Io vedo me stesso. La mia arte, il cinema, la vita 8842822205, 9788842822202

Il fuoco, il fumo. Strade notturne con semafori rossi mossi dal vento, tende rosse agitate da brezze invisibili. Donne a

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Io vedo me stesso. La mia arte, il cinema, la vita
 8842822205, 9788842822202

Table of contents :
Section 1
Introduzione
1. L’ombra di una mano contorta sulla mia casa Infanzia, memoria e pittura
2. Un giardino nella città industriale Da The Bride a The Grandmother
3. Io vedo me stesso Eraserhead
4. Una cimice sogna il Paradiso Capanni in costruzione e The Elephant Man
5. Oddio mamma, il cane mi ha morso Fotografia e Dune
6. Non prendeva in giro nessuno, era ferita, e pure seriamente Musica e Velluto blu
7. All’improvviso casa mia è diventata un albero di piaghe Un racconto di Twin Peaks
8. È un grande mondo meraviglioso Cuore selvaggio e stranezze in superficie
9. Formiche nella mia casa Strade perdute
10. Un grande mondo meraviglioso rivisitato Una storia vera
11. Billy trova un libro di indovinelli proprio nel suo giardino Mulholland Drive
INLAND EMPIRE secondo David Lynch
Filmografia
Televisione
Selezione di pubblicità, spot promozionali e videoclip
Mostre
Altre attività
Bibliografia
Ringraziamenti
Nota sul curatore

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A cura di PIERRE

scan: Hufeland

«Ci sono cose che non possono essere espresse con le parole. È allʼincirca questa la natura della pittura; ed è, per quanto mi riguarda, anche quella del linguaggio cinematografico. Ciò che puoi dire con un film non può essere espresso a parole. È questo il bello del cinema.» Il fuoco, il fumo. Strade notturne con semafori rossi mossi dal vento, tende rosse agitate da brezze invisibili. Donne angeliche in pericolo, agenti dellʼFbi con una passione maniacale per caffè e torte alla ciliegia. Il fischio delle segherie, le sirene sullʼacqua. Queste e mille altre ossessioni affollano la fantasmagoria allucinata di David Lynch, regista fra i più visionari della sua generazione, forse uno degli ultimi, come diceva Hitchcock, a «pensare per immagini». Il suo cinema è unʼesperienza simile a quella che si vive al risveglio, quando il mondo del sogno sfuma lentamente nella consapevolezza. È un sogno vigile, un viaggio attraverso lʼignoto, lʼoscuro, il bene e il male che forgiano ognuno di noi. Per questo Lynch è così difficile da spiegare e così restio a spiegarsi, perché la parola non può attingere al nucleo dellʼincubo, può solo lambirlo. Il Saggiatore propone unʼopera indispensabile per esplorare le geografie immaginifiche di Velluto blu e Strade perdute, The Elephant Man e Mulholland Drive: la provincia americana scandita da staccionate bianche e rose rosse, infestata da sciami di insetti sotto le foglie morte, resa insonne da night club dove bande inesistenti suonano avvolte dal fumo; e una Los Angeles perennemente notturna che è, insieme, viale del tramonto e fabbrica impazzita di fantasmi.

Io vedo me stesso è il risultato di più di un decennio di interviste raccolte da Chris Rodley, a cui David Lynch ha affidato il racconto della propria formazione, la passione per la pittura e lʼinfluenza di artisti come Oskar Kokoschka e Francis Bacon, il lavoro di fotografo e la collaborazione musicale con Angelo Badalamenti, fino alle grandi opere cinematografiche, spesso frutto di difficili compromessi per mantenere il controllo creativo. Io vedo me stesso è però soprattutto la risorsa più preziosa per comprendere la vita, il cinema, lʼarte di David Lynch; la voragine in cui precipitare per esplorare il suo paese delle meraviglie - popolato da nani, giganti e corpi senza vita di reginette del ballo -, in cui la percezione, alterata ma mai falsificata, è proiettata al di là del visibile; uno spazio di sogno dove il banale può mostrare la sua intima ironia, la verità del desiderio rivelarsi con forza prorompente e dove lo sguardo, fendendo il reale, riesce ad affacciarsi sullo spazio nero tra un pensiero e il successivo, il mistero che non ci è dato conoscere. David Lynch (Missoula, 1946) è un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense. Ha diretto i lungometraggi Eraserhead. La mente che cancella (1977), The Elephant Man (1980), Dune (1984), Velluto blu (1986), Cuore selvaggio (1990. Palma dʼoro per il miglior film), Fuoco cammina con me (1992), Strade perdute (1997), Una storia vera (1999), Mulholland Drive (2001. Palma dʼoro alla regia) e Inland Empire. Lʼimpero della mente (2006). Nel 2006 ha ricevuto il Leone dʼoro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia.

Introduzione

La sensazione di «inquietudine» era particolarmente difficile da definire. Né terrore assoluto né ansia lieve, lʼinquietante sembrava più facile da descrivere in termini di ciò che non era, che nel suo senso proprio. ANTHONY VIDLER, Il perturbante dellʼarchitettura

Raccontando le difficoltà incontrate nel trovare una precisa definizione di «inquietudine», quel senso di «disagio» che fu identificato per la prima volta nel tardo diciottesimo secolo, Vidler mostra di aver avuto lo stesso problema dei critici e del pubblico di fronte al cinema di David Lynch. Se è difficile definire non solo lʼesperienza di guardare un film di Lynch ma persino la stessa natura di quello che si è visto (difficoltà emerse di recente nelle reazioni deliranti suscitate dal suo ultimo film Mulholland Drive), è proprio perché lʼinquietante, in tutta la sua indeterminatezza, si trova nel nucleo stesso del lavoro di questo regista. Nessun altro regista contemporaneo lavora quanto lui con tutti gli elementi del cinema disponibili, il motivo è che Lynch deve mobilitare ogni aspetto del processo di realizzazione di un film per esprimere questa inafferrabile qualità. La sua sensibilità per le strutture del suono e dellʼimmagine, per i ritmi del linguaggio e del movimento, per lo spazio, il colore e il potere intrinseco della musica, lo rendono unico da questo punto di vista. Lynch è un regista che lavora allʼepicentro

stesso del mezzo filmico. E tuttavia, è lʼinsolita propensione ad accedere alla sua stessa vita interiore a essere principalmente responsabile dellʼoriginalità e dellʼinventiva di quanto da lui prodotto. È grazie alla sincerità con la quale porta sullo schermo tale vita interiore che Lynch ha conferito maggior vigore al linguaggio cinematografico. Sebbene la sua formazione come pittore e autore di film di avanguardia potrebbe spiegare la singolare qualità formale del cinema di Lynch, essa non riesce a spiegare la sua sottile capacità di visione. Per Lynch, tale capacità ricorre solamente quando tutti gli elementi del cinema non sono solo presenti, ma sono anche «corretti», e producono così quello che chiama «feeling», quando tutto quello che si vede e si sente contribuisce a un determinato «stato dʼanimo». Gli stati dʼanimo che lo stimolano di più sono quelli che si avvicinano alle sensazioni e alle tracce emotive dei sogni; lʼelemento decisivo dellʼincubo che è impossibile da trasmettere descrivendo semplicemente lʼaccaduto. Il modo di raccontare del cinema tradizionale, con la sua esigenza di logica e leggibilità, è perciò di scarso interesse per Lynch, poiché limita a lavorare entro un solo genere per volta. Nellʼuniverso di Lynch, i mondi sia reali sia immaginari - si scontrano. Il senso di «disagio» nei suoi film è in parte un prodotto di questo mescolamento tra i generi, che viene percepito dal pubblico come assenza di quelle regole e convenzioni in grado di fornire conforto e - cosa ancora più importante - di fungere da mezzo di orientamento. Lʼindefinibile «feeling» o «stato dʼanimo» che i film di Lynch comunicano è strettamente collegato a una forma

di disorientamento che lui definisce «essere perso nellʼoscurità e nella confusione». È qui che lʼinquietante viene alla luce nei film di Lynch. Esso non risiede semplicemente in tutto ciò che è strano, bizzarro o grottesco, ed è lʼopposto di quelle cose che, in virtù della loro esagerazione, rifiutano di provocare paura. Le caratteristiche dellʼinquietante, di ciò che Freud definì «il campo di ciò che spaventa», sono quelle del timore più che del vero terrore, della percezione di presenze più che della loro apparizione. Esso trasforma il «familiare» in «non familiare», producendo un allarmante senso di estraneità da ciò che è da sempre percepito come familiare. Per dirla con Freud: «Lʼinquietante è tale proprio in quanto fin troppo familiare, ed è questo il motivo per cui viene rimosso». Ecco lʼessenza del cinema di Lynch. Come Vidler ha fatto notare, lʼinquietante era radicato nei racconti di Edgar Allan Poe e di E.T.A. Hoffmann. La sua iniziale manifestazione estetica fu espressa nella raffigurazione di interni apparentemente benevoli e familiari invasi da una presenza estranea spaventosa. Ed è questa la sostanza di Eraserhead, Velluto blu, Twin Peaks, Strade perdute e Mulholland Drive. La loro espressione psicologica sta nella metafora del doppio, dove la minaccia è data dallʼesistenza di una copia di se stessi, tanto più terrificante in quanto lʼaltro non è veramente «altro». Nel lavoro di Lynch, questo trova la sua correlazione nellʼinsolito punto di vista con cui egli tratta la sindrome del dottor Jekyll e Mr Hyde: Jeffrey/Frank in Velluto blu, Leland Palmer/Killer Bob in Twin Peaks, Fred Madison/Pete Dayton in Strade perdute e

- con maggior ambizione - Betty Elms/Diane Selwyn e Rita/ Camilla Rhodes in Mulholland Drive. Lʼinquietante fu anche generato dal sorgere delle grandi città. Appena le persone cominciarono a sentirsi separate dalla natura e dal passato, esso divenne unʼansia moderna associata a malattie e disturbi psicologici, in particolare a paure legate allo spazio come lʼagorafobia o la claustrofobia. Lʼiniziale terrore delle città di Lynch e il suo amore per la natura e per un passato idillico pur» aver contribuito a queste paure così evidenti nel suo cinema, spesso espresse nellʼuso del cinemascope. Personaggi come Fred Madison in Strade perdute sono circondati da spazi aperti, arenati nellʼincerta geografia delle loro stesse vite. O, come per Henry in Eraserhead, ogni ambiente, interno ed esterno, devʼessere dettagliatamente e attentamente trattato. Lʼincertezza, lʼestraniazione e la mancanza di orientamento ed equilibrio sono talvolta così intense, nellʼuniverso lynchiano, che ci si chiede se sia mai possibile sentirsi a casa propria. Sia Fred Madison che Diane Selwyn sono costretti a ricorrere a misure estreme pur di raggiungere unʼillusione di stabilità e di felicità, costruendosi identità e mondi paralleli più innocenti, scenari di sogno in cui gli eventi faticano a sopraffare la realtà del collasso mentale. Lʼinquietante fu ripristinato come categoria estetica dallʼavanguardia moderna, che lʼusò come strumento di «defamiliarizzazione». Per i surrealisti, esso risiedeva nello stato tra il sonno e la veglia, da qui il loro interesse per il cinema. Se Lynch è «il primo surrealista populista: un Frank Capra della logica del sogno», come affermò una volta il critico cinematografico Pauline Kael, è

precisamente per il suo interesse nel processo di defamiliarizzazione e nello stato veglia/sonno. Mulholland Drive è costruito interamente sulla confusione di Diane Selwyn rispetto a quel che sta realmente accadendo, quello che può essere accaduto, quello che avrebbe potuto accadere, e quello che può ancora accadere. «Ehi bella ragazza, è ora di svegliarsi» dice il Cowboy misterioso, ma quando - di preciso - si è addormentata? La qualità onirica del cinema non era stata più celebrata in modo così brillante dai tempi di Scala al paradiso (A Matter of Life and Death, 1946) di Powell e Pressburger, in cui a Peter Carter viene diagnosticata una «sofferenza prodotta da una serie di allucinazioni fortemente organizzate, paragonabile a unʼesperienza di vita vera». Ora che le majors hanno rinunciato a così tante aree del cinema, e gli indipendenti stanno occupando alla bellʼe meglio lo spazio libero, sembra che in America David Lynch possieda virtualmente lʼesclusiva sul «tempo del sogno» dei cinema. Lynch è sempre stato il sognatore che trova lʼanalisi intellettuale del sogno deplorevolmente riduttiva nella migliore delle ipotesi, e distruttiva nei casi peggiori. Critici e pubblico sono spesso frustrati dalla sua riluttanza a impegnarsi in puntuali analisi testuali dei film. Le nuove tecnologie, e il flusso di informazioni da cui dipendono, esacerbano questa situazione. Oggi è norma comune corredare i film in Dvd di commenti esplicativi firmati dai registi. Per Lynch, questa è per antonomasia una situazione da incubo: preferisce mostrare che spiegare, sentire piuttosto che prescrivere. Il suo approccio al cinema è, come ci si potrebbe

aspettare, non solo estremamente intuitivo, ma aperto alle operazioni della fortuna, del destino e del caso. Il suo modo di fare cinema è quasi un atto di fede. Un delicato equilibrio di forze misteriose. Lui stesso si definisce come una «radio» che tenta di sintonizzarsi su idee e immagini, e la sua ricerca ha prodotto alcuni risultati sorprendenti. In Velluto blu, questo processo meditativo coincide con una classica teoria freudiana, nonostante Lynch affermi di non sapere nulla di teorie psicanalitiche, unʼaffermazione che chiunque lo conosca confermerebbe. Il fatto che Dorothy Vallens potesse soffrire della Sindrome di Stoccolma o che Fred Madison sperimentasse una fuga psicogena, condizioni mentali entrambe identificate, fu una sorpresa per Lynch. Non solo lui non conosce le spiegazioni che i libri danno dei fenomeni che gli interessano, ma è infastidito dalle limitazioni che le teorie, le definizioni e le ortodossie impongono loro. Il suo straordinario successo nel connettere diversi stati emotivi apparentemente senza nessun bisogno o desiderio di indagini convenzionali, gli ha permesso di fare a meno, allʼoccorrenza, di un prezioso rifugio del cinema americano: il sottotesto. Velluto blu, per esempio, è un film che non ha paura di mostrare la sua vera faccia. Questo, in parte, spiega lʼabilità del film sia di scioccare che dʼimpressionare favorevolmente. Se il significato di Strade perdute e Mulholland Drive sembra meno ovvio, è perché in queste due opere Lynch ha bisogno di forme narrative più sperimentali e di idee più astratte per raccontare i mondi sempre più interiori che

i suoi personaggi sono costretti ad abitare in reazione alle proprie delusioni, paure e azioni estreme. Vale la pena notare che, dopo il lancio di Fuoco cammina con me, Lynch ha ricevuto molte lettere di giovani ragazze i cui padri hanno abusato di loro. Tentavano di capire come il regista potesse sapere esattamente come fosse. Nonostante il fatto che la perpetrazione di incesto e figlicidio fosse rappresentata nella forma astratta di Killer Bob, tale rappresentazione fu riconosciuta come fedele allʼesperienza soggettiva. Non solo Lynch attinge alla sua vita interiore, ma ha anche la misteriosa abilità di identificarsi con le esperienze degli altri, siano essi uomini o donne, giovani o vecchi. È come se si trasformasse in loro. Cʼè dunque una piccola contraddizione tra lʼinfanzia normale e felice che il regista dice di aver avuto e la vita spesso tormentata e straordinaria dei suoi personaggi. La resistenza di Lynch alle interpretazioni dei film che avanzano relazioni col suo passato autobiografico trova la sua base qui, così come nella banalità riduttiva di un approccio che, nel tentativo di comprendere Eraserhead, per esempio, trova più opportuno riconoscervi i meccanismi dellʼautobiografia che quelli dellʼimmaginazione e dellʼempatia. Alla fine, rimane lʼapparente contraddizione del ragazzo «normale» che fa cinema «anormale»: lo spiritoso, affascinante, socievole regista di Missoula, Montana, che continua a sbirciare sotto i sassi per smascherare oscurità e corruzione. È stato il produttore di The Elephant Man Stuart Cornfeld (e non Mel Brooks, a cui fu attribuito) a far presente questo paradosso con la frase «il Jimmy Stewart venuto da Marte». Frase che

funziona sia come spiritosa descrizione binaria che come ingannevole semplificazione di un quadro più complesso. Il personaggio di James Stewart cominciò, come osserva David Thompson nel suo Biographical Dictionary of Film, con unʼ«immagine semplice dʼinnocente dagli occhi grandi, un ragazzo di campagna che si era smarrito in un mondo pazzo e sofisticato». Tuttavia, a partire dagli anni cinquanta il personaggio di Stewart fu sempre più volto verso ruoli che cominciarono a mostrare segni di «frenesia e malinconia […] una personalità tormentata, lamentevole e solitaria». Lynch è il Jimmy Stewart di Mr Smith va a Washington (Mr Smith Goes to Washington, 1939) di Frank Capra o quello di La donna che visse due volte (Vertigo, 1958) di Alfred Hitchcock? I suoi amici direbbero che «la sua forza sta nella gioia», mentre Lynch stesso direbbe, con un sorriso, che si sente «perso nellʼoscurità e nella confusione». Questa dicotomia fu evidente soprattutto allʼuscita di Una storia vera, un racconto toccante sullʼAmerica rurale, infilato tra gli oscuri incubi urbani di Strade perdute e di Mulholland Drive. Ma se Una storia vera deve più ai dipinti di Norman Rockwell e Andrew Wyeth, e al classico American Gothic di Grant Wood che alle tele cupe e spaventose dello stesso Lynch, il film riesce a essere a un tempo sia totalmente personale che del tutto diverso da qualunque altra sua opera. Di recente Lynch si è allontanato dalla sua amata pittura e si è immerso nel mondo dei computer, concentrandosi sulla manipolazione digitale delle immagini fotografiche. Questo quando non disegna

mobili, lavora la ceramica, incide la propria musica o scrive il suo primo lungometraggio dʼanimazione Snoot World con Caroline Thompson (collaboratrice di Tim Burton sia in Edward mani di forbice che in Nightmare Before Christmas). Dare unʼocchiata agli scaffali dellʼAsymmetrical Productions, la casa di produzione di Lynch sulle colline di Hollywood, è il modo migliore per orientarsi nellʼuniverso lynchiano. I dorsi dei libri in mostra preparano accuratamente il terreno: Lʼassassino della porta accanto, Manuale completo del fai-da-te, Il peccato originale, Lʼessenza del golf, Come cominciare a girare un film, Carnival love, Jackson Pollock, La stanza buia, Saluti dal Minnesota, Il nulla essenziale americano, La via del dolore, Artigiani utopisti e Homeboy. Come direbbe Lynch: vallo a capire! Chris Rodley

1. Lʼombra di una mano contorta sulla mia casa Infanzia, memoria e pittura

David Lynch è nato a Missoula, Montana, il 20 gennaio 1946. Stando alle sue stesse parole, si era ritrovato laggiù «giusto per nascere» prima che la famiglia si spostasse, quando David aveva solamente due mesi, a Sandpoint, nellʼIdaho. Suo padre Donald lavorava per il ministero dellʼAgricoltura in qualità di ricercatore ed era soggetto a frequenti trasferimenti, destinando la famiglia Lynch a uno stile di vita itinerante. Dopo soli due anni trascorsi a Sandpoint, dove nacque il fratello John, i Lynch si trasferirono di nuovo: stavolta a Spokane, Washington, dove unʼaltra figlia, Martha, costituì la più recente acquisizione della famiglia. Di lì in poi ci furono Durham, North Carolina, quindi Boise, Idaho, e infine Alexandria, Virginia. A quellʼepoca Lynch aveva soltanto quattordici anni. Si è tentati di ritenere che questo stile di vita nomade abbia notevolmente contribuito a ciò che vi è di singolare e inquietante nel cinema di Lynch: una sensibilità estremamente sviluppata per i luoghi, oltre alla palpabile influenza esercitata sulle persone dallʼambiente che le circonda, si trova spesso fusa, nei suoi film, con i tratti da outsider che caratterizzano i protagonisti. Sia Henry in Eraserhead che Jeffrey in Velluto blu rappresentano la quintessenza dellʼalter ego lynchiano: innocenti o ragazzi che si battono per comprendere ciò che li circonda e quanto sta loro accadendo. F, sebbene le soap opera televisive prendano

sovente il nome dal luogo in cui sono ambientate, la città di Twin Peaks appare assai più «reale» di qualunque Dallas, Peyton Place o Knots Landing, nonostante vi si verifichino ogni sorta di eventi inesplicabili e paranormali. Quale ne sia precisamente lʼinfluenza, Lynch ha esplicitamente e fruttuosamente saccheggiato la propria infanzia ricavandone immagini, suoni, trame ed eventi per la creazione delle sue opere. Essa continua a fornirgli risorse apparentemente illimitate; una banca di impressioni sensorie, misteri e indizi estremamente specifica e codificata. Lʼassoluta fiducia riposta da Lynch nelle ambigue implicazioni di questi ricordi e nelle relazioni che stabiliscono è ciò che conferisce spesso ai suoi lavori una sorta di «potenziale elettrico»; un corto circuito con il nucleo del pianeta, manifestamente privo di mediazioni e non ostacolato da preoccupazioni intellettualistiche, guidato da una pratica fondata sullʼintuito e sullʼatavismo. Il resoconto che Lynch ha dato della propria infanzia è emerso, nel corso degli anni, sotto forma di una serie di «istantanee» perfettamente delineate; «polaroid mentali», dense e immaginifiche, che non di rado combinano lo humour al terrore. Lynch si compiace di giocare con un repertorio tutto personale di riferimenti sonori e visivi. Promettendo rivelazioni e offrendo appigli, queste istantanee lusingano e sviano al contempo. Michel Chion ha suggerito che «lʼirreale precisione di queste evocazioni» potrebbe essersi ricostituita a partire dal sussidiario americano Good Times in Our Streets, un libro di testo dal quale Lynch ha preso spunto e che nelle sue rappresentazioni a fumetti

dellʼAmerica media, estremamente curate, richiama i toni delle reminiscenze personali dello stesso regista. Che Lynch, consciamente o meno, romanticizzi, idealizzi o persino ricostruisca un passato di innocenza e di serenità, i modi in cui dà conto della propria infanzia costituiscono la prova di una grande abilità narrativa, quantunque un certo grado di privacy sia comunque assicurato dallʼimpressionante immaginario che esibisce. Ciò è altresì sintomatico della necessità di Lynch di comunicare attraverso una forma di linguaggio in codice, che appartenga unicamente a lui. La sua sfiducia nelle parole, in particolare nella loro pretesa dʼinterpretare e determinare il significato, è un elemento che emerge costantemente conversando con lui. In Lynch, lʼanima dellʼautodidatta possiede una forza ragguardevole. Forse è questa la ragione per cui la giocosa biografia, composta di quattro parole - «Eagle scout, Missoula, Montana» - che nel 1990 scelse per se stesso appare tanto compiuta. Essa infatti suggerisce spiritosamente la rilevanza dei luoghi, riduce al minimo lʼelemento verbale che può svelare molto o molto poco e fa astutamente ammissione di un aspetto fondamentale della sua vita, quello dellʼartista e del regista autonomo a oltranza. Come ha osservato Toby Keeler, da trentasei anni amico di Lynch: «David è sempre stato uno che ama agire. Quando lʼho incontrato per la prima volta si stava dando da fare con i distintivi di merito per diventare un eagle scout. Non è che concedano quei titoli così facilmente, e credo che lui abbia raggiunto il livello più alto possibile, benché non gli vada di parlarne più di tanto. Anche oggi, penso che la sua abilità di creare le

cose dal nulla provenga direttamente da quel vecchio motto, “Tieniti pronto”». Nella sua recensione di Strade perdute per Film Comment, Donald Lyons ha messo giustamente in evidenza che si tratta del «film di un pittore». Per Lynch la pittura è, letteralmente, il luogo in cui tutto ha origine, e rappresenta pertanto il punto di partenza più appropriato. Lʼintuizione adolescenziale del fatto che la pittura potesse essere una legittima professione segnò la prima importante svolta della sua vita. Come rammenta Toby Keeler: «Quando scoprì lʼarte e la pittura, ne fu come posseduto. E, perdio, comʼera prolifico!». In pratica, Lynch lasciò la scuola per dedicarsi alla «vita dellʼartista», una situazione che, se non incoraggiata, fu comunque tollerata dai suoi genitori. Il medium non ha mai allentato la presa su di lui. Le superfici oscure e sfumate delle sue tele più recenti, di quando in quando abitate da affusolate figure insabbiate in minacciosi paesaggi fatti di vernice nera e detriti, esprimono alla perfezione lʼinfantile meraviglia e il terrore che hanno innescato una parte tanto rilevante del suo cinema. RODLEY:

Quando eri bambino la tua famiglia si spostava regolarmente, di città in città e di Stato in Stato. Che effetto ti faceva quel genere di vita così precario? LYNCH:

Beʼ, ci sono i pro e i contro, perché senti di esserti radicato in un luogo e improvvisamente ti ritrovi in un altro: devi farti nuovi amici, capire come funziona il posto. Per alcuni ragazzi è molto positivo, perché sviluppano le capacità per tirare avanti, ma altri ne vengono schiacciati. Purtroppo se sei un genitore non ti

rendi conto di che tipo di figli hai: devi semplicemente trasferirti. E tu che genere di ragazzo eri? Io me la sono cavata piuttosto bene. Avevo la percezione di cosa bisognava fare per tirare avanti. Una volta che ce lʼhai ti puoi muovere come ti pare; ma se ti ritrovi escluso è davvero difficile, ti senti costretto a rientrare nei ranghi e questo porta via un sacco di tempo, e così non fai ciò che dovresti. E per quanto riguarda la scuola, è stata dura per te? Sì, ma non mi riferisco allʼaspetto educativo, parlo degli altri ragazzi. Se sei un outsider lo senti, e ti può anche star bene. Tutti i ragazzi lo sentono. Tuttavia, se stai fermo in un posto e sei un outsider, faresti meglio a muoverti e a provarci di nuovo! È uno shock per il sistema, ma gli shock al sistema a volte sono davvero positivi. Di colpo acquisti un poʼ più di consapevolezza. Non è come prendersi una botta sulla testa, ma è sufficiente a far vibrare qualche corda. Così, qualche spiraglio ti si schiude e diventi un pochino più consapevole. Hai parlato spesso di tuo padre e del suo lavoro di ricercatore per il ministero dellʼAgricoltura. Qual è il ricordo più caro che hai di lui? Lui che se ne va al lavoro a piedi indossando un completo e un cappello a tesa larga. Quando vivevamo in Virginia mi imbarazzava tantissimo che portasse quel cappello, ma adesso lo considero assolutamente a posto.

Era un cappello da cowboy grigioverde, da guardia forestale, se lo metteva e usciva di casa. Non andava né in autobus né con la macchina né con nientʼ altro, si metteva semplicemente a camminare e si faceva un bel poʼ di chilometri fin giù in città, passando per il George Washington Bridge, sempre con quel cappello in testa. Tua madre faceva la casalinga oppure lavorava fuori casa? No, stava in casa. Non sono sicuro del suo titolo di studio, ma aveva frequentato lʼuniversità. Aveva fatto qualche lavoro per un poʼ, ma non so esattamente quale, non me lo ricordo. I tuoi si erano conosciuti allʼuniversità? Già, si erano incontrati alla Duke. Ma a quei tempi, il più delle volte, il marito lavorava e la moglie stava in casa. Ovunque fossi, era così che andava. Il fatto di essere cresciuto negli anni cinquanta pare aver notevolmente influenzato il tuo lavoro di regista. Sebbene film come Velluto blu e Strade perdute siano moderni e contemporanei in maniera quasi feroce, appaio-

1962, La famiglia Lynch. Da sinistra a destra: John, David, Sunny, Martha e Donald.

no ossessionati dai «Fi ies» sia visivamente che nel «tocco» della regia. Come mai sei così affezionato a quel decennio? Oggi, se fai un giro nella Valley, vedi automobili anni cinquanta; se accendi la radio, una stazione è country and western, unʼaltra è del tutto moderna e unʼaltra ancora è oldies but goodies. E poi cʼè stato Elvis Presley: non importa quanta musica ci sia stata prima, il rockʼnʼroll è nato allora. I «Fi ies» sono ancora qui. Sono qua attorno, non se ne sono mai andati. È stato un decennio fantastico sotto molti punti di vista. Le auto venivano costruite dalla gente giusta. I designer ci davano dentro con le alette, le cromature e tutta quella roba davvero meravigliosa. La potenza del motore era importante; i ragazzi conoscevano ogni modello e aspettavano che uscissero quelli dellʼanno successivo. Erano al corrente di tutte le discussioni che riguardavano le automobili, che erano come sculture in

movimento. Adesso, dato che usano un computer che disegna le auto aerodinamicamente, si taglia meglio lʼaria, si risparmia sul carburante e se si guida a 160 chilometri allʼora non ci si ritrova con la parte posteriore della macchina sollevata da terra. Le vecchie auto forse resisterebbero a un incidente, ma allʼinterno le persone si ritroverebbero, beʼ, mutilate! Tuttavia, secondo me, ormai il brivido è finito. B.B. King avrebbe potuto farci una canzone, su questo schifo che è lʼandare in giro in macchina al giorno dʼoggi! Nellʼaria cera qualcosa che oggi è sparito completamente. Era una sensazione fortissima, e non lo dico solamente perché ero un ragazzo. Era unʼepoca veramente piena di speranza; la tendenza puntava verso lʼalto, non verso il basso. Sentivi di poter realizzare qualcosa. Lʼavvenire era luminoso. Non sapevamo che stavamo gettando le fondamenta per un futuro disastroso. Tutti i problemi stavano lì davanti a noi, ma erano in qualche modo dissimulati. Poi il guscio si ruppe, si guastò, e tutto quanto prese a colare fuori. Quando dici che tutti i problemi stavano lì davanti, a cosa ti riferisci? Beʼ, lʼinquinamento era proprio belle cominciato. Lʼavvento della plastica, strani studi sulla chimica, i copolimeri e una quantità di esperimenti medici, la bomba atomica e parecchi, ehm, «collaudi». Pareva che il mondo fosse così vasto che ci si potevano scaricare montagne di roba senza che la cosa avesse la minima importanza, capisci? Era come se tutto fosse sfuggito di mano.

Nel materiale stampa del 1990 per Cuore selvaggio hai «distillato» la tua biografia in quattro parole: «Eagle scout, Missoula, Montana». Perché? Beʼ, ci sono i lupetti [giovani esploratori al di sotto dei dieci anni, N.d.T.] e poi ci sono i boy scout. Si tratta di buone organizzazioni, ma a un certo punto diventarono così poco «giuste» che non cera più da divertirsi! E questo avvenne durante gli anni in cui ero nei boy scout! Era una cosa quasi imbarazzante, da vergognarsi. Non era per niente uno spasso. Essere un eagle scout era il massimo! Ero diventato uno di loro e perciò me ne potevo andare, lasciarmi tutto alle spalle. E mio padre, Dio lo benedica, diceva sempre: «Un giorno sarai orgoglioso di esserci riuscito». Così lʼho messo nel mio resumé. Come eagle scout, eri presente allʼinsediamento di John F. Kennedy? Certo. Avevano chiesto agli eagle scout di far accomodare i vip ai loro posti allʼaperto, fuori dalla Casa Bianca. Fu la cerimonia dʼinsediamento più fredda della storia: il 20 gennaio 1961, che tra lʼaltro era anche il mio compleanno. Così eccomi nella neve e al gelo, accanto a un cancello della Casa Bianca. In più ci avevano detto che le limousine stavano per uscire da uno dei cinque cancelli. Perciò dovevamo precipitarci in cima alla scalinata, dare unʼocchiata al di là del muro e controllare se stavano arrivando. Li vidi svoltare verso il cancello presso cui mi trovavo e presi a correre giù, ma quelli dei servizi segreti ordinavano a tutti di tornare indietro. Feci per avviarmi, quando uno dei servizi segreti mi disse: «Ehi, tu!». Io mi

girai, e quello stava indicando me; feci: «Io?», e lui: «Sì, tu, vieni qui». Mi portò con lui e mi sistemò tra sé e un altro suo collega, in un muro di agenti dei servizi segreti che presidiavano il sentiero vicino al cancello. E di fronte a me, sul lato opposto della strada, altri agenti ancora. Il cancello si spalancò e ne uscirono due macchine, ad andatura lenta, che si mossero proprio nella mia direzione. Il finestrino era a trenta centimetri dal mio viso, e mentre passavano vidi, nella prima vettura, il presidente uscente Eisenhower e il suo successore Kennedy. Portavano cappelli a cilindro e parlavano tra loro. Ike era il più vicino a me, e Kennedy stava circa un metro e mezzo più in là. Poi passò lʼaltra macchina e dentro cerano Johnson e Nixon, ma loro non parlavano. Anni dopo mi resi conto di aver visto quattro presidenti consecutivi in quel breve istante, stando in piedi fra due uomini dei servizi segreti. Cosa ricordi dellʼassassinio di Kennedy? Beʼ, fu terribile. Stavo affiggendo una tabella nel corridoio centrale della High School, così lo seppi prima di chiunque altro. Poi però fecero un annuncio e ci mandarono a casa. Judy Westerman, la mia ragazza di allora, era cattolica, ed era legatissima a quel presidente, da non crederci! Piangeva e singhiozzava, e allora la portai a casa. Entrò in camera sua e non ne uscì per quattro giorni! Fu bizzarro, perché la diretta televisiva era iniziata prima del fatto, e quindi tutti quanti si trovavano nelle loro case a guardare lo stesso evento. E tutti videro Jack Ruby uccidere Oswald. Li chiamarono «i quattro giorni

oscuri», e, ironia della sorte, in quei quattro giorni Judy restò al buio nella sua camera da letto, perciò per lei furono oscuri davvero! Esaminando il tuo lavoro, si potrebbe supporre che da bambino avessi paura di parecchie cose. È vero? Molte cose. Ma ne ero turbato, più che impaurito. Veramente turbato. Pensavo: «Non è così che dovrebbe andare», e questo mi turbava. Da parte mia era un sospetto, se non quasi una certezza.

Come eravamo. Un Natale dellʼinfanzia di Martha, John e David Lynch.

Una volta hai detto che anche la tua sorella più giovane, Martha, aveva paura, ma dei piselli verdi! È così?

Certo. Credo che avesse qualcosa a che fare con la consistenza e la solidità della superficie esterna, e poi con quello che cʼè allʼinterno quando laceri la membrana. Era connesso più alla durezza del fuori e alla morbidezza del dentro, che al sapore. Però non so, dovresti chiedere a lei. Era una faccenda importante nella nostra famiglia, lei li nascondeva. Come mai i tuoi non hanno semplicemente smesso di darle i piselli? Beʼ, sai, era solo verdura… Che a te piace… Certamente. Ma non sarebbe così se ne fossi spaventato… No, no, non si tratta di questo. Non cʼè niente da fare: bisogna provare con un altro ortaggio, qualcosa dovrà pur funzionare! Anche se allʼepoca non ne erano coscienti, oggi i tuoi genitori sanno che eri un bambino turbato? Beʼ, credo che ogni bambino veda delle cose, dei fatti che lo interessano da vicino; non è colpa di nessuno. È così che va. È esattamente il modo in cui funziona la mente di un ragazzino. Probabilmente il 75 per cento è sogno e il 25 per cento realtà. Da bambino la città ti faceva paura, vero? E anche da adolescente. Esatto; tuttavia credo che se si cresce in città si è terrorizzati dalla campagna, e se si cresce in campagna

si è terrorizzati dalla città. Dato che i miei nonni materni vivevano a Brooklyn, andai a New York e vidi tutto quanto: e ne fui terrorizzato a morte. In metropolitana ricordo le folate provocate dai treni in arrivo, e poi gli odori, i rumori… Ogni volta che andavo a New York assaggiavo il gusto dellʼorrore. A Brooklyn mio nonno possedeva un palazzo fatto di appartamenti senza cucina. Una donna cuoceva le uova su un ferro da stiro, il che mi diede delle serie preoccupazioni. E ogni sera il nonno svitava lʼantenna della macchina in modo che le bande non la rompessero. Sentivo la paura nellʼaria. Fu una buona benzina per gli incendi futuri. In che senso? Imparai che appena sotto la superficie cʼè un altro mondo, e mondi ancora differenti se scavi più in profondità. Da ragazzino ne ero consapevole, ma non riuscivo a trovarne la prova. Era semplicemente una sensazione. Cʼè bontà nei cieli blu e nei fiori, ma ci sono anche altre forze - il male selvaggio, la decadenza - che accompagnano ogni cosa. Prendi gli scienziati: partono dalla superficie e poi cominciano a scavare. Scendono fino alle particelle subatomiche, e oggi il loro universo è molto astratto. In un certo senso sono come dei pittori astratti. Può essere problematico parlare con loro, dato che sono completamente sprofondati laggiù.

Pazzo per le armi. Lynch (a sette anni) e le truppe schierate.

Come e quando ti sei interessato per la prima volta allʼarte? Da piccolo avevo lʼabitudine di disegnare e dipingere di continuo. Una cosa per cui ringrazio mia madre è lʼessersi rifiutata di darmi degli album da colorare, perché è così limitante… Mio padre, che lavorava per il governo, si portava a casa delle risme di carta. Perlopiù disegnavo munizioni, pistole e aeroplani, poiché la guerra era appena finita e tutto questo era, credo, ancora nellʼaria. Avevo il mio elmetto personale, un cinturone militare e una borraccia, e poi dei fucili di legno. Li disegnavo perché facevano parte del mio mondo. Generalmente ritraevo fucili mitragliatori automatici Browning con raffreddamento ad acqua: erano i miei preferiti. Avevo suppergiù quattordici anni quando andai coi miei nonni paterni su nel Montana. Il nonno stava tornando al suo ranch, nel quale era cresciuto mio padre - il Sweet Ranch, nel Montana - e mi mollarono a Hungry

Horse con mia zia Nonie Krall. In questo paesino, che si trova proprio nei pressi della diga dello Hungry Horse, vivono circa duecento persone, e ci sono tutti quei negozi di cianfrusaglie. Zia Nonie e zio Bill gestivano un drugstore, e di fianco a casa loro abitava un pittore di nome Ace Powell, della scuola di Charlie Russell e Remington. Di solito andavo lì e disegnavo. Lui e sua moglie erano entrambi pittori, e avevano sempre carta e tutto il resto. Ma era così fuori mano, sperso in quellʼangolo del West, che non mi era mai balenata lʼidea che la pittura potesse essere qualcosa di reale; pensavo che si trattasse di una faccenda tipicamente western. Allora quandʼè che ti rendesti conto che fare il pittore era una professione legittima? Ci eravamo trasferiti in Virginia e io non sapevo che cosa avrei fatto. Non ne avevo proprio la minima idea, sapevo solo che mi piaceva dipingere. Mio padre era uno scienziato, così pensavo che forse lo sarei stato anchʼio. Era come se non pensassi per niente, zero pensieri originali! Conobbi il mio amico Toby Keeler nel cortile davanti alla casa della mia ragazza, Linda Styles. E Toby fece due cose: mi disse che suo padre era un pittore - il che cambiò completamente la mia vita - e mi soffiò pure la ragazza! Così andai a Georgetown a visitare lo studio di suo padre, che era davvero un tipo in gamba. Lavorava per conto proprio, non apparteneva realmente al mondo dellʼarte; tuttavia aveva dedicato la sua vita alla pittura, e ciò mi scosse nel profondo. Io e il padre di Toby, che si chiamava Bushnell Keeler, diventammo amici, il che mi fece decidere per un corso di pittura: dunque andò tutto

alla grande, al 100 per cento. Frequentavo la nona classe; Bushnell mi fece anche conoscere un libro di Robert Henri, intitolato Lo spirito dellʼarte, che per me divenne una specie di Bibbia, dato che descriveva le regole della vita artistica. Fu uno di quegli eventi che hanno del fantastico, perché è come se ti mettessero sulla tua strada: lʼincontro con Toby nel cortile di fronte alla casa di Linda Styles… 1960, 1961 forse. Molti dei tuoi quadri tra la fine degli anni ottanta e lʼinizio dei novanta si fondano sul concetto di casa: Lʼombra di una mano contorta sulla mia casa, Formiche nella mia casa o Allʼimprovviso casa mia è diventata un albero di piaghe. Perché? Parecchi dei miei quadri derivano dai ricordi di Boise, Idaho, e Spokane, Washington. Alcuni, seguendo il proprio temperamento, pensano al presidente degli Stati Uniti, allʼAfrica o allʼAsia. Le loro menti coprono migliaia di chilometri, riflettono sui grandi problemi e sulle grandi situazioni. Questo mi lascia del tutto indifferente. Non ci arrivo. Mi piace pensare a un piccolo quartiere: una siepe, un fosso, qualcuno che scava un buco, e poi una ragazza in una casa, un albero, e ciò che accade in quellʼalbero: un piccolo luogo circoscritto, allʼinterno del quale posso penetrare. I due punti di vista sono in realtà gli stessi: è tutto basato sulla natura umana e sul medesimo ordine di cose. Nei dipinti la casa è vista spesso come un luogo minaccioso. In Casa e giardino, per esempio, il giardino è fatto di cerotti coagulati. Assomiglia più a una tomba che a un giardino. Come mai?

La casa è un posto in cui le cose possono anche andare per il verso sbagliato. Da piccolo, le case mi sembravano claustrofobiche, ma non perché avessi una cattiva famiglia. Una casa è come un nido, va bene solo per un certo periodo. Utilizzo i cerotti nei miei quadri perché mi piacciono i loro colori, e mi piace il modo in cui sono connessi alle piaghe. Il cotone esercita su di me unʼattrazione simile, una sorta di sensazione «medicale». Mio padre ha sovente condotto esperimenti sulle malattie degli alberi e sugli insetti. Aveva a disposizione immense foreste sulle quali sperimentare. Perciò mi trovavo a contatto con gli insetti, le malattie e i fenomeni della crescita in una specie di universo organico, come lo può essere una foresta o anche un giardino. Tutto ciò in un certo senso mi dà i brividi: il terreno, e le piante che spuntano, e poi le creature che ci strisciano sopra, il lavorio di un giardino: tantissimi intrecci, movimenti. Ti ci puoi proprio smarrire per sempre. E poi i giardini sono esposti a parecchie aggressioni: massacri in quantità, morte, malattie, vermi, lombrichi, formiche. Succedono un sacco di cose. Sembra che tu preferisca porti a stretto contatto con le situazioni, che le apparenze non ti soddisfino. Come nella sequenza dʼapertura di Velluto blu: dallʼidilliaco «carapace» di un piccolo quartiere agli insetti che brulicano nel prato di fronte a una casa. La foto di un giardino sul National Geographic è una delle cose più belle in assoluto. Oppure anche un pino sullo sfondo di un cielo blu con un paio di bianche nuvole paffute… Qualcosa ti si muove dentro. Ma se ti avvicini di un passo ti rendi conto che ogni albero ha dovuto

esercitare un sacco di sopraffazione per raggiungere quelle dimensioni. Se sei un giardiniere ti tocca sovraintendere a un gran numero di eventi terribili. La mia infanzia era fatta di case eleganti, strade fiancheggiate da albe-

Allʼimprovviso casa mia è diventata un albero di piaghe (1990). Olio e materiali vari su tela. 168×173 cm.

ri, il lattaio, i cortili nel retro dei palazzi, il ronzio degli aerei, i cieli blu, le staccionate, lʼerba verde, i ciliegi. LʼAmerica media come si pensa che sia. Ma dai ciliegi cola fuori la resina, a volte nera a volte gialla, con milioni di formiche rosse che ci strisciano sopra. Mi sono accorto che se si guarda un poʼ più da vicino questo mondo meraviglioso, sotto ci sono sempre delle formiche rosse. Dal momento che ero cresciuto in un mondo perfetto, tutto il resto rappresentava un contrasto.

Osservavo la vita in primissimi piani: in uno, per esempio, la saliva si mischiava col sangue. Oppure, al contrario, in campi lunghi, su ambienti pieni di serenità. Avevo parecchi amici, ma mi piaceva starmene per conto mio a guardare gli insetti che sciamavano in giardino. Nel quadro Lʼombra di una mano contorta sulla mia casa, la mano, paragonata alla casa, appare enorme. Fuori dalla casa si avverte un senso di terrore. Esatto. A volte nei quadri le proporzioni sono strane, per cui, diciamo, una cimice è più grande di una casa. È inquietante. Non sono il solo a far que-

Lʼombra di una mano contorta sulla mia casa (1988). Olio e materiali vari su tela. 165×210 cm.

sto. La gente sente che fuori dalla propria casa, e sfortunatamente, in molti casi, persino allʼinterno, ci

sono dei problemi con cui fare i conti. E non se ne vanno via «pensando positivo». Cosa puoi dire a proposito del quadro La casa di mamma, che è realmente pazza? Di nuovo, il personaggio è immenso in confronto allʼedificio. Di solito sono i padri a essere visti in modo così minaccioso: come mai in questo caso si tratta della madre? Non saprei. Uhm… Non so se psicologicamente dipende dalla mia esperienza o se è semplicemente unʼidea come unʼaltra. In generale i tuoi quadri evocano il mondo di un bambino colpito dal terrore. I tuoi primi cortometraggi The Alphabet e The Grandmother paiono provenire dalle medesime «zone». Non somigliano ai ricordi di unʼinfanzia felice. No. Eppure ho vissuto unʼinfanzia idilliaca. La sola cosa che mi turba è che anche molti psicopatici dicono di aver avuto unʼinfanzia felicissima. Allora mi dico: «Un momento, ho veramente avuto unʼinfanzia felice?». E la risposta è molto semplice: ho avuto unʼinfanzia felicissima. Ne ho dei ricordi estremamente piacevoli. Ho letto qualche riga a proposito della smania dʼeuforia nei sogni infantili rimossi. In effetti era una specie di sogno, dato che il mondo era così piccolo. Non rammento di essere mai stato capace di scorgere più in là di un paio di isolati. Ciò che accadeva al di là non faceva parte di me! E quei due isolati erano enormi… È così che ogni minimo dettaglio viene ingrandito al di là delle sue effettive proporzioni. Cʼè felicità in un cortile, in una siepe o in un raggio di luce che cade su un oggetto. Si possono trascorrere ore e ore in un

minuscolo spazio nellʼangolo di un cortile. A volte questi ricordi si schiudono, e lʼeuforia mi assale. Nella mente di un ragazzo, tutto appare meravigliosamente sereno. Gli aerei filavano lentamente nel cielo; i giocattoli di gomma galleggiavano sullʼacqua; i pasti parevano durare cinque anni e i sonnellini sembravano infiniti. Hai detto che la tua infanzia è stata simile a un sogno. Credi dunque che tendiamo a romanzare il nostro passato? In tutti i nostri ricordi avvantaggiamo noi stessi. Retrospettivamente ci comportiamo meglio, prendiamo decisioni migliori, siamo più affabili con la gente e ci attribuiamo maggior credito di quanto probabilmente non meritiamo. Stendiamo melassa a più non posso per poter continuare a vivere. È probabile che una memoria precisa del passato sarebbe deprimente. Perciò quanto si può realmente fare affidamento sulla memoria individuale? Beʼ, come dice Fred Madison in Strade perdute: «Preferisco ricordarmi le cose a modo mio». Tutti lo fanno, in una certa misura. La maggior parte della giornata è un sogno: è sempre possibile evadere allʼinterno della propria mente, e scivolare dentro un mondo completamente diverso. Dato che nel tuo lavoro hai così copiosamente attinto al tuo passato, ritieni che lʼaccesso a ricordi ed eventi dellʼinfanzia possa talvolta rivelarsi arduo? Beʼ, se ci venisse ordinato di accedervi non sarebbe facile. Ma di tanto in tanto ci si concentra su un certo nucleo di memoria, e allora gli eventi cominciano ad accadere. Tuttavia ho vissuto

esperienze nelle quali ho avuto un lampo istantaneo, apparentemente un ricordo. E questʼultimo sopraggiunge insieme a una fantastica sensazione di felicità, anche se mai nella vita potrei immaginare in che luogo si sia svolto quel lʼepisodio. La sensazione è del tutto reale, e malgrado ciò non sono in grado di ricordare quando possa essersi prodotta. Inoltre si tratta di frammenti piccolissimi, tanto da non fornirmi indizi sufficienti a stabilire se quei fatti si siano verificati davvero. Trovi che, man mano che si invecchia, vada svelandosi un maggior numero di ricordi? Certo. Ritengo che si tratti di un meccanismo di difesa. Con il trascorrere del tempo ti fai coinvolgere moltissimo dalle cose, e questo blocca la capacità di distinguere i piccoli dettagli e di provare nuovamente quel medesimo genere di esperienza. Così ogni tanto qualcosa salta, e si ritorna indietro. Minimi dettagli. È importantissimo proiettarsi allʼesterno, mettersi tranquilli e guardare alle cose dal basso. Da piccoli si guarda sempre verso lʼalto, e se si conserva la capacità di abbassarsi per guardare in su le condizioni sono più o meno ancora le stesse. Se non fosse per il fatto che si è estremamente coscienti, il che rovina quasi tutto. Quando si è bambini tutto è così misterioso… Le cose più semplici, come un albero, non hanno alcun senso preciso. Lo vedi da lontano e ti appare piccolo, ma come ti avvicini sembra crescere; non possiedi ancora la padronanza delle regole. Da adulti pensiamo di comprenderle, le regole, ma ciò che in realtà sperimentiamo è una restrizione dellʼimmaginazione.

Da bambino trovavo il mondo assolutamente e totalmente fantastico. Naturalmente avevo i soliti timori, tipo andare a scuola: riconosco che lì cera qualche problema. Tuttavia anche tutti gli altri avvertivano quello stesso problema, e quindi le mie paure erano del tutto normali. A quei tempi per me la scuola rappresentava un crimine contro la gioventù. Distruggeva i principi della libertà. Gli insegnanti non incoraggiavano la conoscenza, o gli atteggiamenti positivi; le persone che mi interessavano non ci andavano proprio, a scuola. Il più delle volte mi sembra di avere dai nove ai diciassette anni, e ogni tanto sei! Lʼoscurità si è insinuata in me sin da allora; e lʼoscurità sono le percezioni del mondo, della natura umana e della mia stessa natura, tutte combinate insieme in unʼunica sfera melmosa. Ma che le cose siano o meno andate esattamente nel modo in cui tu le rammenti, i ricordi della tua infanzia sembrano fornirti spunti in continuazione. Sì, è vero. E inoltre cʼè sempre del nuovo materiale in arrivo. Il vecchio e il nuovo a volte si associano meravigliosamente. Cosa cʼè di tanto gratificante per te nella pittura, e perché senti ancora lʼesigenza di praticarla? Beʼ, ti puoi mettere seduto, e io adoro stare seduto allʼaperto, e fluttuare via. E a volte, in particolare quando sto per addormentarmi o sono a occhi chiusi, mi lascio trasportare in questo spazio in cui le immagini affiorano senza che io le solleciti. Infatti se comincio a pensarci si bloccano. E dal momento che non esprimo giudizi né ci

rifletto troppo sopra, ecco che arrivano, di solito in serie. Diciamo che, se si tratta di un viso, il successivo sarà solamente un pochino diverso dal primo: tutto nella medesima linea. E alcune di queste idee o di queste immagini hanno del sensazionale. La pittura è un mezzo per fissarle in maniera maggiormente stabile. Dunque, tu osservi una cosa: una settimana dopo, il 99 per cento di queste immagini non sarai più in grado di ricordarle. Dipingere te le fa tornare alla mente: esiste anche questʼaspetto. E tu le elabori in uno spazio in cui pensi di poter ottenere dei risultati, e ciò ti dà piacere: cʼè un che di elettrizzante nellʼavvertire questa sensazione e sperimentarla. Provo questa emozione quando ascolto qualcuno, per esempio un insegnante. Se disegni mentre lui sta parlando, il risultato può non aver niente a che fare con quello che hai ascoltato; ma se ti sottoponessero a un test su ciò che è stato detto non avresti che da far correre le dita sul disegno: le parole che sono state pronunciate sono registrate lì sopra. E come se tu fossi una puntina che scorre su un disco, ed è strano. Il tempo del sogno rappresenta unʼevidente pietra angolare del tuo cinema. Che importanza ha nella tua vita? Quelli che contano sono i sogni a occhi aperti, ovvero quelli che sopraggiungono quando me ne sto tranquillamente seduto in poltrona lasciando che la mente vaghi con dolcezza. Quando si dorme non si controllano i propri sogni. Mi piace tuffarmi nel mondo onirico che ho creato; un mondo che scelgo e sul quale esercito un controllo totale.

Dopo che hai fatto un sogno veramente brutto, quando al risveglio lo rammenti e lo racconti agli amici non cʼè niente di terrificante. Puoi leggere sui loro volti che non si tratta della storia spaventosa che pensavi che fosse. Ma è proprio qui che sta la forza del cinema. E a volte persino questʼultimo non può nulla, perché chi fa il sogno se ne impadronisce al 1000 per mille. Il sogno è andato in scena solo per quellʼindividuo, per il quale possiede unʼunicità e una potenza estreme. Tuttavia, lavorando con i suoni, con le situazioni e con il tempo si può andare molto vicino a una sua ricostruzione a vantaggio di qualcun altro, tramite un film. Ma una volta avuto quel brutto sogno, qual è la natura dellʼelemento mancante che è tanto difficile comunicare agli altri? È lʼaspetto soggettivo. Il sogno non potrà impressionare Tizio nel modo in cui lo fa con Caio o con Sempronio. Ognuno di loro ha unʼorigine diversa. Può esserci un elemento del tutto assurdo nel sogno che ti spaventa, ma su di te funziona. Però può anche darsi che sia solo un timore eccessivamente astratto. Il mio amico Jack Fisk aveva un sogno ricorrente, in cui cera uno pneumatico che rotolava sullo scaffale di un garage: rotolava, rotolava, faceva per andarsene; poi tornava indietro, rotolava nellʼaltro senso e di nuovo era sul punto di andar via. Quel semplice pneumatico rotolante lo spaventava. Beʼ, vallo a capire! Lʼelemento essenziale è totalmente incomunicabile. In qualche modo devono intervenire delle informazioni supplementari. Così, un piccolo nucleo viene a caricarsi di un determinato livello di conoscenza.

È ciò che mi ha comunicato la sequenza dellʼincidente dʼauto in Cuore selvaggio, nella quale Sherilyn Fenn se ne va in giro in cerca del rossetto e della borsa mentre il cervello le cola fuori dal cranio. Laura Dern sta gridando, e in sottofondo scorrono le note semplici e agghiaccianti di un brano di Angelo Badalamenti. Tutto contribuisce a costruire un momento terrificante e profondamente malinconico. In che modo si inizia anche solamente a orchestrarlo? Il tutto è più grande della somma delle parti. A volte. È difficile spiegare queste cose. Fatta eccezione per quando è il caso a incaricarsi di mettere insieme i materiali, ci sono delle scelte che si possono fare; così discuti e ascolti e rifletti e provi delle sensazioni fino a quando arrivi a qualcosa che sembra funzionare. Ma in realtà si compiono tentativi simili per ogni scena. Presumibilmente quella scena era prevista in sceneggiatura. Ne è venuto fuori qualcosa di simile a ciò che era stato scritto? No, ma questo si verifica per tutto ciò che faccio. Di quando in quando ti rendi conto che il destino è al lavoro: talvolta può esserti avverso, altre volte può giocare a tuo favore. E comunque ti accorgi che devi fare la tua parte. Ci sono moltissime altre cose che credi di avere sotto controllo, ma non è così. A proposito di quella scena, ero con Angelo e gli spiegavo quello che desideravo. Sai, una cosa semplice, infantile, radicata negli anni cinquanta. E Angelo attacca: è in grado di suonare qualsiasi cosa, ha una formazione a tutto campo. Così, mentre io gli parlo, lui comincia a suonare; poi passa a qualcosʼaltro e io gli parlo ancora, poiché

reagisco a quello che viene fuori, e lui tenta di cogliere un sentore di ciò che ho veramente in testa. Attacca in un punto e va avanti; e a un tratto, non appena inizio a provare un certo entusiasmo, ecco che ci è arrivato, ed esegue il pezzo per intero. In seguito lo uniamo allʼimmagine: e… BOOM! Ti dirò una cosa: quel brano musicale crea lʼ80 per cento dellʼorrore della scena. È il suo elemento emozionale. Nel momento in cui hai iniziato a interessarti ad altri pittori famosi, chi di loro ti ha realmente impressionato? Per me Francis Bacon è il più grande, il numero uno, una specie di eroe. Ci sono molti pittori che amo, ma se si tratta del brivido di stare davanti a un quadro… Ho visitato una mostra di Bacon negli anni sessanta alla Marlborough Gallery, ed è stata davvero una delle cose più potenti che abbia mai visto in vita mia. Cosa ti ha maggiormente entusiasmato in Bacon? Lʼuso del colore oppure i suoi soggetti? Tutto. I soggetti e lo stile sono combinati, coniugati, perfetti. E lo spazio, la lentezza e la velocità, e poi le strutture, ogni cosa. Di norma apprezzo solamente un paio dʼanni dellʼattività di un pittore, ma di Bacon mi piace tutto. Era uno che ci sapeva fare. Ha trascorso moltissimo tempo a dipingere continuamente il medesimo quadro. Beʼ, dico io, e allora? Oggi, una volta che hai fatto due film più o meno simili, la gente già muore dalla voglia di qualcosa di nuovo. È triste che possa durare così poco.

Lʼepisodio peggiore a cui abbia mai assistito è avvenuto al Festival di Cannes, quando il pubblico fischiò un film di Fellini. Fu la notte precedente alla presentazione di Cuore selvaggio, e quelli fischiarono il suo film. Non mi importa di come fosse il film, quel fatto mi ha semplicemente ucciso. Ucciso. Fellini era un regista che aveva raggiunto un livello tale per cui avrebbe dovuto ottenere rispetto. I quadri di Bacon implicano spesso una narrazione, ma il loro punto oscuro riguarda esattamente ciò che sta avvenendo. È questo che suscita il tuo interesse? Proprio così: frammenti di racconto. Se Bacon avesse girato un film, in che modo lʼavrebbe fatto, in quale direzione sarebbe andato? E il linguaggio cinematografico come avrebbe tradotto quelle strutture e quegli spazi? Ultimo tango a Parigi è stato molto influenzato da Bacon. Si tratta di qualcosa che ha a che fare con la sua pittura, con ciò in cui era maestro. Edward Hopper è un altro artista che amo, ma questo concerne più il mio cinema che i miei quadri. Comincio immediatamente a sognare, quando guardo le sue opere. Lo stesso mi capita con Bacon: riesco sempre a prendere il volo davanti ai suoi quadri, così come potrei farlo con un brano musicale. Una volta hai detto che quando dipingi il più delle volte cerchi di «startene in disparte». Cosa intendevi? Beʼ, è come per i giapponesi con i giardini. È la Natura a compiere lʼopera, tutto ciò che loro fanno sta forse nel prendere un ramo e potarlo, imporgli la loro volontà, farlo crescere in un determinato modo. Sfrondano,

scartano alcuni elementi. Tuttavia sono le piante a fare la maggior parte del lavoro. È una strada a doppio senso: la Natura e lʼUomo che collaborano. In pittura il colore possiede una struttura, ed è come se volesse presentarsi in una certa maniera. Il pennello è così artificiale, traccia delle lineette minuscole. Dopo che hai buttato giù un bel poʼ di pennellate hai di fronte qualcosa di diverso. In genere non è il quadro che parla ma lʼindividuo, fin troppo. Perciò devi lasciare che avvengano eventi casuali, stranezze: lasciare che agiscano, in modo che generino una specie di qualità organica. È questo che intendevo. Ammiro coloro che hanno unʼidea e la dipingono. A me non potrà accadere mai e poi mai. Non so perché sia così: non appena mi metto al lavoro, quellʼidea si trasforma subito in qualcosʼaltro. Come per i surrealisti e la scrittura automatica? Certo. È più o meno come se si prendessero dei frammenti scritti in unʼoccasione qualsiasi, da te o anche da qualcun altro, li si tagliuzzasse, li si mescolasse alla rinfusa e li si gettasse giù, come hanno fatto alcuni, e poi si leggesse ciò che ne è venuto fuori: sarebbe fantastico. Potrebbe innescare qualcosa di completamente diverso. Si deve sempre lasciare uno spiraglio affinché altre forze possano agire. Quando sei solo con te stesso la semplice scrittura ti appare limitata, e vorresti in qualche modo spalancarla e buttar fuori tutto, permettendo ad altri clementi di intervenire. Ne emergono idee nuove, diventa davvero incredibile. A volte, tentando di rimuovere te stesso, puoi arrivare a vedere delle cose fantastiche.

Distribuire il colore con le dita e lasciare che tutto proceda, innestare una specie di pilota automatico… Non so precisamente con quali, ma credo che ciò abbia parecchio a che vedere con eventi accaduti durante lʼinfanzia. Secondo me il fatto che risalgano allʼinfanzia non cancella per niente la sessualità dai dipinti, poiché ritengo che i bambini siano sessualmente molto coscienti. Non sanno come parlarne e hanno delle goffe maniere per esprimersi; tuttavia dal punto di vista sessuale succedono sicuramente un sacco di cose che da ragazzini non comprendiamo pienamente. Mi piacerebbe mordere i miei quadri, benché non possa farlo dal momento che i colori contengono piombo. Il che significa che sono una specie di codardo. Non sento di essermi ancora spinto veramente fino in fondo, e i miei quadri continuano ad apparirmi innocui e tranquilli. Hai detto anche che i tuoi quadri potrebbero essere ambientati ovunque, ma che i tuoi film si svolgono in America. I quadri derivano dal colore, dallʼazione e dalla reazione. Quanto al luogo preciso in cui sono situati… alcuni quando sono in casa aprono le finestre, ma una casa a me piace esaminarla in profondità e rinvenire cose nascoste sotto altre cose: forse è proprio lì che si trovano… Amo anche le fabbriche. Un paesaggio sereno mi appare assolutamente noioso. Mi piace lʼidea dellʼuomo e della terra uniti insieme: come in un pozzo minerario con macchinari pesanti, magari circondato da stagni coperti di sedimenti e di ogni sorta di

microrganismi in crescita, e di zanzare che si alzano in volo a moʼ di piccoli elicotteri. Mi piacciono certe cose dellʼAmerica, e ciò mi fornisce delle idee. Quando vado in giro e vedo qualcosa, scatta la scintilla che mette in moto delle piccole storie, oppure fa venire a galla dei personaggi, ed è per questo che credo sia giusto che io faccia film americani. Cʼè qualche attinenza con la natura dellʼimmagine fotografica? Con il fatto che si deve puntare la macchina da presa su un qualche soggetto, e che è un poʼ difficile fare un film che si svolga «in nessun luogo»? Beʼ, a me piace la parte di «nulla» che cʼè in America. Eraserhead è un film americano, ma è un poʼ come se si collocasse in uno spazio interstiziale. Una specie di angolino nascosto, sporco e dimenticato. Amo quei posti, ci puoi scoprire dei segreti. Sono luoghi minuscoli, autentici ma non banali. Ti devi spingere in profondità per rintracciarli, e non hai nemmeno idea di che genere di spazi siano finché gli elementi non si aggregano. Allora si mettono a parlarti e tu inizi a vederci più chiaro sulla verità delle cose. Tʼinnamori subito di loro, ma in realtà la tua immersione non è ancora cominciata. A proposito di questʼidea di fare un film su «nessun luogo»… Uno di questi posti è forse la Stanza Rossa di Twin Peaks? Sì. Non esiste alcun problema di tempo. E può accadere qualunque cosa. È una zona libera, totalmente imprevedibile e dunque piuttosto eccitante, ma anche terrorizzante. Luoghi di quel tipo sono davvero fantastici da visitare. Un pino e una tazza di caffè: la combinazione

di questi oggetti mi appare assolutamente drammatica (Ride). Il motivo di base dei tuoi dipinti comprende una tavolozza molto ristretta. Sono piuttosto scuri, e rimandano alla cenere, al fango, al sangue rappreso; cʼè pochissimo colore: perché? Non saprei cosa farmene, del colore. Il colore è troppo reale per me, è limitante. Non concede granché al sogno. Più aggiungi del nero a un colore, più diventa onirico. Potrei usare un solo tubo di giallo cadmio per cinquecento tubi di nero. Potrebbe essere uno dei modi per utilizzarlo. Qual è per te lʼassociazione tra il nero e il sogno? Il nero possiede profondità. È come una piccola apertura: ci si entra, e dato che lʼoscurità permane, la mente si distende, e una quantità di cose che

Un altro tempo, un altro posto. Lʼagente speciale Dale Cooper (Kyle MacLachlan) e lʼ«Uomo che viene da un altro posto» (Michael Anderson) nella Stanza Rossa.

accadono lì dentro divengono manifeste. Ci si comincia a rendere conto di ciò di cui si ha paura. O di ciò che si ama, e diventa tutto come un sogno. Come descriveresti le figure dei tuoi quadri? Beʼ, assomigliano ai frammenti di un corpo, o a qualcosa del genere. Non riesco a fare una figura intera, non so perché. Bacon dipingeva delle figure, ma per me è impossibile ritrarre qualcosa per intero. A volte dipingo troppo di una sola figura e allora devo distruggerne una buona parte. Appaiono anche come se fossero di passaggio, forse nel tentativo di uscire precipitosamente dal quadro attraversandone la superficie. Certamente non sembra che vogliano starsene lì con le mani in mano. Sei dʼaccordo? Certo. Probabilmente sono nei guai, non so. Nei miei quadri circola unʼatmosfera spaventosa, ma anche dello humour. In definitiva però credo che lʼidea centrale sia la vita immersa nellʼoscurità e nella confusione… Sicuramente è lì che mi trovo io: sperduto nellʼoscurità e nella confusione. Sai a cosa fanno pensare dei cani in una stanza? Al fatto che sembrano divertirsi davvero. Fanno rimbalzare una palla qua e là, masticano di tutto ed è come se ansimassero di felicità. Gli esseri umani dovrebbero essere così: possiamo anche trovarci in un mare di guai, ma fondamentalmente dovremmo essere felici. E non so per quale motivo non lo siamo.

Lʼoscurità e la confusione andranno mai dissipandosi, oppure la situazione va peggiorando? E tutto ciò rappresenta di fatto una componente inderogabile del tuo lavoro? Stanno scomparendo. Scompariranno, per ognuno di noi. Credo davvero che non andrà così per sempre. Non so per quale ragione sia inevitabile smarrirsi nellʼoscurità e nella confusione, anche se in un certo senso cʼè qualcosa di veramente divertente in questo. Certo che se poi ti ammali, o subisci delle torture, oppure vieni ucciso, non cʼè proprio nulla da divertirsi. Lo stesso se il tuo cuore si spezza, o se la tua casa va a fuoco. Quindi nellʼambito del lavoro sei in grado di imporre un ordine allʼoscurità e alla confusione, come invece pare impossibile fare nella vita reale? Sì, certo, proprio così. I film e i quadri sono tutte situazioni che puoi controllare. Prendere unʼidea e trasferirla in qualcosa di materiale è un processo meraviglioso. È un brivido per lʼanima! Chissà per quale motivo… Per quanto mi riguarda, è la miglior cosa che si possa fare. Cʼè una sorta di goffaggine nelle figure che dipingi; hanno gambe sottili, sono rachitiche, sgraziate. Avrebbero dei problemi nello sbrigare le faccende più semplici. Questo mi rimanda ad alcune scene dei tuoi film, come quella di Twin Peaks in cui Dale Cooper e lo sceriffo Harry Truman sono in grande difficoltà con le sedie girevoli mentre in ospedale stanno facendo visita alla traumatizzata Ronette Pulaski. Beʼ, uno dei miei film preferiti è Lolita di Kubrick, e la scena migliore è quella del letto pieghevole. Il tizio di

colore e James Mason portano questa branda in camera mentre Sue Lyon sta dormendo, e non vogliono svegliarla. Alcune persone non hanno predisposizione per la meccanica, e certi aggeggi sono semplicissimi anche se non granché facili da usare. Cʼè molto di assurdo in tutto questo. Prima di girare quella scena di Twin Peaks avevamo piazzato le sedie, e in seguito la situazione ha cominciato a svilupparsi. Cooper e lo sceriffo Truman dovevano mantenersi calmi, mentre comʼè ovvio Ronette era molto agitata, il che introduceva nella scena una certa tensione e, al contempo, una sorta di humour assurdo. Dʼaltra parte è assolutamente vero che determinati oggetti non sono costruiti molto bene; perciò diventano complicati da utilizzare, e diventa necessario farsene unʼidea. Per le figure dei tuoi quadri e i personaggi dei tuoi film la vita sembra essere un difficoltoso esercizio di equilibrio. A volte in senso letterale, come avviene per il modo in cui camminano. Come Bobby in Twin Peaks, per esempio. Sì. A mio avviso tutti noi ci sforziamo di raggiungere un equilibrio. È la meta finale. Lʼequilibrio perfetto è importantissimo. Penso che di lì si sprigioni una specie di euforia. A volte le cose si muovono tutte insieme e un equilibrio si stabilisce comunque, ma è transitorio. Forse un giorno diventerà permanente. Ti senti spinto verso altri luoghi. Quaggiù la gente è parecchio fuori equilibrio. Tutti quanti oscillano qua e là per cercare di raggiungere i propri scopi, ma non ce la fanno quasi mai. Ritengo che sia perché le persone sono come intorpidite e perciò non fanno che reagire; le loro azioni sono prive di profondità di pensiero. E non si reagisce

più di tanto attraverso il proprio lato razionale. Perlopiù si tratta di un atteggiamento emotivo, e quindi sarà sempre piuttosto instabile. Dato che per te la nozione di «equilibrio» è così importante, potresti affermare che, per esempio, alla fine di Velluto blu il personaggio di Jeffrey Beaumont raggiunge una sorta di equilibrio? Direi che si tratta di una descrizione parziale. Nel vero Jeffrey Beaumont ci sarebbero un milione di altri pensieri che nel film non vengono mostrati, unʼaltra intera serie di inquietudini e di vaneggiamenti. È impossibile mostrare tutto. Tuttavia si potrebbe dire che probabilmente impara qualcosa, ed è come un passo su una strada che porta verso un certo luogo. Ma tantʼè. Ha avuto unʼesperienza e ne ha ricavato alcuni elementi. Anche i quadri mancano di qualsiasi sensazione di sorgente luminosa. Sembrano descrivere mondi oscuri e senza amore. È così? Sono le cose più oscure ad apparirmi veramente belle. Credo di non aver mai imparato a dipingere le parti chiare della vita in una maniera che mi soddisfacesse, nonostante sono convinto che sia possibile farlo: Rousseau ci riesce, e in un certo senso anche Richard Diebenkorn. Però tutti i miei quadri sono delle commedie, organiche e violente. Devono essere realizzati con veemenza, devono essere primitivi e brutali, e a tal scopo cerco di lasciare che la natura intervenga più di quanto non faccia io stesso. Poi cʼè la relazione reciproca tra le forme che dà piacere. E proprio questa parola, «piacere», si riferisce a

qualcosa che forse ha a che fare con lʼamore. Se una cosa dà veramente piacere si dice che la si ama. In qualche modo ti fa vibrare. Perciò, malgrado appartengano al lato oscuro, possono verificarsi delle situazioni molto piacevoli; tuttavia devono essere esattamente così affinché io le possa amare davvero. Nei tuoi quadri hanno spesso una parte rilevante singole lettere ritagliate e incollate insieme in modo da formare delle frasi. Di nuovo ciò mi riporta alla mente Twin Peaks e le lettere che Bob, lʼassassino, colloca sotto le unghie della sua vittima, oltre che naturalmente il tuo primo cortometraggio, The Alphabet. Cosa ti affascina a proposito di lettere e parole? Talvolta, nei quadri, le parole sono importanti allo scopo di far sorgere una riflessione su cosʼaltro stia accadendo lì dentro. In parecchie occasioni le parole mi emozionano come se fossero delle forme, e allora qualcosa ne viene fuori. Una volta avevo lʼabitudine di ritagliare delle piccole lettere e incollarle; mi sembravano proprio carine, tutte in fila come tanti denti. Le incollavo con questa sostanza che sembra un unguento. Le parole mutano a seconda di come si percepisce ciò che avviene nel quadro, e costituiscono una discreta controparte al resto. E a volte divengono il titolo stesso del dipinto. In sé, una parola è anche una struttura. Mentre si guida si vedono fili elettrici, nuvole, il cielo blu oppure lo smog, e anche molte, moltissime parole e immagini. Ci sono insegne e luci bizzarre, e la gente ci si smarrisce. Gli individui non possiedono abbastanza peso. Sono schiacciati, e questo non mi sta bene per niente. A me

piacciono gli spazi estremamente spogli, e quelli che presentano delle irregolarità. È proprio come con i numeri: una stanza spoglia è un 2. E poi, quando ci metti qualcuno dentro, quella persona diventa un 7 forte. Improvvisamente sei in grado di vederla, vedi comʼè il suo volto e il modo in cui si muove: come in Eraserhead. Cuore selvaggio era in un certo senso più «attivo». Era costruito su una sorta di mania, di pazzia del mondo: ecco di cosa parlava. Sostieni che una parola può essere una struttura. Sei sempre stato particolarmente attratto dalle strutture, non è vero? Certo, sono ossessionato dalle strutture. Siamo circondati da così tanta plastica che mi sento costantemente alla ricerca di altre strutture. Una volta ho usato un depilatore per togliere tutto il pelo a un topo e vedere che aspetto avrebbe avuto, ed era bellissimo.

Io vedo me stesso (1992). Olio e materiali vari su tela. 72×76 cm.

Cʼè un quadro intitolato Io vedo me stesso. Assomiglia a due lati di una medesima entità. Una delle figure è scura, e lʼaltra è bianca e scheletrica. È come guardare attraverso un divisorio. Cosʼavevi in mente mentre lo stavi dipingendo? Beʼ, tutti noi possediamo almeno due lati. Una volta ho sentito dire che il «viaggio» consiste nel raggiungere lo spirito divino attraverso la conoscenza e lʼesperienza della combinazione degli opposti. È questo il nostro viaggio. Il mondo in cui viviamo è fatto di contrari; il trucco sta nel riconciliare quelle entità contrapposte. Sono contrapposte nel senso che una è buona e lʼaltra è cattiva? Beʼ, devʼessere così. Non so perché (Ride) ma… uhm… Chris, non so assolutamente cosa dirti a questo proposito! Sono solo degli opposti, tutto qui. E poi vuol dire che cʼè qualcosa nel mezzo, e quello che cʼè in mezzo non è un compromesso, è la forza di entrambi gli elementi. Le persone sono spesso turbate dal lato oscuro della propria psiche. Tu sembri relativamente a tuo agio con il tuo. Come mai? Non ne ho idea, è sempre stato così. Mi sono sempre piaciuti tutti e due i lati e credo che per apprezzare lʼuno si debba conoscere lʼaltro; inoltre più oscurità si accumula, più luce si riesce a vedere intorno a sé. Quando quel lato oscuro viene articolato o espresso attraverso il tuo lavoro, è difficile per la tua famiglia entrarvi in relazione?

Vedi, questo rappresenta un problema per me, dato che in realtà non dovrebbe affatto costituire una preoccupazione. Mi rendo conto che lo è, ma sto solamente facendo il mio lavoro, ed è fantastico. Sono fortunato ad amarlo e a essere in grado di svolgerlo; ciò che ne consegue mi fa sentire buffo, perché è come una specie di zoo. Però è rischioso fare qualcosa di creativo in una situazione pubblica. Beʼ, quando poni una tua opera davanti a un pubblico, ne succedono di cose. Ti esponi a una quantità di eventi. Non è quello il motivo per cui lo fai, ma è così che succede. E se cʼè un aspetto negativo, tantʼè. Vedi, io vengo da Missoula, Montana. Sono un tipo normale. Stai dicendo che chiunque a Missoula, Montana, è «normale» per definizione? (Ride) Adesso, quando dici che sei del Montana, la gente comincia a preoccuparsi, perché Uni-bomber viveva lì. Molti finiscono per vagare per i boschi, perché hanno un paio di rotelle che gli mancano. I boschi sono un posto dove puoi andartene e fare a modo tuo, lontano da chiunque possa interferire: come il governo, o gli agenti delle tasse… Sei stato affettuosamente soprannominato «il Jimmy Stewart venuto da Marte», il che in un certo senso starebbe a indicare unʼevidente discrepanza tra il genere di lavoro che fai e il tipo di persona che sembri essere. Molti ti hanno definito «una contraddizione». Pensi che sia vero?

Cʼè qualcosa di vero, poiché ognuno ha un lato interiore e uno esteriore che, a volte, possono trovarsi in contraddizione: chiunque, ogni essere umano. Ma in alcuni questo gap è più marcato. Lo è anche per te? Forse è così. Un grande gap. Nelle sinapsi! Tale questione sorge sovente a proposito di David Cronenberg: appare e si esprime come una persona regolare ed equilibrata, e ciò nondimeno crea degli incubi cinematografici inquietanti. Di qui la domanda: si tratta fondamentalmente di un pazzo che per svolgere le proprie funzioni assume gli atteggiamenti di una persona normale, oppure è proprio perché in fondo e normale che ha bisogno di lasciarsi «lacerare» secondo altre modalità, assolutamente pubbliche? Cosʼè che viene prima? Tutte due le cose. È proprio così: quello che emerge dal tuo lavoro contiene, a mio avviso, molta più verità del modo in cui cammini per le strade. È come se ad andarsene in giro fosse solamente la punta dellʼiceberg, e il più delle volte questo non ha niente a che fare con ciò che succede dentro di te. Proprio riguardo a quel poco che si riesce realmente a scorgere, un altro quadro, Billy trova un libro di indovinelli proprio nel suo giardino, mi ha immediatamente rimandato a Jeffrey che, in Velluto blu, trova un orecchio passando per un tratto di terreno incolto. Cosʼè che ti affascina in questo scoprire qualcosa nei dintorni del luogo in cui si vive?

Beʼ, immagina di aver trovato un libro di enigmi e di aver cominciato a risolverli, accorgendoti però che sono davvero complicati. I misteri si manifesterebbero, e ne saresti spaventato. A tutti noi può capitare di ritrovare un «libro di enigmi», e in quel caso le cose andrebbero esattamente così. Puoi farti unʼidea a proposito di quei misteri, il problema è che quellʼidea rimane dentro di te, e anche se la racconti a qualcuno o non ti credono oppure non comprendono la faccenda nel tuo stesso modo. Improvvisamente ti rendi conto che la comunicazione non funziona al 100 per cento. Nella vita accadono una quantità di eventi, e le parole ti vengono semplicemente a mancare. Il bello di un film sta nella capacità di raccontare un frammento di un determinato aspetto di «qualcosa» che le parole non sono in grado di rendere. Tuttavia non potrà mai raccontare lʼintera storia, poiché nel mondo ci sono così tante tracce e tante sensazioni da farne un mistero, e ogni mistero implica un enigma da risolvere. Si comincia subito a pensare di essere come vincolati alla ricerca di un significato, e nella vita ci sono moltissime strade attraverso le quali ci vengono fornite esigue indicazioni sulla possibilità di spiegazione del mistero. Da ciò ricaviamo minimi riscontri; niente di decisivo, bensì piccole prove che ci spingono a continuare. Il fatto che esistano dei misteri è un BRIVIDO ENORME. È emozionante che accadano molte più cose di quante non ne possa incrociare lo sguardo. Diciamo che è possibile vedere qualcosa e scambiarlo per qualcosʼaltro - un uomo che di notte passa attraverso una finestra tenendo qualcosa nelle mani. Probabilmente

hai visto precisamente ciò che hai creduto di vedere, e tutte le tue proiezioni corrispondono esattamente a quanto è avvenuto. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, lʼessere stati effettivamente in grado di penetrare nel mistero e di rendersi conto di ciò che stava realmente succedendo può rappresentare una delusione per il proprio «viaggio» immaginario. Per questo credo che siano i frammenti delle cose a essere davvero interessanti. Il resto lo si può sognare. Allora sì che si partecipa attivamente. Sappiamo bene che le cose capitano; non dovunque, ma in un considerevole numero di luoghi. Eventi di cui non potremmo nemmeno immaginare il verificarsi. Ecco il motivo di tutti quei talk show televisivi: la gente arriva e racconta questo genere di cose. È una specie di purificazione. È come se lo si fosse sempre saputo, e ora lo stessero nominando e mostrando. Ciò nonostante, è questa la ragione per cui gran parte del mistero si va dissolvendo. Questo tipo di situazioni sono in qualche modo divenute la banalità del momento. Per esempio, ora chiunque può ricordare di essere stato violentato da bambino. Della serie: «E chi non lo è stato?» Certo, ma oggigiorno si dice che i pazienti hanno bisogno di pensare che sia avvenuto qualcosa che di fatto non ha avuto luogo. Ecco che allora lʼevento viene evocato, e magari finisce per distruggere lʼintera famiglia. E nessuno crede che non sia accaduto, poiché adesso è così che vanno le cose: la gente presta fede al peggio.

È questo che costringe il regista o lʼartista a rappresentare un «male» totalmente inimmaginabile o estremo, come il Frank Booth di Velluto blu? Credo che ti spinga ancora più allʼesterno. O allʼinterno. Oppure, ancora, a guardare le cose da una diversa angolazione. Dato che hai cominciato a dipingere da bambino e successivamente hai continuato, hai la sensazione che per te la pittura rappresenti ancora lʼattività primaria, quella da cui trae origine tutto il resto? È così. In pittura esistono elementi che valgono per ogni aspetto della vita. È la prerogativa della pittura. E anche della musica. Ci sono cose che non possono essere espresse con le parole. È allʼincirca questa la natura della pittura; ed è, per quanto mi riguarda, in gran parte anche quella del fare cinema. Ci sono le parole e ci sono le storie, ma ciò che puoi dire con un film non lo puoi esprimere a parole. È proprio qui che sta il bello del linguaggio cinematografico: e ha a che fare col tempo, col concetto di giustapposizione e con tutte le regole della pittura. La pittura è unʼarte che si trascina dietro tutte le altre. Senti di avere una maggiore conoscenza della pittura rispetto al cinema? In realtà non so granché né dellʼuna né dellʼaltro. Esistono determinati tipi di conoscenza, oltre a quella di carattere intellettuale. Non sono il genere di persona che può stare di fronte a un pubblico e cominciare a parlare di ciò che ha fatto. Non funziona così per me. Se ci si

trova di fronte a un quadro e quello inizia a «parlare», si agisce e si reagisce di conseguenza. Ci si muove secondo una sorta dʼintuizione subconscia, e le cose si svelano. Succede lo stesso per la scena di un film: puoi averla prevista in sceneggiatura, ma quando ce lʼhai davanti a te è fluida. Se una battuta non funziona, la modifichi: percepisci che devʼessere in quel determinato modo. Ti rendi conto che le luci devono essere disposte in una certa maniera, che deve stabilirsi quel determinato ritmo. La scena ti parla. Sfortunatamente, solo quando tutti gli elementi si compongono lo fa per davvero. Così devi stare sempre sveglio, in guardia. Ci devi essere, in quel mondo. È per questo che per me Eraserhead ha un valore straordinario: perché sono stato capace di sprofondare in quellʼuniverso e di viverci dentro. Non ne esistevano altri. A volte ascolto delle canzoni di cui si dice che allʼepoca fossero assai popolari; e io cero, ma non ne conservo alcuna traccia. E questa è la cosa più bella: perdersi in un certo mondo. Adesso, a causa del denaro e della pressione che si è creata, è quasi una specie di catastrofe. Fare cinema è diventata unʼattività troppo veloce; molti film si limitano a sfiorare la superficie. Non riescono a scavare in profondità, perché se scii sullʼacqua a 80 chilometri allʼora non potrai mai spingerti sotto la superficie, ma se la barca si ferma, o se anche rallenta solamente, scendi giù, nel profondo. Ed è lì che si trovano le buone idee. Nel corso di precedenti interviste hai spesso dichiarato che è difficile discutere di determinati concetti perché sono «troppo astratti». Cosa intendi con questa espressione?

