svolgendo funzioni di c.d. “volontaria giurisdizione”, ossia funzioni sostanzialmente amministrative, ma esprimentesi nella forma di un procedimento giudiziario in camera di consiglio) o la Magistratura di sorveglianza (che è composta da un Magistrato di sorveglianza e da un Tribunale di sorveglianza, che si occupano di vigilare su singoli snodi dell’esecuzione delle pene e sono organizzati su base pluricircondariale). Quanto, invece, alle funzioni requirenti – dunque alla funzione dello svolgimento della pubblica accusa nella giurisdizione penale – presso il Tribunale, la Corte d’appello e la Corte di cassazione è istituita una Procura della Repubblica, ossia l’ufficio che riunisce i pubblici ministeri che vi operano (assieme ai loro sostituti e ai procuratori aggiunti). Mentre le Procure istituite presso la Corte d’appello e la Corte di cassazione sono Procure generali, i pubblici ministeri operanti presso la Procura istituita in ogni Tribunale svolgono le loro funzioni anche con riguardo alla competenza penale del Giudice di Pace e con riferimento alla giurisdizione del Tribunale dei minorenni. La Procura istituita presso il Tribunale che ha sede nel capoluogo di Provincia in cui vi è la Corte d’appello ha competenze peculiari per quanto riguarda i reati di stampo mafioso e, come tale, si avvale di un ufficio specifico, ossia di una Direzione distrettuale antimafia, di cui di regola fanno parte magistrati incar-
La giurisdizione
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dinati nella Direzione nazionale antimafia. Quest’ultima non va confusa con la Direzione investigativa antimafia (DIA), che opera presso il Ministero dell’Interno. Al di là dei molteplici uffici giudiziari che connotano la giurisdizione ordinaria, esistono anche una serie di giurisdizioni speciali, quali quella amministrativa, quella contabile, quella tributaria, quella militare e quella rientrante nelle attribuzioni del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche. Si tratta, in sostanza, di un complesso reticolo di organi giudiziari cui è demandata la risoluzione di specifiche tipologie di controversie, facendosi in tal modo eccezione alla tendenziale generalità della giurisdizione ordinaria. Per quanto concerne la giurisdizione amministrativa, si è già visto (Cap. VIII, par. 5) che essa si occupa della tutela delle situazioni giuridiche soggettive qualificabili in termini di interesse legittimo, nonché, in particolari materie stabilite dalla legge, anche della tutela dei diritti soggettivi. In primo grado, giudicano i Tribunali amministrativi regionali, che hanno sede in ogni capoluogo di Regione (anche se vi sono casi in cui operano Sezioni staccate, e altri ancora in cui queste Sezioni sono configurate come “autonome”: è così per il Trentino-Alto Adige/Südtirol, che ha un Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa, con una sede a Trento e una a Bolzano). In grado d’appello è competente il Consiglio di Stato (con le sue Sezioni giurisdizionali; è trattato come una Sezione anche il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, che decide in appello sull’impugnazione delle sentenze dei Tribunali amministrativi regionali della Sicilia, che hanno sede a Palermo e Catania; il collegio che giudica in appello contro le sentenze del Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Bolzano deve avere al suo interno un consigliere appartenente al gruppo linguistico tedesco della Provincia di Bolzano). Una funzione simile a quella nomofilattica svolta dalla Cassazione nell’ambito della giurisdizione ordinaria è assegnata all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, cui possono essere rimesse, dalle singole Sezioni del Consiglio medesimo o dal suo Presidente, le questioni interpretative su cui possono insorgere contrasti giurisprudenziali o di particolare importanza. Contro le pronunce del Consiglio di Stato è possibile proporre ricorso per cassazione, ma solo per motivi inerenti alla giurisdizione (dunque, soprattutto, per dolersi dell’errata individuazione della giurisdizione amministrativa). Infine, come già illustrato (v. sempre supra, Cap. VIII, par. 5), il Consiglio di Stato, nell’esercizio delle sue funzioni consultive, è anche l’organo cui compete la sostanziale decisione del ricorso straordinario al Capo dello Stato (rimedio alternativo a quello giurisdizionale).
Giurisdizioni speciali
TAR e Consiglio di Stato
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Giudici militari
TSAP
Capitolo IX
La giurisdizione contabile pertiene alla Corte dei conti, che è chiamata a dirimere le liti in materia pensionistica e quelle relative alla responsabilità amministrativo-contabile. In primo grado, giudicano le Sezioni giurisdizionali istituite nel capoluogo di ogni Regione; in appello, invece, sono competenti le Sezioni d’appello che hanno sede a Roma. Presso la Corte sono istituite anche specifiche Procure, con il compito di promuovere le azioni di conto e di responsabilità nei confronti dei funzionari pubblici. Anche presso la Corte dei conti operano delle Sezioni Riunite (che hanno funzioni analoghe a quelle dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato); ed anche contro le sentenze della Corte dei conti è ammesso il ricorso per cassazione per soli motivi inerenti alla giurisdizione. La giurisdizione tributaria – che riguarda tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati – è diversamente articolata: in primo grado, sono competenti le Corti di giustizia tributaria provinciali; in secondo grado, quelle regionali. Esiste, poi, la possibilità del ricorso per cassazione, che in tal caso, però, è analogo a quello del pari rimedio attivabile nella giurisdizione ordinaria (e infatti, all’interno della Suprema Corte, esiste una apposita Sezione tributaria). Circa la giurisdizione militare (che è anch’essa ordinata su due gradi – Tribunale militare; Corte militare d’appello – ed è altresì dotata di Procure militari, con le stesse funzioni delle Procure nella giurisdizione ordinaria, e di una specifica Magistratura militare di sorveglianza), essa si occupa dei reati commessi dagli appartenenti alle forze armate (in Italia e all’estero: in quest’ultimo caso sono competenti il Tribunale e la Procura militari di Roma). La peculiarità degli organi giudiziari in esame sta nel fatto che i collegi giudicanti hanno una composizione mista (in parte si tratta di giudici professionali, in parte di appartenenti alle forze armate). Molto singolare è, infine, lo statuto giuridico del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche (TSAP). Esso ha sede a Roma e opera, innanzitutto, come giudice d’appello nei confronti delle sentenze degli otto Tribunali Regionali delle Acque Pubbliche aventi sede nelle Corti d’appello di Torino, Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e Cagliari. A tale circuito di organi giudiziari – che hanno una composizione mista, costituita sia da giudici professionali, sia da soggetti esperti estranei all’amministrazione della giustizia – compete la tutela dei diritti soggettivi in specifiche materie definite dalla legge (ad esempio, quelle sulla demanialità delle acque, sui limiti dei corsi o bacini d’acqua, o dei loro alvei e sponde, o quelle aventi ad oggetto qualunque diritto relativo alle derivazioni e utilizzazioni di acqua pubblica). Oltre a ciò, però, il TSAP ha competenza, in primo ed unico grado, anche relativamente alla tutela degli interessi legittimi avverso provvedimenti adottati dalle amministrazioni pubbliche in materia di acque pubbliche.
La giurisdizione
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A chiusura di questa panoramica, è indispensabile rammentare che non fa parte della giurisdizione ordinaria, né è configurabile quale organo giudiziario dotato di una giurisdizione speciale, la Corte costituzionale. Come si vedrà (cfr. infra, Cap. X), essa è sì un giudice, con proprie, specifiche attribuzioni e con una fisionomia altrettanto originale, anche in merito alla sua composizione; ed è ben vero anche che tali funzioni, in buona parte, sono anche connesse a quelle svolte dai giudici finora nominati. Nonostante ciò, non fa parte del sistema giudiziario e il processo che vi si tiene dinanzi ha regole e principi che, se da un lato seguono alcuni tipici elementi strutturali di talune tipologie di giudizio in senso proprio, dall’altro lato risentono degli oggetti delle controversie che è chiamata istituzionalmente a risolvere.
3. I principi costituzionali sulla giurisdizione: un’introduzione L’architrave di tutta la disciplina che la Costituzione dedica alla magistratura tout court – quindi al potere giudiziario nella sua interezza – è composto dalle due statuizioni che si collocano all’art. 101, co. 1 e 2, che aprono il Titolo IV della Carta, dedicato alla «Magistratura», e che così recitano: «La giustizia è amministrata in nome del popolo»; «I giudici sono soggetti soltanto alla legge». Sono disposizioni tra loro connesse, ed è in questo rapporto che vanno intese. Può essere agevole muovere dalla seconda statuizione: «I giudici sono soggetti soltanto alla legge». Essa ha molti significati: è il luogo di emersione più chiaro del paradigma dello Stato di diritto; ed esprime al contempo l’idea che la funzione giurisdizionale non possa essere improntata a parametri che non coincidano con quelli normativi. Da quest’ultimo punto di vista, la soggezione alla legge, se comporta senz’altro che i giudici non possono essere condizionati da istruzioni ricevute aliunde o dalla considerazione di criteri decisionali che non abbiano a che fare con l’ordinamento giuridico, non si esaurisce nella mera osservanza della legge in senso formale o delle fonti ad essa equiparate. Il termine “legge”, infatti, va inteso come riferito al “diritto”: alle regole e ai principi giuridici che il giudice può ricavare dall’ordinamento nel suo complesso. È una conclusione, questa, che si può argomentare in ragione di due diversi motivi. Da un lato, ai giudici cui si rivolge la disposizione costituzionale in commento è consentito sollevare dinanzi alla Corte costituzionale que-
Principi cardine della giurisdizione
Supremazia del diritto
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Ruolo dell’interpretazione
Capitolo IX
stioni di legittimità delle leggi e degli atti aventi forza di legge (art. 134 Cost.): sicché è chiaro che essi, a ben vedere, trovano nel parametro della norma costituzionale un riferimento ancor più forte, che per ciò solo non li limita a ciò che si può definire come legge in senso stretto e che, anzi, li vincola al rispetto di un quadro normativo più ampio, o “più forte”, in nome del quale i giudici medesimi possono anche contestare la validità delle norme derivanti da fonti primarie. Peraltro, anche il riferimento alla legittimità costituzionale si proietta ben oltre il tessuto testuale della Costituzione e dei precetti che da essa si possono trarre: la tecnica del c.d. “parametro interposto” di legittimità costituzionale impone al giudice di considerare anche fonti che la Costituzione riconosca capaci di operare in tal modo (si pensi, ad esempio, alle norme della Cedu come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, valutabili come criterio critico della “legge” nel contesto del rinvio alla necessità che essa rispetti gli «obblighi internazionali» ex art. 117, co. 1, Cost.). Né va dimenticato che, per effetto dell’integrazione del diritto nazionale con quello europeo, vi sono fonti che non sono “legge” nel senso tradizionale, hanno una provenienza eccentrica rispetto a quella del circuito politico-rappresentativo repubblicano e devono, però, essere osservate anche dai giudici dell’ordinamento (con norme che, se self executing, vanno applicate anche laddove contrastanti con la “legge”). Gli stessi giudici, del resto, possono rivolgersi con lo strumento del rinvio pregiudiziale (e, se di ultima istanza, sono tenuti a farlo) alla Corte di giustizia UE (art. 267 TFUE) per ottenere pronunce sull’interpretazione dei Trattati e/o sulla validità e l’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione europea. Da un altro lato, poi, la soggezione alla “legge” implica lo svolgimento dell’attività interpretativa, che, anche dinanzi alla legge in senso formale, non può mai risolversi in un puro automatismo, secondo scansioni meccaniche. Essa esige, piuttosto, l’effettuazione di valutazioni della più diversa natura, con l’utilizzo di tecniche che – pur essendo state a loro volta oggetto di una regolazione normativa che impone di attribuire valenza primaria, o baricentrica che dir si voglia, all’interpretazione letterale (v. art. 12 Preleggi) – poggiano la loro effettività sull’accettazione di un presupposto ineludibile, ossia l’estrema variabilità e diversità delle fattispecie da considerare e ricondurre agli schemi propri del diritto positivo. È da ritenersi, certo, un’acquisizione irrinunciabile quella relativa al tendenziale concentrarsi nelle istituzioni rappresentative del potere di orientare in modo determinante l’individuazione delle regole da utilizzare per risolvere le controversie. Eppure, il modello del giudice “bocca della legge” – à la Montesquieu – che con sillogismi di geometrica pre-
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vedibilità riporta i casi individuali e concreti alle qualificazioni generali ed astratte svolte dalla “legge”, costituisce una sorta di “mito”: un’immagine, cioè, performativa, atta a ribadire la vigenza di una certa forma di stato, ma non idonea a restituire appieno la dinamica dell’attività interpretativa e decisionale del giudice, che, d’altra parte, è fatta anche da ponderazioni di fatto, da un’attività conoscitiva che si dirige alla realtà oltre che ai precetti normativi. Una cosa, tuttavia, è chiara: il “vincolo al diritto” impone decisioni razionalizzate, spiegate, logiche, controllabili; idonee, dunque, ad essere in tutto e per tutto atti di amministrazione di una giustizia che si manifesta come resa «in nome del popolo» (secondo quanto sottolinea il co. 2 dell’art. 101), e non in funzione di altre entità (o, meglio, di altri interessi – privati come pubblici – che non siano quelli dell’attuazione dell’ordinamento giuridico quale improntato al ruolo centrale dello Stato rappresentativo e delle sue fonti, dunque del diritto obbiettivo: in altre parole, i giudici non sono eletti dal popolo, né agiscono in nome e per conto di una maggioranza politica). In questo senso, si può anche notare che il dovere di amministrare la giustizia in nome del popolo è sia un rafforzativo – la necessaria “anticamera” valoriale, per così dire – del dovere di decidere solo secondo diritto, sia la testa di ponte di un altro, importantissimo, principio, quello in base al quale «[t]utti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati» (art. 111, co. 6). Ogni qual volta il giudice si esprime – lo faccia con l’atto che più lo identifica, ossia con la sentenza; lo faccia con atti dal valore più precario o temporaneo, quali il decreto o l’ordinanza – deve far sì che si comprenda che ha agito solo secondo diritto e che, quindi, ha operato in nome del popolo, nel senso anzidetto (e non, ad esempio, in nome di una propria convinzione soggettiva o di un interesse privato altrui o della maggioranza politica o del Governo o, ancora, di una fonte non riconosciuta dall’ordinamento). Il fatto che i principi di cui all’art. 101 Cost. siano concepibili come passepartout per la restante disciplina costituzionale della funzione giurisdizionale permette di notare altri “nessi” con ulteriori principi, affermati in diverse disposizioni. A ben vedere, infatti, sono i vincoli di questa disposizione costituzionale a esigere, strutturalmente, che sia garantita l’indipendenza del giudice (art. 104, co. 1; art. 108, co. 1), ma anche che esso debba essere terzo e imparziale (art. 111, co. 2). I principi di indipendenza e imparzialità richiedono alcune precisazioni. Innanzitutto non vanno confusi. L’indipendenza riguarda soprattutto la non riferibilità dell’organo giudicante ad altri poteri o ad altri centri di influenza. Sul punto va subito
Controllabilità delle decisioni
Indipendenza e imparzialità del giudice
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Capitolo IX
detto che l’indipendenza non si misura soltanto verso l’esterno, ma vale anche verso l’interno del sistema giudiziario, tanto che ogni giudice, nella sua soggezione al diritto, esprime le proprie decisioni senza vincoli nei confronti di altri giudici (come si vedrà – Cap. X – è a questa peculiarità che si deve il fatto che ogni giudice sia considerabile come potere dello Stato ai fini della disciplina sui conflitti di attribuzione che possono essere attivati davanti alla Corte costituzionale). Anche per questo, come abbiamo visto supra, tra gli organi giudicanti di primo e di secondo grado non si può parlare di gerarchia in senso proprio, ma – al più – solo di un rapporto di gerarchia funzionale. L’imparzialità, invece, è più collegata all’equidistanza che il giudice deve tenere nei confronti delle parti del giudizio o, meglio ancora, delle posizioni che esse rappresentano e degli interessi che vi sono sottesi. L’indipendenza, quindi, viene soddisfatta, prima di tutto, imponendo criteri di selezione, di nomina e di carriera, per i singoli magistrati, che siano il più possibile impermeabili a condizionamenti da parte di altre istituzioni e che si giustifichino secondo parametri tecnico-professionali. All’imparzialità si giunge obbligando il giudice ad astenersi laddove sussistano motivi per immaginare una qualche vicinanza con una delle parti, ma anche ad osservare scrupolosamente la disciplina sui diritti delle parti stesse e sul contraddittorio che ad esse dev’essere sempre garantito. Se ciò è corretto, si comprende che i principi ora illustrati e gli istituti che ne sono declinazione restituiscono il senso della disciplina che la Costituzione detta allorché regola la dimensione istituzionale ed organica della magistratura (in primis quella ordinaria) e i rapporti tra le diverse giurisdizioni (dunque una parte “organizzativa” della giurisdizione: artt. 102-110), ma anche quando pone alla giurisdizione (tutta) il modello processuale e un certo tipo (uno standard) di tutela quali forme principali della propria attività (dunque una parte “dinamica” della giurisdizione: artt. 111-113).
4. I principi sull’organizzazione: i magistrati ordinari, il Consiglio Superiore della Magistratura, le magistrature speciali Un presidio irrinunciabile a che i giudici siano sottoposti al solo “vincolo al diritto” consiste nella garanzia di indipendenza, che per essere realmente tale dev’essere sia istituzionale, propria cioè della giurisdizione nella sua realtà di corpo organico, sia del singolo magistrato chiamato a svolgere la funzione giurisdizionale.
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In questa prospettiva, il dispositivo specifico che l’Assemblea Costituente ha elaborato – e che è memore dei radicali condizionamenti che, viceversa, erano stati introdotti nell’ordinamento giudiziario di matrice fascista – consiste in un intreccio di due opzioni fondamentali, che operano formalmente su piani diversi e che, tuttavia, sono tra loro sinergiche. Si tratta, per un verso, della scelta di affidare tendenzialmente l’esercizio di tutta la funzione giurisdizionale a «magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario» (art. 102, co. 1); per altro verso, della concezione della magistratura come «ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (art. 104, co. 1). La prima opzione colloca la giurisdizione ordinaria al centro del sistema giudiziario e conduce, così, la Costituzione ad affermare, coerentemente, il divieto di istituzione di giudici speciali e il divieto di istituzione di giudici straordinari (art. 102, co. 2, che contestualmente ammette la possibilità che siano istituite «presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura»: abbiamo già constatato, nel paragrafo precedente, che casi di sezioni specializzate sono ben presenti nel quadro del sistema giudiziario). Il divieto di giudici speciali è assai interessante, perché la sua interpretazione consente l’approfondimento del tema del rapporto tra giurisdizione ordinaria e giurisdizioni speciali, quali già richiamate, sia pur brevemente, nell’illustrazione del quadro vigente del sistema giudiziario. L’affermazione di questo divieto, da un lato, è correlativo in senso stretto dell’affermazione del ruolo centrale della magistratura ordinaria e, con essa, della giurisdizione ordinaria: è, infatti, la traccia più forte, nella trama normativa della Costituzione, dell’accoglimento di quell’idea – molto sostenuta da Piero Calamandrei, tra i Costituenti più autorevoli, oltre che illustre studioso del processo civile – per cui si sarebbe dovuto statuire espressamente, nel rinnovato ordinamento repubblicano, il c.d. “principio dell’unità della giurisdizione”. Si tratta di un principio a tenore del quale unica è la giurisdizione perché unico dev’essere il modello della tutela giurisdizionale cui i soggetti dell’ordinamento hanno diritto, specie a mente di quanto stabilisce l’art. 24 Cost., che, come si vedrà al par. 5, garantisce il diritto di azione sia ai titolari di diritti soggettivi, sia ai titolari di interessi legittimi. Dall’altro lato, però, il divieto di giudici speciali va coordinato con la testuale sopravvivenza del giudice amministrativo (artt. 100, 103, 111, 125, 113), con la disciplina della Corte dei conti (artt. 100, 103, 111), con l’ammissione di una giustizia militare (art. 103) e, più di tutto, con la formulazione esplicita della VI disp. trans. fin.: il co. 1 di tale articolo prevedeva che «[e]ntro cinque anni dall’entrata in vigore della Costitu-
Centralità della giurisdizione ordinaria
Divieto di (nuovi) giudici speciali
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Rapporto tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa
Capitolo IX
zione» si procedesse «alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e dei tribunali militari». A tali indici positivi va aggiunto anche l’art. 108, co. 1, nella parte in cui (co. 2) rinvia alla legge per la necessaria garanzia circa «l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia». Di fronte a questi espressi riconoscimenti sul mantenimento di alcune giurisdizioni speciali è difficile accogliere la lettura che valuta come per pienamente conclamato il principio dell’unità della giurisdizione. In tal modo, piuttosto, la Costituzione dimostra di accogliere le tesi di quanti, in Assemblea Costituente (v. segnatamente le posizioni di altri importanti giuristi, quali Meuccio Ruini e Costantino Mortati), ritenevano che fosse indispensabile conservare alcune giurisdizioni speciali. Il significato di questa sopravvivenza, lungi dal potersi leggere come avallo della possibilità per altri poteri di condizionare l’esercizio della funzione giurisdizionale, dovrebbe meglio configurarsi quale apprestamento di una tutela ragionevolmente adeguata alla specificità delle fattispecie bisognose di protezione (secondo un’impostazione – non priva di valore sul piano della ricognizione storica – che aveva visto, soprattutto nella giurisdizione amministrativa, un percorso di graduale estensione della tutela giurisdizionale e, dunque, di progressiva affermazione della protezione degli interessi individuali e collettivi di fronte alle manifestazioni autoritative del potere pubblico). Ciò significa, in definitiva, sia che il divieto di giudici speciali va inteso come divieto di istituzione di nuovi giudici speciali, diversi da quelli che la Costituzione ha deciso di “salvare”, sia che le giurisdizioni speciali devono adeguarsi – dal punto di vista istituzionale come da quello del singolo organo giurisdizionale – al parametro di indipendenza che è comunque stabilito per la giurisdizione ordinaria. Queste acquisizioni, peraltro, non risolvono ogni problema. Un primo elemento critico riguarda il raccordo tra la giurisdizione ordinaria e le giurisdizioni speciali. È tema che, usualmente, emerge in modo molto visibile con riguardo al rapporto tra la giurisdizione ordinaria e quella amministrativa, il quale, di regola, segue le oscillazioni, non sempre così nitide, della dicotomia diritto soggettivo-interesse legittimo (su cui si è già detto supra, Cap. VIII, par. 5). Ma negli ultimi vent’anni questo rapporto si è fatto complesso anche in merito alla determinazione dell’ampiezza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo: più esattamente, delle «particolari materie» ex art. 103, co. 1, Cost., in cui quest’ultimo giudice può occuparsi, oltre che della tutela degli interessi legittimi, anche dei diritti soggettivi.
