Introduzione alla scienza del significato 9788869928437

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Introduzione alla scienza del significato
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Antonio Meli

INTRODUZIONE ALLA SCIENZA DEL SIGNIFICATO

ARMANDO EDITORE

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ISBN: 978-88-6992-843-7 Tutti i diritti riservati – All rights reserved Copyright © 2020 Armando Armando s.r.l. Via Leon Pancaldo 26, Roma. www.armandoeditore.it [email protected] – 06/5894525

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Sommario

Introduzione

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Capitolo primo L’intrigo semantico del Novecento

9 11

1. Approccio logico 11 2. Approccio pragmatico 15 3. Approccio socio-operativo 20 4. Approccio ermeneutico 22 Conclusione 30 Capitolo secondo Il dibattito sull’origine del significato

31

1. La teoria componenziale di Frege 31 2. La teoria sinottica del secondo Wittgenstein 35 3. La teoria costruttivista di Piaget 37 4. La teoria innatista di Chomsky 41 5. La teoria referenziale di Putnam 47 6. La teoria procedurale di Johnson-Laird 54 7. La teoria dialogale di Hagège 59 Conclusione 62 Capitolo terzo Irriducibilità della semantica a sistema

65

1. La nascita della semantica come scienza 2. La semantica dei linguaggi formalizzati 2.1. Il Tractatus logico-philosophicus

65 69 69

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2.2. Alfred Tarski 71 2.3. Rudolf Carnap 73 2.4. Willard Van Orman Quine 74 3. Una semantica logica delle lingue naturali 75 3.1. Richard Montague 75 3.2. Donald Davidson 76 4. Il progetto di una teoria semantica sistematica 78 5. Il fattore realtà nella semantica delle lingue naturali 81 6. Ampliamento della semantica 84 6.1. Il secondo Wittgenstein 85 6.2. John Austin 86 6.3. Paul Grice 90 Conclusione 93 Capitolo quarto L’impossibilità di stabilire un criterio di sensatezza

95

1. Il divieto del Tractatus 96 2. Il criterio verificazionista di sensatezza 100 3. L’impossibilità di stabilire un criterio di insensatezza 103 4. La sensatezza di tutti i giochi linguistici 105 5. L’irriducibilità semantica degli atti linguistici 111 Conclusione 113 Conclusioni Bibliografia

114 117

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“La filosofia ha, come suo primo se non unico compito l’analisi dei significati, e più a fondo va tale analisi, più è dipendente da una corretta spiegazione generale del significato, un modello di ciò in cui consiste la comprensione di un’espressione: per questo la teoria del significato, che è la ricerca di tale modello, è la fondazione di tutta la filosofia, e non la teoria della conoscenza, come Cartesio ci ha erroneamente portato a credere”

Michael Dummett

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Introduzione

Il Novecento può essere considerato a ragione come il periodo d’oro della semantica e ciò per più di un motivo. Innanzitutto perché essa tende a configurarsi come un discorso propedeutico a tutto il sapere scientifico come sosterrà in particolare il filosofo inglese Michael Dummett nel suo fondamentale saggio su Frege. Sia nei logici che nei linguisti e negli psicologi c’è la convinzione che l’analisi del funzionamento semantico del linguaggio sia preliminare a ogni impresa conoscitiva umana che pretenda di essere veramente perspicua. Diventa, pertanto, centrale lo studio della semantica e l’esigenza di trattarla attraverso un’analisi sistematica. Questo intento anima il padre della semantica del Novecento, il logico e matematico tedesco Gottlob Frege. Questa istanza è stata recepita e portata avanti da logici, linguisti, psicologi in tutto il Novecento. Tuttavia il progetto di una integrale riduzione della semantica a scienza sistematica ha dovuto confrontarsi con analisti (come il cosiddetto secondo Wittgenstein, Austin, Serale, Grice e altri ancora) che hanno evidenziato come ampi settori del nostro linguaggio non sono riconducibili a sistema. D’altra parte filosofi come Heidegger, Gadamer, Ricoeur, hanno dimostrato nei loro scritti (si pensi all’opera In cammino verso il linguaggio di Martin Heidegger, oppure La metafora viva di Paul Ricoeur o, ancora, Verità e Metodo di Hans Georg Gadamer) come il linguaggio non abbia soltanto il compito di descrivere la realtà, ma di trasformarla, ricrearla, rivelarla. Si 9 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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tratta di linguaggi poetico-narrativi che non condividono la logica dei linguaggi propriamente scientifici, ma si nutrono di metafore e analogie. L’intrigo della semantica del Novecento (capitolo I) appare quanto mai complesso e chiama in causa istanze differenti tra cui ricordiamo quella logica, quella pragmatica e quella ermeneutica. Istanze che non rendono possibile ricondurre il funzionamento semantico del linguaggio umano entro un unico registro esplicativo. Quanto mai diverse sono nel Novecento le teorie che cercano di rendere conto dell’origine del significato (capitolo II). Piuttosto che considerale esclusive tra di loro ritengo che debbano essere considerate secondo un logica inclusiva, magari in attesa di una teoria veramente sintetica che finalmente sappia rendere giustizia a tutta la complessa fenomenologia con cui si manifesta il funzionamento semantico del linguaggio. Centrale nel dibattito semantico del Novecento è la possibilità di ridurre tutto il funzionamento del linguaggio umano entro i limiti di un discorso veramente sistematico (capitolo III). In merito il filosofo inglese Michael Dummett deve prendere atto che si tratta di un progetto impossibile dal momento che ci sono ampi settori del linguaggio ordinario umano che non si prestano a un tentativo di canonizzazione. Oggetto di acceso dibattito è, inoltre, la questione relativa alla possibilità di stabilire una linea di demarcazione netta tra senso e non senso (capitolo IV). In realtà questo tentativo, perseguito in particolare da Rudolph Carnap, si rivela impossibile come riconosce Karl R. Popper.

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Capitolo primo

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L’intrigo semantico del Novecento

In questo primo capitolo mi propongo di dimostrare come il funzionamento semantico del linguaggio chiami di fatto in causa diversi approcci tra di loro irriducibili che evidenziano il carattere non sistematico dell’intrigo semantico del Novecento.

1. Approccio logico Il Tractatus logico-philosophicus del Wittgenstein può essere considerato come il manifesto programmatico più significativo della svolta linguistica in filosofia. Osserva il Wittgenstein nella prefazione: “Il libro tratta i problemi filosofici e mostra che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere. Il libro vuole dunque tracciare al pensiero un limite, o piuttosto non al pensiero, ma all’espressione dei pensieri. Il limite potrà esser tracciato solo nel linguaggio, e ciò che è oltre il limite non sarà che nonsenso”1.

1

L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 19803, 3.

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L’interpretazione wittgensteiniana del linguaggio si articola su un criterio di senso definito mediante una ricezione critica della logica formale elaborata da Frege e da Russell2. Tra il mondo della realtà e quello del linguaggio si dà secondo il Tractatus una sorta di isomorfismo logico3 che fonda la capacità del linguaggio di raffigurare la realtà: “Ciò che l’immagine deve avere in comune con la realtà, per poterla raffigurare – correttamente o falsamente – nel proprio modo, è la forma di raffigurazione propria dell’immagine”4. Il linguaggio che non obbedisce a questo modello logico di corrispondenza risulta perciò stesso non sensato (Sinnlos)5. Con ciò il Wittgenstein non liquida tout court i problemi metafisici come del tutto inconsistenti e irrilevanti esistenzialmente6, ma si limita semplicemente ad affermare che tali problemi sono indicibili7. Rudolf Carnap, reinterpretando in modo marcatamente fisicalista l’isomorfismo logico del Tractatus, concepisce l’ambizioso programma di estendere il processo di formalizzazione dalla logica deduttiva (operato con un certo successo da Frege) alla logica induttiva8. In questo modo Carnap intende 2 Cfr. A.G. GARGANI, Introduzione a Wittgenstein, Laterza, Roma- Bari 1988, 7-34. 3 “L’immagine è un fatto”, recita la proposizione 2 .141 del Tractatus logico-philosophicus, mentre la proposizione 2.16 precisa che “Il fatto, per essere immagine, deve avere qualcosa in comune con il raffigurato”. 4 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, prop. 2.17. 5 Cfr. ibidem, prop. 6.53. 6 Si veda in merito l’interessante saggio di J. ALFARO, Ludwig Wittgenstein ante la cuestiòn del sentido de la vida, in Gregorianum 67/4 (1986) 693-744. 7 Cfr. F. BARONE, Il neopositivismo logico, Laterza, Roma-Bari 1977, vol. I, XXX-XXXI. 8 Cfr. H. PUTMAN, Ragione, verità e storia, Il Saggiatore, Milano 1985, 135-136.

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ridurre la pluriformità dei linguaggi naturali in una specie di metalinguaggio perfettamente formalizzato e, quindi, finalmente univoco9. Sarà soprattutto Karl Popper a contestare il criterio di sensatezza elaborato da Carnap10 dimostrando come nella logica della scoperta scientifica il fattore veramente decisivo sia la congettura teorica e non l’induzione11. Partendo da tale presupposto Popper si limita a tracciare un criterio di demarcazione tra scienza e metafisica (il cosiddetto criterio di falsificabilità) che giudica, in fondo, irrilevante ai fini della determinazione della significatività dei diversi sistemi cognitivi umani, il loro effettivo riferimento alla realtà. Contro questa posizione epistemologica, fondamentalmente condivisa da Willard V. O. Quine, si leva la critica di Hilary Putnam per il quale, invece, il riferimento alla realtà costituisce la conditio sine qua non perché i diversi sistemi cognitivi prodotti dalla comunità umana siano ad un tempo significativi e razionali. A questa conclusione realista il Putnam perviene mediante la dimostrazione estremamente sottile del carattere autocontraddittorio della posizione nominalista12. In questo modo Putnam ritrova, seguendo un cammino del tutto originale, quel punto archimedeo su cui fondare un solido concetto di razionalità e, ad un tempo, di significatività che si era, per così dire, eclissato in seno al dibattito epistemologico sul linguaggio. 9 Questa possibilità viene criticamente contestata da Putnam, in Ragione, verità e storia, 203-215. 10 Cfr. K.R. POPPER, Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna 1972, vol. I, 431-498. 11 Cfr. K.R. POPPER, La logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1980, 9. 12

Cfr. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 7-56.

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Egli critica: “La tendenza a trattare la cognizione come una faccenda puramente individuale e la tendenza ad ignorare il mondo nella misura in cui esso consiste di aspetti che vanno oltre le “osservazioni” del singolo. Ignorare la divisione sociale della cognizione; ignorare quella che abbiamo chiamato l’indicialità della maggioranza delle parole vuoi dire ignorare il contributo dell’ambiente. La filosofia del linguaggio tradizionale, come tanta filosofia tradizionale, lascia fuori gli altri e il mondo; una filosofia migliore e una migliore scienza del linguaggio devono includerli entrambi”13.

Ciò che qualifica il realismo epistemologico del Putnam è il fatto che nella produzione di modalità simboliche veramente significative la componente referenziale (per cui le menti si trovano radicate in una realtà esistente indipendentemente da loro) implica necessariamente il concorso sia della componente propriamente mentale (per cui ciascun parlante possiede una comprensione implicita di un certo numero di principi generali che governano l’uso delle parole nel linguaggio), sia di quella sociale (per cui la formazione dell’universo semiologico risulta dall’interazione socio-culturale che si verifica all’interno di una reale comunità)14. È in forza di questa peculiare teoria del significato che il Putnam fa valere contro il “relativismo” epistemologico un criterio oggettivo di coerenza secondo cui le varie modalità di riferimento – da quelle scientifiche a quelle artistiche – sarebbero 13 Cfr. H. PUTNAM, Mente, linguaggio e realtà, Adelphi, Milano 1987, 297. Si veda in particolare il saggio contenuto in quest’opera intitolato Il significato di “significato”, 239-297. 14 Nei diversi saggi dell’opera citata nella nota precedente, il Putnam individua quegli elementi che necessariamente concorrono a definire una coerente teoria del significato.

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dotate di valore cognitivo nella misura in cui riescono a rendere conto correttamente della realtà15. Certamente Putnam ha ragione quando sostiene, senza le incertezze e le ambiguità che sembrano caratterizzare l’ultimo Wittgenstein16, che sarebbe di fatto inconcepibile una qualsiasi forma di comunicazione veramente significativa al di fuori di una rinnovata prospettiva realista17.

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2. Approccio pragmatico Tuttavia, per render conto sia dell’effettivo funzionamento semantico della comunicazione linguistica che della differenza semantica esistente tra le diverse modalità di riferimento, bisogna riconoscere con il Wittgenstein che il significato è determinato dalla singolare connessione che le risorse linguistiche o semiologiche già disponibili stabiliscono di volta in volta con quella peculiare forza che anima ogni attività o forma di vita18. Il riferimento all’uso significa 15 Cfr. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 62-64; 132-135.

16 In realtà, la posizione del Wittgenstein a riguardo risulta difficile da stabilire. Secondo Luckhardt l’esegesi di Über Gewissheit non ci permette di stabilire in modo definitivo lo status delle proposizioni fondazionali, cioè se queste hanno valore assoluto (nel senso che valgono per tutti i giochi linguistici al di là della loro peculiarità semantica) oppure relativo, nel senso che costituiscono delle presupposizioni accettate all’interno di una data Weltanschauung (Cfr. C.G. LUCKHARDT, Wittgenstein su paradigmi e casi paradigmatici: problemi riguardanti “Della Certezza”, in AA.VV., Capire Wittgenstein, Marietti, Genova 1988, 304-311). Né l’attuale dibattito sulla natura della filosofia in Wittgenstein riesce a fornire indicazioni veramente risolutive a riguardo. Cfr. A. KENNY, Wittgenstein sulla natura della filosofia, in: AA.VV., Capire Wittgenstein, 209-228 e M. DUMMETT, La verità e altri enigmi, Il Saggiatore, Milano 1986, 45-67. 17 Cfr. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 7-56. 18

A proposito della nozione wittgensteiniana di Lebensform si veda in partico-

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per l’ultimo Wittgenstein che è impossibile render conto della concreta valenza semantica del linguaggio se questo non viene considerato in stretta connessione con l’attività non linguistica. Mentre per Frege: “È largamente irrilevante, per quanto riguarda la nostra capacità di parlare un linguaggio come quello che abbiamo, il fatto che siamo in grado di impegnarci in attività non linguistiche (...), per Wittgenstein, invece, è essenziale al nostro linguaggio che il suo impiego sia intrecciato alle nostre attività non linguistiche. Nei giochi linguistici che egli descrive, ciò che conferisce il significato delle emissioni linguistiche è la loro connessione immediata e diretta con altre azioni”19.

Ma a questo punto “è difficile – osserva Dummett – vedere come sia possibile una teoria sistematica del significato per un linguaggio che non riconosca la distinzione tra senso e forza o qualche altra distinzione molto simile”20. La peculiare forza che anima ogni singolare atto o gioco linguistico, infatti, non segue quei principi che formano la comprensione implicita del linguaggio e la cui esplicitazione (perseguita dalla moderna linguistica guidata da Chomsky21) “sarebbe precisamente una teoria completa del significato per quel linguaggio”22. Il motivo che porta l’ultimo Wittgenstein a rifiutare di porre alla base della teoria del significato la distinzione fregeana tra Sinn e Kraft, va individuato in quella profonda revisione lare Max BLACK, “Lebensform und Sprachspiel” nelle ultime opere di Wittgenstein, in: AA.VV., Capire Wittgenstein, 241-251. 19 M. DUMMETT, Può la filosofia analitica essere sistematica ed è giusto che lo sia? in M. DUMMETT, La verità e altri enigmi, 55. 20 Ibidem, 58. Il corsivo è mio. 21 Quest’ambizioso progetto di ricerca è stato ulteriormente precisato da N. CHOMSKY, La conoscenza del linguaggio. Natura, origine uso, Il Saggiatore, Milano 1991, 11-12. 22

M. DUMMETT, La verità e altri enigmi, 60.

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della concezione della logica maturata con l’indagine sui fondamenti della matematica23: “Riconosciamo che ciò che chiamiamo “proposizione”, “linguaggio”, non è quell’unità formale che immaginavo, ma una famiglia di costrutti più o meno imparentati l’uno con l’altro. Che ne è allora della logica? Qui il suo rigore sembra dissolversi. – Ma in questo caso essa non svanisce del tutto? (...) Il pregiudizio della purezza cristallina della logica può essere eliminato soltanto facendo rotare tutte quante le nostre considerazioni. (Si potrebbe dire: la considerazione dev’essere rotata, ma attorno al perno del nostro reale bisogno)”24.

Proprio la critica della normatività della logica spinge il Wittgenstein ad abbandonare il progetto di costruire una sistematica teoria del significato25. A questo punto si impongono alcune importanti precisazioni per quanto riguarda la rinnovata concezione della logica in Wittgenstein e il senso del conseguente orientamento decisamente non sistematico della sua teoria del significato. Innanzitutto va precisato che nel caratterizzare la natura della logica, il Wittgenstein “combatte su due fronti: contro il “behaviorismo” da una parte e il “mentalismo” dall’altra”26. Se, infatti, i principi che strutturano la necessità logica si radicano ultimamente nei 23 Si veda in merito l’introduzione di Mario Trinchero alle Ricerche filosofiche, in L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1983, IX-XIX; si veda anche A.G. GARGANI, Introduzione a Wittgenstein, 43-79; come pure il saggio di Michael Dummett su La filosofia della matematica di Wittgenstein, in M. DUMMETT, La verità e altri enigmi, 184-204. 24 25

L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, I, § 108. Cfr. ibidem, I, § 23.

26 H.G. Von WRIGHT, Wittgenstein e il suo tempo, in: AA.VV., Capire Wittgenstein, 22.

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“modi di vita” o “forme di vita”27, questo significa che essa non è il frutto né di una mera convenzione linguistica28 né di schemi o principi congeniti alla mente umana29. Proprio questo rinnovato modo di intendere la natura della necessità logica induce il Wittgenstein a riconoscere che, in ultima analisi, sono questi singolari “modi di vita” o “forme di vita” a determinare il significato peculiare di ogni atto o gioco linguistico. Pertanto ci sembra che l’ultimo Wittgenstein più che negare la possibilità di una teoria generale del significato intende piuttosto affermare che il significato in actu exercito si può cogliere soltanto all’interno di un concreto gioco linguistico: “la parola gioco linguistico è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita”30. La tesi secondo cui il linguaggio è essenzialmente un modo 27 Secondo il Robinson “qui (a proposito della necessità logica) il concetto chiave di Wittgenstein è il modo di vita o forma di vita, ma i modi di vita non sono convenzioni, né si adottano per convenzione. In effetti, non si adottano affatto, nel senso che l’adozione implica un’azione intenzionale o il riconoscimento di alternative; nella maggior parte dei casi ‘ci cresciamo dentro’, semplicemente. (...) Volendo sottolineare la fondamentale diversità tra regola e causa, e la grandissima differenza che questo comporta per la descrizione delle attività e delle creazioni umane, Wittgenstein insiste continuamente su questo punto essenziale, riguardo alle regole: sono gli uomini che le seguono; non è la natura, la logica o qualunque altra cosa, ad imporle” (G. ROBINSON, Seguire la regola e formalizzare, in AA.VV., Capire Wittgenstein, 177); cfr. anche B. STROUD, Wittgenstein e la necessità logica, in: AA.VV., Capire Wittgenstein, 162-164. 28 Per cui, come interpreta Dummett, “la necessità logica di qualunque asserto è sempre espressione diretta di una convenzione linguistica” (M. DUMMETT, La verità e altri enigmi, 188). 29 Come ritiene Noam Chomsky. Cfr. N. CHOMSKY, La conoscenza del linguaggio. Natura, origine uso, 3-4. 30

L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, I, § 23.

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di agire sta alla base della cosiddetta teoria degli atti linguistici con cui John Austin31 e John Searle32 intendono elaborare una teoria sistematica del linguaggio. A tal fine riprendono per proprio conto la distinzione fregeana tra senso e forza. Mentre Austin coglie in essa il perno di una sistematica classificazione dei diversi tipi di forza che animano i differenti atti linguistici33, Searle, invece, la ripropone introducendo la distinzione tra forza illocutoria e contenuto proposizionale34. L’esigenza di sistematicità si risolve in Austin in una descrizione dettagliata degli usi particolari di particolari parole che, in quanto tale, pregiudica una loro organica sistemazione teorica35. Da parte sua, Searle, che segue Chomsky nell’idea secondo cui le scienze del linguaggio debbono esplicitare le regole sottostanti alla competenza del parlante, giudica di fatto irrilevante per la determinazione del significato l’interazione che intercorre tra gli atti linguistici e il concreto contesto d’uso36. In definitiva, sia Austin (che risolve l’istanza di sistematicità in una descrizione puramente empirica dei vari usi del linguaggio) che Searle (il quale ritiene di poter rispondere a questa istan31 Cfr. J.L. AUSTIN, Come fare cose con le parole. Le “William James Lectures” tenute alla Harvard University nel 1955, Marietti, Torino 1987.

32 Cfr. J.R. SEARLE, Atti linguistici. Saggio di filosofia del linguaggio, Boringhieri, Torino 1976. 33 Cfr. J.L. AUSTIN, Come fare cose con le parole, 71-89. 34 Cfr. J. SEARLE, Atti linguistici, 55-60. 35 Come fa giustamente notare M. DUMMETT, in La verità e altri enigmi, 47-48. 36 “Atti linguistici comincia con la domanda ‘In che modo le parole hanno rapporto con il mondo?’. Ma nel libro non viene mai neppure accennato un rapporto tra linguaggio e percezione, fra linguaggio e cognizione. Così come, nonostante il fatto che la tesi programmatica dica che parlare un linguaggio è un tipo di azione, non si accenna a un rapporto fra linguaggio e società” (P. LEONARDI, Introduzione, in J.R. SEARLE, Atti linguistici, 7).

19 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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za facendo ricorso al modello esplicativo chomskyano), sembra che ignorino la lezione wittgensteiniana secondo cui nessuna teoria sistematica può render conto del significato in actu exercito. L’intento sistematico anima soprattutto il programma di ricerca della scuola linguistica attualmente dominante che fa capo a Noam Chomsky per il quale: “La grammatica generativa di una lingua particolare è una teoria che si occupa della forma e del significato di tale lingua che sono determinati dalla “facoltà del linguaggio’’, che viene concepita come una particolare componente della mente umana. La natura di questa facoltà è l’oggetto di una teoria generale della struttura linguistica che punta alla scoperta dell’insieme dei principi e degli elementi comuni alle lingue umane possibili; adottando un termine tradizionale al nuovo contesto di ricerca, questa teoria è ora chiamata “grammatica universale” (GU). La GU può essere considerata come una caratterizzazione della facoltà del linguaggio geneticamente determinata”37.

In conclusione, per Chomsky e la sua scuola, l’esplicitazione di tali principi innati sarebbe una teoria completa del significato.