La gente vuole che tu le parli e questo più o meno lo capisco, ma non è che tutti stanno discutendo anche troppo intorno ai medesimi argomenti? È impossibile dire in che modo si verifichino certi eventi. Inoltre un altro problema è che si parla di una data cosa fino alla noia. Cominci a riflettere su come articolare un certo pensiero e poi di colpo lo vedi per quello che è, e un poʼ di magia se ne va. È rischioso. Quando parli di qualcosa, a meno che tu non sia un poeta, ciò che è grande si rimpicciolisce. Oppure, come succede con i critici, non appena apri bocca fanno: «Oh sì, lo sapevo». Però cʼera bisogno che qualcuno lo dicesse perché divenisse reale. E anche affermare la natura di qualcosa è molto limitante. Quel qualcosa non diventa niente di più di ciò che si è detto, e a me piace quello che è in grado di andare oltre. Come quando un autore è scomparso: si leggono i suoi libri ma lui non è più in circolazione, non gli si possono porre domande, e nondimeno dal suo libro si estraggono tonnellate di cose. Non conta come lui la pensasse. Poteva forse essere interessante, ma non è realmente importante. Ciò che potrei raccontare a proposito di quello che intendevo dire nei miei film è del tutto irrilevante. Non riesco a pensare a due attività più diverse del dipingere e del realizzare film commerciali. In pittura puoi esercitare un controllo definitivo, allʼinterno di uno spazio ben delineato. Inoltre si tratta di unʼattività individuale, opposta allʼidea del gruppo. Sono diverse, ma esistono parecchie somiglianze. Sui colori non ho un controllo reale, cʼè azione e reazione,

un dare e un prendere. Quando ti trovi insieme a una troupe che sta per girare un film, allʼinizio loro hanno zero idee. Poi leggono la sceneggiatura, e le distanze si accorciano. Propongono qualcosa, e tu dici: «No, no, no, no, non va bene per questo e questo e questʼaltro». E loro dicono: «Oh!», e si avvicinano ancora di più. Poi se ne vanno, e tornano portando spunti ancora migliori, e allora potresti quasi chiedere: «Quale pensate che sia veramente la soluzione ottimale?». E sia tu sia loro scegliete la stessa… Si sintonizzano. Uno a uno si sintonizzano con la faccenda. Di nuovo non si tratta di una sintonia perfetta, ma si avvicina moltissimo a una direzione comune. Quindi non conta quanta gente

Azione e reazione. Lynch dipinge Così questo è amore (1992).

ci sia intorno: si sta tutti farcendo il medesimo film, e si entra in una specie di atmosfera in cui ci si separa dal resto del mondo per penetrare in un altro. Ed è meraviglioso. Paragonata al mestiere di cineasta, la pittura costituisce spesso unʼattività molto privata. La vivi in maniera più personale? Ti sforzi di mostrarla agli altri? Si tratta di un autentico rischio, perché impari molto in fretta che se per te un dipinto è emozionante non è detto che lo sia necessariamente anche per gli altri. Malgrado ciò, provi una sorta di urgenza nel mostrare la tua opera. Il più delle volte è unʼesperienza umiliante, disastrosa, negativa. E in un certo senso ti aggrappi a coloro che la stimano, ma finisci sempre per scoprire che non la apprezzano assolutamente come vorresti che facessero. Per il cinema è lo stesso. Se lo fai per denaro, oppure se tenti di realizzare un prodotto, diciamo, commerciale, allora non hai che da tener dʼocchio il botteghino, e in base a quello puoi verificare i risultati. Ma se le ragioni sono altre è piuttosto inquietante far uscire un tuo lavoro. Il fatto che il nome di David Lynch si sia stabilmente affermato nel mondo del cinema provoca una pressione sulla tua produzione pittorica e fotografica, allorché decidi di esporla in pubblico? È così. E ancora peggiore è la situazione del tipo «la celebrità che dipinge». Ti fa veramente vomitare, è terribile. Comʼè successo a Don Van Vliet (altrimenti

noto come Captain Beefheart): per rendere più autentica la sua pittura, o forse per legittimarla maggiormente, ha sentito di dover rinunciare a fare musica. Una volta che ti sei fatto conoscere per unʼattività, è davvero difficile avviarne unʼaltra e farsi prendere sul serio con quella. Potrei cambiare nome! Ci ho anche pensato, perché i nomi sono bizzarri. Quando dici «pus», sono parecchie le sfumature che una parola come quella si porta dietro. Una bellissima foto di una massa di pus, con tanto di etichetta, «Pus», può essere eccellente. Allorché un termine comincia ad assumere determinati significati, ciò può essere un fatto positivo, oppure, beʼ, un vero schifo. Ti piacerebbe che guardando i quadri la gente dimenticasse in qualche modo la tua opera cinematografica? È impossibile. La prima cosa che fanno è confrontare. Scorgono dei riferimenti, questo aspetto oppure questʼaltro. E perciò è impossibile. È come non pensare agli elefanti. Semplicemente, non funziona. Oggi ci sono parecchi artisti contemporanei che realizzano film: Robert Longo, David Salle, Larry Clark, Julian Schnabel ecc. Che vantaggi pensi che ci siano nel passare al cinema per coloro che sono in primo luogo dei pittori? Beʼ, ha tutto a che fare con le idee. Alcune idee sono pittoriche e altre cinematografiche. Il bello del cinema è che abbraccia tempo e suono, storie e personaggi, e va avanti, avanti… Può essere come per la performance. Quello che cerchi è la magica combinazione di tutti gli elementi. Poi arrivi a una cosa del tipo «lʼintero è più grande della somma delle parti», e allora il viaggio è

valso la pena. Credo che il cinema sia una specie di calamita per coloro che hanno delle idee, e non vedo come possano starne lontani tanto a lungo.

2. Un giardino nella città industriale Da The Bride a The Grandmother

Istituzioni educative, consolidate metodologie di apprendimento, parole e perfino singole lettere sono spesso associate, nel lavoro di Lynch, a frustrazione, sospetto e paura. A detta di tutti, Lynch non è mai stato portato per lo studio, e allorché il suo rendimento scolastico si fece preoccupante, fu Bushnell Keeler a prenderne le difese, puntando sul suo più che palese talento di pittore. La prima moglie di Lynch, Peggy Reavey, ritiene che probabilmente gran parte di ciò che gli veniva insegnato lo annoiasse: «Era un pessimo studente alla High School, ma godeva di grande popolarità. Era di bellʼaspetto, e faceva parte della confraternita. A modo suo aveva molto fascino. Non stava affatto ai margini; non è mai stato quello il suo ruolo». Nel 1964 Lynch iniziò un corso dʼarte a tempo pieno alla Boston Museum School, ma lo abbandonò dopo un anno per intraprendere un viaggio di tre anni in Europa in compagnia dellʼamico e compagno Jack Fisk (ora scenografo e, occasionalmente, regista). Quando però il progetto fallì, dopo soli quindici giorni. Lynch tornò ad Alexandria, da Bushnell Keeler. Non più sostenuto finanziariamente dai genitori, doveva ora guadagnarsi da vivere; in questo quadro rientra, come Toby rammenta con dovizia di dettagli, lʼaiuto prestato alla decorazione della casa dei Keeler: «Aveva cominciato dal bagno del secondo piano, e usava un pennello da pittore

dello spessore di un pollice! Un pennellino assolutamente minuscolo. Impiegò tre giorni a dipingere quel bagno, e forse un giorno solamente per il termosifone! Ripassò ogni angolino, ogni fessura, e probabilmente rifinì il locale meglio di quando era nuovo. Ci mise una vita. Mia madre ride ancora quando ripensa a David alle prese con quel bagno». Fu però a partire dal 1965, con lʼarrivo di Lynch alla Pennsylvania Academy of Fine Arts di Philadelphia, che gli eventi cominciarono a mutare radicalmente su tutti i fronti. La stessa città di Philadelphia esercitò un impatto e unʼinfluenza duraturi su Lynch e sul suo lavoro. Inoltre fu lì che conobbe Peggy Reavey, una collega dellʼAccademia. Si sposarono nel 1967, e la figlia Jennifer nacque nellʼaprile dellʼanno successivo. Tutto questo fece di Lynch, da quel momento in poi, un padre-studente suo malgrado, che ora vedeva la sua dedizione alla «vita artistica» compromessa dalle esigenze della famiglia: una disposizione dʼanimo che avrebbe più tardi trovato una lontana eco in Eraserhead. Tuttavia, come dice la Reavey: «Era senzʼaltro un padre riluttante, ma molto affettuoso. Beʼ, quando ci sposammo ero già incinta. Eravamo entrambi piuttosto riluttanti». Anche il suo stile pittorico cambiò. Allʼepoca del suo ingresso allʼAccademia, Lynch realizzava composizioni dai colori smaglianti, ma improvvisamente i suoi dipinti presero a rivelare tutti i sintomi di unʼimmaginazione ben più inquieta. Peggy Reavey ricorda bene quei momenti: «Non so cosa lo spinse, ma di punto in bianco iniziò a fare delle cose molto scure. Grandi tele nere». La prima di queste fu intitolata The Bride (La sposa), e secondo la Reavey rappresentò un punto di svolta: «So che suona

terribile, ma si trattava della raffigurazione astratta di una sposa che abortisce da sola. Non era per niente repellente; era dipinta in uno stile assai ossessivo e inquietante, ma straordinario». In ogni caso, gli sviluppi più significativi del lavoro di Lynch allʼAccademia, ovvero il suo passaggio dalla pittura al cinema di animazione, erano ancora di là da venire. Avrebbero condotto al suo primo cortometraggio. The Alphabet, nel quale lʼatto stesso del lʼapprendere viene descritto come un evento corruttore. Lʼasserzione del regista secondo cui, in età adulta, aveva dovuto «imparare a parlare», non è una tipica «cortina di fumo» lynchiana, bensì un dato di fatto. «Ero con David durante il suo periodo preverbale» dice la Reavey. «Non parlava affatto come fanno solitamente gli artisti. Emetteva dei rumori, spalancava le braccia e faceva un suono che somigliava a quello del vento. The Alphabet era una maniera per esprimere le frustrazioni che derivavano dal suo bisogno di verbalità. Il film ruota intorno alle pene di un individuo dotato di una natura non verbale.» È forse per accordarsi a questʼultima che nei suoi film successivi Lynch focalizzerà tanto strettamente la sua attenzione sul linguaggio, così come sulle specifiche e sovente estremamente eccentriche modalità attraverso le quali i personaggi manifestano se stessi. Il regista ha fatto di frequente riferimento, ed entusiasticamente, alle caratteristiche della voce di alcuni particolari attori. Il suo orecchio è assai acuto, tanto per i ritmi del discorso i he per i suoni in sé: The Grandmother, il secondo cortometraggio, riduce (o eleva) ogni dialogo allo statuto di puro effetto sonoro. Se si tiene presente quello che la

stessa Isabella Rossellini ha definito il suo «odio» per le parole, fondato sulla loro estrema «imprecisione», appare chiaro che il rapporto di Lynch col linguaggio non è solamente complesso, ma anche del tutto singolare nellʼambito del cinema contemporaneo. «Ha trovato una maniera per far lavorare le parole a suo favore», conclude la Reavey. «Le usa in modo non verbale; ci dipinge. Le parole possiedono una loro qualità strutturale e una presenza sensoria. David è molto poetico.» RODLEY:

Come ti sei rapportato allʼinsegnamento artistico, quando lʼhai affrontato per la prima volta? LYNCH:

Qualsiasi High School comprendeva una qualche specie di corso dʼarte. Sfortunatamente - sono sicuro che sia lo stesso ovunque - ti ritrovi di fronte al «quelli che possono fanno, quelli che non possono insegnano». Non è propriamente corretto affermare questo, ma la situazione a cui sei esposto non tʼispira granché, e non lo è nemmeno quello che ti chiedono di fare, perciò spesso gli individui ne vengono limitati. E molto presto ciò che hai dentro di te, allo stato libero e pronto a evolversi, viene messo sotto chiave, e non hai più possibilità di movimento. Sapevo che era doloroso, ma non mi rendevo conto di quanto potesse esserlo. Ritieni che lʼattività di cineasta avrebbe potuto essere completamente messa da parte, se le cose fossero andate meglio durante le prime fasi della tua educazione artistica? Non so, perché il passaggio al cinema fu assai più una conseguenza del fatto che non il frutto di una qualsivoglia decisione cosciente. Sai, è strano il modo in

cui è avvenuto. Non ero costretto a fare nulla, avevo solo una specie di desiderio… Parecchie persone hanno dei desideri, che però vengono frustrati. Anchʼio ne avevo, e uno dopo lʼaltro nella mia vita intervennero degli episodi che li rafforzarono e li trasformarono in realtà. Hai iniziato la tua educazione artistica alla Corcoran di Washington D.C. Eri uno studente a tempo pieno? No. Dapprima avevo cominciato ad andarci durante la High School, frequentavo i corsi del sabato. Non ero uno studente, andavo solo ai corsi di pittura. In seguito, tramite il padre di Toby, affittai uno studio in una stanza di servizio. La stanza la dividevamo io e Jack Fisk, quindi divenne presto troppo piccola e ognuno se ne andò per conto suo. Fummo in tre altri studi prima del diploma. Erano dei posti davvero grandi, e dipingevamo moltissimo. Poi, dopo la High School, andai alla Boston Museum School, per un anno. Fu nel corso di quellʼanno che partisti per andare a studiare in Europa con il tuo amico Jack Fisk. Cosʼè che non andava? Beʼ, Jack era andato alla Cooper Union e non aveva una grande esperienza, mentre io stavo alla Boston Museum School. A scuola non cera niente che non andasse, ma una scuola è come una casa: è la gente che cʼè dentro che può rappresentare un problema. Non mi sentivo PER NIENTE ispirato laggiù. Di fatto mi aveva smontato, dato che allʼinizio nutrivo grandissime speranze. Così ce ne andammo in Europa. Uno degli zii di Toby ci rimediò un biglietto supereconomico in cambio della sorveglianza di un gruppo di ragazze. Tutto quello che dovevamo fare

era assicurarci che quel gruppo di ragazze salisse sullʼaereo (Ride). Chi erano quelle ragazze? Erano piuttosto benestanti. Ero seduto vicino a una ragazza di Chicago, il cui padre possedeva delle sale cinematografiche di ogni tipo! E lei era stata spedita a farsi un giro in Europa. A quei tempi non era granché normale andarci, e lʼEuropa era molto più sconosciuta di quanto non lo sia oggi. Si potevano avvertire le cose nellʼaria; e a quellʼepoca a volte ci si sentiva davvero molto più nel secolo scorso che nel nostro. La stessa sensazione era ancora presente quando ho fatto The Elephant Man, ma Freddie Francis mi ha detto che ora quasi tutte le locations del film sono sparite. Oggi non potremmo più girare lo stesso film sul posto, in Inghilterra, e nemmeno uno dello stesso genere.

Londra vittoriana, stile lynchiano.

Anthony Hopkins, carne e industria in The Elephant Man (1980).

Ho sentito dire che eri andato - almeno in parte - per studiare col pittore Oskar Kokoschka. Come mai quel particolare artista? Beʼ, il figlio di Lyonel Feininger era uno degli insegnanti di pittura alla Boston Museum School, e aveva un legame personale con Kokoschka. Fu stabilito che avrei potuto rivolgermi alla sua scuola con una lettera di presentazione. È strano, poiché a quellʼepoca la sua pittura non mi eccitava più di tanto. Ma oggi mi rendo davvero conto che si tratta dellʼuomo che mi fa praticamente più impazzire. Perciò sarebbe stato grande, se le cose fossero andate per il verso giusto. Il preventivato viaggio di tre anni in Europa sarebbe dunque terminato dopo soli quindici giorni. Per quale ragione? Beʼ, avevo diciannove anni e non ragionavo veramente con la mia testa, bensì con quella altrui. Jack e io arrivammo a Salisburgo. Io mi ero porta-

Il nitido, puro sogno europeo. Julie Andrews e le truppe in adunata in Tutti insieme appassionatamente di Robert Wise (1965).

to dietro un portfolio che pesava più o meno cinquanta libbre, e in più mi ero fatto spedire una cassa con un poʼ di quella vernice per interni che mi piaceva. Pareva quasi gesso, tranne per il fatto che costava davvero poco. Una vernice a doppia densità. Non pensavo che avrei potuto trovarla in Europa, così mi feci mandare un baule pieno di quella roba. A Salisburgo era appena uscito Tutti insieme appassionatamente, perciò andammo a vedere il film per farci unʼidea dei luoghi che avevamo intenzione di visitare. Poi, nella realtà, ci fecero un effetto davvero bizzarro. Erano così antipittorici e nitidi… Odoravano di buono - cerano dei pini, e a me piace il profumo dei pini - e cʼera anche il castello, ma non Kokoschka. Così, quasi nellʼistante stesso in cui

arrivammo, calò il sipario sullʼintero viaggio, e il resto fu soltanto un epilogo. Quandʼè che ti trasferisti a Philadelphia? Beʼ, la storia del viaggio mise a nudo un punto debole. Tornai in Virginia, perché in un certo senso era il solo posto in cui potevo andare. I miei si erano spostati a Walnut Creek, California; pertanto quando ritornai dallʼEuropa non avevo dove stare, e quindi decisi di stabilirmi da Toby Keeler. Inoltre mi avevano tagliato i fondi. Cera una specie di patto con i miei genitori, secondo il quale fintantoché avessi frequentato la scuola loro si sarebbero preoccupati dellʼaspetto finanziario. Così quando dissi: «Non ci vado più, a scuola», la conseguenza fu che i quattrini finirono. Allora iniziai a lavorare con lo zio di Toby presso uno studio di architettura, nel quale le mie mansioni consistevano nel fare cianografie. Tuttavia il problema principale era che non riuscivo ad alzarmi la mattina. Mi piaceva lavorare solo di notte. Fui licenziato da parecchi posti per questo motivo. Sai, in quellʼufficio attaccavano alle otto di mattina, e ne avrei risentito fisicamente se mi fossi alzato presto (Ride). Il fatto di dormire a lungo, o di essere incapace di uscire dal letto la mattina, implica che ti sentivi piuttosto infelice. Oh, certo. A volte dormivo anche sedici ore! Poi però stavo sveglio per un paio di giorni. Così quando mi licenziarono dallo studio di architettura lavorai nel negozio di cornici di un tizio, Michelangelo Aloca, finché non mi buttarono fuori di nuovo. Feci una sciocchezza: graffiai una cornice, e Michelangelo mi silurò. Però si

sentì dispiaciuto per me, e perciò mi riassunse come custode. Tuttavia Bushnell Keeler, mio padre e un paio di altri pittori della zona stavano cospirando per rattristarmi lʼesistenza; io stesso sono rimasto allʼoscuro dellʼintera faccenda fino a pochissimo tempo fa. Avevo lʼabitudine di uscire a prendere un caffè con Bushnell e fare quattro chiacchiere. Ma in seguito lui cominciò a dirmi che era troppo occupato per venir fuori con me e roba del genere. E tutto per tentare di indurmi a iscrivermi alla scuola dʼarte e a mettere la testa a posto. Molto gentile, dʼaccordo, ma io mi sentivo avvilito. Cosʼè che alla fine ti convinse a ritornare al college, in questo caso la Philadelphia Academy? Beʼ, Jack Fisk la frequentava, e venne a riferirmi di che eccellente posto fosse. Era proprio ciò che avevo bisogno di sentire. Così presentai domanda e, a mia insaputa, Bushnell li chiamò al telefono raccomandandomi calorosamente e sostenendo che avevo la stoffa adatta. La differenza rispetto alla Boston Museum School è che a Boston cerano dei pittori importanti, ma non abbastanza, e lʼatmosfera non era proprio quella giusta. A Philadelphia cʼerano dei grandi pittori che sʼispiravano a vicenda, e quindi passai un bellissimo periodo laggiù. Ma perché nessuno ti ha parlato apertamente di un tuo ritorno al college, anziché escogitare un complicato stratagemma? Non avrebbe funzionato. A quellʼetà si è in una disposizione dʼanimo molto ribelle. Inoltre penso che

volessero giocarmi un tiro in modo da indurmi a rifletterci da solo. Doveva sembrare unʼidea mia. E così fu. Hai fatto parecchie allusioni alla «non originalità» delle tue opinioni di bambino e di adolescente, e una volta hai anche detto di non avere iniziato a pensare con la tua testa finché non hai compiuto ventun anni. È stato da quando ti sei trasferito a Philadelphia? Certo, proprio intorno a quellʼepoca. La mia prima idea originale devʼessermi venuta sul ponte. Era una combinazione di paura e di speranza. Queste due emozioni si erano sempre combattute, e in particolare quando passavo su quel ponte. Continuavo a ripetermi: «Non sono a Philadelphia… Non sono a Philadelphia… Sono a Philadelphia». E quando sono stato poco oltre la metà del ponte, ero a Philadelphia (Ride). Non ho mai voluto andare a Philadelphia, ma a Boston, da sempre. La parola «Boston» mi eccitava. Con la parola «Philadelphia» non era così. Di preciso, cosa ha provocato il tuo passaggio dalla pittura ai primi esperimenti cinematografici? È stato uno dei miei quadri. Non ricordo quale, ma si trattava di un dipinto quasi completamente nero. Cʼera una figura che occupava il centro della tela. Invece ricordo dove mi trovavo: in una fantastica sala della Pennsylvania Academy of Fine Arts. Mi sentivo veramente bene dentro quellʼedificio, cerano degli spazi proprio grandi. Cera lʼodore giusto, e anche della bella gente. Quella sala era enorme, con dei piccoli angoli delimitati entro i quali si poteva lavorare, perciò cerano

altre persone; si suonava della musica e si veniva lasciati in pace. Ci si poteva entrare giorno e notte e lavorarci. Quindi, mentre stavo osservando la figura nel quadro, ho avvertito un leggero spostamento dʼaria e ho colto anche un piccolo movimento. E ho desiderato che il quadro fosse realmente in grado di muoversi, almeno un poʼ. È così che andò. Rammento di averne parlato con questo tizio, Bruce Samuelson. Dovevamo realizzare insieme un quadro animato; io stavo facendo una quantità di personaggi meccanici, lui dei dipinti assolutamente «carnali». Una volta costruii una specie di tavolo da biliardo elettrico in cui si lasciava cadere un cuscinetto a sfera che scendeva da una rampa avviando tutta una serie di contatti, i quali dapprima sfregavano un fiammifero che incendiava un petardo, poi aprivano una bocca femminile, accendevano una lampadina rossa e facevano urlare la donna allorché il petardo esplodeva. Ho fatto anche una serie di «donne meccaniche»: donne che si trasformavano in macchine per scrivere. Dunque, Bruce e io avevamo intenzione di mettere insieme una sorta di combinazione tra carne e macchina. La cosa si risolse in nulla, ma io avevo in testa questo quadro mobile. Peraltro ero a zero quanto a cinema o a fotografia. Credevo che la 16mm fosse un modello di cinepresa, e quando chiedevo in giro mi stupivo del fatto che avessero dei prezzi tanto diversi. Così presi quella che costava meno in un negozio chiamato Photorama, a Philadelphia. Non che vendesse robaccia, niente del genere: era un semplice negozio di cineprese. Probabilmente non sarà stato il migliore,

però non vorrei mai parlar male di loro, perché erano dei tipi eccezionali. Avevano questa 16mm con caricamento a molla. Dissi: «Devʼessere in grado di riprendere dei fotogrammi singoli»; loro risposero di sì, e fu in quel modo che la utilizzai. Allora domandai: «Comʼè che si devono illuminare le superfici?», e loro fecero: «È semplicissimo. Prendi due riflettori fotografici, uno a destra e uno a sinistra, puntali con un angolo di 45° sul soggetto, e quello farà rimbalzare la luce dentro lʼobiettivo». E io: «Okay, perfetto, adesso devo riuscire a tener fermo questo aggeggio». Mi avevano assegnato una stanza in un vecchio albergo che lʼAccademia aveva acquistato. I primi tre piani erano in servizio, ma nel resto cʼerano letti di ottone e grandi pedane, e delle bellissime lampade nei saloni. Le stanze erano vuote e quindi gli studenti potevano occuparle; ci salivano con un silenziosissimo e curioso ascensore e ci andavano a lavorare. Presi una credenza dal salone, fissandovi in cima la cinepresa con un nastro in maniera che non potesse muoversi. La cinepresa non era una reflex e perciò inquadrai anche i bordi del quadro, il termosifone e la parete circostante e anche una parte di finestra o qualcosa del genere. Cominciai ad animare il quadro girando un video di un minuto. E nella stessa stanza costruii uno schermo scolpito. Mi feci fare un calco in gesso da Jack Fisk e montammo insieme questi tre «me stessi». In seguito dovetti costruire una specie di apparecchiatura di sostegno sulla sommità del proiettore, che avrebbe prelevato dal medesimo la pellicola alla fine della proiezione tirandola su fino al

soffitto e poi di nuovo giù in maniera che il film potesse andare continuamente, in loop. Quindi appesi lo schermo scolpito e spostai il proiettore allʼindietro affinché comparisse esattamente ciò che volevo, e il resto finisse sullo sfondo abbastanza lontano da scomparire. Funzionò tutto benissimo. Assomigliava a una mostra di pittura e scultura, ma io ne avevo ricavato anche un film. Il pubblico spegneva la luce per dieci minuti ogni ora perché lo si potesse vedere. Era davvero grande, ma era costato 200 dollari, e a me pareva carissimo. Alla fine lo intitolai Six Men Getting Sick. Cʼera anche un registratore a cassette che mandava ininterrottamente il loop di una sirena. Fu il mio spettacolo di fine anno, e divisi il primo premio con un grande pittore, Noel Mahaffey. Quel primo lavoro ti incoraggiò a proseguire, oppure rappresentò più che altro uno shock economico? Lo shock economico soverchiò tutto quanto. E inoltre come quadro non era ortodosso. Però si muoveva, ed era ciò che a me interessava. Poi fu la volta di un altro studente, H. Barton Wasserman. Non gli faceva piacere che lo chiamassi miliardario, ciò nondimeno aveva abbastanza soldi da offrirmi 1000 dollari, che per me era una stupefacente somma di denaro, perché realizzassi qualcosa di simile per lui. Acquistò un proiettore e lo montò sul pavimento imbullonandolo alla rovescia, in modo che non avesse che da fare «clic» davanti a uno schermo per far scorrere il film. E quando il proiettore era spento, lo schermo aveva proprio lʼaspetto di una scultura. E io dissi: «Fantastico!».

Ero così euforico che tornai da Photorama e con 450 dei 1000 dollari comprai una cinepresa Bolex usata. Era appartenuta a un medico, e per come si presentava pareva che costui non lʼavesse mai estratta dalla sua bella custodia in cuoio… Gli obiettivi, il motore, un sacco di accessori… era proprio una bellissima cinepresa. Così passai un poʼ di tempo a imparare come utilizzarla, e successivamente cominciai a progettare questa cosa per Ilari. Credo di averci lavorato sopra due mesi. Una volta terminato di girare portai il film al laboratorio, glielo lasciai e tornai il giorno dopo a ritirarlo. Quando arrivai a casa mi girai sulla porta e lo svolsi, poiché volevo esporlo alla luce del sole per dargli unʼocchiata. E, a quanto mi ricordo, sulla pellicola non cerano nemmeno le interlinee dei fotogrammi! Era solamente una striatura indistinta! Una specie dʼimmagine cʼera, ma era tirata come una caramella mou, nientʼaltro che una forma allungata! La controllai fino in fondo, ma era completamente da buttare. La camera aveva una bobina ricevitrice danneggiata, perciò la pellicola scorreva liberamente attraverso il cancelletto anziché un fotogramma per volta. Si potrebbe pensare che uno a cui sia capitata una cosa del genere possa dare fuori di matto. Ma io ero quasi, come dire, sollevato. Non so perché. Chiamai Bart e gli dissi: «Bart, il film è un disastro. La cinepresa era rotta e di quello che ho girato non è venuto niente». E lui: «Non preoccuparti, David, prendi il resto dei soldi e fai qualcosʼaltro per me. Fammene solamente avere una copia». Fine della storia. Da quel momento cominciai a pensare di combinare azioni riprese dal vivo e animazione. Allora mi venne

unʼidea, ed è in base a quella che realizzai The Alphabet. Durava quattro minuti. Mia figlia Jennifer era appena nata, e io incisi i suoi vagiti su un registratore a cassette Ewer che però era rotto. Io non sapevo che lo fosse, ma i vagiti e tutto quello che ci registrai insieme erano straordinari. E la ciliegina sulla torta era che quei suoni mi piacevano proprio perché lʼapparecchio era danneggiato. In più il laboratorio non mi fece pagare niente per via del guasto, e quindi ottenni il massimo su entrambi i fronti. Ed ecco come avvenne che iniziai a girare The Grandmother: il motivo per cui mi sentivo felice, quel giorno sulla porta di casa, era che una parte della mia mente sembrava rendersi conto che, se avessi fatto quel film per Bart, per me avrebbe potuto significare la fine del percorso. Ma al suo posto avevo fatto The Alphabet, e quando lo sottoposi allʼAmerican Film Institute per ottenere un finanziamento, ce nera a sufficienza per attirare la loro attenzione. Mentre lʼaltro film non ne sarebbe stato in grado. Lo so e basta. Quando dici che eri contento che il film per Wasserman non fosse riuscito, intendi che a quel proposito hai avuto una specie di sesto senso? Questo potrebbe essere il motivo che ha provocato quella sensazione. Non ho pensato: «La prossima cosa sarà molto migliore, ma anche questa non è male». Mi sono solo sentito strano, e la cosa non mʼinfastidiva affatto. Da dove è scaturita lʼidea per The Alphabet?

Una notte la nipote di mia moglie Peggy fece un brutto sogno, durante il quale pronunciava lʼalfabeto in maniera tormentosa. Fu più o meno questo che mise in moto The Alphabet. Il resto veniva solamente dal subconscio. In che senso «subconscio»? Vedi, non mi sono mai trovato a dover articolare alcunché. I pittori non devono parlare. Le idee giacevano nel profondo dellʼinteriorità, espresse in un altro linguaggio. Non ho mai dovuto portarle in superficie. Era meglio così, conservavano la loro purezza. Non dovevo giustificare niente. Potevo solo lasciare che affiorassero. Ecco perché il discuterne non ti gratifica mai completamente. Nel film viene fuori chiaramente che lʼapprendimento è unʼesperienza assai spiacevole. È minacciosa. Ti viene imposta. È indispensabile, ma non dà piacere. Mi colpiva il fatto che lʼimparare, anziché essere un processo gioioso, si fosse quasi trasformato in una specie di incubo, capace di indurre brutti sogni nelle persone. Perciò The Alphabet è un minuscolo incubo, imperniato sulla paura connessa al lʼapprendimento. Cosa cʼera dietro lʼuso di un trucco biancastro per la ragazza? Serviva forse a provocare il massimo del contrasto con la vastità del nero? Esattamente. E anche per allontanarsi da un tono di incarnato normale. Se questʼultimo fosse stato

percepibile, lʼimpulso conseguente sarebbe stato di lavorarci su in qualche modo. Sarebbe stato troppo realistico. Il film termina con lʼinquietante e violenta immagine della ragazza in preda a unʼemorragia, che macchia di rosso brillante le bianche lenzuola. Come mai? Six Men Getting Sick non era propriamente violento, ma in modo un poʼ semplicistico aveva un che di disturbante. Si potrebbero dare diverse interpretazioni di The Alphabet. A quel punto si entrerebbe nella faccenda dellʼinterpretazione. Non mi sono mai preoccupato di quel finale. Mi sembrava una conclusione logica: lei reagisce a una sorta di veleno o qualcosa del genere. Il suono sembra già giocare un ruolo importante. Sei dʼaccordo? Certo, ma era molto primitivo. Come ho detto, ho inciso la maggior parte degli effetti su un registratore a cassette guasto. Poi ho preso i miei effetti sonori e li ho portati a un laboratorio che si chiamava Calvin de Frenes. Avevano un teatro di registrazione e un reparto per il sonoro, più un altro per la pellicola. Ho imparato un sacco di cose, prima da Photorama e poi da Calvin. Quella gente è stata fantastica con me. lo ci andavo, ponevo delle domande e loro mi davano le risposte; e se non sapevano cosa rispondere andavano in depressione. Uno dei ragazzi che lavoravano là era Herb Cardwell, che è stato primo operatore alla macchina in Eraserhead. Mi ha insegnato le tre tecniche di illuminazione - una luce diretta, unʼaltra leggermente diffusa e una dallʼalto,

oppure un controluce. In The Alphabet non avevo applicato alcun principio, ma per The Grandmother lo feci. Un altro tipo, Bob Collum, era il reparto del sonoro. Quando ti capita di vedere delle immagini di attrezzature degli anni quaranta e cinquanta osservi tutta quella vernice rugosa, e quei quadranti smaltati di nero: grandi quadranti e scale di misurazione perfette, nitide e ben distanziate, autenticamente primitive. Quello era proprio il genere di ambiente in cui stava Bob. Era come fare un bizzarro viaggio a ritroso nel tempo. Quando tornai là per il missaggio di The Grandmother avrei dovuto lavorare di nuovo con Bob. Avevo messo insieme un bel poʼ di roba; gli dissi che mi stavo preparando a fare il suono, lui mʼincrociò sulla porta e mi fece: «Ho delle cattive notizie per te, David». «Quali?» «Non potrò lavorare con te, perché abbiamo preso diversi impegni da quando ci siamo sentiti lʼultima volta, e me ne devo occupare. Però ho assunto un assistente.» Il mio cuore si era come spezzato, e andai fuori di testa. Mi dicevo che stavo per essere sbolognato a qualche incapace, e mi sentivo morire. E Bob mi fece: «In effetti mi farebbe piacere che tu lo incontrassi». Così alzai lo sguardo e vidi questo tizio, alto più o meno un metro e ottantotto e magro come un chiodo, con una specie di taglio di capelli che assomigliava… non so… non era neanche militare, era semplicemente da cretino! E se ne stava lì in piedi con un gran sorriso stampato sul viso, e a un tratto si diresse a grandi passi verso di me. E Bob: «Questo è Alan Splet»; gli strinsi la mano, e giuro di aver sentito le ossa del suo avambraccio scricchiolare Luna sullʼaltra! Me ne stavo lì come rintronato. A ogni

modo è così che ho conosciuto Al: e da allora abbiamo sempre lavorato insieme. In che modo The Alphabet ti ha portato a ottenere una sovvenzione per realizzare The Grandmother? Beʼ, a quel punto mi sentivo affascinato dal cinema. E qui entrò di nuovo in scena Bushnell Keeler. Mi raccontò che suo cognato lavorava per il National Endowment for The Arts, e che esisteva un nuovo ente chiamato American Film Institute che elargiva sovvenzioni ai cineasti. Mi disse: «Tutto ciò che devi fare è sottoporre loro una sceneggiatura e i tuoi lavori precedenti». Ma sai, io ero una specie di tonto: fu come se mi fosse entrato in un orecchio per uscire dallʼaltro, e non feci proprio nulla. Ma alla fine seguii il suggerimento e buttai giù la sceneggiatura di The Grandmother. Era la prima volta che mettevi nero su bianco lʼidea per un film? Sì. Non so di quante pagine fosse, ma non assomigliava a una sceneggiatura normale. Solamente un poʼ di immagini e di altra roba, una sorta di via di mezzo tra stenografia e poesia. Continuavo a chiedere al mio amico Charlie Williams: «È o no un film sperimentale?», e lui: «Sì, David, lo è», come se fossi una specie di scemo! E insieme a quello presentai anche The Alphabet. Vivevo a Philadelphia, ero sposato con Peggy e avevamo una bambina, Jennifer. Abitavamo in una casa di dodici locali! Tre piani e trentasette finestre, ma grandi. Quel posto era un autentico castello. Cʼerano dei caminetti a carbone e una cantina enorme. Soffitti immensamente alti, scalinate sul davanti e sul retro. La

camera da letto principale era quasi otto metri per otto, e lʼintera casa mi era costata 3.500 dollari! LʼINTERA CASA! Quindi puoi immaginare in che tipo di quartiere si trovasse! Era sullʼaltro lato della strada dellʼobitorio, porta a porta col Popʼs Diner. Nella zona cʼera unʼatmosfera straordinaria: fabbriche, fumo, ferrovie, tavole calde, i personaggi più strani e le notti più oscure. La gente aveva intere storie incise sul viso, e io potevo scorgere delle immagini intensissime - teli di plastica tenuti insieme da cerotti, stracci infilati nelle finestre rotte mentre passavo per lʼobitorio diretto verso il negozio di hamburger. Una ragazzina che implorava il padre di rientrare in casa, e lui che se ne stava seduto sul ciglio del marciapiede; dei tizi che tiravano fuori un altro tizio da una macchina in movimento. Scene di ogni genere. Vivevamo con poco, però la città era piena di paura. Giù in strada spararono a un ragazzo e lo uccisero, e i segni del gesso intorno al suo cadavere rimasero sul marciapiede per cinque giorni. Fummo derubati due volte, ci spararono alle finestre e ci rubarono una macchina. La casa fu scassinata per la prima volta dopo soli tre giorni che ci eravamo entrati. Io avevo una spada che mi aveva dato il padre di Peggy, non so di che epoca fosse; la tenevo sotto il letto. Mi svegliai e mi ritrovai la faccia di Peggy a tre centimetri dalla mia, in preda a un terrore che spero di non rivedere mai più sul volto di una persona: «Cʼè qualcuno in casa!». Ebbi un sussulto, mi misi le mutande al contrario e afferrai la spada gridando: «Fuori di qui!». Andai verso la cima delle scale levando la spada e continuando a urlare. Allora i tizi che erano entrati si sentirono disorientati, perché la casa

non era stata occupata per molto tempo e loro erano abituati a penetrarci. Gli feci capire che adesso ci abitava qualcuno, e lasciarono perdere. Non ci fu problema. I vicini si erano svegliati, ma credevano che stessi gridando a Peggy di andarsene! Tutto ciò che ci proteggeva dallʼesterno erano dei mattoni, però era come se fossero stati di carta. Si avvertiva una sensazione prossima al pericolo estremo, e la paura era fortissima. Cera violenza, odio e depravazione. Lʼinfluenza maggiore di tutta la mia vita lʼha esercitata quella città. E questo si verificò proprio al momento giusto. Vidi delle cose che erano sì spaventose ma, più ancora, emozionanti. Ovviamente, in termini narrativi, luoghi di quel genere ti hanno fornito ispirazione; ma cosa puoi dire, da un punto di vista pittorico, a proposito degli aspetti strutturali delle città e dei paesaggi industriali? Se si decide di piazzare una nuova scultura dʼacciaio in uno spazio vuoto, sulle prime non ce nʼè uno che gli si accordi. Lʼinsieme può anche risultare discreto, ma è come se apparisse noioso, prevedibile. Poi la natura comincia a lavorarci sopra, e ben presto lo trasforma in un qualcosa di fantastico. Per me tutto ha avuto inizio a Philadelphia, poiché la città è vecchia quanto basta e nellʼaria ci sono stimoli sufficienti da renderla veramente capace di funzionare da sé. È decadente, ma anche straordinariamente bella. Ti comunica delle idee. Lʼinterazione di chimica e natura produce effetti che non si potrebbero mai ottenere a meno che lʼuomo e gli elementi naturali non collaborino tra loro.

Finanziariamente dovevi mantenerti a galla da solo oppure lavorava anche Peggy? No. È stata dura. Io avevo un impiego come stampatore dʼincisioni e Peggy si prendeva cura di Jennifer. Fu il periodo più deprimente. Dovevo occuparmi di quelle incisioni per tutta la giornata e poi, come sai, dipingevo. Quandʼè che le cose presero a cambiare in meglio? Ricordo che era un periodo piuttosto cupo dellʼanno. Faceva freddo, pioveva ed era come se mi fossi ormai scordato da tempo dellʼeventualità della sovvenzione. Poi tra la posta trovai una comunicazione che riguardava il primo gruppo di vincitori che diceva che sarei stato preso in considerazione per il secondo gruppo. I primi erano Stari Brakhage e Bruce Conner, personaggi di cui iniziavo allora a sentir parlare. Erano tutti più anziani di me e avevano già realizzato parecchie cose. Erano, come dire, dei cineasti seri, indipendenti, avant-garde e sempre sul filo del rasoio, giusto? E io mi dicevo: «Non cʼè nessuna fottuta possibilità! Nessuna!». Perciò rinunciai del tutto a pensarci. Quando uscivo di casa dicevo sempre a Peggy: «Chiamami se succede qualcosa di eccitante, e io farò lo stesso». E non ci eravamo mai chiamati! Finché un giorno lei lo fece, e quella telefonata cambiò la mia vita. Erano George Stevens jr. e Tony Vellani, i boss dellʼAmerican Film Institute. Dicevano che erano intenzionati a concedermi il finanziamento. «Hai un budget di 7200 dollari» - no, credo che fossero 7119 - «Puoi farlo per 5000?» E, col tono di chi sta per rifiutare, risposi: «Certo!». E fluttuavo a mezzʼaria, come se stessi toccando il soffitto per la felicità!

Tutti dovrebbero poter provare quella sensazione! E lʼunico modo per apprezzarla davvero è di trovarsi disperatamente a terra. Hai mai ricevuto unʼaltra telefonata di quel genere? Della serie: «Ecco qui 45 milioni di dollari per fare Dune»? No! Mai. È stata lʼunica. Non è che prima o poi non si possa raggiungere il top; quella però fu proprio una cosa diversa. Pensavo veramente che non sarebbe mai accaduto, ma poi accadde. Quindi fu semplicemente perfetto. Hai mai pensato a ciò che sarebbe successo se allora non ci fosse stato quel cambiamento? Forse avrei tentato di girare The Grandmother, ma ci avrei messo molto più tempo, e il bello di quel programma di sovvenzioni è che ti ponevano nella condizione di disporre di un canale per far uscire il tuo lavoro. Ciò forniva una base solida a ciascuna delle loro produzioni. Se sei solamente uno che fa il suo film in cantina è estremamente difficile riuscire a farlo vedere in giro per poi passare al successivo. Ma se ci tieni davvero prima o poi ce la farai. Certo cʼè proprio da scoraggiarsi, quando bisogna lottare così tanto. Una volta stesa la tua prima sceneggiatura, lʼhai rispettata scrupolosamente oppure da lì in avanti ti sei reso conto che gli script non sono altro che una falsariga? No, non lʼho più presa in considerazione. Tuttavia a causa della sceneggiatura sono stato costretto ad affrontare la questione se ci fosse o meno una storia, o

quantomeno nella misura in cui lo desideravo. Perciò credo che le sceneggiature servano davvero. Peraltro, se fossero perfette ti limiteresti a pubblicare quelle! Potresti solamente leggerle, e così non va (Ride). The Grandmother è il primo film in cui compaiono diversi personaggi. Comʼè andata con il casting? Beʼ, per la parte della nonna avevo Dorothy McGinnis. E dalla scuola dʼarte venivano Bob Chadwick e Virginia Maitland, che allʼepoca vivevano insieme. E poi un ragazzino del quartiere, Richard White. Non dico che dopo averlo visto mi sono messo a scrivere il film per lui: il fatto è che strada facendo lʼho scovato da qualche parte e lui si è subito rivelato adatto. Perciò il casting è stato effettuato con ciò che avevo nei miei immediati dintorni. Dovevo fare più o meno tutto da solo. Peggy mi ha aiutato molto; era il mio braccio destro. Ho usato tutte le code per riprendere mia figlia Jennifer che gironzolava carponi in quella stanza tutta nera. Il giorno in cui dipinsi di nero il terzo piano, un ragazzo fu ucciso proprio lì davanti. Per quanto male stia andando oggi a Los Angeles, non provo ancora lo stesso genere di paura che avevo a Philadelphia. Ci stavo troppo vicino, ed ero sempre troppo vulnerabile. In termini di linguaggio cinematografico, The Grandmother è assai più ambizioso rispetto a The Alphabet. Non assomiglia solamente a un quadro, non è composto dʼinquadrature statiche. In assenza di un formale apprendistato scolastico, che difficoltà hai incontrato nellʼottenere quei risultati?

È semplicemente andata così. Credo che dipenda dal buon senso. Vuoi che qualcuno si sposti da qui a lì e intravedi una maniera logica per farlo. E poi, quando dai unʼocchiata ai giornalieri, impari piuttosto in fretta. Non so se rifaccio molte scene rispetto alla media, ma per Eraserhead abbiamo rigirato parecchie cose. Abbiamo imparato la lezione. La prima volta tʼimmagini che andrà alla perfezione, ma puoi anche fare un giro a vuoto. In seguito però apprendi qualcosa di completamente nuovo, torni sui tuoi passi e raggiungi lʼobiettivo. In The Grandmother il suono diviene assai denso e inventivo. E la musica inizia a giocare un importante ruolo «atmosferico». Il mio amico Ronnie Culbertson aveva un gruppo chiamato Tractor, e quindi gli affidai il compito di comporre una parte della musica del film; più tardi Alan Splet e io facemmo tutto il resto. Quando incontrai Alan lʼidea era di prelevare alcuni effetti sonori dalla compagnia. Beʼ, innanzitutto il loro materiale era terribile; e in più avevano tutto su disco, perciò cerano graffi e sfrigolii ovunque. Alan disse: «Guarda, non so assolutamente cosa tu abbia fatto prima, ma Bob mi ha parlato di te e so che prendi queste cose molto sul serio; però devo farmi unʼidea di ciò che desideri. Quindi ascoltiamo questi dischi di effetti, e se cʼè qualcosa che ti piace…». E li abbiamo ascoltati sì, quei dischi, forse tutti quanti. E alla fine Alan fece: «Beʼ, pare che quello che dobbiamo fare sia registrarci gli effetti per conto nostro», e io risposi: «Certo, è proprio ciò che dobbiamo fare». Così per sessantatré giorni abbiamo lavorato sugli effetti.

Eravamo inseparabili! Me ne stavo lì tutto il giorno. E in più avevamo occupato ogni angolo dellʼedificio. La compagnia non possedeva unʼunità di riverbero; io però desideravo un certo tipo di fischio, perciò mi piazzai a unʼestremità di un grosso condotto per lʼaria condizionata mentre Al stava a quella opposta, registrando me che fischiavo! Il tutto serviva solamente a produrre un riverbero dentro il condotto. Abbiamo ricavato ogni trucco e ogni espediente possibile, servendoci della rozza apparecchiatura che avevano in dotazione. Siamo riusciti a piegare quel materiale ai nostri scopi, sfruttandolo al massimo e creando quattro densissime piste di effetti. Ricordo la notte in cui Alan disse: «Spalanchiamo tutto, facciamo scorrere questa roba e vediamo di capirci qualcosa». Dopo tutto quel lavoro non avevamo mai ascoltato niente insieme. Così demmo la stura, e fu quanto di meglio avessi mai ascoltato. Lasciammo andare tutto fino in fondo: era davvero qualcosa di grande. Eravamo emozionatissimi. Quel ragazzo era un mago. Dunque avevi completamente monopolizzato Alan Splet. Sì, e Calvin de Frenes pagava il suo stipendio. Allora Bob Collum venne a trovarmi; Al se ne stava lì seduto, ma nonostante fossero grandi amici non apriva bocca, dato che lavorava per lui. E Bob mi disse: «David, ecco come stanno le cose. Noi non vi abbiamo detto nulla, e tu e Al siete stati dappertutto qui dentro; noi vi apprezziamo molto e vi rispettiamo, e vogliamo fare tutto il possibile. Comunque, davanti a noi ci sono due possibilità. La prima è una tariffa oraria, e lʼaltra è un prezzo per ciascun rullo di effetti sonori. Ora sto per entrare a

discuterne nellʼufficio qui di fronte, perché tra le due opzioni cʼè una differenza di parecchie migliaia di dollari». E li convinse ad accordarmi la tariffa per rullo, che comprendeva probabilmente quattro o cinque effetti per ogni bobina di dieci minuti. Il minimo. Il mio budget di partenza era di 7200 dollari; Tony Vellani arrivò in treno e visionò il film quasi completo, e perciò mi diedero gli altri 2200 dollari affinché il budget fosse sufficiente a terminare il lavoro. Però se mi avessero addebitato la tariffa oraria sarebbe stato impossibile. Avevamo accumulato una quantità di ore di studio per quel film, e non sarebbe stato per nulla divertente! Oltre a te non sono molti i registi che sembrano attribuire altrettanta importanza al suono, anche se esso rappresenta una buona metà dellʼesperienza percettiva; forse anche di più, in taluni casi. Tu sei sempre stato il vero sound designer dei tuoi film. Esatto. Tuttavia i registi si incontrano e discutono piuttosto raramente con i loro colleghi. Non sai nulla di quello che fanno gli altri. Quello che so è che esiste un dialogo tra il regista e il sound designer. Deve esistere. Ma in quale misura? E fino a che punto ci si addentra insieme nelle questioni creative? Lo stesso per la musica, lo stesso per la fotografia. Lo stesso per qualsiasi aspetto della lavorazione. I tuoi collaboratori possono anche essere i migliori in circolazione, ma se non si sintonizzano con le necessità del film tutto si risolve in un gran miscuglio dʼingredienti che non combinano lʼuno con lʼaltro. Pertanto mi pare che il punto stia nellʼincanalare le persone nella medesima

direzione e nellʼandare avanti in maniera che tutto ciò che entra in gioco si accordi a questo universo creativo, lo e Al abbiamo questo modo di lavorare. Non ci sono regole. Quando va bene, lo senti. Cʼè un momento molto particolare in The Grandmother, nel quale Mark viene trattenuto sopra una macchia di urina sulle sue lenzuola e si avverte un suono come di un uccello in gabbia. È impossibile immaginare qualsiasi altro suono per quella scena. È davvero appropriato. Beʼ, registrare suoni reali può essere un primo elemento. Ma si tratta semplicemente di un punto di partenza alla ricerca del livello sonoro successivo, quello che costruisce lʼintensità dellʼesperienza vissuta dal ragazzo. Quindi la questione sta nel reperire suoni che si adattino alla scena e che tuttavia la contrastino. Si collocano sì fuori campo, ma amplificano le emozioni, oppure le sensazioni. Ricordo che uno di quei suoni, le lenzuola tirate indietro, era in realtà lʼoscillazione di una mazza da golf riprodotta alla rovescia. Il colore è perlopiù escluso dal film. I visi sono ancora una volta bianchi, e le stanze completamente nere. E tuttavia quel poco che cʼè, in particolare lo spettro dei rossi, è molto intenso. Come mai? Beʼ, è accaduto un fatto molto strano. Io avevo truccato le facce di bianco, ma al laboratorio non lo sapevano. Perciò intensificarono il colore per tentare di avvicinarsi il più possibile ai toni dellʼincarnato. Questo perché era una specie di laboratorio «repubblicano» o qualcosa del genere. Cercavano di normalizzare il film! Spinsero i rossi al massimo; in questo modo ogni punto in cui un

qualche rosa trapelava dal bianco diventava veramente rosa. E le bocche divenivano più che mai rosse. A me piaceva, ma non ho voluto dir niente. In effetti si sono sempre sforzati di cogliere lʼincarnato, ma quindi lʼesito era sempre lo stesso. Ecco perché il rosso appare così carico. Lʼimmagine finale mi risulta un poʼ oscura. Cosa succede al ragazzo? Sta semplicemente… riprovando a sognare. Tenta di sognare una maniera di… Quello fu in parte un fallimento. Dunque: il ragazzo alla fine se ne sta lì col baccello, che però nel frattempo avevo già distrutto. Avrei potuto farne un altro e rimetterglielo in testa; ma andò a finire che lo animai. Mi piacciono quei rametti che spuntano ai lati, ma ho dipinto il baccello io stesso e, ovviamente, è venuto troppo piatto. Cʼè molta meno animazione in The Grandmother. Mi chiedo se sia stato perché in quel momento avevi iniziato a interessarti maggiormente alle riprese dal vivo, nonostante alcune di esse siano state realizzate a passo uno? Credo che sia così. Inoltre ancora una volta la storia mi ha suggerito che si dovesse fare in quel modo. Tuttavia non ci fu niente di cosciente. Fu solamente una cosa del tipo: qui va bene questo, oppure qui farò questʼaltro, e questo ancora è ciò che ci vuole qui. In The Grandmother intervieni già sulle modalità di movimento dei personaggi. I genitori, per esempio, di tanto in tanto si muovono assai minacciosamente o eccentricamente. Cosa significa?

Non lo so, Chris. Centra più o meno… uhm… con lʼuniverso del ragazzino. È il modo in cui lui lo percepisce. Ritengo che i genitori dovessero effettuare determinati movimenti. A volte non agiscono del tutto normalmente. Compiono unʼazione e tu non sei in grado di capire quale sia. Qualche cosa… di buffo. Non riesci ad afferrarne lʼessenza, a immaginarne la natura e a entrare in relazione con essa. Entrambi i corti, nonostante siano girati a colori, sono ancora prevalentemente neri. Certo. Per realizzare The Alphabet e The Grandmother ho dipinto di nero gli interni di casa mia. Credo che abbia qualcosa a che vedere con le proporzioni: una determinata quantità di nero ti consente dʼinserire un poʼ di colore. Per questo problema potrebbe perfino esistere unʼequazione matematica. In The Grandmother ho segnato col gesso alcune zone in modo da delineare gli angoli, i punti in cui il soffitto incontra le pareti e roba simile, intorno alle porte. Il colore mi piace, solo che se la questione si fa troppo impegnativa ti trattiene in superficie, e questo non mi sta bene. Alcune storie vuoi filmarle a colori, tipo Velluto blu. In quel caso non ho nemmeno considerato lʼeventualità del bianco e nero. I genitori di The Grandmother sono dei personaggi estremamente sgradevoli. I tuoi hanno visto il film? Oh sì, certo che lʼhanno visto. E non si sono chiesti: «È così che ci vedeva David?».

Nonostante non se ne sia mai veramente discusso, sono sicuro che loro si sono spesso domandati da dove provenisse quella roba. Della serie: «Povero David…». Questo perché è del tutto estranea al modo in cui sono stato effettivamente allevato. Ma la verità è che cerano un casino di cose spaventose fuori di casa nostra. Le idee sono stranissime, poiché penetrano allʼimprovviso nella coscienza senza che tu sappia davvero da dove vengano, in quale luogo si trovassero prima di presentarsi a te. Potrebbero significare qualcosa, oppure semplicemente essere lì affinché tu ci possa lavorare sopra. Non so. Una volta Toby Keeler mi ha detto che sei un tipo pieno dʼidee. È vero? Le idee sono quanto di meglio ci sia in circolazione. Da qualche parte ci sono le idee, tutte insieme, e se ne stanno lì finché una volta ogni tanto una di esse viene a galla, manifestandosi improvvisamente. Subito si percepisce, si riconosce e si avverte qualcosa, e insieme a quella sensazione arriva unʼesplosione di entusiasmo che te la fa amare. È incredibile che tu possa elaborare delle idee e che qualcuno possa darti dei soldi per tirarne fuori un film. Devi essere sincero verso quelle idee, poiché sono più importanti di quanto tu sia inizialmente portato a pensare. È quasi come con le doti naturali: anche se non le comprendi al cento per cento, se sei sincero nei loro confronti si manifesteranno, a livelli diversi. Ma se le alteri eccessivamente non succederà nulla; si esauriranno soltanto. Credo veramente che sia come dicevano i Beach Boys: «Sii sincero con ciò che ti hanno

insegnato». In seguito qualcuno potrà dirti: «È unʼidea del tutto anticommerciale», oppure: «Cʼè da farci un centinaio di milioni di dollari». Ma se ci rifletti in anticipo, su tutto questo, secondo me stai pensando alla cosa sbagliata. Lʼalbero, il terriccio e la materia organica della stanza da letto di Mark in The Grandmother compaiono più tardi come parte dellʼuniverso contenuto allʼinterno del radiatore in Eraserhead. E in Twin Peaks un piccolo ananasso di terriccio, una sorta di altare, contrassegna il punto nel quale viene assassinata Laura Palmer. A cosa si riferisce tutto questo? Non ne ho idea. Una spiegazione semplicissima potrebbe riguardare mio padre e la foresta. Tuttavia ci saranno sicuramente altre persone i cui genitori praticavano il giardinaggio, eppure in ciò che fanno non cʼè traccia di alcunché di simile. Non so. Mi piacciono i mucchi di terriccio: mi piacciono veramente. Mentre stavamo girando Eraserhead, Peggy e io vivevamo con Jennifer a Los Angeles in unʼabitazione singola, situata in una bella zona nonostante la casa in sé fosse di scarsissimo valore. E avevamo un tavolo da pranzo rotondo, di legno. Il giorno del suo compleanno Peggy uscì per qualche motivo, e io e Jennifer cominciammo a portar dentro delle secchiate di terriccio. E su quel tavolo ne accumulammo una pila alta quasi un metro e venti, coprendolo tutto quanto; poi scavammo dei piccoli tunnel piazzandovi davanti delle piccole sculture astratte in argilla. E Peggy, Dio la benedica, fece dei salti di gioia quando tornò a casa; perciò la lasciammo lì per mesi. Ma il terriccio corrose

la superficie del legno, dato che aveva iniziato ad agire organicamente. Così la verniciatura era parecchio rovinata quando alla fine la togliemmo. Era diventata una magnifica scultura. Da dove venga tutto questo non lo so proprio. Di tanto in tanto nei miei film compaiono dei mucchi di terriccio, ma non è un punto su cui mʼinterrogo davvero. È solamente un motivo che si ripete, e ogni volta mi sento quasi come se lʼavessi scoperto di nuovo. Non ricordo di averlo già fatto in passato. Qualcuno dirà: «Ehi, non ci avevi già messo prima una decina di quei mucchi di terra?», e allora risponderei: «In questo momento non so se lo farò ancora». Cominci a dubitarne. Non è facile da immaginare. Il personaggio della nonna trova qualche corrispondenza nella tua vita privata? Nel film è una specie di redentrice. Certo. Cʼè qualcosa che riguarda le mie nonne. Ho avuto due grandi nonne, non grandi, ma fantastiche! E anche due fantastici nonni. Erano molto uniti tra loro. Tuttavia il film non prendeva spunto da lì, ne sono sicuro. Traeva origine piuttosto dai bisogni di quel particolare personaggio, bisogni che quel «prototipo» era in grado di soddisfare. Le nonne ti rendono allegro. Ti fanno rilassare un poʼ, e ti amano incondizionatamente. E si tratta proprio di ciò che il ragazzino aveva evocato.

Henry (Jack Nance) e un cassetto pieno di terriccio in Eraserhead (1976).

Per quale ragione alla fine la nonna deve morire? Beʼ, un motivo cʼè. Va in putrefazione a causa di alcuni pensieri sbagliati. Va in putrefazione… H. Barton Wasserman era ancora al corrente di ciò che stavi facendo? No. Trascorse un lasso di tempo decisamente lungo tra The Alphabet e The Grandmother. E durante quel periodo, una volta che ebbi dato a Bart la sua copia personale di The Alphabet, il nostro accordo in un certo senso si esaurì. Inoltre mio padre mi diede un poʼ di soldi per finire The Alphabet, poiché mi trovavo nuovamente al verde. Una delle differenze più evidenti tra i due film, al di là dei progressi tecnici, è rappresentata dallʼintroduzione di una linea narrativa. Avevi deciso di cominciare a raccontare delle storie?

Certo. Le idee iniziavano a collegarsi tra loro. In realtà non stavo pensando a una vera e propria storia; ma improvvisamente si erano configurati una sorta di principio, di nucleo centrale e di conclusione. Il che in un certo senso mi stupì. Ciò nondimeno era ciò che avevo, benché non lʼavessi programmato. Non ricordo nemmeno come andò esattamente; non so perché escogitai quella storia. Era anche la prima volta che sottoponevo qualcosa di mio a qualcuno che lo leggesse, lo giudicasse e decidesse se fosse il caso di finanziarlo. E allora mi resi conto di come a Hollywood ci fossero persone che scrivono sceneggiature che in seguito passano nelle mani di qualcun altro, innescando un processo nel quale il destinatario vuole sempre capire di cosa si tratta. In tal modo parecchie storie vengono progressivamente chiarificate, fino a ucciderle. Attualmente ci sono, diciamo, dieci persone che leggono quella sceneggiatura; e tutti quanti hanno bisogno di capirci qualcosa. Perciò quando si arriva a una comprensione generale non cʼè più traccia di astrazione; il risultato non corrisponde più a ciò che lʼautore intendeva in origine, e già a questo punto ci sono di mezzo cinquanta milioni di compromessi. Inoltre probabilmente nessuno dei dieci è contento, così come non lo è sicuramente lo sceneggiatore. Ci si trova già nei guai, e non è certo un bene. Quando scrivi un libro cʼè forse il tuo editor o chiunque sia a leggerlo, ma è tutto molto più cristallino, e si può entrare nel merito di un maggior numero di aspetti. Si possono prendere dei rischi, e non cʼè niente da dover spiegare. Si entra in sintonia e subito si dice:

«Sì, ho avvertito quella sensazione», «Non preoccuparti, è meravigliosamente astratto», o cose del genere. A quel punto però stavi già facendo rotta verso quel tipo di industria. Certo, ma non intenzionalmente. Non stavo facendo rotta verso nessuna industria, e so perfettamente che lʼunica ragione per cui mi trasferii a Los Angeles era che lʼAmerican Film Institute aveva la sua sede lì; tutto perché Tony Vellani era venuto a Philadelphia e aveva visto The Grandmother. Tony mi disse due cose: «Al mio ritorno parlerò a George Stevens, e cercherò di farti avere il denaro per finire il tuo film», e «Devi venire in sede, a Los Angeles, e io tenterò di realizzare il progetto». E disse anche che voleva che Alan Splet dirigesse il reparto del sonoro. Quindi in definitiva fu un bel viaggio. Un bellissimo viaggio. Eccellente. Lʼeuforia cresceva… Proprio così. In seguito sudai sangue per un certo periodo pensando che non sarei stato ammesso, e Tony mi tirò un poʼ il guinzaglio. Ed ecco che alla fine ce la feci. Tony mi diede il catalogo del primo anno, nel quale ricordo una foto che mi aveva colpito moltissimo. Raffigurava i «colleghi» riuniti in una stanza, con il camino acceso. Di questo non sono del tutto sicuro; però rammento che alcuni di loro indossavano dei maglioni. E riflettevo tra me e me sul fatto che in California la gente portasse il maglione! Allora immaginai che la

notte doveva far fresco, dato che si trattava di una situazione notturna; e mi dissi: «Che clima meraviglioso, caldo di giorno e fresco di notte: fresco abbastanza da indossare un maglione!». In quella foto cera qualcosa che mi spingeva verso un luogo «nel quale vivere». Quindi andammo tutti in California. Alan Splet era partito un mese prima. Al era «legalmente cieco». Voglio dire, ci vedeva, però non poteva guidare. Per un poʼ a Philadelphia aveva avuto una Packard, anche se a guidarla era il suo amico Bob e lui si limitava a farsi portare. Gli piaceva che Bob viaggiasse con le ruote del lato sinistro sullʼasfalto e quelle del lato destro sullo sterrato. Quella Packard era unʼauto solidissima; montava gli stessi ammortizzatori che usavano per gli autocarri pesanti. Erano sofisticatissimi; e ad Al piaceva sentire quegli ammortizzatori che lisciavano la strada, non importa quanto accidentata fosse! Al è morto lʼanno scorso [nel 1994, N.d.R.]. Aveva un cancro. Lʼaveva combattuto per tre anni, pace allʼanima sua. Volevo bene ad Alan, era uno dei miei migliori amici. Era un divertimento lavorare al sonoro con lui, perché era sempre così entusiasta. Ma capita la stessa cosa con alcuni attori; ti piace lavorarci, e poi di colpo la volta successiva non collabori più con loro, ma con qualcun altro. Sfortunatamente, non potrò mai più lavorare con Alan. Una volta hai dichiarato che il luogo nel quale le persone vivono tende a esercitare unʼinfluenza su di loro. Los Angeles costituisce un ambiente molto particolare, dalle peculiarità spiccate. Cosʼè che ti attrae di questa città?

Prima cosa, la amo sul serio. Tuttavia, come qualsiasi altro posto, è in costante mutamento. Ci vuole più tempo per apprezzare Los Angeles di quanto ne serva per molte altre città, poiché è immensamente estesa e ciascuna zona possiede una propria atmosfera. Quello che mi piace davvero è che di tanto in tanto, se te ne vai su e giù in macchina, specialmente di notte, puoi avvertire un poʼ dellʼaroma dellʼepoca dʼoro di Hollywood. Una memoria vivente. Ti fa semplicemente desiderare di aver vissuto quei giorni. Credo che se potessi tornare indietro, quello sarebbe il luogo nel quale vorrei vivere. Forse allora non se ne rendevano conto, ma agli albori del cinema era un posto incredibile. Finché non diventò… bizzarro; probabilmente negli anni cinquanta, o nei sessanta. Visto che hai sempre associato le città alla paura, non eri spaventato da Los Angeles? Può essere un luogo estremamente terrorizzante. Beʼ, è una città molto luminosa. Certo, Los Angeles è diventata sempre più spaventosa, ma la prima volta che sono arrivato qui da Philadelphia ho avvertito la paura evaporare, la semplice paura di uscire di casa. È assai sorprendente per me guardare indietro e rendermi conto di quanto vivessi sotto pressione a Philadelphia. Perciò Los Angeles è stata come un sogno. Mi ricordo che la benzina costava dai 23 ai 25 cents al gallone. Avevo una Volkswagen e facevo il pieno con 3 dollari. Il sole era caldo e mi batteva sulla schiena, la Volkswagen aveva il serbatoio pieno, e potevo permettermelo. Potevo andare al supermercato e prendere tutto ciò che mi serviva. Detto, fatto: e quasi con niente… Ero in grado di

procurarmi tutto quello che possedevano gli altri. Poi qualcosa cominciò davvero ad andare maledettamente male. La benzina aumentò, tutto quanto aumentò e adesso è veramente dura. Se vivi in certe zone, solamente lʼuscire di casa per comprarti da mangiare costituisce un grosso problema. Ma ci fu una breve età dellʼoro in cui andava tutto per il meglio. Dato che dal 1970 avevi deciso che volevi fare dei film, credi che per te fosse inevitabile finire quaggiù? No. Si possono realizzare film dovunque. Inoltre non sono legato a nessuno studio; e specialmente con tutti questi strani sistemi di comunicazione che ci sono oggi puoi vivere in mezzo a un bosco e allo stesso tempo parlare con il tuo agente e sbrigare un sacco di faccende al computer. È molto importante: trovarti in un posto che senti tuo. Questa non è casa mia, ma ho vissuto qui più a lungo che in qualsiasi altro luogo. E mi piace veramente percepirne il passato: una sorta di passato onirico, cinematografico. Ti sei trasferito qui ancor prima dʼiniziare Eraserhead? Certamente; ero già qui nel 1970 e non ho cominciato a girare Eraserhead che nel giugno ʼ72, sebbene avessi iniziato a prepararlo nel ʼ71.

3. Io vedo me stesso Eraserhead

Simile a un inaspettato visitatore proveniente da un altro pianeta, Eraserhead inaugurò il suo lento processo dʼinvasione nel 1976. Disorientando i critici e accattivandosi le simpatie dei suoi primi alleati «alieni» il popolo dei midnight movies - il film rappresentò unʼesperienza incancellabile. Un sintomo delle reazioni leggermente sconcertate provocate tra la critica fu la recensione pubblicata da una rivista inglese, una delle prime comparse sul film, che se da un lato riconosceva la straordinaria originalità di Eraserhead, dallʼaltro si sforzava di penetrare lʼesatta natura della sua sorprendente «vita interiore». Ogni tentativo di ricostruire unʼaccurata e significativa sinossi si rivelò arduo; nellʼaccantonare strumenti critici rivelatisi inadeguati, la rivista concludeva che Eraserhead era un film «da sperimentare, piuttosto che da spiegare». Un giudizio ideale per Lynch, poiché, perversamente, è quello che maggiormente si accorda col suo stesso punto di vista. Il rifiuto del regista di «interrogare», generalmente nel corso dellʼeffettiva lavorazione del film, immagini, suoni e idee allo scopo di renderle esplicite, non attesta solamente la loro unicità, ma anche lʼincidentale incapacità di Lynch di articolare circostanziatamente le implicazioni di senso che esprimono. Il suo desiderio di «parlare direttamente» attraverso i film, unito alla fiducia attribuita agli occhi e

alle orecchie del pubblico, dà origine allʼinsolito potenziale sensorio veicolato dai suoi lavori. Perfino quando Lynch appare consapevole del preciso e personale significato di talune sequenze, non di rado le sue risposte sono una combinazione di elusività e reticenza: un tratto mai così evidente come per Eraserhead, con tutta probabilità la sua opera più profondamente intima e segreta. Lynch è riluttante ad accostare dei termini specifici alle immagini o alle sequenze dei suoi film semplicemente al fine di favorirne lʼesplicazione o la giustificazione, elementi che il regista considera decisamente irrilevanti e pleonastici nellʼambito del processo creativo, se non, ancor peggio, meramente riduttivi. Un aspetto che le persone che lo frequentano più da vicino hanno imparato ad accettare. Come ha osservato Toby Keeler: «Una volta gli chiesi: “David, cosʼè per te Cuore selvaggio?”, e lui rispose: “Beʼ, circa unʼora e tre quarti”». Oppure, stando allʼopinione di Peggy Reavey: «Se David dovesse rivelare di cosa parlano i suoi film, sicuramente si tratterebbe di tuttʼaltro!». Il diniego di Lynch tanto nellʼavallare specifiche letture di Eraserhead quanto nel rivelare le intime riflessioni che si celano dietro le numerose astrazioni del film si estende al di là delle istanze interpretative fino a giungere ai dettagli riguardanti la produzione, con particolare riferimento alla realizzazione della «creatura». Un segreto gelosamente custodito, noto forse solamente alla ristretta e devotissima troupe che ha lavorato con lui. Lo stesso Lynch aveva rilasciato qualche occasionale dichiarazione («Era nato lì intorno», «Probabilmente fu trovato»). Sulle prime tutto ciò faceva semplicemente

pensare a uno scherzoso tentativo di Lynch di salvaguardare il mistero del film; tuttavia poteva anche insinuare il dubbio che per il regista lʼuniverso di Henry Spencer fosse ancora talmente reale da rendere qualunque altra spiegazione puramente inconcepibile. Il nucleo centrale della troupe di Eraserhead comprendeva lʼoperatore Herbert Cardwell (che più tardi sarebbe stato rimpiazzato da Frederick Elmes), il tecnico del suono Alan Splet, Catherine Coulson (in un gran numero di ruoli), la produttrice esecutiva Doreen Small e lʼattore Jack Nance. Lʼaffetto nutrito da Lynch per il film costituisce una componente del naturale attaccamento per le persone, per lʼepoca e per un particolare metodo di fare cinema, basato sui tempi lenti. Tutte ragioni in più, presumibilmente, per preservare il quintessenziale mistero di Eraserhead. Anche solamente a causa delle sue dilatate modalità produttive, il film apporta nuove sfumature di significato allʼidea di «lavoro svolto per passione». Con i suoi cinque anni di lavorazione, Eraserhead rappresenta uno degli esempi più singolari dellʼassoluta determinazione di un regista nel portare sullo schermo le proprie visioni, pur affrontando una considerevole serie di avversità. Lʼaver messo a punto un immaginario così impeccabilmente ermetico nellʼarco di diversi anni, e potendo disporre di un budget tanto ristretto, costituisce un esito eccezionale. «È sempre stato un lavoratore incredibile» sostiene Peggy Reavey. «Era così zelante; stargli accanto poteva essere molto faticoso.» Il fatto di aver collaborato con Lynch ai cortometraggi fece sì che per la Reavey lʼesperienza di Eraserhead non si rivelasse oltremodo

sorprendente. I suoi ricordi risalgono in particolare a una notte del difficile periodo trascorso a Philadelphia, allorché per realizzare unʼinquadratura Lynch necessitava di una testa di doccia, di una tenda e di alcuni bulloni di tipo speciale. Ed erano già le due del mattino: «Era la notte del ritiro dellʼimmondizia, e allora lui uscì e rovistò in tutti i bidoni del vicolo, recuperando ogni singolo oggetto di cui aveva bisogno. Ero depressa, poiché questo voleva dire che dovevamo rimetterci al lavoro! David è estremamente determinato e pieno di risorse, e possiede una straordinaria energia creativa nel mettere insieme le cose in maniera da farle funzionare. Ha sempre avuto la sensazione che tutto fosse possibile. Era meraviglioso guardarlo lavorare avendo a disposizione mezzi tanto limitati». In ogni caso fu il matrimonio a fare le spese del protrarsi della lavorazione di Eraserhead. «Stare con David Lynch ti dà un sacco da fare» ammette Peggy Reavey. «Ora ha uno staff a tempo pieno. La nostra amicizia è continuata; io ho semplicemente mollato il colpo.» Tuttavia quellʼesperienza rimane un carissimo ricordo; la Reavey rammenta un Natale del primo periodo di Eraserhead, durante il quale Lynch si era dedicato al suo «giro dei giornali»: «David sperava di ottenere un poʼ di denaro in più dalle persone a cui consegnava i quotidiani. Perciò andai al “Pick and Saveʼʼ a comprare qualche cartolina natalizia che lui avrebbe recapitato personalmente, nella speranza che i destinatari gli avrebbero mandato del contante extra. Credo che nessuno lo fece. Fu molto duro» conclude «ed è un contrasto meraviglioso se si pensa alla vita che David conduce ora. Con lui avevi sempre lʼimpressione che

prima o poi qualcosa sarebbe accaduto, dal momento che possedeva la capacità di uscire di casa a rovistare nei bidoni della spazzatura e di trovare tutto quello che gli serviva».

In cerca di indizi. Il kafkiano Josef K. (Anthony Perkins) nel Processo (1962), di Orson Welles.

RODLEY: Per

ultimare Eraserhead ci sono voluti cinque anni, la tua devozione al film devʼessere stata totale, se sei stato in grado di sostenere, durante un periodo di produzione così prolungato, sia il progetto in sé che lʼentusiasmo che vi riponevi. Su cosa era basata lʼidea che amavi tanto? LYNCH: Su

un mondo. Dentro di me cera un mondo che si estendeva da una fabbrica al quartiere vicino. Un posto sperduto, insignificante, sconosciuto e contorto, pressoché silenzioso, fatto di piccoli dettagli e di piccoli tormenti. E nel quale la gente si dibatteva nellʼoscurità. Gente che vive ai margini, quella che io amo davvero. Henry è in tutto e per tutto uno di questi individui, in

qualche modo smarriti nel tempo. Lavorano in fabbrica, oppure si danno da fare con questo o con questʼaltro. E un mondo che non si trova in nessun luogo: si è materializzato nellʼaria a Philadelphia. Io dico sempre che Eraserhead è il mio Scandalo a Filadelfia. Gli manca solamente Jimmy Stewart! Mi capitava di stare sul set di notte, e di immaginare lʼintero universo che lo circondava. Immaginavo di camminare, incontrando pochissime macchine - ce nʼera forse qualcuna in lontananza, persa nellʼombra - e pochissima gente. Le luci alle finestre sarebbero state fievoli, e allʼinterno non si sarebbe scorto alcun movimento; il caffè sarebbe stato deserto, tranne che per una sola persona che non parlava in maniera corretta. Non era altro che unʼatmosfera. Vivere in un mondo come quello… non esisteva niente di simile. Adesso, quando fai un film tutto va così in fretta che non sei in grado di dare abbastanza risalto al mondo che hai intorno, come invece meriterebbe. Quel mondo vorrebbe che lo si vivesse almeno un poco, ha così tanto da offrirti e tu non fai che andare troppo veloce. È davvero triste. Nel recensire Velluto blu, lo scrittore James G. Ballard disse che il film «assomigliava a un rifacimento del Mago di Oz sceneggiato da Franz Ka a e con le scenografie di Francis Bacon». Sicuramente Ka a si riaffaccia alla mente per Eraserhead. Apprezzi le sue opere? Certo, il solo artista che sento vicino come un fratello - e in genere non mi piace usare questʼespressione, poiché la risposta è sempre: «Ah beʼ, tu come chiunque altro» - è Franz Kafka. Alcune delle sue cose sono gli intrecci

verbali più emozionanti che abbia mai letto. Se Kafka avesse scritto un film giallo, io sarei stato della partita. Avrei certamente voluto dirigerlo. In un certo senso Henry Spencer ha una parentela col Josef K. del Processo: un individuo di volta in volta confuso e spaventato da ciò che gli sta succedendo. Henry è assolutamente persuaso che stia accadendo qualcosa, ma non ha una piena comprensione degli eventi. Osserva le cose molto, molto attentamente, poiché tenta di farsene unʼidea. Potrebbe esaminare lo spigolo di quella scatola di torta solamente perché si trova sulla linea del suo sguardo, e si chiederebbe per quale ragione si è seduto in un punto dal quale quellʼoggetto gli si presenta in quel modo. Tutto gli appare nuovo; il che non lo terrorizzerebbe, ma potrebbe rappresentare la chiave per qualcosa di indefinito. Ogni cosa dovrebbe essere osservata. Potrebbe contenere delle tracce. Gli esterni egli interni di Eraserhead paiono differenziarsi ben poco: un tratto che in seguito diverrà assai più marcato in Twin Peaks. Tutto ciò che si scorge attraverso le finestre sono dei muri di mattoni, e nonostante i suoni siano diversi, dentro il palazzo di Henry cʼè altrettanto rumore di quanto non ve ne sia nel mondo circostante. Si prova la sensazione di qualcosa dʼincessante, cʼè una continua… …pressione. Beʼ, è anche un ambiente industriale, e vi accadono eventi diversi; di questi, parecchi non vengono mostrati, ma se ne percepisce il suono. Ma per quanto mi riguarda, malgrado in Henry alberghi una moltitudine di ambigui tormenti, il suo appartamento -

di fatto la sua stanza - è sufficientemente intimo. Henry dispone solamente di questo angolino per rimuginare sui fatti propri. Lʼansia non cessa, ma in realtà questo non avviene per nessuno. La pressione cresce di continuo. In un certo senso mi piacerebbe vivere nellʼappartamento di Henry, trovarmi lì nei paraggi. Adoro La finestra sul cortile di Hitchcock perché vi circola unʼatmosfera incredibile, e anche se conosco ciò che sta per capitare mi piacerebbe moltissimo essere in quella stanza e sentire il tempo in quel modo. È come se potessi annusarlo. Qual è stata la genesi di Eraserhead? Ancora una volta il destino ci mise lo zampino, e quella volta mi sorrise sul serio. Il Centro era completamente caotico e disorganizzato, il che andava benissimo. In questo modo intuivi alla svelta che se avevi intenzione di realizzare qualcosa dovevi sbrigartela da solo. Volevano permettere a ognuno di portare avanti le proprie idee: se eri in grado di mettere in moto un progetto, loro lo avrebbero sostenuto. Non avevano alcun genere di programma preciso. Si proiettavano film per tutta la giornata, e potevi guardarti ciò che volevi; se cera qualcosa che desideravi vedere o ascoltare, non avevi che da andarci. La sala di proiezione era incredibile; qualunque cosa fosse su pellicola era lì a disposizione. Si potevano visionare anche copie veramente rare. Il lampadario scivolava verso il soffitto e le luci si abbassavano lentamente. E al Centro lavoravano i migliori proiezionisti! Trascorsi il mio primo anno al Centro scrivendo una sceneggiatura di quarantacinque pagine intitolata

Gardenback, che derivava da un quadro che avevo dipinto. Cʼera una trama, almeno secondo me, e cera quello che alcuni potrebbero definire un «mostro». Quando osservi una ragazza, qualcosa passa da lei a te; e nella mia storia quel «qualcosa» era un insetto che cresce nellʼattico del protagonista, del quale rispecchia la personalità. Poi successero un paio di cose. Caleb Deschanel lesse la mia sceneggiatura e mi chiamò dicendomi che gli piaceva molto. Era uno dei miei colleghi del Centro, e faceva il direttore della fotografia. Disse che voleva portare sullo schermo quella storia, il che mi parve davvero fantastico. Collaborai con Caleb a un film che stava girando per un tizio di nome Gill Dennis. Desideravano che in una scena un serpente strisciasse tra il muro e la carta da parati, perciò costruii per loro quel serpente con tutto il meccanismo. Non è che funzionasse alla perfezione, ma poteva andare. Quindi Caleb mi raccontò che un produttore della Fox era sul punto di realizzare una serie di horror a basso costo. Questo produttore era più o meno suo amico, e Caleb mi chiese il permesso di sottoporgli Gardenback. Frank Daniel, che era il James Dean della Scuola di cinema cecoslovacca, è stato di gran lunga il miglior insegnante che abbia mai avuto. Assolutamente grande. Incredibile! A me gli insegnanti non erano mai veramente piaciuti, ma Frank sì, perché in un certo senso lui non era un insegnante, si limitava a parlare. E poi amava il cinema, lo conosceva alla perfezione. Frank cercava sempre di discutere con me a proposito di Gardenback, ma a me non andava. Così un giorno io, Caleb e Frank andammo a trovare il tizio alla Fox, che ci

disse: «Dunque, ho intenzione di darvi 50000 dollari per fare questo film. Caleb lo girerà, ma si lavorerà per pura passione; tutti coloro che coinvolgerete collaboreranno gratis». E poi fece: «La sceneggiatura è solo di quarantacinque pagine. Dovevate farla almeno di centodieci centoquindici, devʼessere un lungometraggio». Questʼosservazione mi fece venire il mal di testa: che cosa intendeva esattamente? A quel punto Frank cercò di darmi delle spiegazioni. Diceva cose del tipo: «Devi buttar giù delle scene con dei personaggi, e questi personaggi devono parlare tra loro. Quindi devi escogitare dei dialoghi». Ma io non sapevo ancora a cosa si riferisse. «Cosa dovranno dire?» dissi. Perciò (Ride) cominciammo a vederci ogni settimana: una specie di esperimento, perché non avevo davvero idea di dove volessero arrivare. Ero curioso di ascoltare quello che avevano da dirmi. Comunque alla fine ne venne fuori una sceneggiatura. Ai nostri incontri partecipava anche Gill Dennis, che era uno scrittore. E cʼera pure Tony Vellani. Parlavano tutti quanti con me, e quando me ne andavo a casa tentavo di mettere nero su bianco ciò che ci eravamo detti. Quello che avevo scritto era perlopiù privo dʼinteresse, ma in me si era sbloccato qualcosa per quanto riguarda la struttura, le scene. Nemmeno io so come, ma in qualche modo mi si era infiltrato dentro, era diventato parte di me. Tuttavia, come ho già detto, la sceneggiatura non aveva alcun valore. Sapevo di averla diluita, per me era la cosa più normale del mondo. I punti che mi piacevano cʼerano tutti, ma si ritrovavano disseminati in mezzo a un sacco di altra roba. Eravamo

ormai alla fine del primo anno, e io ero alle prese con questo lavoro. Il primo giorno del secondo anno i vecchi allievi si incontravano con i nuovi. Al termine della riunione si assegnavano i vari gruppi a sezioni diverse, e la nuova stagione aveva inizio. Quanto a me, ero stato assegnato a un gruppo del primo anno; per me era unʼumiliazione, e non riuscivo a capirne il motivo. Così mi arrabbiai sul serio. Tutta la mia frustrazione venne a galla: feci una scenata a Frank Daniel, me la presi con lui. Mi precipitai lì urlando: «Me ne vado di qui!» Poi raccontai tutto ad Alan, il quale disse che veniva con me perché a sua volta ne aveva avuto abbastanza. Uscimmo insieme e scendemmo giù allʼHamburger Hamlet a farci un caffè. Era finita. Più tardi andai a casa, e Peggy mi fece: «Che diavolo sta succedendo? Hanno chiamato ogni dieci minuti!». Le dissi che me nero andato, e lei: «Beʼ, vogliono vederti». Allora mi calmai, e il giorno dopo tornai là, fondamentalmente per ascoltare ciò che avevano da comunicarmi. E Frank disse: «Dobbiamo aver commesso qualche errore, dato che sei uno dei nostri migliori allievi e te la sei presa così tanto. Cosʼhai intenzione di fare?». Risposi: «Beʼ, di sicuro ora non voglio fare questa merdata di Gardenback, fa schifo!». «E cosa vorresti girare, allora?»; e io: «Voglio girare Eraserhead». «Okay dunque, vada per Eraserhead.» Quindi avevi giù lʼidea pronta? Avevo uno script di ventun pagine; e Tony, o qualcun altro, disse: «Sono ventuno pagine, sarà un film di ventuno minuti». «Beʼ… uhm… credo che verrà più lungo di così», feci io. Perciò risolsero che sarebbe

durato quarantadue minuti. Il bello però fu che, dato che si sentivano un poʼ in colpa, riuscii ad aver accesso al deposito degli strumenti. Il mio amico David Khasky era il responsabile delle macchine da presa, dei cavi, delle luci, di tutto quanto; fu una faticaccia controllare e verificare ogni cosa. La mia Volkswagen aveva un portapacchi di legno di due metri e mezzo per uno e venti, che poteva sostenere tonnellate di roba: beʼ, lo caricammo con un mucchio di cavi e di fari alto quasi un metro e mezzo, mentre lʼinterno era stipato con lʼattrezzatura delle cineprese. E ogni volta andavo fin giù alle scuderie, scaricavo e tornavo là a prendere il resto. Le scuderie si trovavano in fondo alla tenuta di Doheny Road. In sé costituivano una piccola residenza indipendente: cerano una serra e un capanno per gli attrezzi da giardinaggio interamente in mattoni, con il tetto fatto di assicelle. Tutto aveva unʼaria antica e bizzarra. Cerano anche dei garage e un fienile, una grande stanza a forma di L che sovrastava le rimesse; e poi uno spiazzo enorme per accatastare la legna da ardere, un altro garage gigantesco e delle aree libere per permettere ai camion di entrare a scaricare la legna e tutto il resto. Inoltre cerano gli alloggi per le domestiche e altri al piano di sopra, per il resto delle persone che lavoravano per Doheny: cucine, stanze da bagno, una specie di piccolo hotel circondato da una quantità di altri servizi. A mia disposizione avevo quattro o cinque camere, il fienile e un paio di rimesse. Te le eri semplicemente accaparrate? Certo. Dʼaltra parte nessunʼaltro le voleva. Erano vuote. Pertanto disponevamo di un locale per le cineprese, di

un camerino per gli attori, di una stanza di montaggio e di altre stanze nelle quali sistemare i set, di una mensa e di un bagno. Era proprio come se avessimo in gestione lʼintero spazio. Rimasi in quelle scuderie per diversi anni. Sapevano che eri lì ma ti lasciavano in pace? Certo. In realtà non sapevano che ci vivevo: avevo iniziato ad abitarci dopo che ebbi divorziato, durante il secondo anno. A volte stavo anche in casa di Jack Nance e di Catherine Coulson. E dal canto suo Al rimase parecchio alle scuderie. Questo era un altro dei miei vantaggi: fintantoché Al era il capo del reparto sonoro, avevo completo accesso alla stanza di missaggio, ai Nagra, ai microfoni, ai cavi e a tutto il resto. E in più avevo il sound man: era tutto alla mia portata. Ero in condizione di fare ciò a cui tenevo di più, cioè realizzare film; e in pratica disponevo di un piccolo studio personale. Per frequentare il Centro avevi ottenuto una borsa di studio, oppure i tuoi genitori dovevano pagare lʼiscrizione? Quando sei al Centro devi sbrigartela da solo. Mio padre ci prestò dei soldi - a me, Peggy e Jennifer - e anche i genitori di Peggy ci diedero una mano. Quindi come riuscivi a badare a te stesso durante quel periodo? Non ricordo che anno fosse della lavorazione di Eraserhead, ma iniziai a fare il «giro dei giornali» distribuendo il Wall Street Journal. Era così che mi

Gli «Inseparabili» al lavoro nelle scuderie. Alan R. Spiel (al violoncello) e Lynch (alla tromba) nel quartier generale di Eraserhead.

mantenevo. Giravamo solamente di notte, e anche questo lavoro lo facevo di notte; perciò a un certo punto dovevo interrompere le riprese e mettermi in marcia, mentre gli altri aspettavano che tornassi. Tuttavia finivo il giro così in fretta che stavo via soltanto unʼora e otto minuti circa. A volte potevano essere anche cinquantanove minuti, ma dovevo proprio andare a tutta velocità per farcela in unʼora. Come mai giravate solo di notte? Beʼ, sai, perché faceva buio! E poi perché di giorno cerano gli addetti al parco, per cui il posto era molto rumoroso e affollato. Di notte non cera nessuno. Inoltre si trattava di un film notturno; lʼatmosfera era perfetta, e questo era fondamentale. A quel punto ti consideravi soprattutto un cineasta?