La giurisdizione
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Come si è ricordato (v. supra, Cap. VIII, par. 6), dal 1923 al 1998 la più significativa materia di giurisdizione esclusiva era rappresentata dal rapporto di pubblico impiego: ciò fino al momento in cui il legislatore, prendendo atto dell’intervenuta contrattualizzazione di quel rapporto, ne aveva devoluto la cognizione al giudice ordinario (e precisamente al giudice del lavoro) e aveva, tuttavia, demandato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la materia dei servizi pubblici, oltre a quelle dell’urbanistica e dell’edilizia (v., rispettivamente, artt. 33 e 34, d.lgs. n. 80/1998, nella loro originaria formulazione). Tale opzione era stata confermata nel 2000 (con legge n. 205), ma di lì a poco la Corte costituzionale ne ha dichiarato la parziale illegittimità (sent. n. 204/2004), chiarendo che il legislatore non è mai del tutto libero di scegliere l’ampiezza delle materie suscettibili di essere ricondotte nell’alveo della giurisdizione esclusiva: da un lato, «è escluso che la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo […], dall’altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo»; deve trattarsi, infatti, e come ricorda il tenore testuale dell’art. 103 Cost., di materie “particolari”, cosa che si può riscontrare – ha sostenuto il giudice costituzionale – soltanto allorché si discuta di fattispecie nelle quali la p.a. agisca come autorità (è così, allora, che la Corte ha “salvato” l’attribuzione delle materie sopra richiamate alla giurisdizione esclusiva, ma ne ha delimitato il confine alle ipotesi in cui vengano in gioco azioni amministrative che siano espressione di poteri in senso proprio). Vero è che, indipendentemente da queste precisazioni, il numero dei casi in cui il giudice amministrativo decide in sede di giurisdizione esclusiva è davvero molto esteso (v. art. 133 c.p.a.). Un altro elemento critico della disciplina delle giurisdizioni speciali è quello consistente nella sussistenza dei requisiti di indipendenza del giudice. Anche a tal proposito è “esemplare” il caso della giurisdizione amministrativa, nel cui seno sono contemplate ipotesi in cui i magistrati facenti parti degli organi giurisdizionali non sono reclutati con un concorso, ma sono di nomina “politica” (sia pur tra candidati dotati di idonea competenza tecnica). È ciò che accade, ad esempio, in ordine alla composizione dei collegi delle due sezioni (di Trento e Bolzano) del Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa (per la quale svolgono un ruolo importante le determinazioni dei due Consigli provinciali) ovvero del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana (per la quale interviene l’Assemblea regionale). Ma è anche ciò che si verifica per la nomina, da parte del Governo, di una quota parte (circa un quarto) dei Consiglieri di Stato. Sono, queste, ipotesi rispetto alle quali la dottrina ha
Indipendenza del giudice amministrativo
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Divieto di giudici straordinari
Autonomia e indipendenza della magistratura
Capitolo IX
costantemente espresso le proprie perplessità (dividendosi, poi, il campo delle opinioni tra quelle più radicalmente contrarie e quelle che hanno cercato di evidenziare, più che la provenienza soggettiva dell’atto di nomina, la necessità che si segua una specifica procedura e che i criteri di scelta siano il più possibile basati sul merito professionale). Ad ogni modo – e come meglio si vedrà infra (v. sempre par. 5) – anche per le giurisdizioni speciali vale lo standard di tutela che la Costituzione pone per qualsiasi atto di esercizio della tutela giurisdizionale. Ed è su questo piano, soprattutto, che, vuoi sul piano ricostruttivo e sistematico, vuoi su quello delle riforme, si è sviluppata un’evoluzione che ha cercato di realizzare, nella sostanza, gli obiettivi del principio di unità della giurisdizione. Rispetto a quanto esaminato finora, più semplice è la decifrazione del divieto di istituzione di giudici straordinari. La nozione di giudice straordinario non va sovrapposta a quella di giudice speciale: in altre parole, il giudice straordinario non è l’opposto del giudice ordinario. Un giudice straordinario è un giudice che viene istituito a posteriori per la risoluzione di una specifica, singola controversia, da decidersi pertanto da quel giudice e non da quello derivante dall’applicazione di quanto prevederebbero usualmente i criteri di competenza posti dall’ordinamento. Ci si può avvedere che, se tale è la definizione di giudice straordinario, il senso del divieto consiste tutto nella necessaria riaffermazione del principio di eguaglianza, che sarebbe altrimenti violato nell’ipotesi in cui si consentisse al potere pubblico di sottrarre la decisione di alcune cause dal normale circuito della giurisdizione a quello di un formula di giustizia pensata e costruita ad hoc (per non aggiungere, poi, che, ad essere violato sarebbe anche il principio di cui all’art. 25, co. 1, Cost., sul diritto di ciascuno al «giudice naturale precostituito per legge»). Ai fini della decifrazione dei presidi dell’indipendenza, non meno rilevante, come si è detto, è anche la definizione della magistratura in generale come ordine autonomo e indipendente. Questa opzione, difatti, una volta posta la giurisdizione ordinaria quale fulcro dell’esercizio della funzione giurisdizionale, ne afferma la separatezza sul piano organizzativo e, per così dire, di “governo”, aprendo, così, la strada all’introduzione delle essenziali garanzie istituzionali di tale organizzazione, ossia: I) del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), cui spettano «le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati» (art. 104, co. 2 ss.; ma anche la designazione all’ufficio di consiglieri di cassazione, per meriti
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insigni, di professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni d’esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori: art. 106, co. 2); II) del conseguenziale confinamento dell’Esecutivo, e in particolare dei poteri del Ministro della Giustizia, all’organizzazione e al funzionamento dei «servizi relativi alla giustizia» (art. 110; salvo il riconoscimento di un potere di iniziativa nel promovimento dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati: art. 107, co. 2). Quella del CSM può intendersi, a tutti gli effetti, come una materia tanto significativa, quanto assai “delicata” e di ricorrente attualità. La Costituzione lo concepisce come un organo costituzionale vero e proprio, al quale affida il reclutamento dei magistrati e lo sviluppo effettivo del loro status giuridico e lavorativo. Si prevede che esso sia formato: dal Presidente della Repubblica, che lo presiede; dal Presidente e dal Procuratore generale della Corte di cassazione; da altri trenta membri elettivi – che non possono restare in carica più di quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili – dei quali due terzi (venti) eletti dai magistrati ordinari e un terzo (dieci) dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo quindici anni di esercizio. È altresì previsto che il vicepresidente debba essere scelto tra i membri scelti dal Parlamento (che sono definiti come “membri laici”, per distinguerli dai c.d. “membri togati”). Come si può osservare, l’Assemblea Costituente ha configurato un organo a composizione mista, nel quale i magistrati sono la grande maggioranza, ma in cui vi sono anche soggetti che provengono da altri organi costituzionali, e che, allo stesso tempo, però, non possono considerarsi come riconducibili ad una sola “parte” politica: il Presidente della Repubblica, che ha sicuramente un ruolo di estrema garanzia, di arbitro a tutti gli effetti; i membri eletti dal Parlamento in seduta comune – da cui proviene anche il vicepresidente, al quale compete l’ordinaria “presidenza” dei lavori del CSM – che sono eletti con una maggioranza qualificata (pari ai tre quinti dei componenti dell’Assemblea). Sicché si comprende che, pur volendo che il “fulcro” dell’organo in esame sia animato dal “corpo” degli stessi giudici ordinari – in ciò consiste il caposaldo dell’autonomia e dell’indipendenza del medesimo “corpo” – la Costituzione ha anche voluto evitare che esso si istituisca come luogo “autoreferenziale”, ossia come sede istituzionale in cui i giudici vengano “governati” (per così dire) integralmente da se stessi (in questo senso, quindi, il fatto che, anche nel dibattito pubblico, il CSM venga indicato come organo di “autogoverno” della magistratura è consuetudine assai impropria). La circostanza che la Costituzione stessa, all’art. 104,
Consiglio Superiore della Magistratura come organo costituzionale
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Elezione dei membri togati
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non qualifichi la magistratura come potere, bensì come «ordine», rafforza una tale conclusione. L’aspetto più complesso del processo di formazione del CSM – che è divenuto operativo solo a decorrere dalla legge n. 195/1958, che detta le norme sulla costituzione e sul funzionamento dell’organo, ed è stata, peraltro, più volte modificata – riguarda l’elezione della componente togata. Per molto tempo, infatti, l’elezione in questione – che la Costituzione stessa prevede debba avvenire tra i magistrati appartenenti alle diverse categorie della magistratura – si è data mediante un sistema che favoriva la presentazione di liste prodotte da vere e proprie “correnti”: vale a dire, da raggruppamenti di magistrati che si contendevano il consenso elettorale mediante la presentazione di un programma sul modo di concepire e rappresentare la magistratura stessa e l’esercizio della funzione giurisdizionale. Si trattava, sia pur secondo una traiettoria diversa da quella tipica delle formazioni partitiche, di un meccanismo che conduceva a “politicizzare” la composizione del CSM, creandosi, così, l’occasione che lo svolgimento delle importanti funzioni amministrative dell’organo finisse, di fatto, condizionato dall’adesione o meno dei destinatari di quelle funzioni alle correnti volta per volta determinanti. Attualmente il sistema elettorale opera mediante un regime parzialmente modificato, che, tuttavia, pur mutandone le dinamiche, non ha alterato il menzionato fenomeno della “politicizzazione”, se non altro per le frequenti dinamiche di cooperazione che si producono nella contiguità tra figure rappresentative della comunità dei magistrati ed esponenti della classe politica. In merito al concreto atteggiarsi del metodo di voto, vengono preliminarmente formati otto diversi collegi elettorali: a) uno nazionale, per l’elezione di due magistrati di legittimità; b) due territoriali, per l’elezione di cinque pubblici ministeri; c) quattro territoriali, per l’elezione di otto magistrati di merito; d) uno nazionale, per l’elezione di cinque magistrati di merito. L’elettorato attivo è riconosciuto a tutti i magistrati (con l’eccezione di coloro che siano stati sospesi ovvero degli uditori giudiziari, cioè dei vincitori di concorso che stanno effettuando l’apposito periodo di formazione, che non siano ancora titolari di funzioni). Dall’elettorato passivo sono esclusi, oltre a coloro che sono esclusi dall’elettorato attivo, anche chi non eserciti funzioni, chi non abbia ricevuto la terza valutazione di professionalità, chi abbia ricevuto una sanzione disciplinare più grave dell’ammonimento (salve alcune eccezioni), chi sia già stato parte del CSM di cui si deve rinnovare la composizione (e non siano ancora trascorsi quattro anni) o chi, sempre presso quel CSM, abbia prestato servi-
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zio nella Segreteria o nel Servizio studi, chi faccia parte (o ne abbia fatto parte negli ultimi quattro anni) del comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura) e, infine, chi non abbia almeno quattro anni di servizio prima del collocamento a riposo. Le elezioni devono essere convocate almeno novanta giorni prima del loro svolgimento ed entro i successivi venti giorni dalla convocazione vanno presentate le candidature: esse non possono che essere individuali (non sono più raccolte all’interno di una lista). La legge prevede anche che le candidature debbano raggiungere un certo numero minimo per ogni collegio e che, negli stessi collegi, ogni genere dev’essere rappresentato in misura non inferiore alla metà dei candidati effettivi: se ciò non accade, si procede mediante un’estrazione a sorte dei candidati, tra tutti coloro che sono eleggibili. È anche previsto che i candidati abbiano un termine per dichiarare il loro collegamento con altri candidati, dello stesso collegio o di altri. Superata una fase di controllo di regolarità e dei relativi requisiti di eleggibilità, le candidature vengono pubblicate e inviate a tutti i magistrati (oltre che pubblicate in tutte le sedi giudiziarie) almeno venti giorni prima delle votazioni. I seggi elettorali sono costituiti presso le sedi di Tribunale e ciascun elettore può votare nel seggio del Tribunale del luogo in cui ha sede il suo ufficio. Precisamente, ogni elettore riceve tre schede – una per ogni collegio di cui alle lett. a), b) e c) – e per ciascuna di esse può esprimere un solo voto. Circa l’individuazione degli eletti in quei collegi, si considerano tali coloro che hanno ottenuto il maggior numero di voti in ciascun collegio. Per quanto riguarda, invece, il collegio di cui alla lett. d), i seggi vengono distribuiti proporzionalmente, seguendo l’ordine dei voti ottenuti dai singoli candidati o dai gruppi di candidati collegati tra loro cui corrispondono i maggiori resti, secondo un meccanismo particolarmente complesso (art. 27, legge n. 195/1958, cit.). A garanzia ulteriore dell’assoluta autonomia e indipendenza dell’organo sono stabilite alcune incompatibilità: tutti i membri del CSM non possono far parte del Parlamento, del Governo, della Corte costituzionale, dei Consigli regionali, provinciali e comunali, né possono svolgere attività proprie degli iscritti ad un partito politico; quelli laici, inoltre, nel periodo in cui sono in carica, non possono essere iscritti agli albi professionali, non possono essere titolari di imprese commerciali o far parte di consigli di amministrazione di società commerciali, ma neanche di altri organi gestionali (e, dove presenti, di collegi sindacali) di aziende sanitarie locali, comunità montane, consorzi, enti pubblici, banche e società commerciali. Occorre ricordare che il CSM non è un organo giurisdizionale, con l’eccezione, però, del caso in cui proceda all’adozione di sanzioni disciplinari nei confronti dei magistrati (per la commissione degli illeciti che sono
Incompatibilità
Sezione disciplinare del CSM
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Attività amministrativa del CSM
Assunzione e carriera dei magistrati ordinari
Capitolo IX
previsti dal d.lgs. n. 109/2006). Ciò avviene ad esito di una procedura che coinvolge una apposita sezione dell’organo e che si svolge nelle forme di una sorta di processo, in cui il ruolo di accusatore spetta al Procuratore generale presso la Corte di cassazione. Il dibattimento avviene in pubblica udienza; se i fatti oggetto dell’incolpazione non riguardano l’esercizio della funzione giudiziaria ovvero se ricorrono esigenze di tutela del diritto dei terzi o esigenze di tutela della credibilità della funzione giudiziaria con riferimento ai fatti contestati e all’ufficio che l’incolpato occupa, la sezione può disporre, su richiesta di una delle parti, che il dibattimento si svolga a porte chiuse; le deliberazioni sono prese a maggioranza dei voti (ma in caso di parità prevale la soluzione più favorevole all’incolpato). Anche in ragione dei caratteri di tale procedura – che ha i connotati di un giudizio svolto in contraddittorio – la decisione della sezione disciplinare assume una natura giudiziale: tanto che è impugnabile di fronte alle Sezioni Unite della Corte di cassazione, con un ricorso che ha effetto immediatamente sospensivo. Coerentemente con questa configurazione, la Sezione disciplinare può anche sollevare questioni di legittimità dinanzi alla Corte costituzionale. La restante attività del CSM è sostanzialmente amministrativa e per essa l’organo si suddivide in commissioni. Gli aspetti più delicati concernono la formazione delle tabelle attinenti alla composizione dell’organico dei singoli uffici giudiziari (è il CSM, infatti, che vi provvede ogni quattro anni, su proposta dei Presidenti di Corte d’appello, sentiti i consigli giudiziari), le valutazioni della professionalità dei magistrati, che possono incidere sulla carriera, e i procedimenti di nomina alla titolarità degli uffici direttivi degli organi giudiziari. L’assunzione e la carriera dei magistrati sono profili che meritano una precisazione, anche perché dicono molto sulle garanzie di indipendenza – ma anche sui presupposti, per così dire organici – dell’imparzialità e della terzietà – del singolo giudice. Esso, in linea di principio, essendo “vincolato solo al diritto” (come si è detto), è inamovibile (art. 107, co. 1, Cost.; salvo che acconsenta a mutare il proprio ruolo o che vi sia un provvedimento del CSM che ne determini il trasferimento o il passaggio di funzioni). In primo luogo, i magistrati ordinari sono assunti a seguito di un concorso pubblico nazionale, che oggi è tornato ad essere un concorso di primo grado (accessibile, cioè, direttamente da parte di chi ha un diploma di laurea in giurisprudenza) e che prevede prove scritte e prove orali volte a misurare le conoscenze e le competenze tecniche dei candidati. Terminato il concorso, e seconda del suo esito, i neoassunti, che entrano in servizio con la qualifica di uditori giudiziari, devono svolgere un periodo di tirocinio, al cui termine assumono le funzioni.
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Questa modalità di accesso vale sia per i magistrati che svolgono attività giudicanti, sia per quelli che prestano servizio come pubblici ministeri, e agli interessati è data anche la possibilità, nel corso del tempo, non solo di ottenere trasferimenti o promozioni, ma anche di passare da una funzione all’altra (anche se si tratta, in concreto, di un numero sempre minore di opzioni, che sono comunque condizionate dal trasferimento in un altro ufficio: la legge, peraltro, prevede che si possa mutare di funzione solo quattro volte nel corso della carriera, solo dopo aver svolto almeno cinque anni di esercizio in una stessa funzione e solo previo superamento di una specifica procedura di qualificazione professionale, all’esito della quale deve pronunciarsi il CSM, previo parere del consiglio giudiziario). La circostanza che magistrati giudicanti e pubblici ministeri conoscano un’unica, condivisa, modalità di selezione, unita alla possibilità reciproca di cambio di funzione, da ultimo segnalata, è profilo che è stato fatto oggetto di forti critiche e di reiterati tentativi di riforma, finalizzati all’introduzione di formule (di volta in volta assai diverse nelle proposte che si sono succedute) di “separazione delle carriere”: ciò nella duplice convinzione che l’appartenenza ad un unico “corpo” possa indebolire, specie nel processo penale, il senso di rigorosa equidistanza che vi dev’essere tra chi “decide” la causa e chi agisce nelle vesti di “accusatore”; e che funzione giudicante e funzione requirente richiedano un’expertise non comparabile e bisognosa, come tale, di un reclutamento e di un percorso formativo ad hoc. Va ribadito, ad ogni modo, che esistono anche soggetti che svolgono funzioni giurisdizionali “senza concorso”, come sono tutti i titolari di magistrature onorarie (v., ad esempio, il caso già visto del Giudice di pace o quello dei professori universitari o degli avvocati che, con specifici requisiti, possono essere inseriti nell’organico dei giudici della Corte di cassazione ovvero, ancora, dei magistrati onorari che svolgono le funzioni di pubblico ministero, come il vice procuratore onorario operante presso il Giudice di pace). Oltre a ciò, va anche ricordato che nell’ordinamento vigente, e per effetto di una riforma che si è realizzata tra gli anni ’60 e gli anni ’70 del secolo scorso (v. legge n. 570/1966 e legge n. 831/1973), carriera e retribuzione del magistrato ordinario seguono strade diverse: la seconda, infatti, è legata all’anzianità di servizio e alle valutazioni di professionalità, sicché, col passare degli anni, il magistrato può raggiungere i più alti livelli stipendiali pur continuando a svolgere funzioni “inferiori” (c.d. “progressione a ruoli aperti”). È parso, cioè, al legislatore, che svincolare la progressione economica dallo svolgimento di prove o concorsi interni possa meglio rafforzare l’indipendenza del singolo giudice, che potrebbe essere minata anche “dall’interno”, ossia da un elemento di materiale e
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Indipendenza del giudice nelle magistrature speciali
Capitolo IX
pratica deferenza, o se si vuole di conformismo, del magistrato di una Corte di primo grado rispetto agli orientamenti fatti propri dai magistrati delle Corti superiori, potenzialmente chiamati a valutarlo. In tal modo, la carriera vera e propria, quella che ha a che fare con l’assegnazione di certe sedi o di certe funzioni, è un dato che dipende dal CSM, anche se – a ben vedere – il sistema di valutazione (che è continua, perché avviene almeno ogni quattro anni) è articolato: sia perché poggia sulle valutazioni espresse, in ogni Corte d’appello, dai consigli giudiziari (che esprimono un motivato parere, sia pur non vincolante, su cui, poi, il CSM si basa per le sue decisioni; sono organi a composizione mista, in cui siedono anche rappresentanti dell’avvocatura e professori universitari: v. d.lgs. n. 25/2006), sia perché si fonda su specifici criteri (indipendenza, imparzialità ed equilibrio; capacità; impegno; diligenza; laboriosità) e si avvale dell’autorelazione del magistrato, del rapporto informativo del dirigente dell’ufficio presso cui egli presta servizio, delle statistiche sulla sua attività, ma anche di eventuali segnalazioni che provengano dall’Ordine degli Avvocati. Ancor più sensibile, poi, è l’attribuzione (per una durata massima di quattro anni) di funzioni direttive o semidirettive, dal momento che, ad esempio, il procedimento che porta all’individuazione del Presidente del Tribunale o del Procuratore generale della Corte d’appello, oltre ad una attenta istruttoria del CSM sul cursus honorum dei possibili candidati sul piano della valutazione di professionalità, richiede il “concerto” con il Ministro della Giustizia (ex art. 11, legge n. 195/1958, cit.). La ragione di questo coordinamento – che deve avvenire nel rispetto del principio di leale collaborazione e non può comunque comportare che l’organo politico si sostituisca al CSM o ne sindachi nel merito le valutazioni di più stretta competenza – sta nel fatto che, occupandosi il Ministro, come si è detto, di tutte le attività concernenti l’organizzazione dei servizi attinenti al funzionamento del sistema giudiziario, l’attività dei dirigenti degli uffici giudiziari ha come specifico oggetto proprio simili profili. Tutti i provvedimenti del CSM assumono la forma di decreti del Presidente della Repubblica e quelli attinenti alle sue funzioni amministrative sono impugnabili dinanzi al giudice amministrativo (art. 17, legge n. 195/1958, cit.). Il quadro delle garanzie organizzative operanti per la giurisdizione ordinaria non trova, nella Costituzione, una corrispondenza piena con l’assetto delle giurisdizioni speciali. Anche se (come anticipato) l’art. 108, co. 2, rinvia alla legge il compito di assicurare «l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali [cfr. art. 100 c. 3], del pubblico ministero presso di esse, e degli estranei che partecipano all’amministrazione della giustizia». In effetti, nel corso del tempo, il legislatore è intervenuto, dotando
La giurisdizione
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anche le giurisdizioni speciali di un sistema di garanzia istituzionale simile a quello valido per la giurisdizione ordinaria. Ad esempio, la giurisdizione amministrativa ha un suo Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa (v. legge n. 186/1982, nonché legge n. 205/2000), che si occupa, tra l’altro, della carriera dei magistrati amministrativi (assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, conferimento di uffici direttivi, etc.), delle piante organiche del personale operante presso i TAR, delle sanzioni disciplinari, del rilascio delle autorizzazioni a svolgere incarichi extra-giudiziari. Anche tale Consiglio ha una composizione mista: di esso fanno parte il Presidente del Consiglio di Stato, che lo presiede; quattro membri effettivi (e due supplenti) eletti da, e tra, i magistrati in servizio presso il Consiglio di Stato; sei membri effettivi (e due supplenti) eletti da, e tra, magistrati in servizio presso i TAR; quattro membri “laici”, eletti, rispettivamente, due dalla Camera dei deputati e due dal Senato, a maggioranza assoluta, tra i professori ordinari di università in materie giuridiche o gli avvocati con venti anni di esercizio professionale. I componenti elettivi durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili. Il Consiglio di presidenza elegge il proprio vicepresidente tra i componenti eletti dal Parlamento. Strutture (e attribuzioni) comparabili esistono anche per la giurisdizione contabile (v. l’apposito Consiglio di Presidenza, istituito dalla legge n. 117/1988, più volte modificata), per quella militare (v. il Consiglio per la Magistratura Militare, di cui alla legge n. 561/1988) e per quella tributaria (cfr. il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, regolato dal d.lgs. n. 545/1992), anche se variano – oltre al tipo di autorità coinvolte – numero e procedimenti di individuazione dei membri laici.