3. Approccio socio-operativo Per render conto dell’emergenza del senso38 bisogna, invece, secondo Claude Hagège concepire in modo articolato la lingua come sistema e la parola come attività. Egli osserva in merito: 37

N. CHOMSKY, La conoscenza del linguaggio, 11. Il corsivo è mio.

“Il senso! Ecco l’ossessione, consapevole o rimossa, di ogni linguistica, la sfida permanente che la lingua rivolge a chi fa professione di analizzarla, la costante aporia a cui vanno incontro gli studi scientifici, proprio là dove l’esperienza elementare impone con tanta forza la sua ovvia realtà” (C. HAGÈGE, L’uomo di parole. Linguaggio e scienze umane, Einaudi, Torino 1989, 259). 38

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“Il paradosso chomskyano non fa dunque che riprendere, sotto altra forma e nonostante l’apparente ripudio, il paradosso saussuriano. Sia l’uno che l’altro sono risolutamente anti sociologici. Il prezzo sottoscritto alla costituzione di un oggetto scientifico omogeneo è troppo elevato: dopo l’eliminazione delle variazioni individuali, resta soltanto il codice condiviso da tutti i membri di una stessa comunità. Ma le variazioni sono la realtà stessa, e qualsiasi programma riduzionistico che le misconosca produce una linguistica svuotata del suo contenuto sociale... Saussure esclude l’individuo parlante, e al contempo oblitera l’interazione fra i locutori. Nella lingua così concepita tutto va come se nessuno parlasse. I soggetti viventi che ne fanno uso e la relazione che lo scambio verbale intesse tra di loro saranno di spettanza della linguistica della parola, rinviata sine die. Per converso i progressi realizzati nello studio degli atti linguistici dietro l’ispirazione di Austin e Searle hanno a loro volta indotto, in particolare i pragmaticisti, a dimenticare per eccesso di reazione che la parola non è concepibile fuori del sistema della lingua che essa mette in atto. I testi sono dei risultati, e non possono essere separati da ciò da cui risultano, vale a dire il codice. Inversamente, l’attività operativa dell’uomo dialogale rende manifesto il codice. E anzi lo costituisce nel corso della storia, provocando, con l’uso a cui lo sottopone, i mutamenti che periodicamente lo investono”39.

La teoria della comunicazione di Hagège si articola sulla nozione di enunciatore psicosociale40 in cui trova unità la lingua come sistema e la parola come attività: “Per questo, prendendo in considerazione gli individui all’interno di una situazione dialogale, noi ci mettiamo in grado di coniugare l’una con l’altra, la lingua e la parola, così male conciliate nelle teorie linguistiche. Allora potrà 39 40

Ibidem, 223-224. Illustrata da Hagège soprattutto alle pagine 233-236 dell’opera citata.

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dischiudersi una strada per sfuggire all’aporia con cui si confrontano le scienze del linguaggio, evitando sia gli oltranzismi distribuzionalistici di uno strutturalismo ciecamente concentrato sul sistema della lingua, sia gli oltranzismi di una logica estensionale che non vuole occuparsi d’altro se non della funzione di designazione. E al tempo stesso si eviterà la fascinazione dei contingenti atti di parola, che dimentica come i principi da cui traggono vita riposino nel sistema della lingua”41.

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4. Approccio ermeneutico Osserviamo a questo punto che né la linguistica socio-operativa di Hagège, né il realismo epistemologico di Putnam, con le loro ben fondate ed articolate teorie del significato, sono in grado di render conto dello specifico funzionamento semantico di quei linguaggi che di fatto non rientrano nei canoni della scientificità (sia speculativa che propriamente scientifica), ma la cui legittimità ed originalità è stata per un verso rivendicata42 e, per un altro, riconosciuta43. Per spiegare questo singolare fenomeno semantico non sono sufficienti l’insieme di quei fattori che intervengono 41

Ibidem, 261-262.

In Verità e Metodo Gadamer contrappone allo scientismo e all’epistemologismo (che identificano la verità con il sapere delle scienze positive), una rivendicazione della portata di verità di altre esperienze chiave dell’esistenza, come quella estetica, quella storiografica, quella del dialogo interpersonale mediato dal linguaggio. Cfr. H.G. GADAMER, Verità e Metodo, Bompiani, Milano 1983. Anche Paul Ricoeur ne La metafora viva mette in evidenza l’esistenza, accanto ai linguaggi della scienza sperimentale e quelli perfettamente formalizzabili, di altri linguaggi – come quelli poetici, simbolici, religiosi – che ricorrono soprattutto alla metafora e sono linguaggi di ridescrizione e di metamorfosi della realtà. Cfr. P. RICOEUR, La metafora viva, Jaca Book, Milano 1981, soprattutto lo studio settimo e ottavo. 42

43 Cfr. L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, I, § 23.

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necessariamente nella formazione di ogni atto o gioco linguistico, ma è necessario fare riferimento al carattere proprio dell’esperienza da loro articolata, come hanno acutamente avvertito sia l’ultimo Wittgenstein che Heidegger. Difatti se per il Wittgenstein la peculiarità semantica dei diversi giochi linguistici si radica in quelle strutture fondamentali di natura socio-culturale da lui definite forme di vita (Lebensformen) e che costituiscono “ciò che si deve accettare, il dato”44, per Heidegger è proprio la struttura dell’esistenza umana e, più radicalmente, quella dell’essere, a creare un linguaggio il cui funzionamento semantico si rivela singolare e irriducibile45. Questo significa: a) che ciò che qualifica il funzionamento semantico di questi linguaggi è l’esperienza intesa come un continuo fluire o accadere che si concretizza in una pluralità di forme o modalità esistenziali del tutto singolari e perciò irriducibili; b) che la peculiarità del funzionamento semantico di questi linguaggi è ultimamente determinata dall’istanza di articolazione propria a ciascuna di queste forme o modalità esistenziali; 44

Ibidem, II, 295.

“Siamo soliti pensare il linguaggio in corrispondenza all’essenza dell’uomo inteso come animal rationale, cioè come unità di corpo, anima e spirito. Ma come nell’humanitas dell’homo animalis resta nascosta l’esistenza, e con essa il riferimento della verità dell’essere all’uomo, cosi l’interpretazione metafisica del linguaggio sul modello ‘animale’ ne occulta l’essenza che secondo la storia dell’essere gli è propria. In riferimento a questa essenza, il linguaggio è la casa dell’essere fatta avvenire (ereignet) e disposta dall’essere. Perciò occorre pensare l’essenza del linguaggio a partire dalla sua corrispondenza all’essere, ed intenderla proprio come questa corrispondenza, cioè come dimora dell’essere umano” (M. HEIDEGGER, Lettera sull’ “umanismo”, in IDEM, Segnavia, Adelphi, Milano 1987, 286). 45

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c) che i principi o regole di carattere mentale, sociale o convenzionale che concorrono a determinare il funzionamento semantico di questi linguaggi seguono l’istanza di articolazione propria di ogni forma o modalità esistenziale; d) che il linguaggio, infine, proprio perché si struttura secondo tale istanza di articolazione, costituisce l’orizzonte trascendentale entro cui necessariamente si radica l’esistenza umana e il luogo in cui si effettua ogni forma di scambio con il mondo. Diverso è, tuttavia, il fine che anima l’intento terapeutico ed edificante46 con cui questi filosofi esplorano il linguaggio. Per Wittgenstein “la filosofia non può in nessun modo intaccare l’uso effettivo del linguaggio; può, in definitiva, soltanto descriverlo. Non può nemmeno fondarlo. Lascia tutto com’è”47. Pertanto l’analisi del linguaggio si limita a rimuovere i fraintendimenti che possono prodursi nei vari giochi linguistici. In Heidegger, invece, l’intento terapeutico che anima il suo cammino verso il linguaggio (Unterwegs zur Sprache) tende espressamente a riscoprirne la sua più originaria essenza riscattandolo da quell’uso strumentale a cui sembra condannarlo la nostra epoca dominata dalla scienza e dalla tecnica. Ecco come Heidegger formula questo suo proposito terapeutico: “Oggi esiste e cresce il pericolo che il modo di pensare scientifico e tecnico si estenda a tutti i campi della vita. 46 Così Richard Rorty qualifica la filosofia più tarda di Wittgenstein ed Heidegger. Cfr. R. RORTY, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 2004, 9. 47 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, I, § 124.

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In questo modo si rafforza la falsa impressione che ogni pensiero e ogni linguaggio siano oggettivanti. La tesi che infondatamente e dogmaticamente afferma questo favorisce e sostiene da parte sua la fatale tendenza a rappresentare ogni cosa solo sul piano tecnico-scientifico come oggetto di possibile controllo e manipolazione. Da questo processo di illimitata aggettivazione tecnica è ora colpito anche lo stesso linguaggio e la sua determinazione. Il linguaggio viene contraffatto e ridotto a strumento di comunicazione e di informazione calcolabile. E trattato come un oggetto manipolabile a cui la forma del pensiero deve adeguarsi. Ma il dire del linguaggio non è necessariamente un enunciare proposizioni su oggetti. Nel suo aspetto più proprio, esso è un dire di ciò che in molti modi si manifesta e si offre all’uomo, quando questi non si chiude a ciò che si mostra, limitandosi, per il dominare del pensiero oggettivante, a quest’ultimo”48.

Solo in questo modo si porta l’uomo a fare una rinnovata esperienza del linguaggio che trasfigura la sua stessa esistenza. Come scrive Heidegger: “Fare esperienza del linguaggio significa quindi: lasciarsi prendere dall’appello del linguaggio, assentendo ad esso, conformandosi ad esso. Se è vero che l’uomo ha l’autentica dimora della sua esistenza nel linguaggio, indipendentemente dal fatto che ne sia consapevole o no, allora un’esperienza che facciamo del linguaggio ci tocca nell’intima struttura del nostro esistere. In quanto parliamo il linguaggio, possiamo allora, in virtù di siffatte esperienze, essere trasformati sul momento oppure col tempo”49.

48

M. HEIDEGGER, Segnavia, 31-32. M. HEIDEGGER, In cammino verso il linguaggio, Mursia & C., Milano 1973, 127. 49

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Partendo da un presupposto diverso da quello del suo maestro Heidegger50, Gadamer approfondisce il nesso essenziale tra essere e linguaggio, tra linguaggio e comprensione:

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“Il linguaggio è un mezzo in cui io e mondo si congiungono, o meglio si presentano nella lor originaria congenerità (...). Ora ci risulta chiaro che questo agire della cosa stessa, questo venire ad espressione del senso, indica una struttura ontologica universale, cioè la struttura fondamentale di tutto ciò che in generale può essere oggetto del comprendere. L’essere che può venir compreso è linguaggio”51.

Quest’ultima affermazione va intesa, come precisa subito dopo lo stesso Gadamer, nel senso che: “Il fenomeno ermeneutico riflette per così dire la sua propria universalità sulla struttura stessa del compreso, qualificandola in senso universale come linguaggio e qualificando il proprio rapporto all’ente come interpretazione”52.

Secondo Gadamer “nel linguaggio si presenta il mondo stesso. L’esperienza linguistica del mondo è “assoluta”53, anche se, precisa Gadamer, “muovendo dalla linguisticità del compren50 Per Gadamer, infatti, “il concetto di spirito che Hegel riprende dalla tradizione spiritualistica cristiana... è ancora sempre alla base di ogni critica dello spirito soggettivo che, in base all’esperienza dell’epoca posthegeliana, ci si presenta come compito. Questo concetto di spirito, che trascende la soggettività dell’io, trova il suo vero corrispondente nel fenomeno del linguaggio, quale oggi è venuto a trovarsi sempre più al centro della filosofia contemporanea; e ciò perché, in confronto a quel concetto di spirito che Hegel ha ripreso dalla tradizione cristiana, il fenomeno del linguaggio possiede il vantaggio, adeguato alla nostra finitezza, di essere infinito come lo spirito, e tuttavia finito come ogni accadere” (H.G. GADAMER, Kleine Schriften, J. C. M. Mohr, Tübingen 1967, vol. I, 148, citato da Gianni Vattimo in H.G. GADAMER, Verità e Metodo, IV) . 51 Ibidem, 541-542. 52 Ibidem, 542. 53 Ibidem, 514.

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dere noi sottolineiamo (...) la finitezza dell’evento linguistico nel quale di volta in volta si concreta la comprensione”54. La meditazione gadameriana sul linguaggio ritiene che un’autentica comprensione della sua essenza è possibile solo nella prospettiva cristiana aperta dal mistero dell’Incarnazione e dalla teologia del Verbum che da essa promana: “Se la parola si fa carne, e solo in questa incarnazione si attua perfettamente la realtà dello spirito, ciò significa che il logos viene liberato dalla sua pura spiritualità, che costituisce anche la sua potenzialità cosmica. La puntualità e unicità dell’evento della salvezza segna anche l’ingresso della storicità nel pensiero occidentale e, d’altra parte, fa sì che il fenomeno del linguaggio non sia più confuso con l’idealità del significato e si offra invece più chiaramente alla riflessione filosofica. A differenza del logos greco, la parola è puro accadimento: verbum proprie dicitur personaliter tantum”55.

Per evitare, da un lato, il rischio dell’ultimo Heidegger di dissolvere la differenza tra linguaggio speculativo e quello poetico a vantaggio di quest’ultimo56 e superare, dall’altro, l’antinomia che Gadamer sembra stabilire tra approccio epistemologico ed esperienza ermeneutica del linguaggio57 Paul Ricoeur intraprende quella che ama definire la via lunga, “un cammino più tortuoso e faticoso”, capace di coniugare un’epistemologia dell’interpretazione – perseguita in stretto contatto con le scienze umane – con una ontologia della compren-

54

Ibidem, 543. Ibidem, 481. 56 Cfr. P. RICOEUR, La metafora viva, 401-417. 55

57 Cfr. P. RICOEUR, Ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, Paideia, Brescia 1977, 53.

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sione58. L’analitica ricoeriana del linguaggio59 mostra come questo si articola in un processo essenzialmente mimetico60 il cui milieu naturale è costituito dal cosiddetto mondo della vita (Lebenswelt61) già prefigurato dagli aspetti strutturali del l’azione, dalle necessarie mediazioni simboliche in cui l’uomo vive e, infine, dagli aspetti temporali dell’agire umano62. Ogni particolare configurazione poetico-narrativa (sia storica che di finzione) si radica in questo originario milieu mimetico63 da cui assume le risorse linguistiche per dispiegarsi secondo una prospettiva semantico-pragmatica creata dalla peculiare regione dell’esperienza che intende articolare. Il linguaggio originario risulta così disponibile per essere assunto da qualsiasi realtà che irrompe nel contesto mimetico originario. L’assunzione delle risorse proprie di mimesis I dà luogo al secondo momento del processo mimetico in cui si configura una particolare esperienza o forma di vita. 58 Cfr. P. RICOEUR, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977, 20-21. 59 Che si trova essenzialmente enucleata in P. RICOEUR, Tempo e Racconto, Jaca Book, Milano 1986, I, 91-139.

Cfr. ibidem, 92-93. Con l’espressione” mondo della vita” (Lebenswelt), si intende in genere il fatto che “il mondo c’è già da sempre stato come presupposto della possibilità di qualsiasi singola esperienza in esso, come presupposto in generale del fatto che ognuno si ritrova come uomo da qualche parte; e d’altro canto, questo esserci-già-stato significa sempre che gli uomini hanno lavorato già da prima alla formazione di un tale orizzonte del mondo e hanno trasmesso il sapere ai discendenti” (L. LANDGREBE, Itinerari della fenomenologia, Marietti, Torino 1974, 78). 60 61

62

Cfr. P. RICOEUR, Tempo e Racconto, I, 94-95. “Imitare o rappresentare l’azione, vuoi dire anzitutto pre comprendere che ne è dell’agire umano: della sua semantica, della sua simbolica, della sua temporalità. È a partire da questa pre-comprensione, comune al poeta e al suo lettore, che si eleva la costruzione dell’intrigo e, con essa, la mimetica testuale e letteraria” (ibidem, 107-108). 63

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“In tal modo mi propongo di mostrare che mimesis II ricava la sua intelligibilità dalla sua facoltà di mediazione, che è quella di condurre da ciò che è a monte a ciò che sta a valle del testo, di trasfigurare ciò che sta a valle in ciò che sta a monte grazie alla sua capacità di configurazione”64.

Il processo mimetico si compie solo quando il lettore (sia individuale che sociale) rifigura il suo vissuto mediante l’effettiva assunzione della specifica performatività presente nella configurazione poetica. In altri termini, la rifigurazione del vissuto del lettore si compie mediante la ricezione della specifica performatività di cui è portatore il testo-poema. Pertanto, “l’atto di lettura può essere considerato (...) come il vettore della capacità dell’intrigo a modellare l’esperienza”65. In conclusione, se la filosofia analitica si limita a descrivere il funzionamento semantico proprio ad ogni atto o gioco linguistico, la filosofia ermeneutica, invece, si interessa soprattutto a quei linguaggi che sono capaci di cogliere ed esprimere dimensioni della realtà altrimenti inaccessibili. Scrive a tal proposito Ricoeur: “Ho cercato di far vedere come la capacità di referenza del linguaggio non era esaurita dal discorso descrittivo e come le opere poetiche si rapportavano al mondo secondo un regime referenziale proprio, quello della referenza metaforica. La referenza metaforica consiste nel fatto che la scomparsa della referenza descrittiva si rivela essere, in seconda approssimazione, la condizione negativa perché venga liberato un potere più radicale di referenza ad aspetti del nostro essere-nel-mondo che non possono essere detti in maniera diretta”66. 64

Ibidem, 92. Ibidem, 124 66 Ibidem, 129. 65

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Conclusione Al termine di questa rassegna critica osserviamo come la semantica si presenti come un vero e proprio intrigo in cui confluiscono diverse istanze che invece di escludersi si includono reciprocamente. Certamente l’istanza logica, fatta propria da autori come Gottlob Frege, Bertrand Russell, Rudolph Carnap, il primo Wittgenstein, Willard O. Van Quine, rende conto di quei linguaggi logicamente organizzati propri delle scienze. D’altra parte l’istanza pragmatica, rappresentata da autori come il secondo Wittgenstein, da John Austin, John Searle, rende conto del funzionamento semantico di quei giochi linguistici che sono espressione del mondo della vita. Il significato dei vari giochi linguistici si rivela irriducibile così come unica e irripetibile è la forma di vita con cui formano un tutt’uno. A sua volta l’istanza ad un tempo pragmatico-sistematica rappresentata da Claude Hagège cerca di articolare l’istanza pragmatica con quella che concepisce il linguaggio umano come un sistema regolato da un insieme di codici. Infine, l’istanza ermeneutica, fatta valere da autori come Martin Heidegger, Hans Georg Gadamer, Paul Ricoeur, si mostra sensibile a quei linguaggi poetici e narrativi che portano con sé l’esigenza di rivelare aspetti assolutamente inediti e misteriosi. Nel loro insieme queste istanze richiamate contribuiscono a illustrare l’intrigo semantico del Novecento.

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Capitolo secondo

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Il dibattito sull’origine del significato

In questo secondo capitolo intendo dimostrare come una spiegazione più adeguata dell’origine del significato esiga un approccio inclusivo delle principali teorie che sono state elaborate a partire da Gottlob Frege da eminenti filosofi, linguisti, psicologi, logici.

1. La teoria componenziale di Frege Nel celebre articolo Über Sinn und Bedeutung, pubblicato nel 1892, Frege introduce fin dal titolo le due nozioni chiave della sua semantica: quelle, appunto, di Sinn e Bedeutung. Che cosa intende Frege rispettivamente per Sinn e Bedeutung? Il riferimento (Bedeutung) è ciò a cui un termine singolare o una descrizione definita si riferiscono. Così, ad esempio, il riferimento del nome proprio “Keplero” è Keplero (l’individuo Keplero in carne ed ossa), mentre il riferimento della descrizione definita “la montagna più alta dei mondo” è l’Everest. Sebbene la nozione fregeana di senso (Sinn) sia alquanto elusiva, in quanto assomma in sé caratteristiche disparate che andrebbero tenute distinte67, è fuor di dubbio che per Frege 67 La nozione fregeana di senso sembra poter essere scomposta nelle seguenti caratterizzazioni distinte (e non equivalenti): a) ciò che costituisce il modo di presentazione del referente, b) ciò che fissa univocamente il referente, c) ciò che un parlante impara quando diventa competente nell’uso dell’espressione, d) ciò che

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il senso debba rispondere a un requisito di completezza, ovvero essere ciò in virtù del quale il referente dell’espressione linguistica è univocamente determinato. Un punto sul quale Frege insiste molto è che il senso (Sinn) di un’espressione linguistica non va confuso con la rappresentazione mentale (Vorstellung) che ne accompagna l’uso. La nozione di senso è una nozione “logica”, mentre la nozione di rappresentazione è una nozione “psicologica”, ed ogni confusione tra logica e psicologia deve essere accuratamente evitata: “Se il riferimento (Bedeutung) di un segno è un oggetto sensibilmente percepibile, la mia rappresentazione di esso è invece un’immagine interna che si è costituita sulla base dei ricordi di impressioni sensibili da me provate e di attività, sia interne che esterne, da me esercitate. Quest’immagine è spesso impregnata di sentimenti; la chiarezza delle singole parti è fluttuante. Al medesimo senso (Sinn) non si collega sempre la medesima rappresentazione, neanche nella stessa persona. Essa è poi eminentemente soggettiva variando da uomo a uomo”68.

La preoccupazione di Frege nel sottolineare la distinzione tra senso e rappresentazione è anzitutto quella di salvaguardare la condivisibilità intersoggettiva del senso. Individui diversi possono avere in mente lo stesso senso; la rappresentazione è invece qualcosa di “eminentemente soggettivo”, qualcosa di privato, di incomunicabile. In realtà, le nozioni di senso (Sinn) e di riferimento (Bedeutung) sono essenzialmente ordinate fornisce il valore modale dell’espressione, e) ciò che fornisce il valore cognitivo dell’espressione. 68 G. FREGE, Senso e denotazione, in A. BONOMI (ed.), La struttura logica del linguaggio, Bompiani, Milano 1973, 12. Sulla natura e i limiti dell’anti psicologismo fregeano si veda M. DUMMETT, Alle origini della filosofia analitica, Il Mulino, Bologna 1990, 31-35; 101-134.

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all’analisi semantica dell’enunciato (o frase in genere), che per Frege costituisce la più piccola unità linguistica tramite la quale possa essere effettuato un atto linguistico veramente compiuto. Qual è il senso di un enunciato? Orbene, il senso di un enunciato è per Frege proprio il pensiero (Gedanke) che esso esprime. Ma che cosa deve intendersi per “pensiero”? “Col termine “pensiero” -scrive Frege – intendo non l’atto soggettivo del pensare, ma il suo contenuto oggettivo che può costituire il possesso comune di molti”69. Mentre le rappresentazioni sono sempre rappresentazioni di qualcuno e pertanto sono private, i pensieri, invece, sussistono autonomamente: “Se ogni pensiero ha bisogno di un portatore alla cui coscienza appartenere, è un pensiero di questo portatore soltanto, e non vi è mai una scienza comune a molti e alla quale in molti possano lavorare. (...) In questo modo (...) la discussione sulla verità è alquanto oziosa, fino al ridicolo, quanto lo sarebbe la discussione sull’autenticità di una banconota da cento marchi tra due tizi ciascuno dei quali intenda la banconota che lui ha in tasca e dia al termine “autenticità” un senso del tutto particolare noto soltanto a lui. (...) Sembra che quindi il risultato sia che i pensieri non sono né cose del mondo esterno né rappresentazioni”70.

I pensieri appartengono ad un “terzo regno” – distinto, appunto, sia dal regno degli enti fisici sia dal regno dei processi psicologici – in cui sussistono “al di fuori del tempo”, indipendentemente dal fatto che qualcuno li pensi o no. Pensare vuol dire entrare in rapporto mediante operazioni mentali di un certo tipo con questo “terzo regno”. Come ciò esattamente 69 G. FREGE, Senso e denotazione, in A. BONOMI (ed.), La struttura logica del linguaggio, 15, nota 5. 70

G. FREGE, Ricerche logiche, Guerini, Milano 1988, 59-60. 33

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accada, Frege non lo spiega. Abbiamo detto che per Frege il senso di un enunciato coincide con il pensiero da esso espresso: ma quale sarà mai il relativo riferimento? La risposta di Frege è che il riferimento di un enunciato è il suo valore di verità71. Questa risposta risulta chiara alla luce dei seguenti principi stabiliti da Frege. In primo luogo la tesi formulata chiaramente nei Grundlagen der Arithmetik, secondo cui solo nel contesto di un enunciato un nome sta per qualcosa, ha cioè un riferimento, e del suo corollario: non si deve mai indagare sul significato di una parola in isolamento. In secondo luogo la distinzione tra Sinn e Kraft, che porta a discernere se un enunciato è usato con l’intenzione di fare un’asserzione su qualcosa, oppure ha la forma di una domanda, di un ordine, di una preghiera, di una promessa, di una credenza, ecc. È evidente, pertanto, che il riferimento di un enunciato che non ha la forma dell’asserzione si identifica con il suo senso (Sinn). Più precisamente, gli enunciati che non hanno la forza assertoria, ma la forma imperativa, interrogativa, ottativa e altre varietà ancora (come gli enunciati che esprimono credenze o intenzioni) hanno – per usare una terminologia fregeana – un riferimento indiretto (ungerade Bedeutung). In definitiva, per Frege il significato di un qualsiasi tipo di enunciato viene ricavato componenzialmente a partire dai significati dei suoi componenti: “L’enunciato può venir concepito come una rappresentazione (Abbildung) del pensiero, nel senso che al rapporto fra il pensiero e le sue parti corrisponde, nel complesso, il rapporto che intercorre fra l’enunciato e le sue parti”72. 71 Sul rapporto tra verità e significato in Frege si veda M. DUMMETT, Alle origini della filosofia analitica, 23-29. 72 G. FREGE, Scritti postumi, Bibliopolis, Napoli 1987, 400.