Non è che ci pensassi veramente; stavo si facendo quel film, ma avevo sempre avuto la sensazione che i veri cineasti fossero «là fuori», e che io non ne facessi parte. Ero un isolato; non mi sono mai considerato davvero inserito nel sistema, in nessun modo. Sfruttando le opportunità che ti offriva il Centro, ti capitava di studiare il lavoro di altri registi? Hai menzionato spesso Fellini, un autore che non soltanto appare occasionalmente affascinato dalla stranezza fisica, ma che dimostra anche di amare profondamente i propri luoghi. Come in Roma? Certo, amo Fellini. E in più siamo nati lo stesso giorno, quindi se credi nellʼastrologia… La sua è unʼepoca del tutto differente, e ha un modo di intendere la vita tipicamente italiano. Ma cʼè qualcosa di particolare nei suoi film: unʼatmosfera che ti fa sognare. Sono così magici, lirici, sorprendenti e inventivi. Era un tipo unico; se si eliminasse la sua filmografia, al cinema mancherebbe un tassello enorme. Non esiste nientʼaltro di simile. Mi piace anche Bergman, ma le sue cose sono diversissime… rarefatte. Dei sogni rarefatti. Ritengo che anche Herzog sia uno dei grandi di tutti i tempi. Grande sul serio. Una volta, mentre mi trovavo in Inghilterra, in televisione vidi La ballata di Stroszek. Mi ero perso lʼinizio, perciò pensavo che fosse un vero documentario. Ma dopo i primi due secondi mi aveva già completamente sedotto; non avevo mai visto niente del genere. Qualche tempo dopo lo incontrai a New York, e lui mi mostrò un diario che aveva tenuto durante lʼanno precedente e che sʼintitolava: Costeggiando il perimetro della Germania. Aveva annotato ogni singola giornata, e

gli dissi che secondo me doveva aver usato la matita più appuntita del mondo! Sì, perché la sua scrittura era chiarissima, ma così minuscola che ci voleva una lente dʼingrandimento per poterla leggere. Quel diario era piccolissimo, circa cinque centimetri per cinque, e ogni pagina era occupata da quattro o cinquecento frasi. Era incredibile! Ma può comportarsi in modo totalmente pazzo. Ha minacciato di sparare alle persone sul set! Questa non è una pazzia! Sii realista, Chris! I registi di cui parli sono tutti europei. A quellʼepoca era il cinema europeo a interessarti di più? Certo, a causa del tipo di cose che volevo realizzare. Ci sono diverse ragioni per andare al cinema: puoi farlo così, tanto per andarci; e poi ci sono i film che ti stendono, ti fanno vibrare nel profondo. Probabilmente la maggior parte di questi ultimi veniva dallʼEuropa. Tutto ciò ha qualcosa a che vedere col fatto che non sono così condizionati dalla narrazione come quelli americani? Esatto, proprio così. Cosa ne pensi di Jacques Tati? In qualche occasione lo hai nominato. Certo, amo Tati. Il suo stile, il modo in cui vede le cose. E poi è un inventore: dal punto di vista visivo, ma anche con il sonoro, la coreografia e la musica. Inoltre cʼè questo amore infantile per i suoi personaggi; mi piace veramente un sacco. Ho anche conosciuto sua figlia. Ma

ho pure sentito dire che quando morì era molto amareggiato, e che nel suo paese non è che lo apprezzassero granché. E questo mi fa stare malissimo. Cosa puoi dire del prologo di Eraserhead con lʼ«Uomo del pianeta»? Evidentemente si tratta di un momento molto importante: in che modo si relaziona alla vicenda di Henry e al resto del film? Cʼentra, credimi: «prologo» sta per quello che viene prima, giusto? In quel caso è esattamente così; in effetti ciò che accade nella parte iniziale del film è importantissimo, e nessun critico ne ha mai veramente parlato. Quel canadese, George Godwin, ha scritto qualcosa in proposito; intervistò me e Jack Nance e fece il suo pezzo. Io non ho detto più di tanto, ho solamente risposto ad alcune sue domande. Comunque in quella sequenza si verificano degli eventi che costituiscono una chiave per ciò che accade dopo. Tutto qui… E dunque si tratta di… Beʼ, è lì da vedere (Ride). Numerose letture parziali di Eraserhead finiscono inevitabilmente dalle parti di Freud, dato che ovviamente ci sono così tanti… …aspetti a cui appigliarsi; di natura psicologica, certo. Ti infastidisce il fatto che il pubblico vada a vedere il film animato da una sorta di atteggiamento «ortodosso», di qualunque genere sia? Sembra che tu ti opponga strenuamente allʼintroduzione di significati univoci nelle tue

opere, in particolar modo per quanto ti riguarda personalmente! No. Vedi, sono dellʼidea che ciascun elemento possa apparire diverso a individui diversi. È così per tutto: prendi il processo a O.J. Simpson… Ognuno ascolta le medesime parole, osserva i medesimi volti, le medesime espressioni, esplosioni di collera, frustrazioni, attestazioni di prova, e se ne va maturando verdetti del tutto differenti. Anche un film standard tipo «pappa pronta», la gente lo vede a modo suo. È così e basta. Poi ci sono i film o gli scritti che puoi magari aver affrontato una volta e nei quali, quando ci ritorni sopra dieci anni dopo, ritrovi molto, molto di più. Sei tu che sei cambiato, lʼopera è rimasta la stessa; ma improvvisamente è divenuta assai più significativa per te, in funzione del punto in cui ti vieni a trovare. A me piacciono le opere che contengono un qualsivoglia nucleo al loro interno; devono essere astratte, dato che più sono concrete, meno probabilità avranno di svilupparsi. Colui che le crea deve sentire tutto questo, e in un certo senso esserne consapevole e agire con onestà. Ogni singola decisione passa attraverso questa persona, e se viene presa e messa in atto in maniera corretta, il lavoro che ne consegue avrà un senso per il suo artefice, gli apparirà sincero e appropriato. Alla fine lʼopera è compiuta, e di lì in poi non puoi intervenire in alcun modo. Ne potrai discutere, tentare di difenderla o roba simile. Può darsi che non funzioni, che il pubblico la odi comunque; per loro non va, li hai persi e non li riporterai dalla tua parte. Magari ventʼanni più tardi diranno: «Mio Dio, mi ero sbagliato!»; oppure, se

allʼinizio ti avevano amato, adesso ti detesteranno. Chi può dirlo? È fuori dal tuo controllo. Certe cose mi sembrano meravigliose senza che ne conosca il motivo. Altre significano moltissimo per me, ed è difficile spiegare il perché, lo ho «sentito» Eraserhead, non lʼho pensato. È stato un processo molto semplice, che partiva dalla mia interiorità e andava verso lo schermo. Ho filmato delle scene, le ho scandite in un determinato modo, ho aggiunto i suoni appropriati, e alla fine ero in grado di dire se funzionassero o no. Ora, per giungere allo stesso punto, devi affrontare un milione di chiacchiere in più. E se a Hollywood non riesci a mettere per iscritto le tue idee, oppure se non sei in grado di definirle, oppure ancora se sono talmente astratte da non poter essere recepite come si conviene, non avranno alcuna possibilità di sopravvivenza. In un film lʼastrazione è importante, ma sono assai pochi coloro che colgono lʼoccasione di esprimerla compiutamente attraverso il linguaggio cinematografico. Ciò che si crea è unʼestensione di se stessi; e ogniqualvolta crei qualcosa, ti esponi. È rischioso. A tuo avviso il problema non sta nel fatto che, come nellʼanalisi freudiana, questo genere di approccio implica la tendenza ad affermare: «Questo significa questʼaltro, poiché facciamo tutti parte del medesimo…» …inconscio collettivo. Certo, ma il punto è che nemmeno se condividessero la medesima linea due psicanalisti si troverebbero perfettamente dʼaccordo su tutto. Se esiste una scienza esatta, quella non è la

psichiatria. Un quadro generale non è ancora stato fissato. Possiamo parlare un poʼ delle scene del radiatore? A distanza di anni, quando lʼ«Uomo che viene da un altro posto» irruppe inaspettatamente in Twin Peaks, le somiglianze con la «Donna del radiatore» apparvero evidenti. Sembravano provenire da luoghi molto simili. È vero? Certo. Il disegno sul pavimento dellʼappartamento di Henry è lo stesso di quello della Stanza Rossa in Twin Peaks; e questo è un primo fattore di somiglianza. La «Donna del radiatore» non compariva nella sceneggiatura originale di Eraserhead. Un giorno ero seduto in mensa e stavo dipingendo un ritratto della «Donna del radiatore», ma non sapevo da dove venisse fuori. Tuttavia quando la vidi completata cominciò ad acquistare un senso. Poi nella mia mente si formò unʼimmagine del radiatore; era uno strumento per diffondere calore dentro una stanza, e ciò mi comunicò una sorta di felicità, a me come a Henry, si potrebbe dire. Vidi davanti a me questʼapertura che conduceva verso un altro luogo; allora mi precipitai sul set ed esaminai un radiatore più da vicino. Esistono diversi tipi di radiatore, ma non ne avevo mai visto uno simile: allʼinterno aveva una specie di piccola cavità, come un palcoscenico. Non sto scherzando: era proprio così, e questo cambiò tutto. Quindi ora dovevo fabbricare le porte e il palcoscenico, ricostruirlo per intero. Ogni elemento conduceva al successivo, e a un tratto comparve «lei». La «Donna del radiatore» aveva una pessima pelle; pensai che dovesse avere una brutta acne, come quella

di un adolescente, e usai una quantità di trucco tipo frittella per ottenere la giusta grana. Ma la sua felicità veniva da dentro, il suo aspetto esteriore non aveva importanza. Un film non è finito finché non è finito. Può accadere di tutto, e ti rendi conto che è quasi come se le cose sapessero come andrà a finire. Allʼinizio puoi scoprirne alcune parti, eccitarti e innamorartene, ma le cose sanno che non ti sono ancora apparse nella loro interezza. Riuscirai a scoprire questi altri elementi? La sola maniera per saperlo è rimanere in contatto, stare in guardia e cercare di sentirli; e allora forse si riveleranno alla tua coscienza. Ma in realtà sono sempre stati lì, da qualche parte. Nel 1974, durante un periodo in cui Eraserhead era in sospeso a causa della mancanza di denaro, hai realizzato un cortometraggio assai poco conosciuto intitolato The Amputee. Come andò esattamente? Beʼ, lʼAmerican Film Institute stava testando due diversi stock di videocassette in bianco e nero. Avevano intenzione di acquistarne uno, e volevano che Fred Elmes li provasse per verificare quale dei due fosse il migliore. Quindi Fred venne alle scuderie e annunciò che il giorno seguente avrebbe girato un nastro di prova. Credo che gli volessero dare qualche soldo per dargli una mano; allora mi si accese una piccola lampadina e gli dissi: «Fred, cosʼè che vuoi girare?». «Oh, non saprei, un motivo di prova o roba del genere.» «Pensi che avranno da ridire se riprendi qualcosʼaltro? Cosa diresti se scrivessi un soggetto e ne facessimo due versioni differenti? Loro potrebbero verificare lo stock

comunque, ma noi avremmo filmato qualcosa.» E lui rispose: «Non credo che sarebbe un problema; anzi, potrebbe andare perfino meglio». Allora stetti sveglio tutta la notte a scrivere, lavorando con Catherine Coulson per mettere su questo scherzetto. Fu davvero grande perché non avevamo la presa diretta, perciò girammo il film e poi lo proiettammo di nuovo registrando tutto il sonoro dal vivo. Fu un vero sballo fare gli effetti così, al volo. Di cosa tratta il film? Beʼ, Catherine sta su una sedia e ha una doppia amputazione. Controlla una lettera che ha appena scritto: la rilegge ad alta voce, tra sé e sé. Allora arriva un dottore, che sono io, e le pulisce le estremità dei moncherini. Tutto qui (Ride). Molto minimale! Pare che Catherine Coulson abbia avuto una parte molto importante in Eraserhead. Oh sì, importantissima. Jack Nance, che interpretava Henry, era suo marito. Fu questo che la coinvolse; ma in seguito si rese conto di essere un ingrediente fondamentale, imprescindibile per la riuscita del progetto. Rimase vicina alla lavorazione del film dallʼinizio alla fine. Il suo ruolo doveva essere quello di unʼinfermiera: Henry e Mary dovevano andare allʼospedale a prendere la «creatura», ma quella scena non venne mai girata. Lei continuò per cinque anni a fare battute del tipo: «Quandʼè che girerò la mia scena?», e roba simile; a parte questo, Catherine ha un carattere che in un certo senso la porta a negare i propri desideri per soddisfare quelli altrui. Quando, durante il giorno,

tutti gli altri dormivano, lei guadagnava qualche soldo facendo la cameriera; ci portava le mance e anche qualcosa da mangiare dal ristorante, e poi si prendeva cura del materiale. Inoltre, in diverse occasioni ha contribuito al film di tasca propria. La prima mansione che svolse fu reggere lʼasta del microfono ad Al; più avanti cominciò a studiare con Herb Cardwell, imparò tutto sulla macchina da presa e divenne un formidabile primo assistente operatore. Sul set cerano solamente cinque persone, cosicché ognuno aveva un compito; e se dovevamo fare un dolly, tutti quanti si trovavano a svolgerne almeno uno e mezzo. Perciò provavamo e riprovavamo. Herb era un accanito sostenitore dei dolly molto morbidi, e ci insegnò a spingerli in modo corretto. La parola «morbido» acquistò una rilevanza enorme, affinché avvertissimo quella particolare sensazione. E, squattrinati comʼeravamo, la cosa ci portò via molto tempo. Qualunque operazione portava via un sacco di tempo, dato che non eravamo veramente coscienti di ciò che stavamo facendo. Era tutto basato sul buon senso. La Coulson ha dichiarato che parecchi anni prima della sua apparizione in Twin Peaks nei panni della «Signora ceppo» tu le avevi predetto che un giorno sarebbe comparsa in una serie televisiva con un ceppo in mano. Era una battuta? No. Ebbi questʼidea mentre facevamo Eraserhead, e ne discussi con lei, con Jack e con chiunque altro fosse lì ad ascoltare {Ride). Sʼintitolava Iʼll Test My Log with Every Branch of Knowledge! [Ho messo alla prova il mio ceppo in ogni ramo della conoscenza], un programma televisivo di mezzʼora la cui protagonista doveva essere

Catherine nelle vesti, appunto, della «Signora ceppo». Suo marito era morto durante un incendio nella foresta, e le sue ceneri erano sul caminetto insieme alle sue pipe e al suo berretto; era un boscaiolo. Tuttavia il caminetto è completamente chiuso da assi di legno; la donna ha un bambino in tenera età, ma non sa guidare e quindi prende il taxi. Ogni puntata avrebbe dovuto iniziare con lei che telefonava a un esperto in uno degli infiniti campi della conoscenza umana. Poteva darsi che quel tal giorno chiamasse un dentista, ma lʼappuntamento che fissava era per il suo ceppo. Allora il ceppo si sistemava nella poltrona del dentista, con tanto di bavaglino e catenella, il dottore scrutava in profondità le sue cavità con i raggi x, e anche il figlio assisteva alla scena. Oppure altre volte si sarebbero diretti verso una tavola calda, ma non sarebbero mai arrivati a destinazione. Questa era lʼidea. Avresti imparato qualcosa ogni settimana, non è vero? Certamente! In un mondo totalmente assurdo. In che modo tutto ciò fini con il confluire in Twin Peaks? Beʼ, stavamo girando lʼepisodio pilota, ed eravamo arrivati alla scena della riunione del consiglio comunale. Mi aveva colpito il fatto che Catherine dovesse parteciparvi: non doveva far altro che tenere quel ceppo tra le mani accendendo e spegnendo la luce per attirare lʼattenzione su di lei, dal momento che era una medium. Perciò, sebbene non facesse realmente parte della serie, qualcosa che riguardava una donna e un ceppo cera… Il pubblico rispose molto favorevolmente, e quindi quello di Catherine diventò una specie di personaggio fisso.

Fu lei a inventare la famosa pettinatura di Jack Nance? La prima notte fu Charlotte Stewart a occuparsi della capigliatura di Jack, però di nuovo fu il destino a decidere. Io li volevo allʼinsù, corti ai lati e alti al centro; ma Jack aveva dei capelli particolari: una volta tirati e pettinati, rimanevano in piega. Erano fantastici: e non appena vedemmo lʼeffetto, alti comʼerano, dissi: «Ecco, è perfetto!». Per noi, nel giro di due o tre settimane, divenne una cosa assolutamente normale. Ogni volta che uscivamo in macchina piazzavamo Jack nel sedile di dietro; si sistemava lì già vestito e noi lo portavamo sul luogo delle riprese, ma sempre tenendolo nel mezzo del sedile posteriore, in modo che non lo si potesse vedere! Jack era un vero professionista, te lʼassicuro. Incredibile! Sembrava che avesse recitato in teatro o nei vecchi film per almeno mille anni. Arrivava sul set con tutto il suo armamentario: aveva un piccolo astuccio per il trucco e pennellini vari, tirava fuori una serie di strani oggettini e si metteva al lavoro.

Felicità interiore. Lynch crea la «Donna del radiatore» per Eraserhead (1976).

«La Donna del radiatore»: Laurel Near in Eraserhead (1976).

«Tirato» allʼinverosimile. Catherine Coulson pettina allʼinsù i capelli di Jack Nance per Eraserhead (1976).

Catherine Coulson (primo assistente operatore), suo marito Jack Nance e Lynch preparano unʼinquadratura per Eraserhead (1976).

Ora che è morto sarà sicuramente ricordato più per la sua interpretazione di Henry che per qualsiasi altro ruolo. In qualche modo attraverso Eraserhead ha raggiunto lo status di icona, di attore di culto. Considero Jack uno dei migliori amici che abbia mai avuto. A partire da Eraserhead abbiamo lavorato insieme per più di venticinque anni, in sei film oltre che per la serie televisiva di Twin Peaks. Tra gli attori, Jack è rimasto un eroe non celebrato. Mi mancherà la sua caustica arguzia venata di assurdo, le storie che raccontava, la sua amicizia. Mi mancheranno tutti i personaggi che avrebbe potuto interpretare. Tu e Jack facevate molte prove per Eraserhead, non è vero? Dedicavate unʼattenzione meticolosa ai dettagli.

Certo. Ci fu un periodo nel quale io e Jack ci chiudevamo in una stanza e provavamo, portando avanti il progetto. Quelle sedute di prova durarono un tempo lunghissimo. Non solo fu fondamentale per il film, il fatto è che Jack si appassionava ai dettagli. Perciò spaccavamo praticamente ogni capello in quattro. Era bizzarro. Come per lʼanimazione? Sì, più o meno. Pianificavamo ogni minimo dettaglio. Poteva trattarsi anche solo di camminare da quellʼangolo oltre la dispensa fino a questo punto, ma era straordinario osservare in cosa poteva trasformarsi: erano solo alcuni passi, e tuttavia nel cervello di Henry potevano verificarsi milioni di eventi. Disponevamo di parecchi faretti che creavano piccole pozzanghere di luce, e quindi Herb dedicava un sacco di tempo allʼilluminazione. Sia lui che Fred erano molto coscienziosi, perciò poco a poco trovammo un nostro ritmo: dopo che la lavorazione di un film è andata avanti per un paio dʼanni si finisce per trovarne uno! A un certo punto rallentammo fino a una, due inquadrature per volta; una ripresa importante poteva tranquillamente occupare tutta la notte. Ma lʼattimo in cui le cose sembrano davvero parlarti è quello in cui la cinepresa sta filmando: la gente sul set ha un rispetto quasi religioso, tutti fanno la loro parte con serenità e tranquillità. Lo puoi veramente constatare con i tuoi occhi. Tutto questo non finisce per caricare ciascuna prima ripresa di una grande pressione?

Sì, è così. Durante quelle prime riprese ci sono milioni di oggetti che paiono urlarti contro. È strano, ma appena cominci a intravedere qualcosa del genere è probabile che anche gli attori percepiscano la verità di quellʼistante, poiché una volta tanto ci si trova tutti insieme nella medesima situazione, e si fa sul serio. Talvolta può svolgersi tutto molto rapidamente, e diventa subito chiaro se qualcosa non sta andando per il verso giusto. Nel corso delle prove lʼatmosfera era estremamente rilassata - cerano solamente cinque persone coinvolte - cosicché ogni elemento prese a evolversi, elaborato comʼera fin quasi alla soglia dellʼinfinitesimale; ed è così che amo lavorare. Quando guardavate i giornalieri discutevate a lungo sui risultati ottenuti e su ciò che eventualmente non andava? Certo. Una delle espressioni preferite di Herb era: «Se si controllano i giornalieri, non ci dovrebbero essere sorprese». In particolare se si procede facendo dei test. Il laboratorio è in grado di fornirti lʼimpronta visiva che desideri: sviluppano in quel dato modo e stampano in quellʼaltro. Non ci sono sorprese. Pertanto il più delle volte non ce ne furono; tuttavia, come ho già detto, dovemmo rifare diverse riprese, il che fu scoraggiante dato che la prima volta ci avevamo messo così tanto per realizzarne alcune. E poi, col bianco e nero, se vuoi che alla fine si veda qualcosa devi illuminare molto. Nel film ci sono parecchie zone dʼombra; i colori, al contrario, si separano automaticamente uno dallʼaltro. Ho sentito dire che prima di girare Eraserhead hai fatto proiettare Viale del tramonto (Sunset Boulevard) per tutti

i membri della troupe. Come mai proprio quel film? Viale del tramonto è sicuramente tra i miei cinque film preferiti. Tuttavia non cera nessuna particolare relazione con Eraserhead-, costituiva solamente unʼoccasione in cui il bianco e nero viene impiegato per creare una determinata atmosfera. Oltre a ciò, in quel film i personaggi fanno parte di un universo del tutto peculiare: una Hollywood che non cʼè più, che appartiene al passato. Esatto. È come se fosse una magnifica strada che conduce verso unʼaltra dimensione. Ne parlai con Billy Wilder, e lui mi disse che quel palazzo non sta neanche sul Sunset Boulevard! Vorrei non aver mai sentito niente del genere: certo che è sul Sunset Boulevard, è proprio laggiù! Ed è ancora là che si trova, da qualche parte. Mi chiedo se tutto ciò abbia qualcosa a che fare col prologo del film: colui che ci racconta la storia è un cadavere, qualcuno che potrebbe star «sognando» o inventando lʼintera vicenda a nostro uso e consumo. Certo, può darsi. Bisogna scoprirlo! Ovviamente, dato che lo amo così tanto, in Viale del tramonto ci devʼessere qualcosa di simile. Però non so di che cosa si tratti. In Eraserhead è Henry a sognare il film o è lui a esser sognato? Beʼ, non sono in grado di dirlo.

Una dimora hollywoodiana in unʼaltra dimensione. William Holden e Gloria Swanson in Viale del tramonto (1950).

Credo che il senso della mia domanda sia: dovʼè collocato il punto di vista del film? A volte non è facile stabilirlo. Ben detto. Non saprei nemmeno cosa dire in proposito. Probabilmente se scrivessi lo farei in prima persona, oppure in terza… Non lo so, è così e basta. Nel caso in cui fossi tu stesso a decidere una data interpretazione degli eventi ancor prima di iniziare a girare un film o nel corso della sua lavorazione, avresti la sensazione che ciò finirebbe in qualche modo per limitarne le possibilità? Certo; ma vedi, è unʼeventualità che non prendo neanche in considerazione. E tanto meno saprei dirti esattamente da che parte affronto il problema. Tuttavia ne so abbastanza per poter dare indicazioni su come

agire in una determinata scena; e allorché questʼultima viene eseguita, ne so abbastanza per poter dire: «Questa parte è grande, e questʼaltra invece non va». Inoltre puoi suggerire agli attori: «Non va bene perché…», e cominci a spiegarne il motivo. Magari usi unʼanalogia, un esempio che non centra niente, ma loro riescono ad afferrarne quanto basta; e quando poi fanno la scena come si deve, nemmeno loro si rendono conto fino in fondo se e quanto sia giusta, ma va bene così. In che misura hai lavorato sulle modalità espressive dei personaggi di Eraserhead? I rari dialoghi del film sembrano pronunciati in una maniera tutta particolare. Beʼ, dovevano dare questʼimpressione. Derivò tutto dalle prove: infatti i personaggi avrebbero potuto parlare in molti modi, tutti completamente fuori luogo. Perciò mi sforzai di trovare quello più appropriato, tanto per ciascuno di loro che per lʼatmosfera generale. Mi calai allʼinterno delle varie sfumature verbali: forti, sommesse e quantʼaltro. Si possono considerare i dialoghi alla stregua di effetti sonori o musicali, ma nonostante ciò conservano attinenze con i personaggi; quindi, una volta scoperta la chiave, lʼespressione corretta viene di conseguenza. Se tutto va bene parecchi di questi elementi emergono quasi subito e vengono fissati una volta per tutte. Anche la colonna sonora possiede una certa densità: una «presenza» costante, quasi subliminale. Sono assolutamente affascinato dalle presenze, da quello che si è soliti definire «tono locale»: il suono che si avverte nel silenzio, tra una parola e lʼaltra o tra una

frase e lʼaltra. È un aspetto molto delicato, poiché dentro questa sorta di ambiente sonoro apparentemente tranquillo si possono inserire delle sensazioni che contribuiscono a costruire lʼimmagine di un universo più ampio. Se si vuole evocare quellʼuniverso, tutto ciò ha unʼimportanza fondamentale. Una di queste «presenze» pare essere lʼelettricità: il rumore e la potenza prodotti dalla corrente elettrica. Eraserhead è solamente la prima manifestazione della tua attrazione per lʼelettricità. Di che si tratta esattamente? Anche in questo non ci capisco granché… Beʼ, esistono cose che penetrano fin dentro il luogo in cui vivi… entità generate o create allʼesterno, ognuna delle quali allude al senso del tempo, alla vita. E se poi in tutto ciò cʼè qualcosa che non va o che non funziona come si conviene, il fatto può anche rivestire qualche altro significato. Si dà il caso che mi piaccia lʼelettricità, ma non è che le nuove spine che si usano qui in America mi facciano proprio impazzire. Amo tutto ciò che riguarda lʼelettricità degli anni trenta e quaranta, e anche quelle fabbriche con le ciminiere. Il fuoco, il fumo, il rumore. I suoni si sono sempre più affievoliti: il ronzio di un computer è un gioco da ragazzi in confronto alla potenza nellʼaccezione vera del termine. E malgrado in quel computer ci sia una grande quantità di energia, la sua natura è del tutto diversa, e non mi fa provare nessuna emozione. Parecchie scene dei tuoi film sono caratterizzate da un indebolimento dellʼenergia elettrica: per esempio i neon

difettosi nella stanza in cui si effettua lʼautopsia in Twin Peaks, oppure il ronzio delle lampade nellʼappartamento di Dorothy Vallens in Velluto blu. Alcuni effetti dovuti alla corrente elettrica paiono anche annunciare pericoli o rivelazioni imminenti, come nel caso delle luci stroboscopiche che usi costantemente in Twin Peaks. Perfetto, è esattamente così. E ne ignoro il significato. Quindi lʼelettricità è collegata allʼinesplicabile. Certo, però gli scienziati non lo comprendono. «Sono elettroni in movimento» dicono, ma giunti a una determinata soglia ammettono: «Non sappiamo perché questo avvenga». Non sono uno scienziato e non ho mai discusso con persone competenti in materia, ma so che cʼè di mezzo una forza. Quando gli elettroni percorrono un filo, acquistano tutta quellʼenergia? È stupefacente. Per quale motivo una spina o una presa devono per forza avere quella forma? E poi le lampadine: posso quasi sentire gli elettroni che mi colpiscono alla rinfusa. È come quando capiti sotto le linee elettriche: se tu fossi bendato e viaggiassi lungo unʼautostrada, e ti concentrassi veramente, riusciresti ad accorgerti del momento in cui le stai attraversando. Oggi si sa che cʼè qualcosa di estremamente dannoso in tutta quella massa di elettricità. Provoca dei tumori cerebrali: il fatto che sia invisibile non significa che non possa aggredirti. Il tutto assume un tono piuttosto sinistro attraverso la sua associazione con Bob, lʼassassino di Twin Peaks. Beʼ, certo, quando Bob è in circolazione accade sempre qualcosa di strano. Forse si verifica una collisione di mondi: non è come mettersi a ballare in soggiorno in

una qualunque sera destate! Cʼè ben altro nellʼaria, come quando si percepisce un sentore, unʼinquietudine, e si aprono spiragli allʼirruzione del diverso. Dal momento che Eraserhead è stato realizzato in cinque anni, devʼessere stato molto problematico preservare in quellʼuniverso un umore tanto radicalmente ermetico. È stato spaventoso. Malgrado ciò mi piace parlare di Eraserhead, perché mi riporta a uno dei più bei periodi della mia vita, e ne conservo dei magnifici ricordi. Ma allora, quando ci ritrovavamo al verde, mi stupivo sempre che nel film rimanessero invariati tutti quegli elementi. La capigliatura di Jack non fu modificata da un momento allʼaltro, e potevo sempre contare sulle scuderie e sullʼAmerican Film Institute. In unʼinquadratura Henry cammina nel corridoio, gira la maniglia della porta e… un anno e mezzo dopo entra nellʼappartamento! Questo genere di problemi, come preoccuparsi di mantenere unʼatmosfera e una correttezza di esecuzione che reggano anche dopo cinque anni, possono terrorizzarti completamente. È molto difficile. Hai mai disperato di riuscire a terminare il film? Moltissime volte. A un certo punto avevo pensato di costruire un Henry in miniatura, alto circa venti centimetri, e di animarlo su piccoli sfondi di

Budget basso, morale alto. Lynch e Jack Nance si scambiano i ruoli sul set di Eraserhead (1976).

cartone, in modo da poter riempire i vuoti! Ci sono dei momenti neri durante qualsiasi film, perfino dopo che li hai finiti. Non a tutti piace ciò che hanno realizzato, e la negatività pesa moltissimo. Inoltre in un certo senso ti irritano anche gli aspetti positivi, perché desideri che ti soddisfino anche la volta successiva. Dovresti pensare solamente al lavoro, ma non è sempre facile. Anche durante The Elephant Man per un paio di volte ho temuto che non sarei mai arrivato in fondo, e lo stesso verso la fine di Dune. Mi è capitato molto spesso, e la delusione è sempre stata grande. Oggi sento che non avrei dovuto dedicare tanto tempo a Eraserhead. Mi piacerebbe aver fatto altri film durante quel periodo, ma non è andata così. È stato estremamente frustrante tener duro tanto a lungo su qualunque cosa. Non potevo intraprendere alcunché di nuovo dato che Eraserhead non era ancora terminato.

Non avevo nulla da mostrare a nessuno. Pertanto non mi restava che starmene lì a veder passare il tempo tentando di procurarmi il denaro che mi serviva, e un poʼ per volta ce la feci. Ciò malgrado, scorrendo le centinaia, a occhio e croce, di fotografie scattate durante la produzione del film, in pratica stai sempre sorridendo… Sì, come un campeggiatore contento… Mi stai prendendo in giro? Beʼ, in effetti erano rari i momenti in cui chinavo la testa; a quei tempi mi davo da fare fabbricando veramente di tutto, con lʼaiuto di Jack, Fred o Catherine. Stavamo mettendo su il nostro spettacolo, capisci? Era fantastico… E in più dovevo anche fare il giro dei giornali! E poi la soia, ne andavo davvero pazzo; era molto pesante da digerire, non mi sentirei proprio di consigliarla! Si abbrustoliva in un vasetto, costava poco e a quanto ne sapevo faceva bene alla salute, per cui ne mangiavo parecchia. Non ce la passavamo male, in quel periodo. In ogni caso dovevi preoccuparti anche di Peggy e di Jennifer. I tuoi genitori erano dʼaccordo con la tua decisione di fare un film rischiando di mettere eventualmente a repentaglio la vostra situazione familiare? Beʼ, una sera andai a casa dei miei e, strano a dirsi, ci trovai anche mio fratello e mia sorella. La lavorazione di Eraserhead era stata sospesa per un certo lasso di tempo e le riprese andavano avanti a spizzichi e bocconi, ogni qualvolta disponevo del denaro sufficiente. Tuttavia cera Jennifer a cui pensare, e i soldi latitavano; allora io, mio fratello minore e mio padre ci sedemmo attorno al

tavolo del soggiorno, con le tende quasi abbassate. Mio fratello oggi lavora alle officine Boeing, ed è un tipo molto responsabile. In lui scorre una sorta di vena sperimentale piuttosto singolare, ma possiede tuttora un grande senso di responsabilità. Dunque mi fecero accomodare e mi dissero che era ora che rinunciassi a questʼidea del film e mi trovassi un lavoro. Queste parole mi scossero nellʼintimo: fu una serata sconvolgente, piena di emozioni. Ma alla fine ne risultò che non potevo far niente del genere: ormai mi ero smarrito in questa landa che era Eraserhead, e chi poteva dire per quanto sarebbe durata? Mi avevano svelato il loro segreto, e ora sapevo come la pensavano. Mi sentivo ancor più abbandonato a me stesso. Tutto si risolse per il meglio, ma non poteva andare che così. Ho sempre sostenuto che non è possibile cominciare niente di diverso fintantoché ci si trova coinvolti tanto profondamente in unʼimpresa ancora incompiuta; ne sei come imprigionato, fino al momento in cui non trovi la maniera di portarla a termine. E quando finalmente il film fu ultimato, i tuoi genitori ti dissero: «Beʼ, ne valeva la pena, ha funzionato»? Tranne che per ciò che avvenne quella sera - il che in verità aveva più a che vedere con Jennifer e con la mia ex moglie Peggy che con me - i miei mi hanno sempre incoraggiato moltissimo. Mio padre ha coperto metà dei costi di The Alphabet, e nel periodo in cui frequentavo lʼAmerican Film Institute mi passava un assegno mensile. Mi dava continuamente dei soldi; ogni volta prendeva nota di quanto gli dovevo, e uno dei miei giorni più felici è stato quello in cui gli ho restituito

tutto. Se non fossi stato in condizioni di farlo non gliene sarebbe importato, ma è stato un momento davvero splendido! Non è che i miei comprendano necessariamente i film che faccio e perché li faccio, però sono sempre dalla mia parte. Ho sentito dire che a un certo punto lʼAmerican Film Institute dovette tagliare i ponti con il film a causa di alcune complicazioni riguardanti i lungometraggi. Cosa accadde precisamente? Lʼambiente in cui lavoravo era estremamente ridotto, ma nel mondo esterno tutti parlavano di Easy Rider; e Easy Rider era destinato a provocare delle ripercussioni sullʼAmerican Film Institute, dato che nei loro piani figurava la produzione di lungometraggi. A quanto ne so avevano raggiunto un accordo con alcuni studios, i quali a loro volta avrebbero finanziato dei lungometraggi attraverso lʼAfi per somme che andavano dai 250 000 ai 500 000 dollari. Ma improvvisamente, non appena seppero quanto poco era costato Easy Rider, quelli degli studios fecero: «Ehi, aspettate un momento!». Quello che aggiunsero subito dopo non lo so, sta di fatto che non vollero più dare i soldi allʼAfi. Credo che temessero che lʼAfi avrebbe realizzato film in grado di entrare in concorrenza con i loro, e quindi dissero: «Siamo entusiasti di fornire a voi dellʼAfi le nostre attrezzature e la nostra professionalità, ma non ci va per niente bene che le utilizziate per fare dei lungometraggi in concorrenza con i nostri». Ragione per cui allʼAfi non rimase che emettere una direttiva: basta lungometraggi. Stanton Kaye, un mio collega del Centro, aveva ricevuto il via libera per girare il primo lungometraggio

dellʼAfi. Era una produzione enorme, e si intitolava In Pursuit of Treasure (Alla ricerca del tesoro). Le riprese sarebbero state effettuate nello Utah. Tuttavia fin dallʼinizio ci furono dei problemi, grossi problemi. A un certo punto non riuscivano a trovare nessuno che costruisse i lingotti dʼoro per il tesoro; Tony Vellani venne a sapere che ero capace di fare dei calchi in gesso, e quindi fui spedito nello Utah a lavorare insieme a un tizio di nome Happy, fabbricando lingotti dʼoro nel seminterrato di un albergo. Davvero bizzarro! Dopo un poʼ ne ebbi abbastanza, e allora dissi: «Guardate, il mio carissimo amico Jack Fisk sa fare anche lui questa roba. Ho intenzione di farlo venire qui». Jack aspirava a diventare scenografo, dunque era perfetto; ci demmo il cambio e io me ne tornai a casa. Ma quel film non fu mai terminato, nonostante ci avessero investito un capitale. Fu unʼaltra delle gocce che fecero traboccare il vaso dei lungometraggi dellʼAfi. Per questo, quando apparve chiaro che Eraserhead sarebbe diventato un lungometraggio, preferirono prenderne le distanze. Perciò concordammo quella formula, «Prodotto in associazione con…». Poi però fecero la mossa più importante: dal momento che avevo bisogno di un ulteriore finanziamento, e di conseguenza la mia percentuale si stava assottigliando sempre più velocemente, mi concessero una quota supplementare del 40 per cento sul loro 50 per cento, per cui ero il titolare del 90 per cento di Eraserhead. Qualcuno sta ancora ricavandone dei quattrini: infatti ciascuno degli investitori ha ricuperato il suo capitale e ha ottenuto un margine di profitto. E ne sta tuttora beneficiando. È stupefacente che sia andato tutto così liscio.

Cosa puoi dire della «creatura»? Comʼè stata realizzata? Non ne voglio parlare. Ho raccolto unʼindiscrezione secondo cui Stanley Kubrick desiderava sapere… Beʼ, Kubrick mi fece il complimento più bello. Poco prima di iniziare le riprese di The Elephant Man, in Inghilterra, arrivarono sul set alcuni tizi della Lucas Films. Si erano fermati a far visita a Jonathan Sanger ed erano passati a salutarmi. Stavamo chiacchierando allʼentrata dei Lee International Studios, a Wembley, quando a un certo punto dissero: «Siamo felici di averti incontrato, David, perché lʼaltra sera eravamo a Elstree con Kubrick. Abbiamo discusso un poʼ, e poi lui ci ha chiesto: “Ragazzi, stasera vi va di venire a casa mia a vedere il mio film preferito?”». «Certamente!» risposero; ci andarono, e il film in questione era Eraserhead. Per me fu una botta di euforia, poiché ritengo che Kubrick sia uno dei più grandi registi di tutti i tempi. Praticamente ognuno dei suoi film sta nella mia top ten. Giusto per tornare un attimo sulla «creatura»: il punto è che non se ne deve parlare, oppure cʼè dellʼaltro? No, non dobbiamo fare proprio niente. Ti svelerò la ragione principale: dʼaccordo, sei stato coinvolto nella realizzazione di qualcosa, ma… Allora lʼhai costruito tu? È stata una tua… No, non ho detto sullʼargomento.

nulla.

Non

dico

mai

nulla

Io credo che lʼabbia fatto tu. È stata una tua creazione? Non ho mai detto questo, né mai lo dirò. Potrebbe essere stato costruito da qualcun altro. Oppure potrei averlo trovato. Oggi chiunque sa tutto su come si fanno le cose. È esattamente come scoprire che quella casa non è sul Sunset Boulevard. O come per Cli anger: ci sono più persone che sanno come hanno fatto a far esplodere lʼelicottero di quante non abbiano visto il film! I maghi tengono i loro segreti per sé, perché sanno che se appena li dovessero rivelare qualcuno potrebbe chiedere: «Mi stai prendendo in giro?». Mi spaventa a morte che possano farlo con me. La gente non se ne rende conto, ma nellʼistante in cui prestano ascolto o assistono a simili rivelazioni cʼè qualcosa che muore dentro di loro. Sono un poʼ più morti di quanto non fossero prima; non sono per niente contenti di conoscere tutta la faccenda. Al contrario, sono felici di ignorarla, ed è proprio ciò che dovrebbero fare. Non ha niente a che vedere col film; anzi, lo rovinerebbe solamente! Per quale motivo se ne dovrebbe parlare? È spaventoso! Jack Nance diceva spesso: «Potrebbe benissimo essere una calza con un paio di bottoni!» (Ride). Anche se, come tu stesso hai detto, laddove cʼè un segreto sorge un enorme desiderio di saperne di più. Esistono dei segreti che, una volta svelati, sviluppano una reazione uguale e contraria a ciò che si è venuti a sapere. Appartengono a unʼaltra categoria, ma io credo anche in quelli. Tuttavia, a mio avviso, il discutere del modo in cui in un film si sono verificati determinati eventi sottrae moltissimo allʼeffetto complessivo.

Ho letto da qualche parte che durante la lavorazione di Eraserhead hai sezionato un gatto per ricavarne spunti sugli aspetti «materici» del film. Ne ho esaminato ogni organo: le membrane, il pelo, la pelle… e ne ho concluso che, se da un lato molte di queste materie possono apparire pressoché oscene, se vengono isolate e considerate su un piano più astratto risultano assolutamente straordinarie. Una volta tua figlia Jennifer ha dichiarato in un documentario che gli aspetti autobiografici di Eraserhead per esempio la tua condizione di allievo di una scuola dʼarte «costretto» a fare il padre - sono confluiti in larga misura nel film; e inoltre che, dato che lei stessa era nata con delle deformità ai piedi, la «creatura» era ispirata a lei. Si tratta di unʼinterpretazione assai letterale, non è così? Indubbiamente. È naturale che, dal momento che una persona è ancora viva e quindi è possibile osservarla da vicino, sorgano illazioni sul suo conto. Questo però significherebbe che là fuori ci dovrebbero essere almeno cento milioni di storie tipo Eraserhead: tanto per fare un esempio, a chiunque abbia un figlio viene forse in mente di fare Eraserhead? È ridicolo! Non è così semplice: le ragioni sono migliaia, e ogni famiglia conduce in maniera differente la sua lotta per conquistare un equilibrio al proprio interno e per affrontare i propri problemi. Comunque è stato durante Eraserhead che tu e Peggy vi siete separati? Sì. Circa un anno dopo lʼinizio della lavorazione.

Devʼessere stato difficilissimo, per chiunque provenisse da un ambiente esterno a quello assai «ristretto» di Eraserhead, trovare il modo di adattarvisi: in particolare quando si gira di notte e si dorme di giorno. Certo. Probabilmente contribuì anche quello; tuttavia ci siamo separati nella maniera più amichevole possibile, e siamo rimasti amici fino a oggi. Allʼepoca dei tuoi esordi era problematico per te cercare di fare un film nellʼunica maniera che conoscevi e mantenere, al contempo, una vita privata come marito e come padre? Problematico? (Ride) Vedi, non ho mai avuto intenzione di sposarmi. Era come se avessi la percezione di un altro genere di vita: ciò che volevo davvero sperimentare era la cosiddetta «vita artistica», quella che ti assorbe ventiquattrore su ventiquattro. Trovi che oggi sia più facile per te tenere insieme i due aspetti? Lo è, poiché allʼinizio sei in ascesa e perciò vuoi avere con te il minor bagaglio possibile. Devi darti da fare. Poi succedono delle cose, e se ciò riesce a trasmetterti un pizzico di sicurezza in più per vivere in questo strano mondo tutto diventa più agevole. Tuttavia cʼè ancora tantissimo da sbrigare, e hai bisogno di tempo per riflettere. Devi afferrare al volo le idee, e le distrazioni sono mortali. Assolutamente mortali! Sissy Spacek, che aveva sposato Jack Fisk, figura nei titoli di coda di Eraserhead. Cosa fece per il film?

Beʼ, un giorno, prima che si sposassero, Jack portò Sissy sul set. Lui guadagnava un sacco di soldi come scenografo, e lei altrettanti come attrice. Jack stava lavorando con Billy Friedkin, che aveva in preparazione due o tre film e perciò era molto impegnato. Uno dei temi che interessavano Friedkin era il surrealismo: avevano esaminato numerosi Magritte, e Jack consultava volumi e altro materiale. Erano diverse settimane che stava sul libro paga, beccandosi un bel mucchio di quattrini di cui non aveva precisamente bisogno. Per giunta si sentiva un poʼ in colpa, perché non è che questo lavoro gli portasse poi via molto tempo. Allora mi girò qualche assegno dei suoi; e a volte anche Sissy ci diede una mano: come quando Jack stava interpretando lʼ«Uomo del pianeta» e lei discusse la scena con noi. Jack ebbe parecchi problemi a causa del trucco che gli applicai sul corpo e sul viso: gli ci vollero tre giorni per riacquistare un aspetto normale! Come mai a metà della produzione avvicendasti il direttore della fotografia, da Herb Cardwell a Frederick Elmes? Beʼ, Herb girò con noi per nove mesi. Era una delle persone più strane che avessi mai conosciuto. La sua competenza sfiorava il genio: conosceva scientificamente le modalità in cui la luce agisce allorché impressiona lʼimmagine sulla pellicola, oltre che i processi di sviluppo e di stampa. Sapeva tutto. Era in grado di progettare e costruire complicate apparecchiature meccaniche; se ne intendeva assai più di quanto effettivamente gli servisse. In qualche modo il suo cervello non faceva che assorbire in formazioni, fatti, dettagli. Era unʼattività che lo esauriva: non poteva

letteralmente fare a meno di apprendere. Un tipo veramente eccezionale. Ma Herb era pressoché al verde, perciò un giorno venne da me e mi dis-

Padre della «creatura»? Lynch con una bizzarra «scoperta».

Mary (Charlotte Steward) nutre il prematuro «lieto evento» in Eraserhead (1976)

se che doveva lasciarci. Noi non potevamo pagarlo, e lui accettò un film pubblicitario che doveva essere realizzato a Rio. Fred Elmes frequentava lʼanno successivo al mio allʼAfi, e Tony Vellani mi disse che secondo lui Fred avrebbe potuto essere il sostituto migliore. Così per due settimane Fred collaborò con Herb, in una fase di transizione. Strano a dirsi, erano molto simili tra loro. Herb guidava lʼauto con tutti e due i piedi: frenava col sinistro e accelerava col destro. Un pilota eccellente, e uno stile di guida morbidissimo. Quante volte ti capita, quando non sei tu al volante, di sentirti sballottato da una parte allʼaltra a ogni curva? Con Herb non era così: accelerava già a metà della svolta, in modo tale da non fartene nemmeno accorgere. In caso contrario ti va lo stomaco sottosopra e diventi teso; fare il passeggero può riempirti di tensione, ma con Herb ti rendevi subito conto che si trattava di unʼesperienza totalmente diversa. Da non credere. Ci sono moltissime storie su Herb, tutte straordinariamente piene di mistero. Durante Eraserhead, quando finivamo il turno di lavoro, anziché tornare a casa - Alan e Herb abitavano con noi, e a volte cera anche mio fratello - lui se ne andava da qualche altra parte, nessuno sapeva dove. Quando rientrava appariva sempre affaticato. Pronunciava sì qualche parola, ma erano dei veri e propri enigmi. Ancora oggi non so cosa facesse; tutti quanti, inclusa sua moglie, pensavano che Herb potesse condurre una doppia vita.

Certo che, se era così, era molto ben nascosta. Herb era un mistero vivente. Più tardi trovò un impiego presso una linea aerea, installando dei 16mm con cui proiettava vecchi film. Il video non esisteva ancora. Lui e altri cinque tizi montavano i nuovi sistemi sugli aerei, e intervenivano durante il volo nel caso ci fosse qualcosa che non andava. Una volta volarono fino in Inghilterra, atterrarono a Gatwick e presero alloggio in un albergo nei pressi dellʼaeroporto. Il giorno dopo dovevano incontrarsi a colazione, salire su un altro aereo e andare in un altro posto. Herb era sempre in ritardo. Sempre. Così erano tutti lì a far colazione, ma di Herb nemmeno lʼombra. Lo fecero chiamare in camera sua: nessuna risposta. Tentarono di nuovo: ancora niente. Allora salirono, bussarono alla porta: silenzio totale. Alla fine andarono dal direttore e gli dissero: «Non riusciamo a trovare il nostro amico. Avrebbe dovuto venire con noi a colazione. Forse lei potrebbe far aprire la porta della camera». Lo fece, e Herb era lì, morto nel suo letto. Lo sottoposero a due autopsie, ma ancora oggi non si conosce il motivo del decesso. Una volta completato il film hai dovuto affrontare il problema della distribuzione. Devʼessere stato singolare per te, dal momento che avevi vissuto tanto a lungo in un ambiente così ermeticamente isolato dal resto del mondo. A quel punto il frutto della tua immaginazione doveva uscire allo scoperto. Come andò? Beʼ, allʼinizio tentai di mandarlo a Cannes. Qualcuno del Festival venne allʼAfi mentre stavamo mixando; facemmo tutto il lavoro in otto giorni, ma il materiale era già pronto e quindi non fu un grosso problema. Li

lasciai entrare perché erano molto simpatici, potrei quasi dire che mi piacevano. Erano lì per la Quinzaine des Réalisateurs, credo, ed espressero un giudizio molto favorevole nei confronti di Eraserhead. In seguito mostrammo il film a un amico di Terrence Malick, penso che fosse il suo finanziatore. Terry cercava di aiutarmi a recuperare un poʼ di soldi, e mi disse: «Mi piacerebbe che tu mostrassi qualche sequenza a questo tizio, forse potrebbe darti una mano». Terry però non aveva visto ancora niente; in ogni caso organizzammo la proiezione di numerose scene, e quando questa persona arrivò e prese posto in sala cominciai a innervosirmi. Mi ero sistemato alla consolle con Al, che dal canto suo aveva preparato degli spezzoni abbastanza tranquilli. Ma nel bel mezzo della proiezione il tipo saltò su urlando: «LA GENTE NON SI COMPORTA IN QUEL MODO! LA GENTE NON PARLA IN QUEL MODO! QUESTA È MERDA!», e se ne andò; ed era incazzato sul serio. Da sopra Ron, il proiezionista, aveva sentito tutto, e rimanemmo lì a guardarci in faccia. Allora mi venne da pensare: «Ehi, non sarà per niente facile!» Anche se Al e io non ne sapevamo niente, Cannes divenne la nostra meta. Poi però mi scocciai davvero. Non esisteva una copia sonora di Eraserhead, cerano solo dodici rulli di girato e dodici di sonoro; perciò mi procurai un carrello al Farmerʼs Market e andai addirittura al piano di sopra, dallʼamministratore, spiegandogli cosa avevo intenzione di fare: dovevo recarmi a New York e portare con me tutto il materiale. E la sua risposta fu: «Se sapessi quante cose sono state portate via da qui dentro… E tu me lo vieni a chiedere?

Hai fottutamente ragione a volertelo prendere, e sono certo che lo riporterai indietro!». Caricai tutto sul carrello e prelevai gli ultimi spiccioli dal mio conto in banca per comprarmi il biglietto per New York. Una volta arrivato aspettai fino allʼapertura della sala di proiezione e mi diressi in città per consegnare il film. Lʼunica persona che incontrai fu il proiezionista, il quale mi disse: «Mettilo lì insieme agli altri, lo passerò appena possibile». Prima del mio cʼerano almeno altri cinque film, così per tutto il giorno non feci che camminare su e giù per il marciapiede consumando caffè e frittelle, finché non ebbi la testa pesante come un blocco dʼargilla. E finalmente, saranno state più o meno le quattro del pomeriggio, fu la volta di Eraserhead: io sbirciavo attraverso la porta, entrando e uscendo di continuo, e la proiezione andava avanti lenta come non mai. Sarò schiattato almeno un milione di volte, e quando tutto fu finito me ne tornai allʼaeroporto per riprendere il volo per Los Angeles. Tre giorni più tardi, telefonando per tentare di scoprire se si fossero sbottonati in proposito, qualcuno mi riferì che alla proiezione non cʼera anima viva! Nessuno. Erano ripartiti tutti quanti due giorni prima, e il proiezionista stava passando le pellicole in una sala deserta! Questo per quanto riguarda il capitolo Cannes. In seguito il film fu rifiutato anche dal New York Film Festival; a quel punto Mary mi disse: «Che ne pensi del Los Angeles Film Festival?». «Non posso farcela» risposi io. «Oggi è lʼultimo giorno utile per la presentazione: mettiamo la roba in macchina e andiamoci» aggiunse lei, al che replicai: «Okay, però sono stato respinto da Cannes e da New York, sarà lo stesso anche qui».

Quando arrivai laggiù ripetei la medesima frase, ma il tizio con cui stavo parlando mi fece: «Ehi, aspetta un momento! Noi non siamo il New York Film Festival, e nemmeno Cannes. Rilassati, daremo unʼocchiata al tuo lavoro!» e tornò dentro. Lo proiettarono a mezzanotte: su Variety comparve una recensione tremenda. Non si può certo dire che il film abbia goduto di una buona accoglienza. Dopo la proiezione tornai a casa. Erano circa le due del mattino quando passai da Fred Elmes; ci sedemmo in macchina, e io descrissi a Fred tutte le scene che avevo intenzione di tagliare e il punto preciso in cui lʼavrei fatto, in maniera da non scordarmelo. Il giorno seguente eseguii i tagli sulla copia sonora, cosa che non si dovrebbe mai fare; malgrado ciò tagliai dove avevo previsto e risistemai un altro paio di cose, poiché ne sentivo il desiderio, o la necessità. Nella versione precedente il film era troppo lungo, non funzionava. Parecchi lo giudicano lungo ancora oggi. La persona che visionò Eraserhead al Los Angeles Film Festival ne parlò a Ben Barenholtz, che me ne chiese una copia. Ben racconta che già durante il primo rullo era uscito dalla sala di proiezione per fare una telefonata in cui diceva di voler acquistare il film. Incaricò lʼaltro tizio, Fred Baker, di concludere lʼaffare, il che ebbe luogo allo Schwab Drugstore! Assolutamente grandioso: proprio come ai tempi di Viale del tramonto! Cosʼhai eliminato dal film? La scena dei dieci cents. Ne è rimasta una parte, ma originariamente comprendeva una serie di eventi ai quali Henry si trova ad assistere. Allʼinizio ci sono due

ragazzini, piccole figure immerse nellʼombra del vicolo. Pur essendo pieno giorno lʼaria è piena di fumo e di polvere, e i ragazzini sʼintravedono a malapena; grattando la terra con le dita trovano dei rotolini di monete da dieci cents, strettamente impacchettati, e allora continuano a scavare. Henry li scorge dalla finestra di casa sua: esce in fretta e furia, ma quando arriva a metà anticamera la «creatura» attacca a piangere. Lui però non si ferma e scende ancora, anche se è costretto a fare le scale dato che lʼascensore è fuori servizio. Giunto in corridoio sente il rumore della «creatura» dalla tromba dellʼascensore e si mette a prendere a calci la gamba di un divano; a questo punto interviene la padrona di casa, che lo rimprovera e lo rimanda in camera sua. Così comʼera questa breve sequenza mi piaceva molto; ora invece Henry vede solo che i ragazzini sono spariti e che al loro posto ci sono degli adulti che si accapigliano per le monete: scavano, smettono, si rimettono a litigare. Henry scende verso sera e quelli si stanno ancora azzuffando; un frammento di questo litigio è tuttora presente nel film. La notte in cui girammo questa scena, Jack Nance si era riempito le tasche di monetine. Lì per terra, in mezzo alla polvere, cera un valore di circa 50 dollari, ma per me era come se fossero stati 500 milioni, e rivolevo ognuno di quegli spiccioli! Ed ecco che Jack era salito sulla balconata al piano superiore delle scuderie urlando: «Ehi, Lynch! Abbiamo lavorato per te per cinque anni, e adesso vuoi indietro i tuoi soldi!» e roba del genere. Ce lʼaveva proprio con me, e teneva le sue manacce inzaccherate sulle mie monete. Fu allora che presi la decisione finale di assicurarmi che ognuno ricevesse degli utili dal film.

Alcuni se li erano già presi, ma credo di averglieli fregati! (Ride) Non era stata tagliata anche unʼaltra scena in cui si vedevano due donne legate a un letto? Certo. Faceva parte della medesima sequenza delle monete: Henry sbirciava dentro una stanza nella quale cerano due donne legate a un letto e un uomo che teneva in mano una scatola elettrica. Era un oggetto bellissimo: aveva due morsetti che sporgevano dal lato superiore e dei grossi cavi, e pareva che lʼuomo la stesse collaudando; poi, mentre dalla scatola partivano delle grandi scintille, lui si dirigeva verso le donne. A questo punto Henry abbandonava la scena! (Ride) Il motivo per cui lʼho eliminata è che era troppo inquietante: non volevo che a nessuno venisse anche solo in mente che si potesse svolgere nellʼappartamento accanto. Non faceva che complicare e turbare lʼinsieme. Eraserhead trovò la sua nicchia allʼinterno del circuito delle proiezioni notturne, più o meno contemporaneamente ai primi lavori di John Waters. Tutto ciò fu di sostegno al film? Certamente. John Waters è stata unʼaltra persona che mi ha aiutato moltissimo. Uno dei suoi film stava per uscire, non ricordo esattamente quale fosse, e lui si era già fatto un nome negli ambienti underground. Gli fecero unʼintervista, ma non fece parola del suo film: disse soltanto che bisognava andare a vedere Eraserhead! La cosa fu di grande aiuto al film, che fu programmato regolarmente in diciassette città. A quei tempi, ma sfortunatamente non più oggi, le proiezioni di mezzanotte andavano davvero forte; per esempio al

Nuart, qui a Los Angeles, tenne il cartellone per quattro anni. Si trattava solamente di una sera alla settimana, ma durante tutti gli altri giorni il manifesto rimaneva esposto; perciò, che la gente lʼavesse visto oppure no, si parlò di Eraserhead per oltre quattro anni. Mi piacerebbe molto che questʼabitudine si ristabilisse: ci sono un sacco di film che potrebbero sfondare, se solo avessero questa opportunità. Da un certo punto di vista oggi sarebbe praticamente impossibile fare un film come Eraserhead: non tanto produrlo quanto piuttosto farlo arrivare a un qualsiasi pubblico, dal momento che attualmente un circuito underground sopravvive a malapena. Oggi sia gli esercenti che i distributori si assumono di rado rischi del genere; i lavori autenticamente sperimentali passano in video nelle gallerie dʼarte. Hai sicuramente ragione, ma preferisco non pensare in questi termini. Peraltro, se qualcuno lo volesse, in un modo o nellʼaltro tutto ciò tornerebbe dʼattualità. In un certo periodo sembra che il cinema indipendente sia finito, e poi lʼanno successivo escono venti grandi film indipendenti. Non si può

«Troppo inquietante». Donne legate al letto (V. Phipps Wilson e Catherine Coulson) e uomo con il sigaro (Gil Dennis) in procinto di far scoccare scintille dai morsetti in Eraserhead (1976). Lynch dirige.

mai sapere ciò che sta dietro lʼangolo. Probabilmente esistono dei giovani cineasti che hanno delle idee in pentola: e nel preciso momento in cui riescono a procurarsi qualche soldo e una macchina da presa, eccoli dar vita a qualche progetto estremamente sperimentale, prendendosi dei rischi incredibili. E alla fine quei film vedranno la luce. Oggi, una volta di più, è come se il cinema andasse a scatti, ed esperienze di quel genere lo spingono in avanti, danno uno scossone. Lo stesso per le grosse produzioni: nessuno è in grado di prevedere cosa stia per accadere, ed è straordinario che sia così. Per quanto bizzarra una storia possa essere, non appena muovi un passo al suo interno ti rendi conto che quel mondo ha le sue regole e che devi seguirle. Alcuni film lavorano così tanto sulla superficie che non danno lʼimpressione di possedere alcuna regola. Per quanto mi

riguarda, il più delle volte tento di rimanere fedele alle mie idee, poiché credo che, se sei onesto e leale nei loro confronti, il pubblico lo avvertirà e ti darà il suo sostegno. Ma se infrangi quel patto o agisci per le ragioni sbagliate, si schiererà contro di te. Gli spettatori desiderano trovarsi di fronte a qualcosa di familiare, sul quale potersi appoggiare; eppure allʼinterno di tutte queste certezze vogliono anche essere presi di sorpresa, trasportati in luoghi in cui non sono mai stati. È ovvio che lʼintero periodo di Eraserhead ha rappresentato un momento molto speciale della tua vita. Ma cosa pensavi veramente, nellʼintimo, del film così come effettivamente si presentava? Beʼ, un paio dʼanni dopo averlo terminato, per qualche motivo dovemmo dare unʼocchiata ad alcune nuove copie di Eraserhead. Inoltre mi trovavo in un posto del tutto diverso, e potevo permettermi di visionarlo in completo relax; e dissi a me stesso: «È un film perfetto» (Ride). È. stata lʼunica volta in cui mi sia mai espresso in quel modo a proposito di qualcosa che ho fatto. Quel giorno mi sono sentito veramente soddisfatto del film.

Giorno perfetto, film perfetto. Lynch e Jack Nance alle prese col terriccio.

4. Una cimice sogna il Paradiso Capanni in costruzione e The Elephant Man

Gli angeli custodi hanno una grande importanza per David Lynch. In Eraserhead è la «Donna del radiatore» a nutrire un autentico amore per Henry, tornando a confortarlo alla fine del film in quella che potrebbe rappresentare una scena di vita ultraterrena. Il contatto tra i loro corpi genera una luce accecante, allʼinterno di una visione altrimenti oscura e «industriale». Inoltre, negli istanti conclusivi di Cuore selvaggio, la Fata Buona salva Sailor Ripley da se stesso, scongiurandolo di non voltare le spalle allʼamore e riunendolo a Lula. Infine, nella chiusa di Fuoco cammina con me la defunta Laura Palmer, ancora prigioniera nella Loggia Nera, ha la sua apparizione angelica. Piange di gioia: forse ora potrà trovare la salvezza; la colonna sonora è un brano dal titolo La voce dellʼamore, che cresce in sottofondo. Questi angeli custodi potrebbero corrispondere a ciò che Lynch definisce «astrazioni»: creazioni emanate dalla mente dei personaggi e/o manifestazioni di luoghi «altri»; in questo caso di un luogo dʼamore, collocato al di là della paura, della solitudine e dellʼoscurità. Un luogo che non brulica di formiche rosse. Dopo Eraserhead, Lynch doveva incontrare il proprio angelo custode nella persona di Stuart Cornfeld. Allʼepoca giovane produttore esecutivo al servizio di Mel Brooks, Cornfeld aveva visto Eraserhead, in compagnia di altri venti spettatori, nel corso della sua prima proiezione di mezzanotte al Nuart di Los Angeles, dietro

suggerimento di un amico dellʼAmerican Film Institute. «Mi fece unʼimpressione enorme» rammenta Cornfeld. «Pensai che fosse la cosa migliore che avessi mai visto. Fu unʼesperienza assolutamente rigenerante.» Questo fatto segnò lʼinizio di un importante rapporto di lavoro destinato a condurre alla produzione di The Elephant Man, il film che lanciò la carriera di Lynch. Nonostante Eraserhead avesse annunciato il sopraggiungere di un talento straordinario e originale, erano tuttʼaltro che scontate le modalità secondo cui a questʼultimo sarebbe stato consentito di sviluppare o di rintracciare il proprio ruolo in unʼindustria cinematografica americana notoriamente conservatrice, finanche a livello indipendente. Presumibilmente The Elephant Man impedì a Lynch di trascorrere i successivi cinque anni nel tentativo di dar vita a unʼaltra delle sue allucinazioni totalmente personali e a basso costo. Lʼincrollabile fiducia riposta da Lynch nel destino trovò la propria giustificazione allorché Cornfeld telefonò a casa del regista, cosa che non aveva mai fatto in precedenza: in lui non sussisteva alcun dubbio a proposito di colui che avrebbe dovuto dirigere The Elephant Man, malgrado la forte inclinazione di Mel Brooks a favore di Alan Parker. «Non facevo che ripetere: “Devʼessere David Lynch. Devʼessere David Lynch. Non può che essere quel maledetto David Lynch!” Fui un avvocato piuttosto energico, perché mi sentivo come se fossi rinato.» Sebbene Lynch si dica pronto ad attribuire a Mel Brooks il merito di un incondizionato supporto una volta che il film fu terminato e messo in circolazione, è possibile che non sia mai venuto a conoscenza della tenacia con la quale

Brooks sostenne strenuamente la sua scelta come regista di The Elephant Man. «Mel era assolutamente aggressivo in proposito» afferma Cornfeld rammentando un incontro con Freddie Silverman della Nbc, dal quale Brooks sperava di ottenere diversi milioni di dollari in diritti per la prevendita televisiva del progetto. «Freddie disse: “Chi è questo David Lynch?”, al che Mel rispose: “Ecco, questa domanda dimostra che razza di stupido idiota sei!”.» Cornfeld sorride nel ricordare ciò che avvenne allorché Silverman chiese di poter leggere la sceneggiatura: «Mel gli replicò: “Che cazzo vuoi dire, lasciartela leggere? Mi stai forse dicendo che ne sai più di me su come si fa un film di successo?” Non credevo ai miei occhi: non gli diede proprio nulla». Brooks tenne fede al suo atteggiamento fino in fondo, perfino al cospetto della Paramount Pictures che avrebbe distribuito il film. E ancora Cornfeld a riportare alcune battute: «Quando il film fu finalmente mostrato alla Paramount, Michael Eisner e Barry Diller erano presenti, e dissero: “Wow, il film è grande, ma crediamo che dovresti sbarazzarti dellʼelefante allʼinizio e della madre nel finale”. La risposta di Mel fu: “Siamo coinvolti in unʼimpresa comune. Noi vi abbiamo proiettato il film solo per mettervi al corrente della situazione. Non scambiate questo fatto come la richiesta da parte nostra del parere di un gruppo di primitivi scalmanati”. E gli abbassò il telefono in faccia». A coloro che avevano amato follemente Eraserhead devʼessere parso incredibile che la riapparizione del nome di David Lynch coincidesse con un film affollato di affermati attori britannici e distribuito da una major hollywoodiana. Ne seguirono otto nomination allʼOscar,

ma lʼaltro agguerrito candidato targato Paramount Pictures - il debutto alla regia di Robert Redford, Gente comune - si portò via sia il premio per il miglior film che quello per il miglior regista; The Elephant Man rimase a mani vuote. Ancora secondo Cornfeld, Brooks ebbe una parola anche per questo: «Il giorno dopo la reazione di Mel fu: “Di qui a dieci anni Gente comune sarà la risposta per un gioco di società; ma la gente andrà ancora a vedere The Elephant Man”». Come cantava tanto dolcemente la «Donna del radiatore»: «Tu hai le tue cose buone, e io ho le mie». RODLEY:

Dopo aver ultimato Eraserhead hai dichiarato che non avresti mai potuto fare un altro film in quelle condizioni. Cosa intendevi esattamente? LYNCH:

Che non volevo metterci di nuovo cinque anni, bensì disporre di denaro sufficiente per poter lavorare in tranquillità e immergermi nellʼuniverso che avrei creato; e ancora, collaborare con un gruppo ristretto di persone con il quale entrare davvero in sintonia, perché è una situazione così divertente… Mi piacerebbe tuttora lavorare in questo modo. Lo apprezzerei moltissimo. Durante la produzione di Strade perdute ero in riunione con uno dei produttori, Deepak Nayar, e dissi: «Comʼè che ci serve tutta questa gente?». Lui rispose: «David, prenderemo in considerazione ogni cosa. E tu mi dirai di chi non abbiamo bisogno». Esaminammo tutto con calma, e non cera una sola persona di cui potevamo fare a meno. Lʼunico problema quando hai attorno tutto questo trambusto è che devi stare in guardia. La scena è lì davanti, ma sei circondato da un mare di cose che ti sfuggono. Sta tutto a te, perciò devi tenere dʼocchio la

ciambella e non il buco. Se tutta la troupe di Eraserhead avesse indossato dei completi neri come Henry, o se fossero stati vestiti da idraulico come il padre di Mary, vivendo in quel mondo e muovendosi lentamente e pacificamente, sarebbe stato di grande aiuto per me. Ma è fastidioso quando vedi accadere una cosa qui e una totalmente diversa laggiù - magari qualcosa di «moderno» e di fuori luogo. Non è per niente piacevole come invece dovrebbe essere. Urta volta che Eraserhead ebbe trovato la sua collocazione nei circuiti, cominciasti a ricevere delle proposte di lavoro? Beʼ, lʼaccoglienza di Eraserhead non era stata buonissima, perciò non ebbi altre offerte. Però mi aveva contattato un certo Marty Michaelson, che in seguito divenne il mio primo agente. Lavorava per lʼagenzia William Morris, e gli era piaciuto molto Eraserhead. Pranzammo insieme, e lui mi disse che avrebbe voluto rappresentarmi; allʼepoca mi stavo occupando della sceneggiatura di Ronnie Rocket, e Marty tentò di darmi una mano per mettere in moto la faccenda. Poi non se ne fece nulla, ma lui si diede parecchio da fare per aiutarmi. Stando a una leggenda metropolitana saresti un tipo piuttosto abitudinario. Più o meno in quel periodo si dice che tu abbia frequentato tutti i giorni il Bobʼs Big Boy Restaurant: corrisponde al vero? Certo. Cominciai ad andare da Bobʼs verso la metà di Eraserhead, ogni giorno alle due e mezza del pomeriggio. Prendevo diverse tazze di caffè e un frappé al cioccolato. Avevo scoperto che lo zucchero mi rendeva felice e mi

ispirava, e quindi mi gettavo sulla zuccheriera ed eseguivo le mie creazioni sui tovaglioli. Tentavo di farmi venire delle idee; a volte ero talmente caricato che dovevo precipitarmi a casa a scrivere. Vado davvero matto per lo zucchero: lo chiamo «felicità in granuli»… Mi dà veramente una grossa mano: è, come dire, un amico. Quanto durò la tua «storia dʼamore» con Bobʼs? Otto, nove anni. La fine del periodo di Dune coincise allʼincirca con quello di Bobʼs. Ci fu un periodo in cui iniziasti a leggere materiale altrui? Certo, però non fu una cosa lunga. Avevo questa fissazione per Ronnie Rocket, ma poi mi resi conto che cera qualcosa che non andava. Non sarei riuscito a tirarne fuori un film. Ti chiamò qualcuna delle major? Generalmente prima o poi cominciano a farsi vedere in giro. Sì, durante i primi tempi mi telefonarono per convocarmi a uno studio e discutere. Quando li vidi mi chiesero cosʼavrei voluto fare; risposi che volevo fare Ronnie Rocket, e loro dissero: «Di cosa parla?». Dal momento che non amo dilungarmi più di tanto su un argomento, in particolare se si tratta di qualcosa di bizzarro o di astratto, raccontai loro che fondamentalmente aveva a che fare con lʼelettricità e con un tizio coi capelli rossi alto circa un metro, e qualche altro dettaglio ancora. Furono molto gentili, ma sai, non mi richiamarono mai più (Ride).

Quindi di cosa parla Ronnie Rocket? È una storia assurda e misteriosa sulle strane forze che governano lʼesistenza. Cosʼaltro combinavi allʼepoca, a parte scrivere? Costruivo capanni, e se sei in grado di metterne in piedi uno significa che ce la puoi fare. Probabilmente si tratta di qualcosa di molto personale, non è vero? Beʼ, i capanni sono dei piccoli edifici che non solo possono servire da magazzini, ma si possono anche sfruttare come posti in cui vivere. Non appena ti impadronisci di uno spazio e inizi a progettarne la forma si innescano delle atmosfere, le luci giocano sulle pareti, e starsene a osservare tutto questo ha dellʼincredibile! (Ride) Amo fabbricare e raccogliere oggetti, e di conseguenza ho bisogno di un luogo in cui depositarli. Per esempio ho costruito un piccolo studio a forma di capanno, molto sofisticato, utilizzando il legno che trovavo in giro. Ma quando stai facendo un lavoro non hai mai sottomano lʼattrezzo adatto, e per me questo è sempre stato motivo di delusione. Per i miei film mi piacerebbe poter fabbricare tutto da me, ma ci metterei una vita: come per Eraserhead. Sono un costruttore di capanni davvero frustrato! Anche il mio padrone di casa, Edmund Horn, raccoglieva legno. Era uno strano tipo: faceva il concertista di pianoforte e aveva seguito Gershin in tournée; aveva iniziato a suonare allʼetà di tre anni, un vero bambino prodigio, e negli anni trenta era arrivato

qui in California per acquistare beni immobili, dato che possedeva parecchio denaro da investire. Divenne un miliardario molto eccentrico: si spostava solamente a piedi e vestiva come un barbone; infatti il barbone di Eraserhead indossa uno dei maglioni di Edmund, tutto pieno di buchi. E poi si radeva le ascelle con lʼacqua piovana! La sera guardava la tv a colori nella sua cucina, illuminata solamente da una lampadina da 40 watt: ogni altra luce della casa era spenta. Era un autentico spilorcio: accumulava il legno che trovava nella spazzatura dei dintorni ed era riuscito a mettere insieme, anno dopo anno, delle enormi cataste di ottimo legname, che gli chiesi di poter utilizzare per i miei capanni. In seguito il mio giro dei giornali mi portò ad attraversare ben due zone postali diverse; il mercoledì e il venerdì ritiravano lʼimmondizia, e quindi la gente buttava via una quantità di buonissima legna. Un bastoncino di legno per me valeva quanto uno dʼoro, tanto era costoso; sulla macchina avevo un portabagagli di due metri e mezzo per uno e venti e tonnellate di corda, perciò non dovevo far altro che legare il materiale e ripartire. Fermarsi era dura, visto che tentavo di completare il mio giro in meno di unʼora, ma tutta quella massa di legname era dʼimportanza capitale; con quello che avevo a disposizione ero in grado di progettare gli oggetti che volevo costruire. Più tardi però tutti i miei capanni, la casa di Edmund e il piccolo bungalow che avevo sul retro furono spazzati via dai bulldozer, e ora lʼintera area è completamente libera.

Eraserhead aveva rappresentato unʼesperienza del tutto particolare: un lunghissimo periodo di riprese, un ristretto gruppo di persone coinvolte. Ma a quel punto dovevi affrontare il problema del «cosa fare dopo». Beʼ, era facile: avrebbe dovuto essere la volta di Ronnie Rocket! Ormai non frequentavo più il Centro e Eraserhead stava circolando, ma credo di non averne mai cavato un soldo. Ho quasi cancellato dalla memoria quanto tempo trascorse fino alla telefonata di Stuart Cornfeld; poi però mi misi letteralmente a girare intorno alla casa ripetendo il suo nome: «Stuart Cornfeld. Stuart Cornfeld. Stuart Cornfeld». E ne ero felice. Ripensandoci oggi, capisco il perché. Comʼè che alla fine arrivasti a concludere qualcosa di concreto? Stuart e io pranzammo insieme, dato che lui ci teneva a incontrarmi. Lavorava per Mel Brooks. Quando gli parlai di Ronnie Rocket, il progetto gli piacque molto, e quindi cercò di aiutarmi a farlo partire. Ma poi non suc-

«Cosʼhai con te?». Bytes (Freddie Jones), lʼimpresario del freak show in The Elephant Man (1980).

cesse nulla, perciò un giorno lo chiamai e gli dissi: «Stuart, sono arrivato al punto in cui so per certo che di Ronnie Rocket non se ne farà niente. Potresti darmi una mano, nel caso tu venissi a conoscenza di sceneggiature che potrei eventualmente dirigere?». «Raccolgo qualche appunto e ti porto a pranzo» fu la sua risposta. Tornammo al medesimo posto: Nibblers, sul Wilshire; ci sedemmo a un tavolo e iniziammo a parlare, finché a un certo punto me ne uscii con un: «Okay, Stuart, cosʼhai per me?», al che lui fece: «Beʼ, avrei quattro proposte; la prima si intitola The Elephant Man». Allora mi scattò qualcosa nel cervello, e dissi a me stesso: «Ecco, ci siamo!». Senza sapere di cosa si trattasse? Bastò solamente il titolo. Non ne sapevo nulla, eppure, in quello stesso istante, mi parve di saperne tutto. Stuart prosegui dicendomi che esisteva già una sceneggiatura, che un tizio di nome Jonathan Sanger lʼaveva opzionata ai due autori e che stavano cercando un regista. Allora la squadra composta da me, dagli autori, da Jonathan e da Stuart si rivolse a sei studios differenti, venendone regolarmente respinta. Non solo: venimmo anche a conoscenza del fatto che cʼerano in circolazione altri script di The Elephant Man. Improvvisamente era come se non potessi girare lʼangolo senza sentire o vedere qualcosa che avesse a che fare con The Elephant Man. In seguito Stuart fece avere a Anne Bancro la

sceneggiatura di Chris De Vore ed Eric Bergren. Anne la apprezzò molto e la passò a Mel Brooks: stesso risultato. Quindi la prima conseguenza fu che Mel decise di produrre The Elephant Man come film dʼesordio della sua nuova compagnia, la BrooksFilms; e la seconda fu che lo stesso Mel disse: «Okay, Stuart: tu, Jonathan, Chris ed Eric siete della partita, ma chi è mai questo David Lynch?». Così gli raccontarono di Eraserhead-, Mel ne aveva sentito parlare quando era in cartellone, ma non lʼaveva mai visto. Perciò organizzarono una proiezione, il che mi terrorizzava: le possibilità che io dirigessi quel film erano… zero, ma a ogni modo Jonathan disse: «Mel vuole vedere Eraserhead». La faccenda andava peggiorando; quella proiezione stava assumendo un significato enorme. Tentai di saperne di più, ma non riuscivo a captare né a intuire niente. Allora dʼun tratto decisi di aspettare fuori dal cinema. Non rammento nulla fuorché le porte che si aprono e Jonathan che esce dalla sala; non è che sembrasse morto o roba simile, ma sul suo viso cʼera unʼespressione che ricordava quella dei giurati del processo a O.J. Simpson: del tutto imperscrutabile. Ma ecco che Mel allunga il passo e viene quasi di corsa verso di me a braccia aperte, mi abbraccia e mi dice: «Sei un pazzo, ma mi piaci! Sei dei nostri». Dopodiché, a moʼ di ciliegina sulla torta, attaccò a parlare di Eraserhead. Beʼ, io conoscevo Mel solamente come comico, ma devo dire che è una persona assolutamente sorprendente, acuta e sensibile. Durante tutto il periodo di produzione di The Elephant Man era perfettamente al corrente di come andavano le cose sul

set; non solo mi ha dato la mia grande occasione, ma mi ha sostenuto come nessuno ha mai più fatto ila allora in poi. In seguito fu lo stesso Cornfeld a coinvolgere Cronenberg nella Mosca, prodotto anchʼesso dalla compagnia di Mel Brooks. Il film si rivelò il maggior successo commerciale del regista canadese, senza che si verificasse alcun compromesso ad alcun livello. Esatto, proprio così. Davvero un grande film, assolutamente agghiacciante. Anche Stuart ha avuto un ruolo importante nella mia vita: la sua chiamata arrivò dal nulla, il che come sai è molto strano. Una telefonata può avere un effetto sorprendente, perché la voce non viaggia più di tanto nellʼaria: ti colpisce direttamente alla testa. Di cosa si occupa oggi Cornfeld? Non lo so, è parecchio che non ci sentiamo. Forse dovrei chiamarlo per scoprire quale sarà il mio prossimo lavoro! (Ride) Come mai non hai più lavorato con Brooks? Perché le cose hanno preso una certa piega. Mel mi aveva mandato un paio di soggetti che voleva che dirigessi, ma se per The Elephant Man mi si era accesa quella lampadina in testa, per questi altri, per un motivo o per lʼaltro, non avvenne altrettanto. Successivamente avrei forse potuto fare Frances - la storia di Frances Farmer - poiché sia Chris che Eric che Jonathan ci stavano collaborando: era la stessa squadra, e in un

certo senso mi sarebbe piaciuto accettare; ma in fondo la faccenda non mi entusiasmava poi granché. Hai detto che The Elephant Man era stato rifiutato da numerosi studios. Come fece Brooks a mettere in moto il progetto? Beʼ, aveva già un accordo con la Paramount, e fu lui, e nessun altro di noi, a trasformarlo in realtà. Tuttavia anche Pauline Kael ebbe una parte nella faccenda. Chris, Eric e io avevamo un ufficio alla Fox proprio di fronte a quello di Mel, e scrivemmo una nuova sceneggiatura sotto la sua tutela. Ci lavorammo ogni giorno per almeno due mesi, e poi la mandammo alla Paramount, dove Pauline Kael, forse per via di Warren Beatty o qualcosa del genere, aveva un incarico di consulenza sulle sceneggiature in arrivo. Perciò credo che poco prima di andarsene da quel posto abbia detto: «Se avete intenzione di realizzare qualcosa qui alla Paramount, puntate su questo». Scommetto che durante il fine settimana qualcuno lesse il nostro lavoro e ne fu veramente emozionato; e fu così che divenne un film Paramount. È possibile che non siano sorte altre questioni dopo che Mel ebbe detto: «Ecco, questo è il “pacchetto”»? A nessuno della Paramount venne in mente di chiedere: «Chi è questo David Lynch?» Sarà anche accaduto tutto questo, ma il bello era che Mel aveva un grande potere contrattuale e in più aveva detto chiaro e tondo: «È COSÌ E BASTA». Mel deteneva il totale controllo dellʼintera operazione. Era capace di dichiarare: «Ho intenzione di dare carta bianca a David»,

oppure il contrario. Nessuno dello studio aveva voce in capitolo con lui, e fin dalle primissime battute lasciò che facessi a modo mio. Ero in una botte di ferro; quando terminammo il film erano parecchi alla Emi, a volerlo rimontare, e fu Mel a mettere un freno alla cosa. Cosʼè che non gradivano? Non apprezzavano per niente le parti oniriche; stavano lì a girarci intorno, non riuscivano proprio a lasciare le cose comʼerano. Volevano crearsi dei grattacapi a tutti i costi. Per ogni film ci sono un sacco di ragioni per preoccuparsi, per pensare: «Beʼ, forse al pubblico non starà bene questo, oppure questʼaltro. Dobbiamo tagliarlo». Ma Mel fu in grado di bloccare ogni tentativo. Ti trovasti nella necessità di stendere unʼaltra versione della sceneggiatura di Chris ed Eric? Ritenevi che contenesse delle lacune? Sì. La versione di Chris ed Eric racchiudeva il nucleo di The Elephant Man, quello di cui si innamoravano tutti quanti. Ma la trama non era la stessa. Vedi, il soggetto derivava da un capitolo del libro di Frederick Treves The Elephant Man and Other Reminiscences (Lʼuomo elefante e altre memorie), che conservava una misteriosa eco di ciò che costituiva lʼessenza di quellʼanimo meraviglioso. Ti catturava, come quellʼarticolo che Cronenberg prese dal Time per Inseparabili. Non potevi ignorarlo, ti rendevi subito conto che lì dentro cera qualcosa di veramente straordinario. La sceneggiatura di Chris ed Eric era ottima, ma era così fedele alla vicenda reale che dopo un inizio in crescendo finiva inesorabilmente per appiattirsi. La

ristrutturammo da cima a fondo e aggiungemmo parecchie scene nuove; per esempio, il prologo e lʼepilogo non erano previsti dallo script originale. Imparai moltissimo da quel lavoro, poiché non avevo mai fatto nulla di simile prima. Credi che sia possibile definire in quale misura tu abbia contribuito alla sceneggiatura? Non saprei dire quale sia stato il mio apporto. Non me ne ricordo. Ma del resto, qual è stato quello di Chris? E quello di Eric? Eravamo chiusi tutti e tre in una stanza, ed esistono chilometri di nastro registrato in cui il filo delle nostre conversazioni, dopo aver oscillato avanti e indietro, allʼimprovviso chiude su qualcosa di concreto. Le cose assumono una determinata forma a seconda delle persone coinvolte, e in questo senso si tratta veramente di un lavoro di gruppo. Inoltre anche Mel ha partecipato parecchio alla sceneggiatura: per esempio circa il ruolo del portiere di notte… Pensava che lì la sceneggiatura non fosse abbastanza forte: una di quelle osservazioni che non solo giudichi giuste, ma ti autorizzano a intervenire dove in precedenza non eri stato in grado di estrarre tensione sufficiente da una situazione. Pertanto Mel avanzò una serie di considerazioni azzeccatissime, che ci furono molto utili. Tuttavia il problema si configurava in maniera assai diversa da Eraserhead, non è così? Si trattava di una vicenda di ambientazione storica, che sarebbe stata interpretata da un cast di altissimo livello e che avrebbe generato emozioni non necessariamente analoghe a quelle dei midnight movies.

È proprio questo che stupiva maggiormente in Mel: cioè che, dopo aver conosciuto me e dopo aver visto Eraserhead, fosse giunto in qualche modo alla conclusione che io avrei potuto fare tutto ciò. E non sono nemmeno del tutto sicuro che allʼinizio lui stesso ci credesse. Ma poi devʼessergli scattato qualcosa. E non potevi neanche impiegare cinque anni per terminare il film. Per la prima volta avresti dovuto rispettare un programma di lavoro. Certo. E per la maggior parte del tempo fu un inferno, il peggiore e più oscuro che potessi immaginare. Dentro di me, capisci? Dentro di me è stata unʼesperienza sconvolgente. Una mattina mi svegliai e iniziai a vestirmi pensando: «Oggi dirigerò Sir John Gielgud!». Il che era davvero assurdo: arrivare dal Montana, finire quaggiù e fare tutto questo! Ciò malgrado, da un altro punto di vista, la cosa aveva un senso; e tuttavia ne ero sconvolto. Il lavoro con Sir John Gielgud in Inghilterra era davvero tanto diverso da quello che svolgevi con Jack Nance a Los Angeles? Ogni attore è diverso dagli altri; dato che aveva in sé qualcosa di straordinario, Jack Nance era in grado di lavorare fianco a fianco con i suoi colleghi, che a loro volta lo stimavano. A mio parere il ruolo del regista consiste semplicemente nel bloccare quella tal battuta che, per un motivo o per lʼaltro, può rivelarsi scorretta, fuorviante, inadeguata o non completamente in carattere. Ciò che ritengo fondamentale è che tutto passi attraverso una singola persona. Per quanto riguarda Sir John, lui appartiene a quel genere di «macchine» che,

anziché uno o due pulsanti, ne possiedono mille o duemila. Gielgud era ricettivo rispetto ai tuoi metodi di lavoro? Quellʼuomo è stato un santo per me e mi è piaciuto moltissimo lavorare con lui. Non è rimasto a lungo sul set, ma il mio giudizio nei suoi confronti è sempre il medesimo. Avevo notato che fumava delle sigarette che dovevano essere state fabbricate da un negozio specializzato, con degli splendidi astucci fatti a mano appositamente per Sir John. Sigarette di forma ovale, che lui accendeva e teneva tra le dita in questo modo (Fa un gesto), un poʼ scostate. Quando non le aspirava invece faceva così (Fa un altro gesto), facendo scorrere il fumo lontano da sé. Non aveva mai un filo di cenere sul vestito; niente era fuori posto. Camminava in un certo modo, parlava in un certo modo… La persona più pulita che abbia mai visto in assoluto! La cenere non si posava su di lui; cadeva giù e in un attimo veniva spazzata via! E se volevi modificare qualcosa in una battuta, per esempio una parola, non facevi in tempo a formulare metà della tua frase che lui aveva già capito tutto… ed era okay; la volta successiva la pronunciava in maniera sottilmente alterata, così da soddisfare la tua richiesta. Minimi aggiustamenti. Lo stesso accadeva con Jack Nance: si impadroniva del concetto ed era capace di renderlo esattamente come lo desideravi. Ho lavorato con alcuni dei migliori, ma loro non sapevano niente di me. Prendi Wendy Hiller: il primo giorno sul set mi afferra per il collo e mi trascina per la stanza dicendomi: «Io non so chi tu sia: ti terrò dʼocchio, e staremo a vedere!», cose così. Io ci vedevo un certo

humour, ma nello stesso tempo mi rendevo conto che dovevo conquistarli, accattivarmi il loro rispetto per poter comunicar loro qualcosa. Averli avuti sul collo così spesso non è stato per niente divertente. Prima avevo fatto solamente Eraserhead, e per me che da Missoula, Montana, mi ritrovavo a Londra per mettere in scena un dramma vittoriano con il meglio del meglio a mia disposizione era veramente durissima. Ecco che si presenta davanti a loro questo sprovveduto un poʼ picchiato: se non si fossero dimostrati apprensivi sarebbe stato quantomeno strano! Era una situazione fantastica, ma non cʼè mai stata una volta in cui non fossi agitato. Non mi sono mai sentito al sicuro.