5. I principi sull’attività: il modello processuale e lo standard della tutela giurisdizionale Come si è chiarito (par. 3), a protezione del “vincolo al diritto” cui tutti i giudici – e le giurisdizioni – sono tenuti, la Costituzione pone anche un modello processuale, quello, cioè, del c.d. «giusto processo regolato dalla legge» (art. 111, co. 1), vale a dire un processo di cui si deve assicurare «la ragionevole durata» e che «si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale» (co. 2). Si tratta della disciplina della forma della funzione giurisdizionale e delle prerogative delle parti del processo: una disciplina che, in questa sua espressione testuale, è il frutto di una importante riforma costituzionale (avvenuta con legge cost. n. 1/1999 e stimolata dall’influsso, via via
Giusto processo e diritti delle parti
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Ragionevole durata del processo
Gratuito patrocinio
Capitolo IX
più forte, dei principi della Cedu), pur risultando corrispondente a contenuti che in larga parte la Corte costituzionale aveva ricavato da tempo sulla base dell’interpretazione dell’art. 24 Cost. È da quest’ultima disposizione che occorre muovere per comprendere la trama dell’assetto costituzionale sul contenuto della tutela giurisdizionale e, innanzitutto, sulla sua accessibilità. Perché proprio all’art. 24, co. 1 e 2, Cost. troviamo, nel contesto della garanzia dei diritti civili, la previsione sui diritti (inviolabili) di azione e di difesa: diritti che vengono espressamente riconosciuti a favore di qualsiasi situazione giuridica soggettiva riconosciuta dall’ordinamento (sia essa un diritto soggettivo, sia un interesse legittimo) e nel corso di qualsivoglia fase dell’attività che si svolge dinanzi agli organi giudiziari (il riferimento che viene esplicitamente fatto non solo alle fasi processuali in senso proprio – cautelari, di cognizione, di esecuzione – ma anche a quelle procedimentali, va inteso come un chiaro rinvio alle ipotesi in cui, nella materia penale, vi è il necessario intervento del giudice anche durante le indagini e, comunque, prima che vi sia un giudizio per l’accertamento del reato di cui si tratta). Garantire un generalizzato accesso alla giustizia è operazione, inoltre, che non può che postulare che la giustizia sia realmente tale, e quindi che sia pronta, sollecita, e che non possa rinviarsi ad un momento incerto, né che possa restare imbrigliata in malfunzionamenti organizzativi del sistema giudiziario: il tema della ragionevole durata dei processi (che in Italia integra vizio risalente, rispetto al quale la Corte EDU ha espresso più volte pronunce di condanna) è, pertanto, già intrinseco all’esigenza che si diano necessariamente risposte reali ai bisogni di tutela che i soggetti dell’ordinamento presentino al giudice. Vero è che, proprio per condizionamento internazionale (e per influsso, nella specie, della Cedu), il legislatore ha predisposto dei rimedi ai ritardi della giustizia, consentendo una possibilità di ristoro del danno da irragionevole durata del processo (e, segnatamente, introducendo un apposito rimedio che si può esercitare di fronte alla Corte d’appello, per ottenere un’equa riparazione: v. legge n. 89/2001, e succ. modiff.). Correlato all’effettività materiale dell’accesso alla giustizia (e alla difesa) è anche quanto l’art. 24, co. 3, Cost. prescrive circa la necessità che siano «assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione»: la legge, in questa direzione, prevede lo strumento del c.d. “gratuito patrocinio”, ossia la possibilità di accedere alla difesa tecnica – e quindi all’assistenza di un avvocato, il cui patrocinio, di regola, è obbligatorio – a spese dello Stato, per tutti coloro che non abbiano un reddito sufficiente. Al principio relativo al riconoscimento del diritto di azione si ricollegano anche le statuizioni (poste dall’art. 113 Cost.) che impediscono che
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vi possano essere, specie nei confronti dei pubblici poteri, delle “isole” di “non sindacato” da parte del giudice: è per quel riconoscimento, pertanto, che nei confronti dell’azione amministrativa «la tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti» (art. 113, co. 2); anche se è necessario prendere atto della circostanza che, anche per il legislatore (v. art. 7, c.p.a.), esisterebbero alcuni atti (i c.d. “atti politici”, o “atti adottati nell’esercizio del potere politico”) che sarebbero sottratti a qualsiasi controllo giurisdizionale (nonostante la perdurante e insistente critica dottrinale sulla dubbia persistenza di queste fattispecie, la giurisprudenza civile, amministrativa e della Corte costituzionale ne ha più volte affermato la configurabilità, pur in orientamenti oscillanti e tesi, in molte occasioni, ad operare interpretazioni restrittive: sono stati qualificati come atti politici, ad esempio, la decisione governativa di localizzare e realizzare una base militare ovvero quella di non avviare trattative con una confessione religiosa interessata a stipulare un’intesa ex art. 8 Cost. ovvero, ancora, quella di negare l’estradizione di un soggetto verso un altro Paese). Bisogna, d’altra parte, rilevare che il diritto alla tutela giurisdizionale, così come costituzionalmente statuito, oltre ad essere letto, dalla dottrina e dalla giurisprudenza nazionali, come diritto che non tollera ipotesi di giurisdizione c.d. “condizionata” (ossia casi in cui l’accesso al giudice è limitato in radice dall’obbligo di rivolgersi preliminarmente ad altre autorità o di seguire in via pregiudiziale procedure diverse), è in ogni caso rafforzato dall’influenza del diritto dell’Unione europea, cui sono riferibili i principi di pienezza ed effettività della tutela, che vanno così a presidiare ulteriormente, se non ad arricchire, il novero delle potenzialità insite nella disciplina di diritto interno. Si tratta di evoluzioni che hanno consentito la migliore e più facile affermazione di quelle letture, costituzionalmente orientate, che da molto tempo, proprio muovendo dalla parificazione operata dall’art. 24 tra diritti soggettivi e interessi legittimi (e ribadita dall’art. 113, co. 1), postulano che la tipologia delle tutele offerte dalla giurisdizione ordinaria ai diritti soggettivi debba essere praticabile anche dalla giurisdizione amministrativa (e dunque – come si è visto supra, Cap. VIII, par. 5 – che, come in effetti è accaduto, dapprima in via giurisprudenziale e poi in via legislativa, il titolare dell’interesse legittimo possa esercitare non solo il rimedio tradizionale consistente nell’annullamento di atti e provvedimenti illegittimi, ma possa altresì agire in giudizio chiedendo la condanna della p.a. e ottenendo sia forme di ristoro patrimoniale per i danni eventualmente subiti, sia soddisfazioni specifiche per la tutela delle proprie aspirazioni positive). Sul punto è bene rilevare che questi sviluppi non possono essere interpretati allo scopo di attribuire alla Corte di cassazione – che, come si è detto, opera quale giu-
Ambiguità degli atti politici
Pienezza ed effettività della tutela
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Significato dinamico del contraddittorio processuale
Principi e diritti del processo penale
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dice della giurisdizione anche nei confronti delle sentenze di Consiglio di Stato e Corte dei conti – la possibilità di imporre letture uniformi e cogenti sulla disciplina di istituti processuali delle giurisdizioni speciali (v. Corte cost. n. 6/2018). Come si può notare, poi, è dalla dialettica tra azione e difesa, protetta sia nella fase genetica di un processo, sia in quelle precedenti o successive, che si può già ricavare il diritto al contraddittorio. Questo è da intendersi come diritto alla mera difesa (dunque a illustrare le proprie argomentazioni) e a formulare eccezioni (a evocare, cioè, fatti estintivi o modificativi o comunque impeditivi di quelli posti dall’attore a fondamento della sua domanda), ma anche come diritto a contribuire attivamente all’istruttoria e come diritto ad esercitare ogni rimedio, anche attivo, che valga non solo a contrastare ulteriormente le posizioni avversarie, bensì a rivolgere contro di esse ulteriori pretese (si pensi, ad esempio, alla disciplina della domanda riconvenzionale nel processo civile – ossia della domanda con cui il convenuto può chiedere la condanna dell’attore, allargando così la cognizione del giudice – o del ricorso incidentale nel processo amministrativo). Più di tutto, peraltro, dalla posizione della menzionata dialettica si comprende anche che la Costituzione accoglie il principio dispositivo, per il quale il giudice è chiamato a pronunciarsi solo su ciò che gli viene richiesto e soltanto nei limiti di ciò che è stato provato ad opera delle parti. Nel processo penale – che anche nell’ordinamento italiano, a partire dall’introduzione del nuovo c.p.p. nel 1988 (d.p.r. n. 447), ha assunto i tratti caratterizzanti di un modello c.d. “accusatorio”: quindi di un modello in cui la prova si forma nel dibattimento, davanti all’organo giudicante, in contraddittorio tra accusa e difesa – le declinazioni della disciplina costituzionale sul ruolo, e sui diritti, delle parti sono ancor più significative. L’art. 111 Cost. contiene una sorta di specificazione codificante di questa disciplina (in particolare dal co. 3 al co. 5), laddove si sofferma con specifica attenzione su snodi che nella prassi si sono sempre rivelati complessi. Più precisamente, a quest’ultimo riguardo, la Costituzione stabilisce: a) che, pur restando salva la segretezza delle indagini, la persona che venga accusata di aver commesso un reato dev’essere «nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro
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mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo» (co. 3); b) che, essendo anche il processo penale «regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova», la colpevolezza dell’imputato «non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore» (così il co. 4; salvi i casi, che la legge deve stabilire, in cui la prova possa legittimamente formarsi fuori dal contraddittorio delle parti, «per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita»: co. 5). Le istanze che sono sottese a queste disposizioni – le quali, come è evidente, non si risolvono nell’affermazione di principi, ma entrano nel dettaglio, precisando la titolarità, in capo all’accusato, di veri e propri diritti, come species del genus del diritto alla difesa – si possono ritrovare nella volontà espressa di porre rimedio ad alcune “rotture” delle garanzie costituzionali. Si pensi, ad esempio, a quelle che si verificano nell’esplosione pre-processuale di processi mediatici (tanto irrilevanti sul piano formale quanto “esiziali” sul piano fattuale e della reputazione e dell’immagine dei soggetti coinvolti, che il più delle volte vengono a conoscenza degli addebiti rivolti nei loro confronti dalla lettura della stampa o dalla visione dei telegiornali o dalla consultazione delle agenzie giornalistiche); oppure a quelle che sono determinate dalla frequente sussistenza di “sacche” o “zone grigie” in cui il contraddittorio rischia di restare posposto ad altri interessi (sicché si cerca di permettere, all’indagato come all’imputato, il ricorso, il più diffuso possibile, alla tecnica del controesame, e segnatamente ogni qual volta si raccolga una “voce ostile” senza sottoporla a rilievi, contestazioni, domande, etc.). Sempre in materia penale non va trascurato l’art. 112 Cost., sul ruolo della pubblica accusa: esso, infatti, afferma il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale da parte del pubblico ministero, che è magistrato a tutti gli effetti, come si è detto, e che gode anch’esso delle specifiche garanzie di indipendenza che valgono per i giudici in quanto soggetti al “vincolo al diritto” (anche il p.m., del resto, è potere dello Stato ai sensi della disciplina sui conflitti di attribuzione, come accade per i giudici in senso proprio). “Agire in giudizio” in sede penale, dunque, è attività dovuta per i magistrati requirenti, che, in presenza di una notitia criminis, non possono non avviare le relative indagini, disponendo, a tal fine, di una vera e propria responsabilità (e potendosi avvalere, a tutti gli effetti, della polizia giudiziaria: v. art. 109 Cost.; occorre rammentare, però, che vi sono casi, previsti dalla legge, in cui l’azione penale non può essere esercitata se non lo chiede la persona offesa dal reato, con un atto specifico definito querela).
Ruolo del pubblico ministero
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Significato dei gradi di giurisdizione
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È, questa, materia oggetto di constanti discussioni, nel discorso pubblico come nelle riflessioni scientifiche: se è vero che l’obbligatorietà dell’azione penale rafforza l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, in particolare per ciò che riguarda l’esercizio eguale della giurisdizione, è altrettanto vero che, nella normale quotidianità dell’attività delle Procure, le notizie di reato sono moltissime, e che non tutte sono espressive di un disvalore comparabile, né suscitano il medesimo clamore; per non dire della duplice circostanza che, in definitiva, le autorità che si occupano della sicurezza pubblica, nell’organizzazione della loro comune attività, possono largamente condizionare l’effettività dell’azione delle Procure, e che, in ogni caso, l’organizzazione necessaria per far fronte ad ogni possibile reato esula di gran lunga le disponibilità di personale e di risorse su cui la giurisdizione può contare. Non sono mancate, quindi, le proposte di coloro che, prendendo atto che un’attività di selezione, o di scelta, è ineludibile, hanno proposto di andare al di là delle priorità che già sussistono nell’operare degli uffici requirenti e di stabilire in modo trasparente, e a tutti gli effetti, i criteri cui i pubblici ministeri debbano attenersi (un dispositivo in tal senso si trova anche nel corpo di alcune recenti riforme: v. art. 9, co. 1, lett. i), legge n. 134/2021). Nonostante il sistema giudiziario sia improntato, come si è illustrato, ad una gerarchia funzionale – che opera per gradi e che consente, per tale via, l’espressione del diritto di azione e di difesa anche attraverso la disciplina delle impugnazioni delle sentenze – la Costituzione non offre una garanzia specifica del c.d. “doppio grado” di giurisdizione, potendovi ben essere, come vi sono, ipotesi di giurisdizione in primo ed unico grado. In proposito, l’unica protezione che la Carta sembra affermare è quella che deriva, nella disciplina della giurisdizione amministrativa, dall’art. 125 Cost., che, rinviando all’istituzione in ogni Regione di organi di giustizia amministrativa «di primo grado» (quelli che oggi sono i TAR), postula indirettamente, e quanto meno, che, laddove detti organi esistono (come in effetti esistono), vi sia anche un “secondo grado” (che coincide con il Consiglio di Stato). Vero è, comunque, che l’art. 24, co. 4, Cost. prescrive che la legge determini «le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari», con una disposizione che – se non può leggersi come garanzia del sistema delle impugnazioni tout court – può sicuramente “coprire” alcune forme di gravame (valevoli talvolta anche contro sentenze passate in giudicato, allorché esse si rivelino inficiate, tra l’altro, da fraintendimenti indotti da comportamenti illeciti o da mancanze dovute a risultanze prima non conoscibili: v., ad esempio, l’istituto della revocazione in sede civile, all’art. 395 c.p.c., o quello della revisione in sede penale, agli artt. 629 ss. c.p.p.).
La giurisdizione
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6. La responsabilità del giudice Come si è ricordato (Cap. VIII, par. 7), l’art. 28 Cost. afferma il principio della responsabilità civile, penale e amministrativa per tutti i pubblici funzionari, precisando che la responsabilità civile si estende anche allo Stato o all’ente pubblico di appartenenza. Anche i magistrati, dunque, sono soggetti a questo regime. Ma se è vero che la vigenza generalizzata di tale principio può considerarsi come una conquista irrinunciabile – segno della piena statuizione della primazia dello Stato di diritto anche nei confronti di chi è longa manus della sovranità – è altrettanto vero che la profondità concreta dell’operatività dello stesso principio non è un dato indifferente. Già si è visto che la legge limita la responsabilità civile (e amministrativa) del singolo dipendente pubblico ai casi di dolo e colpa grave, e che ciò è dovuto alla circostanza di non condizionare eccessivamente con il “peso” del potenziale addebito risarcitorio il compimento di azioni di pubblico interesse. Così è anche per i giudici. D’altra parte, basta fare attenzione alle difficoltà che la realizzazione del “vincolo al diritto” pone sotto il profilo del carattere non meccanico dell’attività interpretativa: attività che spesso è caratterizzata dall’esigenza di sciogliere contrasti dottrinali e/o giurisprudenziali, tanto più aggravati in un sistema normativo sempre più articolato e complesso. Ciò premesso, la legge n. 117/1988 – il provvedimento normativo, più volte modificato, che ha introdotto e regolato la responsabilità civile dei magistrati – ha previsto che i comportamenti assunti nell’esercizio delle loro funzioni possano certamente dare luogo a responsabilità civile dello Stato, ma con tre caveat: I) che quei comportamenti devono essere posti in essere, per l’appunto, per dolo o colpa grave, ovvero (e questo è un primo dato di originalità dovuto alla specificità della materia) per «diniego di giustizia» (art. 2, co. 1); II) che in linea di massima «non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove» (art. 2, co. 2); III) che costituisce comunque colpa grave «la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l’affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione» (art. 2, co. 3).
Responsabilità civile dei magistrati
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Responsabilità disciplinare
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Per quanto concerne la definizione di quali siano i comportamenti integranti l’ipotesi del diniego di giustizia, si considera «il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria» (così l’art. 3, che prevede anche che, in mancanza di norme che stabiliscano un termine – che per casi particolari si può comunque prorogare – esso si considera di trenta giorni ovvero di cinque – in questo caso improrogabili – laddove l’omissione e il ritardo riguardino la libertà personale). Per ciò che riguarda, invece, la determinazione specifica di che cosa si debba intendere per violazione manifesta della legge o del diritto europeo, bisogna tener conto «del grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza», e, per il caso di violazione manifesta del diritto europeo, si deve tener conto anche «della mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale […], nonché del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia». La disciplina in esame prevede che l’azione risarcitoria contro lo Stato si possa promuovere nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri, in un termine di decadenza di tre anni e soltanto dopo che siano stati esauriti, da parte dell’interessato, tutti i rimedi previsti dall’ordinamento (e quindi quelli inerenti al regime delle impugnazioni) o (in assenza di mezzi di gravame) dopo che si sia esaurito il grado all’interno del quale si è verificato il danno (nel caso in cui si tratti di dolersi di un diniego di giustizia, il termine suddetto decorre dalla scadenza del termine entro il quale il magistrato avrebbe dovuto agire). Diversamente da quanto accadeva in passato, la legge non prevede più che la domanda risarcitoria sia soggetta ad un “filtro” preventivo volto a valutarne l’inammissibilità. Nel caso in cui la domanda risarcitoria venisse accolta, lo Stato, in tal modo condannato a riparare il danno, potrà, a sua volta, agire, entro due anni, nei confronti del magistrato ritenuto responsabile per dolo o negligenza inescusabile, attraverso un’azione di rivalsa (art. 7). Più in generale, comunque, il magistrato che abbia dato luogo ai comportamenti passibili di incorrere nella responsabilità civile dello Stato deve anche essere sottoposto a procedimento disciplinare (art. 9), nel corso del quale le limitazioni (su dolo e colpa grave) concernenti lo scrutinio sull’attività interpretativa non operano. Della responsabilità disciplinare quest’ultima fattispecie rappresenta un caso specifico. E di questa peculiare forma di responsabilità si è già
La giurisdizione
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detto al paragrafo precedente che essa rientra nella competenza di una specifica Sezione disciplinare del CSM. La legge, però, descrive puntualmente quali siano i casi in cui un magistrato vi può incorrere, e può trattarsi di comportamenti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni come di comportamenti extrafunzionali, ma comunque rilevanti perché considerati lesivi del prestigio di cui deve godere l’esercizio della giurisdizione. Del resto, e su di un piano più generale, occorre ricordare che la Costituzione prevede che i magistrati – come altri pubblici funzionari individuati dalla legge – possano “subire”, per così dire, restrizioni nell’esercizio delle loro libertà di cittadini, ad esempio al diritto di iscriversi ad un partito politico (v. art. 98, co. 3, che dispone ugualmente anche per «i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero»): la titolarità di compiti tanto cruciali, e della loro credibilità, richiede un “bilanciamento” rispetto alla garanzia di altri, pur rilevantissimi, interessi. Quanto all’individuazione delle fattispecie che danno luogo a responsabilità disciplinare, sono addebiti di carattere deontologico, volti a punire le “scorrettezze” del magistrato, secondo fattispecie che (per effetto della riforma operata dal d.lgs. n. 109/2006) sono tipizzate in una analitica elencazione di contegni illeciti (v. artt. 2 e 3, d.lgs. n. 109, cit.: ad esempio – oltre alle ipotesi che, come si è descritto, danno luogo a responsabilità civile o che derivano dalla commissione di reati (art. 4) – integrano illeciti disciplinari la consapevole inosservanza del dovere di astensione dalla causa in presenza delle ragioni di conflitto di interesse o di inopportunità previste dalla legge; l’ingiustificata interferenza nell’attività di un altro magistrato, l’indebito affidamento ad altri di attività rientranti nel proprio ufficio, il sottrarsi in modo abituale e ingiustificato all’attività di servizio, la divulgazione di atti ricoperti dal segreto o comunque di cui sia vietata la pubblicazione, la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in trattazione, etc.). La legge prevede anche quali possano essere le sanzioni: l’ammonimento; la censura; la perdita dell’anzianità; l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo; la sospensione dalle funzioni da tre mesi a due anni; la rimozione. È prevista anche la possibilità di adottare la sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio, che può essere deciso quando viene inflitta una sanzione più grave dell’ammonimento (anche se è obbligatorio in taluni casi). Va precisato che non sono punibili gli illeciti disciplinari di scarsa rilevanza. Detto ciò, resta da precisare che i magistrati sono anche soggetti a responsabilità amministrativa e a responsabilità penale.