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2. La teoria sinottica del secondo Wittgenstein Nel Libro blu e marrone73, Wittgenstein sviluppa una critica serrata all’idea secondo cui comprendere il significato di un’espressione linguistica è il portato di un processo mentale misterioso che va oltre le ambiguità della posizione anti mentalistica di Frege74. Certo Wittgenstein ammette che vi siano dei processi mentali concomitanti alla comprensione del significato di una parola, di un enunciato, di una lingua. Questi processi possono essere descritti dalla psicologia e dalla neurofisiologia. Ma il comprendere stesso non si può identificare con questi processi; un processo infatti dura nel tempo, ha un inizio e una fine; ma quando dico che comprendo il significato di un’espressione linguistica non mi riferisco al processo mentale, che avviene in me, ma piuttosto al fatto che so fare qualcosa con quella espressione. In questo modo Wittgenstein dà una versione sua propria del principio di contestualità di Frege: comprendo il significato di una parola quando la so usare correttamente nel contesto del discorso. Se il comprendere è visto come un saper fare, che è oggettivamente controllabile, non è più né necessario né utile postulare – come fa Frege – un regno di entità ideali. Wittgenstein prende due piccioni con una fava: il senso di un’espressione linguistica non è né un’immagine mentale, un’idea (Cartesio, Locke), né un’entità ideale ipostatizzata (Frege); il senso, o significato di una espressione, si identifica immediatamente con il suo uso osservabile nel contesto della pratica linguistica di una comunità di parlanti75. 73

L. WITTGENSTEIN, Libro blu e marrone, Einaudi, Torino 1983. Cfr. M. DUMMETT, Alle origini della filosofia analitica, 34. 75 Con l’idea che pensare non è restar chiusi nel mondo della coscienza, ma operare con simboli aventi un carattere pubblico, l’anti mentalismo wittgensteinia74

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Sono i modi di procedere della comunità, le sue intese e le sue sanzioni che determinano se un comportamento è conforme a una data regola, così come determinano se un termine sia usato correttamente nel gioco linguistico che gli è proprio. Seguire una regola è una pratica pubblica, che trova la sua giustificazione ultima non in un’intenzione o in un’intuizione del parlante, ma nella forma di vita in cui questa pratica è sedimentata76. All’idea componenziale del significato propria di Frege, Wittgenstein sostituisce una visione sinottica, in cui trova posto l’integrazione del linguaggio con l’azione in un contesto. La tesi generale è che “le parole non possono essere comprese al dì fuori del contesto delle attività umane non-linguistiche in cui è immerso l’uso del linguaggio: il gioco linguistico è costituito dalle parole più il loro contesto comportamentale”77. Come ha giustamente osservato Georg Henrik von Wright: “Per capire cosa spingesse Wittgenstein verso questa conclusione, bisogna prima di tutto richiamare la sua concezione filosofica secondo la quale la vita degli esseri umani, e pertanto tutte le manifestazioni della cultura, sono profondamente radicate in strutture fondamentali di natura sociale. Queste strutture sono ciò che Wittgenstein chiamò forme di vita (Lebensformen), e prendono corpo in ciò che egli chiamò giochi linguistici (Sprachspiele)”78.

Ma l’acquisizione e l’impiego di procedure di natura socio-culturale basta a spiegare il fatto – sottolineato dallo stesso no costituisce una critica radicale alla concezione cartesiana della mente e del pensiero e a tutta la filosofia successiva che ne ha tratto ispirazione. Cfr. A. KENNY, Il privato cartesiano, in AA.VV., Capire Wittgenstein, 252-267. 76 L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, I, § 241. 77 A. KENNY, Wittgenstein, Boringhieri, Torino 1984, 28. 78 H.G. von WRIGHT, Wittgenstein e il suo tempo, in AA.VV., Capire Wittgenstein, 22.

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Wittgenstein – che chiunque abbia una padronanza di un dato linguaggio sia in grado di capire un’infinità dei suoi enunciati, un’infinità che naturalmente è fatta soprattutto di enunciati che egli non ha mai sentito prima? Questa competenza semantica non suppone, come rileva Dummett79, che ciascun parlante abbia una comprensione implicita (innata) di un certo numero di principi generali che governano l’uso delle parole negli enunciati?

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3. La teoria costruttivista di Piaget In un brano particolarmente denso il famoso psicologo svizzero Jean Piaget riassume in modo perspicuo e conciso i capisaldi del suo costruttivismo: “Cinquant’anni di esperienze ci hanno insegnato che non esistono conoscenze che siano il risultato di una semplice registrazione di osservazioni, senza una strutturazione dovuta alle attività del soggetto. Ma non esistono (nell’uomo) neanche strutture cognitive a priori o innate: soltanto il funzionamento dell’intelligenza è ereditario ed esso genera delle strutture solo mediante una organizzazione di azioni successive esercitate sugli oggetti. Di conseguenza un’epistemologia conforme ai dati della psicogenesi non potrebbe essere né empirista né preformista [innatista], ma può consistere solo in un costruttivismo, con l’elaborazione continua di operazioni e/o di nuove strutture [cognitive]. Il problema centrale consiste quindi nel comprendere come tali creazioni si effettuino e perché, pur risultando da costruzioni non predeterminate, queste possono, strada facendo, divenire logicamente necessarie”80. 79

Cfr. M. DUMMETT, La verità e altri enigmi, 59-60. J. PIAGET, La psicogenesi delle conoscenze e il suo significato epistemologico, in M. PIATTELLI-PALMARINI (ed.), Linguaggio e apprendimento. Il dibattito tra Jean Piaget e Noam Chomsky, Jaca Book, Milano 1991, 51. 80

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Il problema centrale del costruttivismo piagetiano è dunque quello di illustrare come si costruiscono le strutture cognitive di base e come da queste si passi poi in modo necessario a strutture cognitive sempre più complesse e potenti sotto il profilo logico. Cerchiamo di capire come Piaget concepisce i momenti più salienti di questo processo che ad un certo punto porta alla comparsa del linguaggio e, quindi, del significato. La costruzione delle strutture cognitive – asserisce Piaget – è “il risultato “necessario” delle costruzioni proprie dell’intelligenza senso-motoria, precedente al linguaggio e frutto di autoregolazioni sia organiche che comportamentali”81. Come si vede Piaget non ha dubbi sul fatto che la comparsa del linguaggio dipenda ultimamente dall’ “intelligenza senso-motoria”. Di questo processo Piaget ci fornisce una essenziale caratterizzazione: “Vi è dapprima una generalizzazione delle azioni. Al livello di questa logica delle azioni avviene la formazione di schemi di assimilazione che sono una specie di concetti di tipo pratico in quanto comportano la comprensione ma non l’estensione. (...) Ma come fa il soggetto a passare da questa logica dell’azione a una logica concettuale? (...) Questo passaggio alla logica concettuale dipende da una nuova forma di assimilazione. (...) Non più solo l’assimilazione tra gli oggetti e uno schema d’azione, ma l’assimilazione degli oggetti tra loro. In altri termini, gli oggetti saranno assimilati direttamente gli uni agli altri, la qual cosa permetterà l’estensione. Ma questo suppone l’evocazione. (...) Da dove proviene allora questa evocazione? È qui che vediamo costituirsi la funzione simbolica o semiotica la quale si costituisce durante il secondo anno. Naturalmente il linguaggio ne è un caso particolare, ma niente di più di un 81 J PIAGET, La psicogenesi delle conoscenze e il suo significato epistemologico, in M. PIATTELLI-PALMARINI (ed.), Linguaggio e apprendimento, 58.

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caso particolare – molto importante -ma limitato nell’insieme delle manifestazioni della funzione simbolica. (...) Questo è il contesto in cui comincia il linguaggio, ecco dunque la mia ipotesi: le condizioni del linguaggio fanno parte di un insieme più ampio, preparato dai diversi stadi dell’intelligenza senso-motoria. (...) La formazione della funzione simbolica, che è un derivato necessario dell’intelligenza senso-motoria, permette l’acquisizione del linguaggio”82.

Come si vede per Piaget il linguaggio fa parte di un’organizzazione cognitiva più generale, che affonda le sue radici “nell’azione e nei meccanismi senso-motori più profondi del fatto linguistico”83 in particolare, il linguaggio è uno degli elementi di un insieme di manifestazioni che riposano sulla funzione semiotica alla quale partecipano il gioco simbolico, l’imitazione differita e l’immagine mentale84. Ed è proprio in concomitanza con la comparsa della funzione simbolica che secondo Piaget si dà l’emergenza del significato: “Esistono già dei significanti sensomotori che sono gli indici o i segnali, ma questi non costituiscono che un aspetto o una parte degli oggetti significati: la funzione semiotica inizia, al contrario, quando i significanti sono differenziati dai significati e possono corrispondere a una molteplicità di questi ultimi. Si vede allora che tra l’assimilazione concettuale degli oggetti tra loro e la semiotizzazione c’è una mutua dipendenza e che entrambe derivano quindi da una 82 J. PIAGET, Schemi d’azione e apprendimento del linguaggio, in M. PIATTELLI-PALMARINI (ed.), Linguaggio ed apprendimento, 217-220. 83 J. PIAGET, Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Einaudi, Torino 1974, 102. 84 Cfr. J. PIAGET, Schemi d’azione e apprendimento del linguaggio, in M. PIATTELLI-PALMARINI (ed.), Linguaggio e apprendimento, 217-220.

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generalizzazione completiva dell’assimilazione senso-motoria”85.

A questo punto non possiamo fare a meno di esplicitare le assunzioni cruciali di Piaget riguardo il linguaggio e l’apprendimento. Secondo Piaget la struttura basilare del linguaggio deriva da ed è una generalizzazione-astrazione di vari schemi senso-motori. Gli schemi senso-motori sono una precondizione inerente allo sviluppo dell’emergere del linguaggio, e costituiscono anche la premessa logica delle strutture linguistiche86. Ora questa assunzione cruciale, secondo cui il linguaggio deriva ultimamente dall’intelligenza senso-motoria, è stata radicalmente messa in dubbio da Noam Chomsky, il quale ha dimostrato con argomenti confortati dalla moderna neurobiologia87, come sia dal punto di vista della filogenesi che della ontogenesi, il linguaggio costituisce una facoltà distinta dalle altre facoltà della mente/cervello88. Secondo Piaget, inoltre, le transizioni (tra uno stadio e il seguente) sono formalmente vincolate dalla “necessità logica”, e di fatto, “dinamicamente”, si attuano grazie allo sforzo attivo del soggetto di generalizzare, equilibrare e sistematizzare una vasta gamma di attività diverse di risoluzione di problemi. 85 J. PIAGET, La psicogenesi delle conoscenze e il suo significato epistemologico, in M. PIATTELLI-PALMARINI (ed.), Linguaggio e apprendimento, 56. 86 Cfr. J. PIAGET, Schemi d’azione e apprendimento del linguaggio, in M. PIATTELLI-PALMARINI (ed.), Linguaggio e apprendimento, 217-220. 87 Si veda quanto sostiene in merito il neurobiologo molecolare J. P. CHANGEUX, nell’opera L’homme neuronal, Fayard, Paris 1983. 88 “La mente/cervello dell’uomo è un sistema complesso con vari componenti che interagiscono, uno dei quali possiamo chiamare facoltà del linguaggio (...). Il linguaggio ora costituisce uno dei molti sistemi di conoscenza che la persona giunge ad acquisire, uno dei suoi sistemi cognitivi” (N. CH0MSKY, Linguaggio e problemi della conoscenza, Il Mulino, Bologna 1991, 33-34).

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In particolare, la transizione è rappresentata dall’acquisizione di concetti e schemi sempre più validi, i quali includono come casi particolari i concetti e gli schemi dello stadio precedente in una categoria più vasta89. La teoria dell’apprendimento di Piaget richiede lo sviluppo di logiche strutturalmente più ricche (potenti) sulla base di logiche più povere (meno potenti). Ora, secondo Jerry Fodor, ciò non può affatto verificarsi, poiché non è mai possibile imparare una logica più ricca (potente) sulla base di una logica più debole90.

4. La teoria innatista di Chomsky Vediamo ora come si configura il problema della produzione del senso nell’ultima versione della teoria generativista elaborata dal celebre linguista statunitense Noam Chomsky a partire dalle The Pisa Lectures pubblicate nel 198191. Nell’impatto con i dati provenienti da un gran numero di lingue naturali la teoria generativista si è scissa in due tronconi: la teoria della grammatica universale (hard grammar) e quella della grammatica centrale (core grammar). Come spiega Chomsky: “La grammatica universale mira alla formulazione dei principi che entrano nel funzionamento della facoltà del 89 J PIAGET, La psicogenesi delle conoscenze e il suo significato epistemologico, in M. PIATTELLI-PALMARINI (ed.), Linguaggio e apprendimento, 58-60. 90 “Non esiste una cosa come la nozione dell’apprendimento di un sistema concettuale più ricco di quello che già si possiede; non abbiamo alcuna idea di cosa possa essere il passaggio da un sistema concettualmente povero (meno potente) ad uno concettualmente più ricco (più potente) mediante qualcosa come un processo di apprendimento” (J. FODOR, Fissazione delle credenze e acquisizione dei concetti, in M. PIATTELLI-PALMARINI (ed.), Linguaggio e apprendimento,198). Sull’impossibilità di acquisire strutture cognitive logicamente più potenti si veda per intero il saggio appena citato di Fodor, alle pagine 193-198. 91 Cfr. N. CHOMSKY, Linguaggio e problemi della conoscenza, XI-XII.

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linguaggio. La grammatica di una lingua particolare rende conto dello stato della facoltà del linguaggio successivo al contatto con i dati forniti dall’esperienza; la grammatica universale rende conto dello stato iniziale della facoltà del linguaggio precedente ad ogni esperienza”92.

Le strutture mentali soggiacenti alla grammatica universale sono innate, complesse, caratteristiche del linguaggio e solo di questo93 (molto diverse, per esempio, da quelle legate alla percezione visiva, al ragionamento logico o al controllo dei movimenti94). Queste strutture sono comuni a tutti i membri della specie umana95 e consentono di “fissare quelle della grammatica centrale, che è invece caratteristica della particolare lingua materna che ciascun bimbo finisce per acquisire, immerso come è in una particolare comunità linguistica”96. Questa concezione del linguaggio sembra attualmente trovare un riscontro positivo nella neurobiologia: “Le aree del linguaggio del cervello umano sono già costituite prima della nascita, essendo già ontogeneticamente sviluppate per essere pronte per l’apprendimento del linguaggio. È un processo codificato geneticamente e, sorprendentemente, le aree del linguaggio così sviluppate sono idonee per l’apprendimento di qualsiasi lingua. È stato stabilito in modo inequivocabile che bambini di razze differenti sono ugualmente predisposti per imparare tutte le lingue”97. 92

Ibidem, 55. Cfr. ibidem, 33-34. 94 Cfr. ibidem, 44. 95 Cfr. ibidem, 35-37. 96 Cfr. ibidem, 117-118. 97 J. C. ECCLES, Evoluzione del cervello e creazione dell’io, Armando, Roma 1990,120. 93

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Ricordando poi come Chomsky ha utilizzato questo tipo di osservazione per formulare le sue teorie sui principi generali di una grammatica universale, John Eccles suggerisce che:

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“La “struttura profonda” della grammatica possa essere omologata alla micro-organizzazione delle aree del linguaggio. In questo senso si può comprendere come un bambino nasca con una “conoscenza” della “struttura profonda” del linguaggio poiché questo è codificato nella microstruttura delle aree corticali formate già prima della nascita in base alle istruzioni genetiche”98.

Tre sono secondo Chomsky i fattori da considerare: i principi geneticamente determinati della facoltà del linguaggio, i principi geneticamente determinati dei meccanismi generali di apprendimento e l’esperienza linguistica del bambino che cresce in una comunità di parlanti99. Ecco come Chomsky concepisce il primo fattore: “I principi della grammatica universale (...) costituiscono la facoltà stessa del linguaggio, lo schema costitutivo di ogni particolare lingua umana, la base per l’acquisizione del linguaggio. (...) I principi della grammatica universale sono dotati di parametri, che possono essere fissati sulla base dell’esperienza in un modo o nell’altro. Possiamo pensare alla facoltà del linguaggio come ad una rete intricata e complessa di un certo tipo associata ad un dispositivo di interruttori che consiste di una serie di interruttori in grado di assumere una posizione tra due 98

Ibidem, 120. N. CHOMSKY, Linguaggio e problemi della conoscenza, 16. Chomsky precisa che “riguardo a questi fattori siamo sicuri dell’esistenza del terzo (semplicemente perché esistono lingue differenti) ed abbiamo una prova alquanto forte che esista anche il primo (principi della facoltà del linguaggio). Lo status dei meccanismi generali dell’apprendimento è molto meno chiaro, al contrario di quanto viene ampiamente assunto” (Ibidem). 99

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possibili. A meno che gli interruttori non assumano una certa configurazione, il sistema non funziona. Quando essi assumono una delle configurazioni possibili, allora il sistema funziona in accordo con la sua natura, ma in modi differenti secondo il tipo di configurazione. La rete di connessioni costituita in tal modo è il sistema di principi della grammatica universale; gli interruttori sono i parametri che devono essere fissati dall’esperienza. I dati (linguistici) ai quali viene esposto il bambino che apprende la lingua devono essere sufficienti a che gli interruttori assumano una qualche configurazione. Una volta che la configurazione è assunta, il bambino ha padronanza di una particolare lingua e conosce i fatti di quella lingua: sa che una particolare espressione ha un certo significato e così via”100.

Viene così a cadere l’idea, forse più antica e più centrale di ogni teoria del linguaggio, compresa la “teoria standard” di Chomsky fino alla fine degli anni Settanta101, che la grammatica sia costituita da regole di tipo sintattico. Ci si sposta, infatti, su principi molto generali e, a valle di questi, sulla fissazione di parametri. Cade, con la nozione di regola, anche la spinosa questione della “realtà sociologica” delle regole grammaticali. Ci si chiedeva se fossero consce, inconsce, semi consce. Oggi si guarda a un processo, assolutamente automatico, inconsapevole e quasi meccanico, di fissazione di parametri102. 100

Ibidem, 56-57. Teoria formulata da Chomsky nel suo fondamentale saggio intitolato Aspetti della teoria della sintassi del 1965. Ora in N. CHOMSKY, Saggi linguistici. 2. La grammatica generativa trasformazionale, Boringhieri, Torino 1979, 41-164. 102 “I meccanismi computazionali coinvolti possono essere parecchio intricati (...), ma dal momento che essi si basano su principi della grammatica universale che sono parte della struttura fissa della mente/cervello, è verosimile suppone che essi abbiano luogo di fatto in modo istantaneo e che naturalmente non se ne abbia consapevolezza ma che stiano al di là del limite di una possibile introspezione” (N. CHOMSKY, Linguaggio e problemi della conoscenza, 80). 101

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Passiamo al secondo fattore, quello relativo ai principi geneticamente determinati dei meccanismi generali di apprendimento. C’è in ogni lingua e per ogni soggetto parlante qualcosa che va “imparato”, nel senso più letterale del termine: il lessico. Nemmeno Chomsky e Jerry Fodor103, sostenitori dell’innatismo più forte, si sognano di pensare che si nasca sapendo già che il cane si chiama “cane” in italiano, “dog” in inglese e “chien” in francese. Questi nomi vanno proprio imparati, ricevendoli dalla comunità. Però sta il fatto che a circa sei anni il bambino impara in media cinquanta nuovi vocaboli al giorno. Si parla, infatti, di una fase di “esplosione lessicale”. Osserva a questo proposito Chomsky: “La velocità e la precisione di acquisizione del vocabolario non lasciano alternative reali alla conclusione che il bambino in qualche modo ha disponibili i concetti prima dell’esperienza con la lingua e che sostanzialmente sta apprendendo delle etichette da applicare a concetti che sono già parte del suo apparato concettuale”104.

È come se possedessimo, innati, decina di migliaia di “posti” mentali per altrettanti concetti; concetti elementari, ma tra loro distinti105. Imparare il lessico significa, all’incirca, appiccicare la specifica etichetta, il nome della cosa, ordinatamente, a questo smisurato campionario di concetti106. Chomsky conclude mettendo in rilievo il ruolo indispensabile giocato dall’ambiente nell’apprendimento della lingua: 103 Cfr. J. A. F0DOR, Fissazione delle credenze e acquisizione dei concetti, in M. PIATTELLI-PALMARINI (ed.), Linguaggio e apprendimento, 193-198. 104 N. CHOMSKY, Linguaggio e problemi della conoscenza, 25-26. 105 Cfr. ibidem, 28-29. 106 “È al di là di ogni discussione che l’acquisizione del vocabolario venga guidata da un ricco e invariante sistema di concetti, precedente a qualsiasi esperienza” (Ibidem, 30).

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“L’apprendimento di una lingua, allora, è il processo di determinazione dei valori dei parametri lasciati aperti dalla grammatica universale, di disposizione degli interruttori che fanno funzionare la rete. Al di là di ciò, chi apprende una lingua deve scoprire gli elementi lessicali della lingua e le loro proprietà. In grande misura ciò sembra consistere nel problema di trovare quali etichette siano utilizzate per concetti preesistenti, conclusione che sembra così sorprendente da suonare oltraggiosa ma che, tuttavia, appare essenzialmente corretta. L’apprendimento della lingua non è proprio qualcosa che un bambino compie; è qualcosa che a un bambino, posto nell’ambiente appropriato, capita, più o meno come il corpo cresce e matura in un modo predeterminato quando gli vengono forniti l’adeguato nutrimento e gli stimoli ambientali. Questo non significa che la natura dell’ambiente sia irrilevante. L’ambiente determina il modo nel quale i parametri della grammatica universale assumono una certa configurazione, producendo lingue differenti. (...) Inoltre, la differenza tra un ambiente ricco e un ambiente povero può essere determinante in modo sostanziale sia nell’acquisizione della lingua così come nella crescita fisica (...) Le capacità che sono parte del nostro patrimonio genetico comune possono fiorire o possono essere limitate e soppresse secondo la condizioni che sono fornite per la loro crescita”107.

Nella misura in cui i significati sono fissati nel lessico a partire dai concetti innati della facoltà del linguaggio della mente/ cervello è evidente che il problema della genesi del significato sia risolto da Chomsky in chiave nettamente innatista. Ma ciò non vuol dire che l’ambiente – in particolare la lingua parlata da una determinata comunità linguistica – sia irrilevante nella produzione del senso; al contrario, esso risulta indispensabile, 107

Ibidem, 118.

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in quanto agisce come attivatore108, selezionatore di un ricco e invariante sistema di concetti o schemi concettuali innati della mente/cervello. In questo modo il ruolo dell’ambiente nella produzione del senso non viene affatto negato, ma concepito diversamente. Nell’intenzione di Chomsky (e Fodor) la tesi secondo cui tutti i concetti sono innati significa che essi sono formati esclusivamente dall’attività geneticamente determinata del nostro cervello e che l’ambiente agisce soltanto come una sorta di “attivatore” e di “selezionatore”. La loro formazione deriva da un’attività neuronale estremamente complessa che si articola nel tempo secondo principi geneticamente determinati109. È evidente che l’elemento veramente discriminante tra il costruttivismo di Piaget e l’innatismo di Chomsky sta nel diverso modo di concepire il ruolo dell’ambiente nella formazione delle strutture cognitive. Per Chomsky non si dà (come invece ritiene Piaget) assimilazione o interiorizzazione da parte del soggetto di strutture già fatte all’esterno. Per lui l’ambiente agisce solo come “attivatore”110.

