Introduzione alla metafisica
 978-8860085016

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Enrico Berti

INTRODUZIONE ALLA METAFISICA

Enrico Berti

INTRODUZIONE ALLA METAFISICA

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Proprietà letteraria riservata © 1993 U TET Libreria Srl - Torino © 2006 De Agostini Scuola SpA - Novara V edizione: 1993 Printed in Italy

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IN D IC E

C apitolo I. Nome, tipologia e critiche 1. Origine e significato del termine........................ . 2. Trasformazioni ed articolazioni del significato .... 3. Tipologia della metafisica: le metafisiche immanentistiche........ ............................................. 4. Le metafisiche della partecipazione......... ............. 5. Le metafisiche delFesperienza............................... 6. Le principali critiche alla metafisica...... ................ C apitolo IL II tema 1. Le ragioni della metafisica ................................... 2. L ’esperienza come tema della metafisica.............. 3. Esperienza ed essere...... ......................................... 4. La multivocità dell’essere e le categorie........ ....... 5. La struttura dell’essere: sostanze e accidenti, materia e forma, potenza e atto........................... 6. Le proprietà trascendentali dell’essere ..................

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C apitolo III. Il problema, il Principio, il percorso 1. Problematicità del divenire..................................... 2. Problematicità dell’esperienza........... .................... 3. Problematicità della filosofia................................. 4. Trascendenza del Principio................................ 5. Carattere del Principio........................................... 6. Dialetticità del discorso metafisico

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Bibliografia....... .......................................................

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I N O M E, T IP O L O G IA E C R IT IC H E

1. Origine e significato del termine Il termine ""metafisica” , secondo Popinione più comune (sostenuta ad esempio da tutti i dizionari filosofici, sulla scorta di quanto hanno affermato specialisti di A ristotele quali Bonitz, Zeller e D üring), avrebbe avuto un’origine puramente bibliotecaria, cioè non sarebbe altro che il titolo dato da A ndronico di R odi (I secolo a.C.), il prim o editore antico del corpus aristotelicum^ all’opera di Aristotele che poi è stata trasmessa con questo nome, semplicemente perché fu da lui collocata ""dopo le opere di fisica” {metà taphysikà). Secondo Heidegger (1929-1939, pp. 50-54), che può essere anno­ verato tra quanti aderiscono a questa opinione, nella divisione scola­ stica delle discipline filosofiche in logica, fisica ed etica, su cui si basa l’edizione di A ndronico, non ci sarebbe stato posto per il contenuto di tale opera, ed essa sarebbe stata collocata ""dopo quelle di fisica” solo perché tratterebbe di questioni affini alla fisica. Invece, secondo D üring (1966, trad. it.,p. 665), che è il più recente sostenitore dell’ori­ gine bibliotecaria del termine, A ndronico avrebbe probabilm ente ritenuto che i 14 libri di cui è com posta quest’opera trattassero di argomenti troppo diversi per essere riuniti sotto un unico titolo, perciò avrebbe optato per la soluzione più neutrale, scegliendo un titolo che alludesse semplicemente alla sua collocazione. Effettivamente in tutti i manoscritti che riportano le opere di Aristotele, l’ordine in cui queste sono disposte, che risale sicuramente all’edizione di Andronico, col­ loca quella intitolata Metafisica dopo tutte le opere di fisica (quindi non solo dopo la Fisica^ ma anche dopo il De cáelo j il De generatione

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et corruptione^ i Meteorologica^ il De anima^ le opere di biologia e di zoologia), e il titolo metà ta physikà era sicuramente presente nelFedizione di Andronico, perché è citato nel catalogo delle opere di Aristotele riportato dalFarabo U saibia (IX secolo) e da questo attri­ buito a un certo Tolom eo el Garib (probabilmente un neoplatonico del IV secolo d.C.), catalogo che riflette appunto tale edizione. E sso era inoltre citato, come risulta da uno scolio alla cosiddetta Metafisica di Teofrasto, nel titolo di un capitolo dell’opera di N icolò D am asce­ no (fine del I secolo a.C.) Sulla filosofia di Aristotele^ intitolato ap­ punto Theorìa ton Aristotelous metà ta physikà (esposizione, o spie­ gazione, della Metafisica di Aristotele), che sicuramente si riferiva all’edizione di Andronico. Q uesta tesi tuttavia non spiega perché Andronico avesse collocato la Metafisica proprio subito “ dopo le opere di fisica” (anche la spie­ gazione di Heidegger è piuttosto vaga) e inoltre è in contrasto con il fatto che in uno dei due altri cataloghi delle opere di Aristotele, quello conservato da Esichio (secc. V-VI d.C.), ma risalente per unanime ammissione a un catalogo del III secolo a.C., dunque anteriore al­ l’edizione di Andronico, compare il titolo Metaphysikà^ con l’indica­ zione che si tratta di un’opera in dieci libri. Perciò qualcuno ha pen­ sato all’esistenza di un’edizione della Metafisica anteriore a quella di Andronico, non comprendente tutti i libri inclusi in quest’ultima (Jaeger, 1912). E vero che questo titolo è stato considerato da D üring un’interpolazione posteriore, per il fatto che nell’altro catalogo risa­ lente alla medesima fonte del III secolo a.C., quello conservato da D iogene Laerzio, esso non compare affatto. M a con altrettanta vero­ simiglianza M oraux ( 1951 ) ha supposto che esso fosse originariamente contenuto anche nel catalogo di Diogene Laerzio e sia poi caduto, come è accertato nel caso di altri titoli, per qualche incidente di tra­ smissione. U na spiegazione della collocazione della Metafisica dopo le opere di fisica, e quindi del suo titolo, è stata fornita da Alessandro di A fro ­ disia (II-III secolo d.C.), il grande commentatore antico di A ristote­ le, secondo il quale Aristotele stesso avrebbe chiamato anche “ meta­ fisica” la scienza da lui già indicata come sophìa e come “ scienza teo­ logica” , «perché essa sta dopo di quella [cioè della fisica] secondo

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bordine relativo a noi {pros hemàs)» {in Metaph. 171, 5-7), Q ui A les­ sandro si richiama evidentemente alla fam osa distinzione fatta da Aristotele tra le cose che sono anteriori "per natura” , cioè di per sé, 0 in assoluto, vale a dire i princìpi e le cause, perché sono la condizione delFintelligibilità delle altre cose, e quelle che sono invece anteriori "per noi” , cioè le realtà sensibili, perché sono più alla portata della nostra esperienza, e alla conseguente regola m etodologica secondo la quale bisogna procedere da quelle anteriori per noi a quelle anteriori per natura, cioè dal m ondo delFesperienza alle cause prime {An. pr. I I 23, 68 b 33 ss.; An. post. 1 2 , 71 b 33 ss.; Top. V 4,141 b 3 ss.; Phys. 1 1, 184 a 16 ss.; Phys. I 5, 188 b 30 ss.; Metaph. V 11, 1018 b 30 ss.; Metaph. VII 3, 1029 b 3 ss.; Eth. Nic. I 2, 1095 b 2 ss.). In base a questa regola è perfettamente comprensibile che le opere di fisica, avendo per oggetto la natura (physis)^ che è una realtà sensi­ bile, oggetto di esperienza, precedano la Metafisica, la quale ha per oggetto le cause prime, tra cui rientrano la forma intelligibile e il motore immobile, che sono realtà sovrasensibili. Perciò qualcuno ha pensato che la collocazione della Metafisica, e quindi anche il titolo che di essa è espressione, risalgano allo stesso Aristotele (M oraux, 1951; Reiner, 1954). Sulla scorta, poi, di alcune testimonianze antiche, che parlano di una copia della Metafisica inviata da Aristotele stesso al discepolo Eudem o di R odi (Feditore àtìVEtica Eudemea), il quale non Favreb­ be pubblicata perché troppo lunga (Asci, in Metaph. 4, 4-16), si è pensato addirittura che il primo curatore delFopera sia stato proprio Eudem o, il quale Favrebbe intitolata nel m odo che sappiam o inter­ pretando una precisa intenzione di Aristotele (Reiner, 1954 e 1955). Tutti i commentatori neoplatonici, del resto, non hanno esitato a identificare la metafisica con quella che Aristotele chiama "scienza teologica” {Metaph. VI 1, 1026 a 19), sostenendo che essa studia le realtà che stanno al di là, nel senso di al di sopra, di quelle fisiche, e hanno quindi interpretato la preposizione metà non nel senso di dopo, ma nel senso di sopra o di oltre (equivalente perciò a hyper). Essi tuttavia, sulla base di un noto passo di Aristotele - in cui questi affer­ ma che la filosofia prima, proprio perché è prima, cioè perché studia le realtà che per natura sono prime (le realtà immobili), è anche uni­ versale, cioè studia F"ente in quanto ente” , poiché le realtà prime sono

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le sole capaci di spiegare l'essere nella sua totalità {Metaph. VI 1,1026 a 23-32) - , hanno anche sostenuto la coincidenza fra la scienza delle realtà prime, o ""teologia" (ovviamente razionale, cioè filosofica), e la scienza della totalità dell'essere, che sarebbe poi stata chiamata ""on­ tologia" (Kremer, 1961). In effetti c'è motivo di ritenere, sulla base di una ricostruzione anche storico - genetica, oltre che logico-sistematica, del pensiero di Aristotele, che questi abbia dapprima identificato la ""scienza delle cause prim e", che per lui era la ""sapienza" {sophìa)^ cioè la form a più alta di sapere, con la fisica, cioè con la scienza della natura, riallaccian­ dosi in tal m odo alla tradizione presocratica, da cui egli stesso aveva fatto iniziare la storia della filosofia, e che solo dopo avere constatato come alcune di queste cause (cioè il motore immobile, o i m otori immobili), sporgevano, per così dire, dalla natura, cioè si trovavano al di là di questa, abbia riformulato il suo progetto di filosofia, asse­ gnando a quest'ultim a come oggetto l'ente in quanto ente, cioè la totalità del reale. Egli l'avrebbe quindi identificata con la ""teologia", intesa non come scienza che cerca le cause del divino, bensì come scienza che, per indicare esaurientemente tutte le cause dell'ente in quanto ente, approda necessariamente anche al divino (Berti, 1977 e 1989). Vanno in questo senso l'affermazione, contenuta nella giova­ nile Fisica^ che già la fisica ricerca i princìpi, cioè le cause prime, be­ ninteso della natura {Phys. 1 1,184 a 10-16), la conclusione della stessa Fisica^ in cui si dim ostra la necessità di un motore immobile (libro V ili), e la presentazione, contenuta nella più matura Metafisica^ della scienza dell'ente in quanto ente come quella che ha preso il posto della fisica nello svolgere il ruolo di ricerca delle cause prime e quindi di filosofia prima {Metaph. IV 3, 1005 a 33-b 2; VI 1, 1026 a 27-30). Aristotele infatti afferma: «Alcuni dei fisici [espressione con cui normalmente indica i presocratici] verosimilmente fecero questo [cioè indagarono sul principio di non contraddizione], poiché credevano di essere i soli a indagare intorno alla natura tutta intera e intorno all'ente; ma poiché c'è qualcuno che sta più in alto del fisico, in quanto la natura è un solo genere dell'ente, a colui che studia l'universale e la realtà prima spetterà anche l'indagine intorno a questi princìpi: anche

la fisica è una certa sapienza, ma non la prima» {Metaph. IV 3,1005

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a 31-b 2). E più avanti: «Se dunque non vi fosse qualche realtà diversa oltre a quelle costituite dalla natura, la fisica sarebbe la scienza prima; se invece c’è qualche realtà immobile, questa sarà anteriore e la filo­ sofia che la studia sarà la prima, e sarà universale in questo m odo, cioè perché è prim a» {Metaph. VI 1, 1026 a 27-31). L o Stagirita ha in tal m odo delineato un concetto di metafisica come scienza che viene necessariamente "d o p o la fisica” , nel senso che muove, come questa, dalle realtà a noi più vicine, cioè dal mondo dell’esperienza sensibile, per cercarne la cause prime, e solo dopo avere constatato che queste vanno oltre l’ambito della natura, nel quale anzitutto esse devono essere ricercate, essa subentra alla fisica in questo ruolo e si configura come scienza della realtà sovrasensibile. M a p ro ­ prio questo subentrare alla fisica nel ruolo di scienza delle cause pri­ me fa della metafisica, oltre che la scienza del sovrasensibile, anche la scienza della totalità del reale, poiché le cause prime, per essere vera­ mente tali, devono essere cause della totalità. In Aristotele, pertanto, m algrado l’opinione di alcuni studiosi moderni (Natorp, 1888; Jaeger, 1923; Heidegger, 1924-25; Aubenque, 1962), c’è perfetta coincidenza tra la metafisica come scienza della totalità del reale, cioè dell’ente in quanto ente, e la metafisica come scienza del sovrasensibile, cioè del divino, vale a dire fra quella che in età moderna sarà chiamata l’ontologia, e quella che egli stesso chia­ mava teologia. Ciò naturalmente non significa, come qualcuno ha cre­ duto (Merlán, 1957 e 1962), che l’ente in quanto ente coincida con D io, perché è diverso il senso in cui l’ente in quanto ente e D io sono oggetti della metafisica. Il prim o, cioè l’ente in quanto ente, è oggetto della metafisica nel senso che è ciò di cui si cercano i princìpi e le cause prime {Metaph. IV 1, 1003 a 31-32), mentre il secondo, cioè D io, è oggetto della metafisica nel senso che è una delle cause prime dell’ente in quanto ente {Metaph. I 2, 983 a 8-9). Q uesta duplicità di significati del termine metafisica ha consentito di usare il termine per indicare qualsiasi dottrina vertente sulla tota­ lità del reale, sia che ne indichi le cause prime aU’interno del mondo dell’esperienza, cioè della "natura” , sia che le indichi, per così dire, all’esterno di esso, cioè in un’altra sfera di realtà, la realtà appunto sovrasensibile. Per questo qualcuno ha parlato di metafisica, eviden­

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temente nel prim o senso, anche a proposito dei presocratici (J. Stenzel, 1931; M. Gentile, 1939), benché dal punto di vista di Aristotele essi (a eccezione degli Eleati) fossero soltanto dei ""fisici"’, in quanto ricercavano il ""principio” {arche) di tutte le cose, ma lo identificavano con una realtà originaria contenuta nella stessa ""natura” {physis). E per lo stesso motivo il fondatore della metafisica intesa come scienza del sovrasensibile, cioè nel secondo senso, è considerato Platone, anche se questi non usò mai il termine in questione, ma subordinò chiara­ mente il m ondo dell’esperienza sensibile a un altro m ondo, a esso superiore, cioè le idee e i loro princìpi (Krämer, 1982). 2. Trasformazioni e articolazioni del significato L ’unità stabilita da Aristotele tra metafisica intesa come scienza del­ l’ente in quanto ente e metafisica intesa come teologia si mantenne sia, come abbiamo visto, nell’ambito della tradizione neoplatonica, sia nell’ambito della Scolastica medioevale, tanto araba ed ebraica, quan­ to latina. Spetta anzi ad Avicenna il merito di avere introdotto una distinzione fondamentale a proposito dell’oggetto della metafisica, anzi di quello che si deve indicare aristotelicamente come il suo suhjectum^ perché per Aristotele ciò su cui una scienza verte è il suo ""genere-soggetto” {genos-hypokèimenon). Egli affermò infatti che D io non è il subjectum della metafisica, ossia ciò su cui questa scienza verte, poiché non è dato nell’esperienza, ma è il suo quaesitum^ ossia ciò che essa ricerca (Courtine, 1990). Q uesta distinzione fu poi ripresa da Tom m aso d ’A quino, il quale precisò che per subjectum metaphysicae si deve intendere Villud de quo, ossia ciò a proposito di cui essa indaga, vale a dire il suo campo di indagine, il suo ambito, e questo è, come ha affermato Aristotele, l’ente in quanto ente, vale a dire Vens commune. D io, invece, per Tommaso, è Vipsum esse, cioè l’essere per essenza, il quale è la causa essendi trascendente di ogni entità, e perciò rientra nella metafisica in quanto è la causa ricercata dell’ente in quanto ente. Accanto a questa spiega­ zione dell’unità della metafisica, tuttavia, Tom m aso ne offre anche un’altra, secondo la quale la scienza in questione tratta delle realtà più intelligibili, le quali sono da un lato Vens commune e le sue proprietà.

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che si scoprono in via resolutionis come le più comuni dopo le meno comuni, e dall'altro D io e le intelligenze, che sono le realtà più astrat­ te, cioè separate dalla materia, non solo logicamente ma anche real­ mente {Proemium al commento alla Metafisica di Aristotele). In tal m odo egli si discosta molto dalla posizione di Aristotele. Anche Tom m aso, dunque, mantiene una stretta unità, anzi iden­ tità, fra la metafisica come scienza dell'ente in quanto ente e la meta­ fisica come scienza di D io. Quest'ultim a, ovviamente, è la teologia naturale, o razionale, distinta dalla teologia rivelata, o sacra doctrina^ ^che è a essa superiore. La stessa unità rimane in Giovanni D uns Scoto, il quale anzi la rafforza, affermando l'univocità dell'essere come no­ zione, che per Tom m aso è invece analogo, e la molteplicità soltanto dei suoi modi. Per Scoto, inoltre, la metafisica, in quanto teologia naturale, è la scienza suprema, perché la teologia rivelata non è vera e propria scienza. L'unità tra scienza dell'ente in quanto ente e scienza di D io si rompe con la cosiddetta "seconda Scolastica", cioè la Scolastica rifiorita in epoca moderna a opera di domenicani e gesuiti. Infatti il gesuita B e­ nito Pereira, nell'opera De communihus omnium rerum naturalium principiis et affectionibus (Rom a 1576), introduce la distinzione tra la prima philosophia^ intesa come scienza generale, che ha per oggetto l'ente in quanto ente, cioè gli aspetti comuni a tutte le realtà naturali, e la metaphysica vera e propria, intesa come scienza speciale, che ha per oggetto D io. U n'ulteriore trasform azione del significato della metafisica si ha con il gesuita Francisco Suarez, autore delle Disputationes metaphysicae (Salamanca 1597). Q uesti da un lato afferma che la Metafisica di Aristotele è stata chiamata così dagli editori perché tratta di realtà sovrasensibili, che nell'ordine della conoscenza vengono dopo quelle sensibili, perciò egli tende a interpretare la metafisica nel senso di una teologia naturale. D all'altro lato però, e questa è la più importante innovazione da lui introdotta, Suarez indica nell'ente in quanto ente Vobjectum (termine moderno, che prende il posto dell'aristotelico subjectum) della metafisica, ma lo concepisce come il semplice aliquid^ o la semplice res, ossia tutto ciò che si oppone al nulla. Per questo motivo il termine ens^ in quanto indica ciò che è com u­

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ne a tutte le cose {ens ut commune sumptum)^ è per Suarez univoco, cioè si dice di tutto con lo stesso significato (secondo la stessa ratio)^ anche di D io, perché anche D io è “ qualcosa” , cioè si oppone al nulla. L ’ente, secondo la sua interpretazione, è precisamente il genere co­ mune a tutte le cose, il quale comprende in sé diverse specie, cioè l’ente infinito, che è D io, e l’ente finito, in cui rientrano tutte le crea­ ture. Anche D io, dunque, diventa “ oggetto” della metafisica, in quanto cade sub ratione entis^ ossia non è più «ciò che viene cercato» dalla metafisica, bensì «ciò su cui essa verte» (Courtine, 1990). La scienza dell’ente in quanto ente si avvia così, da un lato, a diven­ tare una scienza generalissima, che studia gli aspetti comuni a tutte le cose (i cosiddetti “ trascendentali” , vale a dire le nozioni di ente, cosa, qualcosa, uno, vero, buono, bello), e presto prende il nome di “ onto­ logia” . C iò avviene per la prima volta nel Lexicon philosophicum di R udolph G òckel (Goclenius), pubblicato a Francoforte nel 1613, e nel contemporaneo Theatrum philosophicum di Jacobus Lorhardus (Basilea 1613), ma da quel momento il termine ontologia ricorre in num erosi altri filosofi moderni (Alsted, Calov, Clauberg). Parallelamente la metafisica si divide in due scienze, cioè nella scienza dell’ente in quanto ente, o ontologia, detta anche metaphysica generalis^ e nella scienza di D io, o teologia naturale, detta anche metaphysica specialis. Q uest’ultima distinzione compare infatti per la prima volta nell’Op^5 metaphysicum di Christoph Scheibler (Gießen 1617), ma è già consacrata nel Lexicum philosophicum di Johannes Micraelius (Jena 1653), e rimane poi caratteristica di tutta la filosofia scolastica tedesca. D a un altro lato, invece, la metafisica è concepita come una scienza speciale, che si occupa soltanto di alcuni oggetti privilegiati. Com e tale essa è intesa, ad esempio, da Francesco Bacone, secondo il quale la metafisica si occupa delle cause formali e finali, mentre alla “ fisica” spetta lo studio delle cause materiali ed efficienti; da Descartes, per il quale la metafisica si occupa solo delle sostanze spirituali, cioè D io e le anime umane; da Leibniz, infine, per il quale essa si occupa della sostanza e della forza, mentre la fisica tratta della materia e del m o­ vimento. M a la divisione della metafisica rimasta definitiva in età moderna è quella introdotta da Christian Wolff, il quale identifica la