384 Cenni sulla responsabilità amministrativa
Cenni sulla responsabilità penale
Capitolo IX
Nel primo caso, valgono le regole già esposte (v. Cap. VIII, par. 7), con l’evidente dato di eccentricità caratterizzato dal fatto che la disciplina poc’anzi esposta in tema di responsabilità civile, riguardando le fattispecie di danno indiretto cagionato dal singolo giudice allo Stato, è speciale rispetto alla disciplina generale della responsabilità per danno erariale come rimessa alla Corte dei conti. Ciò significa che, per i magistrati, quest’ultima opera solo per i danni diretti. Il caso della responsabilità penale, poi, non è così peculiare, perché i magistrati non solo rispondono dei reati propri che la legge preveda a loro carico (ad esempio, della c.d. corruzione in atti giudiziari ex art. 319ter c.p.), ma possono essere anche condannati per ogni altro tipo di reato. Le particolarità, semmai, non sono di matrice sostanziale, bensì di stampo processuale, dal momento che la legge, per evitare che un giudice venga “giudicato” dai suoi più stretti colleghi e nel luogo in cui egli presta servizio, dispone che il procedimento penale in cui il magistrato assume la qualifica di indagato, imputato, persona offesa o danneggiato dal reato è di competenza degli uffici giudiziari di un distretto di Corte d’appello diverso (v. art. 11 c.p.p.; la stessa regola vale per i giudizi civili per risarcimento dei danni conseguenti da reato).
CAPITOLO X
LA GIUSTIZIA COSTITUZIONALE SOMMARIO: 1. I modelli di giustizia costituzionale nel panorama comparato e in Italia. – 2. La Corte costituzionale: composizione, nomina e status di giudice costituzionale. – 3. Il giudizio in via incidentale. – 4. Il giudizio in via principale. – 5. Le decisioni della Corte costituzionale. – 6. Il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato. – 7. Il conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni e tra Regioni. – 8. Il referendum abrogativo e il giudizio di ammissibilità. – 9. Il giudizio sulla messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica.
1. I modelli di giustizia costituzionale nel panorama comparato e in Italia La giustizia costituzionale è il sistema di controllo giurisdizionale della conformità delle fonti primarie alla Costituzione. Assieme al procedimento di revisione costituzionale, è la principale garanzia della rigidità della Costituzione e della sua supremazia gerarchica sulle altre fonti. Possiamo individuare due modelli fondamentali di giustizia costituzionale, corrispondenti a due diversi modi di concepire il controllo di costituzionalità delle leggi: il controllo diffuso e il controllo accentrato. L’archetipo del controllo diffuso di costituzionalità è rinvenibile nell’ordinamento degli Stati Unit d’America. La Costituzione americana del 1787 non disciplina espressamente il controllo di costituzionalità delle leggi. Tuttavia, tale vulnus è stato colmato dalla giurisprudenza della Corte Suprema, vertice del sistema giudiziale federale, che ha dato vita al controllo diffuso di costituzionalità delle leggi. Il judicial review of legislation si caratterizza per l’attribuzione a ciascun giudice (e non a un organo ad hoc come la Corte costituzionale) del potere di disapplicazione di una legge laddove la si ritenga in contrasto con la Costituzione. Nello specifico, la Corte Suprema, presieduta dallo Chief Justice John Marshall, con la storica sentenza Marbury Vs. Madison del 1803 è giunta
Il controllo diffuso di costituzionalità
386
Effetti della disapplicazione e principio dello stare decisis
Il controllo accentrato di costituzionalità
Capitolo X
ad affermare il principio per cui la Costituzione, in quanto «fonte suprema, indisponibile ad emendamenti posti dalla legge ordinaria», si pone come higher law rispetto alle stesse leggi. Di conseguenza, una legge incostituzionale deve essere ritenuta void (quindi “non vincolante”) per le Corti chiamate ad applicarla. Sicché, laddove ciascun giudice degli Stati Uniti rilevi la non conformità di una legge alla Costituzione, allora sarà tenuto a disapplicare la legge ritenuta incostituzionale. Il controllo diffuso di costituzionalità delle leggi può porre il problema della disomogeneità interpretativa dei diversi giudici, col rischio che alcuni di essi ritengano incostituzionale una certa legge e la disapplichino e altri, invece, giungano a una soluzione opposta e, quindi, procedano alla sua applicazione. Infatti, la disapplicazione della legge, rilevata dal singolo giudice, produce effetti inter partes, limitatamente al caso deciso. La legge disapplicata, infatti, resta valida ed efficace, in quanto i giudici americani non possono annullare una legge con effetti erga omnes. In altri termini, nulla impedisce che la stessa legge disapplicata da un Tribunale di New York City venga successivamente applicata da un Tribunale di Chicago. Tuttavia, l’omogeneità dell’interpretazione delle leggi è comunque garantita negli Stati Uniti in base al principio dello stare decisis. Si tratta di un principio, di regola presente nei soli sistemi di common law e non in quelli di civil law, che postula l’autorità dei precedenti giudiziali. In altre parole, le sentenze pronunciate sono vincolanti per i giudici nella decisione di casi simili. Alla luce di quanto detto, dunque, nonostante gli effetti delle decisioni della Corte Suprema di disapplicare una certa legge incostituzionale siano “formalmente” inter partes, grazie alla combinazione con il principio del precedente vincolante tale decisione sulla disapplicazione giungerà ad avere progressivamente nel tempo un effetto “sostanzialmente” erga omnes, poiché vincolerà gli altri giudici a conformarsi ad essa. Diversamente dal sistema di giustizia costituzionale nordamericano, la Costituzione austriaca del 1920 ha previsto, per la prima volta, un modello di controllo di costituzionalità delle leggi di tipo accentrato che, in seguito, è stato recepito da numerose Costituzioni redatte nel XX secolo nell’Europa continentale. Si tratta di un sistema in cui il controllo di costituzionalità delle leggi, e il relativo annullamento di queste ultime se contrastanti con la Costituzione, è affidato ad un organo ad hoc, estraneo al circuito giurisdizionale (si pensi alla Corte costituzionale federale tedesca o al Consiglio costituzionale francese). Inoltre, a differenza del modello diffuso, il modello accentrato prevede l’attribuzione alle Corti costituzionali del potere di annullare le leggi, e non semplicemente di disapplicarle. L’annullamento, infatti, a differenza della disapplicazione, da una parte incide sulla validità, e non semplicemente sull’efficacia, e
La giustizia costituzionale
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dall’altra produce effetti erga omnes, ossia nei confronti di chiunque, e non semplicemente inter partes, ovvero tra le parti in giudizio. In altre parole, la legge invalida in quanto dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale non potrà più essere applicata né dai giudici né dalla pubblica amministrazione. Nell’ambito del modello di giustizia costituzionale di tipo accentrato, peraltro, a seconda dei soggetti legittimati a ricorrere alla Corte costituzionale si può distinguere il giudizio in via incidentale da quello in via principale. Si tratta di due modalità di adizione della Corte che non sono alternative tra loro, bensì possono coesistere, come accade ad esempio nel modello italiano. Ciò detto, il giudizio in via incidentale si caratterizza per il fatto che la questione di legittimità costituzionale sorge dinanzi a un’autorità giurisdizionale nel corso di un giudizio. Diversamente, invece, il giudizio in via principale prevede che la questione di legittimità costituzionale possa essere sollevata da determinati organi (ad esempio, nel modello italiano da Stato, Regioni e Province autonome) direttamente con ricorso alla Corte costituzionale. Da un punto di vista storico, la creazione della Corte costituzionale è l’esito di un dibattito politico e giuridico che vide come protagonisti due dei massimi teorici della Costituzione novecentesca: Hans Kelsen e Carl Schmitt. I due studiosi, in particolare, si interrogarono sull’individuazione di un organo o potere che potesse assurgere a “custode della Costituzione”, ossia che fosse in grado di garantire la posizione sovraordinata della Costituzione nella gerarchica delle fonti. Si tratta di un quesito che, come già visto, negli Stati Uniti era stato risolto nei primi dell’Ottocento dalla Corte Suprema con la sentenza Marbury Vs. Madison, che attribuì tale funzione alla magistratura. Schmitt, invece, ritenne che tale compito di garanzia della posizione sovraordinata della Costituzione dovesse essere affidato al Capo dello Stato. Kelsen, diversamente, con una posizione che poi ha prevalso nel dibattito sulla giustizia costituzionale, ritenne che il compito di garantire la prevalenza gerarchica della Costituzione (Grundnorm) dovesse essere attribuito a una giurisdizione speciale accentrata, ossia a una Corte costituzionale che avesse il potere di annullare le leggi incostituzionali in quanto confliggenti con la sovraordinata Costituzione. Tenuto conto dei due principali modelli di controllo di costituzionalità della legge trattati fino ad ora, vale a dire quello accentrato e quello diffuso, ulteriori caratteristiche contribuiscono a meglio definire in concreto i modelli di giustizia costituzionale presenti nei diversi ordinamenti. In particolare, si può distinguere tra sindacato preventivo e successivo e tra sindacato concreto e astratto. Il sindacato di legittimità costituzionale preventivo è tale in quanto
Il giudizio in via incidentale e il giudizio in via principale
Chi deve essere il custode della Costituzione?
388 Il sindacato di costituzionalità preventivo e successivo
Il sindacato di costituzionalità astratto e concreto
I caratteri del controllo di costituzionalità delle leggi italiano
Capitolo X
riguarda la legge prima che entri in vigore. Il sindacato successivo, invece, ha ad oggetto la legge dopo che è entrata in vigore. Il modello paradigmatico di giustizia costituzionale con sindacato accentrato e preventivo era rappresentato, fino al 2008, dalla Francia. Infatti, la Costituzione francese del 1958 prevedeva, in primo luogo, che solo alcuni soggetti legittimati (il Presidente della Repubblica, il Governo o una minoranza parlamentare) potessero adire l’organo di giustizia costituzionale, il Conseil constitutionnel; in secondo luogo, stabiliva che il ricorso al Conseil constitutionnel potesse avvenire esclusivamente in un momento antecedente rispetto all’entrata in vigore della legge: da ciò il carattere preventivo del sistema d’oltralpe. Il modello di giustizia costituzionale francese è stato successivamente riformato dalla legge cost. n. 2008-724, la quale ha affiancato al sindacato preventivo anche quello successivo, da attivarsi su istanza del Consiglio di Stato o della Corte di cassazione e volto a verificare la legittimità costituzionale delle leggi già in vigore (si veda l’art. 61-1 Cost. fr.). Il sindacato di costituzionalità, inoltre, può essere concreto, quando il dubbio sulla legittimità di una legge emerge in occasione della sua applicazione, oppure astratto, quando, invece, il dubbio sulla legittimità della legge viene in rilievo “di per sé”, indipendentemente dalla sua concreta applicazione. Il sistema di controllo della legittimità costituzionale delle fonti primarie vigente nell’ordinamento italiano si caratterizza per una combinazione dei suddetti modelli di giustizia costituzionale. Anzitutto, il modello di giustizia costituzionale accolto dalla Costituzione italiana è di tipo accentrato. Gli artt. 134 ss. Cost., infatti, istituiscono la Corte costituzionale quale organo a cui è riservato il compito di giudicare: a) sulla legittimità costituzionale delle leggi, e degli atti aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni (art. 134, co. 2, Cost.); b) sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli intercorrenti tra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni (art. 134, co. 3, Cost.); c) sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica per i reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione (art. 134, co. 4, Cost.); d) sull’ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo proposte ai sensi dell’art. 75 Cost. (art. 2, legge cost. n. 1/1953). In secondo luogo, il modello di sindacato di costituzionalità accolto nell’ordinamento italiano è di tipo successivo, quindi avente ad oggetto leggi o atti aventi forza di legge già entrati in vigore. Ad oggi, le uniche ipotesi derogatorie di sindacato preventivo, concernenti un atto non ancora entrato in vigore, sono previste con riferimento alla facoltà del Governo di impugnare gli Statuti regionali e la “legge statutaria” delle Regioni a statuto speciale.
La giustizia costituzionale
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In terzo e ultimo luogo, il modello di giustizia costituzionale dell’ordinamento italiano prevede sia il sindacato concreto sia quello astratto. Il primo è rinvenibile nel giudizio in via incidentale, dal momento che la questione di legittimità costituzionale emerge in occasione dell’applicazione concreta di una legge o un atto avente forza di legge (ovviamente nel corso di un procedimento a quo dinanzi a un’autorità giudiziaria). Il secondo, invece, è rinvenibile nel giudizio in via principale, poiché il dubbio sulla legittimità costituzionale degli atti normativi di rango primario dello Stato o delle Regioni viene in rilievo ex se, indipendentemente dalla loro concreta applicazione.
2. La Corte costituzionale: composizione, nomina e status di giudice costituzionale Ai sensi dell’art. 135, co. 1, Cost., la Corte costituzionale è composta da quindici giudici: un terzo sono nominati dal Presidente della Repubblica, un terzo dal Parlamento in seduta comune, un terzo dalle supreme magistrature, ordinaria ed amministrativa. La nomina di cinque giudici, dunque, è affidata, in funzione di garanzia, al Capo dello Stato, che provvede con decreto controfirmato dal Presidente del Consiglio (art. 1, legge n. 87/1953). Il potere di nomina presidenziale è pacificamente considerato un atto formalmente e sostanzialmente presidenziale: è il Presidente della Repubblica a scegliere, autonomamente, i cinque giudici costituzionali (v. supra, Cap. VI, par. 2.3). Altri cinque giudici sono nominati dal Parlamento in seduta comune, a scrutinio segreto, a maggioranza qualificata: 2/3 degli aventi diritto nelle prime tre votazioni; 3/5 degli aventi diritto a partire dalla quarta votazione. È quasi inevitabile, dunque, che si debba addivenire ad un’intesa che coinvolga non solamente le forze politiche che sostengono il Governo, ma anche quelle di opposizione necessarie per raggiungere le maggioranze richieste. Nella prassi costituzionale, fino ai primi anni ’90, i partiti riuscirono a trovare un accordo, in forza del quale dei cinque giudici due erano indicati dalla DC, uno dal PCI, uno dal PSI e uno a rotazione tra i partiti laici minori (PRI, PSDI, PLI). A partire dai primi anni ’90, in seguito alla scomparsa dei vecchi partiti tradizionali, le nuove formazioni politiche non sono riuscite a trovare una nuova convenzione stabilizzatrice. Di conseguenza, oggi accade non di rado che sia estremamente faticoso raggiungere le maggioranze qualificate prescritte per l’elezione dei giudici costituzionali di nomina parlamentare.
I giudici di nomina presidenziale
I giudici di nomina parlamentare
390 I giudici eletti dalle Magistrature I requisiti di eleggibilità
Capitolo X
I restanti cinque giudici sono eletti dai magistrati delle supreme magistrature e, in particolare: tre dalla Corte di cassazione, uno dal Consiglio di Stato, uno dalla Corte dei conti (art. 2, legge n. 87/1953). Ai sensi dell’art. 135, co. 2, Cost., possono essere nominati giudici della Corte costituzionale soltanto tecnici qualificati del diritto, con conseguente riduzione del novero di soggetti eleggibili da parte dei gruppi parlamentari. In particolare, si tratta di: 1) magistrati, anche a riposo, delle giurisdizioni superiori, ordinaria e amministrativa; 2) professori universitari ordinari in materie giuridiche; 3) avvocati, dopo venti anni di esercizio.
La durata del mandato
Il Presidente della Corte costituzionale
L’art. 135, co. 3, Cost. stabilisce che i giudici della Corte costituzionale sono nominati per nove anni, decorrenti per ciascuno di essi dal giorno del giuramento, e non possono essere rinominati. La durata del mandato, quasi doppia rispetto a quella della legislatura parlamentare, e la non rieleggibilità, consentono di garantire ai giudici della Corte un certo margine di neutralità da interessi politici e privati. L’obiettivo di garantire una effettiva autonomia e indipendenza dei giudici costituzionali è perseguito in modo diverso in altri ordinamenti giuridici. È emblematico il caso degli Stati Uniti, dove l’art. 3, sez. 1, della Costituzione del 1787, stabilisce che la carica di giudice della Corte Suprema è a vita. Tuttavia, la durata vitalizia dell’ufficio di giudice della Corte Suprema è controbilanciata, oltre che dalla facoltà di ciascuno di dimettersi, soprattutto dalla possibilità da parte del Senato (a maggioranza dei 2/3), su impeachment della Camera dei Rappresentanti, di rimuovere i giudici. Alla scadenza del mandato novennale, i giudici cessano dalla carica e dall’esercizio delle funzioni (art. 135, co. 4, Cost., così come introdotto dalla legge cost. n. 2/1967). Di conseguenza, ai giudici della Corte costituzionale non si applica, di regola, l’istituto della prorogatio, che consente al titolare dell’ufficio pubblico di continuare ad esercitare le funzioni fino al rinnovo dell’organo. L’unica eccezione, volta a garantire l’omogeneità e l’indipendenza del collegio penale, è prevista per i giudizi di accusa, nei quali «i giudici ordinari e aggregati che costituiscono il Collegio giudicante continuano a farne parte sino all’esaurimento del giudizio, anche se sia sopravvenuta la scadenza del loro incarico» (art. 26, co. 5, legge n. 20/1962; si veda anche l’art. 10 delle norme integrative sui giudizi d’accusa). La Corte elegge, tra i suoi componenti, un Presidente, che dura in carica per un triennio ed è rieleggibile, salva ovviamente la cessazione dalla caria di giudice costituzionale eventualmente intervenuta medio tempore (art. 135, co. 5, Cost.). L’elezione del Presidente avviene, con scrutinio segreto, a maggioranza assoluta dei componenti della Corte. Qualo-
La giustizia costituzionale
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ra non si riesca a raggiungere tale maggioranza, al terzo scrutinio si procede al ballottaggio tra i due giudici più eletti (art. 6, co. 1, legge n. 87/1953). Ciò detto, è importante sottolineare che è frequente, anche se non mancano eccezioni, che i giudici della Corte eleggano Presidente il giudice più anziano in carica. La ratio di tale prassi è quella di rendere il mandato presidenziale il più breve possibile, in modo tale da svalutare l’impronta “personalistica” di ciascun Presidente nella direzione dei lavori della Corte costituzionale. A proposito degli strumenti volti a esercitare la funzione di direzione della Corte costituzionale, spetta al Presidente: a) dirigere i lavori della Corte costituzionale; b) assegnare i ricorsi iscritti a ruolo ai singoli giudici relatori per l’istruttoria del ricorso; c) presiedere le udienze della Corte costituzionale; d) fissare il ruolo delle udienze e delle adunanze in camera di consiglio; e) esprimere per ultimo il voto decisivo in caso di parità di voti; f) sottoscrivere, assieme al giudice relatore, le sentenze e le ordinanze. Lo status dei giudici della Corte costituzionale si caratterizza per la presenza di un importante numero di istituti volti a garantirne l’autonomia e l’indipendenza. In particolare, essi sono: a) l’inamovibilità, per cui i giudici non possono essere rimossi o sospesi dal loro ufficio se non con una decisione della Corte stessa, assunta a maggioranza dei 2/3 dei componenti, e solo per sopravvenuta incapacità fisica o civile, ovvero per gravi mancanze nell’esercizio delle loro funzioni (si veda l’art. 3, legge cost. n. 1/1948 e l’art. 7, legge cost. n. 1/1953). A tale ultimo proposito, se il giudice costituzionale non esercita le sue funzioni per sei mesi decade dalla carica (art. 8, legge cost. n. 1/1953); b) l’insindacabilità e non perseguibilità per le opinioni e i voti espressi nell’esercizio delle funzioni (art. 5, legge cost. n. 1/1953); c) il divieto di limitazione della libertà personale, salvo autorizzazione della Corte stessa (art. 3, co. 2, legge cost. n. 1/1948); d) la retribuzione mensile, che la legge non può determinare in misura inferiore a quella del più alto magistrato della giurisdizione ordinaria (art. 6, legge cost. n. 1/1953); e) l’incompatibilità, in forza della quale l’ufficio di giudice costituzionale non è cumulabile con quello di parlamentare, di consigliere regionale, con l’esercizio della professione di avvocato e con altra carica e ufficio indicato dalla legge (art. 135, co. 6, Cost.; si veda anche l’art. 7, legge n. 87/1953).
Lo status di giudice costituzionale
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Capitolo X
Anche l’organo Corte costituzionale è titolare di molteplici garanzie volte ad assicurarne l’autonomia e l’indipendenza. Esse sono: a) la verifica dei requisiti soggettivi di ammissione dei propri componenti con deliberazione assunta a maggioranza assoluta (art. 2, legge cost. n. 2/1967); b) l’autonomia regolamentare: la Corte può disciplinare l’esercizio delle sue funzioni mediante un regolamento approvato a maggioranza assoluta (art. 14, co. 1, legge n. 87/1953); c) l’autonomia finanziaria e amministrativa: nei limiti di un fondo stanziato con legge del Parlamento, la Corte provvede alla gestione delle spese, dei servizi e degli uffici e su ogni questione connessa al rapporto d’impiego dei propri funzionari (art. 14, co. 2, legge n. 87/1953); d) all’autodichia, intesa quale competenza esclusiva della Corte a giudicare sui ricorsi dei suoi dipendenti (art. 14, co. 3, legge n. 87/1953); e) la tutela penale: gli artt. 289 e 290 c.p. tutelano, rispettivamente, l’attentato e il vilipendio contro la Corte costituzionale; f) l’inviolabilità della sede: nell’ambito del Palazzo della Consulta e di tutti i locali e spazi a disposizione della Corte, i poteri di polizia sono riservati alla Corte ed esercitati dal suo Presidente. Inoltre, la forza pubblica non può entrare nella sede della Corte se non per ordine del suo Presidente (artt. 1-3 Reg. gen. Corte cost.).