5. La teoria referenziale di Putnam La tesi wittgensteiniana, secondo cui il significato di un’espressione non si identifica con un’entità o evento mentale, 108 “Il termine giusto in questo caso è “attivazione”; cioè, l’esperienza non determina il modo nel quale lavorerà la mente ma l’attiva, la fa funzionare nel suo modo ampiamente predeterminato” (Ibidem, 156). 109 Cfr. J. P. CHANGEUX, Determinismo genetico ed epigenesi delle reti neuronali: esiste un compromesso biologico possibile tra Chomsky e Piaget? in M. PIATTELLI-PALMARINI (ed.), Linguaggio e apprendimento, 241-252. 110 Cfr. M. PIATTELLI-PALMARINI, I programmi scientifici e il loro nucleo centrale, in IDEM (ed.), Linguaggio e apprendimento, 37.

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bensì con la capacità di saperla usare correttamente111 nel contesto di un’enunciazione, viene recepita dal filosofo statunitense Hilary Putnam112 non senza una profonda revisione in senso realista. Secondo Putnam, infatti, è impossibile che i membri di una comunità di parlanti posseggano la capacità di usare espressioni veramente significative se le loro menti non hanno avuto alcuna interazione causale – una “catena causale di tipo appropriato” – con le cose stesse113. La posizione di Putnam è quella del “realismo interno”, che contrappone al “realismo ingenuo o metafisico”114. Egli ammette una realtà in qualche modo indipendente dalla nostre teorie, ma questa realtà è pur sempre concepita come piena di teoria, mai nuda, esterna, bruta. Per Putnam non ci sono fatti indipendenti da valori, né dati scevri da ogni teoria. Questo, però, non ci autorizza a considerare la realtà come “inventata” di sana pianta dalla scienza o dalla filosofia: “L’internismo non nega che ingredienti derivanti dall’esperienza concorrano alla conoscenza, (...) ma nega che vi siano ingredienti che non siano essi stessi modellati in qualche modo dai nostri concetti, dal vocabolario di cui ci serviamo per narrarli e descriverli, o ingredienti dei quali si può dare un’unica descrizione, indipendente da qualsiasi scelta concettuale. (...) Persino gli ingredienti stessi sui quali si basa la nostra conoscenza sono contaminati concettualmente: eppure, anche se sono contaminati, sono sempre meglio di niente 111 Cioè secondo determinate regole istituzionalizzate dalla pratica linguistica di una data comunità di parlanti. 112 Cfr. H. PUTNAM, Mente, linguaggio e realtà, 24-35. 113 Cfr. H. PUTNAM Ragione, verità e storia,12-23. 114 “La chiamerò “prospettiva internista”, poiché una caratteristica di tale tesi è quella di ritenere che chiedersi di quali oggetti consista il mondo abbia senso soltanto all’interno di una data teoria o descrizione” (Ibidem, 57).

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e, se è vero che sono tutto quello di cui disponiamo, hanno dimostrato di non essere poi così poco”115.

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La teoria del riferimento sviluppata da Putnam libera da uno dei nostri pregiudizi più inveterati, cioè dall’opinione diffusa che i nomi si aggancino alle cose nominate attraverso un qualcosa che è “nella testa”: “Nessun insieme di eventi mentali – immagini o altri avvenimenti o qualità mentali più “astratte” – costituisce il comprendere; nessun insieme di eventi mentali è necessario per comprendere. In particolare, i concetti non possono essere identici a oggetti mentali di alcun genere”116. Se così fosse, allora avrebbe ragione il relativista radicale, in quanto ogni teoria, ogni cultura, ogni generazione, costruirebbe una “sua” realtà, diversa da ogni altra. Queste diverse realtà sarebbero, sempre secondo il relativista radicale, tra loro “incommensurabili”, prive di un comune denominatore che ci consenta di compararle. Per esempio, il termine “oro” in Archimede e il nostro termine “oro” non potrebbero riferirsi alla stessa entità117.

Putnam, invece, difende violentemente una tesi opposta: succede spessissimo che ci si riferisca alle stesse cose, che le teorie, per quanto diverse e contrastanti, siano comunque teorie di una stessa realtà, a dispetto di tutte le differenze di opinioni, di significati, di credenze, di definizioni e di criteri118. Come è possibile? Il meccanismo è molto simile a quello che garanti115

Ibidem, 62. Ibidem, 27. 117 “La tesi dell’incommensurabilità è quella tesi che sostiene che i termini usati in un’altra cultura come, ad esempio, il termine “temperatura” come lo intendevano gli scienziati del diciassettesimo secolo, non si possono considerare equivalenti, per quanto riguarda il significato o il riferimento, ai termini o alle espressioni di cui ci serviamo attualmente” (Ibidem, 125). 118 Cfr. ibidem, 123-130. 116

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sce la rigidità del riferimento dei nomi propri. I nomi propri sono, per usare la terminologia introdotta da Saul Kripke119, dei designatori rigidi del loro referente. Essi sono termini che designano in tutte le situazioni possibili lo stesso individuo, ossia l’individuo che essi designano nella situazione attuale. Termini come George Bush o Copernico non hanno in sé alcun “significato intrinseco” (il fregeano Sinn), né possono essere “definiti” perfettamente, né applicati secondo criteri necessari e sufficienti. Cosa ne so io delle impronte digitali di Bush o del DNA di Copernico? Niente, appunto. Eppure questi nomi si riferiscono a individui ben precisi, senza bisogno di test, di definizioni e di criteri. Il riferimento avviene direttamente: “Supponiamo di fissare il riferimento di un nome mediante una descrizione. Anche facendo così, noi non rendiamo il nome sinonimo della descrizione, bensì lo usiamo rigidamente per riferirci all’oggetto così nominato anche quando parliamo di situazioni controfattuali in cui la cosa nominata non soddisferebbe la descrizione in questione. Ora, questo è ciò che io penso che sia vero in quei casi di denominazione in cui il riferimento è fissato per descrizione. Ma in realtà io penso anche, contrariamente alla maggior parte dei teorici recenti, che il riferimento dei nomi è raramente, o non è quasi mai, fissato per descrizione. E con questo non intendo solo ciò che dice Searle: “A fissare il riferimento non è una singola descrizione, ma un agglomerato, una famiglia di proprietà”. Io intendo dire che le proprietà in questo senso non vengono usate affatto”120.

La rigidità attribuita da Kripke ai nomi propri è estesa sia dallo stesso Kripke che da Putnam ai nomi comuni di 119 Cfr. S. A. KRIPKE, Identità e necessità, in A. BONOMI (ed.), La struttura logica del linguaggio, 259-294. 120 Ibidem, 285-286.

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genere naturale. Alla base di quest’estensione stanno motivazioni altamente intuitive. Se i nomi (propri e comuni) non fossero rigidi, ossia se il loro referente non fosse indipendente dalle caratterizzazioni che possiamo dare, allora, qualora la concezione del referente cambiasse più o meno radicalmente, cambierebbe il referente. Se si venisse a pensare che un certo individuo o sostanza o specie non gode della maggior parte degli attributi che gli erano stati (erroneamente) attribuiti, non si sarebbe nella condizione di dire che si sta parlando di un certo individuo o sostanza. Inoltre, non si saprebbe di cosa stiamo parlando quando facciamo ipotesi controfattuali. Affinché, infatti, le nostre ipotesi concernenti stati di cose inattuali ammontino a qualcosa di più e di diverso da una semplice equivocazione linguistica, ovvero a un cambiamento di linguaggio, è necessario che il riferimento delle espressioni che usiamo nella formulazione (o correzione) delle ipotesi sia mantenuto costante e invariato121. Secondo Putnam, i termini “oro”, “elettrone” e “gatto” sono una sorta di nomi propri, nomi propri di certe collezioni “naturali” di oggetti nel mondo. A differenza del realista “ingenuo”, Putnam esclude che il mondo possa fornirci queste collezioni direttamente, già confezionate, prima e al di là di ogni teoria122. A differenza del relativista anarchico123, Putnam esclude che il riferimento di termini come “oro”, “elettrone”, o “gene” si sposti a ogni momento, seguendo il continuo cambiamento di teorie, credenze e significati124. 121 Cfr. H. PUTNAM, Il significato di “significato”, in H. PUTNAM, Mente, linguaggio e realtà, 253-259. 122 Cfr. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 57; 62. 123 Cfr. ibidem, 123-135 124 Cfr. ibidem, 62-63.

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L’uso corretto dei termini del nostro linguaggio non impone a ciascuno di noi di “possedere” la definizione corretta, o di saper applicare dei test di laboratorio. Putnam ha reso celebre l’espressione “il significato non sta nella testa”, intendendo dire che il meccanismo con il quale i nomi si agganciano alle cose è un meccanismo collettivo, non un meccanismo mentale individuale. C’è una “catena” esterna a ogni singolo individuo, una serie di anelli di riferimento trasmessi attraverso il tempo, sia dalle persone ordinarie che dagli esperti. La catena si snoda fino a noi, ma le sue maglie più solide ed importanti restano in seno alla comunità nel suo insieme. La costanza dei termini del nostro linguaggio, la cosiddetta “rigidità” del riferimento, è in tal modo garantita, a dispetto dei possibili drastici mutamenti nelle nostre conoscenze. I “criteri” e i “test” vengono delegati agli esperti e sono soggetti a continui cambiamenti; a noi basta sapere che questi criteri esistono, senza doverne conoscere i dettagli. Il rifermento dei termini è garantito collettivamente, non individualmente125. Possiamo adesso tentare di fissare in modo articolato i punti cruciali della concezione putnamiana del significato: • Avere un concetto non si identifica col possedere un’entità mentale di alcun tipo (immagine o evento mentale), ma equivale ad essere capace di usare certe parole, o certi simboli, o certe “notazioni interiori” di complessità virtuale almeno pari a successioni di parole o di simboli. 125 “Ipotesi dell’universalità della divisione del lavoro linguistico: ogni comunità linguistica esemplifica il tipo di divisione del lavoro linguistico: essa possiede, cioè, almeno alcuni termini i cui “criteri” relativi sono noti soltanto a un sottoinsieme di parlanti che acquisiscono tali termini, e il cui uso da parte degli altri parlanti dipende da una cooperazione strutturata tra essi e i parlanti appartenenti ai sottoinsieme pertinenti” (H. PUTNAM, Mente, linguaggio e realtà, 252-253).

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• Il significato di una parola dunque non si identifica con un’entità (immagine o evento mentale), ma con la capacità di saperla usare correttamente nel contesto di una data lingua. • La capacità di saper usare in modo appropriato le parole esige non soltanto che si seguano le regole di una data lingua codificate in modo convenzionale, ma che i parlanti di quella data lingua abbiano stabilito un legame “reale”, mediante una “catena causale di tipo appropriato”, con gli enti designati dalle “parole di genere naturale” – diversamente tra i parlanti di quella determinata comunità sarebbe impossibile una comunicazione veramente significativa. • Il legame reale stabilito da questo tipo di parole (di genere naturale) non fornisce, però, l’estensione completa degli enti da esse rispettivamente designati (così il legame causale con gli individui designati dalla parola “gatto” non comprende tutti i gatti passati, presenti e futuri, ma soltanto un certo numero limitato di gatti). • Il legame causale non può mai fornirci pertanto una descrizione completa, cioè perfettamente definita degli enti che designano queste parole (è impossibile dare, ad esempio, una descrizione completa, perfettamente definita, degli enti designati con la parola “gatto”). • Dato che il significato (intensione) di una parola è determinato dalla sua estensione, ne consegue che il significato di questo tipo di parole (che designano entità osservabili), non può essere mai completo, cioè totalmente definito. • Se è così, allora, il significato di queste parole (che designano generalmente entità naturali) non è affatto nella testa!

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In questo modo Putnam dimostra, da una parte, che non tutti i concetti sono innati (con buona pace di Chomsky e Fodor)126, e, dall’altro, come sia necessario che i parlanti abbiano una qualche interazione causale con le cose perché si dia una comunicazione veramente significativa tra loro (con buona pace di Quine)127.

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6. La teoria procedurale di Johnson-Laird Lo psicologo inglese Philip N. Johnson-Laird ha elaborato la prima teoria organica dei processi di pensiero che non ricorre ad una “logica mentale”. Egli suppone che la vita mentale sia basata su tre tipi di rappresentazioni: le rappresentazioni proposizionali, i modelli mentali e i loro correlati percettivi: le immagini128. I modelli mentali servono a spiegare la nostra capacità di fare inferenze, rimpiazzando così le regole formali di un’ipotetica logica mentale La dottrina della logica mentale129, che Johnson-Laird vuole rimpiazzare, sostiene la tesi secondo cui le leggi del pensiero non sono altro che le leggi stesse della logica130. Per Johnson-Laird: “Quel che bisogna rigettare è l’idea che quel che sta sotto alla capacità di pensare razionalmente sia una logica che ha sede nella nostra mente. Si può ragionare 126 Cfr. H. PUTNAM, Che cosa è innato e perché, in M. PIATTELLI-PALMARINI, Linguaggio e apprendimento, 380. 127 Cfr. H. PUTNAM, La refutazione del convenzionalismo, in H. PUTNAM, Mente, linguaggio e realtà, 177-214. 128 La descrizione di questi tre tipi di rappresentazioni si trova in P. N. JOHNSON-LAIRD, Modelli mentali. Verso una scienza cognitiva del linguaggio, dell’inferenza e della coscienza, Il Mulino, Bologna 1988, 237-264. 129 Cfr. ibidem, 65-89. 130 Cfr. ibidem, 67.

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senza ricorrere alla logica”131. In termini ancora più espliciti egli osserva come “i bambini non hanno necessità, per poter fare deduzioni valide, né di acquisire delle regole d’inferenza né di possederle già come innate. È possibile ragionare in modo valido senza possedere un qualsiasi sistema logico”132. Ma quello che qui ci interessa è il fatto che Johnson-Laird utilizza la teoria dei modelli mentali proprio “al fine di fornire una spiegazione integrata dei processi sottostanti il significato e la comprensione del discorso”133. Egli rileva come nella semantica “basata sulla teoria dei modelli”134, “la costruzione delle corrispondenze tra linguaggio e modelli avviene senza riferimento alcuno alla mente dell’uomo”135. Omissione questa che, da una parte, “dà origine ad alcune insuperabili difficoltà con la semantica delle frasi concernenti credenze o altri atteggiamenti proposizionali del genere”136 e, dall’altra, riduce “i significati intesi come interpretazioni a pure entità idealizzate – astratte finzioni teoretiche, che si rivelano, alla fin fine, del tutto inutili”137. I limiti della semantica “basata sulla teoria dei modelli” non impedisce tuttavia che le teorie psicologiche del significato possano prendere a prestito da essa il principio della componenzialità “che consente agli studiosi di fornire precise descrizioni su come il significato di una frase viene ricavato 131

Ibidem, 89. Ibidem, 235. Il corsivo è mio. 133 Ibidem. 263s. 134 Traduce l’espressione inglese model-theoretic semantics. Si tratta della semantica di orientamento componenziale che trae ispirazione dal principio di contestualità formulato da Frege nei Fondamenti dell’aritmetica del 1884. 135 P.N. JOHNSON-LAIRD, Modelli mentali, 282. 136 Ibidem, 282. 137 Cfr. ibidem, 285. 132

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componenzialmente a partire dai significati dei suoi componenti, e in conformità alle loro relazioni sintattiche”138. Johnson-Laird tenta di risolvere quello che definisce “il mistero dei significati lessicali”139 attraverso la discussione critica degli assunti dello psicologismo, secondo cui i significati sono costruzioni mentali che noi imponiamo al mondo esterno, e degli assunti del realismo, dottrina secondo la quale i significati sono determinati dalla natura del mondo esterno e del tutto indipendenti dal modo in cui funziona la nostra mente140. In definitiva, i significati sono nella mente o nel mondo? Sono più giuste le tesi del realismo o dello psicologismo? I concetti posseggono condizioni necessarie e sufficienti oppure no? Secondo Johnson-Laird “tutte queste domande sembrano portare a delle false antinomie”141. “Il linguaggio – rileva Johnson-Laird – non è veicolo di una particolare metafisica; comprende in sé realismo e psicologismo. Ma – conclude – è la psicologia che deve avere l’ultima parola. Quale che sia la semantica di un termine, la sua relazione con il mondo dipende dalle capacità cognitive dell’uomo”142. Con ciò egli rivendica un ruolo indispensabile alla psicologia nello studio del 138

Ibidem, 282. Ibidem, 285. 140 Ibidem, 286-314. 141 Dal momento che “i significati di alcune parole sono costruzioni mentali imposte al mondo in assenza di un correlato oggettivo. Altre parole vengono utilizzate per riferirsi a classi di entità la cui struttura sottostante è sconosciuta; in effetti esse individuano qualcosa nella realtà, ma la loro intensione può essere conosciuta, ben che vada, soltanto da alcuni esperti. Altre parole ancora hanno una semantica che è stata costruita come, o si è convenuto coincidesse con un insieme di condizioni necessarie e sufficienti, condizioni che stanno alla base delle inferenze analitiche” (Ibidem, 314). 142 Ibidem, 314. 139

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significato, contro la semantica “basata sulla teoria dei modelli” che di fatto l’aveva messa tra parentesi. Ma come è rappresentato nella mente il significato di una parola? Dopo aver precisato che “il compito della semantica psicologica è di mostrare come linguaggio e mondo entrano in relazione l’un con l’altro nella mente, di mostrare, cioè, come la rappresentazione mentale di una frase è correlata alla rappresentazione mentale del mondo”143, Johnson-Laird rileva come le teorie semantiche sviluppatesi nell’ ambito della psicologia144 “propongono tutte che i significati delle parole vengano rappresentati in espressioni formulate in un qualche linguaggio mentale; [ma] nessuno spiega come queste espressioni si pongano in relazione al mondo”145. E ciò perché queste teorie si fondano anche in modo implicito, sull’assunto, che si rivela falso146, “dell’autonomia psicologica delle intensioni, cioè sulla tesi che proprietà e relazioni semantiche vengono comprese attraverso processi che operano indipendentemente dai processi che mediano il riferimento”147. Di fronte all’inadeguatezza sia della semantica “basata sulla teoria dei modelli” che della semantica psicologica, Johnson-Laird propone una teoria semantica procedurale che sia in grado di porre in relazione il linguaggio con il mondo non immediatamente, ma mediante modelli mentali148. 143

Ibidem, 354s. Cfr. ibidem, 318-351. 145 Ibidem, 369. 146 “Non è possibile, senza tener conto di come vengono individuati i referenti, spiegare né come vengono risolte le ambiguità lessicali, né l’esemplarizzazione delle parole in base al contesto, né la variabilità nelle proprietà logiche delle relazioni spaziali, e neppure i vari fenomeni della deissi” (Ibidem, 369). 147 Ibidem, 355. 148 Cfr. ibidem, 379. L’elenco delle procedure che portano alla costruzione dei 144

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Secondo Johnson-Laird esiste un numero finito di primitivi semantici o concettuali in grado di costruire i modelli mentali149. Contro coloro che sostengono che tutti i concetti sono acquisiti (come Piaget), egli afferma che “tutti i primitivi concettuali sono innati”150, mentre contro la forma estrema di innatismo (sostenuta da Fodor e Chomsky) secondo cui tutti i concetti sono innati, asserisce che esistono concetti acquisiti, portando alcuni argomenti a sostegno dell’esistenza di una forte analogia tra l’apprendimento dei concetti e la costruzione delle funzioni computabili151. Egli rileva come “L’apprendimento può essere pensato, tra i tanti modi possibili, come una procedura che scopre la maniera di combinare assieme le funzioni conosciute per ricavarne delle nuove. Il sistema prende il via da un insieme di funzioni innate e da un insieme di procedure innate per combinare assieme funzioni, e l’apprendimento non è che la costruzione di funzioni non ancora possedute dal sistema a partire dalle funzioni in suo possesso”152.

Ora questa nozione di apprendimento non rende necessario accettare la versione estrema di innatismo (professata da Fodor e Chomsky), senza con ciò cedere nulla al comportamentismo o al costruttivismo piagetiano. modelli mentali si trova esposto nelle pagine 379-381 e completato nelle pagine 384-385 dell’opera citata. 149 “Esiste un insieme finito, di primitivi semantici che danno origine ad un corrispondente insieme di campi semantici; vi è inoltre un insieme finito di concetti, o “operatori semantici”, interno ad ogni campo semantico, che ha lo scopo di consentire la costruzione di concetti più complessi a partire dai primitivi di base” (Ibidem, 608). 150 Ibidem, 606. 151 Cfr. ibidem, 606. 152 Ibidem, 232.

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La posizione di Johnson-Laird a proposito del dinamismo produttore di senso, risulta perspicuamente illustrata nel seguente brano che riportiamo per intero: “I primitivi procedurali (…) sono fuori dal dominio della consapevolezza cosciente, non possono venir facilmente descritti; e non sono acquisibili in base all’esperienza, dal momento che ogni rappresentazione mentale di ciò che si esperisce esige fin dall’inizio la capacità di costruire modelli della realtà su base percettiva. Questi primitivi sono quindi innati. Stanno alla base della nostra capacità di rappresentare il mondo, di portare a termine azioni che si incardinano su queste rappresentazioni, e di prefigurare possibilità alternative: i primitivi stanno a fondamento delle esperienze percettive, delle abilità motorie e delle capacità cognitive. I significati delle parole semanticamente semplici consistono di primitivi semantici, com’è il caso della rappresentazione procedurale dell’espressione alla sinistra di. I significati delle parole semanticamente complesse sono invece ricavati per composizione a partire da questi stessi primitivi che vengono tratti dai significati delle parole semanticamente semplici Si possono quindi indicare fondamentalmente tre distinti livelli di analisi concettuale: primitivi, concetti semplici e concetti complessi, i quali ultimi sono, in quanto tali definibili”153.