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metaphysica generalis con ^ontologia, intesa come scienza dell’ente in quanto ente, e divide la metaphysica specialis in tre parti, cioè: - la cosmologia generalis^ intesa come indagine puramente razio­ nale, cioè a priorij deduttiva, sul m ondo; - la psychologia rationalisa intesa come indagine ugualmente ra­ zionale, non empirica, sull’anima; - la theologia naturalisa intesa come indagine razionale su D io. U na concezione della metafisica per certi aspetti identica e per altri aspetti diversa da quella di Wolff si trova in Kant, il quale nel capitolo sull’" architettonica della ragion pu ra” della sua prim a Critica (1781) definisce la metafisica in generale come la «ricerca di tutto quanto può esser conosciuto apriori^ nonché l’esposizione di quel che costituisce un sistema di conoscenze filosofiche pure di questa specie» {Critica della ragionpura^ trad. it., p. 652). Com e tale, la metafisica compren­ de sia la “ critica” , cioè lo studio preliminare delle possibilità e dei limiti della ragione, che è la parte sviluppata dallo stesso Kant nella Critica della ragionpura^ sia il “ sistem a” della ragion pura, cioè l’in­ tera conoscenza filosofica, tanto quella vera quanto quella apparente, derivante dalla ragion pura. Q uest’ultima parte si divide a sua volta in due, a seconda che si riferisca all’uso speculativo o all’uso pratico della ragione: la prima è la metafisica della natura, che tratta dei princìpi a priori della cono­ scenza, e la seconda è la metafisica dei costumi, che tratta dei princìpi a priori dell’agire. Solo la prima, tuttavia, si dice metafisica in senso stretto, e abbrac­ cia la filosofia trascendentale, che studia i princìpi degli oggetti in generale ed è chiamata da Kant anche ontologia^ e la fisiologia della natura, che studia i princìpi degli oggetti dati nell’esperienza. Q ue­ st’ultima, a sua volta, può fare un uso immanente o trascendente della ragione, cioè applicarla all’esperienza o usarla per trascendere l’espe­ rienza: nel prim o caso essa perviene a conoscenze effettive, nel secon­ do a conoscenze solo apparenti. Q uando tali conoscenze apparenti vertono sul m ondo considera­ to come cosa in sé, esse danno luogo alla “ cosm ologia razionale” ; quando vertono sull’anima, danno luogo alla “ psicologia razionale” ;

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e quando vertono su D io, danno luogo alla ‘‘teologia razionale” . Perciò anche per Kant, come per W olff, la metafisica comprende da un lato ^ontologia, o metafisica generale, e dalFaltro la cosm ologia, la psico­ logia e la teologia razionali, o metafisiche speciali (ivi, p. 655). Solo che per Wolff queste sono tutte autentiche scienze, mentre per Kant la prima coincide con la sua filosofia trascendentale, cioè con la cri­ tica, mentre le ultime tre sono conoscenze soltanto apparenti. U n ’ulteriore importante trasform azione del significato della me­ tafisica si ha con Hegel, il quale nella prima form ulazione del suo sistema, esposta nella cosiddetta Logica e metafisica di Jena (18041805), distingue la logica, intesa come “ il lato negativo della verità” , ossia come la critica in senso kantiano dell’intelletto e l’esposizione delle sue categorie, e la metafisica, intesa come il suo lato positivo, ossia come il “ sistema della ragione” . Q uesta non è altro che la scienza dell’A ssoluto, cioè dell’identità di pensiero e realtà, di soggetto e oggetto, perciò comprende anzitut­ to quello che tradizionalmente era l’oggetto dell’ontologia, vale a dire i princìpi supremi (principio di identità o di contraddizione, princi­ pio del terzo escluso, e principio del fondam ento o di ragion suffi­ ciente), e poi quello che tradizionalmente era l’oggetto della psicolo­ gia, della cosm ologia e della teologia razionali, che H egel chiama “ metafisica dell’oggettività” , nonché quello che era l’oggetto delle filosofie di Fichte (l’Io) e di Schelling (lo Spirito), che H egel chiama “ metafisica della soggettività” . N ella form ulazione definitiva del sistema, esposta neWEnciclope­ dia delle scienze filosofiche (1817 e 1830), H egel risolve la metafisica nella logica, chiamando “ dottrina dell’essere” quella che nel sistema di Jena era la logica, “ dottrina dell’essenza” quella che era la metafi­ sica dell’oggettività, e “ dottrina del concetto” quella che era la meta­ fisica della soggettività. Si tratta naturalmente non di una logica for­ male, ma di una logica materiale, le cui categorie sono al tempo stesso categorie del pensiero e categorie dell’essere. Q uesta logica-metafisi­ ca, tuttavia, è solo la conoscenza che noi abbiamo dell’A ssoluto come Idea, cioè, come dice Hegel, «l’esposizione di D io com ’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito fi­ nito» {Scienza della logica^ trad. it., p. 31). E ssa non è la conoscenza

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che rAssoluto ha di sé, cioè il vero sapere assoluto. Per poter giungere a questa, secondo Hegel, Pidea deve farsi oggetto di se stessa nella natura, e quindi deve riconoscere in questa se stessa come Spirito: alla

logica devono seguire, pertanto, la filosofia della natura e la filosofia dello spirito. Naturalm ente la metafisica nelPaccezione aristotelico-tomistica è stata ripresa nelPambito del neotom ism o, mentre quella intesa nel senso di Hegel è stata ripresa nelle varie forme di neohegelismo. In­ teressante è il significato dato alla metafisica da Heidegger nella prima fase del suo pensiero, cioè quella precedente la “ svolta” del 1930. Secondo quanto egli ha sostenuto, infatti, nella prolusione friburghese del 1929, Was ist Metaphysik?, e poi più ampiamente nel corso del 1929-1930 sui Concetti fondamentali della metafisica^ la metafisica, che in questo momento coincide con la stessa filosofia, è un dom an­ dare totale, che coinvolge lo stesso domandante, nel senso che pone in questione Pesserci stesso dell’uom o, e perciò verte non solo sull’es­ sere dell’ente, ma anche sul nulla, che a tale essere, per Heidegger, è essenziale. Q uindi la domanda metafisica fondamentale è: «perché, in generale, Pessente, e non piuttosto il niente?». U n significato in parte nuovo del termine invece si incontra nel­ l’ambito della filosofia analitica inglese, per esempio nell’opera diF.P. Strawson, il quale ha messo come sottotitolo al suo libro Individuáis l’espressione “ saggio di metafisica descrittiva” , spiegando: «L a meta­ fisica è stata spesso correttiva, e meno spesso descrittiva. La metafi­ sica descrittiva si accontenta di descrivere l’effettiva struttura del nostro pensiero sul m ondo, la metafisica correttiva si interessa di produrre una struttura migliore [...]: Descartes, Leibniz, Berkeley sono corret­ tivi, Aristotele e Kant descrittivi» (1959, trad. it., p. 9). Poiché il libro di Strawson tratta delle realtà particolari come re­ ferenti del linguaggio, distinguendole in due categorie, cioè i partico­ lari di base e i particolari secondari, e divide i primi in corpi materiali e persone, spiegando poi la connessione tra Pidea di particolare in genere e quella di oggetto di riferimento o soggetto logico, si può dire che per metafisica questo autore intende ciò che tradizionalmente si intendeva per ontologia, sostituendo tuttavia alla nozione universale di ente quella logico-analitica di oggetto di riferimento.

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U n'accezione molto simile di metafisica si trova anche in altri fi­ losofi analitici, per esempio, inD .W . H am lyn, autore Metaphy­ sics (1984), il quale si richiama al concetto di metafisica descrittiva proposto da Strawson, m odificandolo però mediante la precisazione che la metafisica non descrive il m odo in cui noi pensiamo la realtà, ma come la realtà deve essere, e perciò essa è anche correttiva, nel senso che corregge le altre metafisiche. Anziché parlare di semplici particolari di base, come Strawson, Hamlyn non esita a parlare, con Aristotele, di sostanze individuali, e non disdegna di indicare l'ogget­ to della metafisica nell'ente in quanto ente. Anch'egli, come Straw­ son, assegna alla metafisica la trattazione delle sostanze semplici, dello spazio e del tempo, delle menti, delle persone e dell'identità persona­ le. Com e Strawson, infine, egli esclude dall'am bito di indagine della metafisica il problem a di D io, che a suo avviso rientra invece nella filosofia della religione. 3. Tipologia della metafisica: le metafisiche immanentistiche I molti significati e le molte trasform azioni del termine metafisica, a cui abbiamo sommariamente accennato, hanno dato luogo ovviamente a una molteplicità di tipi di metafisica, tra i quali è necessario fare le dovute distinzioni, perché presentano caratteristiche m olto diverse. E quindi opportuno tentare una schematica tipologia, la quale, senza alcuna pretesa di esaustività storica e con un'inevitabile dose di ap­ prossim azione, distingua le principali forme di metafisica che si sono avute nel pensiero occidentale, m ostrando che cosa hanno in comune e che cosa le differenzia. Anche le critiche alla metafisica, che esporremo in seguito, andranno riferite come vedremo a ciascuno di questi tipi, al fine di evitare con­ fusioni e giudizi troppo sommari, quali invece abbondano nella let­ teratura filosofica specialmente contemporanea. Anzitutto è necessario distinguere fra le metafisiche che, pur pre­ tendendo di fare un discorso intorno alla totalità del reale (tratto, questo, che le accomuna tutte), ricercano la spiegazione ultima di questa all'interno del m ondo dell'esperienza, e che perciò potranno essere chiamate "metafisiche immanentistiche", e quelle che invece ricerca­

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no tale spiegazione in un ambito di realtà diverso, non riducibile a quello del m ondo dell’esperienza, e che perciò potranno essere chia­ mate "'metafisiche trascendentistiche” . Si noti che solo a proposito di questo secondo tipo il termine metafisica è usato in senso proprio, cioè conservando il significato di ulteriorità rispetto alla fisica, o al mondo dell’esperienza, espresso dalla preposizione metà. Anche per il primo tipo, tuttavia, è ormai consueto parlare di metafisica, al fine di distinguere questa form a di discorso da quante altre non hanno alcuna pretesa di caratterizzare la totalità. A ll’interno delle metafisi­ che immanentistiche è poi necessario fare delle distinzioni: - quelle che identificano senz’altro la spiegazione ultima della totalità del reale con lo stesso m ondo dell’esperienza e che pertanto potrebbero essere chiamate "naturalistiche” , dove per natura si in­ tende una realtà sensibile non ancora differenziata in materia e spirito; - quelle che invece identificano tale spiegazione in una realtà chia­ ramente materiale, alla quale si riduce ogni altra cosa, e che pertanto possono essere chiamate "m aterialistiche” ; - quelle infine che individuano tale spiegazione in una realtà di tipo spirituale, quale l’idea, o il pensiero, risolvendo in essa l’intera realtà, e che pertanto possono essere chiamate "idealistiche” . Com e esempi di metafisiche naturalistiche potrebbero essere in­ dicate le filosofie degli Ionici e di Eraclito, che riconducevano tutte le cose a elementi quali l’acqua, l’aria o il fuoco; o la cosiddetta fisica stoica, che riportava ogni cosa a una "natura” intesa anch’essa come fuoco o come soffio infuocato {pneuma); o certe forme di panteismo medioevale, come quelle sostenute da Am alrico di Bène, il quale af­ fermava l’identità fra D io e il creato, e Davide di Dinant, il quale ammetteva un’unica sostanza, cioè D io, com posta di una forma che è il nous^ sostanza di tutte le anime, e di una materia che è sostanza di tutti i corpi. A metafisiche di questo tipo possono essere ricondotte anche le filosofie rinascimentali di Telesio, il quale riconduceva tutti i fenom eni a un’unica materia e a due forze attive, costituite rispetti­ vamente dal caldo e dal freddo, e di Bruno, che affermava l’unità di D io e natura, spirito e materia, uno e infinito. U na form a di metafisica naturalistica può essere considerata anche

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la filosofia di Spinoza, anche se essa è molto più sofisticata delle pre­ cedenti, perché afferma desistenza di un'unica sostanza, il Deus sive natura^ dotata di infiniti attributi, fra cui il pensiero e l'estensione, riducendo tutti gli spiriti e le idee a m odi del pensiero e tutti i corpi a m odi dell'estensione. La filosofia di Spinoza, tuttavia, può essere interpretata anche come una m etafisica '"acosm istica", vale a dire implicante la negazione che il m ondo dell'esperienza (cosmo) sia la vera realtà. E ssa potrebbe allora essere considerata una metafisica analoga a quella degli Eleati, per i quali l'essere, oggetto del pensiero, è l'unica realtà, mentre il m ondo dell'esperienza, oggetto dell'opinio­ ne, è soltanto apparenza. M a anche questa è un'interpretazione del­ l'eleatismo non condivisa da tutti. U n esempio di metafisica materialistica può essere considerato l'atom ism o di Leucippo e D em ocrito, nel caso in cui gli '"atomi” , ai quali questi pensatori riconducevano tutte le cose, siano considerati come particelle materiali. Q uesto è sicuramente il caso dell'epicurei­ smo, che pertanto può essere considerato anch'esso una form a di metafisica materialistica, almeno nelle sue espressioni antiche, men­ tre non si può dire che sia il caso dell'atom ism o moderno, ad esempio di Gassendi, il quale ammette, accanto agli atomi, l'esistenza di un D io creatore. Sono metafisiche materialistiche le filosofie settecentesche di La Mettrie e di Helvétius, che riducono tutta la realtà, com presa quella umana, a materia dotata di sensibilità, nonché quella di d'H olbach, che riconduce tutto a una materia in movimento, governata dalla più assoluta necessità meccanica. Per questo si è parlato, a proposito di tali posizioni, di materialismo meccanicistico. E una metafisica materialistica anche il cosiddetto materialismo dialettico, elaborato da Engels e poi ripreso da Lenin e M ao, secondo cui il pensiero non è altro che un riflesso della natura, quindi della materia, intesa però come realtà dinamica, cioè svolgentesi secondo un processo dialettico del tipo di quello descritto da H egel (per o p ­ posizione e sintesi). Si possono ugualmente considerare metafisiche materialistiche l'evoluzionism o di Spencer, secondo cui tutto deriva, per evoluzione appunto, da una materia originaria dotata di m ovi­ mento e di forza, nonché il materialismo positivistico di Vogt, M o-

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leschott e Bixchner, che ugualmente riconduce tutto a una materia originaria dotata di energia vitale. Oscillano invece tra la metafisica naturalistica e quella materialistica posizioni come quella di Feuerbach, per il quale la realtà fondamentale è Fuomo, inteso però essenzial­ mente come natura, quella di Haeckel, per il quale Funiverso è insie­ me D io e natura, materia ed energia, corpo e anima, e quella di A rdigò, per cui tutte le cose derivano da un’unità psicofisica originaria. Infine possono essere considerate metafisiche idealistiche la filo­ sofia del prim o Fichte, che fa derivare ogni cosa dall’Io puro, conce­ pito come attività autoponentesi, e riduce la natura a un semplice N o n ­ io posto dall’Io, e D io stesso al com pito infinito che l’Io ha di realiz­ zare se stesso superando continuamente il N on-io; o quella del primo Schelling, il quale risolve la natura nello Spirito ed entrambi nell’iden­ tità indifferenziata di un A ssoluto coglibile solo attraverso l’intuizio­ ne estetica. In un senso diverso è una metafisica idealistica la filosofia di H e ­ gel, il quale afferma l’idealità, cioè la non realtà, del finito e la realtà soltanto dell’Idea, o Ragione, o Spirito assoluto, di cui la natura e gli spiriti finiti sono solo delle oggettivazioni o dei momenti transitori. M a è giusto parlare di metafisiche idealistiche anche a proposito delle varie forme di neohegelismo, quali quello inglese, rappresentato soprattutto da Bradley, per il quale il m ondo dell’esperienza è soltan­ to apparenza, mentre l’unica realtà è la coscienza assoluta, e quello italiano, rappresentato da Bertrando Spaventa, che risolve l’intera realtà nella Mente, e da Giovanni Gentile, che la risolve nell’A tto puro del pensiero assoluto. Gentile, anzi, non esita ad affermare che tale A tto è D io e che la sua filosofia è una form a di metafisica, anzi di religione, o addirittura di mistica, perché riconduce tutto a D io e concepisce il pensiero stesso come immedesimazione con D io. 4. Le metafisiche della partecipazione Il termine metafisica è usato in senso più proprio per indicare tutte quelle filpsofie che, nell’intento di trovare una spiegazione ultima della realtà, cioè un principio capace di spiegare la totalità del reale, iden­ tificano tale spiegazione con uno o più princìpi '"trascendenti” rispet­

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to al m ondo delFesperienza, cioè diversi da questo, posti a un livello di realtà superiore, senza tuttavia risolvere in essi il m ondo delFespe­ rienza, ma mantenendolo da essi distinto. Anche questo tipo di me­ tafisica, come il precedente, comprende tuttavia forme diverse di fi­ losofia, a seconda di come viene concepita la trascendenza, cioè il rapporto tra il m ondo delfesperienza e il principio. U no dei m odi più diffusi e tradizionali di concepire la trascenden­ za è quello basato sul rapporto di ''partecipazione'', espressione metaforica risalente a Platone per indicare il rapporto tra una realtà che possiede un certo carattere a titolo proprio, e dunque in form a perfetta, o eminente, e altre realtà che possiedono lo stesso carattere, ma a titolo derivato dalla prima, e dunque in form a imperfetta, o parziale. In tali casi, pertanto, si dice che queste ultime realtà "parte­ cipano", cioè prendono parte, hanno in sé una parte, del carattere della prima, mentre la prima possiede tale carattere "per essenza” . Può essere considerata una metafisica di questo tipo la filosofia di Parmenide, se si condivide l'interpretazione di essa data da alcuni studiosi (Jaeger, 1947), secondo cui l'Essere parmenideo {to eòn) che è certamente essere per essenza, perché «non è possibile che non sia» (D iels-Kranz, 28 B 2) - sarebbe trascendente rispetto al mondo dell'esperienza, il quale, non essendo per sua propria essenza, perché caratterizzato dal mutamento, cioè dalia m escolanza di essere e non essere, non potrebbe essere che per partecipazione. D el resto, la con­ notazione del principio parmenideo come "essere", cioè per m ezzo della nota comune a tutto ciò che è, suggerisce proprio un rapporto di partecipazione tra esso e gli altri enti. In ogni caso, come vedremo subito, il tema dell'essere per essenza rimane alla base di tutte le metafisiche della partecipazione. Certamente è una metafisica della partecipazione la filosofia di Platone, il quale è anzi l'inventore del termine {mèthexis^ da methèchein^ avere in comune con, quindi partecipare, o metàlepsis^ da metalambànein^ prender parte). Per Platone, infatti, la vera realtà, cioè la realtà nel senso pieno, l'essere propriamente detto, è solo il m ondo delle idee, mentre le realtà sensibili esistono e hanno i caratteri che le con­ traddistinguono solo per partecipazione alle idee. Le idee sono inol­ tre modelli delle cose, quindi possiedono i propri caratteri in forma

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perfetta ed esemplare, mentre le cose sono copie o immagini delle idee, quindi derivano i propri caratteri da queste, e li possiedono in grado minore, ovvero in m odo parziale. Le idee a loro volta partecipano delFidea suprema, che è il Bene,

oFU no o, secondo la testimonianza di Aristotele {Metaph. Ili 4,1001 a 23), l’Essere stesso (auto on), cioè un principio che è bene, uno ed essere "per essenza” , e dunque è causa esemplare di essere, di unità e di bontà per tutte le altre cose. Sempre secondo la testimonianza di Aristotele, Platone avrebbe ammesso (nelle cosiddette dottrine non scritte) come realtà intermedie tra l’U no e le idee i numeri ideali e come realtà intermedie tra le idee e le realtà sensibili gli oggetti delle matematiche (Metaph, 1 6). Tutte queste realtà si genererebbero dalla partecipazione all’U no di un principio a esso opposto, la cosiddetta Diade indefinita. Alla dottrina della partecipazione si affiancano così, come altrettante caratteristiche di questo tipo di metafisica, l’esemplarismo e la visione della realtà come una serie di gradi, che potrem ­ mo chiamare gradazionismo. Sono poi metafisiche della partecipazione tutte le forme di plato­ nismo, a cominciare dalle filosofie dell’Accademia antica, che ugual­ mente fecero derivare tutte le cose dalla partecipazione all’U no di un principio a esso opposto. Alcune di queste (Speusippo) posero l’U no al di sopra dell’essere e del bene, identificando quest’ultimo con i numeri matematici, modelli eterni delle realtà sensibili, mentre altre (Senocrate), secondo una recente interpretazione, avrebbero identi­ ficato l’U no-bene di Platone con l’Intelletto (probabilmente per in­ fluenza di Aristotele) e avrebbero concepito le idee come pensieri divini, facendo in tal m odo delle realtà sensibili l’imitazione dei pen­ sieri di D io (Krämer, 1964). Anche in queste metafisiche perm ango­ no dunque la partecipazione, l’esemplarismo e il gradazionismo. In seguito la metafisica di Platone fu utilizzata per tradurre in termini filosofici la rivelazione biblica dall’ebreo Filone di A lessan­ dria, il quale interpretò il D io della Bibbia come l’Essere per essenza, scorgendo la testimonianza di questa identificazione nel fam oso p as­ so dell’Esodo (III, 14), in cui Jahvè dice a Mosè: «Io sono colui che sono». Filone identificò poi la figura biblica della Sapienza di D io con il m ondò delle idee di Platone, facendo di queste i pensieri di D io, ma

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al tempo stesso conservando loro il carattere di modelli eterni delle realtà sensibili. In tale quadro la creazione delle cose dal nulla veniva a configurarsi come una trasm issione delFessere da D io, essere per essenza, alle cose, enti per partecipazione. L'identificazione del D em iurgo platonico con l'essere per essenza e la concezione delle idee come altrettanti pensieri divini furono ri­ prese dal cosiddetto m edioplatonism o, cioè rispettivamente da Plu­ tarco (I secolo d.C.) e da A lbino (II secolo d.C.), mentre un altro m edioplatonico, N um enio, subordinò il D em iurgo all'Essere. C o n ­ temporaneamente i primi filosofi cristiani, in particolare l'apologista Giustino (II secolo), pur conservando il quadro complessivo della metafisica platonica (giudicata più facilmente conciliabile di quella aristotelica con la creazione del m ondo), si impegnavano nella distin­ zione tra la '"generazione" del Verbo divino e la "creazione" del mondo dal nulla, definendo la prima come un processo necessario e la secon­ da come un atto volontario, cioè libero. D alla confluenza di tutte queste posizioni derivò il cosiddetto neoplatonismo, cioè la filosofia di Plotino, Porfirio e Proclo (III-IV secolo), che riprese da Platone la dottrina dell'Uno-bene come prin­ cipio supremo, ora sovraordinandolo all'essere (Plotino), ora identi­ ficandolo con questo (Porfirio), e fece derivare da esso l'Intelletto, comprendente in sé il m ondo delle idee, l'anima del m ondo e le realtà sensibili, secondo una serie di gradi, in cui ciascuno riceve i suoi ca­ ratteri dalla partecipazione al grado superiore, del quale è anche l'im i­ tazione imperfetta. A differenza, tuttavia, dei cristiani, i neoplatonici identificarono il processo, necessario, secondo cui dall'U no deriva l'Intelletto, con quello secondo cui dall'Intelletto deriva ogni altra realtà, sostituendo in tal m odo al concetto biblico di creazione libera quello di derivazione, o generazione, necessaria. Il neoplatonism o influenzò profondam ente la filosofia cristiana antica, sia latina sia greca, in particolare quella di sant'A gostino, che

tuttavia diede origine, come vedremo, a un tipo di metafisica per altri aspetti originale, e quella del cosiddetto pseudo-D ionigi (V-VI seco­ lo) che, specialmente per influenza di Proclo, concepì D io come un bene che si diffonde spontaneamente, trasmettendo l'essere, la vita e il pensiero ai vari enti, secondo una serie digradante di perfezioni. M a