3. Il giudizio in via incidentale
Il giudice a quo
La legge cost. n. 1/1948 stabilisce le condizioni e le modalità di accesso davanti alla Corte costituzionale, prevendendo: a) il giudizio in via incidentale; b) il giudizio in via principale. Tale disciplina è integrata dagli artt. 23 ss. della legge n. 87/1953, che fissano, ai sensi dell’art. 137 Cost., i meccanismi processuali relativi ai due diversi giudizi. Nel giudizio in via incidentale la Corte può essere adita solamente da un giudice che, nel corso di un giudizio di qualunque tipo (penale, civile, amministrativo, tributario, etc.), dubiti della legittimità costituzionale di una legge, o di un atto avente forza di legge, dello Stato o delle Regioni. La prima questione da affrontare riguarda, dunque, i soggetti abilitati a sollevare la questione di legittimità costituzionale innanzi alla Corte. Sul punto, il richiamato art. 23 della legge n. 87/1953 attribuisce tale prerogativa «all’autorità giurisdizionale davanti alla quale verte il giudizio». Per poter adire la Corte, dunque, è necessario soddisfare due requisiti: uno di carattere soggettivo, cioè l’essere “giudice” o “autorità giurisdi-
La giustizia costituzionale
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zionale”, e uno di carattere oggettivo, ovvero la sussistenza di un “giudizio”, nel corso del quale, appunto, è possibile sollevare la questione di legittimità costituzionale. Si è discusso a lungo sul se tali requisiti dovessero necessariamente coesistere o potessero essere interpretati come alternativi tra loro. Inizialmente, la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto sufficiente anche la presenza di uno solo dei due requisiti (sent. n. 83/1966). Successivamente, è andata progressivamente consolidandosi una lettura più “rigorosa”, in riferimento alla «necessaria compresenza sostanziale di entrambi i suddetti requisiti». Nella sent. n. 164/2008, ad esempio, la Corte ha affermato che, «affinché possa ritenersi sussistente il presupposto processuale richiesto da dette norme, non è sufficiente il solo requisito soggettivo». Occorre, invece, che venga soddisfatto anche il requisito oggettivo, ovvero che la questione sia sollevata, effettivamente, nel corso di un giudizio. Ebbene, affinché la questione possa intendersi sollevata nel corso di un giudizio, ha precisato nella stessa pronuncia la Corte, «l’applicazione della legge da parte del giudice deve essere caratterizzata da entrambi gli attributi della obiettività e della definitività, nel senso dell’idoneità (del provvedimento reso) a divenire irrimediabile attraverso l’assunzione di un’efficacia analoga a quella del giudicato, poiché è in questo caso che il mancato riconoscimento della legittimazione comporterebbe la sottrazione delle norme al controllo di costituzionalità». In assenza di tali condizioni, dunque, non è possibile riconoscere al giudice la legittimazione a sollevare la questione di legittimità costituzionale davanti alla Corte. All’interno di tali paletti, il Giudice delle leggi ha comunque consolidato, nel corso degli anni, un’interpretazione estensiva di tali requisiti, valutando di volta in volta il riconoscimento della legittimazione sulla base di un approccio sostanziale alle definizioni di “giudice” e “giudizio”. Così, è stata riconosciuta la possibilità di adire la Corte, sollevando questione di legittimità costituzionale, oltre che alla Corte stessa, alla sezione disciplinare del CSM, alla Corte dei conti, sia in sede di controllo preventivo di legittimità che in sede di giudizio sul rendiconto generale dello Stato e della Regione, alle Commissioni tributarie, al Giudice dell’esecuzione, al Giudice del rinvio, etc. Ricostruito il quadro relativo ai soggetti legittimati a sollevare la questione di legittimità costituzionale davanti alla Corte, è possibile ora esaminare le concrete modalità di svolgimento del giudizio in via incidentale. Nel corso di un giudizio, una delle parti del processo, o il pubblico ministero, possono eccepire l’illegittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge. Può capitare, in ipotesi, che, nell’ambito di un processo penale, una delle parti possa ritenere incostitu-
L’eccezione di illegittimità costituzionale
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La rilevanza e la non manifesta infondatezza
L’interpretazione conforme a Costituzione
L’ordinanza di rinvio
Capitolo X
zionale la norma sulla base della quale è stato incriminato l’imputato. Occorrerà, in tal caso, eccepirlo al giudice, mediante apposita istanza. A questo punto, il giudice deve valutare se l’eccezione di incostituzionalità soddisfi due requisiti: a) la rilevanza della questione: il giudice deve verificare che il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale. Deve trattarsi di una disposizione o di una norma che deve essere applicata nel corso del processo e la cui eventuale declaratoria di incostituzionalità produca un’influenza sul c.d. giudizio a quo, modificandone l’esito; b) la non manifesta infondatezza della questione: il giudice, anche se ha il dubbio che la questione sia fondata, deve sollevare la questione di legittimità costituzionale davanti alla Corte. Non è necessario, quindi, che il giudice sia certo della fondatezza della questione – anche perché tale valutazione è rimessa in via esclusiva alla Corte – ma è sufficiente che nutra un “ragionevole dubbio”. Alle valutazioni richiamate si aggiunge per il giudice l’obbligo, non imposto dalla legge, ma ormai radicato nella giurisprudenza della Corte costituzionale, di esperire, prima di sollevare la questione, un tentativo di interpretazione conforme a Costituzione della disposizione della cui incostituzionalità si dubita. Secondo la Corte, infatti, una disposizione di legge deve essere dichiarata incostituzionale non quando da essa è possibile estrapolare una norma contraria a Costituzione, ma solo quando non è possibile ricavare, con i normali strumenti dell’interpretazione giuridica, una norma conforme alle disposizioni costituzionali. La Corte induce, dunque, il giudice a svolgere fino in fondo la sua attività interpretativa alla luce della Costituzione, al fine di evitare impugnazioni affrettate. Se è vero, da un lato, che in tal modo si responsabilizzano gli organi giudicanti, dall’altro lato non si può nascondere che l’effetto non voluto di tale giurisprudenza costituzionale può essere quello di spingere i giudici a interpretare la legge andando al di là dei normali canoni ermeneutici, forzando così in maniera eccessiva il significato del testo. La giurisprudenza più recente, peraltro, tende a ridimensionare l’obbligo di interpretazione conforme, anche sulla base della considerazione che, se portato alle estreme conseguenze, risulterebbe incompatibile col sistema di giustizia costituzionale accentrato previsto dalla Costituzione. Valutata la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione, ed esperito il tentativo di fornire un’interpretazione conforme a Costituzione della disposizione della cui legittimità si dubita, si aprono, per il giudice, due strade. Laddove non ritenga sussistenti i requisiti richiamati,
La giustizia costituzionale
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emette un’ordinanza adeguatamente motivata con cui respinge l’istanza presentata dal pubblico ministero o da una delle parti, che potranno, tuttavia, riproporre l’eccezione di incostituzionalità in ogni grado ulteriore del giudizio. Laddove, invece, il giudice ritenga sussistenti i requisiti richiamati emette un’ordinanza, chiamata “ordinanza di rinvio” o “di rimessione”, con la quale sospende il giudizio a quo e dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Tale ordinanza deve necessariamente contenere: a) le disposizioni della legge o dell’atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione della cui legittimità costituzionale si dubita (c.d. oggetto). Sono sottratte al vaglio della Corte le fonti subordinate alla legge, come i regolamenti, il cui giudizio di legittimità è affidato, invece, al giudice amministrativo. Al contrario, con la sent. n. 1146/1988, la Corte ha stabilito di poter giudicare sulla legittimità costituzionale delle leggi costituzionali o di revisione costituzionale per contrasto con i principi supremi dell’ordinamento costituzionale o con il nucleo essenziale dei diritti inviolabili; b) le disposizioni della Costituzione o delle leggi costituzionali che si assumono violate (c.d. parametro di costituzionalità). In taluni casi, la Costituzione impone che determinate leggi o atti aventi forza di legge debbano essere conformi a fonti non costituzionali. In tali circostanze si discorre di “parametro interposto”, nel senso che la violazione da parte di una legge o di un atto avente forza di legge delle richiamate fonti non costituzionali determina, indirettamente, una violazione della Costituzione. È il caso, ad esempio: 1) della violazione da parte del decreto legislativo dei “principi e criteri direttivi”, del “tempo” o dell’“oggetto” contenuti nella legge di delega, che si traduce nella violazione dell’art. 76 Cost. (v. supra, Cap. IV, par. 6); 2) della violazione da parte di una legge regionale, approvata nell’esercizio di una materia concorrente, dei principi fissati dal legislatore statale (la c.d. legge cornice). Ciò si traduce, indirettamente, nella violazione dell’art. 117, co. 3, Cost.; 3) della violazione da parte di una legge regionale delle norme stabilite a livello europeo, che si traduce, indirettamente, nella violazione dell’art. 117, co. 1, Cost.; 4) della violazione da parte della legge ordinaria delle norme internazionali generalmente riconosciute, che si traduce, indirettamente, nella violazione dell’art. 10 Cost.; 5) della violazione da parte della legge ordinaria delle norme internazionali pattizie, che si traduce, indirettamente, nella violazione dell’art. 117, co. 1, Cost.; c) le motivazioni che hanno portato il giudice a ritenere la questione di legittimità rilevante, cioè le ragioni per cui la risoluzione della questione è ritenuta pregiudiziale rispetto alla definizione del giudizio a quo;
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Capitolo X
d) le motivazioni che hanno condotto il giudice a ritenere la questione non manifestamente infondata, ossia i dubbi in merito alla legittimità della disposizione impugnata.
I vizi della legge
Occorre, inoltre, ricordare che la questione di legittimità costituzionale può essere sollevata anche d’ufficio dal giudice con ordinanza che deve contenere le indicazioni sopra richiamate. Altro aspetto di rilievo sono le ragioni in forza delle quali è possibile attivare il giudizio di legittimità costituzionale davanti alla Corte. Si possono lamentare: a) vizi formali. Si tratta di vizi che riguardano la procedura di formazione dell’atto legislativo. Può essere eccepito, infatti, che un atto legislativo sia stato adottato in difformità dall’iter previsto dalla Costituzione o da altre fonti a cui la Costituzione rinvia; b) vizi sostanziali. Si tratta di vizi che riguardano il contenuto delle singole disposizioni o delle norme da esse ricavabili. Può capitare, infatti, che alcuni provvedimenti, pur formalmente legittimi, in quanto adottati nel rispetto delle procedure previste dalla Costituzione, presentino contenuti che si pongono in contrasto con le disposizioni costituzionali. Si pensi, ad esempio, a una disposizione di legge che consenta l’accesso ai parchi pubblici alle sole donne e non agli uomini. Si tratta, evidentemente, di una previsione che si pone in contrasto con il principio di eguaglianza sancito nell’art. 3 Cost.; c) vizi di competenza. Si tratta di un vizio che si configura, ad esempio, quando il legislatore regionale approva una legge in un ambito materiale riconducibile alla competenza esclusiva del legislatore statale.
Il giudizio davanti alla Corte costituzionale
È escluso, al contrario, che la Corte possa pronunciarsi su valutazioni di natura politica o sull’uso del potere discrezionale da parte del Parlamento (c.d. political questions). L’ordinanza del giudice a quo deve essere pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica a fini meramente notiziali, affinché gli altri giudici valutino l’opportunità di sospendere eventuali giudizi aventi ad oggetto la medesima disposizione impugnata. A questo punto, si svolge davanti alla Corte costituzionale il vero e proprio processo costituzionale. Possono costituirsi in giudizio: a) le parti del processo principale sospeso, ma non il pubblico ministero; b) il Presidente del Consiglio dei Ministri, difeso dall’Avvocatura dello Stato o, nel caso in cui l’oggetto della questione concerna una legge regionale, il Presidente della Giunta regionale. Si discute sulla natura di tale costituzione. Secondo alcuni essa svolgerebbe una funzione ri-
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conducibile a quella del defensor legis, per cui tali soggetti sarebbero chiamati a difendere sempre e aprioristicamente la legge in quanto tale. Pare preferibile, tuttavia, ritenere che la costituzione del Presidente del Consiglio, in particolare, vada intesa come funzionale agli interessi dello Stato-ordinamento e non dello Stato-soggetto, per cui nulla impedirebbe, in astratto, che egli sostenga le ragioni dell’incostituzionalità della legge impugnata (v. supra, Cap. I, par. 2). Per prassi consolidata, tuttavia, quando il Presidente del Consiglio condivide il contenuto dell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale non si costituisce in giudizio, manifestando implicitamente il sostegno alla posizione assunta dal giudice a quo. Con la costituzione in giudizio le parti possono, entro venti giorni dalla notifica dell’ordinanza, esaminare gli atti depositati nella cancelleria della Corte costituzionale e presentare le loro deduzioni. Occorre dar conto del fatto che, con la delibera dell’8 gennaio 2020, il Giudice delle leggi, nel modificare le “Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale”, ha introdotto alcune importanti novità in ordine alla partecipazione di ulteriori soggetti al processo costituzionale. È stata, infatti, riconosciuta la possibilità di partecipare ai giudizi in via incidentale ai «titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio». È stato, inoltre, introdotto l’istituto degli amici curiae, per cui, «entro venti giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza di rimessione nella Gazzetta ufficiale […], le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità, possono presentare alla Corte costituzionale un’opinione scritta» (art. 2). Infine, è stata introdotta la possibilità per la Corte di avvalersi della figura degli “esperti” di chiara fama «ove ritenga necessario acquisire informazioni attinenti a specifiche discipline». Gli “esperti” sono ascoltati in apposita adunanza in camera di consiglio alla quale possono assistere anche le parti costituite che, con l’autorizzazione del Presidente, possono formulare dei quesiti. Una volta decorso il termine per la costituzione delle parti, il Presidente della Corte nomina, tra i quindici giudici, un giudice relatore per la istruzione e la relazione e convoca, entro i successivi venti giorni, la Corte per la discussione. La discussione, alla quale partecipano tutti i giudici della Corte costituzionale, può essere fissata: a) in udienza pubblica, nella quale, dopo la relazione del giudice relatore intervengono i difensori delle parti costituite e del Presidente del Consiglio (o del Presidente della Regione) a sostegno delle posizioni dei propri assistiti. Subito dopo l’udienza pubblica la Corte si
Le modifiche alle norme integrative del 2020
Il giudice relatore e la discussione
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Capitolo X
riunisce in Camera di consiglio, senza pubblico, per deliberare sulla questione; b) direttamente in camera di consiglio, quando nessuna parte si è costituita oppure nel caso in cui il Presidente della Corte ritenga che la questione, con buona probabilità, meriti di essere respinta per manifesta inammissibilità o infondatezza. La decisione della Corte
La decisione della Corte è assunta, in camera di consiglio, a maggioranza. A questo punto, il Presidente attribuisce a un giudice il compito di redigere una proposta di motivazione, che verrà discussa ed eventualmente emendata in una seduta successiva della Camera di consiglio, la cui data è quella effettivamente assegnata alla sentenza. Una volta sottoscritta dal Presidente e dal giudice redattore, la decisione viene depositata in cancelleria e pubblicata nella sezione ad hoc della Gazzetta ufficiale.
4. Il giudizio in via principale
Il parametro di costituzionalità
A differenza del giudizio in via incidentale, quello in via principale (o diretta) è un giudizio di tipo astratto, in quanto ha ad oggetto leggi statali e regionali indipendentemente dalla loro applicazione giudiziaria, e disponibile, nel senso che i soggetti legittimati ad attivarlo non sono giuridicamente obbligati a farlo. Ai sensi dell’art. 127 Cost., lo Stato e le Regioni possono, rispettivamente, impugnare direttamente davanti alla Corte costituzionale una legge regionale o statale che ritengono contraria a Costituzione. L’impugnazione, che deve essere depositata mediante ricorso, può essere proposta entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge. Laddove sia lo Stato ad impugnare, il ricorso è deliberato dal Consiglio dei ministri. Laddove, invece, sia la Regione ad agire, il ricorso è deliberato dalla Giunta regionale. Vi è però una differenza sostanziale in relazione al parametro di costituzionalità invocabile: a) il Governo, per lo Stato, può impugnare una legge regionale per violazione di una qualsiasi norma di rango costituzionale; b) la Regione può impugnare una legge statale solamente laddove la ritenga in contrasto con una delle norme costituzionali che disciplinano i rapporti tra Stato e Regioni (le norme del Titolo V della Costituzione e quelle contenute negli Statuti delle Regioni speciali). Tale limitazione si ricava, secondo la Corte, dalla considerazione che l’art. 127 Cost., quan-
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to all’impugnazione delle leggi statali, ne limita chiaramente l’ambito ai casi in cui esse «ledano la sfera di competenza» della Regione, mentre per quanto riguarda l’impugnazione delle leggi regionali l’art. 127 Cost. si limita ad una formulazione più generica e quindi più ampia («quando eccedano la loro competenza»). L’unica possibile deroga a tale criterio, introdotta nella giurisprudenza della Corte costituzionale, ma ancora avvolta da qualche incertezza, è quella che consente alla Regione di impugnare una legge statale anche laddove quest’ultima violi una disposizione costituzionale estranea al Titolo V, a condizione che tale violazione si riverberi negativamente sulle competenze regionali (la c.d. ridondanza). Esistono, poi, ulteriori forme di impugnazione da parte dello Stato, che si caratterizzano per uno scrutinio preventivo di legittimità costituzionale. Il Governo, infatti, dopo la riforma del Titolo V, può impugnare sia le leggi di approvazione degli Statuti delle Regioni ordinarie, sia le leggi “statutarie” delle Regioni speciali, chiamate a disciplinare la loro forma di governo. Entrambi i provvedimenti possono essere impugnati davanti alla Corte costituzionale entro trenta giorni dalla loro pubblicazione ai fini notiziali. Si tratta, dunque, di un controllo eventuale e preventivo rispetto alla loro promulgazione e alla loro entrata in vigore. Per quanto riguarda il processo davanti alla Corte costituzionale, questo si svolge con modalità molto simili a quelle studiate per il giudizio in via incidentale. Tuttavia, quanto alla tipologia delle decisioni, poiché non siamo in presenza di un’impugnazione proposta da un giudice che fornisce una sua interpretazione, non sono adottabili le sentenze interpretative (v. infra, par. 5). È invece previsto, come nel caso dei conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni, il potere per la Corte di sospendere, d’ufficio o su richiesta delle parti, l’efficacia delle leggi statali o regionali impugnate, allorché ritenga «che l’esecuzione dell’atto impugnato o di parti di esso possa comportare il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico o all’ordinamento giuridico della Repubblica, ovvero il rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini». Si tratta di uno strumento abbastanza discusso, per due ordini di ragioni. Da un lato, perché previsto da una fonte ordinaria e non costituzionale, pur essendo in grado di incidere sull’efficacia di una fonte pari-ordinata. Dall’altro lato, perché tale strumento è attivabile non solo su istanza di parte, ma anche dalla Corte d’ufficio, all’interno di un processo la cui natura, però, è quella del giudizio tra parti. C’è da dire, tuttavia, che lo strumento della sospensiva ha trovato, fino ad ora, una sola applicazione, durante l’emergenza pandemica. È il caso della legge reg. n. 11/2020 della Valle d’Ao-
L’impugnazione degli Statuti e delle leggi “statutarie”
La sospensione dell’efficacia delle leggi impugnate
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La rinuncia al ricorso in seguito ad accordo
Capitolo X
sta, la cui efficacia è stata sospesa dalla Corte costituzionale con l’ord. n. 4/2021, in quanto tale provvedimento, prevedendo misure meno rigorose di quelle fissate a livello statale, avrebbe potuto esporre gli abitanti della Regione al rischio di un incremento “concreto” e “attuale” del contagio del virus Covid-19. Occorre dar conto, infine, del fatto che non sono rari i casi in cui una delle due parti, Stato o Regione, decidano di rinunciare al ricorso a seguito di una modifica del provvedimento impugnato, sia da parte statale che, molto più frequentemente, da parte regionale. Ciò avviene all’esito di trattative spesso informali tra il Governo e gli esecutivi regionali, volte a individuare soluzioni normative “contrattate” in grado di scongiurare la caducazione di parte o dell’intero provvedimento impugnato. Si tratta di una prassi sempre più diffusa, che interviene anche prima del decorso dei termini di impugnazione, al punto che il Presidente del Consiglio dei ministri, con la direttiva del 23 ottobre 2023, ha inteso «elaborare indirizzi volti a consolidare e promuovere le predette forme di collaborazione» e a razionalizzare l’attività istruttoria del Governo.
5. Le decisioni della Corte costituzionale Il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato
Le ordinanze
Prima di esaminare le tipologie decisorie occorre precisare che, sia nel giudizio principale che in quello incidentale, la Corte costituzionale può dichiarare l’illegittimità costituzionale di una disposizione limitatamente alla questione sottopostale dal giudice a quo. Ciò è esplicitato dall’art. 27 della legge n. 87/1953, il quale, nello stabilire che la Corte si pronuncia «nei limiti dell’impugnazione», fa proprio il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. L’unica eccezione formale a tale principio è quella fissata nel medesimo art. 27, che attribuisce alla Corte anche il potere di dichiarare «quali sono le altre diposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata». Si tratta della c.d. illegittimità costituzionale consequenziale, che viene pronunciata per evitare che una legge resti in vigore quando un’altra, che ne costituisce il necessario presupposto e fondamento, sia dichiarata illegittima. Ciò precisato, la Corte costituzionale «giudica in via definitiva con sentenza. Tutti gli altri provvedimenti di sua competenza sono adottati con ordinanza» (art. 18, legge n. 87/1953). Le ordinanze sono succintamente motivate e, nella prassi, sono utilizzate nel caso in cui la questione di legittimità costituzionale debba essere dichiarata:
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a) manifestamente infondata: nel merito la Corte ritiene che sia palese l’infondatezza della questione, ad esempio in quanto vi erano già dei chiari precedenti in materia che rendono inutile approfondire la questione; b) manifestamente inammissibile: mancano gli stessi presupposti, di carattere processuale, richiesti dalla legge n. 87/1953, come l’irrilevanza della questione, il fatto che chi solleva la questione non è un giudice, oppure nel caso in cui l’ordinanza sia stata sollevata nel corso di un procedimento non qualificabile come giudizio, etc. La Corte si pronuncia nei medesimi termini anche laddove il giudice a quo non mostri, quantomeno, il tentativo, in concreto, di utilizzare gli strumenti interpretativi a sua disposizione per verificare la possibilità di una lettura alternativa della disposizione censurata, eventualmente conforme a Costituzione (sent. n. 221/2015). Le sentenze sono diffusamente motivate e sono utilizzate quando la Corte ritiene meritevole di approfondimento la questione impugnata. Possono essere: a) sentenze di rigetto, con le quali la questione è dichiarata non fondata. Gli effetti della sentenza di rigetto sono inter partes, valgono limitatamente al giudizio principale dal quale è sorta la questione, nel senso che non è possibile riproporre, nello stesso grado di giudizio, una questione di tenore analogo a quella rigettata. La Corte, nel rigettare la questione, non dichiara la legge impugnata conforme a Costituzione, ma si limita, a dichiarare che, rispetto alle motivazioni addotte e ai parametri invocati, la questione è infondata. Ne consegue che tale sentenza non ha effetti preclusivi al di fuori del giudizio a quo, ben potendo gli altri giudici, in altri giudizi, sollevare questioni di costituzionalità sulla stessa disposizione di legge, in teoria anche identiche nelle motivazioni e nel parametro invocato; b) sentenze di accoglimento, con le quali la Corte dichiara fondata la questione e di conseguenza dichiara l’incostituzionalità della norma impugnata. Ai sensi dell’art. 136 Cost., quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione nella Gazzetta Ufficiale. Ad una prima lettura si potrebbe ritenere che la dichiarazione di incostituzionalità produca gli effetti tipici dell’abrogazione, ma in realtà, come la Corte ha chiarito fin dalle sue prime decisioni, la dichiarazione di incostituzionalità produce l’annullamento della norma impugnata con effetti erga omnes. La norma dichiarata incostituzionale non può più essere applicata nell’ordinamento italiano, con l’unico limite rappresentato dai c.d. rapporti giuridici esauriti. In ogni caso, quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata una sentenza
Le sentenze
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Capitolo X
irrevocabile di condanna in sede penale, ne cessano l’esecuzione e tutti gli effetti penali (art. 30, co. 4, legge n. 87/1953).