Lynch dirige un impeccabile Sir John Gielgud (Carr Gomm) e Anthony Hopkins (Frederick Treves) in The Elephant Man (1980).

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No, no. Ti devi solamente spingere sempre più in profondità. È come quando ti viene assegnato un ruolo da svolgere: cerchi di mettere un piede davanti allʼaltro e così di seguito. Alla fine arrivi dove volevi arrivare, ed è così che è andata per me. Ti accorgesti del momento in cui cominciasti a guadagnarti la loro fiducia, in cui diventasti una certezza, per loro? Più o meno a metà lavorazione. Cogli unʼindicazione qui, una là, e allora tenti di andare sempre avanti, di tenere duro e di fare ciò che credi più opportuno per mantenere fede ai tuoi principi. Ma non puoi mai mollare il freno. Nella sua autobiografia, Frank Capra parla di come Glenn Ford mise termine alla sua carriera di regista: Capra ebbe dei grossi problemi con Ford e ammise di non essere abbastanza forte per proseguire la lotta. Un animale si rende conto di quando un altro animale si sta indebolendo, e per Capra fu una sensazione terribile. Fu la sua fine. Tuttavia oggigiorno le cose possono andare anche peggio. Se intendi realizzare un film con una grossa star campione dʼincassi finisci per entrare in collisione con un autentico centro di potere. Certo, hanno lʼultima parola sulla sceneggiatura, sul cast, chiamala come ti pare… Final cut! (Ride) Penso a John Travolta che pianta in asso il set di The Doublé di Polanski provocando il fallimento del film, a ulteriore

dimostrazione di quanto potenti siano divenutigli attori di oggi: perfino quelli «rinati»! Già. John è in debito con la storia del cinema per il solo fatto di poter ascoltare qualunque fottuta parola possa uscire dalla bocca di Roman Polanski! Le cose vanno proprio alla rovescia. John potrà essere perfetto per il ruolo al 90 per cento, ma per il rimanente 10 per cento avrà bisogno di qualche consiglio, e lui deve mostrarsi disponibile. Sarà una sottigliezza, ma sta di fatto che si lavora insieme; e se questo non avviene, il film finirà per appartenere in parte a John Travolta e in parte a Roman Polanski. Inoltre cosa succederebbe se il musicista arrivasse e scrivesse un ammasso di roba senza capo né coda? Se sei incastrato in una situazione del genere ti ritrovi per le mani una barzelletta, ed è la rovina totale! Che opinione hai del tuo personale rapporto con le star di grosso calibro? È come portarsi addosso una bomba a mano innescata. Può anche non esplodere ma, se lo fa, spazza via anche te. È troppo rischioso. Cosʼè che ti ha messo maggiormente in apprensione riguardo alla realizzazione di The Elephant Man? Il momento peggiore si verificò ancor prima che il film partisse, in quanto dovevo occuparmi del trucco dellʼUomo Elefante. Ebbi lʼidea di un abito che avesse un aspetto realmente organico, e che non richiedesse cinque ore giornaliere per le operazioni di trucco. Non era un semplice abito: era fatto di vari strati di materiale, e di giorno in giorno ci sarebbe stato bisogno

di una certa «fusione» tra lʼabito stesso e il corpo di John Hurt. Avevo una casa a Wembley, e il garage divenne il mio studio. Non ricordo esattamente quanto tempo avemmo a disposizione prima dellʼinizio delle riprese, ma in quel garage trascorsi svariati mesi di lavoro, oltre a partecipare alle riunioni di produzione, ai sopralluoghi per le locations, al casting e a tutto quanto il resto. Dunque per il trucco avevo concepito quella trovata, ma era uno di quei casi in cui ci sono due persone che scavano un tunnel partendo dai lati opposti di una montagna e sperano di incontrarsi nel mezzo! Pareva proprio che non dovesse andare in porto; a ogni modo un giorno portai John Hurt al garage e cominciai a mettergli addosso quella roba. E perfino mentre gliela infilavo in testa, se non ancora prima di farlo, ci rendevamo entrambi conto che probabilmente ci trovavamo ancora a mille miglia di distanza dallʼesito sperato. Non che lʼaspetto fosse malvagio, ma il materiale, anziché essere flessibile, sembrava cemento! Così non cera verso di far muovere John lì dentro. Assolutamente! Allora lui disse qualcosa come «una nobile fatica», o giù di lì. Beʼ, a quel punto la situazione avrebbe potuto farsi sgradevole; tuttavia sarò sempre grato a quellʼuomo per non aver mai detto niente di negativo a proposito di ciò che stavo cercando di fare. Parevano i «quattro giorni oscuri» che seguirono lʼassassinio di Kennedy. I miei giorni oscuri furono altrettanti: stavo così male che quando andavo a letto mi venivano gli incubi. Sai bene come ti senti sollevato quando ti desti da un incubo, no? Beʼ, io avrei desiderato di poterci tornare, in quellʼincubo, perché da sveglio era

perfino peggio! Quella fu lʼunica volta in cui presi veramente in considerazione il suicidio come mezzo per porre fine ai miei tormenti: infatti non riuscivo a scivolar fuori dal mio stesso corpo, il che era esattamente ciò che volevo fare. Essere qualcun altro e svignarmela senza neanche sapere chi fosse questʼaltro individuo… Ma non ero in grado di uscire dal mio corpo; non mi riusciva nemmeno di mangiare come si deve, di dormire come si deve, di muovermi… Stavo letteralmente morendo, ventiquattro ore al giorno! Mel aveva saputo che cʼerano problemi con il trucco e stava per volare immediatamente a Londra. Tuttavia, per qualche ragione, non poteva partire che due giorni dopo; perciò nel frattempo Jonathan si procurò nomi e informazioni, e fu così che arrivò Chris Tucker: il quale mi fece pentire di aver preteso di poter fare quel lavoro. Proprio così. Non aveva visto Eraserhead, e la «creatura»? Questo non centra niente, perché chi mai potrebbe sapere che tipo di effetti ho realizzato in quel film? Comunque sono sicuro che non lʼaveva visto; in ogni caso, Chris Tucker e io diventammo buoni amici. Mentre aspettavo lʼarrivo di Mel, ero certo che sarei stato messo in un pacco e spedito via dal set, e che tutto si sarebbe concluso lì. Invece Mel disse soltanto: «Grazie a Dio abbiamo Chris Tucker», e aggiunse: «David, non avresti dovuto provarci, perché hai già abbastanza preoccupazioni con la regia». Tutto qui: nessun altro problema. Mel mi aveva salvato ancora una volta; tuttavia, a causa della faccenda del trucco, a Chris serviva un poʼ di tempo per sistemare le cose, e quindi

dovemmo riorganizzare la tabella di lavorazione. Alla fine tutto si risolse per il meglio, ma per me fu unʼumiliazione che venne ad aggiungersi a un incarico già di per sé difficile. Però qualcosa di buono lʼho inventato: la pelle. Una pelle estremamente mobile, con la quale una volta o lʼaltra ho intenzione di trafficare di nuovo. Allʼepoca non avevo ancora cognizioni sufficienti sui materiali per operare come si doveva sulla pelle di un attore. Quella roba che usa Chris, potresti chiudere gli occhi e stringerne un pezzo, e se qualcuno te la togliesse e la sostituisse con la propria mano avresti la medesima esperienza tattile. È così leggera e mobile… davvero sorprendente! La conseguenza di ciò fu un mutamento generale del progetto e dellʼeffetto relativi al trucco? Proprio così. In quel periodo feci la conoscenza del signor Nunn del London Hospital, nel quale era conservato un autentico calco in gesso dellʼUomo Elefante effettuato immediatamente dopo la sua morte: cerano la testa, un braccio e un piede. Tempo addietro avevano anche tutti i suoi organi interni, ma durante la Seconda guerra mondiale una bomba distrusse i vasi che li contenevano. Quella fu la prima volta in cui, dalla morte dellʼUomo Elefante, il calco della sua testa uscì dal London Hospital per finire nello studio di Chris Tucker. In tal modo Chris poté lavorare tanto sulla testa di John Hurt che su quella di John Merrick: è per questo che il risultato finale appare assolutamente fedele e rigoroso. Nel film, la rivelazione del volto e del corpo di John Merrick viene tenuta nascosta per un certo tempo. Cosa cʼera dietro

questa scelta? In realtà fu Mel a volere così. Vedi, dapprima nella scena in cui Tony Hopkins va a visitarlo ero stato più esplicito, ma poi ho rimontato tutto mostrando di meno. Credo che il compromesso consistesse nel far vedere comunque qualcosa, poiché sentivo che in caso contrario il pubblico avrebbe iniziato a percepire eccessivamente il film come un horror. Ma anche Mel aveva ragione, dato che più la storia va avanti maggiore è il desiderio di vedere lʼUomo Ele-

Wally Schneiderman applica su John Hurt il trucco progettato da Chris Tucker per lʼUomo Elefante.

Dissimulare lʼorrore. Frederick Treves (Anthony Hopkins) mostra al suo pubblico John Merrick in The Elephant Man (1980).

fante: si trattava di un equilibrio delicato. Perciò la prima comparsa avviene in compagnia dellʼinfermiera Norah; in tal modo la scena funziona perché la reazione di questʼultima è del tutto normale, e quindi presumibilmente lo è anche quella degli spettatori. Il problema è che quando fai un film ti abitui al contatto con ciò che hai escogitato, e la tua mente non è vergine come può esserlo quella del pubblico; è una faccenda davvero rischiosa. In precedenza hai detto che la specificità di un luogo ha a che fare con lʼaccumulazione di dettagli: un aspetto sul quale torneremo a proposito di Twin Peaks. Quale fu la tua impressione iniziale dellʼInghilterra e di Londra? Beʼ, in un certo senso Londra è come Los Angeles. Anche a Londra ci sono tanti posti differenti, ed è per questo che mi piaceva. Captavo quel che cera di inglese

nellʼaria, ma per il film traevo ispirazione e idee più dai libri su Londra che dalla città in sé, poiché dovunque andassi ero fuori dal «territorio» di The Elephant Man. Poi un giorno mi trovai a passeggiare in un ospedale abbandonato e improvvisamente qualcosa di lieve, di impalpabile, penetrò dentro di me: non solo stavo vivendo quellʼepoca, ma ne avevo consapevolezza. Questo fatto mi riempì di uno stato di conoscenza e, di conseguenza, di una fiducia da cui non potevo separarmi. Mi rendevo conto di come andavano le cose a quei tempi, lo sentivo emanare dallʼospedale stesso. Ma non si trattava solamente dellʼospedale. Saranno state le foto, o forse era tutto un insieme di cose che si intrecciavano: sta di fatto che da quel momento riuscii a chiarire a me stesso ciò che pensavo della vita di allora. E questo, più di qualunque altra cosa, mi diede sicurezza. Vuoi dire come in Shining? Lʼidea che lʼarchitettura non consiste semplicemente di mattoni e di malta, bensì è… …uno strumento di registrazione. Sono certo che sia così: ed è esattamente ciò che accadde a me. Stavo solamente districando la matassa, e ne traevo degli insegnamenti. Ma non è una condizione esasperante? Perché se non cogli quel tipo di sensazione, dovʼè che finisci per ritrovarti? In quel caso non hai il diritto di dire alcunché. A meno che tu in un modo o nellʼaltro non possegga, per via di un particolare talento, quel particolare genere di conoscenza, non ti è consentito di dire nulla. Se per esempio prendessimo in considerazione la

sceneggiatura di qualcun altro, la mia prima reazione sarebbe: «Perché non la dirigi tu stesso? Sei tu che lʼhai scritta». Per quanto mi riguarda dovrei rifletterci intensamente; dovrebbe farmi squillare parecchi campanelli affinché mi possa appartenere. E in più, prima di procedere oltre, dovrei ottenere da quella persona il permesso di farne una cosa mia. Questo perché mi troverei ad avere a che fare con degli attori, i quali a loro volta potrebbero obiettare: «Un momento, interpelliamo lʼautore e vediamo che diavolo voleva dire». Devi veramente impadronirtene, ed esserne in qualche modo consapevole. Nondimeno a quel punto, dopo aver sperimentato tutti quegli affanni, quelle paure e quegli interrogativi, ti sentivi ancora in grado di dirigere The Elephant Man. Certo, alla fine qualcosa andò in porto. Molti registi arrivano qui in America e girano delle storie americane. Puoi sì fiutare lʼaria, ma tutto passa comunque attraverso i tuoi personali «ingranaggi». È questione di approcci diversi; e quel particolare mondo, quello di John Merrick, era piuttosto ristretto: lʼospedale, le strade, le persone che incontrava, i suoi problemi. Dʼaccordo, non è ancora come avere a che fare con il presidente degli Stati Uniti; ma cera di mezzo il principe di Galles, il che forse poteva anche bastare. Quale fu lʼelemento che ti mise in moto, che ti avvicinò allʼidea? Ti dirò, fu soprattutto John Merrick, il personaggio dellʼUomo Elefante. Era un individuo singolare, meraviglioso e innocente, ecco tutto. E poi la

Rivoluzione industriale. Hai presente delle immagini di esplosioni, grandi esplosioni? Mi hanno sempre ricordato i papillomi, le escrescenze sul corpo di John Merrick: somigliavano a delle lente esplosioni che partivano dalle ossa. Non so con sicurezza quale ne fosse la causa, ma le eruzioni coinvolgevano persino lʼapparato osseo, gli stessi tessuti, affiorando attraverso la pelle e provocando quelle crescite tumorali che esplodevano lentamente. In questo senso lʼidea delle ciminiere, della fuliggine, delle industrie che circondavano quel corpo e quella carne fu per me un altro motivo dʼispirazione. Gli esseri umani sono come delle piccole fabbriche che generano una quantità di prodotti. Il concetto di qualcosa che cresce allʼinterno, tutti quei fluidi, quei ritmi e quelle mutazioni, e ancora quelle sostanze chimiche che in qualche modo catturano la vita, emergono, si dividono e si trasformano in qualcosʼaltro… È incredibile. Brooks interferì molto con la postproduzione, una volta che il film fu terminato? No. Andai un paio di volte in postproduzione con Mel per mostrargli il film. Devʼessergli piaciuto davvero, dato che me lo disse esplicitamente. Un punto che mi preoccupava parecchio era la decisione di utilizzare VAdagio per archi nel finale, dal momento che John Morris era stato incaricato di comporre lʼintera partitura. John aveva fatto un gran lavoro, ma io volevo assolutamente avere quel pezzo nel film; per giungere al mio scopo dovevo farlo accettare a Mel, e lui ama moltissimo John Morris. Così fui costretto a organizzare

una proiezione alla quale Mel invitò un sacco di gente diversa, e in cui avrei mostrato entrambe le versioni: una con lʼAdagio per archi e una con la musica di Morris. A questo proposito ti do un consiglio: proietta sempre per prima la versione che preferisci. E così feci quella volta; alla fine tutti tacquero, perciò pensai che ognuno stesse per votare per luna o per lʼaltra. Ma dopo tutto quel silenzio Mel si rivolse a John Morris dicendogli molto gentilmente: «John, devo proprio ammettere che preferisco lʼAdagio per archi. Funziona meglio con le immagini»; al che John rispose: «Dʼaccordo». Tuttavia non la presi affatto come una vittoria personale: fu il film che ci guadagnò. The Elephant Man ricevette numerose nomination allʼOscar: come a dire, da Eraserhead al cuore della «comunità» hollywoodiana con un solo film… Beʼ, ottenemmo otto nomination, ma non vincemmo neppure una statuetta! Tra lʼaltro né Freddie Francis (direttore della fotografia) né Alan Splet (suono) furono nominati. Ricordo il momento in cui venni a sapere delle nomination: dato che tra i nomi non cera quello di Freddie pensai di chiamarlo per consolarlo un poʼ. Comunque fu come andare da zero a sessanta in una frazione di secondo: non avevo davvero idea di quanto raro potesse essere un simile evento. E in America tutti quanti pensavano che fossi inglese! Una volta una donna, elencando i registi nominati, mi definì «il giovane regista inglese David Lynch», e roba del genere: non sapevano assolutamente niente di me. Agli Oscar pare che nessuno sappia chi vincerà, ma in realtà lo san-

Bellezza dellʼanima, officina umana. John Merrick (John Hurt) in The Elephant Man (1980).

no tutti: lo si avverte nellʼaria. Tutti sapevano che Robert Redford avrebbe vinto con Gente comune, perciò potevo rilassarmi e godermi lʼavventura. Fu una sensazione grandiosa, ma mi rendevo conto che non aveva niente a che vedere con me. Io facevo sempre le medesime cose; in circostanze come quelle ti accorgi che ciò che succede a un film sfugge del tutto al tuo controllo. È una cosa che ti stimola, ma da lì in poi ciò a cui miri è di farti accettare da quelli che stanno dallʼaltra parte. È ovvio che per molti registi il successo, nel senso di pubblico riconoscimento, rivesta una grande importanza. Come vedi il complesso delle questioni relative al successo? Credo che, per quanto mi riguarda, consistano più che altro nel rispetto per il mio lavoro. È questo il mio

concetto di successo. Tutto il resto mi fa sentire completamente disonesto; è esattamente lʼopposto delle motivazioni che mi spingono a fare quello che faccio. Il denaro è un fatto positivo solo in virtù di ciò che può consentirti di realizzare. Pertanto desidererei veramente avere dei soldi a disposizione, perché in questo modo potrei fare un maggior numero di cose. A volte, quando ti trovi in un buon momento, potresti guadagnare ancor più denaro, ma non è quella la ragione che ti fa agire. È solamente un magnifico «effetto collaterale». Ciò nonostante, sia Los Angeles sia Hollywood sono mosse dalla fame di denaro e di successo. Certo, e fintantoché ne rimani al di fuori riesci a percepirlo. Per esempio te ne accorgi quando vai al ristorante, indipendentemente dal fatto che stia succedendo o meno qualcosa che ti riguarda. In questa città tutti conoscono questa sensazione, e sanno bene che se hai raggiunto la cima non vuol dire che durerà per sempre. È quasi una specie di maledizione. Per me Twin Peaks è stato il lavoro che ha contribuito a rendere tutto più «pubblico». E anche Velluto blu. Circola un sacco di pubblicità attorno a un film, e per il paio di mesi in cui viene programmato la tua foto è praticamente dovunque. Poi tutto sparisce, come in una giostra. Dunque preferiresti non essere minimamente coinvolto in questi aspetti della tua professione? Indubbiamente. Credo che alcuni amino veramente tutto questo, ma a me piacerebbe che sia un mio film a dover uscire, non io! Inoltre ritengo che si dovrebbe

rimanere il più possibile al margine degli eventi. È come quando i tuoi figli vanno al liceo: devi lasciarli vivere la loro vita, e non trovar loro delle giustificazioni o roba del genere. Aiutarli, allungargli 10 dollari qua e là, raccomandargli di non andare con la tal ragazza… Indirizzarli semplicemente allʼesterno, e continuare a badare al tuo lavoro. Dovresti davvero comportarti come un monaco. Io non mi sono mai spinto tanto in là; in me dev esserci qualche lato debole, ed è come danzare verso una fiamma. In un certo senso è una forma di debolezza (Ride). Stai dicendo che secondo te nel successo si annida un elemento «guastatore»? Ci puoi scommettere! È pericoloso, pericolosissimo! Può giocarti dei brutti scherzi, e fare di te un essere umano realmente sgradevole. Oppure, al contrario, può rappresentare esattamente ciò di cui hai bisogno per porre rimedio a determinate situazioni; ti dà sollievo e ti rende effettivamente

Donald Sutherland e Mary Tyler Moore: la gente comune della Paramount Pictures (1980).

Freddie Jones e John Hurt: la gente non comune della Paramount Pictures (1980).

capace di portare a termine i tuoi compiti. Da un punto di vista psicologico, il successo è una condizione complessa. Ma per te non conta sapere che là fuori cʼè gente entusiasta del tuo lavoro? Certo, ma il fatto è che poi la tua mente comincia a rifletterci sopra. E di conseguenza potrebbero balenarti un sacco di altre idee, che ti farebbero sospettare dei secondi fini da parte loro. E allora diresti: «Ora si che sono fatto». Ma comunque non puoi ascoltare ciò che si dice del tuo lavoro, e quindi non ha nessuna importanza.

Potresti rifugiarti nel tuo «laboratorio»… Ma in quel caso accenderesti la radio! No, lʼunica soluzione è il fallimento! Ma come reagiresti se qualcuno venisse a riferirti che secondo loro sei veramente un uomo di successo? Gli direi: «Cosʼè che ti sei fumato?» (Ride).

5. Oddio mamma, il cane mi ha morso Fotografia e Dune

Se The Elephant Man aveva rappresentato uno sviluppo sorprendente per la carriera di Lynch, sia per la portata dellʼevento che per il successo che ottenne, Dune finì col rivelarsi uno shock per tutti coloro che vi parteciparono. Nellʼambito del cinema contemporaneo, questo film resta uno dei più straordinari esempi del caos che può derivare dalla «collisione di mondi»: quando cioè le visioni personali si confrontano con i grossi capitali, il piccolo con il grande, lʼingenuità con la dura realtà e il privato con il pubblico. Gli ammiratori di Lynch furono costernati nel vedere il loro autore letteralmente consumato dagli ingranaggi del cinema epico e dalle esigenze suscitate da un «film-evento». Anche se la stampa celebrò la sintesi del punto di vista «artistico» di Lynch e dellʼimpegno finanziario che Dino De Laurentiis aveva profuso senza badare a spese, il regista rimase abbandonato a se stesso in uno degli otto giganteschi teatri di posa allestiti a Città di Messico, sperduto tra il migliaio di persone che componevano il cast e la troupe. Tratto da un romanzo immenso e dallʼintreccio macchinoso, Dune deve aver avuto tutta lʼapparenza di una sfida scoraggiante sin dal momento in cui sʼiniziò anche solo a parlarne. Lynch è assai chiaro a proposito dei diversi elementi della storia da cui si sentì attratto, non ultimo dei quali pare essere stato il personaggio di Paul Atreides, il dormiente che deve risvegliarsi (vi sono forse adombrati tanto lo stesso Lynch che Henry

Spencer?). Difficile dire quale fu la ragione che alla fine lo convinse ad accettare lʼincarico, malgrado Stuart Cornfeld abbia una sua personale teoria in merito: «Credo che David abbia trascorso abbastanza tempo facendo i conti con la prospettiva di diventare un artista squattrinato e di vivere con lʼincubo del “non mi capiterà mai la grande occasione”. È dura tornare alla tua arte quando questʼultima non è riuscita a liberare il tuo io nello stesso modo in cui lʼha fatto lʼinterpretare quella di qualcun altro, come era accaduto con The Elephant Man. E poi ti ritrovi di fronte Dino che ti dice: “Eccoti un assegno in bianco per la produzione…” Chissà cosa deve aver rappresentato per la vita di David: partire da zero per arrivare a quel punto». Nonostante le notti insonni sperimentate durante il periodo di The Elephant Man, per Lynch fu come avanzare di un passo verso lʼoscurità. Stavolta però quella battaglia lunga tre anni che fu Dune si concluse in un incubo personale. Probabilmente, a coloro che lo conoscevano bene, la sua fiducia nella possibilità di far marciare il progetto di Dune non parve granché sorprendente. Peggy Reavey rammenta lʼoccasione in cui, mentre erano ancora entrambi studenti dʼarte allʼAccademia di Philadelphia, Lynch ritenne di poter costruire una macchina per il moto perpetuo e decise di recarsi al Franklin Institute per comunicare la propria scoperta: «Tirò semplicemente dritto fino in cima e disse loro: “Sono uno studente dʼarte. Credo di essere in grado di fabbricare una macchina per il moto perpetuo”. Naturalmente neppure Einstein avrebbe potuto farlo, ma David ne era completamente convinto. Allora quel tizio gli spiegò molto gentilmente il motivo per cui il suo

piano non avrebbe funzionato, al che ci accomodammo fuori e andammo a farci una tazza di caffè». Tutto ciò accadde prima del «moto perpetuo» di Dune, dal quale Lynch, i cui sonni erano ormai divenuti oltremodo agitati, finì con il ridestarsi. Nel far questo, si ripromise fermamente che di lì in poi non avrebbe mai più rinunciato al diritto al final cut, e che sarebbe quanto prima ritornato a un ambiente a lui maggiormente familiare. Secondo Mary Sweeney, per parecchi anni montatrice, produttrice e «fidanzata» di Lynch: «David diffida saggiamente dei grossi budget: in parte a causa di Dune, ma anche perché è una persona dotata di modestia. Gli piace sentirsi in condizione di poter esercitare la propria libertà artistica senza dover dimostrare gratitudine a persone che hanno investito eccessivamente su di lui». Dal canto suo, lʼamico e sceneggiatore Robert Engels osserva: «David non uscirà mai più allo scoperto: è il regista indipendente per antonomasia, il maverick. È quella la sua nicchia. Se pensavano di poterlo indurre a fare I cannoni di Navarone ci sono riusciti, dal momento che ne è scaturito un diverso approccio alla solita vecchia storia. Ma il punto è che a David non interessa rifare la solita vecchia storia». Visto il recente successo dei directorʼs cut di film che, per una ragione o per unʼaltra, sono caduti nelle grinfie di studios, produttori o censori, è allettante immaginare una versione di Dune che ripristini fedelmente lʼoriginario progetto del regista. Persino nella sua fisionomia attuale, non solo il film è visivamente affascinante, «incrostato» comʼè di perverse delizie lynchiane, ma appare anche come una sottile

prefigurazione di Velluto blu: cosa si abbatte infatti su Lumberton, se non unʼautentica guerra santa dalle conseguenze cosmiche? È interessante notare che fu durante il disastroso periodo di Dune che Lynch iniziò a esporre i suoi lavori più privati, i suoi quadri, oltre a esordire con The Angriest Dog in The World (Il cane più arrabbiato del mondo), una striscia a fumetti composta di quattro vignette che fu pubblicata per nove anni dal Los Angeles Reader: ne è protagonista un cane incatenato, talmente iroso da poter a malapena svolgere le proprie funzioni vitali. Più strano di così… Lynch andava parimenti incrementando la sua passione per la fotografia, avendo ormai allʼattivo un numero rilevante di sorprendenti paesaggi industriali nonché una serie di arguti «kit» fotografici. Nel mostrare le parti interne di svariate creature, Lynch non ha solamente rievocato le caratteristiche viscide e «intestinali» di Eraserhead, ma ha altresì dato espressione al suo idillio permanente con le «strutture» allo stato puro. RODLEY: Oltre

a continuare a dipingere, durante il periodo di The Elephant Man e Dune ti sei anche interessato maggiormente alla fotografia. Per quale motivo? LYNCH:

Uno degli aspetti che apprezzo nella fotografia è il meccanismo dellʼapparecchio. È davvero fantastico: chiunque abbia mai scattato una foto prova un vero brivido, allorché la ritira dal laboratorio. Ti trovi costretto a vedere quellʼattimo, ma in una maniera differente. E di tanto in tanto, generalmente a causa di qualche casino che non avevi previsto, quello stesso

istante ti balza agli occhi e si trasforma in qualcosa di magico. Ancora una volta non possiedi il pieno controllo della situazione; ci sono di mezzo una quantità di processi, e io amo questo genere di cose, perché aumentano le possibilità che si verifichino eventi accidentali. Lʼelemento che trovo interessante nelle tue foto di paesaggi industriali è la totale assenza di presenze umane. Ciò nonostante si avverte la sensazione che quelle strutture siano state costruite da persone, e che altri individui anch ʻessi invisibili stiano lavorando al loro interno. Per te è stato semplicemente più facile avere a che fare con spazi spopolati? Con tutta probabilità non avrei apprezzato che lì dentro ci fossero delle persone. Alcuni di quei paesaggi derivano da sopralluoghi effettuati per i miei film, come quando andai con Freddie Francis nellʼInghilterra del Nord per The Elephant Man. Fu unʼesperienza al contempo straordinaria e terribile, poiché mancai i reali obiettivi del viaggio di almeno una decina dʼanni, se non di più. Tutte le vecchie fabbriche erano state sostituite da strutture in plastica e alluminio, del tutto prive di potenziale visivo: niente fumo, niente fuoco, niente fuliggine. Desideravo davvero fare quel giro, ma non ho trovato che unʼamena campagna e qualche rimasuglio sparso di quelle fabbriche, abbandonate e neglette. Era per questo che intorno a parecchi di quei luoghi non cʼera anima viva; tuttavia la loro eccezionalità stava precisamente nel fatto che erano antichi e che la natura aveva preso a lavorarci sopra, facendoli imputridire come cadaveri.

Cosʼè che ti affascina veramente nellʼindustria e nelle fabbriche? Credo che sia la loro forza. Mi sento a mio agio quando osservo degli enormi macchinari in azione, mentre lavorano il metallo fuso. Mi piacciono il fuoco e il fumo, e quei suoni così potenti. Roba di grosso calibro. Significa che si sta costruendo qualcosa, e questo mi fa stare bene. Mi ci ero avvicinato un poʼ allʼepoca di The Elephant Man; adesso sono i computer e i robot a fabbricare ogni cosa: è tutto più pulito, le dimensioni sono più ridotte, cʼè una maggior efficienza. Ti senti impressionato da qualche corrente dellʼarchitettura moderna? Mi piace molto il Bauhaus, quel genere di linee pure e formali. Amo le stanze dipinte di grigio, dentro le quali non cʼè nulla se non un paio di mobili, giusto per consentire a una persona di accomodarcisi; e quando ciò avviene si apprezza realmente il contrasto, la stanza assume un aspetto perfetto e lʼindividuo che la occupa desta grande interesse. Lʼarchitettura possiede veramente un che di fantastico: una casa deve avere il tetto fatto in un certo modo, finestre che lascino penetrare la luce; tuttavia è sorprendente quanto

Immagine industriale. Foto di David Lynch.

Immagine industriale. Foto di David Lynch.

Fish Kit for Children (1979). Foto di David Lynch.

sia esiguo il numero degli edifici che assolvono con successo al loro scopo, che si distinguono dagli altri al punto che pare quasi incredibile quanto bene si possa stare al loro interno. Ma i mini-centri commerciali e le costruzioni postmoderne, quella è roba che ti annienta lʼanima. Più o meno a quellʼepoca hai anche realizzato delle altre foto intitolate Fish Kit e Chicken Kit, nelle quali le creature in questione sono state fatte a pezzi e disposte in maniera umoristica. Già. Lʼidea mi venne dai kit per gli aerei in miniatura: quelle scatole che contengono i vari pezzi da assemblare seguendo le apposite istruzioni, al fine di ottenere, a lavoro ultimato, lʼoggetto raffigurato sul coperchio. In quel periodo ero sposato con Mary Fisk, ed eravamo nella fase di postproduzione di The Elephanl Man, in Inghilterra. Mary era tornata in America e io abitavo in

un appartamento a Twickenham; il giorno della sua partenza uscii e comprai uno sgombro, lo portai a casa, lo misi su un tavolo che avevo liberato e cominciai a farlo a pezzi. Etichettai ogni singola parte e la sistemai come se si fosse trattato di una scatola di montaggio. E le diciture erano del tipo «a operazioni terminate, immergere in acqua»! Fu così che costruii il mio primo kit. In seguito misi insieme un Chicken Kit, la mia opera più avanzata nel settore! In quel caso aggiunsi un sacco di elementi nuovi, come per esempio unʼavvertenza che diceva che le piume non erano incluse; infatti in genere per parecchi kit devi procurarti del materiale extra: una vera fregatura… Inoltre cerano delle istruzioni su come collocare le piume: «…non dalla parte morbida e soffice, ma da quella più appuntita e rigida» (Ride). Delle autentiche stupidaggini! Alcune di quelle note erano in spagnolo e altre in inglese. Una cosa del tutto fuori di testa; la realizzai mentre stavo girando Dune, in Messico. Queste foto mi fanno pensare ai lavori del pittore inglese George Stubbs, che concepiva il sezionamento dei cavalli come componente del suo processo di «comprensione» e di rappresentazione di quei soggetti. Giusto. Beʼ, tutto ciò ti porta a riflettere intorno a questioni del tipo «Qual è il principio di funzionamento di quella data cosa?». Se monti assieme i vari pezzi otterrai sì un «pollo», ma cosʼè che lo fa razzolare qua e là, che lo spinge a beccare granelli di ghiaia? Davvero bizzarro. Ho fatto anche un Duck Kit, ma lʼesposizione fotografica era talmente cattiva da impedire la lettura

delle istruzioni: era venuto tutto troppo scuro. Più tardi ero assolutamente propenso a inserire un Mouse Kit in Velluto blu. Nel congelatore avevo conservato almeno una dozzina di topi, ma non costruii mai il kit; lʼappartamento in cui stavo era in affitto, perciò sono sicuro che il padrone di casa avrà finito per trovarli. Mi piacerebbe lavorare con degli animali più grossi, ma non ne ho mai avuto lʼoccasione. Dune era un film epico, costoso, di grande effetto. Come e perché ti ci sei ritrovato coinvolto? Beʼ, questo è tutto un altro discorso, che occupò quasi tre anni della mia vita. Allʼepoca ero alle prese con Velluto blu, il cui progetto stava in qualche modo deragliando. Io ci pensavo ancora, ma alla Warner cera un dirigente che odiava quella sceneggiatura. Quando attraversi un periodo in cui attendi che ti vengano delle idee non sai quanto a lungo potrà durare. Mi rendevo conto che la faccenda non ingranava, e mi trovavo in una fase nella quale tentavo di agguantare qualche idea in grado di metterla in moto. Dopodiché accadde un fatto strano. Andai a trovare George Lucas, il quale mi aveva offerto di dirigere il terzo capitolo di Guerre stellari, ma la verità è che a me la fantascienza non è mai piaciuta sul serio. Ne apprezzo alcuni elementi, tuttavia a mio avviso richiede di essere combinata con altri generi. A quel punto, con Richard Roth, che in seguito sarebbe stato il produttore di Velluto blu, avevo incrociato un romanzo di Thomas Harris, Red Dragon,1 e stavo per orientarmi in quella direzione. Fu più o meno allora che ricevetti la chiamata di Dino De Laurentiis:

«Vorrei che tu leggessi questo libro, Dune». Io pensai che avesse detto «June», ma lui rispose: «No, non “June”: Dune». Più tardi un mio amico mi fece notare: «Ehi, si tratta di un grande romanzo di fantascienza!», al che replicai: «Lo so, è proprio quello che ho sentito dire in giro»; insomma, iniziai a leggere quel libro. Per quale motivo credi che Dino De Laurentiis abbia pensato a te per il film? Dino si era interessato a me per via di The Elephant Man. Voleva fare un film di fantascienza basato sui personaggi, piuttosto che sui fucili a raggi infrarossi o sulle navi spaziali. La nostra intenzione era di rendere tutto realistico e credibile. Non è una fantascienza hightech, come avviene per la maggior parte delle storie ambientate su altri pianeti. Tutto appare antico, come se fosse stato lì dovʼera per un lungo periodo di tempo. De Laurentiis poteva aver visto The Elephant Man, ma era a conoscenza di unʼopera maggiormente personale come Eraserhead? Quando Dino e io parlammo per la prima volta, lui non aveva ancora visto Eraserhead, e quindi cerano un sacco di cose che avevo in mente e delle quali non sapeva nulla. Di fatto, quando poi finalmente lo vide, lo odiò. Per certi versi sapevo in partenza che per Dune avrei dovuto fare dei passi indietro. Tanto per cominciare il film avrebbe dovuto rientrare nella categoria Pg:2 tu puoi anche aver concepito tutta una serie di strane invenzioni da inserire nella vicenda, ma dal momento in cui vieni rubricato tra i Pg, una buona parte di quelle se ne va dalla finestra. In più, come sai, a me piace deviare dalla pista, percorrere sentieri insoliti, ma con Dune non

riuscii a farlo. Ciò nonostante cera una quantità di piccoli dettagli, bizzarri ed eccitanti, che mi ispiravano: mi riferisco alle onde sullʼacqua e sulla sabbia, ai movimenti ondulatori, ai simboli, alla reiterazione di forme, ai fili che connettevano le situazioni. Cosa ne pensi di De Laurentiis? Dino era molto diverso da come me lʼaspettavo: era affascinante, caloroso e persuasivo. Discutemmo sul concepì, e io mi convinsi che il romanzo avrebbe potuto essere adattato allo schermo. È piuttosto facile affermare che Dune è meno «lynchiano» di qualsiasi altro tuo film; tuttavia esistono parecchie similitudini tra la sua lussureggiante epica fantascientifica egli universi in cui vivono Henry in Eraserhead e John Merrick in The Elephant Man. Non è così? Certo, cʼè una sorta di filo che li collega. Macchinari e ingranaggi sono predominanti in ognuno di quei film. A me piace la gente che lavora nelle fabbriche, lʼacciaio, i chiodi, i bulloni, le chiavi inglesi, lʼolio e il fumo. Il tema dellʼindustrializzazione non è mai centrale, ma è sempre latente sullo sfondo. È deprimente che in America lʼindustria pesante, con le sue ciminiere, stia scomparendo, ed è altrettanto triste che ci siano così pochi macchinari in Dune. Da ragazzo i paesaggi industriali mi fecero unʼimpressione fortissima. Vivendo nel Nordovest non avevo mai visto una città veramente grande. Quando poi visitai New York il contrasto fu così stridente che sentivo montare unʼondata di potenza ogni volta che mi avvicinavo a una città. La vita è fatta di contrasti. Se intorno a te tutto è rumoroso, lo scoppio di

una bomba ti tocca fino a un certo punto. Ma se lʼesplosione si verifica in un ambiente tranquillo ti sconvolge. È questa la relazione di amore-odio che intrattengo con la città. Oltre a ciò, in tutti e tre i film in questione compaiono degli strani mondi, che hanno dovuto essere costruiti e filmati affinché si potesse penetrare al loro interno. Voglio fare dei film che siano sì ambientati in America, ma che portino le persone dentro universi nei quali non potrebbero mai spingersi: nei recessi più profondi del loro essere. Sono influenzato da quei luoghi e dagli individui che vi ho incontrato. Creano atmosfere e dicono cose capaci di comunicarmi sensazioni alle quali non posso sottrarmi. Mi capita milioni di volte al giorno. Sono finito a Philadelphia in un periodo molto speciale della mia vita, e questo probabilmente è stato lʼevento che mi ha maggiormente impressionato. Ho iniziato a innamorarmi dellʼindustria e della carne. Nel cinema nessuno ha saputo esprimere la potenza di cui avverto la presenza nellʼindustria e negli operai delle fabbriche, questʼidea fatta di fuoco e di olio. Per me le fabbriche sono simboli di creazione, e si basano sui medesimi processi organici che hanno luogo in natura. In ogni caso i mondi di Eraserhead e di The Elephant Man sono ristretti, talvolta microscopici. Al contrario Dune, persino nella sua forma letteraria, crea un universo enorme e potenzialmente immobile, fatto di numerosi mondi diversi. Inizialmente come ti sei rapportato a tutto ciò? Ho discusso a lungo con lʼautore, Frank Herbert, concentrandomi su ogni riga del suo romanzo. Vi si trovano tantissimi elementi che, man mano che ci si

addentra, sembrano contraddirsi. Inoltre ci sono molti passaggi confusi: strani frammenti dʼinformazione, tecnologia e mitologia. A un certo punto ci si chiede dove stia lʼintreccio. Più ci si entra, più è difficile rimanerci aggrappato. Tuttavia ero già parecchio al di sotto della linea di galleggiamento anche prima di cominciare ad avvertire queste sensazioni. Ci sono veramente impazzito, su quel film. Hai lavorato anche alle successive sceneggiature di Dune, quelle che avrebbero dovuto seguire lʼoriginale? Certo. Io e Dino avevamo un accordo: secondo il contratto avrei dovuto fare anche gli altri due capitoli di una trilogia, per cui scrissi metà dello script per il secondo Dune. A me piaceva veramente, e anche se non lo finii mai, andai un bel poʼ in là, perché non assomigliava per niente a un intreccio normale. Era più una storia «di quartiere», e dentro cerano delle cose davvero buone. Avevo seguito uno spunto e mi sembrava quasi che la storia mi parlasse. Tuttavia, dato che Dune fu un fiasco, non se ne fece più nulla. Eri sempre stato intenzionato a scrivere la sceneggiatura del film originale? Mi ero messo a lavorarci con Chris De Vore e Eric Bergren, quelli di The Elephant Man, ma a Dino non piaceva quello che stavamo facendo. La strada che avevamo preso mi soddisfaceva, però in un certo senso capivo che non sarebbe andata avanti in quel modo e che quindi stavo per ficcarmi nel bel mezzo di due differenti versioni di Dune. Perciò dissi a Chris e a Eric che non stava funzionando. Sentii che erano parecchio

arrabbiati con me; per certi versi eravamo in sintonia, ma loro volevano puntare in direzioni diverse. Per loro contavano maggiormente altri aspetti del romanzo; se fossero rimasti nel film, le mie idee avrebbero oscurato il loro punto di vista sulla storia. Lo sceneggiatore è come un filtro: prima di arrivare sulla carta le sue idee passano attraverso il suo personale vaglio artistico. I concetti che stanno alla base di Dune provenivano dal libro di Frank, ma io li avevo interpretati a modo mio. Così cominciai a occuparmene da solo, e fu unʼaltra di quelle circostanze in cui il treno si mette a correre troppo velocemente. Stavo scrivendo la sceneggiatura, dopodiché avremmo fatto i sopralluoghi per le locations e infine sarei andato da Dino in Italia. Sai comʼè quando giri da un posto allʼaltro: un anno della lavorazione del film passò per la stesura dello script, con me, o me e Chris ed Eric. Hai detto che Mel Brooks ti sostenne moltissimo durante la fase di «perfezionamento» della sceneggiatura di The Elephant Man. Dino De Laurentiis ti fu di qualche aiuto, quando si trattò di mettere Dune sulla pagina? Dino mi fece da editor: contribuì a dar forma alla sceneggiatura. Tagliare è difficile, dato che gli artisti, per ragioni di ordine estetico, sʼinnamorano sempre di ciò che hanno fatto, ma è per motivi di carattere pratico che bisogna operare delle riduzioni. Prima di eliminare una scena, Dino mi dimostrava sempre che non avrebbe potuto funzionare. Le battaglie si vincono e si perdono: una sequenza per cui lottai davvero fu quella dello «spazio ripiegato». Però mi sentivo così vicino al mio lavoro che mi fidavo ciecamente di Dino, come una

tavola armonica che cerca i suoi punti deboli. E lui ce la fece! Alla fine condensammo la sceneggiatura in 135 pagine. La cosa più difficile fu mantenersi fedeli al progetto nel suo complesso. Non potevo accettare di ridurlo al punto in cui lʼessenza della storia sarebbe andata perduta. Cʼè una grande densità di azione e di livelli dʼinterpretazione. Perciò la regola che adottai per plasmare la sceneggiatura fu il buon senso. Lasciai semplicemente che il lavoro mi parlasse. Nel libro c erano determinati elementi che si sommavano fino a formare la storia di Dune: li trasferii nella sceneggiatura, in modo che continuassero a costituire lʼossatura del film. Mi comportai così per ogni problema. Ammesso che sia possibile definirlo, cosʼè che caratterizza il Dune di David Lynch? Il personaggio di Paul, il dormiente che deve risvegliarsi e diventare colui che è destinato a diventare. Frank Herbert è davvero unʼottima persona, e in questo è molto simile a Barry Gifford. Sono gli autori dei romanzi originali, ma con grande onestà entrambi hanno detto: «Prendili e vai per la tua strada». Allora tu ti chiedi: «Sarà vero?», e li metti un poʼ alla prova. Forse con Frank avrei potuto spingermi oltre, inserire nel film qualche tocco in più di ciò che mi piace: fabbriche, gomma e industrie, anziché lunghi e fluenti mantelli e quel genere di sensibilità tutta medievale. Dino sapeva che il progetto richiedeva coraggio. Il libro di Frank incorpora sequenze oniriche, strutture complesse, differenti livelli di significato, simbolismi; riguarda le persone e le loro emozioni, le loro paure e le

loro mete. Questo mi forniva lʼopportunità di creare mondi interamente nuovi, combinando gli elementi in modi che non avevo mai sperimentato prima. I miei film sono come dei quadri filmati: ritratti in movimento imprigionati su celluloide. Stratifico tutto attraverso il suono per generare unʼatmosfera unica: come se la Monna Lisa aprisse la bocca, ci fosse una brezza e lei si voltasse sorridendo. Sarebbe così strano e meraviglioso. Dune contiene una domanda fondamentale: cosʼè che fa funzionare lʼuniverso? Quali sono esattamente i rapporti tra i personaggi, e in che modo questi ultimi sono collegati a Paul? LʼImperatore vuole sbarazzarsi di Paul e lui lo scopre; è circondato di spie che fanno capo a svariati individui. Sono queste spie che provvedono a mantenere lʼunità, concatenando tutte le parti in causa; sono responsabili della cospirazione, ma anche del risveglio e dellʼascesa di Paul. Il personaggio del barone Harkonnen pare proprio costituire uno dei più autentici tocchi lynchiani. Già, ma non è molto diverso da comʼè nel libro. Anzi no: per come lo ricordo, il suo mondo era assai più prossimo a quello degli altri, ed è per questo che sono stato in grado di penetrarvi. Inoltre molti degli aspetti di quel mondo, pur nella loro astrazione, erano davvero interessanti, e possedevano una sorta di poesia; tuttavia non avevano molto a che fare con lʼelemento narrativo, e necessitavano di tempo per essere sviluppati. Ho fatto un sacco di riprese di quel tipo: le gocce dʼacqua nel sottosuolo, i riti degli abitanti e il modo in cui vivevano, il processo attraverso il quale lʼAcqua della vita veniva

prodotta da un piccolo verme di terra. Tutte cose che potevano essere raccontate senza ricorrere alle parole. Comunque, dal momento che mi avevano costretto a ridurre il film a due ore e diciassette, che a quel punto era la durata massima che potessi ottenere, un mucchio di roba doveva essere tagliata. Un mucchio, tanto che per tenere insieme tutto quel materiale ci sarebbe voluto un compressore per la spazzatura: al posto di unʼintera scena era rimasta sì e no una battuta, e per giunta in voice over. Non è questo il modo di lavorare. In un certo senso preferisco i metodi che usano in Europa. Amo i film come 2001: Odissea nello spazio; le lunghe sequenze, i silenzi, quel genere di cose. Ma ormai era troppo tardi per tappare i buchi: lʼacqua continuava a traboccare e la situazione si era fatta veramente spaventosa. In quello che aveva tutta lʼapparenza di un caos sempre crescente, è stato difficile per te riuscire a mantenere uno sguardo fresco sul film, nonostante i contrattempi pressoché quotidiani? È la cosa più dura che ci sia. Più mi avvicino alla conclusione di un film, più tendo a proiettarvi le mie paure. Non solo me le ritrovo continuamente davanti agli occhi, ma comincio anche a distinguere in quali punti ho commesso degli errori. Vedo i miei timori sullo schermo, in sovraimpressione sulle immagini. E la situazione peggiora costantemente, al punto che non sopporto di rimanere in sala di proiezione. Non posso proprio stare a guardare. Vedo solamente paura e orrore. Alla fine del film sono una specie di pazzo, e non riesco nemmeno a riconoscere lo stato in cui mi trovo,

faccio degli sforzi mentali per liberarmene, e quindi non ricordo neanche che ho un lavoro da ultimare. Credo di aver perso il controllo prima ancora di andare al montaggio, forse è vero che prima o poi bisogna passare attraverso momenti come questi, ma di nuovo rimpiango che sia durata così a lungo. Scopri una valanga di cose mentre stai girando un film, ma non è quella la ragione per cui lo stai facendo. Durante la lavorazione di Eraserhead mi ero reso conto che stavo portando alla luce certe questioni personali, che mi stavo esprimendo in una sorta di codice; più tardi capii alcune cose di me stesso, delle quali in quel periodo non ero cosciente. Comunque non so cosa sarebbe accaduto se avessi sempre fatto ciò che volevo. Credo che la mia crescita sarebbe stata più lenta; oppure che mi sarei immerso nel mio mondo privato, ripetendomi e non crescendo per nulla. Penso che, a causa di queste altre esperienze, lʼapproccio ai miei film sarà migliore. Lʼimportante è realizzare solo i film o i lavori che sei in grado di controllare. Il resto è diabolico, e finirà per fregarti. Se avessi ascoltato ciò che la gente diceva di me dopo Dune, la mia fiducia e la mia felicità ne sarebbero uscite totalmente distrutte, ed è necessario essere felici per poter combinare qualcosa. Ero quasi completamente andato, morto! Malgrado ciò, per via di The Elephant Man non potevano screditarmi completamente. Certo che se avessi fatto solo Eraserhead e Dune sarei stato davvero fritto! La necessità di comprimere il film generò forse una tendenza a sentire i pensieri dei personaggi?

Beʼ, in parte era previsto, ma più o meno il 40 per cento fu aggiunto per ribadire dei passaggi di cui si riteneva che la gente non avrebbe capito il senso. Ascoltare i pensieri dei personaggi può essere bellissimo; è una cosa intelligente, non cʼè dubbio, ma se qualcuno lo fa solo per spiegare la trama si comincia a fiutare lʼimbroglio. Con tutto quel materiale e quei margini di sviluppo si sarebbe potuta produrre una grande serie televisiva, tipo Twin Peaks. Sarebbe stato magnifico, e gli avrebbe reso giustizia. Alcuni elementi contenevano un certo potenziale poetico: lʼacqua conservata in quei luoghi sotterranei, oppure lʼemozione delle goccioline che cadono, con quei suoni e quella luce. Sono cose davvero ipnotiche, ma sono riuscito forse a inserirne una minima parte prima che Dino mi fosse, per così dire, addosso! Ti fu possibile esercitare una certa influenza per quanto riguarda gli effetti speciali e le «creature»? Certo. Volevo che il Navigatore del Terzo Stadio fosse una carnosa cavalletta, e a tale scopo ne feci un disegno per Tony Masters. Tony io ingrandì e ne definì i dettagli, e in seguito Carlo Rambaldi costruì la creatura. Ho una teoria a proposito di Carlo Rambaldi: fabbrica sempre delle copie di se stesso. Perciò per me in qualche modo il navigatore assomiglia un poʼ a Carlo Rambaldi. E anche E.T. ha esattamente le sue sembianze! Tutto passa attraverso le mani di molte persone prima di diventare quello che è.

Poesia in movimento. Preziose gocce dʼacqua in Dune (1984).

Conoscendo il tuo usuale, cospicuo coinvolgimento nella determinazione del design dei tuoi film, cosa puoi dire riguardo al mega-design di Dune? Sebbene non avessi disegnato io gli oggetti di scena, partecipai attivamente alla creazione di un determinato taglio visivo. Per esempio, una volta realizzata una delle componenti della sequenza del Navigatore della Corporazione Spaziale, cʼera una logica che stabiliva che aspetto avrebbero avuto le strutture successive. Caladan, il pianeta dʼacqua, era coperto di grandi foreste, perciò lʼintero castello degli Atreides fu costruito utilizzando legno massiccio, intagliato con strane decorazioni. Inoltre la società che vive sul pianeta, organizzata secondo un modello militare, fa uso di armi fatte di legno e di metallo. Per contro Arrakis era un pianeta arido, per cui progettammo ogni sorta di attrezzi per la sopravvivenza in un ambiente desertico. Il mio preferito però era Giedi Primo, il pianeta dʼolio: per metterlo insieme impiegammo pezzi dʼacciaio, bulloni e porcellana. Nel romanzo Frank descrive molte delle ambientazioni della storia, ma finimmo comunque per

perdere un sacco di tempo. Sviluppammo un concept per ciascun pianeta, in modo che ogni struttura vi si conformasse. Sfortunatamente però parecchi degli oggetti che costruimmo non comparirono affatto nel film. A un certo punto Dino e io facemmo un viaggio a Venezia. Mi portò a visitare piazza San Marco, ma percorrendo un dato tragitto e uscendo in un angolo particolare. Quando si vedono le cose per la prima volta… se solo si riuscisse a ricordarle! Da allora ebbi lʼidea che Dune sarebbe stato molto influenzato da Venezia: ne parlai con lo scenografo, Tony Masters, e tutto prese il via da lì. Dovevamo assemblare otto enormi teatri di posa, e li riempimmo per il doppio della loro capienza! Erano tanto vicini tra loro che Freddie Francis, il direttore della fotografia, disse che avremmo dovuto filmarli come se fossero stati delle locations. Però non cera modo di poterli trattare come dei set: avevano tutti delle tettoie ma erano senza finestre, e quindi non andavano per niente dʼaccordo con le esigenze della direzione della fotografia. E poi lʼabilità di esecuzione che ci voleva! I tecnici messicani lavoravano il legno che veniva dalla foresta pluviale, quella per cui sono tutti preoccupatissimi. Voglio dire, quel legno era davvero straordinario: persino le parti posteriori dei set erano delle opere dʼarte. Cera veramente da non crederci: anche solo gironzolare lì attorno ed entrare in tutti quei posti era come fare un autentico viaggio. A prescindere dalle reazioni negative riportate dal film e dal tuo ovvio disappunto rispetto alle vicissitudini della

produzione, quali sono gli aspetti di Dune dei quali sei particolarmente orgoglioso? Beʼ, non ho portato niente abbastanza in là da farne una cosa davvero mia. Avevo la sensazione che Dino e Raffaella desiderassero qualcosa di particolare, mentre dallʼaltra parte cera il libro di Frank Herbert e il tentativo di conservare una certa fedeltà nei suoi confronti. In questo modo ti ritrovi già imprigionato in un recinto dai confini molto netti, ed è piuttosto difficile sfuggirvi. Non mi sono mai sentito realmente autorizzato ad appropriarmi del film. Per me è stata la rovina. Il problema era che Dune era una specie di film «da studio»: non avevo il final cut, e inoltre a poco a poco ho cominciato inconsciamente ad accettare dei compromessi, consapevole del fatto che la tal cosa mi era preclusa e la talaltra non la volevo fare. Per cui non ho potuto far altro che precipitare in questa sorta di terra di nessuno, che è proprio un posto tristissimo nel quale stare. Credi che lʼambizione originaria di Dino, quella cioè di puntare più sui personaggi che sulle «macchine», abbia trovato spazio nel film finito? Beʼ, allʼinizio lʼintenzione era quella. Doveva essere una mistura di tecnologia e di emozioni umane. Inoltre avevamo alcuni personaggi interessanti, ma erano talmente numerosi che era difficilissimo inserirli tutti dentro

«Il dormiente che deve svegliarsi». Paul Atreides (Kyle MacLachlan) vaga attraverso lo splendore del legno intagliato in Dune (1984).

un solo film. Un conto è se hai a disposizione una miniserie o un ciclo di tre o quattro film, allora sì che puoi veramente approfondirli: ma, nel nostro caso, cosʼè che li spingeva ad agire in quel determinato modo? Se cerchi di comprimerli tutti insieme non puoi far altro che rimanere a un livello superficiale. Suppongo che Raffaella De Laurentiis sia stata piuttosto chiara su quello che avrebbe dovuto essere il tuo apporto. Già, ma il punto è che avevo girato solamente due film: Eraserhead e The Elephant Man. Secondo loro Eraserhead era una cosa che sarebbe stato meglio non fare, mentre The Elephant Man era buono. Non so se lʼabbiano mai detto esplicitamente, ma credo che per Dune sia andata più o meno così: «Dobbiamo fare attenzione a David: se va nella direzione di Eraserhead siamo in pieno stallo! Però se va in quella di The Elephant Man è esattamente

ciò che vogliamo». Tuttavia in me ci sono un sacco di cose tipo Eraserhead, e nel materiale di Dune intravedevo parecchie possibilità. Quindi, comʼè naturale, dovevo tenermi un poʼ a freno. Malgrado ciò la gran parte delle dichiarazioni promozionali per il film seguì una linea del tipo: «Questo regista è in procinto di portare le sue visioni più private e personali in un genere che di norma non le ammette facilmente». Già, ma non erano né abbastanza private né abbastanza personali! Né dʼaltronde potevano esserlo. Ognuno ascolta una sua particolare «voce» interiore: alcune cose che ama, un certo modo di muoversi. Il problema sta nellʼessere lasciato libero di agire, in maniera che tutto ciò possa venire a galla. Ci sono cose che al cinema si possono fare ma di cui è molto difficile parlare: per andare fino in fondo è necessario avere alle spalle qualcuno che ti dia la massima fiducia, e questo non accade tanto spesso. Quel che è certo è che non potrebbero mai trasformarsi in realtà se tira unʼaria da consiglio di amministrazione, in cui ognuno dei presenti deve per forza arrivare alla comprensione di ogni singolo aspetto della sceneggiatura. È davvero incredibile come situazioni del genere possano allontanare dalla magia del cinema: le cose non si trasformano in niente di diverso da ciò che già sono; non si aggiunge nulla. Non rimane aperta nemmeno una finestrella allʼastrazione o al sogno: è tutto massiccio come una roccia.

Tecnologia ed emozione. Il barone Vladimir Harkonnen (Kenneth McMillan) e Rabban la Bestia (Paul Smith) in Dune (1984).

Dal momento che ti trovavi per la prima volta alle prese con imponenti teatri di registrazione, svariati set e un eccezionale numero di persone coinvolte nella lavorazione, come andarono i tuoi tentativi di mantenere aperte le linee di comunicazione? È stata una cosa folle, ma non priva di interesse. Era al contempo fantastica e orribile, da un estremo allʼaltro. A Città del Messico trascorremmo un gran bel periodo: cera sempre gente nuova in arrivo da tutto il mondo, che volava fin lì per partecipare alla produzione. Avevamo quattro troupe che lavoravano in luoghi diversi e da un set allʼaltro ci si doveva spostare in macchina, occupandosi di ogni cosa. Pareva non finire mai: le riprese principali durarono sei mesi, e ne servirono altri sei per filmare i modellini, le miniature e gli effetti speciali! Ogni giorno, ogni singolo giorno si viveva sul set, si discuteva e si lavorava al progetto. Mai

unʼevasione, mai massacrante.

una

distrazione:

era

davvero

Fu una semplice coincidenza il fatto che The Angriest Dog in The World, la striscia settimanale a fumetti che disegnavi per il Los Angeles Reader, fosse partita proprio durante il periodo di Dune? No, non centra niente; però non è affatto una coincidenza che abbiano cancellato la striscia lʼanno stesso in cui uscì Fuoco cammina con me. Quello fu una specie di anno maledetto per me. Avevo proprio un cattivo presentimento: credimi, in quel ʻ92 avrei anche potuto essere arrestato! Alcune stelle stavano andando alla deriva: non puoi far altro che star lì a guardare mentre accade, lo avverti nellʼaria. È davvero bizzarro: così come ce lo sentiamo addosso, quando le cose vanno per il verso giusto, la medesima sensazione la si prova quando vanno da schifo. Della serie: «Passerà anche questa». Lʼassetto grafico della striscia non mutò mai per tutti i suoi nove anni di vita: sempre le stesse quattro vignette con il cane nel cortile. Solo il testo nei fumetti differiva, di settimana in settimana. Si trattava di una tua creazione originale? Certo. Lʼho inventata nellʼ83, e di lì in poi ogni lunedì ho dovuto pensare a cosa far dire al mio «cane» e comunicarlo per telefono a quelli del Los Angeles Reader, i quali a loro volta lʼavrebbero inserito nel fumetto. Fu per questo che la grafia cambiò nel corso degli anni; solo alcuni tentarono diligentemente di imitare la mia grafia originale.

Il cane più arrabbiato del mondo (1983-1992). Disegni e testi di David Lynch.

Da dove ti era venuta lʼidea? Dalla rabbia. (Ride) Non so, mi venne semplicemente in mente che quel cane fosse talmente iroso che la tensione e la rabbia avevano finito per ridurlo a uno

stato prossimo al rigor mortis. Poteva a malapena ringhiare, tanto era teso! Era legato così strettamente… E poi, da dove proveniva tutta quella rabbia? Non esiste una vera e propria linea narrativa: si può anche iniziare a leggere dal centro e andare sia in un senso che nellʼaltro. Più o meno si intuisce che nella casa vivono Bill e Sylvia. In una delle strisce Sylvia fa a Bill: «Il mio psichiatra dice che hai una personalità anale», e Bill risponde: «Quello stronzo? Cagate! Gli dirò di ficcarselo su per il culo!» (Ride). Nove anni di cose come queste! Però non sono tutte così ben riuscite! Sono state mai montate delle versioni più lunghe - tipo director s cut - di Dune? Ce nera una molto più lunga che abbiamo proiettato a Città del Messico: durava qualcosa come quattro ore e mezza o cinque ore e quindici, una cosa del genere. Però non era una versione definitiva. Non so nemmeno se fosse completa, dato che stavamo ancora girando e mettendo insieme il materiale. Era una copia di lavorazione priva di tutti gli effetti, ed è lʼunica versione «lunga» che sia mai esistita. Comunque voglio dire una cosa: voglio bene a Dino e a Raffaella, e mi è piaciuto moltissimo lavorare con loro. Eravamo come una famiglia. Conosco il loro carattere e loro conoscono il mio. Ci siamo apprezzati a vicenda nonostante tutto ciò che è accaduto. Per questo non li biasimo, e mi assumo le mie responsabilità. È una questione delicata; si tratta di persone molto energiche, e io lo sapevo bene. Ho lasciato che questo influenzasse eccessivamente il film. È una lezione che ho imparato.

Dʼaltra parte, allorché il costo di un film ammonta a svariati milioni di dollari, qualunque regista sa con sicurezza che per lui sarà problematico mantenere un margine di potere, e che si dovrà attendere ogni tipo di pressioni provenienti dallʼalto. Dovunque ci sia di mezzo del denaro ci sono sempre tensione e preoccupazioni in misura direttamente proporzionale. E lo si può ben comprendere. Tuttavia lʼatteggiamento ideale da parte dei finanziatori dovrebbe essere quello per cui, se ci si appresta a fare un film con il tal regista, ci si siede a un

Non si può fare altro. Paul Atreides (Kyle MacLachlan) e Stilgar (Everett McGill) in Dune (1984).

tavolo prima ancora di cominciare e si discute abbastanza a lungo da sentirsi sereni riguardo a ogni aspetto della produzione. In seguito si dovrebbe collaborare con il regista, sostenerlo, veder chiaro fino in fondo nel suo animo. E mentre allʼinizio la situazione può assumere qualsiasi forma, verso la fine si fa sempre

più dura, perché ormai è quella che è, non si può fare altro. Per certi versi, Velluto blu ti ha ampiamente risarcito per ciò che avevi subito con Dune; da un inferno personale a un magnifico «inferno» cinematografico. Già, proprio così. Quindi si è ristabilito un equilibrio, suppongo. 1

* Nellʼedizione italiana Il delitto della terza luna, Oscar Mondadori; il film poi lo fece Michael Mann nel 1986, con il titolo Manhunter [N.d.T.]. 2

** Per tutti, purché i bambini siano accompagnati dai genitori.

6. Non prendeva in giro nessuno, era ferita, e pure seriamente Musica e Velluto blu

La redenzione, sia personale che professionale, raramente si manifesta in maniera limpida e trionfale come nel caso di Velluto blu di David Lynch. La fase più ortodossa e commerciale di The Elephant Man e Dune, che aveva prematuramente rinnegato alcune delle bizzarre promesse di Eraserhead, si era evidentemente esaurita. Nellʼopinione di molti, Velluto blu è a tuttʼoggi il film più soddisfacente e riuscito del regista: la sintesi perfetta di unʼestetica e di ossessioni tematiche peculiari con le esigenze più tradizionali del racconto cinematografico. Al contempo sconvolgente ed esilarante, il film si rivelò la seconda indelebile esperienza cinematografica di Lynch, e rimane una pellicola di spicco nel panorama americano degli anni ottanta. Rientrato a casa dal viaggio nella Londra vittoriana e nelle abissali distanze dello spazio siderale con qualche proficua lezione, per il nuovo film Lynch tornò a un terreno familiare, e da allora è sempre rimasto un homeboy. Ormai però le forze del bene e del male si erano andate ancora più polarizzando; e il conseguimento di un equilibrio, fondamentale tanto per il cineasta che per i suoi personaggi, non apparve mai più arduo, doloroso o necessario. Sotto certi aspetti Velluto blu segnò un nuovo punto dʼavvio per il regista. Nel corso della realizzazione del

film Lynch conobbe il compositore Angelo Badalamenti; divenuto oggi un componente imprescindibile di «Lynchlandia», Badalamenti ha contribuito a rendere indimenticabile lʼimmaginario lynchiano grazie al suo talento per la melodia malinconica, e ha inoltre contribuito a «liberare» musicalmente il regista. La collaborazione tra i due avrebbe generato due album con la partecipazione della cantante Julee Cruise, la performance Industriai Symphony No. 1 e un evento a suo modo raro: la produzione di colonne sonore che sopravvivessero allʼesperienza cinematografica. In ogni caso il regista di Missoula si è rivelato probabilmente lʼautore contemporaneo più scaltro nellʼutilizzo di musica preesistente. Oltre ad aver rinnovato il mezzo con un approccio al sonoro ricco e sperimentale, Lynch ha infatti trasferito su celluloide le qualità visionarie e oniriche del pop e del rock. I.e sue immagini non vengono solamente trasformate dai suoni e dai sentimenti suscitati dalla colonna musicale, ma reinventano a loro volta la musica stessa, distorcendone il senso o complicandone lʼordinario intento emotivo fino a rendere inseparabili le due componenti. In Velluto blu, con sequenze come quella in cui Dean Stockwell canta In Dreams di Roy Orbison, Lynch ha finalmente lasciato libero corso al proprio talento ottenendone effetti stupefacenti. Il film ha anche liberato la fascinazione del cineasta per il sesso inteso come sede di traumi di carattere domestico, paure, potere e, occasionalmente, pulsioni euforiche. Anche questʼultimo sembrava un motivo persosi per strada dopo Eraserhead, un film che numerosi critici consideravano fondato sullʼangoscia

sessuale. Dal momento che tali temi erano sostanzialmente, e per forza di cose, assenti sia da The Elephant Man sia da Dune, e considerato che è proprio a partire da Velluto blu che essi hanno ripreso a caratterizzare molti degli schemi narrativi e dei personaggi lynchiani, tanto al cinema che nei lavori per la televisione, si può affermare che la fase più ortodossa del regista ha rappresentato in qualche modo un periodo di stasi per le implicazioni sessuali del suo cinema. Gli estremi sessuali di Velluto blu e la forza con la quale vennero presentati allo spettatore provocarono inevitabilmente nel pubblico un certo grado di scandalo e di confusione morale, esacerbato forse dal fatto che si trattava senza alcun dubbio di unʼopera cinematografica straordinaria, nonché di un universo totalmente differente da una exploitation a buon mercato o da un levigato e cinico esempio di film high concepì. Di fatto, lʼinnegabile «artisticità» di Velluto blu è stata sovente citata come lʼautentica radice della sua natura discutibile o persino pericolosa. Divenne un film verso cui si era o pro o contro. Parlando di Velluto blu e del suo ruolo di cantante di night club Dorothy Vallens, Isabella Rossellini puntualizza alcuni lati di Lynch raramente affrontati nella foga di siffatte discussioni: «A parere di molti il film era morboso, ma per me ha sempre rappresentato la ricerca condotta da David sul bene e sul male. È una persona estremamente religiosa, molto spirituale. Chiunque sia così religioso si trova costantemente alla ricerca della definizione di simili questioni, sempre tanto elusive. Credo che sia questo il nucleo del suo lavoro di regista». Lʼinterpretazione che la Rossellini dà

della natura sadomasochistica della Vallens appare interessante per il suo radicamento in determinate situazioni «reali», un argomento da lei mai approfondito con Lynch. «A mio parere si trattava di una donna vittima di violenze, di una persona probabilmente affetta dalla Sindrome di Stoccolma. Ma tutto ciò non può essere preso alla lettera. I film di David hanno a che fare più con le sensazioni che con la storia; non sono tanto delle indagini antropologiche o psicologiche dei personaggi, quanto delle impressioni surreali, ricche di situazioni trascendentali. Velluto blu propone un profondo dilemma morale. Ecco perché la vicenda è surreale. Dorothy si copre con una maschera perché ha paura del proprio aspetto. È timida e piena di odio per se stessa. Le parrucche, il trucco e tutto il resto sono li a causa della sua volontà di apparire perfetta come una bambola al fine di nascondere la propria follia. Più si trasforma in vittima per non esporsi sessualmente, più ottiene il risultato opposto. Io lʼho interpretata così: tutto ciò che faceva finiva per andare contro le sue stesse intenzioni!» RODLEY:

Velluto blu è stato il primo dei tuoi film a mostrare quanto la musica rock, pop e contemporanea sia essenziale per gli universi che intendi evocare. È stata un importante fattore organizzativo di tutta la tua opera successiva, e durante la lavorazione del film hai anche cominciato a scrivere testi per canzoni. Riesci a ricordare quando ebbe inizio questa tua passione per la musica? LYNCH: SÌ,

certamente. Proprio lʼistante preciso. A Boise, Idaho, destate la sera tardi fa veramente scuro. Non era ancora buio, forse erano le nove di sera, non ne sono

certo; proprio un bel crepuscolo, una serata magnifica e fitte ombre incombenti. Faceva pure caldo, mi pare. E verso di me si slancia Willard Burns da tre case di distanza lungo la strada, dicendomi: «Te lo sei perso!». E io: «Cosa?». «Elvis da Ed Sullivan!» Il che quasi mi bruciò le cervella. Come avevo potuto perdermelo? Il momento decisivo, capisci, fu proprio quella notte. Ma sono quasi contento di non averlo visto: nella mia testa fu un evento ancora più grande proprio perché me lʼero perso. Capii comunque che era lʼinizio del rockʼnʼroll. Dato che fino a Velluto blu non avevi manifestato un reale interesse a proposito di certi generi di musica, cosʼera avvenuto in precedenza? Prima mi sentivo frustrato; e credo che diversi registi si siano trovati nella medesima situazione, dal momento che si riesce raramente a discutere con il compositore se non in una fase ormai avanzata della lavorazione, in postproduzione. Ci si incontra, tu gli spieghi cosa vuoi, lui vede il film, torna con la colonna sonora e non cʼè più tempo: sei già al missaggio. E se poi non va, non hai nemmeno un margine per industriarti a cercare di farlo funzionare. Un sacco di musica viene semplicemente sovrapposta alle sequenze, e costituisce lʼunica interpretazione che il compositore ha elaborato rispetto a ciò che hai fatto. Può sposarsi con le immagini oppure no. A volte è doloroso constatare i risultati. È meglio toglierla. Una scena può anche rendere meglio senza musica. Diversi testi nella musica rock e pop, in particolare degli anni cinquanta, appaiono semplici e ingenui: ragazzi e

ragazze che si innamorano, vengono abbandonati ecc. Anche i tuoi versi paiono echeggiare o imitare questi concetti. Già. Era tutto semplice, ma non conta ciò che dici, conta come lo dici, e il modo in cui funziona da contrappunto a una chitarra bottleneck. Lo scivolamento da una nota a unʼaltra può rivelarsi una delle cose più eccitanti e incredibili mai udite! Quando funziona è stupefacente, ed è necessario frugare a fondo in se stessi e nel cuore della materia per poterlo fare. È come per lʼArte Elevata. E alcuni di quei tizi lo sanno. Prendiamo invece uno come Pat Boone: fa di tutto, ma non ha la minima possibilità di essere credibile. Voglio dire, è un tipo in gamba, ne sono certo: eppure, per qualche oscura ragione, un paragone tra lui e Little Richard non si pone nemmeno! Ho sempre pensato che In Dreams fosse concepito come parte integrante del film fin dallʼinizio. Appare concettualmente essenziale alle intenzioni e allʼatmosfera della storia. È così? Non esattamente. Stavo andando allʼaeroporto e, non so per quale ragione, mi trovavo in compagnia di Kyle MacLachlan. Eravamo a New York, stavamo passando per Centrai Park, e ascoltammo Crying di Roy Orbison; io rimasi ad ascoltare e poi feci: «Ecco! Per Velluto blu userò questa musica». Restai di questa opinione finché arrivammo nel North Carolina, dove eravamo diretti. Così spedii qualcuno a comprare Roy Orbisonʼs Greatest Hits; misi su Crying e poi In Dreams, e a quel punto mi scordai immediatamente di Crying. E dissi: «Ecco perché questo disco si trova qui, è così ovvio! È quello che ci vuole!». In parecchie occasioni un pezzo musicale spiega molto della natura del film.

Allora chiamai Dennis Hopper e gli chiesi di memorizzare la canzone. Lui e Dean Stockwell sono amici da tanto tempo, perciò si sono messi al lavoro insieme. Dean aiutava Dennis, dato che Dennis non riusciva a ricordarsi il testo. Mi chiedo come mai! (Ride) Così finalmente arrivammo al giorno delle riprese della sequenza nellʼappartamento di Ben, dove Dennis avrebbe cantato la canzone. Durante le prove Dean disse: «Resto qui, nel caso Dennis abbia bisogno dʼaiuto». Quindi abbiamo cominciato a far andare la musica, e Dennis doveva semplicemente sincronizzare il movimento delle labbra, giusto? Ed ecco di colpo Dennis si interrompe e rivolto a Dean - che sta continuando a cantare - gli urla: «Fermi tutti! Dean, questa cosa la canterai tu!». Come microfono volevamo usare una piccola lampada da tavolo. Dean prese una luce, pensando che fosse quella giusta; invece era una lampada del set. La accese e, naturalmente, non poteva rivelarsi più adatta! Nessuno sa perché quel faretto si trovasse lì, ma cambiò tutto. Era strano, ma più lʼappartamento di Dean diventava buio, meno sentivo la canzone. Appena ci fu un poʼ più di luce il suono divenne perfetto. Inoltre Dennis che fissa Dean ha molto più senso se si vede Dean mentre canta In Dreams. Aggiunge moltissimo a tutti e due i personaggi. Situazioni del genere si verificano sempre. Accade qualche cosa, ed è proprio ciò che ci vuole. Sapevi benissimo cosa stava facendo Dennis, sapevi cosa stava facendo Dean, ed ecco lì, proprio di fronte a te; ci voleva un altro bizzarro passettino per rendere viva la scena. Perché Dean aiuta

Dennis? E perché Dennis ha bisogno dʼaiuto? Chi mai potrebbe dire come succedono queste cose? Lʼuso di In Dreams in quella sequenza ha rilanciato la carriera di Roy Orbison, ma cosa ha pensato Roy del film e dellʼutilizzo della sua musica? Ho avuto il grande onore e privilegio di incontrare Roy per via di Velluto blu, e così ho potuto fare la sua conoscenza. Mi disse che quando aveva visto il film per la prima volta non gli era piaciuto. Proprio per niente. Immagino che lo giudicasse morboso e contorto. Quella canzone significava tuttʼaltro per lui, era come un oggetto prezioso. Non so come andò di preciso, ma pare che si sia guardato intorno e altre persone che stavano lì erano come affrante, perché sapevano che per Roy la canzone aveva un certo significato ma tutto sommato a loro nel film piaceva, sebbene non volessero dirlo, non so. Poi Roy lʼha rivisto, e mi ha detto di aver cambiato opinione. È andato oltre rispetto a quello che contava per lui e ha capito che poteva funzionare in un altro modo. Hai citato la potenza dei dischi originali anni cinquanta, ma la versione di In Dream in Velluto Blu non è quella originale, vero? È la versione originale di In Dreams del film Velluto blu. Quindi lʼoriginale. Una volta Bruce Springsteen ha detto che la voce di Orbison suonava come se provenisse da un altro pianeta, e tuttavia pareva che comprendesse perfettamente la sofferenza umana. Cosʼè che ti attrae in lui?

Quando Roy era giovane - prima di cominciare a sfoggiare gli occhiali scuri - non si muoveva come Elvis. Per quanto riguardava linguaggio del corpo e presenza scenica, non riusciva a vendersi per quel che valeva. Era umido, impacciato. Gli occhiali scuri contribuirono a portare in superficie il valore che cʼera dietro. E poi tutto quanto - la musica e lʼesecuzione - si combinò come per magia e lui divenne eccezionale. Pare che gli occhi di Orbison abbiano smesso di svilupparsi quando lui aveva dodici anni. Questo lo ignoravo. Allora è come per Alan Splet. Quando si ha un senso ottuso, gli altri emergono alla grande. Al riusciva a udire suoni che gli altri non avvertivano. Cosa puoi dire dellʼuso di Love Letters di Ketty Lester in Velluto blu? Ancora una volta, pare che abbia una funzione concettuale. Certo. Era lirica, e il ritmo era fantastico! Da parecchio tempo sapevo che avrei usato quella canzone. Lʼidea della lettera dʼamore covava in Frank. Le locuzioni popolari possono avere significati diversi, ma per lui rivestono sempre il più oscuro. Frank distorce le cose. Lʼamore, spinto al suo contrario, si trasforma in putrefazione. Sono pochissimi i registi che sanno usare la musica di oggi al cinema: le eccezioni che si affacciano subito alla mente sono Wim Wenders e Martin Scorsese, probabilmente perché sono evidenti lʼamore e la stima che nutrono per i

«In sogno parlo con te». Ben (Dean Stockwell) si esibisce per Frank Booth (Dennis Hopper) in Velluto blu (1986).

suoni attuali. Uno dei primi cortometraggi di Wenders è addirittura interamente dedicato a un paragone tra All Along The Watchtower di Bob Dylan e la versione che ne fece limi Hendrix. Beʼ, chiunque, persino un deficiente, può prendere una canzone e ficcarla in un film. Per me la cosa si fa interessante quando il pezzo non se ne sta solamente lì appiccicato. Deve possedere degli ingredienti che siano davvero adatti a far parte della trama, il che può verificarsi sia in maniera astratta che per via del testo. A quel punto è come se fosse impossibile vivere senza quel brano musicale: non può assolutamente trattarsi di nulla di diverso. Velluto blu rappresenta la prima occasione in cui hai lavorato con una persona che da allora è divenuta un collaboratore importantissimo e un componente

fondamentale di quella che potremmo chiamare «Lynchlandia»: il musicista Angelo Badalamenti. È sempre stata nelle tue intenzioni la scelta di rivolgerti a lui per musicare il film? No, per nulla. È avvenuto perché Isabella Rossellini doveva imparare a cantare Blue Velvet. Avrebbe dovuto eseguirla insieme a un gruppetto locale, così che non suonasse troppo professionale; proprio come in un normalissimo club. Mi sono detto che se avessi avuto un gruppo da club sarebbe stato tutto più vivo e omogeneo, perfetto per lo Slow Club della storia. Isabella aveva unʼinsegnante a Wilmington, una pianista, che la accompagnava mentre lei imparava testo e fraseggio. Nonostante ciò, si trattava della versione sbagliata. Così finimmo in studio di registrazione, ma era dolorosamente ovvio che la cosa non funzionava. A quel punto Fred Caruso si voltò verso di me e mi fece: «David, visto che così non va, cosa ne diresti se chiamassi il mio amico Angelo?». E io, tra me e me: «Cosʼè che ti fa pensare che se chiamiamo il tuo amico ci sarà qualcosa di diverso? Continuiamo a provare». Provammo ancora un poʼ, e poi Fred disse: «Ascolta, posso far venire qui Angelo a lavorare con Isabella, e tu devi solamente dire se secondo te funziona oppure no. Non ti costerà nulla». Alla fine, accettai. Angelo giunse in tutta fretta, ma non ci incontrammo. Isabella alloggiava in un piccolo albergo che aveva una sala per il pianoforte; più o meno alle dieci del mattino Angelo ci andò insieme a Isabella, e cominciarono a darci dentro. Verso mezzogiorno stavamo girando sul retro del Beaumont; ricordo Angelo che scendeva il sentiero mentre io con tutta probabilità ero un poʼ

seccato, dal momento che stava per arrivare questo tizio di cui Fred diceva che avrebbe fatto e disfatto. Venne da me e mi fece: «Stamane io e Isabella abbiamo inciso un nastro, e questo è il risultato. Dagli unʼascoltata». Mi infilai le cuffie, e dopo aver ascoltato la registrazione gli dissi: «Angelo, potremmo montarla nel film già così, tanto è bella. È fantastica!». In definitiva, Angelo aveva fatto la sua parte. Visionando del materiale girato durante la realizzazione di Velluto blu ho notato che una canzone usata durante le riprese - Song to The Siren di Tim Buckley, nellʼesecuzione dei This Mortai Coil - mancava nellʼedizione definitiva del film. Si tratta di un brano che nel suono e nelle atmosfere estremamente malinconiche richiama molto il tuo lavoro con Angelo e Julee Cruise. Precisamente. Per i diritti del pezzo chiedevano moltissimi soldi, e noi non avevamo un centesimo. Perciò a un certo punto Fred Caruso disse: «David, tu scrivi sempre delle cosette che si potrebbero quasi definire dei testi. Perché non scrivi qualcosa e lo mandi ad Angelo, così lui ti scrive una canzone?». E io: «Una canzone che prenda il posto di questa, lʼunica tra milioni

Dorothy Vallens (Isabella Rossellini) sul palco dello Slow Club in Velluto blu (1986).

di canzoni che io devo assolutamente avere, Fred? E tu mi vieni a dire che devo scrivere un testo e darlo ad Angelo, e che secondo te questo risolverà i miei problemi!». In ogni caso scrissi quella roba, e pensai: «Beʼ, dal momento che Isabella ci deve già andare per registrare Blue Velvet, non cʼè nulla da perdere. Lo darò ad Angelo, gliene parlerò e vedremo cosa ne verrà fuori». Fu così che Angelo scrisse Mysteries of Love. Inizialmente non era comʼè adesso: stessa melodia, stesse parole, ma unʼatmosfera radicalmente diversa. Ne discussi con lui e cominciai a innamorarmene. Angelo chiese a unʼamica, Julee Cruise, di presentarsi da noi e di cantarla in un modo completamente diverso. Capii che poteva funzionare e dissi: «Angelo, perché non componi

la musica di questo film?». Raccontai ad Angelo che avevo scritto la sceneggiatura ascoltando Sostakovié; lui si mise allʼopera, e alla fine compose la colonna sonora. Adoro Angelo sia come musicista che come persona. Mi spingeva a mandargli dei testi e poi ci mettevamo a lavorare insieme, ed era un autentico spasso. Se obiettavo qualcosa non faceva una piega; anzi, ne era contento. Ero come al settimo cielo: in uno studio di registrazione, che è un posto grandioso, e in compagnia di musicisti, cioè delle persone migliori del mondo. Dormono fino a tardi, sono come bambini, e possiedono questo dono incredibile di cui non parlano. Suonano e basta. È una cosa che accomuna le persone di ogni tipo. Senza dire una parola si uniscono sul serio, e producono musica. È qualcosa di magico! Si può realizzare qualsiasi cosa: basta solo dire ciò che si vuole. Il massimo! Un evento grandioso! Angelo mi ha introdotto nel mondo della musica; non mi ero mai reso conto di quanto desiderassi entrarci finché non capitò davvero. Quando questi frammenti di scrittura sono improvvisamente divenuti testi di canzoni ne hai tratto gratificazione? Certo, proprio così. È come dipingere. Si comincia in qualche modo e si spera di migliorare. Angelo mi ha fornito lʼopportunità di migliorare. Se vivessimo porta a porta sono certo che lavoreremmo in continuazione, ma lui sta nel New Jersey e io a Los Angeles, e quindi per noi è difficile ritrovarci. Questo però mi apre altre porte, poiché anche un piccolo suono o una sequenza di note può fornire unʼidea per una storia.

Durante la realizzazione di India Song Marguerite Duras diffuse della musica sul set per aiutare gli attori a recitare nella maniera adatta, aggirandosi in una sorta di stato sonnambolico. Una cosa che ora tu fai spesso, non è vero? Esatto. Tengo sempre la musica in cuffia insieme al dialogo. Gli attori non la sentono, io invece sì. Tuttavia a tutti tocca una cassetta musicale, che possono ascoltare quando vogliono. Durante le prove la tengo a volume alto, ma sentendola in cuffia puoi giudicare se le cose funzionano o meno. Persino se non si tratta della musica definitiva. Ne ricavi delle indicazioni importanti. In Twin Peaks cʼè una scena meravigliosa con James, Maddie e Donna in cui James esegue alla chitarra una canzone dʼamore adolescenziale. Lʼintera canzone è suonata in tempo reale mentre il pubblico si aspetta che accada qualcosa, ma non succede nulla: cʼè solo quella canzone. Giusto. Subito dopo però qualcosa accade: Maddie vede Killer Bob. Anche a me quella scena piace. In un certo senso è un cliché, ma milioni di volte nel soggiorno di casa si radunano delle persone, vanno fuori di testa e suonano qualcosa per qualcuno, e non cʼè nulla di più bello. Inoltre, in quella scena, cʼè il sottinteso di una ragazza che guarda lʼaltra che a sua volta fissa il ragazzo rivolto verso di lei. Ciò che mi ha colpito nella scena in questione è che, malgrado rivestisse una funzione drammatica, puntualizzava la goffaggine dellʼamore e dolore adolescenziali presenti nella musica: i sentimenti che esprime hanno un valore, per quei personaggi.