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Finfluenza del neoplatonismo si trasmise anche al medioevo, sia cri­ stiano sia arabo: attraverso lo pseudo-D ionigi, ad esempio, fu influen­ zato dal neoplatonismo Giovanni Scoto Eriugena (IX secolo), che fece derivare da D io mediante un unico processo il Verbo divino e le realtà create, senza più distinguere fra generazione e creazione. Sipossono considerare metafisiche della partecipazione anche tutte le filosofie elaborate nel medioevo sia dagli arabi sia dai cristiani sulla base del concetto biblico di creazione. A d esempio, la distinzione introdotta da Al-Farabi tra essenza ed esistenza, che porta a conce­ pire D io come Tessere in cui essenza ed esistenza coincidono e le creature come gli enti in cui essenza ed esistenza sono separate, sup­ pone che D io sia essere per essenza e le creature siano esseri per par­ tecipazione. Ugualmente la distinzione introdotta da Avicenna nella nozione univoca di essere tra essere necessario ed essere contingente suppone che D io, essere necessario, sia per essenza, e le creature, esseri contin­ genti, abbiano Tessere per partecipazione alTessere di D io. Lo stesso si può dire per i filosofi cristiani, in particolare per san Bonaventura, che concepisce D io come VEsse ipsum (stessa espres­ sione usata da Platone) e le realtà create come imitazioni in vari gradi dell’essere divino, nonché per san Tom m aso d’A quino che, grazie alla distinzione introdotta da Avicenna, concepisce VEsse ipsum come Tente in cui Tessere coincide con la sua essenza, la quale è Tatto stesso di essere, e le creature come enti il cui essere è distinto dalla loro es­ senza ed è, appunto, per partecipazione dell’essere divino. Tom m aso si distingue da Avicenna per il fatto di affermare l’analogia tra Tessere di D io e quello delle creature, ma si tratta di un analogia attrihutionis^ simile a quella esistente tra la sostanza e gli accidenti, in cui tra 'Aprinceps analogatum e gli altri termini esiste appunto un rapporto di parteci­ pazione. D i tale rapporto, del resto, è espressione emblematica l’argomento per dimostrare l’esistenza di D io detto ex gradihus entium^ professa­ to da vari filosofi cristiani, da sant’Anseim o, che ne diede una quadru­ plice form ulazione del Monologion, a Tom m aso d ’Aquino, che ne fece la quarta delle sue famose "Vie” . E sso infatti presuppone proprio che D io possieda in grado m assim o le stesse perfezioni che sono di­

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stribuite in vari gradi, per partecipazione, nelle realtà create. Dello stesso tipo è, infine, la metafisica di D uns Scoto, in cui viene ristabilita Funivocità dell'essere e viene affermata soltanto una distinzione di "m o d i" tra l'essere infinito di D io e quello finito delle creature. Sono inoltre riconducibili, naturalmente con le dovute distinzio­ ni, alla metafisica della partecipazione tutte le filosofie rinascimentali e moderne ispirate al platonism o, o al neoplatonism o, per esempio quella di N icolò Cusano, secondo cui D io contiene in sé per "co m ­ plicazione", oper "contrazione" l'intero universo, il quale non è altro che l'"esplicazione" di D io; o quella di M arsilio Ficino, secondo cui la realtà si ordina secondo cinque essenze o piani digradanti; o quella di Giovanni Pico della M irandola, secondo cui l'universo è l'estrin­ secazione delle dieci forze divine (i sefirot) in altrettante sfere di real­ tà; o quella di Tom m aso Campanella, secondo cui tutte le cose p o s­ siedono tre "prim alità" che sono l'im pronta del creatore. Altrettanto si può dire del pensiero dei cosiddetti "platonici" di Cam bridge, per esempio H enry M oore, che ammette una gerarchia di gradi della realtà da D io fino alla materia, o Ralph Cudw orth, che crede in una forza spirituale immessa da D io nella natura (la "natura plastica"), la quale imprime movimento alla materia e ordina finali­ sticamente l'universo. U n altro caso di metafisica platonizzante è la filosofia di Malebranche, secondo cui in D io sono presenti le idee di tutte le cose, che di esse sono immagini, e D io è causa persino del movimento dei corpi. Tracce di metafisica della partecipazione, inoltre, si possono tro­ vare nella filosofia dell'ultimo Fichte, dove si sostiene che l'A ssoluto è un essere identico a se stesso, inattingibile e ineffabile, uno stato vivente di luce, fonte di ogni apparizione nella luce; o in quella del­ l'ultim o Schelling, dove si delinea il processo con cui D io si realizza nel m ondo, prima come natura e poi come libertà e persona. M a ancora più chiara è la metafisica della partecipazione nella fi­ losofia di Rosmini, secondo cui il Verbo divino è la piena attuazione dell'idea dell'essere, cioè dell'essere ideale, il quale viene partecipato agli altri esseri intelligenti, dove l'idea dell'essere non è che una par­ tecipazione del Verbo divino; o in quella di Gioberti, secondo cui D io è l'Ente stesso, perché ha il suo essere in sé e ha in sé le ragioni delle

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realtà create, che sono dette soltanto ""esistenti” , perché hanno la p ro ­ pria ragion d'essere fuori (ex) di sé. Infine la metafisica della partecipazione è presente in quelle ripre­ se dalla filosofia di Aristotele che interpretano la sua concezione dell'essere sulla scorta della Scolastica, attribuendogli una teoria del­ l'analogia di attribuzione, come accade in Franz Brentano e nel primo Heidegger (Berti, 1992), o in quelle forme di neotom ism o che accen­ tuano m aggiorm ente gli aspetti neoplatonizzanti del pensiero di Tom m aso, per esempio nel pensiero di Etienne Gilson, diL.-B . Geiger e di Cornelio Fabro. 5. Le metafisiche delVesperienza U n tipo di metafisica, sotto molti aspetti diverso da quella della par­ tecipazione, pur nella comune affermazione della trascendenza del principio rispetto al m ondo dell'esperienza, è costituito da quelle filosofie che si possono caratterizzare come ""metafisiche dell'espe­ rienza'' per il fatto che non partono dal riconoscere in quest'ultima la presenza di caratteri simili a quelli posseduti in m odo eminente dal principio, cioè da D io, quali l'essere, l'unità, la bontà, la perfezione, ma al contrario sottolineano i caratteri che sono propri esclusivamen­ te dell'esperienza e che la distinguono dal principio, quali la m olte­ plicità, il divenire, le differenze, la precarietà, 1'"" eventualità'', renden­ do in tal m odo m olto più netta la trascendenza di quello. In genere, poi, queste metafisiche si assum ono l'onere di dimostrare il più rigo­ rosamente possibile la necessità di un principio trascendente, proprio perché considerano la sua esistenza tutt'altro che evidente. Il fondatore di questo tipo di metafisica può essere considerato ad honorem, perché sicuramente non ne era consapevole, A nassagora, il quale spiegò l'ordine del m ondo ammettendo che le cose siano state separate dalla m escolanza in cui originariamente si trovavano a opera di un movimento prodotto da un Intelletto superiore, concepito come puro, cioè non mescolato alle realtà sensibili, e quindi trascendente. G ià Platone e Aristotele tuttavia, pur apprezzando questa dottri­ na, espressero delle riserve nei confronti dell'uso che Anassagora faceva dell'Intelletto trascendente, osservando che egli si limitava a farlo

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intervenire come una sorta di deus ex machina ogniqualvolta non trovasse altra spiegazione dei fenomeni sensibili. C olui che form ulò questo tipo di metafisica nel m odo più rigoro­ so, da molti considerato anzi classico, fu Aristotele, benché in Platone si trovino già tracce consistenti di essa, per esempio nella dottrina del Filebo^ secondo cui la causa della m escolanza fra il limite e Fillimitato, che dà origine al m ondo del divenire, sarebbe una mente divina (30 CD ), o nella dottrina del Timeo^ secondo cui «tutto ciò che nasce richie­ de una causa» diversa da sé, perché prima non esiste e dunque non può essere causa di sé, e questa causa va ricercata in un principio intelli­ gente (il Dem iurgo, cioè D io). Aristotele ha rilevato come la natura (physis)^ la quale comprende tutto ciò che ha in sé il principio del m oto e della quiete, e dunque tutto ciò che è mobile (com preso Fuomo), ha bisogno in ultima ana­ lisi di un prim o motore immobile {Phys. V ili), il quale, per essere puro atto, non può essere se non pensiero {Metaph. X II). N ella form ulazione più matura del suo pensiero, cioè quella espo­ sta nei libri centrali della Metafisica, Aristotele ha formulato questa dottrina a partire dalla multivocità (cioè molteplicità di significati) delFente in quanto ente, risultante dalFesperienza delle differenze e del divenire, e dal rilievo del prim ato che tra essi spetta alla sostanza, dalla quale "'dipendono” (èrtetai) come da un principio, sia quanto alla nozione sia quanto all’essere, le altre categorie di enti {Metaph. IV 2,1003 b 17). Indi egli ha m ostrato che la com posizione delle sostanze sensibili da parte di materia e forma, ovvero, in termini dinamici, di potenza e atto, ugualmente risultante dalFesperienza, esige il ricono­ scimento della priorità delFatto {Metaph. V II-V III-IX ) e quindi, in ultima analisi, di un atto puro, dal quale ugualmente "dipen dono” {ertetai) come da un principio il cielo e tutta la natura {Metaph. X II

7, 1072 b 13-14). Aristotele, a differenza da Platone, non ammette alcun rapporto di partecipazione tra il principio e le altre cose, perché non concepisce il principio come l’essere stesso, ma soltanto come il primo tra gli enti, cioè come un ente la cui essenza è costituita dalla form a più alta di atto. Fattività del pensiero, l’unica attività compatibile con la perfetta immobilità (detta perciò enèrgeia akinesìas, Eth. Nic. VII 15,1154 b

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27). Egli anzi critica esplicitamente Fammissione, da parte di Platone, di un "ente stesso"" {auto on)^ avente per essenzalo stesso essere, perché essa conduce, a suo giudizio, a ridurre tutte le cose a una, come faceva Parmenide, il che è manifestamente in contrasto con Pesperienza {Metaph. I li 4, 1001 a 19-b 1). Q uanto, infine, alla dottrina della partecipazione e delPimitazione, Aristotele la giudica un «parlare a vuoto e dire metafore poetiche» {Metaph. I 9, 991 a 21-22). La metafisica di Aristotele, nella sua form a originale, non ha avuto molta fortuna nel corso dei secoli, proprio a causa delPenorme for­ tuna che hanno avuto invece le varie riform ulazioni di essa in termini neoplatonizzanti, cristiani e musulmani. Il neoplatonism o, infatti, come è noto, cercò di conciliare Aristotele con Platone, inserendo le categorie aristoteliche (sostanza e accidenti, materia e forma, potenza e atto) nel quadro di una metafisica fondamentalmente platonizzante, cioè basata sulla nozione di partecipazione, e questa metafisica fu trasmessa come aristotelica prima agli arabi e poi, anche attraverso alcune opere neoplatoniche falsamente attribuite ad Aristotele (il Liber de causis e la Teologia Aristotelis)^ alla Scolastica cristiana. Gli stessi esponenti più aristotelizzanti di questa, cioè Alberto M agno e T om ­ maso d" Aquino, riproposero la metafisica aristotelica in termini, come abbiamo visto, di partecipazione. Solo dopo Pumanesimo rinascimentale si tornò allo studio delle opere genuine di Aristotele, ma Pinteresse degli aristotelici, specialmente padovani (Zabarella, Cremonini), che allora erano i più fam osi d"Europa, era ormai rivolto prevalentemente alla logica e alla fisica. L"interesse per la metafisica rifiorì nelPambito della cosiddetta Se­ conda Scolastica, che tuttavia operò una nuova trasform azione del pensiero aristotelico, facendone la base della metafisica razionalistica moderna. G ià Francisco Suarez, come abbiamo visto, sostituì, come oggetto della metafisica, all"ente in quanto ente di Aristotele, che nella sua multivocità esprimeva la varietà e la mobilità delPesperienza, il concetto di rc5, o di aliquid^ intendendolo univocamente come il sem­ plice non nihil. D a quel momento in poi si produsse la scissione tra metafisica generale, o ontologia, e m etafisica speciale, o teologia, rom pendo quel nesso tra esperienza e principio che costituiva lo specifico della metafisica di Aristotele.

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Si ebbero così le metafisiche di D escartes e di Leibniz, costituite essenzialmente dallo studio delle sostanze spirituali (rispettivamente la res cogitans e le monadi), indipendentemente dall’esperienza, e la metafisica di W olff, che consacrò definitivamente la separazione fra ontologia e teologia razionale. Anche la riproposizione delFaristotelismo, avvenuta nelFOttocento a opera di Trendelenburg e di Bren­ tano, fu compiuta attraverso contam inazioni con Kant o con la Sco­ lastica, mentre una ripresa genuina di alcuni temi aristotelici si è avuta soltanto nel Novecento, a opera della filosofia analitica post-neopositivistica, specialmente con Austin, Ryle, Strawson, Kripke, Wiggins, Hamlyn, i quali però hanno lasciato completamente cadere l’aspetto teologico di essa (Berti, 1992). U na vera e propria proposta di metafisica dell’esperienza, di segno fondamentalmente aristotelico, infine, si è avuta in Italia intorno alla metà di questo secolo, a opera di due filosofi cristiani formatisi nel clima dell’attualismo gentiliano, cioè G ustavo Bontadini e M arino Gentile, che si sono richiamati entrambi alla cosiddetta metafisica classica. Q uesta espressione, in particolare, è stata introdotta per la prima volta da M arino Gentile, che aveva studiato la Metafisica di Aristotele alla Scuola N orm ale di Pisa sotto la guida di Arm ando Carlini (della cui traduzione curò l’indice), tenendo conto dei risul­ tati raggiunti dalla (allora) più recente e sofisticata filologia tedesca, cioè degli studi di Werner Jaeger e Julius Stenzel. In un corso da lui tenuto come libero docente all’Università Cattolica di Milano nel 193435, Gentile infatti descrisse l’emergere del concetto di atto puro nel libro X II della Metafisica di Aristotele come "la nascita della metafi­ sica classica” . U n prim o esempio della nuova metafisica, costruita nel segno del richiamo alla metafisica classica, fu fornito da Bontadini nel 1938 con il Saggio di una metafisica delVesperienza^ dove egli fece tesoro del­ l’insegnamento attualistico secondo il quale il pensiero è intrascendi­ bile, ma interpretò l’atto del pensiero, che Giovanni Gentile aveva assolutizzato, come 1’"unità dell’esperienza” , cioè come un’esperienza unica che comprende in sé soggetto e oggetto, conoscere ed essere. Osservando poi che tale esperienza non possiede i caratteri dell’asso­ lutezza, a causa della molteplicità e del divenire che la caratterizzano.

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Bontadini affermò la necessità di trascenderla mediante Finferenza propriamente metafisica e quindi di porre FA ssoluto come trascen­ dente rispetto a essa. N ei suoi ultimi scritti, infine, Bontadini ha di­ chiarato la contraddittorietà del divenire quale emergere dell’essere dal nulla e risolversi dell’essere nel nulla, a suo avviso immediatamen­ te dati nell’esperienza, nonché la necessità, per il principio di non contraddizione, di rimuovere tale contraddittorietà mediante la p o ­ sizione di un principio creatore (Bontadini, 1971). Contemporaneamente M arino Gentile, con il saggio su ‘‘Il valore classico della metafisica antica” , pubblicato in appendice a La meta­ fisica presofistica (1939), e poi con la memoria su La problematicità pura (1941-42, ristampata in Filosofia e umanesimo^ 1948), identifica­ va anch’egli Fatto gentiliano con l’esperienza, intesa come unità di soggetto e oggetto, pensiero ed essere, ma affermava il carattere total­ mente problem atico di tale esperienza, dovuto ugualmente alla sua molteplicità e m obilità, che ne rivela la m ancanza di assolutezza; pertanto concludeva direttamente alla necessità di un principio, che offra la soluzione adeguata alla problematicità dell’esperienza senza tuttavia estinguerla, e perciò sia assolutamente trascendente rispetto a essa. N ei suoi ultimi scritti (1987) M arino Gentile ha concepito tale principio aristotelicamente come Intelligenza. Q uesto tipo di meta­ fisica sarà oggetto di una più ampia esposizione nel seguito del pre­ sente lavoro. U n tipo particolare di metafisica dell’esperienza, che assume come punto dipartenza dell’itinerario metafisico l’esperienza interiore, cioè soggettiva, che l’uom o fa di sé indipendentemente dal mondo, ovvero dalle realtà a lui esterne (la natura, la società, la storia), richiede una descrizione a sé, per la fortuna che esso ha avuto nella storia del pen­ siero, ma in realtà fa parte del tipo più generale di metafisica dell’espe­ rienza che abbiamo descritto, con alcuni elementi di metafisica della partecipazione. Anch’esso può essere fatto risalire a Platone, in particolare alla sua dottrina dell’eros come desiderio di un Bello assoluto, esposta nel Convito e neìFedro^ nonché ad Aristotele, in particolare a quella specie di dim ostrazione dell’esistenza di D io che nel Dephilosophia (fr. 12 R oss) égli sviluppa a partire dagli “ avvenimenti” che si producono

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neiranim a (ispirazioni e divinazioni). E sso inoltre è stato presente in qualche misura anche in Plotino, per la sua sottolineatura del bisogno di assoluto che è proprio delFanima umana. M a il fondatore e il maggiore esponente di questo tipo di metafi­ sica deve essere considerato sant’A gostino, il quale proprio dall’espe­ rienza dell’errore ricava l’esistenza della verità {si fallor, sum, cfr. Contra Académicos)j la conseguente necessità di cercare la verità nella vita interiore {noliforas ire, in te ipsum redi, in interiore homine ha­ bitat veritas) e infine la necessità, una volta constatata la m utevolezza di tale esperienza, di oltrepassarla per affermare l’esistenza di una Verità trascendente {et si tuam naturam mutahilem inveneris, transcende et te ipsum, cfr. De vera religione). Altre espressioni di questa metafisica sono presenti ow iam ente in alcune forme di agostinismo, sia medioevale sia moderno. A d esem­ pio, può essere considerato tale il fam oso argomento sviluppato da sant’Anseim o nel Proslogion, che ricava l’esistenza di D io dall’idea che tutti, anche i non credenti, ne hanno; così come può essere con­ siderato tale l’argomento per dimostrare l’esistenza di D io che D e ­ scartes sviluppa a partire dal dubbio come segno di imperfezione e dunque del fatto che non ci siamo creati da noi stessi. Sono poi forme di metafisica dell’esperienza interiore tutte le metafisiche cosiddette spiritualistiche, da quella di Maine de Biran, che concepiva il senti­ mento dell’io come sforzo e aspirazione all’A ssoluto, a quelle di Ravaisson, Lequier, Lachelier, che interpretano le aspirazioni e la libertà dell’uom o come altrettanti segni della necessità di un A ssoluto trascendente, a quelle di Bergson e di Blondel, fondate rispettivamen­ te sull’intuizione e sull’esigenza della volontà. N el Novecento le metafisiche spiritualistiche sono frequenti so ­ prattutto nei pensatori religiosi, anzi cattolici, come i francesi Bavel­ le, Le Senne, Marcel, e gli italiani Carlini, G uzzo, Sciacca, Stefanini. M a questo tipo di metafisica è stato riproposto recentemente anche in Germania, a opera di Dieter Henrich (1982), il quale ha affermato la necessità di oltrepassare la molteplicità di ciò che è dato nella co­ scienza delle cose del m ondo e del proprio io, cioè di oltrepassare la cosiddetta coscienza naturale, per attingere un U no trascendente. È interessante il fatto che la proposta di Henrich abbia avuto il consen-

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so di un teologo protestante come Pannenberg {Videa di Dio e il rin n o v a m e n to della metafisica^ N apoli 1991).

