Introduzione generale alla Sacra Scrittura
 9788883337291

Table of contents :
Structure
Introduzione generale alla sacra Scrittura
Indice
Abbreviazioni e sigle
Indicazioni bibliografiche
Introduzione
1. I nomi della Bibbia
2. Analogia fra la Scrittura e l'Incarnazione
3. Cornice storica
4. I libri nell'antichità
4.1. Materiale
4.1.1. Papiro
4.1.2. Pelle
4.2. Formato
4.2.1. Rotoli
4.2.2. Codici
5. L'elenco dei libri biblici
5.1. La Bibbia Ebraica
5.2. L'Antico Testamento
5.3. I ventisette libri del Nuovo Testamento
5.4. Capitoli e versetti
6. Le lingue dei libri biblici
6.1. Introduzione
6.2. Antico Testamento
6.2.1. L'ebraico e l'aramaico
6.2.2. I libri scritti in greco e quelli conservati soltanto in greco
6.2.3. Due casi speciali: Daniele ed Ester
6.3. Nuovo Testamento
Parte I Bibbia e rivelazione
7. La parola di Dio nella storia
7.1. Perché studiare la Dei Verbum?
7.2. Tema e struttura di Dei Verbum
7.3. La rivelazione e la sua economia (DV2)
7.3.1. Opere e parole
7.3.2. Rivelazione e storia
7.4. La rivelazione in DV3
7.5. Gesù Cristo, Mediatore e Pienezza di tutta la rivelazione (DV2 e 4)
8. La trasmissione della parola di Dio
8.1. Oralità e scrittura
8.1.1. Distinzione fra comunicazione orale e scritta
Priorità
Situazione
Efficacia comunicativa (vantaggi e svantaggi di ogni sistema) 
Contesto e autonomia 
Funzione sociale 
8.1.2. Perché Gesù non ha lasciato testi? (STh III q.42, a.4)
8.2. La trasmissione della parola di Dio secondo Dei Verbum (DV7-10)
8.2.1. La tradizione costitutiva (DV7)
a) Dio, con somma benignità, dispose…
b) Perciò Cristo Signore…
c) Il Vangelo
d) Ciò venne fedelmente eseguito…
e) Schema
8.2.2. La tradizione ecclesiastica e il posto delle Scritture (DV8-9)
Breve excursus: Oscar Cullmann e il principio di sola Scriptura 
9. Gesù e le Scritture d'Israele
9.1. L'insegnamento di Gesù
9.2. Dalle parole di Gesù alla predicazione apostolica
9.3. La mutatio scripturarum: le Scritture come parola di Dio
10. Rivelazione e ispirazione
10.1. Le testimonianze bibliche sull'ispirazione
10.1.1. Lo Spirito e le Scritture (1 Pietro 1; 2 Pietro 1)
10.1.2. La Scrittura ispirata (2 Timoteo 3)
10.2. L'ispirazione nella cornice della rivelazione e della sua trasmissione
Parte II Testo
11. La critica testuale
11.1. Introduzione
11.2. Alcuni esempi di varianti testuali
11.2.1. Errori involontari
11.2.2. Cambiamenti voluti
12. Il testo dell'Antico Testamento
12.1. Dalla Biblia Hebraica Stuttgartensia (BHS) al testo protomasoretico
12.1.1. Dalla BHS (XX sec.) al testo masoretico (VI-IX sec.)
12.1.2. La trasmissione del testo prima del TM
12.2. La versione dei Settanta (LXX)
12.2.1. L'origine della traduzione
12.2.2. La trasmissione della Bibbia greca. I quattro grandi codici
12.2.3. Le edizioni critiche
13. Il testo del Nuovo Testamento
14. L'ispirazione in rapporto al canone e al testo
15. Le traduzioni della Bibbia
15.1. Le principali versioni antiche
15.2. Versioni moderne
15.2.1. Introduzione: Trento e l’autenticità della Vulgata
15.2.2. La Sisto-Clementina e la Neovulgata (NVg)
15.2.3. Alcune Bibbie moderne da conoscere
Parte III Canone 
16. Introduzione al problema del canone biblico
16.1. Alcuni chiarimenti terminologici
16.2. Le scoperte di alcuni apocrifi e la messa in questione del canone
17. Il canone del Nuovo Testamento
17.1. Principali testimonianze storiche sulla formazione del canone del NT
17.1.1. Nello stesso Nuovo Testamento
17.1.2. Marcione
17.1.3. San Giustino
17.1.4. Il Diatessaron di Taziano
17.1.5. Sant'Ireneo e il vangelo quadriforme
17.1.6. Serapione e il Vangelo di Pietro
17.1.7. Le discussioni su alcuni libri nei secoli III e IV
17.1.8. Le decisioni magisteriali dei secoli IV e V
17.2. I criteri di canonicità e l'apostolicità del NT
18. Il canone dell'Antico Testamento
18.1. Le Scritture d'Israele prima di Gesù
18.1.1. La testimonianza del Siracide (circa 190 a.C.)
18.1.2. Prologo del Siracide
18.1.3. La traduzione della Torah e di altri libri in greco
18.1.4. I libri accettati dai Sadducei
18.1.5. La biblioteca di Qumran
18.2. Gesù e il Nuovo Testamento
18.3. Il canone biblico al tempo di Gesù
18.4. Fra gli ebrei alla fine del primo secolo
18.4.1. I ventidue libri secondo la testimonianza di Flavio Giuseppe
18.4.2. I novantaquattro libri (24 + 70) secondo 4 Esdra
18.5. La letteratura rabbinica
18.5.1. Un testo della Mishna e l'ipotesi del canone stabilito a Jamnia
18.5.2. Una baraita del Talmud babilonese
18.6. La formazione del canone dell'AT nella Chiesa dei primi secoli
18.7. San Girolamo e la hebraica veritas
19. La problematica moderna attorno al canone
19.1. Lutero e il principio della sola Scriptura
19.2. Il canone biblico fra i protestanti
19.3. Il canone biblico nel Concilio di Trento (1546)
19.3.1. La lista
19.3.2. L'anatema
19.4. Conclusione: chi fissa il canone e perché?
Parte IV Interpretazione
20. L'interpretazione di testi in genere
20.1. Che cosa è interpretare?
20.2. Ermeneutica come ars interpretandi. Alcuni esempi di testi difficili
20.3. L'ermeneutica filosofica
20.4. La necessità di superare la distanza fra autore e lettore
21. L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa
21.1. La Chiesa come luogo originario dell'ermeneutica della Bibbia
21.2. Principi per l'interpretazione (DV12)
21.2.1. I generi letterari e la nozione di testo
a) I generi letterari e i modi di esprimersi
b) La nozione di testo applicata alla Scrittura
21.2.2. Contenuto e unità di tutta la Scrittura
21.2.3. Analogia della fede
21.2.4. Il pericolo del dualismo
21.3. Ruolo del Magistero nell'interpretazione (DV10 e 12)
Breve excursus sulla portata dei decreti della PCB degli inizi del ventesimo secolo
22. Bibbia e verità
22.1. La verità per la nostra salvezza (DV11)
22.2. Alcune osservazioni circa il rapporto fra la Bibbia e la verità storica
22.2.1. A livello letterario
22.2.2. A livello della ricostruzione storica verificabile
22.2.3. A livello filosofico: la conoscenza del passato
22.2.4. A livello teologico: storia della salvezza e gerarchia delle verità di fede
22.3. Le pagine «oscure» della Bibbia
Appendice: Natura dell’ispirazione
23. Che cosa non è l'ispirazione
23.1. Modelli inadeguati per insufficiente considerazione del fattore umano
23.1.1. L'ispirazione come estasi
23.1.2. La dettatura meccanica ed il fondamentalismo
23.2. Modelli inadeguati per insufficiente considerazione del fattore divino
24. Che cosa è l'ispirazione
24.1. La nozione di causa strumentale e gli agiografi come veri auctores
24.2. Autore - testo - lettore. Dio come autore e l'importanza della ricezione
Excursus 1: Storia dell’introduzione generale alla sacra Scrittura
25. Origene e Agostino
25.1. La Scrittura nel De principiis di Origene
25.2. Il De doctrina christiana di sant'Agostino
26. Da Sisto da Siena ad oggi
Excursus 2: “Apostolo” nel Nuovo Testamento
27. I diversi sensi di “apostolo” nel Nuovo Testamento
27.1. Etimologia della parola e il suo uso in Giovanni e in Ebrei
27.2. Il gruppo dei Dodici
27.2.1. Gli Undici inviati da Gesù (Mt 28,16-20; Mc 16,14-15)
27.2.2. Il gruppo dei Dodici nell'opera lucana (Lc-At)
27.3. “Apostolo” nelle lettere di Paolo
27.4. Verso una sintesi
27.5. Altre caratteristiche degli apostoli
28. L'apostolicità dei libri del Nuovo Testamento
Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro considerazione come parola di Dio
29. La parola della Torah
29.1. Riferimenti alla Torah scritta nel Pentateuco
29.1.1. Il racconto dell'Esodo
29.1.2. I riferimenti alla Torah scritta nel Deuteronomio
29.1.3. Il libro della Torah ed il Pentateuco
29.2. Testimonianze fuori del Pentateuco
29.2.1. Nel libro di Giosuè
29.2.2. La riforma di Giosia (2 Re 22-23)
29.2.3. Esdra e la proclamazione della Torah
29.2.4. Valore del libro della Torah nel periodo del secondo Tempio
30. La parola profetica
31. Il valore degli altri libri dell'Antico Testamento
32. Dal contenuto sacro alla sacralità del libro
Excursus 4: Il Vangelo di Tommaso
Excursus 5: Alcune differenze fra Vulgata e Neovulgata
Bibliografia (opere citate)

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JUAN CARLOS OSSANDÓN WIDOW

INTRODUZIONE GENERALE ALLA SACRA SCRITTURA

EDUSC

JUAN CARLOS OSSANDÓN WIDOW

INTRODUZIONE GENERALE ALLA SACRA SCRITTURA

EDUSC 2018

© 2018 – Edizioni Santa Croce s.r.l. Via Sabotino, 2/A – 00195 Roma Tel. (39) 06 45493637 [email protected] www.edizionisantacroce.it

Dispensa per gli studenti

ISBN 978-88-8333-729-1

Indice

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Indice

Abbreviazioni e sigle .............................................................................................11 Indicazioni bibliografiche....................................................................................14 INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ .......................................................................................................17 1. 2. 3. 4.

I NᴏᴍI ᴅᴇᴌᴌᴀ BIBBIᴀ......................................................................................18 ANᴀᴌᴏGIᴀ FRᴀ ᴌᴀ SᴄRIᴛᴛᴜRᴀ ᴇ ᴌ'INᴄᴀRNᴀᴢIᴏNᴇ........................................21 CᴏRNIᴄᴇ SᴛᴏRIᴄᴀ .........................................................................................23 I ᴌIBRI Nᴇᴌᴌ'ᴀNᴛIᴄHIᴛÀ ................................................................................27 4.1. Materiale ...............................................................................................27 4.1.1. Papiro ..........................................................................................28 4.1.2. Pelle ............................................................................................29 4.2. Formato.................................................................................................30 4.2.1. Rotoli...........................................................................................31 4.2.2. Codici ........................................................................................34 5. L'ᴇᴌᴇNᴄᴏ ᴅᴇI ᴌIBRI BIBᴌIᴄI............................................................................35 5.1. La Bibbia Ebraica .....................................................................................35 5.2. L'Antico Testamento................................................................................37 5.3. I ventisette libri del Nuovo Testamento .....................................................39 5.4. Capitoli e versetti....................................................................................40 6. Lᴇ ᴌINGᴜᴇ ᴅᴇI ᴌIBRI BIBᴌIᴄI ..........................................................................41 6.1. Introduzione ...........................................................................................41 6.2. Antico Testamento .................................................................................42 6.2.1. L'ebraico e l'aramaico................................................................42 6.2.2. I libri scritti in greco e quelli conservati soltanto in greco......43 6.2.3. Due casi speciali: Daniele ed Ester ...........................................44 6.3. Nuovo Testamento..................................................................................46

Indice

PᴀRᴛᴇ I BIBBIᴀ ᴇ RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ............................................................................49 7. Lᴀ ᴘᴀRᴏᴌᴀ ᴅI DIᴏ Nᴇᴌᴌᴀ SᴛᴏRIᴀ .................................................................50 7.1. Perché studiare la Dei Verbum?.................................................................51 7.2. Tema e struttura di Dei Verbum...............................................................52 7.3. La rivelazione e la sua economia (DV2) ......................................................53 7.3.1. Opere e parole ............................................................................54 7.3.2. Rivelazione e storia ....................................................................57 7.4. La rivelazione in DV3...............................................................................58 7.5. Gesù Cristo, Mediatore e Pienezza di tutta la rivelazione (DV2 e 4)...............60 8. Lᴀ ᴛRᴀSᴍISSIᴏNᴇ ᴅᴇᴌᴌᴀ ᴘᴀRᴏᴌᴀ ᴅI DIᴏ.......................................................65 8.1. Oralità e scrittura....................................................................................65 8.1.1. Distinzione fra comunicazione orale e scritta ...........................65 8.1.2. Perché Gesù non ha lasciato testi? (STh III q.42, a.4)..............70 8.2. La trasmissione della parola di Dio secondo Dei Verbum (DV7-10)................71 8.2.1. La tradizione costitutiva (DV7) .................................................73 8.2.2. La tradizione ecclesiastica e il posto delle Scritture (DV8-9) ..78 9. GᴇSÙ ᴇ ᴌᴇ SᴄRIᴛᴛᴜRᴇ ᴅ'ISRᴀᴇᴌᴇ ..................................................................84 9.1. L'insegnamento di Gesù ...........................................................................86 9.2. Dalle parole di Gesù alla predicazione apostolica.......................................90 9.3. La mutatio scripturarum: le Scritture come parola di Dio ...........................93 10. RIᴠᴇᴌᴀᴢIᴏNᴇ ᴇ ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ........................................................................99 10.1. Le testimonianze bibliche sull'ispirazione ................................................99 10.1.1. Lo Spirito e le Scritture (1 Pietro 1; 2 Pietro 1) ........................99 10.1.2. La Scrittura ispirata (2 Timoteo 3) .........................................101 10.2. L'ispirazione nella cornice della rivelazione e della sua trasmissione ........103

PᴀRᴛᴇ II TᴇSᴛᴏ ....................................................................................................107 11. Lᴀ ᴄRIᴛIᴄᴀ ᴛᴇSᴛᴜᴀᴌᴇ .................................................................................108 11.1. Introduzione.........................................................................................108 11.2. Alcuni esempi di varianti testuali...........................................................110 11.2.1. Errori involontari.....................................................................110 11.2.2. Cambiamenti voluti .................................................................111 12. Iᴌ ᴛᴇSᴛᴏ ᴅᴇᴌᴌ'ANᴛIᴄᴏ TᴇSᴛᴀᴍᴇNᴛᴏ........................................................112 12.1. Dalla Biblia Hebraica Stuttgartensia (BHS) al testo protomasoretico ..........113 12.1.1. Dalla BHS (XX sec.) al testo masoretico (VI-IX sec.)............113 12.1.2. La trasmissione del testo prima del TM..................................115 12.2. La versione dei Settanta (LXX) ..............................................................117 12.2.1. L'origine della traduzione .......................................................117 12.2.2. La trasmissione della Bibbia greca. I quattro grandi codici ..118

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Indice

12.2.3. Le edizioni critiche.................................................................120 13. Iᴌ ᴛᴇSᴛᴏ ᴅᴇᴌ Nᴜᴏᴠᴏ TᴇSᴛᴀᴍᴇNᴛᴏ ..........................................................121 14. L'ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ IN RᴀᴘᴘᴏRᴛᴏ ᴀᴌ ᴄᴀNᴏNᴇ ᴇ ᴀᴌ ᴛᴇSᴛᴏ ................................124 15. Lᴇ ᴛRᴀᴅᴜᴢIᴏNI ᴅᴇᴌᴌᴀ BIBBIᴀ....................................................................126 15.1. Le principali versioni antiche.................................................................126 15.2. Versioni moderne.................................................................................128 15.2.1. Introduzione: Trento e l’autenticità della Vulgata.................128 15.2.2. La Sisto-Clementina e la Neovulgata (NVg).........................131 15.2.3. Alcune Bibbie moderne da conoscere....................................132

PᴀRᴛᴇ III CᴀNᴏNᴇ ..............................................................................................135 16. INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ ᴀᴌ ᴘRᴏBᴌᴇᴍᴀ ᴅᴇᴌ ᴄᴀNᴏNᴇ BIBᴌIᴄᴏ .................................135 16.1. Alcuni chiarimenti terminologici ...........................................................136 16.2. Le scoperte di alcuni apocrifi e la messa in questione del canone ..............137 17. Iᴌ ᴄᴀNᴏNᴇ ᴅᴇᴌ Nᴜᴏᴠᴏ TᴇSᴛᴀᴍᴇNᴛᴏ ......................................................139 17.1. Principali testimonianze storiche sulla formazione del canone del NT .......140 17.1.1. Nello stesso Nuovo Testamento.............................................140 17.1.2. Marcione .................................................................................142 17.1.3. San Giustino ............................................................................142 17.1.4. Il Diatessaron di Taziano..........................................................144 17.1.5. Sant'Ireneo e il vangelo quadriforme .....................................144 17.1.6. Serapione e il Vangelo di Pietro.............................................146 17.1.7. Le discussioni su alcuni libri nei secoli III e IV......................147 17.1.8. Le decisioni magisteriali dei secoli IV e V .............................149 17.2. I criteri di canonicità e l'apostolicità del NT............................................150 18. Iᴌ ᴄᴀNᴏNᴇ ᴅᴇᴌᴌ'ANᴛIᴄᴏ TᴇSᴛᴀᴍᴇNᴛᴏ ....................................................154 18.1. Le Scritture d'Israele prima di Gesù ........................................................154 18.1.1. La testimonianza del Siracide (circa 190 a.C.).........................154 18.1.2. Prologo del Siracide ................................................................156 18.1.3. La traduzione della Torah e di altri libri in greco ..................157 18.1.4. I libri accettati dai Sadducei ....................................................158 18.1.5. La biblioteca di Qumran..........................................................158 18.2. Gesù e il Nuovo Testamento...................................................................161 18.3. Il canone biblico al tempo di Gesù ..........................................................163 18.4. Fra gli ebrei alla fine del primo secolo ....................................................164 18.4.1. I ventidue libri secondo la testimonianza di Flavio Giuseppe165 18.4.2. I novantaquattro libri (24 + 70) secondo 4 Esdra ..................167 18.5. La letteratura rabbinica .......................................................................170 18.5.1. Un testo della Mishna e l'ipotesi del canone stabilito a Jamnia171

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18.5.2. Una baraita del Talmud babilonese........................................173 18.6. La formazione del canone dell'AT nella Chiesa dei primi secoli..................173 18.7. San Girolamo e la hebraica veritas.........................................................177 19. Lᴀ ᴘRᴏBᴌᴇᴍᴀᴛIᴄᴀ ᴍᴏᴅᴇRNᴀ ᴀᴛᴛᴏRNᴏ ᴀᴌ ᴄᴀNᴏNᴇ.................................180 19.1. Lutero e il principio della sola Scriptura .................................................180 19.2. Il canone biblico fra i protestanti ...........................................................183 19.3. Il canone biblico nel Concilio di Trento (1546)..........................................184 19.3.1. La lista ......................................................................................184 19.3.2. L'anatema ................................................................................186 19.4. Conclusione: chi fissa il canone e perché? ...............................................188

PᴀRᴛᴇ IV INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ .............................................................................190 20. L'INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ ᴅI ᴛᴇSᴛI IN GᴇNᴇRᴇ..................................................192 20.1. Che cosa è interpretare?.......................................................................192 20.2. Ermeneutica come ars interpretandi. Alcuni esempi di testi difficili .........193 20.3. L'ermeneutica filosofica .......................................................................195 20.4. La necessità di superare la distanza fra autore e lettore..........................197 21. L'INᴛᴇRᴘRᴇᴛᴀᴢIᴏNᴇ ᴅᴇᴌᴌᴀ BIBBIᴀ Nᴇᴌᴌᴀ CHIᴇSᴀ ...................................200 21.1. La Chiesa come luogo originario dell'ermeneutica della Bibbia ................200 21.2. Principi per l'interpretazione (DV12) .....................................................201 21.2.1. I generi letterari e la nozione di testo ....................................201 21.2.2. Contenuto e unità di tutta la Scrittura..................................205 21.2.3. Analogia della fede.................................................................207 21.2.4. Il pericolo del dualismo .........................................................208 21.3. Ruolo del Magistero nell'interpretazione (DV10 e 12) ..............................209 22. BIBBIᴀ ᴇ ᴠᴇRIᴛÀ ........................................................................................212 22.1. La verità per la nostra salvezza (DV11) ..................................................212 22.2. Alcune osservazioni circa il rapporto fra la Bibbia e la verità storica........217 22.2.1. A livello letterario...................................................................217 22.2.2. A livello della ricostruzione storica verificabile....................219 22.2.3. A livello filosofico: la conoscenza del passato .......................221 22.2.4. A livello teologico: storia della salvezza e gerarchia delle verità di fede .......................................................................................................223 22.3. Le pagine «oscure» della Bibbia............................................................225

AᴘᴘᴇNᴅIᴄᴇ: NᴀᴛᴜRᴀ ᴅᴇᴌᴌ’ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ...........................................................227 23. CHᴇ ᴄᴏSᴀ NᴏN È ᴌ'ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ................................................................228 23.1. Modelli inadeguati per insufficiente considerazione del fattore umano.....228

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23.1.1. L'ispirazione come estasi ........................................................228 23.1.2. La dettatura meccanica ed il fondamentalismo .....................231 23.2. Modelli inadeguati per insufficiente considerazione del fattore divino .....232 24. CHᴇ ᴄᴏSᴀ È ᴌ'ISᴘIRᴀᴢIᴏNᴇ ........................................................................234 24.1. La nozione di causa strumentale e gli agiografi come veri auctores ..........235 24.2. Autore - testo - lettore. Dio come autore e l'importanza della ricezione.....241

Excursus 1: Storia dell’introduzione generale alla sacra Scrittura...............247 25. ORIGᴇNᴇ ᴇ AGᴏSᴛINᴏ...............................................................................247 25.1. La Scrittura nel De principiis di Origene ................................................248 25.2. Il De doctrina christiana di sant'Agostino..............................................250 26. Dᴀ SISᴛᴏ ᴅᴀ SIᴇNᴀ ᴀᴅ ᴏGGI .....................................................................251

Excursus 2: “Apostolo” nel Nuovo Testamento ............................................253 27. I ᴅIᴠᴇRSI SᴇNSI ᴅI “ᴀᴘᴏSᴛᴏᴌᴏ” Nᴇᴌ Nᴜᴏᴠᴏ TᴇSᴛᴀᴍᴇNᴛᴏ......................254 27.1. Etimologia della parola e il suo uso in Giovanni e in Ebrei........................254 27.2. Il gruppo dei Dodici.............................................................................256 27.2.1. Gli Undici inviati da Gesù (Mt 28,16-20; Mc 16,14-15)........256 27.2.2. Il gruppo dei Dodici nell'opera lucana (Lc-At) ...................257 27.3. “Apostolo” nelle lettere di Paolo............................................................259 27.4. Verso una sintesi.................................................................................261 27.5. Altre caratteristiche degli apostoli ........................................................263 28. L'ᴀᴘᴏSᴛᴏᴌIᴄIᴛÀ ᴅᴇI ᴌIBRI ᴅᴇᴌ Nᴜᴏᴠᴏ TᴇSᴛᴀᴍᴇNᴛᴏ .............................264

Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro considerazione come parola di Dio 266 29. Lᴀ ᴘᴀRᴏᴌᴀ ᴅᴇᴌᴌᴀ TᴏRᴀH.........................................................................267 29.1. Riferimenti alla Torah scritta nel Pentateuco.........................................268 29.1.1. Il racconto dell'Esodo .............................................................268 29.1.2. I riferimenti alla Torah scritta nel Deuteronomio ...............270 29.1.3. Il libro della Torah ed il Pentateuco ......................................271 29.2. Testimonianze fuori del Pentateuco .....................................................272 29.2.1. Nel libro di Giosuè ................................................................272 29.2.2. La riforma di Giosia (2 Re 22-23).........................................275 29.2.3. Esdra e la proclamazione della Torah...................................276 29.2.4. Valore del libro della Torah nel periodo del secondo Tempio277 30. Lᴀ ᴘᴀRᴏᴌᴀ ᴘRᴏFᴇᴛIᴄᴀ...............................................................................278

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Indice

31. Iᴌ ᴠᴀᴌᴏRᴇ ᴅᴇGᴌI ᴀᴌᴛRI ᴌIBRI ᴅᴇᴌᴌ'ANᴛIᴄᴏ TᴇSᴛᴀᴍᴇNᴛᴏ .......................282 32. Dᴀᴌ ᴄᴏNᴛᴇNᴜᴛᴏ SᴀᴄRᴏ ᴀᴌᴌᴀ SᴀᴄRᴀᴌIᴛÀ ᴅᴇᴌ ᴌIBRᴏ ...............................283

Excursus 4: Il Vangelo di Tommaso ...............................................................286 Excursus 5: Alcune differenze fra Vulgata e Neovulgata.............................291 Bibliografia (opere citate) ..................................................................................293

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Abbreviazioni e sigle

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Abbreviazioni e sigle Actae Apostolicae Sedis Antico Testamento Biblia Hebraica (cioè Bibbia Ebraica) Biblia Hebraica Stuttgartensia Flavio Giuseppe, De Bello Judaico Bible de Jérusalem Conferenza Episcopale Italiana The Context of Scripture. Edited by William W. Hallo. 3 vols. Leiden: Brill, 1997-2002. CT (o CTG) Concilium Tridentinum: diarorum, actorum, epistularum, tractatuum nova collectio, edidit Societas Goerresiana promovendis inter Germanos Catholicos Litterarum Studiis, Friburgi Brisgoviae, Herder, 1901 e ss., rieditata a partire dal 1964. CTI Commissione Teologica Internazionale DV Costituzione dogmatica Dei Verbum sulla divina rivelazione EB Enchiridion Biblicum. Documenti della Chiesa sulla Sacra Scrittura. Edizione bilingue, Dehoniane, Bologna 1993. HE Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica IGSS Introduzione generale alla sacra Scrittura KJV King James Version LXX versione dei Settanta o Septuaginta NJBC The New Jerome Biblical Commentary NRSV New Revised Standard Version NT Nuovo Testamento NVg Nova Vulgata o Neovulgata PCB Pontificia Commissione Biblica RSV Revised Standard Version SCG Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentes STh Tommaso d’Aquino, Summa Theologica AAS AT BH BHS BJ BJer CEI COS

Abbreviazioni e sigle

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TM Testo Masoretico TOB Traduction Œcuménique de la Bible Vg Vulgata Vg Weber R. Weber - R. Gryson (eds.), Biblia Sacra iuxta Vulgatam versionem, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 52007. WA M. Luther, Werke: Kritische Gesamtausbage, Weimarer Ausgabe.

I libri biblici Ab Abd Ag Am Ap At Bar Ct Col 1 Cor 2 Cor 1 Cr 2 Cr Dn Dt Eb Ef Es Esd Est Ez Fil Flm Gal Gb Gc

Abacuc Abdia Aggeo Amos Apocalisse Atti degli Apostoli Baruc Cantico dei cantici Colossesi 1 Corinzi 2 Corinzi 1 Cronache 2 Cronache Daniele Deuteronomio Ebrei Efesini Esodo Esdra Ester Ezechiele Filippesi Filemone Galati Giobbe Giacomo

Gd Gdc Gdt Ger Gio Gl Gn Gs Gv 1 Gv 2 Gv 3 Gv Is Lam Lc Lv 1 Mac 2 Mac Mc Mic Ml Mt Na Ne Nm Os

Giuda Giudici Giuditta Geremia Giona Gioele Genesi Giosuè Giovanni 1 Giovanni 2 Giovanni 3 Giovanni Isaia Lamentazioni Luca Levitico 1 Maccabei 2 Maccabei Marco Michea Malachia Matteo Naum Neemia Numeri Osea

Abbreviazioni e sigle

Prv 1 Pt 2 Pt Qo 1 Re 2 Re Rm Rt Sal 1 Sam 2 Sam

Proverbi 1 Pietro 2 Pietro Qoelet (Ecclesiaste) 1 Libro dei Re 2 Libro dei Re Romani Rut Salmi 1 Samuele 2 Samuele

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Sap Sir Sof Tb 1 Tm 2 Tm 1 Ts 2 Ts Tt Zc

Sapienza Siracide (Ecclesiastico) Sofonia Tobia 1 Timoteo 2 Timoteo 1 Tessalonicesi 2 Tessalonicesi Tito Zaccaria

Indicazioni bibliografiche

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Indicazioni bibliografiche

Queste pagine sono nate per offrire un punto di riferimento nello studio personale agli studenti di Introduzione generale alla sacra Scrittura, corso semestrale di 32 ore alla Pontificia Università della Santa Croce. Esse hanno quindi uno stile volutamente pedagogico, mentre il contenuto è di carattere provvisorio specialmente nelle parti dedicate al testo e all'ispirazione. Non esiste un unico manuale di riferimento per la materia. Occorre seguire le lezioni e studiare questa dispensa, nella quale si offre bibliografia specifica per ogni argomento. Per approfondire, si possono consultare i seguenti documenti e libri.

Manuali P. GRᴇᴌᴏᴛ, La Bible, Parole de Dieu. Introduction théologique à l'étude de l'Écriture Sainte, Desclée & Co, Paris 1965. Ottimo manuale, ma ormai un po' datato. Traduzione in inglese: The Bible, Word of God: A Theological Introduction to the Study of Scripture, Desclée, New York 1968. In spagnolo: La Biblia, palabra de Dios. Introducción teológica al estudio de la Sagrada Escritura, Herder, Barcelona 1968. Purtroppo non esiste in italiano. G. DᴇIᴀNᴀ, Introduzione alla Sacra Scrittura alla luce della "Dei Verbum", Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2009. Esiste traduzione in inglese: Introduction to the Sacred Scripture in the Light of «Dei Verbum», 2014. Utile per un primo approccio. V. MᴀNNᴜᴄᴄI - L. MᴀᴢᴢINGHI, Bibbia come Parola di Dio: Introduzione generale alla sacra Scrittura, Queriniana, Brescia 212016. Buon manuale, utile come complemento per alcuni punti. M. PRIᴏᴛᴛᴏ, Il libro della Parola: introduzione alla Scrittura, Elledici, Torino 2016.

Indicazioni bibliografiche

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Alcuni testi utili in inglese I seguenti quattro articoli, presi da R. E. BRᴏᴡN - J. A. FIᴛᴢᴍYᴇR - R. E. MᴜRᴘHY (eds.), The New Jerome Biblical Commentary, Geoffrey Chapman, London 1990, corrispondono ai contenuti del nostro corso: 1) R. F. CᴏᴌᴌINS, «Inspiration», 1023-1033. 2) R. E. BRᴏᴡN - D. W. JᴏHNSᴏN - K. G. O'CᴏNNᴇᴌᴌ, «Texts and Versions», 1083-1112. 3) R. E. BRᴏᴡN - R. F. CᴏᴌᴌINS, «Canonicity», 1034-1054. 4) R. E. BRᴏᴡN - S. M. SᴄHNᴇIᴅᴇRS, «Hermeneutics», 1146-1165. Del NJBC esistono traduzioni in diverse lingue. In italiano: Nuovo grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1997. In spagnolo: Nuevo Comentario Bíblico San Jerónimo. Nuevo Testamento y artículos temáticos, Verbo Divino, Estella 2004. In portoghese: Novo Comentário Bíblico São Jerônimo: Novo Testamento e Artigos Sistemáticos, Academia Cristâ 2011. In polacco: Katolicki komentarz biblijny, Vocatio, Warszawa, 2010.

Alcuni testi utili in spagnolo A. M. ARᴛᴏᴌᴀ - J. M. SÁNᴄHᴇᴢ CᴀRᴏ, Biblia y Palabra de Dios, Verbo Divino, Estella (Navarra) 21995. Buona presentazione del canone e dell'ispirazione. Esiste versione in italiano, ma basata sulla prima edizione spagnola: Bibbia e parola di Dio, Paideia, Brescia 1994. I. CᴀRBᴀᴊᴏSᴀ - J. GᴏNᴢÁᴌᴇᴢ EᴄHᴇGᴀRᴀY - F. VᴀRᴏ, La Biblia en su entorno, Verbo Divino, Estella 2013. Oltre alla versione spagnola degli articoli del NJBC citati sopra, si possono leggere con profitto questi tre articoli, presi da C. IᴢQᴜIᴇRᴅᴏ (ed.), Diccionario de teología, Eunsa, Pamplona 32014: 1) S. AᴜSÍN - C. JÓᴅᴀR - B. ESᴛRᴀᴅᴀ - J.M. DÍᴀᴢ-RᴏᴅᴇᴌᴀS, «Biblia», 78-98. 2) G. ARᴀNᴅᴀ, «Inspiración de la Sagrada Escritura», 511-517. 3) G. ARᴀNᴅᴀ, «Canon bíblico», 99-104.

Documenti del Magistero della Chiesa e della Pontificia Commissione Biblica CᴏNᴄIᴌIᴏ VᴀᴛIᴄᴀNᴏ II, Costituzione dogmatica Dei Verbum sulla divina rivelazione (18 novembre 1965). BᴇNᴇᴅᴇᴛᴛᴏ XVI, Verbum Domini: Esortazione Apostolica Postsinodale sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa (30 settembre 2010).

Indicazioni bibliografiche

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FRᴀNᴄᴇSᴄᴏ, Evangelii Gaudium: Esortazione Apostolica sull'annuncio del Vangelo nel mondo attuale (24 novembre 2013). PCB, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa (15 aprile 1993). PCB, Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana (24 maggio 2001). PCB, Ispirazione e verità della Sacra Scrittura: La parola che viene da Dio e parla di Dio per salvare il mondo (2014).

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INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ

INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ

Le scienze, diceva Aristotele (Metaphysica V,1), si distinguono fra esse per il loro oggetto, cioè per quella parte o aspetto della realtà che studiano. Nel caso dell'Introduzione generale alla Sacra Scrittura (IGSS), è chiaro che l'oggetto da studiare è la Bibbia. Ma bisogna precisare quest'affermazione, perché lo stesso oggetto può essere studiato da diverse scienze, ognuna dal suo punto di vista. Con terminologia scolastica, possiamo dire che l'oggetto materiale di questa scienza è il gruppo di libri chiamati “Bibbia”, mentre il suo “oggetto formale”, cioè il punto di vista dal quale si studia l'oggetto materiale, è la Bibbia nella Chiesa. Non si tratta quindi di studiare i libri biblici, ma di studiare la sacra Scrittura teologicamente. La nostra materia può essere definita come “la parte della teologia che esamina tutte le questioni necessarie per la retta comprensione dei libri sacri”1. Più informale, ma forse più didattica, è la definizione che propongono Artola e Sánchez Caro nel loro manuale. Lo scopo di questa materia consiste nel rispondere alla seguente domanda: cos'è la Bibbia per il cristiano cattolico?2 Agli inizi del corso, queste definizioni sembrano senz'altro generiche e prive di una speciale rilevanza. Per questa ragione non ci soffermeremo sui problemi connessi con la definizione della materia3. Eppure, conviene non dimenticare che la domanda su cosa sia la sacra Scrittura nella Chiesa è il nostro oggetto di studio. Infatti, ognuna delle parti del programma può essere capita come un tentativo di risposta a tale domanda. Il corso si struttura in quattro grandi parti:

1. 2. 3.

M. Tábet, Introduzione generale alla Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, 15. Cf. A. M. Artola - J. M. Sánchez Caro, Biblia y Palabra de Dios, Verbo Divino, Estella 41995, 16. Per chi volesse approfondire, cf. J. M. Sánchez Caro, «De la "introducción general a la Biblia" a la "teología de la Biblia": una propuesta metodológica», Salmanticensis 56 (2009) 5-48.

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I Bibbia e rivelazione. II Testo. III Canone. IV Interpretazione. Che cosa è la sacra Scrittura? Nella prima parte, vedremo che essa è una testimonianza scritta della rivelazione divina, ma non solo: in virtù dell'ispirazione la si può chiamare anche rivelazione di Dio, cioè parola di Dio. La seconda e terza parte definiscono la Bibbia in una maniera più concreta, ma fondamentale: quali parole (testo) e quali libri (canone) la compongono. Per quanto riguarda la quarta parte, si può avere l'impressione che non si tratta più di definire la sacra Scrittura, ma di comprendere il suo messaggio. Ma, siccome la ‘essenza’ di un libro sta nel suo contenuto, lo studio dell'interpretazione biblica costituisce anch'esso una risposta alla domanda sull'identità della Scrittura. In questa dispensa segue un’appendice dove si approfondiranno alcune questioni relative alla natura del carisma dell'ispirazione. Questa sezione completa la prima parte, dove si parla dell'ispirazione in rapporto alla rivelazione. Infine, si offrono cinque excursus per approfondire in alcuni argomenti puntuali. Prima di cominciare a spiegare la prima parte, è utile fornire — a modo di introduzione a tutto il corso — alcune informazioni di base: i diversi nomi della Bibbia, l’analogia fra la Bibbia ed il mistero dell’Incarnazione, alcuni elementi di cornice storica, caratteristiche dei libri nell’antichità, la lista dei libri che compongono la Bibbia e le lingue in cui essi sono stati scritti.

1. I nomi della Bibbia Per parlare dell'insieme dei libri sacri propri del cristianesimo, oggi utilizziamo la parola “Bibbia”. Altre denominazioni equivalenti sono “sacra Scrittura” o semplicemente “Scrittura”. Si impiega anche il plurale: “Scritture”, “sacre Scritture”. Questi nomi non sono neutrali, ma suppongono una certa idea di che cosa sia la Bibbia. L'uso dell'aggettivo “sacra” o “santa” implica una dimensione religiosa. D'altra parte, l'uso di un termine singolare per riferirsi a molti libri riflette una concezione unitaria di essi. Prima di analizzare il significato di queste denominazioni, vale la pena chiedersi come la Bibbia si riferisce a sé stessa. In genere, i libri biblici hanno poca “autocoscienza”, cioè ci parlano senza presentarsi. La Genesi, per esempio, non ha un titolo né comincia dicendo “questo libro è sacro” o qualcosa del genere, ma inizia subito con il racconto della creazione del cielo e della terra. Le edizioni moderne devono inserire una introduzione prima di ogni libro per aiutare il lettore.

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Nell'AT, le allusioni alla “Bibbia” come raccolta di diversi libri sono pochissime. In 2 Mac 8,23, leggiamo che Giuda Maccabeo, prima di una battaglia, incoraggiò i suoi uomini affinché fossero pronti a morire per le leggi e per la patria e “lesse poi in pubblico il libro sacro (παραναγνοὺς τὴν ἱερὰν βίβλον)”1. In questo caso, il “libro sacro” non si riferisce a tutti i libri dell'AT, ma probabilmente solo al libro della Legge, cioè la Torah o Pentateuco (cf. 1 Mac 1,56-57; 3,48). In 1 Mac 12,9 troviamo un'espressione simile: “i libri sacri” (τὰ βιβλία τὰ ἅγια), ma non si dice quali sono. Un riferimento all'insieme dei libri esistenti presso gli ebrei appare nel prologo del Siracide, in cui si parla degli insegnamenti contenuti “nella Legge, nei profeti e negli altri scritti”. Non si dice che questi libri siano santi o sacri e non si impiega un termine unico, ma si parla di tre gruppi. In uno scritto giudaico non biblico, datato attorno al II secolo a.C., la cosiddetta Lettera di Aristea, appare per la prima volta l'espressione “la Scrittura” in senso generico (cf. n. 155 e n. 168). Ma si tratta di un riferimento alla Torah, non a tutta la Bibbia2. I libri del NT assomigliano a quelli dell'Antico per il fatto che non presentano sé stessi come libri sacri, con l'eccezione dell'Apocalisse. Ma fra gli autori del NT invece troviamo numerosi riferimenti alla loro “Bibbia”, cioè ai libri che oggi chiamiamo AT. Per riferirsi alle Scritture di Israele, gli autori del NT usano le seguenti espressioni: • “libro” (βίβλος o βιβλίον, letteralmente “rotolo”) si impiega sempre in riferimento a un libro concreto: “libro del profeta Isaia”, “libro dei salmi”; • “lettera” (γράμμα) appare una sola volta nel NT per designare la Scrittura, che è anche l'unica ricorrenza in cui questa è accompagnata dall'aggettivo “sacro” (ἱερός): “le lettere sacre” (τὰ ἱερὰ γράμματα, 2 Tm 3,15)3. • L'espressione più abituale è “le Scritture” (αἱ γραφαί); compare anche al singolare: “la Scrittura” (ἡ γραφή). La differenza fra il plurale e il singolare merita un commento. Nei vangeli sinottici e negli Atti, l’espressione “la Scrittura” si riferisce sempre a un brano concreto, non all'insieme delle scritture. Per esempio, in Mc 12,10, dopo la parabola dei vignaioli, Gesù cita il Sal 118,22-23: 1. 2. 3.

Le citazioni bibliche in italiano, salvo diversa indicazione, provengono dalla versione della CEI (2008). Nella versione greca dell'AT, talvolta si usa il singolare “scrittura”, ma non ha il senso globale di “insieme di libri”: cf. 1 Cr 15,15; 2 Cr 30,5; Esd 6,18. Nel NT, una sola volta si applica agli scritti l'aggettivo “santo” (ἅγιος): san Paolo parla delle “scritture sante” (γραφαὶ ἅγιαι, Rm 1,2).

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Non avete letto questa Scrittura (τὴν γραφὴν ταύτην): La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d'angolo (…)?

Invece, nel vangelo di Giovanni, nelle lettere di Paolo e nella 2 Pietro si impiega sia il plurale che il singolare per riferirsi all’insieme di libri che oggi chiamiamo “la Bibbia”. Per esempio, in Gv 10,35 Gesù afferma che “la Scrittura non può essere annullata”. E in Gv 20,9 l'evangelista dice che i discepoli “non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti”. In entrambi i casi, non sembra che si parli di un testo concreto, ma delle Scritture di Israele in genere. Questa terminologia diventa più rilevante se viene paragonata con i riferimenti alla Bibbia di un autore ebreo dell'epoca, Flavio Giuseppe (ca. 37-100 d.C.). Giuseppe non impiega mai un termine al singolare. Tutte le denominazioni che impiega sono al plurale: “Scritture” (γραφαί), “registri” (ἀναγραφαί), “libri” (βίβλοι, βιβλία) o “lettere” (γράμματα), qualificandoli spesso como “sacri”1. Non è irrilevante il passaggio da “Scritture” a “Scrittura”, cioè dal plurale al singolare, che si riscontra in alcuni autori del NT. Il cambio sembra riflettere una concezione teologica nuova: le Scritture di Israele cominciano a venir considerate non solo come un insieme unitario di libri, ma in qualche modo come un unico libro. La nostra parola “Bibbia” nasconde in se questo passaggio dal plurale al singolare. Essa procede dal greco βιβλία — che è il plurale di βιβλίον, “rotolo”, “libro” — passato poi al latino cristiano per parlare delle sacre Scritture come biblia, -orum, che è un plurale tantum, cioè una parola che si usa solo al plurale. In epoca medievale la parola diventa gradualmente un sostantivo singolare femminile, biblia, -ae, e così è rimasto in italiano (“la Bibbia”) e nelle altre lingue moderne, nelle quali diventa anche il termine più popolare per parlare della sacra Scrittura. Da un lato, è un fatto innegabile che i libri biblici siano fra essi molto diversi per autore umano, epoca, lingua, stile letterario, messaggio, e un lungo eccetera. Dall'altro, la Bibbia può considerarsi un unico libro, non solo perché ha uno stesso autore, Dio, ma anche perché racconta una storia unitaria, dalla Genesi fino all'Apocalisse, che culmina in Cristo. Ugo di San Vittore (1096-1141) ha espresso con singolare chiarezza questa convinzione:

1.

Curiosamente, Giuseppe non usa mai “santo” (ἅγιος) in riferimento ai libri, ma sempre “sacro” (ἱερός), forse in riferimento al tempio (τὸ ἱερόν) di Gerusalemme, dove si conservava una copia delle scritture. Cf. C. Gerber, «Die Heiligen Schriften des Judentums nach Flavius Josephus» in M. Hengel - H. Löhr (eds.), Schriftauslegung im antiken Judentum und im Urchristentum, Mohr Siebeck, Tübingen 1994, 91-113.

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Tutta la divina Scrittura costituisce un unico libro e quest'unico libro è Cristo, parla di Cristo e trova in Cristo il suo compimento (De arca Noe, 2, 8: PL 176, 642 C-D).

Il nome “Bibbia” racchiude in sé il carattere divino e umano dei libri sacri. Di tale mistero parleremo in queste lezioni.

2. Analogia fra la Scrittura e l'Incarnazione Come punto di partenza per parlare della natura della Bibbia, possiamo prendere una analogia — coniata da alcuni Padri della Chiesa e riproposta dal Magistero recente — che aiuta a inquadrare sin dall'inizio l'argomento: la Scrittura è divina e umana, così come Gesù è la Parola eterna di Dio ed è anche veramente uomo1. Per la prima volta in un testo magisteriale, questa analogia è apparsa nel 1943 nell'enciclica Divino Afflante Spiritu di Pio XII (cf. EB 559); poi l'hanno ripresa la costituzione Dei Verbum del Vaticano II e san Giovanni Paolo II in un discorso del 1993. La Dei Verbum propone l'analogia fra la Bibbia e Gesù Cristo in questi termini: Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell'uomo, come già il Verbo dell'eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece simile all'uomo. (DV13)

In primo luogo, il paragone della Scrittura con l'Incarnazione del Verbo ricorda che l'origine divina dei libri biblici è un mistero di fede. Se infatti nessun cristiano può dire che comprende il mistero dell'unione delle due nature, umana e divina, nella persona di Cristo, così nessuno potrà mai pretendere di capire fino in fondo l'ispirazione della Bibbia. Inoltre, questa analogia permette di evitare due estremi opposti nella comprensione della sacra Scrittura, ugualmente sbagliati2. • Da una parte, la Bibbia non è “caduta dal cielo” come i musulmani dicono del Corano; non è cioè una Parola divina atemporale di valore assoluto, che non si è contaminata con le limitazioni umane. Comprendere la sacra Scrittura in questo modo implicherebbe incorrere in un errore simile al docetismo, che negava che Gesù fosse veramente uomo, o al monofisismo, secondo il quale la divinità di Cristo ne assorbe l'umanità. Non si può negare la vera umanità delle

1. 2.

Cf. P. Beauchamp, Parler d'Écritures Saintes, Seuil, Paris 1987, 21-24. Cf. L. Bouyer, «Où en est le mouvement biblique?», Bible et vie chrétienne 13 (1956) 7-21, 18; L. Alonso Schökel, La palabra inspirada: la Biblia a la luz de la ciencia del lenguaje, Cristiandad, Madrid 1986, 49-53.

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parole bibliche, che come tali sono legate necessariamente a circostanze storiche, culturali, linguistiche, ecc. La Bibbia è umana nella sua origine, nelle sue parole, nei suoi modi di esprimersi e anche nel suo contenuto. • D'altra parte, sarebbe altrettanto sbagliato trascurare, ridurre o negare la divinità della Scrittura, cioè il suo valore di rivelazione di Dio alla Chiesa. Per continuare con l'analogia con le eresie cristologiche, cercare di separare il messaggio divino dagli elementi umani che lo contengono sarebbe un errore simile al nestorianesimo, secondo il quale Gesù era un uomo in cui era presente il Figlio di Dio. Invece, la negazione del valore di parola di Dio alla Bibbia si può paragonare a fenomeni più moderni, come l'ateismo, l'agnosticismo o semplicemente qualsiasi visione sprovvista di fede. La vera umanità delle parole bibliche non deve far dimenticare che, tramite esse, Dio ha parlato nel passato e ci parla ancora oggi. Una comprensione meramente umana della Bibbia è sempre possibile, ma non ne coglie tutta la profondità, né può percepire la sua profonda unità. Analogamente, cercare di capire Gesù lasciando da parte la dimensione soprannaturale produce una visione parziale — e deformata — della sua persona e della sua vita. Come dicevamo, anche san Giovanni Paolo II ha fatto riferimento all’analogia fra l’Incarnazione e la Scrittura. Con termini precisi ha spiegato alcune delle conseguenze del carattere divino e umano della Bibbia, soprattutto per quanto riguarda l'interpretazione della sacra Scrittura, a proposito dell'importanza di conoscere i generi letterari. Ecco le sue parole: La Divino afflante Spiritu, come è noto, ha particolarmente raccomandato agli esegeti lo studio dei generi letterari utilizzati nei libri sacri (…). Questa raccomandazione si basa sulla preoccupazione di comprendere il senso dei testi con tutta l'esattezza e la precisione possibili e, dunque, nel loro contesto culturale storico. Una falsa idea di Dio e dell'Incarnazione spinge un certo numero di cristiani a prendere un orientamento opposto. Essi hanno tendenza a credere che, essendo Dio l'Essere assoluto, ognuna delle sue parole abbia un valore assoluto, indipendente da tutti i condizionamenti del linguaggio umano. Non vi è quindi spazio, secondo costoro, per studiare questi condizionamenti al fine di operare delle distinzioni che relativizzerebbero la portata delle parole. Ma questo significa illudersi e rifiutare, in realtà, i misteri dell'ispirazione scritturale e dell'Incarnazione, rifacendosi ad una falsa nozione dell'Assoluto. Il Dio della Bibbia non è un Essere assoluto che, schiacciando tutto quello che tocca, sopprimerebbe tutte le differenze e tutte le sfumature. È al contrario il Dio creatore, che ha creato la stupefacente varietà degli esseri «ognuno secondo la propria specie», come afferma e riporta il racconto della Genesi (cf. Gn, cap. 1). Lungi dall'annullare le differenze, Dio le rispetta e le valorizza (cf. 1 Cor

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12,18.24.28). Quando si esprime in un linguaggio umano, egli non dà ad ogni espressione un valore uniforme, ma ne utilizza le possibili sfumature con estrema flessibilità, e ne accetta anche le limitazioni. È questo che rende il compito degli esegeti così complesso, così necessario e così appassionante! Nessuno degli aspetti umani del linguaggio può essere trascurato. I recenti progressi delle ricerche linguistiche, letterarie ed ermeneutiche hanno portato l'esegesi biblica ad aggiungere allo studio dei generi letterari molti altri punti di vista (retorico, narrativo, strutturalista); altre scienze umane, come la psicologia e la sociologia, sono state parimenti accolte per dare il loro contributo (…). Tuttavia, questo studio non è sufficiente. Per rispettare la coerenza della fede della Chiesa e dell'ispirazione della Scrittura, l'esegesi cattolica deve essere attenta a non attenersi agli aspetti umani dei testi biblici. Occorre che essa, anche e soprattutto, aiuti il popolo cristiano a percepire in modo più nitido la parola di Dio in questi testi, in modo da accoglierla meglio, per vivere pienamente in comunione con Dio1.

In sintesi, la concezione cristiana deve rispettare il carattere divino e umano delle Scritture. Possiamo formulare questo principio in modo pedagogico, dicendo che la Bibbia è al 100% umana e al 100% divina. Qualsiasi spiegazione deve evitare sia una negazione sia una diminuzione di queste “percentuali”. Infatti, a proposito dell'ispirazione (cf. pp. 228-234), vedremo che la Chiesa ha respinto tutte quelle teorie che, in un modo o nell'altro, hanno cercato di eliminare o di cambiare qualcuna di queste percentuali.

3. Cornice storica In ciò che segue, ricordo a scopo pedagogico alcuni eventi storici, senza analisi critiche né indicazioni bibliografiche, così come vengono riportati nella Scrittura e in altre fonti. Ometto i racconti del Pentateuco (origini del cielo e della terra, patriarchi, esodo) ed i racconti dell'ingresso e stabilimento delle dodici tribù nella Terra promessa (libri di Giosuè e dei Giudici), perché si suppongono conosciuti almeno nelle loro linee essenziali. Parto dunque dall’epoca della monarchia. Mi soffermerò un po' di più sui periodi ellenistico e romano, di solito meno noti fra gli studenti. Degli inizi della monarchia in Israele si parla in 1 Samuele. L’ultimo dei giudici è il profeta Samuele, che unge, come primo re, Saul, della tribù di Beniamino. Ma Saul viene rifiutato dal Signore e sostituito da Davide, della tribù di Giuda, con cui comin-

1.

San Giovanni Paolo II, Discorso nel centenario dell'enciclica «Providentissimus Deus» e del cinquantenario dell'enciclica «Divino Afflante Spiritu» (23 aprile 1993), n. 8-9 (EB 1247-1248).

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cia una dinastia, la “casa di Davide”, che durerà a lungo, con sede in Gerusalemme. La datazione abituale per il regno davidico è attorno all'anno 1000 a.C. Dopo il regno di Salomone, figlio di Davide, che costruisce il Tempio, avviene la divisione del regno in due: il regno del Nord, chiamato anche Israele, con capitale Samaria, e il piccolo regno del Sud, Giuda, sempre con Gerusalemme come capitale. Il seguente evento da ricordare è la caduta di Samaria ad opera dell'esercito assiro nel 722/721 a.C., con la conseguente deportazione. È la fine del regno del Nord. Un secolo dopo cade l'impero assiro. Nel 612, la capitale degli assiri, Ninive, viene distrutta. Nabucodonosor (605-562) fonda un nuovo impero, con Babilonia come capitale. Lo stesso Nabucodonosor distrugge Gerusalemme ed il Tempio nel 587 a.C. Questa sconfitta è molto importante nella storia di Israele, perché porta con se la fine della monarchia e dell'indipendenza politica e l'inizio dell'esilio in Babilonia. Molti testi biblici se ne lamentano: O Dio, nella tua eredità sono entrate le genti: hanno profanato il tuo santo tempio, hanno ridotto Gerusalemme in macerie (Sal 78,1). Come sta solitaria la città un tempo ricca di popolo! (Lam 1,1).

L'impero babilonese è di corta durata. A metà del VI secolo a.C. emerge la figura di Ciro, re dei persiani, che conquista Babilonia nel 539 a.C. e riesce a stabilire una delle più vaste organizzazioni politiche dell'antichità, l'impero persiano, che si estende dall'Asia Minore fino all'India. Ciro permette alla comunità ebraica in esilio di tornare a Gerusalemme e di ricostruire le mura ed il Tempio, cosa che avviene in diverse tappe a partire dal 533 a.C. (data del cosiddetto “editto di Ciro”). Fra mille difficoltà, a Gerusalemme si ricostruisce il Tempio, che viene chiamato “secondo Tempio”, dopo quello fatto da Salomone. In questo periodo svolgono la loro attività i profeti Aggeo, Zaccaria e Malachia, il sacerdote e scriba Esdra e infine Neemia. Due secoli dopo Ciro è il turno dei greci. Grazie alle rapide e spettacolari vittorie di Alessandro Magno (356-323 a.C.), nasce un impero che prende il posto di quello persiano. È l'impero ellenistico, che come unità politica durerà pochissimo, ma che lascerà in eredità la diffusione della lingua e della cultura greca in tutta l’ecumene, la terra da loro conosciuta. Alla morte di Alessandro, l'impero viene diviso fra i suoi generali. La Giudea diventa parte dell'Egitto (capitale: Alessandria), dove governano i Tolomei, detti anche Lagidi. Ma nel 200 a.C., dopo la battaglia di Panium (Cesarea di Filippo, l'attuale Banias), vinta da Antioco III, la Giudea passa a dipendere dalla Siria (capitale: Antiochia), governata dai Seleucidi.

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Durante il regno di Antioco IV Epifane (175-164), figlio di Antioco III, si verifica una rivolta guidata dai fratelli Maccabei, come reazione contro la politica di ellenizzazione di Antioco IV. Nel 167 avviene “l’abominio devastante” (cf. 1 Mac 1,54; Dn 9,27; 11,31), cioè lo stabilimento di un altare a Giove Olimpio nel Tempio. Nel 164, Giuda Maccabeo riesce a purificare il Tempio e ad ottenere una certa indipendenza politica e religiosa. Con suo fratello Simone Maccabeo comincia la dinastia degli Asmonei. Ma col passare degli anni la relativa autonomia ottenuta si vedrà sempre più ridotta a vantaggio della nuova potenza mondiale, Roma. Come momento significativo va ricordato il 63 a.C., anno in cui il generale Pompeo entra a Gerusalemme e la Giudea passa sotto la sovranità romana1. Gesù nasce attorno al 6 a.C., quando l'imperatore di Roma e del mondo è Ottaviano (Cesare Augusto). La Giudea è governata da Erode il Grande, re sottomesso a Roma. Gesù muore attorno al 30 d.C. sotto il procuratore romano Ponzio Pilato, mentre l'imperatore è Tiberio. L'ultima data da ricordare è il 70 d.C., anno della distruzione del secondo Tempio, avvenuta durante la rivolta ebraica contro Roma degli anni 66-73, detta anche “prima guerra contro Roma”, perché ce ne sarà una seconda ed ultima dal 132 al 135, chiamata anche rivolta di Bar Kokhba. Ecco uno schema che ripropone le principali date e i nomi già menzionati:

1.

In epoca asmonea e romana si applica il termine “Giudea” (Ιουδαία, Iudea) non solo al territorio della tribù di Giuda, ma a un’area più vasta. Erode il Grande sarà “re di Giudea”, includendo Samaria, Galilea, Perea ed Idumea. Dopo la rivolta di Bar Kokhba (135 d.C.), l’imperatore Adriano cambia il nome con quello di Syria Palaestina. A partire dal IV secolo d.C. il territorio verrà chiamato semplicemente Palestina.

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INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ

Egitto

Mesopotamia

Israele

Codice di Hammurabi

I patriarchi?

2000 1785 a.C. 1550 Impero Nuovo

1250

1500

Ramses II

Mosè? Giosuè? Impero Assiro

1000 Decadenza Impero

1250

Giudici?

Istituzione della monarchia Saul Davide Salomone

Regno del Sud Roboamo

Regno del Nord Geroboamo Omri Acab (profeta Elia)

930 875

Geroboamo II 745

Tiglat-Pilèser III Acaz

722 721

Salmanàssar V Sargon II

704

Sennàcherib

616 Necao 612

Impero babilonese Nabucodonosor Distruzione di Ninive

Caduta di Samaria Deportazione

Ezechia

Osea (non il profeta)

Manasse

687 630

Giosia (622, riforma) 612 605

Eliakìm-Ioiakìm Ioiachìn Mattania-Sedecìa Caduta di Gerusalemme Esilio in Babilonia

587

722

587 550

540

Impero persiano

515

Epoca ellenistica 200

Ciro Editto di Ciro Ritorno dall’esilio Secondo Tempio Artaserse I Artaserse II

Zorobabele 533 Neemia Esdra 460

Alessandro Magno (+323) Antioco III Antioco IV Epifane

Rivolta dei Maccabei

175

Dinastia degli Asmonei

161

Epoca Romana 63 4 a.C.

Pompeo entra a Gerusalemme Augusto

Nascita di Gesù

Erode il Grande

30

Tiberio

Morte di Gesù

Ponzio Pilato

70

Vespasiano

Guerra contro Roma (66-74)

INᴛRᴏᴅᴜᴢIᴏNᴇ

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4. I libri nell'antichità Per comprendere sia la storia della formazione del canone biblico e la critica testuale, sia alcune caratteristiche del carisma dell'ispirazione, risulta indispensabile ricordare quando è nata la scrittura e come erano fisicamente i libri nell'antichità. La scrittura è una delle più grandi invenzioni di tutti i tempi, tanto da segnare il confine fra la preistoria e la storia. La scrittura appare in Mesopotamia verso il 3200 a.C., ideata come procedura mnemotecnica per la contabilità. Tutto indica che gli autori di questa invenzione siano stati i sumeri e che durante l'intero quarto millennio la scrittura sia stata utilizzata soltanto per la lingua sumerica1. Nella prima metà del secondo millennio, nella terra di Canaan, viene creato l'alfabeto, un'altra invenzione geniale, perché riduce centinaia di logogrammi e sillabogrammi a circa trenta segni, uno per ogni fonema. L'alfabeto è stato disegnato per la lingua “proto-canaanita”, dalla quale nasceranno il fenicio, l'ebraico e l'aramaico2. Nel mondo antico non esisteva né la carta, arrivata in Occidente dalla Cina nei secoli VII-VIII d.C., né certamente la stampa, invenzione europea del XV secolo (dell’importanza della stampa parleremo più avanti, a proposito della critica testuale: pp. 108-110). 4.1. Materiale Diversi materiali venivano utilizzati come superficie sulla quale scrivere. Esistono iscrizioni su pietra, su metallo e su argilla (tali iscrizioni sono oggetto dell'epigrafia). La pietra ed il metallo sono materiali difficili da trasportare e poco adatti per testi lunghi, ma godono di una grande durabilità. Possiamo ricordare in proposito le tavole di pietra sulle quali si dice che Dio (Es 31,18) o Mosè (Es 34,18) scrivono la legge sul monte Sinai; ovvero le dodici pietre sulle quali più tardi Giosuè scriverà anche la legge (Gs 8,32); oppure le parole di lamento di Giobbe, che vuole che la testimonianza della sua innocenza davanti al tribunale di Dio non possa essere cancellata:

1.

2.

In origine, il sistema era costituito da circa mille segni “picto-ideografici”, cioè che suggerivano o rappresentavano delle cose. Dopo uno o due secoli, si cominciarono a usare i segni per rappresentare non solo le cose, ma anche i suoni dei nomi adoperati nella lingua parlata. Mezzo millennio dopo la sua invenzione, la scrittura diventa un sistema sviluppato, capace di produrre documenti scritti. Cf. J. Bottéro, La religión más antigua: Mesopotamia, Trotta, Madrid 2001, 32. Cf. A. Demsky, «Writing in Ancient Israel and Early Judaism: The Biblical Period» in M. J. Mulder - H. Sysling (eds.), Mikra: Text, Translation, Reading and Interpretation of the Hebrew Bible in Ancient Judaism and Early Christianity, Van Gorcum, Assen 1988, 2-20, 2-9.

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Oh, se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro, fossero impresse con stilo di ferro e con piombo, per sempre s'incidessero sulla roccia! (Gb 19,23-24).

Forse alcuni testi biblici sono stati scritti su tavolette di argilla, che era il materiale di scrittura più comune in Mesopotamia. Ma i manoscritti conservati fino ad oggi sono tutti di papiro o di pelle (oggetto della paleografia). Perciò ci concentriamo in questi due tipi di materiale1. 4.1.1. Papiro Il rotolo con gli oracoli di Geremia che viene lacerato dal re Ioiakìm con un “temperino da scriba” (piccolo coltello) e bruciato nel braciere (cf. Ger 36) doveva essere di papiro; altrimenti, non sarebbe stato facile né lacelarlo né bruciarlo2. In 2 Gv 12, l'autore della lettera dice: “Molte cose avrei da scrivervi, ma non ho voluto farlo con carta e inchiostro [διὰ χάρτου καὶ μέλανος]; spero tuttavia di venire da voi e di poter parlare a viva voce”. Il termine “carta” traduce qui la parola greca chartês (χάρτης), che indica un foglio o rotolo di papiro.

Il papiro è una pianta (Cyperus papyrus) che cresce nelle paludi e presso i laghi poco profondi. Specialmente esuberanti nella valle del Nilo, i papiri venivano utiliz1.

2.

Per quanto segue, cf. H. Y. Gamble, Libri e lettori nella Chiesa antica: storia dei primi testi cristiani, Paideia, Brescia 2006, 71-100, specialmente 71-78. Originale inglese: Idem, Books and Readers in the Early Church: A History of Early Christian Texts, Yale University Press, New Haven 1995 (Chapter 2). Per questa sezione si può anche consultare J. Trebolle Barrera, La Biblia judía y la Biblia cristiana: Introducción al estudio de la Biblia, Trotta, Madrid 31998, 94-113. In Ger 36,23 la versione greca traduce “il rotolo” (‫)ה ְמּגִ ָלּה‬ ַ come “il papiro” (ὁ χάρτης).

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zati per diversi fini, fra cui la produzione di materiale per scrivere, chiamato anch'esso “papiro”. Dai fusti dei papiri si ottenevano fibre che, sovrapposte e incrociate come una rete e pressate, formavano un foglio. Un singolo foglio poteva essere largo da 10 a 29 cm e alto da 20 a 30, ma le dimensioni ordinarie erano di 25 cm d'altezza e da 18 a 20 cm di larghezza. (…). Ogni foglio aveva fibre che correvano in senso orizzontale su un lato e in senso verticale sull'altro. I due lati sono di solito chiamati dai papirologi rispettivamente recto e verso1.

Di solito, si scriveva sulla superficie con le fibre in senso orizzontale (recto), ma in caso di necessità si poteva impiegare anche il verso. Un papiro scritto anche per il verso riceve il nome di “opistografo”. 4.1.2. Pelle L'uso della pelle di animali (soprattutto vitello, capra o pecora) come materiale per scrivere è molto antico. Esiste un manoscritto di pelle dell'anno 2000 a.C. Gli ebrei cominciarono a usare la pelle per la trascrizione dei testi biblici nel periodo persiano (V-IV sec. a.C.). A Qumran i rotoli di pelle sono molto più numerosi rispetto a quelli di papiro2. Più tardi, i rabbini comanderanno che la Torah venga copiata su pelle, unico materiale considerato degno3. In caso di necessità, era possibile cancellare il testo, raschiandolo, e riscrivere sopra. Tali manoscritti ricevono il nome tecnico di “palinsesti”, da πάλιν (“di nuovo”) e ψάω (“raschiare, lavare”).

1. 2.

3.

Gamble, Libri e lettori, 72. Qumran è il nome di una località accanto al Mar Morto, sulla riva nordoccidentale, diventata famosa grazie alle scoperte fatte a partire dal 1947. In undici grotte, sono stati trovati diverse centinaia di rotoli, tutti anteriori all'abbandono del posto, avvenuto durante la prima guerra contro Roma. Infatti, dopo aver distrutto Gerusalemme, la Legio X romana si diresse verso il Mar Morto per porre termine agli ultimi nuclei di resistenza, fino alla fortezza di Masada, che cadde nel 72 d.C. L'ipotesi più diffusa sull'identità del gruppo che abitava a Qumran è che si trattasse di una setta o comunità vincolata o simile ai cosiddetti esseni. Il gruppo avrebbe lasciato Gerusalemme verso il 150 a.C., come protesta per la corruzione dei sommi sacerdoti. In alcuni scritti, infatti, si vede un rifiuto del culto celebrato nel tempio di Gerusalemme. Cf. M. Bar-Ilan, «Writing in Ancient Israel and Early Judaism: Scribes and Books in the Late Second Commonwealth and Rabbinic Period» in M. J. Mulder - H. Sysling (eds.), Mikra: Text, Translation, Reading and Interpretation of the Hebrew Bible in Ancient Judaism and Early Christianity, Van Gorcum, Assen 1988, 21-37, 26.

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La tecnica di preparazione della pelle si sviluppò specialmente durante il III secolo a.C. nella città di Pergamo (Asia Minore), dalla quale le pergamene hanno preso il nome. Le pergamene consentono la scrittura su entrambi i lati del foglio e dunque hanno una maggiore capacità di contenere testo rispetto ai papiri. Contro una idea molto diffusa, si deve chiarire che, in senso stretto, non tutti i manoscritti di pelle sono delle pergamene1. Quando san Paolo chiede a Timoteo di riportargli il mantello e i libri lasciati a Troade, aggiunge “soprattutto le pergamene” (μάλιστα τὰς μεμβράνας, 2 Tm 4,13), probabilmente perché di maggior valore che i libri di papiro. Il papiro fu di gran lunga il supporto scrittorio più diffuso in epoca ellenistica e nella prima età imperiale romana, ma si usava anche la pergamena, che in certe aree e per certi scopi fu chiaramente preferita al papiro e in seguito, in epoca medievale, lo sostituì del tutto2.

Tutti i manoscritti del NT anteriori al IV secolo che conosciamo sono in papiro. Le pergamene con testi del NT arrivate fino a noi sono tutte dal IV secolo in poi3. 4.2. Formato Come si è detto, col passare del tempo la pelle finì per sostituire il papiro come materiale sul quale scrivere. Un transito simile è avvenuto per quanto riguarda il formato dei libri: dal rotolo si passerà al codice.

1.

2. 3.

“Il termine «pergamena» viene sovente impiegato per indicare tanto la pelle e il vellum quanto la pergamena vera e propria, ma nonostante siano tutti ricavati dalla pelle di animali, vi sono differenze cospicue tra questi materiali. Non essendo conciata, la pergamena è più sottile, morbida e chiara della pelle, ed era trattata in modo da consentire la scrittura sia sul lato pelo sia sul lato carne. Il vellum è un tipo di pergamena più fine, di pelle di vitello o di capretto. La produzione della pergamena sembra abbia avuto inizio intorno al III sec. a.C. Secondo il racconto tradizionale, falso, l'invenzione risalirebbe alla città di Pergamo, nell'Asia Minore occidentale. Per il merito forse di aver perfezionato il processo di lavorazione o per il ruolo di maggior produttore che la città ebbe, Pergamo diede uno dei nomi attribuiti in antico a questo materiale, dato che i greci lo chiamarono pergamênê e i romani pergamena. Questi nomi sono tuttavia piuttosto tardi; prima del IV sec. d.C. i greci chiamavano la pergamena diphthera, i romani membrana, «pelle»”, Gamble, Libri e lettori, 74. Idem, Libri e lettori, 73-74. Cf. Trebolle Barrera, La Biblia judía y la Biblia cristiana, 97.

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4.2.1. Rotoli La forma fondamentale dei libri antichi era il rotolo, chiamato měgillâ in ebraico, biblos o biblion in greco e volumen in latino. Nel caso fosse di papiro, il rotolo si fabbricava incollando i fogli1. Invece, nel caso di rotoli di pelle, le giunture fra i fogli venivano fatte cucendo, con fibre, e non incollando. Dunque non erano completamente lisce e non si poteva scrivere sopra. È interessante sapere che l'autore di un libro non scriveva su un rotolo già preparato, ma su fogli sciolti, il che gli consentiva di intercalare nuovi materiali prima di unire i diversi fogli, o di cambiare il loro ordine. Molto prima del computer, scrivere un libro era un lavoro di “taglia e incolla”. In uno dei suoi dialoghi, Platone ci ha lasciato una testimonianza sul modo di comporre un libro/rotolo. Dopo aver definito il filosofo, Socrate, protagonista del dialogo, rivolge a Fedro una domanda: Colui che non possiede cose che siano di maggior valore rispetto a quelle che ha composto o scritto, rivoltandole in su e in giù per molto tempo, incollando una parte con l'altra o togliendo, non lo chiamerai, a giusta ragione, poeta, o compositore o scrittore di leggi? (Fedro 278 d-e)2.

Nel momento di comporre il rotolo definitivo, si teneva conto dell'estensione del testo che si doveva copiare. Quando l'autore considerava che il libro era pronto, faceva copiare il testo in un rotolo preparato ad hoc, cioè con la lunghezza misurata per contenere esattamente il testo. In questo processo, non era difficile che all'ultimo momento un foglio venisse collocato in un posto sbagliato. Se l'autore non controllava il risultato finale, poteva rimanere così3. 1.

2. 3.

“Per comporre il rotolo i fogli venivano disposti col recto rivolto in alto e venivano uniti sovrapponendo e incollando uno stretto bordo (di 1 o 2 cm) sul margine destro di ogni foglio col bordo sinistro del successivo nella serie. (…) Le giunture venivano levigate e rese pressoché inavvertibili, affinché, quando si scriveva sul rotolo, la penna non incontrasse ostacoli nel passarvi sopra. Un rotolo di papiro così prodotto poteva in teoria raggiungere qualsiasi lunghezza, ma sembra che quella normale fosse di venti fogli e toccasse i 3,5 m circa. La striscia di fogli incollati veniva poi arrotolata tenendo all'interno il recto, ossia la faccia destinata alla scrittura, perché fosse protetta. In forma di rotolo così confezionato, detto chartês (in latino charta o volumen), il papiro veniva trasportato via mare, immagazzinato e commercializzato per la vendita al minuto. Era possibile poi ottenere rotoli di qualunque lunghezza tagliando o congiungendo queste unità”, Gamble, Libri e lettori, 72-73. Traduzione presa da Platone, Fedro: a cura di Giovanni Reale, Arnoldo Mondadori, Milano 2001. Cf. Trebolle Barrera, La Biblia judía y la Biblia cristiana, 106-107. Trebolle aggiunge un esempio biblico: “Este procedimiento editorial permitía sobre todo añadir materiales al comienzo y al final de los libros. Los capítulos añadidos al final del libro de Jueces (caps. 17-18 y 19-21) y de 2 Samuel (caps. 22-24) pueden haber sido introducidos mediante una técnica editorial parecida, aplicada a

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Di solito, ogni rotolo conteneva una singola opera. Se il testo era troppo lungo, si usavano due o più rotoli. Fra i libri biblici, i cinque libri della Torah venivano copiati normalmente ognuno in un rotolo, da cui il nome “Pentateuco” (da πέντε, “cinque”, e τεῦχος, “vaso, urna”, e poi “astuccio, volume”). H. Y. Gamble spiega come era letto un rotolo e come da questo fatto pratico nascevano anche i limiti di estensione dei rotoli: La lunghezza di un rotolo di papiro (…) andava in media dai 7 ai 10 m. Le opere brevi richiedevano meno spazio, ma raramente il limite superiore veniva oltrepassato. La lunghezza massima dipendeva non dalla lavorazione, dal momento che si potevano produrre rotoli di qualsiasi lunghezza, ma dalla comodità del lettore. Un rotolo di più di 10 o 11 m era troppo ingombrante da maneggiare per il lettore, che lo prendeva con entrambe le mani, e con la sinistra avvolgeva via via la parte letta, mentre con la destra svolgeva quella da leggere. Questo modo di procedere è illustrato in molte raffigurazioni antiche di lettori con libri a rotolo. La lunghezza normale finì per essere strettamente prescritta dall'uso. Durante e dopo il periodo ellenistico la suddivisione in libri (tomoi, libri) di opere voluminose fu determinata tanto dalla lunghezza convenzionale del rotolo quanto da considerazioni contenutistiche. Alle opere più antiche di grandi dimensioni (come quelle di Erodoto, Tucidide e Omero) furono imposte suddivisioni sulla base della lunghezza abituale dei rotoli, della quale tennero conto gli autori di nuove opere corpose nel ripartirle. In tal modo l'unità materiale del rotolo prese ad avere anche la funzione di unità letteraria1.

È probabile che l'attuale divisione di alcuni libri sia dovuta non a motivi contenutistici, ma alla capacità del rotolo. Concretamente, in ebraico 1-2 Sam riempiva un rotolo e 1-2 Re un altro. Però, siccome la scrittura greca occupa più spazio di quella ebraica, nel tradurre questi libri in greco sembra che sia stato necessario utilizzare due rotoli per ognuno, donde l'attuale divisione in 1 e 2 Sam e in 1 e 2 Re. Lo stesso può dirsi del libro delle Cronache2. Tuttavia, per diversi motivi, alcuni libri brevi sono stati copiati sistematicamente in un unico rotolo, come i dodici profeti — a Nahal Hever, in Egitto, è stato trovato un rotolo di papiro del I secolo d.C. con il testo dei dodici profeti in greco —. Anche i cinque libri che vengono chiamati Měgillôt a partire da un certo momento sono stati copiati in un singolo rotolo3.

1. 2. 3.

la escritura en rollo”, ibid., 106. Possiamo ricordare anche i capitoli 13 e 14 di Daniele, e, nel NT, Gv 21 e Rm 16. Gamble, Libri e lettori, 75-76. Cf. Trebolle Barrera, La Biblia judía y la Biblia cristiana, 106. Cf. Idem, La Biblia judía y la Biblia cristiana, 107. Gli ebrei danno il nome di Měgillôt a questi cinque libri: Cantico dei Cantici, Rut, Qoèlet, Lamentazioni ed Ester. Formano una certa unità nella BH perché vengono letti in alcune feste: il Cantico

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Riproduco a continuazione alcuni disegni che aiutano a meglio comprendere le descrizioni appena fatte1. (a) foglio di papiro usato per scrivere una lettera; (b) foglio di papiro piegato verticalmente, per farne un quaderno e poi un codice (per la spiegazione di cosa sia un codice, vedi sotto); (c) un rotolo di papiro scritto, le linee verticali indicano le giunture dove si incollano i singoli fogli.

1.

in Pasqua, Rut nella Festa delle Settimane — la nostra Pentecoste —, Qoèlet in quella delle Tende o Sukkot, le Lamentazioni nel giorno in cui si ricorda la distruzione del primo Tempio ed Ester nella festa di Purim. Cf. E. G. Turner, The Typology of the Early Codex, University of Pennsylvania Press, Pennsylvania 1977, 45. I disegni sono opera di W. E. H. Cockle.

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Nel vangelo di Luca, si racconta un episodio della vita di Gesù che riflette l'uso dei rotoli per la lettura sinagogale: Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: [segue citazione di Is 61,1-2]. Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all'inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. (Lc 4,16-20).

4.2.2. Codici Molto lentamente, a partire dal I secolo d.C., il formato di rotolo cominciò ad essere sostituito dal “codice” (in latino, codex), più simile ai libri moderni. Un codice infatti è costituito da diversi quaderni, cioè da fogli piegati in quattro, che uniti formano fascicoli. “I primissimi codici, cristiani o meno, furono tendenzialmente del tipo a fascicolo unico, con una capacità massima di circa duecento pagine”1. Poi, la tecnica riuscì ad aumentare enormemente la capacità dei codici, fino ad arrivare ai grandi codici del IV secolo, i primi capaci di mettere insieme l'Antico e il Nuovo Testamento. La maggiore comodità del codice rispetto al rotolo spiega che nel IV secolo diventasse la forma predominante. Ma questo passaggio non è stato uguale per tutti. Curiosamente, i cristiani sono stati molto più rapidi a passare al codice rispetto ai loro contemporanei, come mostrano i papiri del secolo II: I dati comparativi sono istruttivi. Fra i libri greci posseduti risalenti a prima del III sec. d.C., più del 98% sono rotoli, mentre nello stesso periodo i libri cristiani superstiti sono quasi tutti codici. Tra i libri greci il codice non compare in proporzioni significative prima del III secolo (quando meno del 20% sono codici), e solo agli inizi del IV secolo si comincia a usare il codice quasi quanto il rotolo (48%)2.

Gamble propone un'ipotesi suggestiva per spiegare la preferenza dei cristiani per il codice: l’esempio fornito da san Paolo, che avrebbe scelto i codici per la loro facilità

1. 2.

Gamble, Libri e lettori, 86. Idem, Libri e lettori, 79.

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di trasporto1. Ma qui a noi interessa conoscere solo le caratteristiche fisiche dei libri antichi, per evitare una visione anacronistica della Bibbia.

5. L'elenco dei libri biblici Saper distinguere fra l'Ecclesiaste e l'Ecclesiastico, enumerare le lettere paoline o ricordare i nomi dei dodici profeti minori, può servire da test per accertarsi delle proprie conoscenze bibliche. Infatti, un punto di base quando si intraprende lo studio della Bibbia è apprendere i nomi dei libri che la compongono. Conviene anche sapere la sequenza in cui si trovano nelle Bibbie moderne, che non è casuale, ma ha un certo significato e anche una utilità pratica. Infatti, non dovrebbe essere necessario consultare l'indice della Bibbia per trovare Giobbe o Sofonia. Inoltre, le diverse letture che i lezionari liturgici attuali propongono per determinate circostanze (ad esempio, per le messe per i defunti) vengono presentate seguendo quest’ordine. È anche utile conoscere le abbreviazioni dei nomi dei libri biblici. Esistono diversi modi di abbreviare; qui seguirò quelle impiegate dal Catechismo della Chiesa Cattolica, presentate a pagina 12. Vedremo i nomi e le abbreviazioni in italiano, ma si deve tener presente che queste variano secondo la lingua. Alcuni libri possono venir chiamati in modi assai diversi. In inglese, l'Apocalisse si chiama Revelation e in tedesco Offenbarung. In tempi passati, si adoperavano spesso le abbreviazioni latine. Così, Io oppure Ioh stava per Iohannes, cioè il vangelo secondo Giovanni. Una vecchia abbreviazione che può creare difficoltà è Thren. Sta per Threni, derivato da θρῆνοι, nome greco delle Lamentazioni. Altrettanto vale per 1-2 Par (da Paralipomena), che equivale a 1-2 Cr. Il numero totale di libri del canone cattolico è 73, 46 dell’AT e 27 del NT. Queste cifre dipendono dal modo in cui si contano alcuni libri, come 1-2 Sam, che possono considerarsi come uno solo oppure come due. Il numero 73 è il maggiore possibile. 5.1. La Bibbia Ebraica Prima di studiare i libri dell'AT, vedremo quelli della Bibbia Ebraica (BH, dal nome in latino, Biblia Hebraica), cioè della Bibbia degli ebrei moderni, la quale per

1.

Idem, Libri e lettori, 89-100. Per approfondire, cf. R. A. Kraft, «The Codex and Canon Consciousness» in L. M. McDonald - J. A. Sanders (eds.), The Canon Debate: On the Origins and Formation of the Bible, Hendrickson, Peabody 2002, 229-233; T. Bokedal, The Formation and Significance of the Christian Biblical Canon: A Study in Text, Ritual and Interpretation, Bloomsbury, London 2014, 125-156.

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diverse ragioni — di cui avremo occasione di parlare più avanti, a proposito del canone — non è identica all'AT. La BH contiene ventiquattro libri, che si dividono in tre gruppi: la Legge, i Profeti e gli Scritti. In ebraico si chiamano Torah (‫)תּוֹרה‬, ָ Nebiim (‫יאים‬ ִ ‫ )נְ ִב‬e Ketubim (‫)כּ ֻת ִבים‬. ְ Uno dei modi in cui gli ebrei si riferiscono alle loro Scritture è “Tanak”, un acronimo (da ἄκρος, “estremo”, e ὄνομα,“nome”), cioè una parola formata dalla prima lettera di ognuno di questi tre gruppi. Non tutti i libri della Tanak hanno identico valore. Al centro si trova la Torah di Mosè. I profeti spiegano o commentano la Torah, mentre gli Scritti commentano la Torah ed i Profeti. Questo modo gerarchico di comprendere le Scritture si può rappresentare graficamente così: La Legge o Torah è costiScritti tuita da cinque libri: Genesi (Gn), Esodo (Es), Levitico (Lv), Numeri (Nm), e Profeti Deuteronomio (Dt).

Torah

La collezione dei Profeti della BH si divide in due gruppi, ognuno con quattro libri. I “profeti anteriori” sono Giosuè (Gs), Giudici (Gdc), Samuele (1-2 Sam) e Re (1-2 Re).

I “profeti posteriori” sono Isaia (Is), Geremia (Ger), Ezechiele (Ez) e il Libro dei Dodici profeti (vedremo l'elenco dopo). Il terzo gruppo, gli Scritti, contiene undici libri. Eccoli nel loro ordine: 1) Salmi (Sal) 2) Giobbe (Gb) 3) Proverbi (Prv) 4) Rut (Rt) 5) Cantico dei cantici (Ct) 6) Qoelet oppure Ecclesiaste (Qo, Eccl) 7) Lamentazioni (Lam) 8) Ester (Est)

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9) Daniele (Dn) 10) Esdra (Esd) e Neemia (Ne) 11) Cronache (1-2 Cr) Possiamo finire la presentazione della BH citando un brano del Talmud di Babilonia (s. VI d.C.), che è il più antico testo conosciuto che contiene un elenco dei Profeti e degli Scritti. Non si parla della Torah, perché su questi cinque libri ed il loro ordine non c'era alcuna discussione fra i rabbini. Il testo menziona tutti i libri che formano i Profeti e gli Scritti nell'attuale BH, con qualche differenza nella sequenza (da notare le posizioni di Isaia e di Rut). Dice anche coloro che ne erano ritenuti gli autori: Questo è l'ordine corretto dei profeti: Giosuè, Giudici, Samuele, Re, Geremia, Ezechiele, Isaia, i dodici profeti. (…) Questo è l'ordine corretto degli scritti: Rut, Salmi, Giobbe, Proverbi, Qoèlet, Cantico dei cantici, Lamentazioni, Daniele, il rotolo di Ester, Esdra, Cronache. (…) Chi li scrisse? Mosè scrisse il suo libro e parte di Balaam e Giobbe; Giosuè scrisse il libro che porta il suo nome e gli ultimi otto versetti della Torah; Samuele scrisse il libro che porta il suo nome, Giudici e Rut. Davide scrisse il libro dei Salmi, includendovi l'opera dei Dieci Anziani: Adamo, Melchisedec, Abramo, Mosè, Heman, Jeduthun, Asaf e i tre figli di Kore. Geremia scrisse il libro che porta il suo nome, il libro dei Re e Lamentazioni; Ezechia e i suoi colleghi scrissero Isaia, Proverbi, Cantico dei cantici e Qoèlet; gli uomini della Grande Assemblea scrissero Ezechiele, i dodici profeti minori, Daniele e il rotolo di Ester. Esdra scrisse il libro che porta il suo nome e la genealogia delle Cronache fino al suo proprio tempo1.

Torneremo a parlare di questo testo del Talmud a proposito della storia della formazione del canone (p. 173). 5.2. L'Antico Testamento Per i cattolici, l'AT contiene quarantasei libri. Abitualmente vengono divisi in tre gruppi: libri storici, libri poetici e sapienziali e libri profetici. Come si vede, non corrispondono alla divisione tripartita della BH. È lo schema non è più circolare, attorno alla Torah, ma lineare, in direzione di Cristo, annunziato specialmente dai profeti. 1.

Baraita del trattato Baba Bathra 14b-15a. Ho tradotto in italiano a partire dalla versione inglese di J. Neusner, The Talmud of Babilonia: An Accademic Commentary. XXII A: Bavli Tractate Baba Batra. Chapters I through VI, Scholars, Atlanta 1996, 54-55. È in progetto la traduzione integrale del Talmud babilonese in italiano; finora (febbraio 2018) hanno pubblicato il trattato Rosh haShanà ed il trattato Berakhòt (https://www.talmud.it).

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I libri storici sono ventuno. I primi cinque formano il Pentateuco: Gn, Es, Lv, Nm e Dt. I seguenti si presentano secondo la cronologia degli eventi raccontati: 6) Gs 7) Gdc 8) Rt. Si mette in questa posizione perché racconta una storia ambientata all'epoca dei giudici e perché Rut è la bisnonna di Davide, di cui si parla nei libri di Samuele. 9) 1 Sam 10) 2 Sam 11) 1 Re 12) 2 Re 13) 1 Cr 14) 2 Cr 15) Esd 16) Ne 17) Tobia (Tb) 18) Giuditta (Gdt) 19) Est 20)Primo libro dei Maccabei (1 Mac) 21) Secondo libro dei Maccabei (2 Mac) Il numero dei libri poetici e sapienziali è facile da imparare: sette. La sequenza in questo caso si basa sulla cronologia dei personaggi a cui i libri vengono attribuiti: 1) Gb. Giobbe occupa il primo posto probabilmente perché il racconto si situa all'epoca dei patriarchi (o forse perché viene attribuito a Mosè). 2) Sal, tradizionalmente attribuiti al re Davide. 3) Prv, attribuiti al re Salomone. 4) Qo o Eccl, attribuito a Salomone. 5) Ct, attribuito a Salomone. 6) Sapienza (Sap), attribuito a Salomone. 7) Siracide o Ecclesiastico (Sir, Ecclo), scritto da Gesù Ben Sira verso il 180 a.C. Per evitare confusioni risulta preferibile parlare di Qoèlet e di Siracide, invece che di Ecclesiaste ed Ecclesiastico. Così faremo in ciò che segue. I libri profetici sono diciotto e si dividono in profeti “maggiori” e profeti “minori”. I maggiori sono quattro (Is, Ger, Ez e Dn), più Lamentazioni e Baruc (Bar), che seguono Geremia1. I profeti minori sono dodici, numero che ricorda le tribù di Is1.

La lettera di Geremia (EpJer, abbreviazione latina per Epistula Jeremiae) è uno scritto biblico che

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raele. L'ordine sembra essere in parte cronologico, perché il primo posto corrisponde a Osea, il più antico. Ma non è un criterio assoluto, anche perché la cronologia di questi profeti non è certa. 1) Osea (Os) 2) Gioele (Gl) 3) Amos (Am) 4) Abdia (Abd). In inglese: Obadiah. 5) Giona (Gio) 6) Michea (Mic) 7) Naum (Na) 8) Abacuc (Ab). In altre lingue con acca iniziale: Habacuc oppure Habakkuk. 9) Sofonia (Sof). In inglese: Zephaniah. 10) Aggeo (Ag) 11) Zaccaria (Zc) 12) Malachia (Ml). Per ricordare che l'ultimo dei dodici è Malachia, aiuta tener presente che egli annuncia il ritorno di Elia e quindi si trova opportunamente proprio prima dei vangeli. 5.3. I ventisette libri del Nuovo Testamento Nel NT abbiamo quattro vangeli (Mt, Mc, Lc e Gv), il libro degli Atti degli Apostoli (At), ventuno lettere e un'apocalisse (Ap). Le lettere vengono divise in due gruppi: le quattordici del corpus paulinum e le sette epistole cattoliche. Le lettere del corpus paulinum si presentano in una sequenza che non è di tipo cronologico, ma segue il criterio dell'estensione, ma non solo. In genere, si va dalle lettere più lunghe a quelle più brevi. Ebrei si mette alla fine, perché è un caso speciale, in quanto si presenta come un testo anonimo. 1) Lettera ai Romani (Rm) 2) Prima lettera ai Corinzi (1 Cor) 3) Seconda lettera ai Corinzi (2 Cor) 4) Lettera ai Galati (Gal) 5) Lettera agli Efesini (Ef) 6) Lettera ai Filippesi (Fil) 7) Lettera ai Colossesi (Col) 8) Prima lettera ai Tessalonicesi (1 Ts) dalla Vulgata in poi è stato inserito alla fine del libro di Baruc, come capitolo 6, ma che in realtà è un'opera indipendente.

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9) Seconda lettera ai Tessalonicesi (2 Ts) 10) Prima lettera a Timoteo (1 Tm) 11) Seconda lettera a Timoteo (2 Tm) 12) Lettera a Tito (Tt) 13) Lettera a Filemone (Flm) 14) Lettera agli Ebrei (Eb); in altre lingue con h iniziale: Hebrews, Hebreos. L'ordine delle epistole cattoliche è il seguente: 1) Lettera di Giacomo (Gc) 2) Prima lettera di Pietro (1 Pt) 3) Seconda lettera di Pietro (2 Pt) 4) Prima lettera di Giovanni (1 Gv) 5) Seconda lettera di Giovanni (2 Gv) 6) Terza lettera di Giovanni (3 Gv) 7) Lettera di Giuda (Gd) Come mai la lettera di Giacomo precede quelle di Pietro, il principe degli apostoli? Non sappiamo il perché di questa sequenza, ma nella lettera ai Galati san Paolo usa lo stesso ordine: Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Bàrnaba la destra in segno di comunione, perché noi andassimo tra le genti e loro tra i circoncisi (Gal 2,9).

L'elenco dei 27 libri del NT è il seguente: Mt, Mc, Lc, Gv, At, Rm, 1 C0r, 2 Cor, Gal, Ef, Fil, Col, 1 Ts, 2 Ts, 1 Tm, 2 Tm, Tt, Flm, Eb, Gc, 1 Pt, 2 Pt, 1 Gv, 2 Gv, 3 Gv, Gd e Ap. 5.4. Capitoli e versetti La divisione dei libri biblici in capitoli risale all'anno 1214. È stata opera dell'inglese Stephen Langton (ca. 1150-1228), mentre era cancelliere dell’Università di Parigi (poi divenne cardinale e arcivescovo di Canterbury). Langton fece questa numerazione, che si è diffusa rapidamente, sulla Vulgata (la Bibbia in latino). Per ricordare questa data, può aiutare sapere che uno dei primi autori che citano la Scrittura tenendo conto della divisione in capitoli è stato san Tommaso d'Aquino (1225-1274). Successivamente, vi sono stati diversi tentativi di suddividere i capitoli in unità minori. Per l'AT, si usano oggi i versetti proposti dal domenicano Sante Pagnini, nella sua edizione della Bibbia latina del 1527. Invece, la sua divisione in versetti del NT non ebbe successo. Un protestante chiamato Robert Estienne (1503-1559) — in latino,

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Stephanus — fece a Ginevra la divisione dei capitoli in versetti che poi si impose. Prima lo fece sul NT, che pubblicò nel 1551. Poi, nel 1553 pubblicò una Bibbia completa in francese, con la numerazione di tutti i versetti (prendendo per l'AT la numerazione di Pagnini). Questa divisione del testo si è imposta universalmente. Possiamo riportare in proposito l'opinione, pienamente condivisibile, del Perrella: Tale divisione in capitoli e versetti (…) ha le sue gravi imperfezioni, come quella di tagliare qualche volta un po' meccanicamente senza tener conto dello sviluppo delle idee o del racconto; tuttavia cambiare sarebbe un rimedio peggiore del male per il grande sconvolgimento che porterebbe1.