Certo, proprio così. Concordo al 100 per cento. Ci sono un sacco di significati. Un soggiorno, una stanza da letto o roba del genere. Ragazze stravaccate in giro… Fantastico! Molta musica nei tuoi film ha un sapore anni cinquanta, la chitarra sembra usata in quel modo. È così? Già, viene dagli anni cinquanta. Banale, in qualche modo. Ma in un certo senso anche rimosso, quasi spiazzato. Il motivo di fondo di Twin Peaks era

Musica, amore e tutto il resto. James (James Marshall), Maddie (Sheryl Lee) e Donna (Lara Flynn Boyle) se la spassano a casa in Twin Peaks (1989).

un ibrido cinquanta/novanta. Non stavamo facendo qualcosa di facilmente databile. In Velluto blu mi sono reso conto che se oggi si entra in una casa capita raramente di vedere mobili costruiti nel 1995. A seconda dellʼetà delle persone che la abitano, lʼarredamento risale a unʼepoca precedente, anteriore. Se ai giorni nostri si realizza un film ambientato negli anni quaranta, si

prende del mobilio anni quaranta e lo si ficca in una casa. Va benissimo per il rispetto del «periodo» cinematografico, ma non è realistico. Al massimo quegli arredi potranno risalire agli anni venti. La versione di Blue Velvet di Bobby Vintoti ha influenzato in qualche modo il film? Quella canzone è stata la scintilla per il film! Bernie Wayne la scrisse allʼinizio degli anni cinquanta. Non ricordo più chi la cantò per primo, ma non era Bobby Vinton. Però la sua versione fu la prima che ascoltai. Non so cosa mi colpisse nella canzone, perché non era il genere di musica che mi piaceva sul serio. Però aveva qualcosa di misterioso. Mi faceva pensare. E le prime cose a cui pensavo erano dei prati (Ride), dei prati e dei quartieri. È il crepuscolo; diciamo che forse cʼè un lampione acceso, perciò è quasi tutto in ombra. Sul davanti cʼè un dettaglio della portiera di una macchina, o piuttosto cʼè lʼimpressione di una macchina, perché è troppo buio per vedere distintamente. Nellʼauto cʼè una ragazza con le labbra scarlatte, e sono state quelle labbra scarlatte, il velluto blu e questi prati neroverdi di quartiere a mettere in moto tutto, insieme alla canzone. Dunque il film doveva essere obbligatoriamente girato a colori? Era necessario. Di conseguenza la domanda era: quale tipo di colore? E dal momento che amo tantissimo il bianco e nero, abbiamo sperimentato la desaturazione del colore verso il bianco e nero. Ma più ci si approssimava al bianco e nero, meno mi piaceva; e più

ci si avvicinava a un colore spesso, ricco, saturo, più lo apprezzavo. Così abbiamo seguito quella direzione. Pare che lʼavere un debole per il velluto sia una mania riconosciuta e provata. Davvero è un feticcio? Non lo sapevo. Per me lo è, comunque. Me ne porto sempre dietro un pezzettino (Ride). Molte di queste cose fanno parte del senso comune. La gente apprezza sempre i diversi tipi di tessuto; e poi ci sono sempre quelli a cui piacciono persino un poʼ troppo! Posso capire come per qualcuno possano diventare un feticcio. In quale punto tutti gli elementi e le ispirazioni di Velluto blu hanno iniziato a combinarsi? Non cʼè stato un momento preciso. Le prime idee interessanti risalgono al 1973, ma si trattava solamente di frammenti. Alcune sono svanite, mentre altre sono rimaste e hanno iniziato ad amalgamarsi. Arriva tutto da qualche altro luogo, come se fossi una radio; però sono una cattiva radio, e quindi a volte le diverse parti non combaciano perfettamente. Cʼè voluto molto tempo affinché Velluto blu salisse a galla. Avevo bisogno di nuove idee; e alla fine, quando sono arrivate, tutto è apparso ovvio, ma per un bel pezzo non se nʼè vista traccia. Quando scrivi usi delle tecniche, dei «trucchi» o dei metodi al fine di aiutare unʼidea a prendere consistenza? A volte mi piace ascoltare musica, oppure leggere racconti o manuali tecnici. Cose del genere. Anche argomenti scientifici o metafisici possono innescare delle idee. Ho scritto la sceneggiatura di Velluto blu

ascoltando Sostakoviè, lʼultima sinfonia. Non ho fatto altro che mettere e rimettere sul piatto lo stesso movimento, allʼinfinito. Talvolta anche il solo fatto di uscire per strada e osservare un edificio o qualsiasi altra cosa può fare la differenza. Devi esporti allʼinfluenza di elementi diversi. Quando hai iniziato a cercare di procurarti adesioni e denaro per il progetto? Una volta terminato The Elephant Man ho conosciuto Richard Roth, il produttore di Giulia. Mi portò a pranzo nel medesimo Hamburger Hamlet in cui andammo io e Al la notte in cui lasciammo lʼAfi, e mi disse di aver letto la mia sceneggiatura per Ronnie Rocket. Gli era piaciuta, ma aggiunse che, a essere sinceri, non era proprio il suo genere. Mi domandò se avessi altri copioni; risposi che avevo solamente delle idee, e poi gli raccontai che avevo sempre desiderato intrufolarmi nottetempo nella camera di una ragazza per spiarla, e che forse, presto o tardi, avrei visto qualcosa che si sarebbe rivelata la traccia per un giallo. Lʼidea gli piacque e mi chiese di scrivere una scaletta. Tornato a casa, non so perché mʼimmaginai qualcuno che trova un orecchio in un campo, e questo campo si trovava a Boise, nellʼIdaho. Perché Jeffrey doveva trovare proprio un orecchio? Doveva essere un orecchio perché è unʼapertura. Un orecchio è ampio e ci si può scivolare dentro. Conduce a qualcosa di vasto. In seguito Richard disse: «Devi venire con me alla Warner Brothers per piazzarlo». Detto, fatto. Quando uscii dalla stanza un tizio ci chiese: «È una storia vera? Ha trovato davvero un orecchio, oppure se

lʼè inventato?». E Richard: «No, ha inventato tutto». «Cristo! Lo gireremo!» Così buttai giù due sceneggiature, ma erano orribili, e allora quel tizio della Warner che allʼinizio era tutto eccitato cominciò a urlarmi dietro al telefono. In che senso «orribili»? Non cerano proprio. Erano pessime, le odiava. Probabilmente cʼera tutta la sgradevolezza del film, ma nientʼaltro. Mancavano un sacco di cose. Così per un pezzo non se ne fece nulla, ma in seguito spuntò fuori di nuovo, dopo Dune. Dino mi chiese quale fosse il mio progetto successivo, e io risposi: «Voglio fare Velluto blu». «Ce li hai i diritti?» «Certo che ce li ho.» Discutemmo un poʼ, e poi aggiunsi: «Aspetta un minuto!». Credo di aver parlato con il mio avvocato: era scaduta una clausola rescissoria, e il soggetto era ritornato di proprietà della Warner Brothers. È qui che è entrato in scena Dino. Lui non è davvero il tipo che si fa pregare per fare una telefonata! In un attimo la sua cornetta vola letteralmente dallʼapparecchio, ed eccolo chiamare il presidente della Warner Brothers e riacquisire i diritti del film. Le prime stesure erano terribili, così ne scrissi almeno altre due. La quarta era ormai quasi completa, e io me ne stavo seduto dentro un palazzo in attesa di entrare nellʼufficio di qualche studio. Non so nemmeno perché mi trovassi là. Ero su una panchina e allʼimprovviso mi ricordai il sogno della notte precedente: era il finale di Velluto blu. Il sogno mi fornì la radio della polizia, il travestimento di Frank, lʼarma nella giacca, dellʼuomo in giallo e la scena in cui Jeffrey si trova sul retro

dellʼappartamento di Dorothy mandando il messaggio sbagliato, sapendo che Frank lʼavrebbe udito. Non so come accadde, ma ho dovuto semplicemente modificare qualche dettaglio per armonizzare il progetto. A parte questo, tutto il resto era a posto. Dune era stato realizzato per la compagnia di Dino De Laurentiis: in che modo questʼultimo finì per trovarsi coinvolto nella realizzazione di Velluto blu? Allʼepoca il mio agente era Rick Nicita alla Caa, e andavamo sempre insieme a trovare Dino nel bungalow al Beverly Hills Hotel. Cʼera quasi sempre una riunione ufficiale in corso. Era come andare sulla sedia elettrica: vi ricevevo le cattive notizie o roba simile, e credo che fu là che da qualche parte venne fuori Velluto blu. Dino sapeva che volevo il final cut, ma da grande uomo daffari qual è volse questo mio desiderio a suo vantaggio. Infatti disse: «Non cʼè problema: basta che dimezzi sia il tuo compenso sia il budget, ed è fatta». Considerata lʼinsoddisfazione provata durante la lavorazione di Dune, ti apparve chiaro fin dallʼinizio delle riprese di Velluto blu che questa era la volta buona, che era proprio quello il modo in cui ti piaceva lavorare? Beʼ, Dino aveva appena comprato gli studi di Wilmington, nel North Carolina. Cera forse un solo studio di sincronizzazione del sonoro, ma Dino ne stava facendo costruire altri. Mettono giù un lastrone di cemento e in un batter dʼocchio ecco che spuntano muri e soffitto. Tuttavia non sono isolati acusticamente, malgrado si trovino a soli tre chilometri da un aeroporto. Per dirla tutta non sono affatto degli studi di

sincronizzazione, ma in effetti per Velluto blu ne avevamo a disposizione uno piuttosto buono. La compagnia di Dino stava diventando pubblica; il nostro film era il più piccolo, e di conseguenza era anche quello al quale si prestavano meno attenzioni. Perciò la sensazione di libertà era enorme. Dopo Dune ero talmente a terra che qualsiasi cosa bastava a tirarmi su: un autentico stato di euforia! Quando si lavora con quel tipo di disposizione dʼanimo ci si può permettere di prendere qualche rischio, fare esperimenti. È una sensazione vivida. In più avevo ottenuto il final cut, il che ti comunica unʼulteriore sensazione di assoluta libertà. Una volta iniziate le riprese, Dino ti diede dei problemi? No. Vide solo i giornalieri delle prime riprese. Ce lo trovammo li allʼimprovviso. Si dava il caso che lʼobiettivo si fosse rotto senza che noi lo sapessimo. Stavamo visionando il materiale per la prima volta e non si riusciva a vedere nulla! Tutto sfuocato, scuro. Per questo dovemmo rigirare il materiale del primo giorno. Allora Dino disse: «DAVID! Perché è così buio?». «Dino, lʼobiettivo è rotto» risposi. Lui fece solamente: «Oh!», e se ne andò. Il film mi ricorda Eraserhead, nel senso che appare completamente «a tenuta stagna»: come se nessuno fosse tornato a casa dopo la giornata di lavoro o avesse avuto il fine settimana libero. Questa volta come fu ottenuto quel mondo così ermetico? Non saprei. Forse ci siamo trovati per tutto il tempo in una sorta di sogno, anche se la sera tutti quanti se ne tornavano a casa. Non penso che questo faccia così

bene. Spero solo che la giornata lavorativa sia abbastanza forte da passare al giorno successivo senza che il sogno si infranga e che gli attori rimangano dentro quel mondo, perché credo che in questo modo si lavori meglio. Dopo The Elephant Man e Dune, Velluto blu rappresenta anche un ritorno a una concezione più esplicitamente personale del mestiere di cineasta, un elemento al quale da allora in poi sei sempre rimasto fedele. È vero. È stato come tornare a una visione più personale. Sapevo in che modo ero arrivato a The Elephant Man, ma nonostante si basasse su una storia vera e non vi fossi coinvolto al 100 per cento quel film conteneva comunque un sacco di cose che amavo moltissimo. Mi aveva posto in una situazione in cui era piacevole trovarsi, anche se arrivarci era stata dura. Era stato davvero un battesimo del fuoco. E poi ecco che Dune mi tagliò le gambe al ginocchio, e forse perfino un poʼ più in alto! Le affinità tra Eraserhead e Velluto blu sono più profonde, non credi? Velluto blu è un film «di quartiere», e in qualche modo lo è anche Eraserhead·, si tratta semplicemente di quartieri differenti. I personaggi non hanno nessun tipo di contatto col governo di Washington o con i problemi universali. I loro problemi hanno a che fare con una minuscola porzione di mondo, e per la maggior parte sono intrinseci agli individui stessi. In questo senso, entrambi i film affrontano tematiche analoghe.

Velluto blu è stato il film più «realistico» da te realizzato fino a quel momento. Non si trattava del mondo estremamente elaborato di Eraserhead, non era fantascienza e neppure lʼInghilterra vittoriana. Si svolge in unʼAmerica riconoscibile e contemporanea, e malgrado ciò a tratti risulta bruscamente antinaturalistico. Si tratta pur sempre di un film basato sulla fantasia. Assomiglia al sogno di bizzarri desideri avvolti nellʼinvolucro di un giallo.

Tempi felici nella strada sotto casa? Sandy (Laura Dern) e Jeffrey (Kyle MacLachlan) fuori dal condominio di Dorothy Vallens in Velluto blu (1986).

Malgrado ciò alcuni passaggi del dialogo, ben lungi dallʼessere realistici, suonano esagerati nella loro ingenuità, se non ironici. Beʼ, sono ingenui quanto lʼAmerica di provincia. Come quando Sandy e Jeffrey sono in macchina e la ragazza parla del sogno dei pettirossi. Quando ti trovi da solo in macchina con la tua ragazza è comprensibile che tu dica qualcosa di estremamente cretino. Ma per chi lo dice

non è così cretino. Al cinema la gente ne ride per far sì che gli altri comprendano che si sono accorti della sdolcinatezza. Se non ridono, il resto del pubblico potrebbe pensare che lo prendano per buono, e farebbero la figura degli stupidi. Perciò ascolti la risata e ti dici: «Dʼaccordo, ma posso sempre giustificarlo rispetto a questo personaggio e a questa situazione». Dunque, quando durante queste scene gli spettatori ridono, non significa necessariamente che hai commesso un errore. Un altro momento non naturalistico di Velluto blu è la sequenza dʼapertura: un cielo di un azzurro impossibile, una staccionata di un bianco immacolato, fiori più rossi del rosso e via dicendo, e il passaggio alle oscure, umide battaglie tra insetti sotto quel prato di un verde magnifico. Per me lʼAmerica è così. Nella vita esiste un aspetto di estrema innocenza e ingenuità, così come cʼè un lato di orrore e morbosità. Tutto qui. Velluto blu è un film molto americano. Il lato visuale è stato ispirato dalla mia infanzia a Spokane, nello stato di Washington. Lumberton1 è un nome vero; in America ce ne sono diverse. Lʼho scelto perché potevamo procurarci la segnaletica stradale e roba simile, dato che la città esiste veramente. In seguito lʼidea è lievitata nella mia mente e abbiamo cominciato a far passare camion di legna nellʼinquadratura; e quel motivetto radiofonico, «Al suon dellʼalbero che cade…», si è imposto a causa del nome. Il finale del film introduce diverse suggestioni: lʼordine viene apparentemente ristabilito e si ritorna al punto di partenza, con la famigliola felice. Il fatto che Jeffrey sia addormentato

sulla sdraio in giardino può persino implicare che nulla di tutto ciò a cui abbiamo assistito sia realmente accaduto. Tuttavia la sensazione di felicità ha un sapore ambiguo. Il finale non è lieto. Si tratta delle medesime immagini dellʼinizio, ma a quel punto sappiamo molto di più a proposito dei personaggi. È questo il tema di Velluto blu: si imparano delle cose, e allorché si cerca di comprenderne il senso bisogna imparare a conviverci. È come se ci fossero due persone in una stanza: a una delle due è stata appena sterminata la famiglia a colpi di mitra e lʼaltra ha appena vinto un premio o qualcosa del genere. Ignorando tutto questo, quelle due persone avrebbero un aspetto perfettamente normale. Dunque esiste la luce, così come delle sfumature cangianti di oscurità. In che modo Jeffrey è stato influenzato dalle sue esperienze? Jeffrey ha visto e girato abbastanza, cosicché in lui vi sono sia le opportunità che i desideri. Ma in lui cʼè qualcosa che non gli piace per niente, e in men che non si dica se lo ritrova davanti. Qualcosa che ha a che fare con la vita. A volte ci si spinge al limite estremo di ciò che si ritiene di poter vivere con se stessi. Anche se Jeffrey è in grado di comprenderla e frequentarla, non è quella la sua scena. Se ne rende conto. Non si può continuare a fare cose con le quali non si può convivere. Si è destinati ad ammalarsi, o a impazzire, o farsi arrestare! Non sono certo di cosa suscitasse più orrore: il mondo di Frank o lʼinconcepibile bontà rappresentata dalla famiglia

felice o dal sogno di Sandy. In un certo senso, sembravano ugualmente terribili. Lo capisco perfettamente. Ciascuno dei due aspetti non è assolutamente in grado di scendere a patti con lʼaltro: sono polarità assolute. Credo che lʼunico ponte tra di loro sia Jeffrey. A un certo punto, Sandy chiede a Jeffrey: «Sei un detective o un pervertito?». Tuttavia è lei la responsabile del coinvolgimento del ragazzo in tutta la faccenda di Dorothy Vallens. Perché si comporta così? È come lʼaccoppiamento o il corteggiamento. Nel corteggiamento cʼè una specie di danza nella quale una persona incoraggia lʼaltra; sente ciò che desidera e la incoraggia. Poi, quando ci si mette insieme, si sa cosa vuole lʼaltro e lo si scoraggia! (Ride) Nel periodo dellʼuscita del film ricordo di aver discusso con una ricercatrice universitaria di cinema che nel corso degli anni ha lavorato molto sui rapporti tra psicanalisi e cinema, e la sua reazione a Velluto blu è stata: «I cineasti fanno tutto da soli!». In altre parole, il film aveva reso pleonastico il suo ruolo. Non esistevano sottotesti: era tutto in superficie, in piena vista. Già, e va benissimo così! (Ride) Il film sembra esibire o illustrare quasi alla perfezione certi concetti e teorie freudiane, in maniera estrema e non edulcorata. Era nelle tue intenzioni? Mettiamola in un altro modo. La mia mente razionale non si è mai fermata a chiedersi: «Che diavolo sto

combinando?». Ecco perché insisto nel dire che realizzare film è una questione subconscia. Poi si intromettono le parole e il pensiero razionale, il che ti può anche frenare. Ma quando sgorga da qualche altra parte, sotto forma di flusso continuo, il cinema possiede la grande occasione di dar forma al subconscio. Ne rappresenta una straordinaria forma di linguaggio. Alcuni registi hanno consapevolmente utilizzato il cinema come una forma estremamente dispendiosa di autoanalisi: vi hanno proiettato i loro problemi in lungo e in largo, forse per tentare di pervenire a una migliore comprensione di se stessi. Nel mio caso tutto ciò è accidentale. Potrebbe anche accadere, come quando ho rivisto Eraserhead alcuni anni dopo la sua realizzazione. Credo di essere rimasto sorpreso dal fatto che funzionasse ancora, seppur in modo diverso. Probabilmente le ragioni per cui lʼho girato mi sono diventate un poʼ più chiare. Con Velluto blu questa esperienza non mi è ancora capitata. Si potrebbe essere incoraggiati a pensare a un eventuale analogo effetto di Velluto blu in base alle evidenti somiglianze tra te e il personaggio di Jeffrey. Come a Jeffrey, anche a me piacciono i misteri. Assomiglio a lui e allʼHenry di Eraserhead, poiché le cose che vedo mi confondono, mi preoccupo moltissimo e sono piuttosto curioso. Entrambi i personaggi hanno un valore davvero speciale per me, ma non riesco a spiegare esattamente perché. Dopo Dune, Velluto blu e Twin Peaks si è cominciato ad associare te e Kyle MacLachlan in una maniera paragonabile

a, diciamo, Jean-Pierre Léaud e François Truffaut. È possibile che in Velluto blu Kyle MacLachlan ricoprisse la funzione di tuo alter ego? Cʼè chi lo sostiene. Kyle si abbottonava la camicia fino al collo perché vedeva in me il personaggio di Jeffrey e non faceva che «rubarmi» alcuni dettagli. Per questo nel film Kyle si è vestito come me. Che mi dici del tuo marchio di fabbrica dellʼepoca, il look «abbottonato»? Da dove è saltato fuori? Da una sorta dʼinsicurezza, perché mi sentivo troppo vulnerabile con lʼultimo bottone aperto, specialmente se mi arrivava uno spiffero nel colletto. Era qualcosa che mi disturbava moltissimo; e poi mi piaceva quella stretta intorno al collo. Cosa cʼera in Kyle che giudicavi adatto per Velluto blu? Jeffrey è il tipo dellʼuniversitario. Vedere Kyle e vedere Jeffrey è stata la stessa cosa. È intelligente e di bellʼaspetto, perciò ha successo con le ragazze. È in grado di mantenere vivo il fattore curiosità; può fare lʼingenuo, lʼinnocente o lʼossessivo, e al contempo rimanere razionale. Quando si guardano negli occhi certi attori non li si vede pensare. Kyle è uno che pensa, sullo schermo. Jeffrey mette in connessione mondi diversi. Può guardare nel mondo di Sandy come in quello di Dorothy, ed entrare in quello di Frank. È un idealista. Si comporta come i giovani negli anni cinquanta, e la cittadina in cui ho girato rappresenta un buon riflesso del clima dʼingenuità dellʼepoca. Gli abitanti del posto tendevano a

pensarla esattamente come la gente di trentanni fa. Le case, le auto, gli accenti sono rimasti i medesimi. Come si sono rapportati gli attori agli aspetti più estremi del film? Ti hanno posto molte domande? Ogni attore è diverso dallʼaltro. Alcuni vogliono davvero penetrare nei «perché» di ogni singola parolina. Adoro far questo: mi piace discutere di ciò che può passare per la testa del personaggio per far sì che le parole ne scaturiscano nel modo che prediligo. So che molti registi pronunciano la battuta così come desiderano udirla, dopodiché lʼattore la ripete. Questo metodo può dare ottimi risultati, ma è molto meglio se il pensiero viene preparato in maniera che lʼattore possa comprenderlo sul serio. Allora la battuta viene esattamente come la voglio io, e lʼattore si rende perfettamente conto da dove essa proviene e del perché è stata pronunciata così. A quel punto sarebbero capaci di ripeterla altre dieci volte nello stesso identico modo. Tuttavia occorre molto tempo per arrivarci. In Velluto blu nessuno si è mai confrontato con me pretendendo di conoscere tutto. Peraltro gli attori parevano realmente gradire questo sistema, il che mi ha dato una certa fiducia. Non devʼessere stato facile assegnare il ruolo di Dorothy Vallens. Già. Numerose attrici lo rifiutarono, per un motivo o per lʼaltro. Tuttavia dicevano di adorarlo, e per questo se ne discuteva. Gli attori sono in grado di annusare una porcheria, quando non può funzionare o è disonesta, così come possono apprezzare un ruolo e malgrado ciò non riuscire a interpretarlo. Ho ricevuto alcuni tra i

migliori feedback da parte di attori che hanno finito per non partecipare al film: per esempio Helen Mirren è stata davvero di grande aiuto per la sceneggiatura. Fino allʼultimo non conoscevo Isabella Rossellini. Una sera mi capitò di incontrarla in un ristorante di New York City, e non solo la conobbi, ma scoprii anche che faceva lʼattrice. Pensavo che fosse solamente una modella. La fissai, e quando ci ripensai un paio di giorni più tardi mi dissi: «Dovrei offrirla a lei, quella parte». Quale fu la sua reazione iniziale allo script? Voleva farlo. Non ricordo di cosa parlammo, ma capii che la parte era sua. E, come dire, credo che lʼaver fatto quel film le abbia procurato un sacco di problemi. Probabilmente è stata più dura per lei che per chiunque altro. È riportato da più fonti che Dennis Hopper ti chiamò manifestando lʼintenzione di partecipare al film, sostenendo che lui era Frank Booth. Certo! Mi trovai alle strette, poiché non avevo alcun desiderio di conoscere qualcuno come Frank (Ride). Tuttavia per il film mi serviva una persona del genere. Dennis era Frank; però fortunatamente era anche qualcosʼaltro, e quindi funzionò alla perfezione. Avevi in mente qualcun altro, prima? No. Stavo cercando e mi ricordo che era spuntato il nome di Dennis, ma aveva una reputazione di un certo tipo. Non che non voglia lavorare con gente che ha problemi; di fatto, preferisco far questo piuttosto che

assumere la persona sbagliata per il ruolo. Il personaggio di Frank Booth poteva rivelarsi problematico, e quindi chiunque fosse stato in grado di reggerlo avrebbe potuto esserlo a sua volta. Fu allora che pensammo a Dennis; tuttavia credo che avessimo lasciato perdere, forse perché a giudicare dai pettegolezzi pensammo che ci sarebbero state troppe difficoltà da superare. Poi Johanna Ray ricevette questa telefonata: Dennis era in preallarme, aveva letto la sceneggiatura e voleva parlarmi. In seguito scoprimmo che di recente aveva interpretato un altro film, e che la sua prestazione era stata incredibile. Era proprio lo stimolo di cui avevo bisogno, poiché da lì in poi cominciai a prenderlo seriamente in considerazione. Credo di aver capito che ci fu qualche discussione a proposito dei gas che Frank usa quando va fuori di testa. Allʼinizio non era forse previsto che lʼattore inalasse veramente dellʼelio, così che la sua voce suonasse come quella di un bambino? Beʼ, non ero arrivato proprio fin lì; qui sono riconoscente a Dennis, perché fino allʼultimissimo minuto avrebbe dovuto essere elio, per rendere il personaggio di Paparino ancora più infantile. Ma non volevo che risaltasse solo il lato comico, quindi tutto ciò fu accantonato e utilizzammo un semplice gas. Più tardi, durante la prima prova, Dennis disse: «David, so cosa cʼè nelle diverse boccette». E io: «Ringraziamo Dio, Dennis, meno male che lo sai!». E lui nominò tutti i gas. Era proprio scatenato. Era grandioso poter disporre di un autentico esperto (Ride). Dennis è una persona dotata di grande talento. È pittore, regista, attore e fotografo, ed è bravo in tutto.

Si comincia a carburare. Lynch dirige Isabella Rossellini in Velluto blu (1986).

Tesoruccio vuole fottere. Frank (Dennis Hopper) si «gasa» in Velluto blu (1986).

Frank ripeteva continuamente «cazzo» già in sceneggiatura oppure è stata più unʼimprovvisazione da parte di Hopper?

Nella sceneggiatura ce nʼerano diversi, davvero tanti, ma Dennis ne aggiungeva sempre qualcuno, perché quando entri in una spirale non riesci a trattenerti. Se un attore entra tanto brillantemente nel vivo dellʼazione, anche se pronuncia delle battute non previste o non le dice esattamente come sono state scritte, lo fa con sincerità. Per me Dennis rientra in questa categoria. Racconta sempre che sul set non riuscivo mai a pronunciare quella parola «cazzo», e che di conseguenza mi riferivo al copione per dire: «Dennis, quando usi questa parola…» (Ride). Non è esattamente la verità, ma non volevo caricare lʼatmosfera più di quanto già non lo fosse. La prima apparizione di Frank nel film è estremamente sgradevole, terrificante. Più avanti Sandy chiede a Jeffrey come mai al mondo esistono persone come Frank. È un tipo che ti spaventa? Certo. Quando si gira un film è dura, perché ti trovi a contatto col «dietro le quinte». Il Frank che avevo in mente mi terrorizzava, nel modo più assoluto. Tuttavia doveva svilupparsi razionalmente. Un individuo grande e grosso e deficiente non suscita questʼeffetto. Un tizio grande e grosso e sveglio, ecco uno di cui preoccuparsi sul serio! Oppure, al limite, uno sveglio e piccolo. Frank non è molto diverso da Killer Bob di Twin Peaks, poiché sembra rappresentare la mascolinità spinta al suo estremo: contorta, violenta e psicotica. In Twin Peaks le forze del bene non esibiscono una mascolinità tradizionale: Date Cooper e una persona intuitiva e razionale che impiega tutti i metodi dʼindagine, compresi il misticismo e la

psicologia, he forze del male appaiono estremamente maschili, prive di qualunque lato femminile. Forse. Cʼè qualcosa di strano nel comportamento di Frank. Ciò che fa paura è quando qualcuno scova il tuo numero e sembra sapere tutto di te, immaginario o reale che sia. Quando ti conoscono ti tengono in pugno, perché possono fregarti. È questa una delle prerogative di Frank. Pare che Frank non riesca a tollerare di essere osservato. Ripete spesso: «Adesso è buio», come se lo trovasse confortevole, e urla: «Cazzo, non mi guardare!» a Dorothy prima di costringerla a fare sesso con lui. Qual è il suo problema? È comprensibile. Ha bisogno della presenza di Dorothy per fare ciò che ha intenzione di fare. Ma quanto a vedere gli occhi di lei… Riflessi in quegli occhi, i suoi atti potrebbero trasformarsi in quel genere di situazioni che lo fanno letteralmente impazzire. Si troverebbe faccia a faccia con una patologia, e questo non è affatto divertente. Si vuole poter fare ciò che si desidera senza alcun tipo di scrupolo. Il film pare imperniato sulla vista: Jeffrey che guarda; il pubblico che guarda dentro a un mondo insieme a lui; Sandy che riesce a guardare in quel mondo attraverso Jeffrey. La prima scena di sesso che noi/Jeffrey osserviamo, protetti dalla sicurezza del nascondiglio, è allestita quasi come fosse uno spettacolo: arco del proscenio e tutto il resto. Già. Il cinema ha veramente a che fare col voyeurismo. Si sta seduti al sicuro, in sala, e la visione possiede una forza potentissima. Vogliamo vedere dei segreti, li

vogliamo vedere davvero. Novità. Cʼè da impazzire, no? E più nuovi e segreti sono gli eventi a cui assistiamo, più abbiamo voglia di starli a guardare. Era previsto fin dallʼinizio che gli aspetti sessuali fossero tanto estremi? Beʼ, si e no. Cʼè sempre un confine, e non ha a che fare con la censura: riguarda la correttezza. Lʼunico sistema per accorgersene è il minuscolo «giudice» che ci portiamo dentro. Si assiste a una prova, ed esattamente in quei pochi attimi ci si dice: «No, no, no. Dobbiamo osare di più», oppure: «No, no, no, questo è troppo. Dobbiamo tornare indietro», oppure ancora: «Per questo tipo di storia, di personaggi, di ambientazione, di spazio e di atmosfera, va benissimo così». Benché non ti sia stato richiesto alcun taglio, ho sentito dire che tu stesso ne hai effettuato qualcuno in prima battuta. Uno di questi presentava delle somiglianze con la scena di Eraserhead con le due donne legate al letto. Qualcosa che riguardava una donna che si bruciava i capezzoli… È vero. Era una delle mie sequenze preferite, perfino troppo ben riuscita. Ho intenzione di recuperarla, ma non so se sarà possibile. Non voglio reintegrarla nel film, bensì presentarla come episodio autonomo. Sarà lunga tre o quattro minuti. È stata completamente eliminata; era una sorta di pendant alla scena nellʼappartamento di Ben.

Guardone da ripostiglio. Jeffrey (Kyle MacLachlan) in Velluto blu (1986).

Cosa avviene di preciso? Beʼ, Frank porta gli amici e Jeffrey al bar, e prima di entrare si scambiano alcune battute: «Che tipo di birra ti piace?» chiede Frank, e Jeffrey risponde: «Heineken», quindi fanno il loro ingresso nel locale di Ben. Intanto allʼinterno si svolge unʼaltra scena, con il barista che vede Frank e fa dei segni a qualcuno che comincia a filarsela verso il retro. Allora Frank grida: «Prendetelo!», e afferrano questo tizio, Willard. Il retro è visibile dal bancone, ma ne è come separato: cʼè un tavolo da biliardo e un altro tipo che indossa un cappello con su scritto «Adoro il carbone». Si tratta di un vecchio chitarrista di blues, nero, e cʼè anche un bianco che suona insieme a lui. E «Adoro il carbone» canta delle canzoni veramente formidabili. Inoltre, sempre nel retro, ci sono tre o quattro ragazze completamente nude che stavano con Willard. Là dietro stava succedendo qualcosa che è si è interrotto allorché Willard ha visto Frank, ma non si capisce con precisione di che si tratta.

Nel frattempo, il personaggio di Brad Dourif entra e ordina una cassa di «Pabst Nastro Azzurro a collo lungo» (Ride). A questo punto Frank sbatte Willard sul biliardo, attacca a parlargli di una tasca strappata e dice alle ragazze: «Venite qui, date unʼocchiata a un uomo morto». Willard, si capisce, è in guai seri: Frank lo tiene in pugno nel modo che preferisce, mentalmente, e Willard sa che prima o poi sarà il suo avversario a spuntarla. Poi Frank sale al piano di sopra. Si fanno tutti intorno; il personaggio di Jack Nance dice a Willard: «Ci vediamo, Winky», e spariscono tutti quanti. Passa un poʼ di tempo e «Winky» si mette seduto. Solo una ragazza è rimasta al suo posto, accende un fiammifero, si incendia i capezzoli e dice: «Questa volta brucerai sul serio, figlio di puttana!» (Ride). È così che finisce. Conte faceva a incendiarsi i capezzoli? Si prendono dei fiammiferi di carta e si dividono in due, poi si leccano e si sistemano sui capezzoli, così la testina resta in piedi mentre il pezzettino di cartone rimane nascosto. Rimane proprio lì attaccata, vicinissima. Può forse spuntare di un mezzo centimetro, ma per un poʼ brucia dopodiché la si butta via. Brucia abbastanza a lungo per la ripresa. La scena è venuta decisamente buona, cera la stoffa giusta. Una specie di sensazione. Dunque i capezzoli in fiamme non si trovavano nella sceneggiatura? No. Lʼattrice mi raccontò il trucco, e io le dissi: «Devi farlo, ti dirò io quando». La parte di Willard è andata completamente perduta?

Completamente. Era collegata a… Beʼ, Jeffrey trova lʼorecchio nel prato. Frank ce lʼaveva in tasca e durante un litigio con Willard la tasca gli si era strappata, perciò aveva perso lʼorecchio e il suo portafortuna, un pezzetto di velluto blu. Nellʼabito di Dorothy ci sono due tagli: uno è stato fatto per sostituire il portafortuna, quello che Frank ha nel bar quando si lavora Willard. In ogni caso tutto questo non era necessario. Di fatto distraeva lʼattenzione dalla scena al piano di sopra nellʼappartamento di Ben, dato che andava avanti allʼinfinito. Nonostante Eraserhead sia infarcito dʼimmaginario sessuale, a partire da Velluto blu la tua opera cinematografica è più esplicitamente connessa al sesso. Mi chiedo… …cosa mi sia successo! (Ride) Il sesso è affascinante. È come il jazz: si può ascoltare una canzone pop tantissime volte, mentre il jazz ha un sacco di variazioni. Anche il sesso dovrebbe essere così. Può essere la stessa melodia, ma con molte variazioni; e allora, quando cominci ad arrivarci, può essere sconvolgente apprendere che una cosa del genere può avere delle implicazioni sessuali. Potrebbe apparire, non so, bizzarro. Ma è comunque un fatto che appartiene alla vita reale. In Velluto blu non cʼè una vera spiegazione, poiché si tratta di una delle componenti più astratte di un individuo. Alcuni aspetti del sesso sono assai controversi: quando viene usato per esercitare un potere, per esempio, oppure quando assume la forma di perversioni che sfruttano altre persone. Questi sono lati negativi, ma

ritengo che la maggior parte della gente li trovi realmente eccitanti, e che costituiscano un modello di comportamento abbastanza comune. Per due volte nel film, Dorothy dice riferendosi a Jeffrey: «Mi ha instillato una malattia». Cosa intendeva con questo? Potrei anche dirtelo, ma è una di quelle cose che perfino se uno te le spiegasse ti verrebbe da dire: «Già, già, questo sì che sembra sensato!». Si sa pressa poco perché Dorothy dice così. La «malattia» di cui parla è qualcosa di astratto; non significa Aids, né niente del genere. In sceneggiatura cʼera molto più materiale su questo tema. Dorothy ne aveva già fatto esperienza e la comprende perfettamente, quella nausea. La prima scena tra Frank e Dorothy, quando Jeffrey li guarda dallʼarmadio, è fondamentale perché determina la posizione del pubblico in relazione al resto del film. Sono state necessarie molte prove per giungere a quel determinato tipo di risultato? Sì, poiché credo che fosse la prima scena che girammo con Dennis. E come sempre, durante le prime riprese, si discutono aspetti importanti per tutte le scene a venire. Fare la prima scena in modo corretto significa mettere i soldi in banca. In quelle occasioni si fanno prove, si cerca di trovare la chiave che ti permette di accedere al personaggio, e da lì in poi ci si sintonizza sulla frequenza giusta. Nella scena in questione succedevano un sacco di cose, quindi le dedicammo parecchio tempo. Sul set cerano solamente le persone necessarie. Gli attori erano bravissimi in tutto; erano al massimo del loro agio e avevano stabilito unʼottima intesa. Credo che il motivo di

tale risultato siano stati i lunghi tempi di prova. Gli attori si sintonizzarono sullʼatmosfera del film in modo graduale. Risolvemmo ogni problema, grazie ai numerosi spunti originali che apportarono ai rispettivi ruoli. Considerato che non è stato molto presente alle riprese e che avevi molta libertà, che cosa fece Dino di Velluto blu quando finalmente lo vide? A un certo punto Dino volle vedere il film. Stavamo lavorando a Berkeley, perciò il reparto montaggio volò a Los Angeles e portò una copia in sala di proiezione. Dino invitò diverse persone della sua compagnia ad assistere alla proiezione. Lui è uno che dice quel che gli pare di fronte a chiunque; così me ne stavo lì, in attesa di eventi orribili! Alla fine del film, Dino disse qualcosa come «Bravo!». Era sconvolto per quanto gli era piaciuto e aveva capito quel film! (Ride) Fu meraviglioso. Però poi Dino vuole sempre stare in moviola e guardare il film insieme al regista, rullo per rullo. E allora è tutto un «AH! DAVID! QUI DEVI TAGLIARE! È COSÌ LENTO! DAVID! DEVI TAGLIARE!» e roba del genere. Questo ogni due scene. Tu pensi che adori il film, ed ecco che allʼimprovviso odia tutto. Così si discute continuamente. Alla fine davanti a una scena disse: «Perché farla tanto lunga? Che noia, David! CHE NOIA! Non ce nʼè bisogno! Devi TAGLIARE, David!». Allora accorciai un poʼ quellʼunica scena, quando Jeffrey cammina per strada di notte e va a casa di Sandy. Ecco tutto! In seguito, Dino affidò il film a un tizio dellʼufficio per le vendite allʼestero, per mostrarlo in Europa. E costui

continuava a dirgli: «Dino, la gente adora il film! Lo stiamo vendendo!». A quel punto Dino mi convocò per comunicarmi che non ne era del tutto sicuro ma che forse il film poteva essere apprezzato da un pubblico più vasto, e poi disse: «Facciamo delle anteprime!». Nella Valley cera un cinema che proiettava Top Gun, e una sera Dino riuscì a fare una proiezione a sorpresa di Velluto blu. Il mio agente Rick Nicita e altri suoi colleghi della Caa ci andarono, e rimasero lì fino alla fine. Mi chiamarono dalla macchina dicendomi che secondo loro era andata alla grande. Perciò mi gasai moltissimo e quella notte andai a dormire felice come una pasqua, perché al telefono urlavano tutti quanti dallʼesaltazione e roba del genere. Ma la madre di Laura Dern, Diane Ladd, e qualche altra sua amica erano andate alla medesima proiezione, ed erano state assai più caute in proposito. Così dissi a me stesso: «Loro non capiscono, Rick sì», e andai a letto. Il giorno dopo mi alzai di buon mattino (Dino va in ufficio prestissimo). Lo chiamai e mi rispose una segretaria: «Parla David Lynch. Cʼè Dino?» (In tono solenne): «Oh sì, David, è qui». Mi passò su unʼaltra linea, e dallʼaltra parte cera questo tizio, il responsabile della distribuzione. (Frivolo): «Ehi, Larry, sono David Lynch. Come stai? Dino è lì?». (Tragico): «Oh, David?». Allora dissi: «Che cʼè, Larry? È andata magnificamente». «Non è andata magnificamente.» «Di che stai parlando, Larry?» «È stato un disastro!» «Larry, non prendermi per il culo! Dimmelo. È stato grandioso, mi stai prendendo in giro? E smettila!» «Ti passo Dino.» E Dino: «Ah! È un disastro! Vieni nel mio ufficio. Dobbiamo parlare!».

Così Rick e io andammo nellʼufficio di Dino, dove tenevano le schede dellʼanteprima. Cose del tipo: «Bisognerebbe sparargli, a David Lynch!». Domanda: «Cosa vi è piaciuto di più nel film?». Risposte: «Il cane Sparky»; «La fine!»; «Quando è finito!». Pare che si trattasse della peggiore anteprima a cui questo Larry, che era nellʼambiente da anni, avesse mai assistito. Le schede erano le peggiori che avesse mai, dico mai, visto. Se non fosse stato per Dino, il film sarebbe stato accantonato senza riserve. Non sto scherzando. Ma Dino disse: «David, abbiamo rischiato, e ora sappiamo che non è un film per tutti. Prendiamone atto e andiamo avanti». Allora si misero in moto, e parecchi critici importanti che avevano visto il film ne scrissero molto positivamente. Quando uscì nelle sale non arrivò mai a fare incassi sensazionali, ma si dimostrò solido. E circa sei mesi dopo Larry mi chiama e mi fa: «David, cʼè qualcosa che devo dirti». «Che cosa?» «Ricordi quel cinema dove facemmo lʼanteprima? Ci proiettano Velluto blu, e cʼè la fila tuttʼintorno allʼisolato! Volevo soltanto che tu lo sapessi.» Così la faccenda ebbe un lieto fine. Ma che genere di pubblico cʼera allʼanteprima? Un pubblico da Top Gun? Non farebbe molto testo. Non fa alcun testo. Ma Dino aveva fatto un esperimento, e quindi non si fece sconvolgere più di tanto. In realtà ci fu del buono, poiché dopo quanto era accaduto Dino non si era creato grandi aspettative in proposito. Così tutto quello che arrivò fu come una ciliegina sulla torta. Velluto blu si rivelò uno dei film di maggior successo della stagione della De Laurentiis. Credo che Dino voglia dei film «spazzatutto», che ottengano ottime recensioni

e incassino tonnellate di soldi. Non avrei mai creduto che Velluto blu avrebbe avuto una possibilità con un pubblico più vasto; pensai soltanto che avremmo evitato una potenziale catastrofe. Come diceva il mio agente: «Dopo un esito simile, la maggior parte dei produttori non avrebbe reagito come Dino». La cosa non lo impressioni) minimamente. Comunque le reazioni documentate da quelle schede non sono necessariamente fuori tono con il film. Evidentemente toccano determinati nervi. È una questione complicata. È questa la ragione per cui in realtà è il passaparola, dopo il primo fine settimana di programmazione, a decretare il successo o il fallimento di un film. Di colpo le recensioni e le pubblicità suonano vuote e completamente false. Oppure al contrario appaiono veritiere, e la gente le rafforza parlandone in un modo o nellʼaltro. Per Velluto blu ci fu un gran passaparola. È stato importantissimo che se ne sia discusso. Comunque ritengo che una parte del pubblico possa davvero disprezzarlo. Se non ti piace la storia o gli argomenti di cui parla, allora finisci per odiare ogni cosa. Non è un film rivolto a tutti: alcuni lo hanno adorato, altri lo hanno considerato disgustoso e malato. Il che naturalmente è vero, ma in entrambi i sensi. I contrasti sono necessari; i film devono possedere forza, quella del bene e quella dellʼoscurità, in modo da suscitare brividi e scombinare un poʼ le cose. Se ci si ritrae da tutto questo, si finisce dritti a riprendere della comoda spazzatura. Non appena emerge un barlume di forza, alcuni possono pensare alla malattia o al disgusto. Spessissimo,

quando si va allʼestremo, si può rendere ridicoli se stessi o il film. Bisogna credere alle cose che si fanno, in modo da renderle sincere. Non è mia intenzione manipolare il pubblico. Tento solo di andare al cuore della faccenda e lasciare che sia la pellicola a parlare. Lavorare allʼinterno di un sogno: se lo si fa sul serio, e se ci si crede fermamente, si può esprimere pressoché tutto. È inevitabile che alcune persone, e non solamente donne, restino sconvolte dal masochismo di Dorothy e dal sadismo terminale di Frank. Alla prima londinese ci furono dei picchetti fuori dalla sala. Beʼ, questo posso benissimo capirlo. Ma senza quel tipo di rapporto non ci sarebbe stato il film. Capisci cosa voglio dire? Non è che una storia, con quei determinati personaggi che agiscono in quellʼambiente ristretto. Quel genere di reazione non implica necessariamente una richiesta di censura, bensì una critica al trattamento che le donne subiscono al cinema. Assai spesso sono oggetto di violenze e tuttavia non paiono curarsene più di tanto, né fanno granché per difendersi. Certo, ma fa parte della «famiglia umana». Qualcuno là fuori potrebbe di-

Frank Booth (Dennis Hopper) e Dorothy Vallens (Isabella Rossellini) nella «famiglia umana» di Velluto blu (1986).

re: «Conosco una ragazza simile a Dorothy, e anche lei è caduta nella medesima sindrome. E conosco un tipo che assomiglia a Frank, che approfitta della situazione». I due sono fatti lʼuno per lʼaltra. Entrambi sono decisamente squilibrati: ecco perché stanno insieme. Il loro rapporto può funzionare esclusivamente in quella chiave. Non è poi un caso tanto isolato; sono cose che si vedono in giro. Credo che sia nellʼaria. È possibile che la risposta negativa al film, sulla base del rapporto sadomasochistico tra Frank e Dorothy, possa scaturire da una richiesta di qualcosa di diverso, che non avvalori quel tipo di immagini? Dopotutto è la donna lʼelemento masochistico della coppia.

Quel che non è corretto è ritenere che un personaggio come Dorothy Vallens rappresenti tutte le donne. Se fosse così non si potrebbe mai girare una storia con personaggi del genere. Ecco che, se è un nero, rappresenta tutti i neri; se è una donna, tutte le donne; se è un bambino, tutti i bambini. E ci vanno giù pesante! I film trattano di quei particolari personaggi, di quelle date situazioni, di quei piccoli angoli di mondo. Calma! Eppure succede, credimi. Magari non necessariamente così, ma il fatto è che ben presto non si potranno più girare film. Là fuori esistono tanti schieramenti diversi, pronti a farsi sconvolgere da qualsiasi cosa. Dunque come ti sei sentito dopo le reazioni negative ai contenuti di Velluto blu? Sono cose che ti danneggiano, non prendiamoci in giro. Ma poniamo dʼincontrare la persona che ha scritto uno di questi articoli: vedi che tipo è, ti rendi conto della sua personalità, del suo modo di pensare e di comportarsi. Allora sei in grado di comprendere perché ha detto ciò che ha detto, e la cosa non tʼinfastidisce più così tanto. Non che non rispetti il suo punto di vista, ti accorgi solamente che ciò che hai fatto non poteva piacergli. Tuttavia non è possibile conoscere tutti, e quindi usi lʼimmaginazione. Non so cosa sia accaduto alla critica costruttiva: oggi o è un peana o è una stroncatura, e avanti con il prossimo. Come ti poni rispetto ai dibattiti sulla censura? David Cronenberg ha dichiarato che, dato che esiste un sacco di gente - produttori, finanziatori, distributori ecc. intenzionata a censurare aspramente lʼopera di un regista,

per quanto lo riguarda si rifiuta di imporsi qualunque tipo di restrizione. In genere io mi innamoro di una storia, dei suoi personaggi e della sua atmosfera, nella sua globalità. Chiunque crei qualcosa ha davanti a sé una linea che non è disposto a varcare, a nessun costo. Possiede un proprio modo di raccontare le storie e di spingerle fino a quel punto. Se ne ha coscienza solo nellʼintimo. Ecco ciò che si deve continuare a verificare: cʼè sincerità, in questo mondo e in questi personaggi? Poi, una volta che è finita, visto che non puoi esercitare più alcun controllo e devi lasciare che le cose marcino da sole, non dovrebbe esserci nessuno in condizioni di poter dire: «Questo mi turba nel profondo, devi tagliarlo». È assolutamente ridicolo. Se chiunque può metterci lo zampino, in men che non si dica il tuo film sarà ridotto a unʼinquadratura di un angolo di cielo. Ciò nonostante si tratta anche di un problema politico. Anche se da questo punto di vista non si è particolarmente motivati, è pur vero che quando viene distribuita allʼinterno di una cultura, lʼopera assume inevitabilmente una dimensione politica. Se sei una persona che ha motivazioni o opinioni politiche sarai portato a vedere qualunque cosa in termini politici. Se sei una persona molto religiosa vedrai qualunque cosa in termini religiosi. È per questo che devi solamente concentrarti sul tuo lavoro e lasciare da parte il resto. Credo che la politica abbia una collocazione precisa, e se non ti spingi al di sopra di quel livello finirai per andare incontro a ostacoli e frustrazioni. È un dilemma infinito, una situazione

senza via dʼuscita: esistono due parti, opposte e articolate, ma nessuna ascolta lʼaltra e le cose non cambiano mai. E qualunque evento capace di fare la differenza avviene comunque al di fuori di questa contrapposizione. Pare proprio una storia dellʼorrore! Non mi piace neppure lʼuso dellʼespressione «politicamente corretto», poiché la considero unʼinvenzione della destra; ma che significato riveste per te? Ti dirò io quei che significa: è una specie di complotto malvagio, satanico! Una diavoleria. Un modo falso per non offendere nessuno. Essere politicamente corretti significa collocarsi tiepidamente in quel bizzarro angolino in cui non si commette alcunché di offensivo. È come se ci si nascondesse. Peraltro è una situazione complicata, non è così? Dal momento che la lingua veicola la politica, il problema non è tanto impedire agli artisti di essere creativi, ma trovare un linguaggio e delle immagini che consentano alle persone di mantenere la propria dignità. Già. Ma prendi il caso di On The Air, una sitcom che stavamo girando: uno dei personaggi, «Blinky», era cieco. Allora ci dissero: «Non potete presentare un cieco. Ci scherzate sopra, vi prendete gioco dei ciechi». Mi ricordo di Itʼs a Gi , un film con W.C. Fields nel quale a un tratto compariva un cieco con un bastone, ed era una situazione incredibilmente divertente. Ora siamo arrivati al punto in cui i ciechi hanno unʼassociazione e qualsiasi battuta su di loro viene messa al bando come insulto. In questo modo una delle vie maestre dellʼumorismo viene sbarrata. Lʼumorismo possiede un

lato rozzo che fa ridere la gente. Ignoro cosa lo inneschi, ma la realtà è che battute come quelle non hanno alcuna intenzione di offendere i ciechi, mai in un milione di anni! Cuore selvaggio abbonda di persone «sfortunate». Non è che per caso la tua posizione in merito è della serie: «Guardate questi scherzi della natura, e ridetene»? Assolutamente no! Sono persone che appartengono a questo mondo. Come il personaggio di Grace Zabriskie, quello con la gamba finta. Non so esattamente da dove venne fuori, ma sta di fatto che parecchie situazioni analoghe emergono casualmente. Come quel tizio che voleva interpretare il direttore dellʼalbergo; era tutto pronto per la sua partecipazione al film, quando ecco che chiama Johanna Ray e le dice: «Mi dispiace tanto, ma non posso fare il film!». «Perché?» gii chiede Johanna. «Beʼ, mi sono rotto un piede, e ho unʼingessatura enorme.» Allora Johanna mi fa: «Non può prendere parte al film». «Che stai dicendo? È fantastico, ci sarà eccome!» rispondo. Infatti prima non lo volevo proprio perché aveva tutti e due i piedi sani! Così lʼho preso nel cast. Poi cera questʼaltro tipo vecchissimo, con il bastone. Tutti costoro non erano fisicamente al 100 per cento, per un motivo o per lʼaltro, e questo diventò parte della scena. Si avvertiva la sensazione di gioia di ciascuno nello stare insieme, succeda quel che succeda. Il che è grandioso. E poi cʼè unʼaltra cosa: tutti sono i benvenuti. Ecco come dovrebbe essere. Il film indipendente Si gira a Manhattan (1995, di Tom DiCillo) ti ha inflitto una stoccata esibendo un nano in una

sequenza onirica: come se questo garantisse automaticamente un certo tasso di «bizzarria». Cʼè stato mai qualcuno che ti obiettasse qualcosa a proposito dellʼ«Uomo che viene da un altro posto», per esempio che utilizzavi la statura di Michael Anderson semplicemente per denotare «stranezza»? No, non che io ricordi. Voglio dire, chi mai potrebbe avere dei problemi con il piccolo Mike? (Ride)

1

* Città del legname [N.d.T.].

7. Allʼimprovviso casa mia è diventata un albero di piaghe Un racconto di Twin Peaks

Fu uno shock apprendere che David Lynch era impegnato in una soap opera per la televisione americana: la sensibilità alla quale si dovevano Eraserhead e Velluto blu avrebbe mai potuto trovare adeguata espressione nel più conservatore dei generi? Tuttavia, grazie alla collaborazione con Mark Frost, che vantava una notevole esperienza nel campo del teledramma settimanale, nacque Twin Peaks.1 E se è vero che le limitazioni imposte dal «gusto» e dai contenuti posero a Twin Peaks alcuni problemi oggettivi, in qualche occasione stimolarono la ricerca di soluzioni ingegnose. Lynch ha le idee chiare a proposito delle ripercussioni negative che lʼuso del mezzo televisivo ha sul suo lavoro. È interessante osservare come esse siano legate principalmente alla qualità (o alla mancanza di qualità) dellʼimmagine e del suono, come pure alla difficoltà di parlare direttamente a un pubblico attraverso un mezzo dominato da distruttori di sogni (gli spot pubblicitari) e da palinsesti capricciosi. Alcuni critici hanno dato per scontato che, nellʼambito della collaborazione Lynch/Frost, il primo detenesse i diritti esclusivi sul fattore «stranezza», mentre Frost provvedesse alle strategie e alle pratiche di lavoro necessarie alla creazione e produzione della serie. Comunque sia, questa versione ignora alcuni dei più

stravaganti contributi di Frost a programmi come Hill Street giorno e notte (Hill Street Blues), nonché il fatto che la collaborazione avesse già prodotto una bizzarra sceneggiatura intitolata One Saliva Bubble. Robert Engels, che ha collaborato a sceneggiare la serie di Twin Peaks e il film Fuoco cammina con me ed è amico di Frost e Lynch, ne riassume così le premesse: «È la storia di una bolla elettrica che si forma in un computer e scoppia sopra la città mutando la personalità degli abitanti; per esempio quella di cinque allevatori, che allʼimprovviso si credono ginnasti cinesi. Una cosa folle!». Ironia della sorte, la forma della soap opera offriva a Lynch la possibilità di tornare al suo sogno di sempre. La storia a episodi di Twin Peaks, dal lungometraggio pilota ai ventinove episodi seguenti, gli consentiva dʼimmergersi nel proprio mondo come era stato per Eraserhead. Il risultato, evidentemente, fu che Twin Peaks lo tenne legato più a lungo di quanto la serie sia sopravvissuta alla rete televisiva e alla fedeltà dei telespettatori: in seguito Lynch sentì lʼesigenza di ritornare alla città e ai suoi personaggi per un prequel, intitolato Fuoco cammina con me. Inoltre, più efficacemente che non nei lungometraggi, la formula della storia a episodi consentiva al regista di sviluppare alcuni suoi interessi chiave. Dato che la struttura della soap opera era in grado di ospitare e conservare un gran numero di personaggi diversi, Lynch era libero dʼindulgere alla sua passione per il ritmo del dialogo e per le particolari qualità delle voci degli interpreti. Qui lʼinfluenza della foresta e del bosco (da suo padre) e quella del linguaggio (da sua madre) si fanno sentire più intensamente che mai, così come

emerge la capacità di Lynch di generare emozioni insostenibili: la serie è straordinaria per le numerose scene di nudo, dolore e disperazione, spesso espressi attraverso un pianto incontrollato. La prima serie di Twin Peaks riscosse un enorme successo di pubblico in tutto il mondo. Questa la ragione secondo Robert Engels: «Era una serie su una colpa indefinita. Catturava qualcosa cui il pubblico reagiva con le emozioni. E poi i personaggi di Twin Peaks erano così realistici: un elemento che manca, in altre serie. Non abbiamo mai avuto dei fan tipo “Trekkie”2; quelli che seguivano Twin Peaks erano più, diciamo così, dei lobbisti della Generai Motors». Anche le reazioni della critica furono entusiastiche, sebbene il successo e (si direbbe) lʼassalto portato a un amatissimo «genere per famiglie» abbiano inevitabilmente dato adito a un certo scetticismo. Mentre alcuni critici si domandavano se la televisione o i telespettatori fossero pronti per Twin Peaks, altri accusavano il programma di essere un treno postmoderno che non portava da nessuna parte. La genuina inclinazione di Twin Peaks per alcune convenzioni del mélo televisivo fu spesso giudicata - in modo perverso - troppo ironica e consapevole. Lʼabbandono della seconda serie da parte di Lynch per la realizzazione di Cuore selvaggio non contribuì certo positivamente, e ben presto il programma venne interrotto. Nel 1992, quando Lynch presentò Fuoco cammina con me, la critica aveva già assunto toni ostili, e soltanto ora il film comincia a godere di una favorevole, seppur cauta, rivalutazione. Si tratta indubbiamente di una delle

più crudeli e desolate «visioni di quartiere» lynchiane, ed è riuscita a scontentare perfino i più accaniti fan della serie. Lynch ha rifiutato lʼovvio: il film non riprendeva la storia laddove la serie si era interrotta (il finale sospeso con il trionfo di Bob sullʼagente speciale Dale Cooper), né si limitava a riprendere le trame secondarie, lʼumorismo e le semplici battute prese dalla strada che avevano reso tanto popolare il programma. Il film sceglie invece di ritornare a un passato nascosto - gli ultimi giorni di Laura Palmer - per un brillante, lacerante racconto dʼincesto, abuso e brutalità. Svelato il cuore stesso della serie, Lynch dovette rassegnarsi al fatto che molto probabilmente non sarebbe mai più tornato alla città di Twin Peaks. RODLEY:

Mark Frost, tuo collaboratore nella creazione e realizzazione di Twin Peaks, proveniva dalla televisione ed era famoso per aver lavorato a fortunate serie «realistiche» sui poliziotti, come Hill Street giorno e notte. A prima vista sembrate una coppia improbabile. Come nacque il vostro sodalizio? LYNCH:

(Ride). Cercherò di spiegarlo, ma spesso è impossibile dire come accadano certe cose. Tutto cominciò con Marilyn Monroe. Mark si era fissato su un libro sulla Monroe, intitolato The Goddess; un giorno mi telefonò un produttore della Warner Brothers, dicendo che desiderava parlarmi per realizzare un lavoro su Marilyn Monroe ispirato a quel libro. La cosa mi interessava abbastanza. Mi piaceva molto lʼidea di quella donna nei guai, ma non so se mi piaceva il fatto che fosse una storia vera. Mark ne avrebbe scritto la sceneggiatura e io lʼavrei diretto. Non sapendo con

assoluta precisione da che parte sarebbe girato il vento, accettai. Mi incontrai con Mark, ne parlammo e poi lui si mise a scrivere. Un giorno andai a colazione con Mark a un Carnation Dairy, sulla Wilshire. Una volta seduti gli domandai: «Mark, la commedia ti ha mai interessato?». «Sì» rispose. E io: «Ti andrebbe di scrivere una commedia con me?». «Certo.» «Si intitola One Saliva Bubble.» «Stupendo.» Allora ero con Dino, perciò ci prendemmo una stanzetta da lui e cominciammo a scrivere. Eravamo sulla medesima lunghezza dʼonda. Ci rotolavamo per terra dal ridere. Uno spasso! Ridevamo e scrivevamo, ridevamo e scrivevamo. Così portammo a termine One Saliva Bubble e solo per un soffio non realizzammo il film. Non ricordo che cosa andò storto. Nemmeno The Goddess funzionò. È per questo che ora sono amico di Mark. Come arrivaste, da questo sodalizio professionale, fino a Twin Peaks? Fin dai tempi di Velluto blu, il mio agente Tony Krantz era ossessionato dallʼidea di farci fare qualcosa per la televisione. Ma noi nicchiavamo: «Mah, sì, chissà». Un giorno, Mark e io stavamo parlando al Du Pars, la tavola calda allʼangolo tra Laurei Canyon e Ventura, e a un tratto ci venne in mente lʼimmagine di un corpo avvolto nella plastica e trasportato dalla corrente sulla riva di un lago. E quellʼimmagine fu allʼorigine di tutto? Certo. Fu così che ebbe inizio la cosa (Ride). In origine si intitolava Northwest Passage-, era una storia ambientata

in una cittadina del North Dakota. Ma non la consideravamo unʼidea tanto importante. Ci sentivamo piuttosto liberi, aspettavamo di vedere che cosa sarebbe successo. Quello che mi piaceva era lʼidea di una lunghissima storia a episodi. Comʼera organizzato il vostro lavoro di scrittura a quattro mani? Soprattutto nelle fasi iniziali lavorammo insieme, poi cominciammo a scrivere separatamente. Mark è un vero e proprio genio del computer. Nel suo studio di casa ha computer e scrivanie concepiti per il mondo informatico. Ha anche una specie di chaise longue da psicanalista sulla quale mi sdraiavo sempre. È bravissimo a battere sulla tastiera, mentre io sono negato. Perciò lavoravamo a casa sua. Scrivemmo qualcosa e poi io, non so più per quale ragione, dovetti tornare a New York; così comunicammo attraverso un modem installato a casa di Isabella Rossellini. Stavamo al telefono e al computer: Mark stava alla tastiera e io vedevo apparire le parole davanti a me. Strabiliante! Poi tornai a Los Angeles e terminammo il lavoro nella stessa stanza. Infine me lo portai a casa, mi sedetti a leggerlo e capii che era un ottimo lavoro! Allora telefonai a Mark per dirglielo. E lui: «È vero! Lʼho appena letto!». La cosa ci sorprendeva. Tuttavia la Abc ci fece aspetta re un bel poʼ prima di firmare. In realtà, a quei tempi non avevi alcuna esperienza di televisione. Alla Abc come reagirono allʼidea, sulle prime? Come andarono le riunioni? Beʼ, il giorno che proponemmo Twin Peaks alla Abc, Mark passò a prendermi e percorremmo in macchina

Mclrose. Io guardo sempre le targhe delle automobili; avevo cominciato a farlo prima di Eraserhead. Eravamo sul Sunset Boulevard e davanti a me cʼera una Volkswagen tutta scassata, ma la targa portava le mie iniziali, DKL, e dei numeri. La cosa mi era sembra ta di buon auspicio. Così avevo cominciato a credere che vedere le proprie iniziali, in qualsiasi ordine, fosse un buon segno (che cʼè di male?). E se i numeri, sommati tra loro, te ne danno uno che ti è favorevole, meglio ancora; aggiungici unʼautomobile in buono stato e sei a posto! Il massimo poi sarebbe trovare le iniziali nellʼordine giusto, numeri che danno una somma che ti piace e una bella macchina. Così Mark e io stavamo svoltando in Santa Monica Boulevard, appena prima di Doheny, quando dalla nostra parte arrivò una Mercedes bianca nuova fiammante. Sulla sua targa cerano le mie iniziali e un buon numero! E allora dissi: «Mark, andrà tutto benissimo!» Cosa proponeste esattamente alla Abc? Il tema principale era il mistero di chi ha ucciso Laura Palmer, che però poi sarebbe scivolato leggermente in secondo piano a favore degli altri abitanti della città e dei loro problemi. Ogni settimana lʼepisodio si sarebbe concentrato su alcuni aspetti. Il progetto era di mescolare un poliziesco a una soap opera. Avevamo disegnato una piantina della città e conoscevamo la posizione di ogni cosa; questo ci aiutò a stabilire lʼatmosfera dominante e ciò che vi sarebbe accaduto. È difficile dire come Twin Peaks sia diventato Twin Peaks.

Forse non sapevamo nemmeno noi che cosa fosse. Ma alla Abc dissero che volevano fare il pilot. Trascorse molto tempo tra la realizzazione dellʼepisodio pilota e quella della prima serie? Sì. Una volta che il pilot è terminato non riescono mai a prendere una posizione. Per loro è impossibile decidere da soli. È gente assurda. Da non credere. Spediscono lʼepisodio a Philadelphia e poi lo mostrano a gruppi di «collaudatori» - donne, uomini, bambini, nonne - che compilano delle schede. E dopo averle lette chissà cosa fanno: probabilmente lanciano una moneta o qualcosa del genere. Comunque, per una ragione o per lʼaltra, decisero di realizzare la serie. Altri sette episodi. Così ci trasferimmo a Balboa, in un enorme capannone adibito a studio, e cominciammo ad allestire i set. Avevamo una scorta di pellicola avanzata dal pilot, e qualcuno faceva la spola per portare altro materiale; poi però lasciammo la location e andammo a girare in studio. Il motivo ricorrente del caffè con la torta era parte integrante del progetto fin dallʼinizio? Certo. Era già nel pilot. Non so se fosse effettivamente nella sceneggiatura. Fu tra le cose più entusiasmanti. Fare quellʼepisodio mi diede un gran senso di libertà. Lʼeuforia che ti prende quando pensi: «Forse tutto questo non porterà a niente; facciamolo come si deve». Eppure caffè, ciambelline e torta di ciliegie sono forse le cose che la gente ricorda di più.

Sì, lo so! Ed è un fatto interessante. In effetti la torta di ciliegie e il caffè erano già nella sceneggiatura, ma con lʼandare del tempo acquistarono un maggior peso. Fu difficile trovare una location che rispondesse alla tua idea di quella città? Beʼ, quando prese forma lʼidea del Nordovest andammo da quelle parti, e grazie a un bel poʼ di ricerche scovammo dei luoghi meravigliosi. La segheria, per esempio. Una bellissima vecchia segheria. Adesso, quando piantano un albero, lo fanno crescere finché raggiunge il diametro di circa settanta centimetri e poi lo abbattono. Allora invece cera un posto, lʼOld Stand, dove gli alberi erano antichi. Uno dei miei legni preferiti è il Douglas Fir a striature verticali. Un legno stupendo. Adesso è tutto diverso. Gli anelli sono più distanti tra loro, perché gli alberi sembrano più che altro erbacce.

La mappa di una soap opera.

Li lasciano crescere un poʼ e poi, zac!, li buttano giù. Adesso hanno addirittura una pinzona, per tirarli giù: non li tagliano nemmeno, li pinzano! A ogni modo in quel posto ci avevano messo da parte dei tronchi di un metro e mezzo o due di diametro che galleggiavano in un laghetto. Li mandavano su con un grande convogliatore a nastro continuo e li tagliavano con unʼenorme sega circolare. Dopodiché arrivava una donna con cappello rigido e bastone e toccava il ceppo. È la persona più pagata della segheria. Non capisco: una vera «Signora ceppo»? Beʼ, toccava il ceppo e annotava qualcosa su un quadernetto, e si prendeva un sacco di soldi. Da lì il ceppo veniva buttato giù per una rampa e afferrato dal segatore con enormi attrezzi idraulici. Con otto, dieci leve davanti a sé, faceva passare quel coso in una sega a nastro in acciaio, alta qualcosa come dodici metri e spessa cinque o sei millimetri; il ceppo (che massa potrà avere un ceppo gigantesco?) sbatte contro la sega e questa non fa neanche una piega: è talmente affilata e veloce che lo taglia come se fosse burro. Poi il segatore lo taglia in varie forme e dimensioni. La ragione per cui la signora è pagata più di tutti è che sa perfettamente che cosa ne farà il segatore e ha già calcolato mentalmente quanti metri di assi si ricaveranno da quel ceppo. La vecchia segheria venne demolita due mesi dopo il nostro arrivo. Ne costruirono una più piccola ma altrettanto efficiente, in grado di lavorare solamente ceppi del diametro massimo di sette metri. Era bellissima. Per circa quattro giorni girammo sia interno

che allʼesterno, sfruttando tutte le immagini: le lame della sega e tutto il resto. Lʼintenzione non era di usarle per i titoli di testa, dove poi vennero inserite. Immagino che siate rimasti un bel poʼ da quelle parti. Che accoglienza avete avuto? Erano tutti felicissimi. Cʼè una storia a proposito del Doublé R Diner: una volta, quando la highway tagliava la città, quel diner faceva ottimi affari. Poi, dopo la costruzione della grande freeway, nessuno si fermò più. Quando arrivammo là, la proprietaria - si chiamava Peggy, credo - faceva sì e no sei torte al giorno, forse meno. Dopo Twin Peaks ne faceva sessanta! Gli autobus scaricavano davanti al locale tedeschi, giapponesi, gente da tutto il mondo che entrava nel diner e prendeva caffè con torta alle ciliegie. Quel posto rimarrà per sempre sulle mappe!

Lo sceriffo Harry S. Truman (Michael Ontkean) e lʼagente speciale Dale Cooper (Kyle MacLachlan) si godono un fantastico caffè con ciambelline in Twin Peaks (1989).

Così la città di Snoqualmie sta ancora speculando su Twin Peaks? Già. Ogni estate organizza un Twin Peaks Festival. Per Peggy gli affari sono peggiorati di nuovo, ne sono certo, ma ci sarà sempre qualcuno che si fermerà da lei. Almeno lo spero: è una donna eccezionale e fa torte eccezionali. Durante la produzione, in che modo tu e Mark avete collaborato e distribuito le forze? Mark è un ottimo complemento, rispetto a me, ma non saprei dire in che modo. È molto brillante (e questo compensa un mio punto debole!), ha fatto studi diversi dai miei e capisce sempre quello che dico. Probabilmente mi ha aiutato ad avvicinarmi al mondo reale. Con quanto anticipo fu progettato lo sviluppo narrativo di Twin Peaks? Avevate già unʼidea sufficientemente precisa della direzione che avrebbe preso? Certo. In tv cʼè un nome per ogni cosa. Per la storia, per esempio, si parla di «curva»; dove porta, chi agisce, che cosa succede e così via. E, dato che avere un progetto è una cosa razionale, buttammo giù la nostra curva, anche se è sempre molto generica e il divertimento sta tutto nel riempire gli spazi vuoti. In ogni modo, quelli della televisione si mostrarono soddisfatti.

Mi chiedo se per Twin Peaks hai avuto lʼopportunità di lavorare sulla dimensione spaziale. Generalmente le serie televisive americane non comunicano alcun senso dello spazio, nonostante parecchie tra loro mutuino il proprio titolo dal nome di una città o di un luogo. È vero. Mi ero immaginato un posto circondato da boschi. È un aspetto importante: da che si ricordi, i boschi sono sempre stati considerati luoghi misteriosi. Per me erano come dei personaggi. Poi ci vennero in mente altri personaggi: quando cominci a popolare un luogo, da cosa nasce cosa, finché a un certo punto viene a crearsi una certa comunità. Ed è la natura stessa di quei personaggi a darti dei suggerimenti su come potrebbero agire, mettersi nei guai, o su come il loro passato potrebbe riemergere e ossessionarli. In tal modo disponi di diversi elementi su cui lavorare. Il Nordovest possiede qualcosa di unico. Ho sempre trovato sorprendente la maniera in cui quel luogo viene interpretato in ogni parte del mondo. La gente lo capisce e lo apprezza immediatamente, e lo fa suo. Davvero incredibile. Questo perché, secondo te, è un luogo molto peculiare? Può darsi. Ma di fronte a un luogo estremamente specifico la gente avrebbe potuto anche disinteressarsene completamente! (Ride) È un mistero. Perché mai in Giappone guardano tanto Twin Peaks? O in Germania, in Australia? Il fatto è che riusciva a catturare qualcosa.

Per molti versi la serie sembrava sfidare gli standard televisivi. È vero, ma non era nelle nostre intenzioni. Se fai una cosa soltanto perché sia diversa dalle altre parti con il piede sbagliato. Derivò tutto dalle idee: avremmo anche potuto realizzare il pilot e sette episodi senza concludere nulla di buono. In Europa è circolata una versione lunga dellʼepisodio pilota, disponibile in cassetta, che forniva un maggior numero di indizi sullʼomicidio di Laura Palmer grazie allʼaggiunta di alcune scene con Killer Bob, un personaggio che nella serie compariva soltanto dopo tre puntate. Come mai hai girato più di una versione? Poteva rivelare troppe cose e troppo presto? Ci avevano detto che bisognava fare così. La Abc stanzia una certa cifra per il pilot, o per un episodio, ma, chissà perché, non è mai sufficiente; è quasi una regola. Per cui devi trovare un finanziamento per colmare il deficit; ciò significa che unʼaltra società deve metterci il resto dei soldi, che non sono poi moltissimi. In realtà è una truffa: in cambio della miseria che ti danno ottengono i diritti per tutto il mondo. Chi è furbo non accetterebbe mai, e farebbe lʼepisodio con i soldi della Abc. Un poʼ di buon senso! Ma nel nostro caso ci convinsero: «Si fa così e basta». In seguito, a lavorazione iniziata, mi diedero altre indicazioni. Me ne avevano già parlato, ma non gli avevo dato ascolto. Alzarono la voce sempre di più, finché capii: «Devi girare un altro finale. Ci vuole un finale per i mercati stranieri». Avevo sempre creduto che, se mi fosse mai capitato, avrei risposto: «Scordatevelo!».

Chiunque, credo, si sarebbe limitato ad attaccarci un finale posticcio, ma con quale coraggio? Se una cosa esce con la tua firma deve avere un senso, giusto? Avevamo solamente ventiquattro giorni per girare il pilot. E faceva freddo. Non puoi nemmeno immaginare che freddo faceva! Entrai in un negozio di equipaggiamento per la montagna e mi dissero: «Questi pantaloni hanno le tali e le talaltre caratteristiche: ci potresti sopravvivere anche sullʼEverest». Avevo pantaloni impermeabili, scarponi, il meglio che ci fosse sul mercato. Quasi non riuscivo a camminare, con addosso quella roba. Eppure certe sere morivo di freddo. Faceva un gelo incredibile! Eravamo stanchi, giravamo di notte, fuori cera un freddo cane e non ci muovevamo poi molto, ce ne stavamo lì seduti. Era un freddo umido: ti entrava nelle ossa e ti faceva tremare. Stavamo impazzendo tutti quanti! È vero che lʼidea di Killer Bob, interpretato da Frank Silva, ti venne solo dopo lʼinizio delle riprese? Non compariva nel primo progetto presentato alla Abc, vero? Infatti. Frank Silva era lʼassistente dello scenografo. Un giorno stavamo girando nella camera da letto di Laura Palmer e Frank era lì, a fare il suo lavoro. Stava spostando dei mobili. A un certo punto mise una cassettiera davanti alla porta. Così in quel momento Frank era nella stanza mentre tutti gli altri erano fuori, e qualcuno, non ricordo chi, fece: «Frank, non rimanere bloccato nella stanza». Allora mi venne unʼilluminazione, e dissi: «Frank, sei un attore?». «Sì.» «Vuoi recitare in questo film?» «Certo!» «Allora ci sarai!»

«Che cosa farò?» «Non lo so ancora, ma sicuramente ci sarai.» Che cosʼera successo esattamente? Beʼ, non ero molto convinto di quellʼidea, ma qualcosa stava succedendo. Avevamo bisogno di una ripresa che consisteva semplicemente in una lenta panoramica nella stanza di Laura. Doveva essere utilizzata per il momento in cui, più tardi quella sera, la madre di Laura avrebbe ripensato al passato. Così girammo due panoramiche normali e poi dissi: «Frank, mettiti in ginocchio dietro il letto, posa le mani sulle barre e rimani lì dove sei. Guarda questo segno e basta. Non muoverti. Non sbattere le palpebre. Guarda e basta». E rifacemmo la stessa panoramica: stessa velocità e tutto il resto. Cʼera un che di spaventoso, perché non sai mai dove ti può portare la situazione. E dove portò? Beʼ, era notte e stavamo girando al piano di sotto, in soggiorno. Avevamo quasi finito in casa Palmer, credo. Grace Zabriskie è lì sul divano e fuma, assorta nei suoi pensieri. È triste, tormentata, meditabonda. Poi vede qualcosa. Avevamo ripreso la collanina a forma di cuore sotto la roccia, e qualcuno che la ritrovava. Probabilmente è questo che sta vedendo. Così a un certo punto si tira su di scatto. Lʼoperatore era per terra, pronto a saltar su per riprenderla. Ed ecco che BAM!, scatta su e lei lancia uno strillo fantastico, come solo Grace sa fare. «Bellissimo!» E lʼoperatore: «Mica tanto». «Che cʼè?» dico io. E lui: «Cʼera qualcuno riflesso nello specchio». «Che nessuno si muova! Dovʼera?» Guardai

nel mirino, e di chi era quel riflesso? In fondo a quel vecchio specchio cera Frank! «Perfetto!» mi dissi. Ma non sapevo ancora che diavolo potesse significare. Killer Bob divenne cruciale sia per la trama sia, soprattutto, per ¡ʼinsolito, spaventoso tono che contraddistingue Twin Peaks. In che modo questi fatti «accidentali» finirono per coagularsi in qualcosa che potesse essere integrato prima nel pilot e poi nella serie? Non ricordo con precisione lʼordine degli eventi, ma nel pilot cera un uomo senza un braccio, Mike. Una sorta di omaggio alla serie tv Il Fuggitivo. La sola cosa che doveva fare era uscire da un ascensore. Nientʼaltro. Il caso però volle che per quella parte disponessi di uno dei migliori attori - e di una delle migliori persone - di tutti i tempi. Fu scritturato perché aveva solo un braccio, ma si rivelò un grande attore e una persona squisita! Sono cose che fanno riflettere. Un giorno, andando a lavorare, avevo scritto queste parole: «Fra le tenebre del passato futuro il mago brama di scrutare. Qualcuno recita, a metà tra due mondi: “Fuoco, cammina con me”». Quel giorno dovevamo girare molte scene brevi in un ospedale, e stavamo raccogliendo materiale per il finale che dovevamo fare. Tastavamo il terreno. Arrivano Cooper e Truman e trovano questo Mike che pronuncia quei versi nel buio quasi completo, con una voce fantastica: lʼavrei considerata tale anche se fosse stata quella di Topolino! Fu più o meno così che venne fuori tutta la faccenda di Killer Bob. Un altro personaggio dellʼaldilà che divenne straordinariamente importante per il tono e lʼatmosfera della

serie è lʼ«Uomo che viene da un altro posto». La sua prima apparizione, sulla scena di un misterioso omicidio ambientato in una città di segherie, è uno shock. Come nacque quel personaggio - o sarebbe meglio chiamarla «astrazione»? Avevo conosciuto Mike Anderson una delle tante volte che avevo pensato di mettermi in moto per Ronnie Rocket. Avevo visto un suo cortometraggio e lʼavevo incontrato in un locale di New York, il McGooʼs. Era vestito dʼoro da capo a piedi: scarpe dorate, pantaloni dorati, giacca dorata. Stava tirando un carretto, credo (Ride), e aveva un bel mucchio di roba da spostare. lo ero appoggiato a unʼautomobile, e cʼerano anche il montatore di Twin Peaks, Duwayne Dunham, e il suo assistente Brian Burdan. Avevamo quasi finito di montare il pilot. E, a un certo punto, TOMBOLA!, mi balenò nella mente unʼaltra idea. Non riuscivo a parlarne; avrei voluto, ma dissi soltanto: «Aiutatemi a non dimenticarla», e fornii al piccolo Mike qualche parola chiave che potesse farmi da promemoria. Durante la prima apparizione di Mike nel sogno di Dale Cooper cʼè un altro particolare impressionante: tutta la scena è girata al contrario. Come ci arrivasti? In Eraserhead doveva esserci un barbone che vendeva matite, e volevo che parlasse in modo strano. Nel 1971 Alan Splet e io avevamo registrato la mia voce che diceva, più o meno: «Ho delle matite», e lʼavevamo fatta scorrere a ritroso, lo avevo memorizzato la frase al contrario e poi lʼavevo ripetuta: era perfetta! Mi ricordai di quellʼepisodio, conobbi Mike e… vidi quella stanza, la Stanza Rossa. Tutto quanto, Cooper e il piccolo Mike.

Così in seguito riprendemmo la scena al contrario, e non solo fu la scena più divertente che avessi mai girato, ma anche il risultato fu straordinario. Non sapevo che cosa significasse, ma si integrava bene. Era stata girata per il finale della versione europea, ma mi aprì un gran numero di opportunità. Se Killer Bob e lʼ«Uomo che viene da un altro posto» furono aggiunti in seguito, che cosa diceste a quelli della Abc? Che lʼassassino di Laura era Leland Palmer? Non dicemmo mai niente a nessuno. Quanto a Bob e Mike, nessuno ci pensava lontanamente, nemmeno noi. Tuttavia nella versione lunga si accenna a Bob ben prima che nel corso della serie: quindi coloro che la videro furono messi al corrente in anticipo. Sì, ma il finale poteva anche sembrare del tutto autonomo. Lʼho rivisto non molto tempo fa. Succede tutto molto velocemente e comunque non cera niente di veramente elaborato; erano tutte indicazioni per il futuro.

Un piccolo mistero. Lʼ«Uomo che viene da un altro posto» (Michael Anderson) balla al contrario in Twin Peaks (1989).

Le tracce delle mie lacrime. Sarah Palmer (Grace Zabriskie) apprende della morte della figlia in Twin Peaks (1989).

Nellʼepisodio pilota si piange molto. Piange il vicesceriffo Andy Brennan quando cerca di fotografare il cadavere di Laura Palmer per i documenti della polizia; piangono a lungo e

dolorosamente entrambi i genitori di Laura; piangono il preside della scuola e i compagni di classe di Laura. Pare che le lacrime ti piacciano molto. È così? Già, credo proprio di avere un debole per le lacrime. Ragazze che piangono, uomini che piangono, donne che piangono: il pianto in generale. Se sono lacrime davvero sentite possono avere una grande forza. Sono contagiose, come gli sbadigli. Prendi Andy: è un uomo, eppure piange. Vedere un poliziotto in lacrime è un fatto raro. Credo che venga da Roy Orbison! No, in questo caso, succede quando qualcosa consolida lʼidentificazione e trova libero sfogo. Quando una persona non può terminare una frase e la strozza in un certo modo, rimani imbambolato. È una sensazione che conosci, e ti travolge. Sarah Palmer è al telefono con suo marito Leland proprio nel momento in cui questʼultimo, avvicinato dallo sceriffo Truman, si rende conto della sorte toccata alla figlia. È una scena che, con il dolore che i due esprimono attraverso il telefono, prolunga lo strazio in modo realmente insostenibile. In che misura lo si deve a unʼesasperazione del modello della soap opera televisiva? Non è unʼesasperazione. Si tratta di vedere due persone che apprendono una notizia terribile. Succede per gradi, sequenzialmente, mentre il pubblico ne sa molto più di loro. È così doloroso. Lo spettatore sa che i due si trovano in luoghi diversi ed è in condizione di prevedere gli eventi, quando vede giungere lʼauto dello sceriffo Truman.

Il fatto si ripete, non molto dopo, quando in classe il posto vuoto di Laura provoca una reazione a catena. Entra il poliziotto, i compagni si scambiano occhiate, una ragazza attraversa di corsa il prato urlando, e tutti scoppiano in un pianto incontrollabile… Esattamente. Tuttavia sono cose che capitano nella vita. La mente, come un investigatore, compone i tasselli e arriva a una conclusione. E una volta che se ne subisce il contraccolpo è tutto finito, finito. Anche in questo caso il pubblico è più informato dei personaggi: pertanto, quando vede qualcosa come una sedia vuota in unʼaula, ci aggiunge quello che già sa. Il personaggio dellʼagente speciale Date Cooper si sviluppò durante la lavorazione o aveva fin dallʼinizio una fisionomia precisa? Aveva già una fisionomia precisa. Kyle era nato per quella parte. Kyle ebbe una parte importante nella determinazione del personaggio o della serie in generale? Beʼ, Kyle ha una passione per certi aggeggi. Per esempio un certo tipo di accendino, o un certo tipo di coltello, o quei serramanici con annessi cacciaviti e altre cose del genere. Una volta mi diede una specie di pietra focaia e un affarino con cui accendere il fuoco. E poi fa un sacco di facce da bambino allegro, se lo lasci per conto suo. Fece confluire tutti questi elementi nel personaggio, e recitando se stesso contribuì molto alla creazione di Cooper.

Cʼè però un aspetto di Kyle che contrasta con Cooper. Non dico che non «fosse» Cooper quando era diretto da altri registi, ma qualche volta dovevo incitarlo a ingranare una marcia diversa. È il suo carattere, ogni tanto tende a rilassarsi un poʼ troppo, o a farsi serioso3 e a perdere lʼenergia, la prontezza e la vivacità che invece ha Cooper. Bisogna fare attenzione, perché ci sono molti altri elementi in Kyle che non appartengono a Cooper. Come in una scultura, devi scalpellare via tutte le parti di troppo. Allʼinizio sembra un tipo normale, magari un poʼ insolito, e soltanto nel quarto episodio, quando nella foresta propina un sermone zen al dipartimento dello sceriffo, ci si rende conto di quanto sia stravagante. Come nacque questa idea? Ero andato a Hollywood a incontrare il Dalai Lama e mi ero infiammato per le condizioni del popolo tibetano. Avevo detto a Mark: «Dobbiamo fare qualcosa». Lʼintera scena scaturì proprio da quellʼincontro con il Dalai Lama, e finì per aggiungere un tassello al personaggio di Cooper. A quei tempi Cooper sembrava unico nel genere poliziesco, perché usa la mente, il corpo e soprattutto lʼintuito. Già, lʼintuito. È davvero un investigatore molto intuitivo.

Dentro, fuori. Lo sceriffo Harry S. Truman (Michael Ontkean) e lʼagente speciale Dale Cooper (Kyle MacLachlan) stanno per svelare un altro capitolo della vita misteriosa di Laura Palmer in Twin Peaks (1989).

E in seguito appare chiaro come mai lʼintuito fosse tanto necessario. Certo. Per un poʼ, in un certo senso, fu lasciato libero di crescere e svilupparsi, ma poi si verificarono altri eventi dovuti allʼesigenza di risolvere il caso di omicidio; perciò, parallelamente, nel terreno vennero introdotti dei veleni che di lì a poco avrebbero ucciso la pianta. La seriegioca continuamente sulla confusione fra dentro e fuori: tutti gli interni sono di legno grezzo; sul tavolo dello sceriffo Truman ci sono grosse teste di cervo; la Loggia Nera, con le sue tende rosse, si trova nel cuore della foresta ecc.; inoltre, quando Leland confessa/mette a fuoco lʼomicidio della figlia, nella stanza sta piovendo. Si tratta di una scelta deliberata? Veramente no. La confusione dentro/fuori è… In realtà non lʼho mai detto, ma per me la vita e il cinema hanno a che fare proprio con questo.