6. Le principali critiche alla metafisica Naturalm ente la metafisica, essendo la disciplina filosofica più im pe­ gnativa, cioè quella che si avventura in ambiti che per definizione oltrepassano quelli della conoscenza scientifica e pertanto si sottrag­ gono alle form e di controllo che sono consuete nei procedimenti scientifici, è stata sottoposta sin dalle sue origini a una serie di critiche molto serrate e a volte anche violente, che sono giunte a contestarne non solo la legittimità, cioè la validità dal punto di vista conoscitivo, ma la stessa sensatezza, e addirittura l’onestà dal punto di vista m o­ rale. C iò significa che essa è stata considerata non solo impossibile come conoscenza, ma anche discorso incomprensibile e addirittura imbroglio. Vale la pena, pertanto, di accennare almeno alle principali fra tali critiche. Si può dire che la più antica critica alla metafisica è costituita dal movimento della Sofistica, nato dalla crisi in cui era caduta la fisica presocratica in conseguenza della negazione eleatica del movimento (Parmenide) e della molteplicità (Zenone e M elisso). Il sofista Prota­ gora, di fronte alla diverse “fisiche” pluralistiche nate dal tentativo di reagire all’eleatismo, cioè il pluralism o di Em pedocle, la metafisica di Anassagora e l’atom ism o di Leucippo e D em ocrito, non esitò infatti a proclamare che «tutte le opinioni sono vere», intendendo dire che tutte sono ugualmente false, cioè che non esiste una misura oggettiva della verità, perché solo l’uom o, inteso come soggetto sensibile indi­ viduale, è misura di tutte le cose. L ’altro maggiore sofista. Gorgia, spinse la sua critica direttamente contro Parmenide, sostenendo tutto il contrario delle sue tesi principali, cioè che l’essere non è, che se anche fosse non sarebbe conoscibile e, se anche fosse conoscibile, non sarebbe comunicabile. M a la critica sofistica pecca, per così dire, per eccesso, nel senso che colpisce non solo la metafisica, bensì qualsiasi altra conoscenza o g­ gettiva della realtà, compresa quella che sarà poi la scienza, aprendo alla filosofia esiti di tipo relativistico e addirittura nichilistico. La

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conseguenza estrema a cui tale critica è esposta è la negazione dello stesso principio di non contraddizione, avvenuta a opera di P rotago­ ra, che rischia di rendere del tutto insignificante qualsiasi discorso, o il trionfo di una retorica irrazionalistica, avvenuto con G orgia, che riconosce come unica realtà un /og05, cioè un discorso, onnipotente nella sua assolutezza, cioè capace di persuadere indipendentemente da qualsiasi riferimento ad altro da sé. Probabilmente tale eccesso di critica era giustificato dalPeccesso di metafisica rappresentato dalPeleatismo con la sua presunta negazione del m ondo delPesperienza. U n secondo tipo di critica alla metafisica, sviluppatosi sempre nelPantichità e sotto molti aspetti analogo alla Sofistica, è rappresen­ tato dallo scetticismo, sia nella sua form a originaria, introdotta da Pirrone, sia in quella più tarda, elaborata da Enesidem o e Sesto E m ­ pirico. A nch'esso consisteva infatti nella negazione di qualsiasi veri­ tà, ma vi perveniva attraverso una critica delle teorie della conoscen­ za, o dei ''criteri di verità’', empirica e razionale, elaborati dalle filo­ sofie dell’età ellenistica, cioè soprattutto dallo stoicism o e dall’epicu­ reismo. Ovviamente esso non si sottrae alla critica dello scetticismo implicito nella Sofistica, proposta per la prima volta da Aristotele con l’osservazione che la negazione di qualsiasi verità finisce col negare anche se stessa {Metaph. IV 8). Per tale motivo lo scetticismo venne notevolmente attenuato dal suo ultim o rappresentante antico, cioè Sesto Em pirico. Tuttavia dal punto di vista storico esso era piena­ mente giustificato, dato il carattere immediato, e quindi dogm atico, dei criteri di verità proposti dagli stoici e dagli epicurei (sostanzial­ mente l’evidenza empirica). N el medioevo, comunemente considerato l’epoca metafisica per eccellenza, non mancarono forti critiche alla metafisica, che presero form a in due atteggiamenti strettamente connessi l’uno all’altro, cioè il nominalismo e il fideismo. Il prim o fu introdotto, come è noto, da Roscellino a proposito della controversia sugli universali e consistet­ te nella negazione dell’esistenza di qualsiasi universale, sia nella men­ te di D io {ante rem)^ sia nelle cose {in re), sia nella mente dell’uom o {post rem)j ovvero nella riduzione degli universali a semplici nomi, emissioni di voce {flatus vocis). Anche il nominalismo, giustificato probabilmente dagli eccessi della tesi platonizzante, secondo cui gli

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universali non solo esistono, ma precedono lo stesso mondo dell’espe­ rienza, e quindi costituiscono la realtà più vera, rischiava di cadere nell’eccesso opposto, rendendo im possibile non solo la metafisica, ma qualsiasi conoscenza concettuale, cioè scientifica, della realtà. N el suo maggiore e più sofisticato esponente, Guglielm o di O c­ cam, il nominalismo si sposò significativamente con il fideismo, as­ sociando alla negazione della metafisica neoplatonizzante di B ona­ ventura, Tom m aso d’Aquino e D uns Scoto la proclamazione che tutto ciò che concerne D io, persino la questione della sua esistenza, è o g­ getto soltanto di fede. Ora, che una fede religiosa sia in qualche m odo presupposta da tutti i metafisici medioevali, cristiani, musulmani ed ebrei, è fuori discussione; ma tale critica perde qualsiasi efficacia nei confronti degli antichi metafisici greci, i quali ignoravano compietamente la Bibbia e non filosofavano certamente all’interno di una fede religiosa. E significativo pertanto il fatto che le successive forme di fideismo sviluppatesi nell’ambito della Riform a, non senza l’influen­ za dell’occamismo, ad esempio con Lutero, si siano caratterizzate tutte per un deciso rifiuto del valore della cultura classica, cioè greco-latina precristiana. Il nominalismo produsse in O ccam anche la prima form a di critica del rapporto di causalità, secondo la quale nell’esperienza sensibile, che è l’unica conoscenza possibile, si hanno intuizioni separate della causa e dell’effetto, tali per cui l’una non include l’altra e quindi dall’una non si può ricavare l’altra. E curiosa l’affinità tra questa critica e quella che verrà formulata dal più grande empirista e nominalista moderno, D avid Hume, secondo il quale i soli collegamenti che l’espe­ rienza può attestare tra l’evento che si considera causa e quello che si considera effetto sono la contiguità nello spazio e la successione nel tempo, le quali per l’abitualità del loro presentarsi vengono scambiate con il rapporto di causalità. L ’esempio fatto da Hum e è quello del movimento di un corpo che, per urto, produce il movimento di un altro corpo (Opere filosofiche^ trad. it., voi. I, p. 89). Potrebbe sembrare che una simile critica dell’idea di causalità fo s­ se fatale per la metafisica, e tale essa è stata ritenuta da molti, dato che la metafisica sin dal tempo di Aristotele è stata definita come ricerca delle cause prime: in realtà essa lo è solo per una metafisica che con­

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cepisca la causalità come un nesso tra due eventi contigui nello spazio e successivi nel tempo. O ra questo tipo di metafisica è ravvisabile attraverso le citazioni fatte dallo stesso H um e (H obbes, Locke e Clarke), cioè si tratta della metafisica fondata sulla fisica meccanici­ stica moderna, in particolare sulla meccanica newtoniana. Il concetto di causalità impiegato da altre metafisiche, ad esempio da quella ari­ stotelica, è in realtà molto diverso ed è ammesso dallo stesso Hum e nel momento in cui questi si chiede «per quale ragione diciamo neces­ sario che tutto ciò che ha un cominciamento debba avere una causa?», o «per quale ragione affermiamo che certe cause particolari debbano necessariamente avere certi effetti particolari?» (ivi, p. 90). La critica alla metafisica considerata decisiva dalla m aggior parte dei filosofi moderni e contemporanei è sicuramente quella di Kant, tanto che ormai è invalso l’uso di dire che ""dopo Kant la metafisica non è più possibile” . Naturalm ente ci riferiamo non agli usi positivi che, come abbiamo visto, lo stesso Kant fa del termine metafisica, ma alla critica da lui sviluppata alla psicologia razionale, alla cosm ologia razionale e alla teologia razionale nella parte della Critica della ragion pura dedicata alla dialettica trascendentale. Si tratta, come è noto, dell’osservazione che la psicologia razionale, cioè la dim ostrazione dell’esistenza dell’anima intesa come sostanza spirituale, è fondata su un paralogism o, cioè sullo scambio del soggetto logico dell’ ""io pen­ so ” con un soggetto reale; della dottrina secondo cui la cosm ologia razionale, cioè la dimostrazione dell’esistenza del m ondo inteso come ""cosa in sé” , conduce a insuperabili antinomie; e della critica alle dim ostrazioni dell’esistenza di D io tradizionalmente usate dalla teo­ logia razionale, cioè quella ontologica, quella cosm ologica e quella fisico-teologica. Forse vale la pena di richiamare almeno queste ultime. 1) Il cosiddetto argomento ontologico, che pretende di dedurre l’esistenza di D io dall’idea della sua essenza, non regge perché l’esi­ stenza non è una perfezione che possa essere com presa accanto ad altre nell’essenza di alcunché, come risulta ad esempio dal fatto che l’esistenza o meno di cento talleri nelle mie tasche non incide mini­ mamente sulla nozione, cioè sull’essenza, di essi.

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2) Il cosiddetto argomento cosmologico, che argomenta l'esistenza di D io dalla necessità che il m ondo abbia una causa, non regge perché la categoria di causalità, che in sé è a priori^ e quindi vuota, dà luogo ad autentica conoscenza solo se viene applicata a un oggetto di espe­ rienza, il che nel caso di D io non si può dire. 3) Il cosiddetto argomento fisico-teologico, che desume la neces­ sità di un essere intelligente dalla constatazione dell'ordine finalistico del m ondo, è solo un argomento empirico, basato sull'analogia con l'arte umana, e comunque non prova l'esistenza di un D io creatore. Ebbene, anche queste critiche, come è inevitabile, sono storica­ mente situate, cioè hanno come bersaglio la metafisica razionalistica moderna, in particolare la psicologia razionale di Descartes, che de­ duce dalla certezza del cogito l'esistenza dell'anima come res cogitans; la cosm ologia razionale di quanti vedono nel m ondo, come D escar­ tes, una realtà inattingibile dal nostro pensiero, la cui esistenza ci può essere garantita solo dalla veridicità divina, o nelle sostanze, come Locke, un substratum ohscurum inattingibile dalla nostra esperienza; e la teologia razionale fondata su argomenti come quello ontologico, formulato ugualmente da D escartes, e quelli cosm ologico e fisico­ teologico formulati da Leibniz e dai suoi seguaci (Wolff e Baumgarten). L o stesso Kant nell'ammettere l'inevitabilità, per la ragione, e anzi la legittimità di un'idea dell'incondizionato come unica condizione capace di ricondurre a unità l'intera esperienza, riconosce l'esigenza che sta alla base, per esempio, della metafisica aristotelica, e se non ammette che tale idea possa tradursi in effettiva conoscenza, è perché non concepisce altra possibile conoscenza che quella della scienza, in particolare della fisica newtoniana, risultante a suo avviso da una sin­ tesi tra concetti ed esperienza. Perciò, quando, nei Prolegomeni a ogni futura metafisica che si presenterà come scienza^ Kant esclude che la metafisica possa mai essere scienza, ha ragione se per '"scienza" inten­ de la scienza di tipo newtoniano, quale pretendeva di essere la meta­ fisica moderna, ma non ce l'ha se per scienza intende qualsiasi p o ssi­ bile conoscenza razionale, quale ad esempio si può riscontrare in alcune metafisiche antiche o medioevali. Purtroppo quanti sostengono che "d o p o Kant la metafisica non è

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più possibile"" non si preoccupano minimamente di distinguere i di­ versi possibili tipi di metafisica e, facendo di ogni erba un fascio, applicano la critica kantiana a qualsiasi metafisica passata, presente e futura. E singolare che ciò venga fatto in genere a opera degli stori­ cisti, ossia di quanti considerano, con Hegel, la successione cronolo­ gica dei sistemi filosofici come una successione logica di determina­ zioni ideali, per cui le filosofie più antiche sono le più povere e astrat­ te, mentre le più recenti sono le più ricche e concrete, vale a dire le più vere {Lezioni sulla storia della filosofia^ trad. it., voi. I, pp. 41 e 53). Essi infatti, in quanto attribuiscono alla storia un valore anche assiologico, dovrebbero essere i più attenti alle differenze e i meno proclivi alle confusioni storiche. C iò non si può dire per quelFaltra form a di critica alla metafisica che è rappresentata dal positivism o, in particolare da Com te, il quale, proponendo come "legge"" della storia la successione dei tre stadi, teologico, metafisico e positivo, individua nella metafisica, intesa come categoria unica e del tutto indifferenziata, una razionalizzazione della fede religiosa, cioè un discorso astratto, che pretende di spiegare i fenomeni naturali in base a cause prime im personali ma del tutto inverificabili, e perciò destinato a essere necessariamente soppiantato dalle scienze positive. Queste ultime, pertanto, non si collocano ac­ canto alla metafisica, o prima della metafisica, ma dopo la metafisica e al posto di essa, così come, secondo Com te, la metafisica si colloca dopo la fede religiosa (la "teologia"") e al posto di essa. Il colmo della confusione si raggiunge con Engels, il fondatore del materialismo dialettico, il quale núVAnti-Dühring divide praticamente tutte le filosofie in due grandi categorie, quelle metafisiche e quelle dialettiche, caratterizzando le prime come concezioni secondo le quali le cose e i concetti sono realtà statiche, rigide, isolate l"una dalFaltra, e le seconde come concezioni secondo le quali le cose sono in m ovi­ mento e connesse l"una con Faltra. Alla prim a categoria, cioè alla metafisica, apparterrebbero, secondo Engels, le filosofie di Bacone e di Locke, mentre alla seconda apparterrebbero le filosofie di D iderot, di Rousseau, di H egel e di... Aristotele! (M arx-Engels, Opere comple­ te ^X X V , pp. 19-20). Dello stesso avviso saranno poi anche Lenin e M ao. In tal m odo A ristotele, autore della prim a opera intitolata

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Metafisica^ viene escluso dalla metafisica, anche se a buon diritto, per il m odo in cui questa viene intesa. U na semplificazione non minore è presente in colui che si può forse considerare il più radicale critico moderno della metafisica, cioè Nietzsche, malgrado la perizia filologica e la conoscenza del mondo greco che indubbiamente egli possedeva. Q uesti, infatti, dapprima fa propria la critica kantiana alla metafisica, ad esem pio quando, in Umano, troppo umano (1878), egli presenta la metafisica come pre­ tesa conoscenza di un m ondo ideale, di pure essenze, ovvero della kantiana ""cosa in sé” , e la liquida con Fosserv^azione che «del mondo metafisico non si potrebbe predicare nulFaltro che un essere altro, un essere altro a noi inaccessibile e incomprensibile». M a da posizioni kantiane N ietzsche passa a posizioni nettamente positivistiche, contribuendo alla diffusione di quella ""scuola del so ­ spetto” di cui è considerato con M arx e Freud uno dei principali rap­ presentanti, quando afferma che, per liberarci dalla metafisica, basta ricorrere a una «chimica delle idee e dei sentimenti», la quale metta in luce che cosa c"è sotto il presunto bisogno metafisico. E d ecco il ri­ sultato delFanalisi: «A tutti coloro che millantano la scientificità della loro metafisica, non bisogna affatto rispondere; basta tirare il fagotto che essi tengono alquanto timorosamente dietro il dorso; se si riesce a scioglierlo, vengono alla luce, a loro rossore, i risultati di quella scientificità: un piccolo caro D om ineddio, una graziosa immortalità, magari un po" di spiritismo e in ogni caso tutto un confuso ammasso di miserie da poveri peccatori e di farisaica alterigia» {Umano, troppo umano, trad. it., I, pp. 15-20; II, p. 16). Alla base della metafisica c"è, dunque, secondo Nietzsche, il bisogno religioso, quel bisogno di cui egli decreta Foltrepassam ento con la fam osa dichiarazione «D io è m orto», la quale eleva il fatto storico della secolarizzazione ad argo­ mento di critica nei confronti di ogni possibile metafisica {Cosìparlò Zaratustra, trad. it., p. 6). Successivamente, e conclusivamente, N ietzsche interpreta la me­ tafisica come nichilismo, cioè come negazione che il m ondo in cui viviamo si^ il m ondo vero e come affermazione che la vera realtà è un’altra, cioè il platonico m ondo delle idee. M etafisica, pertanto, si­ gnifica essenzialmente platonismo, e lo stesso cristianesimo non è altro

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che un platonism o per il popolo. A questo nichilismo, che chiama "p assiv o ” , N ietzsche contrappone il suo nichilismo, che egli chiama "attivo” , cioè la negazione che esista un m ondo vero, che esistano dei valori, che esista un A ssoluto, e l’affermazione unicamente della vita, cioè della forza, della volontà di potenza {Crepuscolo degli idoli^ trad. it., pp. 46-47; Frammenti postumi^ pp. 216-18). U n ’ulteriore serie di critiche alla metafisica è stata m ossa dal neopositivism o e ha trovato la sua form ulazione più completa nel fam oso articolo di Carnap, Uberwindung der Metaphysik durch die logis eh e

Analyse der Sprache {Superamento della metafisica attraverso F ana­ lisi logica del linguaggio), pubblicato in "Erkenntnis” , la rivista del Circolo di Vienna, nel 1932. Carnap, che aveva di mira soprattutto la definizione di metafisica proposta da H eidegger nella sua prolusione friburghese del 1929 {Was ist Metaphysik ?), sulla base del presuppo­ sto fondamentale del neopositivism o, secondo il quale hanno senso solo le proposizioni verificabili empiricamente (principio di verifica­ bilità), non esitò a dichiarare che le proposizioni della metafisica sono assolutamente prive di senso, perché fanno uso di termine quali "e s­ sere»” "nulla” , "assolu to ” , "eterno” , " D io ” ecc., per i quali non è possibile alcuna verificazione empirica. Perciò egli giunse a dichiara­ re che la metafisica altro non è se non l’espressione del sentimento della vita, così come in genere è l’arte, ma i metafisici, ahimè, non sanno esprimerlo con l’efficacia con cui sanno farlo gli artisti, perciò sono come dei musicisti senza talento. L ’unico di essi che si salva, secondo Carnap, è proprio N ietzsche (da lui considerato un metafi­ sico), proprio perché per esprimersi ha scelto decisamente una forma artistica, cioè la poesia. Q uesta critica, che fu condivisa anche dal prim o Wittgenstein e dall’intero neopositivism o (Schlick, N eurath, Reichenbach), si è poi dissolta con la crisi dello stesso neopositivism o, dovuta alla scoperta che il principio di verificabilità era a sua volta inverificabile, ed è stata sostituita da altre forme più sottili di critica, proprie degli eredi del neopositivism o, cioè la filosofia analitica inaugurata dall’ultimo W it­ tgenstein e il falsificazionism o di Popper. Per gli esponenti della pri­ ma, quali sono Waismann, W isdom, W arnock, Watkins, la metafisica non è più un discorso privo di senso, ma al contrario è sensata e im­

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portante come Blick (visione immediata), come new way o f seeing (nuovo m odo divedere), come Weltanschauung (visione del mondo), ma non come vera e propria conoscenza. Per Popper essa, pur essendo un discorso infalsificabile, e quindi non scientifico (allo stesso m odo del mito), è diventata utile alla scien­ za in quanto fonte di ipotesi, di congetture, di teorie da sottoporre a critica. Per Pepistem ologo e storico della scienza Thomas Kuhn la metafisica offre i paradigm i che determinano le rivoluzioni scientifi­ che. In ogni caso, tuttavia, non si tratta di conoscenza argomentata, cioè fondata, razionale, ma di intuizione, di esigenza, di sentimento, come lo sono il mito, o Parte, o Pastrologia, o la magia, cioè di un discorso sostanzialmente irrazionale. Alla critica neopositivistica reagì in qualche m odo Heidegger, che nella sua Einführung in die Metaphysik {Introduzione alla metafisi­ ca^ pubblicata nel 1953, ma risalente al 1935), rispose direttamente alParticolo di Carnap contro la sua prolusione del 1929, riproponen­ do come tema della metafisica la dom anda fondamentale già form u­ lata in essa, cioè «perché vi è, in generale, Pessente e non piuttosto il nulla?» e intendendo dunque la metafisica come ricerca del senso dell'essere. Tuttavia, con la "sv o lta” com piuta nel frattempo anche per influenza della lettura di Nietzsche, H eidegger cominciò a con­ siderare sempre più frequentemente la metafisica come riduzione dell’essere, oggetto dell’ontologia, all’ente, sia pure all’ente som m o, o più puro, che esprime l’essenza stessa dell’essere, cioè D io, oggetto della teologia. Q uesto giudizio gli fu suggerito prima dall’interpretazione della metafisica di Aristotele come un’ontologia che culmina, giustamente, nella teologia, propostagli sin dalia giovinezza dal libro di F. Brenta­ no, Von der mannigfachen Bedeutung des Seienden nach Aristotele {Sulmolteplice significato deWente secondo Aristotele^ 1862), poi dalla contrapposizione ravvisata da N atorp, sempre nella metafisica di Aristotele, tra una sezione ontologica, valida, e una teologica, non valida. In base a essa Heidegger cominciò a parlare anche lui, esatta­ mente come aveva fatto Carnap, della necessità di un superamento {Überwindung) della metafisica, da intendersi però non come sem ­ plice rifiuto, o eliminazione di essa, ma come un passaggio attraverso

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{über in tedesco significa anche ""attraverso” ) di essa, allo scopo di ritornare a ciò che c"era prima di essa, cioè il senso autentico delFessere, m esso in luce dai presocratici (cfr. il Poscritto del 1943 alla p ro ­ lusione friburghese, e la nuova Introduzione a quest'ultima, aggiunta nel 1949), N el saggio intitolato, esattamente come quello di Carnap, Üherwindung der Metaphysik (1954), Heidegger spiegò che la Üherwindung deve essere intesa come una Verwindung^ cioè come un rimet­ tersi da una malattia dopo averla smaltita (questo termine è stato tra­ dotto in italiano addirittura con ""accettazione-approfondimento” ), il che implica in qualche m odo un’assimilazione di essa, ma anche un suo oltrepassamento, che infatti approda a un pensiero di tipo diver­ so, non più ""rappresentativo” , ma ""evocativo” , ""poetante” , qual è proprio la poesia. M algrado dunque la m aggiore considerazione ver­ so la metafisica che Heidegger dim ostra rispetto a Carnap, l’esito a cui egli perviene non è in fondo diverso da quello che Carnap indicava in N ietzsche, cioè l’abbandono del discorso argom entato, fondante, razionale, quale la metafisica pretende invece di essere. Se in N ie tz­ sche questo era determinato dalla riduzione della metafisica al plato­ nismo, in H eidegger esso è determinato dalla riduzione dell’ontolo­ gia aristotelica a semplice teologia. N o n molto diversa, infine, è l’ultima (per ora) critica alla metafi­ sica sviluppatasi nell’ambito del pensiero contemporaneo, non senza l’influenza di Heidegger, ma anche in una prospettiva decisamente polemica verso di lui, cioè quella form ulata nel libro II pensiero post­ metafisico di H aberm as (1988). Questi, infatti, identifica senz’altro la metafisica con la linea di pensiero iniziata da Platone e proseguita dal neoplatonism o. A gostino e T om m aso d ’A quino, C usano e Pico, Descartes, Spinoza e Leibniz, Kant, Fichte, Schelling e Hegel, e la caratterizza come riduzione del tutto all’U no, dell’essere al pensiero, della prassi alla teoria (pp. 32-36). E significativa l’esclusione esplicita della ""linea aristotelica” da questo concetto di metafisica, che H aber­ mas modella sul suo bersaglio polemico, cioè sulla metafisica della coscienza di Dieter Henrich, per cui si può dire che, da N ietzsche in poi, di fatto, la metafisica è stata identificata essenzialmente con il platonism o, cioè con quella che abbiamo chiamato la metafisica della

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' partecipazione, e con quella metafisica delFesperienza interiore che a esso si richiama. Resta da vedere se le critiche m osse a quest’ultima valgano nei confronti di qualsiasi altra metafisica possibile, in parti­ colare di quella che, sviluppatasi invece dalla "linea aristotelica’’, cioè dalla metafisica dell’esperienza integrale, si è ultimamente qualificata come ""metafisica classica” .