Le sentenze additive
Dalle “rime obbligate” alle soluzioni “costituzionalmente adeguate”
Nel corso degli anni la Corte costituzionale ha allargato lo spettro delle sue decisioni, andando al di là dell’alternativa secca accoglimento/rigetto. Nell’ambito delle decisioni di accoglimento, ad esempio, la Corte ha fatto largo utilizzo delle sentenze manipolative, con le quali l’illegittimità costituzionale della disposizione è dichiarata “nella parte in cui” la medesima disposizione preveda o non preveda qualcosa. Sono ascrivibili a tale categoria: le sentenze additive, le sentenze ablative e le sentenze sostitutive. Con le sentenze “additive di regola”, la Corte dichiara incostituzionale la disposizione impugnata nella parte in cui non prevede un qualcosa che avrebbe dovuto prevedere. Ad esempio, con la sent. n. 190/1970, la Corte si è pronunciata sulla norma del codice di procedura penale che prevedeva la presenza del solo pubblico ministero in sede di interrogatorio dell’imputato. Essa è stata dichiarata incostituzionale, per violazione del diritto inviolabile di difesa, nella parte in cui non prevede anche la presenza del difensore. In sostanza, quando omettere un qualcosa (come nell’esempio sopra riportato, la presenza del difensore) equivale ad escludere, con ciò violando una norma costituzionale, la Corte può, anziché dichiarare semplicemente l’incostituzionalità della disposizione impugnata ed eliminarla dall’ordinamento, dichiararne l’incostituzionalità nella parte in cui ha omesso un qualcosa che avrebbe dovuto prevedere, in tal modo aggiungendo la norma mancante. Si tratta di decisioni che hanno suscitato un vivace dibattito, in quanto vi è chi ha osservato che con le sentenze additive la Corte, nell’aggiungere la norma mancante, è come se si sostituisse, indebitamente, al Parlamento. In realtà, come messo in evidenza dalla dottrina e precisato dalla Corte costituzionale, non sempre è possibile per la Corte adottare una sentenza additiva, ma solamente ad una condizione: che la norma mancante sia l’unica costituzionalmente possibile. La pronuncia additiva, come efficacemente detto, deve essere a rime obbligate, l’unica costituzionalmente ammissibile. Se, al contrario, la Corte rilevasse la possibilità, per il legislatore, di adeguarsi alle norme costituzionali violate optando tra più soluzioni normative possibili, non potrebbe adottare una sentenza additiva, perché entrerebbe nel merito di valutazioni politiche rimesse alla discrezionalità del Parlamento. Occorre, tuttavia, segnalare che, nella giurisprudenza costituzionale più recente, la teoria delle “rime obbligate” è stata oggetto di un parziale ripensamento. La Corte, infatti, ha affermato che «non può essere di ostacolo all’esame del merito della questione di legittimità costituzionale l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate” per ricondurre l’ordi-
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namento al rispetto della Costituzione, ancorché si versi in materie riservate alla discrezionalità del legislatore, risultando a tal fine sufficiente la presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni “costituzionalmente adeguate”, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore» (Corte cost. n. 95/2022). Alle sentenze additive di regola si affiancano le sentenze additive di principio, con le quali la Corte dichiara incostituzionale la norma impugnata nella parte in cui, non prevedendo un qualcosa, viola un determinato principio costituzionale. Si tratta di una particolare categoria di sentenze additive elaborate dalla Corte anche a seguito delle numerose critiche derivanti dalle conseguenze non previste delle additive di regola, soprattutto quando l’aggiunta della norma mancante determina un esborso rilevante per il bilancio dello Stato. Più in generale, esse possono essere adottate quando non è praticabile una pronuncia a rime obbligate. La sentenza additiva di principio si rivolge: a) al giudice a quo, al quale è affidato il compito di applicare, con prudenza interpretativa, il principio enucleato dalla Corte al caso concreto; b) al legislatore, invitato a legiferare al fine di introdurre, al posto della legge dichiarata incostituzionale, una disposizione legislativa compatibile con il principio sancito dalla Corte. Infine, con le sentenze sostitutive la Corte dichiara l’incostituzionalità della disposizione di legge impugnata nella parte in cui prevede la norma X anziché la norma Y. In sostanza, la Corte sostituisce alla norma incostituzionale un’altra norma ritenuta conforme a Costituzione. Ad esempio, con la sent. n. 149/1995, la Corte ha ritenuto che la norma ricavabile dalla disposizione del codice di procedura civile in materia di giuramento fosse incostituzionale nella parte in cui la formula imponeva un vero e proprio “giuramento”, anziché un “impegno” a dire tutta la verità, per contrasto col diritto di tutti gli individui a non essere obbligati a porre in essere comportamenti contrari alla propria religione. Tra le tecniche decisorie adoperate dalla Corte rientrano anche le sentenze interpretative, con le quali il Giudice delle leggi trae dalla disposizione oggetto del giudizio una norma diversa rispetto a quella evinta dal giudice a quo. Possono essere di accoglimento o di rigetto. Con le sentenze interpretative di accoglimento – oggi cadute in disuso – la Corte dichiara l’incostituzionalità della disposizione di legge impugnata se interpretata nel modo in cui la stessa Corte, con una precedente sentenza interpretativa di rigetto, aveva ritenuto incostituzionale. All’esito di tale pronuncia, che interviene, dunque, sulla norma e non sulla disposizione, l’enunciato legislativo resterà, appunto, intatto, ma non potrà essere più interpretato ricavando, tra le possibili, quella specifica norma dichiarata incostituzionale dalla Corte.
Le sentenze additive di principio
Le sentenze sostitutive
Le sentenze interpretative
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Il diritto vivente
Le sentenze di incostituzionalità sopravvenuta
Le sentenze di costituzionalità provvisoria
Le sentenze di incostituzionalità differita
Le decisioni di incostituzionalità accertata ma non dichiarata
Capitolo X
Con le sentenze interpretative di rigetto, viceversa, la Corte dichiara infondato il dubbio di legittimità costituzionale della norma impugnata se interpretata nel modo in cui ritiene preferibile la stessa Corte costituzionale. Con le decisioni interpretative di rigetto, dunque, la Corte si discosta dalla soluzione interpretativa ricavata dal giudice a quo (es. la norma X reputata incostituzionale), e ricava dalla disposizione impugnata un’altra norma (es. la norma Y) compatibile con la Costituzione. La Corte costituzionale, in linea generale, trova un limite alla possibilità di discostarsi dalle interpretazioni fornite dal giudice a quo nel c.d. diritto vivente, ovvero il diritto per come viene interpretato dalla giurisprudenza maggioritaria, avuto particolare riguardo alla giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato. Di conseguenza, quando il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale di una norma che costituisce diritto vivente, la Corte non può discostarsi da tale interpretazione proponendo una diversa soluzione normativa, ma deve accogliere la questione, se ne condivide i motivi, e dichiarare incostituzionale la norma impugnata. Occorre dar conto, infine, di alcune ulteriori tecniche decisorie della Corte costituzionale, che si discostano sia dallo schema accoglimento/rigetto che dalla tipologia delle decisioni manipolative e interpretative. Si tratta, in particolare, di tecniche decisorie che impattano, in qualche modo, sugli effetti temporali delle pronunce. Tra queste possiamo annoverare: a) le sentenze di “incostituzionalità sopravvenuta”, con le quali la Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale della disposizione con effetti a decorrere dall’entrata in vigore del nuovo parametro in base al quale la disposizione impugnata, fino a quel momento legittima e produttiva di effetti giuridici, è da considerarsi illegittima; b) le sentenze di “costituzionalità provvisoria”, con le quali la Corte, pur accertando l’incostituzionalità, dichiara non fondata la questione, in virtù della natura transitoria, straordinaria o eccezionale della disposizione impugnata, la quale dovrà essere poi superata da un nuovo intervento legislativo, pena la declaratoria di illegittimità costituzionale; c) le sentenze di “incostituzionalità differita”, con le quali la Corte accoglie la questione di legittimità costituzionale, ma rinvia gli effetti della pronuncia a un dies a quo successivo, in alcuni casi determinato, in altri indeterminato; d) infine, le più recenti e discusse pronunce di “incostituzionalità accertata ma non dichiarata”, con le quali il Giudice delle leggi, pur accertando l’illegittimità costituzionale, adotta un’ordinanza con cui rinvia ad altra data fissa la trattazione della causa. Se, in seguito alla nuova trattazione della causa, la Corte accerta che il legislatore è rimasto inerte,
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adotterà una sentenza con la quale dichiarerà l’illegittimità costituzionale della disposizione impugnata (es. ord. n. 207/2018 e sent. n. 242/2019).
6. Il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato La Corte costituzionale giudica, oltre che sulla legittimità costituzionale delle leggi, anche sui conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato (art. 134 Cost.). È un compito che non tutte le Costituzioni assegnano alle Corti costituzionali, perché non è una scelta scontata attribuire ad un organo terzo la decisione su conflitti caratterizzati da un alto tasso di politicità. Tuttavia, tra i costituenti prevalse l’idea di salvaguardare la distribuzione delle competenze attribuite, innanzitutto, agli organi costituzionali così da proteggere, più in generale, gli equilibri della forma di governo per come delineata nel testo costituzionale. Una prima questione concerne l’identificazione dei poteri dello Stato. L’art. 37 della legge n. 87/1953 stabilisce che i conflitti possono sorgere solamente tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà dei poteri cui appartengono, e hanno ad oggetto la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata, per i vari poteri, da norme costituzionali. Quindi, il conflitto che può risolvere la Corte non può riguardare un qualunque organo di un qualunque ente, ma soltanto quegli organi che presentano i caratteri richiesti. Diverse articolazioni della pubblica amministrazione statale sono qualificabili come organo ma, come vedremo, non soddisfano i requisiti richiesti dall’art. 37 della legge n. 87/1953. Intanto, per poter essere qualificato come potere dello Stato al fine di poter sollevare un conflitto davanti alla Corte o resistervi, sono necessari due requisiti: 1) l’organo deve essere previsto da una norma costituzionale (es. la Camera dei deputati); 2) la Costituzione deve disciplinare, delimitandola, la sfera di attribuzioni dell’organo, oggetto di contestazione davanti alla Corte (es. l’esercizio della funzione legislativa da parte della Camera e del Senato). Il conflitto di attribuzione, infatti, non può avere ad oggetto la violazione di attribuzioni previste da norme legislative o regolamentari, in quanto è richiesto il c.d. tono costituzionale del conflitto: l’organo che solleva il conflitto deve lamentare la violazione, da parte di un altro organo, delle attribuzioni previste da una norma costituzionale. Può essere problematico, tuttavia, capire quale tra più organi che esercitano uno stesso potere è legittimato a sollevare un conflitto davanti
I poteri dello Stato
Il tono costituzionale del conflitto
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Chi è potere dello Stato?
Il potere giurisdizionale come potere diffuso
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alla Corte, in quanto l’art. 37 della legge n. 87/1953 precisa che deve trattarsi solo dell’organo competente a dichiarare, in via definitiva, la volontà del potere cui appartiene. Ad esempio, per quanto concerne il potere giurisdizionale, ci si deve chiedere chi, tra i diversi organi di cui si compone la Magistratura, sia legittimato a sollevare un eventuale conflitto di attribuzione: solo la Corte di cassazione, in quanto giudice di ultima istanza? Ciascun giudice? E il pubblico ministero? La giurisprudenza della Corte costituzionale è ormai consolidata nel ritenere che: 1) per il potere legislativo sono da considerare legittimati, in quanto competenti a dichiarare in via definitiva la volontà del potere cui appartengono: a) la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica; b) le Commissioni di inchiesta ex art. 82 Cost., in quanto rispetto alle Camere non sono una mera articolazione interna, ma esercitano in via definitiva i poteri di inchiesta loro attribuiti dalla Costituzione (v. supra, Cap. VI, par. 1.14.2); c) i singoli parlamentari, laddove nel corso del procedimento legislativo vengano lese le loro prerogative da altri poteri (ad esempio, il Governo, apponendo la questione di fiducia sulla legge di bilancio); 2) per il potere esecutivo: a) il Governo, che si pone al vertice della pubblica amministrazione, con la conseguenza che un conflitto derivante da atti posti in essere da organi dipendenti o subordinati al Governo implica la riconducibilità solo a quest’ultimo della legittimazione ad essere parte del conflitto; b) il Ministro della giustizia, in quanto a differenza di altri Ministri, alcune sue funzioni sono oggetto di disciplina da parte di norme costituzionali; c) i singoli Ministri, laddove siano destinatari di una mozione di sfiducia individuale, sulla base dell’assunto per cui l’atto contestato è in grado di delimitare una specifica responsabilità individuale, a prescindere dal conferimento di una qualche attribuzione da parte della Costituzione (v. supra, Cap. VI, par. 3.10); 3) per il potere giurisdizionale, si deve osservare come, a differenza della pubblica amministrazione, l’organizzazione interna della magistratura non sia di tipo gerarchico. I magistrati si distinguono tra loro solo per l’esercizio delle funzioni, per cui i giudici della Corte di cassazione non sono gerarchicamente sovraordinati rispetto ai giudici dei Tribunali o delle Corti d’appello. Il potere giurisdizionale è un potere diffuso: ciascun giudice è titolare di un frammento di potere giurisdizionale, per cui ognuno di essi è da qualificare come potere dello Stato, in grado di proporre o resistere ad un conflitto (sullo status del giudice v. supra, Cap. IX, par. 3). Per quanto concerne il pubblico ministero, secondo la Corte costituzionale egli può essere parte di un conflitto di attribuzione limitatamente alle eventuali violazioni della sfera di competenza delimitata
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dall’art. 112 Cost., secondo cui il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale; 4) sono da qualificare “potere dello Stato” anche quegli organi che, pur non riconducibili ai tre poteri tradizionali, sono titolari di specifiche attribuzioni costituzionali: a) il Presidente della Repubblica e la stessa Corte costituzionale, organi di garanzia nel nostro ordinamento costituzionale; b) il Consiglio superiore della Magistratura; c) il Comitato promotore del referendum, in quanto competente a dichiarare definitivamente la volontà dei sottoscrittori, ma solo fino al momento di svolgimento del referendum medesimo. I conflitti di attribuzione possono essere di due tipi: 1) conflitto per vindicatio potestatis: si ha quando un potere dello Stato contesta l’esercizio, da parte di un altro potere dello Stato, di attribuzioni costituzionali spettanti al primo e non al secondo. Si tratta, data la gravità della violazione costituzionale, di conflitti poco frequenti. Ad esempio, nel caso in cui la vindicatio abbia ad oggetto un atto giurisdizionale, la Corte ha precisato che, affinché il conflitto sia ammissibile «è necessario che da parte del potere o dell’ente – che da quell’atto pretende di aver subito una lesione nella propria sfera di attribuzioni costituzionali – sia contestata radicalmente la riconducibilità dell’atto che determina il conflitto alla funzione giurisdizionale ... ovvero sia messa in questione l’esistenza stessa del potere giurisdizionale nei confronti del soggetto ricorrente» (sent. n. 276/2003); 2) conflitto per cattivo uso del potere: si ha quando un potere dello Stato usa in maniera impropria una sua attribuzione, in tal modo ostacolando o impedendo ad un altro potere dello Stato il corretto esercizio di una propria attribuzione costituzionale. Si pensi, ad esempio, al conflitto di attribuzione sollevato da un giudice perché, a seguito della delibera di insindacabilità ex art. 68 Cost. nei confronti di un parlamentare, emessa per dichiarazioni manifestamente estranee all’esercizio delle funzioni parlamentari, dovrebbe archiviare il procedimento penale nei confronti del deputato non potendo così esercitare, come giudice, la funzione giurisdizionale. In questo caso, il giudice contesta alla Camera di appartenenza del deputato o senatore il cattivo uso del potere di deliberare l’insindacabilità di un parlamentare, in quanto ai sensi dell’art. 68 Cost., tale delibera può essere adottata solo nel caso in cui le dichiarazioni del parlamentare siano riconducibili all’esercizio delle sue funzioni (v. supra, Cap. VI, par. 1.13.2). Il conflitto può avere ad oggetto sia atti commissivi, sia atti omissivi, come ad esempio nel caso in cui il Ministro della giustizia non trasmetta
I tipi di conflitto
Conflitti omissivi e commissivi
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Lo svolgimento del giudizio davanti alla Corte
L’oggetto del conflitto
Capitolo X
al Presidente della Repubblica le risultanze della previa attività istruttoria necessaria affinché il Capo dello Stato possa valutare la concessione della grazia a un detenuto ex art. 87, co. 11, Cost. (v. supra, Cap. VI, par. 2.2). Il processo davanti alla Corte costituzionale si svolge nel seguente modo: a) deve essere presentato un ricorso dal potere che si ritiene leso nelle proprie attribuzioni costituzionali; b) la Corte delibera con ordinanza, in via preliminare, se vi sono gli elementi minimi per entrare nel merito del conflitto: che il ricorrente e il resistente siano poteri dello Stato, e che il conflitto abbia ad oggetto attribuzioni di rango costituzionale; c) con una seconda decisione, la Corte dichiara a chi spetta (o a chi non spetta) l’esercizio del potere oggetto di conflitto (c.d. dichiarazione di spettanza) e, se è stato adottato un atto, lo annulla. Nel caso in cui, invece, il conflitto non abbia ad oggetto un atto, ma un comportamento omissivo, la decisione della Corte accerterà, eventualmente, l’illegittimità della condotta contestata, indicando, di conseguenza, quale sarebbe stato – e, secondo alcuni, quale dovrà essere in futuro – il comportamento da ritenersi corretto. L’oggetto del conflitto può essere un qualunque atto, tranne la legge e gli atti aventi forza di legge, in quanto per questi ultimi è già previsto il giudizio sulle leggi (incidentale o principale, v. supra, par. 3). Tuttavia, in diverse decisioni, la Corte ha ritenuto ammissibile un conflitto di attribuzione avente ad oggetto atti legislativi, «tutte le volte in cui da essi possano derivare lesioni dirette dell’ordine costituzionale delle competenze e non esista un giudizio nel quale tale norma debba trovare applicazione e quindi possa essere sollevata la questione incidentale sulla legge» (sent. n. 221/2002).
7. Il conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni e tra Regioni Come si è visto, ai sensi dell’art. 134 Cost., la Corte giudica anche sui conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni e tra Regioni. Diversamente dal giudizio in via principale, che ha ad oggetto un provvedimento legislativo, il conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni e tra Regioni, ha ad oggetto un atto non legislativo, senza alcuna eccezione. Si può trattare, infatti, di un atto amministrativo, normativo (quindi di natura regolamentare) o giurisdizionale, come ad esempio una sentenza del giudice che invada o comporti una menomazione delle competenze regionali. Può capitare, altresì, che il conflitto sorga anche per il mancato esercizio di una competenza, che può dar luogo a implicazioni negative o pregiudicare del tutto l’esercizio di altre competenze attribuite allo Stato o alla Regione.
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Come nel caso del giudizio in via principale, il conflitto è introdotto da un ricorso, con cui il ricorrente, a pena di inammissibilità, oltre ad indicare l’atto dal quale sarebbe stata invasa la sfera di competenza e le disposizioni costituzionali che si ritengono violate, deve dimostrare di aver subito una lesione attuale e concreta della sua competenza. Si tratta del c.d. interesse a ricorrere, che in questo caso, diversamente dal giudizio in via principale, deve essere dimostrato non solo dalle Regioni, ma anche dallo Stato. Il ricorso è proposto, per lo Stato, dal Presidente del Consiglio dei ministri o da un Ministro da lui delegato e, per la Regione, dal Presidente della Giunta regionale in seguito alla deliberazione della Giunta stessa. Laddove venga meno l’interesse al ricorso, ad esempio a causa della revoca o dell’annullamento dell’atto impugnato, la Corte dichiarerà “cessata la materia del contendere”. Diversamente, la pronuncia che decide il conflitto in via definitiva dichiarerà a chi spettava o a chi non spettava la competenza, procedendo, eventualmente, all’annullamento dell’atto illegittimamente adottato. È riconosciuta alle parti la possibilità di richiedere alla Corte di sospendere l’esecuzione dell’atto impugnato in attesa che questa si pronunci sul merito del conflitto. In caso affermativo, la Corte procede con ordinanza motivata.