7. La teoria dialogale di Hagège In polemica con le tesi innatiste della grammatica generativa154, il linguista Claude Hagège ribadisce che l’oggetto di ricerca proprio della linguistica è la “lingua” intesa come isti153

Ibidem, 608. “Le tesi innatiste non tengono molto conto dell’uso che noi facciamo delle lingue. In realtà, è del linguaggio, non delle lingue, che esse si occupano” (C. HAGÈGE, L’uomo di parole. Linguaggio e scienze umane, 59). 154

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tuzione. Per spiegare alcune caratteristiche proprie delle lingue come, ad esempio, la natura puramente convenzionale dei segni linguistici155, oppure il fenomeno della loro diversità e pluralità156, non basta la “facoltà del linguaggio”; è necessario ricorrere al fattore sociale157. Ecco perché la linguistica non è riducibile alla comprensione ed esplicitazione dei principi innati, biologicamente determinati, della “facoltà del linguaggio”, come ritiene Chomsky158. Secondo Hagège, se vogliamo effettivamente render conto dell’emergenza del senso, dobbiamo porre al centro della linguistica il “soggetto enunciatore”159: “il solo ponte fra semantica e pragmatica, in accezione ampia, a cui la linguistica ha ragione di interessarsi è il locutore stesso, produttore e decodificatore di senso nel mondo sociale che si costituisce come il suo ambiente naturale”160. Solo l‘enunciatore psicosociale ci permette di includere tutti i fattori che indissolubilmente conferiscono senso a ciò che costituisce la grandezza propria delle lingue, cioè la frase161: 155 “II segno (...) non è legato al referente (il mondo degli oggetti e delle nozioni) da un nesso che possa in un modo o nell’altro essere giustificato o stabilito per via razionale. Il segno presuppone puramente e semplicemente un consenso, ed è appreso come una convenzione” (Ibidem, 95). 156 Cfr. ibidem, 35-59. 157 “Ma se è lecito ammettere che il sociale abbia originariamente radici biologiche nella specie umana, è chiaro per converso che una volta avviato lo sviluppo della vita di gruppo l’interazione tra il fattore sociale e il fattore cerebrale diventa permanente” (Ibidem, 13). 158 Cfr. N. CHOMSKY, La conoscenza del linguaggio. Natura, origine e uso, 11. 159 “Il soggetto deve essere al centro delle sue [della linguistica] preoccupazioni, ma come soggetto enunciatore, non come pura soggettività che accessoriamente parla. Proponiamo qui di concettualizzarlo come enunciatore psicosociale” (Ibidem, 234). 160 Ibidem, 228. 161 “La frase sarà definita secondo due criteri. In primo luogo, essa è l’insieme

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1. Il primo fattore è quello che la vede in relazione con il sistema della lingua. Entro questa prospettiva dunque, noi studiamo i rapporti fra i termini, nonché l’espressione ditali rapporti. Si tratta del punto di vista morfo-sintattico. 2. Il secondo è quello che collega le frasi al mondo esterno di cui parlano. Ora non sono le forme ad essere prese- in considerazione, ma il senso che esse trasmettono. Si tratta del puntò di vista semantico- referenziale. 3. Il terzo considera la frase nei suoi rapporti con chi la proferisce, a sua volta in rapporto con un ascoltatore. Il locutore sceglie una certa strategia o modo di presentazione, introducendo una gerarchia tra ciò che enuncia (il senso) e modalità secondo cui l’enuncia (aspetto performativo). Si tratta del punto di vista enunciativo-gerarchico. Così se ci limitiamo al solo punto di vista morfo-sintattico, noi dimentichiamo il senso prodotto e i rapporti fra i produttori (la relazione interlocutiva che l’enunciatore psicosociale stabilisce nell’atto stesso in cui enuncia una frase). Se prendiamo in considerazione il solo punto di vista semantico-referenziale, avremo perduto di vista i vincoli morfo-sintattici che caratterizzano le lingue e le condizioni di uso nel dialogo. Infine, se riconduciamo tutto al punto di vista enunciativo-gerarchico, potremmo ottenere una caratterizzazione dei discorsi e dei rapporti d’interazione che essi istituiscono, ma ci lasceremo sfuggire alcune componenti essenziali del linguaggio162. di parole (eventualmente una sola) che il parlante nativo accetta come completo, ossia autosufficiente, né bisognoso di aggiunte per essere grammaticalmente corretto e semanticamente interpretabile. Il secondo criterio è di natura formale: un determinato contorno intonazionale segnala le frontiere della frase, quale sia la forma materiale ditale contorno da una lingua all’altra e all’interno di una stessa lingua” (Ibidem, 203). 162 Cfr. ibidem, 203-204.

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Con ciò Hagège dimostra che non basta – come invece ritiene Chomsky – al parlante possedere una comprensione implicita (innata) di un certo numero di principi generali perché possa capire e produrre un’infinità di frasi, ma gli è indispensabile una effettiva situazione dialogale163 perché le frasi siano veramente animate di senso. Una linguistica che si limitasse all’esplicitazione “di questi principi innati, biologicamente determinati, che costituiscono una componente della mente umana, la facoltà del linguaggio”164, non saprebbe ancora una volta render conto dell’emergenza del senso. Questo perché dimentica che la lingua nella sua essenza è uno strumento di comunicazione: “Se esistono gli universali (i principi innati della facoltà del linguaggio), le istanze dialogali ne costituiscono contemporaneamente la spiegazione e la finalità”165.

Conclusione La discussione critica di alcune tra le più rilevanti teorie del significato ci porta alla conclusione che diversi sono i fattori che concorrono all’emergenza del significato. Di questa pluralità di elementi cerchiamo adesso di rendere conto sinteticamente. Con Frege dobbiamo innanzitutto riconoscere che il significato è determinato dalla composizione (struttura) logica di una frase. Il significato di un termine si definisce nel contesto di una frase che, pertanto, risulta essere l’unità fondamentale di significazione. 163 Si ricordi, come rileva lo stesso Hagège, che “l’enunciatore psicosociale è dialogale per natura, anche là dove la situazione di discorso non è dialogica” (Ibidem, 245). 164 N. CHOMSKY, La conoscenza del linguaggio, 34. 165 C. HAGÈGE, L’uomo di parole, 59.

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Con il secondo Wittgenstein (e i filosofi che a lui si ispirano come Austin e Grice) bisogna riconoscere che il significato di una frase non è determinato soltanto dalla sua intrinseca composizione logica, ma da fattori extralinguistici, come il contesto d’uso, la forza illocutoria, 1’intenzione del parlante. Abbiamo così una concezione pragmatica del significato che rende alquanto problematica se non impossibile – come ha rilevato Dummett – una teoria sistematica. Con Piaget bisogna riconoscere che la capacità di significare propria dell’uomo è frutto di un processo di sviluppo delle nostre facoltà che avviene essenzialmente attraverso l’interazione con l’ambiente sociale e culturale. La costruzione del significato dipende dallo sviluppo delle nostre facoltà rese attive dall’ambiente. Per cui risulta difficile stabilire ciò che vi è di innato e quanto invece di acquisito in tale processo. Merito di Chomsky, invece, è quello di aver rilevato come alla base del processo di comprensione e produzione del significato vi sia una competenza innata geneticamente determinata, che viene soltanto “attivata” dall’ambiente sociale e culturale. A sua volta Putnam mette in evidenza come la capacità del nostro linguaggio di significare deriva dal fatto che esso è un dispositivo semiotico che è costruito da menti che fanno riferimento alla stessa realtà. Senza questo riferimento il linguaggio non veicolerebbe significati condivisibili socialmente. Interessante è la proposta di Johnson-Laird che utilizza la teoria dei modelli mentali proprio al fine di fornire una spiegazione integrata delle procedure sottostanti il significare. È, infatti, innegabile che la nostra mente è coinvolta in qualche modo nella comprensione e produzione del senso. Hagège mette in evidenza come non basta al parlante possedere una comprensione implicita di un certo numero di principi generali perché possa capire e produrre un’infinità di frasi 63 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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(come ritiene Chomsky), ma occorre una effettiva situazione dialogale. Ci sembra, in conclusione, di poter dire che diversi sono i fattori da tener in considerazione se si vuole render conto dell’emergenza del significato. Dalla struttura logica della frase (Frege) ai fattori extralinguistici e contestuali (in particolare il secondo Wittgenstein), allo sviluppo delle facoltà e alla loro interazione con l’ambiente (Piaget), alla componente innata geneticamente determinata (Chomsky), ai processi mentali (Johnson-Laird), alla componente referenziale (Putnam), alla situazione dialogale (Hagège). Possiamo dire, pertanto, che l’emergenza del significato chiama in causa una pluralità di fattori.

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Capitolo terzo

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Irriducibilità della semantica a sistema

In questo terzo capitolo mi propongo di dimostrare come sia impossibile ridurre il funzionamento semantico del linguaggio ordinario entro un quadro normativo sistematico e come, pertanto, si sia passati dal progetto di una semantica totalmente prescrittiva ad un approccio semplicemente descrittivo di ampi settori del funzionamento semantico del linguaggio. In realtà tanti effetti di senso del nostro linguaggio non sono riconducibili a fattori controllabili e misurabili, ma dipendono da fattori (come “uso”, “forza”, “intenzione”) che sfuggono ad ogni trattamento canonico.

1. La nascita della semantica come scienza Storicamente della semantica si è occupata la filosofia già a partire da Aristotele166, anche se assume il carattere di un’indagine rigorosa e sistematica solo alla fine dell’Ottocento, allorché matura, con il logico e matematico tedesco Gottlob Frege, la chiara consapevolezza che il pensiero, pur distinguendosi dal linguaggio, di fatto è analizzabile soltanto attraverso quest’ultimo:

166 Cfr. J. M. BOCHENSKI, La logica formale. Dai presocratici a Leibniz, I, Einaudi, Torino 1981, 67-71.

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“Solo con Frege si è avuto finalmente un riconoscimento dell’oggetto proprio della filosofia: si è riconosciuto, cioè, in primo luogo, che l’obiettivo della filosofia è l’indagine della struttura del pensiero e in secondo luogo, che lo studio del pensiero deve essere tenuto nettamente distinto dallo studio del processo psicologico del pensare; infine si è riconosciuto che il solo metodo appropriato per l’analisi del pensiero consiste nell’analisi del linguaggio”167.

Occorre rilevare che per Frege l’analisi semantica del linguaggio ha un carattere eminentemente propedeutico168: essa è essenzialmente ordinata a rendere il linguaggio uno strumento idoneo per impostare e risolvere in modo corretto e perspicuo i problemi filosofici e scientifici. Estremamente caratteristica è a riguardo la seguente dichiarazione di Frege: “Se è compito della filosofia spezzare il dominio della parola sullo spirito umano, svelando gli inganni che, nell’ambito delle relazioni concettuali, traggono origine, spesso quasi inevitabilmente, dall’uso della lingua e liberare così il pensiero di quanto di difettoso gli proviene soltanto dalla natura dei mezzi linguistici, ebbene la mia ideografia, ulteriormente perfezionata a questo scopo, potrà diventare per i filosofi un utile strumento”169.

La genesi della semantica come analisi sistematica del significato si deve a Frege170, per il quale noi siamo incapaci di 167

M. DUMMETT, La verità e altri enigmi, 66. Cfr. M. DUMMETT, Filosofia del linguaggio. Saggio su Frege, Marietti, Casale Monferrato 1983, 17-34. 169 G FREGE, Logica e Aritmetica, Boringhieri, Torino 1965, 106. 170 “Prima di Frege nessun filosofo aveva lavorato così tanto all’elaborazione di una teoria sistematica del significato per un linguaggio, o a una ricerca sulla sostanza del pensiero in generale o a una spiegazione di cos’è che dobbiamo afferrare per capire un’espressione di un dato tipo. Certo Aristotele aveva una teoria dei vari tipi possibili di categorie di espressione; ma, nonostante l’acutezza dei logici 168

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afferrare un pensiero se non è espresso linguisticamente o simbolicamente. Questa dichiarazione implica che il solo mezzo, per noi comprensibile, di caratterizzare pensieri specifici e analizzare la loro struttura è l’analisi della loro espressione linguistica effettiva o possibile171. Si tratta, allora di spiegare come i pensieri (Gedanken) si strutturano nel linguaggio. A tale scopo Frege elabora una teoria sistematica del significato le cui nozioni chiave si applicano, per la loro generalità, anche al linguaggio naturale, e che diverranno, per la loro rilevanza, il nucleo intorno al quale si svilupperà lo studio del linguaggio naturale. Traggono origine proprio da Frege le tre tesi principali che congiuntamente costituiranno il paradigma semantico dominante del Novecento: 1) Il significato di un enunciato (dichiarativo) si identifica con le sue condizioni di verità, cioè con la specificazione delle circostanze in cui l’enunciato è vero172. 2) Il valore semantico di qualsiasi enunciato dipende funzionalmente dai valori semantici dei suoi costituenti (il principio di composizionalità del significato):

medievali, la povertà della logica formale prima della grande scoperta fregeana del simbolismo dei quantificatori testimonia l’inadeguatezza della classificazione di Aristotele come base per un’analisi generale della struttura degli enunciati. Per di più la teoria di Aristotele non ha fornito nessun chiaro inizio di una spiegazione di ciò in cui consiste la comprensione di un’espressione di una particolare categoria. Il maggior contributo di Frege alla filosofia del linguaggio o del pensiero non sta principalmente nella teoria effettiva che ha costruito, ma nell’averci dato l’idea di ciò cui dovrebbe somigliare una teoria del genere” (M. DUMMETT, Filosofia del linguaggio. Saggio su Frege, XXIII-XXIV). 171 Cfr. ibidem, XVIII-XIX. 172 Secondo Dummett “la teoria di Frege è che si conosce il senso (Sinn) di un enunciato quando si conosce cosa è per questo essere vero” (Ibidem, 304).

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“Le prestazioni della lingua sono veramente sorprendenti: esprimere un immenso numero di pensieri [Gedanken] con poche sillabe o addirittura trovare il modo di dare a un pensiero [...] una veste che permetta che un altro, a cui esso è del tutto nuovo, lo riconosca. Ciò non sarebbe possibile se non potessimo distinguere nel pensiero [Gedanke] delle parti alle quali corrispondono parti dell’enunciato, di modo che la costruzione dell’enunciato possa valere come immagine della costruzione del pensiero. [...] Se si considera quindi il pensiero come composto di parti semplici e se si fanno inoltre corrispondere a esse certe parti semplici dell’enunciato, diviene comprensibile come si possa costruire una grande molteplicità di enunciati cui corrisponda, di nuovo, una grande molteplicità di pensieri”173.

3) Immagini, rappresentazioni o altri enti mentali eventualmente associati alle espressioni linguistiche non sono i significati delle espressioni, e l’elaborazione mentale delle espressioni linguistiche (la comprensione come processo mentale) non è rilevante per la determinazione del significato delle espressioni stesse: “Se la denotazione [Bedeutung] di un segno è un oggetto sensibilmente percepibile, la mia rappresentazione [Vorstellung] di esso è invece un’immagine interna che si è costituita sulla base dei ricordi di impressioni sensibili da me provate e. di attività, sia interne che esterne, da me esercitate. Quest’immagine è spesso impregnata di sentimenti; la chiarezza delle sue singole parti è diversa ed incostante. La medesima rappresentazione non è sempre collegata al medesimo senso [Sinn/Gedanke], neppure nella stessa persona. La rappresentazione è soggettiva, varia da persona a persona. […] La rappresentazione si distingue per questo 173

G. FREGE, Ricerche logiche, 99.

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essenzialmente dal senso di un segno, senso che può essere un possesso comune di molte persone e non è dunque una parte o un modo della psiche individuale. Non si può negare che l’umanità abbia un patrimonio comune di pensieri che trasmette di generazione in generazione”174.

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2. La semantica dei linguaggi formalizzati Dopo Frege, fino agli anni Sessanta, prevale l’idea che un’analisi semantica scientifica è possibile soltanto per i linguaggi formalizzati e per quella parte del linguaggio naturale che in qualche modo è riconducibile ad essi. Diversi sono i motivi che inducono alcuni autorevoli logici e filosofi a ritenere impossibile la fondazione di una semantica scientifica per le lingue naturali tout court.

2.1 Il Tractatus logico-philosophicus Nel Tractatus logico-philosophicus, Ludwig Wittgenstein ritiene che si possa elaborare una teoria del significato175 soltanto di quelle proposizioni di cui si possono dare le condizioni di verità: “La proposizione è l’espressione delle sue condizioni di verità”176. Ora, secondo la teoria raffigurativa delle proposizioni del Tractatus177, “La proposi174 G. FREGE, Senso e denotazione, in A. B0N0MI (ed.), La struttura logica del linguaggio, Bompiani, Milano 1973, 12. 175 Secondo Dummett “Il Tractatus logico-philosophicus è un puro saggio di teoria del significato, da cui è stata eliminata ogni traccia di considerazione epistemologica e psicologica, così minuziosamente come si elimina il lievito dalle case prima della Pasqua ebraica” (M. DUMMETT, Filosofia del linguaggio. Saggio su Frege, 30). 176 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, prop. 4.431. 177 Sulla teoria raffigurativa delle proposizioni si veda A. KENNY, Wittgenstein, Boringhieri, Torino 1984, 73-91; vedi anche D. PEARS, The Relation between Witt-

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zione può essere vera o falsa solo essendo una immagine della realtà”178. Pertanto tutte le altre proposizioni che “non sono immagini della realtà”179 sono prive di senso. Secondo questa definizione del senso, restano fuori dal linguaggio sensato gli enunciati valutativi (per es. quelli dell’etica e dell’estetica) e quelli che, invece di raffigurare fatti, tentano di rappresentare i tratti generali del linguaggio e del mondo: dunque le proposizioni della metafisica, e quelle di cui si compone lo stesso Tractatus180. Per il Tractatus, dunque, una teoria del significato è possibile soltanto per gli enunciati fattuali che sono in perfetto ordine logico181. Wittgenstein accoglie dunque l’idea russelliana di analisi, e la distinzione tra forma grammaticale e forma logica su cui essa è basata182.

genstein Picture Theory of Propositions and Russell’s Theory of Judgement, in G.C. LUCKHARDT (ed.), Wittgenstein: Sources and Perspectives, Corneil University Press, Ithaca 1979, trad. it. in AA.VV., Capire Wittgenstein, 68-86. 178 L.WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, prop. 4.06. 179 Ibidem, prop. 4.462. 180 Questa drastica posizione di Wittgenstein dev’essere ricondotta al fatto che per il Tractatus logico-philosophicus c’è un solo linguaggio (il linguaggio) e non c’è quindi un altro linguaggio (metalinguaggio) in cui descriverne le proprietà. 181 Cfr. ibidem, prop. 6.53. 182 “Tutta la filosofia è “critica del linguaggio”. (...) Merito di Russell è aver mostrato che la forma logica apparente della proposizione non ne è necessariamente la forma reale” (Ibidem, prop. 4.0031). Secondo Russell scopo dell’analisi del linguaggio è quello di recuperare la forma logica al di là dell’apparenza grammaticale. La struttura semantica degli enunciati, infatti, non consiste nella loro forma grammaticale, ma bensì nella loro forma logica. Pertanto soltanto di un linguaggio ridotto alla sua forma logica si può fornire una vera e propria teoria semantica. Cfr. B. RUSSELL, Sulla denotazione, in A. B0N0MI (ed.), La struttura logica del linguaggio, 179-195.

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2.2 Alfred Tarski

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Per il logico polacco Alfred Tarski la fondazione di una semantica scientifica suppone una rigorosa definizione della nozione di verità che, tuttavia, non è possibile stabilire all’interno del linguaggio ordinario: “Appare assai dubbia la possibilità stessa di un uso coerente, e consono ai principi fondamentali della logica e allo spirito del ‘linguaggio corrente, dell’espressione “enunciato vero”, e, in conseguenza di ciò, [anche] la possibilità della costruzione di una qualsiasi definizione corretta di questa espressione”183.

Pertanto “è solo la semantica delle lingue formalizzate che può essere costruita con metodi esatti”184. Questa conclusione è inevitabile per il presentarsi nel linguaggio naturale di antinomie semantiche – in primo luogo quella del mentitore – dovute alla possibilità di esprimere in detto linguaggio ogni cosa, ivi compresi concetti e asserti riguardanti il linguaggio stesso: “Un contrassegno caratteristico del linguaggio corrente è (contrariamente a vari linguaggi scientifici) il suo universalismo: sarebbe incompatibile con lo spirito di questo linguaggio se occorressero, in un qualsiasi altro linguaggio, parole o espressioni che non si potessero tradurre nel linguaggio corrente; “se si può comunque parlare sensatamente di una qualsiasi cosa, allora se ne può parlare anche nel linguaggio corrente”. Assecondando questa tendenza universalistica del 183 A. TARSKI, Il concetto di verità nei linguaggi formalizzati, in F. RIVETI’I BARBÒ, L’antinomia del mentitore nel pensiero contemporaneo da Pierce a Tarski, Vita e Pensiero, Milano 1961, 423. 184 A. TARSKI, La fondazione della semantica scientifica, in A. BONOMI (ed.), La struttura logica del linguaggio, 427.

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linguaggio corrente nei confronti delle ricerche semantiche, dobbiamo di conseguenza ammettere nel linguaggio, accanto ai suoi enunciati ed espressioni qualsiasi, anche i nomi di questi enunciati e di queste espressioni, e inoltre gli enunciati che contengono questi nomi, come pure le espressioni semantiche quali “enunciato vero”, “nome”, “designare, ecc. D’altronde, proprio questo universalismo del linguaggio corrente nell’ambito della semantica è, presumibilmente, la sorgente fondamentale di tutte le cosiddette antinomie semantiche”185.

Con tutto ciò, Tarski non esclude che il metodo di analisi semantica da lui elaborato nell’ambito dei linguaggi formalizzati non abbia una certa rilevanza anche per lo studio delle lingue naturali, ma tale rilevanza è, per così dire, indiretta: “Chi volesse comunque, nonostante tutte le difficoltà, elaborare la semantica del linguaggio corrente coll’aiuto di metodi esatti, dovrebbe precedentemente sottoporsi all’ingrato lavoro di una riforma di questo linguaggio: dovrebbe precisare la sua struttura, eliminare l’ambiguità dei termini in esso occorrenti, ed infine suddividere il linguaggio corrente in una serie di linguaggi sempre più estesi, ognuno dei quali starebbe, con quello successivo, nello stesso rapporto nel quale un linguaggio formalizzato sta al suo metalinguaggio. E però dubbio che un linguaggio corrente, “razionalizzato” in questo modo, conservi ancora la proprietà della naturalezza, e che esso non assuma, invece, le proprietà caratteristiche dei linguaggi formalizzati”186.

185 A. TARSKI, Il concetto di verità nei linguaggi formalizzati, in F. RIVETTI BARBÒ, L’antinomia del mentitore nel pensiero contemporaneo da Pierce a Tarski, 421. 186 Ibidem, 651.

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2.3 Rudolf Carnap Già nella sua grande opera sulla Sintassi logica del linguaggio, il filosofo neopositivista Rudolf Carnap osservava che “a causa della struttura asistematica e logicamente imperfetta dei linguaggi verbali naturali (come il tedesco e il latino), l’enunciazione delle relative regole formali di formazione e di trasformazione risulterebbe così complicata da essere – in pratica – difficilmente attuabile”187. Per questo ritiene che lo studio delle lingue naturali, in quanto opposte a quelle logiche, sia di competenza della pragmatica: “L’analisi del significato delle espressioni si manifesta in due forme fondamentalmente diverse. La prima appartiene alla pragmatica, ossia all’indagine empirica delle lingue naturali storicamente date. (...) La seconda forma è stata sviluppata solo recentemente nel campo della logica simbolica; essa appartiene alla semantica (qui intesa nel senso di semantica pura, mentre la semantica descrittiva può essere considerata parte della pragmatica), ossia allo studio di sistemi linguistici costruiti, sistemi dati in base alle loro regole. (...) Assieme alla maggior parte dei logici contemporanei io ritengo che, per quanto concerne il fine particolare dello sviluppo della logica, sia più importante la costruzione e lo studio semantico dei sistemi linguistici”188.

Come si vede per Carnap una semantica scientifica è possibile soltanto per quei linguaggi costruiti in termini rigorosamente logici.

187 R. CARNAP, Sintassi logica del linguaggio, Silva, Milano 1961, 24. 188 R. CARNAP, Significato e sinonimia nelle lingue naturali, in A. BONOMI (ed.), La struttura logica del linguaggio, 117-118.

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2.4 Willard Van Orman Quine Per il filosofo e logico statunitense Willard Van Orman Quine il linguaggio naturale dev’essere riformato, “disciplinato” (regimented) in forme canoniche. In quest’opera dì disciplinamento del linguaggio naturale, la stella polare di Quine è rappresentata dal linguaggio della logica elementare (sostanzialmente, il linguaggio predicativo del prim’ordine con identità). Non che il linguaggio naturale debba essere sostituito da un linguaggio simbolico; si deve piuttosto ritrovare nello stesso linguaggio naturale, fin dove è possibile, quella struttura logica che il linguaggio simbolico esibisce con piena evidenza. Si tratta, quindi, di far vedere che espressioni o costruzioni naturali, apparentemente non riconducibili a forme del prim’ordine, possono essere parafrasate da espressioni sempre naturali, anche se magari più goffe, che equivalgono più o meno a quelle di partenza, ma che esibiscono in modo più trasparente una struttura logicamente accettabile. Queste parafrasi sono dette da Quine forme canoniche189. Per questo aspetto della sua proposta, Quine si pone chiaramente in continuità con Russell e il Tractatus che distinguevano tra “forma apparente” (superficiale, grammaticale) e “forma reale” (profonda, logica) delle espressioni del linguaggio naturale, ed assegnano all’analisi filosofica il compito di rivelare la forma logica “al di sotto” della forma grammaticale superficiale. Certo, la parafrasi in forma canonica comporta spesso qualche forzatura, ma Quine non concepisce il proprio compito come quello di un linguista che vuole descrivere la 189 “Fa parte della nostra strategia mantenere la teoria semplice dove è possibile e quindi, quando vogliamo applicare la teoria a enunciati particolari del linguaggio naturale, trasformare tali enunciati in una “forma canonica” che si adatti alla teoria stessa” (W. V. O. QUINE, Parola e oggetto, Il Saggiatore, Milano 1970, 158).