Sul modo di citare, forse non è superfluo spiegare che, in italiano, si usa la virgola per separare il capitolo dal versetto (Dt 1,1; Gv 3,16), mentre in altre lingue, come l'inglese, si usano i due punti (Deut 1:1; John 3:16). Il trattino significa «dal versetto x al versetto y» (Dt 1,1-5) mentre il punto dopo un versetto significa «il versetto x e poi quello y» (se dico Dt 1,1.5 escludo i vv. 2-4).

6. Le lingue dei libri biblici 6.1. Introduzione La Bibbia è stata scritta in tre lingue: ebraico, aramaico e greco. Questo dato di fatto mette in rilievo la grande diversità esistente fra i libri biblici, scritti non solo in epoche e luoghi diversi, ma anche in lingue differenti. Tale diversità linguistica non è priva di conseguenze. Il trilinguismo delle Scritture cristiane impedisce la tentazione di canonizzare una lingua, nel senso forte in cui in molte culture o religioni antiche si attribuisce la propria lingua a Dio. Per i cristiani non è mai esistita e non può esistere una “lingua sacra” in questo senso2. Talvolta si parla di “lingua sacra” in riferimento alla lingua impiegata dalla liturgia. Anche in questo caso non c'è mai stata una sola lingua nella Chiesa: mentre in Occidente la liturgia era in latino, in altri riti si utilizzavano — e si utilizzano ancora — altre lingue, come il greco, il siriaco o il copto.

1. 2.

G. M. Perrella, Prelezioni bibliche: introduzione generale alla Sacra Bibbia, Marietti, Torino 31963, 239 (n. 242). Cf. G. G. Stroumsa, «The Christian Hermeneutical Revolution and its Double Helix» in L. V. Rutgers (ed.), The Use of Sacred Books in the Ancient World, Peeters, Leuven 1998, 9-28, 21-24.

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In quanto mezzi per comunicare la parola di Dio, tutte le lingue umane possono diventare “sacre”. La Bibbia è di fatto il libro più tradotto al mondo. Allo stesso tempo, però, è importante conoscere e studiare le lingue originali per comprendere con precisione e profondità il significato dei libri. Trascurare questo sforzo sarebbe un segnale di poco rispetto verso la Scrittura. È vero che non è possibile che tutti i cristiani siano in grado di leggere la Bibbia nelle lingue originali. Ma sarebbe un grosso errore pensare che allora non è necessario a nessuno conoscerle, perché bastano le traduzioni. Con parole chiare e autorevoli, si è espresso in questo senso Pio XII nell'enciclica Divino Afflante Spiritu (1943): Si ha poi adesso tanta abbondanza di mezzi per imparare quelle lingue, che un interprete della Bibbia, il quale col trascurarle si precluda da sé la via di giungere ai testi originali, non può sfuggire alla taccia di leggerezza e di ignavia (EB 547).

Non è questo il momento di studiare l'ebraico o il greco. In ciò che segue, ci limiteremo a segnalarne alcune caratteristiche e faremo menzione della lingua originale di ogni libro. 6.2. Antico Testamento 6.2.1. L'ebraico e l'aramaico I ventiquattro libri della BH sono in ebraico, tranne alcuni capitoli di Daniele (Dn 2,4-7,28) e di Esdra (Esd 4,8-6,18 e 7,12-26), che sono in aramaico. C'è anche una frase in aramaico in Ger 10,11 e due parole aramaiche in Gn 31,47. Esistono poi delle anomalie con le versioni greche di Daniele e di Ester, di cui parleremo dopo (p. 44). L'ebraico appartiene al gruppo delle lingue semitiche, come l'ugaritico, il fenicio, l'aramaico, l'accadico e l'arabo. L'alfabeto ebraico ha ventidue lettere, tutte consonanti. Le vocali, almeno in origine, non si scrivevano. Come tratti rilevanti dell'ebraico, si possono segnalare: • la preferenza della paratassi di fronte all'ipotassi, cioè l'organizzazione delle frasi più per coordinazione che per subordinazione; • l'uso del parallelismo, tratto fondamentale dello stile ebraico nella poesia. Esso consiste nell'esprimere due volte una idea, sia con espressioni equivalenti (parallelismo sinonimico), sia con espressioni contrarie (parallelismo antonimico). Ecco un esempio di un testo che combina entrambi i tipi di parallelismo: Perciò non si alzeranno i malvagi nel giudizio né i peccatori nell'assemblea dei giusti,

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poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti, mentre la via dei malvagi va in rovina (Sal 1,5-6).

• la grande povertà di aggettivi, che si risolve con l'uso di sostantivi. Per esempio, per indicare un re clemente si dice “re di clemenza”. Alcuni sostantivi diventano semplice base per una costruzione aggettivale, come capita con “figlio” (‫בּן‬,ֵ ben). Così un “figlio d'Israele” è un israelita, “figlio di vent'anni” vuol dire “ventenne”, mentre “figlio di morte” (1 Sam 20,31; 26,16; 2 Sam 12,5) indica una persona che merita la morte. Anche l'espressione “figlio dell’uomo”, a noi tanto familiare per l’uso che ne ha fatto Gesù, da se non indica altro che un essere umano, come si vede da questo parallelismo sinonimico: Che cosa è mai l'uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell'uomo, perché te ne curi? (Sal 8,5).

• non esistono i gradi comparativo e superlativo degli aggettivi. Ci sono diversi modi di esprimere il superlativo, fra i quali si può ricordare la ripetizione del sostantivo come complemento del nome: per esempio, il “cantico dei cantici” è il cantico per antonomasia, l'espressione “santo dei santi” serve ad indicare il luogo più santo, mentre il “re dei re” è il re supremo e la “vanità delle vanità” designa la somma vanità. • per quanto riguarda l'uso delle preposizioni, è interessante sapere che una di esse, ‫( ְבּ‬be), che di solito si traduce come “in”, ha un valore più ampio. Per esempio, la versione della CEI traduce l'ebraico be in Sal 2,9 mediante un “con”: “Le spezzerai con scettro di ferro”, mentre la Vulgata latina (Vg) lo rende come in virga ferrea confringes eos. 6.2.2. I libri scritti in greco e quelli conservati soltanto in greco I sette libri dell'AT che non appartengono alla Bibbia ebraica (Tb, Gdt, 1-2 Mac, Sap, Sir, Bar) presentano una situazione più diversificata per quanto riguarda le lingue in cui sono stati scritti e conservati. Questi sette libri si conservano in greco, ma soltanto in due casi — Sapienza e 2 Maccabei — siamo certi che sono stati scritti in questa lingua. Il caso più interessante è quello del Siracide. Nel prologo, si afferma che il libro è stato scritto in ebraico. Ma per molto tempo il testo del Siracide era conosciuto soltanto nella versione greca; l'originale ebraico era andato perduto. Tuttavia, nel 1896 sono stati identificati alcuni manoscritti che contenevano il Siracide in ebraico, procedenti dalla Genizah (magazzino) dell'antica sinagoga del Cairo (Egitto). Più tardi, a Qumran e a Masada apparvero altri manoscritti con frammenti del Siracide in ebrai-

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co, che confermarono il valore dei testi provenienti dal Cairo. In totale, oggi abbiamo circa due terzi del Siracide in ebraico1. In www.bensira.org sono disponibili immagini dei manoscritti ebraici del Siracide con traduzione in inglese. Il testo greco che abbiamo di 1 Maccabei è una traduzione fatta a partire da un originale ebraico, che poi è andato perduto. San Girolamo (IV-V secolo) dice che di aver visto 1 Maccabei in ebraico2. Qualcosa di simile si pensa di Baruc (con la lettera di Geremia) e di Giuditta3. Finora non è stato trovato nessun frammento di 1 Maccabei, Giuditta o Baruc in ebraico o aramaico. Il libro di Tobia si trovava nella stessa categoria fino alle scoperte di Qumran: l'originale è senza dubbio semitico, ma si era conservato soltanto in greco. Oggi lo possiamo distinguere dagli altri casi, perché fra i manoscritti trovati a Qumran ne sono apparsi quattro che contenevano Tobia in aramaico e uno con Tobia in ebraico4. 6.2.3. Due casi speciali: Daniele ed Ester Infine, dobbiamo dire una parola sulle versioni greche di Daniele e di Ester, che presentano alcune anomalie. Il libro di Daniele così come viene letto oggi nella Chiesa segue la versione greca, che è più lunga rispetto al testo ebraico-aramaico della BH. Soltanto nel testo greco esiste la preghiera di Azaria seguita dal cantico dei tre giovani nella fornace (Dn 3,24-90). Inoltre la Bibbia greca include alcuni racconti che hanno Daniele come protagonista e che sono stati aggiunti al libro come appendici: la storia di Susanna (Dn 13) e le storie di Bel (Dn 14,1-22) e del serpente (Dn 14,23-42). In genere si ritiene che

1. 2. 3.

4.

Per questi dati, cf. M. Gilbert, «Methodological and Hermeneutical Trends in Modern Exegesis on the Book of Ben Sira» in A. Passaro - G. Bellia (eds.), The Wisdom of Ben Sira: Studies on Tradition, Redaction, and Theology, de Gruyter, Berlin 2008, 1-17. “Machabaeorum primum librum hebraicum repperi”. Vedi il testo completo a p. 178. Nel caso di Giuditta, alcuni autori ritengono probabile, con buone ragioni, che il libro sia stato scritto direttamente in un greco “ebraizzante”, come se fosse una traduzione. Cf. J. Corley, «Septuagintalisms, Semitic Interference, and the Original Language of the Book of Judith» in J. Corley - V. Skemp (eds.), Studies in the Greek Bible: Essays in Honor of Francis T. Gignac, S.J, Catholic Biblical Association of America, Washington (DC) 2008, 65-96; J. Joosten, «The Original Language and Historical Milieu of the Book of Judith», Meghillot 5-6 (2008) *159-*176. Sembra che la lingua originale sia l’aramaico. Cf. G. Toloni, L'originale del Libro di Tobia: studio filologico-linguistico, CSIC, Instituto de Filología, Departamento de Filología Bíblica y de Oriente Antiguo, Madrid 2004.

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questi testi siano traduzioni in greco di un originale semitico, che è andato perduto. La causa della loro assenza nel testo ebraico-aramaico non si conosce. La situazione del libro di Ester è più complessa. Le cosiddette “aggiunte” greche di Ester in realtà non sono tali: la versione greca di Ester è diversa dal testo ebraico in molti punti, non solo nell'aggiungere alcuni brani. Per esempio, nel testo ebraico di Ester, Dio non viene mai menzionato, mentre una delle caratteristiche della versione greca sono le preghiere dei principali personaggi, Mardocheo ed Ester. Queste differenze hanno portato a che nella Bibbia della CEI (2008) vengano presentate in parallelo due traduzioni di Ester in italiano, una tradotta a partire dall'ebraico e l'altra a partire dal greco. In effetti, le differenze sono talmente significative che si può parlare di due storie e dunque di due opere letterarie diverse. Per aiutare a percepire la differenza, possiamo citare l'inizio di entrambi i libri: Al tempo di Assuero, di quell'Assuero che regnava dall'India fino all'Etiopia sopra centoventisette province, in quel tempo, dunque, il re Assuero, che sedeva sul trono del suo regno nella cittadella di Susa, l'anno terzo del suo regno fece un banchetto a tutti i suoi prìncipi e ai suoi ministri (Est ebraico 1,1-3). Nel secondo anno di regno del grande re Artaserse, il giorno primo di Nisan, Mardocheo, figlio di Giàiro, figlio di Simei, figlio di Kis, della tribù di Beniamino, ebbe in sogno una visione (Est greco 1,1a).

Nella Vulgata, san Girolamo ha complicato le cose ancora di più, perché ha tradotto in latino il testo ebraico di Ester e poi ha messo alla fine del libro, dopo Est 10,3 (Est 10,4-16,24) tutte le parti di Ester greco assenti dal testo ebraico. La maggior parte delle Bibbie moderne inserisce queste parti nel luogo che avevano nel testo greco, distribuite all'interno del libro (così la NVg, la BibJer, le precedenti edizioni della Bibbia CEI, ecc.), distinguendo i versetti con delle lettere, per non cambiare la numerazione abituale. Così, risulta una mescolanza fra la storia del testo ebraico con elementi presi dalla storia del testo greco, con alcune incoerenze1. Per questo motivo appare più giusta la decisione presa dall'ultima edizione della Bibbia della CEI.

1.

“It is a serious mistake to read the Additions out of context, i.e., either after reading the canonical portion (as in the Vulgate) or without any canonical text at all (as in most ‘Protestant’ Bibles, e.g. KJ, RSV, NEB, et alia)”, C. A. Moore, Daniel, Esther and Jeremiah: The Additions: A New Translation with Introduction and Commentary, Doubleday, Garden City 1977. Cf. D. Candido, I testi del libro di Ester: il caso dell'Introitus: TM 1,1-22 - LXX A1-17; 1,1-22-Tα A1-18; 1,1-21, Pontificio Istituto Biblico, Roma 2005, 349.

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6.3. Nuovo Testamento Nel caso del NT, alla domanda sulla lingua originale si può rispondere in modo assai semplice: tutti i ventisette libri si conservano in greco e sono stati scritti originariamente in greco. L'unica possibile eccezione in realtà non è tale. Secondo la testimonianza di Papia di Gerapoli (s. II d.C.), citata da Eusebio di Cesarea (HE 3.39.16), il vangelo di Matteo sarebbe stato scritto prima “nella lingua degli ebrei” e poi tradotto in greco: Riguardo poi a Matteo, è detto [da Papia] quanto segue: «Matteo dunque ha composto una raccolta degli oracoli in lingua ebraica, e ciascuno li ha interpretati secondo le sue capacità»1

Tuttavia, non abbiamo nessun frammento di Matteo né in ebraico né in aramaico. Inoltre, il testo greco di Matteo non ha tracce di essere una traduzione, benché contenga dei semitismi. Dunque, oggi si pensa che non sia mai esistito un Matteo in una lingua semitica. Papia forse si riferiva a una collezione di sentenze di Gesù, che l'evangelista ha impiegato come fonte per redigere la sua opera. * Che tutti i libri del NT, specialmente i vangeli, siano stati scritti in greco è sorprendente, se si tiene conto della loro origine. Infatti, Gesù forse sapeva parlare l'ebraico ed il greco, ma la sua lingua madre era l'aramaico, come si vede da alcune parole conservate dai vangeli in questa lingua: Talità kum (Mc 5,41), Effatà (Mc 7,34), Simone Bar-Iona (Mt 16,17), Mammona, “ricchezze” (Mt 6,24; Lc 16,9.11.13), Abbà (Mc 14,36; cf. Rm 8,15; Ga 4,6), Eloì, Eloì, lemà sabactàni (Mc 15,34; cf. Mt 27,46). Anche per quanto riguarda gli apostoli e i primi discepoli de Gesù, la loro lingua madre era molto probabilmente l'aramaico, tranne Paolo di Tarso, ebreo nato nella diaspora di lingua greca. Eppure oggi non abbiamo nessun documento con parole di Gesù o degli apostoli in aramaico o in ebraico. Qualsiasi tentativo di risalire ad un cristianesimo originario e “puro”, libero da contaminazioni ellenistiche e da ogni influsso “straniero”, deve affrontare questa difficoltà, veramente insormontabile. La scelta di scrivere in greco da parte degli autori del NT manifesta non solo la grande diffusione di questa lingua nel mondo dell'epoca, ma anche lo spirito univer-

1.

Traduzione presa da E. Norelli, Papia di Hierapolis: Esposizione degli oracoli del Signore: i frammenti, Paoline editoriale libri, Milano 2005, frammento 5.

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sale e missionario dei primi discepoli di Gesù, nonché la loro apertura verso la cultura greca e romana, senza negare la fedeltà alle loro origini e alla loro identità. Il Nuovo Testamento, scritto in greco, è segnato tutto quanto da un dinamismo di inculturazione, perché traspone nella cultura giudaico-ellenistica il messaggio palestinese di Gesù, manifestando con ciò una chiara volontà di superare i limiti di un ambiente culturale unico1.

* La lingua del NT è il greco detto koinè (da κοινὴ διάλεκτος, “lingua comune”), un po' diverso dal greco “classico”, quello di Sofocle e Platone, per capirci. Una delle caratteristiche generali del greco del NT è che contiene molti semitismi, cioè parole ed espressioni che provengono dalle lingue semitiche: l'ebraico e l'aramaico. Per esempio, Gesù conclude la parabola delle nozze del figlio del re dicendo: “molti sono chiamati, ma pochi eletti” (Mt 22,14). La frase si comprende meglio alla luce della sintassi semitica, nella quale il confronto fra “molti” e “pochi” è un modo per esprimere una comparazione fra tutti e non tutti. Gesù vuol dire che non tutti i chiamati saranno eletti, senza specificare se la differenza in numero è grande o meno. Il messaggio è che la chiamata iniziale non garantisce la salvezza finale2. Ecco altre espressioni del NT che costituiscono esempi di semitismi: • giri linguistici come “egli rispose dicendo” o “e avvenne che”, frequenti nei vangeli. • La creazione di termini nuovi, come ἀντίχριστος, “anticristo” (1 Gv 2,18.22; 4,3; 2 Gv 1,7). • L'uso della preposizione ἐν con valore strumentale, per influsso della preposizione ebraica ‫( ְבּ‬be). Per esempio, in Mt 3,11, Giovanni Battista dichiara: Ἐγὼ μὲν ὑμᾶς βαπτίζω ἐν ὕδατι, cioè “io vi battezzo in acqua”, nel senso di “con acqua”. In Eb 1,1-2 si dice che Dio parlò ai padri “nei profeti” e che adesso ha parlato “nel Figlio”, cioè “per mezzo dei profeti” e “per mezzo del Figlio”. • L'uso di parole con un senso diverso da quello greco abituale. Per esempio, il termine hodos (ὁδός), che vuol dire “cammino”, si impiega col senso di “modo di vivere” oppure “dottrina” (cf. At 18,25; 19,23; 22,4; 24,14.22; Gc 1,8; 2 Pt 2,2.15.21; Gd 11). La parola doxa (δόξα), “apparenza” o “opinione”, viene usata per parlare della “gloria”; la parola sarx (σάρξ) che vuol dire “carne” si usa nel 1. 2.

Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa (15 aprile 1993), EB 1524. Cf. B. F. Meyer, «Many (=all) are called, but few (=not all) are chosen», New Testament Studies 36 (1990) 89-97.

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senso del termine ebraico bashar (‫)בּ ָשׂר‬, ָ cioè “uomo”. Così, l'espressione “ogni carne” vuol dire “l'intera umanità” (Mt 24,22; Mc 13,20; Lc 3,6; Gv 17,2; At 2,17; Rm 3,20; 1 Cor 1,29; 15,39; Gal 2,16; 1 Pt 1,24); un'espressione simile è “la carne e il sangue” (Mt 16,17; 1 Cor 15,50; Gal 1,16; Ef 6,12). Pur condividendo il greco koinè, ogni autore ha il suo proprio stile. Il greco più elegante del NT si trova senz'altro nel prologo di Luca (Lc 1,1-4), mentre all'estremo opposto possiamo collocare il greco dell’Apocalisse, un po' strano e che presenta addirittura frequenti errori di sintassi. Per saperne di più sulle lingue della Bibbia, si consigliano i primi due paragrafi del capitolo 6 di Mannucci-Mazzinghi1.

1.

Si può vedere anche la presentazione di J. Trebolle in L. Alonso Schökel et al., La Bibbia nel suo contesto, Paideia, Brescia 1994, 376-383.

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(…) rigenerati non da un seme corruttibile ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna. Perché “ogni carne è come l'erba e tutta la sua gloria come un fiore di campo. L'erba inaridisce, i fiori cadono, ma la parola del Signore rimane in eterno”. E questa è la parola del Vangelo che vi è stato annunciato. (1 Pt 1,23-25, la citazione procede da Is 40,6-8).

Bibliografia consigliata per la parte I, nn. 1-3 V. BᴀᴌᴀGᴜᴇR, La economía de la Palabra de Dios. A los 40 años de la Constitución Dogmática Dei Verbum, «Scripta Theologica» 37 (2005) 407-439, specialmente 407-424. C. JÓᴅᴀR ESᴛRᴇᴌᴌᴀ, «Il Dio che parla» in M. Á. TÁBᴇᴛ - G. Dᴇ VIRGIᴌIᴏ (a cura di), Sinfonia della Parola: Commento teologico all'Esortazione apostolica post-sinodale “Verbum Domini” di Benedetto XVI, Rogate, Roma 2011, 35-48. R. LᴀᴛᴏᴜRᴇᴌᴌᴇ, Teologia della Rivelazione, Cittadella, Assisi 91991, 315-358 (capitolo che commenta la Dei Verbum). Originale francese. Esistono traduzioni in inglese e in spagnolo. La prima edizione francese (1963) non serve, perché anteriore al Vaticano II. V. MᴀNNᴜᴄᴄI - L. MᴀᴢᴢINGHI, Bibbia come Parola di Dio: Introduzione generale alla sacra Scrittura, Queriniana, Brescia 212016, capitoli 2 e 3. In che senso crede la Chiesa che la Bibbia è parola di Dio? Questa domanda orienterà lo studio nella prima parte del corso, divisa in cinque sezioni: 1) La parola nella Rivelazione e nella comunicazione (DV1-2) 2) La parola di Dio nella storia (DV3-4) 3) La trasmissione della parola di Dio (DV7-10) 4) Gesù e le Scritture di Israele. 5) Rivelazione e ispirazione.

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Oggi nessun cattolico si trova in difficoltà ad affermare che la Bibbia è parola di Dio, probabilmente sotto l'influsso della liturgia, poiché alla fine di ogni lettura si proclama “parola di Dio” oppure “parola del Signore”. Ma non sempre è stato così. Nella liturgia della messa anteriore alla riforma del Vaticano II — oggi chiamata “forma straordinaria del rito romano” —, dopo le letture il sacerdote non diceva niente. Più significativo ancora è il fatto che, nelle discussioni per redigere la costituzione Dei Filius nel Concilio Vaticano I, sia stata tolta dallo schema una frase che diceva che i libri sacri “contengono veramente e propriamente la Parola di Dio scritta” (continent vere et propie Verbum Dei scriptum). Il problema si concentrava sugli avverbi, soprattutto proprie, che sembrava eccessivo ed equivoco. Infatti, la Dei Filius dice altrove che si deve credere tutto quanto si contiene in verbo Dei scripto vel tradito. Dunque, il Vaticano I non rifiutava di per sé l'applicazione dell'espressione “parola di Dio” alla Bibbia, ma allo stesso tempo non ha voluto abusarne1.

7. La parola di Dio nella storia In un primo approccio, rivelare vuol dire “far conoscere una cosa segreta o che prima non era ben conosciuta; svelare, confidare” (definizione del dizionario Garzanti). Rivelare consiste quindi in comunicare un contenuto a qualcuno che non lo conosce da parte di uno che lo conosce. Quando si parla della rivelazione di Dio agli uomini, un presupposto necessario è che Dio si rivolga all'uomo con un linguaggio che questi sia in grado di capire, cioè con un linguaggio umano e quindi non divino. Per questo motivo risulta lecito applicare alla rivelazione divina i principi generali della comunicazione umana e del linguaggio umano. Non possiamo studiare qui in profondità né la filosofia del linguaggio né la teoria della comunicazione. Dovremo però spiegarne alcuni concetti man mano che si va avanti col programma. Per il momento basta ricordare lo schema di base presente in ogni atto di comunicazione: mittente → ᴍᴇSSᴀGGIᴏ → ricevente o destinatario Nel caso della rivelazione divina, il mittente è Dio stesso; il messaggio, le sue parole; mentre il destinatario è Israele, la Chiesa e, attraverso la Chiesa, tutta l'umanità. Tuttavia, questa descrizione, pur essendo vera, risulta troppo semplice, perché Dio 1.

Cf. A. M. Artola, «La Biblia como Palabra de Dios en el Vaticano I y en el Vaticano II», Alpha Omega 7 (2004) 3-16, 5-8.

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non ci parla direttamente, né ci comunica unicamente parole. Più avanti dovremo precisare questo schema. Dio parla agli uomini. Questa concezione, fondamentale per la teologia ebraico-cristiana, non è affatto banale, anche se purtroppo l'abitudine linguistica rischia di offuscarne la rilevanza noetica. Essa costituisce, in primo luogo, una diretta contrapposizione alle rappresentazioni teriomorfe del paganesimo (del Vicino Oriente Antico, in particolare), le quali, per qualificare la divinità, adottavano la figura dell'animale, un segno indubbio di forza e vitalità, ma al tempo stesso realtà terrificante e violenta perché priva di parola. D'altro canto, l'idea del Dio che parla, proprio della prospettiva biblica, contrasta pure con la concezione greca del Dio quale Motore immobile o Principio pensante, realtà auto-sufficiente e auto-referente, totalmente contrastante dunque con il Dio biblico che si definisce essenzialmente come Essere di relazione, come Dio dell'alleanza1.

7.1. Perché studiare la Dei Verbum? Il testo di riferimento per l'esposizione che segue sarà la Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum del Concilio Vaticano II, pubblicata il 18 novembre 1965 dopo un lungo e complesso iter redazionale2. Nei primi decenni dopo il Concilio, sembrava scontato che l'IGSS doveva prendere le mosse dalle indicazioni del Vaticano II. Tutti i manuali posteriori al 1965 cominciano con una sintesi delle affermazioni della Dei Verbum. Tuttavia, trascorso più di mezzo secolo e ormai spenta l'euforia postconciliare, conviene spiegare perché continua ad essere conveniente prendere la Dei Verbum come punto di partenza per studiare la sacra Scrittura. Cioè, occorre chiedersi perché basarsi su questo testo e non, per esempio, su ciò che dice la Bibbia stessa o sulle riflessioni dei Padri della Chiesa al riguardo. Non abbiamo scelto la Dei Verbum come testo guida solo perché è un documento recente — ne esistono altri posteriori, come l'Esortazione Apostolica Postsinodale Verbum Domini del 2010 — né solo perché ha autorità magisteriale — ve ne sono tanti altri con un’autorità simile —, ma soprattutto perché una lettura attenta della Dei Verbum risparmia molto tempo. Infatti, se dovessimo cercare elementi per spiegare i 1.

2.

P. Basta - P. Bovati, 'Ci ha parlato per mezzo dei profeti': ermeneutica biblica, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2012, 36-37. “Concezione greca” della divinità: sarebbe più preciso dire “concezione aristotelica”. La maggioranza dei greci, da Omero in poi, aveva un’immagine antropomorfica degli dèi. Sulla storia della redazione del documento, cf. V. Balaguer, «La Constitución dogmática Dei Verbum», Annuarium Historiae Conciliorum 43 (2011) 271-310, 271-278.

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rapporti fra la Scrittura e la rivelazione nella Bibbia stessa, nei Padri, nella teologia, eccetera, risulterebbe un percorso difficile e troppo lungo per queste lezioni. Invece la Dei Verbum ha il merito di aver sintetizzato circa duemila anni di riflessione teologica in una presentazione comprensibile, autorevole e — secondo molti autori — veramente geniale. Infatti, contrariamente a quanto accadeva ai tempi del Concilio Vaticano I, il Vaticano II non doveva preoccuparsi troppo di fare apologetica, e quindi ha potuto presentare i contenuti della fede “per se stessi”, o, più precisamente, secondo l'auto-comprensione della Chiesa1. Cioè, nella Dei Verbum si cerca di spiegare la rivelazione non come risposta al razionalismo, ma assumendo, per così dire, il “punto di vista di Dio”. Inoltre, nel Vaticano II si è fatto tesoro dei grandi passi avanti compiuti dalla teologia nella prima metà del XX secolo. Per questo motivo, come vedremo, nella Dei Verbum la rivelazione — e la Bibbia — è molto di più che una raccolta di verità. Si presenta la rivelazione come avvenimento: Dio viene incontro agli uomini. 7.2. Tema e struttura di Dei Verbum La Dei Verbum parla della Bibbia, ma non è questo l'argomento principale. La costituzione infatti tratta della Scrittura all'interno di un’esposizione sulla rivelazione e la sua trasmissione, come appare chiaro sia dal titolo del documento — “Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione” — che dalle belle parole del proemio (DV1): In religioso ascolto della parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia, il santo Concilio fa sue queste parole di san Giovanni: «Annunziamo a voi la vita eterna, che era presso il Padre e si manifestò a noi: vi annunziamo ciò che abbiamo veduto e udito, affinché anche voi siate in comunione con noi, e la nostra comunione sia col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (1 Gv 1,2-3). Perciò seguendo le orme dei Concili Tridentino e Vaticano I, intende proporre la genuina dottrina sulla divina Rivelazione e la sua trasmissione, affinché per l'annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami (cf. S. Agostino, De catechizandis rudibus. 4,8: PL 40, 316).

Un primo approccio al contenuto della Dei Verbum si ottiene se si fa attenzione alla sua struttura. Dopo il proemio appena citato (n. 1), la costituzione è divisa in sei capitoli: 1) De ipsa revelatione (nn. 2-6);

1.

Cf. D. M. Farkasfalvy, Inspiration & Interpretation: A Theological Introduction to Sacred Scripture, Catholic University of America Press, Washington 2010, 177.

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2) 3) 4) 5) 6)

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De divinae revelationis transmissione (nn. 7-10); De sacrae scripturae divina inspiratione et de eius interpretatione (nn. 11-13); De vetere testamento (nn. 14-16); De novo testamento (nn. 17-20); e finalmente De sacra scriptura in vita ecclesiae (nn. 21-26).

I titoli dei capitoli fanno vedere che si dedica un'estensione maggiore alla sacra Scrittura (capitoli 3-6) che alla rivelazione (capitoli 1 e 2). Ma va notato anche che la Scrittura resta sempre dentro la rivelazione. Infatti, l'espressione “parola di Dio”, che dà nome alla costituzione, conviene primariamente alla rivelazione, ma si può applicare anche, come vedremo, alla Bibbia. Dobbiamo dunque identificare sacra Scrittura e rivelazione? Se cerchiamo una definizione della Bibbia nella Dei Verbum, non la troveremo direttamente. Ma ricaveremo come idea centrale che la Bibbia va capita nella cornice della rivelazione divina e della sua trasmissione. Uno dei principali pregi di questo documento, inoltre, sta nel non limitarsi ad affermare questo principio, ma nel fornire un quadro concettuale per comprenderlo senza semplificazioni né riduzionismi. 7.3. La rivelazione e la sua economia (DV2) Ecco il testo di DV2, diviso in due paragrafi, a) e b), per facilitarne il commento: a) Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cfr. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cfr. Ef 2,18; 2 Pt 1,4). Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile (cfr. Col 1,15; 1 Tm 1,17) nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (cfr. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. b) Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione (cfr. Mt 11,27; Gv 1,14.17; 14,6; 17,1-3; 2 Cor 3,16; 4,6; Ef 1,3-14).

In primo luogo, va notata una significativa omissione: DV2 espone cos'è la rivelazione senza fare alcun riferimento alla sua messa per iscritto. Ci sono riferimenti bi-

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blici, ma la Scrittura come tale apparirà solamente nel capitolo 2, dove si parla della trasmissione della rivelazione. Sinteticamente, DV2 presenta: a) gli elementi essenziali della rivelazione divina (già descritta, in nuce, tramite la bella citazione della 1 Giovanni nel proemio). La sua origine è la bontà e la sapienza di Dio; il suo contenuto non è altro che Dio stesso e il suo disegno salvifico in Cristo; i suoi destinatari sono gli uomini in genere; la sua finalità consiste nella comunione di vita con Dio; e finalmente la sua modalità: Dio parla agli uomini come ad amici1. b) il piano divino della rivelazione. La rivelazione non è caotica, frammentata o dispersa, ma segue un piano strutturato (oeconomia) che si realizza: 1. “nella storia della salvezza”, identificandosi con essa, 2. tramite eventi e parole “intimamente connessi” fra loro, 3. e culmina in Cristo, suo “mediatore e pienezza”. Parleremo più avanti del ruolo di Gesù Cristo, a proposito di DV3-4. Adesso invece dobbiamo commentare brevemente la strutturazione della rivelazione in opere e parole ed il suo carattere storico. 7.3.1. Opere e parole La rivelazione non consta solo di parole, ma anche di azioni. Affermare che la rivelazione è un piano costituito da opere e parole forse può sembrare qualcosa di ovvio. Ma in alcuni manuali anteriori al Vaticano II si distingueva fra la rivelazione naturale e quella soprannaturale dicendo che la prima consisteva in fatti e l'altra in parole: “Revelatio naturalis fit per facta, revelatio supernaturalis per verba”2. Per parlare delle opere, il testo latino usa due termini: gesta e opera. Non si tratta dunque di semplici fatti (si direbbe appunto facta), ma di azioni, cioè di opere realizzate da qualcuno, concretamente da Dio, soggetto della rivelazione.

1.

2.

La novità e il valore di questi elementi appaiono più chiaramente quando si mettono in paragone con le affermazioni sulla rivelazione della Dei Filius del Vaticano I. Cf. S. Lyonnet, «La nozione di rivelazione (Cap. 1 della «Dei Verbum»)» in S. Lyonnet (ed.), La Bibbia nella Chiesa dopo la "Dei Verbum": studi sulla costituzione conciliare, Edizioni Paoline, Roma 1969, 9-49; V. Mannucci - L. Mazzinghi, Bibbia come Parola di Dio: Introduzione generale alla sacra Scrittura, Queriniana, Brescia 212016, 39-44 (capitolo 2, prima sezione). C. Pesch, Institutiones propaedeuticae ad sacram theologiam: de Christo legato divino, de Ecclesia Christi, de locis theologicis, Herder, Freiburg im Breisgau 1924, 113, paragr. 151.

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• Le opere manifestano la dottrina e le realtà significate dalle parole. Il valore rivelatore delle opere va capito nel senso in cui si afferma che “un'immagine vale più di mille parole”. Per esempio, gli attributi del Dio della Bibbia non si comprendono semplicemente attraverso formule verbali. Il salmo 136 invita a lodare il Signore “perché la sua misericordia è per sempre”, frase che si ripete per ben ventisei volte. Ma la misericordia divina si manifesta più attraverso un'azione, come il perdono, che con parole. Infatti, lo stesso salmo fonda l'invito alla lode sulle opere di salvezza compiute dal Signore. Le parole rimarrebbero vuote senza la rivelazione mediante le opere. La morte di Gesù parla con più eloquenza dell'amore verso il prossimo che la parabola del buon samaritano (ma la parabola aiuta a comprendere il senso del sacrificio di Cristo). • Le opere confermano la dottrina e le realtà significate dalle parole. In questo contesto le opere si riferiscono soprattutto — ma non solo — ai miracoli e alle opere straordinarie di Dio, che non sono delle semplici manifestazioni di potenza, ma hanno sempre un carattere di segno. I miracoli non si limitano a confermare una dottrina, ma partecipano pure del valore rivelatore delle opere in genere e richiedono una risposta da parte dei destinatari. Gesù chiede fede nella sua persona a partire dalle opere che compie (cf. Gv 10,38; 12,36). • Le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto. Questa frase ci offre l'occasione per parlare delle funzioni comunicative del linguaggio. In un famoso studio, il linguista e psicologo tedesco Karl Bühler (1879-1963) si chiedeva come capire il linguaggio. Egli sceglie di presentarlo innanzitutto come mezzo di comunicazione: il linguaggio è uno strumento (organum) per comunicare l'uno all'altro qualcosa sulla realtà1. Secondo Bühler, si possono distinguere tre funzioni del linguaggio come mezzo di comunicazione: espressiva, rappresentativa e appellativa. Tutte e tre sono presenti in ogni atto di comunicazione linguistica, benché in diversi gradi. Per esempio, se dico “fumare è vietato” davanti a una persona che sta accendendo una sigaretta, certamente le trasmetto un'informazione (funzione rappresentativa), ma le chiedo anche

1.

“Penso che Platone abbia avuto una felice intuizione allorché nel Cratilo sostiene che il linguaggio è uno strumento con cui due interlocutori comunicano fra loro sulle cose. Non c'è dubbio che tali comunicazioni avvengano, e il vantaggio di prender le mosse da esse risiede nel fatto che tutti o la maggior parte degli altri casi sono derivabili per riduzione da questo caso principale”, K. Bühler, Teoria del linguaggio: la funzione rappresentativa del linguaggio, A. Armando, Roma 1983, 77.

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di cambiare condotta (funzione appellativa) e manifesto forse il mio rifiuto verso il tabacco (funzione espressiva)1. Il testo di DV2 si riferisce a due delle tre funzioni appena descritte. Infatti, che le parole proclamino le opere sembra corrispondere alla funzione appellativa o interpellante della parola della rivelazione. Questa funzione, palese nei comandamenti, nelle chiamate, nelle missioni, è molto presente negli scritti biblici. Poi, che le parole illustrino il mistero corrisponde alla funzione rappresentativa della comunicazione linguistica. Della funzione espressiva del linguaggio non si fa menzione, ma non è un'omissione significativa, poiché i Padri conciliari non intendevano fare un discorso esaustivo né tantomeno seguire lo schema di Bühler. Ecco uno schema di DV2b: Oeconomia revelationis

manifestent verba corroborent verba proclament gesta verba elucident gesta gesta

Per concludere, possiamo aggiungere un’osservazione sulla funzione rappresentativa del linguaggio biblico. Per se stessi, i fatti sono ambigui. Anche le opere della rivelazione hanno una certa ambiguità, benché non siano mai totalmente prive di determinazione, se si parte dall'idea che è Dio che le compie. Per esempio, l'esodo dall'Egitto e il passaggio del mare sono opere di salvezza, ma perfino le opere più eclatanti, se non vengono accompagnate da parole che le spieghino, possono essere interpretate in altri modi. Infatti alcuni israeliti penseranno che Dio li ha fatto uscire dal paese di Egitto per farli morire di fame o di sete nel deserto (cf. Es 16,3; 17,3; Nm 14,1-4). Possiamo prendere dal vangelo un altro esempio del significato inerente alle opere. Nelle opere di Gesù c'è una cristologia implicita, indipendente in certa misura dalle sue parole. Nicodèmo glielo dice: Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui (Gv 3,2).

Dire che Gesù viene da Dio non basta per conoscere pienamente la sua identità, ma è valido come primo approccio. Invece, interpretare la cacciata dei demoni come opera compiuta in virtù del potere del loro principe è contraddittorio (cf. Mt 12,22ss.; Mc 3,20ss.; Lc 11,14ss.). 1.

Cf. Mannucci - Mazzinghi, Bibbia, capitolo 1, sezione 2, e capitolo 2, sezione 5.1.

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Le opere dunque hanno un certo significato, non del tutto chiaro. Qui appare l'importanza del linguaggio: normalmente, il senso degli eventi ha bisogno di una spiegazione verbale. In un certo senso, la morte di Gesù parla “da sola”. Ma allo stesso tempo ha bisogno di un'interpretazione e perciò Gesù stesso l'annuncia e la spiega in diversi modi — per esempio come un “dare la vita in riscatto per molti” (Mt 20,28; Mc 10,45) o attraverso la parabola del buon samaritano (Lc 10,25-37)—. 7.3.2. Rivelazione e storia Come abbiamo visto, DV2b parla di un piano della rivelazione (oeconomia revelationis) e segnala così che le parole e gli eventi della rivelazione non sono né isolati né arbitrari. Non si susseguono per azzardo, ma secondo un piano o disegno. Si afferma poi che Dio compie delle opere “nella storia della salvezza” (in historia salutis). Possiamo sottolineare due punti impliciti in questa espressione. 1) In historia. La rivelazione cristiana non è atemporale, ma è avvenuta in luoghi e tempi ben determinati dai quali non la si può separare. I popoli politeisti guardano la natura come luogo di manifestazione della divinità, mentre alcune religioni dell'India, della Cina e della Persia la cercano nella sapienza. I cristiani, riconoscendo che Dio è conoscibile attraverso la creazione, ubbidiscono ad una rivelazione che è frutto di un intervento divino nella storia1. Affermare il carattere storico della rivelazione implica in primo luogo che questa non va compresa come se fosse soltanto un mito, benché possa contenere elementi mitici. Cioè, la parola di Dio non è un'idea astratta espressa come se fosse accaduta, affinché risulti più comprensibile. È vero che le opere e le parole rivelano il modo di essere di Dio e, in questo senso, la rivelazione gode di una certa universalità, in quanto fa conoscere Dio, che è fedele a se stesso: la rivelazione pertanto contiene un insegnamento, una dottrina. Ma la storia della salvezza non si può ridurre né a un sistema di proposizioni teoriche, né a un ciclo ripetitivo che riflette il modo di agire di Dio. In alcuni libri biblici — Giudici, e più esplicitamente Qoèlet — compare una visione ciclica del tempo, ma nella Scrittura presa nel suo insieme predomina una concezione lineare della storia, specialmente chiara nel modo in cui gli scritti del NT si riferiscono a Gesù come compimento delle promesse divine dell’AT. Conviene aggiungere che il carattere storico della rivelazione non implica che tutti i racconti biblici siano ugualmente storici. Del rapporto fra Bibbia e storia parleremo ancora nella parte del corso dedicata all'interpretazione (cf. pp. 217-225).

1.

Cf. R. Latourelle, Teologia della Rivelazione, Cittadella, Assisi 91991, 396-398.

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2) In historia salutis. In secondo luogo, la rivelazione avviene in una storia; consiste cioè in una serie di avvenimenti che hanno un inizio, una connessione fra essi e soprattutto un finale che dà loro senso. Non si tratta di fatti che meramente accadono o si succedono senza un'articolazione. Sono eventi che hanno un'unità che dipende dalla continuità nel tempo di Dio e del popolo di Israele — chi parla è “il Dio dei padri” — e soprattutto da Cristo, culmine della storia della salvezza. Per definizione ogni storia può essere raccontata. Anzi, una storia va compresa narrativamente; altrimenti risulta incomprensibile. E che cosa è narrare? Di per se, ogni narrazione implica una sintesi di cose eterogenee (è impossibile raccontare tutto quanto), che faccia vedere il passaggio da uno stato iniziale ad uno finale. L'articolazione degli eventi raccontati — la trama — si comprende a partire dal finale. Nel caso della rivelazione divina, che ha forma storica, Gesù è il “punto finale” o — in termini narrativi — lo “snodo” del racconto. Come si può intuire, non basta parlare di forma narrativa per comprendere la natura storica della rivelazione. Questa è una narrazione, ma contiene anche elementi di una vera storia, cioè racconta fatti effettivamente accaduti e con vincoli causali reali fra di loro1. Con questi presupposti, deve rimanere ben chiaro che la storia non è semplicemente l'involucro di verità astratte e atemporali. Detto con altre parole: se volessimo spiegare cosa è il cristianesimo a qualcuno che non ne sa niente, non potremmo prescindere da raccontargli in qualche modo la storia della salvezza2. 7.4. La rivelazione in DV3 La descrizione della rivelazione divina nel capitolo 1 della Dei Verbum avanza più per ondate successive che seguendo un percorso lineare. Nel n.1 infatti appariva già l'essenziale della rivelazione divina. Il n. 2 sviluppa il concetto, spiegando in che consiste e parlando della sua organizzazione o economia. Come vedremo, i nn. 3-4 espongono di nuovo il contenuto della rivelazione, mostrando più in dettaglio le tappe del piano menzionato al n. 2. Si sta parlando, lo si ricordi, de ipsa revelatione: non si menziona ancora la sua messa per iscritto.

1. 2.

Cf. V. Balaguer, «La economía de la Palabra de Dios: A los 40 años de la Constitución Dogmática Dei Verbum», Scripta Theologica 37 (2005) 407-439, 430. “La historia sagrada no puede considerarse un mero marco de la revelación, sino que forma parte de ella”, Idem, «La economía», 430; cf. P. Grelot, La Bible, Parole de Dieu: Introduction théologique à l'étude de l'Écriture Sainte, Desclée, Paris 1965, 4-8.

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Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (cfr. Gv 1,3), offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (cfr. Rm 1,19-20); inoltre, volendo aprire la via di una salvezza superiore, fin dal principio manifestò se stesso ai progenitori. Dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione, li risollevò alla speranza della salvezza (cfr. Gn 3,15), ed ebbe assidua cura del genere umano, per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene (cfr. Rm 2,6-7). A suo tempo chiamò Abramo, per fare di lui un gran popolo (cfr. Gn 12,2); dopo i patriarchi ammaestrò questo popolo per mezzo di Mosè e dei profeti, affinché lo riconoscesse come il solo Dio vivo e vero, Padre provvido e giusto giudice, e stesse in attesa del Salvatore promesso, preparando in tal modo lungo i secoli la via all'Evangelo.

Per la teologia fondamentale, è rilevante notare che le prime parole di DV3 si riferiscono alla rivelazione “naturale” o “cosmica”. Si adopera un verbo al presente — Dio “offre” — per indicare che tale manifestazione non fa parte della storia della salvezza1. Gli altri verbi del paragrafo, tutti al passato, si riferiscono ad avvenimenti singolari, storici, il cui soggetto, in tutti i casi, è Dio. Vi sono destinatari individuali della rivelazione divina (i primi genitori, Abramo, Mosè, i profeti) e collettivi (il popolo). Fra questi individui alcuni fungono come mediatori: attraverso loro (per Moysen et Prophetas) Dio ha istruito il popolo. Altri elementi presenti nel n.3 sono i seguenti: (1) Ci sono tappe diverse nella storia della salvezza. (2) Ogni tappa ha una propria sostantività, perché ha un fine in se stessa. Almeno la formazione del popolo viene presentata con una finalità specifica: “affinché lo riconoscesse come il solo Dio vivo e vero, Padre provvido e giusto giudice”. (3) Ma allo stesso tempo la finalità di questa tappa — e si intende anche delle altre — è aperta al futuro: “e stesse in attesa del Salvatore promesso”. Come è facile notare, questa descrizione contiene in nuce una teologia circa la rivelazione divina prima di Cristo, che si poggia sull'equilibrio fra due punti: il valore che ha in sé e la sua ordinazione verso Cristo. La Dei Verbum torna a parlare di questo argomento a proposito del valore che la Chiesa conferisce all'AT (capitolo IV, nn. 14-16).

1.

Uno degli argomenti sui quali il Concilio non ha voluto entrare in discussioni teologiche è quello del rapporto fra il naturale e il soprannaturale (e la subordinazione fra l'una e l'altra rivelazione). Cf. Latourelle, Teologia della Rivelazione, 326.

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7.5. Gesù Cristo, Mediatore e Pienezza di tutta la rivelazione (DV2 e 4) Per capire meglio l'importanza di quanto segue, risulta illustrativo ricordare i dibattiti sulla “essenza” del cristianesimo suscitati fra il XIX e il XX secolo. Si cercava di identificare quale fosse l'idea propria della religione cristiana, cioè l'elemento che la distingue da tutte le altre. Alcuni ritenevano che la fraternità universale o l'amore verso il prossimo costituissero l'essenza del cristianesimo; per altri invece si trattava della sua purezza etica, o infine del suo sublime concetto di Dio. Lo storico Adolf von Harnack (1851-1930) considerava che l'essenza del cristianesimo si potesse riassumere in tre grandi valori: la paternità di Dio, la fraternità fra gli uomini e il valore infinito della persona umana. Non di rado questi tentativi avevano l'intenzione di reinventare la religione cristiana, per adeguarla ai parametri del razionalismo. Fra tutti questi intellettuali, Romano Guardini (1885-1968) ha fornito la risposta giusta: Da ultimo il cristianesimo non è una teoria della Verità, o una interpretazione della vita. Esso è anche questo, ma non in questo consiste il suo nucleo essenziale. Questo è costituito da Gesù di Nazareth, dalla sua concreta esistenza, dalla sua opera, dal suo destino — cioè da una personalità storica1.

Quest'idea è cara al Papa emerito Benedetto XVI, che l’ha spiegata diverse volte. Nel n. 11 della Verbum Domini dice: La Parola eterna che si esprime nella creazione e che si comunica nella storia della salvezza è diventata in Cristo un uomo, “nato da donna” (Gal 4,4). La Parola qui non si esprime innanzitutto in un discorso, in concetti o regole. Qui siamo posti di fronte alla persona stessa di Gesù. La sua storia unica e singolare è la Parola definitiva che Dio dice all'umanità. Da qui si capisce perché «all'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, 1).

In un contesto diverso, il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 108) difende una tesi analoga: La fede cristiana tuttavia non è una “religione del Libro”. Il cristianesimo è la religione della “Parola” di Dio, di una Parola cioè che non è “una parola scritta e muta, ma il Verbo incarnato e vivente” (San Bernardo di Chiaravalle, Homilia super “Missus est”, 4, 11: Opera, ed. J Leclercq-H. Rochais, v. 4 [Roma 1966] p. 57). 1.

R. Guardini, L'essenza del cristianesimo, Morcelliana, Brescia 1989, 11-12.

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L'espressione “religione del Libro” procede dal Corano, che parla di “popolo della Scrittura” come descrizione per gli ebrei, per i cristiani e per l’Islam. Ma, come dice il Catechismo, non è giusto descrivere la fede cristiana in questo modo1. Alla fine di DV2, il rapporto fra Gesù Cristo e la rivelazione veniva espresso con due titoli: “mediatore” e “pienezza”. DV4 se ne può considerare una spiegazione: Dopo aver a più riprese e in più modi parlato per mezzo dei profeti, Dio «alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e spiegasse loro i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18). Gesù Cristo dunque, Verbo fatto carne, mandato come «uomo agli uomini» (Epist. ad Diognetum, 7,4: FᴜNᴋ, Patres Apostolici, I, p.403), «parla le parole di Dio» (Gv 3,34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr. Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione che fa di sé con le parole e con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la Rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna. L'economia cristiana dunque, in quanto è l'Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non è da aspettarsi alcun'altra Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13).

Non è facile segnalare con precisione i confini fra i concetti di “mediazione” e di “pienezza”, specialmente perché nel caso di Cristo il secondo contiene il primo. Infatti, la novità essenziale della rivelazione che avviene in Gesù Cristo non dipende dalle sue parole, ma dalla sua persona, nella quale si uniscono la natura divina e quella umana. Non si può dunque separare il suo carattere di pienezza della rivelazione da quello di mediatore. Infatti, se prima c'erano mediatori della rivelazione, lo erano in maniera imperfetta o, per conservare la terminologia della DV 2, non lo erano “di tutta intera la rivelazione”. Cioè, la mediazione di Cristo supera le mediazioni precedenti proprio perché egli è la pienezza della rivelazione. 1.

Anche dal punto di vista della storia delle religioni si notano differenze rispetto all'ebraismo e all'Islam per quanto riguarda il modo in cui i primi cristiani hanno utilizzato i testi. Cf. G. G. Stroumsa, «Early Christianity: A Religion of the Book?» in M. Finkelberg - G. G. Stroumsa (eds.), Homer, the Bible, and Beyond: Literary and Religious Canons in the Ancient World, Brill, Leiden 2003, 153-173.

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Evidentemente non si tratta solo di una differenza quantitativa. Gesù non è un cammino, ma il cammino, perché nessuno va al Padre se non per mezzo di lui (cf. Gv 14,6). Nessuno ha visto il Dio che parla nella rivelazione — “Dio, nessuno lo ha mai visto” (Gv 1,18) —, tranne quando Gesù ce lo ha fatto vedere — “il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (ibidem) —. D'altra parte, egli è simile in tutto agli uomini, escluso il peccato (cf. Eb 2,17; 4,15) e perciò può parlare di Dio in un linguaggio comprensibile: è un uomo inviato agli uomini. La mediazione di Cristo è quindi qualitativamente diversa da tutte le altre mediazioni della rivelazione, perché egli è Dio e uomo. Nella doppia natura di Gesù Cristo si trova il fondamento per il quale egli costituisce sia la piena rivelazione di Dio sia la sua perfetta mediazione. Uno dei testi biblici più eloquenti al riguardo è l'inizio della lettera agli Ebrei, al quale allude DV4: Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo (Eb 1,1-2).

Per spiegare la rivelazione, il Catechismo della Chiesa Cattolica segue molto da vicino Dei Verbum. Sotto il titolo “Gesù Cristo, Mediatore e Pienezza della rivelazione”, nel n.65 cita un testo di san Giovanni della Croce, che commenta così Eb 1,1-2: Dal momento in cui ci ha donato il Figlio suo, che è la sua unica e definitiva Parola, ci ha detto tutto in una sola volta in questa sola Parola e non ha più nulla da dire… Infatti quello che un giorno diceva parzialmente ai profeti, l'ha detto tutto nel suo Figlio, donandoci questo tutto che è il suo Figlio. Perciò chi volesse ancora interrogare il Signore e chiedergli visioni o rivelazioni, non solo commetterebbe una stoltezza, ma offenderebbe Dio, perché non fissa il suo sguardo unicamente in Cristo e va cercando cose diverse e novità [san Giovanni della Croce, Salita al monte Carmelo, 2, 22, cf. Liturgia delle Ore, I, Ufficio delle letture del lunedì della seconda settimana di Avvento]1. 1.

Ecco il testo completo di san Giovanni in spagnolo: «Porque en darnos, como nos dio, a su Hijo — que es una Palabra suya, que no tiene otra—, todo nos lo habló junto y de una vez en esta sola Palabra, y no tiene más que hablar. Y éste es el sentido de aquella autoridad, con que san Pablo quiere inducir a los hebreos a que se aparten de aquellos modos primeros y tratos con Dios de la ley de Moisés, y pongan los ojos en Cristo solamente, diciendo: ‘Lo que antiguamente habló Dios en los profetas a nuestros padres de muchos modos y maneras, ahora a la postre, en estos días, nos lo ha hablado en el Hijo todo de una vez’. En lo cual da a entender el Apóstol, que Dios ha quedado ya como mudo, y no tiene más que hablar, porque lo que hablaba antes en partes a los profetas ya lo ha hablado en él todo, dándonos el todo, que es su Hijo. Por lo cual, el que ahora quisiese preguntar a Dios o querer alguna visión o revelación, no sólo haría una necedad, sino haría agra-

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In sintesi, a partire da DV4 e dal n.65 del Catechismo, si possono indicare quattro punti significativi: 1) La rivelazione tramite i profeti si può qualificare come incompleta o parziale (“en partes” dice Giovanni della Croce). Dei Verbum non lo dice chiaramente, ma si trova implicito nella citazione di Eb 1,1-2 e nel dire che Cristo compie, completa e corrobora la rivelazione. 2) La rivelazione tende verso Cristo. Dunque, oltre a dire che essa ha forma storica, come abbiamo visto, si può anche parlare del suo carattere progressivo. 3) La rivelazione in Cristo è completa in se stessa: Dio non ha altro da dirci, perché suo Figlio è la sua unica Parola. La rivelazione in Cristo è completa anche nei riguardi dei destinatari: l'uomo non ha bisogno di altro, né può aspirare a qualcosa di superiore a Cristo. 4) La rivelazione non è fatta solo di parole, ma soprattutto si trova in una persona: il Figlio, Parola unica di Dio. Infine dobbiamo commentare il paragrafo finale di DV4, sul carattere definitivo della rivelazione cristiana. Un'espressione comune per riferirsi al limite del processo di costituzione del deposito della rivelazione consiste nel dire che la rivelazione si è chiusa “con la morte dell'ultimo apostolo” (di solito identificato con Giovanni figlio di Zebedeo, scomparso verso l’anno 100). La formula si impiega abitualmente per segnare la differenza fra la generazione apostolica e quella post-apostolica1. Tuttavia, il Concilio non ha voluto utilizzare questi termini. Uno dei Padri conciliari, il Cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini, aveva suggerito di includere la frase. Ma la commissione non accettò “che si dica espressamente che la rivelazione si è chiusa con la morte degli apostoli. Infatti, la proposta si trova già dove si dice che Cristo completa la rivelazione; inoltre, la formula non è esente da problemi, per diverse ragioni”2.

1. 2.

vio a Dios, no poniendo los ojos totalmente en Cristo, sin querer otra cosa o novedad. Porque le podría responder Dios de esta manera: ‘Si te tengo ya hablado todas las cosas en mi Palabra, que es mi Hijo, y no tengo otra cosa que te pueda revelar o responder que sea más que eso, pon los ojos sólo en él; porque en él te lo tengo puesto todo y dicho y revelado, y hallarás en él aún más de lo que pides y deseas’» (Subida al Monte Carmelo 2,22). Per esempio, l’ha utilizzata Benedetto XVI nel suo messaggio alla PCB del 18 aprile 2012: “Se, infatti, l'atto della Rivelazione si è concluso con la morte dell'ultimo Apostolo, la Parola rivelata ha continuato ad essere annunciata e interpretata dalla viva Tradizione della Chiesa”. “Quod expresse dicatur, revelationem clausam esse cum morte apostolorum. Nam res intenta iam habetur, quando dicitur quod Christus revelationem complet; formula autem non caret difficultatibus, et quidem propter rationes divergentes”, F. Gil Hellín, Concilii Vaticani II Synopsis in ordi-

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Non si dice quali sono questi problemi, ma possiamo pensare che uno di essi è che l'espressione risulta troppo precisa, come se si potesse stabilire una data esatta in cui la rivelazione si chiude. Inoltre, non sappiamo chi sia stato l'ultimo apostolo né quando è morto: per questo non è molto rilevante se si parla o meno in questi termini. (Dovremo tornare a questo punto a proposito della formazione del canone. La chiusura del canone biblico infatti è conseguenza della convinzione che Dio non ha altro da dire). Si deve finalmente notare che DV4 lascia uno spazio aperto per la possibilità di rivelazioni private. * Quali conseguenze ha il ruolo così unico di Gesù Cristo all'interno della rivelazione, per comprendere questa nel suo insieme? Qui possiamo andare un po' aldilà di quanto afferma la Dei Verbum. Come abbiamo visto a proposito di DV2, la rivelazione non solo è storica, ma è una storia. Abbiamo detto che in ogni storia l'elemento decisivo è lo snodo del racconto, perché a partire da esso si spiegano gli altri elementi della trama. Gesù costituisce lo snodo della rivelazione, il punto finale della storia. Le tappe anteriori, pur essendo veramente una rivelazione di Dio, devono essere intese in riferimento a lui, come preparazione per il vangelo, come dice l'ultima frase di DV31. A questo punto sorge inevitabilmente un problema, vecchio quanto il cristianesimo: il valore dell'AT. Se in Cristo abbiamo il discorso completo, perché non prescindere dell'AT? Se in Gesù Cristo si trova la pienezza della rivelazione, a che serve conservare adesso una rivelazione parziale? La risposta non è semplice, ma quanto abbiamo appena detto sul carattere narrativo della rivelazione cristiana aiuta a comprendere che Gesù Cristo sarebbe incomprensibile senza conoscere le tappe previe. Lo stesso titolo di “Cristo” non si capisce se non si legge l'AT. Invece, se la rivelazione fosse un corpo di verità atemporali e la storia semplicemente il loro involto, risulterebbe logico preferire la formulazione per-

1.

nem redigens schemata cum relationibus necnon patrum orationes atque animadversiones: Constitutio Dogmatica de Divina Revelatione Dei Verbum, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1993, 34. L'intervento del card. Ruffini può vedersi alle pp. 558-560. Commenta un autore: “Como punto final de la historia de la revelación, Jesucristo hace que los acontecimientos que le preceden tengan una doble dimensión: por una parte, tienen valor revelador por sí mismos; por otra, su valor es relativo, en cuanto son peripecias que tienen su sentido en Jesucristo. (…) Es decir, las acciones por las que Dios se manifiesta al pueblo son revelación, son palabra de Dios, pero son también parte del discurso completo que sólo se da en Cristo, único discurso de Dios en la revelación. Sólo en Cristo, el discurso es completo”, Balaguer, «La economía», 432.

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fetta di quelle verità, eliminando quelle imperfette. Il risultato di tale purificazione però sarebbe lo gnosticismo, non più il cristianesimo. Un'ultima osservazione: DV2 descrive l'economia della rivelazione come interazione di opere e parole. Evidentemente, questa interazione si dà in maniera piena proprio quando arriva la pienezza della rivelazione: Gesù Cristo è la Parola di Dio, che si fa uomo; l'Incarnazione è un'opera. * Omettiamo un commento ai nn. 5-6 della Dei Verbum. Riprendono fondamentalmente l'insegnamento del Vaticano I nella Dei Filius, con piccole modifiche. La differenza più notevole è strutturale: il Vaticano II parla delle verità rivelate alla fine, e non all'inizio, del capitolo dedicato alla rivelazione in se stessa.

8. La trasmissione della parola di Dio Abbiamo concluso la lettura del capitolo I della Dei Verbum. La rivelazione divina è stata descritta in modo completo, senza aver detto nulla circa la sua messa per iscritto. Tuttavia, è palese che la rivelazione, essendo storica, implica un processo e quindi una trasmissione, di cui parla il capitolo 2. È qui che apparirà la sacra Scrittura. 8.1. Oralità e scrittura In DV7 si presenta la messa per iscritto della rivelazione. Prima però di leggere DV7, conviene inserire una riflessione sulle differenze fra la comunicazione orale e quella scritta, anche se non è un argomento frequente nei manuali d'IGSS. Perché trattare questo tema? La rivelazione è comunicazione di Dio agli uomini con opere e parole intimamente connesse fra loro. La Bibbia invece è un testo (una collezione di testi), e quindi da sola non può né agire né parlare. Ciononostante, la sacra Scrittura è rivelazione. Per questo motivo dobbiamo chiederci se e in quale misura possono essere identiche una parola detta oralmente e una parola scritta. 8.1.1. Distinzione fra comunicazione orale e scritta L'oralità e la scrittura sono due sistemi diversi con uno scopo comune: la comunicazione, la “trasmissione di un messaggio” in senso ampio, includendo qui le tre funzioni del linguaggio di cui abbiamo parlato a p. 55. In che cosa si distinguono?

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Priorità La scrittura è un codice secondario riguardo al linguaggio orale. Gli uomini hanno parlato da tempo immemorabile. La scrittura, invece, è stata inventata in un momento concreto (verso il 3200 a.C., come detto a p. 27). Inoltre, ogni essere umano prima impara a parlare e poi a scrivere. La scrittura infatti è secondaria non solo cronologicamente, ma anche costitutivamente, in quanto si costruisce con segni (grafemi) che si riferiscono a suoni (fonemi), almeno nel nostro alfabeto. Anche altri sistemi di scrittura, come quello cinese, cercano di riprodurre graficamente dei suoni, benché in maniera diversa. È impensabile invertire l'ordine, immaginare cioè una lingua orale che nasce da una scritta. Più profondamente ancora, possiamo dire — con terminologia aristotelica — che la oralità ha una priorità ontologica rispetto alla scrittura: cioè, può esistere linguaggio orale senza linguaggio scritto, ma non potrebbe darsi un linguaggio scritto senza l'esistenza di un linguaggio orale. Nella rivelazione divina questa priorità viene rispettata: la comunicazione originaria è orale. Il Dio di Israele non si manifesta al popolo scrivendo, ma soprattutto parlando attraverso i profeti; Gesù predica e fa miracoli, ma non ha scritto nulla, e poi non invia gli apostoli a scrivere, ma a predicare. I libri arrivano in un secondo momento. Situazione L'oralità e la scrittura comportano una diversa situazione di comunicazione1. L'oralità suppone la compresenza di mittente e destinatario e quindi la simultaneità degli atti di emissione e ricezione. La scrittura invece suppone l'assenza del mittente e la duplicità di atti: uno di scrittura e un altro di lettura. La comunicazione avviene solo con la seconda operazione: un libro mai letto non comunica niente. Per la comunicazione orale, risulta valido lo schema presentato a p. 50. Invece, vale la pena di rappresentare la comunicazione scritta, perché lo schema presenta qualche differenza: scrittore → messaggio ‖ messaggio → lettore La comunicazione scritta via internet ha creato dei casi intermedi. Risulta possibile una comunicazione scritta con la presenza simultanea di mittente e destinatario. Ma tali casi non invalidano la descrizione fatta sopra.

1.

Per ciò che segue, cf. C. Segre, Avviamento all'analisi del testo letterario, G. Einaudi, Torino 1999, 5-15.

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Efficacia comunicativa (vantaggi e svantaggi di ogni sistema) Se si vuole evitare ogni ambiguità, la comunicazione orale è senz'altro superiore a quella scritta. Quando due persone parlano fra loro, se una non ha sentito o non ha capito bene quanto detto dall'altra, potrà sempre chiedere una ripetizione o una spiegazione. È possibile la retro-alimentazione (feedback): i malintesi possono risolversi strada facendo. Invece, la comunicazione scritta non permette il superamento immediato dei malintesi, a causa dell'assenza del mittente nel momento della comunicazione. D'altra parte, la scrittura presenta un vantaggio non piccolo rispetto all'oralità: aggiunge perennità al messaggio. Verba volant, scripta manent. Una volta messo per iscritto, un messaggio dura oltre l'istante in cui è stato pronunziato e può essere letto diverse volte e da più persone. A questo proposito possiamo citare un passo del Fedro (274c-275b), nel quale Platone propone una critica alla scrittura. Socrate, personaggio principale del dialogo, racconta come il dio Theuth presentò a Thamus, re d'Egitto, le sue diverse invenzioni, fra le quali si trovavano le lettere (dell'alfabeto), escogitate come metodo per evitare che gli uomini dimenticassero: Questa conoscenza, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e più capaci di ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza (274e).

Ma il re Thamus non è molto convinto dell'utilità di questa nuova arte e risponde così: O ingegnosissimo Theuth, c'è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora, essendo padre della scrittura, per affetto tu hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. La scoperta della scrittura, infatti, avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da sé medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, ma del richiamare alla memoria1.

Le parole del re Thamus sono senz'altro ragionevoli. Possiamo essere d'accordo con lui (e, tramite lui, con Platone). Nella cultura odierna, in cui una enorme quantità d'informazione è disponibile con enorme facilità, la preoccupazione platonica per la vera conoscenza umana (scrivere nell'anima e non fuori di essa) resta molto valida. 1.

Fedro 274e-275a, traduzione presa da Platone, Fedro: a cura di Giovanni Reale.

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Allo stesso tempo dobbiamo notare che, per criticare le lettere, Platone ha dovuto farne uso per scrivere il Fedro. Senza la scrittura, non avremmo mai saputo cosa egli ne pensava! Contesto e autonomia La comunicazione orale, necessariamente presenziale, di solito è accompagnata da altri codici, non verbali, che servono a contestualizzare il linguaggio verbale. Per esempio: il codice musicale (canto), il codice paralinguistico (vocalizzazione, tono, risa), il codice chinesico (gesti e movimenti corporali) e altri1. Contrariamente a quanto accade nella comunicazione orale, un testo scritto ha praticamente un solo codice per comunicare, quello verbale. Basta pensare alla differenza fra un esame orale e uno scritto. Nel primo, lo studente può gesticolare, stare attento all'espressione del volto del professore, ripetere una frase con diverse intonazioni, eccetera. Tutte queste risorse spariscono nel caso di un esame scritto, nel quale al massimo lo studente potrà sottolineare una parola o scriverla con maiuscole. Come conseguenza di questa povertà di risorse, un testo scritto deve includere elementi che contribuiscano ad evitare l'ambiguità. Per dirla in termini più esatti: nella comunicazione scritta si deve introiettare il contesto dentro il testo. Nel linguaggio orale, basta che qualcuno dica, per esempio, “chiudi la porta, per favore” perché si capisca ciò che vuole dire: a chi si rivolge e a quale porta si riferisce. In un testo scritto, invece, si deve indicare esplicitamente chi parla, quando, dove, a chi, ecc. Sostanzialmente, un testo scritto deve avere un'organizzazione discorsiva coerente per poter comunicare efficacemente. Questo è uno dei principali motivi per cui un testo scritto non può o non deve essere concepito come una semplice traslitterazione di un discorso orale. Il giornalista che deve mettere per iscritto la registrazione di un’intervista conosce bene questa necessità: non basta riprodurre le parole pronunciate dall'intervistato, ma deve introdurle e commentarle. Grazie in buona misura a questa esigenza di esplicitare il contesto del messaggio, il testo scritto è, in certa maniera, autonomo. Tale autonomia ha una conseguenza importante: il testo scritto può vivere lungo tempo ed essere attualizzato in contesti diversi, che possono variare leggermente il significato del messaggio, di solito arricchendolo.

1.

Cf. V. M. de Aguiar e Silva, Teoria da Literatura, Almedina, Coimbra 1984, 140-141.

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Funzione sociale Finora abbiamo descritto i principali aspetti comunicativi di oralità e scrittura. Adesso possiamo aggiungere qualche breve osservazione sulla loro funzione sociale all'interno delle culture. La scrittura, allo stesso modo delle tradizioni orali, trasmette conoscenze ed esperienze. Entrambe sono un veicolo della memoria, che a sua volta manifesta e definisce l'identità di una comunità. In genere, nello sviluppo dei popoli, arriva un momento in cui le tradizioni del gruppo vengono messe per iscritto. In questo modo passano dall’ambito familiare a quello sociale e politico. Così perdono vivacità, ma guadagnano stabilità e autorevolezza. Il testo acquista un valore canonico e normativo: bisogna attenersi a ciò che è scritto. Il testo scritto consente inoltre un “sapere controllato”. Nei popoli antichi, in cui poche persone sapevano leggere e scrivere, la messa per iscritto delle tradizioni implicava anche che queste passavano sotto il controllo degli scribi, di solito funzionari al servizio del re ed incaricati dell'educazione nella corte1. A modo di sintesi, possiamo elencare sei differenze fra la comunicazione orale e quella scritta: 1) la scrittura è secondaria rispetto all'oralità; 2) l'oralità presuppone la presenza simultanea di mittente e destinatario, mentre la comunicazione per iscritto ha bisogno di due atti diversi e la comunicazione avviene solo nel secondo, l'atto di ricezione (lettura); 3) l'oralità consente la chiarificazione immediata di un malinteso; 4) la scrittura fissa il messaggio e gli conferisce una certa perennità; 5) l'oralità funziona sempre dentro uno spazio e un tempo determinati e può essere accompagnata da molti codici non verbali. Tutto questo dà il contesto del messaggio, mentre la scrittura deve introiettare il contesto nel testo per evitare l'ambiguità. 6) la scrittura fissa le tradizioni orali, conferendo loro una forma che diventa normativa, se viene socialmente accettata.

1.

Su questi temi in rapporto con l'origine dei testi biblici esiste abbondante bibliografia. Cf. D. M. Carr, Writing on the Tablet of the Heart: Origins of Scripture and Literature, Oxford University Press, Oxford 2005; L. D. Morenz - S. Schorch (eds.), Was ist ein Text?: Alttestamentliche, ägyptologische und altorientalistische Perspektiven, de Gruyter, Berlin 2007; K. van der Toorn, Scribal Culture and the Making of the Hebrew Bible, Harvard University Press, Cambridge 2007.

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Riprenderemo questa descrizione quando parleremo della messa per iscritto della predicazione apostolica, a proposito di DV8-9. 8.1.2. Perché Gesù non ha lasciato testi? (STh III q.42, a.4) Per comprendere meglio la differenza fra scrittura e oralità, leggeremo un breve testo di san Tommaso d'Aquino. In STh III, q.42, a.4, Tommaso si chiede se Cristo non avrebbe dovuto scrivere il suo messaggio, giacché i suoi insegnamenti dovevano durare per sempre e la scrittura fu creata proprio per conservare la memoria lungo il tempo1. Inoltre, secondo Es 24, Dio aveva scritto le tavole della legge. Se Cristo ci avesse lasciato un testo scritto, avrebbe garantito che nessuno potesse fraintendere o travisare la sua dottrina. Eppure, questi ragionamenti entrano in conflitto con il fatto che nella Bibbia non abbiamo nessun libro scritto da Gesù (sed contra est quod nulli libri ab eo scripti habentur in canone scripturae). Nella risposta, Tommaso propone tre motivi per cui risultava conveniente che Cristo non abbia scritto nulla. Ci interessano i primi due: 1) Cristo è il maestro più eccellente e gli corrisponde dunque il miglior modo di insegnamento, che consiste nel fissare la dottrina nei cuori2. Tommaso concorda con Platone: l'insegnamento deve restare nell'anima, non fuori di essa, e a questo scopo la parola orale è più efficace di quella scritta. Il ragionamento sembra valido, ma insufficiente: Cristo poteva prima insegnare oralmente e poi scrivere. 2) “A causa dell'eccellenza della dottrina del Cristo, che non può essere contenuta dalle lettere (…). Se Cristo avesse trasmesso la sua dottrina per iscritto, gli uomini avrebbero considerato che questa dottrina non contiene niente di più profondo di quanto è scritto”3. 1. 2.

3.

“Videtur quod Christus doctrinam suam debuerit scripto tradere. Scriptura enim inventa est ad hoc quod doctrina commendetur memoriae in futurum. Sed doctrina Christi duratura erat in aeternum”. “Primo quidem, propter dignitatem ipsius. Excellentiori enim doctori excellentior modus doctrinae debetur. Et ideo Christo, tanquam excellentissimo doctori, hic modus competebat, ut doctrinam suam auditorum cordibus imprimeret. Propter quod dicitur matth. vii, quod erat docens eos sicut potestatem habens. Unde etiam apud gentiles Pythagoras et Socrates, qui fuerunt excellentissimi doctores, nihil scribere voluerunt. Scripta enim ordinantur ad impressionem doctrinae in cordibus auditorum sicut ad finem”. In questo caso, la traduzione è mia. “Secundo, propter excellentiam doctrinae Christi, quae litteris comprehendi non potest, secundum illud ioan. ult., sunt et alia multa quae fecit Iesus, quae si scri-

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Quest’ultima frase merita un commento. San Tommaso sembra dire che conviene a noi uomini avere come testimonianze della predicazione di Cristo i vangeli, che non sono identici ad essa, perché così la dottrina di Cristo rimane al di là della configurazione testuale che riceve. In questo modo, cioè, diventa impossibile la tentazione di ridurre l'insegnamento di Gesù Cristo ad una formula fissa e unica. Le parole di Gesù in ogni singolo vangelo appaiono infatti necessariamente come una versione di ciò che ha detto, semplicemente per la distinzione fra oralità e scrittura. Nell'argomentazione di Tommaso sono apparse alcune delle differenze fra oralità e scrittura. La scrittura è necessaria affinché la dottrina rimanga nel tempo, ma prima bisognava immetterla nei cuori. Inoltre san Tommaso lascia uno spazio per distinguere fra la Bibbia e la rivelazione: la Bibbia è rivelazione, ma questa non si può ridurre alla Bibbia, non si esaurisce nella sua espressione scritta. 8.2. La trasmissione della parola di Dio secondo Dei Verbum (DV7-10) Possiamo adesso riprendere la lettura della Dei Verbum. Il capitolo I ha esposto in che cosa consiste la rivelazione di Dio. Il capitolo II invece si intitola “La trasmissione della rivelazione divina”. Già dal titolo possiamo dedurre due idee importanti: 1) la rivelazione in quanto trasmessa si distingue dalla “rivelazione in se stessa” o “rivelazione nella storia”. La differenza è reale, ma allo stesso tempo la Dei Verbum si sforzerà di evitare che si pensi ad una differenza qualitativa: la trasmissione della rivelazione infatti né oscura né degrada la Parola di Dio, perché è prevista e garantita dallo stesso Dio; 2) il titolo segnala che l'intero capitolo II parla di “tradizione” in senso ampio, cioè trasmissione (da traditio, consegna). Di conseguenza, non si sta partendo dallo schema di due fonti della rivelazione (Scrittura e tradizione), perché tutto è tradizione, benché all'interno di essa si facciano poi delle distinzioni, che includono l'assegnazione di un posto speciale alla Scrittura. La presentazione di Scrittura e Tradizione come “due fonti della rivelazione” è diventata abituale nella teologia e nella catechesi dopo il Concilio di Trento ed è rimasta in uso fino al Vaticano II. In realtà non si trova nei decreti di Trento, ma proviene dalla loro interpretazione posteriore. Basta leggere con attenzione il primo decreto bantur per singula, nec ipsum arbitror mundum capere eos qui scribendi sunt libros. Quos, sicut Augustinus dicit, non spatio locorum credendum est mundum capere non posse, sed capacitate legentium comprehendi non posse. Si autem Christus scripto suam doctrinam mandasset, nihil altius de eius doctrina homines existimarent quam quod scriptura contineret”.

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tridentino sulle Scritture per rendersi conto che lo schema delle due fonti ne è una semplificazione1. Nella Dei Verbum, tale schema è stato abbandonato, perché: Gli studi biblici e la riflessione teologica hanno fatto prendere coscienza a tutti, protestanti compresi, che Scrittura e tradizione non sono due realtà dissociabili fra loro: la tradizione precede la Scrittura; la stessa Scrittura è frutto dell’elaborazione della tradizione, anzi il suo momento privilegiato; la tradizione continua anche dopo la Scrittura; la Scrittura — quale momento privilegiato della tradizione — costituisce il primo criterio di validità per giudicare lo sviluppo successivo della tradizione2.

Il punto di partenza per parlare della rivelazione diventa unitario e non più doppio, perché la Dei Verbum comincia da Gesù Cristo3. In effetti, se nel descrivere la rivelazione in sé (capitolo I) si metteva Cristo al centro, altrettanto succederà nel capitolo II, ma adesso si parlerà non della vita di Gesù, ma di Gesù predicato, del “vangelo”. * All'interno del capitolo II, è possibile distinguere due parti, anche se non vi è una divisione netta. Da un lato, in DV7 si parla del vangelo ricevuto dagli apostoli e che essi a loro volta trasmettono, mentre in DV8-10 si parla piuttosto della tappa seguente, cioè della trasmissione di quanto predicarono gli apostoli. La prima tappa viene chiamata da alcuni autori tradizione “costitutiva” oppure “fondante”, perché, nonostante la rivelazione sia completa con Cristo, durante l'attività degli apostoli essa sta ancora, per così dire, prendendo forma. Questa forma diventerà normativa per il futuro: nella fase seguente, che si può denominare tradizione “ecclesiastica” oppure “dipendente” si trasmette la rivelazione sempre in riferimento alla fede apostolica, al modo cioè in cui è stata predicata dagli apostoli4.

1. 2. 3.

4.

Cf. J. Dupont, «Écriture et Tradition», Nouvelle revue théologique 85 (1963) 337-356, 449-468,. Il testo del Concilio di Trento si può vedere in EB 57. Mannucci - Mazzinghi, Bibbia, 332. “La tradición es anterior a la distinción Escritura-tradición porque no se plantea desde la Iglesia sino desde Cristo. Como ha sucedido con otras cuestiones, también en la teología de la tradición ha tenido lugar un centramiento cristológico y trinitario, y, correlativamente, un «descentramiento» eclesial”, C. Izquierdo, «Función de los textos en la tradición» in V. Balaguer - J. L. Caballero (eds.), Palabra de Dios, Sagrada Escritura, Iglesia, Eunsa, Pamplona 2008, 75-82, 75-76. “Par rapport à la Parole de Dieu, règle suprême de la foi, la tradition apostolique et la tradition ecclésiastique se trouvent dans deux situations très différentes : la première est le moyen par lequel cette Parole parvient aux hommes et prend forme de parole humaine; la seconde est le milieu vivant qui la reçoit, la conserve et la fait fructifier. Le passage de l'une à l'autre ne s'opère pas à un

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Ovviamente, alla tradizione costitutiva si potrebbe anche attribuire la qualifica di “apostolica”, ma è meglio evitarlo, perché di solito si applica questo aggettivo alla tradizione della Chiesa in genere, in quanto proviene dagli apostoli. 8.2.1. La tradizione costitutiva (DV7) DV7 è un paragrafo denso che richiede una lettura attenta: Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni. Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta intera la Rivelazione di Dio altissimo (cf. 2 Cor 1,20; 3,16-4,6), ordinò agli apostoli che l'Evangelo, prima promesso per mezzo dei profeti e da lui adempiuto e promulgato di persona venisse da loro predicato a tutti come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale (cf. Mt 28,19-20 e Mc 16,15; Conc. Trid., Decr. De canonicis Scripturis), comunicando così ad essi i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca del Cristo vivendo con lui e guardandolo agire, sia ciò che avevano imparato dai suggerimenti dello Spirito Santo, quanto da quegli apostoli e da uomini della loro cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero per scritto il messaggio della salvezza (cf. Conc. Trid., l. c.; Conc. Vat. I, Const. dogm. Dei Filius, c. 2). Gli apostoli poi, affinché l'Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori i vescovi, ad essi « affidando il loro proprio posto di maestri » (S. Ireneo, Adv. Haer. III,3,1). Questa sacra Tradizione e la Scrittura sacra dell'uno e dell'altro Testamento sono dunque come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia, com'egli è (cfr. 1 Gv 3,2).

a) Dio, con somma benignità, dispose… La prima frase non si riferisce a un avvenimento storico, ma enuncia il presupposto teologico che fonda la descrizione storica che seguirà. Infatti, il punto di partenza moment chronologique déterminé, par exemple du vivant même des apôtres, par le fait que ceuxci confient le soin de l'Évangile et la charge des églises à des mandataires qui ne sont plus comme eux les témoins directs du Christ”, Grelot, La Bible, Parole de Dieu, 22.

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per comprendere la trasmissione della rivelazione si trova nel disegno di Dio, che ha come orizzonte l'universalità della salvezza (riappare la finalità salvifica della rivelazione descritta in DV2). Il testo insiste notevolmente sulla totalità: Dio vuole che ciò che ha rivelato per salvare tutti i popoli (non solo Israele) giunga integro (senza subire diminuzione o corruzione) a tutte le generazioni lungo il tempo. Nessun contenuto deve restare fuori della trasmissione della rivelazione, che deve arrivare a tutti gli uomini. Benché possa sembrare ovvio, questo principio teologico ha una importanza capitale per comprendere il lungo e difficile processo grazie al quale la rivelazione arriva fino a noi. Senza un impegno positivo della provvidenza divina, sarebbe certamente impossibile garantire la trasmissione fedele del deposito della rivelazione, senza deformazioni né riduzioni. In altre parole, la trasmissione della rivelazione non è un processo meramente umano, come se l'intervento di Dio nella storia fosse terminato con la generazione apostolica. b) Perciò Cristo Signore… A partire da questa frase, DV7 “scende”, per così dire, dal piano speculativo alla descrizione storica. Innanzitutto si parla di Gesù Cristo. Prima però di analizzare la frase, si deve notare un'omissione sorprendente. Il paragrafo non dice niente circa la trasmissione della rivelazione prima di Cristo. Forse una delle ragioni di questo silenzio è che si sa pochissimo del lungo processo di trasmissione della rivelazione prima di Gesù. Ma soprattutto bisogna tener conto della differenza teologica che sussiste fra i due momenti di trasmissione: mentre la tradizione prima di Cristo non si può veramente distinguere dal darsi della rivelazione (e quindi tale tradizione è implicita in DV3), con Cristo invece la rivelazione si completa e dunque tutto ciò che viene dopo di lui è una trasmissione che non intende aggiungere nulla alla pienezza raggiunta una volta per tutte. Invece, i discepoli del profeta Isaia, per esempio, potevano sviluppare e arricchire la dottrina del loro maestro. E in questo processo non possiamo distinguere in modo netto la trasmissione di una rivelazione originaria dalle aggiunte di nuove rivelazioni, ugualmente provenienti da Dio. Infatti, il libro di Isaia riflette proprio questo sviluppo, e qualcosa di analogo succede con molti altri scritti dell'AT1. Inoltre, DV7 non parla della trasmissione della rivelazione prima di Cristo perché va all'essenziale. Tuttavia, un po' più avanti, trattando dell'invio degli apostoli a predicare, si dice che il Vangelo era stato “promesso per mezzo dei profeti”. In questo 1.

Sulla tradizione nell'AT, cf. Idem, La Bible, Parole de Dieu, 10-12; Mannucci - Mazzinghi, Bibbia, capitolo 4, sezione 2 e sezione 4 (paragone fra entrambe le tradizioni).

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modo viene inclusa la rivelazione veterotestamentaria nella sua dimensione cristologica e salvifica, come promessa di Cristo. c) Il Vangelo Se la rivelazione culmina in Cristo, il contenuto della predicazione apostolica è, logicamente, Cristo stesso, morto e risuscitato, come dice san Paolo con chiarezza: Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio (1 Cor 1,22-24). Noi infatti non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore (2 Cor 4,5).

Possiamo chiederci allora perché la Dei Verbum — che in questo punto segue Trento — impiega la parola “vangelo” per riferirsi a ciò che Cristo comanda che venga predicato dagli apostoli. Evidentemente, il “vangelo”, la buona novella, non è altro che Cristo stesso (cf. Mc 8,35; 10,29). Il contenuto della predicazione apostolica è il vangelo di Cristo (cf. Rm 1,9; Ga 1,6-7.11). Ma vale la pena notare che Gesù annunciato, proclamato o predicato non è identico a Gesù “in carne e ossa”, per così dire, alla presenza di Gesù fra gli uomini fino alla sua ascensione in cielo. Il vangelo è un annuncio, una proclamazione, e quindi un discorso. La rivelazione storica può venir trasmessa a tutti gli uomini di tutti i tempi, ma non tutti possono essere i suoi testimoni diretti, perché le opere e le persone sono singolari e irripetibili. Chi ascolta la predicazione non gode dell’esperienza diretta — come gli apostoli — della rivelazione nella storia, composta da opere e parole, ma la riceve attraverso il discorso umano — soprattutto verbale — che la significa1. Il testo afferma, con una frase presa dal Concilio di Trento, che il vangelo deve essere predicato “come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale”. Così si

1.

“Cuando hablamos de la proclamación apostólica, hablamos de un mensaje, del Evangelio: allí las acciones de los apóstoles están al servicio del mensaje. Cuando hablamos de la revelación entendemos que estamos ante un lenguaje de Dios que podemos comprender los hombres, aunque es claro que este lenguaje de Dios no lo conocemos con anterioridad, se manifiesta sólo en las acciones de su discurso. Cuando hablamos de la proclamación apostólica estamos en un lenguaje humano, construido y conocido por los hombres, pero que no expresa un mensaje humano sino un mensaje de Dios. Sin embargo, si es importante subrayar las diferencias, lo es, sobre todo, para señalar después la coincidencia fundamental: la proclamación apostólica es también parte de la revelación histórica. Dicho de otro modo, la revelación de Dios en la historia —palabra de Dios en lenguaje de Dios— tiene dentro de sí misma una articulación en lenguaje humano, que expresa la palabra de Dios”, Balaguer, «La economía», 436.

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riflette la doppia dimensione della predicazione apostolica: prima la verità di Cristo e poi le sue conseguenze per il comportamento degli uomini. d) Ciò venne fedelmente eseguito… Seguendo la descrizione di DV7, la realizzazione del disegno di Dio comincia con Cristo e continua con l'opera degli apostoli (sul significato di “apostolo”, cf. pp. 253265). Più precisamente, nel testo appaiono tre attività diverse, ognuna con un proprio soggetto: 1) gli apostoli trasmettono il vangelo, soprattutto tramite la predicazione orale, ma anche con esempi e istituzioni; 2) gli apostoli e alcuni uomini della loro cerchia (viri apostolici) scrivono il messaggio della salvezza; e infine 3) gli apostoli nominano successori nel ministero. Per quanto riguarda il punto 1), in DV7 si afferma che gli apostoli trasmettono non solo quanto hanno imparato direttamente da Gesù, ma anche quanto viene loro insegnato dallo Spirito Santo. La funzione rivelatrice dello Spirito non consiste nell'aggiungere delle verità alla rivelazione di Cristo (come se egli se ne fosse dimenticato!), ma in far sì che gli apostoli ricordassero e capissero le parole di Gesù, come egli aveva promesso (cf. Gv 16,12-14)1. Inoltre, la predicazione apostolica include “esempi e istituzioni”. Si vuole indicare così che: La testimonianza degli apostoli valica (…) la predicazione propriamente detta: essa comprende tutto il campo del culto e dei sacramenti (specialmente il battesimo e l'eucaristia), e tutto il campo della condotta morale e del governo morale delle comunità cristiane2.

Questo punto viene confermato da 3), dove si menziona l'attività degli apostoli nella nomina di vescovi come successori per conservare l'integrità e vitalità del vangelo. Per quanto riguarda il punto 2), si parla, insieme agli apostoli, di viri apostolici, per includere autori ispirati come Marco o Luca, che non sono propriamente apostoli. Un Padre conciliare manifestò il suo timore che la menzione di tali “uomini apostoli-

1. 2.

Cf. L. Buch, «Spiritus est veritas (1Jn 5,6): La revelación según el Espíritu Santo en los escritos de san Juan», Annales Theologici 27 (2013) 51-83. Latourelle, Teologia della Rivelazione, 336.

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ci” potesse estendere troppo il tempo della rivelazione pubblica. La commissione rispose così: “il timore sembra infondato: infatti tutti sanno che si tratta di Marco, Luca, ecc.”1. e) Schema Per sintetizzare la descrizione fatta da DV7, conviene fare un piccolo schema, pur sapendo che, come tutti gli schemi, comporta inevitabilmente un certo grado di semplificazione. La rivelazione è verticale (da Dio agli uomini), mentre la sua trasmissione è orizzontale (da uomini a uomini). All'interno del movimento orizzontale, bisogna distinguere il primo momento (tradizione costitutiva) dal secondo (tradizione ecclesiastica).

La freccia va tradotta come “trasmette a”; il contenuto della trasmissione è sempre il vangelo. Paradossalmente, gli apostoli in un certo modo danno forma alla rivelazione, ma allo stesso modo semplicemente vogliono trasmetterla. Se è lecito dire che in ogni messaggio la forma fa parte del contenuto, nel processo della rivelazione cristiana si può dire che anche il recettore umano fa parte del messaggio. È stato a volte notato che la fede è una rivelazione che ha ricevuto risposta; se si applica questa logica alla forma della rivelazione dovremo concludere che i recettori della rivelazione fanno parte in qualche modo di essa. Questo si dà con maggiore intensità nel caso degli apostoli: essi sono coloro che — testimoni del Cristo risorto — ricevono il discorso completo della rivelazione di Dio e lo esprimono in linguaggio umano2. 1. 2.

“Timor videtur infundatus: omnes enim norunt agi de Marco, Luca, etc.” Cf. Gil Hellín, Concilii Vaticani II Synopsis: Dei Verbum, 56-57. Traduzione mia. “Si se puede decir que en todo mensaje la forma es parte de su contenido, en el proceso de la revelación cristiana se puede decir que el receptor humano forma parte también del mensaje. Se ha señalado a veces que la fe es una revelación a la que se ha dado respuesta; si se aplica esta lógica a la forma de la revelación tendremos que concluir que los receptores de la revela-

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Gli apostoli non si trovano “prima” della Chiesa, ma in essa. Con essi si garantisce la continuità fra Cristo e la Chiesa di tutti i tempi1. * Per capire quanto seguirà, è importante aggiungere che alla predicazione apostolica si può applicare la categoria di “parola di Dio”. Benché Dei Verbum non lo dica mai esplicitamente, l'afferma san Paolo, quando ricorda ai tessalonicesi la loro accoglienza del vangelo predicato da lui: Rendiamo continuamente grazie a Dio perché, ricevendo la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto udire, l'avete accolta non come parola di uomini ma, qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti (1 Ts 2,13).

8.2.2. La tradizione ecclesiastica e il posto delle Scritture (DV8-9) In DV8 si avanza ancora nella descrizione storica iniziata in DV7. Non si parte più dal vangelo promulgato da Cristo, ma dalla predicazione apostolica e la sua conservazione nella Chiesa. Anche se la Dei Verbum non fa questa distinzione — che non è netta — si può dire che nel n.8 si passa alla tradizione ecclesiastica, cioè alla ricezione della predicazione apostolica da parte della Chiesa post-apostolica, che la conserva come un deposito per tutti i tempi. Il paragrafo è lungo e in esso si includono alcuni temi che non riguardano il nostro corso, come quello del progresso della tradizione e il valore della testimonianza dei Padri. Scrivo in neretto gli elementi che saranno commentati: Pertanto la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva esser conservata con una successione ininterrotta fino alla fine dei tempi. Gli apostoli perciò, trasmettendo ciò che essi stessi avevano ricevuto, ammoniscono i fedeli ad attenersi alle tradizioni che avevano appreso sia a voce che per iscritto (cfr. 2 Ts 2,15), e di combattere per quella fede che era stata ad essi trasmessa una volta per sempre (cf. Gd 1,3). (Cf. Conc. Nic. II. Conc. Contant. IV, Sess. X, can. I). Ciò che fu trasmesso dagli apostoli, poi, comprende tutto quanto contribuisce

1.

ción forman de alguna manera parte de ella. Esto tiene un carácter más intenso todavía en el caso de los apóstoles: son ellos los que —testigos de Cristo resucitado— reciben el discurso completo de la revelación de Dios y lo expresan en lenguaje humano”, Balaguer, «La economía», 437. “La precisión del lugar de los Apóstoles en la Iglesia es aquí importante, pues la proclamación apostólica señala la continuidad, ya que está en cierta manera en dos lugares al mismo tiempo: en el plan de la revelación de Dios y en la Iglesia”, Idem, «La economía», 437.

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alla condotta santa del popolo di Dio e all'incremento della fede; così la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede. Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo (cf. Conc. Vat. I, Const. dogm. de fide catholica, Dei Filius, cap. 4): cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio. Le asserzioni dei santi Padri attestano la vivificante presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega. È questa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l'intero canone dei libri sacri e nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse sacre Scritture. Così Dio, il quale ha parlato in passato non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell'Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3,16).