L’interesse a ricorrere
La sospensione dell’atto impugnato
8. Il referendum abrogativo e il giudizio di ammissibilità La Costituzione contempla diverse tipologie di consultazione referendaria: 1) il referendum (eventuale) relativo al procedimento di revisione costituzionale (art. 138 Cost., v. supra, Cap. IV, par. 4); 2) il referendum sulla legge e sui provvedimenti amministrativi regionali (art. 123, co. 1, Cost.); 3) il referendum sugli Statuti delle Regioni ordinarie (art. 123, co. 3, Cost.); 4) il referendum da sottoporre alle popolazioni interessate: a) per la fusione di Regioni esistenti o la creazione di nuove Regioni (art. 132, co. 1, Cost.); b) per il distacco e la conseguente aggregazione ad altra Regione di Province o Comuni (art. 132, co. 2, Cost.); c) per l’istituzione di nuovi Comuni e la modifica delle loro circoscrizioni e denominazioni (art. 133, co. 2, Cost.; v. supra, Cap. VII, par. 1). Infine, ma non per importanza, l’art. 75 Cost. prevede il referendum abrogativo, in forza del quale è indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge quando lo richiedono 500.000 cittadini o cinque consigli regionali. Si tratta di uno strumento che viene tradizionalmente ricondotto all’interno
I referendum in generale
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Il controllo di legittimità dell’Ufficio centrale per il referendum
Il controllo di ammissibilità della Corte costituzionale
I limiti impliciti al referendum abrogativo
Capitolo X
della categoria degli strumenti di democrazia diretta. Non mancano, tuttavia, alcuni studiosi (Luciani) che ritengono, invece, che il referendum abrogativo debba essere ascritto alla categoria degli istituti di democrazia partecipativa. L’iter di svolgimento del referendum abrogativo prevede, in seguito alla richiesta che può essere depositata tra il 1° gennaio e il 30 settembre di ciascun anno, una duplice forma di controllo. La prima fase di controllo è svolta dall’Ufficio centrale per il referendum, istituito presso la Corte Suprema di cassazione. È un organo composto da magistrati (dai tre Presidenti di sezione più anziani e dai tre consiglieri più anziani di ciascuna sezione) che ha il compito di svolgere un controllo di legittimità sulla richiesta di referendum: deve verificare se le richieste referendarie sono conformi alle condizioni previste dalla legge n. 352/1970, che ha dato attuazione all’art. 75 Cost., come la natura dell’atto oggetto della richiesta, l’autenticità e validità delle firme raccolte, la corretta formulazione dei quesiti, etc. Può, altresì, proporre la concentrazione di richieste referendarie che presentino «uniformità o analogia di materia». La prima fase si conclude entro il 15 dicembre, con un’ordinanza dell’Ufficio centrale sulla legittimità di tutte le richieste depositate. La seconda fase, di controllo di ammissibilità, è svolta dalla Corte costituzionale che deve verificare, ai sensi dell’art. 75, co. 2, che le leggi oggetto di referendum non rientrino tra quelle sottratte all’operatività di tale istituto. Si tratta delle leggi tributarie, di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. Se la Corte accerta che il quesito ha ad oggetto, direttamente o indirettamente, una di queste tipologie di leggi, dichiarerà inammissibile il referendum; in caso contrario lo dichiarerà ammissibile. Tuttavia, nel corso degli anni la Corte costituzionale ha elaborato una giurisprudenza che va oltre il mero divieto di cui all’art. 75 Cost. e ha sancito che, dall’interpretazione logico-sistematica della Costituzione, emergono dei limiti impliciti al referendum abrogativo. In particolare, sono sottratte al referendum: 1) le leggi costituzionali e di revisione costituzionale: ciò appare logico, in quanto il referendum ex art. 75 Cost. concerne le sole leggi ordinarie, tenuto altresì conto che il procedimento di revisione costituzionale è espressamente disciplinato nell’art. 138 Cost.; 2) le leggi dotate di una peculiare “forza passiva” e, dunque, insuscettibili di essere validamente abrogate da leggi ordinarie successive; 3) le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato. Si tratta di quelle leggi il cui contenuto è l’esito di un bilanciamento tra principi costituzionali la cui abrogazione determinerebbe un pregiudizio per gli stessi;
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4) le leggi costituzionalmente necessarie. Si tratta di quelle leggi la cui abrogazione comporterebbe la paralisi di un organo costituzionale o di rilevanza costituzionale. Ad esempio, l’abrogazione totale della legge elettorale della Camera dei deputati non consentirebbe di indire nuove elezioni nel caso in cui il Parlamento non riuscisse ad approvare in tempo una nuova legge. Per questo motivo, nei primi anni ’90, fu dichiarato inammissibile un quesito referendario che chiedeva l’abrogazione integrale delle leggi elettorali della Camera e del Senato. D’altra parte, la Corte costituzionale, per bilanciare il limite posto dalle leggi costituzionalmente necessarie, ha ritenuto ammissibili i c.d. referendum “manipolativi”. Con essi non si chiede l’abrogazione totale di una legge, ma l’abrogazione solo di alcune parti, in modo tale che la c.d. normativa di risulta (ovverosia ciò che resta a seguito dell’abrogazione) sia comunque dotata di un senso logico-giuridico e sia autoapplicativa. Per esempio, il quesito che fu alla base del referendum sulla legge elettorale del 1993, chiedeva l’abrogazione solamente di alcune parti della legge proporzionale (alcune frasi, virgole, parole, particelle; è sufficiente abrogare il “non” di una disposizione per far acquistare al periodo un significato opposto a quello originario), così da far assumere alla normativa di risulta i tratti tipici di un sistema maggioritario. La Corte costituzionale ritenne un quesito così formulato ammissibile; 5) le richieste referendarie il cui quesito da sottoporre al corpo elettorale contenga una «pluralità di domande eterogenee, carenti di una matrice razionalmente unitaria». Secondo la Corte, infatti, è necessario che i quesiti posti agli elettori «siano tali da esaltare e non da coartare le loro possibilità di scelta; mentre è manifesto che un voto bloccato su molteplici complessi di questioni, insuscettibili di essere ricondotti ad unità, contraddice il principio democratico, incidendo di fatto sulla libertà del voto stesso (in violazione degli artt. 1 e 48 Cost.)» (sent. n. 16/1978). Se il giudizio di ammissibilità, che la Corte definisce con sentenza entro il 10 febbraio, ha dato esito positivo, il Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei ministri, indice con decreto il referendum, fissando la data di convocazione degli elettori in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno. Nel caso di scioglimento anticipato delle Camere o di una di esse, il referendum già indetto si intende automaticamente sospeso e i termini del procedimento riprendono a decorrere dopo un anno dalla data delle elezioni. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica, per cui è sufficiente aver compiuto la maggiore età.
I referendum “manipolativi”
L’indizione del referendum
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Capitolo X
I quorum richiesti
La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto (quorum di validità del referendum), e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi (quorum deliberativo). A seguito dello svolgimento del referendum possono realizzarsi due conseguenze:
L’esito e le conseguenze del referendum
1) se il risultato è favorevole all’abrogazione di una legge, o di un atto avente forza di legge, o di singole disposizioni di essi, il Presidente della Repubblica, con decreto – pubblicato immediatamente nella Gazzetta Ufficiale – ne dichiara l’avvenuta abrogazione. L’abrogazione ha effetto a decorrere dal giorno successivo a quello della pubblicazione del decreto (art. 37, legge n. 352/1970). Tuttavia, il Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro interessato e previa deliberazione del Consiglio dei ministri, può ritardare l’entrata in vigore dell’abrogazione per un termine non superiore a 60 giorni, consentendo, così, al Parlamento di intervenire; 2) se il risultato è contrario all’abrogazione di una legge, o di un atto avente forza di legge, o di singole disposizioni di essi, non può proporsi richiesta di referendum avente lo stesso oggetto prima che siano trascorsi cinque anni (art. 38, legge n. 352/1970).
L’intervento del legislatore nel corso della procedura referendaria
Può capitare che, successivamente alla dichiarazione di ammissibilità, ma prima che si tenga il referendum, una legge o un atto avente forza di legge modifichi o abroghi, in tutto o in parte, l’atto normativo oggetto di richiesta referendaria. In questo caso spetterà all’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione valutare gli effetti dell’intervento legislativo e quindi: a) in caso di abrogazione parziale, restringere il quesito alle parti non abrogate; b) in caso di abrogazione totale, dichiarare che le operazioni referendarie non avranno più corso; c) in caso di abrogazione con contestuale introduzione di un’altra disciplina della stessa materia, che non modifichi né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente, né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti (art. 39, legge n. 352/1970, a seguito di Corte cost., sent. n. 68/1978), dichiarare che il referendum si effettuerà sulle nuove disposizioni legislative. Occorre, infine, dar conto del dibattito sul se il Parlamento possa ripristinare, e in caso affermativo dopo quanto tempo, la normativa abrogata mediante la consultazione referendaria. Sul punto la dottrina non è unanime. Alcuni, infatti, hanno sostenuto che il divieto di ripristino della normativa abrogata può avere un significato politico, ma non può certo essere qualificato come vincolo giuridico (Luciani). Ciò in ragione del fatto che il referendum abrogativo, in quanto fonte primaria, gode della medesima forza passiva riconosciuta alla legge e agli atti aventi valore di
Il ripristino della normativa abrogata
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legge, con la conseguenza che l’esito referendario potrà essere in qualsiasi momento superato da una nuova deliberazione disposta, appunto, mediante legge o atto avente forza di legge. Altri Autori, invece, hanno sostenuto che la legge non possa, in alcun caso, rispristinare «precetti normativi già espunti dall’ordinamento direttamente dal popolo», poiché si tratterebbe di «un caso evidente di frode alla Costituzione» (Ruggeri). Altri, ancora, in una posizione intermedia, hanno sostenuto che, a distanza di cinque anni, il legislatore, qualora lo ritenesse opportuno, potrebbe ripristinare la disciplina precedentemente abrogata (Greca). Infine, vi è chi, e parrebbe la posizione maggioritaria, ha ritenuto che il vincolo permanga per l’intera durata della legislatura in cui si è svolta la consultazione referendaria (Manzella). Ora, impregiudicate nel merito le diverse tesi richiamate, in questa sede è importante rilevare che la Corte, con la sent. n. 199/2012, ha accolto l’interpretazione che riconosce natura giuridica al divieto di riproposizione della normativa abrogata, argomentando che quest’ultimo si giustifica al fine «di impedire che l’esito della consultazione popolare, che costituisce esercizio di quanto previsto dall’art. 75 Cost., venga posto nel nulla e che ne venga vanificato l’effetto utile, senza che si sia determinato, successivamente all’abrogazione, alcun mutamento né del quadro politico, né di circostanze di fatto, tale da giustificare un simile effetto». Resta, però, tuttora aperto il tema connesso al perdurare di tale limite, avendo la Corte deciso, sul punto, di non individuare un parametro fisso e oggettivo, preferendo operare una valutazione limitata al caso specifico sottoposto alla sua attenzione.
9. Il giudizio sulla messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica A seguito della messa in stato di accusa per alto tradimento e/o attentato alla Costituzione, deliberata dal Parlamento in seduta comune, che in tal senso si comporta da pubblica accusa, il Presidente della Repubblica dovrà essere giudicato davanti alla Corte costituzionale. Difatti, la Corte giudica anche «sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione» (art. 134 Cost.). In questo caso, la Corte costituzionale è integrata da sedici membri tratti a sorte da un elenco di cittadini aventi i requisiti per l’eleggibilità a senatore, che il Parlamento compila ogni nove anni mediante elezione con le stesse modalità stabilite per la nomina dei giudici ordinari (art. 135, co. 7, Cost.). Per quanto riguarda gli aspetti di natura procedurale, la deliberazione
414 La fase parlamentare del procedimento
Il giudizio davanti alla Corte costituzionale
Capitolo X
sulla messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica è adottata dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta e a voto segreto, sulla base della relazione elaborata da un Comitato formato dai membri della Giunta per la autorizzazione a procedere di Camera e Senato. Il Comitato, alla cui guida si alternano per ciascuna legislatura il Presidente della Giunta per le autorizzazioni del Senato e della Camera, dispone di poteri molto incisivi, tra cui anche la possibilità, in casi eccezionali di necessità e urgenza, di adottare provvedimenti con cui disporre intercettazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione, ovvero perquisizioni personali o domiciliari, nonché misure cautelari limitative della libertà personale (art. 7, legge n. 219/1989). L’attività di indagine è svolta dal Comitato nel termine massimo di cinque mesi. Tuttavia, laddove si tratti di indagini particolarmente complesse, il Comitato può deliberare, per una sola volta, la proroga del termine suddetto per un periodo non superiore a tre mesi. Al termine di tale attività, il Comitato: a) laddove ritenga che il reato sia diverso da quelli previsti dall’art. 90 Cost., dichiara la propria incompetenza; b) laddove ravvisi la manifesta infondatezza della notizia di reato, dispone, con ordinanza motivata, l’archiviazione degli atti del procedimento; c) in ogni altra ipotesi, presenta al Parlamento in seduta comune una relazione sulla messa in stato di accusa del Presidente (art. 8, co. 2, legge n. 219/1989). A questo punto, come già evidenziato, il Parlamento procede alla votazione. Affinché si opti per la messa in stato di accusa, oltre alla deliberazione a maggioranza assoluta, occorre che l’atto di accusa contenga «l’indicazione degli addebiti e delle prove su cui l’accusa si fonda». Approvato l’atto, questo deve essere trasmesso dal Presidente della Camera, entro due giorni, al Presidente della Corte costituzionale, per l’avvio della seconda fase del procedimento. Occorre segnalare che il Giudice delle leggi, allorché sia stata deliberata la messa in stato di accusa, può procedere, in via cautelare, alla sospensione dalla carica del Presidente della Repubblica. Il processo innanzi alla Corte in composizione integrata termina con una votazione che non ammette astensioni e nella quale, in caso di parità, prevale la soluzione più favorevole all’accusato. La sentenza, pubblicata in Gazzetta Ufficiale, è irrevocabile, ma può essere sottoposta a revisione dalla Corte, con ordinanza, laddove sopravvengano o si scoprano «nuovi fatti o nuovi elementi di prova, i quali, soli o uniti a quelli già esaminati nel procedimento, rendono evidente che il fatto non sussiste ovvero che il condannato non lo ha commesso».
INDICE ANALITICO *
A Abrogazione 133-134 Abuso del diritto 45 Abuso del processo 318, 340 Accesso agli atti amministrativi, in generale 318 Accesso civico 318 Accesso generalizzato 318 Accordi amministrativi 323, 340 Actio iudicati 330 Adattamento automatico, meccanismo di 164 Aggiudicazione, dei contratti pubblici 347348 Algoritmi 327 Alternative Dispute Resolution, ADR 343 Ambiente 103-104, 167, 209, 258, 264, 265, 267, 303 Amministrazione pubblica, nozioni 303 Annullabilità, del provvedimento 330 Annullamento d’ufficio, del provvedimento amministrativo 326, 333, 334 Annullamento giurisdizionale, del provvedimento amministrativo 313, 332, 337339, 348, 349 Antinomie normative, criteri di risoluzione 128-129 Appello 66, 336, 341, 357, 359, 360 Assemblea dei Sindaci 299-300 Assessori, comunali 297 Assessori, provinciali 288 Assessori, regionali 250, 290
Atti amministrativi discrezionali, in generale 310 Atti amministrativi generali 295, 309, 315 Atti amministrativi vincolati, in generale 311 Atti amministrativi, in generale 309 Atti aventi forza di legge 130, 146-151 Atti confermativi 335 Atti politici 377 Autodichia 206, 392 Autonomia finanziaria, degli enti territoriali 216, 282 Autonomia finanziaria, dei Ministeri 232 Autonomia finanziaria, della Corte costituzionale 392 Autonomia finanziaria, delle Camere 206 Autonomia finanziaria, delle Regioni a statuto speciale 257 Autonomia finanziaria, delle Regioni ordinarie 283 Autonomia territoriale, in generale 245 Autonomie speciali, in generale 256 Autonomie speciali, potestà normative 275 Autorità amministrative indipendenti 117, 307 Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente, ARERA 307, 308 Autorità garante della concorrenza e del mercato, AGCM 81, 95, 307 Autorità Nazionale Anticorruzione, ANAC 307, 343 Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, AGCOM 81, 307, 311, 343
* I numeri in “grassetto” indicano dove sono presenti i riferimenti alla trattazione principale.