Puoi parlarci della sequenza alla fine del terzo episodio, quella in cui Laura, in sogno, rivela a Cooper lʼidentità del suo assassino? Gli spettatori non colgono la risposta, ma Cooper sì. In seguito però, allʼinizio del quarto episodio, lʼha già dimenticata! Era una sorta di falsa pista, che serviva a creare un poʼ di suspense. Tutti hanno provato esperienze del genere, per esempio una conversazione notturna sotto lʼinflusso di qualcosa. A un certo punto ti pare di aver afferrato una cosa e la mattina dopo scopri che è assurda o che lʼhai dimenticata, o tutte due le cose insieme! Potrei razionalizzare qualunque cosa, o quasi. Non so perché sia successo tutto questo. Era un piccolo spiraglio su qualcosa di misterioso e di stuzzicante. Nella serie ricorrono due inquadrature che. forse proprio in virtù della loro ripetizione, sono diventate fortemente evocative: il vento tra gli alberi e i semafori sospesi, anchʼessi mossi dal vento. Come sorsero queste immagini? Beʼ, Laura vede per lʼultima volta James, o James vede per lʼultima volta Laura, allʼincrocio tra Sparkwood e la 21; i semafori si trovano lì, e a causa della neve e degli sbalzi di temperatura dovevano essere in grado di muoversi con elasticità. Ecco perché oscillavano al vento. Quei semafori acquistarono una certa importanza; li utilizzammo anche per la scena in cui Cooper dice: «Tutti quegli omicidi sono stati commessi di notte». Perciò lʼimmagine del semaforo rosso, o del semaforo che muovendosi scatta sul rosso, produce unʼemozione. Così come ti fa riflettere il ventilatore fuori della camera di Laura, nel corridoio: ti mette davvero i brividi!

James è un personaggio interessante: è un motociclista, e a quanto pare tutti i motociclisti della città bazzicano al Roadhouse, dove ascoltano le bellissime canzoni malinconiche cantate da unʼangelica lutee Cruise: un passatempo che si oppone a quello di staccare a morsi la testa ai polli! Proprio così! Vedi, lʼidea era che a Twin Peaks i motociclisti fossero gli intellettuali, i beatnik. Al contrario, i «tamarri» se ne stavano fuori ad ascoltare tuttʼaltro. Era proprio un bel branco di motociclisti «intellettuali»! (Ride) A quei tempi la tua collaborazione con Angelo Badalamenti procedeva a gonfie vele. Ormai per il pubblico è impossibile pensare alla serie senza avere nelle orecchie la sua musica, che sembra conferire solidità a quel mondo che tu e Mark Frost volevate creare. Oh, andava a gonfie vele, non cʼè dubbio. Dopo aver scritto Fading, Angelo e io ci incontrammo nel suo ufficio/studio per il tema di Laura Palmer. Mi chiese: «Sei in grado di descrivermi ciò che desideri?», ma io gli risposi che non ne ero sicuro. Così, mentre gli parlavo, si mise a scrivere e suonare. Lʼepisodio pilota era già stato girato e stavamo lavorando sulle immagini. Non ricordo la precisa sequenza degli eventi, ma so di aver detto: «Deve crescere!». Angelo lo stava facendo crescere, quel pezzo, ed era così bello che mi vennero le lacrime agli occhi! Lui allora mi guarda e fa: «Sei matto?». E io: «Angelo, è così bello! Non riesco nemmeno a spiegarti quanto». Lui sembrava un poʼ confuso; da quella volta mi ha detto spesso: «Sai, David, io mi fido di te, ma non ho

mai pensato che quel pezzo fosse tanto bello quanto sembra a te». È il solo cui non sia mai andato veramente a genio. Non gli pareva granché. La musica diventa importante anche per la narrazione. Spesso è proprio quando Julee Cruise canta che cominciano a verificarsi nuovi eventi. È come se la musica li generasse o ne creasse la consapevolezza, come quando il Gigante compare e dice a Cooper: «Sta accadendo di nuovo». Beʼ, le canzoni preesistevano alla scena; in quel punto ce nʼerano già un paio, e inoltre capitavano un bel poʼ di imprevisti. Cooper era lì con Truman e la «Signora ceppo», e Julee cantava. Bobby Briggs, che quel giorno non doveva lavorare, era passato allo studio a prendere non so più che cosa. Mentre ci preparavamo a girare gli dissi: «Bobby, dovresti esserci anche tu in questa scena». E lui: «Dʼaccordo, benissimo. Cosa devo fare?». «Te ne stai seduto lì e basta.» Di colpo ci fu unʼondata di emozione, e tutti furono sopraffatti dalla tristezza. Stava succedendo qualcosa, era quasi tangibile: riempiva la stanza intera, ed era tanto triste da schiacciarti. Poco dopo Donna si mette a piangere, sotto gli occhi di Cooper: lui è lʼunico ad avere un quadro completo della situazione, insieme forse alla «Signora ceppo». Poi anche Bobby cede e Donna lo avverte visibilmente, commossa da un che di astratto. Ma per me il momento decisivo fu quello in cui è Bobby a intristirsi: e pensare che era passato di lì per caso… È stato straordinario, perché se una persona che conosce il proprio personaggio prova commozione, allora significa che sta veramente avvenendo qualcosa.

Una particolarità del casting di Twin Peaks pare essere la presenza di attori che ricordiamo di aver visto nei film della nostra infanzia: attori quasi recuperati dalla pensione, volti che riemergono dal passato dotati di un loro particolare «bagaglio». Russ Tamblyn, per esempio. Beʼ, Dennis Hopper mi organizzò una festa di compleanno e mi presentò a Russ Tamblyn, che mi disse: «Dovremmo fare qualcosa insieme»; gli risposi: «Sai, Russ, ti ho visto lavorare, e credo che dovremmo proprio». Quindi era uno che avevo già in testa. Il nome di Richard Beymer venne fuori perché è un amico di Johanna Ray, la direttrice del casting: sembrava proprio la persona giusta. Molti altri invece erano degli sconosciuti, ma sai comʼè: li incontri, gli parli e capisci che sono perfetti. Non solo, ma vedendo la loro faccia e il loro modo di camminare non esiti a modificare alcune battute, basandoti sul loro apporto, e allora la faccenda comincia a funzionare. Non si tratta di riportare in auge chicchessia o cose del genere. È un processo singolare; anzitutto Johanna conosce un sacco di gente, e poi mi sembra saggio, anzi, del tutto fondamentale, prendere la persona giusta per la parte. Potrebbe anche essercene più di una capace di interpretarla, ma devi continuare a cercare finché non sei certo di trovarti davanti a qualcuno che riesci a «vedere» in tutte le scene e a cui sei grato per il fatto che è lì a lavorare con te. I nomi sono moltissimi. Li scorri mentalmente, immagini le scene, e anche se a volte ti capita di incocciare in una persona che può anche piacerti, la risposta, sfortunatamente, devʼessere «No».

Immagino che la scelta dellʼattrice per la parte di Laura Palmer fosse cruciale. Doveva assolutamente essere la persona giusta, dal momento che tutto è imperniato su di lei. Tuttavia si tratta in prima battuta di un cadavere: il centro assente! Proprio così. La scegliemmo da una foto. Sapevamo che avremmo girato a Seattle e, dato che quel personaggio era morto e quindi non aveva battute, non volevamo prendere qualcuno di Los Angeles, a cui avremmo dovuto pagare alloggio, diaria e tutto il resto solo per interpretare il ruolo di un cadavere: doveva essere qualcuno di Seattle. Feci scorrere un enorme mucchio di foto e, a un certo punto, eccola lì: ebbi subito la sensazione di aver trovato il soggetto giusto! Fu così che arrivò Sheryl Lee, anche se non era esattamente come nel ritratto. A volte ti capita di vedere una persona in una foto e ti sembra di sognare, e poi quando la vedi in carne e ossa il sogno svanisce. Ma in quel caso non fu così: spiegai alla ragazza che volevo che il suo corpo, tinto di una tonalità grigiastra, giacesse esanime sulla sponda di un fiume. Lei accettò. In seguito confessò che era molto nervosa e che aveva lavorato passivamente. A nessuno però, né a Mark, né a me né ad altri, era mai venuto in mente che sapesse recitare, o che avrebbe avuto un impatto tanto forte nel ruolo di una morta, e nemmeno quanto sarebbe stata importante quella piccola decisione.

Lʼimmagine che lanciò una serie tv. Il corpo di Laura Palmer (Sheryl Lee) avvolto nella plastica in Twin Peaks (1989).

Come reagì al ruolo? Durante le riprese con lei faceva un freddo cane, si gelava. Se ne stava sdraiata là fuori, e ogni tanto dovevamo metterla al riparo dietro un tronco gigante dove avevamo preparato coperte e scaldini. Faceva cinque metri di corsa e poi entrava in una piccola tenda, al caldo, e ci rimaneva finché non le si rialzava la temperatura corporea, dopodiché usciva di nuovo e tornavamo a girare. Era uno spettacolo. E poi, sai, un giorno cera e il giorno dopo non cera più. Mentalmente, però, era presente in ogni scena. Quando fu chiaro che poteva interpretare anche il ruolo di sua cugina Maddie?

Sheryl aveva già girato unʼaltra scena - il video con Donna al picnic - e fu quella a farmi decidere. Mi dissi: «Accidenti! Quella ragazza ha presenza scenica e capacità naturali». Voleva fare lʼattrice ed era a Seattle per recitare. Ma fu quella scena, quella piccola scena del ballo, a trasformare tutto in realtà. In un certo senso quel ruolo sembra averla «marchiata». Come forse è accaduto anche a Kyle con lʼagente Dale Cooper, o a Frank Silva con Killer Bob. Già, è unʼarma a doppio taglio. Sono certo che la cosa in sé non è controproducente. Bisogna vedere che cosa succede dopo, se capita o no lʼoccasione giusta. Non è una questione di talento, ma di destino. E riguardo agli altri membri del cast, tutti relativamente sconosciuti? Beʼ, ciascuno ha una sua storia. Andy, per esempio. Dovevo andare a una serata in onore di Roy Orbison, al Fox Theatre. Di solito non uso lʼauto, ma quella volta pensai: «Devo noleggiare una macchina, perché sarà una follia e voglio essere libero di prendere e filarmela». Lo feci, e al volante cʼera Andy. Mi portò al Fox e mi disse: «Quando uscirà mi troverà qui davanti». Al ritorno, parlando, mi rivelò che faceva lʼattore, come tutti quanti a Los Angeles, dʼaltra parte, lo lo guardai stavamo giusto facendo il casting per il pilot - e gli feci: «Oh, mio Dio! Devi chiamare Johanna Ray». E poi, a Johanna: «Voglio che tu e Mark diate unʼocchiata a questo tizio, ma credo che sia perfetto per Andy». È davvero stupendo quando, improvvisamente, ti trovi di fronte alla persona giusta.

Un elemento che mi colpì furono le analogie tra la scoperta del corpo di Laura e I ragazzi del fiume, il film di Tim Hunter. In seguito il nome di Hunter entrò a far parte dei registi della serie. In che modo vi fu coinvolto? Beʼ, il mondo è piccolo. Entrambi avevamo frequentato lʼAfi, ed eravamo nello stesso anno di corso. Mi aveva mostrato tutti i suoi primi film, davvero straordinari; aveva unʼossessione per i mondi onirici, tipo Shangri-La! Faceva delle cose davvero forti ed ero convinto che fosse uno di quelli destinati a sfondare. Sono sempre stato un suo fan. Come hai «scelto» gli altri registi della serie? È un aspetto molto delicato, da curare con attenzione. Certo; e per loro è dura, perché quando arrivano devono attenersi a regole già fissate. Mark e io le conosciamo meglio di chiunque altro. Quindi, ancora una volta, è questione di sintonia: prendono in carico una sceneggiatura, fanno una chiacchierata con uno di noi, o con tutti e due, e si mettono al lavoro. Più tardi visiono il loro montato al missaggio, e se qualcosa proprio non funziona cʼè tempo di aggiustarlo, anche se non posso dire che sia mai successo. Caleb Deschanel e Tim erano al Centro con me, mentre Diane Keaton più o meno la conoscevo; alcuni degli altri ci erano stati consigliati, ed esaminammo i loro lavori. Oltre al pilot hai diretto qualche altro episodio cruciale. In che modo hai selezionato quelli di cui intendevi occuparti di persona?

Beʼ, Mark ha girato lʼultimo della prima serie, quello in cui Cooper viene ucciso. Io, semplicemente, ho scelto quelli ai quali non volevo proprio rinunciare. Ero certo di voler fare quello con Leland/Bob, più un altro paio. Volevo fare lʼultimissimo (Ride) e il primissimo. E tutti quelli in mezzo! (Ride) Come hai affrontato le esigenze e le limitazioni della televisione, intesa sia come forma di espressione che come istituzione? La forza del cinema risiede nelle dimensioni dellʼimmagine, nella qualità del suono e nella storia. In tv vengono sacrificati tanto il suono che lʼimpatto. Basta spostare un poʼ lo sguardo o girare appena la testa per scorgere il mobiletto del televisore, il tappeto, dei fogli di carta con qualche appunto, uno strano tostapane o roba simile. In un secondo ti ritrovi fuori dal film. In una sala, quando lo schermo è grande e il sonoro è buono il film ha potenza, perfino se fa schifo. Per esempio, nonostante il mio impegno al missaggio, in tv il suono non è mai stato di buon livello. Avevamo ottimi mixer e lavoravamo come matti per far andare bene le cose, ma la pubblicità era sempre dieci decibel più alta e irrompeva facendo la parte del leone. I comunicati commerciali interrompono il filo della storia, e la gente si è abituata a seguire il programma a segmenti: dodici minuti di film e poi uno spot, altri dodici minuti di film e un altro spot, e così via. Inoltre la pubblicità è trasmessa a volume altissimo, al punto che la gente esclude lʼaudio. Io spegnerei addirittura il televisore! Cosa stanno combinando? Così rovinano tutto! Non so proprio come riescano a far funzionare

alcunché, se mantengono un atteggiamento tanto distruttivo. Ma è come predicare nel deserto. Siamo alle soglie dellʼalta qualità, immagini bellissime che potrebbero confluire nelle case, ma temo che un mucchio di gente stia per rovinare tutto. Bisognerebbe essere in grado di offrire al pubblico maggiori opportunità di entrare nel sogno, ma la tv serve soltanto a vendere prodotti. È semplicernente un veicolo per la merce. Alla Abc cerano molte persone in gamba, ma ho lʼimpressione che i motivi delle loro decisioni non avessero nulla a che fare con il programma. È qui che si sbagliano, credo. La parte meno importante, nei loro progetti, è proprio il programma. Mentre giravi la serie in 35mm4 e poi la montavi ancora su pellicola, davvero non pensavi a come sarebbe andata a finire? Beʼ, ci devi pensare, perché altrimenti ti fai solo del male. Mixavamo gli episodi sul grande schermo, e poi li passavamo attraverso dei piccoli altoparlanti da televisore. Quando ci accorgevamo che lʼapparecchio vibrava dovevamo tagliare i bassi. Alla fine bisogna mixarli tenendo conto dei limiti acustici del televisore, perché è lì che sono destinati. Se non lo fai, nelle case della gente succederanno le cose più strane, e gli esiti non saranno mai quelli voluti. Ne furono compromessi altri aspetti della produzione, per esempio lʼimmagine o il colore? No, ma se per magia si potesse entrare contemporaneamente in duecento case dove stanno guardando Twin Peaks si vedrebbero duecento tonalità

differenti di colore. Il segnale è sempre lo stesso, ma ciascuno regola colore e luminosità in modo diverso. Alcuni tengono la luminosità tanto bassa che se cʼè una scena molto buia non la vedono neanche; altri la sparano talmente alta che quella stessa scena buia diventa tutta grigia e biancastra. La tv è un mezzo terribile e questo ti fa soffrire, perché sai come potrebbe essere il risultato. Sono sempre in attesa di un televisore capace di rispettare i differenti formati, e non solamente lʼ1:1,33. Infatti, quando lʼimmagine sʼingrandisce, lo schermo dovrebbe assumere una forma diversa. Un apparecchio molto più grande, a fibre ottiche e di alta qualità. Conoscendo la tua predilezione per il cinemascope, per te devʼessere stato un compromesso dover girare in un formato maggiormente adatto alla tv. Beʼ, Fuoco cammina con me ed Eraserhead sono stati girati in 1:85, ma tutti gli altri sono in cinemascope. Lo preferisco. Filmare in cinemascope è più faticoso, poiché gli obiettivi sono più lenti e quindi bisogna scendere a qualche piccolo compromesso, ma rimane pur sempre un bellissimo formato. Stupendo. È quello rettangolare; comporre le inquadrature per il cinemascope può riservare delle magnifiche sorprese. Si mette davvero male quando hai una persona sdraiata per terra e una in piedi, ma con due sdraiate per terra è straordinario! Sarebbe bello poter disporre di un formato che mutasse di volta in volta. Devʼessere stato stimolante sapere che Twin Peaks era seguito da un pubblico così vasto, se confrontato a quello di

un film per il cinema. Quanto conta per te questo aspetto? Vedi, quelle cifre si fondano su affermazioni dubbie, quindi non puoi mai dire se siano vere o meno. Comunque si tratta sempre di molte più persone di quelle che vanno al cinema a vedere i miei film. Per me è stata una sorpresa sapere quanta gente seguiva quel programma: una sorpresa davvero piacevole. La Abc fece una buona promozione? Ritengo che il marketing sia importante, ma credo molto di più nel fato. Nel marketing bisogna metterci tutto lʼimpegno possibile, ma ci sono stati film che, pur godendo di campagne strabilianti, hanno fatto fiasco. Il film, o programma che sia, ha un suo «odore» particolare, e per strada se ne sente parlare in un certo modo. Non so di che si tratti, ma secondo me è qualcosa di più grosso. Credo proprio che abbia a che fare con il destino; a un certo punto arriva il tuo momento. La via è aperta e non si possono fare previsioni. Per Twin Peaks il momento era quello giusto, e così pure tutto il resto. Allʼinizio fu un autentico delirio: ne furono sorpresi tutti quanti. Come reagisti a quellʼimprovvisa, massiccia popolarità? È bello che un tuo lavoro venga molto apprezzato dal pubblico, ma è un poʼ come lʼamore: sembra inevitabile che a un certo punto la gente ne abbia abbastanza di te e si appassioni a qualcosʼaltro. Non puoi far nulla per controllare questo processo, e questa consapevolezza è come una sofferenza sorda. Non un dolore acuto, ma una specie di leggero mal di cuore, dovuto anche al fatto che viviamo nellʼera di Mamma ho perso lʼaereo. Le sale

dʼessai stanno morendo; al loro posto ci sono i cinema dei centri commerciali, che proiettano dodici pellicole per volta: e sono questi i film che la gente va a vedere. La televisione ha abbassato il livello e ha reso popolare un certo tipo di proposte. La roba che passa in tv è rapida, senza grande sostanza: risate registrate e nientʼaltro. Ritengo che, in parte, il problema consista nel fatto che il pubblico televisivo è un concetto del tutto astratto. È unʼentità completamente invisibile al cineasta, laddove al contrario basta recarsi in una sala per poter vedere gli spettatori fare il biglietto e prendere posto per assistere al tuo film. Proprio così. E una volta le sale contenevano un gran numero di persone. Ricordo che qualcuno - credo che fosse George Seaton, che ha fatto alcuni dei film dei fratelli Marx - venne allʼAfi a tenere un seminario. I fratelli Marx giravano per il paese allestendo spettacoli seguiti da un pubblico enorme. Il regista, cronometrando le risate, scoprì che in qualsiasi posto si trovassero una certa battuta riscuoteva una risata di quattro secondi dal migliaio di spettatori presenti. Pertanto il montaggio veniva effettuato in modo da lasciare un tempo sufficiente a quei quattro secondi di risata, e questo procedimento influenzava il ritmo stesso del film. Il punto è che un pubblico di mille persone è in grado di riempire quel vuoto, ma quando il film arriva sul video di casa tua subisce un rallentamento, che lo rende strano. Durante la lavorazione della serie hai dovuto conformarti a determinate linee guida in materia di gusto e di censura, dal

momento che in tv vigono criteri completamente diversi da quelli applicati al cinema!1 Certo. Abbiamo dovuto farlo nel pilot, quando Bobby e Mike, ubriachi, vanno in macchina a trovare il dottor Hayward, il padre di Donna. Mike getta fuori dal finestrino una lattina di birra, che finisce per terra, dopodiché scende dallʼauto e Bobby gli dice: «Non prenderti nessun *** da quella ***. Il censore ci ordinò di cambiare la battuta, ma io non me nero affatto preoccupato; così qualcuno dovette ricordarmelo proprio mentre stavamo girando quella scena, ed ecco da dove venne fuori quel «Non prenderti nessun “oink oink” da quella bella maialina». Era una sciocchezza, ma in un certo senso costituiva un miglioramento. Non si trattava della solita situazione standard. A volte vengono innalzati steccati più stretti di quelli ai quali sei abituato. Il terreno ne risulta un poʼ ridotto, ma nel recinto ci sono dei bellissimi animali ed è piacevole lavorare con loro. Mi stupivo di quanto quel recinto potesse essere grande per noi di Twin Peaks; furono assai rari i casi in cui qualcuno venne a dirci cose del tipo «Questo non potete farlo». Avevamo un sacco di libertà. Mark aveva già lavorato a un popolare programma televisivo, perciò a quelli della censura lʼinsieme appariva regolare e noi potevamo godere di un certo margine di potere. In effetti la serie si spingeva parecchio in là rispetto ai canoni di accettabilità del pubblico televisivo: un episodio particolarmente violento che hai scelto di girare, per esempio, è quello dellʼomicidio di Maddie per mano di Leland Palmer.

Già, quello è stato un problema, perché ogni paese ha criteri censori diversi. Qui da noi la violenza passa la censura, diciamo, nove volte su dieci, mentre il sesso, ogni minima allusione sessuale, cozza sempre contro il muro. In Twin Peaks cerano scene stranissime e violentissime, e passarono. Se una situazione non rientra in pieno nella media riesce a insinuarsi, malgrado possa risultare anche più terrificante e inquietante: non esistono nomi per definirla, e dato che non compare nei codici sfugge a ogni controllo. Vi sono alcune analogie tra Twin Peaks e Velluto blu: entrambi sono ambientati in una città in cui si lavora il legname, e tutto accade dietro le porte chiuse. Ma qui lʼelemento nuovo sembra essere costituito dal fatto che il male non appartiene nemmeno a questo mondo: proviene, letteralmente, dallʼaldilà. Oppure è unʼastrazione dalle sembianze umane. Non è un elemento nuovo; comunque Bob era proprio questo. Bob compare spesso nella piena luce del giorno: un elemento che mi ha riportato alla mente un film di Jack Clayton, Suspense, nel quale la governante morta fa la sua comparsa in pieno sole, sul lago. Cʼè qualcosa di assai snervante in questo. Qualcosa di surreale: come se lʼapparizione avesse sbagliato posto! È vero. È proprio snervante. Credo che sia perché è di notte che ci si aspetta che succedano cose del genere. Sarebbe comunque terrificante, ma di giorno, alla luce del sole, non immagini certo che possano verificarsi. Come in Shining, quando il bambino in triciclo gira

lʼangolo e si trova davanti le gemelle. Lo spettatore sa che non dovrebbero essere lì in quel momento. Credi che introdurre Bob abbia contribuito a impedire che la vicenda si riducesse, in fondo, a una semplice storia dʼincesto? Era una vostra preoccupazione? No, non lo era. Ti preoccupi di queste cose quando ti metti a pensare a ciò che alcuni potrebbero dire in seguito, dato che non sei del tutto sicuro delle loro reazioni. E se cominci a preoccuparti rischi di prendere delle decisioni davvero strane: a parlarti non è più il lavoro, ma i tuoi grattacapi. Ti senti come paralizzato. Quindi il trucco sta nellʼevitare di fare lʼeroe o di prenderti in giro, e nel tentare unicamente di penetrare in quel mondo. Se ce la fai, e ti senti a tuo agio rispetto alle decisioni che hai preso, allora puoi sopravvivere a qualsiasi tempesta. Il bello della presenza di Bob è che Leland rimane quasi una brava persona. Non è un individuo orribile: è uno che è stato posseduto. Leland è una vittima. Coloro che hanno commesso azioni cattive non sono del tutto cattivi. Semplicemente, un loro problema è diventato un poʼ troppo grosso. Si dice sempre: «Era un vicino così gentile. Non riesco a credere che possa aver fatto una cosa simile ai suoi bambini e a sua moglie!». Succede così ogni volta. Quando si giunge alla soluzione dellʼenigma - cioè che lʼassassino è Leland - pare proprio che la cosa non abbia più una grande importanza: ormai è chiaro che nel personaggio

posseduto sta operando una forza malvagia, Bob. Perciò il dito puntato su Leland non rappresenta affatto una risposta. Non è una risposta. Era questo il punto. Mark Frost e io avevamo questʼidea. Il progetto che avevamo proposto era la storia di un omicidio misterioso, ma alla fine questʼultimo avrebbe dovuto essere relegato nello sfondo; poi ci sarebbe stato un piano di mezzo, costituito da tutti i personaggi della serie; infine, in primo piano, ci sarebbero stati i protagonisti di ogni singola settimana, quelli che avremmo trattato in dettaglio. Quanto allʼomicidio, volevamo lasciarlo a lungo in sospeso. Però a quelli della tv questo non piacque, proprio per niente; anzi, ci costrinsero in tutti i modi ad arrivare allʼassassino di Laura. Non fu tutta colpa loro. La gente insisteva, voleva sapere chi aveva ucciso Laura Palmer: reclamava lʼassassino. Di conseguenza la pressione fu tale per cui lʼomicidio non poté più rimanere un semplice elemento di sfondo. Lʼavvicinamen-

Unʼastrazione in forma umana. Bob (Frank Silva) in Fuoco cammina con me (1992).

to progressivo alla soluzione, che nonostante ciò rimaneva sospesa, fu ciò che ci fece conoscere veramente gli abitanti di Twin Peaks, il modo in cui tutti circondavano Laura e interagivano tra loro. Tutti i misteri che li riguardavano. Ma fu deciso diversamente. Non poteva andare così, il desiderio di sapere era troppo forte. Tuttavia era il mistero lʼingrediente magico: avrebbe fatto vivere Twin Peaks molto più a lungo. Dʼaltro canto, lʼintenso desiderio da parte del pubblico di arrivare alla soluzione dellʼenigma è una testimonianza del grande impatto provocato dalla serie. Sì, certo, però ha rovinato tutto. Quindi nel progetto originario lo smascheramento di Leland doveva aver luogo molto più tardi. Molto, molto più tardi. Ma chissà come si sarebbe dipanato? In effetti cera una gran voglia - probabilmente inconscia - di sapere. Lo stesso era accaduto per Il fuggitivo: dovʼera lʼuomo con un braccio solo? Ogni settimana sfioravano a malapena lʼargomento, ed era proprio lì che stava il bello. Ti chiedevi continuamente: «Quandʼè che troverà quellʼuomo e rimetterà tutto a posto?». Allora però avresti saputo che era giunta la fine. Tuttavia era perfettamente giustificato che la storia continuasse pressoché allʼinfinito, dal momento che il vero assassino non era una persona in carne e ossa. Era una storia che sfidava ogni soluzione. Per me è come se Twin Peaks esistesse ancora, anche se la macchina da presa non è più puntata su quel mondo.

Giusto. È un bel modo di pensare, lo quel conosco e lo amo moltissimo. Vorrei tanto visitarlo. Bob è uno di quei personaggi che potuto sopravvivere ed essere trattati nei svariati.

mondo lo tornare a avrebbero modi più

Ma per quanto riguardava te e Mark, è sempre stato inteso che sarebbe stato Leland a commettere il delitto? Lo sapevamo, ma durante il lavoro non ne facevamo mai parola. Cercavamo di nasconderlo alla coscienza, perché non era una questione da affrontare subito. Ce nʼerano già abbastanza a dare adito a ogni possibile problema, e quella la lasciavamo in sospeso. Molti credevano che lʼassassino di Laura fosse Benjamin Horne. Il primo giorno della settimana in cui dovevamo girare quella sequenza chiamammo Ben e Leland e filmammo due volte la stessa scena, prima con lʼuno e poi con lʼaltro. Quindi nessuno, nemmeno la troupe, sapeva chi dei due sarebbe stato il colpevole, poiché girammo davvero, con Killer Bob e tutto il resto. Devo dire che Richard Beymer fu veramente grande, dato che sapeva già che lʼassassino non era lui. Glielo avevamo detto prima, ma lui recitò come se lo fosse davvero. Questo perché volevate che il pubblico rimanesse allʼoscuro della soluzione? Certamente. La notizia sarebbe trapelata in due secondi. In realtà quellʼepisodio fu diretto da Tim Hunter, non è così?

Già, ma dal mio episodio si intuiva piuttosto chiaramente che Leland e Bob erano entrambi coinvolti nella morte di Maddie. Lʼepisodio di Tim era quello in cui Leland viene beccato! Ray Wise, che interpretava Leland, era al corrente di tutto quanto? No. Non lo seppe finché non glielo rivelammo noi, quello stesso giorno in ufficio. A questo punto della vicenda, Cooper assolve Leland, comportandosi quasi come se fosse divenuto un prete. Ormai non ha più niente del poliziotto. Poi nella stagione successiva subisce unʼulteriore trasformazione, diventando più «normale». Per me, nella seconda stagione, Cooper cessava di essere al 100 per cento «cooperiano»: indossava quelle camicie di flanella e tutto il resto! Probabilmente a qualcuno piaceva così. Allora ti dici: «Sì, per un verso sono contento, ma dallʼaltro è un vero peccato che un tipo tanto simile a me non riesca a governare questo paese. Deve avere qualcosa di particolare, è necessario». Una regina che va in giro in Volkswagen non funziona: deve avere una Rolls Royce. È questo che la gente vuole. Perché alla fine Cooper era posseduto da Bob? Lʼimpressione era che avesse perso il controllo. Beʼ, la verità è che non ha perso alcun controllo. Lʼidea è quella del doppelgänger: ognuno possiede due lati. Cooper viene posto in contrapposizione con se stesso. La gente fu seriamente turbata dal fatto che la serie si

concludesse con un Cooper malvagio, sul quale Bob aveva avuto la meglio. Ma non era quella la vera conclusione; era solamente il finale della seconda stagione, quello gettato in pasto al pubblico. Se la serie fosse proseguita… È vero che eri meno coinvolto nella seconda serie perché avevi iniziato la lavorazione di Cuore selvaggio? È così. Beʼ, nella seconda stagione ero, come dire?, un poʼ distaccato. Sebbene lʼidea di una storia a episodi mi attirasse moltissimo, quelle storie dovevano pur essere sceneggiate, e ogni settimana cera un nuovo programma da mettere in piedi. Ben presto tutto si accavalla, e scopri di non avere tempo sufficiente per dedicarti a ciò che ci si aspetta da te. E allora ti ritrovi davanti a qualcosa che non hai veramente voglia di fare. Quando sei tornato è stato triste vedere in che direzione si stava muovendo Twin Peaks? Guarda, su questo punto non voglio esprimere giudizi. Non è corretto… Se Mark e io avessimo lavorato insieme le cose avrebbero preso unʼaltra piega. Ma non è stato così, perciò è andata comʼè andata. Ho partecipato a un paio di riunioni con gli sceneggiatori, ma a meno che tu non ci sia dentro davvero… Una delle cose frustranti, quando si lavora per la televisione, è che ci sono altri registi, altri sceneggiatori, altri fattori che intervengono. Il risultato può anche essere buono, ma non è mai quello che avevi in mente. Quindi al tuo ritorno lʼultimo episodio era già stato scritto?

Sì, ma la parte sulla Stanza Rossa secondo me era tutta sbagliata. Non stava in piedi, perciò la modificai. Molte delle altre sezioni erano già state iniziate ed erano incanalate su una certa rotta, quindi dovevano proseguire così. Però puoi sempre dirigerle a modo tuo; in ogni caso quellʼultimo episodio mi piace davvero molto. Dunque, prima che tu modificassi la sceneggiatura, Cooper era «occupato» da Bob? No, non lo era, o almeno lo era solo in parte. Là dentro cerano due Coop, e quello che emerse andava, per così dire, dʼaccordo con Bob. Una volta hai tenuto una conferenza stampa per promuovere la continuazione della serie, non è così? Beʼ, ecco che cosa accadde: i dirigenti della Abc cambiarono il giorno di programmazione. Twin Peaks era iniziato di giovedì, che era la serata ideale. Era importante che fosse un giorno feriale, poiché il giorno dopo la gente ne avrebbe parlato al lavoro. Era perfetto. Poi spostarono la programmazione al sabato sera, che è troppo lontano dal lunedì. Non era la stessa cosa. Non credo che i dirigenti siano altrettanto fedeli a un programma di quanto lo siano allʼinsieme della propria rete in competizione con le altre. Quello che fecero mi lasciò senza parole, perché secondo me non aveva un briciolo di senso. So soltanto che, cambiando la programmazione, uccisero la serie. Con la conferenza stampa mi proponevo di sottolineare questo punto, e di chiedere se fosse possibile fare pressione sulla rete

affinché si tornasse a una collocazione di palinsesto ragionevole. Che cosa fecero? Se ne stettero semplicemente lì ad assistere al calo degli ascolti? Sì. Questa è tutta unʼaltra storia. Solo un numero x di televisori viene monitorato, e nessuno vuole cambiare la situazione perché «finché una cosa non si rompe, non la si aggiusta». Tutti sanno che non si tratta necessariamente di una rappresentazione fedele della realtà, una per gli inserzionisti pubblicitari funziona, come pure per i dirigenti, e la cosa va avanti come se fosse un bene prezioso da conservare, mentre invece si fonda su unʼassurdità. Le cifre erano sfavorevoli. Non che fossero pessime, ma erano sfavorevoli perché lʼassassino di Laura Palmer era stato scoperto! Gli attori ci rimasero male, visto il loro coinvolgimento emotivo? Sì e no. La speranza è che tutti gli attori siano coinvolti al 100 per cento. Alcuni lo erano, altri no. Cominci a conoscere veramente la gente con cui hai a che fare soltanto nella seconda stagione. La serie ebbe tanto successo che la cosa più ovvia, per molti di loro, fu buttarsi sul cinema. In seguito si accorgono di essersi accollati anche una serie tv, e dato che non tutti compaiono in ogni episodio, cominciano a provare un senso di frustrazione e a uccidere la gallina dalle uova dʼoro. Avrebbero potuto fare tutto il resto pur rimanendo fedeli alla serie e coinvolti fino in fondo. Io non voglio contrariare nessuno, ma è difficile essere sinceri senza irritare la gente. E poi chissà qual è la verità? Ci si

ricorda solo di ciò che si vuol ricordare. Non è facile arrivare alla verità. Da Twin Peaks in poi si è verificato un evidente incremento di programmi concentrati sul paranormale, gli Ufo e altre stranezze: Wild Palms, American Gothic, X-Files. A quanto pare Twin Peaks ha inaugurato un filone. Alcuni dicevano che Wild Palms aveva qualcosa in comune con Twin Peaks. Per me non aveva proprio un tubo in comune con Twin Peaks. UN TUBO! E tutte quelle brutte copie che sono venute dopo non ne hanno conservato nemmeno un vago sentore, a mio parere. Malgrado ciò altri ci vedono delle analogie. Dopo Velluto blu uscì qualcosa di simile, ma anche Velluto blu è simile a film che lʼhanno preceduto. Il cinema esiste da centʼanni, quindi qualche paragone sarà pur possibile farlo. Tuttavia, appena prima di Twin Peaks, determinati argomenti o determinate storie non figuravano regolarmente nella programmazione televisiva, né erano popolari come lo sono oggi. Col senno di poi, potremmo affermare che Twin Peaks ha contribuito a creare una certa bramosia per questo genere di materiale. Già, forse è così. Quando uscì Fuoco cammina con me gran parte della stampa lo considerò alla stregua di una tua cinica manovra, messa in atto per sfruttare il successo della serie televisiva. Cosa ti spinse a fare quel film?

Alla fine della serie mi sentivo giù. Non mi risolvevo a lasciare il mondo di Twin Peaks. Ero innamorato del personaggio di Laura Palmer e delle sue contraddizioni: raggiante in superficie ma con la morte dentro. Volevo vederla vivere, muoversi, parlare. Non avevo ancora chiuso con quel mondo. Realizzare quel film non significava solamente restarci aggrappato: mi sembrava che rimanessero altre cose che valeva la pena di fare. La festa però era finita. Durante lʼanno che servì per ultimare il film tutto cambiò. Succede, a volte. E poi bisogna motivare gli altri. È naturale, in un certo senso. Capita a parecchi. Fuoco cammina con me fu la tua prima pellicola realizzata per la società di produzione Ciby-2000, con la quale avevi firmato un contratto per tre film. Visto il successo della serie immagino che sia stato facile ottenere lʼapprovazione del progetto. Già. La Ciby ci diede ben presto carta bianca e ci mettemmo subito al lavoro. Considerando sceneggiatura, riprese, montaggio, missaggio e ritocchi finali, trascorse meno di un anno dal nostro accordo alla proiezione a Cannes. Fare il film fu unʼesperienza straordinaria, salvo per lʼernia che mi tormentò per tutte le riprese. Ricordo il primo attacco: stavo registrando con Angelo A Real Indication, una canzone della colonna sonora. Era strano, perché avevamo fatto da noi lʼintera parte strumentale, e si trattava di un rap. Angelo mi chiese di concedergli una prova, perciò diedi unʼocchiata con lui ai testi poiché voleva che gli spiegassi alcune cose. Parlammo per un poʼ, poi lui andò in cabina di

registrazione. Che attore sarebbe! Per cantare o esibirsi in pubblico senza imbarazzo bisogna saperci fare. In quella cabina Angelo tornò alla vita; io ero con lʼingegnere, Arty Polhemus, e ridevo così tanto che mi esplose qualcosa. Fu come se mi fosse scoppiata una lampadina nello stomaco, e fu la fine. In parte lʼavversione della stampa e la reazione del pubblico furono dovute al fatto che nel film una buona fetta dellʼumorismo della serie tv - il caffè, le ciambelline ecc. - era stata soppressa. Tutte le amenità, oltre ad alcuni personaggi, non cʼerano più. Rimaneva soltanto un disperato… …tormento. Sì, è vero. Ma di nuovo mi era stato imposto un limite alla durata del film. Anche se i produttori non ti danno un limite di tempo poi ti tocca scontrarti con gli esercenti, che calcolano un certo numero di proiezioni al giorno. Secondo me è meglio una proiezione in meno al giorno e la sala piena piuttosto che una proiezione in più e zero spettatori. Girammo molte scene che per un film normale sarebbero state troppo marginali perché la trama principale potesse procedere speditamente. Pensavamo che sarebbe stato bello, un giorno o lʼaltro, inserire quelle scene in una versione più lunga, poiché vi comparivano parecchi personaggi che mancano nel film finito. Fanno parte del film, è solo che non erano essenziali allʼintreccio principale. Intendi dire che se quelle scene fossero state montate il film non sarebbe risultato tanto desolato o deprimente? Non sarebbe stato così cupo. Per me era conforme alle leggi di Twin Peaks. Tuttavia alcune buffonerie dovevano essere eliminate: per esempio avevamo girato una scena

con Jack Nance ed Ed, il vecchio che veniva ucciso in banca: Ed ha acquistato un piccolo attrezzo di legno, e lo riporta al negozio perché non misura due pollici per quattro. Una ragione ci devʼessere, e Jack deve spiegargliela! Cose del genere (Ride). Forse il problema è che, concentrandosi sugli ultimi sette giorni di vita di Laura Palmer, il film ricordava al pubblico che al centro di Twin Peaks cʼera una storia dʼincesto e figlicidio. Può darsi. Per molti lʼincesto è inquietante perché probabilmente lo praticano a casa loro! (Ride) E comunque non è piacevole. Laura è una dei tanti. Quella è la sua storia. Di questo parlava il film. Acquisendo maggiori informazioni a proposito di come andavano le cose in casa Palmer appena prima dellʼomicidio di Laura, mi sono chiesto se la madre, Sarah, non nutrisse dei sospetti su suo marito. Un poʼ come la moglie di Peter Sutcliffe, il cosiddetto «squartatore dello Yorkshire»: sono certo che molti hanno pensato che a un certo punto si fosse resa conto di ciò che stava accadendo, ma che abbia taciuto. Beʼ, mettiti nei suoi panni. Probabilmente in casa cerano alcune faccende che non quadravano e sulle quali glissava, poiché è sempre difficile guardare in faccia certi problemi. In seguito affiora qualche altra indicazione,

Lʼomicidio allʼorigine di tutto. Lynch dirige Ray Wise (Leland Palmer) e Pamela Gidley (Teresa Banks) in Fuoco cammina con me (1992).

motivi dʼinquietudine in forma di astrazioni o di semplici sensazioni. Infine poi ti può capitare di scoprire o di vedere qualcosa, e allora subentra una sorta di consapevolezza, tanto che non ti puoi più nascondere la realtà e cominci a chiederti se non sia il caso dʼintervenire. È una decisione difficile da prendere, perché se agisci e la cosa non riesce, a causa della mancanza di prove, potresti provocare lʼira della persona in questione, e la prossima vittima saresti tu! Oppure puoi esserti sbagliato, e allora che cosʼavresti combinato a quella persona? Forse la cosa migliore è aspettare e sperare che tutto finisca, o che il colpevole venga incastrato da qualcun altro. Il film gioca spesso con la nozione di tempo. Dale Cooper, per esempio, viene nominato in una scena ancor prima del suo

arrivo in città. Esattamente. Sebbene in realtà non ami parlare di ciò che faccio, su quella scena, che è poi quella in cui Annie compare improvvisamente sul letto di Laura, una cosa devo pur dirla. Tutto ciò avviene prima che Laura venga assassinata e quindi prima che Coop sia giunto a Twin Peaks. Annie appare coperta di sangue e con addosso lo stesso identico vestito che porta allorché, nella serie, si trova con Cooper nella Stanza Rossa, cioè nel futuro. Dice a Laura: «Il buon Dale è nella Loggia e non può uscire. Scrivilo sul tuo diario». E io so che Laura ne ha preso nota, in un angolino del suo diario. Ora, se la serie di Twin Peaks fosse proseguita, qualcuno avrebbe potuto ritrovare quel diario. Tuttavia, a causa del trascorrere del tempo e del verificarsi di determinati eventi, a quel punto quella frase non avrebbe senso, mentre in precedenza la risposta sarebbe stata: «Cosa? Ma se Cooper non è nemmeno arrivato in città!». Così sì che ha senso. È come se nel 1920 qualcuno avesse fatto il nome di Lee Harvey Oswald, e soltanto in seguito si fosse capito tutto. Speravo davvero che ne sarebbe uscito qualcosa, e poi mi piaceva lʼidea che la storia andasse avanti e indietro nel tempo. Come reagirono gli attori quando tornasti per girare Fuoco cammina con me? Erano tutti entusiasti? No, non lo erano. Magari fosse stato così! Alcuni erano entusiasti, mentre altri non lo erano affatto. Per il 75 per cento tutto bene, ma quel 25 per cento… Ti chiedi solamente: «Perché? Potrebbe essere così bello». Essere ben disposti vuol dire molto.

Il film presentava in alcuni punti un certo sapore «teatrale», caratteristico di molti dei tuoi lavori. Sotto questo aspetto la Stanza Rossa, con le sue pareti coperte di tende-sipario, ricorda molto le scene del radiatore di Eraserhead. Giusto, è vero (Ride). Chissà perché ho il pallino dei sipari, dal momento che non ho mai fatto teatro. Comunque adoro le tende, e adoro i luoghi delimitati dentro cui guardare. Mi piacciono immensamente. In parecchi acquerelli ho dipinto delle tende laterali, ma non ne conosco il motivo. Cʼè qualcosa, sotto: i sette veli o qualcosa del genere. Una delle sequenze più impressionanti è quella della discoteca. Non solo è la scena «definitiva» tra quelle ambientate in un locale - la discoteca infernale - ma anche il missaggio del sonoro è particolarmente ingegnoso. I personaggi urlano, invece di parlare, eppure non si coglie una sola parola di ciò che si dicono: proprio come quando si tenta di fare conversazione in un locale. Tuttavia il potenziale di mistero della scena viene ridotto dal sottotitolaggio dei dialoghi. Era unʼidea che avevi sempre avuto? Sì! Credevo che fosse la trovata di qualche stupido distributore! No, quella stupida idea fu mia! Non sottotitolare la scena sarebbe stata la scelta di ripiego. Da un lato volevo che parte del dialogo fosse comprensibile; dallʼaltro però non sopporto di abbassare il volume della musica a favore del dialogo. Di solito in un locale si sente qualcosa soltanto quando lʼaltro grida: lʼidea era questa. Tirammo su la musica e manipolammo tutto lʼinsieme.

Con la musica al massimo e la gente che gridava veramente per farsi sentire, la cosa funzionò. Lʼintenzione poi era dʼinserire quelle battute, renderle appena udibili - ma senza preoccuparsi dellʼintelligibilità - e infine sottotitolare lʼintera sequenza. In questo modo la musica era a livello dieci e il dialogo a livello due, ma la faccenda non ci preoccupava affatto. Il dialogo parte in modo un poʼ strano ma poi, nella seconda metà, Jacques Renault si mette a parlare del padre di Laura. Questʼultima non afferra realmente il senso delle sue parole: le sente ma non riesce a decifrarle. In quel momento lʼarrivo di un gruppo di ragazzi distoglie la sua attenzione, anche se ormai deve aver intuito che suo padre è implicato in qualcosa di losco. Quella scena doveva mostrare come, in un mondo tanto piccolo, alla fine tutto tornasse a lei, per una via o per unʼaltra. E stava succedendo proprio in quel luogo. Erano tutti lì presenti; quellʼidea mi piaceva molto. La musica di quella scena è tua. Come nacque? Beʼ, dato che Angelo era nel New Jersey, mi unii a un gruppo di ragazzi con i quali feci qualcosa di sperimentale. Li avevo già conosciuti lavorando con loro per Ronnie Rocket. Entrare in sala di registrazione è emozionante, ma non sai mai che cosa può venirne fuori. Loro potevano suonare qualsiasi cosa e io avevo unʼidea per una linea di basso. Così discussi con il bassista e insieme elaborammo un pezzo semplicissimo, basato sulla ripetizione. Potente. Poi su quello entrarono gli altri, e improvvisammo finché non arrivammo a dargli forma.

Avrei voluto con noi il chitarrista, ma aveva altri impegni. Il batterista mi parlò di un altro tizio, Dave Jaurequi, che era appena arrivato dalle Isole; lo feci venire e gli dissi: «Qui come accompagnamento ci vogliono degli accordi cupi, tipo anni cinquanta», ma non mi ascoltò. Sono proprio contento che non labbia fatto, perché si sintonizzò sulla giusta lunghezza dʼonda e tirò fuori un accompagnamento incredibile. Era perfettamente in tono! In seguito intitolammo il pezzo The Pink Room, e poi incidemmo unʼaltra traccia, che chiamammo Blue Frank. È come dipingere: se fossimo rimasti in quella stanza avremmo potuto mettere insieme dieci cose che sarebbero state benissimo luna accanto allʼaltra. A quanto pare la conferenza stampa per la prima mondiale di Fuoco cammina con me al Festival di Cannes del 1992 non si può certo definire unʼesperienza felice. No. Probabilmente lʼho rimossa. Fatto sta che la grande novità fu che con quel film avevo finito per distruggere completamente Twin Peaks. Lʼambiente

Udito, non udito. Jacques Renault (Walter Olkewicz) e Laura Palmer (Sheryl Lee) si inabissano nella discoteca The Pink Room in Fuoco cammina con me (1992).

era ostile, da quelle parti. Quando entri in una stanza in cui la gente è estremamente irritata e arrabbiata non cʼè bisogno che si dica niente: lo percepisci subito. Io lʼavevo captato fin dal momento dellʼatterraggio! (Ride). Stavo proprio male, tanto che il dottore dovette venire nella mia stanza dʼalbergo nel cuore della notte. E la mattina successiva avevo la conferenza stampa: quando entrai là dentro mi sentivo a pezzi, e non fu affatto divertente. Non andò niente per il verso giusto? Beʼ, anche le parti che avrebbero dovuto essere divertenti sortirono lʼeffetto opposto. Bouygues, il fondatore della Ciby-2000, organizzò una grande festa,

ma siccome non godeva di molta simpatia e per giunta soffriva di non so quale disturbo vollero isolarlo, tenerlo alla larga dalla gente. Così ci ritrovammo da soli in un angolo, circondato da un cordone. Molti di quelli che si ritrovarono esclusi erano assai infastiditi dal fatto che ci fossero due aree separate, una per lui e unʼaltra per loro. Pertanto, anziché essere un piacevole diversivo per ognuno dei presenti, il party si trasformò in una specie di evento politico, che cancellò tutto lo spasso. Michael Anderson e Julee Cruise si esibirono alla grande. Andarono forte. Se anche il film fosse andato bene sarebbe stata una situazione bellissima. Come ti difendi di fronte a una stroncatura? La difesa migliore è sentire di aver realizzato qualcosa che ti soddisfa. Quando ciò che hai fatto non piace né a te né agli altri, allora è una doppia catastrofe. Terribile. Inoltre spesso nellʼaria cʼè qualcosa che impedisce al pubblico di vedere lʼopera comʼè realmente: un elemento estraneo, che magari non esiste nemmeno ma a cui la gente reagisce più che non al lavoro in sé. E poi può anche succedere che, dopo un certo periodo di tempo, a uno sguardo ulteriore la medesima opera appaia assai più apprezzabile di quanto non fosse prima. Sono dispiaciuto che Fuoco cammina con me non abbia avuto successo e che molti lo detestino. A me piace sul serio. Il problema è che doveva sottostare a certe regole ed essere fatto in un certo modo. Ciò non toglie che, pur nei limiti imposti, il film esprima la massima libertà e sperimentazione possibile.

Quellʼesperienza ti ha indotto a rimettere in discussione il tuo modo di fare cinema? Spero soltanto di avere la possibilità di continuare a fare film in unʼatmosfera di libertà, tale da consentirmi di commettere errori, di scoprire cose magiche e di conservare il controllo dellʼoperazione, final cut compreso. Tutto il resto non mʼinteressa. E poi mi piacerebbe che alcune persone investissero nel cinema, ne ricavassero dei soldi e fossero felici di aver dato il proprio contributo.

1

* Trasmesso in Italia da Canale 5 con il titolo I segreti di Twin Peaks [N.d.T.].

2

* I seguaci della serie Star Trek [N.d.T.].

3

* In italiano nel testo [N.d.T.]. 4

* Il rapporto standard tra base e altezza del fotogramma, quello del cinema classico [N.d.T.].

8. È un grande mondo meraviglioso Cuore selvaggio e stranezze in superficie

Il 1990 fu lʼannus mirabilis di Lynch: Cuore selvaggio vinse la Palma dʼoro a Cannes mentre la serie televisiva Twin Peaks riscuoteva un grande successo di pubblico in tutto il mondo. La performance musical-teatrale Industrial Symphony No. 1, che Lynch aveva messo in scena con Angelo Badalamenti alla Brooklyn Academy of Music, aveva dato origine allʼalbum Floating into The Night e lanciato la cantante Julee Cruise. Cinque mostre personali tra il 1989 e il 1991 misero in luce le radici artistiche e pittoriche di Lynch, e una proliferazione di lavori pubblicitari (tra i quali un video promozionale per il Dangerous Tour di Michael Jackson) confermò che esisteva un mercato per il «tocco» di Lynch. Cominciarono a comparire espressioni come «lʼUomo del Rinascimento», e la fotografa Annie Leibowitz immortalò la sua relazione con Isabella Rossellini in unʼimmagine di stramberia à la page. In uno scenario alquanto improbabile per lʼautore di Eraserhead, Lynch era diventato un marchio influente, che faceva tendenza. Nel 1991 Parkett Magazine, unʼimportante pubblicazione di arte contemporanea, condusse unʼinchiesta dal titolo: «(Perché) David Lynch è importante?». Le dieci pagine che ne davano conto riportavano le opinioni di ben trentadue tra artisti, scrittori, personaggi della cultura e teorici, fra i quali Jeff Koons, Kathy Acker e Andrew Ross, a proposito dellʼimportanza/irrilevanza di Lynch.

Ironia della sorte, Lynch si era sempre sentito molto a disagio nei confronti delle tendenze. Mentre lʼindustria cinematografica americana non aveva ancora assorbito lʼimpatto che Easy Rider, vincitore del premio come migliore opera prima a Cannes, aveva provocato sulle sue strutture così come sul pubblico. Lynch si trovava nel bunker di Eraserhead, dimentico o tetragono nei confronti dellʼeffetto prodotto da Dennis Hopper sugli orientamenti dei dirigenti hollywoodiani. Come ricorda Peggy Reavey a proposito del periodo trascorso insieme alla Pennsylvania Academy: «Eravamo forse gli unici studenti degli anni sessanta a non prendere lʼacido! A David piace fare il bravo ragazzo, e conosce un sacco di detti popolari. Odiava essere alla moda, e questo era solo un aspetto. Non se ne andava in giro in dolcevita nero e jeans come tutti quanti, ma indossava pantaloni ampi e camicie completamente abbottonate. Detestava le tendenze. E pensare che adesso è proprio lui a imporle!». Cuore selvaggio, che Lynch adattò da un romanzo di Barry Gifford, si mise in moto assai velocemente. Il suo successo a Cannes giunse in un momento in cui il cinema americano tornava a dominare ai festival, come aveva fatto nei tardi anni sessanta e primi settanta. E come molti altri vincitori americani di Palme dʼoro, Cuore selvaggio dipingeva una società sullʼorlo dellʼautoimmolazione. Tuttavia il «libero» adattamento del romanzo da parte di Lynch, che trasformò la storia di Gifford in un catalogo dʼincontri bizzarri e spesso estremamente violenti, era troppo per il pubblico dei test di mercato. Sebbene il regista avesse ridimensionato il grande entusiasmo che sembrava contagiare il film, in alcuni ambienti Cuore selvaggio fu accolto come un esempio di «Lynch alla

maniera di Lynch»: surrealismo da supermercato, bizzarria in confezione regalo. Gifford, che non aveva collaborato né alla sceneggiatura né al film, la vede in modo diverso: «Giornalisti di ogni genere tentavano di scatenare polemiche e di farmi dire che il film “non centrava affatto col libro” o che Lynch mi aveva “rovinato il romanzo”. Credo che tutti, dal Time Magazine a Whatʼs on in London, fossero rimasti delusi allorché dichiarai: “È un film fantastico. Meraviglioso. È una specie di grande, cupa commedia musicale”». In realtà Cuore selvaggio - film al quale è pressoché impossibile resistere - riesce e fallisce in uguale misura. Gli eccessi di «stranezza», come per esempio Mr Reindeer, si accordano con difficoltà alla terrificante carica emotiva di scene come lʼincidente dʼauto con Sherilyn Fenn o quella di «Dimmi “scopami”!» tra Bobby Peru e Lula. Questi due momenti rappresentano il culmine della capacità di Lynch di creare emozioni, e il secondo è la quintessenza dellʼapproccio lynchiano allo stupro, condotto sul piano del linguaggio. Tuttavia, al contrario del solito, il film non riesce a raggiungere una perfetta sintesi degli opposti di luce e buio, umorismo e terrore. Esso mostra anche che proprio lʼassoluta fiducia che Lynch nutre nellʼintuito può produrre i momenti più sublimi ma anche mancare il bersaglio. La superficie colorata e luccicante di Cuore selvaggio e il «rumore visivo» che generava costituiscono unʼeccezione nella filmografia lynchiana, così come ne è altrettanto poco caratteristico il «sano» abbandono sessuale al quale il film indulge. In precedenza, lʼambito degli indipendenti americani non era mai stato la sede naturale di un cinema della violenza, considerato al contrario un

terreno dominato dalle majors. Cuore selvaggio preannunciava una virata, da parte del settore indipendente, verso opere più brutali, viscerali, che avrebbero toccato il loro culmine nelle Iene. Tutto ciò era sintomatico di un sentimento diffuso nel paese, che aveva trovato una drammatica espressione proprio a Holly wood con i disordini di Los Angeles del maggio 1992. Malgrado allʼepoca apparisse pericolosamente caotico e scioccante, Cuore selvaggio non fa che sottolineare come nel 1990 la radio di Lynch si trovasse in perfetta sintonia con la realtà. RODLEY: Esattamente,

quando lasciasti la serie di Twin Peaks per iniziare le riprese di Cuore selvaggio? LYNCH:

Beʼ, avevamo girato il pilot di Twin Peaks e poi gli altri sette episodi della prima stagione. Ricordo che durante il periodo del missaggio di Cuore selvaggio al Lucas Ranch la sera guardavamo Twin Peaks. Quindi probabilmente Cuore selvaggio era finito più o meno quando la Abc trasmise il quarto episodio di Twin Peaks. Ciò significa che per la seconda stagione il mio ruolo fu assai marginale. Abbandonare la serie fu una decisione molto dolorosa, ma in un giorno ci sono solamente ventiquattrore. Dopo la brutta esperienza di Dune - compresa la difficoltà di adattare un lavoro preesistente - avevi ripreso ad attingere a idee personali. Come mai per Cuore selvaggio tornasti a ispirarti a un libro? Beʼ, avevo ceduto alcuni progetti alla società di Dino e stavo tentando di recuperarli nella speranza di usarne uno per un film, una trafila che andò avanti per anni.

Così stavo cercando qualche spunto per il lavoro successivo quando il mio amico Monty Montgomery mi diede un libro dal quale voleva trarre un film da dirigere. Mi propose di fare il produttore esecutivo o qualcosa del genere, ma io risposi: «Stupendo, Monty, ma se leggendolo me ne innamorassi e volessi farlo io, il film?». E lui: «Va bene, in questo caso potresti farlo tu». E allora dissi: «Okay, lo leggerò molto volentieri». Quel libro era Wild at Heart di Barry Gifford. Lo lessi, ed era esattamente la storia giusta al momento giusto. Nella mia mente quella storia e la violenza dellʼAmerica si fusero luna nellʼaltra, generando una serie di idee. Così presi la cornetta, chiamai Monty e dissi: «Mi piace immensamente. Voglio proprio farlo io, questo film». Fu così che iniziò tutto. Trovasti difficile accettare il fatto che le tue idee per il film appartenessero legalmente a qualcun altro? Terribile. Credo che lʼesempio più grave, in epoca moderna, sia quello dei Creedence Clearwater Revival. Tutti i diritti dei loro pezzi sono in possesso di qualcun altro, e credo che il gruppo non abbia registrato nulla per dieci anni solo per evitare i termini di quel terribile contratto. Non conosco tutta la storia; quel che è certo è che in quel modo è stato impedito a qualcuno di fare musica. Chissà che cosa avrebbe potuto uscirne? La protezione delle «opere dʼingegno» è sempre stata una questione spinosa. Già. Le idee sono strane, perché in un certo senso non ti appartengono. Prima che entrino nella tua mente e diventino tue erano da qualche altra parte. Tuttavia chi

elabora unʼidea dovrebbe avere la parte del leone di ciò che ne deriva, mentre oggi è esattamente il contrario. Cosʼè che ti ha tanto ispirato del romanzo di Gifford? Sailor e Lula erano dei personaggi bellissimi. Sailor, che pure è tanto virile, rispetta Lula ed è capace di conservare la sua forza. Per lui Lula è sempre sua pari. Lei, che invece è completamente femminile, si comporta esattamente nello stesso modo. Così i due sono fianco a fianco in questo strano mondo, rimanendo sempre se stessi e sentendosi reciprocamente a proprio agio. Mi sembrò una modernissima storia dʼamore ambientata in un mondo violento: un film su un amore trovato allʼinferno. Come molti tuoi film, anche questo si basa su una commistione di generi, sei dʼaccordo? Si tratta di un elemento sempre piuttosto problematico, sia per la critica che per il pubblico. Già. Cuore selvaggio è un road movie, una storia dʼamore, un dramma psicologico e una commedia violenta. Una strana mescolanza di tutti questi ingredienti. Nellʼadattamento cinematografico del romanzo, al quale Gifford non ha minimamente partecipato, hai introdotto molti cambiamenti. Come reagì Gifford alla tua versione della storia? Ero preoccupato, perché avevo intenzione di aggiungere alcune cose. Il lavoro di Barry mi aveva ispirato moltissimo. Lui comunque se ne dimostrò entusiasta. Altri scrittori si sarebbero sentiti devastati da simili

manomissioni e sarebbero corsi a comprare una pistola, ma Barry disse: «Staʼ a sentire. Ci saranno due versioni di Wild at Heart, una mia e una tua, e questa è una gran cosa. Prendi la palla e mettiti a correre». Per me, di nuovo, non è che una compilazione dʼidee: ce ne sono di più cupe, di più luminose e di umoristiche, e interagiscono tutte quante tra loro. Non soltanto scrivesti la sceneggiatura molto velocemente, ma il film andò in produzione quasi subito. Evidentemente tutto funzionava alla perfezione. Proprio così. Ricordo quando Steve Golin e Monty Montgomery - i produttori - lessero la sceneggiatura. Erano tutti gasati. Dissi loro che volevo riscriverne alcune parti ma che nel frattempo, se volevano, potevano dare il via alla lavorazione, e quindi ci mettemmo allʼopera. Fu come il divampare di un incendio. Sebbene lo spettro del Mago di Oz avesse aleggiato anche nei tuoi film precedenti - per esempio nella Dorothy di Isabella Rossellini in Velluto blu - in Cuore selvaggio si rivela più esplicitamente. Perché? Adoro Il mago di Oz, e ci fu un momento in cui ebbi lʼintuizione che Sailor e Lula erano quel genere di persone che possono abbracciare una favola come quella e renderla meravigliosa. Dato che quello del film è un mondo durissimo, mi sembrava bello che Sailor fosse un ribelle, ma un ribelle che sogna Il mago di Oz. E Sailor e Lula, che condividono questo sogno, erano personaggi gradevoli.

Dopodiché lʼidea cominciò a filtrare dappertutto. Ricordo di aver scritto una battuta a proposito del cane per il personaggio di Jack Nance, O.O. Spool: «E Toto puoi anche immaginartelo pensando al Mago di Oz». Il fatto che qualcun altro parli di qualcosa che Sailor e Lula condividono segretamente è unʼarma a doppio taglio. Si inserisce bene nel tema del film, ma nello stesso tempo è spaventoso. Mi piace molto il modo in cui, in Cuore selvaggio. Il mago di Oz entra ed esce di soppiatto: la scomparsa finale dellʼimmagine di Manetta; quando Lula, in compagnia di Bobby Peru, batte lʼuno contro lʼaltro i tacchi delle sue scarpe rosse; la Fata Buona alla fine. Cosa ti piace esattamente nel Mago di Oz? Nel film cʼè una certa dose di paura, ma anche qualcosa di cui poter sognare. Così, in un certo senso, sembra vero. Probabilmente mi entrò nel cuore la prima volta che lo vidi, come successe a milioni di altre persone. Per molti devʼessere stata determinante la confortante conclusione che «nessun posto è come casa propria». La casa è vista come lʼultimo rifugio dalle preoccupazioni e dalla paura: esattamente il contrario delle case dei tuoi film! (Ride) Giusto. Ma la famiglia del Mago di Oz non erano i veri genitori di Dorothy. È tutto molto strano. Da impazzire! (Ride) In un certo senso, Lula è unʼeccezione rispetto ai tuoi personaggi femminili: non è masochista, non e morta e non è minacciosamente o inspiegabilmente misteriosa. In effetti, Lula è un bellissimo ruolo femminile.

Già. È questo che mi affascinò del libro di Barry. Il romanzo riusciva a rendere lʼimmagine di una donna molto forte e capace di comprensione. E che comunque rimane una bambina amante del divertimento! Dopo aver visto Laura Dern nei panni dellʼingenua e quasi innocente Sandy di Velluto blu, fui sorpreso dalla tua scelta di scritturarla di nuovo per lʼardente Lula di Cuore selvaggio. Allʼepoca mi parve un casting bizzarro. No. Per me quel ruolo è sempre stato di Laura. Molti lo trovavano inconcepibile; anche se conoscevano e rispettavano il suo lavoro, non la vedevano nel ruolo di Lula. Ma un personaggio è costruito su mille piccoli particolari, scelte strane, modi singolari di pronunciare una parola. Gestire il personaggio di Lula era difficile, e il bubblegum serviva anche a tenere Laura sul binario giusto! Per me. Laura era Lula e Nicolas Cage era Sailor. Mi sembravano perfetti, insieme. Nick è proprio un tipo da Las Vegas. Si accorda perfettamente a quella città. È come se fosse stata costruita per lui! Li portai fuori a cena quando ancora non si conoscevano, e scoppiò un enorme incendio sul Beverly Boulevard, alla Cinematheque. Singolare!

Una bambina che ama il divertimento. Lula (Laura Dern) nel motel infernale di Cuore selvaggio (1990).

Una bambina che ama la casa. Dorothy (Judy Garland) e la sua famiglia dʼadozione nel Mago di Oz (1939).

Lʼimmagine del fuoco e dei fiammiferi che si accendono è un motivo ricorrente per tutto il film. Come mai divenne tanto importante per te?

Il padre di Lula era morto in un incendio e, nella mia versione, in quel momento Sailor era lì fuori, in macchina. E la madre di Lula era coinvolta nellʼomicidio. Inoltre si fuma molto, e tutta la sequenza dei titoli di testa è un incendio. Insomma, il fuoco ha una parte importante nella relazione tra Sailor e Lula, e i fiammiferi diventarono uno degli elementi che da una parte li uniscono ma dallʼaltra minacciano di distruggere il loro legame. Nonostante questo rimangono uniti; lo comprendono e ne rimangono stranamente immuni. Lʼamore moderno è fantastico! Lula e Sailor sono umani, e quindi sono soggetti a ogni genere di desideri umani; tuttavia hanno la capacità di perdonarsi a vicenda per il fatto di essere come sono. Esprimere questi concetti attraverso il dialogo è pesante: in questo modo si rimane troppo in superficie. Hai parlato delle sigarette: ci sono momenti in cui il film sembra un tributo alla nicotina! Questo aspetto era presente nel libro, ma io lo elaborai. Lula chiede a Sailor: «A quanti anni hai cominciato a fumare?». Nel libro lui risponde: «A sei», mentre nel film gli faccio dire: «A quattro», perché quei due anni fanno una differenza assurda, divertente! Non dice soltanto «A quattro», vero? Aggiunge: «Subito dopo che mia madre morì di cancro ai polmoni»! Già, e Lula dice: «Mi dispiace». «Non fa niente» ribatte lui «non li conoscevo; non cerano mai!» (Ride) Una dopo lʼaltra! Quel povero bastardo ha avuto una vita non molto diversa da quella di milioni di persone. Ecco unʼaltra cosa che mi piacque della storia: riusciva a rendere il

senso della parola «selvaggio». Era come se la sentissi. Ora la sento cento volte di più. Oggi siamo passati da «selvaggi» a «insani». Il mondo si sta scollando. Cuore selvaggio è molto diverso dalla maggioranza dei tuoi film: è giocato molto in superficie, coloratissimo, veloce e ricco di dettagli. Con questo stile intendevi riflettere quel senso di follia? Certo. Ormai ci stiamo abituando alla pazzia del mondo, ma ti giuro che nel 1988, o nellʼ89, o non so più in quale anno lessi per la prima volta il libro, non era così. Il mondo è sempre più o meno lo stesso, ma noi pensiamo che stia peggiorando. Forse un giorno crederemo il contrario, ma di fatto a quei tempi mi pareva che diventasse sempre più pazzo. Ecco una delle cose che mi piacquero del libro. Lʼinsania di ciò che circondava quei due poteva essere piuttosto stimolante. Lʼinsania viene presentata già nella primissima scena attraverso un omicidio scioccante, di incredibile violenza. Avevi sempre avuto lʼintenzione di colpire così duramente il pubblico fin dallʼinizio? Sì, ma in sceneggiatura quella specifica scena era prevista per la fine del film. In apertura doveva essercene unʼaltra, altrettanto potente, con una moto gigantesca spinta ad altissima velocità. Sulla strada però ci sono i dossi per il controllo della velocità: prima si vede un uomo che ha perso il controllo e poi i dossi, cioè proprio quello che non ci vorrebbe! Ma per una ragione o per lʼaltra - di nuovo, il destino - quella scena non riuscimmo a girarla. Di conseguenza al montatore,

Duwayne Dunham, venne lʼidea di anticipare lʼaltra scena per dare al film la medesima spinta iniziale. Ma quella scena innesca il resto dellʼazione. Come poteva essere collocata alla fine? Non ricordo esattamente; forse in apertura avrebbe dovuto avere una fisionomia diversa. Allʼinizio la scena doveva sviluppare lʼazione fino a un certo punto per poi ritornare più avanti, completa, come flashback. I road movies, per definizione, presentano spesso dei problemi di ordine drammatico. Intendevi forse utilizzare estensivamente lʼespediente del flashback allo scopo di mantenere la tensione drammatica? Sarebbe stato facile eliminare i flashback, ma non volevo perderli. Lavorammo molto per risolvere il problema dello spostare lʼazione da un luogo allʼaltro e dellʼattraversare strane regioni senza perdere di vista la direzione principale. Hai anche operato dei cambiamenti riguardanti il triste finale del romanzo, non è così? Beʼ, il finale del libro di Barry, con Sailor che lascia Lula, mi deprimeva. E poi francamente non mi sembrava verosimile, considerando i sentimenti che provano lʼuno per lʼaltra. Non cera un solo briciolo di verosimiglianza! Provocava forse un certo effetto, ma io non lo vedevo proprio. Il mio primo abbozzo aveva vari finali, perché quando presenti un film a un distributore o a qualcuno del genere puoi sentirti obiettare di tutto. A volte pensi: «Beʼ, sto con la gente sbagliata», e tutto finisce lì. Ma

quando Sam Goldwyn vide uno delle prime stesure della sceneggiatura, disse: «Odio questo finale». E io - mi sfuggì di bocca - ribattei: «Anchʼio!» (Ride). Perciò quando mi propose di modificarlo, risposi: «Lo cambierò, accidenti! Anche se alla fine questo film non lo farai, cambierò quel finale». Quindi non hai introdotto un lieto fine affinché il film avesse maggiori potenzialità dal punto di vista commerciale? Assolutamente no. Però questo problema cʼera. Sotto il profilo commerciale è molto meglio che ci sia un lieto fine, ma se non avessi cambiato il finale, così che la gente non avesse potuto dire che cercavo di assecondare il mercato, non sarei stato fedele alla sostanza del film. Sailor e Lula dovevano rimanere insieme: il problema era escogitare il modo, e al contempo conservare la scena in cui si separano. Alla fine, alla soluzione contribuì Il mago di Oz. Così il problema fu semplicemente quello di andare avanti senza preoccuparsi della gente che diceva: «Beʼ, David si è venduto». Come Velluto blu, o forse ancora di più, il film è un inebriante miscela di estrema brutalità e di umorismo. Tutto ciò che era luminoso lʼho reso un poʼ più luminoso, e tutto ciò che era nero un poʼ più nero. Mi piace che in un film ci siano contrasti, perché la vita alterna aspetti orribili ad altri meravigliosi. La gente, quando parla con me, si sofferma soltanto sulle parti cupe e spaventose dei miei film, senza neppure accennare agli elementi che la mettono di buon umore. Giusto o sbagliato che sia, il personaggio di Dennis

Hopper in Velluto blu è, a detta di molti, il migliore di tutti, e malgrado ciò quella storia ha anche unʼaltra faccia. La scena in cui Sandy parla a Jeffrey dei pettirossi ha una grande importanza per me. Capisco chi dice che il film mostra cose strane e grottesche, ma anche il mondo è strano e grottesco. Si dice che la realtà è più strana della finzione. Tutte le stranezze del film derivano da questo mondo, quindi non può essere poi tutto tanto strano. La cosa che amo di più è lʼassurdità. Trovo che ci sia dellʼautentico umorismo nella lotta contro lʼignoranza. Se si vedesse un uomo sbattere ripetutamente contro un muro fino a ridursi in una poltiglia sanguinolenta dopo un poʼ ci si metterebbe a ridere, a causa dellʼassurdità della scena. Ma nellʼinfelicità non ravviso soltanto lʼaspetto umoristico: trovo estremamente eroico il modo in cui la gente continua a tirare avanti nonostante la disperazione che spesso la invade. La natura estrema dellʼilarità e dellʼorrore del film lo rende più crudamente surreale, per esempio, di Velluto blu. In questo senso, secondo alcuni critici, si trattava di «David Lynch che imitava David Lynch»… Credo che il pubblico americano abbia parecchia familiarità con il surreale. È assurdo pensare il contrario. Il fatto è che gli è stato detto che non lo capisce. Ovunque vai ci sono dei vecchi che raccontano storie surreali con singolare umorismo. E tutti quanti hanno un amico che si comporta in maniera totalmente surreale. Lo scorgo dappertutto: guardo il mondo e attorno a me vedo lʼassurdità. La gente fa continuamente cose

strane, al punto che di solito facciamo in modo di non accorgercene. Ecco perché mi piacciono tanto i caffè e i locali pubblici. Sì, insomma, ce li trovi tutti, lì. Nel film, oltre alla violenza, cʼè anche parecchio sesso. Tuttavia è molto più giocoso degli accoppiamenti depravati di Velluto blu. Beʼ, unʼaltra cosa che mi piacque del libro di Barry era la libertà di Sailor e Lula nei confronti del sesso. In un mondo ideale lʼuomo e la donna sarebbero sempre diversi tra loro, ma in una condizione di parità. Per quanto pazzi fossero quei due, nella loro relazione cera molta libertà, felicità e uguaglianza. E Nick Cage e Laura Dern erano mentalmente in linea con tutto questo. In realtà alcuni tratti del loro carattere erano simili a quelli di Sailor e Lula, e quindi le scene di sesso sono state davvero «selvagge» e divertenti. Qualsiasi cosa facessero non cera niente di forzato. Sembrava proprio di leggere Le gioie del sesso! (Ride) È stato molto piacevole. Pare che Orson Welles abbia detto che ci sono due cose irrappresentabili al cinema: il sesso e la preghiera. Su questo non sono dʼaccordo, tuttavia credo che siano faccende piuttosto delicate!

Uguali ma diversi. Sailor (Nicolas Cage) e Lula (Laura Dern) passano le ore a letto in Cuore selvaggio (1990).

Come ti sei trovato nel dirigere un road movie? Il problema è che detesto le camera car; salvo che per questo film ne avevamo di favolose, e cerano persone che sapevano farle funzionare velocemente e in modo sicuro. Cʼera una scena bellissima, che poi fu tagliata per il 99 per cento. In quei giorni stavamo girando soltanto scene di auto. Bisognava essere sul posto alle sei del mattino, quando è ancora buio. Siamo lì e i ragazzi stanno allestendo lʼautomobile. Bene. Ho la mia ciambellina, il mio caffè e unʼintera giornata programmata davanti a me. Alle otto del mattino stanno ancora sistemando la macchina. Niente di male: due ore. Alle dieci e quindici dico a Steve Golin: «Steve, legami alla macchina e giriamo!». F. lui: «David, non possiamo assolutamente legarti alla macchina. Finirai ammazzato e quelli dellʼassicurazione si infurieranno; non è legale e la

responsabilità è mia. Va a parlarne con il primo poliziotto che ti capita e ti dirà che non puoi farti legare allʼauto». Ribatto: «Steve, se per le undici e mezzo non avranno finito andrò sulla macchina». E lui: «Non ci andrai su quella macchina, David». Dopo pranzo - un lungo pranzo - stanno lì ancora alle prese con lʼauto. Alle tre e mezzo del pomeriggio cominciamo a girare la scena, ma il sole tramonta e rimaniamo senza luce. Possiamo girare in una sola direzione, perché il sole fa capolino da un canyon ed è tutto rosso e sottoesposto. Così lavoriamo finché non cʼè più luce, ma non riusciamo a fare la scena. Tiriamo fuori solamente una schifosissima ripresa della discesa da una montagna. Abbiamo perso una giornata intera. Ogni volta che si fanno riprese in auto va a finire così: lʼidea dellʼazione mi piace, ma tutto lo slancio si perde nei preparativi. E di queste scene ce ne sono molte, in Cuore selvaggio. Già; e dovevano essercene di più, ma non riuscimmo a girarle. Così, ogni volta che riesco ad avere lʼarmamentario pronto e funzionante, giro quante più scene è possibile, anche se il luogo non centra niente. Le faccio nel caso che in seguito qualcosa vada storto (Ride). Ho letto una corrispondenza dal set nella quale Willem Dafoe diceva che si era divertito molto a fare il film, perché a ogni suo suggerimento tu rispondevi sempre: «Facciamo un tentativo». A quanto pare ti piace giocare con i vari aspetti dellʼinterpretazione.

Beʼ, innanzitutto devo dire che Willem ha dato unʼinterpretazione assolutamente perfetta dallʼinizio alla fine. Bobby Perù era un personaggio molto particolare e Willem è riuscito a calarsi in lui come nessun altro avrebbe potuto! Ma avrei altri episodi da raccontare, come quello di Kyle per Velluto blu: tanto per fare lo scemo si mise a rifare la camminata da pollo dei tempi della scuola. Impazzii! Così la introducemmo nella scena in cui lui cammina con Sandy; sai, quel genere di stupidaggini che si fanno con le ragazze: ti comporti da sciocco e loro si divertono! Questo particolare diede nuova vita al personaggio. Cose come queste gli attori le fanno in continuazione, ma bisogna impedire loro di scatenarsi (Ride). Lʼattore inglese Freddie Jones compare regolarmente nei tuoi film. Freddie Jones mi piace molto. È una delle migliori persone al mondo! Freddie Jones… Amo quellʼuomo! (Ride) In Cuore selvaggio Jones fa una piccola, strana apparizione nei panni di un tipo da bar, di nome George Kovich. Perché un cammeo così breve e bizzarro? Beʼ, originariamente, nel libro di Barry, Freddie aveva un lungo monologo sui piccioni: «Topi con le ali». Era fantastico! Divertente da morire. Ho dovuto mettermi un cappello da cowboy, gli occhiali scuri e un fazzoletto sopra la bocca: non riuscivo a smettere di ridere! Sapevo di sbagliare. E comunque se non capitava a me era Laura a perdere il controllo. Una volta successe anche a Nick, e in qualche occasione pure a Freddie. Andava sempre

peggio (Ride), poiché tutti gli attori che stavano nel bar Freddie, Nick e Laura - si erano calati completamente nei loro personaggi! Fu per questo che doveste eliminare la scena? No. La eliminammo perché era troppo bella. Non finiva più. Perciò continuammo a tagliarla e a fare esperimenti con le varie parti, finché non fu come si presenta ora. Una volta Duwayne stava rivedendola in moviola usando il fast forward, e sentii la voce di Freddie accelerata. Stavo per rimanerci! Pensai: «Ecco come farò!». Telefonai a Freddie a Londra e gli dissi: «Freddie, devo dirti una cosa: quasi tutta la scena è stata tagliata e voglio alzare il tono della tua voce». E lui: «David, fai come ti pare. Sono certo che andrà benissimo». «Grazie, grazie, amico» risposi. Ecco come nacque la cosa (Ride). È un grande attore, Freddie. In The Elephant Man recitava la parte di una persona seria e tormentata, ma ha un umorismo, una vulnerabilità e un modo di dire le cose che mi fa impazzire. Adoro come parla, adoro le sue preoccupazioni e la sua impulsività. È la quintessenza dellʼattore. Tutta la sua vita è così. In precedenza abbiamo discusso della fortissima scena dellʼincidente dʼauto con Sherilyn Fenn. Un altro faccia a faccia particolarmente memorabile e imbarazzante è la scena del «Dimmi “scopami”» tra Lula e Bobby Peru. Come nacque? Non so esattamente come fu. Nel libro in realtà erano Sailor e Bobby Peru a macchinare tutto. Lula non centrava per niente. Ma dal momento che Lula e Sailor erano in condizione di parità, pareva giusto che Bobby

Peru - lʼ«Angelo Nero» - li tentasse entrambi. Non so quale delle due nacque prima - la scena o questʼidea - ma la scena, per così dire, si scrisse da sola. Per Cuore selvaggio è capitato, qualche volta. Come nella sequenza dellʼincidente dʼauto. Sherilyn Fenn mi ha sempre ricordato una bambola di porcellana. E vedere una bambola di porcellana rotta… Ne parlai a lungo con lei, e la situazione venne a galla. Alle prime proiezioni di prova ci furono reazioni molto negative. Cosa successe esattamente e perché? Alcune scene erano molto violente. Da una di quelle proiezioni uscirono dalla sala ben 300 persone su qualcosa come 350! (Ride) Una scena, in particolare, si era spinta troppo in là, tanto che la gente non soltanto abbandonò il film, ma si arrabbiò moltissimo. Il pubblico prima si ribellò e poi lasciò fisicamente la sala. Si tratta di una di quelle cose che si imparano dalle proiezioni: cambiare qualcosa al fine di impedire che la gente se ne vada può anche essere definito un compromesso, ma in quel caso credo proprio di aver esagerato. Qual era la scena in questione? La tortura e lʼuccisione di Johnnie Earragut, interpretato da Harry Dean Stanton. E nonostante ciò il pubblico dei test accettò che Bobby Peru si facesse saltare la testa con una pistola? Già. Anche quella era dura, ma ormai il film era quasi alla fine; e poi, almeno in apparenza, Johnnie non se lo

meritava proprio, mentre Bobby sì. Inoltre Johnnie era il solo a non essere sfiorato dalla vena di umorismo che percorreva tutto il film: con lui in scena sembrava scomparire. Quella mescolanza indisponeva la gente. Ma dopo che operammo quei piccoli cambiamenti il pubblico apprezzò il film. Credo che ci sia un confine magico al quale puoi avvicinarti ma che non puoi oltrepassare, se non mettendoti nei guai. Quelle reazioni negative ti sorpresero? Un poʼ sì. Ho detto che per tutti esiste una linea da non valicare, ma è diversa per ognuno. Non credevo di essermi spinto al punto da indurre il pubblico a rifiutare il film. Tuttavia, ripensando allʼaccaduto, ritengo di esserci andato molto vicino. Del resto Cuore selvaggio parlava anche di questo: insania, malattia e alterazione. Proprio come nella vita, non è così?

«Dimmi “scopami”». Lula (Laura Dern) sente su di sé il fiato di Bobby Peru (Willem Dafoe) in Cuore selvaggio (1990).

Riuniti a inventare soluzioni onorifiche. Harry Dean Stanton (Johnnie Farragut) discute una scena con Lynch sul set di Cuore selvaggio (1990).

Non vorrei dare lʼimpressione di essere uno che se ne sta lì seduto a escogitare cose orribili. Ho idee e sentimenti di ogni genere. Se sono fortunato le idee si organizzano in una storia; altre sono forse troppo spaventose, troppo violente o troppo divertenti, e non si adattano a quel lʼintreccio. Perciò me le annoto e le tengo da parte per i progetti futuri. Non cʼè nulla che non si possa tentare, in un film: se ci rifletti sopra, finirai per arrivarci. Alcuni critici hanno affermato, col senno di poi, che la violenza di Cuore selvaggio, non comune nella produzione americana indipendente dellʼepoca, sembra accordarsi perfettamente al clima che si sarebbe creato a Los Angeles poco dopo lʼuscita del film. Beʼ, lessi per la prima volta Wild at Heart molto prima dei disordini, che comunque non seguirono immediatamente lʼuscita del film. Ma la follia era

nellʼaria e contagiava tutti. È come se la mente fosse una trottola: gira sempre più vorticosamente finché, quando comincia a traballare, può smarrire il controllo in maniera tremenda. Tutti ne risentono. Nel traffico, per esempio, la gente perde le staffe. Nemmeno a casa riesci a rilassarti: la televisione ti bombarda e la tensione monta sempre di più. Come quando viaggi su un 747: se qualcosa va storto non puoi farci niente. La gente ha smarrito il filo della situazione, ed è piena di paura. Comʼera Los Angeles durante i disordini? Beʼ, il fumo saliva fin sopra la montagna: appiccavano il fuoco sullʼHollywood Boulevard. Cʼera la sensazione diffusa che qualcosa fosse drasticamente andato fuori posto, ma nessuno muoveva un dito. Si viveva con il timore che potesse succedere di tutto. Era snervante. Ha del surreale osservare la gente mettersi quasi in posa davanti alle telecamere dei notiziari tv mentre continua il saccheggio, scoppiano migliaia di incendi e succedono cose strane. Erano andati tutti quanti fuori di testa. Ma poi rabbia e follia iniziarono a scemare? Beʼ, certo, dopo una simile successione di eventi la gente comincia a unirsi: si impegna e tenta di dare il suo aiuto. È la quiete che viene dopo la tempesta, e questo è bello. Quindi si potrebbe dire che ci sono stati anche dei risvolti positivi. Tuttavia non sono convinto che lʼesperienza insegni; si è destinati a ripetere il passato allʼinfinito. È stupido, ma è così. Secondo te era inevitabile che prima o poi qualcosa si incrinasse?

Oh, sì. A posteriori ci si è resi perfettamente conto del perché accadde tutto questo. Le incomprensioni possono protrarsi solo fino a un certo limite. Nei primi anni novanta vedevi il mondo «selvaggio nel cuore e strano in superficie» e oggi ritieni che stia continuando a peggiorare. Quali sono le cause, secondo te? Te lo spiego. Ogni anno permettiamo sempre più alla gente di farla franca. Questo perché siamo disorganizzati, non abbiamo una leadership, non siamo abbastanza tempestivi nel prendere decisioni e non ci sta a cuore ciò che prima funzionava. Stando così le cose, diventa sempre più facile farla franca. Non so quando sia iniziato, ma tutto questo mi ricorda Dune: cominciai quasi subito a cedere su qualche piccola cosa, poi su altre… Ben presto diventò un problema. Si tratta di una faccenda che non ha niente a che fare con la sinistra o con la destra. Anche quelli sono concetti ingombranti. Credendo di essere più comprensivi, in realtà cediamo su questioni importantissime; facciamo concessioni che si ripercuotono negativamente sugli altri e poi anche su noi stessi. Non so se la situazione sia mai stata buona, ma so per certo che avrebbe potuto essere migliore. Dobbiamo contenerla abbastanza a lungo per mettere a punto un nuovo progetto, un progetto che riconosca tutte le voci. Questo potrebbe significare avere polizia dappertutto per cinque anni, solo per impedire che si verifichino orribili episodi mentre ci riorganizziamo cercando di rendere tutto più equo. Il fatto è che non lo stiamo facendo, e quindi qualcosa ci sta sfuggendo di mano.