“In modo speciale”: è la prima allusione a una distinzione della Bibbia rispetto alle altre forme di trasmissione della rivelazione. In che cosa consista questo carattere speciale verrà esposto in DV9. “Ciò che fu trasmesso dagli apostoli comprende tutto (…)”. La predicazione apostolica è completa per la vita della Chiesa. Si parla qui della tradizione in senso passivo o, in altri termini, del deposito della rivelazione. “È questa Tradizione che (…)”. La priorità della tradizione non è una caratteristica esclusiva della tradizione costitutiva, nel senso ovvio in cui la predicazione è anteriore alla messa per iscritto, ma è una caratteristica valida anche per la tradizione ecclesiastica, all'interno della quale si riconosce quali sono i libri ispirati. Grazie alla tradizione non solo si conosce il canone, ma la stessa Scrittura vive, agisce, è operante, non perde attualità. Come dice il testo con una frase bellissima: “Dio, il quale ha parlato in passato non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto”. Non è altro il senso dell'espressione “parola di Dio”, che apparirà al n.9. La Dei Verbum ha molta cura di non separare mai Scrittura e Tradizione. Tale preoccupazione è al centro del prossimo paragrafo.

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* DV9, più breve rispetto al numero anteriore, è invece più rilevante per noi: La sacra Tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine. Infatti la sacra Scrittura è la parola di Dio in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino; quanto alla sacra Tradizione, essa trasmette integralmente la parola di Dio - affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli - ai loro successori, affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; ne risulta così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura e che di conseguenza l'una e l'altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza (cf. Conc. Trid., Decr. De canonicis Scripturis)1.

Si afferma — per la prima volta nel documento — che la sacra Scrittura è parola di Dio. Della sacra Tradizione si afferma invece che trasmette la parola di Dio, ma non che lo sia2. Non tutto quello che è stato scritto nei primi tempi della Chiesa fa parte delle sacre Scritture, benché in alcuni casi contenga la predicazione apostolica senza deformazioni. Per esempio, la Didaché — opera scritta attorno al 90/100 d.C. — intende presentare gli insegnamenti degli apostoli. E non è uno scritto eretico; cioè alla luce della dottrina della Chiesa, non contiene deviazioni o errori dottrinali. Altrettanto si potrebbe dire di altri scritti che appartengono cronologicamente all'epoca apostolica (i cosiddetti Padri Apostolici), come la prima lettera del papa san Clemente Romano

1.

2.

Ecco il testo latino: “Sacra Traditio ergo et Sacra Scriptura arcte inter se connectuntur atque communicant. Nam ambae, ex eadem divina scaturigine promanantes, in unum quodammodo coalescunt et in eundem finem tendunt. Etenim Sacra Scriptura est locutio Dei quatenus divino afflante Spiritu scripto consignatur; Sacra autem Traditio verbum Dei, a Christo Domino et a Spiritu Sancto Apostolis concreditum, successoribus eorum integre transmittit, ut illud, praelucente Spiritu veritatis, praeconio suo fideliter servent, exponant atque diffundant; quo fit ut Ecclesia certitudinem suam de omnibus revelatis non per solam Sacram Scripturam hauriat. Quapropter utraque pari pietatis affectu ac reverentia suscipienda et veneranda est (cf. Conc. Trid., Decr. De canonicis Scripturis)”. “It is important to note that only Scripture is defined in terms of what it is: it is stated that Scripture is the Word of God consigned to writing. Tradition, however, is described only functionally, in terms of what it does: it hands on the word of God, but is not the Word of God”, J. Ratzinger, «Dogmatic Constitution on Divine Revelation, Chapter II: The Transmission of Divine Revelation» in H. Vorgrimler (ed.), Commentary on the Documents of Vatican II: Volumen 3, Burns & Oates, London 1968, 181-198.

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o le sette lettere di sant'Ignazio di Antiochia. Sono una testimonianza preziosa della predicazione degli apostoli. Possiamo affermare che contengono la predicazione apostolica, che è parola di Dio, ma non che essi sono parola di Dio. Perché? Come abbiamo visto sopra (pp. 65-70), il passaggio dall'oralità alla scrittura implica per forza che il messaggio prenda una nuova forma. Dunque, è impossibile un'identità assoluta fra la parola orale e quella scritta. Il NT è espressione scritta della predicazione apostolica, e quindi diversa dall'emissione orale. Per esempio, se fosse stato possibile registrare il discorso di san Pietro il giorno di Pentecoste e poi qualcuno lo avesse semplicemente trascritto, il risultato sarebbe un testo con un messaggio diverso, quanto meno perché risulterebbe ambiguo: chi parla e a chi? Invece, il testo di Atti 2,14-36, che forse non riprende parola per parola quanto ha detto Pietro, ha veramente autorità apostolica e in virtù dell'ispirazione è parola di Dio. Infatti, DV9 sembra suggerire che, in virtù dell'ispirazione dello Spirito Santo, si può dire che la Scrittura non soltanto contiene la predicazione apostolica, come gli scritti dei Padri apostolici, ma che è parola di Dio. L'ispirazione fornisce quel plus che fa diventare un testo parola di Dio alla Chiesa, e non solo testimonianza scritta della parola del passato. (Della natura del carisma dell'ispirazione tratteremo nelle pp. 227246). La sacra Scrittura trasmette la parola di Dio essendo parola di Dio, in virtù dell'ispirazione. È una affermazione forte della Dei Verbum per definire la Bibbia. Ma allo stesso tempo si trova in un contesto che impedisce un'identificazione semplicistica fra Bibbia e parola di Dio, poiché rimane chiaro che esistono due realtà anteriori alla Scrittura che sono “parola di Dio”: la rivelazione storica e la predicazione apostolica, che sono la sorgente della tradizione, nella quale nasce la Scrittura. Infatti, la Dei Verbum comprende la Scrittura sempre all'interno della trasmissione della rivelazione, cioè dentro la tradizione in senso ampio. Seguendo la Dei Verbum, l'espressione “parola di Dio” si può predicare dunque di tre realtà diverse. • In primo luogo, parola di Dio è Gesù Cristo e con lui tutta la manifestazione di Dio a Israele, che arriva al culmine nella persona e nella vita di Cristo. • È parola di Dio anche la predicazione apostolica, cioè il vangelo proclamato dagli apostoli, il primo annuncio di Cristo, fatto dai testimoni. • In terzo luogo, l'ispirazione, per cui Dio è autore della Scrittura, permette di affermare che la Bibbia non solo trasmette la parola di Dio, ma lo è.

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Queste tre espressioni dell'unica parola di Dio, che è Cristo, non si possono separare1. All'inizio di questa parte (p. 50), ci chiedevamo come mai il Concilio Vaticano I non ha voluto dire che i libri sacri continent vere et propie Verbum Dei scriptum. La risposta in parte dipende da un problema terminologico: il verbo “contengono” poteva indicare che i libri sono parola di Dio solo in quanto al contenuto e non in quanto alla forma2. Ma dietro a queste sfumature si celava una problematica più profonda. Infatti, fuori dalla cornice della rivelazione e della sua trasmissione, la frase stabiliva troppo rapidamente un'identità forte fra la rivelazione e la Bibbia. Invece nella Dei Verbum la frase omessa nel 1870 si riprende quasi negli stessi termini: Sacrae autem Scripturae verbum Dei continent et, quia inspiratae, vere verbum Dei sunt. (DV24) [Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio].

Dobbiamo ancora parlare della tradizione. Come definirla? È difficile dire qualcosa di più preciso che “trasmissione viva della rivelazione”. In qualche misura, la tradizione si identifica con la Chiesa stessa, come insinua DV8: “la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede”. Rimando alle definizioni della tradizione proposte da Benedetto XVI nell'udienza generale del 26 aprile 2006, che porta come titolo: “La comunione nel tempo: la Tradizione”. Corrisponde alla teologia fondamentale il compito di descrivere i contenuti della tradizione, i suoi documenti e monumenti, i criteri per discernere fra la tradizione apostolica e le tradizioni ecclesiali, e così via3.

1.

2. 3.

“Los tres objetos de los que predicamos que son palabra de Dios tienen una relación entre ellos, que podemos precisar bajo las categorías de signo y referencia. La Sagrada Escritura es signo de un objeto, la referencia, que es la proclamación apostólica. Es evidente que, de la misma manera que un signo no agota la referencia pero sí señala su sentido, la Sagrada Escritura no agota la palabra de Dios de la proclamación apostólica, pero sí señala correctamente su sentido. En una segunda instancia, la palabra de Dios de la proclamación apostólica es signo de una realidad mayor, que es la revelación de Dios en la historia. También aquí, la proclamación apostólica no agota la referencia, ni siquiera agota su significado, pero sí señala su sentido correctamente”, Balaguer, «La economía», 439. Cf. Artola, «La Biblia como Palabra de Dios», 5-8. Cf. T. Citrini, «Tradizione» in F. Ardusso (ed.), Dizionario teologico interdisciplinare, Marietti, Ca-

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DV10, l'ultimo numero del capitolo II della Dei Verbum, descrive le relazioni fra Scrittura, Tradizione e Magistero. Lo studieremo più avanti, a proposito del ruolo del Magistero nell'interpretazione della Bibbia (cf. pp. 209-212). Breve excursus: Oscar Cullmann e il principio di sola Scriptura Come abbiamo visto, la Bibbia è di fatto inseparabile dalla tradizione che ce la presenta. Ed è così non perché lo dica la Dei Verbum, ma perché non è possibile avere un testo come norma al di fuori di una comunità che per tradizione lo considera normativo. Oscar Cullmann (1902-1999), teologo protestante, cercò di giustificare il principio luterano della sola Scriptura, senza negare completamente il ruolo della tradizione, ma limitandolo all'epoca apostolica. La sua tesi è che la tradizione in quanto trasmissione orale è esistita, ma la sua funzione è cessata una volta formata la Scrittura. Cullmann vede una spaccatura fra la Chiesa apostolica, che aveva autorità magisteriale e quindi ha stabilito il canone, e la Chiesa post-apostolica, a cui corrisponde il sottomettersi al canone ricevuto1. L'argomentazione di Cullmann pone un problema interessante. Se la Scrittura è la messa per iscritto della Parola di Dio e in virtù dell'ispirazione è anche Parola di Dio, possiamo chiederci perché esiste ancora la tradizione, cioè, perché oggi non basta la Bibbia come unica autorità. Come risposta, si può dire: 1) storicamente, la messa per iscritto non intendeva sostituire il resto della tradizione. Luca scrive il vangelo per riaffermare gli insegnamenti che ha ricevuto Teofilo (cf. Lc 1,1-4), non per sostituirli. Più chiaramente ancora, san Paolo esorta i tessalonicesi a seguire quanto egli ha trasmesso loro oralmente oppure per iscritto: “Perciò, fratelli, state saldi e mantenete le tradizioni che avete appreso sia dalla nostra parola sia dalla nostra lettera” (2 Ts 2,15)2. E infine in 2 Pt 1,20 si afferma che non si può interpretare la Scrittura privatamente. Gli autori del NT non hanno in mente l'idea della sola Scriptura. 2) inoltre, il principio della sola Scriptura presenta una impossibilità linguistica: non esiste un testo senza contesto, senza cioè elementi extra-testuali che ne

1. 2.

sale Monferrato 1977, 3:448-463; V. Proaño Gil, «Tradición (teología)» in Gran Enciclopedia Rialp, Rialp, Madrid 1991, 22:661-670; G. Tanzella-Nitti, Lezioni di teologia fondamentale, Aracne, Roma 2007. Cf. O. Cullmann, Heil als Geschichte: heilsgeschichtliche Existenz im Neuen Testament, Mohr Siebeck, Tübingen 1965, parte quinta. Questa frase aiutò un pastore protestante nel suo cammino verso la Chiesa cattolica: cf. S. Hahn K. Hahn, Rome Sweet Home: Our Journey to Catholicism, Ignatius Press, San Francisco 1993, 52-53 e 75.

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orientino la lettura. Il contesto “naturale” della Scrittura è la tradizione viva della Chiesa: in essa è nata, in essa viene trasmessa ed essa ne è il destinatario. Certamente, è possibile leggere la Bibbia al di fuori della tradizione, ma in tal caso si sostituisce questa tradizione con un altro contesto: la Bibbia come un classico della letteratura, la Bibbia come documento della storia delle religioni, eccetera.

9. Gesù e le Scritture d'Israele All'inizio di questa parte dicevamo che era possibile comprendere la sacra Scrittura nella cornice della rivelazione a partire dalle indicazioni che offriva la Bibbia stessa, ma che quella strada era lunga e complessa. Quindi abbiamo preferito seguire l'esposizione contenuta nella Dei Verbum, più sintetica. Ora, visto il posto speciale che occupa la Scrittura dentro l'economia della trasmissione della rivelazione — cioè, che essa trasmette la parola di Dio, essendo parola di Dio — si possono percorrere le pagine bibliche cercando indicazioni che possano confermare, precisare o arricchire la descrizione fatta dalla Dei Verbum. Alcuni testi dell'AT mostrano che, in Israele, le parole della rivelazione divina — sia la parola della Torah, sia l'oracolo profetico — possiedono un carattere autorevole che, in linea di massima, non viene meno quando queste parole si mettono per iscritto. Nel popolo ebraico prima di Cristo, si riconosce il valore di parola di Dio soprattutto alla Torah scritta e anche agli oracoli profetici messi per iscritto. Per un'analisi di come alcuni testi venivano considerati in Israele, si rimanda all’Excursus 3 (pp. 266-285). È importante tenere presente che, una volta scritte, le parole di origine divina diventano fisse, ma non immutabili, perché i testi subiscono un continuo processo di arricchimento e amplificazione. La legislazione contenuta nella Torah si attualizza con l'aggiunta di nuovi precetti e viene circondata da un contesto che racconta la storia delle origini del popolo, come fondamento dell'alleanza. Anche la parola dell’oracolo profetico non rimane inalterata dopo la sua messa per iscritto, ma riceve aggiunte e spesso viene inserita nel quadro della storia del popolo tramite racconti narrativi. Bisogna aggiungere che nell'AT non appare esplicitamente la nozione di Scrittura ispirata. Una cosa è l'ispirazione di Mosè e dei profeti, cioè la presenza in essi dello Spirito — che è fuori dubbio — e un'altra l'ispirazione dei libri. L'AT non parla mai dell'ispirazione degli scrittori in quanto scrittori o dei loro testi: In nessun testo dell'AT si formula in modo esplicito una riflessione sull'origine divina di un testo o di un libro. (…) Solo per analogia si può parlare di testimonianza

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dell'ispirazione per alcuni testi dell'AT dove è presente la convinzione circa l'efficacia della parola in quanto proveniente da Dio. Tale efficacia si riflette nel documento scritto da Dio — come sono le tavole dell'alleanza — o per ordine di Dio. Ma in questo processo che va dalla parola profetica alla stesura del testo scritto non si menziona né lo Spirito di Dio né una particolare azione di Dio che abiliti lo scrittore a scrivere quello e solo quello che Dio intende comunicare agli uomini per la loro salvezza1.

Tuttavia, i cristiani considerano le Scritture d'Israele come parola di Dio, non solo perché la contengono, ma perché sono ispirate e hanno Dio per autore. Come è arrivata la Chiesa ad un'affermazione così audace? Per rispondere, dobbiamo vedere l'insegnamento di Gesù e degli apostoli sulle Scritture di Israele. * Come abbiamo visto a proposito dei nn. 2 e 4 della Dei Verbum, al centro della fede cristiana troviamo Gesù Cristo. Egli, Parola di Dio fattasi uomo, rivela il Padre, non mediante uno scritto, ma nella sua persona e attraverso la sua storia, le sue opere e le sue parole, soprattutto la sua morte e risurrezione (cf. Eb 1; Ga 4,4; Gv 1; ecc.). Proprio a causa di questa posizione centrale di Cristo, per capire la fede della Chiesa riguardo alla Scrittura dobbiamo chiederci che cosa ha detto Gesù sulle Scritture d'Israele e quale funzione esse hanno svolto nella predicazione apostolica. Infatti, Gesù e gli autori del NT hanno parlato spesso delle Scritture, in riferimento ai libri sacri d'Israele. Nell'introduzione a questo corso, notavamo che l'uso del termine al singolare — “la Scrittura” — per riferirsi all'insieme delle antiche scritture d'Israele è una caratteristica originale del NT (cf. p. 20). Adesso vedremo che tale novità terminologica dipende da una novità più profonda: una nuova concezione dei libri, nata a partire dalla pienezza della rivelazione avvenuta in Cristo. Questa nuova concezione procede dagli insegnamenti di Gesù stesso che porteranno, fra l'altro, a riconoscere l'insieme delle Scritture di Israele come Parola di Dio2. 1.

2.

R. Fabris, «In che senso la Sacra Scrittura è testimonianza dell'ispirazione?» in A. Izquierdo (ed.), Scrittura ispirata: atti del Simposio internazionale sull'ispirazione promosso dall'Ateneo pontificio "Regina Apostolorum", Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, 41-60, 56.59. Artola arriva alla conclusione: “La doctrina de la inspiración bíblica en el AT se encuentra implícita y nunca se expresa la fe en el carácter sagrado de la Escritura por su procedencia inspirada”, Artola Sánchez Caro, Biblia y Palabra de Dios, 176. Per contrasto, in Mannucci - Mazzinghi, Bibbia, capitolo 8, sezione 1.4, si fanno grandi sforzi per mostrare come tutti i libri dell'AT fossero considerati in qualche modo parola di Dio nel giudaismo prima di Cristo. Ma questo tentativo entra in crisi di fronte al gruppo degli Scritti, come si riconosce nella nota 16 (p. 181) dello stesso libro. “La novedad cristiana no está tanto en la terminología empleada para designar los libros, y ni siquiera en la amplitud del canon, sino en el nuevo significado que, a la luz de la nueva y definitiva

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9.1. L'insegnamento di Gesù La Legge e i Profeti fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il regno di Dio e ognuno si sforza di entrarvi (Lc 16,16)

Gesù, da buon ebreo, prima di iniziare il suo ministero pubblico, andava ogni sabato alla sinagoga di Nàzaret e lì ascoltava la lettura della Torah e dei Profeti1. Eppure, quando comincia a predicare, Gesù manifesta una posizione profondamente originale nell’interpretare le Scritture (cf. Lc 4,16-21). Ciò che desta sorpresa nel suo auditorio è soprattutto l'autorità insolita con cui egli si presenta di fronte alla Legge, situandosi al di sopra non solo dei rabbini dell'epoca, ma dello stesso Mosè (cf. Mc 1,22; 10,2-8; Mt 5,21-48). All'inizio del discorso della montagna (Mt 5-7), Gesù fa un proclama programmatico, in cui definisce qual è il suo atteggiamento verso la Torah e i Profeti: Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento [οὐκ ἦλθον καταλῦσαι ἀλλὰ πληρῶσαι]. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto (Mt 5,17-18).

Gesù difende la perennità della rivelazione ricevuta da Israele e allo stesso tempo lascia intendere che la Torah è imperfetta, poiché egli è venuto per compierla, nel senso di portarla alla pienezza (πληρῶσαι, letteralmente “riempire”). La continuazione del discorso chiarisce di quale pienezza o compimento sta parlando Gesù. Egli, infatti, offre un'interpretazione “piena” della Torah non solo in quanto al contenuto, ma soprattutto perché, con audacia inaudita, si mette al di sopra di essa: Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna (Mt 5,21-22).

1.

revelación de Dios en Cristo, se reconoce al conjunto de los escritos ya existentes”, G. Aranda Pérez, «Función de la Escritura en la Revelación divina» in C. Izquierdo (ed.), Dios en la palabra y en la historia. XIII Simposio internacional de teología de la Universidad de Navarra, Eunsa, Pamplona 1993, 491-502, 498. Sulla lettura sinagogale della Torah e dei Profeti all'epoca di Gesù, cf. L. I. Levine, La sinagoga antica. 1: Lo sviluppo storico, Paideia, Brescia 2005, 157-165.

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La pienezza della Torah che Gesù realizza non consiste nell’esigenza di una osservanza dettagliata delle norme mosaiche, ma in un approfondimento nell’insegnamento della Torah e dei Profeti che va più in là rispetto a una rigida osservanza dei precetti presi alla lettera. Soprattutto nei vangeli di Matteo e di Marco, troviamo diversi episodi nei quali Gesù interpreta i testi in maniera autorevole e spesso nuova, con indipendenza dalle tradizioni, specialmente nelle controversie con scribi e farisei. Fin dal tempo del suo ministero pubblico, Gesù aveva preso una posizione personale originale, diversa dall'interpretazione ricevuta al suo tempo, che era quella «degli scribi e dei farisei» (Mt 5,20). Numerose ne sono le testimonianze: le antitesi del discorso della montagna (Mt 5,21-48), la libertà sovrana di Gesù nell'osservanza del sabato (Mc 2,27-28 e par.), il suo modo di relativizzare i precetti di purezza rituale (Mc 7,1-23 e par.), la sua esigenza radicale, al contrario, in altri campi (Mt 10,2-12; 10,17-27 e par.) e soprattutto il suo atteggiamento di accoglienza verso «i pubblicani e i peccatori» (Mc 2,15-17 e par.). Non si trattava da parte sua di capriccio da contestatore, ma, al contrario, di fedeltà più profonda alla volontà di Dio espressa nelle Scritture (cf. Mt 5,17; 9, 13; Mc 7,8-13 e par.; 10,5-9 e par.)1.

Gesù si presenta dunque come un rabbino che porta a pienezza la Torah e i Profeti con un’interpretazione originale. Ma egli si spinge ancora più in là. Gesù proclama in più occasioni, dai primi momenti del suo ministero pubblico (cf. Lc 4,21), che nella sua vita — specialmente nella sua passione, morte e risurrezione — si adempiranno le profezie delle Scritture. Cioè egli sostiene che gli oracoli profetici conservati per iscritto e che dovevano ancora compiersi troveranno la loro realizzazione in lui. Per esempio, Gesù fa un riferimento esplicito al compimento delle Scritture nel terzo annuncio della sua morte e risurrezione: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme, e si compirà tutto ciò che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell'uomo: verrà infatti consegnato ai pagani, verrà deriso e insultato, lo copriranno di sputi e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno e il terzo giorno risorgerà» (Lc 18,31-33; cf. Mt 20,18-19; Mc 10,33-34).

Quando si avvicina l'ora della passione, Gesù diventa più insistente. Secondo Luca, le ultime parole di Gesù prima di uscire dal cenacolo si riferiscono proprio al compimento delle Scritture nella sua passione, identificandosi con la misteriosa figura del Servo del Signore descritta da Isaia:

1.

Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione (EB 1435).

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«Perché io vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra gli empi. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo compimento» (Lc 22,37; cf. Is 53,12)1.

Arrivati all'orto, davanti a coloro che stanno per prenderlo, Gesù spiega che tutto è previsto nel piano di Dio manifestato nelle Scritture: In quello stesso momento Gesù disse alla folla: «Come se fossi un ladro siete venuti a prendermi con spade e bastoni. Ogni giorno sedevo nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato. Ma tutto questo è avvenuto perché si compissero le Scritture dei profeti». Allora tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono (Mt 26,55-56; cf. Mc 14,48-49).

Le citazioni potrebbero moltiplicarsi, ma bastano quelle riportate. Invece, è opportuno chiedersi a quali Scritture si riferisca Gesù. Da quanto ci è stato trasmesso, non risulta che abbia mai elencato i libri che riteneva sacri. Nel cenacolo cita Isaia, lungo il cammino verso il Getsemani cita Zaccaria e nell'orto parla genericamente delle “Scritture dei profeti”. Pensa forse solo ai libri profetici, quando parla della sua passione e morte? Quando Gesù parla del compimento delle scritture nella sua vita, di fatto non si limita ai libri profetici, nemmeno nel senso ampio del termine nella BH (i profeti anteriori e posteriori)2. Anche i Salmi, che non appartengono alla collezione dei profeti, entrano dentro “le Scritture” che si devono compiere. In Gv 13,18, Gesù parla del compimento della Scrittura e cita Sal 40,10. Nei sinottici, durante l'ultima settimana del suo ministero pubblico, Gesù dice ai sacerdoti e agli scribi, come conclusione della parabola dei vignaioli omicidi: «Non avete letto questa Scrittura: La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d'angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi?» (Mc 12,10-11; cf. Mt 21,42; Lc 20,17).

La citazione proviene da Sal 118,22-23. Peraltro è chiaro dal contesto che la pietra scartata è Gesù stesso, che sta annunciando la propria morte3. 1. 2. 3.

Matteo e Marco riportano un detto simile di Gesù mentre cammina insieme ai discepoli verso il monte degli Ulivi (cf. Mt 26,31-32; Mc 14,27; citazione di Za 13,7). Nell'ultima citazione, dove Mt 26,56 dice “le Scritture dei profeti”, Mc 14,49 riporta semplicemente “le Scritture”. Nell’episodio della cattura, Mt 26,53-54 trasmette un'affermazione di Gesù dove parla delle Scritture in genere. In ebraico, c’è un gioco di parole. Gesù parla del figlio (in ebraico ‫בּן‬,ֵ bēn), ucciso dai vignaioli, e poi della pietra (‫א ֶבן‬, ֶ ’eben) scartata dagli architetti.

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In Gv 5,39 Gesù esorta i giudei a scrutare le Scritture, perché “sono proprio esse che danno testimonianza di me”. Per Gesù, dunque, le Scritture in genere — senza ulteriori specificazioni — offrono una profezia della sua missione. Dopo la risurrezione, Gesù insiste nel compimento delle Scritture in lui come requisito per comprendere tutto quanto è successo. I discepoli di Emmaus non solo vengono rimproverati per la loro mancanza di fede, ma ricevono anche una lezione di esegesi che copre l'intera Bibbia: Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui (Lc 24,25-27).

Mosè viene allineato ai profeti e dunque la Torah è considerata come profezia: torneremo su questo punto più avanti. La stessa domenica di Pasqua, questa volta di fronte agli apostoli, Gesù risorto ripete l'insegnamento dato loro prima della passione, ma adesso dà loro la capacità di comprenderlo: Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme» (Lc 24,44-47).

Questo brano fa vedere come “tutte le Scritture” (Lc 24,27) equivalgono a “la Legge di Mosè, i Profeti e i Salmi” (Lc 24,44), il che corrisponderebbe alla divisione in tre gruppi della BH (testimoniata dal prologo del Siracide) nel caso in cui si prendano i Salmi come equivalenti a “gli altri scritti”: vi torneremo a proposito del canone. L'importante è che Gesù non pone dei limiti, non dice che solo una parte degli scritti d'Israele si adempie in lui, ma tutti, senza distinzioni. Poi, la Chiesa ha dovuto determinare quali sono i limiti precisi di “tutte le Scritture”, cioè ha dovuto definire il canone. In sintesi, a partire dalle parole di Gesù che raccolgono i quattro vangeli, si può dire che: a) Gesù considera le Scritture come unitarie soprattutto in quanto profezia, e lo fa probabilmente pensando ai libri interi, non solo agli oracoli.

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b) Queste Scritture hanno profetizzato le sue azioni, le sue parole e specialmente la sua passione, morte e risurrezione, che a loro volta sono il compimento delle Scritture. Gesù compie la Legge, perché la porta alla sua pienezza. Gesù compie soprattutto le profezie, che si riferivano alla salvezza che egli ha portato. E finalmente possiamo anche dire che Gesù compie la narrazione, perché con lui la storia della salvezza arriva allo snodo1. c) È compito degli uomini comprendere le Scritture, “scrutarle” (cf. Gv 5,39) per scoprire il significato del messaggio di Dio come testimonianza di Cristo. Le Scritture si capiscono guardando a Gesù, Gesù va compreso leggendo le Scritture. Una delle conseguenze di questa impostazione sarà cominciare a considerare le Scritture d'Israele come un gruppo chiuso di libri, perché la figura di Gesù suppone un taglio rispetto alla storia anteriore e l'inizio di una nuova era. La Torah e i Profeti arrivano fino a Giovanni, perché con Cristo si manifesta il regno di Dio (cf. Mt 11,13; Lc 16,16), arriva la pienezza dei tempi (cf. Gal 4,4). A partire da Gesù è possibile vedere le antiche Scritture come una collezione unitaria, perché egli si presenta come annunciato da quegli scritti e come il loro compimento. Finisce dunque la tappa delle promesse. Gesù non ha parlato del ruolo di Dio nella composizione della Scrittura (ispirazione), né ha sostenuto esplicitamente che la Scrittura sia parola di Dio. Ma ha gettato le basi sulle quali la Chiesa arriverà ad affermarlo, come vedremo. 9.2. Dalle parole di Gesù alla predicazione apostolica Filippo trovò Natanaele e gli disse: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nàzaret» (Gv 1,45).

Così come viene descritta nei vangeli, l'identità di Gesù presuppone la conoscenza e l'accettazione delle Scritture d'Israele. Egli è il Figlio di Dio, non di qualsiasi divinità, ma del Dio rivelatosi a Israele; egli è il Cristo, cioè il Messia, il Re di Israele. In lui trovano compimento le promesse fatte ai patriarchi e la salvezza annunciata dai profeti.

1.

“Ce que «accomplit» le récit, c'est son dénouement et nous rejoindrons une expression courante en disant que l'acte de Jésus Christ accomplit les «figures» de l'Ancien Testament. Ce faisant, il «dénoue» le récit de l'Ancien Testament en même temps que le récit de sa propre vie”, P. Beauchamp, L'un et l'autre testament. II, Accomplir les Écritures, Seuil, Paris 1990, 220.

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Pertanto, per proclamare la buona novella di Gesù risorto — cioè predicare il vangelo — diventa essenziale fare riferimento alle Scritture. Quando san Paolo scrive ai cristiani di Roma, si presenta come apostolo “scelto per annunciare il vangelo di Dio che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture” (Rm 1,1-2; l'allusione alle Scritture per definire il vangelo non manca nel finale della medesima lettera: cf. Rm 16,25-27). Quando lo stesso Paolo vuole sintetizzare in poche frasi il vangelo che ha ricevuto e trasmesso, usa per due volte la formula κατὰ τὰς γραφὰς, secundum scripturas, poi entrata nel Credo: A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture (1 Co 15,3-4).

Includere il compimento delle antiche promesse in Cristo non è una possibilità fra le tante, ma è parte costitutiva della predicazione apostolica. Anche i discorsi di Pietro, di Stefano o di Paolo raccolti nel libro degli Atti contengono, in diversi modi, almeno un'allusione al compimento delle Scritture in Gesù (specialmente illuminante al riguardo è il discorso di Paolo nella sinagoga di Antiòchia di Pisìdia: cf. At 13,16-41). * In Gv 5,39, Gesù invita a scrutare le Scritture, perché esse danno testimonianza di lui. Abbiamo visto come in alcune occasioni egli stesso citi alcuni brani, segnalandone il compimento in circostanze specifiche della sua vita. Non c’è quindi da stupirsi che gli apostoli, gli evangelisti e i primi cristiani seguissero il suo invito e si mettessero a setacciare le antiche Scritture, cercando — ognuno a modo suo — in quale modo Dio aveva preparato e annunciato la venuta di suo Figlio. Infatti, tutti i libri del NT contengono questa caratteristica del messaggio cristiano, benché espressa con modalità diverse. Non è questo il momento di esaminare tutti i libri del NT, ma possiamo passare brevemente in rassegna i quattro vangeli. 1) Matteo è quello che usa più spesso la “formula di adempimento”, che, nella sua versione completa, dice così: “tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta” (Mt 1,22). Poi segue la citazione esplicita di un brano, che si applica a un episodio specifico della vita di Gesù. La formula riappare, a volte in forma abbreviata, in Mt 2,15.17.23; 4,14; 8,17; 12,17; 13,35; 21,4; 26,56; 27,9.

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2) Marco parla esplicitamente del compimento delle Scritture in Gesù una volta sola, ma in un momento molto significativo, l'inizio della Passione (cf. Mc 14,49). 3) Di Luca abbiamo già citato i testi più significativi, che sono il terzo annuncio della passione (Lc 18,31-33) e quelli della catechesi di Gesù risorto (Lc 24). 4) Nel vangelo di Giovanni troviamo l'idea del compimento delle Scritture espressa in maniera simile a Matteo. Ma Giovanni aggiunge che i discepoli, mentre Gesù era in mezzo a loro, spesso non hanno capito i gesti e le parole del Maestro. Però, dopo la risurrezione, riconoscono chi era Gesù e lo comprendono alla luce delle Scritture. Ad esempio, quando Gesù parla di distruggere il tempio riferendosi al proprio corpo, l'evangelista commenta: Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù (Gv 2,22).

Troviamo un'osservazione simile più avanti, nel racconto dell'ingresso messianico di Gesù in Gerusalemme: cf. Gv 12,14-16 e, per la citazione, Zc 9,9. * Talvolta lo sforzo compiuto per trovare ovunque profezie che si sono compiute in Cristo può produrre risultati poco convincenti, che forzano i testi, almeno secondo i criteri moderni. Per esempio, in Mt 27,9-10 si dice che il tradimento di Giuda compie la Scrittura, ma la citazione è una combinazione di un testo di Zaccaria con un altro di Geremia che sembra arbitraria: Allora si compì quanto era stato detto per mezzo del profeta Geremia: E presero trenta monete d'argento, il prezzo di colui che a tal prezzo fu valutato dai figli d’Israele, e le diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore.

La prima citazione non proviene da Geremia, ma da Zc 11, 12-13 (per la seconda cf. Ger 32,6-15). Di fronte a casi come questo — che diventeranno molto frequenti nell'esegesi patristica — si possono cercare diverse spiegazioni. Per esempio, si può affermare che si tratta di operazioni esegetiche comuni nell'epoca e lontane dalla nostra mentalità moderna. Ma l'importante è capire che di solito gli evangelisti non citano questi testi come prove o dimostrazioni della messianicità di Gesù, ma seguono il percorso inverso: il punto di partenza è la fede in lui come Messia e Figlio di Dio, che compie le Scritture, e soltanto dopo cercano i testi, che verrano più o meno aggiustati secondo i casi. Al contrario, se si prende un punto di vista apologetico, che cerca di mostrare la credibilità della fede cristiana, prima si dovrà mostrare il senso originale di una profezia per poi segnalarne il compimento in Cristo. Questo percorso è legittimo, utile e

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anche molto difficile1. Ma non è così che hanno ragionato i primi cristiani. La predicazione apostolica intendeva annunciare la buona novella della venuta del Messia, più che dimostrare razionalmente che Gesù deve essere il Messia. 9.3. La mutatio scripturarum: le Scritture come parola di Dio I libri del Vecchio Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento (cfr. Mt 5,17; Lc 24,27), che essi a loro volta illuminano e spiegano. Dei Verbum, n. 16.

Come abbiamo appena visto, Gesù e poi gli autori del NT parlano delle “Scritture” riferendosi agli scritti ricevuti dalla tradizione d'Israele, senza speciali distinzioni o specificazioni. Tuttavia, in un processo quasi inavvertito, le Scritture acquistano fra i cristiani uno status nuovo, più sublime rispetto alla venerazione che i diversi gruppi giudaici nutrivano verso i loro scritti sacri2. Per descrivere la natura di questo cambiamento, alcuni hanno usato un'espressione felice: con Cristo è avvenuta una trasformazione o mutazione delle Scritture (mutatio scripturarum)3. Per esempio, così si esprime Origene nel suo commento al vangelo di Giovanni: La Parola di Dio, che era in principio presso Dio, non è, nella sua pienezza, una molteplicità di parole; essa non è molte parole, ma una sola Parola che abbraccia un gran numero di idee di cui ciascuna idea è una parte della Parola nella sua totalità (…). E se il Cristo ci rimanda alle ‘Scritture’, come quelle che gli rendono testimonianza, considera i libri della Scrittura un unico rotolo, perché tutto ciò che è stato scritto di lui è ricapitolato in un solo tutto4.

Nel dire che tutte le Scritture parlano di Gesù e si compiono in lui, gli autori del NT conferiscono ad esse, oltre all'unità, un valore più profondo di quello di cui gode-

1. 2. 3. 4.

Sulla profezia come argomento di credibilità, cf. R. Fisichella, «Profezia» in R. Latourelle - R. Fisichella (eds.), Dizionario di Teologia Fondamentale, Cittadella, Assisi 1990, 866-878, specialmente 866-868; C. Izquierdo, Teología Fundamental, Eunsa, Pamplona 32009, 381-384. Cf. Farkasfalvy, Inspiration & Interpretation, 21-23. Cf. P. Grelot, Sens chrétien de l'Ancien Testament: esquisse d'un traité dogmatique, Desclée, Tournai 2 1962, 403. In Ioannem V, 5-6 (SC 120, 380-384), testo citato nel n.9 dei Lineamenta del Sinodo sulla Parola di Dio. Nel n. 18 della Verbum Domini appare il riferimento al testo, ma senza citarlo.

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vano prima di Cristo. “Gli scritti del Nuovo Testamento riconoscono che le Scritture del popolo ebraico hanno un valore permanente di rivelazione divina”, dice la PCB1. Ma si tratta di un valore — possiamo aggiungere noi — che prima non era attribuito alle Scritture in genere, ma solo alla Torah e in parte ai libri profetici (cf. l'Excursus 3, pp. 266-285). Infatti, se nel NT l'intero AT viene considerato come rivelazione di Dio, ciò è dovuto al fatto che previamente Gesù aveva dichiarato che tutte le Scritture parlano di lui. Oltre ai testi già citati, possiamo ricordare le parole di Gesù in Gv 5: Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me; perché egli ha scritto di me. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole? (Gv 5,45-47).

Per credere a Gesù, prima bisogna credere a Mosè, cioè credere in ciò che ha scritto: la Torah2. Ma credere davvero a Mosè vuol dire riconoscere che egli ha scritto di Gesù. Gesù invoca l'autorità di Mosè, ma l'autorità di Mosè alla fine si appoggia su quella di Gesù, grazie al quale sappiamo che Mosè ha scritto profeticamente, e allora acquista un valore nuovo: Mosè non solo ha trasmesso la Torah di Dio, ma ha annunciato anche i giorni del Messia. Così, Mosè appare non solo come il legislatore d'Israele, ma soprattutto come profeta del Messia. Certamente Mosè era già considerato profeta (cf. Dt 18,15-18; 34,10), ma Gesù sottolinea questa caratteristica al di sopra di quella di legislatore, che lo rendeva una figura unica. Invece, come profeta di Cristo, Mosè non si trova più al centro della rivelazione, ma fa parte di una linea che continua con gli altri profeti fino a Giovanni Battista. La mutatio scripturarum infatti risulta specialmente chiara nel caso del Pentateuco, che dai cristiani comincia ad essere considerato più come profezia che come legge. Gesù dice: “tutti i Profeti e la Legge infatti hanno profetato fino a Giovanni” (Mt 11,13). Non vale più lo schema circolare della Tanak, ma adesso si impone quello lineare (cf. p. 37). Anche san Paolo arriva a una valutazione simile del Pentateuco:

1. 2.

Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana (24 maggio 2001), n. 8. Un insegnamento simile, espresso in modo più drammatico, lo troviamo nella conclusione della parabola del povero Lazaro, nel dialogo fra Abramo e l'uomo ricco: “Abramo rispose: «Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro». E lui replicò: «No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno». Abramo rispose: «Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti»” (Lc 16,29-31).

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Nella lettera ai Galati e in quella ai Romani, l'apostolo argomenta a partire dalla Legge per dimostrare che la fede in Cristo ha posto fine al regime della Legge. Egli mostra che la Legge come rivelazione ha annunciato la propria fine come istituzione necessaria alla salvezza (Gal 3,6-14.24-25; 4,4-7; Rm 3,9-26; 6,14; 7,5-6.). La frase più significativa a questo riguardo è quella di Rm 3,21 dove l'apostolo afferma che la manifestazione della giustizia di Dio nella giustificazione offerta dalla fede in Cristo è avvenuta «indipendentemente dalla Legge», ma è tuttavia «conforme alla testimonianza della Legge e dei profeti»1.

La categoria più audace con cui è stato espresso il nuovo valore delle Scritture giudaiche è l'applicazione ad esse del concetto di “parola di Dio”, già sviluppato nell'AT, ma non in riferimento ai testi. Per gli antichi ebrei, i libri come tali non erano ritenuti parola del Signore, benché alcuni la contenessero, specialmente la Torah. Ciò che ha dato origine alla loro valutazione come parola ispirata da Dio e in definitiva come parola dello stesso Dio è la convinzione che le Scritture nel loro insieme sono profezia, perché annunciano il mistero di Cristo. In questo processo di sacralizzazione del testo, un ruolo fondamentale corrisponde alla sua assimilazione all'autorità delle parole di Gesù. Le parole pronunciate da Gesù sono divine, la sua predicazione è parola di Dio (cf. Lc 5,1), perché egli è la Parola fattasi carne. In secondo luogo, anche il Vangelo, la predicazione apostolica, viene considerata “parola di Dio” (cf. At 4,13; 6,2.7; 1 Ts 2,13; 1 Pt 1,23-25) o “parola del Signore” (cf. At 8,25; 13,44; 15,35-36; 2 Ts 3,1), e questo per due motivi: innanzitutto perché il suo contenuto non è altro che Cristo, ma poi anche perché l'autorità di Cristo è veramente presente nei suoi inviati2. Per illustrare questo processo, possiamo ricordare le parole della 1 Pietro, citate parzialmente all'inizio di questa prima parte:

1. 2.

Idem, Il popolo ebraico, n. 8. “Si comparamos ahora la legitimación de los apóstoles con la de los profetas del Antiguo Testamento, salta a la vista que aquéllos estuvieron en contacto personal con el Hombre-Dios que los envía, y resulta perceptible también la intensidad de la vinculación personal con el Señor que les hace el encargo. El axioma rabínico de que «el enviado es como el que envía» se realiza en el apóstol como corroboración de la vinculación personal con Cristo que le hace actuar «en lugar de Cristo» (2 Cor 5,20), de forma que la comunidad lo acoge «como si fuera el mismo Cristo» (Ga 4,14). Así, Cristo mismo habla a través del apóstol y confiere a su testimonio el carácter de palabra de Dios”, L. Scheffczyk, «La Sagrada Escritura, palabra de Dios y de la Iglesia», Communio (edición española) 23 (2001) 154-166, 160. Questo articolo è stato pubblicato anche in tedesco e in inglese.

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Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta, ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi; e voi per opera sua credete in Dio, che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria, in modo che la vostra fede e la vostra speranza siano rivolte a Dio. Dopo aver purificato le vostre anime con l'obbedienza alla verità per amarvi sinceramente come fratelli, amatevi intensamente, di vero cuore, gli uni gli altri, rigenerati non da un seme corruttibile ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna. Perché “ogni carne è come l'erba e tutta la sua gloria come un fiore di campo. L'erba inaridisce, i fiori cadono, ma la parola del Signore rimane in eterno” (Is 40,6-8). E questa è la parola del Vangelo che vi è stato annunciato (1 Pt 1,18-25).

La parola di Dio di cui si parla in Isaia non è un discorso umano, ma la rivelazione della sua gloria (cf. Is 40,5), cioè il ritorno del Signore in mezzo a Gerusalemme dopo la punizione dell'esilio, per portare sollievo al suo popolo. In questo contesto, la frase di Is 40,6-8 sottolinea la stabilità della parola di Dio, di fronte all'incostanza e alla fragilità delle parole umane: Dio sarà fedele alle sue promesse. Nella 1 Pietro si applica il testo isaiano sulla parola di Dio a Cristo presente nella predicazione apostolica, che libera dai peccati e dà una nuova vita, cioè fa diventare cristiani. “La parola del Vangelo”, ricevuta dai destinatari della 1 Pietro tramite uomini, non è semplice parola umana1. 1.

Anche nella lettera ai Colossesi si fa esplicita l'assimilazione della predicazione apostolica al concetto di parola di Dio, attraverso la confluenza di entrambe nel mistero di Cristo. La lettera si rivolge a cristiani che sono arrivati alla Chiesa dal paganesimo: “Un tempo anche voi eravate stranieri e nemici, con la mente intenta alle opere cattive; ora egli [Cristo] vi ha riconciliati nel corpo della sua carne mediante la morte, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili dinanzi a lui; purché restiate fondati e fermi nella fede, irremovibili nella speranza del Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunciato in tutta la creazione che è sotto il cielo, e del quale io, Paolo, sono diventato ministro. Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio verso di voi di portare a compimento la parola di Dio, il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi. A loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria. È lui infatti che noi annunciamo, ammonendo ogni uomo e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per rendere ogni uomo perfetto in Cristo. Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Col 1,21-29). A differenza del passo della 1 Pietro, qua non viene citato alcun testo biblico. Ma la menzione della “parola di Dio”, che doveva essere portata a compimento, deve intendersi come un'allusione al concetto biblico del dabar Adonai. In Colossesi si presenta la parola del Signore nell'AT come l'espressione velata della futura riconciliazione degli uomini con Dio, manifestata e realizzata in Cristo.

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In terzo luogo, dopo la rivelazione in Cristo e l'annuncio del vangelo, la considerazione di parola di Dio si estende alle Scritture d'Israele: La consapevolezza che i detti di Gesù e il messaggio evangelico erano parola di Dio, portò i cristiani a una nuova comprensione di tutta la Scrittura dell'A.T. Non era parola di Dio solo quanto Gesù aveva annunciato e il contenuto della predicazione dei suoi inviati, lo era pure l'A.T., che in Cristo aveva raggiunto il suo compimento1.

Artola dimostra quest'affermazione a partire dal modo in cui gli autori del NT citano le Scritture. A volte, è citato un testo come “Parola di Dio” (cf. Gv 10,35) o viene introdotto così: “dice lo Spirito Santo” (cf. Eb 3,7). E non si citano così unicamente oracoli o precetti legali, ma anche salmi o passaggi redazionali, soprattutto in Ebrei (cf. 1,5-13; 3,7-11, ecc.; ma si veda pure At 4,25). Artola conclude: Per il N.T. la Scrittura dell'A.T. è nell'insieme parola di Dio in modo globale, ma effettivo. L'atto empirico della trascrizione, della sua totalizzazione grazie al concetto di Scrittura e del suo impiego liturgico e kerygmatico spinse, quindi, il cristianesimo nascente a considerare in modo complessivo tutto l'A.T. come parola di Dio2.

Alla luce di Cristo, pienezza e compimento della rivelazione, tutta la Scrittura viene compresa come profezia e quindi come parola di Dio. È a partire dalla fede in Gesù Cristo come rivelazione definitiva di Dio che la generazione apostolica percepisce la funzione della «Scrittura» e, conseguentemente, il suo carattere di ispirata da Dio come quell’insieme di libri (…). Viene scoperta una funzione nuova di tutta la «Scrittura»: mostrare il disegno di Dio che si è compiuto nella morte e risurrezione di Cristo. Mediazione dunque della rivelazione divina non sono già unicamente i testi legali o gli oracoli profetici, ma i libri come tali con tutto il loro contenuto3.

1. 2. 3.

A. M. Artola - J. M. Sánchez Caro, Bibbia e parola di Dio, Paideia, Brescia 1994, 42. Cf. anche Basta - Bovati, "Ci ha parlato per mezzo dei profeti", 75-77. Artola - Sánchez Caro, Bibbia e parola di Dio, 43. Traduzione mia. “Es desde la fe en Jesucristo como revelación definitiva de Dios, desde donde la generación apostólica percibe la función de la «Escritura» y, consecuentemente, su carácter de inspirada por Dios como tal conjunto de libros (…). Se descubre una función nueva a toda la «Escritura»: mostrar el designio de Dios que se ha cumplido en la muerte y resurrección de Cristo. Mediación por tanto de la revelación divina no son ya únicamente los textos legales o los oráculos proféticos, sino los libros como tales con todo su contenido”, Aranda Pérez, «Función de la Escritura en la Revelación divina», 499.

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L'ultimo passo in questo processo sarà il più semplice: gli scritti che raccontano la vita di Gesù e le lettere e altri scritti che contengono la predicazione degli apostoli cominceranno ad assimilarsi alle Scritture dell'AT. Della nascita del NT come sacra Scrittura parleremo più avanti, nella spiegazione della formazione del canone (cf. pp. 139-154). Prima di concludere questa sezione, rimane ancora un punto da chiarire. Se i testi biblici sono stati ispirati dallo Spirito Santo nel momento della loro composizione, come mai possiamo dire che l'AT non era considerato parola di Dio nel suo insieme prima di Cristo? Possono i testi acquistare un valore di rivelazione dopo la loro composizione? Per rispondere, conviene riprendere lo schema fondamentale della comunicazione: mittente → messaggio → ricevente o destinatario Finché il messaggio non è ricevuto dal destinatario, non si produce la comunicazione. Nel caso delle Scritture d'Israele, esse includevano diversi elementi: oracoli, precetti, racconti, preghiere, ecc. Prima della venuta di Cristo, buona parte di questi testi non erano visti come parola di Dio al suo popolo. L'ispirazione era senz'altro presente, ma, per così dire, non del tutto operativa. La pienezza della rivelazione avvenuta in Cristo ha aperto il senso profetico di tutte le Scritture e allora Dio ha potuto stabilire una comunicazione tramite tutti quei testi. Se si ha una comprensione troppo “ontologica” della parola di Dio, come se essa fosse una cosa completamente oggettiva, cioè indipendente dalla sua ricezione, può risultare sconcertante dire che alcuni testi siano diventati parola di Dio. Possiamo trovare un certo sostegno per quest’affermazione in un testo — un po’ enigmatico — della 2 Corinzi. San Paolo sostiene che gli ebrei che non conoscono o non accettano Cristo leggono la Torah come se fossero coperti da un velo: Forti di tale speranza, ci comportiamo con molta franchezza e non facciamo come Mosè che poneva un velo sul suo volto, perché i figli d'Israele non vedessero la fine di ciò che era solo effimero. Ma le loro menti furono indurite; infatti fino ad oggi quel medesimo velo rimane, non rimosso, quando si legge l'Antico Testamento, perché è in Cristo che esso viene eliminato. Fino ad oggi, quando si legge Mosè, un velo è steso sul loro cuore; ma quando vi sarà la conversione al Signore, il velo sarà tolto. Il Signore è lo Spirito e, dove c'è lo Spirito del Signore, c'è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore (2 Cor 3,12-18).

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L’interpretazione di un testo non dipende soltanto da ciò che ha scritto l’autore, ma anche dalla capacità e dalle disposizioni del lettore, come vedremo nella Parte IV. * La concezione cristiana della Scrittura, come Parola di Dio, scritta sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, che ha Dio per autore e che si rivolge alla Chiesa, non sarà completa finché non sarà stato spiegato il canone. Del rapporto fra l'ispirazione dei libri e la rivelazione parleremo nelle seguenti pagine, mentre del canone parleremo nella Parte III.

10. Rivelazione e ispirazione Dopo aver commentato i primi due capitoli della Dei Verbum, abbiamo visto che cosa dice Gesù della Scrittura. Abbiamo visto anche come, seguendo l'insegnamento ricevuto da Gesù, nella predicazione apostolica e nel NT si estende la considerazione di parola di Dio a tutte le Scritture, soprattutto in quanto profezia di Cristo (sopprimendo così la distinzione qualitativa fra la Torah e il resto dei libri). 10.1. Le testimonianze bibliche sull'ispirazione L'ultimo punto, che abbiamo sintetizzato con l'espressione patristica mutatio scripturarum, sboccia, per così dire, in due testi del NT che affermano l'ispirazione delle Scritture: 2 Pt 1,20-21 e 2 Tm 3,16. Tutti i manuali d'IGSS commentano questi due brani, considerati i riferimenti classici della dottrina cristiana sull'ispirazione biblica1. Qui aggiungeremo un terzo testo, preso dalla 1 Pietro. 10.1.1. Lo Spirito e le Scritture (1 Pietro 1; 2 Pietro 1) Della 1 Pietro, abbiamo citato sopra (p. 96) un testo in cui viene identificata la predicazione del vangelo con la parola di Dio (1 Pt 1,23-25). Alcuni versetti prima, l'autore della lettera esorta i fedeli a sopportare con gioia e pazienza le contraddizioni che li affliggono, pensando alla salvezza delle loro anime. Il brano che ci interessa cerca di offrire un fondamento per il sollievo e la speranza che la lettera intende offrire ai destinatari, ai quali vengono ricordati i grandi doni ricevuti, fra cui una rivelazione, il Vangelo, desiderato dagli antichi profeti e dagli angeli: 1.

Cf. per esempio Mannucci - Mazzinghi, Bibbia, capitolo 9, sezione 3; Tábet, Introduzione generale alla Bibbia, B, capitolo I,3b). Per un commento più esteso, cf. R. Fabris, «Lo Spirito Santo e le Scritture in 2Tm e 2Pt», Ricerche storico bibliche 12 (2000) 297-319.

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Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che preannunciavano la grazia a voi destinata; essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che le avrebbero seguite. A loro fu rivelato che, non per se stessi, ma per voi erano servitori di quelle cose che ora vi sono annunciate per mezzo di coloro che vi hanno portato il Vangelo mediante lo Spirito Santo, mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo (1 Pt 1,10-12).

Il testo non parla né delle Scritture né dell'ispirazione. Esso contiene però un'affermazione capitale per la comprensione cristiana dell'ispirazione: lo Spirito che ha agito in Cristo e nella proclamazione del Vangelo operava già prima, nei profeti, affinché essi potessero annunciare la passione, morte e risurrezione di Gesù. Il vincolo fra questi profeti, di cui non si forniscono ulteriori precisazioni, e le Scritture apparirà esplicitamente nella 2 Pietro. * La 2 Pietro è una lettera di congedo o, più precisamente, una lettera che rientra nel genere letterario dei testamenti. San Pietro — non importa se scrive lui in persona o un altro in suo nome — sente vicina la sua partenza da questo mondo e vuole ricordare ai battezzati gli insegnamenti della fede. Fra questi si trova quello della “venuta potente” di Gesù, la parusia: Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo [τὴν τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ δύναμιν καὶ παρουσίαν], non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza (2 Pt 1,16).

Pietro allude alla manifestazione della gloria di Cristo nella trasfigurazione (cf. vv. 17-18), come argomento in favore della speranza nella sua venuta gloriosa. Subito dopo propone la parola dei profeti come secondo motivo che rafforza la speranza nel giorno del Signore: E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti [τὸν προφητικὸν λόγον], alla quale fate bene a volgere l'attenzione come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei vostri cuori la stella del mattino (2 Pt 1,19).

Finché non arriva la piena luce del sole — cioè il Signore glorioso —, ci si deve orientare con la lampada di questa parola. Di quale parola e di quali profeti si tratta? Della predicazione orale dei profeti o dei loro scritti? Lo si chiarisce subito:

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Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica [προφητεία γραφῆς] va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana è mai venuta una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono alcuni uomini da parte di Dio [ὑπὸ πνεύματος ἁγίου φερόμενοι ἐλάλησαν ἀπὸ θεοῦ ἄνθρωποι]. Ci sono stati anche falsi profeti tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri (2 Pt 1,20-2,1).

Del testo possiamo sottolineare i seguenti punti: 1) si afferma l'origine divina di ogni profezia, attribuendola più concretamente allo Spirito Santo; 2) si passa senza distinzioni dall'oralità, “la parola profetica”, alla scrittura, “la profezia della scrittura”, per poi tornare di nuovo all'oralità: “parlarono alcuni uomini”; 3) si collega l'intervento dello Spirito direttamente agli uomini, non ai testi; ma siccome parla d'interpretazione o spiegazione, si vede che l'autore pensa sempre a profezie scritte; 4) l'origine divina ha delle conseguenze sull'interpretazione delle scritture. Se uniamo questo brano all'idea che tutte le scritture hanno carattere di profezia, come ha suggerito Gesù, non è difficile concludere che tutta la Scrittura è ispirata. Infatti, troviamo questa affermazione nella 2 Timoteo. 10.1.2. La Scrittura ispirata (2 Timoteo 3) Nella 2 Timoteo, che come la 2 Pietro può considerarsi una lettera di congedo, san Paolo ammonisce Timòteo, affinché non si lasci ingannare da dottrine nuove che si oppongono alla verità: Tu però rimani saldo in quello che hai imparato e che credi fermamente. Conosci coloro da cui lo hai appreso e conosci le sacre Scritture fin dall'infanzia: queste possono istruirti per la salvezza [τὰ δυνάμενά σε σοφίσαι εἰς σωτηρίαν], che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia [πᾶσα γραφὴ θεόπνευστος καὶ ὠφέλιμος πρὸς διδασκαλίαν, πρὸς ἐλεγμόν, πρὸς ἐπανόρθωσιν, πρὸς παιδείαν τὴν ἐν δικαιοσύνῃ], perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona (2 Tm 3,14-17).

L'applicazione della parola “ispirazione” alla Bibbia procede da questo testo. La Scrittura è θεόπνευστος, cioè “soffiata” da Dio (da θεός, “Dio”, e πνέω, “soffiare”). Da solo, l'aggettivo — che è un hapaxlegomenon nella Bibbia, cioè un termine che appare una sola volta — può interpretarsi sia in senso attivo, cioè la Scrittura ispira

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Dio, sia in senso passivo, la Scrittura è stata ispirata da Dio. Gli esegeti concordano nel dire che in questo caso la parola va capita in senso passivo1. Il testo non menziona lo Spirito Santo, né spiega cosa si intende per “ispirata”. Ma mette questa caratteristica delle Scritture in rapporto con la loro utilità. Esse non servono a produrre la salvezza, che viene dalla fede in Gesù, ma hanno la capacità di dare la saggezza che porta a questa salvezza. E servono anche per insegnare, convincere, eccetera. Senza le Scritture, l'uomo di Dio non è completo. Questo valore delle sacre lettere deriva dal loro carattere ispirato, dal “soffio divino” — cioè lo Spirito Santo — presente in esse. * Conviene chiarire che, sebbene gli autori in questi brani parlino dell'ispirazione dei profeti o delle scritture come se fosse una dottrina tradizionale, in realtà si tratta di un concetto nuovo nel mondo giudaico sotto alcuni aspetti. Per quanto sappiamo, né l'AT, né il giudaismo palestinese dell'epoca di Gesù avevano riflettuto sullo status dei libri sacri. Solo in ambito ellenistico si arriva ad abbozzare una spiegazione teoretica con Filone d'Alessandria, soprattutto in riferimento alla composizione, traduzione e interpretazione della Torah2. Ma le descrizioni di Filone, benché contengano degli elementi che i Padri della Chiesa utilizzeranno, sono diverse dal concetto cristiano di ispirazione, che nasce soprattutto per giustificare il riferimento a Cristo dei testi anteriori a lui e che poi si estenderà per analogia anche ai libri del NT.

1.

2.

Minore consenso esiste per un altro problema: se l'aggettivo in questo caso funga da attributo, come fa intendere la versione CEI citata sopra, oppure da predicato: “tutta la Scrittura è ispirata da Dio ed è anche utile (…)”. Lo stesso avviene riguardo al valore dell'aggettivo πᾶσα, che può tradursi come “tutta la Scrittura” oppure “ogni Scrittura”. Tali differenze, pur essendo significative, non hanno conseguenze decisive sull'interpretazione del brano. Per queste discussioni, cf. C. Marcheselli Casale, Le lettere pastorali: le due Lettere a Timoteo e la Lettera a Tito, EDB, Bologna 1995, 775-777. Cf. H. Burkhardt, Die Inspiration heiliger Schriften bei Philo von Alexandrien, Brunnen, Giessen 1988; D. Winston, «Two Types of Mosaic Prophecy according to Philo», Journal for the Study of the Pseudepigrapha 4 (1989) 49-67; C. Termini, «Spirito e Scrittura in Filone di Alessandria», Ricerche storico bibliche 12 (2000) 157-187. Per un paragone fra Filone e 2 Tim, cf. F. Siegert, «Die Inspiration der Heiligen Schriften: Ein philonisches Votum zu 2Tim 3,16» in R. Deines - K.-W. Niebuhr (eds.), Philo und das Neue Testament: Wechselseitige Wahrnehmungen; I. Internationales Symposium zum Corpus Judaeo-Hellenisticum 1.-4 Mai 2003, Eisenach/Jena, Mohr Siebeck, Tübingen 2004, 205-222; J. Herzer, «„Von Gottes Geist durchweht“: Die Inspiration der Schrift nach 2Tim 3,16 und bei Philo von Alexandrien» in R. Deines - K.-W. Niebuhr (eds.), Philo und das Neue Testament: Wechselseitige Wahrnehmungen; I. Internationales Symposium zum Corpus Judaeo-Hellenisticum 1.-4 Mai 2003, Eisenach/Jena, Mohr Siebeck, Tübingen 2004, 223-240.

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Qualcosa di simile si deve dire circa la nozione di Dio come “autore” della sacra Scrittura — che apparirà nel II secolo, nella polemica di sant'Ireneo contro lo gnosticismo e più tardi contro le diverse forme di dualismo manicheo —. Scopo fondamentale di quest'idea era difendere l'unità fra AT e NT, che lo gnosticismo voleva rompere, attribuendo l'AT a un dio diverso dal Padre di Gesù. Più tardi diventerà un complemento dell'idea di ispirazione: Dio è l'autore principale della Bibbia, mentre gli agiografi ne sono gli autori strumentali (spiegheremo questi concetti nelle pp. 235241). 10.2. L'ispirazione nella cornice della rivelazione e della sua trasmissione Seguendo i primi due capitoli della Dei Verbum, abbiamo visto il posto che occupa la Scrittura nell'economia della rivelazione e della sua trasmissione. Poi abbiamo completato la presentazione della Dei Verbum guardando a ciò che hanno detto Gesù e gli apostoli riguardo alle Scritture. Adesso ci conviene tornare alla Dei Verbum cercando dove si menziona l’ispirazione. Il primo capitolo della Dei Verbum descrive la rivelazione divina in se stessa, come manifestazione di Dio tramite opere e parole che si intrecciano in una storia, la storia della salvezza. Questa storia arriva al suo culmine con Gesù Cristo. In questo capitolo (DV2-6), non si trova alcun riferimento né ai libri sacri né pertanto alla loro ispirazione. È opportuno chiedersi se non si dovrebbe parlare di ispirazione nella descrizione della rivelazione storica. Infatti, nel Credo diciamo che lo Spirito Santo “ha parlato per mezzo dei profeti” e dunque potremmo dire che di conseguenza li ha ispirati. Certamente, sarebbe lecito parlare dell'azione dello Spirito su tutti mediatori della rivelazione in termini di “ispirazione”. Ma non si deve identificare tale intervento soprannaturale con l'ispirazione dei libri, benché si tratti di due realtà connesse. Per motivi di chiarezza, conviene riservare il termine «ispirazione» al carisma vincolato ai libri biblici. Così ha fatto la teologia e così fa la Dei Verbum, anche se, come vedremo, uno dei pregi di questo documento consiste proprio nel non isolare l'ispirazione dei libri, ma presentarla in rapporto con la rivelazione e la sua trasmissione: l'ispirazione è subordinata alla rivelazione1.

1.

Per questo motivo, da un punto di vista teologico non ha senso parlare di ispirazione a proposito dei libri sacri di altre religioni. Cf. Commissione Teologica Internazionale, Il cristianesimo e le religioni, 1997, n.92; B. Forte, «La Parola di Dio nella Sacra Scrittura e nei libri sacri delle altre religioni» in L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Roma, settembre 1999, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2001, 106-120.

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Il secondo capitolo della Dei Verbum (DV7-10) espone la trasmissione della rivelazione. In DV 7 si menziona la redazione di libri come uno dei mezzi utilizzati dagli apostoli per diffondere il vangelo. E si parla subito dell’ispirazione: si dice infatti che alcuni apostoli e uomini vicini a loro “per ispirazione [sub inspiratione] dello Spirito Santo, misero per scritto il messaggio della salvezza”. Si riconosce dunque l'esistenza dell'ispirazione nel momento della composizione dei libri (in questo contesto, quelli del NT) e la si attribuisce allo Spirito. Entrambe sono affermazioni tradizionali, ma una certa novità procede dalla struttura di Dei Verbum: l'ispirazione, come la Scrittura, appare dentro la trasmissione della rivelazione, e non dentro la rivelazione in se stessa1. All'inizio del n.8 appare una seconda menzione dell'ispirazione. Parlando della predicazione apostolica, la Dei Verbum dice che questa si trova “espressa in modo speciale nei libri ispirati [in inspiratis libris]”. L'ispirazione non si limita dunque al momento della composizione dei libri, ma costituisce una caratteristica inerente ai libri stessi, che rimane in loro. Questa è ancora un'affermazione tradizionale. Al n.9 si trova una terza menzione dell'ispirazione, più importante delle due precedenti. Si afferma — per la prima volta nella Dei Verbum — che le Sacre Scritture sono parola di Dio e qui appare la funzione o l'effetto dell'ispirazione: La sacra Scrittura è la parola di Dio in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino. [Sacra Scriptura est locutio Dei quatenus divino afflante Spiritu scripto consignatur].

Dobbiamo ricordare che, come si vede già nel titolo del documento — “Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei Verbum” — si può stabilire una equivalenza fra “parola di Dio” e “divina rivelazione”. Dunque, possiamo sostituire i termini nella frase appena citata: La sacra Scrittura è la rivelazione divina in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino.

Grazie all'ispirazione, la Scrittura non è solo una testimonianza scritta della predicazione apostolica o della rivelazione a Israele, cioè non sono semplicemente libri che trasmettono la rivelazione, ma è un testo del quale possiamo dire che è parola divina, fino al punto che, come dice DV8, “Dio, il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto”.

1.

Come abbiamo visto, DV7 omette un riferimento alla trasmissione della rivelazione prima di Cristo, dove non è possibile distinguere fra la rivelazione e la sua trasmissione.

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La rivelazione in quanto storia non è più presente. Per poter essere trasmessa ha preso diverse forme: predicazione orale (il “Vangelo” come buona novella), sacramenti, esempi di vita e anche discorso scritto, il quale, in virtù di un'azione speciale dello Spirito Santo, può considerarsi anch'esso rivelazione, pur essendo diverso dalla rivelazione storica in opere e parole che culmina in Cristo. Nel terzo capitolo, la Dei Verbum dedica un numero completo a spiegare in che consiste l'ispirazione (DV11), del quale parleremo più avanti (pp. 235-241). Tuttavia, gli elementi più importanti per definire l'ispirazione appaiono nel capitolo 2, soprattutto in DV9, come abbiamo appena sottolineato. Infatti, più avanti, nel n.24, la Dei Verbum insiste sul rapporto fra l'ispirazione della Bibbia e il suo carattere di parola di Dio, con una formulazione assai chiara: Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio. [Sacrae autem Scripturae verbum Dei continent et, quia inspiratae, vere verbum Dei sunt].

La Dei Verbum presenta così l'ispirazione in rapporto sia con la rivelazione che con la sua trasmissione: l'ispirazione fa sì che i libri sacri trasmettano la rivelazione essendo essi stessi rivelazione, parola di Dio. Come spiega il cardinale Scheffczyk: La dottrina dell'ispirazione intende stabilire che la Bibbia, anche con la collaborazione dell'autore umano, è e rimane parola di Dio, nonostante sia stata espressa in parole umane e contenuta nella parola della Chiesa1.

L'ispirazione appartiene alla trasmissione della rivelazione, più che al suo divenire storico almeno nel caso del NT, dove si può fare questa distinzione. Ma questo carisma dello Spirito fa sì che la trasmissione conservi, per così dire, la stessa forza e normatività che la rivelazione originaria: La novità dell'affermazione conciliare consiste nel suggerire che l'ispirazione non va intesa come un'azione di Dio volta a fare della Scrittura un avvenimento nuovo di rivelazione — com'è nuovo l'intervento del profeta ispirato oppure dell'apostolo quando propongono la parola di Dio —, ma che comunque bisogna capire la Scrittura come rivelazione2. 1.

2.

“La doctrina de la inspiración pretende dejar sentado que la Biblia, también con la colaboración del autor humano, es, y puede seguir siendo, palabra de Dios, a pesar de que ésta ha sido recogida en palabras humanas y en la palabra de la Iglesia”, Scheffczyk, «La Sagrada Escritura, palabra de Dios y de la Iglesia», 163 (p. 37 nella versione in inglese). Traduzione mia. “La novedad de la afirmación conciliar es que sugiere que la inspiración no debe entenderse como una acción de Dios dirigida a hacer de la Escritura un acontecimiento novedoso de la revelación —como es novedosa la intervención del profeta inspirado o del apóstol al propo-

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In sintesi, nella Dei Verbum la Scrittura appare in primo luogo come testimonianza e trasmissione della rivelazione più che come avvenimento di rivelazione. Ma, in virtù dell'ispirazione, la Scrittura è rivelazione di Dio. Così, la Dei Verbum riesce a mettere in salvo due affermazioni fondamentali: da una parte, la rivelazione cristiana non si può identificare con la Bibbia, in quanto storica e personale; dall'altra, la Bibbia è veramente parola di Dio, che parla oggi al suo popolo, la Chiesa, tramite i testi sacri. La Bibbia ha da una parte una relazione immediata con la parola profetica ed apostolica d’Israele e della chiesa primitiva, e dall’altra con Cristo e con il Padre, mediante lo Spirito che la ispira. Ed è per questo che la parola della Bibbia rappresenta un momento privilegiato della rivelazione. Se essa fosse soltanto una trascrizione storica degli oracoli profetici avrebbe valore come libro delle origini, come documento della fede delle antiche generazioni, senza contenere necessariamente e sempre una parola normativa per le generazioni future. Invece la relazione che ha con il Verbo per mezzo dello Spirito fa di questa parola una forza viva e permanente di manifestazione di Dio per tutti i tempi1.

Possiamo allora concludere la prima parte, provando a offrire una definizione dell'ispirazione che tenga conto di quanto spiegato fin qui. Essa è l'azione dello Spirito Santo per la quale alcuni libri sono non soltanto testimonianza della rivelazione divina, ma anche parola di Dio alla Chiesa.

1.

ner la palabra de Dios—, pero sí debe entenderse la Escritura como revelación”, V. Balaguer, «La 'economía' de la Sagrada Escritura en Dei Verbum», Scripta Theologica 38 (2006) 893-939, 897. C. M. Martini, «Parola di Dio e parola umana. Il problema dell’ispirazione e della verità biblica in prospettiva pastorale» in G. Zevini (ed.), Incontro con la Bibbia: Leggere, pregare, annunciare, LAS, Roma 1978, 41-53, 46.

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Nell'introduzione abbiamo visto alcune caratteristiche fisiche dei libri nell'antichità: il materiale di cui erano fatti nella maggior parte dei casi — papiro o pelle — e il loro formato — rotolo o codice — . Abbiamo parlato anche delle lingue in cui sono stati scritti originariamente i libri che compongono la Bibbia: ebraico, aramaico e greco. Adesso dobbiamo completare lo studio dei libri biblici studiandone il testo. Più concretamente, vedremo come sono stati trasmessi (copiati) i testi e come si può tentare di ricostruire il testo “originale”. Alla fine dovremo dire anche una parola sulle traduzioni, antiche e moderne, della Bibbia. Bibliografia. Oltre ai testi citati a p. 14, per approfondire si possono consultare: N. FᴇRNÁNᴅᴇᴢ MᴀRᴄᴏS, Introducción a las versiones griegas de la Biblia, Instituto de filología del CSIC, Madrid 21998. Esistono traduzioni in italiano e in inglese. B. M. MᴇᴛᴢGᴇR - B. D. EHRᴍᴀN, The Text of the New Testament: Its Transmission, Corruption, and Restoration, Oxford University Press, Oxford 42005. Esiste traduzione in italiano: Il testo del Nuovo Testamento: trasmissione, corruzione e restituzione, Paideia, Brescia 2013. S. E. PᴏRᴛᴇR, How We Got the New Testament: Text, Transmission, Translation, Baker Academic, Grand Rapids 2013. G. RIᴢᴢI, Le antiche versioni della Bibbia. Traduzioni, tradizioni e interpretazioni, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009. E. Tᴏᴠ, Textual Criticism of the Hebrew Bible, Fortress Press, Minneapolis 32012.

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11. La critica testuale 11.1. Introduzione Verso il 1457, Johannes Gensfleisch, detto Gutenberg, completa a Magonza (Mainz), in Germania, l'elaborazione del primo libro stampato (che non era altro che il Salterio in latino). Questo progresso tecnico ha segnato una svolta nella produzione dei libri, che grazie ai tipi mobili possono venir riprodotti in serie, senza bisogno di copiarli a mano. Dopo l'invenzione e la diffusione della stampa, i libri diventano un prodotto più economico e dunque più accessibile per tutti, il che ha avuto delle ripercussioni enormi sulla cultura occidentale. Oggi siamo talmente abituati ai libri stampati che ci risulta difficile immaginare un mondo senza di essi1. Con la stampa, il testo di un libro (le lettere, le parole, le frasi) diventa fisso, cioè il suo contenuto è identico nei diversi esemplari della stessa edizione. Invece, prima della stampa, tutti i libri venivano copiati a mano (perciò si parla appunto di manoscritti), sia per conservarli, sia per distribuirli. La copiatura manuale dei libri produceva inevitabilmente delle variazioni del testo lungo il processo di trasmissione, che vengono scoperte quando si confrontano diversi manoscritti e che si chiamano tecnicamente varianti testuali. Il lavoro di copiatura manuale dei testi si può svolgere in diversi modi. Il procedimento più abituale è che lo scriba o copista abbia il testo da copiare davanti a sé, come si vede nell’immagine a sinistra, che rappresenta uno scriba del XV secolo (il francese Jean Miélot), lavorando nel suo scriptorium. Un'altra possibilità, impiegata per produrre diverse copie allo stesso tempo, consiste nel mettere più copisti insieme attorno ad un lettore che legge ad alta voce: così, il processo non è visivo, ma auditivo. 1.

Cf. E. L. Eisenstein, The Printing Press as an Agent of Change: Communications and Cultural Transformations in Early Modern Europe, Cambridge University Press, Cambridge 1979; A. Grafton - E. L. Eisenstein - A. Johns, «AHR Forum: How Revolutionary Was the Print Revolution», American Historical Review 107 (2002) 84-128; H.-J. Martin, Storia e potere della scrittura, Laterza, Bari 2009, specialmente Capitolo 5.

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Si chiama edizione critica la presentazione di un testo antico in cui vengono segnalate le principali varianti che si riscontrano nei manoscritti. Di norma contiene due sezioni: il testo proposto e le note con le varianti, chiamate tecnicamente “apparato critico”. Ne vedremo numerosi esempi in ciò che segue. La produzione di edizioni critiche è uno dei compiti più importanti della critica testuale. La critica testuale si applica a tutti i testi che sono stati trasmessi prima della stampa e che quindi hanno subito un processo di diversificazione del testo. Alla critica testuale spetta lo studio delle varianti testuali, con una doppia finalità: 1) ricostruire nella misura del possibile il testo originale perduto, a partire dai manoscritti esistenti; 2) conoscere il processo di trasmissione, che spesso permette di sapere come venivano intesi alcuni testi. Per valutare le varianti, il critico utilizza alcune “regole” o principi, che aiutano a discernere quale variante può essere più vicina all'originale. In primo luogo, si deve tener conto del diverso valore dei manoscritti, che dipende soprattutto dalla loro antichità. Poi vengono gli argomenti di tipo interno: tener conto dei possibili errori o cambi introdotti dal copista e soprattutto preferire la variante che spiega l'origine delle altre (lectio difficilior, lectio brevior). Tuttavia si deve osservare che il primo scopo della critica testuale — cioè, il tentativo di arrivare agli originali — presenta due grosse difficoltà nel campo biblico, una di fatto e un'altra concettuale: • non abbiamo nessun manoscritto biblico originale in senso stretto, nessun “autografo”1, ma soltanto delle copie. Tutti i testimoni del testo conservati sono di data nettamente posteriore alla stesura del libro corrispondente; • la nozione stessa di “testo originale” è problematica, soprattutto per quanto riguarda i libri dell'AT. Questo punto merita una spiegazione. Per l'AT, la nozione di testo originale è problematica in primo luogo perché in genere non sappiamo chi sono gli autori dei libri, né quando sono stati scritti. Inoltre, quasi tutti i libri dell'AT sono il risultato di un lungo processo di “crescita”, nel quale hanno subito cambiamenti (aggiunte, glosse, ritocchi, riedizioni). In alcuni casi, la diversità esistente fra il testo nella lingua originale e le versioni antiche permette di ricostruire le tappe di questo processo di “crescita” del libro. Come abbiamo visto (p. 44), la versione greca di Ester è più lunga nei confronti dell'originale ebraico. Viceversa, la traduzione greca di Geremia è notevolmente più 1.

“Autografo”, in questo ambito, indica il manoscritto originale di un'opera, il testo scritto dall'autore stesso e consegnato da lui per la pubblicazione.

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breve rispetto del testo ebraico che abbiamo, il che si può spiegare se il traduttore si è basato su un testo ebraico più antico, che in seguito ha ricevuto delle aggiunte. Un caso ancora più complicato è quello del libro del Siracide. Abbiamo il testo completo in greco, ma i manoscritti greci presentano importanti differenze e fanno pensare all'esistenza di due versioni greche del libro, una lunga e una breve. Quando poi si prendono in considerazione i frammenti ebraici del libro, scoperti in tempi recenti, anch'essi presentano due forme diverse. Qual è dunque il testo originale del Siracide? Il testo scritto dal primo autore o il risultato finale? La domanda presenta anche un interesse teologico: qual’è il testo ispirato? Ne parleremo più avanti (cf. pp. 124-125). 11.2. Alcuni esempi di varianti testuali Le differenze nel testo fra le copie di uno stesso libro, le varianti testuali, possono avere diverse cause. Secondo il tipo di causa, possiamo dividere le varianti in due grandi gruppi: errori involontari e cambiamenti voluti. 11.2.1. Errori involontari Gli errori involontari più comuni sono saltare una riga o una parola mentre si copia, ripetere una parola, o, nel caso della copiatura al dettato, confondere un suono e dunque prendere una parola per un'altra. Per esempio, al posto di “le cose di prima sono passate” (Ap 21,4), un importante manoscritto dice “le pecore sono passate”. Il copista ha scritto τὰ πρόβατα invece di τὰ πρῶτα, rovinando così la descrizione della nuova Gerusalemme. Si tratta del Codice Sinaitico. L’errore è così evidente, che è stato corretto nel manoscritto stesso. Un famoso errore è quello di 1 Sam 13,1. La prima frase del versetto, tramandata senza varianti in tutti i principali manoscritti ebraici, dice: Saul aveva un anno quando cominciò a regnare [‫ן־שׁ ָנ֖ה ָשׁ ֣אוּל ְבּ ָמ ְל ֑כוֹ‬ ָ ‫] ֶבּ‬

L'espressione ‫ בן־שׁנה‬ricorre 53 volte nella BH e vuol dire sempre “avere un anno di età”. Il problema è che il testo non risulta coerente con la presentazione di Saul, che non è un bambino quando viene unto da Samuele e proclamato re (cf. 1 Sam 9-10). Probabilmente, il copista ha saltato una parola (un numero), ma non sappiamo esattamente quale, perché non troviamo varianti nei manoscritti ebraici: tutti contengono questa frase, senza differenze. Le versioni antiche non ci aiutano a risolvere il problema. Infatti, i LXX omettono tutto il versetto, forse perché il traduttore ha visto il problema e, non sapendo come risolverlo, ha preferito ignorarlo. Invece nella Vulgata troviamo una traduzione

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esatta del testo ebraico (che fra l'altro è un bell’esempio della fedeltà a volte estrema con cui san Girolamo ha cercato di tradurre). Dice infatti: Saul aveva un anno quando cominciò a regnare. [Filius unius anni Saul, cum regnare coepisset]

È così evidente che si tratta di un errore, che molte versioni moderne hanno tentato di correggere il testo. Ecco alcuni esempi di emendamento, in ordine cronologico: Luther Bibel (1545): Saul war ein Jahr König gewesen. KJV (1611): Saul reigned one year. American Standard Version (1901): Saul was forty years old when he began to reign. CEI (1974): Saul aveva trent'anni quando cominciò a regnare. Nova Vulgata (1979): Filius annorum Saul, cum regnare coepisset. CEI (2008): Saul era nel pieno degli anni quando cominciò a regnare.

Altri traduttori hanno preferito non emendare il testo, ma segnalare che manca una parola: RSV (1952) e NRSV (1989): Saul was … years old when he began to reign. [Molto simile in The New American Bible (2002)]. Bible de Jérusalem (1973): Saül était âgé de … ans lorsqu'il devint roi. Einheitsübersetzung (1980): Saul war … Jahre alt, als er König wurde. TOB (1988): Saül avait … ans lorsqu'il devint roi. El libro del Pueblo de Dios (1990) Saúl tenía … años cuando comenzó a reinar.

In 1 Sam 13,1 troviamo un chiaro esempio di ciò che si chiama tecnicamente un testo “corrotto”, cioè, un testo che ha subito tali trasformazioni durante il lavoro di copiatura, che risulta impossibile ricostruire il testo così com'era prima degli errori. 11.2.2. Cambiamenti voluti Esempi di cambi consci sono l'armonizzazione con i luoghi paralleli, la correzione per motivi teologici, la glossa per spiegare una frase difficile, ecc. Un esempio di armonizzazione lo troviamo in Mc 3,14. Alcuni manoscritti dicono: Ne costituì Dodici, perché stessero con lui e per mandarli a predicare

Altri manoscritti riportano una frase più lunga:

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Ne costituì Dodici — che chiamò apostoli —, perché stessero con lui e per mandarli a predicare

La spiegazione più probabile della differenza è che un copista ha “completato” la frase, prendendo un'informazione di Lc 6,13, dove si riscontrano esattamente le parole “che chiamò apostoli”. Infatti, è più semplice che un copista abbia aggiunto qualcosa e non che l'abbia tolto. Comunque, è anche possibile il contrario, cioè, che la versione più antica sia quella lunga e che poi un copista abbia saltato la frase per una svista. Il giudizio del critico non è facile e accade spesso che la soluzione non sia scontata. È importante tener presente anche il numero e soprattutto l'antichità dei manoscritti che contengono l’una o l’altra frase. Un esempio di correzione teologica lo troviamo alla fine del racconto della creazione in sette giorni (Gn 1,1-2,4a). In Gn 2,2a, nel testo ebraico si legge: Dio nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto. [‫שׁר ָע ָ ֑שׂה‬ ֣ ֶ ‫אכ ֖תּוֹ ֲא‬ ְ ‫יעי ְמ ַל‬ ִ֔ ‫ה ֙ים ַבּיּ֣ וֹם ַה ְשּׁ ִב‬E ִ ‫]וַ יְ ַכ֤ל ֱא‬

Invece, la traduzione greca dice: Dio nel sesto giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto. [καὶ συνετέλεσεν ὁ θεὸς ἐν τῇ ἡμέρᾳ τῇ ἕκτῃ τὰ ἔργα αὐτοῦ, ἃ ἐποίησεν]

La spiegazione più probabile della differenza è che il traduttore ha notato che la frase in ebraico risultava ambigua e voleva evitare che si pensasse che Dio aveva lavorato anche di sabato. Per questo ha cambiato volutamente il testo.

12. Il testo dell'Antico Testamento Non è possibile parlare in dettaglio del testo di ogni singolo libro e ci dovremo accontentare di una visione d'insieme. Per motivi didattici, la presentazione della storia della trasmissione dei testi biblici seguirà un ordine, per così dire, “discendente”. Cominceremo cioè dai testi che abbiamo oggi, per poi descrivere le loro tappe precedenti. Chi vuol leggere l'AT nelle lingue originali deve cercare almeno in due posti: • per i ventiquattro libri della BH si deve consultare un’edizione critica della BH, come la Biblia Hebraica Stuttgartensia (BHS); • per i sette libri dell'AT che non fanno parte della BH (Tobia, Giuditta, 1-2 Maccabei, Sapienza, Siracide e Baruc), per la versione greca di Ester e per alcune parti di Daniele, si deve consultare un’edizione critica della cosiddetta versione dei Settanta o Septuaginta (LXX).

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12.1. Dalla Biblia Hebraica Stuttgartensia (BHS) al testo protomasoretico 12.1.1. Dalla BHS (XX sec.) al testo masoretico (VI-IX sec.) La BHS è l'edizione critica completa più recente della BH. È stata fatta negli anni sessanta e settanta del ventesimo secolo. La pubblicazione si è conclusa nel 1977 (l'ultima riedizione risale al 1997). È in corso una nuova edizione critica della BH, chiamata Biblia Hebraica Quinta. Tuttavia, ancora mancano molti volumi per portarla a compimento1. Per questo, la BHS rimane il punto di riferimento. La BHS non presenta un testo ricostruito dagli editori, ma riproduce il testo del Codex Leningradensis (L oppure B 19a), chiamato anche Codice di San Pietroburgo, al quale si aggiunge un apparato critico con le principali varianti attestate in altri manoscritti ebraici e nelle versioni antiche. Il codice L è di epoca medievale; più concretamente, è stato terminato nell'anno 1008/1009. Esso contiene i ventiquattro libri della BH, con le vocali e i segni dei masoreti, cioè, il cosiddetto testo masoretico (TM). Che cosa è il TM? È il risultato del lavoro dei masoreti, nome che si dà ai copisti ebrei che hanno lavorato nei secoli VI-IX. Oltre a copiare i testi della BH, i masoreti hanno aggiunto alcune annotazioni marginali (che si chiamano “masora”, donde la loro denominazione) e soprattutto hanno aggiunto dei segni per indicare le vocali. A sinistra si vede un'immagine di un manoscritto che contiene il TM, dove vengono segnalate due vocali. L'aggiunta dei punti vocalici è stata fatta per aiutare nella lettura dei testi. Ma è importante tener presente che nei casi in cui le stesse consonanti possono essere vocalizzate in modi diversi i masoreti hanno dovuto fare delle scelte. Dunque, il TM contiene in se delle interpretazioni, talvolta discutibili2.

1.

2.

Finora — febbraio 2018 — sono apparsi i seguenti volumi (in ordine secondo la data di pubblicazione): BHQ 18. General Introduction and Megilloth (gen. ed. A. Schenker, 2004); D. Marcus, BHQ 20. Ezra and Nehemiah (2006); C. McCarthy, BHQ 5. Deuteronomy (2007); J. de Waard, BHQ 17. Proverbs (2007); A. Gelston, BHQ 13. The Twelve Prophets (2010); N. Fernández Marcos - D. Marcus, BHQ 7. Judges (2011); A. Tal, BHQ 1. Genesis (2016). Cf. www.academic-bible.com. Nei secoli XVI e XVII, c'è stato un dibattito molto vivace sul valore delle vocali nel testo ebraico. Per alcuni, erano di origine divina; per altri invece erano state aggiunte dopo la composizione dei libri. Oggi siamo certi che la seconda era la risposta giusta. Cf. R. A. Muller, «The Debate over the Vowel Points and the Crisis in Orthodox Hermeneutics», Journal of Medieval and Renaissance Studies 10 (1980) 53-72.

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Riproduco una pagina della BHS (immagine presa da toolsforstudyingthehe-

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brewbible/critical-editions), per aiutare a capire le descrizioni appena fatte. Al centro si vede il testo biblico in ebraico (Gn 21,31-22,13). Tranne i numeri che segnalano i versetti, il resto è una riproduzione del testo ebraico del codice L. In fondo alla pagina, troviamo due tipi di annotazioni. Le annotazioni di più sotto sono l'apparato critico (in inglese, critical apparatus), composto dagli editori della BHS. Quelle di sopra, con caratteri molto piccoli, sono dei rimandi alla cosiddetta “masora magna”, cioè, ad altri commenti dei masoreti. Sulla sinistra si vedono delle piccole annotazioni. Anche queste parole provengono dal codice L. Si chiamano “masora parva” e sono osservazioni fatte dagli antichi editori del testo, i masoreti. Oltre a L, il TM si conserva anche in altri codici medievali, fra i quali spiccano il Codice di Aleppo (ca. 93o d.C.) e il Codice dei Profeti del Cairo. La BHS si basa su L soprattutto perché questo codice è completo, mentre agli altri mancano alcune parti. Il Codice di Aleppo comincia a Dt 28,17; le pagine precedenti — e anche altre — sono andate perse nel 1947. Fotografie del manoscritto e più informazioni sulla sua storia si possono trovare in aleppocodex.org. Nell'Università Ebraica di Gerusalemme stanno lavorando ad un'edizione critica della BH che riproduce il Codice di Aleppo, Finora — febbraio 2018 — hanno pubblicato soltanto Isaia (1995), Geremia (1997) ed Ezechiele (2004). È in preparazione il volume con i Dodici profeti1. 12.1.2. La trasmissione del testo prima del TM Per riferirsi al testo della BH precedente al lavoro dei masoreti, che poi è diventato il TM, si parla di testo “pre-masoretico” o “proto-masoretico”. Prima del periodo dei masoreti, la trasmissione del testo è stata realizzata da copisti che vengono chiamati semplicemente soferim, cioè scribi (II-VI sec.). Essi si sono limitati a copiare il testo senza aggiungere quasi niente: le annotazioni che risalgono a quest'epoca sono pochissime. Anche i manoscritti conservati che risalgono a questo periodo sono pochi e, come detto, presentano il testo senza vocali. (In genere, per i testi antichi, quanto più si va indietro nel tempo, più diminuisce il numero di manoscritti). Secondo alcuni studiosi, il testo che hanno copiato i soferim procede da un testo stabilito o fissato fra le due guerre giudaiche contro Roma, cioè fra il 70 e il 130 d.C. In questo contesto, “fissare” il testo non vuol dire che gli ebrei hanno preparato

1.

Per saperne di più, cf. M. Segal, «The Hebrew University Bible Project», HeBai 2 (2013) 38-62.

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un’edizione nuova, ma che hanno operato una selezione di manoscritti del testo ebraico, fra i diversi che esistevano, dalla quale dipendono tutte le copie posteriori1. Questa ipotesi si poggia sul fatto che i manoscritti della BH anteriori al 70 d.C. presentano importanti varianti testuali fra loro. Infatti, fra i testi ebraici trovati a Qumran, sebbene molti abbiano un testo simile al TM, altri presentano testi più vicini alla versione dei Settanta o ad altri testi antichi, come il Pentateuco Samaritano. Invece, i manoscritti trovati a Wadi Muraba‘at e Nahal Hever, che sono tutti posteriori all'anno 70, presentano un tipo di testo quasi identico a quello del futuro TM2. Altri autori parlano più genericamente di una fissazione del testo nel primo secolo, cioè, non necessariamente dopo il 703. I manoscritti della BH più antichi che si conservano sono stati trovati a Qumran e risalgono ai secoli II-I a.C. Prima di Qumran e delle altre scoperte del XX secolo, i manoscritti più antichi della BH che si conoscevano erano tutti medievali. Grazie dunque ai manoscritti del Mar Morto, si è potuto andare indietro di un millennio! Le conseguenze per la critica testuale dell'analisi di questi manoscritti possono essere sintetizzate in due punti: 1) da una parte, molti testi biblici di Qumran sono praticamente identici al testo consonantico del TM, il che ha confermato la fedeltà con cui questo testo è stato trasmesso dai rabbini per dieci secoli; 2) dall'altra, come abbiamo detto, altri testi biblici ebraici presenti a Qumran hanno permesso di conoscere che prima del 70 esistevano diverse “famiglie” testuali. Questa scoperta ha portato, fra altre cose, ad una rivalorizzazione della versione greca dei LXX. Sulla trasmissione del testo della BH prima di Cristo, non sappiamo praticamente nulla. Come informazione piuttosto aneddotica, si può segnalare che in una tomba a Ketef Hinnom (Gerusalemme) sono stati trovati due rotoli d'argento, risalenti al VII o VI secolo a.C. con delle iscrizioni. In entrambi si legge la cosiddetta “benedizione 1. 2.

3.

Cf. F. M. Cross, From Epic to Canon: History and Literature in Ancient Israel, John Hopkins University Press, Baltimore 1998, 213 e 216; Trebolle Barrera, La Biblia judía y la Biblia cristiana, 304. Durante la seconda guerra contro Roma (132-135 d.C.), il capo della rivolta, Bar Kokhba, si è rifugiato con i suoi uomini in alcune grotte vicine al Mar Morto (Nahal Hever e Wadi Muraba‘at). Negli anni 60 del XX secolo vi si scoprirono alcuni manoscritti, contenenti lettere dello stesso Bar Kokhba, testi biblici e altri documenti. Per saperne di più, cf. C. Martone, Lettere di Bar Kokhba, Paideia, Brescia 2012. Cf. I. Young, «The Stabilization of the Biblical Text in the Light of Qumran and Masada: A Challenge for Conventional Qumran Chronology?», Dead Sea Discoveries 9 (2002) 364-390; E. Tov, Textual Criticism of the Hebrew Bible, Fortress, Minneapolis 32012, 174-180 (“The Myth of the Stabilization of the Text of Hebrew Scriptures”).