IL IL TEM A

1. Le ra g io n i della metafisica

Malgrado le numerose critiche che abbiamo riportato e che Laccompagnano lungo tutto il corso della storia della filosofia, la metafisica continua a esistere, come attestano i continui convegni che si svolgo­ no su di essa e le pubblicazioni che continuano a esservi dedicate. Anzi, le stesse critiche, con il loro costante riproporsi, attestano che la metafisica almeno di fatto non è ancora morta, cioè continua a essere sostenuta, sia pure in forme diverse, da vari filosofi. L'ultim o episo­ dio, per ora, del dibattito che la riguarda è costituito dalla discussione fra Haberm as e Henrich, svoltasi in Germania fra il 1985 e il 1987, nella quale sono intervenuti parecchi altri filosofi tedeschi (Oelmùller, 1987; Gerhard, 1988). E legittimo, pertanto, chiedersi quali sono le ragioni di tale so ­ pravvivenza, anche se le ragioni di carattere generale possono fornire delle spiegazioni di tipo soltanto psicologico o sociologico, mentre le ragioni più autentiche del sopravvivere della metafisica sono, dal punto di vista dei suoi sostenitori, di carattere teoretico, cioè filosofico, e queste sono strettamente legate al tipo di metafisica che si professa. Prima tuttavia di esporre queste ultime, e di indicare conseguente­ mente a quale tipo di metafisica esse vanno riferite, può essere utile accennare anche ad alcune ragioni di carattere più generale, non rigo­ rose dal punto di vista teoretico, ma probabilm ente capaci di ottenere un più ampio consenso. U na prima ragione della sopravvivenza della metafisica è indub­ biamente costituita dal riconoscimento dei limiti della conoscenza scientifica, cioè della conoscenza sviluppata a opera delle scienze

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particolari, riconoscimento proveniente oggi dai suoi stessi prom o­ tori, cioè dagli scienziati. Mentre in epoca positivistica, ma anche neopositivistica, gli scienziati e i filosofi professavano una fede inge­ nua nella capacità illimitata della scienza di conoscere la realtà, oggi gli stessi scienziati, e conseguentemente molti filosofi, hanno preso coscienza dell’esistenza di limiti invalicabili alla conoscenza scienti­ fica. C iò è avvenuto già in occasione della form ulazione del “princi­ pio di indeterminazione” di Heisenberg, secondo il quale non è p o s­ sibile determinare contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella. M a questa consapevolezza si è particolarmente acuita in seguito alla scoperta della cosiddetta “ com plessità” , cioè a quella serie di ricerche che vanno dalla sociologia di E. M orin alla psicologia di J. Piaget, dalla cibernetica e dalle scienze cognitive alla fisica e alla matematica rispettivamente di I. Prigogine e R. Thom, le quali hanno mostrato la straordinaria complessità della conoscenza e della stessa realtà (Bocchi-Cerati, 1985; N icolis-Prigogine, 1987). La stessa scienza, insomma, ha preso coscienza del fatto che esi­ stono realtà naturali (non si tratta, quindi, di presunte realtà sopran­ naturali, quali ad esempio i misteri delle religioni) da essa non cono­ scibili, quali ad esempio Porigine dell’universo (a proposito della quale si suole chiedere che cosa ci fosse “ prim a” del cosiddetto “ big bang” , o se questo ci sia veramente stato), o da essa non ancora conosciute, quali ad esempio l’origine della vita, o il passaggio dalla semplice vita organica alla vita cosciente (M onod, 1970). Contemporaneamente da parte dei filosofi ci si è resi conto che l’assolutizzazione della scienza, cioè l’esclusione che possa esserci qualsiasi conoscenza diversa da essa, è una tesi non scientifica, ma metafisica, la quale pertanto non può essere sostenuta da argomentazioni scientifiche (Joñas, 1979). Ora, il fatto che la scienza non possa conoscere tutto, e quindi dare una risposta a tutti i problemi, lascia aperta la possibilità di una ricerca ulteriore, o comunque diversa da essa, ma ugualmente collocata sul piano della conoscenza naturale, cioè alla portata dell’uom o, delle sue facoltà naturali (sensibilità, ragione, intelligenza), la quale non può configurarsi che come metafisica. Q uesta, pertanto, non si propone come consolazione o ricerca di salvezza, ma come esigenza di carat­ tere conoscitivo, che naturalmente deve essere messa alla prova, cioè

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deve rendere ragione della propria possibilità, della propria legittimi­ tà, della propria capacità di approdare a qualche risultato. ' U na seconda ragione della sopravvivenza della metafisica, condi­ visibile soprattutto da parte dei credenti, può essere la necessità di verificare la possibilità della fede religiosa. Q ui non si tratta, si badi bene, di verificare la verità dei contenuti della fede, i quali, per il fatto di richiedere appunto un atto di fede sono per definizione inverifica­ bili, cioè indimostrabili; né di accertare la possibilità fattuale delFatto di fede, la quale è verificata semplicemente dal sussistere di quest’u l­ timo; né infine di trovare argomenti atti a suscitarlo, i quali, come Fesperienza di credenti e non credenti insegna, difficilmente possono essere forniti da ragioni di carattere conoscitivo. Si tratta di verificare la possibilità logica della fede, cioè la sua sensatezza, la sua incontraddittorietà, la quale non potrebbe sussiste­ re se non esistessero certe condizioni che per così dire fanno posto, o lasciano spazio, alla fede. Queste sono, ad esempio, la possibilità di una rivelazione divina, che a sua volta implica l’esistenza di un rivelante, il quale sia effetti­ vamente divino, cioè assoluto, e al contem po personale, cioè capace di intendere e di volere. L ’oggetto della fede, infatti, deve logicamente precedere la fede, non per fondarla, nel senso di produrla necessaria­ mente o di dimostrarne i contenuti, ma nel senso di renderla possibile, come è stato riconosciuto recentemente anche da teologi non cattolici (Pannenberg, 1988). M a ammettere questo equivale ad ammettere una metafisica della trascendenza. E chiaro, infatti, che una metafisica immanentistica, la quale escludesse l’esistenza di un A ssoluto trascen­ dente e personale, renderebbe con ciò stesso impossibile, cioè assur­ da, contraddittoria, la stessa fede. Ovviamente non è necessario che il credente professi una metafi­ sica in form a consapevole, esplicita e critica: la metafisica della tra­ scendenza è solo implicita, cioè presupposta, dall’atto di fede, o alme­ no da questo è implicitamente presupposta l’esclusione di una meta­ fisica immanentistica, senza la quale l’atto di fede sarebbe contraddit­ torio in se stesso, cioè assurdo, e quindi im possibile come fede au­ tentica, effettiva. Q uando il fideismo esclude la possibilità stessa della metafisica, intendendo la metafisica della trascendenza, esso fa della

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fede un atteggiamento irrazionale, che del resto nessuna chiesa ha mai condiviso. Si può comprendere pertanto come, da parte dei credenti, si ritenga necessaria una metafisica. U na terza ragione della sopravvivenza della metafisica, condivisibile anche dai non credenti, è il bisogno di ogni uom o di dare un senso alla propria vita, cioè di chiedersi qual è la sua origine, qual è il suo destino, di scoprire se con la cessazione della vita fisica cesserà ogni form a di esistenza, se nell’ipotesi di una vita futura si potrà contare su una sorte migliore o peggiore di quella attuale, se c’è un ente superiore al quale dover rispondere delle proprie azioni, se la felicità è raggiun­ gibile in questo mondo oppure no. Tutte queste domande si fanno particolarmente urgenti in presenza di un grave dolore, quale la morte di una persona cara, o di catastrofi naturali, o con l’esperienza di una grave ingiustizia, quale un genocidio, o anche di una semplice soffe­ renza fisica propria e altrui, in presenza insom m a della cosiddetta esistenza del male nel m ondo (male fisico e male morale). M olti filosofi hanno saputo illustrare in m odi efficaci la dramma­ ticità, in certi casi anche la tragicità, della situazione umana, cioè la finitezza, la precarietà, l’angosciosità dell’esistenza, la quale si tradu­ ce spesso in una domanda di senso, ovvero in un bisogno di salvezza. Per trovare una risposta a tali problem i non ci si può certo rivolgere alla scienza, per la già ricordata limitatezza di questa, né si può sempre fare ricorso a una fede religiosa, la quale non può essere ottenuta su ordinazione. Della ragione, invece, tutti possono disporre, e il tenta­ tivo di trovare risposte razionali ai problem i ultimi è precisamente la metafisica. Infine, un’ulteriore ragione della sopravvivenza della metafisica può essere la necessità di fondare l’etica, vale a dire l’insieme delle norme che si assum ono a guida e criterio del comportamento proprio e altrui, e la conseguente possibilità di distinguere ciò che è bene da ciò che è male, ciò che è lecito da ciò che è illecito, ciò che può rendere più felici da ciò che invece rende sicuramente infelici. Anche per questo tipo di problem i è vano rivolgersi alla scienza, che per sua natura è soltanto descrittiva, e quindi avalutativa, e non sempre è possibile rivolgersi a una fede religiosa, tanto più che in fatto di etica si ha bi­ sogno di^norme universali, valide tanto p eri credenti quanto per i non

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credenti. L o stesso discorso si può fare per la fondazione di una de­ terminata concezione politica, che implica anzi responsabilità anche più gravi. Naturalmente la possibilità di una fondazione conoscitiva dell’etica è tutt’altro che scontata, anzi molti filosofi la contestano in linea di principio, né è scontata la necessità, nel caso in cui si riconosca la possibilità di tale fondazione, di cercarla addirittura in una metafisi­ ca. M olti ritengono, infatti, che per tale fondazione sia sufficiente disporre di una concezione dell’uom o, delle sue capacità e dei suoi limiti, eventualmente della sua natura e dei suoi fini. M a è quasi fatale che una concezione completa dell’uom o e del suo fine ultimo si iscri­ va in una visione più generale della realtà, nella quale si decida se l’u o ­ mo è o no del tutto autonomo, e quindi porti quasi inevitabilmente a una metafisica. Tutte queste ragioni, tuttavia, come si è detto all’inizio, di per sé non giustificano ancora la legittimità della metafisica, ma solo la sua esistenza di fatto, e probabilmente non sono nemmeno le più im por­ tanti spiegazioni di quest’ultima. La metafisica infatti, come si cer­ cherà di dimostrare in seguito, nasce fondamentalmente da un biso­ gno conoscitivo, cioè dal bisogno di risolvere un problem a che non è né scientifico, né religioso, né esistenziale, né etico, ma è appunto metafisico. Naturalm ente è necessario mostrare che tale problem a sussiste, che esso può venire risolto, che il m odo per risolverlo è un procedi­ mento razionale, quindi controllabile, non privilegiato, non accessi­ bile solo a pochi iniziati, ma riconoscibile come valido da tutti. Solo l’effettiva riuscita di questo com pito può essere una risposta efficace alle critiche della metafisica che sono state esposte in precedenza. N el momento in cui si cerca di fare questo, si mette in opera, e quindi si propone, un tipo particolare di metafisica, che si regge su certe m otivazioni anziché su altre, che segue certi procedimenti an­ ziché altri, che perviene a certi risultati, diversi da quelli a cui perven­ gono altri tipi di metafisica. Il tipo di metafisica che si esporrà qui di seguito è una versione, inevitabilmente personalizzata, della cosiddetta metafisica classica, cioè di quella formulazione della metafisica di derivazione aristote­

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lica che in Italia è stata proposta negli ultimi decenni soprattutto da Gustavo Bontadini e da M arino Gentile, alla scuola dei quali, indiret­ tamente del prim o e direttamente dei secondo, chi scrive si è formato. D i tale metafisica si vuole soprattutto sottolineare il carattere proble­ matico, cioè critico, non dogm atico, e dialettico, cioè non deduttivo, ma confutatorio, ovvero, per usare un termine aristotelico, "elenctico ” (da èlenchoSj confutazione). 2. U e sp e r ie n z a come te m a della metafisica Il tema della metafisica classica è costituito essenzialmente dalFesperienza. D i questa affermazione è necessario anzitutto chiarire il signi­ ficato dei termini. Si preferisce parlare di “ tem a” , anziché di “ ogget­ to ” , per indicare che non si tratta di una realtà oggettiva, contrapposta al soggetto conoscente, nei confronti della quale questo possa collo­ carsi, per così dire, al di fuori o contro, come vorrebbe Fetimologia del termine latino objectum (letteralmente: “ ciò che è gettato contro” , come il tedesco Gegenstand^ “ ciò che sta contro” ). C on il termine “ tem a” si vuole invece indicare ciò che Aristotele chiamava il “ sog­ getto” di una scienza (letteralmente Agenos hypokeim enon^ il “ genere soggiacente” , solo che qui non si tratta, come vedremo, di un genere), ciò a proposito di cui si cerca o si dim ostra qualche cosa, ovvero ciò su cui verte il discorso. Mentre nei confronti di un “ oggetto” colui che conosce, o ricerca, o dimostra, si pone come un “ soggetto” nel senso m oderno del ter­ mine, cioè come un “ io ” che si distingue, si colloca per così dire al di fuori di esso, e da qui indaga o riflette su di esso, nei confronti di un “ tema” , invece, colui che conosce, o ricerca, o dim ostra può fare parte lui stesso della cosa tematizzata, cioè può esserne per così dire al di dentro. Anzi, nel caso della metafisica, Fesperienza, che ne costituisce il tema, comprende non solo ciò di cui si fa esperienza, ma anche colui che fa esperienza, nonché Fatto stesso delFesperire. Tutto questo, o s­ sia ciò di cui si fa esperienza, colui che fa esperienza e Fatto stesso delFesperire, nella metafisica viene tem atizzato, cioè assunto a tema esplicito di indagine. In tal m odo la metafisica, o almeno questa metafisica, si colloca al

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, di là della distinzione tra realismo e idealismo, o tra oggettivismo e soggettivismo, nel senso che non presuppone né la contrapposizione tra un soggetto e un oggetto di conoscenza, né la riduzione delFuno all’altro. A questo riguardo Bontadini ha portato un contributo fon­ damentale alla form ulazione della metafisica classica, m ostrando che la contrapposizione tra soggetto e oggetto, caratteristica del pensiero moderno, è stata superata dall’idealismo, prima hegeliano e poi so ­ prattutto gentiliano (cioè di Giovanni Gentile), quando questo ha m ostrato che dalla coscienza, cioè dal pensiero, non si può uscire, perché nel momento in cui si pretenda di uscirne lo si può fare soltan­ to con lo stesso pensiero, e dunque si rimane ancora nel pensiero

(Bontadini, 1966). Q uesto però non significa che la realtà si riduca alla coscienza, o al pensiero, come pretende l’idealismo; significa solo che la realtà su cui verte la metafisica è interna al pensiero, ovvero alla coscienza, intesa naturalmente in senso trascendentale, cioè non come coscienza del singolo individuo, ma come coscienza umana universale. Si può dire che questa è la posizione del realismo, a condizione però che per realismo non si intenda l’affermazione di una realtà esterna al pensie­ ro, inattingibile da questo, come la '"cosa in sé” di cui parlava Kant. La metafora più appropriata per indicare il tema, cioè l’ambito, il campo, della metafisica è quella dell’orizzonte fisico, che è sempre ciò che ci circonda, ossia ciò di cui noi siamo al centro, e dal quale non possiam o mai uscire, perché, anche quando ci muoviamo, esso ci segue. La coscienza, insomma, tematizza, nel senso che mette a tema, assu­ me come tema di indagine, ciò di cui essa stessa fa parte, e in tal m odo essa tematizza, cioè indaga, mette in questione, anche se stessa. U na volta precisato che cosa si intende per tema, diciamo che cosa si intende per esperienza. Q uesta è non solo, ma anche, anzi prima di tutto, la percezione, o l’insieme delle percezioni, che abbiamo per m ezzo degli organi di senso, cioè la "percezione sensoriale” (espres­ sione più corretta, dal punto di vista della psicologia sperimentale, di "sensazione” , termine usato da Aristotele ma anche da Locke, o di "im pressione” , termine usato da Hum e, o di "intuizione sensibile” , termine usato da Kant). Indubbiamente l’esperienza è anzitutto per- , cezione sensoriale, di oggetti "esterni” (le cose, gli enti fisici), ma anche

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di oggetti "interni” (gli stati psichici, quali i sentimenti, i desideri ecc.), e anche di sé, cioè autopercezione (il percepire di percepire, quello che Aristotele chiama "sensazione della sensazione” e la filosofia moderna "autocoscienza” ). M a nell’esperienza si possono includere anche resti di percezioni passate, cioè ricordi, o congetture di perce­ zioni future, ovvero solo possibili, frutto dell’immaginazione: essa comprende dunque, nell’accezione che qui se ne propone, oltre alla percezione sensoriale, la memoria, l’im m aginazione, la fantasia e quant’altro si voglia aggiungere di ciò che si esperisce nel senso più ampio del termine (per esempio la vita inconscia o subconscia). Anzi, dell’esperienza fanno parte, sempre in questa accezione del termine, anche i cosiddetti pensieri, cioè i concetti, o le idee (intesi entrambi come rappresentazioni mentali), sia di oggetti particolari sia di oggetti universali, qualunque sia il m odo attraverso il quale essi siano entrati a far parte della nostra conoscenza. C iò significa che in essa possono essere comprese anche le conoscenze scientifiche, ossia ciò che Aristotele avrebbe chiamato ta p h y sik à j nonché le conoscenze storiche e tutto ciò che in qualche m odo costituisce la nostra visione del mondo. Naturalm ente gran parte di queste idee, conoscenze e visioni sono frutto, come ha m ostrato la moderna ermeneutica, di interpretazioni, perciò anche queste, e tutto ciò che form a la cosid­ detta cultura, fanno parte dell’esperienza considerata nel senso am­ pio che qui proponiam o. Intesa in questa accezione, l’esperienza viene a coincidere con la totalità del vissuto, sia di quello passato e presente, sia di quello fu­ turo, cioè del vivibile. La lingua tedesca possiede un termine che consente di distinguere dal verbo "vivere” usato in senso intransitivo, cioè leben^ lo stesso verbo usato in senso transitivo, cioè erleben. L ’esperienza coincide, appunto, con quest’ultimo, ossia con tutto ciò che può essere vissuto, con tutti quelli che in tedesco si chiamano Erlebnisse. Com e sinonimo di essa si potrebbe perciò usare anche "vita” , senza dare a questo termine un significato puramente biolo­ gico, o puramente emotivo. In questo senso si può dire che il tema della metafisica è la vita. U n’altra espressione che può essere usata per indicare l’esperienza di cui qui si vuole parlare è il termine "esistenza” , che indica essen­

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zialmente resistenza umana, quello che Heidegger chiama il Dasein e la sua allieva Hannah Arendt chiama la “ condizione um ana” {T h e Human Condition è infatti il titolo originale della sua opera più nota, tradotta in tedesco con il titolo Vita activa). In questa fase però non bisogna connotare questo termine con i significati di carattere valu­ tativo che a esso sono stati dati dalFesistenzialismo, cioè “ stare fuo­ ri” , “ essere gettato” , “ essere-per-la-m orte” . Si possono invece con­ servare i significati non valutativi del termine, per esempio “ esserenel-m ondo” , “ essere-con-gli-altri” ecc. U n altro termine che potrebbe essere usato come sinonimo di esperienza è “ realtà” , purché con esso non si intenda necessariamente alludere alFinsieme delle “ cose” (rc5, da cui “ realtà” ) esterne alFuomo e a lui contrapposte, ma vi si includa Fuomo stesso; oppure si potreb­ be usare anche il termine “ m ondo” , a condizione che non gli si dia il significato soltanto di m ondo fisico. Chi desidera poi porre Faccento sulla condizione sociale delFuom o, può parlare di “ società” , a condi­ zione che non faccia di quest'ultima una sostanza, o un’entità iposta­ tica, e chi vuole sottolinearne il carattere storico può parlare di “ sto­ ria” . Q uest’ultimo termine, del resto, deriva dal greco historia^ che originariamente significava narrazione, o descrizione, di qualsiasi realtà non solo umana, ma anche naturale (Aristotele scrisse infatti wm^Storia d e g li animali^ e il suo allievo Teofrasto una Storia dellepiante). “ Sto­ ria” si può usare in tutti i significati che esso storicamente ha avuto, per indicare la dinamicità, la m utevolezza e insieme anche la globalità, Funiversalità dell’esperienza. In conclusione si può dire pertanto che il tema della metafisica è l’esperienza, intesa come insieme delle percezioni, ma anche come cultura, come vita, come esistenza, come realtà, come mondo, come società, come storia, come tutto ciò di cui Fuom o, inteso sia come singolo individuo sia come comunità, sia come comunità attuale sia come comunità passate, fa, appunto, esperienza. Si noterà come un simile tema sia proprio solo della metafisica: nessun’altra indagine, infatti, o form a di sapere o di discorso, assume un tema così vasto e comprensivo, non circoscritto ma circoscrivente. O gni altra indagine, infatti, per esem pio le scienze particolari, sia naturali sia umane, sia empiriche sia esatte, o le tecniche, o la storia.