Prendi la zona centrale di Los Angeles, che era una città bellissima: una volta cerano edifici di qualità, per i quali ci si era data la briga di sommare un poʼ di bellezza allefficienza. Ora quegli edifici versano in un tale stato di degrado da doverli quasi demolire, visto che i danni sono irreparabili. Se qualcuno avesse cominciato a sistemare le cose dieci anni fa avrebbero potuto salvarli, preservandone la bellezza. Invece oggi il centro di Los Angeles mi ricorda molto Philadelphia. Un poʼ di ristrutturazione urbana e qualche restauro sono stati fatti, ma in un certo senso è ancora peggio. È bizzarro come questa esigenza debba partire dal basso e calare dallʼalto nel medesimo tempo. Ma a tuo avviso su tutto questo non influisce minimamente la scelta tra una leadership democratica o repubblicana? No. Purtroppo bisogna trascendere questo modo di pensare e cominciare a discutere di questioni che tutti possano appoggiare. Per un poʼ un leader può ispirare la gente, se dice le cose giuste nel modo giusto. Ma oggi, anche se le parole ci sono, il potere manca. A quanto pare, nel momento in cui i politici smettono di parlare, la gente comincia a vedere mille difetti e tutto va in fumo; non serve a niente. Ma è un compito quasi impossibile. Già, ma mi chiedo se il problema, in realtà, non stia tanto in quello che dicono quanto nel modo in cui lo dicono, e in ciò che pensano nel loro intimo nel momento in cui lo dicono. È come se la testa fosse stata mozzata e il corpo sanguinasse.

Trovi che non sia cambiato niente da quando Clinton è stato eletto presidente? Secondo me, quando ne hai avuto abbastanza di qualcosa, il pendolo si sposta. Ti rendi conto che una qualsiasi posizione estrema può durare soltanto per poco, poi si torna indietro. È naturale, come le onde dellʼoceano. Sarà sempre così: si cerca sempre il meraviglioso punto di equilibrio, ma è impossibile trovarlo. Non ti ci puoi proprio aggrappare, in un mondo come questo. Quali sono, attualmente, le manifestazioni più preoccupanti di questa mancanza di equilibrio? Lʼatmosfera è sempre più strana, e ci contagia. Consapevolmente o no ne siamo influenzati: fisicamente, emozionalmente, mentalmente e spiritualmente. Cʼè nellʼaria una tensione che non si allenterà; anzi, sta crescendo. E inoltre si avverte la sensazione diffusa che non sia possibile fare progetti per il futuro. Si ragiona a breve termine: prenditi ciò che desideri finché puoi, perché per come vanno le cose tra poco non ci sarà più niente. Così nessuno pulisce la sporcizia che lascia, nessuno costruisce più per il gusto del bello: si abborraccia qualcosa ed è come vivere in una tenda anziché in una casa. Tutta robaccia. Manca la gioia di costruire. Prendi quei posti moderni: ci entri, e invece di provare entusiasmo ti viene solo voglia di vomitare! I tappeti trasudano formaldeide e ci sono schifezze tossiche dappertutto

Prendi ciò che desideri finché puoi. Sailor (Nicolas Cage) e Lula (Laura Dern) a una stazione di servizio in Cuore selvaggio (1990).

(Ride). Per strada ti sparano, e sulla freeway è impossibile viaggiare. Una volta mi è quasi venuto un infarto, sulla freeway! La gente guida tenendo una distanza di dieci centimetri e va a 120 allʼora dove il limite di velocità è di 90. Vivono tutti quanti sul filo del rischio. È un poʼ come essere chiusi in una stanza con dieci maniaci. Sai che da qualche parte cʼè una porta e che sullʼaltro lato della strada cʼè un posto di polizia dove possono proteggerti, ma intanto ti trovi ancora lì dentro. Non serve sapere che esistono altri luoghi, se sei bloccato nella stanza. Sembrano parole dettate da un profondo pessimismo. No, sono un grande ottimista, te lʼassicuro! Però dobbiamo vincere una buona dose di inerzia; dobbiamo essere ottimisti e confidare che tutto possa cambiare direzione.

Con Cuore selvaggio hai vinto la Palma dʼoro a Cannes proprio mentre Twin Peaks stava sbancando gli ascolti in televisione. Un doppio colpo che capita raramente, a un cineasta. Lo so! Vincere a Cannes è stata la cosa peggiore che mi sia mai capitata (Ride). Fu davvero bellissimo, poiché a Cannes partecipai a un Festival che avevo sempre amato: cʼera appena stato Felli ni e inoltre era nel Sud della Francia, acqua turchese e colline giallo ocra. Da non credere. Mi sentivo il cuore così leggero. Me ne stavo lì a bermi il paesaggio; e poi, come la ciliegina sulla torta, la Palma dʼoro: non riuscivo proprio a crederci! Però tornarci nel ʻ92 con Fuoco cammina con me, fu unʼesperienza completamente opposta: le due situazioni si controbilanciarono. A quellʼepoca, oltre a riscuotere un enorme successo con la serie tv e a vincere a Cannes, ti occupavi di molte altre cose. Hai fatto una breve incursione nel video pop con Wicked Games di Chris Isaak, che compare nella colonna sonora di Cuore selvaggio, e in seguito hai realizzato anche un video promozionale per lʼuscita dellʼalbum Dangerous di Michael Jackson. Tuttavia da allora hai accantonato quel tipo di attività. Perché? Beʼ, sai comʼè quando una canzone ti cattura. Credo che se ne ascoltassi una che davvero reclamasse delle immagini particolari mi verrebbe voglia di lavorarci sopra. Nei video musicali, o almeno in quelli realizzati finora, non ci sono dialoghi, non ci sono effetti sonori di altro genere e nemmeno silenzi. Cʼè solo la canzone, e la si riempie di milioni dʼinquadrature da un secondo.

Alcuni di questi lavori sono supercreativi e sembrano davvero sostenere il brano, anche se parecchie persone criticano il fatto che ora, quando sentono la canzone, non riescono a vedere che quelle date immagini, mentre prima la musica li faceva veramente sognare. In ogni caso hai finito per mettere comunque in scena, a New York, la tua ambiziosa performance pop Industriai Symphony No. 1: The Dream of The Broken Hearted, con Angelo Badalamenti e Julee Cruise. Cosa ti aveva indotto ad accostarti al teatro? Beʼ, ogni anno la Brooklyn Academy of Music organizza iniziative del genere, e quella volta chiesero a me e ad Angelo di fare qualcosa per loro. Si trattava di due performance di quarantacinque minuti, che sarebbero state rappresentate in un teatro stupendo: un autentico gioiello, come oggi non se ne costruiscono più. Aveva vari livelli, molto al di sotto del palcoscenico e oltre venti metri sopra, e quinte enormi. Ci si poteva fare di tutto. Ci diedero due settimane per preparare qualcosa. Mi venne quellʼidea e buttai giù un bel poʼ di disegni. Cera anche il piccolo Mike di Twin Peaks, oltre a molti altri. Stavo giusto per ultimare Cuore selvaggio, perciò filmai una conversazione telefonica tra Nick Cage e Laura Dern in cui lui dice alla sua ragazza che sta per lasciarla, e con quella aprimmo lo spettacolo. Poi arrivò la coreografa con due danzatori, un uomo e una donna, veramente straordinari, e facemmo partecipare anche loro allo spettacolo. Julee Cruise, che cantava le canzoni scritte da me e Angelo, era la star. Mi sarebbe piaciuto introdurre altri elementi ma fu comunque un gran

divertimento, poiché mettemmo in piedi tutto in gran fretta. Quale fu la reazione dellʼestablishment musical-teatrale nei confronti di un cineasta che metteva in scena un evento del genere? Percepii qualche critica negativa. Mia figlia Jennifer era tra il pubblico e qualcuno dietro di lei disse: «David Lynch non dovrebbe mai più mostrare la sua faccia in pubblico!» (Ride). Credo che non abbia avuto un gran seguito. Il video invece ebbe maggiore fortuna. Non so nemmeno se abbiano scritto qualcosa al riguardo. Come arrivò, se ne andò. Una sera venne mia zia Edna, che fu quasi la star del dopo spettacolo. Ci cercavamo da tempo, e la cercavano anche molti altri che lavoravano con me. A un certo punto si aprirono le porte e zia Edna fece il suo ingresso: assomigliava a Roy Orbison con i capelli turchini! Aveva dei capelli fantastici, e portava gli occhiali scuri. Era bellissima! Incredibilmente bella. Fu lei la vera attrazione. Rammento che Julee Cruise disse che per dirigerla usavi frasi del tipo: «Sei sul palcoscenico, è buio e non vedi la casa. Ti senti sola». Questo dimostra come fosse tua intenzione creare una certa atmosfera per lo spettacolo. Sì, unʼatmosfera cera, questo è certo. Ma ero alla mia prima esperienza teatrale e imparai che ci sono molte cose che vanno per il verso sbagliato, e che ce ne sono ancora di più che vanno quasi per il verso sbagliato. La Propaganda Films ci aiutò a produrre lo spettacolo; quando arrivarono gli operatori li vidi discutere con

Steve Golin e Monty Montgomery. Parlavano a voce bassa e mi lanciavano occhiate furtive. Io stavo lavorando; cercavamo di provare nel pomeriggio e non avevamo proprio tempo. Provavamo più o meno come se fosse stato un film: cominciavamo dallʼinizio e risolvevamo i problemi man mano che si presentavano. Intanto le lancette dellʼorologio si erano messe a girare vorticosamente, e le ore sembravano minuti. Alla fine afferrai di che cosa stavano parlando i ragazzi e i produttori. Qualcuno si avvicinò e mi disse: «Puoi alzare lʼintensità delle luci? Non riusciamo ad avere la giusta esposizione». «Assolutamente no» risposi. «Lavoriamo per il pubblico in sala; il film ha unʼimportanza secondaria. Le luci devono essere in un certo modo. Se facciamo come dite il film verrà benissimo, ma qui dentro sarà troppo luminoso». Allora Monty si girò e mi disse: «David, ci hai appena fatto perdere 50 000 dollari». La tensione era alta. Poi però scoprii che il problema dellʼesposizione era meno grave di quanto credessero: ci bastò alzare un poʼ le luci perché fossero più che soddisfatti. Quando si fa un film le prove sono importanti, ma per il teatro sono essenziali: sul palcoscenico non puoi fare unʼaltra ripresa! Come ti sei organizzato, visto il poco tempo che cʼera? Beʼ, un giorno vennero a dirmi che il periodo delle prove era quasi finito: non che in quel momento non cʼera più tempo e che avremmo potuto riprendere il giorno dopo, ma che il tempo per le prove era proprio finito. La volta successiva sarebbe stata sul palcoscenico, con duemila persone in sala! Così mi venne unʼidea, che suggerisco a

chiunque si trovi in una situazione del genere. Vai da tutte le persone che lavorano con te, metti loro una mano sulla spalla, li avvicini a te e li guardi negli occhi. Poi descrivi esattamente a ciascuno qual è la loro battuta dʼentrata e tutto ciò che devono fare, cosa potrebbero immaginare facendolo, a cosa dovrebbero pensare e come dovrebbero uscire di scena. Insegni loro la parte e poi preghi. Non è necessario che sappiano cosa stiano facendo gli altri: basta che sappiano cosa stanno facendo loro. In questo modo hai qualche possibilità. Del resto nessuno ha mai visto lo spettacolo per intero e nessuno conosce il suo significato! Dopodiché, il direttore di scena diventa il re. Il suono, tutto digitale, venne registrato su una cassetta Vhs. Poi, con un attrezzo che noleggiammo, la cassetta fu convertita in suono e questʼultimo fu inviato agli altoparlanti. Ma durante le prove quellʼaffare si bloccò! Quelli che lʼavevano portato dissero che non capivano perché. Brutta risposta: significava che poteva succedere di nuovo! Perciò ce ne liberammo immediatamente e ci rimasero soltanto due impianti Dat, nei quali infilammo due minicassette. Lʼidea era di farle partire contemporaneamente, ma di trasmettere soltanto attraverso uno dei due impianti; così, se un Dat si guastava, potevamo ricorrere allʼaltro. Insomma, con quelle due cassettine Dat mettemmo su tutto lo spettacolo, e in alcuni punti il volume era molto alto. Per fortuna andò tutto per il meglio. Inoltre avevamo in scena un cervo scuoiato, sistemato su trampoli alti più di quattro metri. Agganciammo insieme due barelle e ci facemmo sdraiare sopra il tizio che stava dentro la pelle del cervo. A un certo punto

quella roba doveva prendere vita, ma il tizio era rimasto sdraiato tanto a lungo che quando venne drizzato sui trampoli - aveva i riflettori puntati addosso, e doveva anche spostarsi - gli defluì tutto il sangue dalla testa. Dato che non riusciva a capire cosa stava succedendo, si mise semplicemente a camminare… (Ride). Io ero troppo lontano, alle prese con i microfoni, e non potevo far niente. Era come assistere a un incidente senza poter prestare aiuto, ed è una pessima sensazione. Dunque lui si mette a camminare (Ride), e poi accelera il passo. A un certo punto si ferma: si dirige verso il golfo mistico, e sta quasi per cadere! Grazie a Dio lì vicino cʼè questo Fuji, che suona il tamburo militare: abbandona il suo strumento e afferra il poveretto prima che si sfracelli. E il pubblico è convinto che la scena sia parte dello spettacolo. Io mi limitai a dire: «Portate fuori il cervo!» (Ride). Il giorno dopo però il ragazzo con il costume da cervo non voleva saperne di tornare in scena. Dovetti raggiungerlo in camerino, ma lui non mi rivolse la parola. Se ne stava lì seduto, in silenzio. Allora capii che dovevo parlargli: gli chiesi di fare un altro tentativo e gli promisi di tenere i riflettori lontano dai suoi occhi (il piccolo Mike era lì in giro e, tenendo una luce proprio sopra la sua testa, lo aveva accecato). Quel ragazzo ci sapeva davvero fare con i trampoli, perciò gli dissi che se fosse stato necessario avrebbe potuto aggrapparsi allʼenorme cisterna che avevamo costruito sul palcoscenico. E in effetti, durante la seconda rappresentazione, si assicurò alla struttura. Non fu esattamente la stessa cosa, ma lui si era reso conto di ciò

che era stato sul punto di accadere e non aveva nessuna intenzione di ripetere lʼesperienza. A quel periodo risale anche la realizzazione di molti spot pubblicitari, spesso per profumi costosi e raffinati come Opium di Yves Saint Laurent, Obsession di Calvin Klein e Giò di Giorgio Armani. Esatto. Questʼultimo era il mio preferito. Giorgio mi telefonò personalmente per dirmi che aveva un nuovo profumo, e mi chiese di inventarmi qualcosa. Così scrissi una cosa, una specie di poesiola, e gliela inviai; lui mi mandò i soldi e cominciammo a girare! Evidentemente gli piacque molto, e fu un bene per il prodotto. Cosa ti attrae nel girare spot pubblicitari? Beʼ, gli spot sono dei piccolissimi film, e facendoli imparo sempre qualcosa. Mi piace molto di più lavorare per lʼEuropa: lì ti danno molta più libertà, sono più rilassati e si divertono a girare. Nelle società americane sono tutti molto più nervosi: le loro carriere sono sempre a rischio e sono seriamente preoccupati, il che rende tutto molto meno piacevole. Non ho nulla contro di loro. Non cerco di fare cose del tutto personali: cerco solo di fare ciò che ritengo sia giusto affinché il prodotto si venda. Comunque a me piace fare spot sulla falsariga di quelli che ho realizzato: la linea narrativa, il modo in cui fluiscono. Credo di avere avuto la più ampia libertà con Whoʼs Giò? Un ambizioso corto di sessanta secondi.

Già. Girammo la scena principale, quella con i musicisti nel locale, la notte che scoppiarono i disordini a Los Angeles. Nel locale cerano persone di ogni razza e religione e andavamo tutti perfettamente dʼaccordo, mentre intanto là fuori il mondo cadeva a pezzi! Gli spot che ho trovato più sorprendenti sono quelli per Georgia Coffee, poiché erano ambientati a Twin Peaks e vi comparivano molti attori della serie. Era una storia a episodi, in cui un giapponese di nome Ken pareva trovarsi a Twin Peaks alla ricerca della moglie scomparsa… …Namoi. Già, lʼaveva persa. Quegli spot furono un vero spasso. Erano quattro, di soli trenta secondi lʼuno: doveva essere tutto velocissimo. Per te fu un problema attingere a Twin Peaks al fine di realizzare spot che potevano pregiudicare in parte la serietà o la magia della serie? Certo. In linea di principio sono molto contrario a operazioni del genere, ma in quellʼoccasione mi divertii molto. E poi erano spot destinati solamente al Giappone, per cui mi sentivo tranquillo. Quindi se fossero stati per il mercato americano non li avresti fatti? No, credo di no. Le loro riprese furono effettuate parallelamente a quelle di Twin Peaks? Li girammo durante la seconda stagione, o forse dopo che la serie era terminata in America ma ancora in programmazione in Giappone.

Nicolas Cage (Sailor) e Lynch sul set di Cuore selvaggio (1990).

Probabilmente la società di caffè si rivolse a te perché la serie faceva molto per promuovere lʼ«immagine» del caffè in generale. Oh, sì, è certamente così. La Georgia Coffee produce caffè in lattina. In Giappone ci sono qualcosa come 150000 bevande in lattina diverse, e ogni settimana ne escono di nuove. Si tratta di un giro daffari enorme. Il Georgia Coffee è il caffè in lattina più diffuso, e ne hanno per tutti i gusti. Alla società però i nostri spot non piacquero. Li volevano più tradizionali, e fu per questo che non continuammo. Avremmo dovuto proseguire per un secondo anno con altri quattro film di trenta secondi, ma la società non volle più farli. Attorno al 1990 a quanto pare eri dappertutto: era il periodo del successo con la serie tv, del premio a Cannes, della striscia a fumetti settimanale, della rappresentazione teatrale e dellʼalbum con lulee Cruise, dei numerosi spot pubblicitari. È

stato perché stavi attraversando una fase di enorme esplosione di energia creativa? Unʼesplosione del destino, piuttosto! Avevo sempre fatto mille cose, o comunque ero sempre stato pronto a mettermi al lavoro. Ma qualche volta, sai comʼè, il destino non schiude le porte. Semaforo rosso. Però, non appena ti viene data lʼopportunità di realizzare una cosa, poi unʼaltra e poi unʼaltra ancora, ti dai da fare. Ma è anche vero che ti incammini verso il disastro. Presto o tardi tutti raggiungono un punto al di là del quale gli eventi cominciano a rivoltarglisi contro. Pensi che sia inevitabile? Rientra nella natura umana. Solo non credi che possa capitare proprio a te. È come la morte. Invece succede, dopodiché rinasci a nuova vita. In un certo senso, per quanto doloroso possa essere, cʼè un che di positivo in tutto questo, perché ti riporta in una zona nella quale almeno hai la libertà di muoverti in altre direzioni. Quello era anche il periodo della tua relazione con Isabella Rossellini, il che può aver ulteriormente contribuito a creare lʼimmagine di un David Lynch beniamino dei media. Tutto ciò ti innervosiva? Il successo è un diavolo seducente, e spesso non sei abbastanza furbo da capirlo. Poi una parte di te si rende conto che le armi vengono caricate e che il cappio viene annodato…

9. Formiche nella mia casa Strade perdute

A dispetto della velocità con cui, nel 1991, Fuoco cammina con me entrò in produzione, a Lynch sarebbero stati necessari ben quattro anni per far decollare il film successivo. Questa situazione era parzialmente dovuta al problema del reperimento del progetto adatto, cioè di qualcosa di cui Lynch potesse innamorarsi, nonché alla scarsa rispondenza di critica e pubblico nei confronti di Fuoco cammina con me. Ormai Lynch era inevitabilmente considerato un regista a rischio, soprattutto in vista di operazioni ritenute eccessivamente costose o «difficili». Tra i progetti che non riuscirono a ottenere finanziamenti figura il lungometraggio Dream of The Bovine. Lynch lʼaveva scritto con Robert Engels, che in precedenza aveva firmato dieci episodi della serie di Twin Peaks e cosceneggiato la versione cinematografica con lo stesso Lynch. Fu dopo queste esperienze che le loro numerose collaborazioni si concentrarono sulla commedia. Come spiega Engels, Dream of The Bovine narra di «tre ragazzi che una volta erano mucche. Vivono a Van Nuys, cercando di assimilare la propria vita a quella degli altri, di vivere come noi. Sembrano uomini, ma in realtà sono mucche e come tali si comportano. Si divertono a guardare le auto passare davanti alla casa e cose del genere!». Il rifiuto di Dream of The Bovine e della sceneggiatura di One Saliva Bubble, scritta da Lynch e Frost, ha finora privato il pubblico della possibilità di assistere a una commedia firmata da David Lynch,

malgrado lʼumorismo costituisca un elemento fondamentale della personalità del regista. Forse lʼequivalente più prossimo alla commedia rimane a tuttʼoggi The Cowboy and The Frenchman, un video di ventidue minuti commissionato nel 1988 da Le Figaro Magazine ed Erato Films come parte di una serie realizzata da un gruppo internazionale di cineasti sul tema «Les Français vus par…». Unica incursione lynchiana nel genere western, per il quale il regista nutre un interesse piuttosto scarso, se non nullo, il film è profondamente radicato nel tipo di comicità da lui preferito, spesso sintomaticamente basato sugli equivoci e sul fallimento del linguaggio. Il film è «assurdo e stupido, nel vero senso della parola. Questa combinazione mi piace, ma a quanto pare piace solo a me!». Nonostante questo, Lynch trovò in Bob Engels un valido alleato: ciò apparve chiaro fin dal loro primo incontro, organizzato al fine di discutere le sceneggiature di Engels per Twin Peaks. «Dovevamo incontrarci di nuovo alle due e trenta, per cui dissi: “Quella è lʼora in cui i cinesi vanno dal dentista!”. E la prima battuta che ricordo di aver imparato, e anche la più stupida. David scoppiò a ridere e rispose: “Bellissima battuta!”, e da allora procedemmo da autentici “inseparabili”.» I primi anni novanta furono il periodo in cui Lynch, sempre in collaborazione con Mark Frost, intensificò il suo impegno nelle produzioni televisive. On The Air, una sitcom ambientata nel 1957 allo Zoblodnick Televisión Network di New York, disponeva di un cast di alto livello (comprendente anche alcuni attori fissi di Twin Peaks) e di una sceneggiatura brillantemente bislacca (di nuovo Engels era coinvolto nel progetto, ora anche in veste di coproduttore esecutivo). Ciò

nondimeno il suo inebriante cocktail di «assurdità e stupidità», slapstick e imprevedibile intelligenza si dimostrò disastroso. Infatti, sebbene ne fossero state commissionate sette puntate, dopo soli tre episodi On The Air fu cancellata dal palinsesto. Come ammette lo stesso Lynch: «In quel periodo per Twin Peaks le cose andavano piuttosto male, e inoltre la Abc non mosse un solo dito in favore di On The Air. Lo detestavano». Hotel Room, una trilogia di brevi episodi ambientati nella camera 603 del Railroad Hotel di New York, fu realizzato per la Hbo. Anche questʼimpresa pare essere stata accolta con indifferenza o con preoccupazione. Sia il primo che lʼultimo degli episodi - Tricks (ambientato nel 1969) e Blackout (ambientato nel 1936) -, entrambi avvincenti, furono scritti da Barry Gifford e diretti da Lynch. Getting Rid of Robert - sceneggialo da Jay McInerney per la regia di James Signorelli - appariva invece come un corpo estraneo: un pezzo leggero e umoristico destinato probabilmente ad addolcire la pillola delle cupe, misteriose e crude visioni lynchiane di quieta disperazione «con servizio in camera». Lʼinquietante Tricks - con il terzetto Freddie Jones, Harry Dean Stanton, Glenne Headly - e lʼaffascinante Blackout - con la coppia Crispin Glover e Alicia Witt sono notevoli tanto per la scrittura di Gifford, spoglia ed essenziale, quanto per il rispetto che I.ynch tributa al testo (lʼazione è osservata, piuttosto che creata, da due macchine da presa), nonché per la potenza della recitazione. Nella loro semplicità, nelle momentanee insorgenze di un senso di minaccia e nellʼatmosfera di panico splendidamente trattenuta, entrambi i lavori preannunciano alcuni aspetti del successivo film di

Lynch; Strade perdute, ispirato a un brano di Gifford e primo frutto della loro collaborazione come cosceneggiatori. Tricks, in particolare, contiene lontani echi del film a venire nei temi dellʼidentità incerta e dellʼuxoricidio. Di Gifford scrittore si è parlato in Booklist: «La sua “gente di notte” è una strana mescolanza di autentica bizzarria e solida umanità, rampante eccentricità e assoluta individualità. Nella vita ci sono cose che sfuggono a ogni analisi: Barry Gifford è una di queste». Nessuna meraviglia, dunque, che Gifford e Lynch abbiano finalmente trovato una fusione perfetta in Strade perdute, il film narrativamente più ambizioso e, secondo Gifford, il più vicino a Eraserhead che Lynch abbia mai realizzato. «Credo che Strade perdute sia un film molto serio, e in questo mi sento di associarlo a Eraserhead. In qualche modo è un ritratto molto commovente. Non me ne resi conto finché non cominciai a visionare i giornalieri: fui impressionato da ciò che vi vedevo succedere.» Molto è stato detto sulla struttura narrativa di Strade perdute, un complesso intreccio di mondi paralleli e dʼidentità che rifiuta di svelare con facilità i suoi segreti. Ne sono conseguite una certa confusione da parte della critica e una diffusa ostilità. Analogamente a Lynch, Gifford è riluttante a descrivere il film in termini che renderebbero eccessivamente trasparenti i suoi misteri: «Credo che sia corretto affermare che si tratta di un uomo che si ritrova in una situazione atroce, che gli provoca una sorta di attacco di panico. Attraversa momenti di grande difficoltà nellʼaffrontare le conseguenze delle sue azioni, e questo in un certo senso lo distrugge. Credo che sia lo studio molto schietto e

realistico di una persona che non ha idea di come affrontare la situazione che si è creata. Ma in Strade perdute cʼè molto, molto di più: qualsiasi tipo di spiegazione si dimostrerebbe inadeguata, poiché un film è fatto per essere visto». RODLEY:

Tra Fuoco cammina con me e Strade perdute cʼè un intervallo di quattro anni. Come mai hai impiegato tanto tempo a far decollare il progetto di un nuovo lungometraggio? LYNCH:

Avevo tentato di mettere in moto delle cose, ma per una ragione o per lʼaltra non accadde mai nulla. Il problema è trovare qualcosa di cui innamorarsi. Non si può fare un film per denaro, né per qualsiasi altra ragione che non sia il fatto di essersi innamorati del materiale che si sta elaborando, provarne entusiasmo. In caso contrario non si potrebbe mai reggere la fatica del viaggio. Presumibilmente ti sarai innamorato di parecchie idee, nel corso di quei quattro anni. Certo, ma se si potesse tradurre in parole lʼequivalente simbolico di gran parte dei miei concetti visivi, probabilmente nessuno vorrebbe produrre i miei film! Io stesso non conosco il significato di molte cose; semplicemente, sento se sono giuste o no. E poi cʼè il destino: a volte il destino ti sorride, e determinati eventi non si verificano. Volevo fare Dream of The Bovine: probabilmente però non doveva essere quello il film successivo a Fuoco cammina con me, anche se in talune circostanze lʼavrei desiderato tanto. Non successe e basta: alcune cose possono succedere e altre no. Strade

perdute appariva il progetto giusto non soltanto a me, ma anche ad altre persone chiave che avevano i mezzi per tradurlo in realtà. È vero che uno dei progetti che da tanto tempo ti sta a cuore è un adattamento della Metamorfosi di Ka a? Sì, la sceneggiatura è pronta. Ha bisogno di qualche ritocco ma mi piace un sacco. Purtroppo è un film costoso, e non incasserebbe nulla. Che cosa te lo fa pensare? Beʼ, forse qualche soldo potrebbe farlo, ma è un poʼ verboso. I dialoghi sono fitti e per giunta spesso inintelligibili, tanto che dovrebbero essere sottotitolati. Sarebbe un poʼ come leggere un libro (Ride). Qual è il tuo particolare approccio alla vicenda? Per come ce lʼho in testa la farei come nel libro, ma spostata negli anni cinquanta, il ʼ55 o ʼ56. In realtà è una versione est-europea del ʻ56, malgrado sia ambientata in America. E poi, in maniera marginale, ci ho inserito anche il rockʼnʼroll. Kafka è come tutti gli altri autori: da dieci persone che lavorano alla stessa storia si otterrebbero dieci punti di vista completamente diversi. E il mio è quello giusto! (Ride)

Intanto hai naturalmente continuato a dipingere, oltre a espandere la tua attività di fotografo in direzioni nuove. Mi incuriosisce Testa di creta con tacchino, formaggio e formiche, una fotografia a colori apparsa sulla copertina del

secondo album che tu e Angelo Badalamenti avete realizzato con Julee Cruise. Cosa succede in quellʼimmagine? Beʼ, avevo le formiche in cucina: erano formiche dello zucchero, ma erano entrate per lʼacqua. Così modellai una piccola testa umana di formaggio e tacchino, la rivestii di creta e la montai su un piccolo attaccapanni. Inserii del tacchino nella bocca, negli occhi e nelle orecchie, in modo che fosse visibile. Sapevo che le formiche ne vanno matte, e manco a dirlo il giorno dopo avevano già trovato la testa, costruito una via di accesso e dato lʼassalto agli occhi e alla bocca. Si davano un gran daffare attorno a quella testa, portando via pezzetti di tacchino e di formaggio e tornando a prenderne altri. Lavoravano per me ventiquattrore su ventiquattro, e dopo quattro giorni avevano ripulito completamente lʼinterno di tutto il contenuto! Le formiche, comʼè noto, sono lavoratrici indefesse, e se riesci a inventarti un progetto alla loro portata lo realizzano senza perdere un attimo. Sono un vero allevatore di formiche! Unʼaltra fotografia, intitolata Uomo che pensa, raffigura un pupazzetto collocato in un ambiente da ufficio: stavolta però la testa è una poltiglia informe, come se a un certo punto Dio si fosse annoiato e non avesse terminato il suo lavoro come si doveva. La testa era fatta di gomma da masticare. La gomma Abc masticata ha un aspetto organico, carnoso, e con un poʼ dʼimmaginazione se ne può tirar fuori una testa. Perciò misi semplicemente della gomma masticata su un pupazzetto che avevo. Quando si fotografano oggetti molto piccoli la profondità di campo si aggira intorno ai sei millimetri. Il subconscio ti dice che ti trovi in unʼaltra

dimensione, il che rende quel mondo interessante da osservare. Poi, sempre a causa della questione della profondità di campo, feci unʼaltra foto, credo fosse un palazzo, e vi inserii la prima figura in modo da confondere del tutto le acque. È un connubio che mi piace molto. Una serie di fotografie di pupazzi di neve che hai scattato a Boise, Idaho, nel 1993, mi ha innescato parecchie riflessioni. Ancora una volta si tratta di creature dallʼaspetto strano, soggette al decadimento causato dal sole. Rappresentano la creatività della gente che abita in quelle case. Viene da chiedersi se quei pupazzi non somiglino agli abitanti del luogo, dal momento che se ne stanno lì in piedi come se montassero di guardia ai giardini che fronteggiano le abitazioni del quartiere. Sono figure molto suggestive. Dʼinverno a Boise nevica moltissimo. Anche se è assai raro che la neve venga giù bella fitta, la gente è solita fabbricarci pupazzi davanti alle proprie case, seguendo un dato criterio standard. Tuttavia ciò che mi stupì furono le variazioni sul tema. Non so chi fu il primo a costruire uno di quei pupazzi, fatto sta che avevano sempre pezzetti di carbone al posto degli occhi, la pipa in bocca e la sciarpa al collo. Oggi i tempi sono cambiati, si fanno delle figure molto più strane. E allora ti dici: «Accidenti, questi pupazzi sono davvero interessanti: sono fatti di neve, un materiale col quale non hai spesso la possibilità di lavorare e che rende fantastico lʼaspetto del corpo umano!». Mi piacerebbe farne altre, di quelle foto, poiché a loro volta anche le case che stanno dietro i pupazzi sono di grande interesse. E poi gli stessi pupazzi

sembrano altrettanti alieni. Sono immagini veramente fantastiche.

Testa di creta con tacchino, formaggio e formiche (1991). Foto di David Lynch.

Uomo che pensa (1988). Foto di David Lynch.

Pupazzi di neve a Boise (1993). Foto di David Lynch.

Unʼaltra delle tue serie fotografiche è Nudi e fumo, che a differenza di gran parte delle altre è a colori. Per certi versi si tratta di nudi femminili abbastanza canonici: ciò che li rende piuttosto misteriosi è la presenza del fumo, che sembra quasi emanare dallʼinterno dei loro corpi come se un lento fuoco li stesse letteralmente consumando. In origine era fumo di sigaretta. Poi però feci un passo ulteriore: perché non usare fumo puro? Il fumo oscura le cose, e crea unʼaltra struttura. Mi sembrava unʼottima combinazione, e quindi mi feci dare una macchina del fumo da Gary DʼAmico, la persona che si occupa degli effetti speciali. Ne ha allʼincirca un centinaio di tipi diversi. A me piace il fumo nero, ma ormai non esiste più. Il solo modo per ottenerlo è bruciare copertoni, ma è troppo tossico e niente affatto divertente. Oggi i nudi fotografici maschili e femminili sono immagini talmente diffuse da apparire ormai inflazionate. Volevi fare qualcosa di nuovo nel genere?

Questo è un punto di vista sbagliato. Lʼunico cosa giusta da fare è entusiasmarsi per unʼidea e mettersi al lavoro. Se ti metti a pensare a come il tuo lavoro verrà accolto, o se sei in grado o meno di creare qualcosa di nuovo, ti stai preoccupando del problema sbagliato. In Strade perdute cʼè unʼimmagine assai minacciosa e misteriosa, nella quale un solitario sbuffo di fumo sale per le scale di una casa buia. Sembra uscire direttamente da una delle tue fotografie. Cosʼè che ti attrae nel fumo? Il fumo è attivo: non sta mai fermo ed è mosso dalla minima brezza, perciò muta continuamente. Ma la macchina fotografica può «congelarlo». È davvero interessante vedere in una foto oggetti che normalmente si muovono, perché lì non possono più farlo. Si potrebbe fotografare il fumo un milione di volte e ogni volta si otterrebbero delle immagini emozionanti. E alcune balzerebbero agli occhi per la loro particolare stranezza o bellezza. Strade perdute è il secondo dei tre film previsti dal tuo contratto con la Ciby-2000. Evidentemente da parte loro cʼera la sensazione che sarebbe stato questo il progetto da far succedere al primo. Ti presentasti con la sceneggiatura già scritta dicendo «voglio fare questo film» o ne parlasti prima con loro? Come funzionò il vostro accordo? Ne discutemmo prima che cominciassimo a scrivere, ma

Barry

Gifford

e

io

Nudi e fumo (1994). Foto di David Lynch.

loro non sapevano di cosa si trattava dal momento che nemmeno noi lo sapevamo. Dapprima buttammo giù un trattamento, credo, ma quelli della Ciby sono buffi, perché è necessario un sacco di tempo per indurli ad approvare un progetto. Dopo lʼokay tutto filò liscio, di fatto però finimmo la sceneggiatura nel marzo del ʻ95 e non cominciammo le riprese che in novembre. Unʼautentica eternità solo per decidersi, stabilire i budget e discutere. Avrei voluto girare in estate, ma a quel punto era inverno e nel deserto si gelava! Come nacque lʼidea di Strade perdute? Beʼ, Barry Gifford aveva scritto un libro dal titolo Gente di notte, nel quale un personaggio usava lʼespressione «lost highway». Dissi a Barry che lo trovavo un titolo bellissimo e che avremmo dovuto scrivere qualcosa

insieme, e lui accettò. Questo accadde più o meno un anno prima che iniziassimo effettivamente la sceneggiatura. Tuttavia fu quel lʼespressione a far scoccare la scintilla. Quale fu lʼelemento che stimolò la tua immaginazione? Cʼè qualcosa di onirico in quelle parole, «lost highway». Evocano nella tua mente suggestioni di ogni genere. In seguito scoprii che Hank Williams aveva scritto una canzone con quel titolo. Dato che il vostro punto di partenza era costituito da due sole parole, le prime fasi del vostro lavoro furono agevoli? No. Ciascuno di noi aveva opinioni diverse riguardo a ciò che avrebbe dovuto essere Strade perdute. Ci incontrammo davanti a una tazza di caffè e ci scambiammo le rispettive riflessioni: ognuno però detestava le idee dellʼaltro, e dopo quella volta perfino le proprie! In seguito parlai a Barry di una serie di cose che mi erano balzate alla mente una sera, lʼultima delle riprese di Fuoco cammina con me. Ero in macchina, stavo accompagnando a casa Mary Sweeney e gliele raccontai, il che sembrò quasi spaventare sia lei sia me. Poi quando le esposi a Barry lui disse: «Cristo, mi piacciono davvero tanto», e da allora tutto assunse una direzione completamente nuova. Che cosa ti venne in mente, di preciso? Si trattava più o meno del primo terzo del film, tranne alcune scene che poi introducemmo nella sceneggiatura definitiva. Una videocassetta viene recapitata a casa di

una coppia. I due la guardano e scoprono che sono immagini della facciata principale della loro casa, ma non fanno alcuna illazione in proposito. In seguito però ricevono un secondo nastro: stavolta la videocamera, dopo aver attraversato il soggiorno, li ha ripresi addormentati nel loro letto. Tutto questo veniva immediatamente dopo il pestaggio di Fred al posto di polizia: come nel momento in cui allʼimprovviso ci si ritrova da qualche altra parte senza sapere come ci si è arrivati o che cosa stia andando per il verso sbagliato. Queste idee ti erano venute nel modo che hai descritto prima, cioè standotene semplicemente seduto da qualche parte in piena tranquillità permettendo alla mente di vagare alla ricerca di idee e di immagini? Già. Il mondo è sempre più rumoroso e lʼatmosfera sempre più frenetica, e perciò perfino lo starsene seduti tranquilli è diventato un problema. Il mio amico Bushnell Keeler diceva sempre: «Ci vogliono quattro ore ininterrotte per farne una di buona pittura». Quando si ha fretta non si riesce né a pensare né ad agire. Per raggiungere il luogo nel quale si afferrano le idee si deve proprio scendere in profondità, ed è necessaria la massima quiete. Lo fai in modo sistematico o ritualizzato? È una sorta di forma di meditazione? No. La meditazione è una faccenda totalmente diversa. Questa assomiglia di più alla contemplazione. Cominci a riflettere, una cosa conduce allʼaltra e a un certo punto non ricordi più da dove sei partito. Per un poʼ dimentichi addirittura a che stai pensando. Ti smarrisci, e se di

colpo ti trovi a piombare da una botola fin sopra alla grande idea, allora vuol dire che qualcosa si è messo in moto. E poi lʼinizio del film: «Dick Laurant è morto»… Una mattina mi sveglio e suona il citofono: «Dave!» dice una voce maschile. E io: «Sì?». «Dick Laurant è morto.» «Cosa?» faccio io. Eppure lì non cʼera nessuno. Non posso vedere la facciata principale se non attraversando tutta la casa e guardando fuori dal finestrone. E lì non cera proprio nessuno. Non so nemmeno chi sia, Dick Laurant: tutto ciò che so è che è morto! Chi vuoi che creda a questa storia? È. una storia vera! È andata così, lo giuro! Le sceneggiature di Eraserhead, Velluto blu e Cuore selvaggio le hai scritte tu stesso. Ti piace scrivere con altri? The Elephant Man lʼho scritto con Chris De Vore ed Eric Bergren, Twin Peaks con Mark Frost, Fuoco cammina con me con Bob Engels e questʼultimo con Barry. È una bella cosa, perché ci si può confrontare a vicenda. Se la situazione non inibisce la libertà di riflessione dà risultati molto positivi: infatti in due si procede più spediti, naturalmente a condizione che la chimica sia quella giusta. Se per Strade perdute avessi lavorato con Mark Frost sarebbe stato diverso. Il contributo di Barry è assolutamente peculiare alla sua personalità; e la combinazione, grazie alle nostre rispettive inclinazioni. ha prodotto qualcosa di concreto.

Mi sembra che tu abbia almeno una cosa in comune con Barry Gifford: a nessuno di voi due piace soffermarsi sul significato delle vostre opere, ed entrambi evitate di dare interpretazioni personali. È così? Certo. Riguardo a Strade perdute non abbiamo mai parlato di significati o roba simile. A quanto pare eravamo in perfetta sintonia, e quindi molte cose rimasero sottintese. Abbiamo avuto delle discussioni, ma a volte parlare può essere pericoloso; se si scende troppo nei dettagli, il sogno sʼinterrompe. Di tanto in tanto accadono eventi che ti aprono delle porte, e allora spicchi il volo e arrivi a intuire qualcosa di grosso. Sia la sceneggiatura che il film hanno tutta lʼapparenza della punta di un iceberg: entrambi abbondano di tracce e di possibilità, ma ad alcuni fatti si fa riferimento soltanto in modo indiretto. In sceneggiatura avevate deciso insieme ciò che sarebbe stato o ciò che non sarebbe stato reso esplicito? No. Non so se questo vale anche per Barry, ma per quanto mi riguarda ogni singola idea nasce accompagnata da una sensazione. Poi le idee si completano, e bisogna rimanervi fedeli lungo tutto il processo di lavorazione. Nella sceneggiatura ci sono parecchi sottintesi poiché sia io che Barry sapevamo che sarei stato io stesso a dirigere il film. In ogni caso, nonostante a mio avviso funzioni a meraviglia, lo script non è definitivo. Se lo fosse, ci si limiterebbe a pubblicare quello e tutto finirebbe lì! Cosa ti attraeva del lavoro di Gifford? Apprezzo molto un certo tipo di sensibilità che Barry possiede per le cose. È in grado di comprendere un

mondo che mi piace, e che piace anche a lui. Inoltre amo veramente i suoi personaggi e ciò che esprimono: sono «giusti», attuali. Cʼè anche unʼonestà di fondo, e poi, dal momento che Barry è uno scrittore parsimonioso, ho tutto lo spazio per prendere altre direzioni: il suo lavoro mi suggerisce spunti in abbondanza. Molti degli elementi che ho inserito in Cuore selvaggio sono certo che Barry non li aveva in mente, ma io li ho materializzati sia per il bene del film sia per lʼentusiasmo e lʼaffetto che provavo per loro. Dal canto suo Barry mi ha sempre dato il suo sostegno: per lui non era affatto un problema. Gifford ha detto che probabilmente lʼequilibrio tra voi due consiste nel fatto che tu rendi straordinario lʼordinario, mentre lui rende ordinario lo straordinario. Sei dʼaccordo? Questa è una trovata del suo amico Vinnie Deserio. Suona bene, ma non saprei proprio cosa dire in proposito. Gifford non ha partecipato affatto alla stesura della sceneggiatura di Cuore selvaggio, mentre in seguito, per i due brevi film televisivi da lui scritti per la tua serie della Hbo, Hotel Room, tu sei stato impegnato esclusivamente in qualità di regista e di produttore esecutivo. Non avevate mai scritto niente insieme, prima di Strade perdute; in questa occasione ci sono state discussioni sul modo in cui la sceneggiatura sarebbe stata tradotta in immagini? No. Barry sa bene che la sceneggiatura è una sorta di cianografia, e che una volta che si comincia a fare il casting, a trovare le locations e a girare, il film si rivela differente rispetto a ciò che si aveva in testa.

Puoi dire qualcosa sui vari stili presenti nel film? Il primo terzo è rarefatto, lento e carico di terrore; poi però, allorché abbandoniamo la casa di Fred e Renée per entrare nella vita di Pete Dayton, il look, la sensazione dominante e il ritmo cambiano radicalmente. Beʼ, in realtà non è lo stile a cambiare, bensì le persone e i luoghi. Il film è composto di differenti sezioni, ciascuna delle quali deve avere certe caratteristiche. Perciò direi che, se esiste un mutamento reale o apparente di stile, esso viene imposto dalle singole sezioni. Un film è come una piramide: allʼinizio lʼandamento può essere lento ma, man mano che si procede, diventa impossibile mantenere invariato il ritmo. Gli eventi subiscono unʼaccelerazione, e anche se possono sembrare lenti come prima, di fatto procedono più velocemente, se non altro perché è un poʼ che si sta camminando. Le sensazioni, se le sai ascoltare, si presentano in forma di piramide. In fase di montaggio non te ne rendi conto perché hai una visione frammentaria, e credi che tutto possa andare avanti con quel passo. Poi quando vedi il film finito ti senti morire e cominci a tagliuzzare, perlopiù nellʼultimo terzo. Ed è lì che il film si mette a volare! Nella prima sezione del film, in casa di Fred e Renée, è come stare in una pentola a pressione, o nellʼincubo di qualcun altro. Era quella lʼintenzione? Già, lʼatmosfera generale è proprio quella. In ballo cʼè una coppia che intuisce che da qualche altra parte, proprio sul confine o al di là del confine della coscienza, ci sono problemi molto, molto gravi. Ma i due non ce la

fanno a portarli nel mondo reale e ad affrontarli. Perciò quella brutta sensazione rimane come sospesa, mentre i problemi subiscono un processo di astrazione e si trasformano in qualcosʼaltro. Proprio come in un brutto sogno. Alla gente capitano delle disgrazie, e la storia parla proprio di questo. Descrive un evento sfortunato e trasmette la sensazione di un uomo nei guai. Un uomo che pensa, e che si trova nei guai. In questa sezione hai fatto ampio uso di dissolvenze in apertura e in chiusura, da e sul nero, talvolta dopo una sola scena. Come mai hai utilizzato questa tecnica per una parte della storia particolarmente carica di tensione? Beʼ, le dissolvenze in apertura e in chiusura mi sono sempre piaciute, ma di nuovo non saprei perché. Ti direi soltanto delle sciocchezze. Le cose procedono per gradi: devono crescere, aver luogo e andarsene; in seguito bisogna che intervenga qualche breve istante, un lieve sentore, dopodiché sopraggiunge qualcosʼaltro. Proprio come per i pensieri. Ma sai, quei pensieri ti possono inguaiare (Ride). La casa di Fred e Renée ha una geografia incerta. Sembra che sia infinita, che una volta entrati lì dentro si stia per penetrare in un potenziale labirinto, vasto e oscuro. Anche lʼappartamento di Dorothy Vallens in Velluto blu è abbastanza simile. Esatto. A volte anche le relazioni umane sono così. Non sai come andranno, se finiranno o se porteranno altri guai. Ma tutto ciò non è intellettualizzato. Le possibilità di scelta sono così tante che, quando stai costruendo qualcosa, continui a lavorarci sopra finché non hai la

sensazione di aver trovato la soluzione giusta. Nel momento in cui azzecchi il sentimento dominante, e anche i movimenti, le immagini e i suoni sostengono lʼintero impianto, allora vuol dire che sei sulla strada giusta. La scenografia dellʼinterno della casa è molto disadorna ed essenziale. Il risultato è che ogni cosa pare caricarsi di importanza: come la fila di piante, che assumono lʼaspetto di una parete di fiamme verdi. Beʼ, la scenografia crea emozioni. Quelle piante mi piacciono: non sono molto invadenti, e si accordano bene con altri elementi. In realtà non mi piace avere piante in casa. I fiori vanno bene, ma non posso dire di amarli davvero. Fuori dʼaccordo, ma allʼinterno non mi vanno. Invece mi piace moltissimo il muschio: è lentissimo, ma meravigliosamente organico. È straordinariamente bello, sembra carne verde.

Gravi problemi in una pentola a pressione chiamata casa. Fred (Bill Pullman)

e Renée Madison (Patricia Arquette) in Strade perdute (1997).

Analogamente a molti tuoi lavori, Strade perdute si concentra sulla casa: una situazione domestica in un piccolo quartiere. E in quella casa i suoni sono molto importanti. Puoi dire qualcosa sul modo in cui hai usato il suono in questo film? La casa è un luogo in cui le cose possono andare storte, e il suono deriva da questa idea. Se una stanza è molto silenziosa, o completamente immersa nel silenzio, ti limiti a guardarla. Se vuoi creare un certo tipo di atmosfera devi scoprire i rumori che si insinuano in quel silenzio: è così che si comincia a provare delle emozioni. Tuttavia esistono anche dei suoni in grado di distruggerle, quelle emozioni; perciò bisogna sbarazzarsi di tutto il materiale indesiderato, per poi dedicarsi alla costruzione di ciò che può sostenerle e completarle. La gente può perfino mettersi a piangere, a causa di una sequenza in cui qualcuno si sposta attraverso il tempo; a causa di unʼidea qui, di un suono o di una parola là, o di uno sguardo in coincidenza con un attacco musicale. Oppure può scoppiare in una risata isterica, o spaventarsi a morte. Come funziona tutto questo? Il potere del cinema è incredibile. Però tutti gli ingredienti devono essere in equilibrio, come in una sinfonia. Costruisci e costruisci. A un certo punto approderai a qualcosa, ma la ricompensa si materializzerà solamente grazie a ciò che è accaduto in precedenza. Gli accordi che cerchi non possono nascere dal nulla. Ciò che viene prima conduce a un determinato genere dʼimpatto, e allora non ci sarà un solo occhio asciutto in sala: la gente impazzirà dallʼemozione.

Nella casa di Fred e Renée si avvertono spesso dei profondi rimbombi, come se unʼimminente minaccia di terremoto incombesse su Los Angeles: cʼè qualcosa che non va nel nucleo stesso del pianeta. Proprio così. Uno dei canali del sei-piste alimenta il subwoofer, generando così una potenza in grado di produrre bassi di quel genere. Subentra una certa inquietudine; la pressione deve rimanere alta, ma senza abusarne. Quella parte del film richiama anche Eraserhead, per il modo lento ma determinato in cui si muovono sia Patricia Arquette sia Bill Pullman. Hai fatto molte prove con loro, come con Jack Nance per Eraserhead? Certo. Rispetto a me la maggioranza dei registi preferisce un poʼ più di velocità. Ma la mia non è una scelta consapevole: il fatto è che quando si va troppo velocemente si perde qualcosa. Per ottenere un rallentamento devi metterti a spiegare perché una certa cosa devʼessere fatta in quello o in quellʼaltro modo, a che cosa porterà e quali sensazioni deve esprimere: devi stimolare il pensiero interiore. Partendo dallʼinteriorità, i movimenti rallentano. Una volta che un attore si mette sulla giusta lunghezza dʼonda lo farà automaticamente, e nella maniera corretta. Il dialogo scarno non aiuta granché gli attori, non è così? No, ma ogni parola deve essere detta in un certo modo, e lo stesso per quanto riguarda i movimenti. Non che io dica agli attori come devono pronunciare le battute, non lo faccio mai. Mi metto semplicemente a parlare con

loro, e quasi immediatamente mi accorgo che non ce nʼè più bisogno. In termini di comprensione degli sviluppi della trama, Strade perdute è uno dei tuoi film più difficili: cosʼè che succede per davvero, e cosa è invece soltanto immaginato? Volevi confondere le aspettative del pubblico? No, assolutamente. Devʼessere così non per indurre confusione, ma affinché si percepisca il mistero. Il mistero è positivo e la confusione negativa: cʼè una bella differenza tra le due cose. Non mi piace discutere troppo di tutto questo perché di solito, a meno che uno non sia un poeta, parlando del grande lo si trasforma in piccolo. In ogni caso tutte le tracce necessarie a una corretta interpretazione sono contenute nel film, e amo ripetere che per molti aspetti si tratta di una storia lineare; solamente alcuni elementi escono leggermente dagli schemi consueti. Anche nella vita ci sono cose incomprensibili; eppure, quando le si vedono in un film, la gente si preoccupa. E tuttavia in qualche modo sono comprensibili. La maggior parte dei film sono concepiti in maniera tale da essere compresi da un gran numero di persone. Così non rimane molto spazio per il sogno e la meraviglia. Quando alla Ciby lessero la sceneggiatura mi posero alcune domande; poi però dissero che, collocati dentro il film, quei passaggi erano molto più chiari che non in sceneggiatura. Se è vero che la storia, almeno a uno dei suoi livelli di lettura, narra di un uomo che potrebbe aver ucciso la moglie perché gli è stata infedele, è altrettanto vero che sia la

sceneggiatura sia il film rifiutano di fornire una prova inconfutabile della «colpevolezza» della moglie. Giusto, ma è quasi sempre così: prima della prova schiacciante ci sono sempre dei sospetti. Anche senza che la persona in questione debba per forza essere un paranoico totale, nella sua mente sconvolta il fatto è reale come se fosse avvenuto davvero. Non cʼè affatto bisogno di prove inconfutabili. E Fred è molto sensibile (Ride). La sceneggiatura non è mai esplicita sulla morte di Renée, ma il film affronta la questione in modo ancora più indiretto, facendoci soltanto intravedere quello che con tutta probabilità è il corpo smembrato di Renée. Per quale ragione? Per Fred è tutto ancora meno chiaro. Non lo è mai stato per lui; lo è soltanto quanto basta per spingerlo in altre zone dellʼinconscio. Nei tuoi lavori vengono spesso introdotti cenni di minaccia o elementi estranei in contesti familiari. Puoi dire qualcosa in proposito? Beʼ, sono cose che accadono di frequente. Sei da qualche parte a divertirti, e a un certo punto qualcuno fa una battuta che improvvisamente insinua lʼorrore. Oppure vedi una pistola spuntare da una tasca, e tutto cambia aspetto. Sei convinto che le cose stiano in un dato modo, ma poi succede qualcosa e ti rendi conto che stanno in un altro, e devi affrontare la situazione. Tutto ciò mi piace moltissimo.

Fred Madison è chiaramente un personaggio ossessivo, consumato dalla gelosia e dal timore dellʼinfedeltà. Hai mai sperimentato questo tipo di emozioni? Tutti noi possiamo metterci in relazione praticamente con ogni genere di comportamento umano, per quanto bizzarro possa essere. Non so come possa avvenire, ma fa parte del nostro bagaglio. In qualche modo ne siamo tutti coscienti. La seconda sezione del film è annunciata da una bella inquadratura in cui Balthazar Getty, nei panni di Pete Dayton, se ne sta sdraiato su un lettino da giardino. Tutto, la musica, il colore, lo steccato, il cane e la grazia del movimento di macchina, concorre a farne una vivida reminiscenza di Velluto blu. Una classica inquadratura «lynchiana», se ti piace la definizione. È come iniziare una nuova vita. È la nuova vita di Pete: ci si sveglia, si vedono i bambini e ci sʼinterroga sulle cose. La scena è tratta dalla mia infanzia a Spokane, Washington (Ride). È così che vivevo a due o tre anni: su una piccola chaise longue. Che bei tempi! Non abbiamo neanche dovuto metterlo, lo steccato: cera già, ma so che la gente crederà che lʼabbiamo aggiunto noi. Nel film cʼè un personaggio intrigante, che attraversa il confine tra la vita di Fred e quella di Pete: lʼuomo misterioso. Mi ricorda lʼ«Uomo che viene da un altro posto» di Twin Peaks, rappresentante di un altrove che potrebbe anche essere un altro mondo. Già, è così. Non voglio spiegare cosa rappresenta per me, ma sicuramente introduce un filo dʼastrazione.

Presumo che sia una creazione tua, non di Gifford. Beʼ, non è esatto dire così, poiché quando si scrive con qualcuno tutto diventa di entrambi. Non importa chi dei due abbia pensato per primo a che cosa. È roba comune. Barry influenza me e io influenzo Barry. Di fatto però originariamente tutte le idee erano mie! (Ride) Quindi da dove è venuto fuori lʼuomo misterioso? Beʼ, sai, è una cosa strana. Mi era venuta unʼidea e mentre stavamo ancora

Pete Dayton (Balthazar Getty) poltrisce nel bel mezzo di una crisi dʼidentità parallela in Strade perdute (1997).

scrivendo ne parlai a Barry. Un tizio va a una festa. È un tipo ingenuo, innocente. Alla festa cʼè un altro tizio più giovane di lui: è spaesato, non conosce nessuno dei presenti, ma è venuto con una ragazza che invece li conosce quasi tutti. In realtà la ragazza lo sta attirando in qualcosa di strano, ma lui non lo sa. Il primo tizio

comincia a parlare con il giovane, il quale a sua volta gli dice delle cose bizzarre, simili a quelle che lʼuomo misterioso dice a Fred Madison. E a questo racconto Barry sʼilluminò. Fu così che nacque lʼuomo misterioso di Strade perdute. Un altro mistero che attraversa la sceneggiatura riguarda «quella notte». I personaggi alludono a un fatto significativo che è accaduto di recente nella vita di Pete Dayton e che non viene mai definito. Si ha lʼimpressione che, nel film finito, questo elemento sia stato relegato in secondo piano. Come mai? Un conto è quando si legge qualcosa in una sceneggiatura: la si può sbirciare di sfuggita e nasconderla, oppure saltarla e ripensarci in un secondo tempo, ma vista sul grande schermo può risultare fuori luogo. Acquista peso, e devi affrontarla. È un peccato. Forse, dopo che hai fatto mille film e hai veramente capito la natura umana, le reazioni del pubblico e il cinema, allo-

«Un filo dʼastrazione». Lʼuomo misterioso (Robert Blake) sta per portare a termine il suo compito in Strade perdute (1997).

ra… Comunque si tratta di faccende che hai la possibilità di controllare in ogni fase della lavorazione; e a volte, zac!, scopri che cʼè qualcosa di troppo. Così comʼè adesso, non ci sono più tanti riferimenti diretti come in sceneggiatura, ma solo vaghe allusioni. Sulla prima pagina della sceneggiatura che ho visto appena prima delle riprese, avevi definito Strade perdute un «horror noir del ventunesimo secolo». Già. Era proprio una sciocchezza. Definire un film è pericoloso. Quelli che appartengono a un solo genere non mi piacciono: ecco perché questo è una combinazione di elementi. È una specie di horror, di thriller, ma fondamentalmente è un mystery. Ecco che cosʼè: un mistero. Per me il mistero è come una calamita. Ovunque ci sia qualcosa dʼignoto si sviluppa sempre una grande attrazione. Se ci si trovasse in una stanza, con la porta aperta e con le scale che scendono, e si spegnesse di colpo la luce, si avrebbe la forte tentazione di precipitarsi giù da quelle scale. Se si ha una visione parziale lʼimpatto è più forte che non di fronte a un quadro completo della situazione. Lʼintero può avere una logica, ma il frammento, tolto dal suo contesto, assume un eccezionale valore di astrazione. Può diventare unʼossessione. Si tratta di un grosso problema. Negli studios, oggi più spesso che non, le decisioni non sono prese da una sola persona, ma da una commissione, lì se ci sono in gioco dei soldi, i membri di quella commissione rischiano il

posto, e ne sono terrorizzati. Perciò devono cercare di capire cosa stanno per fare, il che diminuisce le possibilità di introdurre qualsiasi tipo di astrazione. Non è sulle astrazioni che si investe il proprio denaro! Patricia Arquette mi ha raccontato che, a un certo punto, interpretare sia Renée sia Alice lʼha confusa parecchio. Dapprima pensava che avrebbe dovuto impersonare due personaggi diversi, ma poi tu le hai spiegato che si trattava della stessa donna. Per di più, come ciliegina sulla torta, la sceneggiatura suggerisce che una delle due muore! (Ride) Beʼ, la professione di attore implica che si debba rinunciare a se stessi per essere qualcun altro. Bisogna avere una certa disposizione mentale, in modo da poter godere e apprezzare le astrazioni e la stranezza. Basta un poʼ di fiducia e qualche suggerimento, e di colpo tutto diventa misterioso. Per un attore è bellissimo. Tutti gli attori si costruiscono storie interiori che fungano ila sostegno a ciò che stanno per fare. Sarebbe interessante sapere che tipo di storie sʼinventano. Devono farlo, se vogliono che le loro parole e i loro sguardi affiorino in modo sincero. Perciò ci si aiuta a vicenda a raggiungere quello scopo. Io però non ho mai detto granché sul significato delle cose; il più delle volte si è parlato di piccoli frammenti di pensiero che potevano tornare utili. La spiegazione razionale che la Arquette dà di Strade perdute è più o meno questa: un uomo uccide la moglie perché crede che gli sia stata infedele. Non regge alle conseguenze del suo gesto e ha una sorta di crollo nervoso. Durante la crisi tenta dʼimmaginarsi una vita migliore, ma è

così andato di testa < he anche questa vita immaginaria va per il verso sbagliato. La sua sfiducia e la sua follia sono talmente profonde che perfino le sue fantasie sfociano in un incubo. Si, ma perché? Per via di quella donna. Non importa da quale punto si comincia a camminare: se lo si fa con la persona sbagliata, alla fine ci si troverà sempre in mezzo ai guai. Parli del personaggio della Arquette? Già. Ovviamente la storia che la Arquette si è costruita regge: questʼuomo, che immagina se stesso più giovane e virile, incontra una donna che lo vuole sempre accanto a sé invece di sbatterlo fuori di casa; ma anche questa fantasia crolla. È esattamente così. Mi ha detto anche che aveva fatto parecchie ricerche per prepararsi alla parte; per esempio aveva frequentato locali notturni molto bizzarri. Sì, era andata in certi strani posti! Dal momento che la vita di Renée e/o Alice sfiorava il mondo della pornografia, voleva farsi unʼidea di quellʼambiente e aveva fatto qualche ricerca. La parte di Patricia presentava punti difficili, per i quali serviva una dose notevole di coraggio. Attualmente è la migliore, tra le giovani attrici. Lavorare con lei mi è piaciuto soprattutto perché interiormente è molto giovane; vive il suo tempo, ha una grande energia ed è aperta a tutto. Ma è anche unʼadulta con i piedi per terra. Credo che lo debba al

fatto di essere mamma. La vita le ha dato una base solidissima di esperienza, grazie alla quale è una persona completa. È brillante e, nonostante lʼetà, ha una grande capacità di capire le cose. E poi, quando guardi le sue interpretazioni accade qualcosa di magico: cose piccole, sottili, ma sempre credibili. Soltanto dopo aver visto una cinquantina di volte la sua interpretazione mi sono reso conto di quanto era stata brava. Pensi mai agli attori quando scrivi un film? Oppure credi che farlo significhi prendere le cose nel verso sbagliato? In genere sì, però credo di aver sempre voluto Bill Pullman per la parte di Fred Madison. È un bravo ragazzo, ed è in gamba. Forse ne avevo anche parlato a Barry durante la stesura della sceneggiatura. Avere in mente qualcuno è molto utile. È pur vero che unʼimmagine te la crei comunque, ma con gli attori è una faccenda molto particolare: te li immagini mentre parlano, e ti viene subito da dire: «Oh, non sarebbero capaci di fare questo». Oppure lo sarebbero, ma non andrebbe bene comunque. Ti secca fare delle letture con loro? Odio le letture, e credo di non aver mai fatto leggere un attore. Con loro mi limito a parlare, e poi mi baso sulle sensazioni. Farli leggere è assurdo, perché mi viene subito voglia di cominciare le prove! E questo non è giusto nei loro confronti, è stranamente imbarazzante. Ogni lettura è soltanto un punto di partenza per andare altrove; di conseguenza, a cosa potrebbe servire una lettura a freddo? Soltanto un attore su cento è esattamente quello che cerchi. Puoi anche arrivarci, ma

in genere cʼè sempre qualcuno più adatto per quella data parte di quanto non lo sia chiunque altro. Se trovi uno di questi puoi ritenerti soddisfatto. Ti è mai capitato che un attore reagisse particolarmente male a una sceneggiatura? Una volta. Per Frank Booth mandai la sceneggiatura a un attore del quale non ricordo il nome: ebbe una reazione violenta. E credo che abbia parlato molto male del film anche quando uscì. Le persone travisano. Se nei tuoi film cʼè violenza credono che tu la stia giustificando o diffondendo, ma non è assolutamente così. Non puoi fare film in cui tutti sferruzzano e raccontano storielle piacevoli. Molto positive, invece, sono le domande poste dagli attori. I problemi che hanno con il personaggio possono aiutarti immensamente.

Camminare con la persona sbagliata. Alice (Patricia Arquette) al tavolo della «morte per caffè» di Andy (Michael Massee) in Strade perdute (1997).

Mr Eddy sembra inserirsi nella migliore tradizione dei più malvagi villains lynchiani. La scena del tallonamento in macchina rievoca certe sequenze di Cuore selvaggio, nelle quali si scatena una sproporzionata, estrema violenza. Già. E Robert Loggia è stato grande, grandissimo. Di solito gli attori temono di andare sopra le righe, giusto? Robert racconta spesso che durante le riprese di quella scena andavo continuamente a dirgli: «Robert, non ti sento, stai bisbigliando, stai bisbigliando». E dicevo sul serio. Attaccava a voce altissima, poi man mano che si avvicinava alla fine si metteva a bisbigliare. «Non sto bisbigliando!» diceva. E io: «Robert, lo stai facendo». Così dentro di lui cominciò a montare la rabbia. «Che vuole questo da me?» pensava. Dopodiché a una ripresa centrò in pieno il bersaglio. Entrò nel regno dellʼesagerazione e sʼimpossessò della rabbia giusta. Fu incredibile. Tutte le volte che ho visto quella scena, quando entra Robert Loggia entrano rabbia e potenza. Robert voleva interpretare la parte di Frank Booth in Velluto blu. Non ricordo i particolari; in ogni modo, stavamo facendo un provino a unʼattrice australiana per il ruolo di Dorothy. Lì intorno cera un giovane attore, e gli dissi: «Vorrei che interpretassi Jeffrey nel provino, ma nel film la parte non sarà tua». E lui: «Lo so. Non cʼè problema; felicissimo di farlo. Faremo qualcosa insieme unʼaltra volta». Robert Loggia aveva accettato di fare Frank pur sapendo che alcune probabilità dʼinterpretarlo cerano, ma erano scarse. Ho voluto che la direttrice del casting, Johanna, si assicurasse che tutti avessero compreso la situazione. Purtroppo cominciai con il personaggio di Jeffrey e fui molto occupato con le prove e tutto il resto. Non cera più tempo e ci stavano

sbattendo fuori, perciò dovetti andare da Robert a dirgli che non se ne faceva niente. Si infuriò, e non fu per nulla divertente. Se lʼera legata al dito. Così, mentre entrambi stavano girando Independence Day, Bill Pullman diede la sceneggiatura di Strade perdute a Robert Loggia, ritenendo che sarebbe stato adattissimo per Mr Eddy. A Robert piacque molto, ma disse che non poteva proprio farlo perché io mi sarei ricordato di quanto si era infuriato con me. Invece fu proprio quella sfuriata a renderlo perfetto per il ruolo! Molte parti della sceneggiatura non sono poi state inserite nella versione finale del film. Cosa ti ha indotto a escluderle? Tutta la lavorazione è una catena di azioni e reazioni, così il film non è mai finito finché non è davvero finito. Rimane un work in progress fino allʼultimo. Perciò è pericoloso innamorarsi delle scene, anche se è importante non rinunciare del tutto a certe cose. Potresti averne veramente bisogno, almeno in parte. È sorprendente verificare ciò che resta e ciò che viene scartato. Nella sceneggiatura cera la scena di unʼesecuzione in prigione. Fred Madison è in cella e assiste allʼuscita di Sammy G., che sta per essere giustiziato: nel corridoio, proprio davanti alla sua cella, passano il prete, gli avvocati e un piccolo seguito. Cerano anche alcune riprese delle sue reazioni mentre immaginava lʼesecuzione in corso. E anche se poi lʼesecuzione fu tagliata, le inquadrature delle reazioni di Fred erano perfette per mostrare la sua trasformazione in Pete Dayton. Non si può mai sapere come andranno a finire le cose. Magari una sola inquadratura di una scena

tagliata per il 99 per cento può essere conservata, ed è in grado di dire tutto. Cʼera anche unʼaltra scena, ambientata nellʼufficio del guardiano: i genitori di Pete entravano, e il guardiano, il dottor Smordin e il capitano l.uneau parlavano per cinque pagine. Ora è ridotta a quattro o cinque inquadrature e nessuno dice una parola. Ma quella discussione con la famiglia di Pete Dayton avrebbe confermato ciò che il pubblico credeva di vedere: cioè che in cella Fred Madison si era inspiegabilmente tramutato in Pete Dayton. Beʼ, sì e no! E poi si sa già, è nel film: in cella cʼè la persona sbagliata. La discussione di quella scena tentava di spiegare lʼinspiegabile. Sollevava più domande di quelle a cui rispondeva. Quindi non doveva stare li. Di fatto era dannosa, anche se non me nero accorto mentre Barry e io stavamo scrivendo la sceneggiatura. Hai dovuto eliminare delle scene per mantenere il film entro certi limiti di durata, comʼera accaduto per Fuoco cammina con me? No. Il contratto parlava di due ore e quindici minuti. Il primo montato era lunghissimo e questo mi gettò nel panico. Non che tutto funzionasse alla perfezione, ma a che cosa potevo rinunciare per scendere a due ore e quindici? Stavo per impazzire. Mi sembrava del tutto sbagliato avere una durata prefissata; alla fine però funzionò, comʼera già successo molte altre volte: scendemmo quasi a due ore e poi cominciammo a reinserire alcune scene, non solo perché erano già pronte ma perché a quel punto, dal momento che ci

trovavamo al di sotto del tempo stabilito, eravamo veramente in grado di reagire, pensare e sentire in completa libertà. Sono venuto a sapere che ci fu una prima proiezione alla presenza di Barry Gifford quando il film durava poco più di due ore, e che la tua reazione fu molto negativa. La mia reazione fu che avrei preferito non mostrare il film a nessuno. Dʼaltra parte le proiezioni preliminari sono molto importanti: senza quelle, tʼinnamoreresti del film e non ne vedresti i difetti. Avere altre persone intorno ti costringe a riconoscerli e a porvi rimedio. Così Mary e io tornammo al lavoro e sistemammo le cose nel miglior modo possibile. È molto pericoloso, perché quando si toglie qualcosa tu te lo ricordi bene, ma il pubblico non saprà mai che era lì. Dʼaltra parte, il pubblico ti aiuta a capire se nel film ci sono tutte le informazioni necessarie. Mary andò a una proiezione e, al termine del film, fece molte domande agli spettatori. È così che puoi controllare il lavoro. Come dico sempre, se un certo numero di persone ha dei problemi con una certa cosa, è molto probabile che qualcosa che non va ci sia. Credo che Barry si sia trovato dʼaccordo con me sulle parti che volevo eliminare. È ovvio: diventano un mucchio di inutili appendici. Perciò le tagli e basta. Per questo film hai ottenuto il final cut? Lʼho sempre avuto, da Dune in poi. Una volta un produttore mi disse: «Ci piace molto dare ai registi il final cut, perché così è più probabile che ascoltino i nostri suggerimenti. Sanno che non sono costretti ad accettarli, ma sono disposti ad ascoltare». Credo che sia

molto importante essere aperti ai suggerimenti degli altri: a volte possono essere molto preziosi. E poi si può sempre dire di no. Mi sembra sbagliato assumere un atteggiamento autoritario e dire: «Farò le cose a modo mio, e non intendo ascoltarti». Oggi moltissimi film vengono montati in modo non lineare con sistemi computerizzati come Avid o Lightworks: tu invece hai scelto di montare Strade perdute con il metodo tradizionale, cioè su pellicola con una moviola Kem. Come mai? Personalmente odio Avid. Odio quel genere dʼimmagini, il monitor e la distanza che crea. Non lo senti proprio, il film. E lʼimmagine è artefatta, scadente, pessima. Inoltre non ho davvero idea di come funzioni. Per uno spot pubblicitario con sedici sovraimpressioni può anche andar bene, ma per un film fatto per il 99 per cento di stacchi netti non cʼè niente di meglio di un Kem e della qualità dellʼimmagine.

La vita sta per subire una svolta radicale verso lʼidentico. Fred Madison (Bill Pullman), inquilino del braccio della morte in Strade perdute (1997).

So che a tuo avviso le prime impressioni che hai durante le riprese sono piuttosto importanti, nel senso che le riporti alla memoria e le ascolti lungo tutto il processo di edizione. Quelle prime impressioni sono anche molto simili a quelle di un pubblico che vede il film una sola volta. Con quale atteggiamento visioni i giornalieri? Beʼ, una cosa è quello che si ha davanti agli occhi e unʼaltra quello che vedi attraverso la macchina da presa, la pellicola, il trattamento di laboratorio e la proiezione. Dopo una settimana di giornalieri sei in grado di tradurre mentalmente ciò che ti trovi davanti nellʼinquadratura che stai preparando in ciò che apparirà nel film finito. È veramente importante capire come la pellicola modifica le tue percezioni visive. Quando la macchina da presa sta ancora carrellando ma

poi finisce per panoramicare in chiusura, può capitarti di vedere qualcosa che ti piace. Certi eventi incidentali possono pure ispirarti. In un certo senso Herb Cardwell aveva ragione quando diceva: «Se si controllano i giornalieri, non ci dovrebbero essere sorprese», ma in un altro aveva anche torto. Il film può creare effetti sorprendenti. Per alcune sequenze di Strade perdute abbiamo fatto molte prove preliminari usando filtri e velocità di ripresa diverse, e tutto ciò si è dimostrato vantaggioso. Se fai queste prove quando giri con gli attori, nove volte su dieci la ripresa che ti piace di più è anche quella in cui lʼesperimento non è riuscito. È meglio fare un poʼ di lavoro preliminare e cercare di capire come funzionano le cose. E poi in questo modo possono anche venirti delle idee. Nella sceneggiatura, la descrizione della «trasformazione» di Fred Madison in Pete Dayton è molto complessa. Tuttavia nel film è resa molto semplicemente dalla macchina da presa, piuttosto che attraverso complicati effetti digitali. Preferisci procedere in questo modo per poter verificare gli effetti mentre stai riprendendo? Decisamente. Per me il morphing, i sistemi digitali di generazione delle immagini e compagnia bella sono come Avid. Li usano tutti. Sono costosissimi, portano via un mucchio di tempo e non credo che ti consentano di vedere granché prima che tu sia costretto ad accettare il prodotto finale. E poi ideare un effetto digitale significa chiudere una porta. Volevo trovare unʼaltra via. In realtà a quella trasformazione concorrono molti elementi, ma sono tutti organici, fotografati dalla macchina da presa.

Per lʼalbum Dangerous di Michael Jackson ho realizzato in digitale un video promozionale di trenta secondi. Aveva una sua fisionomia, che non era male, ma non sembrava un film. Perciò quando in un film viene inserita una sequenza digitalizzata, che effetto produrrà? Quello della plastica accanto al legno pregiato? Chissà. Bisogna curare ogni fotogramma, e se i soldi mancano si deve escogitare un altro metodo per ottenere esattamente la stessa cosa, senza scendere a compromessi. Un modo lo si trova sempre. Credo che la tecnologia non sia ancora del tutto a punto. Per Terminator 2 è stata utilizzata molto bene e nel film funzionava, ma molti la usano soltanto perché è una novità. Quegli effetti devono integrarsi nel film, avere un proprio spazio predisposto. Il lancio promozionale che la Ciby-2000 realizzò per il film ne concentrava lʼintera sinossi in tre parole: «Una fuga psicogena». Sapevi che esisteva davvero una malattia mentale del genere, una forma di amnesia che si esprime in una fuga dalla realtà? No. Barry e io non ne sapevamo nulla. Fu Debra Wuliger, la persona che si occupava della pubblicità, a scoprirla per caso in una rivista medica o qualcosa del genere. Ci mostrò lʼarticolo: il soggetto assomigliava in tutto e per tutto a quello di Strade perdute. Non in senso letterale, è ovvio, ma il processo interiore era molto simile: un certo disturbo mentale. In ogni modo, lʼespressione è bellissima: «fuga psicogena». È musicale, ed è al contempo forte e onirica. Credo che sia straordinaria, anche se non dovesse significare nulla.

Più evocativa di «psicogena», che sostanzialmente significa «di origine mentale», è la definizione «fuga». Dato che è anche un termine musicale, essa descrive esaurientemente il film: parte un tema che viene poi ripreso, in risposta, da un secondo tema, ma intanto il primo continua a fare da accompagnamento, o da controtema, al secondo. Non si tratta forse di una magnifica descrizione dei complessi rapporti tra Fred e Pete? Proprio così. Ecco perché, secondo me, lʼhanno chiamata «fuga psicogena»: si passa da un aspetto allʼaltro e poi si ritorna al punto di partenza. Lo stesso vale per Strade perdute. Peraltro, se e come coloro che hanno questa malattia tornino o meno da dove sono partiti e quanto duri la fuga, questo non lo so. Tuttavia è pazzesco quando due temi si agitano, trovano il modo di separarsi e poi si riuniscono di nuovo. Non ti sei documentato, durante la stesura dello script? No, no, no, no. A un certo punto accadono alcuni eventi, le idee si legano tra loro e formano prima un insieme e poi un tema: qualcosa che acquista evidenza, a patto che lo si voglia cercare. Ma se si rimane fedeli alle proprie idee non si ha bisogno di saperne di più. Se si parte da un tema dicendo: «Adesso lo amplieremo» e poi si gira un film sullo stupro di una ragazzina, secondo me si fa esattamente il contrario di ciò che si dovrebbe fare, poiché in quel caso si dovrà forzare il materiale per adattarlo al tema. Con il procedimento inverso, allʼinizio non sai nulla: le cose si aggregano, e solo in un secondo tempo scopri di che si tratta. Intanto però te ne innamori. Semplicemente, qualcosa ti dice che quella è la tua strada.

Quindi Strade perdute potrebbe essere descritto unicamente come un film che riecheggia un concetto musicale. Un vero e proprio musical! Tu e Angelo Badalamenti avevate discusso della colonna sonora in termini di fughe? Non avevamo mai veramente approfondito questo aspetto. Le fughe mi fanno diventare pazzo. Riesco ad ascoltarne solo una piccola parte, dopodiché mi sento come se scoppiassi. Non vuoi più restare dentro il tuo corpo; oppure lo vorresti anche, ma alla sola condizione che non facesse ciò che invece sta facendo. Però mi piacerebbe vedere Angelo mentre suona una fuga su un organo a canne! (Ride) Allora come avete deciso di procedere, tu e Angelo, per la colonna sonora di Strade perdute? Mary Sweeney ha avuto un ruolo importante: lei ama lʼorchestra e detesta il sintetizzatore. È da un pezzo che si tenta di riprodurre gli archi con il sintetizzatore. Il suono è bello, ma non sono dei veri archi. Anche Angelo si è indirizzato sempre più verso il sintetizzatore, ma unʼorchestra può suonare astrazioni incredibili. E Penderecki, che scrive musica dʼavanguardia, è uno dei miei compositori preferiti. Un peso massimo. Perciò volevo che Angelo spingesse lʼorchestra verso certe aree della musica contemporanea, conservando pereʼ) la capacità di creare emozioni. Non cʼè niente di meglio di una vera e propria orchestra. E non cʼè niente di meglio di unʼorchestra di Praga! Spira una certa aria est-europea, in quella musica. Il nostro direttore dʼorchestra era Stephan Konicek e lʼingegnere del suono era Jiri Zobac, due

grandi personaggi. Ora finalmente vivono la loro vita, capisci cosa intendo? Sono felici. Nel 1985, quando andammo là per Velluto blu, i negozi erano tutti vuoti. Era uno spettacolo desolante, e quella desolazione in qualche modo si era insinuata nella musica. Comunque pensai che sarebbe stato stupendo tornare a Praga a fare un poʼ di orchestrazione moderna, astrazioni e roba simile. Certe parti del film sono cupe, da noir, e quando parlai con Angelo a proposito di ciò che mi sembrava occorresse, ci vennero subito in mente certi particolari strumenti. Angelo si mise a scrivere e il risultato fu un uso moderno dellʼorchestra. Fu un lavoro lungo, Angelo provava determinati suoni e faceva diversi esperimenti, ma alla fine approdammo a qualcosa. Poi, una volta iniziato, il lavoro va avanti quasi da solo. Per questo film Angelo si sentì parecchio sotto pressione, perché tutto fu fatto allʼultimissimo minuto, e nelle tre settimane che precedettero la partenza per Praga si diede un gran daffare. La sua colonna sonora per Velluto blu era più tradizionale ma, da allora, la musica che scrive per me è ciò che io chiamo «legna da ardere»; in seguito la «sego», la suono, inserisco nuove cose e ne modifico altre. Con la tecnologia digitale si può lavorare velocemente, provare, sovrapporre, e Angelo ne è felicissimo! Esaminando alcune riprese delle sedute di registrazione di Praga realizzate da Toby Keeler, pareva che tu stessi sperimentando con tubi e altri marchingegni fatti in casa. Come andò esattamente? Beʼ, per una delle prime proiezioni decisi di fare un missaggio provvisorio. Così preparai tre Kem, ciascuno

con due piste audio, e feci partire sei tracce sonore. Avevamo anche un registratore portatile che riproduceva della musica. Dato che volevo ridurre al minimo il suono dei Kem e inviarlo agli altoparlanti, andai nel mio laboratorio a prendere un tubo di un aspiratore per segatura, della lunghezza di una decina di centimetri. Fissai un microfono allʼestremità del tubo e sistemai lʼaltra estremità contro lʼaltoparlante. Feci partire il portatile, lo afferrai, quindi mi avvicinai a un Kem e vi inserii un suono. Potevo avvicinarmi di più, abbassare il volume e poi andare a un altro Kem; in seguito tornai sui miei passi, e alla fine ripresi nuovamente il primo Kem con la musica registrata. Erano tutti collegati in serie: dovevano avviarsi, fermarsi e mixare. Ne risultò un missaggio provvisorio molto interessante, perché la forma del tubo alterava il suono. Così, quando andai a Praga, avevo in mente quella storia del tubo. Sullʼaltro lato della via cerano dei lavori in corso e prendemmo qualche tubo dal cantiere. Avevo bisogno anche di un bottiglione dʼacqua, ma ovviamente a Praga non hanno gli stessi nostri tipi di recipienti. Però Jiri, il tecnico, ci procurò una grossa bottiglia da vino: ci inserimmo dentro dei microfoni e ne sistemammo altri due alle estremità dei tubi, che erano di dimensioni diverse. Il principio era questo: il suono viene inviato allʼestremità del tubo e qui viene alterato e raccolto. È soltanto un effetto, ma spesso gli effetti organici sono molto interessanti dal momento che certi suoni non si possono ottenere nemmeno con sofisticati strumenti di distorsione. Così mixammo qua e là, nella musica, il suono prodotto da quei tubi. Il bottiglione faceva un

suono molto etereo e ottenemmo alcune ottime distorsioni. Il risultato fu una musica davvero spettacolosa, che però non inserimmo tutta nel film. Possiede un tono da noir moderno. Utilizzammo stranissime combinazioni di strumenti, che suonavano in modi altrettanto strani. E la musica pop di Strade perdute? Penso in particolare alla canzone dʼapertura, Iʼm Deranged di David Bowie. Sembrava quasi scritta appositamente per il film. Lo era! (Ride) Mi pare che fosse la traccia numero sedici dellʼultimo album di Bowie. Dunque, sto ascoltando lʼalbum, e mi piace molto. Arrivo al sedicesimo pezzo e lʼintero inizio del film mi balza addosso, esattamente comʼè ora. Il pezzo costruisce le atmosfere e la storia, sotto molti aspetti. Poi cʼera un gruppo tedesco, i Rammstein: continuavano a mandarmi la loro musica, ma io non lʼascoltavo. Un giorno, poco dopo aver finito la sceneggiatura - di nuovo il destino - mi sedetti ad ascoltarla e bang!, non vedevo lʼora di averla nel film. I Rammstein ci spedirono una cinquantina di cassette, perché la troupe cominciò ad andare fuori di testa per quella musica. E non ci fu giorno di riprese che i Rammstein non ci bombardassero le orecchie da uno dei camion. Sfondarono proprio, tra la troupe. In seguito incontrai Trent Reznor dei Nine Inch Nails e cominciai a lavorare con lui. Realizzò dei rumori per il film: ha un gran cervello per la musica e i suoni. È ovvio che condivide con te lʼidea che la musica sia uno dei tanti effetti sonori.

Proprio così, e un sacco di cose procedono in questa direzione. Il confine tra effetti sonori e musica è un territorio bellissimo. Poi Barry Gifford mi trasmise il suo entusiasmo per Doc Pomusʼs Greatest Hits, un album di cover di Doc Pomus realizzate da vari gruppi e artisti. Quando sentii This Magic Moment cantata da Lou Reed, me ne innamorai e decisi di utilizzarla. E dieci anni dopo Velluto blu finalmente potevo permettermi Song to The Siren dei This Mortal Coil. È una delle mie canzoni preferite di tutti i tempi. Con il procedere della tua carriera si attenuano la paura e la trepidazione legate allʼuscita di un nuovo film? No. Anzi, di fatto possono anche peggiorare. La gente ha certe aspettative e tu hai una nuova possibilità di sbagliare. Il pubblico conosce i tuoi film, alcuni, almeno, e quindi è più rischioso. Non sei più un nuovo venuto: capi-

La spaventosa corsa di Fred Madison (Bill Pullman) sulla «strada perduta».

ta una sola volta di esordire. Vorrei tanto avere già pronto il mio prossimo film, rimettermi subito al lavoro e disinteressarmi di qualsiasi cosa possa capitare, bella o brutta che sia. Perché a quel punto il film non ha più niente a che fare con me. È unʼentità a sé. Non occorre che io ne parli. Non occorre che io faccia nulla. Sono tutti artifici. Lʼarte delle grandi baggianate. Dato che non avevi più fatto nulla dopo Fuoco cammina con me credi che ci fossero maggiori attese o aspettative intorno a Strade perdute? Non so cosa succede, là fuori. Ma da un certo punto di vista Fuoco cammina con me è stata una bella esperienza. Quando sei a terra, quando per strada ti hanno tirato calci e poi ancora calci fino a farti sanguinare e magari hai anche qualche dente in meno, allora non ti rimane davvero che alzarti e ripartire. Ma è così bello starsene lì per terra… Con Dune avevi già fatto la stessa esperienza. Già, dopo Dune ero molto giù, quasi morto! Lʼunica cosa che mi tenne a galla fu The Elephant Man, grazie al quale la critica non mi screditò completamente. Hai detto che il personaggio al quale ti senti più vicino è lʼHenry di Eraserhead, un uomo spaventato. Fred Madison non mi sembra molto diverso, non è così? No, non lo è. È perso nel buio e nella confusione, e la paura sta sul sedile del guidatore!