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sacerdotale” o di Aronne, in modo quasi identico al TM di Nm 6,24-26 (cf. COS 2.83:221). Possiamo dire che è il testo biblico più antico che conosciamo, benché “biblico” in questo caso risulti un termine completamente anacronistico. 12.2. La versione dei Settanta (LXX) 12.2.1. L'origine della traduzione In uno scritto del II o I secolo a.C., conosciuto come Lettera di Aristea a Filocrate, si racconta l'origine della traduzione della Torah in greco (che è la prima traduzione di libri biblici di cui abbiamo notizia). Per ordine del re Ptolomeo (probabilmente Ptolomeo II Filadelfo, fondatore della biblioteca di Alessandria, che regnò in Egitto fra il 285 ed il 247 a.C.), Demetrio, il bibliotecario, doveva acquistare una copia in greco della Legge dei giudei. Per ottenerla, Demetrio fece una richiesta al sommo sacerdote del tempio di Gerusalemme e da lì furono inviati 72 anziani (6 per ogni tribù) con i rotoli della Torah in ebraico. Essi, dopo essere stati ricevuti dal re con tutti gli onori, fecero insieme la traduzione in 72 giorni. Da questo racconto procede la denominazione di “versione dei Settanta” (Septuaginta, LXX) con cui in epoca cristiana si comincia a denominare la traduzione dell'AT in greco (per semplificazione si è passato da 72 a 70). Anche se il nome di “versione dei Settanta” dovrebbe corrispondere soltanto alla versione greca del Pentateuco, questa denominazione si estese alla traduzione greca di tutto l'AT. In genere, gli studiosi sono d'accordo nel dire che il racconto della Lettera di Aristea sulle origini della traduzione ha qualche fondamento storico. Infatti, abbiamo indizi che confermano che nel III secolo a.C. si fece una traduzione in greco del Pentateuco, e che il lavoro di traduzione continuò nel II secolo con gli altri libri, come ci fa sapere il prologo del Siracide (la Lettera di Aristea parla soltanto della traduzione della Torah di Mosè). Esistono diverse ipotesi sui motivi che hanno dato origine a questa versione. Alcuni pensano che la causa principale non sia da cercare nell'iniziativa del re Ptolomeo, ma nel bisogno di avere un testo della Torah per la lettura sinagogale che gli alessandrini potessero comprendere, visto che l'ebraico non lo capivano più. Altri autori suggeriscono che la versione aveva uno scopo apologetico o di diffusione della propria cultura, mentre per altri è stato davvero il re Ptolomeo che ha obbligato i giudei a tradurre la Torah, affinché fosse per loro la propria legge all'interno della comu-

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nità, oppure semplicemente perché la biblioteca di Alessandria era uno strumento di propaganda politica1. Senza pretendere di risolvere questi problemi, possiamo aggiungere che la storia riferita dalla Lettera di Aristea circa l'origine della traduzione in greco del Pentateuco voleva senz'altro mostrare che la traduzione era nata con l'approvazione delle autorità religiose di Gerusalemme. È evidente il tentativo di difendere la legittimità della traduzione, probabilmente perché alcuni gruppi consideravano sacrilego o illecito tradurre la Torah. Infatti, più tardi, il racconto sarà accresciuto con elementi miracolosi per mostrare che non solo il sommo sacerdote, ma Dio stesso approvava la traduzione. Filone, parlando dell'origine della versione dei Settanta, dice che gli anziani sono stati portati in un’isola e lì: come ispirati dalla divinità, profetizzavano non gli uni una cosa e gli altri un'altra, ma tutti gli stessi nomi e le stesse parole, quasi che un suggeritore invisibile li sussurrasse a ciascuno all'orecchio2.

In seguito alcuni Padri della Chiesa hanno ripetuto questa storia, arricchendola ulteriormente con interventi soprannaturali. Per questo motivo, o per altri, molti cristiani ritenevano — anche in tempi recenti — che la traduzione greca dell'AT fosse stata davvero ispirata da Dio. Ma questo argomento ci porterebbe molto lontano dal tema che ci occupa3. Ora dobbiamo menzionare i principali manoscritti che contengono i libri dell'AT in greco. 12.2.2. La trasmissione della Bibbia greca. I quattro grandi codici Tutti i manoscritti che contengono la Bibbia in greco successivi al III secolo sono stati copiati da cristiani. Infatti, sembra che nel III o IV secolo d.C. i rabbini vietarono definitivamente le traduzioni dei libri biblici4.

1.

2. 3. 4.

Sull'origine della versione dei Settanta, cf. N. Fernández Marcos, La Bibbia dei Settanta: introduzione alle versioni greche della Bibbia, Paideia, Brescia 2000, capitolo 3. Per un'analisi letteraria e storica della Lettera di Aristea, cf. S. Honigman, The Septuagint and Homeric Scholarship in Alexandria: A Study in the Narrative of the Letter of Aristeas, Routledge, London 2003. Vita Mosis II, 37, traduzione presa da Fernández Marcos, La Bibbia dei Settanta, 60-61. Per approfondire, cf. J. M. Dines, The Septuagint, T&T Clark, London 2004; A. Wasserstein - D. J. Wasserstein, The Legend of the Septuagint: From Classical Antiquity to Today, Cambridge University Press, New York 2006. Prima di questa data, alcuni ebrei avevano tentato di fare traduzioni greche più “fedeli” al testo

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Benché i manoscritti della Bibbia greca appartengano nella stragrande maggioranza all'epoca cristiana, alcuni frammenti antichi di origine non cristiana sono stati trovati accanto al Mar Morto (Qumran e Nahal Hever). Fra questi testimoni, spicca il rotolo con i dodici profeti minori in greco (8HevXIIgr) trovato a Nahal Hever, che risale al I secolo d.C. Fra i numerosissimi manoscritti biblici cristiani, bisogna conoscere i manoscritti più antichi che contengono sia l'AT (i Settanta) che il NT, che sono i seguenti quattro codici: • Codex Vaticanus (B), IV secolo, si conserva nella Biblioteca Vaticana, visibile online: http://digi.vatlib.it. • Codex Sinaiticus (S oppure ‫)א‬, IV secolo, oggi è alla British Library, Londra. È stato scoperto nel 1859 da Constantin von Tischendorf nel Monastero di Santa Caterina nel Sinai, in Egitto. Nel 1975 sono apparse altre 12 pagine nello stesso monastero. Nel 2009 è stato trovato un nuovo pezzo. Fotografie e più informazioni sono disponibili online: www.codexsinaiticus.org. • Codex Alexandrinus (A), V secolo, si trova anch’esso alla British Library, è visibile online: www.bl.uk/manuscripts. • Codex Ephraemi Syri Rescriptus (C), V secolo, è a Parigi, alla Bibliothèque nationale de France (Grec 9). Online: http://gallica.bnf.fr. Si chiama così perché si tratta di un palinsesto: sopra il testo biblico sono state copiate nel XII secolo alcune opere di sant'Efrem il Sirio. Ecco l’immagine di una pagina: si noti il testo

ebraico: la più famosa è quella di Aquila. Più tardi, nel Talmud si dirà che il giorno in cui fu tradotta la Torah è stato così duro per Israele, come il giorno in cui si commesse il peccato del vitello d'oro (cf. Sôferim 1,7-8).

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biblico greco in fondo e il testo siriaco di Efrem sopra1. Tutti i quattro codici sono delle pergamena. Riportano il testo in lettere “onciali”, cioè maiuscole. Più precisamente, si chiama onciale la “scrittura libraria maiuscola usata dal sec. 4° al sec. 9° in codici greci e latini, caratterizzata dalle forme rotonde delle lettere, dalla fluidità del tratteggio e dalla compressione in un modulo bilineare”2. “Modulo bilineare” vuol dire che tutte le lettere maiuscole entrano fra due righe; invece le minuscole ne richiedono quattro. L’uso delle minuscole cominciò a diffondersi soltanto a partire dal IX secolo. 12.2.3. Le edizioni critiche Preparare un’edizione critica dell'AT greco è un compito estremamente difficile. Si devono consultare non solo i testimoni diretti (i manoscritti che contengono libri biblici), ma anche i numerosi testimoni indiretti del testo, che provengono principalmente dalle citazioni dell'AT che fanno gli autori del NT e i Padri della Chiesa di lingua greca e dai lezionari. Gli autori del NT scrivono in greco e dunque citano l'AT in greco. Ma non sempre le citazioni corrispondono alla versione dei Settanta così come la conosciamo, sia perché citavano a memoria, sia perché esistevano altre traduzioni in greco. Per queste difficoltà, non deve stupire che esistano tre edizioni critiche: l'edizione manuale di Rahlfs, l'edizione di Cambridge e l'edizione di Göttingen (quest'ultima ancora in corso di pubblicazione). Quella di Alfred Rahlfs è una edizione “manuale” nel senso che non pretende di presentare tutte le varianti importanti, ma di offrire un testo di facile consultazione e utilizzo. Il Rahlfs si basa soprattutto su B, S e A. La prima edizione è del 1935. Nel 1.

2.

Il testo biblico cancellato è stato decifrato dal Tischendorf, lo stesso che ha scoperto il Codice Sinaitico. Su questo personaggio, cf. S. E. Porter, Constantine Tischendorf: The Life and Work of a 19th Century Bible Hunter: Including Constantine Tischendorf ’s When Were Our Gospels Written?, Bloomsbury, London 2015. Vocabolario Treccani, s.v. “onciale” (www.treccani.it/vocabolario/onciale/).

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2006 ne è stata pubblicata una seconda: A. RᴀHᴌFS (ed.), Septuaginta: Id est Vetus Testamentum Graece iuxta LXX interpretes, quam recognovit et emendavit Robert Hanhart, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgart 2006. L'edizione di Cambridge riproduce il testo di B, segnalando nell'apparato critico le principali varianti apportate da altri testimoni. Purtroppo non è completa; include soltanto il Pentateuco e i libri storici, tranne i Maccabei. Il lavoro si è interrotto nel 1940 a causa della guerra mondiale. Il titolo dell'opera dice così: A. E. BRᴏᴏᴋᴇ - N. MᴄLᴇᴀN (eds.), The Old Testament in Greek: According to the Text of Codex Vaticanus, Supplemented from Other Uncial Manuscripts, with a Critical Apparatus Containing the Variants of the Chief Ancient Authorities for the Text of the Septuagint, Cambridge University Press, Cambridge 1906-1940. Infine esiste l'edizione di Göttingen: J. ZIᴇGᴌᴇR - J. W. WᴇᴠᴇRS - ᴇᴛ ᴀᴌ. (eds.), Septuaginta: Vetus Testamentum Graecum auctoritate Academiae Scientiarum Gottingensis editum, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1974-. Usa un gran numero di manoscritti e quindi ha un apparato critico molto ricco. Ma soprattutto si caratterizza perché tenta di ricostruire il testo originale di ogni singolo libro. Per maggiori informazioni, si veda www.adw-goe.de. Finora (febbraio 2018) mancano dieci libri per completare quest'opera monumentale: Gs, Gdc, 1-2 Sam, 1-2 Re, 1 Cr, Prv, Ct e Qo. Gli ultimi tre mancano anche nell'edizione di Cambridge e dunque bisogna consultarli nel Rahlfs.

13. Il testo del Nuovo Testamento In linea di massima, risalire ai testi originali dei ventisette libri del NT dovrebbe risultare più semplice rispetto a ciò che avviene con l'AT, perché è una collezione più breve e recente, scritta in una sola lingua e in un periodo di tempo piuttosto ridotto. Ciononostante, il panorama testuale del NT è assai complesso, perché abbiamo una quantità enorme di testimoni manoscritti del testo — più di cinquemila, una cifra considerevolmente superiore a quelli che contengono l'AT — e perché il numero di varianti testuali è anche assai elevato. La rapida espansione del cristianesimo ha fatto sì che i testi venissero copiati come si poteva, senza poter contare nella maggioranza dei casi con dei copisti professionali. Vi sono testimonianze sostanziose per affermare che nei primi decenni di trasmissione i testi in circolazione subirono numerose modifiche: parole o intere righe furono inavvertitamente omesse o copiate due volte, si apportarono variazioni stilistiche, si ebbero sostituzioni di parole, espressioni evidentemente infelici o veri e propri errori furono corretti, e così via (…). Una caratteristica evidente della nostra documentazione testuale è che le copie più antiche dei vari libri che poi composero il Nuovo Testamento differiscono fra loro molto più delle copie seriori, prodotte in

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situazioni molto più controllate nel Medioevo. Anche le citazioni neotestamentarie dei primi Padri della chiesa mostrano un tasso considerevole di variazione testuale che risale a queste primissime fasi nella storia della trasmissione1.

La copia fatta da non professionisti sembra la spiegazione più probabile per il fatto che ci siano più di duecentomila varianti per il testo greco del NT (anche se quelle veramente rilevanti sono soltanto duecento circa). Possiamo offrire una presentazione schematica dei tipi di testimoni testuali del NT, che possono essere diretti o indiretti: a) Diretti sono quelli che riproducono direttamente il testo del Nuovo Testamento in lingua originale (greco). Ne esistono quattro tipi: -Papiri. Sono importanti soprattutto per la loro antichità (…). A causa del tipo di materiale, di solito hanno un carattere frammentario e la qualità del testo è variabile. -Codici onciali. Chiamati così per il tipo di scrittura utilizzata fino al IX secolo approssimativamente (solo maiuscole e senza spazio fra le parole). La buona qualità del testo che trasmettono lo ha fatto diventare la base delle edizioni critiche. Fra i più significativi si annoverano il codice Vaticano, il Sinaitico e l'Alessandrino (secoli IV-V). Questi tre contengono tutta la Bibbia in greco, Antico e Nuovo Testamento. -Manoscritti minuscoli. Cominciano nel IX secolo e giungono fino all'invenzione della stampa. -Lezionari. b) Indiretti. Sono quelli ai quali manca qualcuna delle caratteristiche dei testimoni diretti: -Citazioni bibliche in autori dell'antichità cristiana. Hanno come vantaggio la possibilità di datare l'origine del testo in collegamento con la vita del rispettivo autore. Presentano i limiti derivati dall'adeguamento delle citazioni al testo in cui si inseriscono, oltre al fatto che si tratta di opere che richiedono anche un lavoro di critica testuale. -Traduzioni antiche. La loro importanza dipende dal fatto che i traduttori hanno avuto accesso a manoscritti in lingua originale più antichi di quelli oggi conservati.

1.

B. M. Metzger - B. D. Ehrman, Il testo del Nuovo Testamento: trasmissione, corruzione e restituzione, Paideia, Brescia 2013, 241-242.

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Fra di esse spiccano le versioni latine (Vetus Latina e Vulgata), siriache (Vetus Syra, Peshitta, Filoxeniana e Harklensis), copte (in diversi dialetti) e armena1.

L'edizione critica più importante del Nuovo Testamento è il “Nestle-Aland”, dai nomi del primo editore, Eberhard Nestle (1851-1913), e del suo successore, Kurt Aland (1915-1994), entrambi tedeschi. Si abbrevia “NA” seguito dal numero dell'edizione: NA27, NA28. A ottobre 2012 è apparsa la ventottesima edizione2. È in corso un progetto di digitalizzazione: nttranscripts.uni-muenster.de. Il Nestle-Aland appartiene a quella classe di edizioni critiche che tecnicamente riceve l'appellativo di “eclettica”, perché invece di basarsi su un manoscritto principale e segnalare nell'apparato le principali varianti rispetto ad altri — come fa la BHS con il Codice di Leningrado o l’edizione dei LXX di Cambridge con il Codice Vaticano — presenta un testo ricostruito parola per parola a partire dalle varianti trovate in moltissimi manoscritti, seguendo le diverse regole della critica testuale3. Non possiamo segnalare l'elenco completo dei manoscritti e degli altri testimoni (citazioni, lezionari liturgici) considerati in NA28, perché occorrerebbero diverse pagine. I manoscritti più importanti sono senz'altro i quattro grandi codici onciali di cui abbiamo parlato sopra, a proposito della versione dei Settanta, cioè, B, S, A e C. A questi quattro si deve aggiungere il Codex Bezae (D), del V secolo, che contiene i quattro vangeli e il libro degli Atti. È un manoscritto importante non solo per l’antichità, ma anche perché contiene un testo in genere molto diverso da quello degli altri. Infine, conviene aggiungere una parola sui testi più antichi del NT che si conservano, che sono dei papiri. Il più antico, P52, contiene alcuni versetti di Giovanni (Gv 18,31-33.37-38). È datato alla prima metà del II secolo, verso il 125. Un po' successivi, attorno all'anno 200, sono P46, che contiene lettere paoline, P66 (Gv) e P75 (Lc e Gv). La lettera P indica che si tratta di papiri.

1. 2.

3.

C. Jódar, «Biblia: Texto» in C. Izquierdo (ed.), Diccionario de teología, Eunsa, Pamplona 2006, 83-87, 87 (traduzione mia). Il titolo completo menziona i diversi autori: Novum Testamentum Graece: Based on the work of Eberhard Nestle and Erwin Nestle. Edited by Barbara and Kurt Aland, Johannes Karavidopoulos, Carlo M. Martini, Bruce M. Metzger: 28th. Revised Edition. Edited by Institute for New Testament Textual Research, Münster/Westphalia under the direction of Holger Strutwolf. Sul NA28, cf. A. J. Forte, «Observations on the 28th revised edition of Nestle-Aland's Novum Testamentum Graece», Biblica 94 (2013) 268-292. Uno degli editori spiega alcune delle scelte fatte dal comitato in: B. M. Metzger, A Textual Commentary on the Greek New Testament, Deutsche Bibelgesellschaft United Bible Societies, Stuttgart 2 2000.

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14. L'ispirazione in rapporto al canone e al testo Nella fede della Chiesa, l’ispirazione e la canonicità dei libri sono considerate due caratteristiche inseparabili, anche se concettualmente diverse. Nella parte dedicata al canone, parlando dei criteri per sapere quali sono i libri canonici, vedremo che il riconoscimento di alcuni libri come sacri è identico al loro riconoscimento come ispirati. Infatti, se ci si chiede con quali criteri la Chiesa ha riconosciuto l'ispirazione dei libri, la risposta è identica a quella circa i criteri per riconoscerne la canonicità, cioè, la tradizione apostolica, che la Chiesa discerne guardando la sua propria vita (cf. pp. 150-154 e pp. 188-189). Alla luce della tradizione, il magistero ha definito in maniera solenne il canone biblico. Dopo il concilio di Trento, non possono esserci più dubbi su quali siano i libri canonici e ispirati (pp. 184-188). Ma non si può dire la stessa cosa riguardo al contenuto preciso di questi libri, cioè riguardo al loro testo. Alcuni libri, come Ester e Geremia, sono stati tramandati in due o tre forme testuali diverse. Davanti a questa pluralità, è naturale chiedersi quale di queste forme sia da considerare come il testo ispirato. Un problema simile si pone davanti a quei libri di cui l'originale è andato perduto e che si conservano soltanto nella traduzione greca, come Baruc o 1 Maccabei. Dobbiamo forse estendere il carisma dell'ispirazione ai rispettivi traduttori?1 È importante sapere che il magistero della Chiesa non ha preso posizione su questi casi. Nessun Papa o Concilio ha detto quali siano esattamente i testi da ritenersi ispirati. L'unica definizione al riguardo è quella di Trento, che parla dei libri integri “con tutte le loro parti”. Come vedremo (cf. p. 186), nel parlare delle “parti” dei libri, i Padri conciliari pensavano a tre testi dei vangeli: Mc 16,9-20, Lc 22,43-44 e Gv 7,53-8,11. Ma perfino in questi casi il Concilio di Trento non ha precisato le parole esatte che compongono questi episodi. E non ha detto niente né sulle lingue da preferire, né sui casi problematici dell’AT appena menzionati. Sappiamo dunque quali sono i libri canonici, mentre la canonicità e l'ispirazione delle singole parole rimane aperta alla discussione caso per caso. Nei libri menzionati sopra, la risposta più ragionevole consiste nell'estendere l'influsso dello Spirito Santo alle diverse forme che ci sono pervenute. Per esempio, sia la versione greca breve, sia la versione ebraica lunga di Geremia dovrebbero ritenersi ispirate e canoniche. Oppure, sia il libro di Ester in ebraico, base della Vulgata, sia la versione greca più lunga, letta per secoli nella Chiesa bizantina, sono da considerare

1.

Cf. Grelot, La Bible, Parole de Dieu, 174-178 (“Les deutérocanoniques dont l'original sémitique est perdu”).

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ispirati e canonici. Rappresentativa di questa tendenza risulta la presentazione in parallelo di due traduzioni italiane del libro di Ester nell'ultima versione della Bibbia CEI, una presa dal testo ebraico, l'altra da quello greco1. In fondo, i problemi teologici legati alla trasmissione del testo in diverse forme sono da collegare alla Chiesa come destinataria della rivelazione attestata dai libri. Secondo uno schema semplicistico, l'ispirazione dovrebbe riguardare soltanto quelle parole che lo Spirito Santo ha suggerito all'agiografo nel momento della stesura del libro. Tuttavia, va ricordato che per la comunicazione è essenziale il momento della ricezione del messaggio. Possiamo essere certi, a partire dall'evidenza storica, che Dio non ha voluto che la Chiesa ricevesse i libri in una forma omogenea e senza errori (qui entra anche il carattere divino e umano della Bibbia, di cui abbiamo parlato nell’introduzione). Dunque, l'ispirazione si deve estendere in qualche modo alle diverse varianti con cui è stato tramandato il testo biblico. Lo Spirito Santo si è servito anche di manoscritti difettosi per far risuonare nella Chiesa la parola di Dio. Sarebbe certamente arrogante pensare che soltanto nell'epoca moderna siamo riusciti a scoprire, grazie alla critica testuale, i “veri testi” della Bibbia, oscurati per secoli da copisti maldestri. Bisogna però aggiungere subito che questa apertura di principio alla diversità testuale non esclude la necessità di studiare seriamente le varianti e di scegliere quelle che sembrano più antiche e quindi più vicine all'originale. Con i mezzi che abbiamo oggi, rinunciare a questo lavoro non sarebbe altro che pigrizia. Per concludere, possiamo menzionare la possibilità dell’esistenza di libri profetici o apostolici che, essendo stati perduti, non appartengono al canone, come per esempio la lettera che san Paolo dice di aver inviato ai Laodicesi (cf. Col 4,16). Può dirsi che tali libri sono “ispirati, ma non canonici”? Se uno di essi venisse oggi scoperto, lo si dovrebbe aggiungere al canone? Nel caso si avverasse una scoperta così, sembra più logico pensare che un tale testo non sia propriamente ispirato, perché lo Spirito Santo non ha fatto sì che venisse conservato nella Chiesa. Inoltre, non sembra necessario che tutto quanto sia stato scritto da un profeta o da un apostolo contenga la rivelazione in maniera ispirata.

1.

Per una spiegazione di questa soluzione applicata al caso del Siracide, cf. M. Gilbert, «L'Ecclésiastique: Quel texte? Quelle autorité?», Revue biblique 94 (1987) 233-250. Per il vangelo di Marco, cf. C. Focant, «La canonicité de la finale longue (Mc 16,9-20): vers la reconnaissance d'un double texte canonique?» in J.-M. Auwers - H.-J. de Jonge (eds.), The Biblical Canons, Leuven University Press, Leuven 2003, 587-597.

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15. Le traduzioni della Bibbia 15.1. Le principali versioni antiche In genere, le versioni antiche delle Scritture sono di grande valore per la critica testuale in primo luogo per la loro antichità, ma anche perché in genere tendono a tradurre in maniera letterale e dunque consentono di ricostruire il testo dal quale provengono. La più antica delle versioni è la traduzione della Torah — e poi di altri libri — in greco, detta dei Settanta (LXX), di cui abbiamo parlato sopra (pp. 117-121). Anche di origine non cristiana è il cosiddetto Targum. I targumin sono traduzioni della Torah, dei Profeti e di quasi tutti gli Scritti (non ci sono targumin di Esdra, di Neemia e di Daniele) in aramaico. Hanno uno stile molto libero, sono più simili a delle parafrasi che a una traduzione letterale. In ambito cristiano, i testi biblici — soprattutto i vangeli — sono stati tradotti nelle lingue dei diversi posti dove arrivavano i missionari, quasi sempre prendendo come punto di partenza il greco. Le principali traduzioni cristiane antiche della Bibbia sono le versioni siriache (fra cui spicca la Peshitta), la versione armena — chiamata la “regina delle versioni” per la sua qualità e bellezza —, le versioni copte, la versione gotica, la versione georgiana, la versione etiopica e le versioni latine, la Vetus Latina e la Vulgata, sulle quali ci soffermeremo brevemente1. Si dà il nome di Vetus Latina alle traduzioni latine della Bibbia che esistevano prima della diffusione della versione fatta da san Girolamo e che si sono basate sul testo greco, che cercavano di rendere pedissequamente2. Per spiegare che cosa è la versione latina detta Vulgata (Vg), dobbiamo raccontare brevemente la vita del suo autore, san Girolamo. Nato a Stridone (Dalmazia) verso il 347, Girolamo viene a studiare a Roma, dove riceve il battesimo nel 366. Si trasferisce ad Aquileia e poi a Siria, dove vive da eremita. Qui può perfezionare il suo greco e comincia a imparare l’ebraico. Dal 380 al 382 è a Costantinopoli, dove conosce Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa. Nel 382, accompagnando il vescovo Paulino di Antiochia, che lo aveva ordinato sacerdote, Girolamo torna a Roma. Resta nell’Urbe — forse abitava dove oggi si alza la chiesa di San Girolamo della Carità —

1.

2.

Per sapere di più circa queste versioni, cf. S. P. Brock, The Bible in the Syriac tradition, Gorgias Press, Piscataway 22006; G. Rizzi, Le antiche versioni della Bibbia: Traduzioni, tradizioni e interpretazioni, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009; Metzger - Ehrman, Il testo del Nuovo Testamento, 88-114. Cf. Rizzi, Le antiche versioni, 42-44.

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per lavorare come segretario e consulente del papa Damaso. San Damaso gli chiede di migliorare la traduzione in latino del NT, confrontando quelle esistenti con l’originale greco. Tuttavia, il Papa muore nel 384 e Girolamo — che nel frattempo si aveva creato alcuni nemici — deve lasciare Roma. Nel 386 si stabilisce a Betlemme, dove muore nel 419 o 4201. A partire dal 390, Girolamo comincia a fare una traduzione dell’AT partendo dai testi originali, in ebraico e aramaico, e non dalla versione greca (LXX), come avevano fatti i precedenti traduttori della Bibbia in latino. Come gli piaceva dire, Girolamo segue la hebraica veritas. Questa traduzione, finita verso il 405, ebbe una grande diffusione in occidente: per questo in epoca moderna finì col ricevere l'appellativo di Vulgata2. Nella Chiesa antica, infatti, l'AT veniva letto in greco, non in ebraico. Dopo il I secolo, l'ebraico e l’aramaico erano diventati praticamente lingue sconosciute fra i cristiani, il che non deve destare sorpresa vista la rapida diffusione del vangelo fra i pagani e tenendo conto anche del fatto che, purtroppo, i rapporti fra cristiani ed ebrei non erano ottimi3. Allorché la traduzione di Girolamo cominciò a diffondersi, molti si stupirono della sua scelta di tradurre dall'ebraico invece che dal greco, com'era abituale. Fra questi spicca sant'Agostino, che nell'anno 394 o 395 (prima del 396, anno in cui diventa vescovo) scrisse una lettera a Girolamo manifestandogli la sua perplessità. Così è nato uno scambio epistolare fra i due, su questo e su altri argomenti, di grande valore storico e dottrinale. A noi adesso interessa sapere soltanto che Agostino alla fine riconobbe la validità della scelta di Girolamo di tradurre a partire dall'ebraico4. Insieme a questa scelta della hebraica veritas, assai meritoria, san Girolamo ha fatto un'altra molto discutibile; anzi — lo possiamo dire alla luce della storia poste-

1. 2.

3. 4.

Per la vita di Girolamo, cf. S. Rebenich, Jerome, Routledge, London 2002. In italiano si può dire “Volgata” o “Vulgata”. La parola viene dal latino ecclesiastico vulgata [editio], cioè, '[edizione] divulgata' e cominciò ad essere usata per riferirsi alla traduzione di Girolamo soltanto dopo il Concilio di Trento. Cf. A. Allgeier, «Haec vetus et vulgata editio: Neue wort- und begriffsgeschichtliche Beiträge zur Bibel auf dem Tridentinum», Biblica 29 (1948) 353-390. Sulla ricezione e trasmissione della Vulgata dopo Girolamo, cf. S. Berger, Histoire de la Vulgate pendant les premiers siècles du moyen age, Imprimerie Berger-Levrault et Co., Nancy 1893; Perrella, Introduzione generale, 219-234 (nn. 218-234). Cf. G. Bardy, La question des langues dans l'Église ancienne, Beauchesne, Paris 1948; E. L. Gallagher, «The Septuagint’s Fidelity to Its Vorlage in Greek Patristic Thought» in M. K. H. Peters (ed.), XIV Congress of the IOSCS, Helsinki, 2010, Society of Biblical Literature, Atlanta 2013, 663-676. Su questa corrispondenza, cf. A. Fürst, Augustins Briefwechsel mit Hieronymus, Aschendorff, Münster 1999.

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riore — certamente sbagliata: ha considerato come canonici solo i libri che gli ebrei accettavano. Di questo parleremo dopo, nella parte dedicata al canone (cf. pp. 177180). Dal punto di vista testuale, la Vulgata è un testimone importante soprattutto del testo ebraico ed aramaico dell'AT, perché Girolamo ha tradotto quasi tutti i libri veterotestamentari a partire da manoscritti che contenevano un testo praticamente identico al futuro TM. La grande eccezione è il Salterio, che Girolamo ha tradotto tre volte. In primo luogo, ha fatto una revisione dell'antica versione latina (il cosiddetto “Salterio Romano”). La versione latina dei salmi che si trova nella Vulgata (e che san Pio V introdusse nel Breviario Romano) corrisponde al “Salterio Gallicano”, che non è la traduzione dei salmi a partire dall'ebraico, ma a partire dal greco delle Esapla. Più tardi, san Girolamo fece una nuova traduzione del salterio, questa volta a partire dall'ebraico1. Tranne che per i salmi, dunque, la Vulgata si basa su un testo ebraico molto simile al TM, tradotto quasi sempre in maniera piuttosto letterale (come in 1 Sam 13,1, citato a p. 111). Per questo, se in un caso la Vulgata coincide con i LXX e non con il TM, è possibile pensare che è nell'attuale TM che il testo è cambiato, mentre che Vulgata e LXX testimoniano indipendentemente una variante più antica e dunque più vicina all’originale. 15.2. Versioni moderne 15.2.1. Introduzione: Trento e l’autenticità della Vulgata Nei primi secoli della Chiesa, il testo biblico utilizzato era la Bibbia in greco, cioè la versione dei LXX più il NT. Ancor oggi questa è la Scrittura della Chiesa greca. Nelle chiese di lingua latina si impiegavano traduzioni che per l'AT si basavano sui LXX (Vetus Latina) e che a partire dal V sec. vennero a poco a poco sostituite dalla Vulgata, come abbiamo detto. Nell'Occidente medievale, praticamente l'unica Bibbia letta e diffusa è stata la Vulgata, anche se esistevano parafrasi o piccole traduzioni nelle lingue parlate dal popolo. Di solito si dice che i primi a tradurre la Scrittura nelle lingue moderne sono 1.

“On sait que le psautier latin couramment utilisé en Occident est le psautier hexaplaire appelé aussi gallican (…). A partir d’Alcuin et des Bibles de Tours, ce psautier utilisé dans la liturgie franque s’est introduit dans les Bibles et a supplanté dans la Vulgate la traduction de Jérôme sur l’hébreu”, P.-M. Bogaert, «Les frontières du canon de l’Ancien Testament dans l’Occident latin» in R. Gounelle - J. Joosten (eds.), La Bible juive dans l’Antiquité, Zèbre, Lausanne 2014, 41-95, 50. Cf. anche Rebenich, Jerome, 53-54.

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stati i protestanti a partire dal XVI secolo. È storicamente più preciso dire che essi sono stati i primi a diffondere massivamente la Bibbia tradotta in lingue moderne a partire dalle lingue originali. Nei secoli precedenti ci sono state alcune traduzioni importanti, come quella in bulgaro antico (chiamato anche slavo antico o paleoslavo) fatta nel IX secolo da san Cirillo e san Metodio, quella in francese del XII secolo o, più vicina a Lutero, quella in inglese realizzata da Wyclif1. La traduzione della Bibbia in tedesco realizzata da Lutero (1545) ha avuto un'enorme importanza dal punto di vista religioso e culturale. In inglese, altrettanto importante è stata la King James Version (KJV) del 1611, realizzata prendendo come modello la Luther Bibel. Sia la Bibbia di Lutero che la KJV sono state per secoli “la” Bibbia nelle rispettive lingue e hanno contribuito notevolmente allo sviluppo letterario del tedesco e dell'inglese. In ambito cattolico, il Concilio di Trento ha consigliato la Vulgata come testo da preferire fra le diverse versioni in latino che esistevano all'epoca (cf. EB 61). Per quanto riguarda le traduzioni, Trento non ha vietato di farle a partire dai testi originali, ma nemmeno le ha incoraggiate. Se si studiano gli atti delle discussioni conciliari, si scopre che questo silenzio non è stato casuale. Infatti alcuni Padri conciliari volevano che fossero proibite tutte le versioni, tranne la Vulgata. Altri invece pensavano più conveniente favorire la divulgazione della Bibbia fra i fedeli e per questo spingevano perché si facessero delle traduzioni in diverse lingue. Alla fine, pro bono pacis, il Concilio ha preferito non dire nulla al riguardo2. Allo stesso tempo, Trento ha consigliato la Vulgata come testo sicuro dal punto di vista dottrinale. Ecco le parole del Concilio, nel secondo decreto sulle Scritture (8 aprile 1546): Lo stesso sacrosanto sinodo, considerando che non sarà di poca utilità per la chiesa di Dio sapere chiaramente fra tutte le edizioni in circolazione quale è l'edizione autentica dei libri sacri, stabilisce e dichiara che l'antica edizione della Volgata, approvata dalla stessa chiesa da un uso secolare, deve essere ritenuta come autentica nelle

1.

2.

Cf. P. Chiesa, «Le traduzioni» in G. Cremascoli - C. Leonardi (eds.), La Bibbia nel Medioevo, EDB, Bologna 1996, 15-27; M. Dove, «Scripture and Reform» in R. Marsden - E. A. Matter (eds.), The New Cambridge History of the Bible: 2: From 600 to 1450, Cambridge University Press, Cambridge 2012, 579-595. Cf. R. E. McNally, «The Council of Trent and Vernacular Bibles», Theological Studies 27 (1966) 204-227; G. Bedouelle, «Le débat catholique sur la traduction de la Bible en langue vulgaire» in I. Backus - F. Higman (eds.), Théorie et pratique de l'exégèse: Actes du troisième colloque international sur l'histoire de l'exégèse biblique au Xvie siècle (Genève, 31 août - 2 septembre 1988), Droz, Genève 1990, 39-59; C. Buzzetti, «La traduzione della Bibbia e il Concilio di Trento: decisioni e/o conseguenze», Salesianum 71 (2009) 473-490.

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lezioni pubbliche, nelle dispute, nella predicazione e spiegazione e che nessuno, per nessuna ragione, può avere l'audacia di respingerla (EB 61).

Questa raccomandazione, unita al silenzio del concilio sulle traduzioni ed ad alcuni decreti del Sant’Ufficio molto restrittivi, ha fatto sì che quando i cattolici hanno voluto tradurre la Bibbia, hanno preso come testo base la Vulgata e non i testi nelle lingue originali1. Sorprendentemente, tale situazione, comprensibile all'epoca di Trento per motivi di prudenza, si è protratta per ben quattro secoli! Infatti, soltanto con l'enciclica Divino Afflante Spiritu (1943) è stata chiarita la portata del decreto tridentino sulla Vulgata ed i cattolici sono stati incoraggiati a fare traduzioni a partire dai testi originali. L'autenticità della Vulgata va compresa in senso dottrinale e non in senso critico e dunque non può sostituire i testi originali. Ecco le parole di Pio XII: Che se il Concilio di Trento volle che la Volgata fosse quella versione latina, «di cui tutti dovessero valersi come autentica», anzitutto ciò riguarda solo, come tutti sanno, la chiesa latina e l'uso che in essa si ha da fare della Scrittura, e del resto non vi è dubbio che non diminuisce punto l'autorità e il valore dei testi originali. Infatti non era allora questione dei testi originali della Bibbia, ma delle traduzioni latine, che a quel tempo circolavano, e fra queste giustamente il medesimo concilio stabilì doversi preferire quella che «per il diuturno uso di tanti secoli nella Chiesa stessa aveva ricevuta l'approvazione». Questa preminente autorità, ovvero, come suol dirsi, autenticità della Volgata, fu dal concilio decretata non già principalmente per motivi di critica, ma piuttosto per l'uso legittimo che se ne fece nelle chiese lungo il corso di tanti secoli, il quale uso dimostra che essa, nel senso in cui la intese e intende la chiesa, va affatto immune da errore in tutto ciò che tocca la fede ed i costumi. Da questa immunità, di cui la chiesa fa testimonianza e dà conferma, proviene che nelle dispute, lezioni e prediche si possa citare la Volgata in tutta sicurezza e senza pericolo di sbagliare. Perciò quell'autenticità va detta non critica, in prima linea, ma piuttosto giuridica. Quindi l'autorità, che ha la Volgata in materia di dottrina, non impedisce punto — anzi ai nostri giorni quasi esige — che quella medesima dottrina venga provata e confermata per mezzo dei testi originali, e che inoltre ai medesimi testi si ricorra per dischiudere e dichiarare ogni dì meglio il vero senso delle divine Scritture (EB 549).

1.

La grande eccezione sono le traduzioni in arabo, armeno e altre lingue pubblicate nel Seicento a scopo missionario, che sono state fatte a partire dalle lingue originali. Cf. G. Rizzi, Edizioni della Bibbia nel contesto di Propaganda Fide: uno studio sulle edizioni della Bibbia presso la Biblioteca della Pontificia Università Urbaniana, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2006.

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Dopo questa chiarificazione, tutti i cattolici hanno cominciato a tradurre direttamente dai testi originali. Il primo frutto di queste iniziative è stata la Bible de Jérusalem, traduzione in francese di cui parleremo sotto. Anche la Dei Verbum fa propria questa idea e incoraggia la diffusione di traduzioni basate sui testi originali. Si menziona anche la possibilità di prepararle in collaborazione con i cristiani che non sono in piena comunione con la Chiesa: È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla sacra Scrittura. Per questo motivo, la Chiesa fin dagli inizi fece sua l'antichissima traduzione greca del Vecchio Testamento detta dei Settanta, e ha sempre in onore le altre versioni orientali e le versioni latine, particolarmente quella che è detta Volgata. Poiché, però, la parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo, la Chiesa cura con materna sollecitudine che si facciano traduzioni appropriate e corrette nelle varie lingue, di preferenza a partire dai testi originali dei sacri libri. Se, per una ragione di opportunità e col consenso dell'autorità della Chiesa, queste saranno fatte in collaborazione con i fratelli separati, potranno essere usate da tutti i cristiani (DV22).

15.2.2. La Sisto-Clementina e la Neovulgata (NVg) Come abbiamo appena visto, nel decreto disciplinare che segue a quello dogmatico che ha definito il canone, il concilio di Trento consiglia l’uso della Vulgata latina. Questa raccomandazione comportava anche il bisogno di averne un’edizione affidabile. Nella forma definitiva del decreto approvato a Trento circa la Volgata non si fa più cenno all'edizione corretta da prepararsi per iniziativa del papa. Ma nella lettera scritta dai legati al cardinale Farnese in data 26 aprile 1546, si fa esplicita menzione di questa richiesta del concilio rivolta al papa: «che gli piacesse con ogni celerità di far correggere prima la nostra edizione latina et poi anco la greca et la hebrea». I lavori per l'edizione critica della Volgata iniziarono a Roma fin dal 1546. Ma solo con il pontificato di Pio IV, 1559, fu istituita una commissione di cui fa parte il cardinale Guglielmo Sirleto, 1561. Alla chiusura del concilio di Trento, 1563, l'edizione corretta della Volgata non è ancora pronta. Pio V riconferma nel 1569 la commissione di studiosi e cardinali incaricata di raccogliere il materiale e di procedere alla revisione del testo latino sulla base delle testimonianze critiche Solo con l'elezione al pontificato del cardinale Felice Peretti, con il nome di Sisto V nel 1575, si arriva alla prima edizione romana della Volgata1.

1.

R. Fabris (ed.), La Bibbia nell'epoca moderna e contemporanea, EDB, Bologna 1992, 47.

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Il 10 aprile 1590, il papa Sisto V pubblica un’edizione, chiamata “Vulgata Sistina”, che ha avuto una vita brevissima. Siccome l’edizione non era soddisfacente, perché Sisto V aveva inserito di propria iniziativa alcune modifiche al lavoro fatto dalla commissione di cardinali che l’aveva preparata, è stata ritirata subito dopo la morte di Sisto V (agosto 1590). Nel 1592, il papa Clemente VIII pubblicò una nuova edizione, chiamata Vulgata Sisto-Clementina. Questa diventò “la Bibbia” dei cattolici per i secoli successivi. Perfino è stata utilizzata come testo base per alcune traduzioni, come la Douay Reims (1582-1609) in inglese o quella di Felipe Scío (1791-1793) in spagnolo. Oggi, il testo ufficiale della Chiesa per la liturgia in lingua latina è la Neovulgata (Nova Vulgata Editio). Ha sostituito dunque la edizione Sisto-Clementina della Vulgata nelle letture della messa e nei salmi e letture bibliche della liturgia delle ore. Tuttavia, siccome dopo la riforma liturgica del 1970 nella liturgia latina si impiegano i testi biblici nelle lingue parlate in ogni luogo e non più in latino, è chiaro che la Neovulgata non goderà mai di una diffusione e importanza paragonabili a quelle avute dalla Sisto-Clementina. La preparazione della Neovulgata cominciò nel 1965. San Giovanni Paolo II la promulgò come editio typica il 25-IV-1979 con la Costituzione Apostolica Scripturarum Thesaurus (EB 774-775). Nel 1986 è apparsa la editio typica altera: una seconda edizione, con alcune correzioni. La Neovulgata è stata realizzata seguendo due criteri: tener conto dei progressi della critica testuale e cercare di conservare il più possibile il testo e lo stile dell'antica Vulgata. In genere, la Neovulgata ha conservato un testo simile alla Vulgata, ma in alcuni casi vi sono delle differenze importanti. Per alcuni esempi, si veda sotto, p. 291. 15.2.3. Alcune Bibbie moderne da conoscere Di seguito faremo menzione di alcune traduzioni moderne importanti della Bibbia, senza pretese di offrirne una presentazione completa. Si consiglia ad ogni studente di fare una ricerca sulle versioni esistenti nella propria lingua, specialmente su quella approvata dalla rispettiva conferenza episcopale per l'uso liturgico. In italiano esiste una sorta di “monopolio” testuale in ambito cattolico. La versione della CEI non solo è il testo liturgico ufficiale, ma è anche di fatto quasi l'unica versione della Bibbia letta dai fedeli, il che ha vantaggi (è un fattore di unità) e svantaggi (si dipende da una sola versione). I lavori di preparazione della Bibbia CEI sono iniziati dopo il Vaticano II, nel 1966. La prima edizione è uscita nel 1971. Nel 1974 c'è

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stata una seconda edizione, con leggeri ritocchi. Nel 1988 cominciò la preparazione della terza edizione, pubblicata nel 2008, che presenta importanti cambiamenti1. Fra le versioni moderne in altre lingue, spicca la Bible de Jérusalem (BJer), traduzione in francese fatta negli anni quaranta e cinquanta da un gruppo di studiosi coordinati dai domenicani di Les Éditions du Cerf e dell'École Biblique et Archéologique Française di Gerusalemme. La prima edizione della BJer è stata completata nel 1956. La seconda edizione risale al 1973. C'è una terza edizione, con modifiche importanti, del 19982. Non ci sarà una quarta edizione, perché adesso i domenicani dell'École stanno lavorando ad un progetto sotto un nuovo titolo: La Bibbia nelle sue tradizioni. Per saperne di più, si può vedere www.bibest.org. Esiste un’edizione della BJer in spagnolo, la Biblia de Jerusalén, che riproduce le introduzioni e le note dell'edizione francese, ma che contiene una traduzione fatta a partire dalle lingue originali (che segue in linea di massima le scelte dei traduttori francesi) . Qualcosa di simile vale per la versione inglese, The Jerusalem Bible e poi The New Jerusalem Bible. In italiano, invece, si dà il nome di Bibbia di Gerusalemme a un’edizione che contiene il testo della CEI, con le note in calce della Bible de Jérusalem. Ancora in lingua francese, è da menzionare la Bibbia TOB (Traduction Œcuménique de la Bible), frutto della collaborazione fra cattolici e protestanti, pubblicata nel 1975-1976 dalla Société biblique française e da Éditions du Cerf. Nella nuova edizione del 2010, hanno partecipato anche esegeti ortodossi. Le principali Bibbie moderne in lingua inglese sono la RSV e la NRSV: The Revised Standard Version (1952) is the result of discussions begun in 1928, as a result of which a Standard Bible Committee was appointed by the International Council on Religious Education. The committee decided to revise the poorly received American Standard Version within the tradition of the King James Version. Work began in 1936. The New Testament was published in 1946, and the complete Bible on September 30, 1952 (the feast of St. Jerome!). That evening, 3,418 Protestant communities held observances to honor the new translation, and more than half a million people participated. 1.

2.

Per vedere degli esempi, cf. F. Serafini, Come e perché cambiano i Salmi: le principali modifiche della nuova traduzione italiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009; L. Mazzinghi, «La nuova revisione della Bibbia CEI (2008): una valutazione» in M. Mülke - L. Vogel (eds.), Bibelübersetzungen und (Kirchen-)Politik, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2015, 157-173. Per sapere di più, cf. O.-T. Venard, «The Cultural Backgrounds and Challenges of La Bible de Jérusalem» in P. McCosker (ed.), What is it that the Scripture Says?: Essays in Biblical Interpretation, Translation and Reception in Honour of Henry Wansbrough OSB, T&T Clark, London 2006, 111-134.

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New Revised Standard Version (1990). Work began on a revision of the RSV in 1974 and was finished in 1990. It strove for greater accuracy, improved clarity, more intelligible or more natural English, elimination of ambiguity1, elimination of ambiguity in oral reading2, better euphony3, and elimination of some masculine references4.

In tedesco, possiamo menzionare la Einheitsübersetzung (1980). Il titolo completo esprime il carattere ecumenico di una parte di questa versione: Die Bibel: Einheitsübersetzung der Heiligen Schrift, herausgegeben im Auftrag der Bischöfe Deutschlands; für die Psalmen und das Neue Testament auch im Auftrag des Rates der Evangelischen Kirche in Deutschland und der Deutschen Bibelgesellschaft. In spagnolo, oltre alla Biblia de Jerusalén, va ricordata la traduzione di Luis Alonso Schökel, Juan Mateos e altri, chiamata Nueva Biblia Española (1975), che con alcune modifiche è stata quella utilizzata nella liturgia in Spagna fino a tempi recenti. È una traduzione piuttosto libera, con più attenzione alle caratteristiche letterarie del testo che al suo contenuto letterale. La Conferenza Episcopale Spagnola ha presentato alla fine del 2010 una versione ufficiale, col titolo Sagrada Escritura. Versión oficial de la Conferencia Episcopal Española. È stata fatta per l'uso liturgico. La Biblia de Navarra — preparata dalla Facoltà di Teologia dell'Università di Navarra per desiderio di san Josemaría Escrivá — ha conosciuto diverse edizioni. Traduce a partire dai testi originali, cercando di offrire una versione spagnola fedele ed elegante. Inoltre, esiste una versione spagnola latinoamericana recente, sotto la guida del CELAM, la Biblia de la Iglesia en América (BIA)5. 1. 2. 3. 4. 5.

Ps 50:9, “I will accept no bull from your house,” became “I will not accept a bull from your house.” Lk 22:35 had read: “'Did you lack anything?' They said, 'Nothing.'” This phrase could be misheard as “They said nothing.” It was changed to “They said, 'No, not a thing.'” Is 22:16: for “You have hewn here a tomb for yourself, you who hew a tomb on the height,” the revision read: “You have cut a tomb here for yourself, cutting a tomb on the height,” to avoid “you who hew.” Joseph Lienhard, appunti di un corso di greco al Pontificio Istituto Biblico, anno accademico 2006/2007. Per altri esempi, cf. B. M. Metzger, The Bible in Translation: Ancient and English Versions, Baker Academic, Grand Rapids 2001, 157-161. Per saperne di più, cf. S. Silva Retamales, «'¿Entiendes lo que estás leyendo?' (Hch 8,30): Acerca de la traducción de la Biblia de la Iglesia en América», Veritas 27 (2012) 165-191.

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Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo (…) È questa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l'intero canone dei libri sacri. Dei Verbum, n. 8.

Bibliografia PCB, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana (24 maggio 2001), nn. 16-18 (riassunto della formazione del canone dell'AT, utile per un primo approccio). A.M. ARᴛᴏᴌᴀ - J.M. SÁNᴄHᴇᴢ CᴀRᴏ, Biblia y Palabra de Dios, Verbo Divino, Estella (Navarra) 1995, parte seconda. R. E. BRᴏᴡN - R. F. CᴏᴌᴌINS, «Canonicity», NJBC, 1034-1054. V. MᴀNNᴜᴄᴄI - L. MᴀᴢᴢINGHI, Bibbia come Parola di Dio: Introduzione generale alla sacra Scrittura, Queriniana, Brescia 212016, capitoli 12, 13 e 14. Per approfondire: G. ARᴀNᴅᴀ, «Il problema teologico del canone biblico» in M. TÁBᴇᴛ (a cura di), La Sacra Scrittura anima della teologia. Atti del IV Simposio Internazionale della Facoltà di Teologia, Pontificia Università della Santa Croce, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, 13-35.

16. Introduzione al problema del canone biblico La lista dei libri che formano la sacra Scrittura si chiama “canone biblico”. Un primo approccio al canone l'abbiamo fatto all'inizio del corso, elencandone i libri (cf. pp. 35-41). Adesso dobbiamo spiegare quando, come e perché quelle opere sono state riconosciute come canoniche, mentre altri scritti simili sono rimasti fuori o sono stati direttamente esclusi. Infatti, studiare il canone non richiede soltanto sapere quali

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sono i libri biblici, ma anche approfondire le ragioni che hanno portato la Chiesa a fissare il canone, cioè a distinguere fra libri canonici e non canonici. 16.1. Alcuni chiarimenti terminologici Canone e canonico. La parola “canone” indica una misura normativa, una regola. L'applicazione di questo termine all'elenco dei libri biblici comincia nel IV secolo d.C., quando si vogliono distinguere i libri normativi o “canonici”, nel senso che corrispondono alla regola o canone della fede, da quelli che non lo sono1. È utile distinguere fra “canone” in senso attivo (regola alla quale adeguarsi) e “canone” in senso passivo (le cose che concordano con la regola e dunque sono “canoniche”). A noi interessa il canone in entrambi i sensi, attivo e passivo, perché la sacra Scrittura non è soltanto una lista di libri ortodossi, ma in quanto parola di Dio è regola della fede per la Chiesa. In questa parte del corso ci concentreremo sul canone in senso passivo, come la lista dei libri riconosciuti come sacri e ispirati dalla Chiesa. Ma è opportune tenere presente che questo senso è derivato dal senso attivo del canone, molto più importante di un semplice elenco2. Protocanonico e deuterocanonico. Sono termini correlativi. Nella sua Bibliotheca Sancta (1566), Sisto da Siena chiamò “deuterocanonici” i libri che, secondo lui, entrarono nel canone dopo alcuni dubbi, mentre invece sarebbero “protocanonici” (questa parola però non è usata da Sisto) quelli che sono stati accettati sempre e dappertutto da tutti3.

1. 2.

3.

Per l'etimologia, cf. H. Ohme, «Kanon I (Begriff)», Reallexikon für Antike und Christentum 20 (2004) 1-28; Bokedal, Formation and Significance, 55-80. Cf. J. Chapa, «La Biblia en la formulación y la comprensión de la fe» in G. Aranda - J. L. Caballero (eds.), La Sagrada Escritura, palabra actual: XXV Simposio Internacional de Teología, Servicio de publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 2005, 263-294; O.-T. Venard, «Del canon bíblico a la vida cristiana» in V. Balaguer - J. L. Caballero (eds.), Palabra de Dios, Sagrada Escritura, Iglesia, Eunsa, Pamplona 2008, 213-236. Secondo Sisto da Siena, i libri deuterocanonici dell'AT sono Ester, Tobia, Giuditta, Baruc, la lettera di Geremia (=Bar 6), Sapienza, Siracide, 1-2 Maccabei e le parti greche di Daniele. Del NT, Sisto considera deuterocanonici Ebrei, Giacomo, 2 Pietro, 2-3 Giovanni, Giuda e Apocalisse, più alcuni versetti di Marco (Mc 16,9-20), di Luca (Lc 22,43-44) e di Giovanni (Gv 7,53-8,11). Sulla terminologia di Sisto da Siena, cf. G. Bedouelle, «Le canon de l'Ancien Testament dans la perspective du concile de Trente» in J.-D. Kaestli - O. Wermelinger (eds.), Le canon de l’Ancien Testament: sa formation et son histoire, Labor et fides, Genève 1984, 253-274, 269-273; più ampiamente in M. Tábet, Le trattazioni teologiche sulla Bibbia: Un approccio alla storia dell'esegesi, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003, 194-199.

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Oggi molti riconoscono che si tratta di una terminologia inesatta ed equivoca. Tuttavia, è necessario conoscerla, perché è ancora impiegata da alcuni. Più avanti vedremo perché Sisto distingueva fra questi due gruppi di libri, dopo aver parlato della posizione assunta da Lutero rispetto al canone, perché da qui nasce l'attuale discussione attorno al canone. Apocrifo. Questo termine può avere tre significati diversi secondo il contesto, da conoscere per evitare equivoci. 1) Apocrifo = Occulto. In origine, “apocrifo” (ἀπόκρυφος) vuol dire “nascosto”, “occulto” (dal verbo ἀποκρύπτω, “nascondere”, “coprire”). Applicato a una dottrina filosofica o religiosa, il termine designa un insegnamento prezioso, difficile da acquistare e pertanto inaccessibile ai più, che però viene rivelato a un gruppo di pochi eletti. Di conseguenza, queste persone “elette” detengono un insegnamento superiore a quello pubblico. 2) Apocrifo = Eretico. La Chiesa non ha mai accettato che vi fosse un insegnamento di Gesù diverso da quello pubblico, accessibile a tutti. Vi poteva essere una comprensione più piena, che si guadagnava seguendo Gesù più da vicino, ma non tale da poter mai contraddire l'insegnamento di Gesù trasmesso apertamente nella Chiesa, cioè nel popolo di Dio che ha accolto Gesù Cristo con la fede, e che confessa (homologein) apertamente la fede. Di qui che il gruppo (hairesis) che aderisce a un insegnamento apocrifo, cioè nascosto, che contraddice l'insegnamento pubblico della Chiesa, sia da questa considerato eretico. Per derivazione, dunque, in ambito cristiano la parola “apocrifo” acquista un nuovo senso e diventa sinonimo di “eretico”, “non ortodosso” e quindi “non autentico”. 3) Apocrifo = Non canonico. Un terzo senso della parola nasce dalla sua applicazione ai libri. Siccome i libri apocrifi nel senso di eretici non sono canonici, per estensione si è cominciato a chiamare “apocrifi” tutti i libri che non fanno parte del canone biblico (così almeno fa san Girolamo, come vedremo a p. 178). Detto dei libri, “apocrifo” è diventato sinonimo di non canonico o extracanonico, senza una connotazione negativa. Cioè, non tutti i libri non canonici sono eretici; ci sono alcuni libri “apocrifi” che non contraddicono la dottrina della Chiesa, come il salmo 151 o il Pastore di Erma. 16.2. Le scoperte di alcuni apocrifi e la messa in questione del canone Fra gli argomenti appartenenti al corso d'IGSS, quello su cui più si scrive e si discute oggi è il canone. Sia a causa delle scoperte di alcuni libri antichi, sia a causa di motivazioni teologiche o ideologiche, alcuni autori hanno proposto di cambiare il ca-

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none biblico, cioè di togliere alcuni libri o di aggiungerne altri, o di rinunciare alla nozione stessa di canone. Altri studiosi — più moderati — ritengono che si debbano ammorbidire le differenze fra libri canonici e non canonici, perché pensano che la determinazione del canone biblico ubbidisca a fattori più o meno arbitrari o contingenti. Il dibattito è specialmente vivo fra gli autori di ambito protestante, ma interessa anche i cattolici1. Prima di studiare la storia della formazione del canone, è utile conoscere i fattori che spiegano perché oggi viene messo in discussione il concetto stesso di canone. Possiamo menzionare i seguenti motivi: ◦ la scoperta (o riscoperta) di libri apocrifi nel XIX e nel XX secolo ha stimolato la riflessione circa la legittimità del canone ricevuto. Nell’Ottocento, sono stati portati dall’Etiopia in Europa alcuni manoscritti del Libro dei Giubilei e di 1 Enoch, libri apocrifi di cui si conosceva l’esistenza, ma di cui si era persa quasi ogni traccia. Nel ventesimo secolo, manoscritti di questi libri e di altri ancora sono stati trovati attorno al Mar Morto (Qumran, cf. n. 2, p. 29) e a Nag Hammadi, in Egitto2. Fra questi ultimi, spicca il Vangelo di Tommaso, considerati da alcuni come il “quinto vangelo” per il suo valore per ricostruire le parole autentiche di Gesù (di questo vangelo parleremo a pp. 286-290). ◦ nel caso del canone del NT, si deve tener conto del forte influsso di alcuni autori, specialmente di Walter Bauer ed il suo libro sulle origini del cristianesimo: Ortodossia ed eresia nel cristianesimo delle origini, del 19343. In sintesi, Bauer propone che nei primi due secoli coesistevano diversi correnti all’interno del cristianesimo, delle quali una ha avuto posteriormente la prevalenza, rivendicando per sé il carattere di unica ortodossa. L’attuale canone biblico sarebbe conseguenza dell’imporsi di un gruppo sugli altri. Negli anni settanta, le

1. 2. 3.

Cf. B. S. Childs, «The Canon in Recent Biblical Studies: Reflections on an Era», Pro Ecclesia 14 (2005) 26-45; J. C. Ossandón Widow, «On the Formation of the Biblical Canon: An Extended Review of L. M. McDonald's Book», Annales Theologici 24 (2010) 437-452. Un esame critico della storia del ritrovamento della biblioteca di Nag Hammadi si può vedere in M. Goodacre, «How Reliable is the Story of the Nag Hammadi Discovery?», Journal for the Study of the New Testament 35 (2013) 303-322. W. Bauer, Rechtgläubigkeit und Ketzerei im ältesten Christentum, Mohr Siebeck, Tübingen 1934. In inglese: Idem, Orthodoxy and Heresy in Earliest Christianity, SCM, London 1972. Nel 2009 è apparsa una nuova edizione in francese: Orthodoxie et hérésie aux débuts du Christianisme, Cerf, Paris 2009. Per una risposta, cf. A. J. Köstenberger - M. J. Kruger, The Heresy of Orthodoxy: How Contemporary Culture's Fascination with Diversity Has Reshaped Our Understanding of Early Christianity, Crossway, Wheaton 2010.

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tesi di Bauer sono state diffuse negli Stati Uniti da autori importanti, come Robert Kraft (traduttore del libro in inglese), James Robinson e Helmut Koester. ◦ infine, nella sensibilità postmoderna si mette in dubbio il canone come lista chiusa e definitiva di libri, perché ogni autorità è vista con sospetto e in genere si preferisce la pluralità all’uniformità. Perciò, ricostruzioni storiche come quella di Bauer hanno avuto successo a livello accademico e diffusione a livello popolare. Per esempio, nel romanzo Da Vinci Code si afferma che il canone biblico è stato frutto di un’imposizione autoritaria e arbitraria dell’imperatore Constantino (quindi, è suscettibile di revisione). In ciò che segue, dobbiamo ripercorrere la storia della formazione del canone, per poter rispondere a queste sfide, che riguardano soprattutto il NT. Perciò parleremo prima della formazione del canone del NT e poi di quella del canone dell’AT. In realtà, la determinazione del canone nella Chiesa non ha seguito due strade parallele, una per ogni testamento, ma si è trattato di un solo processo. Eppure, studieremo separatamente la conformazione del canone dell'AT e del NT per motivi didattici.

17. Il canone del Nuovo Testamento Per noi, cattolici del ventunesimo secolo, tutti i libri delle Scritture sono Parola di Dio. Tuttavia, quando si studia la storia della formazione del canone, si deve evitare di proiettare questa concezione indietro nel tempo. Bisogna limitarsi a vedere cosa dicono le testimonianze antiche, senza anacronismi. Nella determinazione del canone del NT non vi è la possibilità di differenze o confronti con le scritture degli ebrei. Per questo motivo e anche per altri, non esistono divergenze nel canone del NT fra le principali chiese o confessioni cristiane: cattolici, ortodossi e protestanti hanno gli stessi ventisette libri — anche se, come vedremo, Lutero considerava Ebrei, Giacomo, Giuda e Apocalisse come opere di seconda categoria —. Sul piano teologico, invece, oggi si discute molto sul canone del NT. Come abbiamo detto, alcuni autori mettono in dubbio l'autorità della Chiesa nel definirlo o denunciano l'arbitrarietà delle decisioni di includere o escludere determinati libri. Il centro del dibattito si riferisce ai criteri usati per riconoscere se un libro è canonico, fra cui spicca quello del vincolo con gli apostoli, l’apostolicità. Prima di spiegare questi problemi, è indispensabile conoscere i dati storici più significativi del processo di formazione del NT.

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17.1. Principali testimonianze storiche sulla formazione del canone del NT A grandi linee, possiamo dire che i libri che formano il NT sono stati scritti in un periodo di circa cento anni, più meno fra il 50 e il 150 d.C. Il processo di composizione del NT occupa dunque uno spazio di tempo molto più breve di quello dell'AT, durato parecchi secoli. D'altra parte, si deve tener presente la grande e rapida espansione geografica della Chiesa. Il vangelo di Marco è stato scritto probabilmente a Roma e quello di Matteo forse ad Antiochia (Siria); Paolo è un missionario itinerante e scrive le sue lettere da diversi posti. I destinatari erano diversi: alcuni scritti si rivolgono a persone individuali (Luca-Atti, Filemone, le lettere pastorali); molte lettere sono indirizzate a chiese locali: ai romani, ai corinzi, ecc. Per contrasto, sono pochi gli scritti che hanno avuto sin dall'inizio una destinazione volutamente ed esplicitamente universale, come la lettera di Giacomo, che si rivolge “alle dodici tribù disperse nel mondo” (1,1). Allo stesso tempo, è logico che gli scritti apostolici cominciassero ben presto a diffondersi. I primi destinatari erano consapevoli del valore dei testi in loro possesso. In questo senso, è interessante ricordare il saluto finale della lettera ai Colossesi: Salutate i fratelli di Laodicèa, Ninfa e la Chiesa che si raduna nella sua casa. E quando questa lettera sarà stata letta da voi, fate che venga letta anche nella Chiesa dei Laodicesi e anche voi leggete quella inviata ai Laodicesi (Col 4,15-16)1.

Il testo mostra come già Paolo prevedesse una diffusione dei suoi scritti al di là dei loro destinatari immediati. È l'inizio di un processo che si concluderà nei secoli IV e V col riconoscimento praticamente universale dei ventisette libri che formano oggi il NT. Per sommi capi, possiamo supporre che nei primi decenni di vita della Chiesa fosse fisicamente impossibile che tutte le comunità avessero gli stessi libri. Ogni chiesa locale ne aveva alcuni, sia perché erano stati scritti per essa, sia perché li aveva ricevuti da altre comunità. Nei primi due secoli, non si può parlare di un “Nuovo Testamento” come lo conosciamo oggi.

1.

Non è giunta a noi questa lettera di san Paolo ai Laodicesi, che dunque è andata persa. Si può ipotizzare che l'attuale lettera agli Efesini sia il risultato della fusione della lettera inviata a Laodicea con Colossesi. Molto più tardi, si è diffusa una lettera di Paolo ai Laodicesi, ma si tratta di una composizione tardiva e certamente apocrifa.

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17.1.1. Nello stesso Nuovo Testamento Oltre al testo appena citato (Col 4,15-16), nel NT troviamo altre due testimonianze rilevanti sul processo di costituzione di una nuova collezione di Scritture: una paolina, 1 Tm 5,17-18, e una petrina, 2 Pt 3,15-16. In 1 Tm 5,17-18 si mettono insieme Dt 25,4 e una frase di Gesù: I presbìteri che esercitano bene la presidenza siano considerati meritevoli di un duplice riconoscimento, soprattutto quelli che si affaticano nella predicazione e nell'insegnamento. Dice infatti la Scrittura: Non metterai la museruola al bue che trebbia e: Chi lavora ha diritto alla sua ricompensa [ἄξιος ὁ ἐργάτης τοῦ μισθοῦ αὐτοῦ].

La seconda frase appare con identiche parole soltanto in Lc 10,7, in bocca a Gesù1. Nel testo della 1 Tm manca l'attribuzione della frase a Gesù. Ma se si trattasse semplicemente di un proverbio popolare, non avrebbe senso metterlo alla pari di una citazione della Torah. Non sappiamo se san Paolo stia citando il vangelo di Luca oppure se abbia preso la frase da una raccolta scritta di detti di Gesù. Ma è chiaro che non può provenire da una tradizione orale, perché in tal caso non la si chiamerebbe “Scrittura”. Un testo con parole di Gesù viene considerato come “Scrittura”, alla pari di un testo della Torah. È una testimonianza del fatto che un testo della nuova alleanza viene trattato allo stesso modo di uno dell'antica. In 2 Pt 3,15-16, appare una equiparazione delle lettere di Paolo alle altre Scritture: La magnanimità del Signore nostro consideratela come salvezza: così vi ha scritto anche il nostro carissimo fratello Paolo, secondo la sapienza che gli è stata data, come in tutte le lettere, nelle quali egli parla di queste cose. In esse vi sono alcuni punti difficili da comprendere, che gli ignoranti e gli incerti travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina.

Questa volta siamo di fronte a una testimonianza più sostanziosa: si parla di “tutte le lettere” di Paolo, che vengono esplicitamente considerate come parte delle “Scritture”. Non sappiamo se l'autore della 2 Pietro conosceva l'intero corpus paulinum o solo una parte. Il valore storico del testo consiste nel testimoniare il processo di equiparazione dei nuovi scritti cristiani alle Scritture d'Israele. Entrambe le testimonianze sono incipienti. In ciò che segue, dobbiamo vedere come a poco a poco gli scritti neotestamentari si diffusero e vennero considerati sacri ed equiparati alle antiche Scritture.

1.

Nel luogo parallelo di Mt 10,10, Gesù dice: “chi lavora ha diritto al suo nutrimento” [ἄξιος ὁ ἐργάτης τῆς τροφῆς αὐτοῦ].

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Purtroppo, non siamo in grado di esaminare tutte le testimonianze. Non abbiamo tempo per studiare, ad esempio, gli scritti dei cosiddetti “Padri apostolici” — le lettere di sant'Ignazio di Antiochia, la Didaché, le lettere di san Policarpo, la prima lettera di san Clemente Romano, la lettera dello pseudo-Bàrnaba, il Pastore di Erma —, interessanti sia per l'uso che fanno delle Scritture, sia perché alcuni dei loro scritti sono stati poi talvolta citati come Scrittura. 17.1.2. Marcione Arrivato a Roma dal Ponto verso il 140 d.C., Marcione predicava fra i cristiani una dottrina che distingueva fra il Dio dell'AT, crudele e cattivo, ed il Dio buono, il Padre di Gesù Cristo. Di conseguenza, Marcione rifiutava l'intero AT, mentre del NT accettava soltanto dieci lettere di Paolo e il vangelo di Luca senza i racconti dell'infanzia di Gesù. Non sappiamo esattamente se Marcione conoscesse gli altri scritti del NT1. L'importanza di Marcione per la storia del canone consiste soprattutto nel fatto che la sua “Bibbia” ha prodotto una reazione della Chiesa (prima con sant'Ireneo, poi con Tertulliano), che ha dovuto chiarire la sua posizione nei riguardi delle Scritture respinte da Marcione. Tuttavia, oggi siamo lontani dalla tesi dello Harnack, che vedeva nella posizione di Marcione il fattore decisivo nella formazione del canone: secondo lui, la Chiesa l'avrebbe definito soltanto come reazione al canone marcionita2. In realtà, né Marcione è stato tanto decisivo, né la Chiesa ha definito il canone del NT nel II secolo, ma più tardi, come vedremo. 17.1.3. San Giustino Nella I Apologia, scritta fra il 153 ed il 155 probabilmente a Roma, proprio mentre Marcione sta predicando le sue dottrine (cf. I Apol 26 e 58), Giustino spiega ai pagani la fede cristiana. Parlando della celebrazione eucaristica domenicale, si esprime così: 1.

2.

Probabilmente conosceva almeno il vangelo di Matteo, visto che i suoi seguaci lo citano. Cf. L. M. McDonald, The Formation of the Biblical Canon: Volume II: The New Testament: Its Authority and Canonicity, Bloomsbury, London 2017, 148-149. Come accade con molti autori antichi, conosciamo le idee di Marcione indirettamente, tramite le opere di coloro che lo hanno combattuto: in questo caso, tramite l'Adversus Haereses di sant'Ireneo e l'Adversus Marcionem di Tertulliano. A. von Harnack, Marcion: das Evangelium vom fremden Gott: eine Monographie zur Geschichte der Grundlegung der katholischen Kirche: neue Studien zu Marcion, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1996 (ed. or. 1924). L'opinione di Harnack in questo punto è condivisa da H. F. von Campenhausen, Die Entstehung der christlichen Bibel, Mohr Siebeck, Tübingen 1968.

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E nel giorno detto del sole, riunendoci tutti in un solo luogo dalla città e dalla campagna, costituiamo un'assemblea e si leggono le memorie degli Apostoli1 o gli scritti dei profeti, fino a quando vi è tempo; poi, quando colui che legge ha terminato, il presidente con un discorso ammonisce ed esorta all'imitazione di queste buone cose (I Apol, n. 67).

Dal testo si evince l'equiparazione pratica fra i vangeli e le antiche scritture, letti entrambi in un contesto pubblico e sacro (nell'eucarestia domenicale) e a partire dai quali si estraggono insegnamenti per la vita (omelia). Un altro punto d'interesse è sapere di quali vangeli parli Giustino. Non dà nomi, né dice quanti sono, ma il plurale — “le memorie degli Apostoli” — sembra indicare che ne conoscesse più di uno. Infatti, esaminando l'insieme delle sue opere, risulta chiaro che Giustino conosceva i vangeli sinottici, almeno Matteo e Luca2. Si discute se conoscesse Giovanni o meno. Infine, dobbiamo aggiungere altri due dati a proposito di san Giustino e i libri del NT: • Sorprende che, nelle sue opere, Giustino non faccia mai riferimenti alle lettere paoline. Vuol dire che non le conosceva? O semplicemente non gli servivano? • Nella I Apologia, parla dell'Apocalisse come uno dei “nostri scritti” e le attribuisce l'autorità di Cristo stesso3. Questa testimonianza è importante, perché più tardi l'Apocalisse sarà uno dei libri la cui canonicità sarà discussa.

1.

2.

3.

Giustino ha spiegato prima che queste “memorie degli Apostoli” sono i vangeli: “Gli apostoli infatti, nelle memorie da loro lasciate e che si chiamano vangeli (…)” n. 66. Prendo la traduzione da Giustino, Le apologie: introduzione, traduzione e note a cura di Clara Burini, Città nuova, Roma 2001. Nel Dialogo con Trifone cita parole che si trovano soltanto in Matteo: “nel vangelo è scritto che egli ha detto: Tutto mi è stato dato dal Padre mio, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, né il Figlio se non il Padre e coloro ai quali il Figlio lo voglia rivelare”, Trif. 100,1; cf. Mt 11,22. Nello stesso libro, menziona un dato esclusivo di Lc: “Infatti, nelle memorie che ho detto essere state composte dagli apostoli e dai loro discepoli, è scritto che lo copriva un sudore come di gocce di sangue mentre pregava (…)”, Trif. 103,8, cf. Lc 22,44. Traduzione presa da: Idem, Dialogo con Trifone: introduzione, traduzione e note di Giuseppe Visonà, Paoline, Milano 1988. “Presso di noi il principe dei demoni malvagi è chiamato serpente, satana e diavolo, come potete imparare anche dai nostri scritti dopo averli esaminati; Cristo ci ha fatto sapere che quello sarà gettato nel fuoco con il suo esercito e con gli uomini suoi seguaci, affinché siano castigati per un tempo senza fine”, I Apol, n. 28 (cf. Ap 20,2.9-10). Cf. anche Trif. 81,4, dove parla della rivelazione ricevuta da Giovanni apostolo, secondo la quale i santi vivranno mille anni in Gerusalemme (cf. Ap 20,4-6).

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17.1.4. Il Diatessaron di Taziano Taziano, un discepolo di san Giustino, compone verso l'anno 160 un'opera chiamata Diatessaron, che vuol dire “attraverso quattro”. È un racconto della vita di Gesù che sintetizza i quattro vangeli. Il Diatessaron ha avuto un successo notevole, soprattutto in Siria, dove è stato utilizzato nella liturgia fino al V secolo. Cioè, nella Messa non leggevano i vangeli canonici, ma il Diatessaron!1 Per quanto riguarda la storia della formazione del canone, il lavoro di Taziano testimonia da una parte che egli conosceva i quattro vangeli, ma dall'altra che non li considerava intangibili, il che è una caratteristica tipica dei libri ritenuti sacri. Per comprendere quest'ultimo punto, si può fare un esempio un po’ rozzo, ma eloquente: se un autore ebreo dell'epoca di Taziano avesse deciso di riassumere i cinque libri della Torah in uno solo, sarebbe impensabile che quest'opera venisse accettata allo stesso livello del Pentateuco, né che fosse utilizzata nelle letture sinagogali. 17.1.5. Sant'Ireneo e il vangelo quadriforme Sant'Ireneo di Lione (ca. 130-200) scrive pochi anni dopo Taziano, ma senza conoscere il Diatessaron. Ireneo non solo parla chiaramente dell'esistenza di quattro vangeli, ma sottolinea che ne esistono soltanto quattro, in polemica sia con quelli che non li accettavano tutti e quattro, sia con coloro che ne aggiungevano altri. In Adv. Haer. III,9-11, parla delle testimonianze su Dio che si trovano nei vangeli di Matteo, Luca, Marco e Giovanni (in quest'ordine) e aggiunge: Del resto i Vangeli non possono essere né più né meno di questi. Infatti poiché sono quattro le regioni del mondo, nel quale siamo, e quattro i venti diffusi su tutta la terra e la Chiesa è disseminata su tutta la terra, e colonna e sostegno della Chiesa è il Vangelo e lo Spirito di vita, è naturale che essa abbia quattro colonne, che soffiano da tutte le parti l'incorruttibilità e vivificano gli uomini. Perciò è chiaro che il Verbo Artefice dell'universo, che siede sopra i Cherubini e sostiene tutte le cose, dopo essersi mostrato agli uomini, ci ha dato un Vangelo quadriforme, ma sostenuto da un unico Spirito2.

1. 2.

Per approfondire, cf. C. Jódar, «Poética de la revelación: El Diatésaron frente al Tetraeuangelion» in R. Jiménez Cataño - J. J. García-Noblejas (eds.), Poetica & Cristianesimo, Edizioni Università della Santa Croce, Roma 2004, 401-412. Adv. haer. III,11,8. Traduzione presa da: S. Ireneo di Lione, Contro le eresie e gli altri scritti: a cura di Enzo Bellini e per la nuova edizione di Giorgio Maschio, Jaca Book, Milano 2003.

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A continuazione, Ireneo paragona i quattro evangelisti ai quattro animali di Ez 1 e Ap 4: uno simile a un leone, un altro simile a un vitello, il terzo con volto di uomo e il quarto simile a un'aquila. Dopo aver citato l'inizio di ognuno dei quattro vangeli, Ireneo sferra un attacco contro le pretese di certi gruppi che rifiutavano qualcuno dei quattro vangeli oppure volevano farne entrare altri nella Chiesa: Sono vani, ignoranti e per di più temerari quelli che rifiutano la giusta concezione del Vangelo, introducendo più o meno forme di vangeli di quelle che abbiamo detto. Gli uni lo fanno per far credere che hanno scoperto più della verità, gli altri per rifiutare le economie di Dio. Marcione, rifiutando tutto quanto il Vangelo o piuttosto staccandosi dal Vangelo, si vanta di possedere una parte del Vangelo; altri, per rifiutare il dono dello Spirito, diffuso negli ultimi tempi sul genere umano secondo il beneplacito del Padre, non accettano la forma del Vangelo secondo Giovanni, nella quale il Signore promise di mandare il Paracleto, ma rifiutano contemporaneamente il Vangelo e lo Spirito profetico (Adv. haer. III,11,9).

Di passaggio, Ireneo si riferisce anche all'autorità degli scritti di san Paolo (cf. Adv. haer. III,11,9). Ma né qui né altrove menziona un numero esatto di lettere dell'Apostolo. Poi Ireneo riprende il suo discorso sui vangeli diversi dai quattro: Per quanto poi riguarda i discepoli di Valentino, essi ponendosi al di fuori di ogni timore, pubblicano scritti propri e si vantano di possedere più vangeli di quelli che esistono. Essi, infatti, sono arrivati a tal punto di audacia da intitolare «Vangelo di verità» il Vangelo scritto da loro non molto tempo fa, un Vangelo che non concorda affatto con i Vangeli degli apostoli: per cui presso di lui neppure il Vangelo è essente da bestemmia. Infatti, se il «Vangelo di verità» da loro pubblicato è diverso da quelli che ci sono stati tramandati dagli apostoli, può apprendere chi vuole che, come si dimostra in base alle stesse Scritture, il Vangelo di verità non è quello che ci è stato trasmesso dagli apostoli. Ma che solo quelli sono veri e solidi, e che i Vangeli non possono essere né più né meno di quelli che abbiamo detto, lo abbiamo dimostrato diffusamente (…) (Adv. haer. III,11,9).

È ovvio che gli argomenti di Ireneo a favore del numero quattro — i venti, i cherubini, gli animali — non hanno alcun peso come dimostrazione. Il valore storico della sua testimonianza radica nel mostrare la convinzione ferma che non tutti gli scritti che parlano di Gesù hanno lo stesso status nella Chiesa, benché portino il nome di “vangeli”, ma soltanto quattro di essi. Infatti, sant'Ireneo non dice solo che i quattro vangeli devono essere accettati, ma anche che non ne esistono altri autentici. Non a torto si dice che con Ireneo comincia il processo di costituzione di un canone chiuso degli scritti del NT. La norma suprema è Cristo secondo la predicazione degli

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apostoli, ma a questa è unita il fatto che la Chiesa possiede quattro e soltanto quattro vangeli. Negli scritti di sant'Ireneo si trovano riferimenti e citazioni di altri libri del NT, come accade in altri autori dell'epoca. Ci siamo limitati a riportare la sua testimonianza sui quattro vangeli, perché di singolare valore per conoscere il progressivo riconoscimento dei libri che formano il NT. Pur con dei limiti, si può fare un paragone fra il primo e principale gruppo degli scritti ebraici, i cinque libri della Torah, e il primo corpo di scritti cristiani che si chiude, il Vangelo quadriforme. 17.1.6. Serapione e il Vangelo di Pietro In genere, i Padri e gli scrittori ecclesiastici successivi ad Ireneo confermano il valore dei quattro vangeli e di essi soltanto. Ciononostante, talvolta si ricorre a qualche altro vangelo (per esempio, al proto-vangelo di Giacomo per spiegare il significato dell'espressione “fratelli di Gesù”). Si deve anche ricordare che a Roma, verso il 200, alcuni rifiutarono il vangelo di Giovanni, mentre in Siria continuavano a leggere il Diatessaron. È significativo il caso di Serapione, vescovo di Antiochia (190-211), riportato da Eusebio (Hist. Eccl. 6.12). I fedeli della città di Rossos o Rhossus (oggi Arsuz, in Turchia) gli avevano chiesto se potevano leggere il vangelo di Pietro. Serapione acconsentì. Ma più tardi, dopo aver esaminato quel vangelo, scrisse a Rossos dicendo loro di rigettarlo1. Questo incidente mostra che Serapione — a differenza di Ireneo — non conosceva una collezione chiusa di quattro vangeli, ma che era capace di identificare se uno scritto corrispondeva o meno alla regola della fede. * Dopo Ireneo, quando si parla esplicitamente di quali siano i vangeli autorevoli nella Chiesa, si rimanda sempre ai quattro. Tutte le liste di libri del NT menzionano quattro e solo quattro vangeli. Commentando il prologo di Luca (“molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi”), Origene ci ha lasciato una bella testimonianza: Come nell’antico popolo molti annunciavano profezie, ma alcuni di essi erano falsi profeti, mentre altri lo erano veramente, ed il popolo aveva il dono di discernere gli spiriti col quale giudicava chi era il vero profeta e chi il falso, così anche adesso nella

1.

Cf. B. M. Metzger, The Canon of the New Testament: Its Origin, Development, and Significance, Clarendon, Oxford 1987, 119-120.

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nuova alleanza “molti” hanno voluto scrivere i vangeli, ma “i banchieri esperti” non accettarono tutti, ma scelsero alcuni di essi. Quello che si dice subito dopo, “hanno cercato”, è un'accusa contro quelli che si mettono a scrivere vangeli senza il dono. Infatti, Matteo non “ha cercato”, ma ha scritto da parte dello Spirito Santo. Similmente anche Marco e Giovanni, e in modo equivalente anche Luca. Invece coloro che hanno scritto il cosiddetto vangelo secondo gli egizi ed il cosiddetto vangelo dei Dodici “hanno cercato”. Adesso anche Basilide ha osato scrivere un vangelo secondo Basilide. “Molti hanno cercato”; infatti si tramanda anche il vangelo secondo Tommaso e quello secondo Mattia e molti altri. Questi sono di coloro che hanno cercato. Invece, la Chiesa di Dio seleziona soltanto i quattro1.

17.1.7. Le discussioni su alcuni libri nei secoli III e IV Alla fine del II secolo, i quattro vangeli, il libro degli Atti, le principali lettere di san Paolo, 1 Pietro e 1 Giovanni sono opere ampiamente diffuse e accettate come autorevoli. Per quanto riguarda gli altri scritti del NT, alcuni sono stati accettati con qualche dubbio, ma senza grandi discussioni, come Giacomo e 2 Pietro. Di altri si parla poco, perché sono molto brevi, come Filemone oppure 2 e 3 Giovanni. Altri invece hanno suscitato polemiche: i casi meglio conosciuti sono quelli della lettera agli Ebrei e dell'Apocalisse. Inoltre, durante i primi secoli si citano come Scrittura alcuni libri che poi non sono entrati nel canone. Origene, per esempio, fa così con le lettere di sant'Ignazio di Antiochia (cf. per esempio De Oratione 20). Il Pastore di Erma e la lettera di Bàrnaba (Ps-Barn) sono gli scritti extra-canonici che hanno goduto di maggiore stima fra i cristiani fino ai secoli IV e V. Tali preferenze si riflettono non solo nelle citazioni, ma anche nei grandi codici dei secoli IV e V. Il codice Sinaitico, ad esempio, contiene il Pastore e Ps-Barn insieme ai ventisette libri dell'attuale NT. Il codice Alessandrino contiene 1 e 2 Clem. Nella chiesa di Siria leggevano il Diatessaron e anche una “terza lettera ai Corinzi”. Non abbiamo tempo per seguire la storia dell'accettazione o del rifiuto di ognuno dei libri. Prenderemo il caso dell'Apocalisse, per illustrare sia la complessità della storia, sia i criteri a cui si ricorreva per accettare o rifiutare un libro. Come detto in precedenza, san Giustino offre una testimonianza molto antica dell'uso e apprezzamento dell'Apocalisse. Anche sant'Ireneo, Tertulliano e Origene lo conoscono e accettano.

1.

Origene, Homiliae in Lucam 1.3-1.4 (PG 17,312), traduzione mia. Sui “banchieri esperti”, cf. G. Bazzana, «“Be Good Moneychangers”: The Role of an Agraphon in a Discursive Fight for the Canon of Scripture» in J. Ulrich - A.-C. Jacobsen - D. Brakke (eds.), Invention, Rewriting, Usurpation: Discursive Fights over Religious Traditions in Antiquity, Lang, Frankfurt am Main 2012, 297-311.

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Ma verso il 200 il presbitero Gaio, a Roma, rifiutava sia il vangelo di Giovanni che l'Apocalisse, dicendo che erano opera non di Giovanni, ma di un autore gnostico, chiamato Cerinto. Anche il gruppo degli “alogi”, nemici dei montanisti, rifiutavano Giovanni, l’Apocalisse e altri libri. Gaio e gli alogi erano gruppi minoritari. Dubbi più diffusi ha creato l'opinione di san Dionigi, vescovo di Alessandria a metà del III secolo. Dionigi scrive che secondo lui l’Apocalisse non è stata scritta da Giovanni apostolo. Si poggia su argomenti interni, di stile e di composizione. È interessante riprodurre le sue parole: Non nego che l'autore si chiami Giovanni e che questo scritto sia di Giovanni, come pure che sia di un uomo santo, ispirato da Dio. Tuttavia non posso facilmente concedere che questi sia lo Apostolo, il figlio di Zebedeo, il fratello di Giacomo, a cui si devono il Vangelo intitolato appunto di Giovanni e l'epistola cattolica. Congetturo dal carattere dei due scritti, dalla forma della dizione e dal piano di esecuzione, come si dice, dell'opera, che non si tratta di un autore medesimo (…). Dai pensieri, dalle parole come pure dalla maniera di periodare ben a ragione si deduce che si tratta di autori diversi1.

Come si vede, Dionigi non rifiuta l'ispirazione né la canonicità del libro, ma altri si poggeranno su di lui per farlo, legando l'apostolicità del libro all'identità dell'autore. (Un fenomeno parallelo si verificò con la lettera agli Ebrei). Altri dubbi circa la canonicità dell'Apocalisse dipesero dalla diffusione del millenarismo, dottrina che si fondava su un'interpretazione letterale di Ap 20 e che diede origini alla setta dei chiliasti. Sia per rifiuto del millenarismo, sia per i dubbi circa l'identità dell'autore, l'Apocalisse si trova fuori da alcune liste dei libri del NT del IV secolo. Eusebio di Cesarea dubita sulla sua canonicità; san Cirillo di Gerusalemme (350) e san Gregorio di Nazianzo (390) non lo includono nelle loro liste. Nell’Occidente latino, invece, è stato accettato senza difficoltà.

1.

Testo citato da Eusebio, Hist. Eccl. 7,25,7-8 e 17 (traduzione Del Ton).

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17.1.8. Le decisioni magisteriali dei secoli IV e V Le liste di libri canonici cominciano a diffondersi nel IV secolo1. Alcune di esse sono documenti privati e rappresentano soltanto l'opinione di chi le ha composte, anche se risultano apprezzabili come testimonianze storiche. Altre invece hanno carattere magisteriale, cioè manifestano la posizione ufficiale di un vescovo, di un concilio provinciale o di un Papa. Per esempio, la Lettera 39 di sant'Atanasio, del 367 elenca tutti i ventisette del NT e soltanto questi (cf. EB 15). Invece, come abbiamo appena detto, nella lista del NT di san Cirillo, vescovo di Gerusalemme, manca l'Apocalisse: Venendo poi al Nuovo Testamento, ci sono solo quattro vangeli; gli altri sono falsi e dannosi. Anche i Manichei hanno scritto un vangelo, quello secondo Tommaso, che, con la vernice esterna e il profumo del nome di vangelo, corrompe le anime dei più ingenui. Accogli anche gli Atti dei dodici apostoli e, oltre a questi, le sette lettere cattoliche: quella di Giacomo, le due di Pietro, le tre di Giovanni e quella di Giuda. A suggello di tutto e ultima opera dei discepoli, le quattordici lettere di Paolo. Tutto il resto mettilo in secondo piano e quello che non è letto nella chiesa, non leggerlo neanche tu in privato. Quanto detto su queste cose può bastare (Catechesi IV, 36; EB 10).

Più tardi, tre concili provinciali daranno la lista completa sia dell’Antico che del Nuovo Testamento: il Concilio di Ippona del 393, il terzo di Cartagine (397) e il quarto di Cartagine (419). A quello di Ippona era presente sant'Agostino come presbitero di quella chiesa; agli altri due prese parte come vescovo. Da parte dei Papi di Roma, l'unico documento certamente autentico è la lettera di Innocenzo I al vescovo Esuperio, dell'anno 405. Contiene lo stesso canone dei concili africani (cf. EB 21). Il cosiddetto “decreto gelasiano”, che contiene un elenco di libri, attribuito per molto tempo al papa san Gelasio I (492-496), oggi è considerato unanimemente come non autentico. Si tratta di un testo composto probabilmente nel VI secolo da un autore privato (cf. EB 26-27). Altrettanto bisogna dire dell'autenticità del canone 60 del Concilio di Laodicea (dell'anno 360). Alcuni autori ritengono che veramente risalga a quell'epoca, ma che

1.

Un’eccezione è la lettera di Melitone, di cui parleremo a proposito del canone dell'AT. Un'altra eccezione potrebbe essere il frammento muratoriano, chiamato anche “canone di Muratori”, una lista di libri che secondo molti studiosi risale alla fine del II secolo. Ma altri autori pensano con buone ragioni che in realtà è un’opera del IV secolo. Il testo si può vedere in EB 1-7. Sulle discussioni, cf. E. J. Schnabel, «The Muratorian Fragment: The State of Research», Journal of the Evangelical Theological Society 57 (2014) 231-264.

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si tratti di una lista privata inserita più tardi negli atti del concilio. Si offre un elenco di libri in cui manca l’Apocalisse per il NT, mentre per l'AT coincide con la lettera 67 di sant'Atanasio1. Comunque, sia frutto di un concilio o meno, questo canone di Laodicea è storicamente importante, perché è stato assunto più tardi dal Concilio Trullano o Quinisesto dell'anno 692 a Costantinopoli. Questo concilio ha cercato di chiarire i libri che fanno parte del canone biblico. Ma invece di emanare un decreto proprio, ha rimandato a diversi cataloghi antichi, fra cui quello di Laodicea, ma anche la lista del terzo Concilio di Cartagine e altre. Se si combinano tutte le liste menzionate dal sinodo Trullano, si ottiene il canone attuale, più 3 Maccabei. Tuttavia, questo concilio, considerato ecumenico dalla Chiesa ortodossa, non è stato mai completamente accettato in Occidente2. Le chiese ortodosse non hanno definito il canone biblico come verità di fede, come fece la Chiesa Cattolica nel concilio di Trento, e fra essi sussistono ancora alcuni dubbi circa la canonicità di alcuni libri. Ma in sostanza il loro canone è praticamente identico al nostro. Nella liturgia la Chiesa Ortodossa greca legge gli stessi libri del canone cattolico, più 1 Esdra, 3 Maccabei, la preghiera di Manasse ed il salmo 1513. Torneremo ad alcune di queste liste parlando del canone dell'AT. E alla fine di questa parte studieremo la definizione solenne del canone come verità di fede nel Concilio di Trento (1546). 17.2. I criteri di canonicità e l'apostolicità del NT Secondo le testimonianze che abbiamo, i primi testi del NT ad essere riconosciuti come sacri e a chiudersi come collezione sono stati i quattro vangeli, il che è logico, visto che raccolgono le parole ed i fatti di Gesù, l'autorità suprema per i cristiani. Le lettere di Paolo si sono diffuse rapidamente e si trovano citate come Scrittura già nel II secolo. Il caso di Marcione dimostra la conoscenza, a metà di quel secolo, di almeno dieci lettere paoline, che non verranno mai messe in dubbio, né mancheranno negli elenchi canonici successivi. 1. 2. 3.

Su questo concilio e l'autenticità della lista di libri ad esso attribuita, cf. B. F. Westcott, A General Survey of the History of the Canon of the New Testament, Macmillan, London 71896, 439-447; Metzger, Canon of the New Testament, 210. Sull'accettazione “con riserve” di questo concilio da parte di alcuni Papi, cf. G. Nedungatt, «The Council of Trullo Revisited: Ecumenism and the Canon of the Councils», Theological Studies 71 (2010) 651-676. Cf. D. J. Constantelos, «The Bible in the Orthodox Church» in J. E. Bowley (ed.), Living Traditions of the Bible: Scripture in Jewish, Christian, and Muslim Practice, Chalice Press, St. Louis 1999, 133-144, 140-141.

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La polemica attuale, nella quale ci si chiede se includere o meno nel NT altri testi antichi riscoperti negli ultimi decenni, come il Vangelo di Tommaso o quello di Giuda, è artificiale, perché non tiene conto della storia, almeno della storia trasmessaci dalle fonti. Nella Grande Chiesa non si è mai posto questo problema, perché il contenuto di questi vangeli e di altri simili è palesemente eterodosso, cioè non concorda con la regola di fede. Un testo come il Vangelo di Tommaso non è andato perso per motivi fortuiti o per decisioni arbitrarie delle autorità, ma perché i cristiani si sono resi conto della sua incompatibilità con la tradizione proveniente dagli apostoli (per alcuni testi del Vangelo di Tommaso, cf. pp. 286-290). Invece, più oscuro resta il caso di alcuni scritti minori, di dottrina ortodossa e molto antichi, dei quali alcuni sono dentro il canone, come Filemone, Giuda o 3 Giovanni, probabilmente perché attribuiti ad apostoli, ed altri fuori, come 1 Clemente, la Didaché o il Pastore di Erma. Resta in piedi, dunque, la domanda circa quali criteri ha usato la Chiesa per distinguere i libri, per decidere quali erano sacri e canonici e quali no1. Ebbene, come osserva Pasquale Basta, si deve tener conto che: Non esiste una singola regola di giudizio veramente esaustiva; emerge piuttosto una serie di criteri, che insieme servono per fornire una qualche ragionevolezza all'atto della scelta e dell'assunzione di un preciso corpus letterario utilizzato nella vita di una Chiesa. I criteri in questione non sono mai stati stabiliti a tavolino o posti a fondamento di un sistema in maniera estrinseca, ma sono deducibili sulla base delle affermazioni maggiormente ricorrenti all'interno di quei documenti ecclesiali che in una certa misura si sono pronunciati sul Canone biblico2.