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struttura semantica del linguaggio naturale, bensì come quello di un filosofo che vuole migliorare uno strumento (il linguaggio naturale appunto) indispensabile per la comunicazione scientifica.

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3. Una semantica logica delle lingue naturali Sul finire degli anni Sessanta si afferma con i filosofi Richard Montague e Donald Davidson l’idea che le lingue naturali siano del tutto interpretabili in termini di sistemi logici e che, quindi, sia possibile elaborare una teoria semantica delle lingue naturali altrettanto rigorosa di quella dei linguaggi formalizzati.

3.1 Richard Montague Un allievo di Tarski e Carnap, Richard Montague, concepì l’ambizioso progetto di un’analisi semantica diretta di una lingua naturale (l’inglese), che raggiungesse lo stesso grado di rigore delle teorie semantiche per i linguaggi formali, tanto da poter essere considerata a tutti gli effetti una teoria matematica. La novità di questo progetto consiste nell’applicazione diretta alle lingue naturali delle idee del significato scaturite in ambito logico e il suo legame altrettanto diretto con la sintassi generativista. Il programma di Montague è quello di fornire un calcolo che caratterizzi i nessi semantici identificabili in una lingua naturale. Montague riteneva che questo programma andasse articolato come una branca della matematica, e non vedeva alcuna differenza di principio tra le lingue naturali e i linguaggi formali della logica190. Montague ci ha dato un modo di connettere sistematicamente la logica (intesa nel 190 Cfr. R. MONTAGUE, Formal Philosophy: Selected Papers, Yale University Press, New Haven 1974, 188.

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senso standard di teoria dell’inferenza) allo studio della sintassi delle lingue naturali191. Il suo metodo realizza pienamente l’idea di composizionalità del significato che costituisce uno dei capisaldi (il secondo) del paradigma semantico dominante. Per Montague, inoltre, la semantica non deve preoccuparsi di riprodurre ipotetici processi mentali soggiacenti all’interpretazione semantica di un enunciato da parte di un parlante. La semantica è parte della matematica, non della psicologia. Anche per quest’aspetto di radicale antimentalismo, la grammatica di Montague realizza pienamente un altro caposaldo (il terzo) del paradigma semantico dominante. La proposta semantica di Montague si pone in continuità con l’antico assioma che vede un parallelismo tra grammatica e logica (logicismo grammaticale) per cui le lingue sono del tutto interpretabili in termini di sistemi logici192.

3.2 Donald Davidson Secondo il filosofo statunitense Donald Davidson una teoria semantica delle lingue naturali dovrebbe: “Fornire un’interpretazione di tutti i proferimenti, attuali e potenziali, di un parlante o gruppo di parlanti; poter essere verificata senza conoscere in dettaglio gli atteggiamenti proposizionali del parlante. La prima condizione riconosce il carattere olistico della comprensione linguistica. La seconda tende a prevenire l’intromissione, nei fondamenti della teoria, di concetti troppo strettamente affini a quello di significato”193.

Ora secondo Davidson noi siamo in grado di soddisfare questi requisiti dal momento che le condizioni di verità che 191

Cfr. P.N. JOHNSON-LAIRD, Modelli mentali, 274-280. Cfr. C. HAGÈGE, L’uomo di parole. Linguaggio e scienze umane, 137-146. 193 D. DAVIDSON, Verità e interpretazione, Il Mulino, Bologna 1994, 33. 192

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determinano il significato “di tutti i proferimenti, attuali e potenziali” sono date dalle relazioni inferenziali tra le proposizioni che formano un linguaggio naturale. Sicché, capire queste relazioni “è sapere che cosa vuol dire per un enunciato (qualunque [tipo di] enunciato) essere vero; e questo non è altro che comprendere la lingua”194. Davidson riprende e sviluppa secondo una nuova prospettiva tutti e tre i capisaldi del paradigma semantico dominante. In primo luogo ribadisce che il significato di un enunciato qualsiasi si identifica con la sue condizioni di verità: “la definizione opera indicando condizioni necessarie e sufficienti per la verità di ogni enunciato, e indicare le condizioni di verità è un modo per indicare il significato di un enunciato”195. In secondo luogo – ed è questo l’aspetto più innovativo della sua proposta semantica – reinterpreta il principio di composizionalità in senso radicalmente olistico per cui le condizioni di verità di ogni enunciato (attuale e potenziale) sono date soltanto dalle relazioni inferenziali tra proposizioni di una lingua naturale: “Se il significato degli enunciati dipende dalla propria struttura, e se noi comprendiamo il significato di ciascun elemento della struttura solo come un’astrazione dalla totalità degli enunciati in cui figura, allora possiamo indicare il significato di un enunciato (o parola) solo indicando il significato di ogni enunciato (e parola) del linguaggio. Frege diceva che una parola ha significato soltanto nel contesto di un enunciato; nello stesso spirito, avrebbe potuto aggiungere che un enunciato (e pertanto una parola) ha significato solo nel contesto della lingua”196. 194

Ibidem, 71-72. Ibidem, 71. Il corsivo è mio. 196 Ibidem, 69. 195

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Infine, con l’abbandono del cosiddetto terzo dogma dell‘empirismo (il dualismo di schema concettuale e contenuto empirico)197, Davidson rimarca il terzo caposaldo secondo cui considerazioni di carattere psicologico sono irrilevanti per la teoria del significato. La proposta semantica di Davidson suppone che sia possibile rendere conto del significato di tutti i tipi di proferimenti (enunciati) esclusivamente in termini di condizioni di verità logicamente inferibili. Ma ciò risulta altamente problematico per un’ampia classe di enunciati del linguaggio naturale.

4. Il progetto di una teoria semantica sistematica Per il filosofo inglese Michael Dummett è indispensabile sostituire alla nozione di verità quella di giustificazione, come nozione centrale di una teoria del significato per un linguaggio naturale che abbia ad un tempo il carattere della sistematicità – contro quello che definisce “il particolarismo” della filosofia del linguaggio ordinario198 – e della completezza, contro l’incapacità delle teorie semantiche fondate sulla nozione di verità di rendere conto della complessità del funzionamento 197 “Intendo sostenere che questo dualismo tra schema e contenuto, tra un sistema organizzante e un qualcosa che attende d’esser organizzato, non può essere difeso né compreso. È esso stesso un dogma dell’empirismo, il terzo dogma (...) Il guaio è che la nozione di conformità all’esperienza nel suo complesso, come quella di essere conforme o fedele ai fatti, non aggiunge nulla d’intelligibile al semplice concetto di essere vero. (...) Non c’è nulla – non c’è cosa – che renda veri gli enunciati o le teorie: non l’esperienza, né le irritazioni di superficie, né il mondo possono rendere vero un enunciato” (Ibidem, 271-277). 198 Secondo cui “dobbiamo descrivere in dettaglio usi particolari di particolari parole. (...) Perché il suo oggetto non ammette sistemazione: non possiamo ordinare i nostri risultati in qualche teoria deduttiva esteticamente soddisfacente, poiché essi costituiscono solo una collezione di fatti particolari vagamente connessi, tanto particolari quanto quelli che compaiono in un dizionario” (M. DUMMETT, La verità e altri enigmi, 48).

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semantico del linguaggio. Dummett contrappone una teoria “classica”, che identifica il significato con le condizioni di verità, a una teoria “verificazionista”, o comunque “non realista”, il cui concetto centrale non è la verità ma la verificabilità, secondo cui conosce il senso di un enunciato non chi sa in cosa consiste il suo essere vero o falso, ma chi sa in quale modo possiamo effettivamente riconoscerne la verità, cioè chi conosce le regole che ci permettono di stabilire che l’enunciato può essere asserito come vero199. Nel saggio Can Analytical Philosophy Be Systematic and Ought it to Be? del 1977200, Dummett indica i requisiti essenziali che una teoria del funzionamento semantico del nostro linguaggio veramente completa deve soddisfare. In primo luogo egli osserva che “è difficile vedere come sia possibile una teoria sistematica dei significato per un linguaggio che non riconosca la distinzione tra senso e forza”201. Questo vuol dire che è essenziale per una teoria sistematica del significato: 1) riconoscere le diverse categorie (tipi di atti linguistici) in cui di fatto si articolano gli enunciati; 2) distinguere in ogni enunciato la particolare forza di emissione dal suo significato; 3) definire per ciascun tipo di enunciato le condizioni peculiari che ne determinano il senso. L’idea di una teoria sistematica del significato trova una conferma nel “fatto che chiunque abbia una padronanza di 199 Cfr. M. DUMMETT, What is a Theory of Meaning? in G. EVANS e J. MCDOWELL (edd.), Truth and Meaning, Clarendon Press, Oxford 1976; cfr. anche M. DUMMETT, Filosofia del linguaggio. Saggio su Frege, 309-334. 200 Tradotto in italiano in M. DUMMETT, La verità e altri enigmi, 45-67. 201 Ibidem, 58.

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un dato linguaggio sia in grado di capire un’infinità dei suoi enunciati (appartenenti a diversi tipi di atti linguistici)”202. Ora, secondo Dummett, “è difficile spiegare questo fatto se non supponendo che ciascun parlante abbia una comprensione implicita di un certo numero di principi generali che governano l’uso delle parole negli enunciati”203. Il fatto che il parlante sia in grado di capire un’infinità di enunciati, presuppone che egli possegga di fatto la capacità di riconoscere le diverse categorie in cui si articolano e quale siano le peculiari condizioni che ne determinano il senso. Rileva Dummett: “Se allora esistono tali principi generali di cui ogni parlante ha una comprensione implicita [cioè non esplicitata in un sapere razionale sistematico], è difficile vedere come possa darsi un qualche ostacolo teorico a renderli espliciti”204.

Una teoria sistematica del significato del linguaggio, pertanto, consiste proprio nel rendere espliciti in modo sistematico questi principi generali che rendono un parlante semanticamente competente: “un’esplicitazione di tali principi, l’implicita comprensione dei quali costituisce la padronanza del linguaggio, sarebbe precisamente una teoria completa del significato per quel linguaggio”205. Ma la realizzazione di una teoria sistematica del significato per un linguaggio naturale comporta necessariamente “la sostituzione della nozione di verità mediante quella di giustificazione, come nozione centrale per la teoria del significato”206. 202

Ibidem, 59 Ibidem, 59 204 Ibidem, 59-60. 205 Ibidem, 60. Il corsivo è mio. 206 Ibidem, 61-62. 203

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Questa sostituzione è necessaria dal momento che il linguaggio naturale è costituito da enunciati dei quali non è possibile rendere conto del senso in termini di condizioni di verità (dato che non sono né veri né falsi). Solo una teoria del significato che rende conto delle peculiari condizioni che intervengono nella determinazione del significato (senso) di tutti i tipi di enunciati presenti nel linguaggio naturale può dirsi veramente sistematica. Dummett sostituisce la tesi, secondo cui il significato di un enunciato è dato dalle sue condizioni di verità, con quella, più liberale (di origine wittgensteiniana), secondo cui il significato di un enunciato è dato dalle condizioni che ne giustificano l’uso207. Osserviamo come la critica di Dummett alla concezione olistica del significato di Davidson e Quine e l’affermazione di una prospettiva “molecolare” del significato discende coerentemente dal fatto che il significato dei diversi tipi di enunciati, che compongono le lingue naturali, è dato da differenti procedimenti di verifica (diverse modalità di giustificazione). Per Dummett soltanto una teoria del significato che soddisfi questi requisiti sarà finalmente in grado di fornire una spiegazione sistematica (completa) del funzionamento del nostro linguaggio208.

5. Il fattore realtà nella semantica delle lingue naturali A partire dalla fine degli anni Sessanta le riflessioni in particolare di logici e filosofi come Saul Kripke, Hilary Putnam e David Kaplan dimostrano come certe classi di espressioni, tipicamente nomi propri e descrizioni definite (come “la radice

207 Cfr. M. DUMMETT, Che cosa comporta il richiamo all’uso per la teoria del significato, in A. BOTTANI-C. PENCO (edd.), Significato e teorie del linguaggio, Angeli, Milano 1991, 140-153. 208 Cfr. M. DUMMETT, La verità e altri enigmi, 62.

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quadrata di quattro”)209, nomi di sostanza e di specie naturali (come “gatto”, “limone”, “gene”, “oro”, “elettrone”, ecc.)210, espressioni indicali (come “io”, “tu”, “ora”, “qui”, “questo”, ecc.)211 hanno un significato che si esaurisce nel loro referente e sono designatori rigidi di questo referente, ovvero designano lo stesso referente in tutti i mondi possibili212. Queste rifles209 Cfr. S. KRIPKE, Identità e Necessità, in A. BONOMI (ed.), La struttura logica del linguaggio, 259-294. 210 Cfr. S. KRIPKE, Nome e Necessità, Boringhieri, Torino 1982; H. PUTNAM, Il significato di “significato”, in H. PUTNAM, Mente, linguaggio e realtà, 239297; H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 7-56. 211 Cfr. D. KAPLAN, Demonstratives, in J. ALMOG-J. PERRY-H. WETTSTEIN, Themes from David Kaplan, Oxford University Press, Oxford 1989, 481-565; D. KAPLAN, La logica dei dimostrativi, in A. BOTTANI -C. PENCO (edd.), Significato e teorie del linguaggio, 87-106. Il termine indicale è un prestito dal greco, in cui denotava l’atto di indicare, ed ha come prototipi esemplari l’uso dei dimostrativi, i pronomi di prima e seconda persona, il tempo grammaticale, particolari avverbi di tempo e di luogo, come ora e qui, e vari altri tratti grammaticali direttamente legati alle circostanze di enunciazione. Il riferimento degli indicali dipende direttamente dal contesto in cui sono usati. Essi, al pari dei nomi propri, sono designatori rigidi: dato un contesto, il loro riferimento è lo stesso in tutti i mondi possibili. (Per esempio, “io”, proferito da un certo parlante in una determinata occasione, si riferisce a lui in tutti i mondi possibili). Quando si sostiene che gli indicali hanno riferimento diretto non si vuoi dire che non hanno significato linguistico (come i nomi propri); si vuole invece insistere sul fatto che, come i nomi propri, essi sono designatori rigidi e – ancora come i nomi propri – non sono sostituibili da altre espressioni senza alterare il valore di verità degli enunciati in cui compaiono. L’ineliminabilità delle espressioni indicali ovvero la non sostituibilità salva veritate con espressioni non indicali è stata evidenziata in particolare dai seguenti autori: H.N. CASTANEDA, Indicators and Quasi-Indicators, in “American Philosophical Quarterly”, 4, 1967, 85- 101; H.N. CASTANEDA, On the Logic of Attributions of Self-Knowledge to Others, in “The Journal of Philosophy”, 65, 1968, 439-57; J. PERRY, The Problem of the Essential Indexical, in “Nous”, 13, 1979, 3-22; D. KAPLAN, Demonstratives; D. KAPLAN, La logica dei dimostrativi, in A. BOTTANI-C. PENCO (edd.), Significato e teorie del linguaggio, 87-106. 212 Cfr. S. KRJPKE, Identità e Necessità, in A. B0N0MI (ed.), La struttura logica del linguaggio, 270.

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sioni mettono in discussione la validità generale delle analisi semantiche basate sui concetti di senso e denotazione (Frege), o estensione e intensione (Carnap). Come dichiara Putnam:

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“La teoria secondo cui (1) le parole hanno “intensioni”, che sono qualcosa di simile a concetti associati alle parole dei parlanti, e (2) l’intensione determina l’estensione, non può essere vera per le parole di genere naturale come “acqua”, per la stessa ragione per cui tale teoria non può essere vera per le parole palesemente indicali [rigide] come “io”213.

Il fenomeno della rigidità non può essere trattato adeguatamente entro il paradigma semantico dominante, dal momento che il significato dei termini rigidi non dipende da condizioni necessarie e sufficienti, ma consiste in una definizione indicale: “A fissare l’estensione di un termine non è un concetto che il singolo parlante ha in testa (...) sia perché l’estensione è, in generale, determinata socialmente (esiste una divisione del lavoro linguistico come esiste una divisione del lavoro “reale”), sia perché l’estensione è in parte determinata indicalmente. L’estensione dei nostri termini dipende dalla natura effettiva delle particolari cose che servono da paradigmi, e questa in genere non è interamente nota al parlante. La teoria semantica tradizionale trascura solo due contributi alla determinazione dell’estensione: quello della società e quello del mondo reale!”214.

Si afferma così un punto di vista che tende ad identificare senza residui il significato con la denotazione o riferimento (teoria del riferimento diretto), sostenendo (come

213 H. PUTNAM, il significato di “significato”, in IDEM, Mente, linguaggio e realtà, 258. 214 Ibidem, 269-270.

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già Russell215) l’irrilevanza di nozioni come quella di senso per la determinazione delle condizioni di verità degli enunciati216. Proprio su questa identificazione senza residui del senso con il riferimento (e la concezione della verità che essa comporta) si fondano gli argomenti che marcano la profonda distanza che separa la semantica referenzialista sia dal paradigma semantico dominante rappresentato ultimamente da Davidson217, che dalla proposta semantica di Dummett218. In definitiva, la pervasività e l’ineliminabilità del fenomeno linguistico che va sotto il nome di rigidità dimostrano l’insopprimibile valenza realista della semantica delle lingue naturali.

6. Ampliamento della semantica Se negli autori fin qui considerati (da Frege fino agli esponenti della cosiddetta teoria del riferimento diretto) la nozione di verità, per quanto diversamente interpretata, rimane comunque la pietra angolare di una teoria del significato, con la riflessione del secondo Wittgenstein prima, e con quella dei filosofi anglosassoni Austin e Grice dopo, tale nozione viene rimpiazzata o connessa con altre nozioni come quella di “uso”, di “forza illocutoria”, di “intenzione”. In questo modo viene ricuperata all’analisi semantica un’ampia e rilevante gamma di fenomeni ed usi linguistici che non potevano essere trattati nell’ambito della semantica fondata sulla nozione di 215 Cfr. B. RUSSELL, Sulla denotazione, in A. B0N0MI (ed.), La struttura logica del linguaggio, 179-195. 216 Per la confutazione della teoria tradizionale del significato si veda in particolare H. PUTNAM, Il significato di “significato”, in H. PUTNAM, Mente, linguaggio e realtà, 239-297. 217 Cfr. ibidem, 284-287. 218 Cfr. H. PUTNAM, Ragione, verità e storia, 57-64.

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verità comunque intesa. L’ampliamento dell’analisi semantica a tanti aspetti del funzionamento del linguaggio, relegati troppo facilmente ad una dimensione meramente emotiva, costituisce – al di là di ogni possibile critica219- un innegabile merito di questi autori.

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6.1 Il secondo Wittgenstein Se nel Tractatus, Wittgenstein fa dipendere il significato di un enunciato dalle sue condizioni di verità220, nelle Ricerche filosofiche egli insiste sul fatto che le parole non possono essere comprese al di fuori del contesto delle attività umane non-linguistiche in cui è immerso l’uso dei linguaggio: il gioco linguistico è costituito dalle parole più il loro contesto comportamentale221. In generale, il significato di una parola non è costituito da un oggetto per il quale la parola sta, ma piuttosto dal suo uso all’interno di un linguaggio222. Ora rileva Wittgenstein: “Vi sono innumerevoli usi diversi di quelli che chiamiamo “segni”, “parole”, “proposizioni”. E questa molteplicità 219 Secondo Dummett questo recupero avrebbe come necessaria contropartita l’impossibilità di fondare una teoria del significato che sia veramente sistematica. Dopo aver criticato in modo radicale quello che definisce “il particolarismo” della filosofia del linguaggio ordinario per il suo carattere dichiaratamente asistematico (cfr. M. DUMMETT, La verità e altri enigmi, 51-54), ad un certo punto osserva come “i giochi linguistici ideati da Wittgenstein per render conto di qualche minuscolo frammento del linguaggio non sembrano un modello promettente per render conto in maniera sistematica (del funzionamento semantico) di un intero linguaggio” (ibidem, 60). 220 Cfr. L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, prop. 4.431. 221 “Qui la parola “gioco linguistico” è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare fa parte di un’attività, o di una forma di vita” (L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, I, § 23). 222 Cfr. ibidem, 1, § 43.

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non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. (...) E interessante confrontare la molteplicità degli strumenti del linguaggio e dei loro modi di impiego, la molteplicità dei tipi di parole e di proposizioni, con quello che sulla struttura del linguaggio hanno detto i logici (E anche l’autore del Tractatus logico-philosophicus)”223.

In altri termini, se per la teoria semantica dominante, per quanto riguarda la nostra capacità di parlare un linguaggio come quello che abbiamo, è largamente irrilevante il fatto che siamo in grado di impegnarci in attività non linguistiche, per il secondo Wittgenstein, invece, è essenziale al nostro linguaggio che il suo impiego sia intrecciato alle nostre attività non linguistiche. Nei giochi linguistici che egli descrive224, ciò che conferisce significato alle emissioni linguistiche è la loro connessione immediata e diretta con altre azioni225. Dalle idee del secondo Wittgenstein sembra conseguire non tanto un’opposizione ad una teoria sistematica quanto piuttosto il riconoscimento che abbiamo bisogno, per render conto dell’estrema complessità del funzionamento semantico del linguaggio, di una visione sinottica in cui trovi posto l’integrazione del linguaggio con l’azione in un contesto.

6.2 John Austin Nelle “William James Lectures” tenute alla Harvard University nel 1955, il filosofo inglese John Austin osserva come il nostro linguaggio è costituito da enunciati (detti da 223 224

Ibidem, I, § 23. Cfr. ibidem, I, § 1-20, 23, 27, 64-108; II, § 563-568, 654-657.

225 “Inoltre chiamerò “gioco linguistico” anche tutto l’insieme costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto” (Ibidem, I, § 7).

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lui performativi226) che non descrivono né constatano alcunché (e perciò non sono né veri né falsi), ma la cui emissione comporta o si identifica con l’esecuzione di un’azione227. Perché ciò avvenga, tuttavia, occorre che si diano alcune condizioni dette da Austin “condizioni per la felicità- dei performativi”228. Diverse difficoltà inducono Austin ad abbandonare la distinzione tra enunciati performativi ed enunciati constativi229, per un punto dl vista più generale secondo cui ogni enunciazione ha un aspetto performativo, o, come egli disse illocutorio230. È questa la teoria degli atti linguistici. Un atto linguistico è un’azione di uso del linguaggio da parte di un parlante. Per Austin “L’atto linguistico totale nella situazione linguistica totale è il solo fenomeno reale che, in ultima analisi, siamo impegnati a spiegare”231. L’atto linguistico è, dunque, l’oggetto proprio di una teoria sistematica del significato. Compiendo un atto linguistico si compiono contemporaneamente tre atti distinti: un atto locutorio (che corrisponde al significato – senso e riferimento – dall’enunciato proferito), un atto illocutorio (che corrisponde alla forza 226 “Il nome deriva (...) da perform (eseguire), il verbo usuale con il sostantivo “azione”: esso indica che il proferimento dell’enunciato costituisce l’esecuzione di un’azione” (J.L. AUST1N, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova 1987, 10-11). 227 “Si possono trovare enunciati che [...] non “descrivono” o “riportano” o constatano assolutamente niente, non sono “veri o falsi”, [ma la cui enunciazione] costituisce l’esecuzione, o è parte dell’esecuzione, di un’azione” (Ibidem, 9). Come, ad esempio, l’enunciato “Sì, (prendo questa donna come mia legittima sposa)”, pronunciato nel corso di una cerimonia nuziale. 228 Ibidem, 17. 229 Cfr. ibidem, 68-69. 230 “Senza dubbio asserire è eseguire un atto illocutorio tanto quanto, ad esempio, avvertire o dichiarare” (Ibidem, 98). 231 Ibidem, 108.