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assumono come tema aspetti particolari, o settori, o “parti” , dell’espe­ rienza. Si può dire anche, allora, che il tema della metafisica è la tota­ lità, purché non si pretenda in tal m odo di porsi al di fuori di questa, il che sarebbe contraddittorio. Si tratta “ soltanto” - vedremo in se­ guito il perché di questa limitazione - della totalità, appunto, delFesperienza, ossia di tutto ciò che noi possiam o esperire, vivere, ov­ vero, come è stato anche detto, delF“ esperienza integrale” (Faggiot-

to, 1982). L ’assumere come tema l’esperienza è un tratto caratteristico non solo della metafisica rispetto a ogni altra form a di discorso, ma anche della metafisica classica rispetto ad altre forme di metafisica. La me­ tafisica classica, infatti, non parte dal Principio supremo, o dall’E sse­ re, o dall’Idea, e nemmeno dalla sola esperienza interiore, così come non parte dalla sola esperienza esterna. Tem atizzando l’esperienza, da un lato essa include in questa tutto ciò che può essere tematizzato all’inizio di una ricerca, cioè prima di avere com piuto qualsiasi altro discorso, per esempio qualche dim ostrazione, e dall’altro riconosce a questa il carattere di realtà autentica, cioè innegabile, e non di realtà derivata, o dimidiata, o sbiadita, o soltanto apparente. Q uand’anche infatti l’esperienza fosse una semplice apparenza, di tale apparenza noi avremmo comunque esperienza, perciò l’esperienza non sarebbe meno reale. Assum endo, come si vede, quale tema l’esperienza, la metafisica classica intende essere rigorosamente, cioè integralmente, critica, cioè spregiudicata, immune da presupposti. Essa intende muovere solo da ciò che è, per così dire, evidente, immediato, nel senso che è alla p o r­ tata di tutti, a disposizione di tutti, anche se questa immediatezza è poi costituita, come vedremo, da un com plesso di mediazioni, o da un’unica grande mediazione (Bacchin, 1969). Se questo tema, dun­ que, la distingue da altre forme di ricerca o da altri tipi di metafisica, non per questo esso presuppone già in partenza l’adesione a un tipo particolare di metafisica, o di filosofia, ma può costituire un inizio valido per tutti. L a scelta del tema, in tal m odo, si costituisce già come un’argomentazione in favore di un simile inizio, quindi non è una scelta arbitraria, immotivata, bensì è l’unica scelta rigorosam ente critica, dunque non è propriamente una scelta, ma una necessità.

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3. E sp e rie n z a ed essere U no dei termini con cui più anticamente è stato designato il tema della metafisica, anzi della filosofia tou t cou rt ^è quello di essere” . Per mezzo di esso, infatti, ha designato questo tema Parmenide (che parlava di eòn)^ e per m ezzo di esso Phanno designato Platone (che in realtà usava il termine ousia^ ma con il significato appunto di “ essere” ) e Aristotele (che Pha precisato come “ essere in quanto essere” o, me­ glio, “ ente in quanto ente” , on hei on). Ebbene, Pesperienza, che abbiamo indicato come tema della metafisica classica, si può esprime­ re anche per m ezzo del termine, e della nozione, di “ essere” , nel senso che tutto ciò che è com preso a qualsiasi titolo nelPesperienza può essere indicato per m ezzo del termine “ essere” , purché però questo venga assunto nel significato che ne dava Aristotele, non in quello che ne davano Parmenide e Platone. Per Parmenide, infatti, Pessere non è Pesperienza, anzi è proprio il contrario di essa, perché è ciò che “ non può non essere” , ossia Pim-

mutabile, Pinvariante, Peterno, Passoluto, mentre Pesperienza è il mutevole, il variopinto, il transeunte, e perciò Papparente, ciò che non è veramente, ciò che non è in senso proprio. Anche per Platone Pessere non è Pesperienza, cioè il m ondo visibile, mutevole e perciò collocato a metà strada tra Pessere e il nulla, ma il m ondo delle idee, cioè delle realtà invisibili, immutabili, universali, eterne. Per A risto­ tele, invece, Pessere è tutto ciò di cui si può dire che “ è” , dove que­ st’ultim o verbo viene usato senza qualificazioni particolari, quali veramente, immutabilmente, eternamente, ma in tutti i sensi in cui può essere usato nel linguaggio comune, cioè nel linguaggio basato su quella specie di grande convenzione, mai stipulata ma universalmen­ te accettata, che è l’accordo sui significati delle parole, tale da renderle comprensibili a tutti i parlanti. N o n è vero, dunque, che “ essere” per A ristotele significhi un particolare essere, per esempio Vousìa^ o sostanza, o essenza, cioè un essere particolarmente “ forte” , contrapposto ad altri esseri più deboli o soltanto apparenti. N é è vero che esso significhi soltanto “ presen­ z a” , come sostiene Heidegger, ossia ciò che si presenta, ciò che può venire “ rappresentato” . Essere significa anche questo, ma non solo

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questo: esso significa, ripetiamo, tutto ciò di cui si può dire che " è ” , o che '"era” , o che "sarà” , tutto ciò insom m a a cui può essere attribuito il verbo essere {einai)^ in qualunque suo caso o declinazione. Dicendo "ciò a cui può essere attribuito l'essere” , non si intende dire che que­ sto soggetto sia diverso dal predicato che gli viene attribuito, ma che il predicato "essere” gli viene attribuito proprio per dire che cosa esso è, cioè per dire che esso è "ciò che è” . Perciò, parlando di ciò a cui viene attribuito l’essere, si può dire che esso è l’"ente” {on)^ intenden­ do con questo termine, appunto, ciò che è. Anzi, è più corretto dire che l’ente è, piuttosto che l’essere è, perché l’essere, a rigore, non è (così come, ad esempio, il correre non corre), ma è ciò che fa essere l’ente. L ’esperienza, dunque, è essere a pieno titolo. Anzi, per Aristotele tematizzare l’esperienza nella sua totalità, cioè l’esperienza integrale, equivale a tematizzare l’essere, ossia tutto ciò che è, "in quanto esse­ re” , cioè, come spiega egli stesso in un celebre passo della Metafisica^ non in "qualche sua parte” (meros autou ti)j come è proprio delle scienze particolari, bensì nella sua interezza fkathòlou) (JN 1,1003 a 21-26). Ciascun aspetto, o ciascuna "parte” , dell’esperienza, è qual­ cosa che è, cioè un ente, perciò tematizzare l’ente in quanto ente, cioè senza ulteriori qualificazioni, significa tematizzare qualsiasi ente, in qualunque suo aspetto, di cui si possa dire che è, ossia tutti gli enti, anzi tutto l’essere di tutti gli enti. C on l’espressione "ente in quanto ente” , dunque, non si allude soltanto a ciò che tutti gli enti hanno in comune, ma a tutti i loro aspetti, sia quelli che essi hanno in comune sia quelli in virtù dei quali essi si distinguono l’uno dall’altro. Quest’ultima precisazione è importante perché, come vedremo, essa ci fa comprendere che la nozione di essere, proprio quando è presa in questa accezione semplice (Aristotele direbbe "sem plicem ente” , haplòs^ o "per sé” , kath'autò)j cioè senza ulteriori qualificazioni, ha non uno solo, ma molti significati, irriducibili tra loro. Che l’ente in quanto ente per Aristotele comprenda l’esperienza, e dunque non sia un particolare tipo di ente, vale a dire l’ente nel senso più eminente, ovvero l’ente per eccellenza, o l’ente per essenza, cioè D io - come era, in un certo senso, l’essere di Parmenide, o Vousìa^ di Platone, e come qualcuno ha creduto di poter affermare anche a pro­ posito di Aristotele (Merlan, 1957) - , è provato dall’affermazione.

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contenuta nella M e ta fisic a (IV 1,1003 a 31-32), che di esso si devono cercare le cause prime. N o n avrebbe senso, infatti, almeno per A risto­ tele, cercare le cause prime di D io, essendo questi precisamente una delle cause prime (12,983 a 8-9). D el resto altrove lo stesso Aristotele afferma che si devono cercare le cause prime della “ natura” (Phys. I 1,184 a 10-16), dove per natura egli intende tutto ciò che ha la capacità di muoversi o di restare in quiete da sé, come ad esempio i corpi na­ turali (noi diremmo i minerali), le piante e gli animali, ossia ciò che è oggetto delf esperienza. L'ente in quanto ente, dunque, include ciò che Aristotele chiama la natura, ovvero l'esperienza, ma tuttavia non coincide necessaria­ mente con questa: se infatti non c'è dubbio che quanto Aristotele chiama la natura, ovvero l'esperienza, sia - nella Fisica infatti egli dichiara che sarebbe ridicolo cercare di dimostrare che la natura è, perché è manifesto che di enti naturali ce ne sono molti ( I I 1 , 193 a 23) -, non per questo è evidente che la natura sia l'unica realtà esistente, cioè che l'esperienza sia tutto l'essere. Anzi, Aristotele nella Metafisica afferma che «la natura è solo un genere dell'ente» (IV 3, 1005 a 34) e proprio per questo sostituisce, nella ricerca delle cause prime, la fisica, scienza della natura, con la metafisica, scienza dell'ente in quanto ente. Naturalm ente che l'esperienza non sia tutto l'essere è da dim o­ strarsi, ma intanto si deve prendere atto che la nozione di ente di esperienza, cioè di ente esperibile (sia pure nel senso ampio che abbia­ mo dato al termine esperienza), non coincide di per sé con la nozione di ente in quanto ente, perché nulla vieta di pensare, cioè non è con­ traddittorio, che vi possa essere un ente il quale non sia oggetto di esperienza. La nozione di ente in quanto ente, cioè di totalità dell'es­ sere, di intero, dunque, per un verso comprende e per un altro eccede quella di esperienza, ponendo con ciò stesso il problem a se l'esperien­ za sia o no la totalità dell'essere, vale a dire l'intero. Prima di affrontare questo problem a che, come vedremo, è l’au­ tentico problem a della metafisica, sofferm iam oci ancora un istante sulla nozione di essere, o di ente. Qualcuno, infatti, ha sostenuto la necessità di semantizzare, cioè di determinare il significato della nozione di essere, o di ente, median-

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te la sua opposizione a quella di non-essere, o di non-ente, o di nulla (Severino, 1981). L'essere, secondo questa tesi, sarebbe l’opposto del non-essere, e l’ente, ossia ciò che è, sarebbe l’opposto del niente, cioè il "non-niente” ; ente, insomma, sarebbe tutto ciò che è un non-niente. Ebbene, questa tesi è del tutto estranea alla metafisica classica, per la quale non l’essere si semantizza in relazione al non-essere, ma il non-essere si semantizza in relazione all’essere. L ’unica semantizzazione possibile dell’essere (che non può mai essere una definizione, perché l’essere, comprendendo tutto, non può essere definito, cioè circoscritto, da nulla) è la lista di tutti i suoi molti possibili significati, cioè di tutte le accezioni in cui esso viene usato nel linguaggio com u­ ne, sui quali ritorneremo tra poco. Conseguentemente l’unica semantizzazione possibile del non-essere è la lista dei molti possibili signi­ ficati che esso assume come negazione degli altrettanti significati dell’essere. Vedremo poi se, tra i molti significati dell’essere, e conse­ guentemente del non-essere, vi sia qualche elemento comune. Del resto, quale senso ha affermare che l’essere è ciò che si oppone al nulla? Che cosa significa '"opporsi al nulla” ? O significa non op­ porsi a nulla, cioè non opporsi affatto, e allora l’indicazione è del tutto vuota di significato; oppure significa opporsi a qualcosa, e allora il nulla viene, contraddittoriamente, reso positivo, e considerato come essenziale all’essere. Q uesto m odo di pensare è stato effettivamente seguito da Heidegger nella citata prolusione Che cos’è la metafisica ma per questo egli si è attirato le critiche di Carnap, le quali invece non hanno ragione di essere nei confronti di una diversa concezione, quella della metafisica classica, che non semantizza semplicemente essere e nulla, ma ne individua i molti significati particolari. Alludendo ai molti possibili significati dell’essere abbiam o già ammesso la possibilità che la nozione di essere comprenda, sia pure con significati diversi, tanto quella di esistenza, cioè la risposta alla domanda "se qualcosa sia” , nozione a sua volta indefinibile e dotata di molteplici significati, corrispondenti ai molteplici significati del­ l’essere, quanto quella di essenza, cioè la risposta alla domanda "che cosa qualcosa sia” , anch’essa dotata di molteplici significati, corri­ spondenti a quelli dell’essere. Insomma, per ogni ente, e per ogni tipo di essere, si dà un certo tipo di esistenza e un certo tipo di essenza. Ma

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il fatto che ogni ente abbia una sua esistenza e una sua essenza, non significa affatto che la prima sia necessariamente compresa nella se­ conda, cioè che ogni ente, per il solo fatto che è, contenga l’esistenza, ovvero il suo essere, nella sua stessa essenza, cioè che esista per essen­ za, vale a dire necessariamente, come invece è stato sostenuto (Seve­ rino, 1982). N o n è affatto evidente, infatti, che la nozione di ente implichi di per sé, cioè necessariamente, dunque essenzialmente, quella di esi­ stenza, e quindi non è affatto evidente che ogni ente, per il solo fatto di esistere, debba esistere necessariamente. È anzi possibile, cioè non contraddittorio, pensare - altra cosa sarà poi mostrare che effettiva­ mente esso esiste - a un ente la cui essenza implica l’esistenza, ma è altrettanto possibile, quindi altrettanto incontraddittorio, pensare a un ente la cui essenza, per il fatto di essere diversa da quella del prim o, non implica, cioè non contiene in sé, l’esistenza. Pertanto un ente la cui essenza implichi l’esistenza, se esiste, esiste necessariamente, quindi eternamente, mentre un ente la cui essenza non implichi l’esistenza, se esiste, non esiste necessariamente, quindi può esistere in un certo momento e non esistere in un altro. Credere che l’ente, per il solo fatto di essere, implichi necessaria­ mente l’esistenza, cioè non possa non essere, equivale a commettere lo stesso errore di Parmenide, cioè a credere che vi sia un solo tipo di enti, quelli la cui essenza, appunto, implica l’esistenza: ma ciò non è

affatto evidente, anzi è un presupposto non dimostrabile, Parmenide da questo presupposto deduceva coerentemente, come è noto, l’im ­ possibilità del divenire, cioè l’im possibilità che un ente, il quale in un certo momento non esiste, possa in un altro momento esistere, perciò concludeva che il divenire, attestato peraltro dall’esperienza, è solo opinione, ovvero apparenza. M a tale conseguenza è stata confutata già da Aristotele, quando questi ha osservato che, se anche il divenire fosse solo opinione {doxa)^ o solo apparenza (phantasìa)^ non per questo cesserebbe di esistere, perché l’opinione e l’apparenza sono a loro volta forme di divenire

{Phys, V ili 3, 254 a 27-30). Dunque, se è falsa la conseguenza, è falsa la premessa da cui essa necessariamente consegue, perciò non è vero che ci sia un solo tipo di

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enti, quelli la cui essenza implica l’esistenza, anzi semmai è da dim o­ strare che di enti di questo tipo ne esistano effettivamente. Abbiamo in tal m odo accennato anche ai modi, o modalità, fon­ damentali dell’essere, vale a dire il possibile, il reale e il necessario, nonché alle rispettive negazioni, cioè l’impossibile, l’irreale e il con­ tingente. Possibile, infatti, è tutto ciò che è semplicemente pensabile come non contraddittorio, ossia ciò che non è contraddittorio che esista, anche se non esiste nella realtà, mentre impossibile è ciò che è contraddittorio che esista. Reale è ciò che non solo non è contraddit­ torio che esista, ma anche effettivamente esiste, mentre irreale è ciò che, pur non essendo contraddittorio che esista, tuttavia di fatto non esiste. N ecessario è ciò che, se esiste, non può non esistere, cioè esiste necessariamente, mentre contingente è ciò che, pur esistendo, può anche non esistere. Solo di ciò che è reale si può affermare con certez­ za l’esistenza, qualora ovviamente si abbia qualche notizia, diretta o indiretta, di essa, mentre di ciò che è possibile, necessario o contin­ gente, non si può affermare senz’altro l’esistenza, ma questa ha biso­ gno di essere dimostrata. 4. La multivocità dell'essere e le categorie Abbiam o visto che il verbo “ essere” può essere attribuito a tutto ciò che è com preso nell’esperienza integrale, e a tutti gli aspetti di ciascun ente che in essa è compreso. Probabilmente esso è l’unico verbo, e rispettivamente la sua form a participiale “ ente” è l’unico sostantivo, che consente di abbracciare in un’unità l’intero contenuto dell’espe­ rienza e di farne in tal m odo un unico tema, il tema appunto della metafisica. Q uesto verbo è presente, ovviamente con varie denom i­ nazioni, in tutte le lingue indoeuropee e questa è forse la ragione per cui la metafisica storicamente è nata nell’ambito di una cultura indo­ europea, quella dell’antica Grecia. Ciò tuttavia non esclude che il verbo essere, e la metafisica che lo ha messo a tema, possa essere trasferito anche in altre lingue, non indoeuropee, mediante accorgimenti lin­ guistici che qui non interessano. Anche le scienze particolari, per eseìnpio le matematiche, la fisica, la chimica ecc. sono nate nell’am­ bito di culture indoeuropee e ciò non ha impedito che esse venissero

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assimilate da tutte le culture del m ondo. O ggi, infatti, in Giappone, o in Cina, si fa scienza esattamente nello stesso m odo in cui la si fa in Europa o in America. Ebbene, in tutte le lingue in cui com paiono, il verbo essere, e con­ seguentemente il participio ente, proprio per poter abbracciare f i n ­ terò contenuto dell’esperienza, hanno molti significati, diversi e irri­ ducibili tra di loro. Q uesta non è una particolare tesi filosofica, ma un fatto linguistico che va rispettato in quanto espressione di quella con­ venzione linguistica ideale che sta alla base di ogni linguaggio e che lo rende comprensibile a quanti lo usano, cioè lo rende m ezzo di com u­ nicazione. I filosofi che per primi hanno rilevato questo fatto sono Platone e Aristotele, ma con ciò essi hanno m esso in luce una pecu­ liarità dell’uso linguistico comune che, dopo essere stata scoperta, non può più essere negata, pena in caso contrario l’incomprensibilità del linguaggio, e dunque l’im possibilità di comunicare. Tentiamo di indicare alcuni dei principali significati del verbo essere, senza alcuna pretesa di sistematicità né di esaustività, servendoci pro ­ prio delle indicazioni fornite da Platone e da Aristotele. A nzitutto il verbo essere può venire usato come semplice copula, cioè elemento di unione, tra un soggetto e un predicato (desumiamo questi ultimi termini dall’analisi logica del linguaggio comune, dando a essi il signi­ ficato che essi hanno all’interno di questa). Se si prende questo ele­ mento da solo, cioè se lo si considera non come copula, ma come un termine a sé stante, esso non significa nulla, cioè non ha nessun refe­ rente proprio, perché esso serve solo per unire, se usato affermativamente, o per dividere, se usato negativamente, altri due termini che hanno, essi, ciascuno un suo referente (cfr. Aristotele, De interpretatione 3, 16 b 22-25). D unque il verbo essere, per avere un significato, cioè un referente proprio (con il termine "'referente” si indica qui ciò che Frege ha chiamato Bedeutung e la più recente filosofia del linguaggio chiama anche "denotazione” , o "den otato” ), non deve mai essere usato da solo, ma sempre nel contesto di una proposizione. In questo caso esso può avere un prim o significato, cioè quello che Aristotele ha chiama­ to l’ "essere per accidente” , dove "essere” significa semplicemente l’"accadere” , cioè l’accompagnarsi casuale, non necessario, di una cosa

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a un'altra {M etap h . V 7, 1017 a 12-13). Q uesto prim o significato dell'essere, che è del tutto im proprio, perché nasce semplicemente dalla sostituzione del verbo essere a un altro verbo, è privo di qualsiasi interesse per la metafisica, perché non serve a mettere a tema tutto ciò che è contenuto nell'esperienza integrale, cioè a ricondurre tutti i possibili referenti, che fanno parte appunto di tale esperienza, sotto un'unica connotazione esplicitamente tematizzabile (quello che Fre­ ge ha chiamato Sinn e la più recente filosofia del linguaggio chiama

meaning). U n secondo significato del verbo essere è quello che esso assume in alcune lingue indoeuropee quando viene usato per dire “ è vero", a cui corrisponde il significato assunto dal “non-essere" quando vie­ ne usato per dire "è falso” : per esempio in francese, quando si dice "n'est-ce p as?", o in inglese, quando si dice “ isn't it?", o in certi dia­ letti dell'Italia settentrionale, dove si usa dire '"n'è?" per dire "non è vero?” . Sicuramente tale uso veniva praticato anche nel greco antico, infatti Aristotele lo registra come uno dei più importanti significati , del verbo essere, ma aggiunge che nemmeno esso interessa alla meta­ fisica, perché i concetti di verità e di falsità riguardano il rapporto tra il pensiero e la realtà, dunque la teoria della conoscenza {Metaph. VI 4, IX 10). Secondo alcuni, questo sarebbe il significato più antico del verbo essere in greco (Kahn, 1973), e secondo altri esso sarebbe il significato con cui lo ha usato Parmenide per formulare le sue famose "vie” (Aubenque, 1987). Per quanto interessante esso sia, non possia­ mo occuparcene in questa sede. U n terzo significato del verbo essere è quello che esso assume quando funge da predicato assoluto di un soggetto, come quando si dice, ad esempio, "D io c'è” . In questo caso essere equivale a "esiste­ re” , o a "esserci” (come nel tedesco Dasein^ dove peraltro l'afferm a­ zione "c 'è ” , nel senso di "esiste” , è resa con es gibt, letteralmente "si dà” ). Q uesto significato del verbo essere si moltiplica a sua volta in tanti altri significati, quanti sono i tipi di soggetto a cui esso viene attribuito. La molteplicità di significati del verbo essere usato nel senso di "esistere” è una genuina, e geniale, scoperta di Aristotele, il quale l'ha illustrata mediante i seguenti esempi: «U n a soglia è perché giace così, e l'essere per la soglia significa il suo giacere così, e per il ghiaccio