Fra i criteri di canonicità, si potrebbe menzionare in primo luogo l'ispirazione dello Spirito Santo: un libro è accettato come canonico quando si giudica che è stato ispirato e che quindi è parola di Dio. In realtà l'ispirazione non funziona come criterio, perché non la si può scoprire da sola. L'ispirazione di un libro è qualcosa di invisibile in se, benché la si possa scoprire attraverso altri segni. Infatti, l'azione dello Spirito lascia delle tracce, che sono appunto i criteri usati dalla Chiesa per discernere quali libri sono ispirati. Gli studiosi della formazione del canone contano, come criteri usati nella Chiesa antica per discernere la canonicità, le seguenti caratteristiche del contenuto dei libri: • apostolicità,

1. 2.

Sui criteri di canonicità, cf. K.-H. Ohlig, Woher nimmt die Bibel ihre Autorität?: zum Verhaltnis von Schriftkanon, Kirche und Jesus, Patmos, Düsseldorf 1970; Artola - Sánchez Caro, Biblia y Palabra de Dios, 108-116; Mannucci - Mazzinghi, Bibbia, capitolo 14, sezione 2. Basta - Bovati, "Ci ha parlato per mezzo dei profeti", 231.

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• • • • • •

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antichità, ortodossia, concordanza con altri libri già accettati, comprensibilità, carattere edificante, utilità al di là delle circostanze concrete di un momento (non occasionalità).

A questi criteri se ne aggiungono altri, provenienti non dai libri stessi, ma dal loro uso ecclesiale. Bisogna vedere se un libro: • viene letto in altre chiese, specialmente in quelle di origine apostolica, • viene usato nella liturgia, • è citato come Scrittura, • le autorità ecclesiastiche l'hanno riconosciuto. Come si vede, si tratta di criteri molto diversi fra loro. Alcuni — soprattutto quelli del secondo gruppo — si potevano accertare facilmente; altri invece no, come l'antichità o la comprensibilità. E non tutti i criteri si possono applicare a tutti i libri. Per esempio, la possibilità di concordare con altri libri già accettati serve soltanto quando questi ultimi esistono. Se si vuole sintetizzare in un solo concetto l'insieme di questi criteri, si deve parlare della tradizione della Chiesa. La Dei Verbum afferma con semplicità, ma con profondità, che è la Tradizione “che fa conoscere alla Chiesa l'intero canone dei libri sacri” (DV8). La Chiesa non ha determinato il canone attraverso una complicata ricerca storica, ma lo ha “scoperto”, per così dire, guardando la propria vita, vedendo ciò che crede e discernendo così quali libri corrispondono alla tradizione ricevuta dagli apostoli. E in questo compito crediamo che la Chiesa non può sbagliare, perché è assistita dallo Spirito Santo, come afferma lo stesso documento conciliare (cf. DV8; sul ruolo del magistero nella formazione del canone, si veda anche sotto, pp. 188-189). In questo senso, si deve aggiungere che, fra i criteri sopra menzionati, alcuni sono più importanti di altri. Nel caso del NT, il criterio decisivo, che in qualche maniera include tutti gli altri, consiste nell'apostolicità. Tutti gli autori cristiani antichi in un modo o nell’altro affermano la equivalenza fra credere nell'origine apostolica di un libro e credere nel suo valore normativo per la Chiesa, nella sua ispirazione e canonicità. Infatti, non è casuale che quasi tutti gli scritti apocrifi prendano il nome di un apostolo, per cercare di guadagnare autorità: abbiamo il Vangelo di Tommaso, l'Apocalisse di Pietro, gli Atti di Andrea, ecc. La Chiesa ne ha saputo discernere la nonapostolicità soprattutto perché il loro contenuto non corrispondeva alla regola della fede. Questi casi mostrano che il fatto di essere apostolico non è qualcosa che si limi-

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ta all’autore a cui un libro viene attribuito. Infatti, la Lettera agli Ebrei presenta il caso contrario. Il testo si presenta come anonimo, come accade anche con i quattro vangeli. Già Origene riconosceva che Ebrei ha uno stile diverso da quello di Paolo e che nessuno sa chi l'abbia scritta: Io da parte mia sono di questa opinione che i pensieri siano dell'Apostolo, lo stile invece e la composizione di qualcuno che ricordava i detti dell'Apostolo o che illustrò gli insegnamenti del maestro. Perciò, se qualche Chiesa ritiene l'epistola come paolina, le sia ciò a titolo di onore, poiché non infondatamente gli antichi l'hanno tramandata come tale. Ma chi fu a comporre la lettera? Dio solo lo sa1.

L'attribuzione tradizionale di Ebrei a san Paolo deve intendersi dunque come un modo per affermare la sua apostolicità e così difendere la sua canonicità. Il caso di Ebrei è interessante perché fa vedere come nell'antichità cristiana si tendeva a identificare l’apostolicità con l’essere stato scritto da un apostolo. Oggi conviene distinguere fra l'autore umano, che può essere stato un apostolo o un “uomo apostolico”, come Marco, Luca o l'anonimo autore di Ebrei, e l'apostolicità come carattere originario, come vincolo con gli apostoli, primi testimoni della rivelazione (su chi sono da considerare apostoli, cf. pp. 253-265). Con questa distinzione, si evitano alcuni problemi: così, credere che san Paolo non ha scritto la lettera agli Ebrei non toglie nulla all'apostolicità di questo scritto. Abbiamo la testimonianza di Origene appena citata e anche quella di sant'Agostino, il quale, pur accettando sempre la canonicità di Ebrei, ad un certo momento della sua vita si convinse che non poteva essere stata scritta da san Paolo2. Possiamo concludere citando le parole di un autore che, impiegando altri termini, arriva a una formulazione equivalente a quanto abbiamo appena detto circa il criterio dell’apostolicità: L'apostolicità del NT è un theologoumenon, cioè, una costruzione teologica con un nucleo concettuale teologico, ma che allo stesso tempo si poggia sui fatti della tradizione storica. Il concetto teologico in sé non si regge senza riferimento a un certo fondamento storico. Tuttavia, non viene definita con autorità la maniera esatta in cui può essere verificata la fondatezza storica dell'origine apostolica di un determinato libro. Né si richiede che il carattere apostolico di un libro venga definito in maniera identica in ogni singolo caso. Il magistero della Chiesa, includendo la Dei Verbum del Vaticano II, ha sempre trovato sufficiente affermare l'apostolicità del libri 1. 2.

Origene, Hom. in Hebr, citato da Eusebio, Hist. Eccl. 6,25,13-14 (traduzione di Del Ton). Cf. A.-M. la Bonnardière, «L'Epître aux Hébreux dans l'oeuvre de saint Augustin», REAug 3 (1957) 137-162.

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canonici del NT in un senso analogico della parola e senza troppo specificare la maniera esatta in cui si può verificare l'origine apostolica di un documento particolare1.

18. Il canone dell'Antico Testamento Il titolo di questo paragrafo ha bisogno di un chiarimento. Nel dire “Antico Testamento” ci riferiamo alla collezione di libri che oggi viene chiamata così dai cristiani; ma è evidente che durante gran parte di questo processo non esisteva tale denominazione (che non è mai esistita per gli ebrei). 18.1. Le Scritture d'Israele prima di Gesù Per capire ciò che seguirà, occorre alludere grosso modo alla considerazione di alcuni libri come sacri prima di Gesù. La Torah di Mosè è un testo sacro e normativo, perché contiene le parole che Dio ha rivelato a Mosè sul Sinai. Gli oracoli di Geremia vengono trasmessi per iscritto e letti, perché sono considerati parole divine sempre attuali (cf. Dn 9). Lo stesso vale per gli oracoli di altri profeti, come Isaia, Ezechiele e i Dodici. Ma probabilmente non si pensava esattamente così rispetto ad altri testi, como Cronache, Ester o il Cantico dei cantici (cf. pp. 93-99 e Excursus 3, pp. 266285). In ciò che segue, daremo uno sguardo ai principali documenti storici che possono aiutare a comprendere come gli ebrei sono arrivati alla fissazione della loro attuale Bibbia di ventiquattro libri. 18.1.1. La testimonianza del Siracide (circa 190 a.C.) Un campo di studio appassionante è quello dell'intertestualità biblica, cioè le citazioni o allusioni ad altri libri dentro i libri biblici. Isaia e Geremia includono alcuni racconti storici che si trovano quasi identici nei libri dei Re (cf. Is 36-39 e 2 Re 18-20; 1.

Traduzione mia. “The apostolicity of the New Testament canon is a «theologoumenon,» that is, a theological construct with a conceptual kernel that is theological, but is, at the same time, superimposed upon the rudimentary facts of historical tradition. The theological concept in itself is not justified without reference to some factual historical foundation. Yet the exact way in which the historical basis of an apostolic origin may be verified for one book or another is not defined with authority. Nor is it required that in each case the apostolic character of a book be defined in a univocally identical way. The Magisterium of the Church, up to and including Dei Verbum at Vatican II, has always found it sufficient to affirm the apostolicity of the canonical books of the New Testament in some analogous sense of the word and without close specification of the exact way in which the apostolic origin of a particular document is actually verified”, Farkasfalvy, Inspiration & Interpretation, 48 (corsivo nell'originale).

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Ger 52 e 2 Re 24-25). Isaia e Michea contengono un oracolo praticamente identico (cf. Is 2,2-5 e Mi 4,1-5). Più tardi, Gioele allude allo stesso oracolo, invertendone il senso (cf. Gl 4,10). In Dn 9, si racconta come il profeta Daniele legge il libro di Geremia e reinterpreta l'oracolo dei 70 anni. In molti libri si allude alla Torah di Mosè, come fa per esempio il libro della Sapienza con i racconti dell’Esodo (cf. Sap 10-19). Risulterebbe troppo lungo fare un elenco di tutti questi riferimenti intrabiblici e i frutti per ricostruire la storia della formazione del canone sarebbero scarsi. Menzioneremo soltanto un caso: le allusioni ad altri libri nel libro del Siracide. Il Siracide presenta un chiaro vantaggio per una ricerca storica, perché siamo in grado di sapere con precisione la data di stesura del libro. Per diversi dati, sia interni che esterni, Gesù Ben Sira ha dovuto scrivere il suo libro fra il 198 ed il 175 a.C. (Il luogo di composizione è meno certo, ma tutto fa pensare a Gerusalemme). Dal contenuto del libro possiamo ricavare alcune informazioni circa i libri che venivano letti all'epoca. Infatti, nel cosiddetto “elogio dei padri” (Sir 44-50), Ben Sira fa un ripasso della storia d'Israele, ricordandone le maggiori figure. Comincia da Enoc e Noe e giunge fino al sommo sacerdote Simone, suo contemporaneo, passando per i patriarchi, Mosè, Aronne, Pincas, Giosuè, Caleb, i giudici, Samuele, Natan, Davide, Salomone, Roboàmo, Geroboàmo, Elia, Eliseo, Ezechia, Isaia, Giosia, Geremia, Ezechiele, i dodici profeti, Zorobabele, Giosuè, e Neemia. Il testo finisce con un lungo elogio del sommo sacerdote Simone al capitolo 50. Poco prima della fine (49,14-16), si menziona ancora Enoc e si ricordano due personaggi fino a quel punto omessi: Giuseppe, figlio di Giacobbe, e Adamo. Risulta curioso che non si faccia menzione di Esdra accanto a Neemia, un'omissione difficile da spiegare. Mancano anche allusioni a Daniele, Rut ed Ester. Il punto che ci interessa è che, leggendo queste pagine, si ha l'impressione che Ben Sira le abbia redatte avendo di fronte i rispettivi libri biblici. In questo senso, è specialmente rilevante la menzione dei “dodici profeti” come un gruppo, quando in realtà essi come personaggi storici appartengono ad epoche diverse. Le ossa dei dodici profeti rifioriscano dalla loro tomba, perché essi hanno consolato Giacobbe, lo hanno riscattato con la loro confidente speranza (Sir 49,10).

È un indizio che fa pensare che ormai si trovassero tutti nello stesso rotolo1. All'epoca di Ben Sira, dunque, oltre alla Torah, esisteva probabilmente anche una collezione di libri simile alla seconda parte dell'attuale BH, i “Profeti” (Gdc, Gs, Sam,

1.

Sulla formazione del libro dei dodici profeti, cf. B. A. Jones, The Formation of the Book of the Twelve: A Study in Text and Canon, Scholars Press, Atlanta 1995.

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156

Re, Is, Ger, Ez e i 12). Ben Sira conosce anche il libro dei Proverbi, perché l'elogio della sapienza in Sir 24 è chiaramente costruito a partire da Prv 8-9. Tuttavia, nel libro del Siracide non si riscontrano quasi mai vere e proprie citazioni1. E, tranne il libro della Torah (cf. Sir 24,23) non si menzionano “libri” come tali. Ben Sira ha usato libri, ma non è ancora un commentatore delle Scritture, che si limita a citarle e spiegarle come testi ritenuti superiori o normativi. Ben Sira considera se stesso come facente parte della stessa linea degli autori precedenti (cf. Sir 24,28-34; 33,16-19; 51). La propria stesura del libro sembra manifestare che non esiste ancora l'idea di un canone chiuso definitivamente. Questa impressione sembra confermato dal prologo, che presenta il libro in paragone con gli altri scritti di Israele. 18.1.2. Prologo del Siracide La fine del prologo permette di conoscerne la data di stesura: è stato scritto dopo “l'anno trentottesimo del re Evergete”, che corrisponde al 132 a.C. L'anonimo nipote di Gesù Ben Sira, nel presentare la propria traduzione in greco dell'opera del nonno, per tre volte menziona i libri d'Israele, divisi in tre gruppi: Molti e profondi insegnamenti ci sono stati dati nella legge, nei profeti e negli altri scritti successivi e per essi si deve lodare Israele come popolo istruito e sapiente. Poiché è necessario che i lettori non si accontentino di divenire competenti solo per se stessi, ma che gli studiosi anche ai profani possano rendersi utili con la parola e con gli scritti, anche mio nonno Gesù, dedicatosi lungamente alla lettura della legge, dei profeti e degli altri libri dei nostri padri e avendovi conseguito una notevole competenza, fu spinto a scrivere qualche cosa riguardo all'insegnamento e alla sapienza, perché gli amanti del sapere, assimilato anche questo, possano progredire sempre più in una condotta secondo la legge. Siete dunque invitati a farne la lettura con benevolenza e attenzione e a perdonare se, nonostante l'impegno posto nella traduzione, sembrerà che non siamo riusciti a render la forza di certe espressioni. Difatti le cose dette in ebraico non hanno la medesima forza quando sono tradotte in altra lingua. E non solamente questa opera, ma anche la stessa legge, i profeti e il resto dei libri conservano un vantaggio non piccolo nel testo originale.

1.

I casi più vicini ad una citazione letterale sono due: in 48,10, Ben Sira sembra citare Mal 3,24; e in 49,7 cita con certa libertà Ger 1,5.10.

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Questo testo è assai importante, perché si tratta della testimonianza più antica che abbiamo dell'esistenza di una organizzazione di scritti in tre gruppi (che vale ancora oggi per gli ebrei). Il primo gruppo è la Torah; il secondo viene chiamato “i profeti”, che dovrebbero corrispondere più meno a quelli che nella BH si chiameranno profeti anteriori e profeti posteriori. Il terzo gruppo, invece, non ha un nome proprio, il che fa pensare che non si tratti di una collezione chiusa (anche perché vi dovrebbe rientrare lo stesso libro del Siracide). E poi il testo non dice nulla sul contenuto concreto di questi tre gruppi, né sulla loro sacralità (Dio non viene menzionato esplicitamente). Inoltre, il testo è una testimonianza del fatto che esisteva già una traduzione in greco non solo della Torah, ma anche di libri degli altri due gruppi. Grazie al prologo del Siracide sappiamo che nella seconda metà del II secolo a.C. circolavano in Egitto traduzioni in greco non solo della Legge, ma anche dei Profeti e “degli altri scritti”. 18.1.3. La traduzione della Torah e di altri libri in greco Sul quando ed il perché la Torah e poi altri libri siano stati tradotti in greco abbiamo detto qualcosa a proposito del testo dell'AT (pp. 117-121). Ora possiamo chiederci che cosa si può ricavare dalla traduzione greca per ricostruire la storia della formazione del canone biblico. Purtroppo non sappiamo l'estensione esatta di questa traduzione né il momento in cui i diversi libri furono tradotti in greco1. Quasi tutti i manoscritti che contengono la Bibbia greca arrivati fino a noi sono di epoca cristiana e non includono gli stessi libri. Per esempio, il codice Vaticano (IV secolo) non contiene nessun libro dei Maccabei; nel codice Sinaitico (IV secolo) troviamo 1 Mac e 4 Mac, ma non 2 Mac; mentre il codice Alessandrino (V secolo) ha quattro libri dei Maccabei. E ci sono altre differenze2. Più radicalmente ancora, il fatto che un libro venisse tradotto in greco — e messo accanto alla Torah — non implica automaticamente la sua considerazione come sacro

1.

2.

Per un riassunto di ciò che si può sapere circa le traduzioni dopo quella del Pentateuco, cf. E. Tov, «Reflections on the Septuagint with Special Attention Paid to the Post-Pentateuchal Translations» in W. Kraus - M. Karrer - M. Meiser (eds.), Die Septuaginta - Texte, Theologien, Einflüsse: 2. Internationale Fachtagung veranstaltet von Septuaginta Deutsch (LXX.D), Wuppertal 23.-27.7.2008, Mohr Siebeck, Tübingen 2010, 3-22. Una tavola con il contenuto di questi tre codici in parallelo può vedersi in E. L. Gallagher - J. D. Meade, The Biblical Canon Lists from Early Christianity: Texts and Analysis, Oxford University Press, Oxford 2017, 246-249.

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o ispirato. Dunque, da sola, la versione dei Settanta non ci aiuta a sapere esattamente quali libri si consideravano sacri prima di Cristo, oltre ai cinque della Torah di Mosè. 18.1.4. I libri accettati dai Sadducei Grazie ai vangeli e a Flavio Giuseppe, sappiamo che i sadducei non credevano nella risurrezione dei morti (cf. Mt 22,23-33; Mc 12,18-27; Lc 20,27-40; BJ 2.165 et par.). Negli Atti degli Apostoli, si dice di più: “I sadducei affermano che non c'è risurrezione, né angeli, né spiriti” (At 23,8; cf. 4,1-2). Alcuni autori sostengono che l'unica Scrittura che accettavano i sadducei fosse la Torah. Così si spiegherebbe che Gesù risolva la controversia sulla risurrezione con una citazione dell'Esodo. Altri non sono d'accordo con questa affermazione. A noi interessa soltanto rilevare che i sadducei non potevano accettare i libri che parlano della risurrezione dei morti, come Daniele (e anche 2 Maccabei e altri libri). Dunque possiamo essere sicuri che, all'epoca di Gesù, se esisteva il canone di ventidue o ventiquattro libri, esso non era condiviso da tutti i gruppi politico-religiosi. Alla stessa conclusione si arriva a partire dall’esame della biblioteca trovata a Qumran. 18.1.5. La biblioteca di Qumran A Qumran sono stati trovati testi di diverse epoche e di diverso tipo, come abbiamo detto in precedenza, parlando delle lingue dei libri (cf. pp. 42-45). Ora ci interessa sapere quali libri biblici avessero i membri della comunità di Qumran e se in qualche modo li consideravano come diversi dagli altri scritti in loro possesso1. In primo luogo, possiamo dire che nelle grotte di Qumran sono stati trovati manoscritti di tutti i ventiquattro libri della BH tranne Ester. Manca anche Abacuc, ma ce n’è un commento (pesher). Come abbiamo visto a proposito delle lingue, a Qumran c'erano anche copie di alcuni libri che oggi fanno parte della Bibbia cattolica, ma non di quella ebraica: frammenti di Siracide in ebraico; un frammento di Tobia in ebraico e quattro in aramaico; e un frammento della lettera di Geremia (Bar 6). Vi sono anche diverse copie di alcuni libri che oggi non sono canonici, soprattuto 1 Enoc e il libro dei Giubilei, ma anche altri come i Testamenti dei XII Patriarchi. Esistono alcuni manoscritti che contengono salmi biblici mescolati con preghiere non bibliche.

1.

Sul canone a Qumran esiste molta bibliografia. Una presentazione completa e aggiornata si può vedere in T. H. Lim, The Formation of the Jewish Canon, Yale University Press, New Haven 2013, 119-147.

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Infine, a Qumran leggevano anche alcuni libri propri della comunità, cioè testi che parlano delle loro regole di vita (Documento di Damasco, Regola della Comunità) o che interpretano altri libri applicandoli alla loro situazione (i cosiddetti pesharim). La domanda rilevante è se gli utenti di questa biblioteca distinguessero fra i libri e come. Ad esempio, è notevole il fatto che alcuni libri si trovano scritti in caratteri diversi, il cosiddetto paleo-ebraico, forse come segnale di una venerazione speciale. È il caso di alcuni esemplari dei cinque libri della Torah e di Giobbe. Ma non possiamo dedurre che solo questi libri fossero considerati sacri. Più interessante è vedere quali libri fossero oggetto di commentario. A Qumran sono stati trovati commenti (pesharim) di Isaia, di Osea, di Michea, di Abacuc, di Sofonia e di alcuni salmi. Ovviamente, questo criterio non permette di stabilire l'elenco completo dei libri ritenuti sacri, ma riflette il fatto che almeno alcuni di essi erano considerati come profezie del tempo futuro e dunque come parola di Dio. Un altro criterio di distinzione procede dalle citazioni di libri negli scritti propri della comunità. Vengono citati come scrittura la Torah, Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele, i profeti minori ed i Salmi1. Pertanto, almeno i libri sicuramente considerati sacri non risultano molto diversi dal futuro canone ebraico. Tuttavia, non è improbabile che a Qumran considerassero sacri alcuni libri propri del gruppo, come il Rotolo del Tempio. Inoltre si deve tener presente che la biblioteca apparteneva ad una comunità che si era separata dal sacerdozio e dal Tempio di Gerusalemme. Quindi si discute fino a che punto Qumran possa essere considerato come rappresentativo dell'opinione comune degli ebrei dell’epoca. In sintesi, non è chiaro se esistesse una “coscienza canonica” nella comunità che abitava a Qumran. La seguente tabella descrive la situazione dei libri della Bibbia Ebraica e altri simili secondo i ritrovamenti2. Lo scopo non è imparare questi numeri a memoria, ma farsi un'idea di quanto appena detto:

1.

2.

“La Torah, Isaïe, Jérémie, Ézéchiel, les Petits Prophètes, ainsi que les Psaumes et Daniel se trouvent aussi rapprochés les uns des autres à Qumrân par le fait que ce sont les seuls livres qui sont cités dans les autres écrits avec la formule introductive caractéristique: «il est écrit (...)».” D. Barthélemy, «L'état de la Bible juive depuis le début de notre ère jusqu'à la deuxième révolte contre Rome (131-135)» in J.-D. Kaestli - O. Wermelinger (eds.), Le canon de l’Ancien Testament: sa formation et son histoire, Labor et fides, Genève 1984, 9-45, 37. I numeri provengono da E. Ulrich, «Qumran and the Canon of the Old Testament» in J.-M. Auwers - H.-J. de Jonge (eds.), The Biblical Canons, Leuven University Press, Leuven 2003, 66-80, aggiornati secondo la tabella presentata da Idem, The Dead Sea Scrolls and the Developmental Composition of the Bible, Brill, Leiden 2015, 321.

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LIBRᴏ

CIᴛᴀᴢIᴏNI

NᴜᴍᴇRᴏ ᴅI ᴄᴏᴘIᴇ

Genesi

-

24

Esodo

1

22

Levitico

4

18

Numeri

3

11

Deuteronomio

5

36

Giosuè

-

2

Giudici

-

3

Samuele

1

4

Re

-

3

Isaia

9

21

Geremia

1

6

Ezechiele

4

6

I dodici profeti

9

9

Salmi

2

36

Giobbe

-

6

Proverbi

1

4

Rut

-

4

Cantico

-

4

Qoèlet

-

2

Lamentazioni

-

4

Ester

-

-

Daniele

2

8

Esdra

-

1

Neemia

-

1

Profeti anteriori

Profeti posteriori

Scritti

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Cronache

-

Totale

1 236

Altri libri 1 Enoc

-

12 (+9?)

Giubilei

1?

14 (+3?)

Tobia

-

5

Ben Sira

-

2

Lettera di Geremia

-

1

18.2. Gesù e il Nuovo Testamento Come abbiamo visto (pp. 86-90), i vangeli ci tramandano che Gesù ha fatto riferimenti sia alle “Scritture” in genere che a passi concreti. Da Lc 24,44, sembra che Gesù conoscesse una divisione tripartita delle Scritture di Israele (Legge di Mosè, Profeti e Salmi) simile a quella testimoniata dal prologo del Siracide. Se si mettono insieme i quattro vangeli, si vede che Gesù fa citazioni di tutti e cinque i libri della Torah (soprattutto del Deuteronomio), della maggioranza dei Profeti (specialmente di Isaia) e di alcuni degli Scritti (soprattutto dei Salmi)1. Oltre ai riferimenti alle Scritture che i vangeli attribuiscono direttamente a Gesù, ci sono quelli fatti dagli autori del NT. Facendo una somma di tutte le citazioni esplicite dell'AT nel NT, si ottiene il seguente risultato2. • Vi sono citazioni dei cinque libri del Pentateuco: Gn (19 volte), Es (24), Lv (14), Nm (1) e Dt (42). • Di quelli che noi chiamiamo libri storici, vengono citati esplicitamente soltanto Gs (1), Sam (5) e Re (1).

1. 2.

Cf. C. A. Evans, «The Scriptures of Jesus and His Earliest Followers» in L. M. McDonald - J. A. Sanders (eds.), The Canon Debate: On the Origins and Formation of the Bible, Hendrickson, Peabody 2002, 185-195. Ho preso i dati da Barthélemy, «L'état», 15. Se, oltre alle citazioni esplicite, si considerano anche le allusioni, la lista cambia completamente: cf. Mannucci - Mazzinghi, Bibbia, capitolo 12, sezione 3.1. Non sempre risulta facile determinare se c'è davvero un'allusione o se si tratta di una semplice coincidenza di idee. Per esempio, in Rm 1,19-23, san Paolo sostiene una tesi che appare anche in Sap 13,1-9, ma per alcuni autori questa somiglianza non basta per affermare che Paolo conoscesse direttamente il libro della Sapienza.

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• Dei libri poetici e sapienziali, vi sono citazioni esplicite soltanto di Gb (1), Sal (54), e Prv (4). • Dei libri profetici, non manca nessuno dei profeti maggiori: Is (48), Ger (9), Ez (2), Dn (2). I profeti minori vengono citati 22 volte in tutto; presi separatamente vengono citati Os, Gl, Am, Gio, Mic, Ab, Ag, Zc e Ml. Mancano cioè citazioni esplicite di Abd, Na e Sof, ma siccome all'epoca i profeti minori formavano ormai un solo libro — il rotolo dei Dodici —, la loro assenza non è significativa. • Nel NT mancano citazioni esplicite di Gdc, Rt, 1-2 Cr, Esd-Ne, Tb, Gdt, Est, 1-2 Mac, Qo, Sap, Sir, Lam e Bar. Dal numero di citazioni si può dedurre l'importanza attribuita ad alcuni libri, come i Salmi, Isaia e Deuteronomio. Inversamente però non è lecito dedurre che un libro non citato fosse sconosciuto dagli scrittori del NT oppure che non fosse ritenuto sacro. Il NT non permette di ricostruire l'elenco di libri che i suoi autori ritenevano sacri, per il semplice fatto che essi citano diverse scritture in maniera occasionale, senza intenzioni di fornire un catalogo completo. Inoltre, bisogna aggiungere che il NT contiene alcune sorprese. Ci sono allusioni a libri che non fanno parte del nostro AT. Il caso più chiaro si trova nella lettera di Giuda. Dopo aver alluso a un episodio narrato in un libro chiamato L'assunzione di Mosè, l'autore della lettera cita esplicitamente un brano di altro libro extra-canonico, 1 Enoc: Profetò anche per loro Enoc, settimo dopo Adamo, dicendo: «Ecco, il Signore è venuto con migliaia e migliaia dei suoi angeli per sottoporre tutti a giudizio, e per dimostrare la colpa di tutti riguardo a tutte le opere malvagie che hanno commesso e a tutti gli insulti che, da empi peccatori, hanno lanciato contro di lui» (Gd 14-15; la citazione corrisponde a 1 Enoc 1,9).

Che cosa si può dire davanti a questo caso? Evidentemente, se fra i primi cristiani esisteva un canone di Scritture corrispondente a quello odierno, l'autore di Giuda non lo conosce oppure se ne distacca. Tuttavia, sembra più ragionevole pensare che non si debba parlare di un “canone” biblico nel I secolo d.C., perché a quell'epoca non esisteva ancora una lista ufficiale di libri o una collezione chiusa di Scritture. Per l’autore della lettera di Giuda, 1 Enoc contiene una profezia valida per illustrare un insegnamento1. Più tardi, la Chiesa universale non accetterà questo libro come ispirato e 1.

Più tardi, poggiandosi sull'autorità della lettera di Giuda, Tertulliano difenderà l'ispirazione di 1 Enoc: cf. De cultu feminarum 1,3. Il libro di 1 Enoc verrà usato dalla Chiesa in Etiopia per diversi secoli, fino ad arrivare alla Chiesa Etiopica Ortodossa di oggi: cf. R. W. Cowley, «The Biblical Canon of the Ethiopian Orthodox Church Today», Ostkirchliche Studien 23 (1974) 318-323; L. Baynes,

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canonico. Senza negare una certa tensione, si deve riconoscere che si tratta di due questioni diverse1. La citazione esplicita di 1 Enoc nella lettera di Giuda deve servire come avvertenza, per non applicare al resto del NT una semplice equivalenza fra la citazione di un libro e il riconoscimento della sua canonicità. 18.3. Il canone biblico al tempo di Gesù Oggi la maggioranza degli studiosi afferma che la formazione del canone dell'AT è durata molto tempo e che al tempo di Gesù non esisteva ancora, oltre alla Torah di Mosè, un canone di libri comune a tutti. Infatti, quando parliamo del “giudaismo” al tempo di Gesù, stiamo facendo una semplificazione, perché a quell'epoca ne esistevano diversi gruppi. Abbiamo già menzionato i sadducei e i membri della comunità di Qumran. Ve ne erano altri: farisei, esseni, erodiani, zeloti, gruppi di tipo apocalittico, eccetera. E per quanto ne sappiamo, sembra che non tutti usassero o riconoscessero le stesse Scritture. Comunque sia, la diversità non era totale. Infatti, tutti i giudei e perfino i samaritani accettavano i cinque libri della Torah di Mosè (più meno nella forma che conosciamo oggi). I libri dei “Profeti” — cioè Gs, Gdc, Sam, Re, Is, Ger, Ez e i Dodici Profeti — godevano anch'essi di una grande accettazione (invece il libro di Daniele ha una storia a parte; nell’attuale canone ebraico non si trova fra i Profeti, ma fra gli Scritti). Anche altri libri come Salmi, Giobbe e Proverbi erano riconosciuti da tutti. Ma accettare alcuni libri non è la stessa cosa che avere un elenco definitivo (e quindi chiuso) di libri sacri. Come visione d'insieme, possiamo prendere queste parole della PCB: Oggi sembra più probabile che al tempo della nascita del cristianesimo, le raccolte chiuse dei libri della Legge e dei profeti esistessero in una forma testuale sostanzialmente identica a quella del nostro Antico Testamento attuale. La raccolta degli «Scritti», invece, non era così ben definita, in Palestina e nella diaspora ebraica, sia nel numero dei libri che nella forma del loro testo2.

1.

2.

«Enoch and Jubilees in the Canon of the Ethiopian Orthodox Church» in E. F. Mason (ed.), A Teacher for All Generations: Essays in Honor of James C. VanderKam, Brill, Leiden 2012, 799-818. Per approfondire, cf. J. Hultin, «Jude's Citation of 1 Enoch» in J. H. Charlesworth - L. M. McDonald (eds.), Jewish and Christian Scriptures: The Function of "Canonical" and "Non-Canonical" Religious Texts, T&T Clark, New York 2010, 113-128; N. J. Moore, «Is Enoch Also among the Prophets? The Impact of Jude’s Citation of 1 Enoch on the Reception of Both Texts in the Early Church», Journal of Theological Studies 64 (2013) 498-515. Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico, n. 16.

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Come abbiamo tentato di mostrare, l'inesistenza di un canone chiuso non vuol dire che ci fosse un'incertezza totale su quali libri dovevano ritenersi come sacre Scritture. Ma è altrettanto chiaro che bisogna respingere l'idea che la Chiesa apostolica abbia ricevuto da Israele il canone biblico, nel senso di un elenco concreto e definito di libri. È anche da escludere l'idea che Gesù stesso abbia tramandato agli apostoli una lista di libri. Più importante è che Gesù dichiara che la Torah e i Profeti arrivano “fino a Giovanni”, come abbiamo visto nella prima parte del corso. Dunque è logico che non vi sia spazio per altri libri dell'antica alleanza. In definitiva, ciò che conta è il concetto di rivelazione che sta dietro al canone. Dal punto di vista cristiano, è ragionevole che all'epoca di Gesù non esistesse un canone, poiché la rivelazione di Dio a Israele non era ancora chiusa, come sostiene Aranda: (…) all'epoca di Gesù non esisteva una Scrittura quale canone in senso stretto, come se Dio avesse comunicato al suo popolo tutta la sua Parola. È certo che esistevano scritti sacri che si trasmettevano anche in collezioni chiuse, come la Legge ed i Profeti o l'altro gruppo non definito di Scritti. Così si deduce dal Prologo dell'Ecclesiastico, dai libri dei Maccabei, e dal Nuovo Testamento (cf. 1 Mac 1,56-57; 2 Mac 2,13-15; Lc 24,44). Ma l'esistenza di queste collezioni non equivale a quella di un canone biblico in senso stretto o, per lo meno, non abbiamo indizi del fatto che nel giudaismo di quest'epoca si fosse posta la questione1.

18.4. Fra gli ebrei alla fine del primo secolo Gli avvenimenti dell'anno 70 dopo Cristo segnano un prima e un dopo nella storia del popolo ebraico. Dopo la sconfitta nella prima guerra contro Roma (66-73), alcuni gruppi giudaici spariscono dalla storia: i sadducei, la comunità di Qumran, ecc. Altri, come gli zeloti o alcuni gruppi di tendenza apocalittica sopravvivono ancora per un poco, ma a quanto pare si estingueranno definitivamente dopo la seconda guerra giudaica (132-135). Dei diversi gruppi giudaici esistenti lungo il primo secolo, soltanto due sussisteranno nei secoli successivi: il cosiddetto giudaismo rabbinico (o “rabbinismo”) ed il cristianesimo, che si apre ai gentili, si universalizza e alla fine diventa un movimento separato dalla sinagoga. Dopo il 70, il popolo giudaico, ormai privato del Tempio, senza sacerdozio e culto, ma ancora in possesso dei libri sacri, deve riorganizzarsi. La base per definire 1.

G. Aranda Pérez, «Il problema teologico del canone biblico» in M. Tábet (ed.), La Sacra Scrittura anima della teologia. Atti del IV Simposio Internazionale della Facoltà di Teologia, Pontificia Università della Santa Croce, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, 13-35, 21.

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l'identità religiosa e culturale saranno le Scritture. È proprio in questa situazione, alla fine del I secolo d.C., che appaiono i primi riferimenti a un numero fisso di libri: Flavio Giuseppe parla di ventidue libri, mentre nel 4 Esdra si allude a novantaquattro. 18.4.1. I ventidue libri secondo la testimonianza di Flavio Giuseppe In un'opera chiamata Contra Apionem, che è un’apologia del popolo ebreo scritta alla fine del I secolo, Flavio Giuseppe vuole difendere l'antichità del suo popolo contro coloro che l'attaccano. Questi ultimi si poggiano sul fatto che nella letteratura e storiografia greche non appare alcun riferimento a Israele. Se gli storici greci non ne parlano, vuol dire che il popolo ebreo non può essere così antico come sostengono i suoi membri. In questo contesto polemico, Giuseppe parla della fiducia che meritano i libri storici degli ebrei, in contrasto con quelli dei greci. Ecco le sue parole: [37] È dunque naturale, o piuttosto necessario (poiché non è permesso a tutti scrivere la storia, né esiste divergenza nei nostri scritti, perché solo i profeti hanno chiaramente raccontato i fatti lontani e antichi per averli appresi per ispirazione divina [κατὰ τὴν ἐπίπνοιαν τὴν ἀπὸ τοῦ θεοῦ], i fatti contemporanei secondo che essi si svolsero sotto i loro occhi), [38] è naturale, dico, che non esista presso di noi un'infinità di libri in disaccordo e in contraddizione, ma ventidue solamente che contengono gli annali di tutti i tempi e ottengono un giusto credito. [39] Sono innanzitutto i libri di Mosè, in numero di cinque, che comprendono le leggi e la tradizione dalla creazione degli uomini fino alla sua propria morte. È un periodo di circa tremila anni. [40] Dalla morte di Mosè fino ad Artaserse, successore di Serse al trono di Persia, i profeti che vennero dopo Mosè hanno raccontata la storia del loro tempo in tredici libri. I rimanenti quattro contengono degli inni a Dio e dei precetti morali per gli uomini. [41] Da Artaserse fino ai nostri giorni tutti gli avvenimenti sono stati raccontati, ma non si accorda a questi scritti il medesimo credito che ai precedenti, poiché i profeti non si sono più esattamente succeduti. [42] I fatti mostrano con qual rispetto noi circondiamo i nostri libri. Dopo esser passati tanti secoli, nessuno s'è permesso un'aggiunta, un taglio, un cambiamento. È naturale a tutti i giudei, fino dalla loro nascita, di pensare che si hanno là i voleri divini, di rispettarli, e all'occasione di morire per essi con gioia. [43] Così si son veduti parecchi tra essi in cattività sopportare i tormenti e ogni genere di morte negli anfiteatri per non pronunziare una sola parola contraria alle leggi e agli annali che le accompagnano. [44] Presso i greci, chi ne sopporterebbe altrettante per le proprie? Anche se si trattasse di salvare tutti i loro scritti, nessuno affronterebbe il minimo danno. [45] Infatti essi ritengono che sono parole composte secondo la volontà degli scrittori; e non a torto pensano così anche rispetto a quelli più antichi, poiché vedo-

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no adesso alcuni che osano scrivere su fatti nei quali né sono stati presenti né si sforzano di informarsi presso coloro che ci sono stati1.

Il testo, come si vede, è di grande interesse non solo per la storia del canone, ma anche per il concetto di ispirazione. Si tratta dell'unica volta in tutte le opere di Giuseppe in cui appare il termine “ispirazione” (ἐπίπνοια). Tale ispirazione divina non è una caratteristica dei ventidue libri, ma la si presenta soltanto come la fonte della conoscenza di alcuni fatti (quelli “lontani e antichi”) da parte dei profeti. Ma soprattutto questo testo costituisce la prima testimonianza storica in cui si parla di un numero esatto di Scritture in Israele. La prima domanda da porsi riguarda l'affidabilità della testimonianza di Giuseppe. Fino a che punto riporta fatti reali? Non sta esagerando per motivi retorici? In questo senso, bisogna anche chiedersi se manifesta davvero una credenza di tutti i giudei o soltanto una sua opinione personale. In effetti, alcune delle sue affermazioni sembrano dettate dalla necessità dell'argomentazione. Per esempio, l'insistenza sulla perfetta armonia esistente fra i ventidue libri sembra rispondere più alla retorica che alla realtà dei fatti. Inoltre, dire che tutti i giudei sono disposti a morire per i loro libri è un'inesattezza. In realtà, d'accordo con diverse fonti storiche, si riscontra un simile atteggiamento dei giudei soltanto per il libro della Torah2. Nonostante questi problemi, si deve notare che a Flavio Giuseppe sarebbe risultato molto più logico dire che tutti i libri giudaici meritano la stessa fiducia, anche quelli più recenti (fra i quali si trova il suo racconto della guerra giudaica contro Roma). Invece, egli mette una barriera fra i ventidue libri e quelli scritti dopo, probabilmente perché tale differenza era reale. Nello stesso senso, la menzione di quattro libri non storici non si adatta bene all'argomentazione e quindi sembra riflettere il fatto che esistesse davvero un gruppo definito di ventidue libri.

1.

2.

Contra Apionem I,37-45. Traduzione presa, per i nn. 37-44, da Perrella, Introduzione generale, 1*. Per il n. 45, la traduzione è mia. Per un commento più esteso di questo testo, cf. S. Mason, «Josephus and His Twenty-Two Book Canon» in L. M. McDonald - J. A. Sanders (eds.), The Canon Debate: On the Origins and Formation of the Bible, Hendrickson, Peabody 2002, 110-127; J. C. Ossandón Widow, «Flavio Josefo y los veintidós libros: Nuevas preguntas en torno a Contra Apionem I,37-45», Estudios bíblicos 67 (2009) 653-694. “The Judean martyr-tradition on which Josephus draws was familiar with dying for the laws (or for God), but not with dying for the scriptures—and, indeed, with death for the laws as textual phenomena only inasmuch as they contained the rules and customs obeyed by Judeans, not as written (historical) records in themselves. Josephus, however, needs this addendum to create the following artificial contrast with the attitude of Greeks to their historiography”, J. M. G. Barclay, Flavius Josephus: Against Apion, Brill, Leiden 2007, ad loc, nota 179.

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Possiamo chiederci quali sono i ventidue libri di cui parla Flavio Giuseppe. “I libri di Mosè, in numero di cinque” corrispondono senz'altro al Pentateuco. Per il resto, l'identificazione diventa molto più incerta. Alcuni autori partono dall'idea che i ventidue libri devono essere gli stessi che formano l'attuale BH, che ne ha ventiquattro. La differenza viene risolta dicendo que Giuseppe conta Giudici e Rut come un solo libro e fa lo stesso con Geremia e Lamentazioni (infatti tale equivalenza fra ventidue e ventiquattro libri era conosciuta da san Girolamo, vedi p. 178). Così, i tredici libri dovrebbero essere Gs, Gdc + Rt, Sam, Re, Cron, Esd-Ne, Is, Ger + Lam, Ez, i Dodici profeti, Dn, Est e Gb. Infine, gli altri quattro libri sarebbero Sal, Prv, Qo e Ct. In realtà questa identificazione è un po’ forzata. O almeno possiamo dire che si tratta di una ipotesi indimostrabile. Per esempio, per quanto riguarda i quattro libri che “contengono degli inni a Dio e dei precetti morali per gli uomini”, sembra logico pensare al libro dei Salmi (che in ebraico si chiamano appunto tehilim, “inni”) e al libro dei Proverbi, che contiene fondamentalmente istruzioni di vita. Ma il Qoèlet e soprattutto il Cantico dei cantici non si aggiustano a questa descrizione. Veramente, non sappiamo quali siano i ventidue libri di cui parla Flavio Giuseppe, anche se, com'è logico, è probabile che si trattasse di un gruppo molto simile, se non identico, ai ventiquattro libri dell'attuale BH. Un altro discorso merita la giustificazione che propone Giuseppe per fondare la distinzione fra i ventidue libri e quelli scritti dopo, cioè la fine della successione dei profeti. Alcuni testi rabbinici posteriori parleranno del silenzio di Dio a partire dall'esilio in Babilonia oppure dell'estinzione della profezia dopo la morte dei profeti Aggeo, Malachia e Zaccaria1. Senza entrare nell'argomento — che è complesso — bisogna dire che questo tipo di affermazioni sembrano spiegazioni costruite a posteriori. Cioè, una volta che si ha una collezione fissa di libri, si deve tentare di fornirne una giustificazione. Allora, siccome si crede che tutti i libri siano antichi, si deduce che non ci sono stati più libri perché la profezia è finita in un passato lontano. In questa linea, molti secoli più tardi, alcuni autori ebrei avanzeranno l'ipotesi che la costituzione del canone è stata opera di Esdra nel momento del ritorno del popolo dopo l'esilio a Babilonia. 18.4.2. I novantaquattro libri (24 + 70) secondo 4 Esdra Il cosiddetto quarto libro di Esdra (4 Esdra), chiamato anche Apocalisse di Esdra, è un'opera giudaica scritta probabilmente in ebraico verso l'anno 100 d.C.

1.

Per una raccolta dei testi antichi collegati a questa tematica, cf. L. S. Cook, On the Question of the "Cessation of Prophecy" in Ancient Judaism, Mohr Siebeck, Tübingen 2011.

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Una parentesi: perché si chiama “quarto libro di Esdra” se nelle nostre Bibbie ce n'è solo uno? La risposta è un po' complicata. Nella tradizione della Bibbia greca, i libri canonici di Esdra e Neemia vengono considerati un solo libro, che si chiama 2 Esdra o Esdra β, perché prima di essi si mette un libro extra-canonico, chiamato 1 Esdra o Esdra α (che è una raccolta di brani di altri libri: consiste nei due ultimi capitoli di 2 Cronache e nella ripetizione del libro di Esdra, più alcuni brani di Neemia: l'unica parte originale si trova in 3,1-5,6, la storia dei tre paggi). Invece, nei manoscritti della Vulgata si separano Esdra e Neemia, che diventano 1 e 2 Esdra, e si aggiunge poi Esdra α, che diventa 3 Esdra. Questo è il motivo per cui nella tradizione latina l'apocrifo di cui ci occupiamo adesso viene chiamato 4 Esdra, mentre in altre tradizioni lo chiamano 2 Esdra. Ecco un quadro riassuntivo di questi nomi: Libro di Esdra

BH X

LX Vg

Parafrasi di 2 Cron Libro di Neemia 35-36 + Esdra + Ne 7,38-8,12 + storia dei tre paggi

Esdra β)

2 Esdra (Esdra 1 Esdra

β)

Apocalisse

Neemia

non c'è

non c'è

2 Esdra (Esdra

1 Esdra (Esdra α)

non c'è

2 Esdra

3 Esdra

4 Esdra

Le prime parole di 4 Esdra ci forniscono il contesto narrativo del libro: Esdra, che parla in prima persona, dice di trovarsi a Babilonia trent'anni dopo la caduta di Gerusalemme (cf. 4 Esdra 3,1). Rivolge una preghiera a Dio, chiedendogli come mai ha consegnato il suo popolo nelle mani dei babilonesi. Il Signore gli risponde, prima attraverso le parole di un angelo, poi con delle visioni. Alla fine, Esdra tiene un ultimo dialogo con il Signore, prima di essere rapito in cielo. Riproduco un testo lungo per fornire il contesto. Parla Esdra: [1] Il terzo giorno accadde che io sedessi sotto una quercia, ed ecco che una voce uscì da un rovo di fronte a me, e disse: "Ezra, Ezra!" (…) [19] Risposi e dissi: "Che io possa parlare davanti a Te, o Signore! [20] Ecco, io me ne andrò come Tu mi hai prescritto, e rimprovererò il popolo presente; ma quelli che verranno poi, chi li ammonirà? Il mondo infatti giace nell'oscurità, e coloro che lo abitano sono senza luce, [21] perché la Legge è stata bruciata, e perciò nessuno conosce le opere che hai compiuto, o che cosa Tu dovrai compiere. [22] Infatti, se ho trovato favore di fronte a Te, immetti in me il santo spirito, ed io scriverò tutto quello che è stato fatto nel mondo dall'inizio, le cose che erano scritte nella Tua Legge, in modo che gli uomini possa-

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no trovare il sentiero, e vivano coloro che vorranno vivere negli ultimi giorni". [23] Mi rispose e disse: "Va', raduna il popolo, e di' loro di non cercarti per quaranta giorni; [24] tu invece preparati molte tavolette per scrivere, e prendi con te Saria, Dabria, Selemia, Ethan e Asihel, questi cinque perché sono capaci di scrivere rapidamente; [25] verrai qui, ed io accenderò in cuor tuo la lampada dell'intelletto, che non si spegnerà finché non avrà termine quel che dovrai scrivere. (…) [37] Presi i cinque uomini, come mi aveva ordinato; partimmo per la campagna e rimanemmo là. [38] Il giorno dopo mi accadde che, ecco, una voce mi chiamò dicendo: "Ezra, apri la bocca e bevi quel che io ti somministro". [39] Aprii la bocca ed ecco, mi veniva offerto un calice colmo: lo era come se lo fosse d'acqua, ma il suo colore era simile al fuoco. [40] Io lo presi e bevvi e, mentre ne bevevo, il mio animo faceva sgorgare fuori intelligenza e nel mio petto cresceva la sapienza, perché il mio spirito conservava la memoria; [41] la mia bocca si aprì, e non si chiuse più. [42] L'Altissimo però dette intelligenza (anche) ai cinque uomini, e quel che veniva loro detto via via lo scrissero in caratteri che non conoscevano, restando colà per quaranta giorni, scrivendo durante il giorno, e mangiando pane durante la notte, [43] mentre io durante il giorno parlavo, ma durante la notte non tacevo. [44] Furono scritti in questi quaranta giorni novantaquattro libri. [45] Accadde che, quando si furono compiuti i quaranta giorni, l'Altissimo mi parlò dicendo: "I ventiquattro libri che hai scritto prima rendili pubblici, che li legga sia chi è degno sia chi è indegno; [46] ma i settanta scritti da ultimo conservali, per consegnarli ai sapienti del tuo popolo, [47] perché in essi c'è la sorgente dell'intelligenza, la fonte della sapienza, e il fiume della conoscenza!". [48] Ed io così feci, nell'anno settimo, nella sesta settimana, dopo cinquemila anni dalla creazione, tre mesi e dodici giorni. In questi giorni Ezra fu rapito e condotto nel luogo dove sono quelli come lui, dopo che ebbe scritto tutte queste cose; e fu chiamato scriba della conoscenza dell'Altissimo, per i secoli dei secoli1.

Con queste parole finisce 4 Esdra. Il lettore capisce allora che questo stesso libro fa parte di quei settanta che Dio ha comandato a Esdra di non pubblicare, diversi dagli altri ventiquattro libri già pubblicati e disponibili per tutti, degni e indegni. È anche da notare come tutti questi libri vengano considerati come parte dell’unica Torah di Dio (“Legge”). L'autore di 4 Esdra sembra essere in disaccordo con quelli che accettano soltanto ventiquattro libri. O almeno sta cercando di fondare l'autorità del proprio libro e di altri simili, non riconosciuti da tutti. 1.

Traduzione di Paolo Marrassini in P. Sacchi (ed.), Apocrifi dell'Antico Testamento: Volume secondo, UTET, Torino 1989.

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Nonostante le differenze esistenti fra 4 Esdra e Flavio Giuseppe, si vede una certa coincidenza. In primo luogo, appare una vicinanza per quanto riguarda la data in cui si colloca la scrittura finale dei libri (sia che si parli della redazione degli ultimi libri come nel caso di Giuseppe, sia che si descriva la riscrittura di tutti come in 4 Esdra). Infatti, Giuseppe parla dell'epoca di Artaserse, mentre la visione di cui si parla in 4 Esdra avviene trent'anni dopo la distruzione del Tempio. Cioè, in un caso si parla del V sec. a.C. e nell'altro del VI sec. a.C. Entrambi menzionano un numero di libri: ventidue in un caso, novantaquattro nell'altro. Il numero dei libri pubblicamente conosciuti è quasi identico: ventidue e ventiquattro. Queste due cifre hanno una caratteristica che le accomuna: entrambe corrispondono al numero di lettere di un alfabeto: di quello ebraico (22) o di quello greco (24). Probabilmente non è una semplice coincidenza. Forse ambedue hanno ricevuto come informazione che fra i giudei si accetta un numero di libri uguale alle lettere dell’alfabeto e ciascuno l'ha inteso in riferimento a un alfabeto diverso1. 18.5. La letteratura rabbinica È interessante conoscere le discussioni dei rabbini attorno al canone, perché testimoniano che non era ancora del tutto chiaro l'elenco di libri che essi consideravano sacri. Ma dobbiamo prima spiegare che cosa è la letteratura rabbinica. All'epoca di Gesù (e anche prima) esistevano in Israele i rabbini (da “rabbi”, maestro), che si dedicavano a studiare la Torah e ad insegnarla ai propri discepoli, come per esempio ha fatto Gamaliele con san Paolo nella sua scuola di Gerusalemme: Io sono un Giudeo, nato a Tarso in Cilìcia, ma educato in questa città, formato alla scuola di Gamaliele nell'osservanza scrupolosa della Legge dei padri, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi (At 22,3).

Diverse volte Gesù viene chiamato “Rabbi” (Mt 26,25, 49; Mc 9,5; 11,21; 14,45; Gv 1,38.49; 3,2; 4,31; 6,25; 9,2; 11,8). Spesso gli viene chiesta un'interpretazione di natura

1.

Sulla concezione dei libri in 4 Esdra e l'importanza di questo testo per la storia della formazione del canone, cf. J.-D. Kaestli, «Le récit de IV Esdras 14 et sa valeur pour l'histoire du canon de l'Ancien Testament» in J.-D. Kaestli - O. Wermelinger (eds.), Le canon de l’Ancien Testament: sa formation et son histoire, Labor et fides, Genève 1984, 71-102; J. M. Sánchez Caro, «Inspiración y canon en 4 Esd 14, 1-50: Intento de revisión», Estudios bíblicos 64 (2006) 671-697; K. M. Hogan, «The Meanings of tôrâ in 4 Ezra», Journal for the Study of Judaism in the Persian, Hellenistic, and Roman Period 38 (2007) 530-552; M. Becker, «Grenzziehungen des Kanons im frühen Judentum und die Neuschrift der Bibel nach dem 4. Buch Esra» in M. Becker - J. Frey (eds.), Qumran und der biblische Kanon, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 2009, 195-253.

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legale — per esempio, la domanda sul comandamento più importante: cf. Mt 22,34-40; Mc 12,28-34; Lc 10,25-28 —, che era ciò che si attendeva da un rabbino. Come abbiamo detto, dopo le due guerre contro Roma, l’identità ebraica sussisterà fondamentalmente nella forma di rabbinismo, concentrata sulla lettura ed interpretazione della Torah, senza sacerdoti che esercitano il culto e senza speranze messianiche politiche. Nelle scuole rabbiniche si è sviluppata una letteratura propria, sempre centrata sulla Torah. Le opere più importanti sono la Mishna, la Tosefta ed il Talmud. Così le spiega la PCB: I testi sacri della Bibbia lasciano aperte molte questioni riguardanti la giusta comprensione della fede d'Israele e della condotta da tenere. Questo ha provocato (…) un lungo processo di produzione di testi scritti, dalla Mishna («Secondo Testo»), redatto all'inizio del III secolo da Jehuda ha-Nasi, fino alla Tosefta («Supplemento») e al Talmud nella sua duplice forma (di Babilonia e di Gerusalemme). (…) La Mishna, la Tosefta e il Talmud hanno il loro posto nella sinagoga come luogo in cui si studia, ma non sono letti nella liturgia. In generale, il valore di una tradizione si misura in base alla sua conformità alla Torāh1.

Il più antico di questi scritti, la Mishna, raccoglie detti di rabbini, alcuni dell'epoca di Cristo o addirittura anteriori, fino all'anno 200 d.C., data approssimata della pubblicazione di questa compilazione, scritta in ebraico. 18.5.1. Un testo della Mishna e l'ipotesi del canone stabilito a Jamnia Per la storia del canone, esiste un testo della Mishna specialmente interessante. In esso si riportano diverse opinioni sulla sacralità di due libri, Qoèlet e il Cantico. La conclusione è che entrambi “sporcano le mani”, cioè sono da considerarsi come scritture sacre. Vale la pena citare il testo anche per conoscere il peculiare stile della letteratura rabbinica: Tutte le scritture sacre sporcano le mani. Il Cantico dei cantici e Qoèlet sporcano le mani. Rabbi Giuda dice: il Cantico dei cantici sporca le mani, ma per Qoèlet c'è discussione. Rabbi Giuseppe dice: Qoèlet sporca le mani, ma per il Cantico dei cantici c'è discussione.

1.

Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico, n. 10.

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Rabbi Simone dice: Qoèlet appartiene ai libri leggeri secondo la scuola di Shammai, e ai libri pesanti secondo la scuola di Hillel. Rabbi Simone Ben Zakkai disse: Io ho sentito una tradizione dei settantadue anziani, quando essi elessero R. Eleazaro Ben Azaria (capo) del collegio dei saggi, secondo cui il Cantico dei cantici e Qoèlet sporcano le mani. Rabbi Aqiba disse: Dio ne scampi! Nessuno in Israele ha mai contestato che il Cantico dei cantici sporchi le mani, perché il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei cantici è stato donato ad Israele, perché tutti i Ketubim sono santi, ma il Cantico dei cantici è il santo dei santi. Se c'è stata una discussione, essa ha riguardato soltanto il Qoèlet. Rabbi Johanan ben Joshua disse: Si è discusso e si è deciso come ha detto ben Zakkai1.

Come si vede dal testo, le discussioni su alcuni libri sono durate a lungo, prolungandosi almeno fino alla redazione della Mishna. E se ne continuò a discutere anche dopo l'anno 200 d.C. Infatti, in testi posteriori alla compilazione della Mishna, si vede che, oltre Qoèlet e il Cantico dei cantici, i rabbini hanno discusso sulla sacralità di Ester e di Ezechiele (accettandola) e del Siracide (rifiutandola)2. Quando nel testo citato si menzionano i settantadue anziani che elessero come capo Eleazaro Ben Azaria, si sta parlando di un'assemblea tenutasi a Jamnia (Jamnia o Jabneh è una località sul Mediterraneo, vicina all'attuale Tel Aviv). Johanan Ben Zakkai — rabbino che secondo la leggenda riuscì a scappare da Gerusalemme durante l'assedio dei romani nascosto in una bara — ottenne dai romani l'autorizzazione per formare a Jamnia una scuola, che è diventata uno dei centri della riorganizzazione del popolo ebraico. È utile sapere che l'ipotesi — ormai abbandonata — secondo la quale gli ebrei avrebbero stabilito il canone in un “concilio” o “sinodo” tenutosi attorno all'anno 90 d.C. a Jamnia si poggiava fondamentalmente su questo testo della Mishnah. Ma, come si può vedere dal testo, non è vero che durante questa assemblea sia stato stabi1. 2.

mYadayim 3,5b, traduzione presa da G. Barbiero, Cantico dei cantici, Paoline, Milano 2004, 18. Per approfondire, cf. D. Stern, «On Canonization in Rabbinic Judaism» in M. Finkelberg - G. G. Stroumsa (eds.), Homer, the Bible, and Beyond: Literary and Religious Canons in the Ancient World, Brill, Leiden 2003, 227-252; G. Stemberger, «La formation et la conception du canon dans la pensée rabbinique» in E. Norelli (ed.), Recueils normatifs et canons dans l'Antiquité: Perspectives nouvelles sur la formation des canons juif et chrétien dans leur contexte culturel: Actes du colloque organisé dans le cadre du programme plurifacultaire La Bible à la croisée des savoirs de l'Université de Genève: 11-12 avril 2002, Zèbre, Prahins 2004, 113-131.

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lito un “canone”, cioè un elenco completo e chiuso di libri sacri. Secondo il testo, a Jamnia si è discusso soltanto sulla sacralità di Qoèlet e del Cantico dei cantici. Altrimenti, non si comprende perché le discussioni fra i rabbini siano continuate durante il secondo secolo1. 18.5.2. Una baraita del Talmud babilonese Una volta pubblicata la Mishna, essa diventò oggetto di commenti. Questi commentari hanno ricevuto il nome di “Gemara”. Più tardi, Mishna e Gemara furono messe insieme e nacque così il Talmud (in realtà, ve ne sono due: il Talmud di Gerusalemme e il Talmud babilonese). All’interno del Talmud di Babilonia, alcuni testi ricevono il nome di “baraite”. Una baraita è una tradizione che si trova nel Talmud, ma non nella Mishna. Cioè, sono testi antichi che furono esclusi nella compilazione della Mishna e che poi sono stati recuperati. Ci interessa la baraita del trattato Baba Bathra 14b-15a, che risale forse al periodo 70-200 d.C. Il testo (citato a p. 37) contiene tutti i libri che formano l'attuale BH, con qualche differenza nell’ordine (non si parla della Torah, ma su questi cinque libri ed il loro ordine non c'era alcuna discussione). Il fatto che questa antica lista non sia stata inclusa nella Mishna può essere un segnale che non era condivisa da tutti i rabbini agli inizi del III secolo2. 18.6. La formazione del canone dell'AT nella Chiesa dei primi secoli Fra i primi autori cristiani vediamo un uso delle Scritture d'Israele molto simile a quello testimoniato dal NT. Citano cioè diversi libri secondo l’occasione, talvolta anche apocrifi, senza mai darne una lista. Per esempio, lo stesso libro citato nella lettera di Giuda, 1 Enoc, è citato come Scrittura da Tertulliano e da Clemente d'Alessandria. Siccome risulterebbe troppo lungo presentare adesso tutte le testimonianze dei Padri della Chiesa e degli scrittori ecclesiastici riguardo al canone dell'AT, ci limiteremo a fornire alcuni dati essenziali. Come punto di partenza, si può dire che coesistono nella Chiesa, fra i secoli II e V, due tendenze: 1. 2.

Cf. D. E. Aune, «On the Origins of the 'Council of Javneh' Myth», Journal of Biblical Literature 110 (1991) 491-493; J. P. Lewis, «Jamnia Revisited» in L. M. McDonald - J. A. Sanders (eds.), The Canon Debate: On the Origins and Formation of the Bible, Hendrickson, Peabody 2002, 146-162. Cf. L. M. McDonald, The Biblical Canon: Its Origin, Transmission, and Authority, Hendrickson, Peabody 2007, 163-165.

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• Da una parte, l'influsso del canone ebraico, che prende forma in questi anni, porta alcuni a preferire un canone “corto”, cioè senza Tobia, Giuditta, 1-2 Maccabei, Sapienza, Siracide e Baruc. • Dall'altra, la prassi ecclesiale, benché diversa secondo i diversi luoghi e tempi, in genere non esclude questi libri. Poco dopo la metà del II secolo, in un tono aspramente polemico, san Giustino accusa gli ebrei di avere tolto alcuni passi dalla versione greca delle scritture, perché si riferiscono a Gesù (cf. Dialogo con Trifone, nn. 71 e 120). Origene (III secolo) sa che gli ebrei non accettano alcuni libri. Lo dice con più chiarezza e anche con più serenità di Giustino, ma condividendo il suo approccio fondamentale: Origene non attribuisce alla prassi della sinagoga un valore normativo per la Chiesa. Qui occorre soffermarsi un po', perché alcuni autori hanno voluto presentare Origene come un difensore del canone ebraico, il che non è vero. In un testo riportato da Eusebio, Origene dice che l'AT contiene soltanto ventidue libri “secondo gli ebrei”1. Invece, nelle sue opere non si trova mai un elenco dei libri “secondo i cristiani”. Pensava forse che ci si dovesse attenere al canone ebraico? Nel suo trattato sulla preghiera, il De Oratione, Origene appoggia un insegnamento in Dn 3,24 e in Tb 3,1-2. Poi si ricorda che questi testi non sono accettati dagli ebrei e perciò aggiunge un terzo testo, 1 Sam 1,10-11. Ecco la sua giustificazione: Ma siccome quelli della circoncisione hanno messo un obelo nel testo citato di Daniele, come non esistente in ebraico, e rifiutano il libro di Tobit, come non appartenente al Testamento, aggiungerò quello di Anna del primo dei Regni2.

Questo brano non significa che Origene fosse a favore del canone ebraico, perché nel medesimo libro utilizza spesso Sapienza, Tobia e Giuditta, citandoli come Scrittura senza alcun rimorso. Cita una volta anche 2 Maccabei. Invece, se si tiene conto che il De oratione non è un'opera indirizzata a ebrei, ma a cristiani, il brano appena citato

1.

2.

Comm. in Ps. I. Il testo lo riporta Eusebio di Cesarea in Hist. Eccl. 6.24.1-2. Origene osserva che ventidue è il numero delle lettere dell’alfabeto ebraico e poi presenta l'elenco: Gn, Es, Lv, Nm, Dt, Gs, Gdc e Rt come un solo libro, Sam, Re, Cron, 1-2 Esd come un solo libro, Sal, Prv, Qo, Ct, is, Ger con Lam e la lettera di Geremia, Dn, Ez, Gb, Est e 1 Mac. L'assenza dei Dodici profeti e la menzione di 1 Maccabei sono strane. 14,4, traduzione mia. ἐπεὶ δὲ τὸ μὲν ἐν τῷ Δανιὴλ ῥητὸν ὠβέλισαν, ὡς μὴ κείμενον ἐν τῷ Ἑβραϊκῷ, τῇ δὲ τοῦ Τωβὴτ βίβλῳ ἀντιλέγουσιν οἱ ἐκ περιτομῆς, ὡς μὴ ἐνδιαθήκῳ, παραθήσομαι ἐκ τῆς πρώτης τῶν Βασιλειῶν τὸ τῆς Ἄννης·

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fa vedere come alcuni cristiani potevano avere dei dubbi sull'autorità di quei libri, proprio perché non erano accettati dalle comunità ebraiche1. C'è un testo più esplicito sulla posizione di Origene riguardo all’estensione del canone dell'AT. In una lettera a Giulio Africano (PG 11,48-85), parla della legittimità di leggere la storia di Susanna (Dn 13), nonostante gli ebrei non la riconoscano. Origene dunque difende l'uso che si fa nella Chiesa di alcuni libri o, più esattamente, difende l'indipendenza della Chiesa dalla sinagoga nella determinazione del canone2. Parallelamente alla linea di Giustino e Origene, nella Chiesa esistono alcuni autori che pensano che si debbano accettare soltanto i libri riconosciuti dagli ebrei. Il caso più antico che conosciamo è quello di Melitone, vescovo di Sardi alla fine del II secolo, che scrive una lettera ad un altro vescovo, Onesimo, dicendogli quali sono i libri dell'AT, secondo quanto ha indagato “in oriente” (Gerusalemme?). Il testo della lettera lo riporta Eusebio di Cesarea: Melitone saluta il fratello Onesimo. Poiché, per l'amore che porti alla dottrina [della fede] mi chiedesti spesse volte di comporre degli Estratti di passi della Legge e dei Profeti, riguardanti il Salvatore nostro, e, in succinto, l'oggetto della nostra fede; ed esprimesti il desiderio di conoscere con precisione il numero dei libri del Vecchio Testamento, e il loro ordine, mi son messo con lena alla opera. (…) Recatomi dunque in oriente, ho veduto i luoghi dove fu annunziato e si compì ciò che contiene la Scrittura, ed ho appreso con esattezza quali sono i libri del Vecchio Testamento. Ne ho fatto l'elenco e te lo invio. Ecco i titoli dei cinque libri di Mosè; la Genesi, l'Esodo, i Numeri, il Levitico, il Deuteronomio; Gesù [figlio di] Nave [Giosuè], i Giudici, Rut, i quattro libri dei Re; i due dei Paralipomeni; i Salmi di Davide, i Proverbi di Salomone ovvero la Sapienza [Σολομῶνος Παροιμίαι ἢ καὶ Σοφία]; l'Ecclesiaste; il Cantico dei Cantici; Giobbe; i Profeti: Isaia, Geremia; i dodici profeti in un sol libro; Daniele, Ezechiele, Esdra. Da queste fonti ricavai i miei Estratti che ho diviso in sei libri3.

1. 2.

3.

Cf. J. Ruwet, «Duo textus Origenis de canone Antiqui Testamenti», Biblica 2 (1921) 57-60. Sulla posizione di Origine riguardo al canone, cf. E. R. Kalin, «Re-examining New Testament Canon History, 1: The Canon of Origen», Currents in Theology and Mission 17 (1990) 274-282; sulla lettera a Giulio Africano, G. Buzási, «An Ancient Debate on Canonicity: Julius Africanus and Origen on Susanna» in K. D. Dobos - M. Köszeghy (eds.), With Wisdom as a Robe: Qumran and other Jewish Studies in Honour of Ida Fröhlich, Sheffield Phoenix Press, Sheffield 2009, 438-450; E. L. Gallagher, Hebrew Scripture in Patristic Biblical Theory: Canon, Language, Text, Brill, Leiden 2012, 63-85. Hist. Eccl. 4.26.12-14. Traduzione italiana presa da: Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica e I martiri della Palestina: Testo greco con traduzione e note di Giuseppe Del Ton, Desclée, Roma 1964.

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Come si vede, la lista di Melitone non è identica alla BH: manca Ester, forse manca pure Neemia se non è incluso con Esdra, e mancano le Lamentazioni se non sono incluse con Geremia. Non si menziona il numero totale di libri: ne risultano 25 (o 26); è da notare che Melitone conta 1-2 Sam e 1-2 Re come “quattro libri dei Re”, il che corrisponde alla tradizione greca, non a quella ebraica. Inoltre Melitone sembra confondere Sapienza e Proverbi. Infine, Melitone non fa menzione degli ebrei, forse perché non ha voluto farlo o forse perché ha appreso questa lista non da loro, ma da cristiani che abitavano in Palestina. Altre testimonianze simili provengono da alcuni Padri della Chiesa del IV secolo, quando il problema del canone si pone esplicitamente. In questo momento, come abbiamo visto, un solo codice può contenere tutta la Bibbia. È anche il secolo in cui la Chiesa gode per la prima volta di un lungo periodo di pace in tutto l'Impero romano, quasi senza persecuzioni. Verso il 350, san Cirillo di Gerusalemme insegna ai catecumeni che i libri dell'AT tramandati dagli apostoli sono ventidue e offre la lista secondo il modo di contare degli ebrei (παρ' Ἐβραίοις). Egli presenta Rut unito a Giudici e, come opere unite a Geremia, non solo le Lamentazioni, ma anche Baruc e la lettera di Geremia, cioè, due scritti assenti nell'attuale BH (Catechesis IV, 33-36). E sant'Atanasio, vescovo di Alessandria, dottore della Chiesa, nella Lettera 39 dell'anno 367 (testo in EB 14-15) dice: Il totale dei libri dell'Antico Testamento è dunque di ventidue. Ho sentito infatti che questo è il numero dei testi tramandato presso gli Ebrei. Eccoli nel loro ordine e col loro nome.

Segue l'elenco, che non coincide completamente con la BH: manca Ester e ci sono Baruc e la Lettera di Geremia, contati come un solo libro insieme a Geremia, al quale si uniscono anche le Lamentazioni. Alla fine della lettera, Atanasio aggiunge che Sapienza, Siracide, Ester, Giuditta, Tobia, la Didaché e il Pastore non sono canonici, ma raccomandabili per la lettura. Nella linea di Cirillo di Gerusalemme e di Atanasio va messo anche san Girolamo, di cui parleremo dopo (cf. pp. 177-180). Dall'altra parte, sant'Agostino è da situare nella linea di Giustino ed Origene. Le Scritture canoniche si devono determinare secondo l'uso che se ne fa nelle diverse chiese, specialmente in quelle più autorevoli: [Il lettore] seguirà l'autorità della maggioranza delle chiese cattoliche, soprattutto di quelle che hanno avuto il privilegio di essere sedi degli apostoli e di riceverne le lettere. Osserverà a questo proposito la norma di anteporre le Scritture canoniche accettate da tutte le chiese cattoliche a quelle che alcune non accettano. Tra quelle poi

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che non sono accettate da tutte, anteporrà quelle accettate dalle chiese più numerose e autorevoli a quelle che sono state accolte da chiese in minor numero e di minore autorità. Se poi avrà trovato che alcune sono accettate da più chiese, altre da chiese più autorevoli — ma non dovrebbe darsi un caso del genere —, ritengo che egli dovrà considerare queste Scritture dotate di pari autorità1.

Dopo aver presentato questi criteri, non può sorprendere che l'elenco proposto da Agostino nel paragrafo seguente sia quello “lungo”, cioè, quello che include i libri non accettati dagli ebrei (cf. De doctrina christiana II, 8, 13). Proprio nell'epoca di Agostino appaiono alcune decisioni ufficiali del magistero della Chiesa riguardo al canone biblico, come già menzionato a proposito del NT. I concili provinciali di Ippona (anno 393, cf. EB 16) e di Cartagine (397), la lettera del papa Innocenzo I dell'anno 405 (cf. EB 21) e un terzo concilio a Cartagine (419) propongono l'elenco completo dei libri dell'AT, che sarà poi ripreso dal Concilio di Firenze. Per una decisione universale con carattere di definizione di fede, bisogna attendere fino al Concilio di Trento (cf. pp. 184-188). 18.7. San Girolamo e la hebraica veritas Nella storia del canone dell’AT, un ruolo fondamentale corrisponde a san Girolamo . Come abbiamo visto a proposito della Vulgata (pp. 126-134), Girolamo non ha tradotto l’AT a partire dal greco, ma dall’originale ebraico, contro la tendenza del suo tempo. Questo principio di seguire la hebraica veritas non si limitava alla lingua originale dei libri, ma anche al canone. Girolamo pensa che la Chiesa doveva accettare soltanto i ventiquattro libri della Bibbia degli ebrei. Il testo più importante al riguardo è il prefazio alla sua traduzione dei libri di Samuele e dei Re — conosciuto come prologus galeatus — che funziona come una introduzione per l’intero progetto di traduzione3. Girolamo spiega che gli ebrei hanno soltanto ventidue libri, numero che corri2

1. 2.

3.

De doctrina christiana, II, 8, 12. Traduzione presa da S. Agostino, L'istruzione cristiana; a cura di Manlio Simonetti, Fondazione Lorenzo Valla: A. Mondadori, Milano 1994. Sulla posizione di Girolamo riguardo al canone, cf. Perrella, Introduzione generale, 138-142 (nn. 128-131); F. F. Bruce, The Canon of Scripture, IVP Academic, Downers Grove 1988, 87-93; E. L. Gallagher, «The Old Testament "Apocrypha" in Jerome's Canonical Theory», Journal of Early Christian Studies 20 (2012) 213-233. Su questo prologo, cf. I. Cecchetti, «San Girolamo e il suo "Prologus Galeatus" (Alle origini della Volgata)» in Miscellanea Antonio Piolanti, Facultas Theologiae Pontificiae Universitatis Lateranensis, Romae 1964, 2:77-114; Gallagher, «OT "Apocrypha" in Jerome»; Idem, «Jerome’s Prologus Galeatus and the OT Canon of North Africa» in M. Vinzent (ed.), Papers Presented at the Sixteenth

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sponde alle lettere dell'alfabeto ebraico. Aggiunge che questo numero equivale a ventiquattro, perché quando si contano come ventidue si includono Rut nel libro dei Giudici e le Lamentazioni dentro Geremia (cf. Prologus in libro Regum, Vg Weber 364-365, nn. 23-47). A continuazione, san Girolamo dichiara: Questo prologo delle Scritture può servire come elmo per tutti i libri che abbiamo tradotto in latino dall'ebraico, affinché possiamo sapere che i libri che stanno al di fuori devono essere ritenuti apocrifi. Perciò la Sapienza che volgarmente si dice di Salomone, il libro di Gesù figlio di Sirac, Giuditta, Tobia e il Pastore non sono nel canone. Ho trovato in ebraico anche il primo libro dei Maccabei; il secondo invece è greco, come si può dedurre anche dallo stesso stile1.

La menzione del Pastore di Erma, opera cristiana del II secolo, è fuori luogo, perché non c'entra col canone dell'AT, ma con quello del NT. Inoltre, manca un riferimento al libro di Baruc e alla lettera di Geremia. Il criterio però risulta chiaro: per Girolamo i libri autentici sono quelli del canone ebraico; il resto va considerato “apocrifo”, cioè non canonico. Alcuni anni dopo, nel prologo a Proverbi, Cantico e Qoèlet, san Girolamo ribadisce questa opinione. Dopo aver detto che Sapienza e Siracide non si trovano presso gli ebrei, spiega: Così come i libri di Giuditta, di Tobia e dei Maccabei la Chiesa certamente li legge, ma non li riceve tra gli scritti canonici; così anche può leggere questi due volumi [Sap e Sir] per edificazione del popolo, ma non per confermare l'autorità dei dogmi ecclesiastici2.

Stupisce che Girolamo presenti come posizione della Chiesa ciò che in realtà era la sua opinione, peraltro meno chiara in altri testi. Infatti, talvolta san Girolamo si dimentica dell’hebraica veritas e cita alcuni di questi libri come Scrittura. Per esempio, commentando Is 3,12, dopo la formula dicente Scriptura sacra segue una citazione del

1.

2.

International Conference on Patristic Studies Held in Oxford 2011: Volume 17: Latin Writers Nachleben, Peeters, Leuven 2013, 99-106. Traduzione mia. “Hic prologus Scripturarum, quasi galeatum principium, omnibus libris, quos de hebraeo vertimus in latinum, convenire potest, ut scire valeamus, quidquid extra hos est, inter apocrypha seponendum. Igitur Sapientia, quae vulgo Salomonis inscribitur, et Iesu filii Sirach liber et Iudith et Tobias et Pastor non sunt in canone. Machabaeorum primum librum hebraicum repperi. Secundus graecus est, quod et ex ipsa φρασιν probari potest” (Vg Weber 365, nn. 52-57). “Sicut ergo Iudith et Tobi et Machabaeorum libros legit quidem Ecclesia, sed inter canonicas scripturas non recipit, sic et haec duo volumina legat ad aedificationem plebis, non ad auctoritatem ecclesiasticorum dogmatum confirmandam”, Prologus in libris Salomonis (Vg Weber 957, nn. 19-21).

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Siracide1. E a proposito di Ger 1,7, cita un testo del libro della Sapienza come alio propheta loquente2. Nonostante la sua opinione sul canone, Girolamo non è un luterano ante litteram, perché non mette in discussione l'autorità della Chiesa. La sua attenzione al testo e al canone degli ebrei vanno insieme con una interpretazione delle Scritture che vuole rimanere sempre cristiana ed ecclesiale: A noi incombe la necessità di interpretare le Scritture come si leggono nella Chiesa, e tuttavia non omettere la verità ebraica3.

Si deve tener conto del fatto che all'epoca di Girolamo la Chiesa non aveva ancora definito il canone. Forse egli è stato un po’ imprudente nel proporre un'opinione personale come se fosse dottrina comune, ma di sicuro non è un eretico! Per concludere, bisogna segnalare che, dopo alcune resistenze iniziali, la traduzione gerominiana fu ricevuta con grande stima nei secoli successivi. Invece l'aspetto canonico della hebraica veritas non ha avuto un successo analogo, come si vede dall'inclusione nella Vulgata dei libri che Girolamo non accettava. Paradossalmente, i principali codici della Vulgata latina contengono i libri che Girolamo non riteneva canonici! Tobia e Giuditta li tradusse lo stesso Girolamo, per richiesta di due vescovi e forse anche perché apprezzava questi due libri4. Egli ha tradotto anche le “parti greche” di Daniele e di Ester. Invece, gli altri cinque libri (1-2 Mac, Sir, Sap, Bar) sono stati presi da traduzioni latine anteriori e inseriti nella Vulgata geronimiana. Il desiderio di utilizzare quei libri è prevalso sull'opinione del grande traduttore5. Eppure, l'opinione di Girolamo sul canone continuò a influire su alcuni intellettuali cristiani — pochi ma importanti — fino al Concilio di Trento. Ugo di San Vittore (†1141), Giovanni di Salisbury (†1180), Ugo di San Caro, O.P. (†1263), Nicola di Lira, O.F.M. (†1340), sant’Antonino di Firenze, O.P. (†1459) e, poco prima di Trento, 1. 2. 3. 4. 5.

“Nec praeuenit sententiam iudicis sui, dicente scriptura sancta: ne beatum dicas quemquam hominum ante mortem”, Comm. in Isaiam 3,12 (PL 24,67). La citazione corrisponde a Sir 11,3o. “Ne aetatem, inquit, consideres - alio enim propheta loquente didicisti: cani hominis sapientia eius -”. In Hier. prophetam libri vi (PL 24,683). Cf. Sap 4,8. “Nobis autem (…) incumbit necessitas ita interpretari scripturas quomodo leguntur in ecclesia, et nihilominus Hebraicam non omittere veritatem”, Comm. in prophetas minores, lib. 1 (CCSL 76,517). Cf. Idem, «Why did Jerome Translate Tobit and Judith?», Harvard Theological Review 108 (2015) 356-375. Per quanto riguarda il Siracide, sappiamo che esisteva una versione latina nel II secolo (la cita spesso san Cipriano, III secolo), ma che arrivava soltanto fino al capitolo 43. Dopo Girolamo, si introdusse questa versione nella Vulgata e si aggiunsero i capitoli mancanti. Sant’Isidoro di Siviglia è il primo che cita Sir 44-50 in latino. Cf. M. Gilbert, «Siracide», DBS 12 (1996) 1389-1437, 1398.

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Tommaso De Vio Gaetano, O.P. (†1534) distinguono fra i ventidue libri degli ebrei e gli altri, che sarebbero “utili” o “edificanti” ma non propriamente canonici1. Come si vede, i libri dell'AT che Lutero qualificherà come “apocrifi” avevano alle spalle una lunga storia di discussioni e dubbi sulla loro canonicità, che spiegano perché l'opinione di Lutero al riguardo abbia avuto un certo successo.

19. La problematica moderna attorno al canone 19.1. Lutero e il principio della sola Scriptura Senza pretese di esporre in maniera completa la dottrina di Martin Lutero (1483-1546), possiamo dire che il punto di partenza del suo pensiero — tutt'altro che sistematico — si può formulare con una tesi antropologica inseparabile dalla sua esperienza vitale: niente di quanto possa fare l'uomo è degno di merito davanti a Dio. Per ottenere la salvezza, dunque, l'uomo non può fare altro che riconoscere la propria nullità, l’incapacità di agire bene, e aprirsi mediante la fede alla grazia di Cristo, che è completamente gratuita, cioè concessa da Dio senza alcun rapporto con la condotta di chi la riceve. Secondo l'interpretazione luterana della lettera ai Romani, la giustificazione per la fede in Cristo implica la negazione di ogni valore salvifico delle buone opere (sola gratia, sola fide). A partire da questi principi, Lutero respinge tutte le mediazioni umane in quanto prive di valore davanti a Dio, perché l'unico mediatore è Cristo. Nessun uomo può arrogarsi il diritto di amministrare i doni divini né di interpretare la rivelazione, come se fosse al di sopra della grazia o della parola di Dio. Con energia, Lutero rifiuta tutto quanto si frapponga tra il credente e Gesù Cristo, l'unico che lo può salvare (solus Christus o solo Christo). Tuttavia, Cristo non lo vediamo. La sua presenza oggi si trova nella parola di Dio, contenuta nella Bibbia. Ogni fedele dunque può accedere a Cristo tramite la lettura individuale della Scrittura. Così, dal principio della sola gratia segue quello della sola Scriptura — comune a Lutero, Calvino e Zwingli —, che consiste nel rifiuto di ogni autorità diversa da quella del testo stesso. Per i riformatori protestanti, la Scrittura non è l'autorità suprema, ma l'unica; il criterio esclusivo della fede. Non c'è spazio né per la tradizione né per il magistero della Chiesa. Con un'espressione celebre, Lutero 1.

Su questi e altri autori, cf. Perrella, Introduzione generale, 144-145 (n. 135). Sull'opinione del cardinale Gaetano e il suo influsso a Trento, cf. J. Wicks, «Catholic Old Testament Interpretation in the Reformation and Early Confessional Eras» in M. Sæbø (ed.), Hebrew Bible / Old Testament: The History of Its Interpretation, II: From the Renaissance to the Enlightenment, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2008, 617-648.

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dichiara che la Scrittura non ha bisogno di interpreti, ma deve essere “interprete di se stessa”: È infatti necessario che la Scrittura, come giudice, emetta qui sentenza, il che non può succedere se non diamo alla Scrittura il posto principale in tutte le cose che si attribuiscono ai Padri, cioè che sia essa per se certissima, facilissima, apertissima, interprete di se stessa, che dimostra tutto di tutto, che giudica e che illumina1.

Il principio della sola Scriptura esige per forza che si trovi nella stessa Scrittura un nucleo dottrinale che consenta di giudicare il resto degli insegnamenti biblici, e adempia così il ruolo dell'autorità esterna rifiutata. Lutero individua tale criterio in Gesù Cristo, in quanto egli salva per la fede. Esiste un centro della Scrittura: Gesù crocifisso e risorto. Egli è la norma, il “canone”. La ricerca di un nucleo della Scrittura che abbia più autorità del resto, offrendone la chiave interpretativa, ha delle conseguenze sulla determinazione del canone biblico. Lutero afferma che la vera sostanza e midollo di tutti i libri biblici si trova nel vangelo di Giovanni e nella sua prima epistola, nelle lettere paoline — specialmente Romani, Galati ed Efesini —, e nella 1 Pietro2. Invece, altri libri del NT, come Ebrei, Apocalisse, Giacomo e Giuda, sono di seconda categoria. Nella prefazione alle epistole di Giacomo e Giuda, per la sua traduzione in tedesco, Lutero si esprime con chiarezza: In ciò concordano tutti i veri libri sacri, che sempre predicano e insegnano Cristo. Questa è anche la vera pietra di paragone per valutare tutti i libri: vedere se essi insegnano Cristo o no, giacché tutta la Scrittura mostra Cristo (Rm 3), e S. Paolo non vuol sapere di altro che di Cristo, cfr. 1 Cor 2(2). Ciò che non insegna Cristo non è apostolico, anche se lo dicessero S. Pietro o S. Paolo. Al contrario, ciò che predica Cristo, è apostolico, anche se lo facessero Giuda, Anna, Pilato e Erode. Ma questo Giacomo non fa altro che insistere sulla legge e sulle opere3.

La lettera di Giacomo non può essere apostolica — sostiene Lutero — perché non insegna Cristo. Il criterio di canonicità non dipende dall'autorità della Chiesa, né dall'uso liturgico, né dalla tradizione apostolica, ma dal contenuto del testo, interpre-

1. 2. 3.

Traduzione mia. Testo originale latino in Assertio omnium articulorum M. Lutheri per Bullam Leonis X novissimam damnatorum [1520], WA 7, 97; cf. 7, 99. Cf. Das Neue Testament [1522], Vorrede, WA DB 6,10. Traduzione presa da M. Lutero, Prefazioni alla Bibbia: a cura e con un saggio di Marco Vannini, Marietti, Genova 1987, 178-179. Testo originale tedesco in Das Neue Testament [1522]. Vorrede auf die Episteln Sanct Iacobi und Judas, WA DB 7, 384-387.

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tato secondo il principio della giustificazione in Cristo per la sola fede. Alla fin fine, l'autorità viene trasferita all'interprete individuale. * Questa gerarchizzazione dei libri ha delle conseguenze sul canone biblico e, più radicalmente, sull'unità di tutta la Bibbia. Quando la Scrittura viene separata dalla tradizione della Chiesa, si finisce, dopo un processo più o meno lungo e articolato, ma inevitabile, per distruggere l'unità della Scrittura stessa1. Alcuni secoli dopo Lutero, il problema apparirà a proposito del valore dell'AT. Alla fine del Settecento, J. S. Semler (†1791) rifiuterà i “grossolani pregiudizi giudaici” di gran parte dell'AT e proporrà di farne un estratto2. Non stupisce che, più tardi, il protestantesimo liberale arrivi a richiedere che si prescinda completamente dell'AT, come esigenza dell'evoluzione dello spirito cristiano. Lo ha affermato nettamente Adolf von Harnack (1851-1930): La tesi che verrà argomentata in seguito suona così: rigettare l'Antico Testamento nel II secolo era un errore che la Grande Chiesa giustamente ha evitato. Conservarlo nel XVI secolo fu una fatalità a cui il Riformatore non è stato capace di sottrarsi. Ma continuare a conservarlo ancora nel XIX secolo come documento canonico nel Protestantesimo è la conseguenza di una paralisi religiosa ed ecclesiastica3.

Come avverrà in molti seguaci di Lutero, il principio della sola Scriptura porta a negare quello della tota Scriptura, e questo non solo nei riguardi dell'AT, ma anche del Nuovo. Lo stesso Harnack è stato il primo autore a richiamare l'attenzione sul cattolicesimo primitivo presente in molti testi del NT. La stessa constatazione riappare in Rudolph Bultmann (1884-1976). Rendersene conto portò ad alcuni luterani, come Max Thurian e Heinrich Schlier, a entrare nella Chiesa cattolica. Invece, un discepolo di Bultmann, Ernst Käsemann, propose esplicitamente, seguendo un'idea di Schleier-

1.

2. 3.

Per ciò che segue, cf. P. O'Callaghan, «Sola Scriptura o tota Scriptura?: Una riflessione sul principio formale della teologia protestante» in M. Tábet (ed.), La Sacra Scrittura anima della teologia. Atti del IV Simposio Internazionale della Facoltà di Teologia, Pontificia Università della Santa Croce, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, 147-168, 155ss.; più ampiamente, cf. i capitoli 14 e 15 di Mannucci - Mazzinghi, Bibbia. Cf. C. Theobald, «Sens de l’Écriture. Le sens de l’Écriture du XVIIIe siècle au XXe siècle», DBS XII (1992) 470-514, 476. A. von Harnack, Marcione: il Vangelo del Dio straniero: una monografia sulla storia dei fondamenti della Chiesa cattolica, Marietti 1820, Genova 2007, 315 (corsivo nell'originale). Per un commento circa l'opinione di Harnack sull'AT, si consiglia la presentazione del Card. Ratzinger a: Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico. Cf. anche Grelot, Sens chrétien, 75-77.

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macher, la necessità di determinare un “canone dentro il canone” per rimanere fedeli al luteranesimo. Attorno a questo problema della possibilità e legittimità di stabilire un canone dentro il canone gira una parte del dibattito odierno sul canone biblico. Oppure, detto con altre parole, nelle attuali discussioni relative al canone, un punto importante riguarda l'unità del NT e la possibilità di distinguere in esso diverse tradizioni, che secondo alcuni sarebbero incompatibili fra di loro e giustificherebbero la divisione attuale dei cristiani. Infatti, secondo Käsemann, il NT non è il fondamento dell'unità della Chiesa, ma al contrario: la molteplicità di confessioni cristiani nasce dallo stesso NT. Per lui, all'interno del NT ci sarebbe un proto-cattolicesimo, rappresentato da Luca-Atti, dalla 2 Pietro e soprattutto dalle lettere pastorali, un proto-protestantesimo (Romani, Galati) e anche una proto-ortodossia (scritti giovannei). 19.2. Il canone biblico fra i protestanti Nella sua traduzione del NT in tedesco, Lutero ha messo Ebrei, Giacomo, Giuda e Apocalisse in appendice. La scarsa considerazione di Lutero per questi quattro libri si spiega per l'idea luterana della centralità della fede in Cristo, di cui abbiamo parlato sopra. In questo punto, però, l'opinione di Lutero non ha avuto alcun successo: tutte le Bibbie protestanti presentano i ventisette libri del NT nell'ordine abituale1. Per quanto riguarda l'AT, Lutero ha separato alcuni libri, mettendoli in un’appendice sotto il titolo di “apocrifi”. Secondo lui questi libri non sono ispirati, ma risultano utili per l'edificazione. Nell'indice degli apocrifi menziona Tobia, Giuditta, 1 e 2 Mac, Sapienza, Siracide e Baruc (con la lettera di Geremia), più le parti greche di Daniele e di Ester. Invece include nei testi anche la Preghiera di Manasse, curiosamente mancante nell'indice. Tutte le confessioni protestanti hanno seguito Lutero in questa scelta, o lasciando tali libri in appendice sotto il titolo di “apocrifi” (la decisione più frequente), o escludendoli totalmente dalle loro Bibbie. La domanda da porsi è perché Lutero e gli altri riformatori hanno negato la canonicità e dunque l'ispirazione di quei libri e di quelle parti dell'AT. Non è possibile addurre il principio della giustificazione per la fede in Cristo senza le opere della legge, che serviva a declassare Ebrei, Giacomo, Giuda e l’Apocalisse, perché allora i libri veterotestamentari da escludere sarebbero tutti!

1.

Sull'influsso — diretto o indiretto — di Lutero in tutte le edizioni moderne della Bibbia, cf. W. Walden, «Luther: The One Who Shaped the Canon», Restoration Quarterly 49 (2007) 1-10.