Per te fare cinema è una forma di terapia? Ti aiuta a migliorare la tua vita personale, o quella interiore? No, credo che per me non vada così. Dʼaltra parte, se potessi riavere tutti i giocattoli che amavo da ragazzo, il loro effetto non sarebbe lo stesso di un tempo. Si è soggetti a mutamenti continui, ma non credo che una vita basti per cambiare poi tanto. Credo che per molte persone il principale conforto offerto dalla religione consista nel fatto che la morte non viene vista come la fine. Sei dʼaccordo? Non so se ho voglia di entrare in argomento ma… Credo che la morte non sia la fine. Ma è la mia parola contro quella di qualcun altro! È solo il mio modo di pensare. È come dormire, il mattino dopo ti svegli e cominci una nuova giornata. Potrebbe essere un simbolo allʼinterno di un disegno più grande: dopo la morte passi un poʼ di tempo in un sogno e poi - caspita! - torni indietro. Però potremmo trovarci nel sogno proprio adesso. Chi può dire che questo non sia il limbo, e che la vita vera non si trovi alle nostre spalle o di fronte a noi? Pensarla così significa prendere lucciole per lanterne. Non stiamo vivendo la realtà ultima: il «reale» si nasconde per tutta la vita, e noi non lo vediamo; lo confondiamo con tutto il resto. La paura si fonda sul fatto di non riuscire a scorgere il tutto, se riuscissimo a vederlo la paura resterebbe fuori dalla finestra.

10. Un grande mondo meraviglioso rivisitato Una storia vera

Nel maggio 1999 dal Festival cinematografico di Cannes giunse una notizia sconvolgente: il nuovo film di David Lynch non era inquietante, né offensivo, né indecifrabile. Spiccavano per assenza nani, uomini misteriosi, strambe capigliature, ciambelle, droghe e reginette del ballo defunte. Evidentemente, la capacità di Lynch di sorprendere critica e pubblico era immutata, ma questa volta a spiazzare entrambi erano lʼestrema semplicità e, a tratti, la struggente umanità di Una storia vera. Basato su fatti reali, riportati per la prima volta dalla stampa americana nel 1994, il film è incentrato sul settantatreenne Alvin Straight, residente a Laurens, nellʼIowa. Dopo aver saputo che il fratello maggiore Lyle, con cui non parlava da tempo, era gravemente malato, Alvin decise di affrontare un viaggio di quasi cinquecento chilometri fino a Mount Zion, nel Wisconsin, per fargli visita. Ma aveva la vista troppo debole per guidare. Lʼimprobabile soluzione che trovò al problema fu quella di percorrere la statale a bordo di un tosaerba a motore, marca John Deere, in grado di raggiungere una velocità massima di otto chilometri allʼora. Sei settimane dopo, lʼincontro tra i fratelli Straight ebbe finalmente luogo. Non cʼè niente di difficile da capire in Una storia vera e, quando le notizie sul film cominciarono a circolare, il fatto sembrò procurare un senso di sollievo quasi

tangibile a molti critici e giornalisti. Strade perdute, al contrario, era stato come un nastro di Möbius: una narrativa lineare chiusa a formare un anello, che si ritorce su se stessa prima che le estremità possano ricongiungersi. Il risultato era che lo spettatore, nel percorrere il nastro, veniva ribaltato da un lato allʼaltro, e da uno stato mentale allʼaltro, spesso lasciandosi sfuggire il punto in cui la storia effettivamente cominciava e terminava. Si trattava di unʼopera a un tempo bidimensionale e tridimensionale, un ingegnoso esperimento narrativo che non era tanto un racconto dello stato mentale distorto di Fred Madison quanto la manifestazione stessa di un crollo nervoso. La reazione cinica a Una storia vera fu quella di considerarlo un tentativo di Lynch di riguadagnare terreno dal punto di vista commerciale dopo il fallimento al botteghino di Strade perdute. Unʼaltra reazione erronea fu quella di leggere il film come il segno che Lynch, in quanto artista, avesse finalmente raggiunto la maturità. Sembrava aver abbandonato i turbamenti, gli incubi e le fantasie di una persona bloccata allʼadolescenza, per prestare le sue considerevoli doti registiche a unʼopera matura, una storia semplice di gente semplice. Ecco dove portavano tutta quellʼoscurità e quella confusione, fu il ragionamento; Lynch aveva messo da parte le paure infantili, era uscito dalle tenebre e si era arreso al buonsenso, e alle logiche di mercato. I cinici, gli illusi e i patiti del cinema hollywoodiano probabilmente si sarebbero ricreduti se allʼepoca avessero potuto vedere la nuova serie televisiva che Lynch stava realizzando, Mulholland Drive. Invece,

proprio mentre Una storia vera approdava nella soleggiata Francia meridionale, lʼepisodio pilota del telefilm veniva respinto senza riserve dalla Abc. Ci sarebbero voluti altri due anni prima che Mulholland Drive rivedesse la luce, trasformato in lungometraggio, per debuttare a Cannes. Attraverso revocazione di forme diverse di paure insondabili - suscitate da personaggi sinistri, bizzarre astrazioni e apparizioni perturbanti - il film spinge il modello del nastro di Möbius verso estremi ancora più audaci. Fu definito un enigma dʼeccezione, e valse a Lynch il premio per la miglior regia, assegnatogli dalla giuria del Festival nel 2001. Con buona pace della maturità artistica. Una storia vera non è un David Lynch «più saggio», «più felice» o «più maturo». E tuttavia, è un David Lynch allo stato puro. Solo che questo lato di lui non ci viene mostrato spesso. La presenza di questʼaltro Lynch in Una storia vera è dovuta in misura determinante allʼapporto, nellʼideazione e nella stesura della sceneggiatura, di Mary Sweeney, allora fidanzata del regista, che di questo film, come di tutte le opere di Lynch, ha curato il montaggio e la produzione. «Secondo me, cʼè una reale continuità tra The Elephant Man e Una storia vera, ed è rappresentata dallʼaltro lato di David: una specie di lato “irlandese”, lirico, poetico, commovente senza essere sentimentale, e pieno di grazia.» Da tempo la Sweeney puntava ad acquisire i diritti cinematografici di una storia già esistente per affidarla alla regia di Lynch; una storia che non fosse radicata in modo così personale nellʼoscurità e nella confusione. «Artisti come David o Woody Allen fanno un film dopo lʼaltro in uno stile molto particolare, e la gente si stanca.

Il pubblico non si rende pienamente conto di quanto siano dotati questi registi. È una percezione, questa, che abbiamo avvertito in modo netto dopo Strade perdute. David non ne è affatto consapevole, ma io sono la sua compagna e la sua produttrice. Vedo tutti i lati del suo carattere e mi ha fatto davvero molto piacere che si appassionasse a qualcosa di completamente diverso, che avrebbe spiazzato gli spettatori. Era una storia che amavo, ma ero anche abbastanza intelligente da sapere di essere unʼautrice e produttrice molto fortunata ad avere David Lynch alla regia di questo film. Penso che lʼidea di fare qualcosa di così insolito lo abbia stimolato e abbia rappresentato per lui una piccola sfida.» Lynch ha temporaneamente rinunciato a sollevare il sasso per sbirciare lʼoscurità che vi brulica sotto, ma il sasso non è mai sembrato così splendido. Fin dalle prime inquadrature di Una storia vera, ci si accorge di essere immersi in una versione rurale del mondo lynchiano. Lʼattenzione pittorica agli aspetti materici, al colore e alla composizione è inconfondibile. Seguendo il percorso del tosaerba di Alvin, Lynch ha modo di osservare il paesaggio americano più di quanto non avesse mai fatto prima. Nemmeno un regista europeo, per quanto infatuato di questo paese mitico, sarebbe in grado di eguagliare il suo palpabile senso di ammirazione. Il volto di Richard Farnsworth, nel ruolo di Alvin Straight, diventa un tratto geologico di quel paesaggio scabro, consumato dagli elementi e dotato di un fascino inesauribile. Per quanto a Lynch non interessi il cinema di genere, questo è il materiale del western classico: una versione di fine millennio della testa scavata, totemica di John Wayne, come se fosse

unʼaltra delle sculture di pietra bruciate dal sole della Monument Valley. Osserva la Sweeney: «David è un vero e proprio uomo della frontiera, in una parte del suo animo». Considerata la sua curiosità, degna di Muybridge, per i minuscoli dettagli del movimento umano, Lynch deve essere rimasto affascinato anche dal procedere penosamente lento del viaggio di Alvin da Laurens a Mount Zion. E tornano in mente tutti i movimenti da sonnambulo, estremamente precisi, di Jack Nance in Eraserhead, o la comica flemma dei vecchi che si intravedono spesso a margine in Twin Peaks. La storia di Alvin, lʼEasy Rider del tosaerba, con la sua pacatezza ha permesso a Lynch di contrapporsi alla velocità spesso insensata di tanto cinema americano contemporaneo. Di fatto, ha aiutato il mondo stesso a smettere di ruotare in unʼatmosfera di indicibile terrore e di disgregazione mentale e morale. Come conclude la Sweeney: «Penso che Una storia vera sia stata perfetta per ripulire il palato tra Strade perdute e Mulholland Drive. È stato un dono che ci siamo scambiati». RODLEY:

Una storia vera è un film lineare, come lo sono le storie vere, mentre Strade perdute era tutto il contrario. Volevi far seguire a questʼultimo un soggetto più semplice e più comprensibile? LYNCH: NO,

per niente. È solo capitato che me ne innamorassi. Avrebbe potuto essere qualcosa di ancora più difficile da capire di Strade perdute. Forse ci sono dei motivi se mi sono innamorato di Una storia vera, ma in realtà non mi importa scoprire quali siano perché penso

che la questione sia semplicemente vedere che cosa arriva e che cosa ti attira. Dico sempre che tra un film e lʼaltro, quando si è in cerca di un nuovo progetto, bisogna tenere tutte le porte aperte. Se ne chiudi qualcuna, per esempio perché sei convinto che non farai mai un film per tutti, rischi di perderti qualcosa. Vero, ma non avrei mai pensato che un giorno avrei visto la Motion Picture Association of America giudicare un tuo film adatto a qualunque tipo di pubblico. Di norma sarebbe stata Mary, in quanto produttrice, a prendere quella telefonata dalla Mpaa. Ma quel pomeriggio doveva uscire e mi chiese se avessi potuto rispondere al suo posto. E così, chiama questo tizio e mi dice: «Il film è stato classificato come film per tutti». E io: «Me lo ridica, voglio sentirglielo ripetere!». Cʼè gente che ancora guarda il film aspettandosi che accada qualcosa di terribile. Una persona che era in coda per assistere allʼanteprima ha sentito una signora alle sue spalle dire: «Curioso che esistano due registi che si chiamano entrambi David Lynch». (Ride).

Lʼ«altro» David Lynch sul set di Una storia vera (1999).

Stavi cercando qualcosa che potesse rappresentare uno stacco rispetto allʼoscurità e alla confusione di personaggi come Fred Madison? No, no, no. Questa sarebbe unʼaltra motivazione malata per fare un film! Deve esserci qualcosa che ti attrae; dire: «Sono stufo di fare questo genere di film» è un primo passo, ma poi devi comunque innamorarti di qualcosʼaltro. La macchina cambia obiettivo e si mette in cerca di quel qualcosʼaltro. È come un tizio che è stufo della sua ragazza e ne sta cercando una nuova. Potrebbe essere sorprendente il genere di ragazza che troverà alla fine. Accade una cosa strana quando finalmente si decide che cosa si vuole fare. È come quando incontri quella ragazza e cʼè un non so che nellʼaria; è come unʼinquadratura dallʼalto di te e lei insieme, e di come vi collocate rispetto al resto del mondo. Io ho le stesse frustrazioni e lo stesso tumulto interiore di sempre, per cui sarebbe errato interpretare Una storia vera come un barometro del mio stato mentale. Potrebbe portarvi a strane conclusioni! Eppure, in molte recensioni si leggevano affermazioni come: «Alla fine David Lynch è diventato adulto» o «Grazie a Dio ha abbandonato tutta quella roba orrenda a base di sesso e violenza». Questo genere di reazioni ti infastidisce? La gente dice le cose più disparate quando un nuovo film è finito e viene presentato al pubblico. Tutti quei commenti sono il buco, mentre lʼopera è la ciambella.

Dice il proverbio: «Tieni dʼocchio la ciambella e non il buco», lo cerco di tenere dʼocchio la ciambella. Naturalmente amo Cuore selvaggio, ma mi sono innamorato anche di Una storia vera. Chi può spiegarlo? Il mondo è cambiato rispetto a quando ho girato Cuore selvaggio. Allora stava accadendo qualcosa per cui andava bene quel film. Ora invece la violenza ha raggiunto un livello assurdo e non la si percepisce neanche più. Inoltre, non cʼè modo di imprecare nei film più di quanto non si faccia già. È. come se ci fosse un muro, una specie di intorpidimento. Molti critici hanno anche detto che Una storia vera è la tua opera più matura. Secondo te perché? Non lo so! The Elephant Man è molto simile ed è solo il mio secondo film, per cui non credo ci sia alcuna relazione. Se entri dentro la storia e la senti tua, lʼetà non ha importanza. Mary ti ha presentato la sceneggiatura di Una storia vera solo nel momento in cui era ormai terminata? Sì. Fino ad allora conoscevo solo alcuni dettagli superficiali della vicenda, e non la ritenevo adatta a me. Ovviamente ne avevo sentito parlare, ma non sapevo che cosa sarebbe entrato davvero nel copione. Quindi in sostanza sono saltato direttamente dallʼidea di un vecchio che va a trovare suo fratello su un tosaerba alla sceneggiatura. E sono rimasto sorpreso. Così, nonostante prima continuassi a dire: «Non credo che girerò questo film», alla fine ho cambiato idea.

Fin dai tempi di The Elephant Man hai sempre scritto i tuoi film o collaborato alla loro scrittura. Hai pensato che questo non avresti saputo o dovuto scriverlo tu? Non so se avrei saputo scriverlo. Ma, come ho già detto, nessuna idea è davvero tua. Arriva da qualche parte, ti esplode nella mente, e poi metti a fuoco lʼintero disegno. Quando leggi una sceneggiatura o un libro, quel testo prende vita nella tua mente. Sono quel prendere vita, quellʼinnamoramento e le tue prime sensazioni a determinare ciò che seguirà. Per cui non importa da dove vengono le idee, a un certo punto le fai tue. Continui a dire che devi innamorarti di una storia. Che cosa ti ha attratto in questa? È stata lʼemozione che emanava la sceneggiatura. Principalmente questo. E poi la sua semplicità. Mi sono innamorato di queste due cose. Non è stata esattamente una sfida, ma mi sono reso conto che una storia lineare si compone di un numero ridotto di elementi, e questo per me è stato un vero esperimento. Ogni film lo è, ma poiché in Una storia vera ci sono pochi accadimenti, quei pochi diventano FONDAMENTALI. E per questo vanno considerati con molta attenzione. Sulla copertina della colonna sonora di Una storia vera è riportata una tua citazione: «La tenerezza può essere astratta quanto la follia». Che cosa significa? Questa è una storia vera ed è anche molto tradizionale, ma sentivo che per trasmettere le emozioni giuste avrei dovuto lavorare sulle astrazioni. È questo che mi ha attratto della sceneggiatura: le sensazioni che suscitava e il modo in cui potevo tradurle in un film.

Una storia a lieto fine. Richard Farnsworth (Alvin Straight) e Harry Dean Stanton (Lyle Straight) sul set di Una storia vera (1999).

Se si pensa a quanto era commovente The Elephant Man, è strano che persino molti critici cinematografici si siano sorpresi della genuina tenerezza di Una storia vera. È quasi come se non si aspettassero che tu nutrissi certi sentimenti, come se venissi da un altro pianeta. Vero, e invece in ognuno di noi ci sono tutti questi lati diversi. Ho pianto tantissimo girando Una storia vera, e anche quando ho girato The Elephant Man. Mi hanno fatto piangere persino alcune recensioni! A volte piango quando sono in sala di montaggio. Il cinema è perfetto per comunicare emozioni, ma richiede precisione. Lʼequilibrio degli elementi è fondamentale: basta un pizzico in più di un ingrediente e si uccide lʼemozione, troppo poco di un altro e lʼemozione non nasce nemmeno. In Una storia vera la sfida stava tutta nel trovare quel fragile punto di equilibrio.

Sono state necessarie molte ricerche per scrivere la sceneggiatura? Sì. Mary e John Roach hanno rifatto il viaggio di Alvin. Hanno conosciuto la famiglia Straight e molte altre persone che lʼavevano incontrato e avevano parlato con lui, compresa la famiglia che lʼha ospitato quando il tosaerba si è rotto. Tappa dopo tappa, ognuno ha raccontato un pezzo di storia. Hanno raccolto più materiale possibile prima di cominciare a scrivere. È stato un peso, per te, lavorare sulla storia di un uomo realmente esistito e conosciuto da tante persone ancora vive che un giorno avrebbero visto il film? Sì e no. Qualcuno ha detto che esistono due Alvin: quello vero e quello del film. Io non ho mai conosciuto lʼAlvin vero e alcuni dettagli della storia sono leggermente cambiati, quindi il fatto che non dovesse essere un documentario fedele mi ha permesso una certa libertà. Quanto è vicino il film alla realtà dei fatti e quanto è importante che lo sia? È vicino, ma non è importante. (Ride). Cosa puoi dirmi di tutte le persone che Alvin incontra nel film? Rappresentano persone reali? Molte sì, ma non tutte. Alcune le ho aggiunte io; sono reali ma provengono da altre storie. La «Donna dei cervi», per esempio. Alvin non lʼha incontrata, ma esiste; è una donna che, per qualche misteriosa ragione, ha investito tredici cervi. (Ride). Alvin avrebbe potuto imbattersi facilmente in qualche

Alvin Straight (Richard Farnsworth), un James Dean invecchiato, preme sullʼacceleratore del suo piccolo tosaerba verde John Deere in Una storia vera (1999).

squilibrato, ma la verità è che la maggior parte della gente voleva solo chiacchierare con lui. La campagna del Midwest è un posto difficile in cui vivere e penso che lì, più che in molte altre parti del paese, le persone debbano fidarsi le une delle altre e aiutarsi a vicenda. Unʼaltra idea del film è che, pur invecchiando, Alvin dentro di sé non è cambiato. Questo rispecchia la mia convinzione che sia solo il corpo a trasformarsi e a disgregarsi. Dentro rimaniamo uguali a come eravamo da piccoli e, con la morte, solo il corpo smette di funzionare; altre parti di noi continuano a esistere. Sono convinto che ci siano tante cose di cui siamo allʼoscuro. In La vita è meravigliosa di Frank Capra, George Bailey vorrebbe andarsene dalla cittadina in cui è nato, ma il fatto che vi rimanga non ne diminuisce affatto il valore. È esattamente lo stesso per Alvin. Alla fine del film non è diverso dalla persona che era allʼinizio.

La questione dellʼetà mi incuriosisce, considerando che tanto di quello che viene prodotto ai nostri giorni è pensato per ¡giovani. E tutto legato ai soldi e alla paura della morte che permea la nostra cultura. Alvin è anziano, ma è un vero ribelle. È come James Dean, solo che è vecchio. Ed è anche come un milione di altri vecchi. Dentro ci sentiamo senza età perché il nostro io interiore non ha età. Nel film Alvin dice che la cosa peggiore della vecchiaia è il ricordo di quando eri giovane. Lʼidea di invecchiare ti deprime? No. Mi spaventa la morte, ma solo perché è un grosso cambiamento, mentre trovo piuttosto interessante invecchiare. Non so quale sarà la cosa peggiore della vecchiaia, te lo dirò quando ci arriverò! Dove hai trovato tutti quei fantastici attori e quegli splendidi volti di vecchi? Per lo più a Chicago e a Minneapolis. Lavorano soprattutto a teatro e probabilmente di tanto in tanto appaiono in qualche spot pubblicitario, ma non hanno fatto quasi niente per il cinema. Harry Dean Stanton era lʼunico di Los Angeles. Everett McGill è dellʼArizona, Sissy della Virginia e Richard del New Mexico. Gli altri erano di Chicago o di Minneapolis. E il motivo per cui li ho scelti è che sono tutti attori molto bravi. Ho adottato un nuovo metodo di selezione: chiedo ai candidati di parlarmi attraverso un video. Prima li scelgo sulla base delle fotografie, poi mi faccio mandare un video in cui si presentano. È stato così che li ho scelti tutti di

Minneapolis o di Chicago. Li ho incontrati per la prima volta sul set e non mi hanno deluso: conoscevano i luoghi, conoscevano i contadini e gli accenti della zona, sapevano tutto. Alcuni episodi sono molto commoventi, come quello in cui Alvin e un altro vecchio si scambiano racconti drammatici sulla Seconda guerra mondiale seduti al bancone di un bar. Sembra tutto reale, come se i due attori avessero davvero vissuto quelle esperienze. È stato difficile girare quella scena? Quel tipo di scena è molto delicato. Il dialogo era tutto costruito su storie vere, ma naturalmente lʼinterpretazione deve scaturire in modo spontaneo dagli attori stessi. Per cui ho preparato un ambiente non eccessivamente tranquillo, ma che permettesse di creare un clima piuttosto rilassato. Ho lasciato agli attori il tempo di bersi un caffè seduti al bancone, mentre noi sistemavamo le attrezzature, e poi ho fatto partire i primi piani. Avevo due macchine da presa e le ho puntate sui loro volti, una per ciascuno. Non abbiamo fatto prove, neanche una, per cui il risultato è molto naturale. In un certo senso ognuno doveva sentirsi un poʼ più partecipe di quanto previsto dal suo ruolo, soprattutto in certe scene, altrimenti avrebbe rovinato lʼatmosfera. Devi circondarti di gente in gamba, per ogni compito, se vuoi raggiungere questi risultati.

Uno stuntman dʼeccezione. Richard Farnsworth (Alvin Straight) nella sua interpretazione più memorabile, sul set di Una storia vera (1999).

Puoi raccontarmi qualcosa della scelta di Richard Farnsworth per il ruolo di Alvin? È impossibile immaginare il film senza di lui. Quando è saltato fuori il nome di Richard Farnsworth ho sentito le campane che suonavano a festa! Si dice spesso di alcuni attori che sembrano nati per un ruolo specifico. Se mai è stato vero, questo è il caso. Il film deve tutto alla sua interpretazione. Nessun altro sarebbe riuscito a fare quello che ha fatto lui. Ha una dote particolare che si ritrova in tutti i suoi film e che te lo fa amare allʼistante. E, come sai, assomiglia tantissimo ad Alvin. Porla sempre il cappello, come Alvin, e come lui proviene dal mondo dei rodei.

Richard era uno stuntman prima di cominciare a recitare, e non si è mai considerato un attore, il che secondo me è assurdo perché sa davvero dare vita ai personaggi. Risponde perfettamente alla definizione di attore: una persona che trasforma una storia in realtà. Quando gli fai un primo piano, la mente si focalizza su di lui, lʼimmaginazione prende il volo e così anche il cuore; si crea unʼinterazione tra queste tre forze. Ogni parola e ogni suo sguardo comunicano tanto. Era aperto a tutto, come un bambino. Quello che fa è meraviglioso. Hai raccontato di tuo padre e del cappello da cowboy con cui andava al lavoro al dipartimento dellʼAgricoltura, quando eri bambino. Ti è mai tornato in mente mentre giravi con Richard? A volte Richard mi ricorda mio padre, a volte no. Non è una cosa a cui ho pensato mentre giravo. Che cosa sarebbe successo se Richard non avesse accettato di fare il film? Non puoi pensare in questo modo, Chris! Non puoi pensare in questo modo. Richard ha accettato. Ha rischiato di non farlo ma lʼha fatto, perché era destino che lo facesse. Pare avesse il cancro alle ossa. Immagino fosse già in fase terminale quando ha accettato di fare il film, pensi che sapesse di esserlo? Sì, ma non ha lasciato capire quanto era malato. Fisicamente è stata una prova molto dura per lui, ma come sai era un cowboy. È arrivato fino in fondo senza lamentarsi neanche una volta. E più il tempo passava più lui ringiovaniva; verso la fine riusciva ad alzarsi dalla

sedia molto più agilmente che allʼinizio. Era orgoglioso del suo lavoro, orgoglioso di riuscire a farlo, e felice. Henry in Eraserhead, Jeffrey in Velluto Blu, Fred in Strade perdute sono tutti personaggi «perduti nellʼoscurità e nella confusione», come piace dire a te. Che cosa ti ha incuriosito di Alvin, che non sembra altrettanto disperato? Adoro tutti quei personaggi, ma amo anche Alvin. Alvin era perduto nello scurità e nella confusione. Ha un passato; probabilmente alcune parti di quel passato lo fanno stare bene e altre lo tormentano, come succede a tutti. Ma nel film ta qualcosa per se stesso e per suo fratello. Non avevi più chiamato Freddie Francis alla fotografia dopo la dolorosa esperienza di Dune. Come mai hai scelto lui per Una storia vera? Freddie è uno dei più grandi direttori della fotografia del mondo e ha più di ottantʼanni! Una storia vera parla di un uomo anziano, per cui in qualche modo sentivo che era la cosa giusta lavorare con Freddie in questo film. Credo che sarebbe stato molto diverso se ci fosse stato qualcuno di più giovane dietro la macchina da presa. Era importante per creare il clima giusto. Inoltre, ci sarebbe stato qualcosa di sbagliato se la troupe fosse stata tutta tra i venti e i trentanni mentre Richard Farnsworth faceva fatica ad alzarsi dalla sedia! Freddie aveva detto di non voler lavorare più di otto ore al giorno, ma quando ci siamo trovati a lavorare per dieci o dodici ore era lui a trainare il gruppo! E intanto Richard ringiovaniva e loro due si guardavano lʼun lʼaltro dai lati opposti della macchina da presa ed era un bene

per entrambi. Per Freddie girare deve essere divertente. Non riesce proprio ad accettare il pensiero di lavorare male. Nessuno vuole una cosa del genere. Per cui credo che ora sia più accorto nel vagliare le proposte.

Centotrentʼanni in due. Il direttore della fotografia Freddie Francis e David Lynch si rilassano sul set di Una storia vera (1999).

So che vorresti sempre lavorare con un numero ridotto di collaboratori dietro la macchina da presa e che il tuo ideale sarebbe una squadra di cinque persone, come quella di Eraserhead. Una storia vera è stato una specie di film formato famiglia? Non era un gruppo così grande, ma neanche piccolo come piace a me. Però è stato fantastico lo stesso. Inoltre, era la prima volta che lavoravo alla scenografia con Jack Fisk, che è il mio migliore amico. Era la prima volta che lavoravo con Sissy, con cui ho sempre desiderato lavorare. E poi, lavorare con Richard è come ritrovarti davanti tuo padre o rivivere i ricordi di tuo

nonno. E se Richard allungava lo sguardo dietro la macchina da presa vedeva Freddie, che era più vecchio di lui, e così… eccoci in marcia tutti insieme! Quando Wim Wenders ha realizzato un road movie come Nel corso del tempo, ha girato tutto in ordine cronologico, esattamente come scritto nella sceneggiatura o, nel suo caso, nellʼ«itinerario». Hai fatto la stessa cosa? Sì. Siamo partiti da Laurens e abbiamo cominciato il viaggio esattamente nello stesso momento dellʼanno in cui è partito Alvin. Credo di aver effettivamente girato le scene nello stesso ordine in cui si sono svolte nella realtà, e ha funzionato alla perfezione. Richard si sentiva in un certo modo allʼinizio delle riprese, e poi ogni giorno che passava entrava sempre più nello spirito del viaggio. Inoltre era la fine dellʼestate, per cui man mano che procedevamo le foglie cambiavano colore. Era un momento molto favorevole per trovarsi lì. Lʼestate stava lasciando il posto allʼautunno, la stagione del raccolto. Siamo partiti con il caldo e con un paesaggio completamente piatto intorno a noi, c poi, durante il viaggio, è cominciato il raccolto ed è arrivato lʼautunno, proprio mentre avvistavamo le prime colline. La nostra unica preoccupazione era finire prima dellʼinverno perché lì le temperature scendono fino a cinquanta gradi sotto zero. Un freddo tremendo. Quando abbiamo finito era andato tutto alla perfezione. Unʼesperienza bellissima; non sarebbe potuta andare meglio. Circa una settimana dopo la fine delle riprese arrivò il maltempo. La fortuna ci ha sorriso. Per esempio, la notte in cui girammo la scena di Alvin con il

prete era una notte piuttosto mite; cera vento, ma non faceva troppo freddo. Era una scena difficile per Richard, molto densa e con tanto dialogo, e lui era seduto su una sedia piccola e bassa. Credo stesse anche molto male. A ogni modo, finimmo di girare circa alle due del mattino; avevamo appena caricato tutta lʼattrezzatura sui camion e mi ero messo alla guida per tornare alla base quando a un tratto ci fu un lampo, seguito da un tuono, e cominciò a cadere una pioggia letteralmente TORRENZIALE. Un tempismo perfetto! Nel film ci sono un sacco di composizioni di colori splendide: tutto quel verde e giallo delle macchine John Deere, il rosso vivo delle case di legno, e così via. Quanto di tutto questo lʼavete «trovato» già così e quanto è stato creato ad arte? Era tutto così! Non abbiamo dipinto niente! Alcune cose le devi saper scegliere, ma tante semplicemente te le ritrovi. Sono lì. Non è un documentario, eppure lʼunica luce è quella del sole e il paesaggio è proprio quello. Non cʼè molto su cui giocare, ma puoi lavorare con quello che hai. Quando si fa un film come questo lʼintervento dello scenografo non si deve notare. Jack Fisk è intervenuto spesso, ma è giusto che non si veda. Il film si poteva girare in cento modi diversi; quello realistico è perfetto. A me piace quando lʼuomo e la natura collaborano. Per cui mi piace il fuoco ma mi piace anche la colla, e mi piacciono gli imprevisti che creano una terza cosa diversa. Nascono molte possibilità da eventi imprevisti o da «accidenti controllati»; perfino la scissione di un atomo.

Lʼuomo e la natura collaborano. Lo scenografo Jack Fisk (sulla destra) rende la realtà ancora più bella sul set di Una storia vera (1999).

Un aspetto molto vistoso e importante del film è il ritmo. Sembra Cuore selvaggio a un decimo della velocità. Puoi dirmi qualcosa su questa lentezza, così evidente? La mia idea è che Alvin avrebbe potuto viaggiare in modi molto più comodi, ma non avrebbe avuto lo stesso significato per suo fratello. Il valore di quel viaggio secondo me sta nel perdono e nella riparazione. Non è un film su un pilota di Formula Uno! Quando nella sceneggiatura hai un uomo di settantatré anni e nella realtà un attore che ne ha settantanove, la lentezza scaturisce dalla storia stessa. Alvin non guida una Corvette o una Dodge Charger, ma un tosaerba che puf) raggiungere una velocità massima di otto chilometri allʼora. E questo spalanca tutto un altro mondo. Quando abbiamo fatto il primo viaggio di ricognizione, abbiamo percorso alcuni tratti guidando lentamente lungo il ciglio della strada, ma lʼautomobile faceva fatica ad andare così piano. Anche togliendo il piede

dallʼacceleratore e tenendo il motore al minimo, non scendeva mai comunque sotto i venticinque chilometri allʼora. A otto chilometri allʼora il tachimetro non si muove neanche, non la vede nemmeno quella parte del quadrante! Per cui devi frenare. E quando rallenti, percepisci tutto in modo diverso. Abbiamo impiegato lo stesso tempo di Alvin per raggiungere Mount Zion. Lui andava a sei chilometri allʼora, così lentamente da poter distinguere la granulosità dellʼasfalto. Incredibile. Ci siamo portati dietro tre tosaerba diversi e li ho provati tutti. Sono molto divertenti da guidare. Molti agricoltori collezionano vecchi trattori e tosaerba e organizzano raduni, tipo quelli delle auto dʼepoca. La gente li adora e capisco il perché. È tutto molto diverso dalla sequenza veloce ed elettrizzante che precede lʼinizio di Strade perdute, parte di un viaggio frenetico che non riuscirà mai a rimettere a posto niente. Puoi scommetterci! E ricordo che per girare quella particolare sequenza, Steadicam Dan era su un camera truck a cui era stata fissata anteriormente una specie di griglia, simile a un cacciapietre. Era una notte nera come la pece. Cerano circa dodici gradi sotto zero e dovevamo procedere a cinquanta chilometri orari; dovevamo viaggiare a quella velocità per almeno venticinque minuti, perché stavamo girando a sei fotogrammi al secondo in modo che, in fase di proiezione, la sequenza durasse quattro o cinque minuti. Eravamo in Nevada, di notte, su una strada a due corsie, su cui quindi era assolutamente vitale che non passasse NESSUNO, e dovevamo mantenere quella velocità. E Steadicam Dan teneva la macchina da presa a venti

centimetri dallʼasfalto! Non si poteva muovere per venticinque minuti e cera un freddo glaciale, nel suo caso aggravato dallʼeffetto del vento perché non aveva NIENTE davanti a sé. Alla fine della ripresa non avrebbe potuto muoversi neanche se lʼavesse voluto. Era completamente congelato, come un HAMBURGER! È stato un eroe. Quando ho girato Una storia vera, volevo che il film sembrasse quasi galleggiare. Volevo si percepisse questa sensazione in particolare nelle riprese aeree. Ci sono volute molte spiegazioni per convincere i piloti dellʼelicottero a rallentare quanto era necessario per ottenere il tipo di immagini che cercavo. So che ami usare la musica per aiutare gli attori a «farsi contagiare» da un particolare stato dʼanimo. Il fatto di essere in viaggio dallʼinizio alla fine delle riprese ha condizionato il rapporto che ti piace instaurare tra musica e film? In effetti non abbiamo cominciato a lavorare sulle musiche fino alla fase di postproduzione. Questa volta non ho usato molta musica di sottofondo durante le riprese. Qualche volta lʼho fatto, ma ora non ricordo per cosa. In quei posti, però, la musica è nellʼaria. È davvero bello. Se prendi la macchina ed esci dalla strada, spegni il motore, ti allontani dallʼauto - altrimenti il ticchettio del motore ti fa diventare PAZZO - e ascolti solo il vento e gli insetti, quella è musica. E, a parte questo, cʼè un silenzio assoluto. La musica di Angelo Badalamenti per il film è bella ma, come era prevedibile, è molto diversa dal genere di

composizioni che ha scritto per te in passato. Avete dovuto escogitare un modo nuovo di lavorare, questa volta? No. Ci troviamo, ci sediamo e io comincio a parlargli. Vuole che gli parli di uno stato dʼanimo. E mentre io parlo lui suona. Ma devo fermarlo continuamente. I.ui stacca le mani dalla tastiera e io dico: «Angelo…» e provo a usare parole diverse, poi riprende a suonare. Dopo un poʼ dico: «No, no, no, è come…» e cerco altre parole ancora. Perché sono le parole che suggeriscono la musica. Poi lui accenna un tema ed ecco che ingraniamo. Ci vogliono almeno tre o quattro tentativi; lui interpreta le mie parole e a poco a poco ci avviciniamo sempre più allʼobiettivo, finché non trova un idea mu-

La musica del vento e degli insetti. David I.ynch sul set di Una storia vera (1999).

sicale che funzioni, che sia quella giusta. A quel punto espande lʼidea e la sviluppa. Angelo dirigeva quattordici ottimi musicisti. Dovevamo stare attenti ai tempi perché

avevamo una scadenza, ma sapevamo che, finché nessuno collassava per la fatica, eravamo liberi di lavorare a oltranza quando le cose giravano per il verso giusto. Una storia vera aveva le stesse componenti di ogni altro film, ma era più semplice, perché il filo narrativo da portare avanti era uno solo. Proprio questo, però, lʼha reso molto più faticoso perché non sapevi dove nasconderti. Avevi solo un paio di cose di cui occuparti, non cera modo di svicolare. E comunque ho fissato tutto nel missaggio, non solo dove interveniva la musica ma anche come. È un lavoro delicato e diventa man mano più difficile valutarne il risultato perché si perde lʼoggettività. Diciamo che arrivi alla mattina che sei abbastanza fresco, è una scena nuova e ti stimola emotivamente. È incredibile come poi basti un fotogramma in più o in meno per far sparire quellʼemozione. È davvero questione di poco. Unʼemozione può nascere allʼimprovviso, ma è sufficiente un dettaglio fuori posto e non succede niente! La perfezione non esiste in questo mondo, ma ci provi lo stesso, per far sì che lʼintero sia più della somma delle parti. A volte, quando ogni elemento è ben calibrato, accade una specie di magia. È a quella che punti. I film per me sono simili alla musica perché si compongono di eventi che si susseguono nel tempo. Certi eventi devono precederne altri in un ordine ben preciso perché lʼinsieme funzioni. Il modo in cui tutto è rallentato in questo film mi fa tornare in mente una frase che hai detto in passato sulla necessità di rallentare il mondo, di fan to in tanto, per potersi immergere

in acque profonde e pescare le buone idee. Non è a questo scopo che usi la meditazione? È stupendo quello che fa la meditazione, in molti campi. È profonda eppu re è semplice. È stranamente simile al sesso, in qualche modo. Che cosa vuoi dire? Te lo spiego. Immagina di essere un albero: stai abbastanza bene, però alcune delle tue foglie sono un poʼ marroni, su altre ci sono dei parassiti e hai i rami un poʼ cascanti. Non sei in perfetta salute. Il tronco puzza persino un poʼ. Questa è la condizione in cui si trova la maggior parte di noi. E poi scopri che le radici non affondano nel terreno, non ricevono nutrimento. Se potessi affondare le radici nel terreno allora automaticamente tutte le parti dellʼalbero si risolleverebbero, fino a raggiungere la perfezione. Il terreno che dà nutrimento è il «campo unificato». La scienza moderna lʼha scoperto, dicono che esiste. È chiamato con molti nomi diversi, ovviamente: «lʼassoluto», «il non manifesto», «coscienza di pura beatitudine», «coscienza trascendentale»; ha molti nomi. È unità. È ciò che non ha mai avuto un inizio e non avrà mai fine. È conoscenza. È pura intelligenza creativa. È la cosa unica e sola. È lʼuniverso ed è tutti noi, permea ogni manifestazione. Questo è il nutrimento. Nella meditazione trascendentale, il mantra accompagna la mente attraverso i diversi strati della relatività fino a raggiungerne la soglia e, tutta un tratto, entri. Trascendi nellʼassoluto. E vorresti poterci restare, ma dopo un poʼ ti ritrovi di nuovo fuori.

Ci sono due forme diverse di samādhi. Cʼè il samādhi maggiore, che è illuminazione - ed è uno stato permanente - e cʼè il piccolo samādhi. Quello di cui parlo è il piccolo samādhi. Bang!, sei dentro. E poi sei di nuovo fuori. Ma questo entrare e uscire libera dalla tensione il sistema nervoso, purificandolo. È importante pulire la macchina e infonderle nutrimento. A poco

La transizione verso il mattino. In viaggio verso Mount Zion per Una storia vera (1999).

a poco, ogni giorno, venti minuti al mattino e venti minuti alla sera, quel processo si ripete, finché raggiungi il punto in cui puoi dire: «Io sono questo». Lo eri già, ma non lo sapevi. E ora hai il controllo di tutte le tue facoltà e ogni cosa è meravigliosa.

Tutti gli esseri umani hanno questo potenziale, ma devi fare qualcosa. Non puoi fermarti alla superficie della vita e fingere. È come essere assetati e far finta di non esserlo. Devi bere lʼacqua. Come si impara a farlo? Puoi imparare da qualunque insegnante di meditazione trascendentale. Quando compri una Rolls-Royce non importa il nome di chi te la vende, esci dal concessionario con una Rolls-Royce. È la stessa cosa. Ma come puoi dimostrare che tutta questa roba esiste realmente? Nessuno dimostrerà mai una cosa del genere, perché è unʼesperienza soggettiva. Ti voglio raccontare una storia. Non dirò il nome della persona coinvolta; è un nome importante ma in ogni modo… Beʼ, il nome è Dick.1 Lo chiamerò semplicemente Dick. Dunque, Dick era un tipo molto precoce. Era in prima media e aveva già quasi la barba da quanto era precoce. Insomma, questʼaltro ragazzino venne a dirmi che Dick era nel bagno dei maschi con unʼerezione e che si stava strofinando il pene, e che dalla punta del suo pene usciva una sostanza biancastra. Mi disse questo. E io esclamai: «Stai scherzando! Mi prendi in giro! Che razza di storia è questa? È impossibile. Ha qualche problema? Che gli succede?». Ma allo stesso tempo percepivo vagamente che cera del vero. Non aveva alcun senso e tuttavia ero vagamente consapevole che non stava mentendo e che sapevo di cosa stava parlando. Così provai anchʼio e non potevo crederci, ma era proprio vero.

Questo è il motivo per cui dico che la meditazione in un certo senso è simile al sesso. È una cosa assolutamente reale, ma è personale, non può essere dimostrata. Puoi dire: «Non ci credo e non mi interessa», ma nella vita di ogni essere umano cʼè un momento in cui si va in cerca di risposte e si pensa: «Cʼè qualcosa di più grande là fuori. È un mistero ma so che cʼè». E allora ti può capitare di sentir parlare di meditazione e dici: «Devo provarci anchʼio!». E così intraprendi il cammino spirituale. Molte persone sentono questo richiamo ma non lo ascoltano. Tu però continui a sostenere di essere perso nellʼoscurità e nella confusione. Hai bisogno di rimanerci, in un certo senso, per poter fare i tuoi film? No. Funziona così: di notte è buio, poi comincia la transizione verso il mattino. Direi che molte persone si trovano nello stadio della transizione. Si sta facendo più chiaro e riescono a vedere più cose, ma non cʼè ancora il sole di mezzogiorno. Lʼoscurità e la confusione sono ancora piuttosto dense. La meditazione invece fa ruotare il mondo verso il pieno sole. Fa in modo che la rotazione avvenga più velocemente. E la tua attrazione per lʼoscurità? È come un film. È roba perfetta per i film. Non è una cosa che vorresti vivere nella realtà, ma vuoi viverla attraverso i film. Non so da dove nasca. È come… non lo SO comʼè. (Ride). È fantastico vivere unʼesperienza quasi piena in un altro mondo. Cʼè della magia in questo. Come si collega tutto questo a Una storia vera?

Ogni storia è diversa. Una storia vera ha attraversato la stessa macchina da cui è passato Strade perdute; ma ogni opera dovrebbe essere considerata autonomamente. Se non ci fosse il mio nome nei titoli, sono sicuro che pochi indovinerebbero che quel film è mio. In linea teorica, Una storia vera potrebbe essere la mia prima opera! Ma, potendo scegliere, non è forse vero che sei più attratto dal lato oscuro? In realtà non è una scelta. A volte succede che stai camminando per strada, giri lʼangolo e là, in quel bar, cʼè una ragazza. Non è affatto il tipo di cui immaginavi di poterti innamorare, ma non puoi farci niente. Sei innamorato. Però è più probabile che i film che scrivi, sia da solo che con altri, esplorino la dimensione più oscura, più irrazionale. È a causa della macchina, che si innamora di alcune cose più facilmente che di altre. Ma il segreto è che devi innamorarti. La strada è troppo lunga e ci sono troppe cose di cui occuparti se non sei innamorato. Considerato che Una storia vera ha avuto il vantaggio di essere distribuito negli Stati Uniti dalla Disney, che ha avuto un enorme successo di critica e che è una storia positiva, mi sorprende che non abbia incassato di più. Di ogni film che ho fatto ho pensato che sarebbe stato un film di successo. Hai la sensazione che se una cosa piace a te, forse piacerà anche agli altri, anche se a volte è più facile prendere in giro se stessi che gli altri. I miei film non incassano abbastanza per entrare neppure nei radar dei grandi produttori. Quel che fa drizzare sulle sedie i

grandi produttori e che mette in moto i loro cervelli sono i soldi; quanti più sono i soldi tanto più raddrizzano la schiena. Penso sempre che forse esiste una storia che potrebbe appassionarmi sinceramente e allo stesso tempo incassare. Solo che non lʼho ancora trovata. 1

* Dick è nome proprio di persona, ma è anche un termine volgare per indicare lʼorgano sessuale maschile. |N.d.T.]

11. Billy trova un libro di indovinelli proprio nel suo giardino Mulholland Drive

«Probabile», «possibile», «forse»: queste tre parole ricorrono inevitabilmente in qualunque tentativo di descrivere quel delizioso enigma che è Mulholland Drive. E sono tre parole in più di quelle che è disposto a dire lo stesso Lynch quando si tratta di spiegare il film. Per farsi unʼidea di tale riluttanza, basta leggere la sinossi: «Parte prima: lei si ritrova dentro un mistero perfetto. Parte seconda: una triste illusione. Parte terza: amore». In altre parole: non chiedete. «Vertigo sotto Valium», «Raymond Chandler dentro Alice nel paese delle meraviglie»: questo il genere di battute evocative ma fumose a cui spesso fanno ricorso i giornalisti nel commentare il film, dal momento che descriverne in un resoconto «accurato» struttura, significati e dettagli è impossibile. Mulholland Drive sembra sfidare la logica che governa la veglia, e tuttavia lo si percepisce come unʼunità coerente, completa e stranamente priva di punti di sutura, nonostante sfugga allʼindagine razionale e scivoli via tra le dita. Lynch non vuole e non sa (possiamo solo ipotizzare in quali proporzioni) analizzare il film perché consapevole che, se la «verità» venisse rivelata, il sogno che è Mulholland Drive morirebbe. In questo senso la parola è nemica dellʼopera, e un pronunciamento da parte del regista sarebbe potenzialmente il nemico più letale. Lynch è anche sensibile al fatto che Mulholland Drive in

una vita precedente è stato lʼepisodio pilota di una serie televisiva mai realizzata. Ma il confronto tra la versione rifiutata dalla Abc e quella ampliata a lungometraggio, alla minuziosa ricerca di cosa è stato aggiunto e cosa è stato eliminato, è un territorio altrettanto proibito. Scomporre il film in questo modo potrebbe indurre a considerarlo unʼoperazione di recupero, il che è ben lontano dalla verità. Per Lynch, lʼunico Mulholland Drive è il lungometraggio che ha debuttato a Cannes nel 2001. E così è anche per noi. Anzi, un aspetto sorprendente dellʼopera è precisamente il modo in cui alcuni elementi, che secondo il progetto originario avrebbero dovuto distribuirsi nel corso di una o due stagioni televisive, riescono a rendere ugualmente plausibile la propria presenza in due ore di proiezione. È un caso esemplare di salto evolutivo, come se Lynch fosse stato costretto a passare direttamente dallʼepisodio pilota di Twin Peaks al lungometraggio Fuoco cammina con me, senza il vantaggio di aver già sviluppato i personaggi e costruito una trama articolata nel corso della serie televisiva. Mulholland Drive si compone in sostanza di un episodio pilota per la tv rimontato, con lʼaggiunta di cinquanta minuti circa di materiale girato quasi due anni dopo. Tuttavia, è stato nellʼoperazione stessa di ri-immaginare Mulholland Drive e di condurre a una qualche forma di conclusione una storia ancora priva di finale, che Lynch ha «scoperto», in un certo senso, la sua vena più radicalmente visionaria. Se il sinistro mantra di Twin Peaks era la frase «Fuoco cammina con me», il ritornello inquietante di Mulholland Drive è «È lei la ragazza», una frase su cui si

stratificano significati diversi, a seconda di chi la pronuncia e in quale momento. Quella che risuona come unʼaffermazione vagamente minacciosa quando la si sente per la prima volta, si tramuta nel finale, per effetto delle rivelazioni sempre più complesse attraverso cui viene filtrata, in un ordine esplicito e mortale. In Mulholland Drive Lynch adotta la stessa struttura narrativa a nastro di Möbius di Strade perdute, ma vi applica unʼulteriore torsione a spirale. Sono un «sogno» i primi due terzi del film, in cui Betty Elms - incarnazione dellʼingénue di Hollywood - cerca di aiutare Rita, colpita da amnesia, a scoprire la sua vera identità? È «realtà» lʼultimo terzo, in cui Betty si trasforma nella tossicodipendente fallita e destinata al suicidio Diane Selwyn, mentre Rita diventa Camilla Rhodes, la sua perfida amante lesbica? O è forse il contrario A tutte e tre le domande si potrebbe rispondere indifferentemente con un «sì» e con un «no». La narrazione dei primi due terzi di Mulholland Drive - il possibile «sogno» appagante di Diane - è coerente e fluida, qualità entrain- be non proprio oniriche. Tale «sogno» trasfigurante, inoltre, non sembra collocarsi in un momento specifico della vita del personaggio, come sempre accade nei film per simili fantasie. Persino la «fuga psicogena» di Fred Madison in Strade perdute ubbidisce a questa convenzione (si innesca infatti mentre lʼuomo si trova chiuso in cella). Per contro, la possibile «realtà» sordida di Diane, lʼultimo terzo del film, è raccontata come un sogno, o come un incubo: discontinuo, astratto, febbrile. In effetti, entrambe le parti potrebbero essere lette luna come una differente versione della realtà dellʼaltra. Dialogano costantemente

tra loro su un piano di reciproca parità, minacciando allo stesso tempo di smascherarsi a vicenda per quello che sono. Si direbbe che in Mulholland Drive Lynch abbia fatto della stessa contrapposizione tra «sogno» e «realtà» un concetto irrilevante, il confine tra i due stati è ridotto a un checkpoint malamente presidiato, dove nessuno sembra curarsi di timbrare i passaporti. Il risultato ha il sapore di una ricetta inedita, per la quale Lynch ha usato i suoi ingredienti segreti in proporzioni insolite. È un sapore che si compone per un terzo di «realtà» e per due terzi di «evasione dalla realtà», con appena un pizzico di «realtà futura». A tratti il sapore si fa meno amaro, ha il gusto del sogno allʼinterno di unʼillusione, addolcito da qualche goccia di desiderio e guarnito da una premonizione. Los Angeles - la città in cui sorge Hollywood, la «fabbrica dei sogni» - è, sotto molti aspetti, la mente centrale e il personaggio principale di Mulholland Drive. È un posto dove ognuno brama di diventare qualcun altro, o qualcosʼaltro. Permette di avverarsi ad alcuni di quei sogni, mentre fa a pezzi tutti gli altri. È la città dove molti aspiranti attori hanno due nomi: quello che gli è stato dato alla nascita e quello che si sono scelti per il proprio alter ego di successo. È una città piena di fantasmi e di case infestate: virtualmente ogni piccolo appartamento e ogni villa protetta da una cancellata sono stati occupati da qualcuno che è diventato famoso, è morto nel tentativo di diventarlo o, come Norma Desmond in Viale del tramonto di Billy Wilder, è di nuovo scivolato tristemente nellʼanonimato.

Allo stesso tempo volubile, fragile e finta, Los Angeles non è altro che una crosta di terra ipercivilizzata in un angolo del deserto del Mojave; se tutti i suoi irrigatori venissero spenti, ritornerebbe inesorabilmente alla sabbia. Ma in Mulholland Drive la città sembra risputare parte della linfa creativa e dello sforzo prodotti in eccesso dai suoi abitanti nellʼinseguire il sogno. La storia di Los Angeles è così breve che passato e presente quasi coesistono. Sembra solo ieri (era il 1932) che la comparsa Peg Entwistle si lanciò dalla scritta «Hollywood» per non aver ottenuto un contratto con una casa di produzione. E solo un istante prima (nel 1913) a dirigere il dipartimento per lʼAcqua e lʼenergia elettrica cera un ingegnere senza scrupoli di nome William Mulholland. La strada che prese il suo nome, la strada su cui ci troviamo ora, è ancora infestata dagli spiriti folli, tristi e sinistri di attori di serie A, B e Z che ritornano nei luoghi dei loro omicidi, dei loro suicidi e delle loro orge, sorridendo ancora alle telecamere, agognando un ultimo primo piano. La forte personalità attribuita ai luoghi, naturalmente, è tipica dellʼopera di Lynch. Come questo film sembra narrato dal punto di vista della città - che sembra generare in prima persona i personaggi e le storie che si svolgono nei suoi stessi cortili - così gli eventi stravaganti e violenti che abbiamo visto accadere dentro e intorno alla cittadina di Twin Peaks erano una diretta emanazione delle forze misteriose che abitavano quel particolare paesaggio. Quelle forze erano la cittadina e la cittadina era la vera protagonista dello spettacolo. La serie non si intitolava «Vita e morte di Laura Palmer», così come Mulholland Drive non si intitola La storia di

Diane Selwyn. Questʼultimo film è stato invece realizzato con il titolo La storia di Sylvia North dai registi di finzione Adam Kesher e Bob Booker, allʼinterno dellʼintricato racconto dello stesso Mulholland Drive. Forse. Il film trasforma tutti noi in detective, ma ci chiede di seguire lʼesempio dellʼagente speciale Dale Cooper, e di fare assegnamento non solo sulla razionalità, ma anche sui nostri poteri spirituali e sulle nostre facoltà intuitive per riuscire a «percepire» in Mulholland Drive un nucleo logico che abbia senso per noi. Il detective che è in me ha archiviato le sue annotazioni sul caso: molte prove sono circostanziali e le conclusioni difficili da dimostrare. Di recente mi è caduto lʼocchio su un paio di commenti scarabocchiati a margine di quegli appunti. Uno è un promemoria del fatto che Viale del tramonto di Billy Wilder è raccontato da un cadavere che galleggia a faccia in giù in una piscina di Los Angeles. Lʼaltro riprende un commento di David Lynch riportato nelle pagine precedenti di questo stesso volume. Lynch in passato aveva acconsentito a dirigere un film scritto dal coautore di Twin Peaks Mark Frost e basato sul libro di Anthony Summers Marilyn: tutti i segreti di una vita, film che non fu mai realizzato. «Mi piaceva molto lʼidea di quella donna nei guai» ha detto Lynch «ma non so se mi piaceva il fatto che fosse una storia vera.» Marilyn, come sappiamo, fu trovata morta in circostanze sospette, sdraiata sul letto in posizione semifetale. Si pensò che avesse rapporti con la mafia. I.a sua infanzia era stata infelice e pare che temesse di essere geneticamente predisposta alla pazzia. Una volta osservi» che, essendo del segno dei gemelli, era come «Dr Jekyll e Mr Hyde, due persone in una». Le era

perfino stato diagnosticato un disturbo di personalità borderline. I borderline sono emotivamente instabili, eccessivamente impulsivi e costantemente dipendenti dallʼapprovazione altrui; bramano lʼapplauso e cadono in grave depressione quando vengono respinti. Marilyn: tutti i segreti di una vita si apre con una citazione del poeta Norman Rosten, lʼamico di sempre della diva: «Hollywood, la fabbrica dei sogni, aveva creato una ragazza da sogno. Poteva destarsi alla realtà? E qual era la realtà? Esisteva una vita per lei al di fuori del sogno?». È lei la ragazza. Probabile, possibile, forse. RODLEY:

Pensando a Cuore selvaggio, Una storia vera, Strade perdute e ora a Mulholland Drive, la strada sembra avere un ruolo importante nei tuoi film. LYNCH: E La strada di Fellini è uno dei miei film preferiti! A pensarci, ogni strada rappresenta un viaggio verso lʼignoto, e questo mi attira molto. Per i film è la stessa cosa: le luci si spengono, il sipario si apre e si parte, ma non si sa dove si sta andando. Tu abiti poco distante da Mulholland Drive: attraversa il tuo quartiere. Lʼhai anche usata come set per la scena del tallonamento di Mr Eddy in Strade perdute. Cʼè qualcosa in quella strada che ti attrae in modo particolare? Sì. È una bella strada che costeggia il crinale delle montagne di Santa Monica e offre una vista panoramica sulla valle da una parte e su Hollywood dallʼaltra. È una strada misteriosa, con molte curve. È molto buia di notte e, a differenza di tanti altri luoghi di Los Angeles, è rimasta più o meno uguale nel tempo.

A differenza del film, che ha subito diverse trasformazioni. È una storia lunga. Dopo Twin Peaks, o più o meno ai tempi di Twin Peaks, nacque lʼidea di uno spin-off intitolato Mulholland Drive. Avremmo dovuto scriverlo io e Mark Frost, ma non lo realizzammo mai. Il nome però ci rimase in testa. Non scrivemmo niente e non ne parlammo mai sul serio. Avevamo solo quello: il titolo. Mark detiene alcuni diritti su Mulholland Drive perché eravamo dʼaccordo che se un giorno lʼavessi usato gli sarebbero stati riconosciuti. Spero vi abbiano provveduto. Ho cercato di far ripartire il progetto a metà degli anni novanta e ci ho lavorato un poʼ con lo sceneggiatore Bob Engels, ma senza risultati concreti. Era solo una speranza che non voleva morire, ma poi smisi del tutto di pensarci. E quindi da dove è arrivato alla fine lʼimpulso? Il mio ex agente Tony Krantz mi chiese: «Perché non giri una nuova serie televisiva e la intitoli Mulholland Drive?». Se non lʼavesse suggerito lui, non avrei mai utilizzato quel titolo, quindi è stato un bene. Un poʼ come le parole «strade perdute» ti avevano suggerito lʼidea per quel film? Esattamente. Fu solo quel nome: Mulholland Drive. Quando pronunci delle parole nella tua testa prendono forma delle immagini. In questo caso lʼimmagine che si formò fu quella che si vede allʼinizio del film: un cartello di notte, i fari di unʼautomobile sul cartello e lʼautomobile che percorre una strada. Queste

cose mi fanno sognare, e immagini del genere sono come calamite, attirano altre idee. Come hai presentato alla Abc la proposta per la serie televisiva? Avevo appena due pagine da fargli leggere, accompagnate da poche indicazioni aggiuntive per spiegare lʼatmosfera e dare qualche informazione in più. A quel punto tutti dicevano: «Sembra fantastica, facciamola». Che cosa cʼera in quelle due pagine? Solo un paio di cose: una donna che aspira a diventare una stella di Hollywood si ritrova a fare la detective e a entrare in un mondo probabilmente pericoloso. Che cosa ti ha fatto innamorare di Mulholland Drive durante la fase di ideazione della storia? Se qualcuno ti chiedesse: «Che cosa, di preciso, ti ha fatto innamorare di quella ragazza?» non saresti in grado di dire una cosa in particolare. Sono tante cose diverse. È tutto. Qui è lo stesso. Hai unʼidea. Un momento pri-

Lei si ritrova dentro un mistero perfetto. Betty Elms (Naomi Watts), la bionda in grigio Vertigo, con la femme fatale quarantenne Rita (Laura Harring) in Mulholland Drive (2001).

ma non cera; arriva allʼimprovviso! E quando arriva, a volte si porta dietro unʼispirazione e unʼenergia che ti entusiasmano. Forse lʼamore è nell idea stessa e semplicemente ti capita. Non lo so. In principio lʼidea è molto piccola, poi si espande e si mostra nella sua interezza. Allora la immagazzini nella memoria, il che ti permette di esaminarla ancora un po. È già completa, in realtà. È come un seme. Lʼalbero già cʼè, ma non è ancora un albero. Vuole essere un albero, ma è solo un seme. A volte ti si presenta unʼidea e ne sei sorpreso come chiunque altro. Ricordo che, mentre scrivevo Mulholland Drive, il personaggio del cowboy saltò fuori dal nulla una notte. A un tratto cominciai a parlare di questo cowboy. È così che funziona: qualcosa comincia ad accadere, ma un momento prima non cʼera.

Ti preoccupa il pensiero di conte una nuova idea si incastrerà con tutto il resto? No, perché anche tu sei dentro quel mondo. Stai solo andando avanti. Non cʼè ancora alcun film. Finché il processo non si completa, devi solo andare avanti. A un certo punto del percorso, quando comincia a delinearsi una forma specifica, tutte le idee si raccolgono per verificare se trovano posto dentro quella forma. A volte scopri che qualcosa non funziona e allora lo metti da parte, lo conservi per unʼaltra occasione. Durante quasi tutto questo viaggio il pubblico devi essere tu. Non puoi cercare di anticiparne le reazioni. Se lo facessi, ti estranieresti; ti troveresti fuori da te stesso, in un territorio molto pericoloso, a tentare di costruire qualcosa per un gruppo astratto che cambia in continuazione. Credo che il tentativo fallirebbe. Devi lavorare dallʼinterno, e poi sperare per il meglio. Parlami del personaggio di Diane, o Betty, dal momento che Naomi Watts interpreta due personaggi con nomi diversi. Come la chiamiamo? Questa particolare ragazza, Diane, ha davanti agli occhi tutto quello che desidera ma non riesce ad averlo. È tutto lì, alla festa, ma lei è esclusa dalle danze. E questo la fa soffrire. Potremmo chiamarlo «destino»: se non ti sorride non cʼè niente che tu possa fare. Puoi avere un talento enorme e idee fantastiche, ma se quella porta non si apre, non hai fortuna. Ci vogliono tanti ingredienti, e in più cʼè bisogno che si apra la porta, per farcela. Circolano molte battute sul fatto che a Los Angeles tutti stiano scrivendo una sceneggiatura e tutti vadano in

giro muniti di foto e curriculum. Cʼè un enorme desiderio di opportunità per esprimersi: è come una specie di creatività che fluttua nellʼaria. Chiunque è disposto a giocarsi tutto in cambio di quellʼopportunità. In questo senso è una città moderna. È come decidere di andare a Las Vegas per trasformare lʼunico dollaro che si possiede in un milione di dollari. Viale del tramonto racconta molto bene il sogno hollywoodiano, secondo me. Hai mai pensato a questa città nello stesso modo, come il posto in cui fare carriera come regista? No. Io ci sono entrato attraverso una porta strana e prima non ne sapevo niente. Sono arrivato qui una notte di agosto del 1970, mi sono svegliato la mattina e non avevo mai visto tanta luce. Una luce così brillante ti trasmette una sensazione particolare, una sensazione di libertà creativa. Per cui per me è stato quasi subito un amore travolgente, che poi è continuato. Tutti dovrebbero trovare un posto in cui si sentono bene, un posto che gli fa bene. Per me è Los Angeles.

Pensiamo di sapere chi siamo, ma non è così. Naomi Watts (Diane Selwyn e Betty Elms) parla di crisi di identità con David Lynch sul set di Mulholland Drive (2001).

Sono stati girati molti film straordinari su questa città, su Hollywood in particolare. È stato difficile scriverne uno che fosse diverso in misura significativa da quelli che lʼavevano preceduto? Non credo si possa partire dicendo: «Farò un film su questa città». È semplicemente capitato che le idee che si sono presentate per Mulholland Drive riguardassero una fetta di questa città, ed è il massimo che si possa fare. Non è possibile riuscire a dire tutto. È sempre solo una parte, e quella parte può generare armonie piacevoli. Però non è mai il quadro intero. E in ogni caso il quadro è in continua trasformazione. Prima hai citato Viale del tramonto di Billy Wilder. Hai pensato molto a quel film mentre scrivevi o giravi Mulholland Drive? No. Sono sicuro che le cose che amiamo nuotino dentro di noi. E forse le amiamo proprio perché la nostra macchina è fatta in un certo modo, per cui è difficile stabilire quale delle due cose viene prima. Io amo Hollywood e lʼEtà dellʼoro che Viale del tramonto ha immortalato così bene. Semplicemente, amo quel mondo. Lo amo. Amo la scena in cui William Holden e Nancy Olson passeggiano di notte per i set esterni dello studio cinematografico. Probabilmente nulla è mai accaduto esattamente in quel modo, ma avrebbe dovuto. Dovrebbe accadere in questo preciso momento! Lavorare tardi la notte in quelle stanze degli

sceneggiatori. Dovrebbe accadere proprio ora! È semplicemente un mondo troppo bello, in ogni suo aspetto. Per cui quel film è sempre vivo, ma in realtà non ci pensavo. Los Angeles è molto più della sola Hollywood, ma Hollywood ha un ruolo fondamentale. Ci sono un sacco di film ambientati a Los Angeles, perché è qui che lavora la gente del cinema, ma molti potrebbero svolgersi altrove. Viale del tramonto non poteva svolgersi che qui. Nel tuo film hai inserito diverse allusioni e riferimenti specifici a quello di Wilder. In Mulholland Drive cʼè unʼinquadratura del cartello stradale con la scritta «Sunset Boulevard». Mi sarebbe piaciuto inserire un breve frammento della musica originale in quel punto. E ce nʼè una del cancello dʼingresso della Paramount; ma la Paramount non permette più di mostrare il suo logo, puoi mostrare solo la parte di cancello sottostante. È una loro regola, e penso sia una regola molto stupida. Però la macchina che si vede nellʼinquadratura è proprio quella utilizzata in Viale del tramonto. Credo lʼabbiano trovata a Las Vegas. Il film di Wilder è un attacco molto esplicito - anche se a volte affettuoso - a Hollywood e allo studio system con cui veniva identificato allʼepoca. Mulholland Drive è stato concepito in qualche misura come una satira dellʼindustria cinematografica? Mulholland Drive non parla solo di Hollywood, anche se tocca un aspetto di quel mondo. Alcune persone vi hanno trovato elementi satirici. In realtà non lʼavevo pensato in questi termini, ma effettivamente cʼè della

satira che aleggia nellʼinsieme. Di sicuro non sono partito con lʼidea di mettercela, ma da ogni idea si diramano molti fili. Proprio come nella vita: a volte si ride al mattino e si piange nel pomeriggio, non sai mai che cosa accadrà. È bello attraversare emozioni e stati dʼanimo diversi a seconda delle idee che ti si presentano. Però la scena del regista Adam Kesher in quella riunione alla Ryan Entertainment dà lʼimpressione di unʼesperienza autentica e personale. Naturalmente. Penso che quasi tutti i registi abbiano vissuto quellʼesperienza. Io ho sempre paura che qualcuno voglia impormi degli obblighi, perché mi identifico molto con il mio lavoro. Quando una richiesta va contro ciò che ritengo giusto per il film, per me è un incubo. È una delle mie preoccupazioni principali. Se non hai ancora la versione finale, è molto facile perdere la direzione e andare incontro a una morte lenta e angosciante. Credo però che tutti conoscano quel tipo di situazione. È questo il punto: ci sono circostanze che in qualche modo riconosci e comprendi, quando le vedi, anche se non ne hai avuto esperienza diretta. Immagino sia capitato a tutti di pensare di avere una situazione sotto controllo e poi, allʼimprovviso, cominciare ad avere la sensazione di essere una pedina in un gioco molto più grande. Chissà di quante cose siamo allʼoscuro. È un pensiero un poʼ paranoico, ma potrebbe essere vero che in ogni momento sono in corso riunioni segrete in cui vengono prese decisioni importanti.

Come per Twin Peaks, Johanna Ray, la tua direttrice del casting, è riuscita a trovare un gruppo di attori meravigliosi: oltre cinquanta ruoli per la sola puntata pilota. Quando fai un casting per la televisione vai a pescare in un giro di attori diverso rispetto al cinema. Cerchi persone che possano restare a lungo nel

Divergenze creative. Il regista Adam Kesher (Justin Theroux) durante una riunione di produzione si scontra con Vincenzo Castigliane (Dan Hedaya) in Mulholland Drive (2001).

progetto il che, come dico sempre, tende a tagliare fuori gente come Harrison Ford. Ma cʼè una tale miniera di talenti in questa città: è meraviglioso! Johanna è una grande amica degli attori. Ce ne sono alcuni a cui vuole bene come fossero la sua famiglia. Uno dei suoi pregi è che se mi dice che un attore è in gamba posso fidarmi. Ho la certezza che tutti i candidati che mi propone sono adatti per il genere di film che ho in mente, e devo solo cercare la persona giusta per quel ruolo. Prima Johanna parla con loro e li riprende in

video per me. Si fa raccontare la loro storia per cinque minuti circa, poi li vedo io. Ma possono succedere anche delle cose strane. Una volta stavo ascoltando un pezzo di Billy Ray Cyrus; non era tra i candidati per quella parte, ma pensai: «È lui Gene, lʼuomo della piscina!». A volte capitano imprevisti positivi e fortunati. È fantastico parlare con gli attori. Da loro ho sentito storie incredibili. Incredibili. E a volte, allʼimprovviso, ti si presenta un personaggio nuovo, ma può darsi che non vada bene per il film su cui stai lavorando. Allora è importante non dimenticarsene. Quando ho conosciuto per la prima volta Grace Zabriskie ho scoperto che era di New Orleans e che sapeva parlare in una specie di gergo dei cajun. Così, anni dopo, lʼho scritturata per Cuore selvaggio. Riguardo ad alcuni personaggi di Mulholland Drive, come il detective di Robert Forster, o anche lʼAdam Kesher di Justin Theroux, si ha lʼimpressione che fossero destinati a ruoli più importanti, se la serie televisiva fosse andata avanti. È vero? Non lo so esattamente, perché avevo pensato solo allʼepisodio pilota. A un certo punto credo che la Abc volesse avere unʼidea della direzione che avrebbe potuto prendere la serie, e così ho scritto un paio di linee narrative. Ma lʼaspetto affascinante di una storia che si compone di molte puntate, almeno per me, è che solo quando lʼepisodio pilota è finito riesci a sentirlo. È lì, davanti a te, con la sua atmosfera, i suoi personaggi e tutte le cose che hai imparato nel farlo. Solo a quel punto sei davvero in grado di vedere dove vuole andare. È molto divertente. Allora reagisci alle sensazioni che ti

trasmette e ti vengono le idee man mano che procedi. Ti trascina dentro un mistero. Puoi dire tante cose prima di cominciare, ma alcune potrebbero non concretizzarsi mai, mentre potrebbero capitarne altre completamente inaspettate. È così bello non sapere allʼinizio dove si sta andando e scoprirlo attraverso lʼazione e la reazione. Sarebbe grandioso se si potesse lavorare

Il regista Adam Kesher (Justin Theroux) sul set, combattuto tra Camilla Rhodes e Betty Elms, in Mulholland Drive (2001).

Lʼ«Uomo che viene da un altro posto» ritorna. Michael). Anderson (in un corpo artificiale) nel ruolo di Mr Roque in Mulholland Drive (2001).

sempre in questo modo. Non ce lʼho con la gente che vuole sapere cosa accade dopo - sono loro i finanziatori, e si tratta di somme enormi - ma non sarebbe divertente se sapessi tutto già in partenza. Sarebbe solo lavoro. Nella storia compaiono alcuni personaggi che sembrano personificazioni astratte della malvagità, della paura, o del crimine organizzato; per esempio il cowboy, o il misterioso Mr Roque nella sua stanza con la parete a specchio alla Ryan Entertainment. Puoi dirmi qualcosa del personaggio più spaventoso, quellorribile vagabondo dal volto annerito sul retro di Winkieʼs? Okay, la storia è questa. Dove ora cʼè il Dennyʼs, sul Sunset Boulevard, una volta cera un altro ristorante che si chiamava Copper Penny, proprio allʼangolo tra la Gower e il Sunset. Credo fosse lì che lavorava Frank Capra. Ai vecchi tempi quello era lʼangolo dove la mattina si mettevano in coda le comparse in cerca di un

ingaggio. Quel Dennyʼs era un posto molto strano. Non ne sono certo, ma credo ci sia stato un banchetto di satanisti nel parcheggio per un poʼ di tempo. Di cosa stai parlando?! Non lo so! Andavo sempre li a fare colazione, mi piaceva la Grand Slam Breakfast. E insomma, una volta ero seduto a un tavolo, mi pare fossi da solo, e dietro di me cerano tre persone che parlavano di Dio. Sembrava una piacevole conversazione da domenica mattina. Quando mi sono alzato per pagare il conto ho lanciato unʼocchiata al loro tavolo e ho riconosciuto il capo della Chiesa di Satana. Stavano parlando tutti in modo molto cordiale e amichevole. Pensavo fossero di qualche congregazione! È stato piuttosto strano. A ogni modo, cera unʼatmosfera piuttosto pesante in quel Dennyʼs, ed è quella che ha permeato la scena del vagabondo. Una cosa che rende particolarmente inquietante il racconto dellʼincubo è il modo in cui la macchina da presa sembra dondolare leggermente su e giù. Fa venire il mal di mare. Quello era previsto fin dallʼinizio, fa parte dellʼincubo. La troupe si era procurata apposta uno speciale braccio Jimmy Jib e riuscì a farlo entrare in quel locale nonostante fosse così stretto, in modo che Peter Deming e la macchina da presa potessero oscillare. Il movimento non si ferma mai, è come un otto disegnato ininterrottamente. È necessario che sia continuo per trasmettere quella sensazione. Devi poter dire: «Sì, è così che deve essere. Era questa lʼidea». A volte capita di trovare una soluzione persino migliore dellʼidea originaria, ma non dovresti mai dire: «Non è quello che

avevo in mente, ma facciamocelo andar bene». Questo non deve accadere. Ti succede spesso di studiare preventivamente con Peter gli aspetti tecnici delle riprese? Ne parliamo prima di cominciare, ma gran parte di quello che ci diciamo è campato in aria. Peter ha la mente aperta. Anche se pensa che un tentativo sia stupido, ci prova in tutti i modi. Potrebbe venirmi unʼidea assurda e dieci minuti dopo loro si stanno già dando da fare, felicissimi di sperimentarla. Questo significa che non hai nessuna pressione addosso e ti senti davvero libero di guardarti intorno per accogliere soluzioni inaspettate. Mi ha sempre incuriosito la collocazione temporale di molti tuoi film. Strade perdute sembrava occupare almeno due decenni completamente diversi. Mulholland Drive è provocatoriamente contemporaneo e tuttavia dà la sensazione di svolgersi nel passato, negli anni cinquanta, o persino nei trenta o nei quaranta. È molto simile a quello che accade nella vita reale. Molte volte durante il giorno facciamo piani per il futuro e molte volte durante il giorno pensiamo al passato. Ascoltiamo vecchia musica alla radio e guardiamo vecchi programmi in televisione. Ci capitano occasioni di ogni genere per rivivere il passato e ci accadono cose nuove in ogni secondo. Esiste una qualche forma di presente, ma è il tempo più elusivo, perché scorre molto rapidamente. A Los Angeles esistono molti posti in cui si può ancora percepire lʼatmosfera degli anni dʼoro di Hollywood, ma

stanno scomparendo. Per esempio, il vecchio pozzo petrolifero che si trovava dove ora sorge il Beverly Center. Ci avevamo girato alcune scene di Eraserhead ed era uno dei miei posti preferiti al mondo. Entravi in questa ciambella di terra, scendevi e ti trovavi in un mondo completamente diverso. Cerano i serbatoi per il petrolio e questo pozzo ancora funzionante. Era incredibile. Cʼera una giostra con i cavallini che risaliva agli anni venti o trenta e un piccolo negozio di chiavi, un metro per un metro con sopra un tetto; e poi il baracchino degli hotdog Tail oʼ The Pup, che ora è stato trasferito da unʼaltra parte. E la Hull Brothers Lumber, una segheria ancora attiva, credo, con accanto una montagna di segatura alta trenta metri. Cera anche un asilo. Era esattamente come negli anni trenta, con il fondo quasi interamente in terra battuta e tutta quella roba sparsa in giro. Gli edifici erano vecchissimi e gli impiegati portavano ancora le visiere verde trasparente in testa e le fasce al braccio. Erano tutti anziani e la sapevano lunga sulla legna, su Hollywood e su tutto il resto. Come mai ti senti attratto da tutto questo? Credo sia una passione che mi è nata da bambino, guardando Simpatiche canaglie. Si tratta di sentire gli anni trenta: di sentire un luogo che apparteneva al passato, perché era rimasto lo stesso. Era come un set cinematografico, ma era reale e si trovava proprio là. E ora non cʼè più. È diventato il Beverly Center, cioè un ammasso di negozi e parcheggi, luci e insegne. E un cambiamento enorme.

Dopo che hai cominciato a girare lʼepisodio pilota, la Abc ti ha lasciato lavorare in pace o ha cercato di interferire? Le riprese andavano alla grande, ma chiunque abbia un minimo di potere in questo ambiente ti chiede di vedere i giornalieri. E così gli vennero inviate le videocassette. In passato i giornalieri erano sacri e venivano guardati solo da poche persone, perché sono un poʼ come il fianco di una montagna: tante pietre senza valore e solo qualche granello dʼoro. Ma se gli dici: «Non siete in grado di riconoscere lʼoro» ti rispondono: «Cretinate! Noi lo sappiamo riconoscere. Non siamo sicuri che lo sappia riconoscere tu!». E così guardano tutta quella roba e si lasciano prendere dal panico, si deprimono e diventano ansiosi! (Ride). Quegli stessi identici spezzoni rimontati nel modo giusto probabilmente li renderebbero molto felici, soprattutto se non avessero già visto per intero il materiale originario, che ormai li ha scoraggiati, oscurando la loro visione del futuro. Ciò nonostante, si sentono in diritto di guardarli, pensano che se non lo fanno si perdono chissà cosa, e che non hanno abbastanza potere. È inspiegabile. Nei giornalieri, in realtà, si cercano le parti che funzionano, per sapere che cosa hai in mano. Sai che sei ritornato sulla terza ripresa perché la prima e la seconda non funzionavano proprio, perché stai cercando quel qualcosa in particolare. Ma loro questo non lo sanno. Loro vedono qualcosa che non va e pensano: «Oddio, mica userà anche questo pezzo Bave?!». E il pensiero li paralizza al punto che non gli andrà più bene niente.

Che cosa hanno fatto quando alla fine hanno visto una versione montata? Beʼ, come prima cosa, uno dei dirigenti disse che la voleva vedere prima di andare al lavoro. Questo accadeva allʼepoca in cui lʼepisodio era più lungo, e lui voleva vederlo prima di andare al lavoro! Disse che lʼaveva guardato in piedi e si era quasi addormentato: era noiosissimo! Insomma, non andava bene. Quella versione fu stroncata praticamente sul nascere. Fecero qualche tentativo di tenere in vita il progetto della serie televisiva? Stavamo terminando lʼepisodio pilota proprio mentre finivamo di girare Una storia vera, e mi era stato detto che poteva essere lungo. Poi, allʼultimo momento, mi dissero che doveva durare ottantotto minuti. Ottantotto minuti su un totale di due ore di palinsesto! Significava trentadue minuti di pubblicità contro ottantotto minuti di film! A quel punto penso che il materiale montato raggiungesse le due ore e cinque minuti circa! E io che avevo sperato di chiedergli tre ore! (Ride). Insomma, la versione lunga non la volevano. Poi ebbi unʼaltra idea: dividere il girato in due parti e utilizzare solo la prima metà come episodio pilota, dandogli un bel ritmo e una bella atmosfera. Ma a loro non piacque neanche questa soluzione; volevano quella roba di ottantotto minuti, la versione passata attraverso un compattatore di rifiuti. Ti rendi conto di cosa significa? Fummo costretti a fare un lavoro da macellai, proprio da MACELLAI. Fummo costretti a comprimerla, più e più volte, e NON fu una bella cosa. Per NIENTE! Fu un INCUBO!

Come fu accolta dalla Abc quella versione? Non ho idea di che cosa gli passò per la testa. Non mi hanno mai chiamato, non mi hanno mai parlato. Non mi hanno mai neanche mandato una cartolina o una foto in cui mi facevano «ciao» con la mano. Niente. Hanno chiamato altre persone per dire che non la volevano. Ho scoperto che era stata respinta circa due ore prima di prendere lʼaereo per andare a presentare Una storia vera a Cannes. Stavo facendo pipì, appena prima di salire in macchina per andare in aeroporto. Non capisco il comportamento umano, lutto quello che so è che mi era piaciuto girare quellʼepisodio. Poi sono stato costretto a massacrarlo perché avevamo una scadenza e non cera tempo per rifinire niente. Aveva perso carattere, scene importanti e linee narrative. Inoltre, di quella versione or-

«Cʼè una nuvola nera che ti insegue.» David Lynch dirige Laura I iarring (Rita) in Mulholland Drive (2001).

renda sono stati fatti trecento duplicati. Lʼha vista un sacco di gente, il che è imbarazzante anche perché sono videocassette di pessima qualità. Sarebbe magnifico se avvenisse un qualche tipo di combustione che eliminasse tutte le copie ancora in circolazione, perché è stata una sofferenza. Un brutto momento. Si affrontano molti brutti momenti quando si lavora a un progetto, ma non vengono resi pubblici fino a quel punto. È una questione delicata. I brutti momenti ci devono essere; si reagisce e si spera di riuscire a porvi rimedio. Gli scienziati falliscono molte, molte volte prima di giungere a una scoperta. Ma tutto si basa su quegli insuccessi. Così, ho pensato che quel progetto fosse morto, il che era straziante perché in quel corpo morto erano imprigionate tante idee che amavo. Ma se ti avvicinavi, riuscivi ancora a sentirlo respirare. Ed era bello. Quindi non fu una delusione completa. Anzi, quando la proposta per la tv era stata respinta, avevo avvertito una vaga sensazione di euforia. E io drizzo le antenne quando sento aria di euforia. Televisione significa brutte immagini, brutta qualità del suono e interruzioni pubblicitarie, e una sofferenza continua, fin dal primo momento. Lʼavevo sempre saputo, soprattutto dopo Twin Peaks. Per loro la puntata è meno importante della pubblicità. Allora perché hai deciso di lasciarti di nuovo tentare dalla televisione dopo le brutte esperienze del passato? È la lunghezza della storia che prosegue per molti episodi che esercita quello stupido fascino. È

elettrizzante non sapere dove ti sta portando una storia. È elettrizzante osservare che direzione prende e scoprire la strada un poʼ alla volta. Ecco che cosa mi piace della televisione: poter sviluppare una storia che continua nel tempo e ti porterà chissà dove. Così fai finta che tutto andrà bene, che tutti i dirigenti saranno dalla tua parte e che tutto filerà a meraviglia. Solo perché sei attratto dallʼidea della storia lunga. Quello che invece è irritante è quando ti viene bloccata una produzione ancora in lavorazione. Avevi avuto lo stesso tipo di problemi con la Abc in passato, vero? Non avevano cancellato la tua sitcom On The Air dopo appena tre episodi? Già. Era una commedia piuttosto stupida, ma qualcuno la trovava divertente. In quellʼoccasione non ho compreso il messaggio fino in fondo. Ora penso che la Abc mi odi; ho afferrato il messaggio. Non sembri nutrire grossi rimpianti. No, perché tutto questo non ha importanza. Ognuno gioca la propria parte e alla Abc hanno fatto un enorme favore a Mulholland Drive rifiutando lʼepisodio pilota. Lʼidea doveva semplicemente prendere unʼaltra strada. Ripensandoci, ora capisco che hanno svolto un ruolo fondamentale affinché questo progetto avesse modo di diventare quello che ha sempre voluto essere. Sento che è proprio così. Mulholland Drive ne ha beneficiato in molti, molti modi. Cʼè unʼaltra cosa che non ho mai detto a nessuno… Non so se dirla a te. [LUNGA pausa.) Beʼ, non è poi così importante. (Ride). La tv è diversa dai film, e quando la

mente pensa «televisione» accade qualcosa. Non so bene il perché, ma nella mia testa la tv è associata a un fattore «divertimento» più alto. Penso sia questo. Per cui, il momento in cui lo stesso materiale comincia a diventare qualcosʼaltro - un film, per esempio - è simile a quello in cui stai cucinando un piatto, e ti sta venendo anche piuttosto bene, ma allʼimprovviso scopri che avrai gente a cena e che sarà la portata principale! Allora cominci a pensare di aggiungere qualche pezzetto di pollo, un poʼ di verdure e, prima che te ne renda conto, ti ritrovi con un piatto completamente diverso, sano ma anche buono, ricco di proteine e di verdure. E gli ospiti ne vanno matti! Lo mangiano tutto e ti chiedono anche la ricetta! Subito dopo aver completato lʼepisodio pilota, a che punto della storia ti trovavi esattamente? Vedi Chris, per me non è questo il modo di affrontare la questione. Sarebbe come dire: «Durante le riprese, a quale pagina del copione ti trovavi il primo di luglio?». Non è importante; quel che conta è come tutto si combina alla fine, il primo dicembre! Lʼepisodio pilota è stato solo una delle fasi che ha attraversato il progetto. Se lʼepisodio pilota fosse stato accettato, avresti realizzato la serie con una squadra di registi, come hai fatto per Twin Peaks? Questo è un altro dei motivi per cui penso sia stata una vera benedizione che lʼidea della serie televisiva si sia arenata. Non puoi girare da solo una storia che prosegue per molte puntate. Sarebbe la cosa migliore, ma non si può. F. ognuno ha la propria voce, per cui, non appena

lo condividi con altri, un progetto prende una direzione diversa. Le idee più importanti nascono mentre lavori e a volte sono idee decisive. Ti rendi conto dellʼeffetto che fa una determinata soluzione mentre provi a realizzarla. Se non sei presente, questo non accade.

Una storia dʼamore nella città dei sogni. Betty Elms (Naomi Watts) e Rita (Laura Harring) sono, per un fugace istante, come unʼunica persona in Mulholland Drive (2001).

Immagina di aver eseguito uno schizzo a matita e di passarlo a qualcun altro perché lo finisca al tuo posto. Forse lo colorerebbe, poi te lo mostrerebbe e tu diresti che ti piace. Ma se fossi tu stesso a trasformare quello schizzo in un disegno finito, potrebbero venirti in mente centomila cambiamenti, perché il processo creativo sarebbe nelle tue mani e tu ne saresti al centro. Alla fine ti ritroveresti con un risultato molto migliore. Dunque come hai rimesso le mani su Mulholland Drive?

Pierre Edelman, della casa di produzione francese Studio Canal Plus, venne qui, in questo stesso studio, e si sedette esattamente dove sei seduto tu, e disse (Dio lo benedica!): «Ho la possibilità di procurarmi una copia dellʼepisodio pilota di Mulholland Drive. Mi dai il permesso di guardarlo?». E io dissi: «Pierre, tu NON la vuoi vedere quella robaccia». E lui: «Ma tu vuoi finirlo, no?». E io: «Sì, ma non ho nessuna idea su come finirlo e la videocassetta è terribile. TERRIBILE!». Ma lui insisté: «Dammi il permesso di vederla, voglio solo sapere di che si tratta». Risposi che andava bene. Sembrava così convinto. Tornò, era forse il giorno dopo, e mi disse: «Mi piace! Posso produrre un lungometraggio. Devi solo dirmi di sì». Allora accettai. Un anno dopo cerano molte case di produzione coinvolte - un ANNO dopo, Pierre ottenne i diritti. Hai incontrato molti problemi pratici nel riprendere un progetto del genere dopo tutto quel tempo? Sì! Ricordo la faccia di Jack Fisk quando furono smontate le scenografie la prima volta. Erano state costruite in stile modulare, però richiedevano molta cura nellʼessere maneggiate e invece, prima che lui se ne accorgesse, furono smontate senza alcuna attenzione. Così, anche se le avevamo conservate, era necessario un lavoro enorme per risistemarle. Poi scoprimmo che la Disney aveva perso tutti gli oggetti di scena e i costumi. Quello che non era letteralmente andato perso, lʼavevano «messo in circolazione». In sintesi, avevamo seri problemi di scenografia, niente costumi e niente oggetti di scena. Pensai che non ce lʼavremmo mai fatta.

Nel frattempo, mi stavo rendendo conto che non avevo proprio nessuna idea su come concludere il film. (Ride). Avevo lavorato su altri progetti