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Tessere significa Tessere condensato così» {Metaph. V ili 2,1042 b 2628), mentre «per i viventi l’essere è il vivere» {D e a n im a 114,415 b 14). D a tali esempi, specialmente dalTultimo, si capisce come Tessere, nel senso delTesistenza, non sia un predicato unico, avente lo stesso significato per tutti i soggetti a cui venga attribuito, ma indichi per ciascun soggetto la realizzazione delle peculiarità che gli sono p ro ­ prie, cioè la sua essenza. Si può dire allora che Tessere come esistenza è la realizzazione, o Tattuazione, delle possibilità espresse dalTessenza. L'essenza di una soglia, infatti, consiste nell'essere, poniam o, una trave posta, cioè ""giacente", alla base di un uscio, mentre l'essenza di un architrave consiste nell'essere ugualmente una trave, ma posta al di sopra dell'uscio. Si può dire che la soglia esiste solo quando c'è effettivamente una trave alla base di un uscio, cioè quando essa ""giace così". L'essenza del ghiaccio, invece, consiste nell'essere acqua con­ densata in un certo m odo, perciò si può dire che il ghiaccio esiste solo quando c'è effettivamente dell'acqua condensata così. L'esem pio dei viventi è ancora più persuasivo: prendiamo infatti l'uom o. Si può dire che un uom o c'è, nel senso che esiste, solo quando egli vive, perché dopo che è m orto non è più propriamente un uom o, ma solo un cadavere, e pertanto non si può più dire che esiste un uomo. Aristotele applica questo esempio addirittura alle parti degli esseri viventi, per esempio alla mano. Si può dire, infatti, che una mano c'è, nel senso che esiste, solo quando essa è unita al corpo ed è perciò in grado di svolgere le sue funzioni, cioè è viva. Q uando invece la mano sia stata, supponiam o, tagliata via dal corpo umano e perciò non viva più, cioè non sia più in grado di svolgere la sua funzione, essa per Aristotele non è nemmeno più una mano, cioè una parte dell'uom o, perciò non si può più dire che esiste una mano {Metaph. VII 11,1036 b 30-32). Naturalm ente questo discorso vale a m aggior ragione per D io: coloro che credono nella sua esistenza, infatti, non intendono sicuramente che egli esista nello stesso senso in cui esiste qualsiasi altro ente. Aristotele ha individuato questo significato del verbo essere quan­ do, da un lato ha indicato tra i vari significati di esso «Tessere in p o ­ tenza e Tessere in atto» {Metaph. V 7, 1017 a 35-b 2), e dall'altro ha identificato quest'ultim o con «l'esistenza della cosa» {Metaph. IX 6,

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1048 a 31: io hypàrchein topragma). I filosofi medioevali, arabi (Avi­ cenna) e cristiani (Tom m aso d ’Aquino), hanno poi identificato Fessenza con la possibilità, la quale però è diversa da ciò che Aristotele intendeva per essere in potenza. La potenza, infatti, per Aristotele non è una mera possibilità logica, cioè la semplice pensabilità, o in­ contraddittorietà, bensì è l'esistenza di condizioni reali tali per cui una determinata possibilità è destinata ad attuarsi qualora nessun ostacolo lo impedisca. Anche parlando dell'essere in potenza e dell'essere in atto, tutta­ via, Aristotele ha insistito nel precisare che questi due significati si

applicano a tutti gli usi del verbo essere detti prima

A V 7,1017

b 2: ton eiremènon toutorì)^ tra i quali sono inclusi i significati corri­ spondenti alle categorie, di cui diremo appresso, e che «l'essere in atto non si dice di tutte le cose allo stesso m odo, bensì in m odo analogo» (Metaph. IX 6,1048 b 6-7). C iò prova che la stessa esistenza, come del resto risultava dagli esempi sopra riportati, ha molti significati diver­ si, a seconda dell'essenza di cui essa sia l’attuazione. Gli interpreti tomisti, pertanto, che accusano Aristotele di avere concepito l'essere fondamentalmente come essenza (G ilson, 1948; Fabro, 1960), non tengono presente che per Aristotele l'essere come esistenza è invece l'attuazione dell'essenza e che, se lo si separa da questa relazione al­ l'essenza, facendone un “ atto di essere" (actus essendì) puro e sem pli­ ce, si rischia di attribuirgli un unico significato, e quindi di farne proprio in tal m odo un'essenza a sé. Infine c'è un quarto significato con cui nel linguaggio comune viene usato il verbo essere, cioè quello in cui esso viene ugualmente attri­ buito a un soggetto, ma non assolutamente, come nel caso dell'esi­ stenza, bensì in unione con un predicato nominale, come per esempio quando si dice “ Pietro è u o m o" o “ Pietro è bianco". Q ui non si tratta della semplice copula, neppure di quello che Aristotele chiama l’es­ sere per accidente, dove, come abbiamo visto, il verbo essere esprime soltanto l’accadere di qualcosa a qualcosa, per esempio del bianco a Pietro. Q ui il verbo essere è usato, per dirla sempre con Aristotele, “per sé", cioè per indicare un effettivo m odo di essere, ad esempio l'essere uom o o l'essere bianco. Se vogliamo chiamare il prim o significato che abbiamo distinto

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"essere accidentale” , il secondo "essere veritativo” , e il terzo "essere esistenziale” , possiam o chiamare il quarto "essere predicativo” , op­ pure, poiché in greco "predicato” sìòìctkategorìa^ "essere categoria­ le” . Questo essere infatti, come osserva Aristotele (ma su questo punto tutta la tradizione metafisica non ha fatto che ripetere le sue osserva­ zioni), si dice a sua volta in tanti sensi, cioè ha tanti significati, quante sono le figure della predicazione {ta schèmata tes kategorìas)^ cioè i tipi possibili di predicato {Metaph. V 7, 1017 a 22-24). Per capire questa affermazione, bisogna tenere presente che per Aristotele qualsiasi predicato, anche verbale, è sempre trasformabile in un predicato nominale attribuito al soggetto per m ezzo del verbo essere, e pertanto esprime un m odo di essere. A d esempio non c"è nessuna differenza, quanto al significato, tra il dire "un uom o è fio­ rente di salute” e il dire "un uom o fiorisce di salute” , o tra il dire "un uom o è camminante o tagliarne” e il dire "un uom o cammina o taglia” {Metaph. V 7,1017 a27-30). O gni predicato, insomma, sia verbale sia nominale, esprime un m odo di essere. L ’essere categoriale è dunque l’essere espresso dal predicato, sia nominale sia verbale, e perciò ha a sua volta tanti significati quanti sono i tipi di predicati, cioè le cosid­ dette "categorie” . I tipi di predicato, cioè le categorie, distinti da Aristotele sono, come è noto, dieci: l’essenza {o u sìa)j che esprime il "che cos’è” del soggetto; la qualità; la quantità; la relazione; l’agire; il patire; l’avere; il giacere; il luogo; il momento. Si tratta, tuttavia, di una lista variabile (talvolta Aristotele ne enumera solo sei, più spesso otto, due sole volte tutti e dieci). Per questo la sua dottrina delle categorie è stata accusata da Kant e da H egel di essere "rapsodica” , cioè disordinata, priva di necessità, e sia Kant sia H egel hanno tentato invece una vera e propria deduzione, cioè una dimostrazione, delle categorie. M a per A ristote­ le non c’è nessuna necessità che le categorie siano queste e non altre, anzi, se esse fossero deducibili dalla nozione di essere, ci sarebbe una nozione unica di essere, uguale per tutte e predicabile con lo stesso significato di tutte le categorie, il che è proprio ciò che egli intende escludere. • M algrado qualche isolato tentativo, fatto da alcuni suoi interpreti (Brentano, 1862), di "dedurre” le categorie, Aristotele aveva ragione

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nel ritenere che esse non fossero deducibili, perché se l’essere, come abbiamo detto sopra, abbraccia l’esperienza integrale nella sua tota­ lità, esso deve esprimere non solo gli aspetti comuni a tutti gli enti che ne fanno parte, ma anche le loro differenze, la loro varietà. Quindi la molteplicità dei suoi significati non è in alcun m odo riducibile a un’uni­ tà da cui possa essere dedotta, ma è irriducibile, e quindi non neces­ sariamente determinata in un certo m odo, ma essa stessa variabile. Perciò non ha nessuna im portanza stabilire quante sono le categorie, o stabilire se esse sono quelle indicate da Aristotele, o quelle indicate da Kant, o quelle indicate da Hegel. L ’importante è riconoscere che esse sono molte e irriducibili tra di loro. La molteplicità dei significati dell’essere, così descritta, dimostra che l’essere non è una nozione unica, o un concetto unico, o - meno ancora - un’unica essenza, ma è una molteplicità di nozioni, di con­ cetti, di essenze, tenuti insieme da un nome comune e, come vedremo, da un certo tipo di unità, che tuttavia non è quella di un concetto unico. Aristotele esprime questa dottrina affermando che l’essere, o l’ente, non è un genere, per il fatto che i generi si predicano delle proprie specie, ma non delle differenze esistenti tra queste, mentre l’essere si predica tanto di tutti gli enti quanto delle loro differenze {Metaph. I li

3, 998 b 22-27), Per esempio, il concetto di "anim ale” è un genere, perché si pre­ dica delle sue specie (uom o, cavallo ecc.), ma non delle differenze tra queste (razionale, bipede): si può dire infatti che l’uom o è un animale, ma non che la razionalità, o l’avere due piedi, è un animale. Il genere, insomma, esprime ciò che vi è di comune fra tutte le sue specie, ma non ciò che le distingue l’una dall’altra. Invece il verbo essere o il sostantivo ente si predicano di tutti gli enti, quindi esprimono ciò che vi è di comune tra essi, ma si predicano anche delle differenze che passano tra un ente e l’altro, perché anche queste sono, e sono enti, dunque non sono generi. L ’essere, insomma, esprime sia ciò che ac­ comuna, sia ciò che distingue i vari enti, cioè dice tutto di tutto. Per questo motivo le categorie non sono le specie di un presunto genere suprem o, identificabile con l’essere, ma sono esse i generi supremi degli enti, al di sopra dei quali non c’è nessun altro genere comune. Q uindi esse non posson o essere dedotte da alcunché (la

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deduzione, infatti, presuppone sempre l'appartenenza di tutti i suoi termini a un genere comune), né possono essere ridotte ad alcunché, cioè non possono essere considerate casi particolari di un caso più generale, applicazioni o distinzioni particolari di un significato più generale. Insom m a l’avere una certa qualità, o l’essere in una certa relazione, o il trovarsi in un certo luogo, sono m odi di essere diversi e irriducibili sia l’uno all’altro sia tutti a qualcosa di comune. 5. La struttura dell'essere: sostanze e accidenti, materia e forma,

potenza e atto Il fatto che l’essere si dica in molti sensi, irriducibili a un significato unico, esprime la molteplicità, la varietà, in un certo senso la ricchezza e l’inesauribilità dell’esperienza. M a esso non significa che l’essere sia un puro nome, privo di qualsiasi altra unità che non sia il nome, cioè che dia luogo, come diceva Aristotele, a una pura omonimia (identità soltanto di nome) o, come dicevano gli Scolastici, a una mera equivo­ cità. Se così fosse, infatti, l’uso del verbo essere darebbe luogo, appun­ to, soltanto a equivoci, cioè impedirebbe di comunicare, risulterebbe inintelligibile, e non servirebbe più a conferire all’esperienza quel­ l’unità che le consente di essere tem atizzata dalla metafisica. Aristotele stesso, infatti, ha individuato alcuni tipi di unità che legano, per così dire, tra di loro i molteplici significati dell’essere, conferendo a quest’ultimo, preso nel suo com plesso, una certa strut­ tura, cioè un certo ordine. Il prim o tra questi tipi di unità è costituito dalla dipendenza di tutte le categorie dalla prima di esse, sia quanto alla nozione sia quanto all’esistenza di ciascuna. L a prima categoria, cioè l’essenza, esprime, come abbiamo detto, '‘che cos’è” il soggetto di cui viene predicata, cioè lo identifica, e quindi dà luogo a una pre­ dicazione in cui c’è identità tra soggetto e predicato. Per esempio, se alla dom anda “ che cos’è Pietro?” rispondo “ è un u o m o ” , identifico Pietro e stabilisco un rapporto essenziale tra il soggetto e il predicato. L o stesso accade se alla domanda “ che cos’è un u o m o ?” rispondo “ è un animale bipede” , cioè ne dò la definizione. In tutti questi casi il verbo essere stabilisce un rapporto essenziale tra il soggetto e il pre­ dicato, cioè dà luogo a quella che potrem m o chiamare una predica­

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zione essenziale. In questo caso il predicato appartiene necessaria­ mente al soggetto, sia nella sua interezza, come ad esempio "u o m o ” a Pietro, sia nelle sue parti, come ad esempio "anim ale” (genere) e "bipede” (differenza specifica) a "u o m o ” Le altre categorie, invece, non identificano il soggetto di cui ven­ gono predicate, ma lo qualificano, come accade ad esempio quando si dice "Pietro è bianco” , o lo quantificano, per esempio quando si dice "Pietro è alto un metro e settanta” , o lo pongono in relazione, per esempio quando si dice "Pietro è figlio di G iacom o” , o lo collocano in un luogo, per esempio quando si dice "Pietro è a scuola” , lo situano in un momento ecc. In questi casi non c'è rapporto essenziale tra il ■ soggetto e il predicato, perché Pietro non coincide con il bianco, ma c'è solo attribuzione a un soggetto di un predicato che può anche non appartenergli necessariamente, perciò, se si dà a questo tipo di predi­ cati il nome di "accidenti” , si può parlare di predicazione accidentale. Più precisamente, quando il predicato, pur non costituendo l'essenza del soggetto, gli appartiene necessariamente, come ad esempio il pre­ dicato "capace di ridere” al soggetto "u o m o ” , esso si chiama proprie­ tà, mentre quando non gli appartiene necessariamente, come ad esem­ pio "bian co” a "u o m o ” , si chiama accidente. Chiam iam o tuttavia predicazione accidentale ogni predicazione non essenziale, che espri­ me non identità, ma semplice attribuzione. La predicazione essenziale, cioè l'uso della prima categoria, serve dunque a identificare i soggetti, ossia gli enti di cui abbiamo esperien­ za. Questa è un'operazione indispensabile per poterne parlare, e quindi per poterli considerare come enti, cioè per poterne avere esperienza nel senso completo che abbiamo chiarito sopra, per cui si è potuto dire che «senza identità non c'è nemmeno entità» (Strawson: no entity without identity). M a ciò che identifichiamo mediante una pre­ dicazione essenziale, cioè rispondendo alla dom anda "che co s'è?” , sono anzitutto gli enti di cui abbiamo esperienza immediata, o per­ cezione sensibile, vale a dire gli enti situati nello spazio e nel tempo, ad esempio corpi, stati, eventi, processi i quali, per il fatto di essere in un luogo particolare e in un momento particolare, sono detti appunto particolari, o individuali. C i sono tuttavia degli enti individuali che non solo vengono iden­

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tificati in se stessi, ma servono anche per identificarne altri: questi sono in genere i corpi materiali (oggetti artificiali, piante, animali) e le persone. A d esempio la mia casa, il cane Fido, il mio amico Pietro non solo si lasciano identificare appunto come una particolare casa, un particolare cane e una particolare persona, cioè come altrettanti individui, ma servono anche per identificare un particolare colore bianco, quando io mi riferisco al colore della mia casa, o un partico­ lare movimento, quando io mi riferisco al correre del cane Fido, o un particolare stato di salute, quando io mi riferisco alla salute di Pietro. Insom m a ci sono dei ""particolari di base” (Strawson, 1959), che p o ­ tremo chiamare primari, i quali servono da punti di riferimento per identificare altri particolari, non altrettanto basilari, che perciò chia­ meremo secondari. Aristotele ha osservato che la prima categoria serve a identificare i particolari del prim o tipo, ovvero gli individui di base (per esempio Pietro), che perciò ha chiamato ""sostanze prim e” (dove ""sostanza” vuol dire entità sussistente, esistente in sé e non in altro), o a indicarne la specie e il genere (per esempio ""uomo” e ""animale” ), che perciò ha chiamato ""sostanze seconde” . Invece le altre categorie, quelle per m ezzo delle quali si fanno predicazioni accidentali, servono a iden­ tificare altri particolari, non sussistenti in sé, ma relativi ad altro, precisamente a un particolare di base, che perciò ha chiamato acci­ denti. Q uesti ultimi non solo sono identificabili soltanto in relazione ai primi, ma esistono soltanto in quanto stanno in qualche relazione con i primi. A d esempio, quel particolare ente che è la salute di Pietro non solo è identificabile come la salute, appunto, di Pietro, ma esiste soltanto in Pietro e non esisterebbe senza di lui. A l termine ""sostanza” non devono essere attribuiti significati speciali: esso indica semplicemente un tipo di enti, dei quali abbiamo esperienza quotidiana, quelli che sussistono in sé e non in altro. N o n si tratta, dunque, di un substratum ohscurum delle cose che percepia­ mo, cioè di un presunto principio metafisico che le sostenga dal di dentro, come credeva Locke (trad. it., 1988, pp. 325-326), concorde in ciò con i filosofi razionalisti (Descartes, Leibniz), o di un concetto a priori^ come credeva Kant: ma soltanto di ciò a cui si riferiscono, direttamente o indirettamente, tutte le nostre percezioni sensoriali.

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Altrettanto vale per Faccidente: anch’esso è un ente particolare, del quale abbiamo esperienza, ma che ci risulta sempre in qualche m odo collegato con una sostanza. Perciò Aristotele ha form ulato la tesi secondo la quale tutte le categorie accidentali stanno in relazione - ovviamente ciascuna in una relazione diversa - con la prima categoria, vale a dire con quella che identifica le sostanze, il che conferisce una certa unità alle categorie, e quindi anche una certa struttura alFessere. Q uesta struttura è stata chiamata nel medioevo, prima dagli arabi e poi dagli Scolastici cristia­ ni, "analogia di attribuzione” , ma in realtà non è un’analogia, perché è semplicemente una relazione di dipendenza, nella nozione e nell’es­ sere, degli accidenti dalle sostanze. E ssa significa semplicemente che gli accidenti sono detti essere in m odi diversi dalla sostanza, ma questi modi hanno tutti una qualche relazione con il m odo in cui è detta essere la sostanza. U na simile dottrina non implica la riducibilità di tutte le categorie alla prima, perché gli accidenti non sono casi particolari della sostan­ za, né quindi implica la deducibilità delle categorie da un’unica no­ zione, perciò preserva intatta la multivocità dell’essere. E ssa introdu­ ce, o meglio permette di ritrovare, nell’essere un certo ordine, una certa struttura. Il riconoscimento di essa non implica l’adesione a una metafisica particolare, quale quella aristotelica, come è provato dal fatto che essa è stata accettata anche dai filosofi analitici del N ovecen­ to (Strawson, 1959; Kripke, 1980; Wiggins, 1980) ed è ammessa in tutti i trattati di metafisica (Vanni Rovighi, 1953;Hamlyn, 1984; Alvira, 1987). Oltre a questa struttura ci sono altri fattori che permettono di riconoscere una certa unità, e quindi una certa intelligibilità, nell’es­ sere. Abbiam o visto che tutti gli enti di cui abbiamo esperienza sono particolari: ebbene, ciò significa che essi hanno una loro materia, perché è proprio della materia essere sempre in un particolare luogo e in un particolare momento. Ma, oltre ad avere queste caratteristiche, essi sono identificabili per m ezzo di una predicazione essenziale, cioè per m ezzo della risposta alla dom anda "che cos’è?” , la quale permette di reidentificarli in condizioni spazio-tem porali mutate. A d esempio, se io vedo un cane in un certo luogo e in un certo momento, e poi lo rivedo in un luogo diverso e in un momento diverso, posso dire che

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si tratta sempre dello stesso cane se e solo se l’ho identificato non semplicemente come un ente che stava in un certo luogo e in un certo momento, ma perché l’ho identificato come un cane. Q uesto fattore identificante, che è diverso dalla materia e tuttavia serve per identificare enti materiali, è stato chiamato da Aristotele '"forma”, che originariamente vuol dire "aspetto ” (eidos), e dai filo­ sofi analitici, sulle orme di Locke, "sortale” , per il fatto che dice "di che sorta è” un particolare ente (Strawson, 1959; Wiggins, 1980). Si può dire, perciò, che tutti gli enti particolari, che formano la nostra esperienza, sono identificabili e quindi sono oggetto di cono­ scenza, di pensiero, di comunicazione, in quanto hanno una materia e una forma. Materia e form a non sono nozioni speciali, metafisiche nel senso di nascoste, o difficili, ma sono gli aspetti degli enti di cui abbiamo esperienza, che ci permettono di identificarli, quindi di co­ noscerli. E ssi permettono anche di distinguere un ente dall’altro: la materia permette di distinguere tra di loro gli enti della stessa specie, mentre la form a permette di distinguere enti di specie diverse. In questo sen­ so sono condizioni per poter avere esperienza della molteplicità. M a materia e form a permettono anche di distinguere gli aspetti perm a­ nenti dell’esperienza da quelli mutevoli, distinzione senza la quale non si potrebbe avere esperienza del mutamento. In certi mutamenti, infatti, vi è la permanenza della materia e il cambiamento della forma, ad esempio quando un tronco d’albero viene trasform ato in un tavo­ lo, mentre in altri vi è la permanenza della form a e il cambiamento della materia, ad esempio quando un organism o vivente rinnova tutte o quasi le cellule di cui è com posto, restando lo stesso organismo. Sempre Aristotele, osservando gli enti particolari nei loro m uta­ menti, ha identificato la materia con il loro essere in potenza, cioè con la loro possibilità di assumere forme diverse, e ha identificato la form a con il loro essere in atto, cioè con la realizzazione di una determinata possibilità. Anche la potenza e l’atto non devono essere considerati nozioni speciali, difficili, cariche di implicazioni metafisiche. Esse sono semplicemente degli strumenti utili per descrivere i mutamenti dei quali abbiamo esperienza. La potenza equivale alla condizione reale di sviluppi determinati, ancorché molteplici (in qualche caso o ppo ­

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sti), mentre Fatto equivale allo sviluppo com piuto, alla possibilità realizzata, e quindi alla piena determinatezza. Materia e forma, potenza e atto, consentono anche di ritrovare fra tutti gli enti delle analogie, intese questa volta in senso proprio, cioè come identità di rapporti fra termini diversi (quella che gli Scolastici chiameranno ''analogia di proporzionalità” perché derivante dalle proporzioni matematiche. Fuñica vera analogia ammessa da A risto­ tele). Si deve dire, infatti, che ogni ente ha una sua materia e una sua forma, ovvero una sua potenza e un suo atto, che sono diversi per ciascun ente; ma si può anche dire che in ciascun ente la form a ha con la materia sempre lo stesso rapporto, cioè una funzione di specifica­ zione, e la materia ha con la form a sempre lo stesso rapporto, vale a dire una funzione di individuazione; e altrettanto si può dire per la potenza e Fatto. Queste analogie conferiscono alFessere, cioè alFesperienza, una certa unità, che tuttavia non ne cancella la multivocità, cioè Firriducibilità a un genere unico, perché esse non riconducono tutti gli enti sotto lo stesso genere, ma solo rivelano Inesistenza di rapporti identici tra enti diversi. L a cosa appare chiara se si pensa ad altri tipi, più particolari, di analogia: per esempio Fanalogia tra le branchie e i p o l­ moni, organi rispettivamente della stessa funzione, cioè Fossigenazione, ìlei pesci e nei mammiferi, non implica minimamente Fappar­ tenenza di pesci e mammiferi a una stessa specie, o a uno stesso genere, o a una stessa famiglia di animali. Grazie dunque a queste strutture, cioè la relazione di tutte le categorie accidentali alla sostanza e l’ana­ logia di matèria e forma, potenza e atto, l’essere, pur conservando intatta la molteplicità dei suoi significati, risulta una nozione non puramente equivoca, né un puro nome indicante una molteplicità assolutamente priva di unità. N el medioevo arabo e cristiano queste strutture sono state utiliz­ zate soprattutto dalla teologia, al fine di ottenere qualche conoscenza di D io. M a il rapporto tra D io e le creature, che i filosofi medioevali ammettevano, non ha nulla di paragonabile al rapporto tra la sostanza e le altre categorie. E sso ha potuto essere chiamato analogia di attri­ buzione solo perché la creazione è stata intesa come partecipazione, e quindi come som iglianza, degli enti creati alFessere di D io, e nella