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secondo cui vengono proferiti i diversi tipi di enunciati) e un atto perlocutorio (che corrisponde agli effetti psicologici e comportamentali che il proferimento di un, enunciato produce nell’interlocutore)232. Austin intendeva in questo modo: (1) trattare le asserzioni, oggetto quasi esclusivo del paradigma semantico dominate, come nient’altro che una classe di atti linguistici accanto ad altre (comandi, promesse, ringraziamenti, ecc.)233; (2) riformulare la teoria semantica dominante “nei termini della distinzione tra atti locutori e allocutori”234. A questo modo egli candidava la teoria degli atti linguistici al ruolo di teoria generale del linguaggio, di cui la semantica dominante, opportunamente rielaborata, avrebbe costituito un capitolo. Di fatto la sua teoria fu sempre più spesso concepita come un’integrazione della teoria semantica dominante più che una generalizzazione destinata ad assorbirla235. Occorre rilevare come la teoria degli atti linguistici di Austin risulta intimamente connessa ad un peculiare concetto di verità. Per Austin il principio di bivalenza (cioè il principio della logica per cui ogni proposizione deve essere vera o falsa) non ha quella validità assoluta che i logici e i filosofi del linguaggio gli hanno sempre attribuito: da una parte 232

Cfr. ibidem, 82. “Assentire, descrivere, ecc., sono soltanto due nomi tra i moltissimi altri nomi di atti illocutori; essi non occupano alcuna posizione eccezionale” (Ibidem, 108). 234 Ibidem, 107. Pur stimolato dall’analisi di Austin, Searle ha sviluppato la nozione di atto linguistico con una formulazione che si riavvicina al modello fregeano, distinguendo non fra atto locutorio e atto illocutorio, ma – con la formula f(p) – tra forza illocutoria e contenuto proposizionale. Cfr. J. SEARLE, Atti linguistici, Boringhieri, Torino 1976, cap. 11, § 4. 235 Cfr. R. M. KEMPSON, La semantica, 11 Mulino, Bologna 1981, 85-92; 97-119. 233

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(è il punto di partenza di How to Do Things with Words236) abbiamo asserzioni “mascherate” che non descrivono alcunché e di cui non si direbbe che sono false; dall’altra (ed è la conclusione della medesima opera237) qualsiasi asserzione non va definita esclusivamente per la relazione al vero e al falso, ma anche in relazione allo scopo e alle intenzioni del parlante, alla posizione in cui la si può fare, al tipo di impegno che farla comporta, ecc.; queste condizioni hanno a che fare non tanto con la verità, ma con la felicità, o buona riuscita, di un atto illocutorio. Inoltre, se si applica il principio per cui occorre sempre “considerare la situazione linguistica nella sua totalità”238, nella vita reale, in opposizione alle situazioni semplificate della teoria logica, non si può sempre rispondere in modo semplice alla questione se un’asserzione è vera o falsa. Potrebbe trattarsi, ad esempio, di un’asserzione approssimativa o esagerata. Circostanze, uditorio e scopi dell’enunciazione concorrono non solo a determinare la felicità dell’asserzione, ma anche la sua posizione in quella dimensione di giudizio che ha per poli estremi il vero e il falso239. 236

Cfr. J.L. AUSTIN, Come fare cose con le parole, 8-9. “Ma la vera conclusione deve certamente essere per noi che è necessario a) distinguere tra atti locutori e illocutori, e b) specialmente, e in modo critico, stabilire in relazione ad ogni genere di atto illocutorio – avvertimenti, valutazioni, verdetti, asserzioni, e descrizioni – in quale modo specifico (se ve n’è uno) si intende che essi siano, in primo luogo a proposito o fuori luogo, e secondariamente, giusti o sbagliati; quali termini di valutazione vengono usati per ogni atto e cosa significano. Questo è un campo di ricerca molto vasto e certamente non porterà ad una semplice distinzione tra vero e falso; e non porterà neppure ad una distinzione tra le asserzioni e gli altri atti, poiché asserire è soltanto uno dei numerosissimi atti linguistici che appartengono alla classe degli atti illocutori” (Ibidem, 107). 238 Ibidem, 101. 239 Ibidem, 101 e 104s. 237

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6.3 Paul Grice A partire dal saggio Meaning del 1957240, il filosofo statunitense Paul Grice propone una riduzione della nozione di significato a quella di intenzione. In questo modo egli pone a fondamento della semantica non più la nozione “logica” di verità, ma quella “psicologica” di intenzione, operando così una profonda revisione del paradigma semantico dominante. La teoria del significato basata sulla nozione di intenzione spiega molti fenomeni e usi linguistici, che non sono di fatto catturati da un’analisi semantica concepita in termini di condizioni dì verità. Possiamo dire che la proposta semantica di Grice rappresenta l’onesto riconoscimento dell’impossibilità di ridurre la totalità del significato linguistico alla nozione di condizioni di verità. “La necessità filosofica di un linguaggio ideale è fondata su assunti che non dovrebbero trovare credito...(...) Il linguaggio serve a molti altri scopi oltre a quelli della ricerca scientifica...(...) Inoltre, benché sia indubbiamente vero che i dispositivi formali si prestano in maniera particolare a essere trattati sistematicamente dai logici, è altrettanto vero che vi sono molte inferenze e argomentazioni, espresse nel linguaggio naturale senza ricorrere ai dispositivi formali, che sono ciononostante riconoscibili come valide. Quindi, vi deve essere spazio per una logica (non semplificata e dunque più o meno asistematica) dei corrispondenti naturali di questi dispositivi; tale logica potrà essere aiutata e guidata dalla logica semplificata dei dispositivi formali ma non sostituita da 240 P. GRICE, Meaning, in “Philosophical Review”, 66 (1957) 377-388, ristampato in P. GRICE, Studies in the Way of Words, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1989, parzialmente tradotta in italiano col titolo Logica e conversazione. Saggi su intenzione, significato e comunicazione, Il Mulino, Bologna 1993, 219-231.

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quest’ultima. In effetti, non solo le due logiche sono tra loro diverse, ma a volte collidono; le regole che valgono per un dispositivo formale possono non valere per il suo corrispondente naturale”241.

Il concetto di intenzione sta a fondamento di quattro cruciali distinzioni che nel loro intersecarsi concorrono alla definizione della teoria del significato di Grice: (1) la distinzione tra significato naturale e significato non naturale242; (2) quella tra ciò che vogliono dire (mean) le parole e le frasi e ciò che vogliono dire con esse i parlanti243; (3) quella tra quanto viene “detto” (said) e quanto viene soltanto “fatto intendere” (implied)244 e infine quella tra significato convenzionale e significato 241

Cfr. P. GRICE, Logica e conversazione, 55-57. Il “significato naturale” è quello in gioco quando diciamo “quelle nuvole nere significano [“vogliono dire”] pioggia”. Mentre “il significato non naturale” è quello in gioco quando diciamo che un singolo parlante in una particolare circostanza “vuol dire” qualcosa mediante un certo segnale o un certo gesto. Ad esempio, enunciando x [“Non posso fare a meno del mio tormento”] P [il signor Rossi] voleva dire, in quella data circostanza, che [non poteva vivere senza sua moglie]. Si tratta, in definitiva, di quello che Grice definisce il significato occasionale del parlante. Cfr. ibidem, 136. 243 Si tratta della distinzione tra il significato o contenuto convenzionale che le parole e le frasi rivestono entro un determinato sistema linguistico e il significato che il singolo parlante in una determinata circostanza tramite esse intende veicolare. Per usare l’enunciato (ad esempio, “il cane dorme”) nel significato convenzionale, il singolo parlante deve poter disporre di una procedura di composizione: “E una caratteristica delle frasi (caratteristica condivisa con i sintagmi) quella di avere un significato standard che dipende dal significato degli elementi (parole, voci lessicali) che vi compaiono. Ho quindi bisogno di una “procedura di composizione” (Ibidem, 179). Mentre il significato “fatto intendere” (ad esempio, “possiamo agire liberamente”) proferendo il suddetto enunciato corrisponde al significato occasionale del parlante. 244 Spesso proferendo degli enunciati vogliamo dire di più di quanto essi esprimono letteralmente oppure vogliamo dire cose diverse da quelle letteralmente espresse. Si tratta di enunciati in cui tra ciò che viene letteralmente detto e quello che viene 242

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non convenzionale245. L’insieme articolato di queste distinzioni costituisce un fecondo strumento concettuale che consente a Grice di esplorare e rendere conto di zone ed usi del linguaggio naturale preclusi al paradigma semantico dominante centrato sul concetto di verità. In particolare con la nozione di implicatura246 Grice fornisce una spiegazione esplicita di come sia possibile intendere (in senso generale) più di quanto si dice effettivamente (vale a dire, più di quanto è espresso letteralmente tramite il senso convenzionale delle espressioni linguistiche enunciate). Grice fa derivare queste eccedenze comunicative da una caratterizzazione sistematica dell’interazione tra il significato fatto intendere c’è un certo tipo di implicazione. Così, ad esempio, enunciando x [“è suonato il campanello”], P [l’allievo Rossi] fa intendere a A [il professore Bianchi], z [“che è ormai ora di finire la lezione”]. In questo esempio tra ciò che viene letteralmente detto [x] e ciò che viene fatto intendere [z] vi è un rapporto di implicazione di tipo conversazionale (cfr. ibidem, 77). 245 Il significato convenzionale di una parola o di una frase proferita da un enunciatore dipende da quella che Grice chiama procedura di composizione (cfr. ibidem, 179), mentre il significato non convenzionale dipende dalla possibilità che ha il parlante di sfruttare le caratteristiche in qualche modo salienti delle circostanze in cui parla per con- ferire ad un enunciato un significato inedito. Come, ad esempio, dire di uno che ha appena spaccato tutti i mobili che “Era un po’ alticcio”. In questo modo il locutore conferisce al significato convenzionale dell’enunciato in questione un significato non convenzionale che ci riporta al cosiddetto significato occasionale del parlante. 246 L’implicatura suppone che tra il contenuto linguistico dell’enunciato usato (= il significato dell’enunciato) e il messaggio che di fatto il parlante proferendolo trasmette (il significato occasionale del parlante) non v’è relazione necessaria, ma una semplice inferenza pragmatica ricavata a partire dalle circostanze in cui di fatto si svolge la conversazione (la comunicazione). Cosi ciò che l’enunciato “adesso il mare è calmo” suggerisce può essere correttamente inferito soltanto se si conosce il contesto (nel senso ampio) del suo proferimento. La nozione griceiana di “implicatura conversazionale” si trova ampiamente illustrata in S. LEVINSON, La pragmatica, Il Mulino, Bologna 1993, 109-174.

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convenzionale di un’espressione linguistica e il contesto della conversazione Si tratta, in altri termini, di collegare in modo sistematico quanto viene detto con quanto viene fatto intendere, e dunque di spiegare come sia possibile fare ciò che parlando facciamo di continuo, ossia comunicare più di quanto le nostre parole letteralmente significano. La teoria della conversazione di Grice si fonda sul presupposto che la conversazione umana è un’impresa razionale cooperativa, regolata da alcuni principi che è possibile esplicitare: “Così vorrei poter dimostrare come osservare il Principio di Cooperazione e le massime significhi comportarsi razionalmente, con un ragionamento più o meno di questo tipo: chiunque abbia a cuore gli scopi centrali della conversazione e della comunicazione (quali dare e ricevere informazioni, influenzare gli altri e venirne a nostra volta influenzati) dovrà necessariamente essere interessato, nelle debite circostanze, a partecipare a scambi verbali che sono proficui solo nell’ipotesi che vengano condotti in conformità del Principio di Cooperazione e delle massime”247.

Conclusione In conclusione possiamo dire che notevole è stato lo sforzo teorico a partire da Gottlob Frege per ridurre il campo semantico umano entro un coerente quadro sistematico esplicativo. Indubbiamente questo sforzo ha prodotto validi strumenti di analisi del funzionamento semantico del linguaggio umano. Tuttavia questo sforzo ha finito per imbattersi con fattori produttori di senso (come l’uso delle parole, la forza con cui sono emesse, le intenzioni che le attraversano) che di fatto 247

H.P. GRICE, Logica e conversazione, 64.

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sfuggono ad ogni possibile canonizzazione. Si tratta di fattori imponderabili e imprevedibili che, tuttavia, svolgono un ruolo determinante nel creare gli effetti di senso del linguaggio. La considerazione di questi fattori ad opera di analisti come il secondo Wittgenstein, Austin, Grice e altri, sancisce di fatto l’impossibilità di un progetto sistematico che contempli tutti gli svariati effetti di senso prodotti dal linguaggio umano. Con ciò resta dimostrata la tesi secondo cui non è possibile ridurre tutto il funzionamento semantico del linguaggio a un sistema euristico coerente.

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Capitolo quarto

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L’impossibilità di stabilire un criterio di sensatezza

In questo quarto e ultimo capitolo mi propongo di dimostrare come sia impossibile stabilire un criterio di sensatezza che abbia valore necessario e universale. Il linguaggio è uno strumento così sottile e complicato che spesso perdiamo di vista la molteplicità dei suoi usi. Ludwig Wittgenstein, nelle sue Ricerche filosofiche, ha a ragione insistito sul fatto che vi sono “innumerevoli usi diversi di quelli che chiamiamo “simboli”, “parole”, “frasi”. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati”248. Tra gli esempi proposti da Wittgenstein ricordiamo: il dare ordini, il descrivere l’aspetto di un oggetto o darne le misure, il descrivere un avvenimento, lo speculare su un evento, il formulare e provare un’ipotesi, il presentare i risultati di un esperimento in tavole e diagrammi, il costruire un racconto, il recitare, cantare ritornelli, risolvere indovinelli, fare uno scherzo e raccontarlo, risolvere un problema di aritmetica pratica, tradurre da una lingua in un’altra, chiedere, interrogare, ringraziare, ingiuriare, salutare, pregare. Ora questi ed altri usi del linguaggio risultano di fatto sensati. Si tratta allora di riconoscere la sensatezza degli innumerevoli e svariati usi linguistici contro ogni tendenza riduttiva che 248

L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, 1, § 23.

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ritiene sensati soltanto i linguaggi formalizzati delle scienze esatte e/o sperimentali.

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1. Il divieto del Tractatus Nel Tractatus logico-philosophicus, Ludwig Wittgenstein formula una semantica che si fonda su di una concezione raffigurativa delle proposizioni249. A differenza di Frege, Wittgenstein concepisce nel Tractatus la forma logica di una proposizione come una particolare forma di raffigurazione della struttura dei fatti del mondo250. Che significa che una proposizione consiste in una particolare forma di raffigurare la realtà? Prendiamo in considerazione una fotografia. Questa raffigura la realtà riproducendola in un certo modo. Consideriamo ora un disegno che riproduce l’oggetto che abbiamo fotografato, ad esempio una nave. La rassomiglianza tra la nave e il disegno sta nel fatto che questo riproduce le sue relazioni geometriche. La forma di raffigurazione tra la fotografia e il disegno è tuttavia cambiata: il disegno non è più in grado di rappresentare le relazioni cromatiche della nave (come nella fotografia), anche se è ancora in grado di rappresentare le sue relazioni geometriche. Il massimo livello di astrazione è raggiunto da una forma di raffigurazione che rappresenta relazioni in generale (non relazioni spaziali con relazioni spaziali, ecc.): questa è la forma logica, e 249 Sulla teoria della raffigurazione (picture-theory), si veda in particolare D. PEARS, La teoria dell’immagine di Wittgenstein e le teorie dei giudizio di Russell, in AA.VV., Capire Wittgenstein, 68-86; si veda, inoltre, A. KENNY, Wittgenstein, 73-91. 250 Nel Tractatus logico-philosophicus, Wittgenstein usa la parola “fatto” come sinonimo di “stato di cose sussistente”; o, per restare perfettamente aderenti al suo modo di esprimersi, “il fatto è il sussistere delle cose” (L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, prop. 2).

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un’immagine che abbia come forma di raffigurazione la forma logica è detta immagine logica251. Come per Frege, anche per Wittgenstein solo le proposizioni hanno senso (i nomi, invece, non hanno senso: il loro valore semantico è semplicemente la loro denotazione). Il senso di una proposizione è ciò che si conosce quando si comprende la proposizione, dunque, essendo la proposizione un’immagine, lo stato di cose raffigurato, ovvero il modo in cui le cose stanno se la proposizione è vera. La proposizione mostra come stanno le cose (mostra il suo senso) e dice che le cose stanno così252. Può naturalmente essere vera (se le cose stanno effettivamente così) o falsa (se non stanno così); per sapere se la proposizione è vera occorre confrontarla con la realtà. Ma per comprenderla non è necessario sapere che è vera o che è falsa; comprenderla è “saper che accada se essa è vera”253. In questo modo Wittgenstein istituisce il rapporto tra senso e verità della proposizione. Le proposizioni semplici – dette da Wittgenstein elementari – sono connessioni di nomi che costituiscono l’immagine di uno stato di cose: “Un nome sta per una cosa, un altro per un’altra cosa e sono connessi tra loro: così il tutto presenta – come un quadro plastico – lo stato di cose”254. Ma nel linguaggio vi sono anche proposizioni complesse: per esempio (e tipicamente) negazioni, congiunzioni, disgiunzioni, implicazioni, ecc. Queste proposizioni contengono espressioni – le cosiddette “costanti logiche” – come “non”, “e”, “o”, “se”, ecc., che per Wittgenstein non hanno valore disegnativo: non c’è nulla al mondo che corrisponda al segno di negazione o 251

Cfr. ibidem, prop. 2.181. Cfr. ibidem, prop. 4.022. 253 Ibidem, prop. 4.024. 254 Ibidem, prop. 4.0311.. 252

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di congiunzione255. Le costanti logiche hanno la sola funzione di determinare in che modo il senso di una proposizione complessa in cui compaiono dipenda dal senso delle proposizioni più semplici di cui essa è costituita. Il senso di ogni proposizione complessa, infatti, dipende in senso stretto dal (è funzione del) senso delle proposizioni elementari di cui essa è costituita256. Perché una proposizione complessa sia sensata, bisogna che si veda dalla proposizione stessa quali stati di cose sussistono (o non sussistono), una volta che la proposizione complessa è strutturata logicamente in modo tale da risultare vera. Le proposizioni puramente “logiche” (analitiche)257, a differenza di quelle “fattuali” (sintetiche), non hanno alcun contenuto raffigurativo, “non sono immagini della realtà”258, non “trattano” di nulla259, non dicono nulla260. Proposizioni di questo tipo sono prive di senso, come lo stesso Wittgenstein riconosce chiaramente: “Le mie proposizioni illustrano così: colui che le comprende, infine, le riconosce insensate, se è salito per esse – su esse – oltre esse. (...) Egli deve superare queste proposizioni; allora vede rettamente il mondo”261.

Corollario di questa definizione del senso è che solo gli enunciati “fattuali” sono sensati: restano fuori dal linguaggio 255

Cfr. ibidem, prop. 4.0312. Cfr. ibidem, prop. 5.2341. 257 Le proposizioni logiche sono vere o false comunque stiano le cose, la loro verità è indipendente dai fatti del mondo, e perciò la loro verità (o falsità) può essere determinata senza confrontarle col mondo. Cfr. ibidem, prop. 6.113. 258 Ibidem, prop, 4.462. 259 Cfr. ibidem, prop. 6.124. 260 Cfr. ibidem, prop. 6. 11. 261 Ibidem, prop. 6.54. 256

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sensato gli enunciati valutativi (per esempio quelli dell’etica e dell’estetica) e quelli che, invece di raffigurare fatti, tentano di rappresentare i tratti generali del linguaggio e del mondo: dunque le proposizioni della metafisica, e quelle stesse di cui si compone il Tractatus262. In conclusione le proposizioni sensate sono soltanto quelle che raffigurano la realtà empiricamente osservabile, tutte le altre sono prive di senso: “Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale dunque, qualcosa che con la filosofia (e la logica) nulla ha da fare; e poi, ogni volta che altri voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno”263.

Con ciò il Wittgenstein non liquida i problemi “metafisici” come se fossero privi di valore e rilevanza esistenziale, ma si limita ad asserire che a loro riguardo “si deve tacere”264. Osserva in merito Francesco Barone: “L’aspirazione del giovane filosofo viennese era di giungere, attraverso un’analisi critica del linguaggio e di ciò che è dicibile, a ciò eh’ è mistico, indicibile sì, ma più profondo ed autentico. Il problema del dicibile, del fatto rappresentabile nel linguaggio è quindi centrale in Wittgenstein non per la convinzione (che sarà poi tipicamente neopositivista) che solo il dicibile è importante, bensì per la convinzione contraria (...) che l’importante è l’indicibile, il valore, che può essere mostrato ma non detto”265. 262

Cfr. ibidem, prop. 6.54. Ibidem, prop. 6.53. 264 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, prop. 7. 265 F. BARONE, Il neopositivismo logico, vol. I, XXX. 263

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2. Il criterio verificazionista di sensatezza

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Nella Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache266, Rudolf Carnap, non soltanto nega la possibilità di una sensata espressione linguistica dei problemi “metafisici”, ma altresì la loro stessa consistenza e rilevanza esistenziale. Per Carnap la metafisica è un’espressione ingannevole del sentimento della vita: “Le pseudo proposizioni della metafisica non servono alla rappresentazione di dati di fatto né esistenti (allora si tratterebbe di proposizioni vere), né inesistenti (allora si tratterebbe, per lo meno, di proposizioni false), ma servono solo alla espressione del sentimento della vita. (...) Ma in metafisica si dà il caso che la forma di espressione è ingannevole, in quanto crea l’illusione di un contenuto che essa non ha”267.

Carnap muove dalla classificazione di tutte le proposizione autentiche (sensate) in analitiche ed empiriche268. Le proposizioni analitiche sono quelle che sono “vere in virtù della sola forma logica”, sono vuote tautologie che “non asseriscono nulla intorno alla realtà”, ma sono necessariamente valide in quanto la loro negazione dà luogo a contraddizioni. Sono le proposizioni proprie delle “scienze formali”, la logica e la matematica, e, benché non siano in se stesse degli enunciati sulla realtà, servono alla trasformazione di tali enunciati. Le proposizioni empiriche sono quelle sintetiche, quelle cioè la cui verità o falsità non dipende dalla sola forma logica (non sono perciò logicamente necessarie), ma si stabilisce mediante la verifica empirica. Esse sono le uniche proposizioni 266 R. CARNAP, Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, in AA.V.V., Il neoempirismo, UTET, Torino 1969, 504-532. 267 Ibidem, 528-530. 268 Cfr. ibidem, 525-526.

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in grado di asserire qualcosa intorno alla realtà e costituiscono pertanto la base delle “scienze reali”. Pertanto una proposizione che non rientra in questa classificazione risulta automaticamente priva di senso. E poiché, osserva Carnap: “La metafisica non vuole né esprimere proposizioni analitiche, né rientrare nel campo della scienza empirica, essa si trova costretta a far uso di parole prive di criteri di controllo, e pertanto vuote di significato, oppure a combinare parole dotate di significato, ma organizzandole in modo che non ne risulti né una proposizione analitica (tautologica o contraddittoria), né una proposizione empirica. In entrambi i casi, ne conseguono necessariamente delle pseudo proposizioni”269.