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Senza entrare a distinguere le motivazioni di ogni riformatore, quei libri e quei frammenti hanno in comune il fatto che non fanno parte della BH. L'argomento quindi invocato (almeno implicitamente) dai protestanti, presente già in san Girolamo (cf. pp. 177-180), si può sintetizzare così: visto che la Chiesa ha ricevuto l'AT da Israele, si deve adattare al canone in vigore fra gli ebrei. Prima di spiegare i problemi di questa argomentazione, bisogna conoscere la risposta della Chiesa Cattolica ai riformatori per quanto riguarda il canone, fornita dal Concilio di Trento. E per capire sia il successo della posizione di Lutero sui libri dell'AT che la risposta di Trento, occorrerà fare un salto indietro di undici secoli, per conoscere la particolare opinione di san Girolamo riguardo al canone. 19.3. Il canone biblico nel Concilio di Trento (1546) Nella quarta sessione del Concilio di Trento, l'8 aprile 1546, i Padri conciliari approvarono due decreti sulla Bibbia. Il primo di essi (citato più di una volta dalla Dei Verbum) parla delle scritture canoniche e ne offre l'elenco1. 19.3.1. La lista Nella parte sul canone, il decreto presenta la lista dei libri con queste parole: Per evitare dubbi circa i libri riconosciuti da questo concilio, esso ha creduto opportuno aggiungerne l'elenco a questo decreto (EB 57).

Poi segue l'enumerazione dei libri. Riporto il testo nell'originale latino, facile da capire: Sunt vero infrascripti. Testamenti veteris: quinque Moisis, id est, Genesis, Exodus, Leviticus, Numeri, Deuteronomium; Iosuæ, Iudicum, Ruth, quatuor Regum, duo Paralipomenon, Esdræ primus et secundus, qui dicitur Nehemias, Tobias, Iudith, 1.

Sulla definizione tridentina del canone biblico, cf. Perrella, Introduzione generale, 159-163 (nn. 146-152); per maggiori dettagli cf. A. Maichle, Der Kanon der biblischen Bücher und das Konzil von Trient: eine Quellenmässige Darstellung, Herder, Freiburg 1929; P. G. Duncker, «De singulis S. Scripturae libris controversis in Concilio Tridentino» in A. Metzinger (ed.), Miscellanea biblica et orientalia Athanasio Miller completis LXX annis oblata, Herder, Romae 1951, 66-93; Idem, «The Canon of the Old Testament at the Council of Trent», Catholic Biblical Quarterly 15 (1953) 277-299; Bedouelle, «Le canon». Gli atti del concilio ed altri documenti si possono consultare nella edizione detta “goerresiana”: Concilium Tridentinum: diarorum, actorum, epistularum, tractatuum nova collectio, edidit Societas Goerresiana promovendis inter Germanos Catholicos Litterarum Studiis, Friburgi Brisgoviae, Herder, 1901 e ss., rieditata a partire dal 1964. Di solito si indica con la sigla CT, a volte anche CTG.

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Esther, Iob, Psalterium davidicum centum quinquaginta psalmorum, Parabolæ, Ecclesiastes, Canticum canticorum, Sapientia, Ecclesiasticus, Isaias, Ieremias cum Baruch, Ezechiel, Daniel, duodecim prophetæ minores, id est: Osea, Ioel, Amos, Abdias, Ionas, Michæas, Nahum, Habacuc, Sophonias, Aggæus, Zacharias, Malachias, duo Machabæorum, primus et secundus. Testamenti novi: quatuor evangelia, secundum Mathæum, Marcum, Lucam, et Ioannem; actus apostolorum a Luca evangelista conscripti; quatuordecim epistolæ Pauli apostoli, ad Romanos, duæ ad Corinthios, ad Galatas, ad Ephesios, ad Philippenses, ad Colossenses, duæ ad Thessalonicenses, duæ ad Timotheum, ad Titum, ad Philemonem, ad Hebræos; Petri apostoli duæ, Ioannis apostoli tres, Iacobi apostoli una, Iudæ apostoli una, et apocalypsis Ioannis apostoli (EB 58-59).

Prima di spiegare la portata di questo decreto, occorre fare due piccole osservazioni: 1) le Lamentazioni si suppongono incluse con Geremia. 2) l'intenzione dei Padri conciliari era dare l'elenco preciso dei libri, non definire chi ne sono gli autori. I riferimenti a Mosè o Davide sono modi per identificare di quali libri si sta parlando. Lo stesso vale per l'inclusione della lettera agli Ebrei fra gli scritti di san Paolo, e per gli altri nomi di autori che compaiono. In primo luogo, si deve segnalare che nel testo del decreto non si fa alcuna distinzione fra i libri, oltre a quella generale fra Antico e Nuovo Testamento. Si tratta di una omissione deliberata e quindi significativa. Dagli atti del Concilio, infatti, risulta che alcuni Padri conciliari avevano proposto di distinguere fra diverse classi di libri, perché consideravano che non godevano tutti di identica autorità. Pietro Bertano O.P., Vescovo di Fano, e Girolamo Seripando, Generale degli Eremiti di sant'Agostino e teologo di sostanza, volevano che si distinguesse fra due tipi di libri, seguendo san Girolamo: da una parte i libri “autentici e canonici”, dai quali dipende la fede e, dall'altra, i libri “soltanto canonici”, utili per insegnare e leggere1. Come si vede, fra i cattolici si discuteva ancora sui contorni precisi del canone. I Padri conciliari rifiutarono questa proposta e altre simili. Più ancora, aggiunsero all'inizio del decreto una frase che dice che il Concilio accoglie e venera tutti i libri pari pietatis affectu ac reverentia, “con uguale pietà e venerazione” (EB 57).

1.

“Alios esse libros qui ut authentici et canonici et est a quibus fides nostra dependeat, alii ut canonici tantum quique ad docendum idonei et ad legendum in ecclesiis utiles sunt” CT V, p.7, l.11-14, citato da Idem, «Le canon», 264-265.

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19.3.2. L'anatema Dopo aver elencato i libri, il decreto tridentino aggiunge una condanna o anatema: Se qualcuno poi non accetterà come sacri e canonici questi libri, nella loro integrità e con tutte le loro parti, come si è soliti leggerli nella chiesa cattolica e come si trovano nell'antica edizione della volgata latina e disprezzerà consapevolmente le predette tradizioni: sia anatema (EB 60)1.

Con questi termini, il canone biblico diventa oggetto di una definizione dogmatica. Per essere in comunione con la Chiesa, bisogna accettare tutti i libri elencati come sacri e canonici. Il testo parla dei “libri integri con tutte le loro parti”. Occorre spiegare a cosa si riferiscono queste parole. Grazie agli atti del concilio, sappiamo che i Padri hanno discusso su alcune “parti” del NT: il finale di Marco (Mc 16,9-20), l'angelo che conforta Gesù e il sudore di sangue (Lc 22,43-44) e l'episodio della donna adultera in Gv 7,53-8,11. Questi versetti suscitavano dubbi sulla loro canonicità, non per il loro contenuto, ma per motivi di critica testuale: sono assenti infatti in molti manoscritti antichi. I Padri conciliari non hanno voluto menzionare esplicitamente questi brani nel decreto, per non provocare confusione o scandalo fra i semplici fedeli. Ma è chiaro che si riferiscono ad essi2. Detto questo, conviene chiarire che la dichiarazione tridentina non vale a priori per tutti i passi su cui esistono dei dubbi, come Gv 5,4 (l'angelo che discendeva per agitare le acque della piscina di Betzatà), 1 Gv 5,7 (i tre testimoni in cielo) o il prologo del Siracide (si può discutere se faccia parte del libro o meno, e dunque se sia ispirato). Trento vuole difendere l'integrità della Bibbia, ma poi bisogna studiare caso per caso per sapere se un determinato testo ne fa veramente parte. Per offrire un criterio sull'integrità di cui si parla, il testo parla dei libri “come si è soliti leggerli nella Chiesa cattolica e come si trovano nell'antica edizione della Volgata latina”. Commenta Perrella:

1. 2.

“Si quis autem libros ipsos integros cum omnibus suis partibus, prout in ecclesia catholica legi consueverunt et in veteri Vulgata Latina editione habentur, pro sacris et canonicis non susceperit, et traditiones prædictas sciens et prudens contempserit: anathema sit”. Inoltre, nelle discussioni si allude una sola volta ai frammenti greci di Daniele, respinti dai protestanti, mentre di Ester non si è parlato: cf. Duncker, «De singulis».

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le due frasi non vanno prese in senso disgiuntivo, quasi fossero due diversi criteri, ma congiuntivo. Ambedue infatti esprimono in forma concreta la medesima realtà, cioè la prassi della Chiesa, ossia l'uso che la Chiesa fa del tal libro (o brano)1.

In fondo, prendere come criterio la prassi della Chiesa (cioè l'uso universale dei libri) è un modo di riferirsi alla tradizione viva. Trento non vuole fare altro che proclamare la fede di tutti i tempi. L'unica vera novità del concilio — che non è poco — consiste nell'autorità solenne e definitiva con cui presenta il canone biblico. Infatti, se ci si chiede in base a quali criteri Trento arrivi a proporre la lista dei libri, il criterio fondamentale non è altro che la tradizione della Chiesa, espressa nella sua prassi (specialmente nella liturgia, ma non solo) e formulata dal suo magistero. Negli atti di Trento non si vede alcuna discussione di tipo storico o teologico, attorno alla canonicità di questo o quel libro. In effetti, non si trattava di risolvere un problema tecnico, proprio di specialisti, ma di chiarire un aspetto fondamentale della vita della Chiesa. Come capita sempre con le dichiarazioni del magistero, Trento non voleva innovare, non pretendeva cioè di definire il canone ex novo, ma di confermare la pratica abituale della Chiesa, per evitare dubbi. Per questo motivo, la lista è volutamente identica a quella proposta un secolo prima dal Concilio di Firenze (o, più precisamente, di Basilea-Ferrara-Firenze, 1438-1445), che a sua volta ripete dichiarazioni previe del Magistero2. A proposito di queste dichiarazioni magisteriali pre-tridentine, può sorgere una domanda abbastanza ragionevole circa il contesto del decreto tridentino sul canone. Come mai c'erano ancora dubbi all'interno della Chiesa circa la canonicità di alcuni libri, se un concilio ecumenico aveva già definito il canone? Il Concilio di Firenze aveva menzionato i libri biblici nella professione di fede, dentro il decreto di unione con i cosiddetti “giacobiti” (copti), perché questi avevano più libri (cf. EB 47). Tuttavia, questa professione di fede è stata fatta dopo la partenza dei greci che avevano preso parte al concilio. Perciò, alcuni mettevano in dubbio l'appartenenza del testo al concilio ecumenico. Inoltre, la definizione di Firenze non dice nulla su una possibile

1. 2.

Perrella, Introduzione generale, 161, n. 149. Secondo Bedouelle, il decreto fiorentino si ispira alla lista che appare in una lettera del papa Innocenzo I del 20 febbraio 405 (cf. EB 21): cf. Bedouelle, «Le canon», 262. Secondo Perrella, a Firenze confermarono la lista del Concilio III di Cartagine: cf. Perrella, Introduzione generale, 159 (n. 145). Secondo Beckwith, a Firenze si poggiarono sul decreto pseudo-gelasiano: R. T. Beckwith, The Old Testament Canon of the New Testament Church and its Background in Early Judaism, SPCK, London 1985, 13, n.7. La diversità di opinioni mostra che, probabilmente, non è chiaro da dove hanno presto la lista di libri.

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distinzione fra due classi di libri canonici. Ecco perché il canone di Firenze non era riuscito a cancellare tutti i dubbi fra i cattolici. 19.4. Conclusione: chi fissa il canone e perché? La diversità di opinioni all'interno della Chiesa su una questione così importante come quella del canone biblico può destare un po' di perplessità. Lo studio di questo processo fa emergere diverse domande di ordine storico e teologico. Senza pretese di esaurire il discorso, si possono segnalare alcuni punti fermi: • Come si è detto più volte, il cristianesimo non è una religione del libro, ma di una persona, Gesù Cristo. Perciò né l'ispirazione né il canone delle Scritture, pur essendo importanti, costituiscono l'oggetto centrale della nostra fede. I primi chiarimenti dottrinali e le prime definizioni dogmatiche si riferiscono alla persona di Gesù, Figlio di Dio, sia nei riguardi delle altre persone della Trinità (Concili di Nicea e di Costantinopoli) sia nella spiegazione dell'unione in Cristo delle due nature, umana e divina (Concili di Efeso e di Calcedonia). • Anche i dogmi più importanti della fede cristiana, come il mistero della Santissima Trinità o l'unione delle due nature di Cristo, sono stati oggetto di ardue e complesse discussioni, accanto alle quali le diverse opinioni sulla canonicità di alcuni libri rappresentano un problema molto minore. • Il lavoro della Chiesa nella determinazione del canone dell'AT non è cominciato dal nulla, ma da una tradizione abbastanza ferma. Nel percorso storico fatto fin qui, abbiamo sottolineato la diversità fra correnti, autori e comunità all'epoca di Gesù. Ma un fondo comune a tutti è innegabile. È vero che la Chiesa non ha ricevuto da Israele un canone di scritture definito e definitivo; ma tuttavia ha ricevuto alcune collezioni di scritti (la Torah e i Profeti) relativamente consolidate. I dubbi e le discussioni si riferiscono sempre ad alcuni libri specifici, non a tutti. • L'autorità suprema nella Chiesa è Gesù Cristo, in cui si compiono le Scritture, come abbiamo visto nella prima parte. Dunque, un criterio chiaro per rifiutare dei libri dipendeva dal discernere la sua incompatibilità con la figura e l'insegnamento di Gesù. Alcuni scritti infatti proponevano una figura di Dio o del Messia chiaramente incompatibile con l'opera e la missione di Gesù (ad esempio i Salmi di Salomone presentano un messianismo di tipo nazionalistico e violento). La posizione dei difensori del canone ebraico non si è imposta, il che manifesta che la Chiesa ha determinato il canone fidandosi più della propria tradizione viva, che di fattori esterni. Infatti, la Chiesa riconosce il canone grazie alla tradizione. Non

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è il Magistero che dichiara arbitrariamente ed estrinsecamente quali libri devono essere ritenuti sacri; al Magistero spetta il compito di chiarire ai fedeli quali sono i libri accettati dalla tradizione come ispirati. Il canone non è frutto di una decisione autoritaria, ma della vita stessa della Chiesa1. Allo stesso tempo, bisogna riconoscere che il Magistero ha la capacità di pronunciare “l'ultima parola” riguardo al canone, in due sensi: da una parte, le sue dichiarazioni sono più di semplici opinioni, perché godono di autorità apostolica e dell'assistenza dello Spirito Santo (variabile secondo la loro universalità e solennità), e sono quindi in grado di mettere fine ai dubbi e alle discussioni; d'altra parte si tratta anche di una “ultima parola” in quanto viene preceduta da un lungo processo in cui partecipa in certa misura tutta la Chiesa. In ultima battuta, ciò che si mette in gioco nella determinazione e nella fissazione del canone biblico in quanto tale, e ciò che ne garantisce in definitiva la stabilità è l'autorità ricevuta dagli apostoli presente nel Magistero della Chiesa. Ma allo stesso tempo il processo di formazione del canone lascia vedere che assieme all'elemento di autorità del magistero ecclesiale — che rispetto alla fissazione del canone appare esplicitamente soltanto alla fine del processo — esistono altri fattori come la comune accettazione, l'uso liturgico, il consenso delle chiese. Questi fattori palesano il coinvolgimento di tutta la Chiesa nella determinazione del canone2.

1.

2.

Nel percorso storico che abbiamo appena presentato, non è stato possibile parlare di un argomento molto bello e interessante: la testimonianza dei monumenti. Per esempio, è frequente trovare nelle catacombe e nei cimiteri cristiani dei primi secoli rappresentazioni della storia di Susanna (Dn 13) o di Tobia. Per saperne di più, cf. Perrella, Introduzione generale, 133-134 (n. 125). Aranda Pérez, «Il problema teologico del canone biblico», 31-32.

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Disse allora lo Spirito a Filippo: «Va' avanti e accòstati a quel carro». Filippo corse innanzi e, udito che leggeva il profeta Isaia, gli disse: «Capisci quello che stai leggendo?». Egli rispose: «E come potrei capire, se nessuno mi guida?». E invitò Filippo a salire e a sedere accanto a lui. Atti 8,29-31

Bibliografia di base (oltre alla Dei Verbum) BᴇNᴇᴅᴇᴛᴛᴏ XVI, Verbum Domini: Esortazione Apostolica Postsinodale sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa (30 settembre 2010), nn. 29-49. R. E. BRᴏᴡN - S. M. SᴄHNᴇIᴅᴇRS, «Hermeneutics» in NJBC, 1146-1165. V. MᴀNNᴜᴄᴄI - L. MᴀᴢᴢINGHI, Bibbia come Parola di Dio: Introduzione generale alla sacra Scrittura, Queriniana, Brescia 212016, parte quinta, capitoli 16, 17 e 19 (si può saltare il 18). PCB, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa (15 aprile 1993). Per approfondire: G. ARᴀNᴅᴀ, «Magisterio de la Iglesia e interpretación de la Escritura» in J. M. CᴀSᴄIᴀRᴏ ᴇᴛ ᴀᴌ. (a cura di), Biblia y hermenéutica, Eunsa, Pamplona 1986, 529-562. P. BᴇᴀᴜᴄHᴀᴍᴘ ᴇᴛ ᴀᴌ., Biblia y ciencia de la fe: edición, traducción e introducción de Carlos Granados, Agustín Giménez, Encuentro, Madrid 2007. J. GRᴏNᴅIN, Einführung in die philosophische Hermeneutik, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 22001. Esiste traduzione spagnola. J. RᴀᴛᴢINGᴇR, «Il rapporto fra Magistero della Chiesa ed esegesi. A cento anni dalla costituzione della Pontificia Commissione Biblica» in Atti della Giornata celebrativa per il 100° anniversario di fondazione della Pontificia Commissione Biblica, Libreria Editrice Vaticana, 2003, 50-61. Testo disponibile in vatican.va/roman_curia/ congregations/cfaith/pcb_documents.

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Una volta descritta la sacra Scrittura in rapporto alla rivelazione, come parola di Dio ispirata, e nella sua materialità (canone e testo), manca ancora il compito più importante, ma anche il più difficile: leggerla e comprendere cosa vuol dire. Questa parte del corso intende offrire alcuni principi e alcune riflessioni sull’interpretazione in genere e sull’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Come si deve comprendere la Bibbia? Che conseguenze ha il carattere ispirato dei testi sulla loro interpretazione? È la Scrittura un libro come tutti gli altri, in quanto oggetto dell'interpretazione? Con quali disposizioni ci si deve avvicinare al testo sacro? Bisogna essere credenti per comprendere correttamente i libri biblici? È giusto interpretare alcuni brani simbolicamente, come delle allegorie, o si deve prendere tutto letteralmente? E cosa vuol dire «letteralmente»? Insieme a queste domande fondamentali, altri argomenti dell'ermeneutica biblica sono i diversi metodi e approcci, la definizione e classificazione dei sensi della Scrittura (senso letterale e senso spirituale), l'importanza della tradizione e del magistero per l'interpretazione della Bibbia nella Chiesa e infine la storia dell'esegesi. Di tali argomenti si dovrebbe occupare questa parte. Tuttavia, il tempo disponibile non permette una presentazione sistematica e completa di tutti, ma solo di alcuni principi generali. Il professore si conforta, pensando che l'interpretazione della Scrittura si comprende davvero quando viene messa in pratica. Vi saranno occasioni di approfondimento nei corsi biblici previsti nel Baccellierato in Teologia. Il principio fondamentale nell’affrontare questa parte è, ancora una volta, l'analogia della Bibbia con il mistero del Verbo incarnato. La Scrittura è parola di Dio e dunque richiede un'interpretazione di tipo teologico. Ma i libri biblici sono opere letterarie, soggette alle limitazioni e ai condizionamenti culturali propri del linguaggio e della cultura del momento, e vanno compresi come tali. In questo senso, vale la pena tornare indietro e rileggere le parole di san Giovanni Paolo II, citate a p. 22, a proposito dell'analogia fra la Scrittura ed il mistero di Cristo, vero Dio e vero uomo. Infine, conviene segnalare che l'interpretazione della Scrittura ha molti collegamenti con problematiche attuali assai concrete. Basta pensare a tante interpretazioni di tipo letteralista da parte delle sette o gruppi affini, come i Testimoni di Jehova, o alle letture di tipo ideologico, come quelle ispirate al femminismo radicale o al materialismo.

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20. L'interpretazione di testi in genere 20.1. Che cosa è interpretare? Se cerchiamo “interpretare” in un lessico della lingua italiana, troveremo diverse accezioni. Ecco le quattro che presenta il Dizionario Garzanti: 1 rendere comprensibile e chiaro ciò che è o sembra oscuro: interpretare un testo, un documento, un'iscrizione; interpretare correttamente, arbitrariamente 2 dare una spiegazione, un significato a qualcosa: interpretare un comportamento, un fatto | intuire, cogliere il senso profondo di qualcosa: interpretare i desideri di qualcuno | (psicoan.) dare un'interpretazione: interpretare un sogno, un conflitto inconscio, un sintomo 3 sostenere una parte, un ruolo in un'opera teatrale o cinematografica: interpretare una commedia; interpretare Amleto, Ofelia | (mus.) eseguire: interpretare una sonata per pianoforte; interpretare Mozart, Bach 4 (dir.) accertare l'esatto significato delle norme giuridiche per applicarle ai casi concreti.

Dietro questa diversità di significati, si cela un’unità di fondo. In poche parole, interpretare è comprendere e comunicare. Infatti, in tutti i casi 'interpretare' implica comprendere qualcosa in profondità — un testo, un comportamento, uno spartito, una legge — fino al punto di poter spiegarla ad un altro o applicarla correttamente. Interpretare è assimilare una cosa “strana” fino a farla propria. In un certo senso, si può dire che l'interpretazione è presente in tutta l'esistenza umana, in quanto l'uomo è un essere spirituale, capace di conoscere se stesso e il mondo che lo circonda e che regola la propria attività secondo l’idea che ha di se e degli altri. Tuttavia si parla di interpretazione soprattutto in riferimento alla lettura e comprensione di testi scritti. Questo è il senso che interessa specialmente qui, perché la Scrittura è un insieme di testi o, più precisamente, una collezione di opere letterarie vincolate fra di loro. Per questo, sarà fondamentale precisare l'oggetto dell'interpretazione (nozione di testo) e quali sono i mezzi per portarla a termine (principi generali, metodi esegetici). Come abbiamo visto nella prima parte del corso, nella Chiesa la Scrittura è ricevuta come parola di Dio. Dunque, nei diversi testi cerchiamo che cosa Dio vuole comunicarci. Per questo, l'interpretazione della Bibbia deve tener conto sia dei principi dell'interpretazione di testi letterari, sia di quelli della comunicazione. Ricordiamo lo schema fondamentale della comunicazione:

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scrittore → messaggio ‖ messaggio → lettore Lo schema fa vedere che interpretare è compito del destinatario, che deve decifrare il messaggio inviatogli dal mittente. Nel momento della lettura di un testo — che è quando avviene la comunicazione — il lettore deve cercare di “ricostruire”, per così dire, ciò che ha voluto dire l'autore. Quando legge, il lettore crea di nuovo quella realtà, idea o sentimento che l'autore ha espresso con le parole. In termini semplificativi, possiamo dire che l'interpretazione di un testo consiste nel ricostruire ciò che l'autore ha voluto comunicare attraverso il testo. I diversi metodi esegetici intendono superare la distanza fra l'atto di scrittura e l'atto di lettura. Lo scopo dell'esegesi consiste nel fornire le condizioni affinché il significato che si ricostruisce nella lettura si avvicini a quello presente nell'emissione originale del messaggio. Tuttavia, si deve tener conto che, nel caso dei testi antichi, la nozione di “autore” e di “emissione originale” non è così semplice come può sembrare a prima vista. Ne riparleremo più avanti, a proposito della definizione di “testo” (cf. pp. 203-205). Inoltre, conviene tener sempre presente che, nonostante il rigore dei metodi esegetici, la trasparenza totale è irraggiungibile. L'interpretazione non può essere mai un'operazione completamente metodica e oggettiva, perché dietro ogni interpretazione c'è un interprete, un soggetto umano immerso in una cultura concreta, che occupa una posizione diversa da quella dell'autore del messaggio (che è anche un soggetto umano condizionato). Per questo, non può esistere un'interpretazione di un testo che possa considerarsi unica e definitiva, valida per tutti e per sempre sotto ogni aspetto, così come non può darsi mai una comprensione totale fra due persone umane. Ognuno di noi è un mistero anche per sé stesso. “Il comprendere (…) è l’incontro, la prossimità, l’affinità, la comunione con colui che parla, con la sua intenzionalità, il suo mondo, il suo messaggio. E il principio ermeneutico per eccellenza è l’amore”1. 20.2. Ermeneutica come ars interpretandi. Alcuni esempi di testi difficili L'ermeneutica come esercizio dell'interpretazione di testi esiste da sempre. Ma è nel XVII secolo che si comincia a usare la parola 'ermeneutica' per riferirsi alla nascente arte o tecnica per l'interpretazione dei testi, cioè allo sviluppo sistematico di regole per interpretare correttamente i testi2. Più precisamente, l'ermeneutica come 1. 2.

Mannucci - Mazzinghi, Bibbia, 389. Anche se il nome “ermeneutica” è moderno, i suoi principi erano già stati messi in luce nell'antichità, specialmente da sant'Agostino nel De doctrina christiana. In primo luogo egli consiglia al

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ars interpretandi nasce in due contesti ben determinati: quello giuridico e quello biblico. Infatti sia i testi legali che quelli biblici sono normativi, la loro interpretazione cioè ha delle conseguenze pratiche immediate. Dall'interpretazione di una legge dipende se una persona è ritenuta colpevole o innocente, se va in carcere o meno. Dall'interpretazione di un brano biblico può dipendere la fondatezza di una determinata dottrina o pratica cristiana, la distinzione fra una dottrina ortodossa ed una eretica, o la scelta di una forma di vita. Sullo sfondo della nascita di questa ars interpretandi si trova il principio luterano della sola Scriptura (vedi sopra, pp. 180-183). Lutero e gli altri riformatori avevano messo in crisi la fiducia nella tradizione, fino ad allora considerata il criterio fondamentale dell'interpretazione. Occorrevano dunque dei criteri oggettivi per determinare con precisione il significato dei testi normativi. Scopo principale dell'ars interpretandi è quello di aiutare l'interprete a risolvere i casi difficili. La difficoltà può provenire da diverse cause. Per offrire alcuni esempi, possiamo usare lo schema proposto da sant'Agostino (De doctrina christiana II,15), che divide i testi difficili in due gruppi: i passi oscuri (cioè che non si capiscono) e i passi ambigui, che si possono capire in diversi modi. Ecco un esempio di un passo biblico ambiguo: Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,1-3).

L'ambiguità del testo si riferisce ai destinatari. A chi si rivolge Gesù nel discorso della montagna? Soltanto ai discepoli? Possiamo tentare di rispondere con argomenti teologici, ma non ve n'è bisogno, perché, se si continua a leggere, il testo stesso elimina l'ambiguità: Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento (Mt 7,28).

È chiaro allora che Gesù non era salito sul monte per allontanarsi dalle folle e che ha parlato alla moltitudine sin dall'inizio. L'esempio aiuta a capire una delle regole fondamentali dell'interpretazione di qualsiasi testo: per risolvere una difficoltà di

lettore di avvicinarsi al testo con fede e umiltà (disposizioni soggettive); poi aggiunge diverse regole pratiche: per esempio, conoscere bene le lingue e le loro espressioni (competenza filologica), conoscere le realtà di cui parla il testo (erudizione, conoscenza delle cosiddette scienze ausiliari, come la storia, l'archeologia, la geografia, ecc.), comprendere i passi oscuri grazie a quelli più chiari, prima all'interno dello stesso libro, poi in tutta la Scrittura.

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comprensione, la prima istanza alla quale si deve ricorrere è il testo stesso (dei criteri per determinare che cosa è un testo parleremo a pp. 203-205). Vediamo adesso un esempio di un passo oscuro, di difficile comprensione. All’inizio della lettera ai Romani, dice san Paolo: In esso [nel vangelo] infatti si rivela la giustizia di Dio, da fede a fede (ἐκ πίστεως εἰς πίστιν), come sta scritto: «Il giusto per fede vivrà» (Rm 1,17, la citazione proviene da Ab 2,4).

Il testo non ha problemi di critica testuale né grammaticali. Ma cosa vuol dire “da fede a fede”? Dalla fede degli ebrei a quella dei gentili (cf. Rm 1,16)? Dalla fede di Abramo a quella del vangelo (interpretazione di Tertulliano)? Dalla fede del predicatore a quella degli ascoltatori (sant'Agostino)? Dalla fede del neofita a quella del credente maturo (Lutero)? Dalla fede di Dio alla fede dell'uomo (Karl Barth)? L'analisi della struttura retorica della lettera mostra che Rm 1,16-17 costituisce la propositio, cioè la tesi che si vuole difendere. All'epoca di Paolo, era abituale l'impiego di un linguaggio ellittico nell'enunciazione della propositio, con lo scopo di sollevare quesiti nel lettore. Possiamo quindi dire che in questo caso l'ambiguità è voluta e deve rimanere tale almeno in questo momento della lettura della lettera. Se vogliamo dedurre una regola da questo esempio, possiamo parlare della necessità di conoscere le convenzioni letterarie. Paolo conosceva le regole della retorica classica e, con una certa libertà, le seguiva. Lo sviluppo dell'argomentazione in Romani ne è un chiaro esempio. Di queste convenzioni e dei generi letterari parleremo a proposito di DV12 (pp. 202-203). 20.3. L'ermeneutica filosofica Per completare questa esposizione circa l’ermeneutica, adesso dobbiamo parlare della cosiddetta “ermeneutica filosofica”, anche se questo discorso si allontana dall'ambito strettamente biblico. L'ermeneutica filosofica è nata in Germania agli inizi dell'Ottocento, nel contesto del movimento romantico. Nel XIX secolo, che ha visto un grande sviluppo della filologia, nella cornice del razionalismo e del positivismo ereditati dall'Illuminismo, c'è stata anche una reazione all'oggettivismo delle scienze e al classicismo letterario. Questa reazione, conosciuta col nome di romanticismo, ha tentato di ricuperare il valore dell'individuo, delle emozioni, dei misteri, dell'ispira-

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zione artistica, delle leggende e tradizioni popolari, insomma di tutto ciò che non appartiene alla sfera del razionale, ridotto alla scienza fisico-matematica1. Dalla mentalità romantica nasce un rinnovamento dell'interesse verso il passato umano — che era stato disprezzato dal mito del progresso — che sta dietro allo sviluppo dell'archeologia e della storia nell'Ottocento. E dal romanticismo nasce pure l'ermeneutica filosofica. Infatti, uno dei rappresentati del romanticismo, F. Schleiermacher (1768-1834), pastore protestante e traduttore di Platone, è considerato il padre o fondatore dell'ermeneutica filosofica. Egli estende l'arte dell'ermeneutica a tutti i testi (cioè non solo a quelli difficili), perché cercava una scienza della comprensione in generale. Le idee di Schleiermacher sono state sviluppate da W. Dilthey (1833-1911). Ma l'ermeneutica filosofica si associa soprattutto al pensiero di un discepolo di Heidegger, H. G. Gadamer (1900-2002). Con lui giunge al culmine l'universalizzazione dell'ermeneutica progettata da Schleiermacher, in quanto essa non è più una tecnica normativa su come interpretare, ma diventa una riflessione filosofica su che cosa sia il comprendere, perché interpretare e comprendere non sono due operazioni diverse, ma una sola. Gadamer sottolinea l'implicazione del soggetto e del suo punto di vista in ogni atto interpretativo. Questo lo porta a riscoprire il valore della tradizione e a riconoscere l’inevitabile presenza dei pregiudizi. Ogni conoscenza umana — che è un’interpretazione — implica un interprete, il quale occupa una posizione non scelta da lui, anche se può assumerla coscientemente. Non esiste un punto zero su cui si possa fondare tutta la conoscenza, come voleva Cartesio (Descartes). Gadamer è molto critico rispetto alla modernità ed al suo ideale di oggettività scientifica. Una conseguenza del pensiero di Gadamer è che per capire meglio un testo conviene studiare come è stato compreso da altri, in altre epoche. Da Gadamer nasce la Wirkungsgeschichte o “storia degli effetti del testo”, che in ambito biblico ha portato ad una rivalorizzazione della storia dell'esegesi. È anche condivisibile sostenere che un’interpretazione non è mai definitiva, non perché la verità sia irraggiungibile, ma perché ogni generazione torna ai testi con nuove domande. D’altra parte, la filosofia di Gadamer ha come limite quello di lasciare poco spazio ai metodi, cioè alla possibilità di interpretare secondo regole oggettive. Non è poi 1.

Il Dizionario Garzanti definisce il “romanticismo” così: “complesso movimento culturale sorto in Germania alla fine del sec. XVIII e affermatosi poi in tutta Europa; contrapponendosi all'illuminismo in filosofia e al classicismo nel campo letterario e artistico, ripudiava tutto ciò che è schematico, astrattamente razionale, formale per esaltare la spontaneità e l'originalità della creazione individuale, la libera fantasia, il sentimento e le forze istintive della vita; nella sfera politica difendeva l'identità, le tradizioni e il patrimonio spirituale dei singoli popoli”.

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casuale che da lui provengano anche derivazioni meno positive, come il cosiddetto “pensiero debole” di Gianni Vattimo o le diverse forme di relativismo postmoderno. Al riguardo, vale la pena citare quanto affermava san Giovanni Paolo II nel n. 84 dell’enciclica Fides et Ratio (1998): La fede (…) presuppone con chiarezza che il linguaggio umano sia capace di esprimere in modo universale — anche se in termini analogici, ma non per questo meno significativi — la realtà divina e trascendente (cfr. Conc. Ecum. Lateranense IV, De errore abbatis Ioachim, II: DS 806). Se non fosse così, la parola di Dio, che è sempre parola divina in linguaggio umano, non sarebbe capace di esprimere nulla su Dio. L'interpretazione di questa Parola non può rimandarci soltanto da interpretazione a interpretazione, senza mai portarci ad attingere un'affermazione semplicemente vera; altrimenti non vi sarebbe rivelazione di Dio, ma soltanto l'espressione di concezioni umane su di Lui e su ciò che presumibilmente Egli pensa di noi.

20.4. La necessità di superare la distanza fra autore e lettore Conviene chiudere questa sezione con la presentazione di uno dei principi più illuminanti sviluppati dall’ermeneutica filosofica, quello della “distanza”. Per spiegarlo, l'etimologia della parola “ermeneutica” ci offre un buon punto di partenza. Nella mitologia greca, il dio Ermes o Ermete (Ἑρμῆς, in latino Mercurius) era il messaggero degli dei. Il suo compito era scendere sulla terra per far conoscere agli uomini mortali i desideri degli abitanti dell'Olimpo, specialmente la volontà di Zeus, suo padre. A quanto pare, dal nome proprio 'Ermes' proviene il sostantivo ἑρμηνεύς (hermêneus), che si applicava soprattutto a colui che faceva il lavoro di traduttore. Da ἑρμηνεύς nasce il verbo ἑρμηνεύω (hermêneuô), che in primo luogo vuol dire 'tradurre', ma assume anche il senso di 'esprimere', 'spiegare', 'interpretare'. Il verbo ἑρμηνεύω designa dunque l'atto di prendere una cosa che non si capisce e renderla comprensibile. Ciò accade in modo specialmente nitido nel caso di chi legge un testo scritto in una lingua che non conosce: è innegabile la necessità di un'interpretazione/traduzione. Ma i testi in una lingua sconosciuta non sono l'unico caso in cui occorre un'operazione ermeneutica. In realtà, non solo i testi difficili, ma tutti i messaggi hanno bisogno di essere interpretati, perché tutti hanno bisogno di essere compresi. Non è quindi casuale che in greco classico lo stesso verbo significhi sia 'tradurre' che 'interpretare'. La necessità di un lavoro interpretativo appare più evidente davanti ai testi oscuri, ma questo fatto non deve far dimenticare che l'operazione di interpretazione è presente in ogni atto di comprensione.

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Accanto a questo principio fondamentale dell'ermeneutica filosofica, possiamo enunziarne un altro che lo completa: quanto maggiore è la distanza fra l'autore ed il destinatario, tanto maggiore sarà la necessità di interpretazione. La distanza fra autore e destinatari può essere spaziale o temporale. Ma alla fine ciò che conta è soprattutto la distanza culturale. Ad esempio, ognuno di noi dovrebbe capire un segnale stradale come questo: Chi guida una macchina sa che questo cartello significa che la velocità massima consentita è di 60 chilometri all'ora. Non si può dire al poliziotto che il testo è ambiguo! Ma si deve notare che non si tratta di una comprensione senza presupposti. Siamo in grado di capire questo cartello, perché fa parte della nostra cultura guidare sulle strade, conoscere un certo sistema di misurazione della velocità (km/ h), sapere che la velocità è regolata dalla legge, e un lunghissimo eccetera. Un uomo di un'altra epoca o di un'altra cultura non può comprendere un cartello così complesso. La necessità di superare la distanza diventa ancora maggiore se il testo mi parla di realtà profonde, non banali, che di per sé sono difficili da comprendere. In un certo senso, il numero di note in calce che accompagnano un testo serve a misurare la distanza da percorrere affinché il messaggio arrivi correttamente al destinatario. Se oggi leggo un poema in lingua accadica scritto a Babilonia nel 1000 a.C., come è il caso dell’Enûma eliš, avrò bisogno di aiuto, nonostante lo legga in una versione italiana. E tale aiuto è necessario perché il testo fa riferimenti e supposizioni che mi risulteranno incomprensibili. Anche nel caso della sacra Scrittura, esiste una grande distanza culturale fra noi, lettori del ventunesimo secolo, e la mentalità e lo sfondo culturale propri degli scrittori biblici. C'è bisogno dunque di spiegazioni filologiche, storiche, geografiche, ecc., senza le quali molti brani biblici rimarrebbero oscuri. Proviamo a offrire un esempio di come la conoscenza del contesto culturale possa essere di aiuto nella comprensione della Scrittura. Nel salmo 89, il salmista rivolge a Dio queste parole: Tu domini l'orgoglio del mare, tu plachi le sue onde tempestose. Tu hai ferito e calpestato Raab, con braccio potente hai disperso i tuoi nemici. Tuoi sono i cieli, tua è la terra, tu hai fondato il mondo e quanto contiene (Sal 89,10-12).

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Possiamo citare ancora queste parole della seconda parte del libro di Isaia, che sono anch'esse una preghiera al Signore: Svégliati, svégliati, rivèstiti di forza, o braccio del Signore. Svégliati come nei giorni antichi, come tra le generazioni passate. Non sei tu che hai fatto a pezzi Raab, che hai trafitto il drago? Non sei tu che hai prosciugato il mare, le acque del grande abisso, e hai fatto delle profondità del mare una strada, perché vi passassero i redenti? (Is 51,9-10)

Per capire questi due testi, bisogna sapere che cosa è “Raab”. Dal salmo possiamo dedurre che Raab è un nemico di Dio. Dal testo di Isaia si ricava che Raab è un drago o qualcosa di simile. In entrambi i casi, si parla di una vittoria del Signore contro Raab, dopo un combattimento. Nel salmo si parla di ferire e calpestare, in Isaia di fare a pezzi e trafiggere. Nei miti mesopotamici sull'origine del mondo, Raab o Tiamat è il nome di un mostro marino (un drago) di genere femminile, personificazione del caos primordiale. Più specificamente, Raab rappresenta l'acqua salata, l'acqua del mare. Nel poema Enûma eliš, si racconta che Marduk, il dio di Babilonia, dopo una dura battaglia, riesce a sconfiggere questo mostro (che qui compare sotto il nome di Tiamat). Poi Marduk utilizza il cadavere di Tiamat per fare il mondo: con una metà fissa la volta celeste, mentre con l'altra costruisce la superficie della terra. Così, la terra e il cielo sono uno spazio in mezzo alle acque. Nella cultura mediorientale antica, le acque del mare sono sinonimo di oscurità, di caos e di morte. Nei testi biblici citati sopra (Sal 89,10-12; Is 51,9-10; cf. Gb 26,12), si dà per scontata una conoscenza di questo racconto mitico sull'origine del mondo, che viene applicato al Signore (come fra l'altro si fa anche in Gn 1 e Gb 38). È il Dio d’Israele e non Marduk colui che ha sconfitto il mare, ha messo ordine in mezzo al caos e ha portato la luce in mezzo alle tenebre. Prendendo in considerazione questo sfondo, si capiscono meglio un bel numero di testi biblici. Il diluvio universale (Gn 6-9) non è una semplice inondazione, ma un processo di distruzione esattamente inverso all'azione creatrice di Dio raccontata in Gn 1, che consiste nell’aprire uno spazio abitabile fra le acque di sopra e le acque di sotto.

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L'episodio del passaggio del mare (Es 14-15) come pure il brano evangelico della tempesta sedata (Mc 4,35-41 e par.) vanno compresi come manifestazioni della potenza divina sulle forze più ostili del mondo. Anche i riferimenti al Leviathan (Is 27,1; Sal 74,13-14; 104,26; Gb 3,8; 41,1) vanno capiti in questa cornice. Il Leviathan è un mostro marino, simile — se non identico — a Raab. In molti salmi si parla in parallelo delle acque e dei nemici (cf. Sal 18, Sal 46, Sal 65, ecc.). Possiamo anche ricordare la paura di fronte alle acque nella storia di Giona, che pur di fuggire Dio è disposto a salire su una nave (gli ebrei non sono mai stati marinai) e alla fine deve buttarsi in mare, dove viene inghiottito da un grande pesce. Cioè, a causa della sua disobbedienza a Dio, Giona sperimenta di persona il maggiore incubo di un israelita. Il racconto intende mostrare come la potenza del Signore arriva fino agli abissi del mare e alle creature che vi dimorano. L'enumerazione di testi biblici dove si riflette la cosmogonia mesopotamica potrebbe allungarsi quasi indefinitamente. Per finire possiamo ricordare che la teologia del battesimo cristiano tiene conto del significato negativo associato all'acqua. L'acqua non è soltanto simbolo della vita, ma anche della morte. Per questo san Paolo dice che nel battesimo siamo stati sepolti con Cristo (cf. Rm 6,4; Col 2,12). D'altra parte, la stessa tradizione che ci fa arrivare quei testi da un passato lontano ci aiuta, nonostante la distanza culturale, a comprenderli e perfino a vivere d'accordo con essi. Negli esempi proposti (Sal 89 e Is 51), il significato fondamentale dei versetti si può capire anche senza conoscere la mitologia babilonica, perché sappiamo chi è il Dio di cui si parla e conosciamo la sua superiorità sul creato. Svilupperemo questo punto a proposito della Chiesa come luogo originario dell'ermeneutica biblica.

21. L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa 21.1. La Chiesa come luogo originario dell'ermeneutica della Bibbia Il titolo di questo paragrafo proviene dall'Esortazione apostolica Verbum Domini (30 settembre 2010). Con questa espressione, “La Chiesa luogo originario dell'ermeneutica della Bibbia”, Benedetto XVI apre la sezione dedicata all'interpretazione biblica (nn. 29-49), dove ricorda il valore ermeneutico della Chiesa come contesto o “luogo” dove si porta a termine l'interpretazione della Scrittura. Pochi giorni dopo la sua elezione, nell'omelia della messa di insediamento sulla cattedra del Vescovo di Roma, lo stesso Papa aveva già espresso con chiarezza questa idea: Dove la Sacra Scrittura viene staccata dalla voce vivente della Chiesa, cade in preda alle dispute degli esperti. Certamente, tutto ciò che essi hanno da dirci è importante

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e prezioso; il lavoro dei sapienti ci è di notevole aiuto per poter comprendere quel processo vivente con cui è cresciuta la Scrittura e capire così la sua ricchezza storica. Ma la scienza da sola non può fornirci una interpretazione definitiva e vincolante; non è in grado di darci, nell'interpretazione, quella certezza con cui possiamo vivere e per cui possiamo anche morire. Per questo occorre un mandato più grande, che non può scaturire dalle sole capacità umane. Per questo occorre la voce della Chiesa viva, di quella Chiesa affidata a Pietro e al collegio degli apostoli fino alla fine dei tempi (Omelia nella Basilica di San Giovanni in Laterano, 7 maggio 2005).

In realtà, sottolineare come i testi vengono interpretati dentro la fede ecclesiale — “l'autentica ermeneutica della Bibbia non può che essere nella fede ecclesiale” (Verbum Domini n.29) — non è diverso dal prendere in considerazione il ruolo della tradizione apostolica nella formazione del deposito della rivelazione, che abbiamo studiato nella prima parte. Visto che nella prima parte del corso abbiamo spiegato l'interdipendenza fra Scrittura e tradizione (pp. 71-84), adesso possiamo concentrare l'attenzione sui principi offerti dalla Dei Verbum per l’interpretazione della parola di Dio scritta. 21.2. Principi per l'interpretazione (DV12) L'interpretazione della sacra Scrittura è un campo vastissimo. In ciò che segue ci limiteremo a segnalarne alcuni principi fondamentali, seguendo le indicazioni offerte da DV12, che comincia con queste parole: Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana (Cf. S. Agostino, De Civ. Dei, XVII, 6, 2: PL 41, 537; CSEL 40, 2,228.), l'interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole.

Questo paragrafo stabilisce il punto di partenza, che si collega con la comprensione della sacra Scrittura come parola di Dio espressa in parole umane e con la nozione di Dio come autore della Bibbia. Ne abbiamo parlato nella Parte I e ne riparleremo nelle pp. 227-246. Ora possiamo andare avanti e leggere i seguenti paragrafi di DV12. 21.2.1. I generi letterari e la nozione di testo Il secondo paragrafo di DV12 riprende ciò che aveva insegnato Pio XII circa la necessità per l'interprete di conoscere i generi letterari in vigore all'epoca di composizione dei testi:

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Per ricavare l'intenzione degli agiografi, si deve tener conto fra l'altro anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È necessario dunque che l'interprete ricerchi il senso che l'agiografo in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere ed ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che l'autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare vigenti ai tempi dell'agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora in uso nei rapporti umani.

Alcuni commentaristi hanno osservato che questo paragrafo di DV12 è incompleto, se lo si vuole prendere come enumerazione delle risorse esegetiche necessarie per comprendere il senso dei testi biblici. In effetti ne mancano molte, come la critica testuale, lo studio delle lingue o i metodi sincronici d'interpretazione1. Tale osservazione è sostanzialmente vera, pur sapendo che la Dei Verbum non intendeva offrire una descrizione esaustiva e perciò dice che si deve tener conto “fra l’altro” dei generi letterari. a) I generi letterari e i modi di esprimersi La Bibbia non è un testo uniforme e omogeneo, ma è composta da libri diversi, ognuno dei quali va interpretato secondo il proprio genere letterario: poetico, sapienziale, narrativo, legale. Anche all'interno di uno stesso libro possiamo trovare generi diversi. Più che una definizione o una classificazione dei generi letterari, in questo momento risulterà utile fornire qualche esempio per illustrarne il valore interpretativo. Un tipico caso sono le parole del salmo Miserere sui sacrifici: Tu non gradisci il sacrificio; se offro olocausti, tu non li accetti. Uno spirito contrito è sacrificio a Dio; un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi (Sal 51 [50], 18-19).

Il salmista esprime la convinzione che il sacrificio più gradito a Dio è quello interiore e per rafforzare tale messaggio usa termini antitetici. Siamo davanti a un testo poetico e la poesia non può essere giudicata con criteri strettamente logici. Perciò sa-

1.

Cf. M. A. Molina Palma, La interpretación de la Escritura en el Espíritu: estudio histórico y teológico de un principio hermenéutico de la Constitución «Dei Verbum» 12, Aldecoa, Burgos 1987, 209.

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rebbe un errore prendere queste parole come se fossero un’argomentazione teologica contro il valore propiziatorio dei sacrifici stipulati dalla Torah. Il principio dei generi letterari è importante anche in rapporto alle pretese di storicità di alcuni racconti. Infatti, nessun lettore competente pensa che il buon samaritano o il figlio prodigo siano personaggi storici, perché legge quei testi identificandoli come “parabole” e dunque come racconti d'invenzione. Se apriamo un libro che comincia con le parole “C'era una volta…”, pensiamo subito ad una fiaba o ad altro genere di racconto d'invenzione. Nello stesso senso, alcuni libri dell'AT offrono chiari segnali di non-storicità, come Tobia e Giuditta. Il paragone con la letteratura di altri popoli può gettare luce. Il libro di Giobbe, per esempio, segue un modello letterario di tipo sapienziale, quello del giusto sofferente, presente anche in Mesopotamia e in Egitto. Non pretende quindi di essere letto come un libro storico. Inoltre, occorre ricordare che, pur nella loro varietà, i libri biblici riflettono la mentalità propria dei popoli medio-orientali, appassionati e quindi amanti degli estremi e dell'esagerazione. La cultura del Vicino Oriente antico è molto lontana dalla sistematicità, precisione e freddezza di alcuni popoli europei. Quando ad esempio nella Bibbia si offrono delle cifre — gli anni di vita degli uomini, il numero di persone che uscirono dall'Egitto con Mosè, la quantità di soldati nemici, eccetera — spesso non si tratta di informazioni da prendere letteralmente. A volte i numeri hanno un valore simbolico, a volte sono soltanto delle risorse per aumentare l'intensità del racconto: Lo storico israelita usa volentieri artifìci e processi redazionali. Per esempio nella compilazione delle genealogie: quanto al contenuto, alle volte compendia tutto un periodo storico (Gen 10); quanto alla forma, alle volte omette nomi per ragioni di artificiosità e di simmetria (Gen 5; 11,10-32; Mt 1,1-17, ecc.). Usa numeri considerati come sacri con valore convenzionalmente approssimativo (per es. sette, quaranta, ecc.). Trascura spesso la cronologia. Riferisce discorsi altrui solo quanto alla sostanza e non testualmente; lo stesso metodo usa alle volte nel citare da altri libri1.

b) La nozione di testo applicata alla Scrittura Come complemento a DV12,2, possiamo aggiungere la nozione di “testo” così come è stata sviluppata e descritta dalla linguistica. L'oggetto dell'interpretazione biblica sono appunto dei testi. Una comprensione adeguata di cosa sia un testo offre un grande aiuto per superare la frammentazione a cui tende l’esegesi storico-critica2. 1. 2.

Perrella, Introduzione generale, 91 (§85). Per ciò che segue, mi baso su V. Balaguer, «La relevancia de la noción de texto en la hermenéutica

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La nozione di “testo” si può definire in modi diversi, secondo il punto di vista. A noi conviene ancora una volta tornare alla teoria della comunicazione. In questo ambito, “testo” è il risultato o prodotto di un atto di emissione di qualcuno che vuole comunicare qualcosa ad un altro per iscritto. Più sinteticamente, un testo è un “messaggio scritto”1. L'applicazione di questo concetto di “testo” non dipende dall'estensione materiale: la Divina Commedia e un segnale stradale, per esempio, sono entrambi dei testi, benché di natura, estensione e qualità molto diverse. L'unità di un testo dipende dall’identificazione di un inizio e di una fine e dalla coerenza interna, che manifestano l'atto pragmatico di comunicazione. Una serie di parole sconnesse scritte su un foglio non è un testo. Nel caso della Bibbia, come punto di partenza si può dire che ogni libro è un testo. Il libro di Isaia così come lo conosciamo è un testo, perché ha un inizio (il titolo), una fine ed è internamente coerente, benché esistano buoni motivi per pensare che il libro attuale sia il risultato di un lungo processo di composizione. La categoria di testo ammette diverse combinazioni. Per esempio, nella liturgia non si legge mai un libro completo, ma si prende un frammento (di un vangelo, per esempio) e lo si presenta come una unità. Dentro quel contesto pragmatico di comunicazione, che è la celebrazione liturgica, quel frammento diventa un testo. Un altro esempio è quello del libro dei Salmi. Al suo interno, ogni salmo può considerarsi come un testo. Ma l'insieme dei 150 salmi non è una raccolta “caotica”, bensì presenta segni di una struttura unitaria. Infatti, il salterio costituisce un esempio di ciò che alcuni chiamano un “macrotesto”, cioè, una raccolta organizzata di testi minori (come un epistolario o un’antologia). Anche il Pentateuco costituisce un macrotesto, costituito da cinque testi. In questi casi: La coerenza del testo va considerata entro una progressione in cui la fase posteriore assimila l'anteriore. Ogni testo cioè mantiene in genere autonomia e coesione interne, ma è poi compreso in una autonomia e in una coesione più vaste. Il rapporto proporzionale tra i due tipi di coesione può variare, a seconda che la struttura del macrotesto sia più o meno rigida2.

1. 2.

bíblica» in M. Tábet (ed.), La Sacra Scrittura anima della teologia. Atti del IV Simposio Internazionale della Facoltà di Teologia, Pontificia Università della Santa Croce, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, 248-260. Con maggiore precisione, un testo è un “discorso scritto”, dove “discorso” indica l'unità minima di comunicazione. Cf. de Aguiar e Silva, Teoria da Literatura, 561-574; Segre, Avviamento, 28-40 (testo) e 175-213 (discorso). Idem, Avviamento, 40-42.

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La categoria di macrotesto offre un modello di analisi utile non solo per alcuni libri biblici, come il Salterio, il Pentateuco o il libro dei Dodici profeti, ma anche per l'intera Bibbia, come collezione articolata di libri1. 21.2.2. Contenuto e unità di tutta la Scrittura L'ultimo paragrafo di DV12 completa il quadro, ricordando alcune caratteristiche dell’oggetto dell’interpretazione — la Scrittura ricevuta nella Chiesa come parola di Dio — che devono incidere nel lavoro esegetico. Perciò, dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell'analogia della fede.

Riappare la tradizione viva, all'interno della quale la Chiesa riceve la Scrittura, come abbiamo detto ripetute volte. Ma, come si vede dalla sintassi del paragrafo, appare in primo piano la necessità di badare al contenuto e all’unità della Scrittura, mentre la tradizione della Chiesa e l’analogia della fede appaiono nel trasfondo, come una sorta di precomprensione2. Cosa vuol dire badare al contenuto e unità di tutta la Scrittura? Il canone biblico cristiano non è una semplice accumulazione di materiale eterogeneo. Se ogni libro porta un proprio messaggio e come tale va interpretato, rispettando la sua singolarità, quel significato non sarà ancora propriamente biblico mentre non venga messo in rapporto con il messaggio degli altri libri biblici, soprattutto del NT. L'intero AT, a dire il vero, va compreso alla luce della piena rivelazione avvenuta in Cristo. Egli è il principio che conferisce unità alla Bibbia3. 1.

2. 3.

Cf. C. Jódar, «La relación Antiguo-Nuevo Testamento y la configuración de la Biblia como texto» in I. Carbajosa - L. Sánchez Navarro (eds.), Entrar en lo antiguo. Acerca de la relación entre Antiguo y Nuevo Testamento, Publicaciones de la Facultad de Teología "San Dámaso", Madrid 2007, 69-84. Cf. R. Bieringer, «Biblical Revelation and Exegetical Interpretation according to Dei Verbum 12» in L. Kenis - M. Lamberigts (eds.), Vatican II and its Legacy, Peeters, Leuven 2002, 25-58, 43; Balaguer, «La Dei Verbum», 298-299. In un primo approccio, la Bibbia cristiana gode di una certa unità culturale: i libri non ci sono arrivati isolati, trasmessi indipendentemente gli uni dagli altri. In questo senso, anche per chi si trova fuori dalla tradizione della Chiesa è ragionevole che l'interpretazione di un libro biblico prenda in considerazione il resto dei libri. Ma all'unità della Bibbia si arriva anche “dall’alto”, cioè, dall'autorità di Cristo, che ha detto che tutte le Scritture parlano di lui, e dalla vita della Chiesa, che ha riconosciuto quali libri fanno parte delle Scritture (canone).

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Nella Verbum Domini, dopo aver citato la frase di DV12 che dice di tener conto dell'unità della Scrittura, si aggiunge: “questo oggi si chiama esegesi canonica”. La Verbum Domini non dice di più, anche se nel n.39 torna a parlare dell'unità della Scrittura. In realtà, siccome la Bibbia è canone, qualsiasi esegesi “biblica” sarà per forza “canonica”. Ma in pratica questa equivalenza non sempre ha funzionato. Come abbiamo accennato a proposito della nozione di testo, l'esegesi storico-critica studia ogni libro separatamente e tende a frammentare i testi, nel tentativo di ritrovare le diverse tappe di composizione. Come reazione, alcuni esegeti hanno proposto di interpretare la Bibbia tenendo conto non solo dell’unità di ogni libro, ma anche dell’unità dei diversi libri dentro il canone. Il documento della PCB del 1993 sintetizza così la loro proposta: Partendo dalla constatazione che il metodo storico-critico incontra talvolta delle difficoltà a raggiungere, nelle sue conclusioni, il livello teologico, l'approccio “canonico” (…) intende portare proprio al compito teologico dell'interpretazione, partendo dalla cornice esplicita della fede: la Bibbia nel suo insieme. Per fare ciò interpreta ogni testo biblico alla luce del canone delle Scritture, cioè della Bibbia ricevuta come norma di fede da una comunità di credenti. Cerca di situare ogni testo all'interno dell'unico disegno di Dio, allo scopo di arrivare a un'attualizzazione della Scrittura per il nostro tempo1.

L'approccio canonico merita nell'insieme una valutazione positiva, in quanto tenta di dare rilevanza ermeneutica pratica alla realtà del canone. Questa è anche la visione che si ricava dal documento della PCB appena citato: L'approccio canonico reagisce giustamente contro la valorizzazione esagerata di ciò che si suppone essere originale e primitivo, come se solo questo fosse autentico. La Scrittura ispirata è quella che la Chiesa ha riconosciuta come regola della propria fede. Si può insistere, a questo proposito, o sulla forma finale in cui si trova attualmente ciascuno dei libri, o sull'insieme che essi costituiscono come canone. Un libro diventa biblico solo alla luce dell'intero canone2.

Tuttavia, dire che i testi biblici vanno interpretati tenendo conto dell'unità di tutta la Scrittura è un’affermazione semplice a livello teorico, ma difficile da tradurre in modo convincente nell'esegesi3. 1. 2. 3.

Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione, EB 1325-1326. Idem, L'interpretazione, EB 1329. Per una sintesi più dettagliata di alcune proposte di esegesi canonica, che mette in rilievo anche i loro aspetti problematici, cf. A. Giménez González, "Si el justo es Hijo de Dios, le socorrerá", Sab 2,18: acercamiento canónico a la filiación divina del justo perseguido en Sab 1-6, Verbo Divino,

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21.2.3. Analogia della fede DV12 indica di tener conto anche dell'analogia della fede, un’espressione di origine biblica (cf. Rm 12,6) che richiede un commento. Nell'uso del termine da parte del magistero, si riferisce alla connessione e armonia che esiste fra i diversi contenuti dottrinali della fede. Per “analogia della fede” intendiamo la coesione delle verità della fede tra loro e nella totalità del progetto della Rivelazione (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 114).

Il ruolo ermeneutico della analogia fidei corrisponde a quello svolto dalla “regola della fede” di cui hanno parlato sant'Ireneo, Origene, sant'Agostino e altri Padri della Chiesa. Nel dire “analogia”, si sottolinea il collegamento delle diverse verità trasmesse dagli apostoli. Nel dire “regola” si rimarca invece il nucleo normativo di questa tradizione, cioè le verità fondamentali, dalle quali dipendono le altre. Uno dei primi autori che hanno parlato di “analogia della fede” in tal senso è stato il beato John Henry Newman1. Più tardi, nell’enciclica Providentissimus Deus (1893), il papa Leone XIII prende questa nozione e la applica all'esegesi biblica. Nell'interpretazione dei passi biblici di cui il senso non è stato definito: (…) si deve seguire l'analogia della fede e attenersi, come a norma suprema, alla dottrina cattolica, quale la si riceve dall'autorità della chiesa. Essendo infatti lo stesso Dio autore dei sacri Libri come della dottrina, la cui depositaria è la chiesa, non è certamente possibile che provenga da legittima interpretazione il senso di un qualche passo scritturale che sia in qualche modo discordante dalla chiesa (EB 109)2.

È facile capire come l’analogia della fede funziona come criterio ermeneutico. Se l'interpretazione di un passo contraddice una verità di fede, è logico pensare che tale interpretazione sia sbagliata. Ma il principio opera anche in senso inverso. Può darsi

1.

2.

Estella 2009, 21-49 (Brevard S. Childs), 50-52 (Rolf Rendtorff) e 52-65 (James A. Sanders). In un discorso tenuto nel 1849 si esprimeva così: “Speaking of prophesying, or the exposition of what is latent in Divine truth, he [Paul] bids his brethren exercise the gift «according to the analogy or rule of faith»; that is, so that the doctrine preached may correspond and fit into what is already received. Thus, you see, it is a great evidence of truth, in the case of revealed teaching, that it is so consistent, that it so hangs together, that one thing springs out of another, that each part requires and is required by the rest”, J. H. Newman, Discourses Addressed to Mixed Congregations, Longmans, Green and Co., London 1892, 360-361 (“Discourse XVIII. On the Fitness of the Glories of Mary”). Questa è la prima volta che il magistero parla dell'analogia della fede. L'espressione riapparirà nel 1950 nell’enciclica Humani Generis (EB 612) e nel 1965 nella Dei Verbum.

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cioè che lo studio della Scrittura aiuti a precisare la formulazione di alcune verità di fede. Per esempio, l’esegesi biblica ha contribuito a chiarire che la dottrina del limbo non fa parte della rivelazione: cf. CTI, La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza Battesimo (19 aprile 2007). Infine è importante comprendere che le verità di fede non sono semplicemente delle proposizioni o affermazioni verbali, che si possono scrivere in un libro e così funzionano come guida per l'interpretazione. Le verità di fede (fides quae) sono inseparabili dalla loro assimilazione vitale da parte dei credenti (fides qua), che comincia con la ricezione del battesimo. 21.2.4. Il pericolo del dualismo Quando si legge completo il n. 12 della Dei Verbum, come abbiamo fatto, si vede che nell'interpretazione della Bibbia nella Chiesa si devono tenere insieme l'attenzione al testo — con tutti i metodi che aiutano a comprenderlo con profondità e rigore — e gli aspetti teologici: l’unità della Bibbia (il canone), la tradizione, il magistero e la fede (sia la fede come contenuto, sia come disposizione dell'interprete). Per percepire l'importanza della presentazione di DV12, può essere di aiuto parlare brevemente dell'ermeneutica “secolarizzata”, cioè dei presupposti che guidano un'approccio alla Bibbia che esclude a priori gli elementi teologici appena menzionati. Nella Verbum Domini, subito dopo aver ricordato i principi per l'interpretazione proposti da DV12, Benedetto XVI introduce un paragrafo col titolo “Il pericolo del dualismo e l'ermeneutica secolarizzata”, dove offre una sintesi di alcune idee che aveva esposto molte volte prima di diventare Papa. Propongo una citazione del numero 35. Il contesto è, come detto, un commento di DV12, che considera due livelli per l'interpretazione biblica, uno per così dire “umano” e altro di indole teologica, che non vanno separati né contrapposti, per evitare delle conseguenze negative: a) Innanzitutto, se l'attività esegetica si riduce solo al primo livello, allora la stessa Scrittura diviene un testo solo del passato: «Si possono trarre da esso conseguenze morali, si può imparare la storia, ma il Libro come tale parla solo del passato e l'esegesi non è più realmente teologica, ma diventa pura storiografia, storia della letteratura». [Benedetto XVI, Intervento nella XIV Congregazione Generale del Sinodo (14 ottobre 2008): Insegnamenti IV, 2 (2008), 493; cfr Propositio 26]. È chiaro che in una tale riduzione non si può in alcun modo comprendere l'evento della Rivelazione di Dio mediante la sua Parola che si trasmette a noi nella viva Tradizione e nella Scrittura.

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b) La mancanza di un'ermeneutica della fede nei confronti della Scrittura non si configura poi unicamente nei termini di un'assenza; al suo posto inevitabilmente subentra un'altra ermeneutica, un'ermeneutica secolarizzata, positivista, la cui chiave fondamentale è la convinzione che il Divino non appare nella storia umana. Secondo questa ermeneutica, quando sembra che vi sia un elemento divino, lo si deve spiegare in altro modo e ridurre tutto all'elemento umano. Di conseguenza, si propongono interpretazioni che negano la storicità degli elementi divini.

Torneremo a parlare del positivismo e dei problemi collegati con la storicità degli interventi divini nella storia a proposito della verità della Bibbia (cf. pp. 217-225). 21.3. Ruolo del Magistero nell'interpretazione (DV10 e 12) Come abbiamo visto (pp. 65-84), il secondo capitolo della Dei Verbum descrive la trasmissione della rivelazione divina. Nei nn. 7-9, la Scrittura appare all'interno della tradizione in senso ampio. Nel n. 10, si aggiunge un altro elemento, inseparabile dagli altri: il magistero vivo della Chiesa, ossia, i pastori in quanto esercitano la funzione di insegnare, come successori degli apostoli: L'ufficio poi d'interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o trasmessa, è affidato al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Il quale magistero però non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l'assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio. (DV10)

I pastori della Chiesa continuano la missione affidata da Gesù agli apostoli di proclamare e custodire la rivelazione divina. Essi non sono al di sopra della parola di Dio, ma al suo servizio, perché l’hanno ricevuta dagli apostoli e la devono custodire come un dono che non gli appartiene. Il magistero ascolta, custodisce ed espone la Scrittura come parte del deposito affidatogli. Per poter custodire il deposito ricevuto, il magistero della Chiesa rivendica per sé l'interpretazione del senso della Scrittura. Lo ha fatto il Concilio di Trento di fronte ai protestanti e lo ha ribadito il Vaticano I1. L'affermazione appare più chiara ancora nel testo appena citato della Dei Verbum, dove si aggiunge l'esclusività di questa funzione: l'interpretazione autentica della parola di Dio appartiene soltanto al magistero 1.

Cf. W. Brandmüller, «Die Lehre der Konzilien über die rechte Schriftinterpretation bis zum 1. Vaticanum», Annuarium Historiae Conciliorum 19 (1987) 13-61.

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ecclesiastico. È importante chiarire che la Dei Verbum non parla di interpretare “autenticamente” in contrapposizione a “erroneamente” o “falsamente”. In questo contesto, “autentico” significa “con l’autorità di Cristo” (cf. LG 25)1. Cioè, tutti i membri della Chiesa possono interpretare la Scrittura, ma soltanto alcuni hanno la funzione e la potestà di farlo in modo autorevole e normativo, un ministero per il quale godono dell'assistenza dello Spirito Santo. Se si percorre la storia dell’insegnamento dei Papi e dei concili ecumenici, si scopre che il magistero non ha quasi mai messo in atto questa potestà, nel senso di offrire l'interpretazione di un brano biblico specifico. Invece sono stati molto più frequenti l'esercizio indiretto — il ricorso a testi in appoggio di alcune verità di fede — oppure l’esercizio negativo — l'indicazione di errori nell'interpretazione di alcuni passi biblici, non per motivi esegetici, ma perché una determinata interpretazione contraddice la regola della fede2 —. Infatti, il magistero della Chiesa non è un esegeta né vuole esserlo. Più avanti, nel n. 12, la Dei Verbum distingue fra il lavoro dei biblisti e quello dei pastori: È compito degli esegeti contribuire, seguendo queste norme, alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della sacra Scrittura, affinché mediante i loro studi, in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della Chiesa. Quanto, infatti, è stato qui detto sul modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio (DV 12).

Quando il magistero si riferisce all'interpretazione biblica, lo fa nel contesto più ampio della custodia e proclamazione della dottrina cristiana, della parola di Dio in senso ampio, “scritta o trasmessa”, come dice DV10. Come spiega Dreyfus: Quando la Chiesa esercita la sua missione di dare l'interpretazione autentica di un testo biblico, la sua definizione non verte in primo luogo sul contenuto del messaggio dell'autore ispirato (l'intenzione dell'autore), ma sulla realtà riguardata dal testo3.

Lo stesso autore ne offre un esempio:

1. 2. 3.

Cf. S. Pié-Ninot, La teología fundamental: "dar razón de la esperanza" (1 Pe 3, 15), Secretariado Trinitario, Salamanca 2001, 608. Cf. M. Gilbert, «Textes bibliques dont l'Église a défini le sens» in J.-M. Poffet (ed.), L'autorité de l'Écriture, Cerf, Paris 2002, 71-94, 75-76. F. Dreyfus - F. Refoulé, Quale esegesi oggi nella Chiesa?, Edizioni san Lorenzo, Reggio Emilia 1993, 281.

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Quando il canone del concilio di Trento afferma che il sacramento dell'estrema unzione istituito da Gesù è stato promulgato da Giacomo, non afferma che l'autore della epistola avesse la chiara nozione della differenza tra l'ordine sacramentale propriamente detto (i sette sacramenti) e l'insieme delle attività sacramentali della Chiesa in ciò che più tardi saranno chiamati i «sacramentali». Quello che il concilio afferma è che la realtà di cui parla Giacomo è identica a quella che la Chiesa designerà sotto il nome di sacramento dell'estrema unzione1.

In momenti di crisi, si possono verificare tensioni fra il punto di vista accademico dell'esegeta e quello pastorale e dottrinale del magistero. Ma se ognuno rispetta il proprio ruolo, la tensione non dovrebbe diventare un vero conflitto. Al riguardo è significativo il discorso del cardinale Ratzinger in occasione del centenario della PCB (vedere sopra, bibliografia specifica). Si possono applicare anche qui le parole assai chiare della Donum veritatis sul rapporto fra il magistero e la teologia: Anche quando la collaborazione si svolge nelle condizioni migliori, non è escluso che nascano tra il teologo ed il Magistero delle tensioni. Il significato che a queste si conferisce e lo spirito con il quale le si affronta non sono indifferenti: se le tensioni non nascono da un sentimento di ostilità e di opposizione, possono rappresentare un fattore di dinamismo ed uno stimolo che sospinge il Magistero ed i teologi ad adempiere le loro rispettive funzioni praticando il dialogo. (Congregazione per la Dottrina della fede, Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo Donum veritatis, 24 maggio 1990, n. 25).

Se la tradizione si può paragonare a un fiume, allora possiamo dire che il magistero adempie la funzione degli argini. Ma è importante aggiungere che questi argini sono stati voluti da colui che ha dato inizio al fiume, Gesù Cristo. Cioè, tali argini non sono una imposizione artificiale, una limitazione estrinseca. Il magistero non legge le Scritture dall'esterno, come un governante dispotico o come un giudice che applica arbitrariamente le leggi, ma dall’interno, come un figlio che deve amministrare un tesoro affidatogli da suo padre. Breve excursus sulla portata dei decreti della PCB degli inizi del ventesimo secolo Fra il 1905 ed il 1939, la PCB diede una serie di risposte circa alcune questioni esegetiche, come l'autenticità mosaica del Pentateuco o l'autenticità paolina di Ebrei.

1.

Idem, Quale esegesi?, 282. Altri esempi di testi di cui il magistero ha definito il senso si possono vedere in Gilbert, «Textes bibliques», 78-91.

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Nel 1955, A. Miller e A. Kleinhans, rispettivamente segretario e sottosegretario della PCB, manifestarono che quei decreti ormai non erano da considerarsi vincolanti per gli esegeti cattolici, che potevano studiare con libertà i punti toccati da essi. Nel 1990, in un discorso ufficiale, il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ribadì questo punto, spiegando che i suddetti decreti hanno avuto una portata limitata nel tempo, perché il loro scopo era più pastorale, di prevenzione, che dottrinale1.

22. Bibbia e verità Bibliografia specifica C. BᴀSᴇᴠI, «Sacra Scrittura» in G. TᴀNᴢᴇᴌᴌᴀ-NIᴛᴛI - A. SᴛRᴜᴍÌᴀ (a cura di), Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede: Cultura scientifica, filosofia e teologia, Roma, Città Nuova, 2002. H. GᴀBᴇᴌ, «Inspiration und Wahrheit der Schrift (DV 11): neue Ansätze und Probleme im Kontext der gegenwärtigen wissenschaftlichen Diskussion» in L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Atti del Simposio promosso dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Roma, settembre 1999, Libreria Editrice Vaticana, Roma 2001, 64-84. A. GRIᴌᴌᴍᴇIᴇR, «The Divine Inspiration and the Interpretation of Sacred Scripture» in H. VᴏRGRIᴍᴌᴇR (ed.), Commentary on the Documents of Vatican II: Volumen 3, Burns & Oates, London 1968, 199-246, specialmente 227-237. 22.1. La verità per la nostra salvezza (DV11) «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6).

Quando si parla della verità che ci trasmette la Bibbia, conviene cominciare il discorso cercando di precisare di quale tipo di verità si tratta, perché “verità” è un concetto ampio e con diverse applicazioni. La verità della sacra Scrittura è innanzitutto la verità propria della parola del Signore, per la quale furono fatti i cieli e la terra (cf. Gn 1; Sal 33,6; Gdt 16,14); parola che nutre il popolo e i profeti (Dt 8,3; Ger 15,16), parola che, per contrasto con le promesse umane, rimane per sempre (cf. Is 40,8) e che quando scende sulla terra non può restare senza frutto (cf. Is 55,10-11), perché è

1.

Cf. discorso del card. Ratzinger nella presentazione dell’Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo, Donum veritatis (L'Osservatore Romano, 27-VI-1990, p. 6). Per una spiegazione più dettagliata, cf. J. L. Caballero, «Autobalance de una época: Las «respuestas» de la Pontificia Comisión Bíblica (1905-1939)», Anuario de Historia de la Iglesia 16 (2007) 77-88.

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viva ed efficace (Eb 4,12). “La mia parola non è forse come il fuoco (…) e come un martello che spacca la roccia?” (Ger 23,29)1. Perciò, quando si parla della verità della Bibbia, si deve pensare prima di tutto a Gesù Cristo, Parola eterna di Dio fattasi uomo (cf. Gv 1,1-18). Nel cenacolo, Gesù dice a Tommaso che egli è la via, la verità e la vita (cf. Gv 14,6). Poi dichiara davanti a Pilato che è venuto per rendere testimonianza alla verità (cf. Gv 18,37). Non si tratta dunque di una verità in primo luogo universale e astratta, come potrebbe essere quella propria di una scienza o di una dottrina politica, filosofica o teologica, ma della manifestazione di un Dio personale, che attraverso l'umanità di Cristo viene incontro all'uomo per portarlo alla comunione con sé. In quanto parlano di Cristo e in quanto Cristo parla attraverso di esse, le sacre Scritture contengono, esprimono e trasmettono la verità più profonda che si possa trovare in un libro. Nel secondo paragrafo di DV11 si offre una descrizione della verità contenuta nelle Scritture che ci offre un buon punto di partenza per spiegare questo argomento: Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture (Cf. S. Agostino, De Gen. ad litt., 2,9, 20: PL 34,270-271; CSEL 28, 1,46-47, e Epist. 82,3: PL 33,277: CSEL 34,2,354. - S. Tommaso, De Ver., q. 12, a. 2, C. - Conc. di Trento, decr. De canonicis Scripturis: Dz 1501. - Leone XIII, Encicl. Providentissimus Deus: EB 121, 124, 126-127 [Dz 3291ss]. - Pio XII, Encicl. Divino afflante: EB 539). Pertanto «ogni Scrittura divinamente ispirata è anche utile per insegnare, per convincere, per correggere, per educare alla giustizia, affinché l'uomo di Dio sia perfetto, addestrato ad ogni opera buona» (2 Tm 3,16-17).

I riferimenti fra parentesi ad alcuni autori — sant'Agostino, san Tommaso, Leone XIII e Pio XII — fanno capire che l'argomento della verità della Bibbia ha una lunga storia alle spalle, che purtroppo non abbiamo tempo di ripercorrere in queste pagine2. 1. 2.

Cf. R. Virgili, «Parola» in R. Penna - G. Perego - G. Ravasi (eds.), Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 955-962. Sul riferimento a san Tommaso, cf. G. Aranda Pérez, «Acerca de la verdad contenida en la Sagrada Escritura (Una «quaestio» de Santo Tomás citada por la Const. «Dei Verbum»)», Scripta Theologica 9 (1977) 393-424. Per una esposizione completa, cf. P. T. Gadenz, «Magisterial Teaching on the Inspiration and Truth of Scripture: Precedents and Prospects», Letter and Spirit 6 (2010) 67-91; C. Alves, Ispirazione e verità: genesi, sintesi e prospettive della dottrina sull'ispirazione biblica del Concilio Vaticano II (DV11), A. Armando, Roma 2012.

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Facendo una rapida sintesi, possiamo dire che la Chiesa ha sempre difeso con decisione la verità della Scrittura. Allo stesso tempo, la storia ha mostrato che questa proprietà si può intendere in diversi modi, non tutti ugualmente adeguati. Per difendere i racconti biblici dagli attacchi della critica razionalista, fra i cattolici prevaleva fino al Vaticano II la tendenza a parlare della “inerranza assoluta” della Bibbia, cioè della sua immunità da ogni tipo di errore, come conseguenza diretta e necessaria dell'ispirazione. In questo senso, alcuni ritenevano che perfino il più piccolo dettaglio affermato nella Scrittura godesse dell'autorità di una definizione dogmatica1. Oggi possiamo dire senza mezzi termini che questa posizione non è più sostenibile, non solo perché dipendeva dal contesto polemico in cui era nata, ma soprattutto perché non rispetta fino in fondo l'aspetto umano dei libri biblici, che non sono una esposizione sistematica delle verità di fede. “Infatti, non ogni pagina della Bibbia ha carattere assertivo, così da essere giudicabile su un’elementare alternativa di vero e di falso”2. Nel testo che abbiamo citato, la Dei Verbum segnala una strada diversa e più feconda per comprendere la verità contenuta nella Bibbia. In primo luogo, il Vaticano II ha cambiato la terminologia, passando dall'assenza di errori (inerranza) all'affermazione positiva della verità della Bibbia. E soprattutto ha aggiunto una descrizione della verità contenuta nelle sacre pagine che la collega con l’intenzione divina: è una verità voluta da Dio per la salvezza degli uomini. La citazione di 2 Tm 3 alla fine di DV11 aiuta a capire l'inseparabilità dell'ispirazione dalla finalità per la quale Dio ha voluto la Bibbia. Come si può facilmente intuire, un principio fondamentale per comprendere questo argomento è che la verità della Scrittura è analoga alla verità della rivelazione divina. Non a caso, la Dei Verbum prima descrive la rivelazione e poi parla della Scrittura e della sua ispirazione e verità. Come abbiamo detto nella prima parte, la rivelazione è storica e giunge alla sua pienezza in una persona, Gesù Cristo. Dunque, la verità che intende trasmettere la Bibbia non è da intendere in termini astratti e assoluti, come se fosse un trattato sistematico di teologia, costituito da enunciati logici indipendenti, ognuno dei quali esprimerebbe una verità atemporale3. Tanto meno si tratta 1.

2. 3.

“Some Catholic theologians such as Cardinal Lépicier have held that the minutest factual statement in the Bible is necessarily infallible and possesses the authority of a dogmatic pronouncement of the Church”, H. J. T. Johnson, «Leo XIII, Cardinal Newman and the Inerrancy of Scripture», Downside Review 69 (1951) 411-427, 421. Si riferisce al cardinale francese Alexis-HenriMarie Lépicier OSM (1863-1936). T. Citrini, «Canone e ispirazione» in R. Penna - G. Perego - G. Ravasi (eds.), Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 144-149, 149. Cf. F. Lambiasi, La Bibbia: introduzione generale, Piemme, Casale Monferrato 1991, 79; Farkasfalvy,

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di perfezione artistica o letteraria, come se i libri sacri fossero le pagine più belle mai scritte nella storia dell'umanità. Infatti ci sono autori biblici più dotati di altri; basti ricordare che nell'Apocalisse compaiono con frequenza errori di sintassi. Ciò che vuole sottolineare DV11 è che la verità propria della Bibbia risulta inseparabile dalla finalità con cui Dio l'ha ispirata: un punto già sottolineato da Origene e Agostino, cf. pp. 247-251. (È interessante ricordare che in DV7 si diceva del vangelo che è “la fonte di ogni verità salutare”). Per questa ragione, come spiega Farkasfalvy, l'ispirazione divina non implica che ogni brano o frase del testo biblico devono essere esenti da errore da ogni possibile punto di vista. Il grammatico, lo scienziato, lo psicologo, il filosofo, lo storico e altri possono segnalare un brano particolare che, se esaminato da un certo punto di vista limitato (…), può essere trovato difettoso. Ma un tale accertamento non dimostra che la parola di Dio affermi un errore. Piuttosto significa che il messaggio di Dio viene espresso, in un determinato punto della storia della salvezza, con le imperfezioni proprie dell'esistenza umana. Tuttavia, nella misura in cui serve sia allo scopo concreto dell'autore umano, sia allo scopo salvifico divino, ogni brano esprime la verità che deve esprimere secondo la volontà salvifica di Dio1.

Conviene aggiungere che l'articolata formulazione di DV11 va intesa in senso formale e non materiale. Non si devono cioè separare i contenuti della Bibbia, come se fossero veri soltanto quei testi che si riferiscono alla dottrina e alla morale. La verità che porta alla nostra salvezza appartiene alla Bibbia intera, non a pagine isolate. Quando si parla della verità per la nostra salvezza, non si intende distinguere fra diversi contenuti della Bibbia, come se alcuni fossero salvifici e altri no, o come se alcuni fossero veri e altri no, ma si vuole spiegare qual'è il punto di vista dal quale il messaggio dei testi va ritenuto vero.

1.

Inspiration & Interpretation, 222. Traduzione mia. “Therefore, divine inspiration does not imply that each passage and sentence of the biblical text must be found free of error from every conceivable point of view. The grammarian, the scientist, the psychologist, the philosopher, the historian, and others may point out a particular passage which, when examined from some limited point of view by some specialized endeavor of human learning, can be found faulty. But such a realization does not prove that God’s word asserts error. Rather, it only means that God’s message is expressed, at one or another point of salvation history, with the imperfections characteristic of human existence. Nevertheless, in the way it serves both the human author’s concretely defined purpose and its divine author’s salvific purpose, every passage expresses the truth which it is supposed to express according to God’s salvific will”, Idem, Inspiration & Interpretation, 232.

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Possiamo sintetizzare l'insegnamento della Chiesa sulla verità della sacra Scrittura nei seguenti quattro punti: 1) questa verità è una proprietà di ogni unità testuale, ossia non di frasi o versetti isolati, e soprattutto dell'insieme di Antico e Nuovo Testamento, la cui unità si poggia su Cristo, pienezza della verità. Come abbiamo visto in DV12, uno dei criteri per interpretare i testi biblici è tenere conto del contenuto e unità di tutta la Scrittura; la verità di ogni singolo libro va giudicata in relazione con l’insieme della rivelazione; 2) la sacra Scrittura, testimonianza della rivelazione, insegna come è Dio, come ha agito e come hanno risposto gli uomini. Tenendo conto del carattere progressivo della rivelazione e della condiscendenza di Dio, non è difficile parlare di verità della Bibbia in questo senso, sapendo che, come dice DV15, i libri dell'AT contengono “cose imperfette e caduche”; 3) è chiaro che la Bibbia non intende insegnare dottrine scientifiche, di fisica, biologia o astronomia, come è stato chiarito da Leone XIII con parole di sant'Agostino: lo Spirito Santo “non intendeva ammaestrare gli uomini su queste cose, che non hanno importanza alcuna per la salvezza eterna”1. La Scrittura non vuole farci sapere come vanno i cieli, ma come ci si va, scrisse Galileo2. Gli sforzi compiuti da alcuni per trovare un'armonia fra le descrizioni dei primi capitoli della Genesi e le scoperte scientifiche (ad esempio, nel libro La Bibbia aveva ragione di Werner Keller, famoso negli anni cinquanta e sessanta) sono quanto meno una perdita di tempo. Questi concordismi incorrono anche nel pericolo di creare dei falsi problemi per la fede, nei casi in cui una tale armonizzazione si riveli impossibile.

1.

2.

S. Agostino, De Gen. ad litt., 2,9,20; citato da Leone XIII nella Providentissimus Deus (EB 121). Entrambi testi sono menzionati da DV11. Il brano completo di Agostino dice: “sed quia de fide agitur scripturarum, propter illam causam, quam non semel commemoraui, ne quisquam eloquia diuina non intellegens, cum de his rebus tale aliquid uel inuenerit in libris nostris uel ex illis audierit, quod perceptis a se rationibus aduersari uideatur, nullo modo eis cetera utilia monentibus uel narrantibus uel praenuntiantibus credat, breuiter dicendum est de figura caeli hoc scisse auctores nostros, quod ueritas habet; sed spiritum dei, qui per eos loquebatur, noluisse ista docere homines nulli saluti profutura”. “Io qui direi che quello che intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, ciò è l'intenzione delle Spirito Santo essere d'insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo”, ︎Lettera a madama Cristina di Lorena granduchessa di Toscana (1615) in G. Galilei, Le opere, Barbera, Firenze 1895, 5:319. L’espressione “da persona ecclesiastica” è quasi certamente un riferimento al cardinale Cesare Baronio.

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4) il rapporto più complesso rimane quello fra la verità della Bibbia e la verità storica, del quale parleremo a continuazione. Infatti, il rapporto fra la verità della Bibbia e la verità propria della storia non si può risolvere con una semplice separazione degli ambiti, come nel caso delle scienze naturali. Siamo di fronte ad un problema più delicato. 22.2. Alcune osservazioni circa il rapporto fra la Bibbia e la verità storica Come abbiamo visto nella prima parte del corso, la rivelazione cristiana non è mitica, ma storica. Non si può separare il messaggio biblico dalla storia, perché Dio si è rivelato verbis gestisque, con parole e con opere, che si presentano in forma narrativa come storia della salvezza. Più concretamente, non è possibile presentare la dottrina di Gesù come se fosse indipendente dalla sua vita: “se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede” (1 Cor 15,14). Per questo la Chiesa afferma con decisione la storicità dei quattro vangeli (cf. DV19). Tuttavia, che la fede cristiana abbia un vincolo essenziale con alcuni avvenimenti storici non vuol dire che tutti i testi biblici siano ugualmente storici. Molte pagine bibliche non contengono alcun racconto, come i libri poetici e sapienziali. Inoltre, non tutti gli eventi menzionati nei libri biblici appartengono propriamente alla storia della salvezza. Alcuni apologeti cattolici, con l’intenzione di difendere la verità della Bibbia, cercarono di dimostrare l'esattezza di ogni dettaglio menzionato nei racconti biblici, perché molti degli attacchi dei razionalisti ottocenteschi contro la storicità dei racconti biblici partivano da una concezione positivistica della storia. Ma tale strada si è rivelata un vicolo cieco. In primo luogo, bisogna tener conto del fatto che la storicità dei testi è collegata alle proprie caratteristiche letterarie, come vedremo. Tuttavia, il problema della storicità va risolto ad un livello più profondo, cioè, con una riflessione filosofica sui modi e sui limiti della conoscenza umana del passato e con una riflessione teologica sul rapporto fra la storia ricostruibile e la storia della salvezza, tenendo conto dei punti essenziali della nostra fede. 22.2.1. A livello letterario All'inizio del corso, nella presentazione dell'elenco dei libri biblici, dicevamo che l'AT viene suddiviso in tre grandi gruppi: i libri storici, i libri poetico-sapienziali e i libri profetici. Tuttavia, quando si approfondisce la conoscenza dei testi, si scopre che i libri dell'AT chiamati genericamente “storici” lo sono in misura diversa dal punto di

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vista letterario. Si tratta di un tema collegato ai diversi generi letterari, di cui si parla in DV12. Per motivi di questo tipo, non è ragionevole difendere la storicità di libri come Giuditta o Tobia, che si comprendono meglio come storie esemplari. Lo stesso avviene con un libro profetico, quello di Giona. Forse sarebbe più preciso parlare genericamente di libri “narrativi” invece che storici. Vale la pena chiarire subito che comprendere un racconto come non-storico non significa che sia “falso”. La verità della Bibbia è molto più ampia della verità storica. Tener conto del genere letterario, per esempio, porta a leggere il libro di Giobbe come un libro sapienziale ed i salmi come preghiere, senza cercare di trovarvi direttamente informazioni di tipo storico. È vero che talvolta appaiono all'inizio dei salmi delle allusioni ad una situazione della vita del re Davide. Per esempio, in Sal 3,1 si legge: “Salmo. Di Davide. Quando fuggiva davanti al figlio Assalonne”. Tali riferimenti possono aiutare a percepire meglio la drammaticità espressa in un determinato salmo. Ma sarebbe fuorviante prendere tali salmi come se contenessero una narrazione storica della vita del re Davide o di altri personaggi. D'altra parte, possiamo trovare informazioni di valore storico in libri che non intendono raccontare la storia. Per esempio, il libro delle Lamentazioni e alcuni salmi riflettono le conseguenze della distruzione di Gerusalemme. Da altri salmi possiamo ricavare dati circa la liturgia nel Tempio, la figura del re d'Israele, i pellegrinaggi a Gerusalemme o semplicemente la struttura della preghiera in Israele. Infatti, la storicità non è riducibile ad una caratteristica formale o letteraria dei testi. La forma più adatta per parlare di avvenimenti storici è la narrazione. Ma si può scrivere la storia anche attraverso salmi o proverbi. Un problema collegato alla storicità è quello della categoria del “mito” e la sua applicabilità ad alcune pagine della Bibbia, specialmente ai primi capitoli della Genesi. Nella catechesi del 19 settembre 1979, san Giovanni Paolo II ha parlato del “primitivo carattere mitico” del racconto della creazione dell'uomo in Gn 2. Nella pubblicazione ufficiale in Insegnamenti II/2 (1979), 323-324, è stata inserita una lunga nota per spiegare le diverse accezioni del termine “mito”, per chiarire che non è sinonimo di falso, irreale o irrazionale. Riproduco una parte di questa nota, per percepire la complessità del termine: Se nel linguaggio del razionalismo del XIX secolo il termine «mito» indicava ciò che non si conteneva nella realtà, il prodotto di immaginazione [Wundt], o ciò che è irrazionale [Lévy-Bruhl], il secolo XX ha modificato la concezione del mito. L. Walk vede nel mito la filosofia naturale, primitiva e areligiosa; R. Otto lo considera strumento di conoscenza religiosa; per C. G. Jung invece il mito è manifestazione degli archetipi e l’espressione dell’«inconscio collettivo», simbolo dei processi interiori.

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M. Eliade scopre nel mito la struttura della realtà che è inaccessibile all’indagine razionale ed empirica: il mito infatti trasforma l’evento in categoria e rende capaci di percepire la realtà trascendente; non è soltanto simbolo dei processi interiori [come afferma Jung], ma un atto autonomo e creativo dello spirito umano, mediante il quale si attua la rivelazione [cf. Traité d’histoire des religiones, Paris 1949, p. 363; Images et symboles, Paris 1952, pp. 199-235]1.

22.2.2. A livello della ricostruzione storica verificabile Un problema più complesso nasce dal fatto che alcuni libri — che si presentano con pretese di storicità — contengono delle incoerenze fra di loro o rispetto ad altre fonti antiche. Vediamo alcuni esempi. Per quanto riguarda la conquista della terra promessa, esistono notevoli differenze fra la versione di Giosuè e quella dei Giudici. Nel racconto del periodo della monarchia, 1-2 Cronache segue 1-2 Re, ma introducendo modifiche a volte sostanziali, come accade quando si racconta la fine di Manasse (cf. 2 Re 21,1-18 e 2 Cr 33,1-20). Sulla morte di Antioco IV Epifane (cf. 1 Mac 6; 2 Mac 1,11-17; 9,1-29) vi sono racconti contrastanti. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Che dire davanti a questi problemi? In primo luogo, bisogna riconoscere che i tentativi di sottoporre i testi antichi ad una critica storica hanno interesse e valore anche per l'esegesi della Bibbia nella Chiesa (cf. Benedetto XVI, Verbum Domini, n. 32). Poi, quando si studia la Bibbia dal punto di vista della critica storica, conviene distinguere i problemi che riguardano la storicità del NT da quelli dell'AT, perché sono di natura diversa. Presento di seguito, in maniera sintetica e semplificata, la situazione di ciascun testamento. Nuovo Testamento. I libri del NT raccontano fatti accaduti in un tempo relativamente vicino alla composizione dei testi. Il confronto fra le diverse versioni della vita di Gesù e dei primi discepoli mostra differenze nei dettagli — per esempio, le due genealogie di Gesù non concordano (cf. Mt 1,1-17 e Lc 3,23-38) —, ma convergenza sui punti fondamentali. Inoltre, alcuni autori non cristiani, come Flavio Giuseppe o Tacito, alludono ad alcuni di questi fatti. Le scoperte archeologiche in genere confermano la verosimiglianza di molti racconti del NT. In sintesi, si può dire che se si sottomettono i racconti del NT ad un “test” di storicità secondo i criteri moderni, lo superano nella sostanza.

1.

La nota continua con riferimenti a P. Tillich, H. Schlier e P. Ricoeur. Il testo si può vedere su vatican.va oppure in Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò: catechesi sull'amore umano, Città nuova, Roma 1985, 36-37.