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Indice analitico
Autotutela amministrativa, in generale 332333 Avvocatura dello Stato 338, 396 Aziende sanitarie locali, ASL 220, 294, 371 Azione amministrativa, principi 315 Azione di annullamento, del provvedimento amministrativo 337 Azione di condanna, della pubblica amministrazione 339-340, 348, 377 Azione di nullità, del provvedimento amministrativo 341 Azione penale, obbligo 226, 379-380 B Bando di gara 347 Beni comuni urbani 275, 282, 346 Beni culturali, tutela dei 258, 264, 265, 267, 279, 303, 321 Beni pubblici, in generale 345 Bicameralismo 142, 159, 189 Biodiversità 43, 103 Buon andamento dell’amministrazione, principio 202, 305, 310, 314, 324, 347 C Camera dei deputati, composizione 190 Camere, autonomia finanziaria 206 Camere, convocazione 205 Camere, durata 203 Cancellierato tedesco 27 Capo dello Stato 223 Carenza di potere 329, 337 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Cdfue 51, 53, 61-62, 167-168, 173 Certezza del diritto 54, 127, 128, 163 Checks and balances 29 Chiamata in sussidiarietà 271 Chiesa cattolica 7, 46-47, 231 Città metropolitana 247, 254-255, 299, 300 Cittadinanza 8-11, 73-75, 107, 167, 264, 325
Cittadinanza europea 11 Clausola di maggior favore 276 Clausola di sbarramento 34, 169, 194, 196199, 287-288, 296 Coabitazione 33 Coercibilità, del diritto 3 Colpevolezza 37, 64, 65, 113, 379 Comitato regionale per le comunicazioni, Corecom 292, 343 Comitologia 169 Commissione europea 169-170, 173 Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, CONSOB 117, 307 Commissione per le pari opportunità 292 Commissioni di inchiesta 219-220, 406 Commissioni permanenti 209 Comune, funzioni 295 Comune, in generale 246-247, 294 Comune, organi 297 Comunicazione di avvio del procedimento amministrativo 316, 332 Comunità internazionale 161-162 Concorrenza, tutela della 95, 170, 175, 258, 264, 267, 269, 272, 347 Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome, 176 Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, 176 Conferenza di servizi decisoria 321, 323 Conferenza di servizi istruttoria 319 Conferenza metropolitana 248, 255, 300-301 Conferenza Stato-Città 176, 177, 250 Conferenza Stato-Regioni 176, 177, 250, 269, 293 Conferenza Unificata 250 Conferma, del provvedimento amministrativo 335 Confessioni religiose 42, 132, 260, 264 Conflitto di attribuzioni, tra poteri dello Stato 405-408 Conflitto di attribuzioni, tra Regioni 408409 Conflitto di attribuzioni, tra Stato e Regioni 408-409
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Indice analitico
Consiglio comunale, 34, 295-297 Consiglio dei Ministri, attribuzioni 231 Consiglio dell’Unione europea 167-168, 171 Consiglio delle autonomie locali, CAL 253, 288, 291 Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana 359, 367 Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti 375 Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa 375 Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria 375 Consiglio di Stato, Adunanza Generale 242 Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria 242, 359, 360, 375, 378, 380, 388, 389, 404 Consiglio di Stato, funzioni consultive 242 Consiglio di Stato, in generale 10, 127, 152, 242, 336, 337, 338, 341, 342, 359, 366 Consiglio europeo 167, 170-171, 178 Consiglio metropolitano 247, 255, 300 Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, CNEL 241-242 Consiglio per la Magistratura Militare 375 Consiglio provinciale 288, 299 Consiglio regionale 119, 221, 252, 256, 284, 286, 288, 291, 292 Consiglio Superiore della Magistratura, composizione 190 Consiglio Superiore della Magistratura, funzioni 368-369 Consiglio Superiore della Magistratura, potere dello Stato 407 Consiglio Superiore della Magistratura, presidenza 225, 229, 369 Consiglio superiore della Magistratura, sezione disciplinare 371-372, 383, 393 Consuetudini costituzionali 117, 156 Consuetudini di diritto internazionale 48, 117, 163-164 Consultazioni 156, 207, 233-235, Contraddittorio, principio 354, 364, 375376, 378-379 Contratti pubblici 307, 340, 341, 343, 347
Controinteressato 338, 342 Controlimiti 47-48, 182-184, 262 Controlli amministrativi 244-245, 280, 328 Convalida, del provvedimento amministrativo 333-334 Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Cedu 53, 6061, 124, 162, 262-263, 337 Convenzioni costituzionali 156-157 Corrispondenza tra chiesto e pronunciato, principio 400 Corte costituzionale 389-392 Corte costituzionale, scelta dei giudici 389 Corte costituzionale, status dei giudici 390 Corte d’appello 241, 338, 356, 357, 358, 372, 374, 376, 384 Corte d’assise 356-357 Corte d’assise d’appello 357 Corte dei conti 127, 152, 218, 242-244, 351352 Corte dei conti, Sezioni Riunite 243-244, 360 Corte di cassazione 50, 103, 122, 127, 183, 254, 337, 340, 349, 357-358, 369, 372, 373, 377, 388, 389, 404, 406, 412 Corte di cassazione, Sezioni Unite 125, 337, 349, 358, 372 Corte di giustizia dell’Unione Europea 51, 53, 61-62, 124, 168, 171-172, 177-181, 183-184, 262, 362, 382 Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) 60, 97, 124, 127, 263, 362, 376 Corti di giustizia tributaria 360 Costituzionalismo 12, 14, 16, 41, 91 Costituzione provvisoria 20-21 Costituzione, applicazione diretta 87, 124125 Costituzione, tipi 17-18 Cultura 43, 88, 105, 167, 209, 232, 241 D Danno erariale 351, 384 Decadenza, del decreto-legge 149-150
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Decadenza, nella tutela giurisdizionale amministrativa 313, 336 Decisioni dell’Unione Europea 175 Decostituzionalizzazione 131-132 Decreto-legge 50, 147-148, 251, 395 Decreto legislativo 50, 147-148, 251, 395 Decreto, del giudice in generale 363 Delegificazione 131-132, 152-153 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino 13-14, 23, 41 Difensore civico 292 Difetto assoluto di attribuzione 329 Differenziazione territoriale, in generale 44, 49, 251, 258, 259, 260, 261, 264, 265, 271, 274, 275, 278, 283, 293 Dignità 42-43, 52, 53, 94, 102, 103 Diniego di giustizia 381-382 Dipendenti pubblici, in generale 89, 306, 344-345, 351, Direttive dell’Unione Europea 170, 174175, 177-178, 181, 262, 347 Direzione investigativa antimafia 359 Direzione nazionale antimafia 359 Diritti inalienabili della persona 47-48, 139, 182-183 Diritti inviolabili 41, 44, 46, 48, 56, 63, 105, 107, 164, 182, 183, 395 Diritti quesiti 54 Diritti sociali 17-18, 23-24, 42-43, 56, 97102, 264 Diritti, concezione negativa 18, 56 Diritti, concezione positiva 18, 56 Diritti, tutela internazionale 59-63 Diritto al lavoro 43-44, 100-102, 108 Diritto all’ambiente 63, 103-104 Diritto all’istruzione 17-18, 105-107 Diritto alla salute 17-18, 102, 104-105, 294 Diritto amministrativo, specialità 315 Diritto di accesso agli atti amministrativi, in generale 318 Diritto di sciopero 87-88, 100 Diritto internazionale privato 184-185 Diritto soggettivo 312, 335, 336-337, 344, 365, 376 Diritto straniero 184-185
Diritto vivente 404 Disapplicazione, del provvedimento amministrativo 344 Discrezionalità tecnica, dell’amministrazione 311, 314 Discrezionalità, dell’amministrazione 9, 310-311 Disposizione 120-122, 403-404 Dovere civico di voto 111 Dovere di difesa della patria 108-109 Dovere di fedeltà alla Repubblica 112-113, 223 Doveri costituzionali 8, 42, 107-113 Dpcm 72, 153 E Eccesso di potere 330, 331, 333 Ecosistema 258, 264, 299, 303, 312 Edilizia 96, 265, 293, 330, 340, 367 Eguaglianza formale 24, 42 Eguaglianza sostanziale 24, 42, 44, 98, 118 Elezioni, comunali 295-297 Elezioni, dei membri del CSM 190, 369371 Elezioni, delle Camere 192-199 Elezioni, regionali 285-289 Enti locali 7, 22, 50, 117, 131, 151, 155, 177, 246-249, 253, 254, 258, 274-275, 276, 278, 279, 281-283, 288, 291, 296, 298, 299 Enti pubblici 201, 250, 264, 304, 306, 307, 319, 345, 371 Enti pubblici economici 304 Enti pubblici territoriali 7, 49, 246-249, 279-280, 304, 307, 346 Esclusività, del diritto 3 F Fascismo, regime 19-20 Federalismo amministrativo 269 Federalismo fiscale 257, 283
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Fiducia, questione di 150, 158-159, 219, 231, 236, 239, 406 Fiducia, rapporto di 26-27 Fonti atto 115-116, 122, 156 Fonti di cognizione 116, 118-119 Fonti di produzione 116 Fonti extra ordinem 153-155 Fonti fatto 115-116, 155-156 Fonti non scritte 116, 163 Fonti primarie 116, 130-131, 139-151 Fonti secondarie 116, 131, 151-153 Fonti sulla normazione 116 Forma di governo direttoriale 30 Forma di governo parlamentare 25-28, 156157, 225, 227, 240, 285 Forma di governo presidenziale 28-30 Forma di governo semipresidenziale 31-33 Forma di governo, dei Comuni 295-297 Forma di governo, delle Città metropolitane 300-301 Forma di governo, delle Province 299-300 Forma di governo, delle Regioni 283-285 Forza di legge 117, 130, 146, 388 Forze armate 31, 79, 86, 109, 200, 225, 264, 360 Fumus boni iuris 338 Fumus persecutionis 213 Funzione amministrativa, dei Comuni 295 Funzione amministrativa, delle Città metropolitane 300 Funzione amministrativa, delle Province 299 Funzione amministrativa, delle Regioni 292-294 Funzione amministrativa, dello Stato e degli altri enti pubblici territoriali (riparto) 277-280 Funzione amministrativa, nozione 308-309 Funzione di indirizzo e controllo politico 147, 215-219 Funzione giurisdizionale, in generale 353355 Funzione ispettiva, del Parlamento 219-221 Funzione normativa 157, 169 Funzioni dello Stato 25, 308
G Garante dei diritti dei detenuti 292 Garante per l’infanzia e l’adolescenza 292 Garante per la protezione dei dati personali 307, 308, 343, 344 Giudicato 149, 329, 333, 341, 354, 380, 393 Giudice a quo 392-393 Giudice di pace 355, 356, 357, 358, 373 Giudice tutelare 358 Giudici onorari 356 Giudici ordinari, carriera 372-374 Giudici speciali, divieto 365-366 Giudici straordinari, divieto 368 Giudizio di legittimità costituzionale, in via incidentale 392-398 Giudizio di legittimità costituzionale, in via principale 398-400 Giunta regionale 290-291 Giurisdizione amministrativa, organi 359 Giurisdizione amministrativa, riti speciali 341 Giurisdizione condizionata, divieto 377 Giurisdizione contabile, organi 360 Giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo 336, 340, 343, 345, 366-367 Giurisdizione militare 360 Giurisdizione ordinaria, organi 355-359 Giurisdizione tributaria 360 Giurisdizione, principi costituzionali 361 Giurisdizione, riparto 366-367 Giurisdizioni speciali 359 Giustizia costituzionale, controllo accentrato 386-387 Giustizia costituzionale, controllo astratto 388 Giustizia costituzionale, controllo concreto 388 Giustizia costituzionale, controllo diffuso 385-386 Giusto processo 127, 375 Governo diviso 29-30 Governo, crisi 236-237, 238 Governo, dimissioni 156, 233, 235 Governo, formazione 156, 233-237
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Governo, organi necessari 229 Governo, organi non necessari 229-230 Gradi della giurisdizione 241, 360, 380 Gratuito patrocinio 376 Grazia, potere di 228 Gruppi parlamentari 207-209 I Immunità parlamentari 211-214 Immunità, degli Stati 48 Imparzialità, del giudice 363-364, 372, 374 Imparzialità, dell’amministrazione 113, 202, 305, 308, 310-311, 314, 315, 324, 334, 347 Impugnazioni 241, 354, 380, 382, 394 Incandidabilità 202 Incompatibilità, dei membri del CSM 371 Incompatibilità, dei membri del Parlamento 200-201 Incompetenza assoluta 329 Incompetenza relativa 330, 332, 333, 336 Indagini conoscitive 220-221 Indennità parlamentare 214 Indipendenza, del giudice 363-364, 366, 367, 368, 372, 373, 374, 379, 390-391, 392 Indirizzo politico 147, 150, 165, 203, 224, 231, 240, 289 Indirizzo politico-amministrativo 230, 231, 297, 298, 305, 308 Ineleggibilità 199-200 Iniziativa del procedimento amministrativo 316 Iniziativa legislativa 29, 137, 142-143, 150, 158, 242, 253, 287, 289, 291-292 Interesse legittimo, nozione 312 Interesse legittimo, risarcimento 340, 348350 Interesse nazionale 263, 271 Interpellanze 220 Interpretazione conforme a Costituzione 124, 136, 394 Interpretazione, criteri di 115-118 Interpretazione, fonti della 122
Interpretazione, natura creativa 4, 120-122, 124, 126 Interrogazioni 220 Intese, tra Stato e confessioni religiose 132, 377 Intese, tra Stato e Regioni 154, 250, 255, 259, 260, 261, 269, 271-272, 274 Istituto per la Vigilanza sulle Assicurazioni, IVASS 307 Istruttoria legislativa 143-144 Istruttoria nel procedimento amministrativo 317-320 Iurisdictio 353 L Legge di bilancio 178, 215-218 Legge di conversione 143, 148-151, 158159, 203 Legge di delegazione 145, 146-148 Legge di delegazione europea 177-178 Legge di sanatoria 149 Legge europea 179 Legge parlamentare 139-146 Leggi ad personam 44, 146 Leggi cornice 49 Leggi costituzionali, altre 129 Leggi di interpretazione autentica 127 Leggi di revisione costituzionale 117, 129, 135, 137-139, 215, 252 Leggi quadro 42 Leggi rinforzate o atipiche 140, 143 Leggi statutarie 253, 277, 287 Leggi-provvedimento 118, 146, 158 Libertà collettive 82-92 Libertà di associazione 84-85 Libertà di associazione partitica 89-92 Libertà di circolazione e soggiorno 58, 65, 72-74 Libertà di corrispondenza e comunicazione 69-72 Libertà di domicilio 68 Libertà di emigrazione 74 Libertà di espatrio 75
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Libertà di iniziativa economica privata 9395, 103 Libertà di manifestazione del pensiero 6970, 75-82, 109 Libertà di riunione 82-84 Libertà economiche 93-97 Libertà personale 14, 18, 55, 63-67, 141142, 212-213, 358, 382, 391, 414 Libertà sindacale 85-88 Liste elettorali 34-35 Livelli essenziali delle prestazioni, LEP 258, 260, 264, 267, 268, 280, 293, 315 Livelli essenziali di assistenza, LEA 294
Non manifesta infondatezza, della questione di legittimità costituzionale 394 Norma 115, 120-122, 403-404 Norma di dettaglio 38 Norma di principio 38 Norme del diritto internazionale generalmente riconosciute 48, 164 Norme fondamentali delle riforme economico-sociali 50, 257 Norme precettive 135-136 Norme programmatiche 135-136 Notitia criminis 379 O
M Magistrati ordinari 365 Magistratura di sorveglianza 358 Magistratura requirente 358, 373 Mandato esplorativo 234 Mandato imperativo, divieto 23, 210-211, 286, 288 Materie, riparto della potestà legislativa 263-268 Materie trasversali 258, 267-268, 271, 276 Ministri 231-232 Ministri senza portafoglio 232 Monarchia costituzionale 16, 18, 25-26 Motivazione, degli atti amministrativi 313, 319, 320, 331 Motivazione, delle pronunce giudiziali 338, 339, 363, 381, 398 Mozione 218 Mozione di fiducia 236 Mozione di sfiducia 236 Mozione di sfiducia individuale 239-240
Obblighi internazionali 50, 60, 165, 261262, 362 Obiezione di coscienza 63, 105, 109 Opposizione di terzo 341 Ordinanza, cautelare del giudice amministrativo 337-338 Ordinanza, del giudice in generale 363 Ordinanza, della Corte cost, 414ituzionale 119, 391, 400-401, 408, 409 Ordinanza, rinvio alla Corte costituzionale 394-397 Ordinanze contingibili ed urgenti, in generale 153-155 Ordinanze del Sindaco, come ufficiale del Governo 297, 309-310 Ordine del giorno 219 Organi costituzionali 25 Organi di garanzia, nelle Regioni 292 Organi dirigenziali 298, 306, 344, 374 Organi giudiziari 355-361 Organismo di diritto pubblico 307 Organizzazioni internazionali 7, 161-162, 179
N Neminem laedere 37, 98 Nomofilachia, funzione 122, 127, 357 Non applicazione (del diritto interno contrastante con diritto Ue) 62, 130, 180-182
P Paesaggio 103, 265, 293 Pareri 147, 242, 291, 292, 318-319
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Pareri dell’Unione Europea 175 Parità di genere 198-199 Parlamento europeo 11, 34, 167, 169, 172 Parlamento in seduta comune 190, 221, 223, 241, 369, 389, 413-414 Patrimonio culturale 52, 155, 297, 325 Patti Lateranensi 130, 140 Pena, finalità rieducativa 37, 66-67 Periculum in mora 338 Pluralità degli ordinamenti giuridici 7-8 Polizia giudiziaria 71, 76, 379 Potere discrezionale 310-311 Potere sostitutivo, dello Stato 280 Potere tecnico-discrezionale 311-312 Potere vincolato 311 Poteri atipici 310 Poteri dello Stato 405-407 Potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni 265 Potestà legislativa esclusiva dello Stato 263-264 Potestà legislativa residuale delle Regioni 266 Potestà legislativa, riparto tra Stato e Regioni 263 Potestà normativa nelle autonomie speciali 275-277 Potestà regolamentare degli enti locali 274275 Potestà regolamentare, riparto tra Stato e Regioni 273-274 Preavviso di rigetto 319, 322, 332, 339 Preleggi 38-39, 117, 122-124, 126, 133, 151-152, 156, 362 Prescrizione 183-184, 313, 330 Presidente del Consiglio dei Ministri, nomina 235 Presidente del Consiglio dei Ministri, posizione costituzionale 231 Presidente del Consiglio dei Ministri, poteri 231 Presidente del Senato della Repubblica 206207 Presidente della Camera dei deputati 206207
Presidente della Corte costituzionale 390391 Presidente della Provincia 299 Presidente della Regione 289-290 Presidente della Repubblica, elezione 221223 Presidente della Repubblica, messa in stato d’accusa 226. 413-414 Presidente della Repubblica, poteri 224-225 Presidente della Repubblica, responsabilità 226 Presidente della Repubblica, supplenza 223 Prestazioni personali e patrimoniali 108111 Principi costituzionali dell’Unione europea 51-53 Principi della Repubblica 40 Principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale 47-48 Principi fondamentali della legislazione statale 48-50 Principi generali comuni ai diritti degli Stati membri dell’Unione europea 54 Principi generali del diritto dell’Unione europea 53-54 Principi generali dell’ordinamento giuridico statale 50 Principi inderogabili 50-51 Principi supremi 46 Principi, in generale 37-40 Principio autonomistico 43-44 Principio dell’affidamento 37 Principio dell’effetto utile 53 Principio dell’equilibrio istituzionale 54 Principio democratico 39, 41 Principio di attribuzione 52 Principio di buona fede 37 Principio di eguaglianza 42 Principio di leale collaborazione 246, 251, 270, 272, 277, 280, 323 Principio di leale cooperazione, tra Stati membri e Unione europea 53 Principio di legalità 37, 41, 130, 141, 151, 152, 184, 271, 272, 274, 282, 305, 309, 315, 330, 347
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Principio di proporzionalità, nel diritto dell’Unione europea 52-53, 54 Principio di proporzionalità, nell’azione amministrativa 54, 74, 154, 331 Principio di sussidiarietà, nel diritto dell’Unione europea 52 Principio di sussidiarietà orizzontale 246, 275, 280, 282 Principio di sussidiarietà verticale 251, 278, 292, 294 Principio lavorista 43 Principio personalista 41-42 Principio pluralista 42 Principio solidaristico 42 Procedimento amministrativo, fasi 314 Procedimento amministrativo, nozione 314 Processo penale, principi costituzionali 378379 Processo, nozione 354-355 Processo, ragionevole durata 375-376 Procura della Repubblica 358 Procura generale 358 Promulgazione della legge 145 Proprietà 14, 15, 18, 56, 93, 96-97, 345-346, 350 Prorogatio delle Camere 203-204 Provincia Autonoma di Bolzano, in generale 256 Provincia Autonoma di Trento, in generale 256 Provincia, in generale 299 Provvedimento amministrativo, annullabilità 330-332 Provvedimento amministrativo, efficacia 327-328 Provvedimento amministrativo, esecutività 328 Provvedimento amministrativo, esecutorietà 328 Provvedimento amministrativo, irregolarità 332 Provvedimento amministrativo, nominatività e tipicità 309 Provvedimento amministrativo, nullità 329330
Provvedimento amministrativo, perfezione 327 Pubblicazione della legge 145-146 Pubblicità delle sedute delle Camere 205 Pubblico ministero (p.m.) 64, 71, 352, 358, 366, 370, 373, 374, 379, 380, 393, 395, 396, 402, 406, 407 Q Querela 356, 379 Quorum, costitutivo 204 Quorum, deliberativo 204-205 R Raccomandazioni dell’Unione Europea 175, 179, 217 Ragionevolezza, della legge 99, 118, 202, 272 Ragionevolezza, nell’azione amministrativa 331 Rappresentanza organica 305 Rappresentanza politica 23, 90-91, 140. 188, 196, 210, 308 Reati ministeriali 240-241 Referendum abrogativo, controllo di ammissibilità 410 Referendum abrogativo, limiti 410-411 Referendum abrogativo, procedimento 409412 Referendum abrogativo, ripristino della normativa abrogata 412-413 Regionalismo differenziato 258-261 Regione ordinaria, in generale 246 Regione, a statuto speciale, in generale 246, 256 Regolamenti dell’Esecutivo 151-153 Regolamenti dell’Unione Europea 152, 174, 180 Regolamenti governativi 152 Repubblica Italiana, articolazione 246248
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Responsabilità dei dipendenti pubblici, amministrativa 351-352 Responsabilità del giudice, amministrativa 384 Responsabilità del giudice, civile 381-382 Responsabilità del giudice, disciplinare 382383 Responsabilità del giudice, penale 384 Responsabilità della pubblica amministrazione, in generale 348-350 Revisione costituzionale, fonti e procedura 17, 46, 112, 117, 129, 135, 137-139, Revisione costituzionale, limiti 45-46, 47, 139 Revoca, del provvedimento amministrativo 334-335 Revocazione 341, 342, 380 Ricorsi amministrativi 341 Ricorso gerarchico 341 Ricorso in opposizione 342 Ricorso incidentale 339 Ricorso per cassazione 341, 357, 359, 360 Ricorso per motivi aggiunti 338-339 Ricorso straordinario al Capo dello Stato 342-343 Rigidità costituzionale 57, 135-136, 139, 385 Rilevanza, della questione di legittimità costituzionale 394 Rimpasto 238 Riserva di assemblea 144-145, 150 Riserva di giurisdizione 59, 63-64, 68-69, 76 Riserva di legge 57-59, 64, 65, 68-69, 72, 76, 83, 108-109, 141-142, 147, 152, 157, 260, 305 Risoluzione 218-219 Roma Capitale 247 S Sanzioni disciplinari, per i magistrati 371372, 382-383 Scioglimento delle Camere 234-235, 237
Sciopero 87-88, 100 Segnalazione certificata di inizio attività, SCIA 324-327 Segretario comunale 298 Semestre bianco 237 Senato della Repubblica 190-191 Senatori a vita 191-192 Sentenze additive 402-403 Sentenze di costituzionalità provvisoria 404 Sentenze di incostituzionalità differita 404 Sentenze di incostituzionalità sopravvenuta 404 Sentenze interpretative 403-404 Sentenze sostitutive 403 Separazione dei poteri 12-14, 23, 28, 41, 121 Separazione funzionale tra politica e amministrazione, principio 298, 305 Servizi pubblici 110, 308, 340, 367 Servizi pubblici essenziali 88, 94 Servizi pubblici locali 247, 295, 298, 300 Servizi sociali 295 Servizio Sanitario Nazionale 99, 102, 147, 294, 350 Sezioni specializzate, degli organi giudiziari ordinari 356, 357, 365 Silenzio assenso, dell’amministrazione 324325 Silenzio diniego, dell’amministrazione 324 Silenzio inadempimento, dell’amministrazione 316 Sindaco 297 Sindaco metropolitano 247, 255, 300-301 Sistema elettorale, maggioritario 35 Sistema elettorale, misto 36 Sistema elettorale, proporzionale 34-35 Situazioni giuridiche soggettive 339, 359 Sottosegretari di Stato 233-233 Sovranità 5-6, 11, 41, 90, 162, 182, 188 Stato assoluto 22 Stato comunità 245 Stato di diritto 22-23, 304-305, 313, 353, 361 Stato federale 24 Stato liberale 22-23, 26, 42
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Stato sociale 23-24 Stato unitario 24 Stato, elementi costitutivi 5-8 Stato-apparato (Stato-soggetto) 7 Stato-ordinamento 6-7 Statuti, degli enti pubblici territoriali 251252 Statuti, dei Comuni 253-254 Statuti, delle Città metropolitane 254-256 Statuti, delle Province 253-254 Statuti, delle Regioni a statuto speciale 256257 Statuti, delle Regioni ordinarie 252-253 Statuto albertino 15, 17, 18-19, 56, 135 Supremazia del diritto dell’Unione europea, principio 62, 262 Supremazia del diritto, principio costituzionale 361 Sviamento di potere 330 Sviluppo sostenibile 43, 52, 230
Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, TSAP 360 Tribunale, in generale 356-357 Tribunali amministrativi regionali, TAR 359 Tribunali Regionali delle Acque Pubbliche 360 Tutela delle minoranze etnico-linguistiche 52, 106, 199 Tutela giurisdizionale, diritto alla 376-379 Tutela giurisdizionale, principi 361-364 U Unione europea, evoluzione 168, 172 Unione europea, genesi 166-168 Urbanistica 96, 265, 293, 295, 303, 309, 340, 367 V
T Tantum devolutum quantum appellatum 357 Terzietà, del giudice 372 Tono costituzionale, del conflitto tra poteri dello Stato 405 Tradizioni costituzionali comuni, nel diritto dell’Unione europea 53, 62, 167 Trattati internazionali 144-145, 164-166, 178, 215, 218, 224, 280 Trattato sull’Unione europea, TUE 51, 167, 168 Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa 359, 367
Valutazioni tecniche 318-319 Verifica dei poteri 201 Viceministri 233 Vicepresidente del Consiglio dei Ministri 232 Vincolatività del diritto 2-3 Violazione di legge 330, 332, 333, 334, 336 Vizi di legittimità, dell’attività amministrativa 313, 330, 341, 342 Vizi di merito, dell’attività amministrativa 313, 341 Volontaria giurisdizione 358 Voto palese 205 Voto segreto 205-206
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Finito di stampare nel mese di febbraio 2024 nella Stampatre s.r.l. di Torino Via Bologna, 220
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SCUOLA DI GIURISPRUDENZA Collana diretta da Enrico Gabrielli
Volumi pubblicati C.E. Paliero (curato da), Il sistema penale (in preparazione), 2024. A. Cardone, F. Cortese, A. Deffenu, Istituzioni di diritto pubblico, pp. XVIII-430, 2024. E. Gabrielli (a cura di), Diritto privato. Terza edizione, pp. XL-1368, 2024. M. Persiani, M. Del Conte, P. Ferrari, S. Liebman, V. Maio, M. Marrazza, M. Martone, Diritto del lavoro, Seconda edizione, pp. XXII-314, 2023. M. Persiani, M. D’Onghia, Diritto della sicurezza sociale. Seconda edizione, pp. XIV290, 2022. R. Orestano, Introduzione allo studio storico del diritto romano, pp. XXXVIII-378, 2021. M. Persiani, F. Lunardon, Diritto sindacale, pp. X-294, 2021. P. Giunti, F. Lamberti, P. Lambrini, L. Maganzani, C. Masi Doria, I. Piro, Il diritto nell’esperienza di Roma antica. Per una introduzione alla scienza giuridica, pp. XVIII494, 2021.
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