La prima cosa che colpisce in questa condanna senza appello della metafisica è il carattere assoluto della classificazione delle proposizioni su cui è fondata. La dicotomia tra proposizioni analitiche e proposizioni empiriche, rende inevitabile il dilemma: la stessa classificazione empiristica delle proposizioni è una proposizione empirica o una proposizione analitica? Nel primo caso essa mancherebbe di quella necessità che sola permetterebbe la definitiva Überwindung della metafisica; nel secondo caso essa non sarebbe in grado di definire le condizioni reali del funzionamento semantico del linguaggio270. Carnap stesso si accorse di questa contraddizione e già in Testability and Meaning (1936-37) presenta il suo rifiuto della metafisica non più come una condanna perentoria, ma come una opzione ed una proposta: 269

Ibidem, 526 “La scienza formale è del tutto priva di oggetti; non è che un sistema di proposizioni ausiliarie, senza riferimento oggettivo e vuote di contenuto reale” (R. CARNAP, Formalwissenschaft und Realwissenschaft, in AA.VV., Il neoempirismo, 540). 270

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“Non dico che le nostre opinioni precedenti erano errate. Il nostro errore è consistito semplicemente nel non riconoscere il problema come un problema di decisione circa la forma del linguaggio; perciò, abbiamo espresso la nostra tesi sotto forma di asserzione – com’è usuale tra i filosofi – anziché sotto forma di proposta”271.

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La classificazione dicotomica di tutte le proposizioni, avanzata dall’empirismo moderno272, risulta ormai un dogma insostenibile anche per un filosofo empirista come Willard Van Orman Quine: “L’empirismo moderno è stato condizionato in misura rilevante da due dogmi. Uno è la credenza in una fondamentale divisione tra verità analitiche, o fondate su significati indipendenti da questioni di fatto, e verità sintetiche, o fondate su fatti”273.

Secondo Quine è impossibile segnare una netta demarcazione tra proposizioni analitiche e proposizioni sintetiche, per la semplice ragione che è impossibile assumere una singola proposizione quale unità significativa a sé stante: “La totalità delle nostre cosiddette conoscenze o credenze, dall’evento più casuale della geografia e della storia alle più profonde leggi della fisica atomica o anche della matematica pura e della logica, è un edificio prodotto dall’uomo, R. CARNAP, Controllabilità e significato, in AA.V., Il neoempirismo, 585. “La tesi fondamentale dell’empirismo moderno sta precisamente nel rifiuto della possibilità della conoscenza sintetica a priori. La concezione scientifica del mondo non riconosce altro che gli asserti empirici sulle cose, di qualunque tipo esse siano, e gli asserti analitici della logica e della matematica” (R. CARNAP-H. HAHN-O. NEURATH, La concezione scientifica del mondo. Il Circolo di Vienna, Laterza, Roma-Bari 1979, 35). 273 W. V.O. QUINE, Due dogmi dell’empirismo, in AA.VV. Il neoempirismo, 861. 271 272

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che si fonda sull’esperienza solo ai margini. O, per cambiare l’immagine, l’insieme della scienza è come un campo di forza le cui condizioni limitatrici sono l’esperienza. Un conflitto con l’esperienza alla periferia dà luogo a un riassestamento all’ interno del campo. Dei valori di verità vanno distribuiti in altro modo su alcune delle nostre proposizioni. La rivalutazione di alcune proposizioni causa la rivalutazione di altre, per via delle loro interconnessioni logiche: le leggi logiche non essendo altro che certe ulteriori proposizioni del sistema, certi ulteriori elementi del campo. Ma il campo totale risulta indeterminato quanto alle sue condizioni limitatrici, ossia all’esperienza, così che vi è molta larghezza di scelta per le proposizioni da rivalutare a causa di una singola esperienza contraria. (...) Se questa concezione è giusta (...) diventa assurdo cercare una linea di demarcazione tra le proposizioni sintetiche, che valgono a seconda delle contingenze empiriche, e le proposizioni analitiche, che valgono indifferentemente qualunque cosa avvenga”274.

3. L’impossibilità di stabilire un criterio di insensatezza Il principio verificazionista, su cui Carnap aveva fondato il criterio di sensatezza delle proposizioni empiriche (sintetiche), viene radicalmente messo in discussione da Karl Popper sulla base di una diversa concezione dello statuto epistemologico delle scienze sperimentali. Secondo Popper la logica della scoperta scientifica non si fonda sull’induzione, come ritiene l’empirismo, ma sulla congettura teorica elaborata per via razionale: “La teoria che sarà sviluppata nelle pagine seguenti si oppone radicalmente a tutti i tentativi di operare con le idee della logica induttiva. Potrebbe essere descritta come la teoria 274

Ibidem, 886-887. Il corsivo è mio.

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del metodo deduttivo dei controlli, o come il punto di vista secondo cui un’ipotesi può essere soltanto controllata empiricamente, e soltanto dopo che è stata proposta”275.

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Sulla base di questo presupposto epistemologico Popper mostra come è impossibile stabilire un criterio di significanza in grado di relegare nell’insensatezza i discorsi non scientifici, in particolare quello metafisico: “I ripetuti tentativi compiuti da Rudolf Carnap per mostrare che la demarcazione fra scienza e metafisica corrisponde alla distinzione fra senso e nonsenso, sono falliti. La ragione è che il concetto positivistico di “significato”, o “senso” (oppure di verificabilità, o confermabilità induttiva, ecc.) non si presta al conseguimento di tale demarcazione per il semplice fatto che la metafisica, pur non essendo scienza, non deve perciò essere priva di significato. In tutte le sue varianti, la demarcazione basata sulla mancanza di significato ha mostrato la tendenza ad essere insieme troppo ristretta e troppo ampia: quasi contro ogni intenzione o istanza, essa ha mostrato la tendenza a respingere le teorie scientifiche in quanto prive di significato, non riuscendo d’altro canto ad escludere quella parte della metafisica nota come “teologia razionale”276.

Il criterio di falsificabilità – introdotto da Popper per tracciare una linea di demarcazione tra metafisica (intesa come Weltanschauung) e scienza – non può per sua natura essere assunto come criterio di sensatezza. Popper così prende atto dell’impossibilità di stabilire un criterio di sensatezza che possa validamente discernere le proposizioni sensate da quelle prive di senso (Sinnlosigkeit). 275 276

K.R. POPPER, La logica della scoperta scientifica, 9. K.R. POPPER, Congetture e confutazioni, vol. II, 431.

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4. La sensatezza di tutti i giochi linguistici In un articolo del 1929 intitolato Alcune osservazioni sulla forma logica277, Wittgenstein mostra come non tutte le proposizioni del nostro linguaggio sono tra di loro connesse secondo la forma logica delle proposizioni complesse, ma bensì secondo le regole della sintassi. Questo comporta che il progetto perseguito dal Tractatus di costruire un linguaggio secondo la struttura della logica formale che rimpiazzi tout court i linguaggi naturali è semplicemente irrealizzabile. Nel dattiloscritto Big Typescript278 (1932-33) Wittgenstein mostra come il linguaggio non consiste in una presentazione dei dati sensoriali nella loro purezza, ma consiste sempre e necessariamente in una loro interpretazione mediante un sistema di segni. La conclusione che Wittgenstein ne trae è che il progetto di un linguaggio “fenomenologico” è irrealizzabile. La critica delle Ricerche filosofiche (1953) sarà più corrosiva e colpirà non più o non solo il progetto di linguaggio fenomenistico dei neopositivisti, ma l’idea di un linguaggio delle sensazioni immediate inteso come linguaggio privato proprio del soggetto delle sensazioni. A partire degli anni Venti, Wittgenstein inizia a sottoporre ad analisi critica il presupposto per cui la base del linguaggio è l’ostensione e il linguaggio stesso consiste nel dare un nome alle cose. L’idea generale della sua critica, sviluppata con ampiezza nei primi paragrafi delle Ricerche filosofiche e nella Grammatica filosofica è che le espressioni del linguaggio 277

Contenuto nella edizione italiana del Tractatus logico-philosophicus del

1989. 278

Ora in L. WITIGENSTEIN, Grammatica filosofica, La Nuova Italia, Firenze

1991.

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hanno funzioni diverse e non solo quella di dare un nome alle cose, basti pensare alle esclamazioni. Negli appunti chiamati Libro blu e marrone279 (1933-35) Wittgenstein svilupperà una critica distruttiva della concezione del linguaggio come calcolo. Il significato di un’espressione linguistica non è dato solo dall’insieme delle sue relazioni intra linguistiche, dalle regole che ne determinano il posto nel sistema dei segni; occorre anche considerare l’applicazione dell’espressione linguistica al contesto extralinguistico (ad esempio le conseguenze che il pronunciarla può avere sull’ascoltatore); dopo tutto il linguaggio (e anche il calcolo) non è mero sistema di segni, ma “è caratterizzato da azioni linguistiche”: il significato di un’espressione può dunque essere meglio caratterizzato considerando l’uso che di essa si fa nel contesto di un’azione. All’idea del linguaggio come calcolo o gioco si sostituisce l’idea del linguaggio come un insieme variopinto di giochi in cui azione ed espressione linguistica sono strettamente intrecciati: Wittgenstein li chiamerà “giochi linguistici”. Si potrebbe definire un “gioco linguistico” come un’attività in cui il linguaggio ha una parte importante e che ha luogo entro una situazione in cui azioni e parole si intrecciano: “Qui la parola “gioco linguistico” è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita”280. Il linguaggio è un insieme di questi giochi, alcuni più primitivi – come quelli mitologici – e altri più sofisticati – come quelli scientifici. Wittgenstein non cerca più di individuare l’essenza del linguaggio, di scoprire una forma che sia comune a tutti quelli che chiamiamo linguaggi (come aveva fatto con la forma generale della proposizione 279 280

L. WITTGENSTEIN, Libro blu e marrone. L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, I, § 23.

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nel Tractatus); in questa prospettiva non vi è un qualcosa di comune a tutti i giochi linguistici che ne permetta una caratterizzazione unitaria. Essi formano una famiglia e le loro relazioni sono di somiglianza di famiglia. Il compito del filosofo è quello di descriverli sia in generale – cioè come funzionano tutti i giochi linguistici che compongono il linguaggio – che in particolare – come funzioni ciascun gioco linguistico dato. Il concetto di gioco linguistico svolge dunque un doppio ruolo: (1) strumento di analisi e (2) oggetto di analisi. 1. Nelle Ricerche filosofiche viene data una descrizione del funzionamento dei giochi linguistici in generale281. La tesi generale, che è suggerita dall’esempio descritto nel paragrafo 2 delle Ricerche filosofiche e dagli altri esempi analoghi, è che “le parole non possono essere comprese al di fuori del contesto delle attività umane non-linguistiche in cui è immerso l’uso del linguaggio: il gioco linguistico è costituito dalle parole più il loro contesto comportamentale”282. 2. Negli ultimi scritti di Wittgenstein il gioco linguistico assume sempre di più il ruolo di “dato” ultimo di ogni analisi: diventa, per usare un termine di Goethe, il “fenomeno originario”283. In questo senso costituisce il punto d’arresto di qualunque spiegazione, dove non ha senso procedere oltre nelle giustificazioni e non resta che dire: si gioca questo gioco. I giochi linguistici usati come strumento di analisi aiutano il filosofo a chiarire una serie di problemi generali, primo tra tutti il problema del significato. Intesi come fenomeno 281

Cfr. ibidem, I, § 2. A. KENNY, Wittgenstein, 28. 283 L. WITTGENSTETN, Ricerche filosofiche, I, § 654. 282.

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originario, ci fanno cogliere un altro compito del filosofo: il linguaggio è costituito da un intreccio indefinito e sempre mutevole di giochi e solo all’interno di un gioco un’espressione può avere significato; è compito del filosofo allora mostrare quando una parola sia usata fuori dal gioco in cui si trova, per così dire, a casa sua284. In un certo senso, riaffiora qui il problema della distinzione tra senso e nonsenso: l’insensatezza non è prodotta tanto dalle scorrettezze sintattiche o dalla mancanza di criteri rigorosi di verifica, ma dall’uso di una parola al di fuori del gioco linguistico che le è appropriato. Non che sia vietato usare una parola in un nuovo gioco linguistico, ma spesso questo si fa senza rendersene conto e credendo che la parola funzioni ancora come funzionava prima. Al termine di un lungo percorso intellettuale Wittgenstein si trova ad approfondire il concetto di “uso” di un’espressione linguistica eliminando due pesanti restrizioni presenti nel Tractatus e cioè: 1. Parlando di “uso” nel Tractatus, Wittgenstein pensava all’uso di un enunciato per dire qualcosa di vero o di falso, restringeva cioè l’attenzione agli enunciati assertori delle scienze naturali. 2. Parlando del significato di un nome nel Tractatus, Wittgenstein pensava al rapporto del nome con l’oggetto che esso designa. La prima restrizione cadrà con il riconoscimento dell’importanza dei diversi usi del linguaggio: non solo descrivere, ma anche comandare, chiedere, ringraziare, imprecare, promettere, ecc. La seconda col riconoscimento che il significato 284

Cfr. ibidem, I, § 116.

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di un nome solo in alcuni casi si dà indicando l’oggetto designato: indicare un oggetto è solo uno degli usi possibili di un nome. La prospettiva viene dunque generalizzata fino a una vera e propria definizione: “Per una grande classe di casi – anche se non per tutti i casi – in cui ce ne serviamo, la parola “significato” si può definire così: il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio”285. In generale si può dire che Wittgenstein liberalizza il principio neopositivista secondo cui “il significato di un enunciato è il suo metodo di verifica”286: il significato di un enunciato viene definito non dal modo in cui è verificabile, ma più in generale dal modo in cui è usato in un contesto appropriato. Insensati, o “ruote che girano a vuoto”, saranno quegli enunciati che vengono usati in contesti non appropriati o, come si esprimerà Wittgenstein, fuori dal gioco linguistico in cui sono al loro posto. Con l’idea della filosofia come terapia linguistica Wittgenstein riprende un’idea di Frege sul compito della filosofia: “spezzare il dominio della parola sullo spirito umano, svelando gli inganni che, nell’ambito delle relazioni concettuali, traggono origine, spesso quasi inevitabilmente, dall’uso della lingua”287. Wittgenstein, però, diversamente da Frege, non ritiene che l’unico modo di evitare gli inganni del linguaggio sia quello di costruire un linguaggio artificiale che elimini gli equivoci e le carenze del linguaggio comune. La sua ricerca non è quindi volta alla regolamentazione canonica degli usi linguistici (come, sulla scia di Frege, si proporranno diversi filosofi analitici). Per Wittgenstein “la filosofia non può in 285

Ibidem, I, § 43. Si veda in particolare il saggio di M. SCHLICK, Significato e verificazione, in AA.VV., Il neoempirismo, 323-358. 287 G. FREGE, Logica e Aritmetica, Boringhieri, Torino 1965,106. 286

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nessun modo intaccare l’uso effettivo del linguaggio; può, in definitiva, soltanto descriverlo. Non può nemmeno fondarlo. Lascia tutto com’è”288. La filosofia si riduce così ad una grammatica filosofica:

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“Perciò la nostra è una ricerca grammaticale. E questa ricerca getta luce sul nostro problema, in quanto sgombra il terreno dai fraintendimenti. Fraintendimenti che riguardano l’uso delle parole: prodotti, fra l’altro, da certe analogie tra le forme di espressione, in differenti regioni del nostro linguaggio”289.

Lo scopo della filosofia – intesa da Wittgenstein come analisi linguistica – è pertanto prevalentemente terapeutico-critico non solo contro le indebite generalizzazioni e l’unilateralità della filosofia, ma ancora di più contro gli errori spontanei nei quali ci induce la grammatica di superficie del nostro linguaggio. Tale analisi ha anche uno scopo positivo chiarificatore: viene messo in luce il reale funzionamento dei vari giochi linguistici, le relazioni fra di essi e la varietà illimitata del linguaggio. L’ideografia di Frege (e Russell) ci presenta un modello di linguaggio puramente descrittivo di cui il Tractatus è una generalizzazione. Ma il linguaggio non ha solamente funzioni descrittive, non consiste solo di asserzioni vere o false. Occorre ridare importanza alla molteplicità degli aspetti del linguaggio trascurati dai filosofi. Austin lo fa – come vedremo – proponendo una classificazione dei diversi tipi di atti linguistici, mentre Wittgenstein sottolinea l’illimitata e irriducibile varietà dei giochi linguistici.

288 289

L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, I, § 124. Ibidem, I, § 90. Cfr. anche ibidem, I, § 91 e 92.

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5. L’irriducibilità semantica degli atti linguistici Per lungo tempo si è accordato un trattamento privilegiato a quelle che il filosofo inglese Bertrand Russell, nelle sue conferenze del 1918290, chiamava “sentences”: una “sentence” è una frase all’indicativo, una frase che afferma qualche cosa, ignorando che vi sono delle frasi di altro tipo, per esempio quelle interrogative o imperative. È stato merito del Wittgenstein aver asserito nelle Ricerche filosofiche che si dà una grande varietà di proposizioni291. Al suo seguito, John Austin, esplorando le forme del discorso in cui il linguaggio è utilizzato (per promettere, ringraziare, preferire, ecc.), elabora la cosiddetta teoria degli atti linguistici (Speech Acts). Austin riprende per conto proprio la distinzione fregeana tra Sinn di un enunciato – cioè il contenuto concettuale da esso espresso – e Kraft – cioè la particolare forza (intento) con cui viene emesso dal locutore. Austin rileva come il linguaggio ordinario è costituito da una varietà di tipi di atti linguistici – come domanda, comando, esclamazione, promessa, ringraziamento, preghiera, ecc. – per nulla traducibili nella forma assertoria dei linguaggi scientifici. Ciò significa che un territorio piuttosto ampio dei linguaggio ordinario per sua stessa natura non può mai essere convertito nella forma canonica dei linguaggi scientifici (con buona pace di Russell, Carnap, Quine, ecc.). La teoria degli atti linguistici studia in particolare ciò che il locutore compie proferendo un particolare enunciato. Essa si occupa pertanto degli atti illocutivi piuttosto che degli atti locutivi e perlocutivi. Parlare di atto locutivo è parlare di si290 Ora in B. RUSSELL, Logic and Knowledge, Allen & Unwin, London 1956, 175-281. 291 Cfr. L. WITTGENSTEIN, Ricerche filosofiche, I, § 23.

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gnificato, cioè di senso e riferimento degli enunciati; parlare di atto illocutivo è parlare di forza con cui vengono proferiti gli enunciati. A ciò si affianca – per meglio delimitare la nozione, centrale, di forza illocutiva – la distinzione tra la forza con cui vengono emessi gli enunciati dal locutore e le conseguenze o effetti psicologici e comportamentali che essi producono nell’interlocutore. In questi effetti o conseguenze consiste l’atto perlocutivo292. A fondamento della teoria degli atti linguistici si trovano dunque due constatazioni: 1. Il linguaggio ordinario è costituito da una varietà di tipi di atti linguistici semanticamente irriducibili: così un enunciato di tipo assertorio non può essere convertito in un enunciato di tipo imperativo o ottativo o esclamativo senza stravolgerne totalmente il significato293. 2. Ogni enunciato emesso possiede non soltanto una valenza cognitiva (un senso e un riferimento), ma anche e indissolubilmente una valenza operativa (l’emissione di un enunciato produce un qualche effetto)294. Da ciò consegue: a). In primo luogo che l’analisi linguistica non può limitarsi agli enunciati di tipo assertorio (quelli che in particolare costituiscono il sapere scientifico), ma deve saper render conto del funzionamento semantico di tutti gli altri tipi di enunciati che si attestano nel linguaggio ordinario. 292

Cfr. J. AUSTIN, Come fare cose con le parole, 71-89. Austin distingue cinque tipi fondamentali di illocuzioni (verdittivi, esercitivi, commissivi, comportativi, espositivi), offrendo delle caratterizzazioni intuitive e in ciascun caso una serie di esempi. Cfr. ibidem, 110-120. 294 Cfr. ibidem, 106-107. 293

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b) In secondo luogo che l’analisi linguistica per essere completa non può limitarsi alla valenza cognitiva di un enunciato (cioè al suo significato), ma deve tener conto della sua peculiare forza illocutiva.

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Conclusione In conclusione la diversità degli usi linguistici ci porta a riconoscere la sensatezza non solo dei linguaggi formalizzati delle scienze (esatte e sperimentali), ma anche di quelli speculativi, poetici, ordinari o naturali. In realtà, il linguaggio funziona semanticamente bene sia che descriva la realtà (come nei discorsi di tipo assertorio), sia che inventi mondi immaginari (come nei discorsi di finzione), sia che esprima sentimenti o riveli aspetti inediti o alluda a dimensioni misteriose della vita umana (come nei linguaggi simbolici, mitologici, religiosi). Ciascuno di questi linguaggi si fa portatore, secondo una propria modalità semantica, di una particolare istanza di verità.

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Conclusioni

Il primo capitolo ci presenta la semantica come un vero e proprio intrigo in cui confluiscono diverse istanze che si includono reciprocamente. Certamente l’istanza logica, fatta propria da autori come Gottlob Frege, Bertrand Russell, Rudolph Carnap, il primo Wittgenstein, Willard O. Van Quine, rende conto di quei linguaggi logicamente organizzati proprio delle scienze. D’altra parte l’istanza pragmatica, rappresentata da autori come il secondo Wittgenstein, da John Austin, John Searle, rende conto del funzionamento semantico di quei giochi linguistici che sono espressione del mondo della vita. Il significato dei vari giochi linguistici si rivela irriducibile così come unica e irripetibile è la forma di vita con cui formano un tutt’uno. A sua volta Hagège cerca di articolare l’istanza pragmatica con quella che concepisce il linguaggio umano come un sistema regolato da un insieme di codici. Infine, l’istanza ermeneutica, fatta valere da autori come Martin Heidegger, Hans Georg Gadamer, Paul Ricoeur, si mostra sensibile a quei linguaggi poetici e narrativi che portano con sé l’esigenza di rivelare aspetti assolutamente inediti e misteriosi. Nel loro insieme queste istanze richiamate contribuiscono a spiegare l’intrigo semantico del Novecento. La discussione critica di alcune tra le più rilevanti teorie del significato realizzata nel secondo capitolo ci porta alla conclusione che diversi sono i fattori che concorrono all’emergenza del significato. Dalla struttura logica della frase 114 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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(Frege), ai fattori extralinguistici e contestuali (in particolare il secondo Wittgenstein), allo sviluppo delle facoltà e alla loro interazione con l’ambiente (Piaget), alla componente innata geneticamente determinata (Chomsky), ai processi mentali (Johnson-Laird), alla componente referenziale (Putnam), alla situazione dialogale (Hagège). Possiamo dire, pertanto, che l’emergenza del significato chiama in causa una pluralità di fattori. L’indagine condotta nel terzo capitolo ci permette di dire che notevole è stato lo sforzo teorico a partire da Gottlob Frege per ridurre il campo semantico umano entro un coerente quadro sistematico esplicativo. Indubbiamente questo sforzo teoretico ha prodotto validi strumenti di analisi del funzionamento semantico del linguaggio umano. Tuttavia questo sforzo ha finito per imbattersi con fattori produttori di senso (come l’uso delle parole, la forza con cui sono emesse, le intenzioni che le attraversano) che di fatto sfuggono ad ogni possibile canonizzazione. Si tratta di fattori imponderabili e imprevedibili che, tuttavia, svolgono un ruolo determinante nel creare gli effetti di senso del linguaggio. La considerazione di questi fattori ad opera di analisti come il secondo Wittgenstein, Austin, Grice e altri sancisce di fatto l’impossibilità di un progetto sistematico che contempli tutti gli svariati effetti di senso prodotti dal linguaggio umano. Con ciò resta dimostrata la tesi secondo cui non è possibile ridurre tutto il funzionamento semantico del linguaggio a un sistema euristico coerente. L’analisi effettuata, infine, nel quarto capitolo ci porta alla conclusione che non è possibile stabilire un criterio assoluto di sensatezza e ciò perché il linguaggio umano produce di fatto senso sia che descriva la realtà (come nei discorsi di tipo scientifico), sia che inventi mondi immaginari (come nei discorsi di finzione), sia che esprima sentimenti o riveli aspetti inediti o 115 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

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alluda a dimensioni misteriose della vita umana (come nei linguaggi simbolici, mitologici, religiosi).

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