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Antico Testamento. Per quanto riguarda la storicità dell'AT, la situazione è assai diversa. I testi sono stati composti in un lungo periodo di tempo, a volte molti secoli dopo i fatti raccontati. Come detto, esistono importanti divergenze fra i racconti paralleli. Inoltre, gli studi archeologici, mentre hanno confermato alcuni punti dei racconti veterotestamentari, hanno messo in dubbio altri. Per esempio, “mentre Gs 6 descrive minuziosamente la presa di Gerico, con il miracoloso crollo delle sue imponenti mura, dagli scavi risultava che, al tempo dell'esodo, Gerico era una rovina, quindi disabitata da parecchi secoli”1. Detto in breve, se si sottomettessero i grandi racconti dell'AT — la storia dei patriarchi, l'esodo, la conquista della terra — ad un “test” moderno di verificabilità storica, non riuscirebbero a superarlo, in quanto non trovano conferma in altre fonti (documenti, iscrizioni, reperti archeologici e numismatici, e così via). Certamente, ciò non significa che non siano veri o che non abbiano alcun valore storico, ma semplicemente che la loro storicità non è dimostrabile secondo questi criteri. Bisogna distinguere bene i campi e le competenze, perché purtroppo oggi molti autori passano senza discernimento dalla non-verificabilità alla negazione di storicità. Ad esempio, non abbiamo tracce materiali della storia di Abramo, Isacco e Giacobbe. Alcuni concludono che questi patriarchi non siano nemmeno esistiti. Tale deduzione è quanto meno affrettata. Più saggio è dichiarare che si tratta di un problema aperto e cercare di approfondire il significato e il valore dei rispettivi racconti, come spiega l’archeologo Jacques Briend: La questione chiave è il motivo per cui la Bibbia raccoglie una tradizione patriarcale. Mettere in dubbio l'esistenza dei patriarchi offre poco interesse (…). La cosa più importante è scoprire che i patriarchi portano una promessa che continua a valere per tutta la storia del popolo, il che non è privo di significato. Solo la lettura del testo permette scoprire questa funzione e qui l'archeologia non è di aiuto2.

1. 2.

G. Deiana, Introduzione alla Sacra Scrittura alla luce della "Dei Verbum", Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2009, 47-48. Cf. F. Varo, Moisés y Elías hablan con Jesús: Pentateuco y libros históricos: de su composición a su recepción, Verbo Divino, Estella 2016, 83-103. “La question essentielle est de savoir pourquoi la Bible recueille une tradition patriarcale. Mettre en doute l'existence des patriarches offre peu d'intérêt ; en fait, nos auteurs sont enclins à y voir « des êtres vivants ». Mais le plus important est de découvrir que les patriarches sont porteurs d'une promesse qui continue à valoir, au long de l'histoire du peuple, ce qui n'est pas sans signification. Seule la lecture du texte permet de découvrir cette fonction et l'archéologie n'est ici d'aucun secours”, J. Briend, recensione di I. Finkelstein; N. A, Silberman, La Bible dévoilée: Les nouvelles révélations de l'archéologie, Esprit et Vie 67 (2002) 3-6.

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Ciò che Briend dice in riferimento ai patriarchi si potrebbe applicare a quasi tutti i racconti biblici. I racconti dell'AT ci offrono una spiegazione dell'origine di Israele e della sua fede in un unico Dio che va presa sul serio. Lo studio della storia non si può ridurre a verificare, ma deve anche tentare di spiegare i testi e le idee in essi contenute. Conviene evitare il pericolo di identificare vero e verificabile, come vedremo. 22.2.3. A livello filosofico: la conoscenza del passato A livello filosofico, la domanda da porsi è cosa vuol dire “storia” o, più concretamente, come si può conoscere il passato umano. Non possiamo offrire in queste pagine una risposta completa, ma faremo alcune osservazioni che aiutino a valutare i problemi che riguardano la storicità dei racconti biblici, specialmente di quelli veterotestamentari1. Per il nostro discorso, è utile cominciare con la distinzione fra storia “verificabile” e storia “vera”2. Nell'Ottocento e agli inizi del Novecento, si tendeva ad identificare queste nozioni. Cioè, si ritenevano veri soltanto i “fatti” che fossero verificabili. Secondo questa concezione della storia, che possiamo chiamare “positivistica”, lo studio degli avvenimenti del passato era visto come una scienza oggettiva e metodica, come la fisica o la matematica, ritenute il paradigma di ogni conoscenza umana. Lo storico dunque doveva fondare la sua ricostruzione dei fatti sull'evidenza empirica (documenti e monumenti), senza alcuno spazio per l'interpretazione soggettiva. Di conseguenza, ogni ricostruzione del passato che non corrispondesse a questi parametri di rigore veniva considerata come non-storica. Come conseguenza, la storia si riduce allo studio di eventi esterni e misurabili. Questa mentalità è ancora molto diffusa nella cultura odierna. Ma da un punto di vista filosofico oggi risulta chiaro che questo ideale empiristico o positivistico di scienza storica è profondamente sbagliato. I tentativi di scrivere la storia seguendo questo paradigma portarono a risultati non solo poveri — “una storia strettamente conforme ai postulati positivisti sarebbe fatta soprattutto di pagine bianche”3 —, ma 1.

2. 3.

Classico al riguardo è H.-I. Marrou, La conoscenza storica, Il mulino, Bologna 1966 (originale francese: 1955; tradotto in diverse lingue). Si può leggere con profitto V. Balaguer, «Paul Ricoeur, Premio Internacional Pablo VI de 2003: Una teoría de la Historia», Anuario de Historia de la Iglesia 13 (2004) 257-282. Per una panoramica delle teorie della storiografia nel ventesimo secolo, cf. G. G. Iggers, Geschichtswissenschaft im 20. Jahrhundert: ein kritischer Überblick im internationalen Zusammenhang, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 22007 (esistono traduzioni in diverse lingue). Cf. Grelot, La Bible, Parole de Dieu, 112-120. Marrou, La conoscenza storica, 133.

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anche meno solidi ed esatti di quanto si pretendeva. Ed è così perché, per sua propria natura, lo studio della storia non può essere una scienza esatta, semplicemente perché il suo oggetto — il passato umano — non è esatto. Infatti il passato umano non è costituito solo da “cose” fisiche, ma da esperienze personali, irriducibili alle loro manifestazioni esterne e misurabili. È evidente che molti avvenimenti non hanno lasciato documentazioni indelebili ed inequivocabili, ma solo deboli tracce, e dunque non sono per noi strettamente verificabili. Ma questo non deve portare a negare la loro realtà. Per esempio, la conversione di sant'Agostino non è un fatto esterno, ma a partire dalle sue conseguenze — non solo il racconto che ne fa nelle Confessioni, ma tutta la sua vita ed opera — possiamo dire che è stato uno degli avvenimenti più rilevanti nella storia della Chiesa antica. La non esattezza è parte essenziale della storia in genere — non solo di quella raccontata dalla Bibbia! —, perché quanto fanno gli uomini non è mai esatto. Un giorno della vita di Gesù si potrebbe raccontare con molti particolari: l'ora in cui si è alzato, che cosa ha preso per colazione, come era vestito, eccetera. Ma tale racconto sarebbe storicamente irrilevante, perché ci direbbe ben poco sulla portata delle azioni di Gesù. Invece, un racconto più teologico può essere senz'altro molto più vero, perché può rispecchiare meglio l’identità di Gesù1. Inoltre, nella conoscenza del passato non si può ignorare la posizione dello storico, che cerca di interpretare i dati secondo il proprio punto di vista. Come abbiamo detto parlando dell'ermeneutica filosofica, la conoscenza umana è sempre condizionata dai pregiudizi o preconcetti del soggetto che conosce. L'analisi dei documenti dipende dalle domande che si rivolgono loro, dagli interessi dello storico che li studia. Questo fatto pone dei limiti invalicabili alla pretesa di oggettività totale e di trasparenza completa. Riconoscere la propria posizione è una condizione essenziale per arrivare ad una ricostruzione del passato che sia credibile. Lo spirito critico, necessario nello studio dei testi antichi, non deve diventare diffidenza programmatica. Lo storico non dovrebbe partire da un pregiudizio che purtroppo è frequente: sospettare di tutto e tutti, cercare dietro ogni racconto qualche tipo di propaganda ideologica, che tenta di giustificare i privilegi di un gruppo sociale o politico. Senza un minimo di cortesia o meglio ancora di simpatia verso i testi (non solo quelli biblici), non si riesce a capirli in profondità2.

1. 2.

Cf. le riflessioni sulla storicità di Giovanni in J. Ratzinger - Benedetto XVI, Gesù di Nazaret: Dal Battesimo alla Trasfigurazione, Rizzoli, Milano 2007, 257-279 («La questione giovannea»), specialmente 266-275. Cf. Marrou, La conoscenza storica, 96-98; G. Steiner, Vere presenze, Garzanti, Milano 1992 135-219

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Il compito dello storico non si può limitare a ricostruire “ciò che è successo” (come se questo fosse semplice), ma consiste anche nel tentare di comprendere il passato, nel cercare le cause degli avvenimenti per offrire una sintesi intelligibile, il che di solito richiede di andare al di là di quanto si può strettamente dimostrare. Come affrontare dunque il problema della verità storica dell'AT? Possiamo dire che l’AT racconta in un modo fedele le linee essenziali di una storia, la storia della salvezza. Ma nella maggioranza dei casi tale storia non è raccontata in maniera verificabile. La non verificabilità di alcuni racconti storici dell'AT dipende in parte da motivi fortuiti (l'assenza di documenti e monumenti indipendenti che li confermino), ma anche da una causa più profonda: l'agire di Dio e l'esperienza che ne hanno gli uomini di per sé non possono essere verificati scientificamente. Benché possa sembrare ovvio, è importante ricordare che per studiare la storia biblica ci vuole un minimo di sensibilità religiosa e di apertura ai valori spirituali. Pretendere il contrario in nome della scienza sarebbe come voler studiare la storia dell'arte senza sensibilità estetica1. Per parlare di “storia della salvezza” dobbiamo però passare dal campo filosofico a quello teologico. La storia della salvezza non può essere interpretata soltanto secondo i criteri moderni della ricostruzione della storia. Bisogna aprirsi anche a cogliere il senso degli interventi di Dio nella storia di Israele. 22.2.4. A livello teologico: storia della salvezza e gerarchia delle verità di fede Per affrontare i rapporti fra Bibbia e verità storica si deve tener conto in primo luogo di un criterio che, in certa misura, è “esterno” ai testi, quello della gerarchia delle verità di fede, che conosciamo — attraverso la tradizione della Chiesa — prima di leggere e analizzare i testi. Come abbiamo già detto, non si può negare la morte e risurrezione di Gesù di Nàzaret, avvenute a Gerusalemme attorno all'anno 30 d.C. senza distruggere l'intero messaggio cristiano (cf. 1 Cor 15,14). L'opinione che la fede come tale non conosca assolutamente niente dei fatti storici e debba lasciare tutto questo agli storici, è gnosticismo: tale opinione disincarna la fede e la riduce a pura idea. Per la fede che si basa sulla Bibbia, è invece esigenza costitutiva proprio il realismo dell'accadimento. Un Dio che non può intervenire nella storia e mostrarsi in essa non è il Dio della Bibbia. Per cui la realtà della nascita di Gesù dalla Vergine Maria, l'effettiva istituzione dell'Eucarestia da parte di Gesù nell'Ultima Cena, la sua risurrezione corporale dai morti — è questo il significato

1.

(capitolo III, “Presenze), specialmente 143-160. Cf. Marrou, La conoscenza storica, 101.

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del sepolcro vuoto — sono elementi della fede in quanto tale, che essa può e deve difendere contro una solo presunta miglior conoscenza storica. Che Gesù — in tutto ciò che è essenziale — sia stato effettivamente quello che ci mostrano i Vangeli non è affatto una congettura storica, ma un dato di fede. Obiezioni che vogliano convincerci del contrario non sono espressione di un'effettiva conoscenza scientifica, ma sono un'arbitraria sopravvalutazione del metodo1.

È interessante notare che tutti gli esempi di accadimenti storici che offre il cardinale Ratzinger in questa citazione corrispondono al NT. Invece, considerare il libro di Giona come un racconto esemplare (e dunque senza pretese di storicità) per motivi di genere letterario non suscita nessun problema per la fede. Oppure, se si pensa che il libro di Giosuè contiene un racconto fortemente idealizzato della conquista di Canaan, nel quale la storia si mette al servizio di un contenuto teologico (la terra come dono del Signore e non come frutto delle proprie forze), non si sta attaccando alcuna verità di fede. Tali interpretazioni saranno discutibili a livello letterario, ma per i credenti è importante delimitare il campo di ciò che appartiene al deposito della fede. Sorge spontanea la domanda su quali avvenimenti dell'AT sono in tal modo collegati alla fede cristiana che non possiamo rinunciarvi. E non è facile rispondere. Nei diversi simboli di fede, per esempio, mentre si parla con chiarezza della storicità del mistero dell'incarnazione e del mistero pasquale (il celebre “patì sotto Ponzio Pilato” del Simbolo degli Apostoli), le menzioni delle tappe precedenti della storia della salvezza sono molto generiche. Nel Credo niceno-costantinopolitano, si dice solo che lo Spirito Santo “ha parlato per mezzo dei profeti”. Come è logico, i simboli sono fortemente sintetici e non intendono presentare tutte le verità di fede. Ma allo stesso tempo è importante rilevare come la Chiesa, che da una parte ha difeso con chiarezza il valore dell'AT (contro Marcione), dall'altra non ha voluto o non ha potuto precisare molto di più. Dobbiamo credere che il Signore si è acquistato un popolo (Israele) al quale si è rivelato come unico Dio, che ha stabilito una alleanza con essi e ha annunciato una salvezza futura attraverso un suo intervento. Questa è — molto sinteticamente — la coscienza che gli ebrei avevano della propria identità all'epoca di Gesù e nei secoli immediatamente precedenti. Come tale, questa fede è una realtà storica. In quale misura la fede cristiana richiede che i singoli elementi che compongono la storia della salvezza vengano presi come avvenimenti accaduti resta — mi sembra — un problema aperto. 1.

J. Ratzinger, «Il rapporto fra Magistero della Chiesa ed esegesi: A 100 anni dalla costituzione della Pontificia Commissione Biblica» in Atti della Giornata celebrativa per il 100° anniversario di fondazione della Pontificia Commissione Biblica, Libreria Editrice Vaticana, 2003, 50-61.

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È (…) evidente come non sia possibile abbandonare la necessità di reperire un qualche fondamento storico serio che vada nella stessa direzione delle attestazioni bibliche. In caso contrario si finirebbe per pensare alla Bibbia come a una semplice narrazione di modelli, mai però veramente esistiti. Ovviamente cosa sia storico e cosa non lo sia è sempre da ricercare nei singoli testi e nelle singole affermazioni, verificandole di caso in caso, senza però cadere nella diffidenza continua e nel sospetto generale1.

In questo punto appare il valore conoscitivo della fede, senza la quale infatti tutti gli aspetti soprannaturali della rivelazione diventano problematici. La fede non è un sentimento, ma un dono di Dio che illumina l'intelligenza e assiste la volontà nell’assentire alla rivelazione di Dio, che include anche verità storiche. 22.3. Le pagine «oscure» della Bibbia Come complemento al tema della verità, inserisco qui il n.42 della Verbum Domini, che si riferisce ai passi problematici dell'AT non dal punto di vista storico, ma morale o dottrinale, come la poligamia dei patriarchi, i sacrifici umani (cf. Gn 22, Gdc 11) e la violenza contro i nemici. La Dei Verbum aveva accennato brevemente a questo problema, dicendo che i libri veterotestamentari, “sebbene contengano cose imperfette e caduche, dimostrano tuttavia una vera pedagogia divina” (DV15)2. Ecco le parole di Benedetto XVI: Nel contesto della relazione tra Antico e Nuovo Testamento, il Sinodo ha affrontato anche il tema delle pagine della Bibbia, che risultano oscure e difficili per la violenza e le immoralità in esse talvolta contenute. In relazione a ciò si deve tenere presente innanzitutto che la rivelazione biblica è profondamente radicata nella storia. Il disegno di Dio vi si manifesta progressivamente e si attua lentamente attraverso tappe successive, malgrado la resistenza degli uomini. Dio sceglie un popolo e ne opera pazientemente l'educazione. La rivelazione si adatta al livello culturale e morale di epoche lontane e riferisce quindi fatti e usanze, ad esempio manovre fraudolente, interventi violenti, sterminio di popolazioni, senza denunciarne esplicitamente l'immoralità; il che si spiega dal contesto storico, ma può sorprendere il lettore moderno, soprattutto quando si dimenticano i tanti comportamenti «oscuri» che gli uomi-

1. 2.

Basta - Bovati, "Ci ha parlato per mezzo dei profeti", 300-301. Per alcuni esempi, come lo sterminio di interi popoli, la vendetta e l'odio contro i nemici, cf. Mannucci - Mazzinghi, Bibbia, capitolo 16, sezione 3.3c.

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ni hanno avuto sempre lungo i secoli, anche ai nostri giorni. Nell'Antico Testamento, la predicazione dei profeti si erge vigorosamente contro ogni tipo d'ingiustizia e di violenza, collettiva o individuale, ed è così lo strumento dell'educazione data da Dio al suo popolo in preparazione al Vangelo. Pertanto, sarebbe sbagliato non considerare quei brani della Scrittura che ci appaiono problematici. Piuttosto, si deve essere consapevoli che la lettura di queste pagine richiede l'acquisizione di un'adeguata competenza, mediante una formazione che legga i testi nel loro contesto storico-letterario e nella prospettiva cristiana, che ha come chiave ermeneutica ultima «il Vangelo e il comandamento nuovo di Gesù Cristo compiuto nel mistero pasquale» [Propositio 29]. Perciò esorto gli studiosi e i Pastori ad aiutare tutti i fedeli ad accostarsi anche a queste pagine mediante una lettura che faccia scoprire il loro significato alla luce del mistero di Cristo.

Come si vede, il Papa non risolve tutti i problemi che possono sorgere nella lettura dell'AT, ma segnala alcuni principi da tener presenti in questi casi. Fra tali principi, due sono strettamente vincolati fra loro, e cioè la progressività della rivelazione di Dio, che doveva tener conto di quanto gli uomini erano in grado di comprendere (la pedagogia divina, unita alla sua condiscendenza), e la pienezza di questa stessa rivelazione in Cristo. Infatti, molti dei racconti dell'AT ci risultano problematici proprio perché siamo cristiani, ovvero perché siamo già in possesso della piena luce che Dio ha voluto comunicarci in Cristo e dunque siamo in grado di percepire i punti oscuri delle tappe precedenti. Inoltre, bisogna anche tener conto di un modo di esprimersi frequente nella Bibbia, per il quale si attribuiscono alcune azioni direttamente a Dio, senza menzionare le cause seconde (umane o meno) che le hanno realizzate: Spesso si nota che lo Spirito Santo, autore principale della Sacra Scrittura, attribuisce alcune azioni a Dio, senza far cenno a cause seconde. Non si tratta di « un modo di parlare » primitivo, ma di una maniera profonda di richiamare il primato di Dio e la sua signoria assoluta sulla storia e sul mondo (cf. Is 10,5-15; 45,5-7; Dt 32,39; Sir 11,14) educando così alla fiducia in lui. (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 304)1.

1.

Per approfondire, cf. G. Tanzella-Nitti, «Una immagine credibile di Dio: La rilettura della violenza nella Bibbia alla luce dell'evento di Gesù di Nazaret», Annales Theologici 28 (2014) 85-122.

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Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio. Dei Verbum 24.

Bibliografia A.M. ARᴛᴏᴌᴀ - J.M. SÁNᴄHᴇᴢ CᴀRᴏ, Biblia y Palabra de Dios, Verbo Divino, Estella (Navarra) 1995, parte III, specialmente capitoli VI, VII e VIII. R. F. CᴏᴌᴌINS, «Ispirazione» in R. E. BRᴏᴡN - J. A. FIᴛᴢᴍYᴇR - R. E. MᴜRᴘHY (eds.), Nuovo grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1997, 1341-1354. P. GRᴇᴌᴏᴛ, La Bible, Parole de Dieu. Introduction théologique a l'étude de l'Écriture Sainte, Desclée & Co, Paris 1965, capitolo II. V. MᴀNNᴜᴄᴄI - L. MᴀᴢᴢINGHI, Bibbia come Parola di Dio: Introduzione generale alla sacra Scrittura, Queriniana, Brescia 212016, capitoli 9, 10 e 11, specialmente 9 e 10. Per approfondire: G. ARᴀNᴅᴀ PÉRᴇᴢ, «Inspiración: autor, libro, lector-oyente como inspirados: implicaciones teológicas», Estudios eclesiásticos 83 (2008) 271-304. V. BᴀᴌᴀGᴜᴇR, «La "economía" de la Sagrada Escritura en Dei Verbum», Scripta Theologica 38 (2006) 893-939. L. SᴄHᴇFFᴄᴢYᴋ, «Die Heilige Schrift: Wort Gottes und der Kirche», Communio 30 (2001) 44-57. In inglese: «Sacred Scripture: God's Word and the Church's Word», Communio 28 (2001) 26-41. In spagnolo: «La Sagrada Escritura, palabra de Dios y de la Iglesia», Communio (edición española) 23 (2001) 154-166. W. VᴏGᴇᴌS, «Three Possible Models of Inspiration» in A. IᴢQᴜIᴇRᴅᴏ (a cura di), Scrittura ispirata: atti del Simposio internazionale sull'ispirazione promosso dall'Ateneo pontificio "Regina Apostolorum", Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, 61-79.

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23. Che cosa non è l'ispirazione Grazie alla Dei Verbum, conosciamo ormai l'aspetto più importante dell'ispirazione, cioè, il suo rapporto con la rivelazione (cf. pp. 103-106). Adesso dobbiamo approfondire la natura di questo carisma. In che consiste l'ispirazione? Come agisce lo Spirito Santo affinché i libri possano dirsi ispirati? Come si combina l'influsso divino con l'agire umano? Per spiegare la natura dell'ispirazione, di solito i manuali iniziano con una visione storica. Si parte dall'AT, dove non si parla direttamente di ispirazione, ma di realtà analoghe. Poi si analizzano i due testi neotestamentari che ne parlano esplicitamente — 2 Pt 1,20-21 e soprattutto 2 Tm 3,16 — per passare poi in rassegna ciò che hanno detto al riguardo i Padri della Chiesa, i teologi medievali, moderni e contemporanei e infine i documenti del magistero (dal Vaticano I in poi). Abbiamo già fatto in parte questo percorso, trattando della considerazione delle Scritture d’Israele come parola di Dio da parte di Gesù e della generazione apostolica. Purtroppo non abbiamo tempo per continuare la visione storica e dovremo fare una presentazione schematica di alcune idee fondamentali. Spesso alcune verità di fede si comprendono meglio per contrasto con ciò che esse non significano. Perciò, in un primo momento vedremo alcuni errori attorno al concetto cristiano dell'ispirazione delle Scritture, per poi tentare di fornire alcune affermazioni positive al riguardo. 23.1. Modelli inadeguati per insufficiente considerazione del fattore umano 23.1.1. L'ispirazione come estasi La parola impiegata in 2 Tm 3,16 per descrivere la Scrittura è θεόπνευστος (“ispirata da Dio”), una parola poco frequente in greco, ma simile ad altre parole del linguaggio religioso ellenistico. Alcuni pensano che «ispirati» sia una parola coniata dall'autore di 2 Tm allo scopo di attirare l'attenzione sull'origine divina delle Scritture (…). Ciononostante, l'opinione predominante degli studiosi è che «ispirati» sia un termine mutuato dalle antiche descrizioni ellenistiche dell'esperienza estatica di profeti mantici1.

Qualunque sia l'origine di questo termine, vedremo che non si deve applicare senza discernimento alla Bibbia tutto ciò che nella cultura ellenistica si pensava ri1.

R. F. Collins, «Ispirazione» in R. E. Brown - J. A. Fitzmyer - R. E. Murphy (eds.), Nuovo grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1997, 1341-1354, 1343-1344.

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guardo all'ispirazione di profeti, poeti e indovini. Qui poniamo un primo limite alla nozione cristiana di ispirazione. Per la mentalità greca classica, il profetizzare richiedeva la possessione da parte di un dio, che faceva perdere all’indovino o profeta (μάντις) le sue facoltà. La persona “ispirata” si trova fuori di sé, cioè in estasi (ἔκστασις, “stare fuori”). Il profeta non sa quello che fa o dice mentre si trova sotto l'influsso di questa ispirazione. Si pensi agli oracoli della pitonessa di Delfi oppure alla descrizione dell’entusiasmo dei poeti che presenta Platone (cf. Ion 535c-536b)1. La nozione estatica di ispirazione fa ormai parte dell'immaginario collettivo, come si vede — chiedo scusa per l'esempio poco accademico — nel caso dell'insegnante di divinazione nei romanzi di Harry Potter, la professoressa Trelauney. Questo personaggio viene presentato come un’insegnante incompetente che però, in alcuni momenti, cambia aspetto e parla del futuro con parole enigmatiche, delle quali non si ricorda più quando esce dall'estasi. Con l'intenzione di sottolineare l'origine soprannaturale delle profezie bibliche, alcuni autori cristiani del II secolo si sono avvicinati a questo linguaggio. Per esempio, san Giustino (†165), per spiegare ai pagani cosa è la profezia, va un po' oltre le affermazioni parallele della 2 Pt. Ecco una sua frase: Quando ascoltate le parole dei profeti proprio come dalla loro bocca, non dovete credere che siano dette da essi stessi mentre sono ispirati, ma dal Verbo divino che li muove (I Apol 36)2.

Un contemporaneo di Giustino, Atenagora di Atene, anch'egli apologista, nella sua Supplica per i cristiani, rivolta agli imperatori romani, introduce l'argomentazione basata sulle profezie spiegando che i profeti parlavano in estasi. Per spiegarlo usa una metafora musicale, suggerita dall'idea del soffio divino: (…) io penso che anche voi, che siete amantissimi del sapere e molto saggi, non ignoriate le voci di Mosè, né quelle di Isaia, di Geremia e degli altri profeti, i quali nel rapimento dei loro pensieri [οἳ κατ᾽ ἔκστασιν τῶν ἐν αὐτοῖς λογισμῶν], per mozione dello Spirito divino, proclamarono quello che si operava nel loro intimo mentre lo Spirito si serviva di loro come un flautista soffia nel flauto [ὡς εἰ καὶ αὐλητὴς αὐλὸν ἐμπνεύσαι] (Legatio pro christianis IX)3.

1. 2. 3.

Cf. J. Sievers, «L'ispirazione nel pensiero ellenistico» in P. Dubovsky - J.-P. Sonnet (eds.), Ogni Scrittura è ispirata: nuove prospettive sull'ispirazione biblica, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013, 33-46. Traduzione presa da Giustino, Le apologie. Traduzione presa da Atenagora, Le opere: introduzione, traduzione e note a cura di Salvatore Di

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Ancora riferendosi all'ambito musicale, Atenagora parla anche del profeta come la citara suonata con il plettro, che è lo Spirito Santo (cf. Cohortatio ad Graecos, 8). Il paragone col plettro si ritroverà in diversi Padri della Chiesa1. Altri autori, per parlare del profeta come ispirato da Dio, ricorrono all'immagine della penna in mano allo scriba a partire di Sal 45,22. Tutte queste espressioni vanno viste come tentativi limitati ma legittimi di far comprensibile l'origine soprannaturale delle profezie bibliche nella cultura ellenistica del momento. La situazione cambia con i montanisti, che concepivano la profezia in un modo che negava esplicitamente la libertà e la coscienza dei profeti. Verso l'anno 170, Montano e due donne, Priscilla e Massimila, arrivano nella provincia di Frigia (Asia Minore) e dicono di essere ispirati dal Paraclito per annunciare l'arrivo imminente della Parusia. La loro dottrina ebbe un notevole successo, soprattutto nelle comunità rurali. Agli inizi del III secolo, i montanisti giunsero a convertire Tertulliano, attratto dal loro rigorismo etico. Origene è stato il primo autore che ha respinto con decisione la concezione montanista di profezia3. Dopo di lui, nella stessa linea, altri hanno ribadito il rifiuto di applicare la nozione estatica di ispirazione ai profeti biblici. San Girolamo, per esempio, si esprime con innegabile chiarezza: Non è vero, come sogna Montano con le sue stolte donne, che i profeti abbiano parlato in estasi, così da non sapere ciò che dicevano, e mentre istruivano gli altri, essi stessi ignorassero quel che dicevano4.

1. 2. 3.

4.

Meglio, Cantagalli, Siena 1974. Per il testo greco, cf. D. Ruiz Bueno (ed.), Padres Apologistas Griegos (s. II), Bac, Madrid 1954. Un plettro è una “piccola lamina di osso, di avorio o di altro materiale, a forma di mandorla, con cui si fanno vibrare le corde di certi strumenti (nel mondo greco-romano, la lira; oggi, la chitarra, il mandolino ecc.)”, Dizionario Garzanti, s.v. “plettro”. Un elenco molto completo dei riferimenti patristici all'ispirazione si può vedere in Perrella, Introduzione generale, 33-35. Cf. H. Crouzel, Origène, Lethielleux, Paris 1985, 104-105.“Orígenes apenas se interesa por el aspecto psicológico de la inspiración, si no es para resaltar, frente a los montanistas, la libertad y la conciencia propia de los profetas”, J. Beumer, La inspiración de la Sagrada Escritura, Bac, Madrid 1973, 17 (originale tedesco: Idem, Die Inspiration der Heiligen Schrift, Herder, Freiburg im Breisgau 1968). Traduzione mia: “Neque vero, ut Montanus cum insanis feminis somniat, prophetae in ecstasi sunt locuti, ut nescirent quid loquerentur et cum alios erudirent, ipsi ignorarent quid dicerent”, In Isaiam, prologus (CCL 73,2).

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Basta leggere infatti la Scrittura, per accertare che il Signore non si manifesta mai come faceva Apollo nel tempio di Delfi. Il caso più simile al modello mantico di profeta nei racconti biblici è quello di Balaam, una sorte di profeta a pagamento, che benedice Israele contro la volontà del re di Moab, il quale voleva invece una maledizione. Nel racconto di Nm 22-24 Balaam appare descritto in maniera piuttosto positiva, in contrasto con Balac, re di Moab. Tuttavia, nonostante abbia trasmesso parole del Signore, Balaam viene presentato dal resto della tradizione biblica in termini assai negativi (cf. Nm 31,16; Dt 23,5-6; Gs 13,22; 24,9-10; Mic 6,5; Ne 13,2; 1 Cr 6,55; 2 Pt 2,15; Gd 1,11; Ap 2,14)1. * Fin qui abbiamo parlato di ispirazione in senso ampio, non nel senso tecnico, riferito ai libri. Ma è evidente che il rifiuto del modello mantico di ispirazione vale ugualmente per l'ispirazione scritturistica: sia il profeta che pronuncia un oracolo, sia l'apostolo che predica Cristo, sia colui che mette per iscritto queste parole, tutti agiscono in maniera “normale”, cioè in possesso delle proprie facoltà fisiche e mentali e mossi dalla propria volontà libera. 23.1.2. La dettatura meccanica ed il fondamentalismo In un contesto culturale molto diverso da quello patristico, nel XVI secolo, il teologo spagnolo Domingo Báñez O.P. (1528-1604) descrisse l'ispirazione come dettato verbale: la Bibbia è ispirata, perché Dio ne ha suggerito le parole all'autore umano, come dettandogliele. La formulazione di Báñez è giusta in quanto contrappone l'ispirazione verbale alla cosiddetta ispirazione reale, cioè alla teoria secondo la quale Dio si sarebbe limitato ad ispirare il contenuto della Bibbia e non le parole. Infatti, non è possibile distinguere in un testo fra il pensiero e le parole, fra il fondo e la forma. Dunque, se la Bibbia è ispirata, per forza bisogna dire che anche le singole parole lo sono2. Ma le espressioni del Báñez presentano il pericolo di ridurre la partecipazione dell'autore umano a un ruolo meramente passivo. L'ispirazione verbale e il dettato di1.

2.

Vale la pena menzionare che nel 1967 sono state trovate in Giordania delle iscrizioni risalenti al 700 a.C. nelle quali si menziona a “Balaam, figlio di Peor”, “veggente degli dei”. Cf. C. A. Rollston, «Balaam» in D. N. Freedman (ed.), Eerdmans Dictionary of the Bible, Eerdmans, Grand Rapids 2000, 144-145. “No hay en la actualidad ningún biblista católico que no admita la inspiración de las palabras de la Escritura. Toda la obra del autor sagrado es de Dios y del colaborador carismático”, Artola - Sánchez Caro, Biblia y Palabra de Dios, 208.

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vino vanno respinti se con questi termini si nega l'attività libera e cosciente dell'autore umano. Infatti alcuni discepoli del Báñez e soprattutto alcuni gruppi protestanti svilupparono una concezione dell'ispirazione verbale come dettato meccanico: che Dio ispiri le parole vuol dire allora che detta il testo parola per parola all'orecchio dell'agiografo, il quale non è altro che un copista. Questa nozione è presente ancor oggi, sostenuta dai gruppi “fondamentalisti” e da altri simili. Sulla loro comprensione della Bibbia come parola di Dio, si esprime con grande chiarezza il documento della PCB del 1993: Il termine “fondamentalista” si ricollega direttamente al Congresso Biblico Americano tenutosi a Niagara, nello stato di New York nel 1895. Gli esegeti protestanti conservatori definirono allora «cinque punti del fondamentalismo»: l'inerranza verbale della Scrittura, la divinità di Cristo, la sua nascita verginale, la dottrina dell'espiazione vicaria e la risurrezione corporale in occasione della seconda venuta di Cristo. (…) Benché il fondamentalismo abbia ragione di insistere sull'ispirazione divina della Bibbia, sull'inerranza della Parola di Dio e sulle altre verità bibliche incluse nei cinque punti fondamentali, il suo modo di presentare queste verità si radica in una ideologia che non è biblica, checché ne dicano i suoi rappresentanti. (…) Il problema di base di questa lettura fondamentalista è che rifiutando di tener conto del carattere storico della rivelazione biblica, si rende incapace di accettare pienamente la verità della stessa Incarnazione. Il fondamentalismo evita la stretta relazione del divino e dell'umano nei rapporti con Dio. Rifiuta di ammettere che la Parola di Dio ispirata è stata espressa in linguaggio umano ed è stata redatta, sotto l'ispirazione divina, da autori umani le cui capacità e risorse erano limitate. Per questa ragione, tende a trattare il testo biblico come se fosse stato dettato parola per parola dallo Spirito e non arriva a riconoscere che la Parola di Dio è stata formulata in un linguaggio e una fraseologia condizionati da una data epoca. Non accorda nessuna attenzione alle forme letterarie e ai modi umani di pensare presenti nei testi biblici, molti dei quali sono frutto di una elaborazione che si è estesa su lunghi periodi di tempo e porta il segno di situazioni storiche molto diverse1.

23.2. Modelli inadeguati per insufficiente considerazione del fattore divino Nel secolo XIX, per difendere la Bibbia di fronte agli attacchi dei razionalisti, sorsero alcune teorie sull'ispirazione che possiamo chiamare “minimaliste”, nel senso che cercavano di ridurre al minimo gli elementi soprannaturali.

1.

Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione (EB 1382-1384). Cf. anche Basta - Bovati, "Ci ha parlato per mezzo dei profeti", 55-57.

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Due di queste spiegazioni dell'ispirazione sono state respinte formalmente dal magistero solenne della Chiesa, nella costituzione Dei Filius del Concilio Vaticano I (1870). Vale la pena leggere con attenzione il testo: Questi libri dell'Antico e del Nuovo Testamento (…) la Chiesa li considera sacri e canonici non perché, composti per opera dell'uomo, sono stati poi approvati dalla sua autorità, e neppure soltanto perché contengono senza errore la rivelazione, ma perché, scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati trasmessi alla Chiesa. Eos [libros] vero Ecclesia por sacris et canonicis habet, non ideo quod sola humana industria concinnati, sua deinde auctoritate sint approbati; nec ideo dumtaxat, quod revelationem sine errore contineant; sed propterea, quod Spiritu Sancto inspirante conscripti Deum habent auctorem, atque ut tales ipsi Ecclesiae traditi sunt (EB 77)1.

In questo testo, il Vaticano I non si è limitato a condannare alcuni errori, ma ha offerto anche alcuni tratti positivi sull'ispirazione, ai quali dovremo tornare più avanti (cf. pp. 241-246). Adesso ci interessano le due spiegazioni respinte, in quanto aiutano a capire, per contrasto, la fede della Chiesa nell'ispirazione. Entrambe le teorie hanno diverse sfumature secondo i loro autori2. Ma a noi basta commentare le parole della Dei Filius. • L'ispirazione non si può spiegare dicendo che i libri, composti per opera dell'uomo, sono stati poi approvati dall'autorità della Chiesa (teoria dell'approvazione susseguente). L'ispirazione implica dunque qualcosa di soprannaturale (di più che umano) che appartiene ai libri sin dalla loro origine. Non è una qualità aggiunta a un libro composto in modo soltanto umano, né quindi può dirsi che l'ispirazione nasca quando viene riconosciuta. È vero che l'accettazione ecclesiale dei libri costituisce un momento decisivo per la costituzione della Bibbia. Ma la Chiesa ha sempre inteso che questa accettazione è un riconoscimento di qualcosa che c'era prima, indipendentemente dalla sua ricezione. • I libri non sono ispirati “neppure soltanto perché contengono senza errore la rivelazione” (teoria dell'assenza di errore). Il Vaticano I mette in evidenza qui che l'ispirazione è un carisma diverso dall'infallibilità. Proprio in questo stesso Concilio, nel capitolo IV della Pastor aeternus, è stata dichiarata come dogma di 1. 2.

Poi, il Concilio aggiunge una condanna corrispondente: “Se qualcuno non accetterà come sacri e canonici i libri interi della sacra Scrittura, in tutte le loro parti, come li ha accreditati il santo Concilio Tridentino, o negherà che siano divinamente ispirati: sia anatema” (EB 79). Sulle teorie che limitano in diverse maniere l'estensione dell'ispirazione, cf. Perrella, Introduzione generale, 66-67 (n.68); Collins, «Ispirazione», 1349-1350.

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fede l'infallibilità del Papa quando parla ex cathedra. La Bibbia invece non è semplicemente infallibile, come le dichiarazioni solenni del Magistero universale della Chiesa. La sacra Scrittura è molto più di un libro che contiene la rivelazione senza errori. Un documento che espone senza errori la dottrina cristiana può avere un grande valore, può essere usato per molti secoli, ma è sempre sostituibile. Per esempio il Catechismo Romano, pubblicato dopo il Concilio di Trento, in pratica oggi non si usa più come esposizione della dottrina cattolica. E l'attuale Catechismo della Chiesa Cattolica probabilmente diventerà obsoleto fra alcuni secoli. La Bibbia invece è sempre attuale perché, come dirà il Vaticano II, è parola di Dio. Nel contesto del Vaticano I, possiamo ricordare un'altra spiegazione insufficiente dell'ispirazione, attribuita al cardinale J. H. Newman (1801-1890), anche se egli non la formulò in maniera sistematica. È la cosiddetta teoria delle cose dette di passaggio (obiter dicta), secondo la quale non bisogna credere che siano ispirate alcune frasi circostanziali, come dire che il cane di Tobia muoveva la coda (Tb 11,9 nella Vulgata) o che Paolo ha lasciato a Troade il suo mantello (2 Tm 4,13). Così, l'ispirazione non vale per tutte le affermazioni della Bibbia, ma solo per quelle importanti, cioè, quelle che includono insegnamenti di fede o di morale1. Non è questa la fede della Chiesa. È vero che nelle Scritture si trovano alcune informazioni che possono sembrare superflue o triviali, ma questa realtà non deve far pensare che non siano ispirate. La distinzione fra ciò che è importante e ciò che non lo è dipende dal criterio del lettore e non è esenta da una certa arbitrarietà. (Per questa strada si arriva agli stessi problemi della determinazione di un canone dentro il canone, di cui abbiamo parlato a pp. 180-183). Ma soprattutto si deve tener conto che una frase non va mai presa isolatamente, bensì nel contesto del libro in cui si inserisce, nel quale ha sempre una determinata funzione, sebbene non contenga insegnamenti dottrinali. Come insegna Leone XIII nella Providentissimus Deus (cf. EB 124), limitare l'ispirazione non è il modo per difenderla: tutta la Bibbia è ugualmente ispirata, anche se non tutto il suo contenuto si trova allo stesso livello di rilevanza teologica.

24. Che cosa è l'ispirazione Le Scritture, “ispirate come sono da Dio e redatte una volta per sempre,

1.

Cf. Johnson, «Leo XIII»; J. Seynaeve, Cardinal Newman's Doctrine on Holy Scripture According to his Published Works and Previously Unedited Manuscripts, Publications universitaires, Louvain 1953, 153-194.

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comunicano immutabilmente la parola di Dio stesso e fanno risuonare nelle parole dei profeti e degli apostoli la voce dello Spirito Santo”. Dei Verbum, n. 21

Senza pretendere di negare il carattere di mistero dell'ispirazione, qualcosa di positivo si può dire al riguardo. Questa è la strada che cerca di percorrere ogni riflessione teologica. Nella prima metà del XX secolo, gli studi sull'ispirazione hanno vissuto un periodo di grande intensità. Invece, dopo il Concilio Vaticano II, il tema dell'ispirazione è passato ad un secondo piano, almeno se paragonato alle discussioni sul canone biblico, molto più abbondanti. Questo declino del trattato dell'ispirazione non significa che l'argomento sia stato esaurito, nel senso che tutti i problemi siano ormai risolti. Infatti, è vero piuttosto il contrario: ci sono diverse questioni aperte e manca ancora una sintesi teologica che tenga conto delle proposte avanzate negli ultimi decenni. Non a caso, nel n.19 dell'Esortazione Apostolica Post-Sinodale Verbum Domini, Benedetto XVI esprime il desiderio di un'approfondimento teologico sull'ispirazione biblica, specialmente in rapporto con l'interpretazione dei testi1. Tuttavia, la teologia dell'ispirazione sviluppata nel Novecento ha lasciato come eredità non solo delle problematiche da risolvere, ma anche alcuni punti fermi, accettati da tutti o quasi tutti gli autori, che aiutano a comprendere cosa sia il carisma dell'ispirazione. Nel primo paragrafo vedremo uno di questi punti, la nozione di causa strumentale, che permette di capire come Dio e l'agiografo siano entrambi veri autori dei libri. Nel secondo, vedremo alcuni sviluppi attorno alla nozione di Dio come autore della Scrittura e faremo menzione di alcune delle questioni aperte. 24.1. La nozione di causa strumentale e gli agiografi come veri auctores A partire da san Tommaso, la nozione filosofica di “causa strumentale” viene usata in teologia per spiegare alcune realtà di ordine soprannaturale, come l'efficacia dei sacramenti. Da un paio di testi si vede che Tommaso la applicava anche alla Bibbia, in

1.

Negli ultimi anni c'è stato un piccolo aumento dell'interesse sul tema dell'ispirazione: cf. Basta Bovati, "Ci ha parlato per mezzo dei profeti"; J. J. García Morales, La inspiración bíblica a la luz del principio católico de la tradición: convergencias entre la Dei Verbum y la teología de P. Benoit, O.P., Pontificia Università Gregoriana, Roma 2012; Alves, Ispirazione e verità; P. Dubovsky - J.-P. Sonnet (eds.), Ogni Scrittura è ispirata: nuove prospettive sull'ispirazione biblica, San Paolo, Cinisello Balsamo 2013.

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termini di “autore principale” (Dio) e di “autore strumentale” (l'uomo), benché egli non abbia sviluppato questa intuizione1. Il padre M. J. Lagrange O.P. (1855-1938) e altri autori cattolici degli inizi del XX secolo hanno impiegato la nozione tomista di causa strumentale per spiegare l'ispirazione, applicandola all'agiografo, strumento nelle mani di Dio, autore principale della Scrittura. Così, ognuno dei libri biblici è un effetto proprio di Dio, è uno scritto causato e voluto da lui: è quindi Parola di Dio. Ma allo stesso tempo è parola umana, perché Dio ha impiegato strumenti umani, che sono veramente cause dell'effetto finale e hanno lasciato, per così dire, la loro impronta sull'effetto. Con diverse sfumature, quasi tutti gli studiosi cattolici sono d'accordo nel dire che questi concetti filosofici aiutano ad esprimere adeguatamente la fede nell'ispirazione, anche se non spiegano tutto. Vi è nella sintesi medievale una permanente acquisizione di valore, che non possiamo passare sotto silenzio. È l'applicazione del principio della causalità principalestrumentale all'ordine della conoscenza e dell'espressione biblica. (…) L'uso del concetto di strumentalità riuscì a esprimere nel modo più coerente il fatto della comunione operativa fra il creatore e la creatura in una totalità condivisa2.

L'applicazione del concetto di causa strumentale permette di combinare l'azione divina e l'azione umana. Dobbiamo vedere come e perché3. In primo luogo, la distinzione fra causa principale e causa strumentale va compresa dentro la nozione di causa efficiente, da distinguere dagli altri tipi di causa (secondo il noto schema aristotelico delle quattro cause: materiale, formale, efficiente e finale). Causa efficiente è quella che comunemente viene chiamata causa, cioè il principio dal quale procede il movimento, diversa dalla causa finale, che è la meta verso la quale l'agente tende4.

1. 2. 3.

4.

I due testi sono: “Auctor principalis sacre Scripture est Spiritus sanctus (…) homo qui fuit auctor instrumentalis sacre scripture”, Quodl. VII, q.6, a.14, ad 5; “in illa scriptura cuius Spiritus sanctus est auctor, homo uero instrumentum tantum (…)”, ibid., a.16, in c. Artola - Sánchez Caro, Bibbia e parola di Dio, 174; cf. B. Sesboüé, «La canonisation des Écritures et la reconnaisance de leur inspiration: Une approche historico-théologique», Recherches de science religieuse 92 (2004) 13-44, 31, n. 5. Per quanto segue, cf. J. C. Ossandón Widow, «La interpretación bíblica según Santo Tomás», Isidorianum 34 (2008) 227-271, 243-244; più dettagliato in G. Aranda Pérez, «Una norma del magisterio de la Iglesia para el estudio de la Sagrada Escritura: Santo Tomás de Aquino, maestro y guía», Scripta Theologica 6 (1974) 399-438, 420-425. Cf. L. Clavell - M. Pérez de Laborda, Metafisica, EDUSC, Roma 2006, 280-281.

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All'interno della causalità efficiente, si possono fare ulteriori distinzioni, secondo criteri diversi. Si parla di causa principale e causa strumentale quando due agenti producono insieme la totalità di un effetto. Cioè, non sono due cause parziali, ognuna delle quali provoca una parte dell'effetto, ma entrambe formano come un'unica causa. L'agente principale agisce attraverso lo strumento, come l'artista quando impiega un pennello. Tommaso d'Aquino lo spiega così: “agens principale et instrumentale sunt quasi una causa, cum unum agat per alterum” (S.Th. I-II, q.14, a.3, ad 4). L'effetto si attribuisce dunque alle due cause, non una parte ad una e un'altra parte all'altra: “Effectus totus attribuitur instrumento, et principali agenti etiam totus secundum alium modum” (SCG III, 70). Uno strumento può agire da solo, ma in tali casi non viene chiamato strumento in senso proprio. Ciò che definisce la strumentalità è l'essere mosso, così che lo strumento è allo stesso tempo causa ed effetto. Perciò, per parlare propriamente di causa strumentale, si deve aggiungere che questa agisce non solo in virtù della propria forma o natura, ma anche in virtù di un altro che la muove1. Siccome lo strumento e l'agente principale sono diversi, l'effetto, che non sarebbe stato prodotto senza la partecipazione di entrambi, non si attribuisce ai due allo stesso modo, ma immediatamente allo strumento e propriamente alla causa principale, alla quale l'effetto assomiglia: La causa agente è di due specie: principale e strumentale. Quella principale opera in virtù della propria forma, imprimendo la propria somiglianza sull'effetto: il fuoco, p. es., con il suo calore riscalda. (…) La causa strumentale al contrario non agisce in forza della sua forma, ma in forza dell'impulso con cui è mossa dall'agente principale. Quindi l'effetto non somiglia allo strumento, bensì all'agente principale (S.Th. III, q.62, a.1; traduzione di T. Centi e A. Belloni)2.

1.

2.

Tommaso d'Aquino spiega: “Strumento è qualcosa che è mosso da un agente principale e che tuttavia può avere un'operazione propria dipendente dalla sua forma, come si è detto del fuoco. Perciò l'azione dello strumento in quanto è strumento non si distingue dall'azione dell'agente principale, ma lo strumento può compiere un'operazione distinta in quanto è una realtà per sé stante (S.Th. III, q.19, a.1, ad 2, traduzione di T. Centi e A. Belloni, disponibile su internet. Testo originale: “Instrumentum dicitur aliquid ex eo quod movetur a principali agente: quod tamen, praeter hoc, potest habere propriam operationem secundum suam formam, ut de igne dictum est. Sic igitur actio instrumenti inquantum est instrumentum non est alia ab actione principalis agentis: potest tamen habere aliam operationem prout est res quaedam”. “Duplex est causa agens, principalis et instrumentalis. Principalis quidem operatur per virtutem suae formae, cui assimilatur effectus: sicut ignis suo calore calefacit (...) Causa vero instrumentalis non agit per virtutem suae formae, sed solum per motum quo movetur a principali agente. Unde effectus non assimilatur instrumento, sed principali agenti”.

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L'effetto è inspiegabile in base alla sola operazione dello strumento. Ma quest’ultimo, che è una vera causa, determina in certa misura la capacità operativa della causa principale, la cui azione deve passare attraverso le virtualità specifiche dello strumento, attraverso la sua natura, che è limitata. Se un uomo taglia un legno con un’ascia, il risultato finale è un effetto proprio della causa principale, ma il tipo di taglio dipende anche dalla forma dell'ascia. * Quando si applica la nozione di causa strumentale agli agiografi, si deve ricordare che uno strumento agisce sempre secondo la sua natura, che in questo caso è razionale e libera. Tale precisazione è necessaria perché quando parliamo di uno “strumento” di solito pensiamo ad una cosa priva di vita (un'ascia, un pennello) e non ad una persona. Ma l'agire meccanicamente non fa parte della definizione di causa strumentale. San Tommaso infatti afferma che possono esserci strumenti liberi: Non è necessario escludere assolutamente dallo strumento la libertà, perché una cosa può essere mossa da un altra, e tuttavia muovere se stessa; così accade con l'anima umana (De Veritate, q.24, a.5)1.

Questo punto è di importanza fondamentale, perché evita la tentazione di vedere il ruolo dell'agiografo, nella composizione del testo, come il lavoro di un semplice copista o come effetto di uno stato di estasi. L'autore umano è uno strumento mosso da Dio, ma uno strumento che pensa e prende libere decisioni, delle quali è pienamente responsabile. Inoltre, grazie al concetto di causa strumentale, si risolve una difficoltà continuamente presente nella riflessione teologica: quale parte corrisponde a Dio e quale all'agiografo. Per esempio, nella linea di Lessius, il cardinale J. B. Franzelin, S.I. (†1886) diceva che Dio è responsabile dell'elemento formale dei libri (il loro pensiero), mentre l'elemento materiale, le espressioni che lo traducono, appartengono all'autore umano. Invece, grazie alla nozione di strumentalità, è possibile affermare con chiarezza che i libri sono interamente opera sia di Dio che dell'autore umano, ognuno al propio livello2. Come si può intuire, è difficile approfondire di più in questa interazione fra l'agire di Dio e la libertà dell'uomo, come avviene in teologia ogniqualvolta si tratta

1. 2.

Traduzione mia. “Ab instrumento non oportet quod omnino excludatur ratio libertatis, quia aliquid potest esse ab alio motum, quod tamen seipsum movet; et ita est de mente humana”. Cf. Grelot, La Bible, Parole de Dieu, 40-41.

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dell'interazione fra il soprannaturale e il naturale, fra la grazia e le opere meritorie o quando si parla dei santi come strumenti di Dio. * L'idea di strumento applicata all'agiografo è stata menzionata collateralmente nell'enciclica Providentissimus Deus (1893) di Leone XIII, in una celebre descrizione dell'ispirazione (EB 125, testo citato più avanti, a pagina 242). Cinquant'anni dopo, nell'enciclica Divino Afflante Spiritu (1943), Pio XII accolse esplicitamente la nozione tomista di causa strumentale e la sua applicazione alla sacra Scrittura: La nostra età, se accumula nuove questioni e difficoltà, però insieme, grazie a Dio, offre all'esegesi anche nuovi mezzi e strumenti. Fra questi va messo in speciale rilievo il fatto che i teologi cattolici, seguitando la dottrina dei Santi Padri e principalmente del Dottore Angelico e Comune, con maggior precisione e finezza che non solesse farsi nei secoli andati, hanno esaminato ed esposto la natura dell'ispirazione biblica ed i suoi effetti. Partendo nelle loro disquisizioni dal principio che l'agiografo nello scrivere il libro sacro è organo, ossia strumento dello Spirito Santo, ma strumento vivo e dotato di ragione, rettamente osservano che egli sotto l'azione divina talmente fa uso delle sue proprie facoltà e potenze, che dal libro per sua opera composto tutti possono facilmente raccogliere "l'indole propria di lui e come le sue personali fattezze e il suo carattere" (cfr. Benedetto XV, Enc. Spiritus Paraclitus, EB461). (EB 556).

Con queste parole, l'applicazione della nozione tomista di strumento, con l’esplicitazione del carattere libero dell'agiografo, fa il suo ingresso, per così dire, nel magistero ecclesiastico. È un esempio di come le riflessioni teologiche contribuiscano a far maturare il giudizio della Chiesa (cf. DV 12). Vent'anni dopo, questo brano della Divino Afflante Spiritu è citato nel paragrafo che la Dei Verbum dedica all'ispirazione: Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte (DV11)1.

1.

Ecco il testo latino con le rispettive note: “In sacris vero libris conficiendis Deus homines elegit, quos facultatibus ac viribus suis utentes adhibuit (Cf. PIUS XII, Litt. Encycl. Divino afflante, 30 sept. 1943: AAS 35 (1943), p. 314; EB 556), ut Ipso in illis et per illos agente (In et per hominem: cf. Heb. 1, 1 et 4, 7 (in): 2 Sam. 23, 2; Mt. 1, 22 et passim (per); CONC. VAT. I: Schema de doctr. cath., nota 9: Coll. Lac. VII, 522. ), ea omnia eaque sola, quae Ipse vellet, ut veri auctores scripto traderent (LEO XIII, Litt. Encycl. Providentissimus Deus, 18 nov. 1893: DENZ. 1952 (3293); EB 125)”.

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Nel processo di redazione di questa frase, il vescovo di Barbastro (Spagna) suggerì di aggiungere le parole “strumenti vivi”. Ma la commissione rifiutò la proposta, dicendo che si voleva evitare un vocabolario tecnico e che la realtà della strumentalità era già presente nel testo1. Infatti, benché la parola sia assente, l'idea che gli agiografi sono strumenti appare nel testo, quando, con terminologia biblica, si dice che “Dio agisce in essi e per mezzo di essi”. Inoltre, il riferimento al testo appena citato di Pio XII conferma la presenza della nozione di strumentalità. Quindi DV11 riprende concetti già utilizzati per descrivere l'ispirazione. Ma c'è una novità non piccola: per la prima volta in un documento magisteriale, gli scrittori sacri vengono chiamati autori (veri auctores). Non lo si diceva prima, perché l'affermazione tradizionale sosteneva che l'autore della Bibbia è Dio, come ribadisce il Vaticano I, e non si sapeva spiegare in quale modo un testo potesse avere due autori, uno divino e uno umano. Addirittura, durante la redazione della Dei Verbum, tre Padri conciliari chiesero che fosse tolta l'espressione ut veri auctores, proprio perché gli agiografi non sono altro che strumenti!2 In realtà, il ragionamento giusto è proprio il contrario: sia Dio che l'uomo possono considerarsi veri autori dei libri biblici, perché agiscono a livelli diversi, quello della causa principale e quello della causa strumentale. Infatti per arrivare a dire che gli agiografi sono veramente autori dei loro libri è stata fondamentale l'applicazione della nozione tomista di causa strumentale. Un testo biblico è prodotto da due cause, ma non si tratta di due cause parziali, come se ognuna fosse responsabile di una parte, ma di due cause subordinate l'una all'altra. La Bibbia è dunque interamente effetto di Dio e interamente effetto dell'uomo. Ogni libro si attribuisce immediatamente al suo autore umano e propriamente allo Spirito Santo. Come detto, l'idea di strumentalità aiuta a capire la cooperazione fra Dio e l'uomo nella composizione della Scrittura, ognuno al suo livello, ma non risolve tutti i problemi collegati all'idea di Dio come autore o causa dei testi. La spiegazione della causa strumentale è troppo concentrata sull'autore e non include una riflessione sull'importanza della ricezione dell'insieme dei testi. Per comprendere in che senso Dio sia l'autore non solo di ogni libro, ma di tutta Scrittura, si deve mettere in rap-

1. 2.

Cf. Gil Hellín, Concilii Vaticani II Synopsis: Dei Verbum, 607 e 88. “Tres Patres expungere volunt verba «ut veri auctores», quia hagiographi non sunt nisi instrumenta (…) R.– Quia hagiographi veri auctores sunt, haec verba consulto apposita fuerunt”, Idem, Concilii Vaticani II Synopsis: Dei Verbum, 89. La “R” sta per la risposta della commissione.

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porto l'origine divina dei testi con il fine per il quale egli ha voluto ispirare gli agiografi, come vedremo adesso. 24.2. Autore - testo - lettore. Dio come autore e l'importanza della ricezione Nei libri sacri, infatti, il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con essi Dei Verbum n. 21

Per parlare della Scrittura come parola di Dio, abbiamo usato l'analogia con l'Incarnazione del Verbo. Adesso utilizzeremo uno schema diverso, ma altrettanto utile, per capire altri aspetti che riguardano l'ispirazione biblica. Si tratta dello schema della comunicazione, che abbiamo presentato nella prima parte: emittente → messaggio → destinatario Affinché la comunicazione si verifichi è indispensabile che il messaggio arrivi al destinatario; altrimenti, non si può parlare di comunicazione. Abbiamo anche visto che nel caso della comunicazione scritta lo schema deve cambiare: autore → messaggio ‖ messaggio → lettore La comunicazione in questo caso richiede una duplicazione degli atti; e accadde propriamente soltanto nell'atto della lettura. Adesso, possiamo tentare di inserire l'ispirazione nello schema della comunicazione scritta, giacché la Bibbia è un messaggio scritto destinato alla Chiesa. Possiamo chiederci chi è ispirato: l'autore, il testo o il lettore? A questo punto, è chiaro che sia l'autore che il testo devono considerarsi ispirati. Ma finora non abbiamo detto niente sul lettore. Questo è il momento per tornare al testo della Dei Filius che abbiamo citato sopra. Se togliamo la condanna degli errori, il testo dice: Questi libri dell'Antico e del Nuovo Testamento (…) la Chiesa li considera sacri e canonici (…) perché, scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati trasmessi alla Chiesa (EB 77).

La descrizione del Vaticano I mette insieme tre elementi: 1) i libri sono stati scritti sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, cioè vi è un’azione divina nell'origine (nella redazione) dei libri;

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2) i libri hanno Dio per autore (Deum habent auctorem): l'affermazione si presenta come conseguenza della precedente. Il frutto o l'effetto dell'ispirazione è che i libri hanno Dio come autore: il verbo è al presente, si tratta dunque di una caratteristica permanente. 3) ut tales ipsi Ecclesiae traditi sunt, sono stati consegnati, come libri sacri e canonici, alla Chiesa. Il Concilio Vaticano I ha lasciato ai teologi il compito di approfondire il concetto di ispirazione a partire da questi tre elementi. Ma vanno fatte ancora due osservazioni sul paragrafo della Dei Filius: 1) In latino il termine auctor è generico, vuol dire “causa”, “origine”, e non necessariamente “autore” in senso letterario, cioè, scrittore. La parola dunque si può intendere in diversi modi, che il Vaticano I non ha voluto specificare. 2) Alcuni hanno interpretato il testo della Dei Filius come una definizione riferita da una parte all'ispirazione (influsso dello Spirito, per cui Dio è autore) e dall'altra al canone (ricezione nella Chiesa). Ma non era questa l'intenzione del Vaticano I, che voleva chiarire soltanto la dottrina circa l'ispirazione. Non è giusto quindi fondarsi su questo testo per limitare il carattere ispirato dei libri alla loro composizione. Torneremo su questo punto1. Nell'enciclica Providentissimus Deus (1893) Leone XIII cercò di continuare il discorso sull'ispirazione biblica iniziato dal Vaticano I, mediante una descrizione dell'azione di Dio sull'autore di ogni libro. Per difendere l'inerranza (l'assenza di errori) della Bibbia, il Papa si appella al fatto che Dio ne è l'autore: Perciò non ha qui valore il dire che lo Spirito Santo abbia preso degli uomini come strumenti per scrivere, come se qualche errore sia potuto sfuggire non certamente all'autore principale, ma agli scrittori ispirati. Infatti egli stesso così li stimolò e li mosse a scrivere con la sua virtù soprannaturale, così li assisté mentre scrivevano, di modo che tutte quelle cose e quelle sole che egli voleva, le concepissero rettamente con la mente, e avessero la volontà di scrivere fedelmente e le esprimessero in maniera atta con infallibile verità: diversamente non sarebbe egli stesso l'autore di tutta la sacra Scrittura (EB 125).

L'enciclica si concentra sulla composizione dei libri e lascia da parte la menzione della loro consegna alla Chiesa, cioè, il momento della ricezione del messaggio da parte del destinatario. 1.

Per queste due osservazioni sulla Dei Filius, cf. N. I. Weyns, «De notione inspirationis biblicae iuxta Concilium Vaticanum», Angelicum 30 (1953) 315-336.

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Dopo la Providentissimus Deus, tutti gli studi sull’argomento continuarono centrati sull'autore umano che compone il libro. Il frutto più fecondo di questo sforzo fu la nozione di strumentalità, che abbiamo appena visto. Un'altra conclusione di questo modello, raggiunta grazie allo studio della nozione tomista di profezia, è la seguente: non fa parte del carisma dell'ispirazione il fatto che l'autore umano ne sia consapevole. Così lo spiega Perrella: Come principio generale non è necessario che l'agiografo abbia coscienza dell'ispirazione, o, che è lo stesso, la coscienza dell'ispirazione non entra nella nozione della medesima ispirazione, poiché la grazia, sia santificante che carismatica, si adatta in modo tale alla natura, che l'uomo non sa distinguere se agisca con semplici sue forze naturali, o in virtù di un'azione soprannaturale. S. Tommaso lo dice espressamente della “profezia imperfetta” (o rivelazione larga), ossia dell'ispirazione. Esaminando i dati positivi, il linguaggio che usano l'autore del II dei Maccabei e S. Luca non sembra affatto favorire l'ipotesi della coscienza dell'ispirazione. D'altra parte, Iddio può senza dubbio rendere l'agiografo cosciente dell'ispirazione, ma ciò potrebbe avvenire solo mediante una rivelazione (propriamente detta), fatta a parte, cioè indipendentemente dall'ispirazione1.

Altri sviluppi in questa linea sono finiti in un vicolo cieco. Si cercava infatti di precisare come abbia agito Dio sulla volontà dell'autore prima e durante la stesura del libro, oppure in che maniera illuminasse il suo intelletto, e in genere come influisse sulle sue diverse facoltà2. Ma così veniva dimenticato che ciò che importa è il testo che abbiamo oggi, che può avere avuto decine di autori diversi. Inoltre, questo concentrarsi sull'ispirazione dell'autore è entrato in crisi anche a causa degli sviluppi della linguistica e dell'ermeneutica, che hanno insistito sull'importanza della ricezione nel processo di comunicazione. È stato sempre chiaro che non solo gli autori, ma anche i testi biblici sono ispirati. Infatti, secondo 2 Tm 3,16, l'ispirazione appartiene al testo. Possiamo chiederci cosa vuol dire che un testo sia ispirato, oltre al fatto che il suo autore lo abbia composto sotto un influsso speciale dello Spirito Santo. Come abbiamo detto diverse volte, un testo agisce soltanto quando viene letto, altrimenti rimane in silenzio. Perciò l'attenzione attuale si è spostata sul rapporto fra

1. 2.

Perrella, Introduzione generale, 56 (n.59). “Une limite de la théologie traditionnelle a sans doute été de trop vouloir analyser le fait de l'inspiration au plan de la psychologie. Or l'articulation du divin et de l'humain dans l'inspiration, pour fascinante qu'elle soit, est irreprésentable”, Sesboüé, «La canonisation», 40.

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l’ispirazione e il lettore. Dobbiamo forse dire che ogni lettore della Scrittura riceve un’ispirazione dello Spirito Santo? Tale affermazione non sarebbe nuova. Infatti, Calvino (1509-1564), uno dei riformatori protestanti, diceva che la Bibbia non solo è ispirata da Dio, ma che è anche “ispirante Dio”. Chi legge le Scritture cioè rimane sconvolto ed edificato grazie allo Spirito Santo. Calvino parlava perfino della Scrittura che ispira come criterio per riconoscere quali sono i libri ispirati. La Chiesa non ha mai accettato un'idea del genere, che d'altronde si può smentire semplicemente per via sperimentale: si può leggere un brano biblico e non provare nessun effetto attribuibile allo Spirito Santo. Tuttavia, pur senza condividere la posizione calvinista, è ragionevole pensare che lo Spirito Santo non sia intervenuto soltanto nella composizione dei libri, ma che agisca anche nel momento della loro lettura1. Forse sarebbe desiderabile trovare un termine diverso da «ispirazione», ma è palese che il carisma dell'ispirazione rimarrebbe inutile se nessuno fosse in grado di percepire i suoi effetti, di ascoltare cioè la voce di Dio nella lettura. È logico infatti pensare che lo Spirito Santo agisca nella lettura, sebbene non in qualsiasi lettura, ossia non con ogni eventuale lettore delle pagine bibliche. Qui possiamo tentare di ricuperare il ruolo della Chiesa come destinataria dei libri sacri, come suggeriva il Vaticano I. È la Chiesa il soggetto che riceve i libri sacri e quindi riconosce che hanno Dio per autore. È la Chiesa, specialmente nella liturgia, colui che ascolta la voce divina nelle pagine sacre. “Dio, il quale ha parlato in passato non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto” (DV 8)2. La Dei Verbum non afferma mai che la Bibbia sia parola di Dio soltanto nella Chiesa. Ma di fatto parla sempre della Scrittura all'interno della vita della Chiesa. Oltre ai testi già citati, basterebbe leggere il capitolo VI della costituzione, intitolato “La sacra Scrittura nella vita della Chiesa”. Per esempio, in DV 21 si dice: (…) È necessario dunque che la predicazione ecclesiastica, come la stessa religione cristiana, sia nutrita e regolata dalla sacra Scrittura. Nei libri sacri, infatti, il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con essi; nella parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza, da

1. 2.

Cf. G. Aranda Pérez, «Inspiración: autor, libro, lector-oyente como inspirados: implicaciones teológicas», Estudios eclesiásticos 83 (2008) 271-304. Possiamo chiederci se, fuori dalla Chiesa, Dio parla tramite la Bibbia. In realtà la Chiesa non ha mai risposto a domande di questo tipo. Non è facile farlo, da una parte perché non possiamo stabilire con esattezza dove si trovano i limiti della Chiesa. Dall’altra perché sembra logico che, se vuole, Dio può comunicare con qualsiasi uomo che legga la Bibbia per aiutarlo a convertirsi.

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essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa la forza della loro fede, il nutrimento dell'anima, la sorgente pura e perenne della vita spirituale. Perciò si deve riferire per eccellenza alla sacra Scrittura ciò che è stato detto: «viva ed efficace è la parola di Dio » (Eb 4,12), «che ha il potere di edificare e dare l'eredità con tutti i santificati» (At 20,32; cfr. 1 Ts 2,13).

Parlare della Chiesa è parlare della tradizione. Se si legge la Bibbia fuori dalla tradizione, l’ispirazione perde almeno parte della sua efficacia. Detto in un altro modo, non si può considerare il carisma dell'ispirazione isolandolo dal piano divino di conservazione della parola di Dio. Ciò è in accordo con la consapevolezza che lo Spirito Santo agisce nella proclamazione e conservazione della parola di Dio, secondo i diversi carismi che strutturano la Chiesa. Se ci si chiede in che cosa consista questa azione dello Spirito, bisogna stare attenti a non ridurla all’illuminazione interiore dei cuori credenti; in realtà, essa accompagna, anima, assiste con dei carismi l'esercizio stesso dei ministeri che danno una struttura definita alla Tradizione. Tale è l'insieme dei mezzi concreti per i quali lo Spirito assicura alla Chiesa l'indefettibilità nella fede1.

Quest'azione dello Spirito non è identica all'ispirazione, ma è essenziale affinché l'ispirazione possa essere operativa. Per capire perché e come agisce lo Spirito Santo nella lettura della Bibbia nella Chiesa, san Tommaso ci dà una pista quando, dopo aver spiegato la profezia, parla del carisma della parola: I carismi, come sopra abbiamo spiegato, sono concessi per il bene altrui. Ora, la conoscenza che si riceve da Dio non potrebbe volgersi al bene di altri, se non mediante la parola. E poiché lo Spirito Santo non fa mancare niente di quanto giova al bene della Chiesa, ha provveduto ai membri di essa anche per questo: non solo facendo sì che parlassero in modo da poter essere compresi da genti diverse, mediante il dono delle lingue; ma che parlassero con efficacia, mediante il carisma "della parola" (II-II, q.177, a.1, in c.)2.

1.

2.

Traduzione mia. “Si l'on se demande en quoi consiste cette action de l’Esprit, il faut se garder de la réduire à l'illumination intérieure des coeurs croyants; en réalité, elle accompagne, anime, assiste par des charismes, l'exercice même des ministères qui donnent une structure définie à la Tradition. Tel est l'ensemble des moyens concrets par lesquels l'Esprit assure à l'Église l'indéfectibilité dans la foi”, Grelot, La Bible, Parole de Dieu, 25. Traduzione di T. Centi e A. Belloni. “Gratiae gratis datae dantur ad utilitatem aliorum, ut supra dictum est. Cognitio autem quam aliquis a Deo accipit, in utilitatem alterius converti non posset nisi mediante locutione. Et quia spiritus sanctus non deficit in aliquo quod pertineat ad Ecclesiae utilitatem, etiam providet membris Ecclesiae in locutione, non solum ut aliquis sic loquatur ut a

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Se nel testo sostituiamo “parola” con “scrittura”, possiamo applicare il ragionamento al carisma dell'ispirazione. La conoscenza diventa utile per gli altri mediante la scrittura. Lo Spirito Santo deve agire non solo nella composizione dello scritto, ma anche nella sua lettura, affinché possa essere ben compreso. Il destinatario finale di questa “conoscenza”, che è la rivelazione divina, non è altro che la Chiesa. Come abbiamo detto, l'autore ispirato può ignorare la propria ispirazione; la Chiesa invece non ignora l'ispirazione dei testi che legge1.

1.

diversis possit intelligi, quod pertinet ad donum linguarum; sed etiam quod efficaciter loquatur, quod pertinet ad gratiam sermonis”. La seguente citazione avrebbe bisogno di alcuni chiarimenti, perché non abbiamo parlato del concetto di profezia in san Tommaso, ma può aiutare: “Desde el punto de vista del hagiógrafo, el carisma de inspiración será profético solo de modo imperfecto, porque normalmente carece de visiones y sobre todo porque no siempre es consciente de la acción de Dios sobre él, ni percibe todo el alcance de sus palabras. (…) En cambio, al considerar la recepción de la Escritura en la Iglesia, se puede hablar de una profecía verdadera y propia, pues desaparecen los elementos que llevaban a hablar de imperfección en algunos casos de la profecía. En primer lugar, la Iglesia tiene certeza sobre el origen divino de los libros y por lo tanto es consciente de la acción reveladora de Dios presente en los textos —sabe que tienen a Dios por autor, por eso los considera inspirados y canónicos—. En segundo lugar, la Iglesia no lee sin entender, como profetizó Caifás, sino que comprende el contenido de la revelación, aunque no totalmente. Por último, la Iglesia recibe la revelación apostólica, que según los grados descritos por Santo Tomás a propósito del progreso de la revelación (II-II, q.174, a.6), corresponde al grado máximo de profecía”, J. C. Ossandón Widow, «Los sentidos de la Escritura: Aproximación a una definición teológica del sentido literal», Excerpta e Dissertationibus in Sacra Theologia 49 (2006) 9-103, 67-68.

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La teologia si è molto sviluppata lungo i secoli e, come conseguenza, si è divisa in “trattati” o parti specializzate. Alcune di queste parti esistono da secoli, come il trattato su Dio Uno e Trino o quello sul Verbo Incarnato (oggi conosciuto come “cristologia”), mentre altri sono più recenti. L'ecclesiologia, per esempio, è nata come tale soltanto nel secolo XX, anche se è palese che i teologi precedenti avevano parlato della Chiesa. San Tommaso d'Aquino ne parla, ma nella Summa Theologiae non c'è un trattato De Ecclesia (il tema appare, fra altri luoghi, nel trattato De Verbo Incarnato, quando studia la grazia capitale del Cristo: III q.8). Un fenomeno simile avviene con l'IGSS. Continuando con l'esempio della Summa di Tommaso, benché egli citi costantemente la Bibbia e dedichi ad essa alcuni articoli (specialmente nella questione prima della prima pars), non esiste una quaestio titolata De sacra Scriptura. In ciò che segue, tenteremo di offrire una visione storica sull'IGSS. Tuttavia, più che una ricostruzione di tutta la storia, faremo un rapido percorso soffermandoci su alcuni autori significativi, che hanno contribuito all'attuale modo di concepire la Bibbia1.

25. Origene e Agostino Prima dell'Età Moderna, tra le opere che più si avvicinano ad un manuale d'IGSS, spicca il libro IV del De principiis di Origene, nel quale si tenta di dimostrare il carattere ispirato della Scrittura e si propongono alcuni criteri per la sua interpretazione, e

1.

Per una visione storica completa, cf. Tábet, Le trattazioni teologiche.

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poi il De doctrina christiana di sant'Agostino, celebre per la distinzione fra res e verbum, e per il principio ermeneutico della carità. 25.1. La Scrittura nel De principiis di Origene In un certo senso, Origene d'Alessandria (ca. 185-254) può essere considerato il primo grande teologo nella storia della Chiesa. In una delle sue opere, chiamata De principiis o Peri Archôn, pubblicata intorno al 220, egli si propone di offrire una presentazione sistematica delle verità di fede. Fra queste, occupa un luogo fondamentale la sacra Scrittura, alla quale dedicherà l'intero libro IV. Infatti, quelli che saranno i due grandi temi della presentazione origeniana della Bibbia nel libro IV, l’ispirazione divina e l’interpretazione spirituale, fanno parte degli insegnamenti ricevuti dalla tradizione apostolica. Nel prefazio al De principiis, Origene le menziona come dottrine insegnate dagli apostoli: È tramandato ancora che le scritture sono state composte per opera dello spirito di Dio e contengono non quel solo significato che è manifesto, ma anche un altro che sfugge ai più1.

All'inizio del libro IV, Origene si propone di dimostrare dal punto di vista razionale il carattere divinamente ispirato delle Scritture (IV,1). Espone due argomenti: l'adempimento in Cristo delle antiche profezie e la diffusione del cristianesimo, annunciata da Gesù. Il primo serve per mostrare l'ispirazione dell'AT, mentre il secondo fa capire l'origine soprannaturale degli insegnamenti di Gesù, contenuti nel NT. In modo coerente con la logica della sua argomentazione, Origene formula una conclusione che vale la pena citare: Bisogna però riconoscere che il carattere divino degli scritti profetici e il significato spirituale della legge di Mosè si sono rivelati con la venuta di Cristo: infatti prima di essa non era possibile addurre argomenti evidenti sull'ispirazione del vecchio testamento. Invece la venuta di Gesù ha spinto quanti potevano dubitare del carattere divino della legge e dei profeti a riconoscerli chiaramente come scritti per grazia celeste (IV,1,6).

Non è che Origene neghi l'ispirazione dello Spirito Santo nel momento in cui si compongono i libri. Ma ritarda la possibilità di riconoscere questa azione divina al

1.

De principiis, Praef., n.8, traduzione presa da Origene, I principi; a cura di Manlio Simonetti, UTET, Torino 1968.

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tempo della Chiesa. Dovremo tornare a studiare questo punto nella parte dedicata all'ispirazione. In questo momento, interessa notare semplicemente che, per parlare della Bibbia, Origene comincia con l'ispirazione, perché da essa dipende tutto il resto. Origene dedica poi i due capitoli seguenti all'interpretazione biblica (IV,2-3). Espone la famosa dottrina dei tre sensi del testo — somatico, psichico e spirituale — che ha dato vita alla distinzione patristica e medievale fra senso letterale e senso spirituale. Adesso però ci interessano altre affermazioni dell'alessandrino, che aiutano a definire la Bibbia. In IV,2,7, Origene spiega che per interpretare correttamente la Scrittura, si deve tener presente “lo scopo cui mirava lo Spirito” nell'illuminare profeti e apostoli, e cioè: rivelare “primariamente gli ineffabili misteri della condizione umana”, affinché le anime potessero attingere la perfezione. Siccome tale perfezione non è raggiungibile senza una conoscenza profonda ed esatta di Dio, è stato disposto che Dio e il suo Unigenito si manifestassero agli uomini. Dunque, il fine della rivelazione contenuta nella Scrittura è far conoscere Iddio agli essere umani, affinché diventino perfetti. Nell'ispirare la Bibbia, però, lo Spirito — ci dice ancora Origene in IV,2,8 — ha avuto cura di non esporre le verità su Dio a persone indegne di riceverle, secondo il comando di Gesù: “Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi” (Mt 7,6). Perciò nelle pagine sacre si descrivono i misteri simbolicamente, per mezzo di racconti di guerre o di prescrizioni legali. Per Origene, non tutti i lettori della Bibbia sono in grado di penetrare nel significato spirituale nascosto dietro la lettera. Esiste una correlazione fra il grado di perfezione di ogni singolo cristiano e la profondità di significato della Scrittura. I sensi non si definiscono dunque in base a ciò che ha voluto dire l'autore della Scrittura, che è Dio, perché si tratta di un significato infinito, ma in base a ciò che capisce il lettore, secondo la sua capacità. Ci sono quindi tanti sensi quanti tipi di lettori. La Bibbia, dunque, non è uguale per tutti! Oggi la terminologia di Origene ci risulta strana (i misteri rivelati ai perfetti, ecc.). Senza dubbio, la sua comprensione della Bibbia presenta alcuni aspetti discutibili: se i sensi nascosti nel testo sono infiniti, diventa impossibile dire che un'interpretazione è migliore di un'altra. Ma la cornice nella quale Origene comprende la Scrittura è condivisibile: la sua origine è divina e il suo fine consiste nel far conoscere agli uomini i “misteri” affinché raggiungano la pienezza spirituale.

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25.2. Il De doctrina christiana di sant'Agostino L’opera chiamata De doctrina christiana — che sant'Agostino cominciò nel 395, ma che finì soltanto nel 426 — è stata un testo di riferimento per tutto il Medioevo. Essa è divisa in quattro libri. I primi tre si riferiscono alla Scrittura; il quarto invece tocca un argomento che si allontana dal nostro interesse e dunque possiamo farne a meno. La distinzione fondamentale che propone Agostino è quella fra segno (signum) e realtà (res). Entrambi interessano all'interprete, perché la Scrittura insegna “cose” attraverso “segni”, che sono le parole. La struttura dei primi tre libri del De doctrina christiana si configura a partire da questa differenza. Nel libro I, Agostino presenta le “realtà”, cioè il contenuto della Scrittura — la summa res è la Trinità —, a partire dalla distinzione fra uti e frui, fra le cose destinate ad essere adoperate come mezzi e quelle invece che esistono per essere godute, non utilizzate. Le sacre Scritture entrano dentro questa classificazione, in quanto sono una certa “cosa” e hanno una utilità voluta da Dio. Per Agostino, la Bibbia è un mezzo, uno strumento per giungere a godere (frui) di Dio, per arrivare in cielo e compiacersi nella Trinità. Con questo scopo le Scritture ci consegnano il doppio precetto della carità, verso Dio e verso il prossimo. Se la Scrittura è un mezzo per portare all'amore, chi ci è arrivato ne può prescindere. Infatti, la Bibbia non è un fine in se stessa; chi ha carità “non ha bisogno delle scritture se non per istruire gli altri” (non indiget scripturis nisi ad alios instruendos, I,39,43). Qui si sintetizza tutto il contenuto della Bibbia. La carità è il fine e la pienezza delle Scritture. (Perciò, sant'Agostino dirà, in un passo famoso, che è valida qualsiasi interpretazione di un testo biblico che contribuisca alla crescita della carità). Nei libri II e III, Agostino parla dei segni della Scrittura. All’inizio del libro II, parla della natura dei segni in genere (II,1,1-II,4,5). Nel resto del libro II e nel libro III, tocca il tema di come risolvere i passaggi biblici difficili da interpretare. La difficoltà per l'interprete può provenire sia dalla ambiguità dei segni, sia dalla loro oscurità. La Bibbia offre tutta una gamma di difficoltà. Comunque, spiega Agostino, non vi è una verità detta in maniera oscura che non si trovi esposta chiaramente altrove nella stessa Scrittura. In modo magnifico e salutare lo Spirito santo ha proporzionato il contenuto delle Sacre Scritture, provvedendo alla fame con passi di significato chiarissimo e allonta-

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nando il disgusto mediante quelli più oscuri. Quasi nulla, infatti, si ricava da questi passi oscuri che non si trovi altrove espresso nel modo più chiaro1.

Questo principio riposa su un presupposto teologico che va notato: Dio, autore della Scrittura, l'ha voluta come un mezzo per salvarci, non per confonderci. Se le parole della Bibbia sono segni, allora rimandano a qualcosa di diverso da sé stesse. Che cosa bisogna cercare, si chiede Agostino, quando si leggono le Scritture? Comprendere i pensieri e le intenzioni dei suoi autori e per loro tramite la volontà di Dio, in conformità della quale crediamo che quegli uomini abbiano parlato (II,5,6).

Lo scopo ultimo della lettura è scoprire la volontà divina. Ma per arrivarci si deve per forza passare attraverso (per) gli autori umani. Questo punto non era presente nella presentazione di Origene, che non tiene conto degli agiografi. Si tratta di un principio fondamentale dell'interpretazione biblica, come vedremo nella Parte IV. Benché parta da uno schema diverso e utilizzi un linguaggio meno intellettualista, sant'Agostino coincide con Origene nell'incorniciare la Scrittura dentro il piano salvifico di Dio. Ma la sua considerazione della natura delle parole come segni apre uno spazio per la considerazione del linguaggio umano con cui Dio ci parla nella Bibbia.

26. Da Sisto da Siena ad oggi In senso stretto, il primo trattato di IGSS è quello scritto dal domenicano Sisto da Siena (†1569). Il libro portava il titolo di Bibliotheca Sancta e fu pubblicato a Venezia nel 1566, cioè vent'anni dopo la prima sessione del Concilio di Trento, nella quale è stata definita la lista dei libri sacri come dogma di fede (ne abbiamo parlato sopra). Non stupisce quindi che Sisto cominci parlando del canone biblico. Egli studia poi il tema di Dio come autore della Bibbia e in seguito l'interpretazione biblica. Il libro finisce con una storia dell'esegesi da sant'Agostino fino al secolo XVI. Tutto il libro è pervaso da un tono apologetico, di fronte ai riformatori protestanti. L'opera di Sisto ebbe un grande influsso nella struttura dei trattati di IGSS fino agli inizi del secolo XIX. Da Sisto in poi, si comincia a studiare la Bibbia a partire dal canone, il ché è una novità rispetto a Origene e Agostino, che cominciavano dall'ispirazione. Questo schema cambierà ancora nell'Ottocento, un secolo caratterizzato dal razionalismo filosofico e dallo sviluppo della filologia, della storia e dell'archeologia.

1.

De doctrina christiana, II,6,8 e cf. II,9,14. Traduzione: Agostino, L'istruzione cristiana.

Excursus 1: Storia dell’introduzione generale alla sacra Scrittura

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Nasce allora un nuovo modo di studiare la Bibbia, desacralizzato e spesso aggressivo, che mette in dubbio la storicità di molti racconti, nega la realtà dei miracoli, denuncia l'immoralità di alcuni precetti, fa notare i limiti della cosmologia biblica, eccetera. Insomma, dalla filosofia e dalle scienze umane, mescolate con presupposti positivisti, si sferrano duri attacchi contro le Scritture. L'atteggiamento dei cattolici diventa preponderantemente apologetico. Nel 1870, il Concilio Vaticano I indica alcuni errori di tipo filosofico, legati al razionalismo, e ricorda la fede cattolica nell'ispirazione delle Scritture (per le parole del Concilio, vedi p. 233). In quest'epoca vede la luce un manuale di IGSS che per un lungo periodo è stato il più famoso e influente. Nel 1885, il gesuita Rudolph Cornely comincia a pubblicare, insieme ad altri esegeti cattolici, il Cursus Scripturae Sacrae. Il primo volume si titola Historia et critica introductio in Utriusque Testamenti libros sacros. Vol. I: Introductio generalis sive de U.T. Canonis, Textus, Interpretationis Historia. Il titolo evidenzia che il contenuto del libro coincide, grosso modo, con il manuale di Sisto da Siena: Cornely inizia col canone, segue la discussione sul testo originale e l'autorità delle versioni, e finisce con l'interpretazione. Curiosamente, nonostante gli sviluppi sulla dottrina dell'ispirazione, Cornely non ne parla. La ragione che adduce è che si tratta di una materia che corrisponde piuttosto alla teologia dogmatica. Tuttavia, nel 1891, Cornely pubblica il suo Compendium introductionis historicae et criticae in libros sacros Utriusque Testamenti, nel quale include un appendice sull'ispirazione. Nel 1893, Leone XIII pubblica l'enciclica Providentissimus Deus, che costituisce una prima risposta del magistero alla cosiddetta “questione biblica”, cioè ai problemi sollevati dalla critica razionalista. Fra l'altro, il Papa parla della verità della Bibbia e dell'ispirazione degli agiografi. Si può rilevare che, a partire dalla Providentissimus, l'ispirazione, unita strettamente alla difesa dell'inerranza biblica (cioè che la Bibbia è immune da ogni errore), diventa parte principale di tutti i manuali di IGSS fino al Concilio Vaticano II. Per esempio, uno dei migliori manuali di questo periodo, quello di Gaetano Perrella, ancor oggi utile per la sua erudizione, ha una struttura divisa in quattro parti: ispirazione, canone, testo ed ermeneutica. Dopo il Vaticano II, si comincia a presentare la Bibbia da una prospettiva meno apologetica. Per esempio, invece di difendere a tutti i costi l'inerranza, si preferisce parlare della verità che la Bibbia trasmette per la nostra salvezza. E i manuali sfruttano soprattutto il principale contributo della Dei Verbum: inquadrare la Scrittura nella cornice della rivelazione divina. Così abbiamo tentato di fare anche noi, nella prima parte del programma.

Excursus 2: “Apostolo” nel Nuovo Testamento

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Excursus 2: “Apostolo” nel Nuovo Testamento

Chi sono gli apostoli? Di solito pensiamo ai Dodici e a san Paolo. Ma nel calendario liturgico l'11 giugno si celebra la festa di “san Bàrnaba apostolo”. Oltre alla domanda su chi sono da identificare come apostoli, troviamo quella circa la definizione del termine. Cosa vuol dire “apostolo”? Quali caratteristiche distinguono un apostolo? Vale la pena soffermarsi su questo tema, perché sin dalle origini del cristianesimo ci si è appellati all'apostolicità — della rivelazione, dei libri, della Chiesa — come sinonimo di autenticità: la fede autentica è la fede degli apostoli, la vera Chiesa è quella in cui si conserva la successione apostolica, ecc. San Tommaso d'Aquino ha sintetizzato questo principio con chiarezza: “La nostra fede si poggia sulla rivelazione fatta ai profeti e agli apostoli” (Innititur enim fides nostra revelationi apostolis et prophetis factae, S.Th., I, q. 1, a. 8, ad 2). L'importanza degli apostoli dipende dal fatto che essi, come i profeti prima di Cristo, sono stati i primi destinatari della rivelazione. In genere nei documenti del Magisterio della Chiesa i termini “apostolo” e altri simili vengono impiegati spesso, ma senza precisarne il contenuto. La Dei Verbum non dice nulla al riguardo, perché lo presume un dato conosciuto o forse perché preferisce non offrire una definizione troppo precisa. Neanche nel decreto di Trento citato in DV7 si trova una definizione di “apostolo”1. Un paragone fra l'uso della parola da parte della tradizione della Chiesa e quello che appare nei libri del NT rivela alcune differenze. Più esattamente, il Magistero uti-

1.

Anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica la definizione sembra darsi per scontata. La CTI ha un documento titolato “L'apostolicità della Chiesa e la successione apostolica” (1973), ma non spiega in che cosa consiste l’essere apostolo. Benedetto XVI ha dedicato alcune udienze agli apostoli, ma si è limitato a spiegare il ruolo dei Dodici secondo i quattro vangeli (cf. Udienza Generale, 22 marzo 2006, “Gli Apostoli, testimoni e inviati di Cristo”) o a commentare DV 7 e 8 (cf. Udienza Generale, 3 maggio 2006, “La Tradizione Apostolica”).

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lizza il termine in un senso più ristretto in confronto ai sensi che possiede “apostolo” (ἀπόστολος) nel NT. In ciò che segue, menzioneremo tutti i testi dove appare il termine “apostolo”, ordinati secondo il significato che presentano in ogni caso1.

27. I diversi sensi di “apostolo” nel Nuovo Testamento 27.1. Etimologia della parola e il suo uso in Giovanni e in Ebrei In greco, ἀπόστολος viene dal verbo ἀποστέλλω, che significa “inviare”. Etimologicamente “apostolo” vuol dire “inviato”. Ma prima del cristianesimo non era un termine di uso comune. Fuori dal NT ricorre molto di rado, quasi sempre in contesto militare2. Invece, la parola percorre quasi tutto il NT — manca soltanto in 2 Tessalonicesi, Giacomo e nelle lettere di Giovanni —, il che costituisce un segnale della sua importanza nonché della sua diffusione fra i primi cristiani. Molto probabilmente l'uso del termine “apostolo” nel NT ha un'origine semitica, giacché corrisponde alla parola ebraica shalûah (‫)שׁלוַּ ח‬, ַ che vuol dire appunto “inviato”, “ambasciatore”, come anche il termine aramaico corrispondente shelîah (‫יח‬ ַ ‫)שׁ ִל‬. ְ Secondo il sostrato semitico il termine significa delegato, ambasciatore, che esercita una missione di plenipotenziario in nome di qualcuno che ha autorità e che si rende in qualche modo presente attraverso il delegato. L'apostolo rappresenta colui che gli ha dato il mandato3.

1.

2. 3.

Nella presentazione che segue mi baso su: P. Batiffol, L'Eglise naissante et le catholicisme, Cerf, Paris 1971, 46-68; J. Dupont, «Le nom d'apôtres a-t-il été donné aux Douze par Jésus?», Orient syrien 1 (1956) 267-290. 425-444; T. Citrini, «Apostolo-apostolicità della Chiesa» in F. Ardusso (ed.), Dizionario teologico interdisciplinare, Marietti, Casale Monferrato 1977, vol.1, 401-411; R. Latourelle, «Apostolo» in R. Latourelle - R. Fisichella (eds.), Dizionario di Teologia Fondamentale, Cittadella, Assisi 1990, 81-82; R. E. Brown, «I Dodici e l'apostolato» in R. E. Brown - J. A. Fitzmyer - R. E. Murphy (eds.), Nuovo grande commentario biblico, Queriniana, Brescia 1997, 1811-1816 (contiene una bibliografia assai completa dal punto di vista esegetico); J. Taylor, «Apostoli» in R. Penna - G. Perego - G. Ravasi (eds.), Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, 85-89; J. Schlosser, «I Dodici: origini, ruolo, scomparsa», Ricerche storico bibliche 25 (2013) 15-36; R. Burnet, «La notion d’apostolicité dans les premiers siècles», Recherches de science religieuse 103 (2015) 185-202. Si può consultare anche E. Pascual Calvo, «Apóstoles. I, Sagrada Escritura» in Gran Enciclopedia Rialp, Rialp, Madrid 1991, 2:517-520. “Esso si riferisce a una flotta o a un esercito inviati in una spedizione; il comando di una spedizione; un colonizzatore inviato a fondare una colonia; un conto o una fattura. Questi significati non servono come sfondo per il concetto del NT”, Brown, «I Dodici e l'apostolato», 1815 (§149). Latourelle, «Apostolo», 81.

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Talvolta, la parola si impiega nel NT semplicemente in questo senso, che possiamo chiamare “etimologico-semitico”. È il caso della menzione di alcuni “apostoli” in 2 Cor 8,23, che la Bibbia della CEI traduce giustamente come “delegati”: “Quanto ai nostri fratelli, essi sono delegati [ἀπόστολοι] delle Chiese e gloria di Cristo”. Altrettanto si può dire di Fil 2,25: Ho creduto necessario mandarvi Epafrodìto, fratello mio, mio compagno di lavoro e di lotta e vostro inviato [ὑμῶν δὲ ἀπόστολον] per aiutarmi nelle mie necessità.

Possiamo accostare a questo senso l'uso del termine nel vangelo di Giovanni, in cui ἀπόστολος appare una volta sola, sulla bocca di Gesù, che si rivolge ai suoi discepoli: In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un inviato [ἀπόστολος] è più grande di chi lo ha mandato (Gv 13,16).

Qui il senso corrisponde perfettamente a quello semitico, ma si deve aggiungere che in Giovanni il vocabolario dell'inviare acquista una enorme profondità teologica. Infatti il verbo ἀποστέλλω è frequentissimo in Giovanni (28 occorrenze), così come il verbo πέμπω (32 occorrenze), che anche significa “inviare”. Il Battista è un uomo inviato da Dio (1,6; 3,28); Gesù è l'inviato del Padre (3,17; 4,34, 5,36, ecc.), che a sua volta invia i suoi discepoli (4,38; 13,20; 17,18; 20,21)1. La frase di Gesù in Gv 20,21 riassume bene l'uso di questi verbi nel quarto vangelo (e di passaggio mostra l'equivalenza fra ἀποστέλλω e πέμπω): Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me [ἀπέσταλκέν με], anche io mando voi [πέμπω ὑμᾶς]».

D'altra parte, anche se il quarto vangelo parla spesso dei discepoli di Gesù e del gruppo più specifico dei “Dodici”, scelti da lui (6,67.70.71; 20,24), non li chiama mai “apostoli”. In sintesi, in Gv “apostolo” viene usato nel senso etimologico-semitico di inviato, con una carica teologica profonda, dentro la teologia della missione propria del quarto vangelo. È chiaro che questo senso non corrisponde esattamente all'uso del termine nella Dei Verbum che, quando dice “apostoli”, non parla di “inviati” in genere, ma sempre degli apostoli di Gesù Cristo. In Giovanni questo concetto è presente, ma senza un termine specifico. 1.

Nelle lettere di Giovanni appare ancora l'affermazione che Dio ha inviato suo Figlio (cf. 1 Gv 4,9.10.14, sempre col verbo ἀποστέλλω), ma, come detto, non appare la parola “apostolo”.

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Lo stesso si può dire della lettera agli Ebrei, dove si usa la parola una sola volta (Eb 3,1), che è inoltre l'unica volta in cui nel NT si applica a Gesù: Perciò, fratelli santi, voi che siete partecipi di una vocazione celeste, prestate attenzione a Gesù, l'apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo.

27.2. Il gruppo dei Dodici 27.2.1. Gli Undici inviati da Gesù (Mt 28,16-20; Mc 16,14-15) Quando nella Dei Verbum si parla di “apostoli” non si tratta di inviati o delegati in genere, ma di inviati di Gesù Cristo, di uomini che hanno ricevuto un invio da parte sua con un contenuto preciso, e cioè la predicazione del vangelo a tutti gli uomini. Infatti, la prima menzione degli apostoli in Dei Verbum viene accompagnata da un riferimento a due passi del vangelo (Mt 28,19-20 e Mc 16,15), che possono orientare la nostra ricerca (cf. DV7, testo citato a p. 73). Ecco i rispettivi testi di Mt e di Mc: Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». (Mt 28,16-20). Alla fine apparve anche agli Undici, mentre erano a tavola, e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risorto. E disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura». (Mc 16,14-15).

Curiosamente però in questi due testi il mandato di Gesù si rivolge agli “Undici discepoli” (Mt 28,16) o semplicemente agli “Undici” (Mc 16,14). Non appare la parola “apostolo”! Se ci fermassimo qui, gli apostoli a cui si riferirebbe DV7 sarebbero questi Undici, cioè, i Dodici meno Giuda Iscariota. Ma questa identificazione non è sufficiente; infatti in DV8 c'è un riferimento a 2 Ts 2,15 che presuppone che san Paolo viene considerato apostolo. Prima però di analizzare il caso di Paolo, bisogna completare i dati sul gruppo degli Undici o Dodici.

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27.2.2. Il gruppo dei Dodici nell'opera lucana (Lc-At) Quando sentiamo l'espressione “gli apostoli”, pensiamo subito al gruppo dei “Dodici apostoli”, menzionati nei vangeli sinottici e nel libro degli Atti. In realtà, è soprattutto nell'opera lucana (Lc e At) dove si verifica la corrispondenza fra “gli apostoli” e “i dodici”1. Inoltre, secondo il vangelo di Luca, il titolo di “apostolo” proviene da Gesù, che lo applica ai dodici dopo averli scelti personalmente: Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli [οὓς καὶ ἀποστόλους ὠνόμασεν]: Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore (Lc 6,13-16; cf. 9,10; 17,5; 22,14; 24,10)2.

Durante il suo ministero pubblico, Gesù ha scelto “per mezzo dello Spirito Santo” (At 1,2) dodici uomini fra i suoi discepoli “perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni” (Mc 3,14-15). È notevole il fatto che i tre vangeli sinottici si preoccupino di segnalare i loro nomi, sempre cominciando da Pietro e finendo con Giuda Iscariota. Si vuole sottolineare così la singolarità di questo gruppo e la sua importanza per i primi cristiani. Perché dodici? L'unica spiegazione del numero menzionata nel NT manifesta una dimensione escatologica: sedersi su dodici troni per giudicare le dodici tribù (cf. Mt 19,28; Lc 22,30). La cifra non coincide con i settanta membri del Sinedrio — l'autorità religiosa in quel momento —, ma rinvia alle dodici tribù d'Israele. L'elezione di dodici uomini vuole indicare la rinnovazione escatologica d'Israele progettata da Gesù. La funzione dei Dodici non si conclude quando Gesù ascende in cielo, benché non possano più “stare con lui”. Anzi, a partire da quel momento il gruppo acquista un'importanza centrale. Infatti, gli Atti degli Apostoli sono uno dei libri che più parla

1.

2.

In Matteo la parola “apostolo” appare una sola volta, applicata appunto ai Dodici (Mt 10,2). Anche in Marco c'è una sola ricorrenza (Mc 6,30) che pure si applica ai Dodici. Ma in entrambi i casi si tratta di un uso del termine molto vicino, se non identico, al senso etimologico-semitico di “delegato”. In Mc 3,13-14, la versione della CEI dice: “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici — che chiamò apostoli —”. Ma le parole “che chiamò apostoli” [οὓς καὶ ἀποστόλους ὠνόμασεν] mancano in alcuni manoscritti e sembrano un'armonizzazione con Lc 6,13.

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dei Dodici. Quando dice “gli apostoli”, si tratta quasi sempre di un riferimento ai Dodici — o agli Undici, come in At 1,2 —: cf. At 1,2.26; 2,37.42-43; 4,33.35-37; 5,2.12.18.29.40; 6,6; 8,1.14.18; 9,27; 11,1; 14,4.14; 15,2.4.6.22-23; 16,4. In At 1,13 si fanno i nomi degli Undici. Poco più avanti, uno dei primi racconti è quello della ricostituzione del gruppo dei Dodici. Rivolgendosi ai circa centoventi fratelli che lo ascoltano (cf. 1,15) san Pietro spiega la necessità di sostituire il traditore (1,16-20) e poi mette in chiaro i requisiti dei “candidati”: Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione [μάρτυρα τῆς ἀναστάσεως αὐτοῦ σὺν ἡμῖν γενέσθαι] (At 1,21-22).

La scelta, fatta a sorte per indicare che non è frutto di una decisione umana, cade su Mattia, “che fu associato agli undici apostoli” (1,26). Pertanto egli gode del titolo di apostolo, anche se non è stato scelto direttamente da Gesù né era presente quando gli Undici sono stati inviati a predicare a tutto il mondo. Ma san Mattia sarà presente nel giorno di Pentecoste e riceverà lo Spirito Santo insieme agli altri (cf. At 2,1ss.). Dalle parole di san Pietro appena citate si ricava che di uomini che adempivano ai vari requisiti potevano essercene parecchi (oltre Mattia, c'era perlomeno “Giuseppe, detto Barsabba, soprannominato Giusto”, At 1,23). Quindi, fra il gruppo dei Dodici e il gruppo più ampio di discepoli che hanno accompagnato Gesù durante la sua vita terrena e l'hanno visto dopo la sua risurrezione, la differenza non consiste nel fatto che i primi hanno conosciuto Gesù e gli altri no. Nemmeno si può dire che solo i Dodici abbiano visto Gesù risorto. Infatti, la funzione dei Dodici sembra quella di testimoniare pubblicamente la risurrezione: così si spiega il fatto che Pietro parli di diventare testimone della risurrezione (1,22). Molti hanno accompagnato Gesù e l'hanno visto risorto, ma non corrisponde loro la funzione pubblica di esserne testimoni come i Dodici apostoli. Qui appare un vincolo fra l’essere apostolo e l’essere testimone della risurrezione di Gesù (cf. pure At 4,33; 5,32), che troveremo anche nelle lettere paoline. È interessante osservare che, dopo che Erode Agrippa fa uccidere Giacomo, figlio di Zebedeo (At 12,2), gli apostoli tornano ad essere undici, ma non sostituiscono Giacomo. Se Giuda aveva lasciato vuoto il suo posto, era perché non era arrivato a compiere la sua missione di testimoniare la risurrezione di Gesù. Come abbiamo detto, negli Atti si verifica quasi sempre l'equivalenza fra “gli apostoli” e “i Dodici”. Il “quasi” è d'obbligo perché in At 14,4.14 Paolo e Bàrnaba vengono chiamati “apostoli”, benché non facciano parte dei Dodici. Nelle sue lettere, san Paolo

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si attribuisce il titolo di “apostolo” senza mezzi termini. Dobbiamo vedere che cosa intende. 27.3. “Apostolo” nelle lettere di Paolo Nell'intestazione di quasi tutte le sue lettere Paolo si presenta col titolo di apostolo di Cristo Gesù (Rm 1,1; 1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1; Ga 1,1; Ef 1,1; Col 1,1; 1 Tm 1,1; 2 Tm 1,1; Tt 1,1). Quando appare un altro mittente della lettera, rimane chiaro che il titolo appartiene soltanto a Paolo, come nella prima ai Corinzi: Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene alla Chiesa di Dio che è a Corinto (1 Cor 1,1-2).

Secondo la stessa prima lettera ai Corinzi, l’essere apostolo è unito alla qualità di testimone oculare del Risorto: Non sono forse libero, io? Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? E non siete voi la mia opera nel Signore? Anche se non sono apostolo per altri, almeno per voi lo sono; voi siete nel Signore il sigillo del mio apostolato. La mia difesa contro quelli che mi accusano è questa: non abbiamo forse il diritto di mangiare e di bere? Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa? Oppure soltanto io e Bàrnaba non abbiamo il diritto di non lavorare? (1 Cor 9,1-6).

Da questo testo, non è del tutto chiaro se l'aver visto Gesù basta per essere apostolo. Non si può nemmeno dire con sicurezza se Paolo consideri Bàrnaba apostolo come lui, benché sembri di sì. È interessante anche rilevare il fatto che alcuni non riconoscevano Paolo come apostolo. Più avanti, nella stessa lettera, troviamo ulteriori informazioni su chi era apostolo. È l'elenco dei testimoni della risurrezione al capitolo 15, dove “tutti gli apostoli” designa un gruppo più ampio dei “Dodici”: A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici1.

1.

Perché dice “i Dodici” se erano soltanto undici al momento delle apparizioni di Gesù risorto? La risposta più logica è che il nome “i Dodici” era ormai una formula. Da notare anche, qui e nel testo citato di 1 Cor 9, la menzione singolarizzata di Cefa (Pietro), nonostante facesse parte dei dodici.

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In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio (1 Cor 15,3-9).

Da questo brano si ricava senza equivoci che san Paolo non identifica “gli apostoli” con “i Dodici”. Come spiega Benedetto XVI: Noi normalmente, seguendo i Vangeli, identifichiamo i Dodici col titolo di apostoli, intendendo così indicare coloro che erano compagni di vita e ascoltatori dell'insegnamento di Gesù. Ma anche Paolo si sente vero apostolo e appare chiaro, pertanto, che il concetto paolino di apostolato non si restringe al gruppo dei Dodici. (…) Egli aveva un concetto di apostolato che andava oltre quello legato soltanto al gruppo dei Dodici e tramandato soprattutto da san Luca negli Atti (cfr At 1,2.26; 6,2). Infatti, nella prima Lettera ai Corinzi Paolo opera una chiara distinzione tra “i Dodici” e “tutti gli apostoli”, menzionati come due diversi gruppi di beneficiari delle apparizioni del Risorto (cfr 15,5.7). (BᴇNᴇᴅᴇᴛᴛᴏ XVI, Udienza generale 10-09-08).

Se si considera che “apostolo” significhi testimone di una apparizione di Gesù risorto, allora anche i più di cinquecento fratelli sarebbero apostoli (cf. 1 Cor 15,6). Ma il testo non è univoco su questo punto. In ogni caso, si vede che esistono più di dodici apostoli. Forse in questo senso si applica il termine ad Andrònico e Giunia in Rm 16,7: Salutate Andrònico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia: sono insigni tra gli apostoli [ἐπίσημοι ἐν τοῖς ἀποστόλοις] ed erano in Cristo già prima di me.

Siccome Giunia è indubbiamente un nome di donna si vede che, almeno in un senso ampio, “apostolo” non era un titolo riservato agli uomini. Si deve notare che di Andrònico e Giunia si dice che sono “apostoli”, ma non “apostoli di Gesù Cristo”, e forse il titolo va inteso in senso ampio, come “missionari”. Inoltre, alcuni hanno chiamato Maria Maddalena “apostola degli apostoli” (apostolorum apostola): infatti Maria ha visto il Signore, che la invia ad annunciare la risurrezione agli apostoli (cf. Gv 20,11-18)1. L’espressione è stata inserita recentemente 1.

L'espressione è di solito attribuita a Ippolito Romano (Comm. in Canticum, ed. G. Nathanael Bonwetsch, n. 67). Cf. anche san Girolamo (Comm. in Sophoniam, prologus), san Bernardo (Sermones super Cantica Canticorum, sermo 75, 8, in Bernardi opera, ed. J. Leclercq, C.H. Talbot et H.M. Rochais, 1957-1958, vol. 2, p.251), e san Tommaso d’Aquino (In Ioannem Evangelistam Expositio c. 20, l. 3, 6). Cf. Burnet, «La notion d’apostolicité», 188, n. 13.

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nella liturgia romana, come titolo del nuovo prefazio preparato per la festa della santa, il 22 luglio. Ma alcuni appellano a questa tradizione per esigere l'ordinazione sacerdotale delle donne, una proposta che non è stata accolta dalla Chiesa1. 27.4. Verso una sintesi Il testo di 1 Cor 15 citato sopra stabilisce da una parte che per Paolo non si possono identificare “i Dodici” con “gli apostoli”, ma dall’altra non dice che per essere apostolo sia sufficiente l'aver visto Gesù risorto. Benedetto XVI spiega il concetto paolino di apostolato dicendo che, per essere apostoli, bisogna adempiere tre requisiti: Cos'è, dunque, secondo la concezione di san Paolo, ciò che fa di lui e di altri degli apostoli? Nelle sue Lettere appaiono tre caratteristiche principali, che costituiscono l'apostolo. La prima è di avere “visto il Signore” (cfr 1 Cor 9,1), cioè di avere avuto con lui un incontro determinante per la propria vita. Analogamente nella Lettera ai Galati (cfr 1,15-16) dirà di essere stato chiamato, quasi selezionato, per grazia di Dio con la rivelazione del Figlio suo in vista del lieto annuncio ai pagani. In definitiva, è il Signore che costituisce nell'apostolato, non la propria presunzione. (…) La seconda caratteristica è di “essere stati inviati”. Lo stesso termine greco apóstolos significa appunto “inviato, mandato”, cioè ambasciatore e portatore di un messaggio; egli deve quindi agire come incaricato e rappresentante di un mandante. È per questo che Paolo si definisce “apostolo di Gesù Cristo” (1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1), cioè suo delegato, posto totalmente al suo servizio, tanto da chiamarsi anche “servo di Gesù Cristo” (Rm 1,1). (…) Il terzo requisito è l'esercizio dell'“annuncio del Vangelo”, con la conseguente fondazione di Chiese (BᴇNᴇᴅᴇᴛᴛᴏ XVI, Udienza generale 10-09-08).

Seguendo la strada segnalata dal Pontefice, possiamo dire che non veniva chiamato apostolo soltanto chi aveva visto il Signore — come i cinquecento fratelli —, ma chi aveva ricevuto anche da Gesù una “missione” o “invio” (ἀποστολή, cf. At 1,25; Rm 1,5; 1 Cor 9,2; Ga 2,8), una missione che consiste nell’annunzio del vangelo. Tale invio avviene, per gli Undici, nel momento dell'Ascensione; per Paolo, sulla strada verso Damasco. Negli Atti appare come compito principale dei Dodici la predicazione: questa è la ragione per cui vengono nominati sette diaconi per altri servizi (At 6,1-7)2. 1. 2.

Sui fondamenti, nella tradizione apostolica, per rifiutare il sacerdozio femminile, cf. P. Grelot, La tradition apostolique: règle de foi et de vie pour l’Église, Cerf, Paris 1995, 139-161 («Y aura-t-il des “femmes-prêtres” dans l'Église?»). Grelot offre una sintesi simile su chi sono gli apostoli: “(…) uomini chiamati da Gesù all'apostolato e costituiti da lui in testimoni della sua resurrezione (At 1,8.21-22). Un contatto immediato con il Cristo risorto risulta loro pertanto essenziale. Ma fra coloro che ne hanno beneficiato (molto numerosi secondo 1 Cor 15,6), che quindi potrebbero riferire le azioni e le parole di Gesù (…), non

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Per completare il quadro, bisogna dire che, quando la Chiesa parla della fede degli apostoli, sembra riferirsi a un gruppo gerarchico, che esercita una potestà. Negli Atti e nel resto del NT, si menzionano diversi ministeri: maestri, profeti, dottori, ecc. Spesso non è chiaro quali funzioni precise avessero, ma dagli scritti neotestamentari risulta innegabile che nella prima comunità cristiana esisteva una gerarchia, come manifesta per esempio il ruolo di Pietro, degli stessi Dodici e di Paolo; e come fa supporre la menzione di presbiteri o vescovi nelle comunità cristiane fuori Gerusalemme. In questa gerarchia, Pietro e i Dodici occupano il primo posto: ciò si manifesta specialmente negli Atti, dove si racconta come diversi problemi pratici o dottrinali venissero sottoposti a loro. Le loro decisioni non erano semplicemente orientative, ma vincolanti. Paolo utilizza anche il titolo di apostolo come carica che implica la potestà di governo (cf. Ga, 2 Cor 11-12). E nelle lettere paoline si menziona quello apostolico come un ministero al quale corrisponde il primo posto. In 1 Cor 12,28 (e cf. Ef 4,11) si dice: Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi ci sono i miracoli, quindi il dono delle guarigioni, di assistere, di governare, di parlare varie lingue.

Oltre alla potestà, possiamo segnalare un altro tratto, implicito nei testi, che risulta fondamentale per distinguere i veri apostoli dai falsi. Si tratta della comunione degli uni con gli altri e, più specificamente, con i Dodici e con Pietro. In questo senso, il testo più significativo si trova all'inizio della lettera ai Galati, dove Paolo, dopo aver difeso l'origine divina della propia vocazione all'apostolato (cf. Ga 1,1.11-19), si preoccupa di chiarire che il suo vangelo è in conformità con quello di coloro che erano apostoli prima di lui (cf. Ga 2,1-10).

tutti hanno ricevuto una missione propriamente apostolica. Essa corrisponde principalmente ai Dodici, con i quali la Chiesa primitiva appare come un'organizzazione ben strutturata (At 1,13.21-26; 2,14; 5,9). Al contrario, chiamato direttamente da Cristo risorto senza averlo conosciuto durante la sua vita terrena, Paolo è per questo titolo apostolo (Gal 1,2.12; Rm 1,4s.) e ministro del Vangelo alla pari dei Dodici”. Traduzione mia, testo originale in francese: “(…) hommes appelés par Jésus à l'apostolat et constitués par lui témoins de sa résurrection (Act 1,8.21-22). Un contact immédiat avec le Christ ressuscité lui est donc essentiel. Mais parmi ceux mêmes qui en ont bénéficié (assez nombreux d'après 1 Cor 15,6), qui par conséquent pourraient rapporter les gestes et les paroles de Jésus (…), tous n'ont pas reçu une mission proprement apostolique. Elle est essentiellement le fait des Douze, grâce auxquels l'Église primitive apparaît comme un organisme solidement structuré (Act 1,13.21-26; 2,14; 5,9). Par contre, appelé directement par le Christ ressuscité sans l'avoir connu durant sa vie terrestre, Paul est à ce titre apôtre (Gal 1,2.12; Rom 1,4s.) et ministre de l'Évangile à l'égal des Douze”, Idem, La Bible, Parole de Dieu, 15.

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27.5. Altre caratteristiche degli apostoli Fin qui abbiamo visto le caratteristiche che definiscono un apostolo: inviati da Gesù come testimoni del Risorto per annunciare il Vangelo, dotati di potestà e in comunione fra loro. Ora possiamo aggiungere altre caratteristiche meno essenziali, in quanto derivano dalle precedenti, ma più rilevanti per capire il ruolo degli apostoli nella trasmissione della parola di Dio. Gli apostoli appaiono come insostituibili, garanti di autenticità, destinatari della rivelazione, e fondamento della Chiesa. Un punto molto chiaro è che gli apostoli non possono avere successori in senso stretto. I successori degli apostoli non vengono mai chiamati apostoli. Parlare degli apostoli oppure della generazione apostolica implica una delimitazione nel tempo: si veda quanto detto nella prima parte a proposito di DV4 e della chiusura della rivelazione. Essere apostolo, come abbiamo appena visto, implica aver ricevuto da Gesù la potestà per predicare il vangelo e governare la comunità. Da qui nasce l'uso dell’aggettivo “apostolico” nel senso di “legittimo”, o meglio di “autentico”. Quando alcuni accusano Paolo, tentando di privarlo della sua autorità, egli si difende — contro gli “pseudoapostoli” o “superapostoli” (cf. 2 Cor 11) — dicendo che è veramente un apostolo e che quindi il suo vangelo è autentico, cioè procede da Gesù Cristo. Nella lettera di Giuda, si trova una menzione degli apostoli che riflette bene il fatto che l'autenticità e la normatività ben presto furono associate all'apostolicità: Ma voi, o carissimi, ricordatevi delle cose che furono predette dagli apostoli del Signore nostro Gesù Cristo. Essi vi dicevano: «Alla fine dei tempi vi saranno impostori, che si comporteranno secondo le loro empie passioni» (Gd 17-18).

Giuda fa appello alle parole degli apostoli del Signore come un'autorità riconosciuta da tutti (cf. anche 2 Pt 3,2). Quanto più il tempo passerà e comincerà a scomparire la generazione apostolica, tanto più frequenti diventeranno questi appelli a ricordarne gli insegnamenti. Emblematico è il caso di sant'Ireneo di Lione, col quale prende forma l'idea della successione apostolica come garanzia di fedeltà a Cristo. Perché è stata attribuita agli apostoli un'autorità così grande e unica? Grazie al loro contatto con Cristo, essi sono stati i destinatari diretti della sua rivelazione, durante la sua vita terrena e soprattutto nel periodo che va dalla sua morte alla sua ascensione al cielo. Infatti, il mistero di Cristo:

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non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come ora è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito (Ef 3,5)1.

Per quanto riguarda la rivelazione e la sua trasmissione, non vi è accesso a Gesù Cristo se non attraverso gli apostoli. Per questo motivo san Paolo afferma che la Chiesa si fonda su di essi, che a loro volta si appoggiano su Gesù: Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, avendo come pietra d'angolo lo stesso Cristo Gesù. In lui tutta la costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito (Ef 2,19-22).

Il paragone edilizio si ritrova nell'Apocalisse (e, in riferimento a Pietro, anche in Mt 16,18). Nella descrizione della Gerusalemme che discende dal cielo, Giovanni dice: Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell'Agnello (Ap 21,14).

28. L'apostolicità dei libri del Nuovo Testamento Nella Dei Verbum — e in genere nei documenti magisteriali — si impiega il termine “apostolo” per riferirsi ad alcuni uomini che sono stati testimoni della vita di Gesù, hanno visto Cristo risorto e hanno ricevuto da lui l'invio o missione di predicare il vangelo, assumendo così la carica gerarchica più elevata nella prima comunità cristiana. Secondo questa descrizione, gli apostoli per antonomasia sono i Dodici scelti da Gesù stesso, escludendo Giuda. Paolo e Mattia godono del titolo di apostolo in una maniera un po' “fuori norma”, poiché il primo non ha conosciuto Gesù durante la sua vita terrena, mentre il secondo non è stato scelto direttamente da lui2. Forse anche Bàrnaba rientra in queste eccezioni, ma non abbiamo sufficienti elementi per decidere: infatti, nel caso di At 14,4.14 può trattarsi di un uso del termine in senso etimologico-semitico.

1. 2.

I “profeti” menzionati qui e in Ef 2,20 non sono quelli dell'AT, ma una categoria di testimoni di Cristo dentro la prima generazione di cristiani, che occupava il secondo posto dopo gli apostoli, come appare anche in Ef 4,11 e 1 Cor 12,28. Cf. anche Lc 11,49. “L'expression «les douze apôtres» est une expression synthétique plutôt qu’une énumération rigoureuse : on a dit «les Douze» sans exclure pour autant Paul et Barnabé de l'apostolat, et sans s’inquiéter que les Douze fussent quatorze”, Batiffol, L'Eglise naissante, 65.

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Sulla base della rassegna appena fatta di testi del NT, è palese che in effetti alcuni venivano chiamati apostoli in un senso più ampio, difficile da precisare. Probabilmente non godevano della stessa autorità dei Dodici o di Paolo, autorità che fra l'altro includeva la potestà di imporre le mani per stabilire successori. Per il nostro discorso, la cosa più importante è comprendere in che senso si afferma che la Scrittura è apostolica. Ebbene, l'apostolicità indica un rapporto con gli apostoli, ma bisogna precisare di quale tipo. La Bibbia è apostolica, fondamentalmente, perché contiene in maniera fedele — direttamente, nel caso del NT; indirettamente, in quello dell'AT — la predicazione apostolica e come tale è stata ricevuta dalla Chiesa. I libri del NT non vengono dunque chiamati apostolici perché si pensi che siano stati scritti direttamente e integramente dagli apostoli, nel senso dei Dodici e di Paolo. Se non si distingue fra questi due sensi dell'aggettivo “apostolico”, si potrebbe pensare che se lo scrittore non è un apostolo, il libro non è apostolico e quindi non è canonico. Fortunatamente, fin dai primissimi tempi, i casi di Marco e di Luca hanno reso impossibile che tale semplificazione diventasse un criterio teologico. Infatti, come abbiamo visto, in DV7 si parla di viri apostolici per evitare tale identificazione. Inoltre, come noto, esistono molti libri dell’epoca iniziale della Chiesa che si presentano come scritti da un apostolo: il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Giacomo, gli Atti di Andrea, l'Apocalisse di Pietro, ecc. La Chiesa non ha incluso questi libri nel canone, perché è riuscita a discernere che il loro contenuto non corrispondeva fedelmente al deposito della predicazione apostolica, che essa custodisce. Abbiamo trattato di questo argomento nella parte dedicata al canone biblico, perché uno dei criteri decisivi per accettare o meno un libro è proprio l'apostolicità correttamente intesa (cf. pp. 150-154). Ad ogni modo, il ricorso quasi sistematico ai nomi degli apostoli nella letteratura extracanonica è un segnale chiaro di come l'apostolicità fosse vista come sinonimo di autenticità: chi voleva diffondere una dottrina lo faceva nascondendosi dietro il nome di un apostolo.

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L'economia della salvezza preannunziata, narrata e spiegata dai sacri autori si trova in qualità di vera parola di Dio nei libri del Vecchio Testamento. Dei Verbum, n. 14

Bibliografia: PCB, Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana (24 maggio 2001), nn. 2-8. G. ARᴀNᴅᴀ, «Función de la Escritura en la Revelación divina» in C. IᴢQᴜIᴇRᴅᴏ (a cura di), Dios en la palabra y en la historia: XIII Simposio internacional de teología de la Universidad de Navarra, Eunsa, Pamplona 1993, 491-502. ————, «La «Sagrada Escritura» a la luz del Apocalipsis» in J. CHᴀᴘᴀ (a cura di), Signum et testimonium, Eunsa, Pamplona 2003, 201-216. ————, «El libro sagrado en la literatura apocalíptica», Scripta Theologica 35 (2003) 319-353. A. M. ARᴛᴏᴌᴀ - J. M. SÁNᴄHᴇᴢ CᴀRᴏ, Biblia y Palabra de Dios, Verbo Divino, Estella 1995, parte I, “La Biblia, Palabra de Dios” (A. M. Artola). V. MᴀNNᴜᴄᴄI - L. MᴀᴢᴢINGHI, Bibbia come Parola di Dio: Introduzione generale alla sacra Scrittura, Queriniana, Brescia 212016, capitolo 5 e soprattutto capitolo 8. R. VIGNᴏᴌᴏ, «‘Scriptura secundum Scripturas’: Valenza narrativa e riflessiva del Libro nella Tôrâ e nei Profeti anteriori. Per una fenomenologia del testo biblico tra poetica e teologia», Ricerche storico bibliche 12 (2001) 27-83. In ciò che segue, ci chiederemo se la Bibbia, o alcuno dei libri che la compongono, si presenti direttamente come parola di Dio o piuttosto come testimonianza di

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una parola divina anteriore; se appare una distanza fra la rivelazione storica e la sua messa per iscritto; e quale valore avevano i libri per il popolo d'Israele. Sarebbe ingenuo tentare di ricostruire tutti i passi della rivelazione e della messa per iscritto dei libri biblici. L'informazione disponibile è troppo scarsa. Tuttavia, nella Bibbia si possono trovare alcune tracce, che conviene prendere in considerazione per evitare una visione anacronistica. La Bibbia, infatti, non è esistita fin da subito, come insieme di scritti che contengono la parola di Dio, benché esistesse già una rivelazione nella storia. Più che nel ricercare dati storici, lo scopo delle pagine che seguono consiste nel mettere in luce le idee sulla rivelazione e la sua messa per iscritto implicite o esplicite nei testi che abbiamo. Lungo il cammino dovremo raccogliere i dati circa il processo di composizione dei testi — chi li ha scritti, quando, per ordine di Dio o per iniziativa propria, se c'è stato qualche intervento divino per la redazione, eccetera —. Ma più ancora ci interesseranno le informazioni sulla ricezione dei testi, cioè sull'autorità che viene loro riconosciuta, da chi e perché. Detto in altri termini: faremo un'indagine cercando indizi circa la creazione e ricezione dei libri biblici, per stabilire il loro rapporto con la rivelazione o parola di Dio. Si tratta di vedere come alcuni scritti, pur essendo ispirati dall'inizio, diventarono libri sacri per l'antico Israele (e poi parola di Dio per la Chiesa). Sia infine chiaro che in quanto segue non si analizzeranno tutti i dati biblici sulla parola di Dio in genere, ma solo quelli che si riferiscono alla sua redazione scritta. La Bibbia non parla quasi mai di “rivelazione”, nel senso che questa parola possiede nella teologia fondamentale, però parla — e molto — della “parola di Dio”, di come Dio si manifesta agli uomini e stabilisce un contatto con loro. Nell'AT si menzionano solo due tipi di messaggi divini che si scrivono: la parola della Torah e la parola profetica. Invece, nel NT si applica il concetto di parola di Dio a tutte le Scritture in un senso globale (come abbiamo visto a pp. 93-99).

29. La parola della Torah Tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi, il suono del corno e il monte fumante. Il popolo vide, fu preso da tremore e si tenne lontano. Allora dissero a Mosè: «Parla tu a noi e noi ascolteremo; ma non ci parli Dio, altrimenti moriremo!» (Es 20,18-19).

Per gli ebrei moderni, al centro delle loro Scritture si trova la Torah. Noi cristiani mettiamo il Pentateuco non al centro, ma all'inizio, perché racconta le prime tappe della storia della salvezza. Per gli uni e per gli altri è un testo sacro; adesso dobbiamo chiederci in quale senso e se sempre è stato considerato così.

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Non possiamo entrare qui nel merito del problema della composizione del Pentateuco, cioè del processo lungo il quale tradizioni orali e documenti scritti sono stati riuniti fino a formare questi cinque libri come li conosciamo oggi. Come informazione di partenza, ci basti dire che oggi si pensa che la Torah scritta abbia raggiunto la sua disposizione in cinque libri e grosso modo l'attuale forma testuale in epoca post-esilica, nel periodo persiano (V-IV secoli a.C.)1. Di seguito, ci limiteremo a raccogliere le indicazioni fornite dal testo stesso circa la sua composizione e la sua ricezione. 29.1. Riferimenti alla Torah scritta nel Pentateuco Nella Bibbia, il primo personaggio di cui si afferma che ha scritto le parole che Dio gli ha comunicato è Mosè. Né nella Genesi né nel resto della Bibbia si parla di un'attività di scrittura al tempo dei patriarchi. Né Abramo, né Isacco, né Giacobbe, né i suoi dodici figli hanno scritto niente di cui si faccia menzione nelle Scritture canoniche2. 29.1.1. Il racconto dell'Esodo I primi riferimenti a una messa per iscritto di un messaggio divino appaiono attorno alla teofania del Sinai e alla consegna del dono della Torah, nel contesto dell’alleanza. È un momento di importanza trascendentale nella storia della salvezza. Il popolo d'Israele diventa proprietà di Dio, regno di sacerdoti e nazione santa tramite un patto o alleanza che, attraverso la mediazione di Mosè, propone loro il Signore, dopo averli liberati dalla schiavitù (cf. Es 19,3-8). La seconda parte del libro dell'Esodo (capitoli 19 a 40) descrive il modo in cui viene stabilita l'alleanza. La storia sarà un po' travagliata, perché il “peccato originale” del popolo — l'adorazione del vitello d'oro — rischia di far fallire tutto. Ma a noi interessa soltanto ricordare le allusioni alla messa per iscritto delle parole di Dio.

1.

2.

Per un riassunto delle diverse ipotesi sulla composizione del Pentateuco, cf. M. Tábet, Introduzione al Pentateuco e ai libri storici dell'Antico Testamento, Apollinare studi, Roma 2001, 19-67; F. Giuntoli, «Il Pentateuco» in P. Merlo (ed.), L'Antico Testamento: introduzione storico-letteraria, Carocci, Roma 2008, 99-127. Fuori dai confini del canone, la situazione cambia. Nel libro di Enoc (1 Enoc) si attribuisce la messa per iscritto di rivelazioni ad Enoc, uno dei patriarchi antidiluviani, che “scomparve perché Dio l'aveva preso” (Gn 5,24; cf. Sir 44,16; 49,14). Esiste pure un'opera chiamata Testamenti dei XII Patriarchi, ossia le ultime parole di ognuno dei dodici figli di Giacobbe. Più tardivi sono l'Apocalisse di Abramo, l'Apocalisse di Adamo e diversi scritti attribuiti a Set, figlio di Adamo.

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La prima volta che Mosè sale sul monte Sinai, Dio gli comunica diverse leggi, fra cui il decalogo e una lunga serie di precetti, il cosiddetto “codice dell'alleanza” (Es 20-23). Mosè scende dal monte e trasmette queste parole al popolo. In Es 24 appare per la prima volta il passaggio dalla parola divina orale a quella scritta. La Torah si scrive affinché rimanga e viene subito letta pubblicamente: Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose a una sola voce dicendo: «Tutti i comandamenti che il Signore ha dato, noi li eseguiremo!». Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d'Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore. Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l'altra metà sull'altare. Quindi prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto». Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell'alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!» (Es 24,3-8).

Da notare come prima Mosè riferisce al popolo oralmente quello che il Signore ha detto e poi lo scrive e lo legge. La risposta è uguale in entrambi i casi. Poi segue un racconto simile, con una seconda ascesa di Mosè al Sinai, accompagnato da Aronne, Nadab, Abiu e settanta anziani d'Israele. Il Signore trasmette altre leggi (Es 25-31), ma questa volta appare un'importante novità: dopo la comunicazione orale delle leggi, si menziona la consegna di un testo scritto da Dio stesso! Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra, scritte dal dito di Dio (Es 31,18; cf. 24,12).

Fin qui abbiamo due testi: il libro dell'alleanza, scritto da Mosè, e le tavole di pietra, scritte da Dio. Se continuassimo a leggere il racconto dell'Esodo, vedremmo che non è molto chiara la distinzione fra i due. Del libro dell'alleanza non si parlerà più. Le tavole di pietra avranno una vita molto breve: Mosè le distrugge quando scende e scopre che il popolo ha peccato con il vitello d'oro (cf. Es 32,15-19). Segue poi il perdono e una nuova teofania — Dio mostra a Mosè non il suo volto, ma le sue spalle (cf. Es 33,23) — con la consegna di nuove tavole di pietra con le parole di Dio. Chi le scrive? Il Signore promette che lo farà lui stesso (Es 34,1), ma poi si afferma che lo ha fatto Mosè (cf. Es 34,28, dove si omette il soggetto, ma dal contesto sembra riferirsi a Mosè). Il lettore può rimanere alquanto confuso davanti alle ripetizioni e alle apparenti incoerenze del racconto. Non possiamo fare ora un'analisi del libro dell'Esodo, in cui

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confluiscono tradizioni diverse. Ma va notata la coerenza di fondo che sta dietro alle varianti: in tutti i casi si presentano come contenuto dei testi le parole che Dio, attraverso Mosè, rivolge al suo popolo come esigenze dell'alleanza. L'origine delle parole è sempre orale e divina. Cioè, prima Dio le pronuncia oralmente davanti a Mosè e poi si mettono per iscritto. Perciò, non importa se sia Dio o Mosè colui che pronuncia o scrive i comandamenti: si tratta in ogni caso di una parola di Dio. In questo senso, è illuminante mettere assieme due testi paralleli dei vangeli, in cui Gesù cita un precetto del decalogo (cf. Es 20,12 e Dt 5,16). Il comandamento viene considerato parola di Dio, ma in un caso si mette in bocca a Mosè, nell'altro a Dio: Mosè disse: Onora tuo padre e tua madre, e: Chi maledice il padre o la madre sia messo a morte. Voi invece dite: “Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio”, non gli consentite di fare più nulla per il padre o la madre. Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte (Mc 7,10-13).

Dio disse: Onora il padre e la madre e inoltre: Chi maledice il padre o la madre sia messo a morte. Voi invece dite: “Chiunque dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è un'offerta a Dio, non è più tenuto a onorare suo padre”. Così avete annullato la parola di Dio con la vostra tradizione (Mt 15,4-6).

L'identità dello scrittore è indifferente: che sia Mosè oppure Dio, i testi contengono sempre parole di Dio che hanno un carattere normativo per il popolo in virtù dell'alleanza. L'alleanza presuppone una rivelazione storica precedente, con opere e parole. La Torah di Mosè non si presenta come un libro caduto dal cielo, come una parola di Dio scritta indipendentemente da una storia, da una comunità e da una tradizione. 29.1.2. I riferimenti alla Torah scritta nel Deuteronomio Nel Deuteronomio, ultimo libro del Pentateuco, appaiono molti riferimenti alla messa per iscritto della Torah. A differenza di quanto abbiamo visto nell'Esodo, nel Deuteronomio si opera una distinzione più chiara fra ciò che ha scritto Dio — le dieci parole sulle due tavole (cf. Dt 4,13; 5,22; 9,10; 10,2-4) — e ciò che ha scritto Mosè, ossia tutto il resto della Torah. Alla fine del Deuteronomio si afferma con particolare solennità che Mosè ha scritto “questa legge”, il che sembra un'allusione allo stesso libro del Deuteronomio:

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Quando Mosè ebbe finito di scrivere su un libro tutte le parole di questa legge, ordinò ai leviti che portavano l'arca dell'alleanza del Signore: «Prendete questo libro della legge e mettetelo a fianco dell'arca dell'alleanza del Signore, vostro Dio. Vi rimanga come testimone contro di te» (Dt 31,24-26; cf. anche 31,9-19).

L'identificazione fra la legge e “questo libro” appare spesso nel Deuteronomio: cf. Dt 28,58.61; 29,19-21; 30,10. Da notare che il libro deve collocarsi a fianco e non all'interno dell'arca: “il libro è dunque, per la storia a venire, e senza badare alle tribolazioni future dell'arca (che di fatto scomparirà), il versante pubblico, in forma di testimone, della rivelazione divina”1. Non solo Mosè, però, ha il privilegio di poter scrivere il libro della Torah. In Dt 27,2-3, egli comanda che tutte le parole della legge vengano iscritte su pietra quando il popolo entrerà nella terra promessa, il che sarà realizzato da Giosuè (cf. p. 273). In Dt 17,18-20 Mosè stabilisce che il re dovrà avere una copia personale della legge. E infine, nel famoso testo della shemà, si comanda a ogni israelita di scrivere i precetti del Signore “sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte” (cf. Dt 6,9). Il punto importante è che questi modi di parlare, più o meno metaforici — come l’allusione al dito di Dio — manifestano un'idea chiara e distinta: tutte le leggi dell'alleanza sono parole del Signore, indipendentemente da chi le abbia messo per iscritto. Vi è poi una seconda idea implicita nella precedente: la Torah non perde la sua autorità originale quando viene messa per iscritto. Disobbedire alla legge scritta (cf. Gs 7,10-26) equivale a disobbedire ad una parola del Signore (cf. 1 Sam 15,1-10). Inoltre, una volta scritta, la Torah diventa durevole, in modo da poter essere attualizzata da ogni generazione, proprio come l'alleanza (cf. Dt 5,2-3). 29.1.3. Il libro della Torah ed il Pentateuco Finora abbiamo considerato le principali allusioni nel Pentateuco alla messa per iscritto di alcune parole di Dio, concretamente, dei suoi precetti. Ma non si rileva alcun accenno ad un'identificazione fra la Legge scritta e i cinque libri che oggi si chiamano Torah o Pentateuco. L'unico libro che sembra parlare di se è il Deuteronomio. E gli altri quattro, sono parola di Dio? Che dire poi dei testi narrativi, che non contengono norme o precetti, come l’intero libro della Genesi e tanti brani di Esodo, Levitico e Numeri? 1.

“Le livre est donc, pour l'histoire à venir, et quoi qu'il en soit des tribulations futures de l'arche (qui, de fait, disparaîtra), le versant public, en forme de témoin à charge, de la révélation divine”, J.-P. Sonnet, «'Lorsque Moïse eut achevé d’écrire' (Dt 31,24). Une 'théorie narrative' de l’écriture dans le Pentateuque», Recherches de science religieuse 90 (2002) 509-524, 520.

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Né nel Levitico né nel libro dei Numeri si trovano riferimenti alla redazione scritta di parole del Signore. Ma in Nm 33,2 appare un ordine divino di scrivere che vale la pena citare: Mosè scrisse i loro punti di partenza, tappa per tappa, per ordine del Signore; queste sono le loro tappe nell'ordine dei loro punti di partenza. Partirono da Ramses il primo mese (…)

La menzione di Ramses come punto di partenza ricorda l’inizio del libro dell’Esodo. Il resto del capitolo descrive il percorso del popolo lungo il deserto. In questo caso Dio comanda di scrivere non delle leggi, ma un resoconto del viaggio, cioè vuole che si ricordi la storia nella quale egli ha manifestato la sua misericordia e ha stabilito l'alleanza. L'idea del ricordo come motivo per la scrittura appare esplicitamente in brano simile. Dopo la vittoria su Amalèk, “il Signore disse a Mosè: «Scrivi questo per ricordo nel libro»” (Es 17,14). Dio desidera non solo che si scrivano le norme legali, ma anche il racconto degli avvenimenti storici. Nel Pentateuco troviamo delle leggi inserite in una cornice narrativa, necessaria per capire cosa sono e perché bisogna compierle (cf. per esempio il famoso credo di Dt 26,1-11). Infatti, l’intero libro della Genesi e la prima metà di Esodo possono essere compresi come il prologo storico alle norme dell'alleanza. Tuttavia, il fatto che i racconti vengano messi per iscritto su ordine di Dio non basta per considerarli come parola di Dio. Il Pentateuco non dice di se stesso che sia parola di Dio. Bisogna uscirne fuori per vedere che di fatto, per gli ebrei, già molti secoli prima di Cristo, il libro della Torah di Mosè era ritenuto nel suo insieme parola di Dio. 29.2. Testimonianze fuori del Pentateuco Fuori del Pentateuco, troviamo diverse testimonianze del valore sacro riconosciuto alla Torah scritta. 29.2.1. Nel libro di Giosuè Come annunciato dal Signore, Mosè muore senza attraversare il Giordano, senza cioè entrare nella terra promessa. Ma il suo libro rimane: mentre nessuno sa dov'è la tomba di Mosè (cf. Dt 34,6), la sua eredità invece fa l'ingresso nella terra sotto forma

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di libro: “Mosè non attraversa il Giordano, ma non muore senza oltrepassare un'altra soglia, quella che va dalla comunicazione orale alla comunicazione scritta”1. All'inizio del libro di Giosuè — cioè subito dopo la morte di Mosè — il Signore incoraggia Giosuè, figlio di Nun, affinché adempia la sua missione come successore. Non gli indica una strategia militare per la conquista, ma gli prescrive la meditazione costante della Torah: Tu dunque sii forte e molto coraggioso, per osservare e mettere in pratica tutta la legge che ti ha prescritto Mosè, mio servo. Non deviare da essa né a destra né a sinistra, e così avrai successo in ogni tua impresa. Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma meditalo giorno e notte, per osservare e mettere in pratica tutto quanto vi è scritto; così porterai a buon fine il tuo cammino e avrai successo (Gs 1,7-8)2.

“Meditare” o più esattamente “borbottare”, “sussurrare” la Torah giorno e notte fa parte della descrizione dell'uomo pio con cui comincia il libro dei Salmi (cf. Sal 1,2). In questo modo, sia i Profeti che gli Scritti, secondo la divisione tripartita della BH, cominciano con un riferimento alla Torah. Alla fine della sua vita, Giosuè trasmetterà al popolo un consiglio identico: “Siate forti nell'osservare e mettere in pratica quanto è scritto nel libro della legge di Mosè, senza deviare da esso né a destra né a sinistra” (Gs 23,6). Dopo aver attraversato il Giordano e distrutto Gerico, gli israeliti prendono una città chiamata Ai. In questo momento, Giosuè mette in pratica quanto aveva comandato Mosè in Dt 27: Giosuè costruì un altare al Signore, Dio d'Israele, sul monte Ebal (…). In quel luogo Giosuè scrisse sulle pietre una copia della legge di Mosè, che questi aveva scritto alla presenza degli Israeliti. (…) Giosuè lesse poi tutte le parole della legge, la benedizione e la maledizione, secondo quanto sta scritto nel libro della legge. Di tutto

1.

2.

“Congédiant les temps fondateurs (inaugurés avec la création et les patriarches, et culminant dans la théophanie de l'Horeb), le Moïse du Deutéronome introduit le peuple des fils d'Israël dans l'existence «moderne», c'est-à-dire dans l'existence «terrestre» — sur la terre de la promesse, au-delà du Jourdain et du désert «théologique». Moïse ne traverse pas le Jourdain, mais il ne meurt pas sans passer un autre seuil, celui qui va de la communication orale à la communication écrite”, Idem, «Le Deutéronome et la modernité du livre», Nouvelle revue théologique 118 (1996) 481-496, 482. Per un commento di questo testo, cf. R. Vignolo, «‘Scriptura secundum Scripturas’: Valenza narrativa e riflessiva del Libro nella Tôrâ e nei Profeti anteriori. Per una fenomenologia del testo biblico tra poetica e teologia», Ricerche storico bibliche 12 (2001) 27-83, 71-77.

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quanto Mosè aveva comandato, non ci fu parola che Giosuè non leggesse davanti a tutta l'assemblea d'Israele (Gs 8,30-35).

Questa narrazione allude al libro del Deuteronomio, in cui si trova l'ordine di Mosè e anche le benedizioni e maledizioni. Allo stesso tempo, però, il fatto che “una copia della Torah di Mosè” si possa scrivere su pietre indica che doveva essere un testo piuttosto breve. Inoltre, nel libro di Giosuè troviamo una testimonianza preziosa sul fatto che il libro della Torah è stato continuamente arricchito con nuove leggi. Nel racconto della cerimonia solenne di rinnovo dell'alleanza (Gs 24), si dice chiaramente: Giosuè in quel giorno concluse un'alleanza per il popolo e gli diede uno statuto e una legge a Sichem. Scrisse queste parole nel libro della legge di Dio (Gs 24,25-26).

Così, la stessa Bibbia testimonia che dopo la morte di Mosè si continuò ad aggiungere materiale alla Torah, per attualizzare il suo contenuto di fronte alle nuove circostanze storiche (cf. anche 1 Sam 10,25). È da notare che così Giosuè sembra trasgredire il comando esplicito di Mosè di non aggiungere niente alla Torah (cf. Dt 4,2 e 13,1), se lo si intende letteralmente. In realtà, lo stesso Mosè scrive prima la legge (Dt 31,9) e poi finisce di scriverla (Dt 31,24), aggiungendo dunque Dt 31,14-231. Se si accetta l’esistenza di un progresso della rivelazione a Israele (cf. sopra pp. 60-65), non è problematico ammettere che anche i testi che la contengono crescano. Se dopo aver letto Giosuè continuassimo con i libri successivi, dovremmo raccogliere tutti i riferimenti al libro della Torah (cf. per esempio 1 Re 2,3; 2 Re 14,6; 2 Cr 23,18; 30,16). Tale impresa richiederebbe troppo spazio. Ci limitiamo dunque a evidenziare che in questi libri si giudicano sempre gli eventi e i personaggi secondo la loro fedeltà all'alleanza e alla Torah di Mosè. Tuttavia, vale la pena soffermarsi su due momenti storicamente importanti, nei quali appare esplicitamente il ruolo della Torah scritta. Il primo è la riforma del re Giosia, che ebbe luogo verso la fine del VII secolo a.C., nel 622, una trentina di anni prima della distruzione del tempio di Gerusalemme (587 a.C.). Il secondo momento

1.

“Moïse, nous raconte le texte, a fait le premier ce que les scribes bibliques ont toujours fait : ajouter. Le texte de la loi est donc traversé par une double dynamique : celle de la canonisation (…) et celle de la « supplémentation ». (…) Ce sont donc ici aussi des pratiques et des techniques scribales qui se trouvent projetées sur la scène du récit, mises en scènes dans l'événement fondateur, sous la forme d'une dialectique faisant jouer à la fois la croissance d'un corpus révélé et sa clôture”, Sonnet, «Lorsque Moïse», 521-522.

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corrisponde al lavoro di rifondazione e riorganizzazione intrapreso da Esdra e Neemia dopo il ritorno dall'esilio babilonese. 29.2.2. La riforma di Giosia (2 Re 22-23) Dopo il lungo regno dell'empio Manasse (687-642 a.C.) e dopo quello molto più breve di suo figlio Amon (642-640 a.C.), sale al trono di Giuda uno dei pochi successori di Davide che la Bibbia approva senza mezzi termini, Giosia: Prima di lui non era esistito un re che come lui si fosse convertito al Signore con tutto il suo cuore e con tutta la sua anima e con tutta la sua forza, secondo tutta la legge di Mosè; dopo di lui non sorse uno come lui1.

Nel diciottesimo anno del suo regno (cioè, il 622 a.C.), si realizzano alcuni lavori di restauro nel tempio di Gerusalemme. In quel momento, il sommo sacerdote Chelkia trova nel tempio il “libro della Torah”. Lo consegna nelle mani di Safan, segretario del re, che lo legge e poi lo porta da Giosia e lo legge davanti a lui. “Udite le parole del libro della legge, il re si stracciò le vesti” (2 Re 22,11), segno di lutto e rammarico, “perché i nostri padri non hanno ascoltato le parole di questo libro, mettendo in pratica quanto è stato scritto per noi” (22,13). Dopo aver consultato il Signore tramite la profetessa Culda, che annunzia la punizione di Gerusalemme a causa della sua infedeltà (cf. vv. 14-20), il re convoca tutto il popolo nel tempio e legge loro il libro. Poi rinnovano l'alleanza: Il re, in piedi presso la colonna, concluse l'alleanza davanti al Signore, per seguire il Signore e osservare i suoi comandi, le istruzioni e le leggi con tutto il cuore e con tutta l'anima, per attuare le parole dell'alleanza scritte in quel libro. Tutto il popolo aderì all'alleanza (2 Re 23,3).

Subito dopo — continua il racconto biblico — il re intraprende un'ampia riforma religiosa. Giosia prende misure contro l'idolatria, distrugge tutti i luoghi di culto tranne il tempio di Gerusalemme (centralizzazione del culto) e ordina la celebrazione della Pasqua: Il re ordinò a tutto il popolo: «Celebrate la Pasqua in onore del Signore, vostro Dio, come è scritto nel libro di questa alleanza». Difatti una Pasqua simile a questa non era mai stata celebrata dal tempo dei giudici che governarono Israele, ossia per tutto il periodo dei re d'Israele e dei re di Giuda. Soltanto nell'anno diciottesimo del re

1.

2 Re 23,25; cf. 22,2. Un altro re lodato dall'agiografo, sempre in base al criterio della fedeltà alla Torah mosaica, è il padre di Manasse, Ezechia: cf. 2 Re 18,3-6.

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Giosia questa Pasqua fu celebrata in onore del Signore a Gerusalemme (2 Re 23,21-23).

Giosia s'ispira ai precetti del libro appena ritrovato, che, a partire dai dati che emergono dal racconto di 2 Re, corrisponde per contenuto al Deuteronomio, probabilmente in una edizione più breve di quella che abbiamo oggi. Comunque sia, fa impressione l'autorità attribuita al contenuto del libro. È implicito nel racconto della riforma di Giosia che il libro della Torah viene considerato come espressione della volontà di Dio, come la sua parola, normativa per Israele in virtù dell'alleanza. 29.2.3. Esdra e la proclamazione della Torah Dopo i difficili anni dell'esilio in Babilonia, occorre rifondare l'identità del popolo, tornato alla terra promessa e che di nuovo possiede tempio, sacerdozio e culto, ma che non ha più un re davidico né gode di indipendenza politica. In epoca persiana (forse verso la metà del V secolo a.C.), due figure hanno contribuito a definire la nuova forma del giudaismo, lo scriba Esdra e il governatore Neemia. Per conoscere i loro sforzi di applicare la Torah e ricostruire le mura di Gerusalemme, si deve leggere Esd-Ne. Qui è rilevante un brano in particolare: la lettura pubblica della Torah da parte di Esdra a Gerusalemme, così come viene descritta in Neemia 8. Riunito tutto il popolo in assemblea, Esdra legge una parte del libro della Torah di Mosè, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno (cf. Ne 8,1-18). E continuerà a leggere durante i sette giorni seguenti. Come ai tempi di Giosia, la lettura ha effetti immediati: il secondo giorno scoprono che in quell'epoca dell'anno dovevano festeggiare le Tende e subito si mettono a lavorare per osservare fino all'ultimo dettaglio tutto quanto era stabilito nella Torah (cf. Ne 8,14-17)1. Un'informazione interessante viene dal tempo impiegato nella lettura: il libro ritrovato ai tempi di Giosia si legge più volte lo stesso giorno; invece con Esdra occorrono parecchi giorni per una lettura completa. Almeno per quanto riguarda l'estensione, il libro della Torah letto da Esdra potrebbe essere molto simile all'attuale Pentateuco2. 1.

2.

Altri brani dei libri di Esdra e Neemia contengono racconti simili, che mostrano come la lettura della Torah abbia delle conseguenze pratiche per la vita della comunità (cf. Esd 3,2-4; 6,18; Ne 9,3; 10,34-36; 13,1). Sull'importanza della lettura pubblica della legge per comprendere la struttura retorica del Pentateuco, cf. J. W. Watts, «Public Readings and Pentateuchal Law», Vetus Testamentum 4 (1995) 540-557. In 2 Cr 34,18, testo parallelo a 2 Re 22,10, si dice che, dopo aver ricevuto il libro trovato nel tempio, “Safan ne lesse una parte davanti al re”, mentre in 2 Re si diceva semplicemente che lo lesse. L'au-

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Fin qui, abbiamo visto brevemente come era valutato il libro della Torah di Mosè fino ai secoli V-IV a.C. Possiamo dire che alla legge scritta veniva attribuito lo stesso valore della parola di Dio espressa in origine a Mosè, benché lungo il tempo il testo abbia subito un continuo lavoro di arricchimento e attualizzazione1. Tuttavia occorre chiedersi se, fra tutte le parole contenute in questo libro, fossero ritenuti come parola di Dio soltanto i testi legali, oppure se si estendeva tale considerazione a tutto il libro, includendo i passaggi redazionali e i testi narrativi che inquadrano la parola della legge. Da quanto abbiamo visto, non emergono dati sufficienti per rispondere affermativamente. Certamente per i cristiani tutto il Pentateuco è parola di Dio, ma dobbiamo vedere se era così anche prima di Cristo. 29.2.4. Valore del libro della Torah nel periodo del secondo Tempio In molti testi è testimoniato che la denominazione di “Torah” veniva applicata non solo alle leggi dell'alleanza, ma anche al libro (o libri) che la contengono (cf. 1 Mac 3,48; Sir Prol 2.8.24; Mt 6,17; 7,12; ecc.). In generale, si può rilevare che i cinque libri della Torah erano ritenuti normativi non solo in quanto raccolgono leggi divine, ma anche nel loro insieme, compresi i passaggi narrativi, che mostrano come agisce Dio e come deve rispondere l'uomo. Il libro come tale diventa un punto di riferimento per la condotta. In 1 Mac 3,48 (cf. pure 2 Mac 8,23) si racconta che, prima della battaglia, Giuda e i suoi soldati: Digiunarono e si vestirono di sacco, si cosparsero di cenere il capo e si stracciarono le vesti. Aprirono il libro della legge per scoprirvi quanto i pagani cercavano di sapere dagli idoli dei loro dèi.

Giuda Maccabeo pensa che nel libro della Torah troverà indicazioni celesti che potranno orientarlo nell'imminente battaglia: un atteggiamento religioso forse vicino alla superstizione, ma che rivela la considerazione sacra che aveva del libro.

1.

tore delle Cronache adatta l'antico racconto al libro della Torah che egli conosce, impossibile da leggere in un tempo breve. Un testo che rispecchia quanto fosse profonda la venerazione verso la Torah propria della religione d'Israele, in quanto manifestazione della volontà di Dio, è il Salmo 119, il più lungo del salterio. Secondo Mannucci - Mazzinghi, Bibbia, capitolo 8, 1.1c, il salmo è una lode della Torah scritta, perché è alfabetico, cioè, l'inizio di ogni strofa si costruisce seguendo l'alfabeto ebraico (come Lam 1-4 o Prv 31,10-31). Ma se si legge il salmo con attenzione, si comprova che non si menziona mai il libro della legge, né si parla della lettura dei precetti, norme e comandamenti. Il carattere alfabetico dunque non basta per considerare che tutto quello che il salmo dice della Torah si deva attribuire al libro che la contiene.

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Molto più profonda è la valutazione del Pentateuco che appare nel Siracide (o Ecclesiastico), libro sapienziale scritto verso il 180 a.C. Nel capitolo 24, la sapienza divina fa un elogio di se stessa, ispirato al discorso della sapienza personificata in Prv 8. In Sir 24, la sapienza dice che è uscita dalla bocca dell’Altissimo e che percorre tutta la terra, cercando dove stabilirsi, finché Dio le dà l'ordine di piantare la sua tenda in Israele. Allora la sapienza fissa la sua dimora nella terra santa, esercita il culto in Gerusalemme, si sviluppa in tutto Israele e produce molti frutti. Alla fine del discorso della sapienza, prende la parola l'autore del libro, che spiega: Tutto questo è il libro dell'alleanza del Dio altissimo, la legge che Mosè ci ha prescritto, eredità per le assemblee di Giacobbe (Sir 24,23; cf. Bar 4,1).

La sapienza eterna di Dio, per cui furono creati i cieli, si è stabilita dentro i confini del popolo eletto e si è vincolata a un libro, che non è altro che il Pentateuco. Non è una identificazione assoluta fra la sapienza divina e la legge mosaica. Piuttosto, Sir 24,23 vuole segnalare come nel libro della legge si manifesti in modo speciale la sapienza di Dio. La Torah scritta, compresa come rivelazione storica e non solo come corpo di precetti legali, viene considerata una partecipazione della sapienza divina1. * All'epoca di Gesù, il valore centrale della Torah era una convinzione condivisa dalle diverse tendenze presenti nel momento (farisei, sadducei, esseni, gruppi apocalittici), pur esistendo tra loro notevoli differenze in altri campi: Per tutte le correnti del giudaismo (…), la Legge occupava un posto centrale. In essa infatti si trovano le istituzioni essenziali rivelate da Dio stesso e che hanno lo scopo di governare la vita religiosa, morale, giuridica e politica della nazione ebraica dopo l'esilio2.

30. La parola profetica Quando sentiamo parlare di un “profeta”, di solito pensiamo a una persona che annuncia il futuro. Nella Bibbia la parola ha un senso più ampio, che possiamo sintetizzare dicendo che profetizzare vuol dire parlare in nome di Dio, trasmettere al popolo un oracolo divino. Nell'AT, la parola profetica si presenta esplicitamente come pa1.

2.

“Il ne me semble donc pas qu'il y ait chez Ben Sira identification stricte entre Sagesse et Loi, mais plutôt qu'il reconnaît dans la révélation biblique la meilleure expression de la Sagesse divine”, Gilbert, «Siracide», 1427. Per un'esegesi di Sir 24, cf. Idem, «L'éloge de la Sagesse (Siracide 24)», Revue théologique de Louvain 5 (1974) 326-348. Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico, n. 11.

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rola di Dio, di solito preceduta dalla cosiddetta formula del messaggero: “così dice il Signore”. La parola profetica, dunque, non è sempre una profezia nel senso attuale del termine, equivalente a predizione. Il contenuto delle parole dei profeti biblici riguarda sia il passato, concretamente l'alleanza e la Torah, che il futuro, il “giorno del Signore”. Proprio guardando in queste due direzioni si conclude il libro di Malachia, l'ultimo dei libri profetici (cf. Ml 3,22-24). Benché il carattere divino della sua origine e del suo contenuto sia molto esplicito, la parola di Dio pronunciata dal profeta presenta una differenza importante rispetto a quella della Torah: non è destinata per sua natura a durare in forma scritta. Normalmente il profeta trasmette oralmente una parola divina per cambiare la condotta delle persone in determinate circostanze di luogo e di tempo. Infatti possiamo supporre che un gran numero di oracoli profetici non siano stati mai messi per iscritto. Non tutti i profeti hanno scritto dei libri1. Alcuni oracoli profetici annunziavano castighi o promettevano la salvezza e dunque si riferivano al futuro. Si è sentita la necessità di metterli per iscritto, affinché quella parola rimanesse in attesa del suo compimento. È logico in tal caso che la si voglia fissare; anzi, talvolta è Dio stesso che dà ordine al profeta di scrivere l'oracolo. Come caso emblematico, possiamo ricordare quanto si racconta nel libro di Geremia2. Verso la fine della sua attività profetica in Gerusalemme, poco prima della distruzione e dell'esilio, Dio chiede a Geremia di scrivere tutto quanto gli ha detto: «Prendi un rotolo e scrivici tutte le parole che ti ho detto riguardo a Gerusalemme, a Giuda e a tutte le nazioni, dal tempo di Giosia fino ad oggi. Forse quelli della casa di Giuda, sentendo tutto il male che mi propongo di fare loro, abbandoneranno la propria condotta perversa e allora io perdonerò le loro iniquità e i loro peccati» (Ger 36,1-3).

1.

2.

“Nella legge il contenuto normativo è fondamentale e richiede, per logica intrinseca, una permanenza e stabilità che acquisisce normalmente con la trascrizione. Questa è la ragione per cui la legge viene considerata, a partire dalla sua promulgazione, come parola di Dio precisamente in quanto manifestazione del volere di Dio. La profezia è parola di Dio vera e propria nell'istante della locuzione”, Artola - Sánchez Caro, Bibbia e parola di Dio, 34. Oltre a Geremia, anche Isaia (Is 30,8-9), Ezechiele (Ez 24,2; 37,16.20; 43,11), Abacuc (Ab 2,2) e Daniele (Dn 12,4; cf. 8,26) ricevono da parte di Dio l'ordine di scrivere quanto hanno visto o ascoltato. Per un commento ad alcuni di questi testi e ad altri simili, cf. H. Najman, «The Symbolic Significance of Writing in Ancient Judaism» in H. Najman - J. H. Newman (eds.), The Idea of Biblical Interpretation: Essays in Honor of James L. Kugel, Brill, Leiden 2004, 139-173.

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Gli oracoli che Geremia aveva proclamato in maniera orale adesso devono essere messi per iscritto. La circostanza che dà origine al libro è che Geremia si trova impedito di andare al Tempio (cf. Ger 36,5) e dunque non può predicare oralmente. Ma esiste una motivazione più profonda, di ordine salvifico: Dio continua a sperare che le sue parole producano l'effetto voluto, la conversione del popolo e quindi il perdono. Siccome la situazione non è cambiata, gli oracoli degli anni precedenti non hanno perso la loro attualità1. Geremia detta a Baruc le parole del Signore, che le scrive in un rotolo e lo legge davanti al popolo nel tempio (Ger 36,4-8; cf. 30,1-2; 51,59-64). Poi, Baruc viene portato al palazzo regale, dove legge di nuovo il rotolo, questa volta davanti ai capi, che si spaventano. La storia continua così: Poi chiesero a Baruc: «Raccontaci come hai fatto a scrivere tutte queste parole». Baruc rispose: «Geremia mi dettava personalmente tutte queste parole e io le scrivevo nel rotolo con l'inchiostro». I capi dissero a Baruc: «Va' e nasconditi insieme con Geremia; nessuno sappia dove siete». Essi poi si recarono dal re nell'appartamento interno, dopo aver riposto il rotolo nella stanza di Elisamà, lo scriba, e riferirono al re tutte queste parole. Allora il re mandò Iudì a prendere il rotolo. Iudì lo prese dalla stanza di Elisamà, lo scriba, e lo lesse davanti al re e a tutti i capi che stavano presso il re. Il re sedeva nel palazzo d'inverno — si era al nono mese —, con un braciere acceso davanti. Ora, quando Iudì aveva letto tre o quattro colonne, il re le lacerava con il temperino da scriba e le gettava nel fuoco sul braciere, finché l'intero rotolo non fu distrutto nel fuoco del braciere. Il re e tutti i suoi ministri non tremarono né si strapparono le vesti all'udire tutte quelle parole (Ger 36,17-24).

In contrasto con suo padre Giosia, Ioiakìm non reagisce bene alla lettura. Non riconosce in esso un'espressione normativa della volontà divina per il popolo. Anzi, cerca di annullare la parola profetica attraverso la distruzione del testo che la contiene. La storia continua: Dopo che il re ebbe bruciato il rotolo con le parole che Baruc aveva scritto sotto dettatura di Geremia, la parola del Signore fu rivolta a Geremia: «Prendi un altro rotolo e scrivici tutte le parole che erano nel primo rotolo bruciato da Ioiakìm, re di

1.

In Ger 29, Geremia spedisce una lettera a Babilonia per i deportati: in questo caso, lo scritto serve a superare la distanza spaziale. In Ger 30-31, l'oracolo viene scritto perché si rivolge alla generazione futura. Per un commento a questi testi, cf. Basta - Bovati, "Ci ha parlato per mezzo dei profeti", 151-167.

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Giuda. Contro Ioiakìm, re di Giuda, dirai: Dice il Signore: Tu hai bruciato quel rotolo, dicendo: “Perché hai scritto: verrà il re di Babilonia, devasterà questo paese e farà scomparire uomini e bestie?”. Per questo dice il Signore contro Ioiakìm, re di Giuda: Non avrà un erede sul trono di Davide; il suo cadavere sarà esposto al caldo del giorno e al freddo della notte. Io punirò lui, la sua discendenza e i suoi ministri per le loro iniquità e manderò su di loro, sugli abitanti di Gerusalemme e sugli uomini di Giuda, tutto il male che ho minacciato, senza che mi abbiano dato ascolto». Geremia prese un altro rotolo e lo consegnò a Baruc, figlio di Neria, lo scriba, il quale vi scrisse, sotto dettatura di Geremia, tutte le parole del rotolo che Ioiakìm, re di Giuda, aveva bruciato nel fuoco; inoltre vi furono aggiunte molte parole simili a quelle (Ger 36,27-32).

Il duro giudizio di Dio circa Ioiakìm mostra che rifiutare la sua parola scritta equivale a rifiutare il Signore direttamente. Per essersi strappato le vesti, Giosia aveva meritato il perdono di Dio, che gli annunzia una sepoltura in pace (cf. 2 Re 22,19-20). Il contrasto con l'oracolo sul cadavere di Ioiakìm è forte1. È interessante notare che Dio vuole ancora che gli oracoli vengano messi per iscritto. L'esecuzione di quest'ordine offre un'informazione preziosa sulle origini dell'attuale libro di Geremia (cf. Ger 25,13). Ma ciò che a noi interessa è che la Bibbia mostra come alcuni oracoli profetici possono avere valore oltre il momento in cui sono stati pronunciati e per questo Dio stesso vuole che si scrivano. Sebbene abbiamo notizia esplicita di questa volontà divina soltanto nel caso dell'insieme degli oracoli di Geremia, la semplice esistenza di libri profetici testimonia che qualcosa di simile deve essere successo con altri profeti2. L'oracolo scritto sembra godere della stessa autorità divina che aveva quando è stato pronunciato oralmente. Per esempio, durante l'esilio di Babilonia, il profeta Daniele legge un annuncio di Geremia (cf. Ger 25,11-12; 29,10) e cerca di interpretarlo (cf. Dn 9). In Tb 2,6, si trova una citazione esplicita di Amos (Am 8,10) e in Tb 14 si parla delle profezie di Naum e di tutti i profeti. In sintesi, i libri profetici mostrano la convinzione che l'oracolo scritto non perda valore rispetto allo stesso oracolo nel momento della sua proclamazione orale. La conservazione degli oracoli profetici in forma scritta avviene soprattutto in attesa del loro compimento, ma anche perché diventino punto di riferimento per la condotta 1. 2.

Per un confronto fra Ger 36 e 2 Re 22, cf. J.-P. Sonnet, «Le livre «trouvé»: 2 Rois 22 dans sa finalité narrative», Nouvelle revue théologique 116 (1994) 836-861, 853-856. Da menzionare è il caso di Naum, unico libro profetico dell'AT “autocosciente”, nel senso che presenta se stesso come testo scritto: “Oracolo su Ninive. Libro della visione di Naum da Elkos” (1,1). Il titolo più abituale è “visione di” (Is 1,1; Abd 1,1), “parole di” (Ger 1,1) o formule simili.

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del popolo. In ogni caso, la parola profetica originaria è sempre orale; la scrittura appare solo in alcuni casi come una risorsa per farla durare, e non nel momento originario, a differenza della Torah. In linea di massima, la situazione dei libri profetici sembra simile a quella della Torah o Pentateuco. Ma nel loro caso non si vedono motivi per considerare come parola di Dio i libri nella loro integrità, cioè includendo i passaggi narrativi. Tali brani offrono soltanto il contesto degli oracoli.

31. Il valore degli altri libri dell'Antico Testamento Fin qui abbiamo parlato del Pentateuco e dei libri profetici. Che dire riguardo ai libri storici e ai libri sapienziali e poetici? Nessuno di essi si presenta, nemmeno in parte, come parola di Dio, tranne ovviamente i passaggi dove si mettono parole esplicitamente sulla bocca del Signore. È significativo il modo in cui viene valutato l'insieme delle scritture d'Israele nel prologo del Siracide, scritto dal nipote di Ben Sira: Molti e importanti insegnamenti ci sono dati dalla legge, dai profeti e dagli altri scritti successivi, per i quali è bene dar lode a Israele quanto a dottrina e sapienza.

Non si impiega nessuna espressione simile al titolo “parola di Dio”. La legge, i profeti e gli altri scritti costituiscono la paideia di Israele, la sua istruzione, dalla quale dipende la sua cultura e quindi la sua identità. Lo stesso prologo poi afferma che la finalità di questi scritti è di aiutare a vivere in conformità con la legge mosaica; pertanto, non sono allo stesso livello, ma guardano alla Torah come al loro centro: Mio nonno Gesù, dopo essersi dedicato per tanto tempo alla lettura della legge, dei profeti e degli altri libri dei nostri padri, avendone conseguito una notevole competenza, fu indotto pure lui a scrivere qualche cosa su ciò che riguarda la dottrina e la sapienza, perché gli amanti del sapere, assimilato anche questo, possano progredire sempre più nel vivere in maniera conforme alla legge.

Prendiamo un altro esempio, questa volta proveniente dal libro di Tobia. In 12,20, l'angelo Raffaele chiede a Tobit e a suo figlio Tobia di scrivere tutto quello che è successo grazie al suo intervento, che è stato frutto della preghiera. Ma il libro in nessun modo si presenta come parola di Dio. Invece, parte importante del suo messaggio consiste nel mostrare la fecondità dell’obbedienza ai precetti del libro della Torah di Mosè, specialmente in riferimento alle buone opere: dare l’elemosina e seppellire i morti. Di passaggio, nel libro si parla anche dell'efficacia della parola profetica. Possiamo concludere che nell'AT si considerano come parola di Dio scritta soltanto la parola della Torah e gli oracoli profetici:

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L'A.T. concede esplicitamente la prerogativa di parola di Dio solo all'oracolo profetico, al momento della locuzione, e alla legge, nel momento della sua promulgazione e nel suo contenuto noetico di rivelazione del volere divino. Non attribuisce questa condizione divina né alla sapienza né alla Scrittura in quanto tale1.

Un caso particolare è quello del libro dei Salmi. I salmi sono sempre preghiere; cioè, per loro natura, appaiono come parole umane rivolte a Dio, e non come parola di Dio agli uomini. Tuttavia, in questo caso abbiamo diverse testimonianze che ci indicano come nel giudaismo i salmi davidici fossero stati assimilati alla parola profetica. A Qumran sono stati trovati scritti (i Pesharim) che commentano alcuni libri profetici, ma anche i salmi, come scritture profetiche. Da parte sua, Filone d'Alessandria (ca. 20 a.C.-50 d.C.) cita i salmi con formule come “dice il profeta” o altre analoghe.

32. Dal contenuto sacro alla sacralità del libro Fin qui abbiamo visto che i libri dell'AT si presentano più come testimonianze scritte della parola di Dio che come rivelazione. Se in alcuni casi contengono la parola di Dio, si tratta sempre di una parola prima pronunciata e poi scritta. Ma non possiamo finire questo percorso senza alludere a una tendenza specialmente forte nei secoli immediatamente precedenti e seguenti a Gesù, nella quale i libri si presentano direttamente come rivelazione divina scritta. In qualche modo, tale idea di una rivelazione scritta procede dalla letteratura profetica. Il libro di Naum presenta se stesso come un oracolo scritto. In Ezechiele, benché metaforicamente, si parla di un libro che è parola del Signore (cf. Ez 2,8-3,4). Nel libro di Baruc, il testo scritto ha la stessa forza che ha la parola divina pronunciata oralmente: la rivelazione si fa per iscritto, in quanto il libro si presenta come un testo scritto originariamente come tale (cf. Bar 1,1-14). La distanza fra la parola proveniente dal Signore pronunciata una volta e il testo scritto che la riproduce scompare. Questa tendenza trova abbondanti esempi nel cosiddetto “genere apocalittico”. Non è questo il momento di spiegare in dettaglio le caratteristiche di questo genere letterario e del suo sfondo teologico. Basti dire che le apocalisse sono libri che presentano rivelazioni divine fatte a personaggi illustri del passato, come Adamo, Enoc, Mosè o Esdra. Nell'AT non si trova nessun libro che appartenga pienamente a questo genere, benché alcuni capitoli di Daniele vi si avvicinino molto. Ma fuori del canone esiste una abbondantissima letteratura giudaica apocalittica.

1.

Artola - Sánchez Caro, Bibbia e parola di Dio, 49.

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Ci interessa l'idea della sacralità del libro propria di questa corrente. Per la mentalità apocalittica, la rivelazione ha forma scritta, senza precedenti orali. Dio parla tramite un testo, poiché è stato dettato da lui — o da uno dei suoi angeli — oppure poiché non è altro che una copia esatta delle tavole celesti, nelle quali sono scritti i destini degli uomini. Benché non vengano considerati libri ispirati nel loro insieme, né si dica che abbiano Dio come autore, appare l'idea che Dio comunica i suoi disegni attraverso testi scritti1. Per trovare un esempio conosciuto di quest'idea, bisogna fare un salto al NT, che contiene un libro canonico di genere apocalittico, appunto l'Apocalisse. Il libro presenta se stesso come rivelazione scritta — donde il suo nome: Ἀποκάλυψις significa rivelazione —. L'ordine di scrivere appare più di una volta, rivolta al veggente (cf. Ap 1,19; 14,13). Dall'inizio l'autore si rivolge al lettore e agli ascoltatori della lettura: Rivelazione di Gesù Cristo, al quale Dio la consegnò per mostrare ai suoi servi le cose che dovranno accadere tra breve. Ed egli la manifestò, inviandola per mezzo del suo angelo al suo servo Giovanni, il quale attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto. Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte: il tempo infatti è vicino (Ap 1,1-3).

Alla fine, il libro parla ancora di sé, con un'avvertenza circa la necessità di rispettare l'integrità del testo: A chiunque ascolta le parole della profezia di questo libro io dichiaro: se qualcuno vi aggiunge qualcosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; e se qualcuno toglierà qualcosa dalle parole di questo libro profetico, Dio lo priverà dell'albero della vita e della città santa, descritti in questo libro (Ap 22,18-19).

Questi divieti — né aggiungere né togliere — erano una formula stereotipata, applicata a quanto era considerato sacro. Nel Deuteronomio, per esempio, si riferisce ai comandamenti (Dt 4,2; 13,1), in Qoèlet alla creazione in quanto opera di Dio (Qo 3,14), mentre nell’Apocalisse viene applicata al libro stesso2. Arrivati a questo punto, possiamo chiederci se è in questo senso che noi cristiani riteniamo che la Bibbia sia un libro sacro. È la Bibbia parola di Dio perché è rivelazione fatta direttamente per iscritto? La risposta a questa domanda può essere netta: non è così. La fede della Chiesa nella Scrittura come parola di Dio procede dall'inse1. 2.

Cf. Aranda Pérez, «Función de la Escritura en la Revelación divina», 497. Cf. W. C. van Unnik, «De la règle Μήτε προσθεῖναι μήτε ἀφελεῖν dans l'histoire du canon», Vigiliae christianae 3 (1949) 1-36.

Excursus 3: Dalla redazione dei libri alla loro considerazione come parola di Dio

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gnamento di Gesù al riguardo. E, come abbiamo visto, Gesù intende le Scritture d'Israele innanzitutto secondo il modello profetico e non secondo quello apocalittico. Dunque i libri sono considerati parola di Dio perché annunciano Gesù Cristo; in lui si sono compiute le Scritture come legge, come storia e soprattutto come promessa (cf. pp. 84-99). Perfino l'Apocalisse, pur utilizzando il modello letterario apocalittico, presenta il suo messaggio dentro le caratteristiche comuni al resto del NT, e cioè: l'autorità delle visioni si fonda su Gesù Cristo, glorioso ma coi segni della sua passione e morte; la rivelazione avviene tramite un apostolo; e si rivolge a tutta la Chiesa1.

1.

Cf. G. Aranda Pérez, «La «Sagrada Escritura» a la luz del Apocalipsis» in J. Chapa (ed.), Signum et testimonium. Estudios ofrecidos al Profesor Antonio García-Moreno en su 70 cumpleaños, Eunsa, Pamplona 2003, 201-216, 216.

Excursus 4: Il Vangelo di Tommaso

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Excursus 4: Il Vangelo di Tommaso

Nello studio del canone del NT, abbiamo visto a grandi linee il processo storico che ha portato alla formazione della collezione di ventisette libri, con speciale enfasi nei quattro vangeli (pp. 140-150). Adesso prenderemo in esame uno dei libri che non è stato incluso nel canone, il Vangelo di Tommaso, chiamato anche “Vangelo gnostico di Tommaso” o “Vangelo copto di Tommaso”, per non confonderlo con il “Vangelo dell’infanzia di Tommaso”, un altro apocrifo. L’opera è una collezione di frasi di Gesù in dialogo con i suoi discepoli, senza una cornice narrativa. La lingua originale sembra essere il greco. La data di composizione è oggetto di dibattito, ma in genere lo si pone a metà del secondo secolo1. Prima di affrontare la domanda circa il perché la Chiesa non ha accettato il Vangelo di Tommaso, conviene offrire alcune informazioni fondamentali circa questo testo. Nel 1897 e nel 1903, alcuni frammenti in greco con frasi di Gesù sono stati scoperti ad Ossirinco, in Egitto. Questi frammenti sono stati identificati come appartenenti al Vangelo di Tommaso quando, nel 1945 a Nag Hammadi, in Egitto, è stato trovato il testo completo di questo vangelo in copto, insieme a molti altri manoscritti nella stessa lingua2. Fino a queste scoperte, conoscevamo l’esistenza di un “vangelo secondo Tommaso” soltanto per le allusioni ad esso di alcuni autori antichi, come Origene e Cirillo di Gerusalemme (vedere i testi citati a p. 147 e a p. 149). Si tratta senz’altro di uno dei vangeli apocrifi più interessanti, perché contiene detti di Gesù simili o identici a quelli tramandati dai vangeli canonici, specialmente dai sinottici3. Per esempio, al n. 10 leggiamo: “Ho gettato fuoco sul mondo e lo custo1. 2. 3.

Cf. C. W. Skinner, What Are They Saying About the Gospel of Thomas?, Paulist, New York 2012, 3 (lingua) e 9-28 (data). Cf. Idem, Gospel of Thomas, 4-7. Cito seguendo la traduzione di L. Moraldi (ed.), Apocrifi del Nuovo Testamento: Volume 1: Vangeli, Unione tipografico-editrice torinese, Torino 1971, 483-501. Moraldi scrive sempre “Tomaso” invece

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disco fino a che divampi”, frase simile a quella riportata in Lc 12,49. Al n. 54 leggiamo: “Beati i poveri, poiché vostro è il regno dei cieli”, una beatitudine identica a Lc 6,20. Ci sono anche alcune frasi che non sono presenti in nessuno dei vangeli canonici, ma che potrebbero risalire veramente a Gesù, come quella del n. 25: “Ama tuo fratello come l’anima tua. Custodiscilo come la pupilla del tuo occhio”. Troviamo anche altre espressioni messe in bocca a Gesù che ci risultano profondamente sconcertanti, perché molto lontane dall’immagine di Gesù trasmessa dal NT, come quella riportata nel n. 50: Gesù disse: — Se vi domanderanno: Donde venite? Risponderete: Siamo venuti dalla luce, dal luogo ove la luce si fece da se stessa; stette e si manifestò nella loro immagine. Se vi domanderanno: Chi siete voi? Risponderete: Noi siamo suoi figli, noi siamo gli eletti del Padre vivo. Se vi domanderanno: Qual è il segno del Padre vostro che è in voi? Risponderete: È il movimento e il riposo.

Anche il dialogo che chiude il libro ci risulta decisamente strano: Simon Pietro disse loro: — Maria deve andar via da noi! Perché le femmine non sono degne della vita. — Gesù disse: — Ecco, io la guiderò in modo da farne un maschio, affinché lei diventi uno spirito vivo uguale a noi maschi. Poiché ogni femmina che si fa maschio entrerà nel regno dei cieli (n. 114).

Alcuni autori recenti ritengono che il Vangelo di Tommaso sia da considerare come “il quinto vangelo”, cioè, pensano che abbia un valore storico e teologico paragonabile a quello dei quattro vangeli canonici. Tale affermazione sembra esagerata per diversi motivi che sarebbe lungo esporre. Adesso ci soffermeremo soltanto su un punto: perché questo vangelo non è mai stato un “candidato” serio per entrare nel canone. Craig Evans racconta che, quando uno studente gli chiedeva perché la Chiesa ha accettato solo i vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, escludendo gli altri, egli si limitava a rispondere: leggili e vedrai1. Possiamo dire che, nel caso del Vangelo di Tommaso, questa risposta è valida. Infatti, se si legge questo testo dall’inizio alla fine, è facile rendersi conto che non è compatibile con la fede in Gesù ricevuta dagli apostoli. Cercheremo di mostrarlo brevemente con alcune citazioni, che aiutino anche a farsi un’idea del tenore di questo vangelo.

1.

di “Tommaso”. Cf. C. A. Evans, Fabricating Jesus: How Modern Scholars Distort the Gospels, Inter-Varsity Press, Nottingham 2007, 98-99.

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Possiamo cominciare dal titolo, che recita così: “Queste sono le parole nascoste dette da Gesù, il vivente, e scritte da Didimo Giuda Tommaso”. Oltre al nome dello scrittore, desta curiosità l’aggettivo applicato alle parole di Gesù contenute nel testo: sono “nascoste” o segrete. Al n. 13 troviamo una scena che aiuta a comprendere perché questo vangelo si presenta come una collezione di parole nascoste di Gesù trascritte da Tommaso: Gesù disse ai suoi discepoli: — Fatemi un paragone, ditemi a chi rassomiglio. — Simon Pietro gli rispose: — Sei simile ad un angelo giusto. Matteo gli rispose: — Maestro, sei simile ad un filosofo. — Tomaso gli rispose: — Maestro, la mia bocca è assolutamente incapace di dire a chi sei simile. — Gesù gli disse: — Io non sono il tuo maestro giacché hai bevuto e ti sei inebriato alla fonte gorgogliante che io ho misurato1. — E lo prese in disparte e gli disse tre parole. Allorché Tomaso ritornò dai suoi compagni, gli domandarono: — Che cosa ti ha detto Gesù — Tomaso rispose: — Se vi dicessi una delle parole dettemi da lui voi dareste mano alle pietre per lapidarmi, e dalle pietre uscirebbe del fuoco e vi brucerebbe.

La scena è simile alla confessione di Pietro in Cesarea di Filippo, raccontata dai tre sinottici (Mt 16,13-23; Mc 8,27-33; Lc 9,18-22). Come in essi, anche qui si riportano tre opinioni diverse circa l’identità di Gesù ed è la terza quella che riceve la sua approvazione. A differenza dei sinottici, però, non è la risposta di Pietro, ma quella di Tommaso a venir approvata. Gesù prende in disparte Tommaso — e non Pietro Gesù — e gli dice tre parole, che egli non può comunicare agli altri perché troppo alte. L’appello a un carattere segreto o nascosto degli insegnamenti di Gesù, conosciuti da pochi, si inquadra perfettamente nel contesto culturale mediterraneo di epoca greco-romana, dove gruppi di tipo religioso, filosofico o mistico si presentavano come possessori di dottrine alle quali soltanto pochi individui scelti potevano accedere. Tale legittimazione di tipo esoterico ed elitista era così frequente, che non stupisce che alcuni gruppi di questo tipo abbiano voluto presentarsi come discepoli di Gesù, che avrebbe rivelato soltanto a loro le verità più profonde. È proprio questa caratteristica del Vangelo di Tommaso ciò che più chiaramente permette di scoprire la sua distanza dall’insegnamento ricevuto dagli apostoli. La Chiesa parla di misteri in quanto dottrine che superano la capacità dell’intelligenza umana, non di misteri che solo alcune persone hanno diritto di conoscere. 1.

“Attraverso la metafora della fonte che Gesù ha misurato, si vuole indicare che Tommaso ha acquisito la piena conoscenza di Gesù e per questo ha raggiunto uno statuto assimilabile al suo”, M. Grosso, Vangelo secondo Tommaso: introduzione, traduzione e commento, Carocci, Roma 2011, 137-138.

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Inoltre, in questo brano si segnala subito una netta distinzione di Tommaso rispetto agli altri discepoli. Né Pietro né Matteo né gli altri hanno ricevuto lo stesso insegnamento di Tommaso. “Ogni fase di questa costruzione narrativa mira a far emergere Tommaso su un piano distinto da quello degli altri discepoli”1. Quindi, se diciamo che il Vangelo di Tommaso non è compatibile con la tradizione apostolica, non stiamo proiettando nel testo un nostro pregiudizio, ma è il testo stesso che si vuole legittimare come testimonianza di un insegnamento esclusivo, di una dottrina di Gesù che soltanto Tommaso ha ricevuto. Non si può seguire Pietro e Tommaso insieme; si deve scegliere o l’uno o l’altro. Nei vangeli canonici, invece, troviamo il riconoscimento di altre tradizioni, come accade in Gv 21 riguardo a Pietro o in Mc 16,9-20 riguardo agli altri tre vangeli. Le differenze fra il Vangelo di Tommaso e le tradizioni accettate nella grande Chiesa non si limitano all’esoterismo, ma si riferiscono anche ad alcuni contenuti dottrinali, come il concetto di regno di Dio. In questo vangelo, il regno proclamato da Gesù viene associato alla conoscenza di sé stessi (la gnosi), non è in tensione verso un compimento escatologico, ma è immanente al mondo. Vediamo alcuni testi: Gesù disse: — Se coloro che vi dirigono vi dicono: Ecco, il regno di Dio è in cielo! Allora gli uccelli del cielo vi precederanno. Se vi dicono: È nel mare! Allora i pesci del mare vi precederanno. Il Regno è invece dentro di voi e fuori di voi. Quando vi conoscerete, allora sarete conosciuti, e saprete che voi siete i figli del Padre che vive. Ma se voi non vi conoscerete, allora sarete nella povertà, e voi sarete la povertà (n.3). I discepoli gli domandarono: — In quale giorno verrà il regno? — (Gesù rispose:) — Non verrà mentre lo si aspetta. Non diranno: Ecco, è qui! Oppure: Ecco, è là! Bensì il regno del Padre è diffuso su tutta la terra, e gli uomini non lo vedono (n. 113).

Possiamo segnalare anche la presenza di una visione della vita collegata alla conoscenza e non alla risurrezione di Gesù (peraltro mai menzionata in questo vangelo): Egli disse: — Colui che scopre l’interpretazione di queste parole non gusterà la morte (n. 1). Colui che conosce tutto, ma non se stesso, ignora tutto (n. 67).

1.

Idem, Vangelo secondo Tommaso, 136.

Excursus 4: Il Vangelo di Tommaso

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Colui che beve dalla mia bocca, diventerà come me, ed io stesso diverrò come lui, e gli saranno rivelate le cose nascoste (n. 108).

Infine, altra differenza importante con la figura di Gesù trasmessaci dai vangeli canonici è il valore della rivelazione ricevuta da Israele, che viene rifiutata dal Gesù “tommasiano”: I suoi discepoli gli domandarono: — In Israele parlarono ventiquattro profeti e tutti parlarono per mezzo tuo [oppure “di te”]1. — Egli rispose loro: — Davanti a voi avete il Vivente, e parlate di coloro che sono morti? (n. 52).

1.

Cf. I. Miroshnikov, «‘In’ or ‘about’? Gospel of Thomas 52 and ‘Hebraizing’ Greek», Teologinen Aikakauskirja 117 (2012) 179-185.

Excursus 5: Alcune differenze fra Vulgata e Neovulgata

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Excursus 5: Alcune differenze fra Vulgata e Neovulgata

Ecco alcuni esempi interessanti di divergenze fra la Vg (testi presi da Vg Weber) e la NVg: Vulgata

Neovulgata

Gn 3,15 Gn 3,15 Inimicitias ponam inter te et mulierem Inimicitias ponam inter te et mulierem et semen tuum et semen illius; ipsa conteret et semen tuum et semen illius; ipsum contecaput tuum et tu insidiaberis calcaneo eius. ret caput tuum, et tu conteres calcaneum eius. Is 11 1 Et egredietur virga de radice Iesse et flos de radice eius ascendet 2 et requiescet super eum spiritus Domini spiritus sapientiae et intellectus spiritus consilii et fortitudinis spiritus scientiae et pietatis 3 et replebit eum spiritus timoris Domini (…) 10 In die illa radix Iesse qui stat in signum populorum ipsum gentes deprecabuntur et erit sepulchrum eius gloriosum.

Is 11 1 Et egredietur virga de stirpe Iesse, et flos de radice eius ascendet; 2 et requiescet super eum spiritus Domini spiritus sapientiae et intellectus, spiritus consilii et fortitudinis, spiritus scientiae et timoris Domini; 3 et deliciae eius in timore Domini. (…) 10 In die illa radix Iesse stat in signum populorum; ipsam gentes requirent, et erit sedes eius gloriosa.

Is 45,8 Is 45,8 Rorate caeli desuper et nubes pluant iuRorate, caeli, desuper, et nubes pluant stum aperiatur terra et germinet salvatorem iustitiam; aperiatur terra et germinet salvaet iustitia oriatur simul ego Dominus creavi tionem; et iustitia oriatur simul: ego Domieum. nus creavi eam.

Excursus 5: Alcune differenze fra Vulgata e Neovulgata

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Gb 19,25-26 Gb 19,25-26 Scio enim quod redemptor meus vivat et Scio enim quod redemptor meus vivit et in novissimo de terra surrecturus sim; et rur- in novissimo super pulvere stabit; et post sum circumdabor pelle mea et in carne pellem meam hanc, quam abstraxerunt, et mea videbo Deum. de carne mea videbo Deum. Gv 12,32 Gv 12,32 et ego si exaltatus fuero a terra omnia et ego si exaltatus fuero a terra omnes traham ad me ipsum. traham ad me ipsum.

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