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partecipazione lo stesso termine viene attribuito, con significati par­ zialmente diversi (cioè diversi nel grado di intensità), a enti diversi, il partecipato e il partecipante. Forse tra D io e le creature - qualora naturalmente si possano di­ mostrare Inesistenza di D io e il rapporto di creazione, il che è tutt’altro che scontato - si può ammettere un’analogia di proporzionalità, nel senso che, qualora anche a D io sia attribuibile l’essere, o l’esistenza, deve trattarsi di un essere totalmente diverso da quello che è attribui­ bile alle creature, perché l’essenza di D io è totalmente diversa da quella delle creature; ma tra l’essere di D io e la sua essenza c’è probabilmente lo stesso rapporto che c’è fra l’essere e l’essenza delle creature, nel senso che un’essenza divina implica un essere a essa proporzionato, in particolare necessario, mentre un’essenza creaturale implica anch’essa un essere a essa proporzionato, in particolare un essere con­ tingente. 6. Le proprietà trascendentali dell’essere Oltre alla molteplicità dei significati dell’essere, e all’ordine, o unità, che è rintracciabile tra questi, nel tema della metafisica rientrano anche quelle che sono state chiamate dagli scolastici le proprietà trascen­ dentali dell’essere, cioè quelle proprietà che appartengono a tutti gli enti, per il solo fatto che questi sono enti, e perciò "'trascendono” , cioè vanno oltre, le categorie. Si tratta infatti di importanti caratteristiche dell’esperienza, che contribuiscono a renderla intelligibile, cioè a manifestarne la struttura, senza per questo irrigidirla in schemi pre­ costituiti o arrestarne la mobilità. Q ueste proprietà sono state tradi­ zionalmente individuate nell’unità, nella verità e nella bontà. G ià Aristotele ebbe a osservare che ogni ente, per il solo fatto di essere ente, è anche uno, cioè è dotato di unità, che poi significa di una propria determinatezza, o identità, che lo distingue da tutti gli altri enti. Perciò egli affermò che l’ente e l’uno si "convertono” , cioè sono interscambiabili, ovvero coestensivi, nel senso che hanno la stessa estensione. A ciò si deve aggiungere che l’ente e l’uno hanno anche la stessa comprensione, cioè la stessa ricchezza di determinazioni, per­ ché entrambi si predicano non solo degli aspetti comuni a tutti gli

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enti, ma anche delle loro differenze. Perciò neanche Puno, come Tes­ sere, è un genere, ma si dice anch’esso in molti sensi, precisamente in tanti in quanti si dice Pente {Metaph. IV 2). Q uesto uno trascendentale non va confuso con Puno inteso come unità di misura, che pure è comune a generi diversi, ma ha il signifi­ cato non di determinatezza, o identità, bensì di indivisibilità {ivi^ X 1-2). Il suo opposto, nelPambito dell'essere, è il molteplice, che anzi può essere considerato il suo contrario, perché per Aristotele i con­ trari sono gli opposti che si collocano alPinterno di un medesimo ambito (negli altri casi essi sono gli opposti che si collocano nello stesso genere, ma questo non si può dire a proposito dell'essere, per­ ché, come abbiamo visto, l'essere non è un genere). Com e m ostrò già Platone nel Parmenide^ tutto ciò che è, è insieme uno e anche m olte­ plice: uno nel senso che è determinato, identico a se stesso, distinto dagli altri enti, e molteplice in quanto caratterizzato da una m oltepli­ cità di differenze rispetto proprio agli altri enti, e quindi fa parte di una molteplicità. U n rapporto non di contrarietà, come quello che sussiste tra Puno e il molteplice, ma di opposizione tra contraddittori, cioè tra termini di cui Puno è la totale negazione dell'altro, per cui essi non hanno nulla in comune, si pone invece tra l'essere e il non-essere. Tuttavia Aristotele non ammette che si possa parlare del non-essere in assolu­ to, vale a dire del puro nulla, di quello che Kant chiamerà il nihil negativurrij perché anche il non-essere, come l'essere, ha molti signi­ ficati, precisamente tanti quanti ne ha l'essere. Ciascuno, pertanto, dei significati del non-essere è la negazione del corrispondente signi­ ficato dell'essere, quindi anche il non-essere, come l'essere, è sempre un non-essere determinato, vale a dire la negazione di un essere de­ terminato {Metaph, X IV 2). Q uando l'uno e il molteplice sono considerati in ciascuno dei si­ gnificati che hanno nelle varie categorie dell'essere, essi danno luogo ad altre coppie di opposti, che sono: nella categoria della sostanza, l'identico e il diverso; in quella della quantità l'uguale e il disuguale; in quella della qualità il simile e il dissimile. C iò significa che enti costituiti da una sola sostanza sono identici, cioè sono un solo ente, mentre enti costituiti da molte sostanze sono enti diversi; che enti

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aventi una stessa quantità sono uguali, mentre enti aventi quantità molteplici sono disuguali; che enti aventi una stessa qualità sono si­ mili, mentre enti aventi qualità molteplici sono dissimili. L'unità di sostanza, o identità, può essere a sua volta di vari tipi: se ciò che è uno, ovvero identico, è una sostanza prima, cioè un individuo, si ha Fidentità di numero; se invece ciò che è uno, ovvero identico, è una sostanza seconda, quale la specie o il genere, si ha l'identità specifica o generica; se infine ciò che è uno, ovvero identico, è solo un rapporto tra termini diversi, si ha l'unità per analogia, cioè l'analogia di proporzionalità {Metaph. V 6). Si noti che identità e differenza si implicano reciprocamente, nel senso che tutto ciò che è, è insieme identico e anche diverso: identico a se stesso e diverso dagli altri. O sserva infatti Aristotele: «D iverso e identico si dicono di ogni cosa in relazione a ogni altra, purché ciascu­ na di queste sia ente e sia una; infatti il diverso non è la negazione [cioè l'opposto per contraddizione] dell'identico e perciò non si predica delle cose che non sono (di queste si predica invece il non-identico), bensì di tutte quelle che sono, perché tutto ciò che è ente e che è uno è per natura uno o non-uno rispetto a qualcos'altro» {Metaph, X 3, 1054 b 18-22). Tutto, dunque, è in relazione a tutto e l'essere, cioè l'esperienza, risulta un'imm ensa e com plessa rete di relazioni fra tutti gli enti. N ella tarda Scolastica medioevale si è voluto ricavare da questa dottrina di Aristotele il cosiddetto ""principio di identità", cioè l'as­ siom a (affermazione ""degna” , in greco axios^ di essere ammessa per­ ché evidente e indimostrabile) secondo cui ""ogni ente è identico a se stesso", formulato poi da Leibniz mediante sim boli come ""A è A " e da Hegel addirittura mediante il segno matematico dell'uguaglianza come ""A = A ". In realtà in Aristotele questo principio non c'è, nel senso che non c'è bisogno di formulare un assiom a per esprimere la proprietà trascendentale di ogni ente di essere identico a se stesso. Se dell'identità si fa un principio, si rischia di cadere, come ha osservato Hegel, in una vuota tautologia, come se alla dom anda ""che cos'è un albero?" si rispondesse ""un albero è un albero". Ben diverso dal principio di identità è invece il cosiddetto princi­ pio di non-contraddizione, a volte chiamato sinteticamente anche

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principio di contraddizione. Q uesto è stato form ulato chiaramente da Aristotele, anche se form ulazioni di esso, non ancora presentato come un ''principio” , si trovano già in Platone, e suona: «È im possi­ bile che la stessa cosa contemporaneamente appartenga e non appar­ tenga alla stessa cosa e secondo la stessa cosa» {Metaph. IV 3,1005 b 19-20). La "c o sa ” appartenente o non appartenente è il predicato, avvero la determinazione, per esempio una qualità, mentre Paîtra "co sa ” , a cui essa appartiene o non appartiene, è il soggetto, e la terza "co sa ” , secondo la quale avviene Pappartenenza, è Paspetto sotto cui questa viene considerata, o ciò in relazione a cui essa viene conside­ rata; perciò si può dire: «E im possibile che lo stesso predicato appar­ tenga e non appartenga allo stesso soggetto nello stesso tempo e sotto il medesimo aspetto». Se si vuole esprimere questo discorso per m ezzo di simboli, non si deve dire "A è A e non è non-A ” , come invece si trova in tutta la tradizione (per esempio in Leibniz, in H egel e in tutti i manuali di logica e di metafisica), perché nella form ulazione aristotelica non si dice che il soggetto e il predicato siano la stessa cosa, ma «è im possi­ bile che A sia B e A non sia B nello stesso tempo e sotto il medesimo aspetto», dove evidentemente il verbo essere indica una predicazione sia essenziale sia accidentale. Riprendendo Pesempio di Hegel, non si deve dire «Palbero è un albero e non è un non-albero», il che sarebbe alquanto banale, ma «è impossibile che un albero sia, ad esempio, verde e non sia verde nello stesso tempo e sotto il medesimo aspetto», il che non è banale, perché ammette la possibilità che un albero sia e non sia verde in momenti diversi, come accade al variare delle stagioni, o sia e non sia verde sotto aspetti diversi, come accade ad esempio se si considerano da un lato le foglie e dalPaltro il tronco. C iò che viene dichiarato impossibile, non perché vietato, ma perché nella realtà non può mai accadere, è che uno stesso albero sia verde e non sia verde nella stessa stagione, o in relazione allo stesso suo aspetto, per esempio verde e non verde nelle foglie, oppure verde e non verde nel tronco. Com e si vede, questo è un principio che anzitutto riguarda gli enti, cioè Pessere, perciò si può dire che è un principio ontologico; da esso tuttavia deriva il principio logico che «non si può contemporanea­

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mente affermare e negare la stessa cosa della stessa cosa sotto lo stesso aspetto», cioè non ci si può contraddire, il che non vuol dire che sia materialmente im possibile contraddirsi, cioè dire cose tra loro con­ traddittorie - anzi, ci si contraddice spessissim o - , ma che, quando ci si contraddice, non si è nel vero, cioè non si dice come stanno real­ mente le cose, e anzi non si dice nemmeno nulla di sensato, cioè non si riesce a farsi capire, è come se non si dicesse nulla. E da esso deriva il principio psicologico che «non si può pensare che alla stessa cosa contemporaneamente e sotto lo stesso aspetto appartenga e non ap­ partenga una stessa determinazione», perché ciò equivarrebbe all"ap­ partenenza contemporanea e sotto lo stesso aspetto di due opinioni opposte allo stesso soggetto pensante, il che è im possibile in base al principio ontologico, ma naturalmente non è escluso che lo si possa dire, perché non tutto quello che si dice corrisponde fedelmente a quello che si pensa. G li scolastici hanno ritenuto che il principio di non-contraddizione esprimesse un’altra proprietà trascendentale dell’essere, quella per cui ogni ente sarebbe vero. C iò può essere ammesso solo se si attri­ buisce al termine "vero ” il significato di intelligibile, cioè non-contraddittorio: si deve dire, infatti, che ogni ente è incontraddittorio, e che un ente contraddittorio, cioè avente contemporaneamente e sot­ to lo stesso aspetto una certa determinazione e la negazione di essa, sarebbe inintelligibile, anzi addirittura impensabile. Se invece si attri­ buisce al termine "vero ” il significato di conforme alla realtà, il quale può essere attribuito solo ai pensieri (giudizi) e ai discorsi (proposi­ zioni), allora si deve dire che l’incontraddittorietà è condizione ne­ cessaria, ma non sufficiente, della verità di un pensiero o di un discor­ so, mentre la contraddittorietà è condizione non necessaria, ma suf­ ficiente, della sua falsità. In altre parole, un discorso incontradditto­ rio può essere tanto vero quanto falso, mentre un discorso contrad­ dittorio è sicuramente falso, anche se un altro discorso può essere falso senza essere contraddittorio. D a ciò si vede come il principio di non-contraddizione ha un va­ lore non solo formale, ma anche euristico, cioè può essere usato per scoprire, se non la verità, almeno la falsità di un discorso, il che ha importanti conseguenze anche in ordine alla scoperta della verità.

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grazie a un corollario del principio di non-contraddizione, di cui parleremo tra poco, cioè il cosiddetto principio del terzo escluso. La dimostrazione che un discorso è falso, in quanto implica una contrad­ dizione, è chiamata da Aristotele "confutazione” {èlenchos) e costi­ tuisce una delle argomentazioni più importanti della dialettica, cioè della tecnica della discussione, utilizzabile anche nelFambito della scienza e della filosofia. Prima di affrontare il principio del terzo escluso, vale la pena di ricordare altre considerazioni svolte da Aristotele, e rimaste classi­ che, sul principio di non-contraddizione. La prima è che questo principio è la condizione di tutti i discorsi e di tutte le dim ostrazioni, perché i discorsi che lo violassero non solo sarebbero falsi, cioè non conformi alla realtà, ma anche insensati. Dire infatti che una cosa contemporaneamente e sotto lo stesso aspetto ha e non ha una certa determinazione, equivale a dire una cosa senza senso, cioè a non dire nulla. Essendo la condizione di tutti i discorsi, e quindi anche di tutte le dim ostrazioni (perché le dim ostrazioni sono discorsi), il principio di non contraddizione è indimostrabile, in quanto per dimostrarlo bi­ sognerebbe presupporlo, cioè compiere una petizione di principio, che è un errore logico. E sso però è noto a tutti, cioè è evidente, è ammesso implicitamente o esplicitamente da tutti nel momento stes­ so in cui parlano e pretendono che il loro discorso abbia un senso. C iò non toglie tuttavia che secondo Aristotele il filosofo interes­ sato allo studio dell’essere in quanto essere, cioè il metafisico, debba discutere, anche a proposito di tale principio, se esso è vero o falso, cioè debba assumere un atteggiamento critico anche verso di esso (vedremo in seguito come la filosofia, anzi la metafisica sia per defi­ nizione un atteggiamento integralmente critico nei confronti di ogni certezza). Il filosofo, anzi, sempre secondo Aristotele, può in qualche m odo persino dimostrare il principio di non-contraddizione, cioè non direttamente, altrimenti commetterebbe una petizione di principio, ma - come dice egli stesso - "per via di confutazione” {elenktikòs)^ cioè rilevando come la petizione di principio sarebbe compiuta da colui che volesse negarlo. La dim ostrazione per via di confutazione, o "elenctica” , del prin­

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cipio di non contraddizione è celeberrima: chi volesse negarlo, osser­ va Aristotele, dovrebbe dire qualche cosa, altrimenti non negherebbe nulla. M a dire qualcosa equivale a dire precisamente qualcosa di si­ gnificante, cioè di sensato, per sé e per gli altri, cioè di comprensibile, altrimenti ci si comporterebbe come un vegetale, cioè non si direbbe nulla. E dire qualcosa di significante equivale a dare a ciò che si dice un significato determinato, cioè un certo significato e non il suo o p ­ posto. Ebbene, facendo questo, si ammette proprio il principio di non contraddizione, cioè si ammette che ciò che si dice non possa contem­ poraneamente e sotto il medesimo aspetto essere e non essere deter­ minato in quel certo modo. Dunque, chi vuole negare il principio di non contraddizione, non solo commette lui la petizione di principio, ma non riesce nemmeno a negarlo. C iò significa che tale principio è innegabile, cioè non solo vero, ma necessariamente vero {Metaph. IV 4-6). A questo punto bisognerebbe menzionare le varie critiche che, malgrado la difesa aristotelica, sono state m osse al principio di non contraddizione nella successiva storia della filosofia. N o n sarebbe difficile dimostrare tuttavia che la più celebre di esse, cioè quella avan­ zata da H egel in nome della sua dialettica, sotto un certo aspetto colpisce, più che la form ulazione aristotelica del principio di non contraddizione, la form ulazione scolastica e razionalistica del prin­ cipio di identità, mentre sotto un altro aspetto essa è conseguente alla pretesa del sistema hegeliano di esprimere nientemeno che PA ssolu­ to, il che produce inevitabilmente la contraddizione, per Finadeguatezza, rilevata del resto dallo stesso Hegel, della form a logica della proposizione a tale compito (Berti, 1987b, pp. 177-222). Per quanto riguarda poi le critiche al principio di non contraddi­ zione mosse dalla logica del Novecento, quelle tra esse che non si richiamano alla dialettica hegeliana danno luogo a dei sistemi cosid­ detti paraconsistenti (per esempio la ""logica della rilevanza” di A n ­ derson e Belnap), dove le violazioni del principio di non contrad­ dizione sono, tutto som m ato, eccezionali e non producono effetti devastanti solo perché vengono accuratamente isolate dalFinsieme del sistema. Esse in tal m odo confermano il cosiddetto teorema dello pseudo-Scoto, cioè una dim ostrazione sviluppata in un'opera della

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tarda scolastica attribuita a Duns Scoto, secondo la quale la presenza di una contraddizione in un sistema logico consente di dimostrare qualsiasi proposizione, rendendo in tal m odo il sistema del tutto banale

(Berti, 1987b,pp. 257-288). E significativo, del resto, che un filosofo analitico ed esperto di logica come Putnam abbia recentemente dim ostrato che il principio di non-contraddizione, sia pure nella form ulazione minimale secon-do cui «non ogni asserto è contemporaneamente vero e falso», è una verità a priori^ forse Punica, proprio a causa della sua innegabilità, la quale risulta appunto dal tentativo di negarlo, secondo un procedi­ mento del tutto analogo alParistotelica dim ostrazione per confuta­ zione (Putnam, 1983, pp. 98-114). Verso la stessa conclusione con­ vergono filosofi di provenienze diverse, quali Passm ore (1970, pp. 69 e 80) e Apel (1987, pp. 116-211). U n corollario del principio di non contraddizione è il principio, detto da Baumgarten in poi, del terzo escluso, che Aristotele formula nel m odo seguente: «N on è neppure possibile che vi sia nulla di in­ termedio rispetto a due proposizioni fra loro contraddittorie, ma è necessario o affermare o negare, di una sola cosa, una sola cosa, qua­ lunque essa sia» {Metaph. IV 7,1011 b 23-24). Anche qui non si tratta di un divieto o di un comando, ma del rilievo che, fra due proposizio­ ni contraddittorie, che siano cioè rispettivamente afferm azione e negazione dello stesso predicato a proposito dello stesso soggetto, si può stare sicuri che solo una è vera, anche se non importa quale delle due essa sia, mentre Paîtra è sicuramente falsa. Insom m a tra ""A è B ” e "A non è B ” , è necessario che Puna delle due sia vera e l’altra falsa, per cui '"A o è B o non è B ” . Si tratta di un corollario del principio di non contraddizione, per­ ché esso deriva dall’im possibilità che siano vere entrambe le p ro po ­ sizioni contraddittorie e dal carattere esaustivo dell’alternativa da esse formata: infatti, se A non è B, allora è non-B e, se non è non-B, allora è B, per cui non si dà una terza possibilità. L ’im portanza di questo principio sta nel fatto che esso permette, una volta che si sia indivi­ duata, per m ezzo del principio di non-contraddizione, una proposi­ zione sicuramente falsa (perché contenente una contraddizione), di concludere che la negazione di essa è sicuramente vera, cioè consente

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di dimostrare una proposizione per via di confutazione, che è l’unico tipo di dim ostrazione, come vedremo, possibile in filosofia. Alcuni ritengono che anche il principio del terzo escluso possa essere negato, per esempio per m ezzo della matematica intuizionisti­ ca di Brouwer, sviluppata in logica intuizionistica da Heyting, la quale afferma che esso vale solo nell’ambito dei sistemi matematici finiti, mentre non vale nell’ambito di quelli infiniti. A ciò tuttavia si può osservare che, essendo le proposizioni dei sistemi infiniti ancora in­ determinate, non è possibile dimostrare se esse siano vere o false, il che tuttavia non esclude che, una volta determinate, esse siano o vere o false, e dunque rispettino il principio del terzo escluso. D el resto lo stesso Brouw er ha riconosciuto che i princìpi della logica classica, com preso quello del terzo escluso, valgono per ogni tipo di linguag­ gio, per la scienza e per la vita pratica (Berti, 1987b, pp. 288-95). U n ’ultima proprietà trascendentale dell’essere, accanto all’uno e al vero, è stata indicata dalla Scolastica nel bene, cioè nella bontà di tutto ciò che è, ma è stata ripresa anche di recente (Jonas, 1979). In Aristotele questa dottrina non è presente perché, quando parla del bene, Aristotele intende un bene praticabile, cioè realizzabile dall’u o ­ mo (quello che noi chiameremmo il bene morale), mentre la dottrina in questione si riferisce al cosiddetto bene trascendentale, cioè al valore che ogni ente ha per il solo fatto di essere, il che lo rende comunque preferibile al nulla, cioè desiderabile da un soggetto dotato di deside­ rio o di volontà. Anche il bene tuttavia, secondo Aristotele, si dice in molti sensi, cioè in tanti quanti sono i sensi in cui si dice l’essere. M eno fortuna ha avuto la dottrina, ugualmente scolastica, secondo cui una proprietà trascendentale dell’essere sarebbe anche il bello (Alvira, 1987,

pp. 146-51).

I l i IL PRO BLEM A , IL P R IN C IPIO , IL PE R C O R SO

1. Problematicità del divenire N el porre a confronto la nozione di esperienza con quella di essere, ovvero di ente in quanto ente, ci siamo chiesti se il contenuto di esse sia il medesimo, cioè se Pesperienza, sia pure integrale, esaurisca in­ teramente Pessere, o se invece sia contenuta in questo senza esaurirlo, in m odo che Pessere in qualche m odo sporga al di là delPesperienza, cioè la trascenda. Q uesto è precisamente il problem a della metafisica. Fu infatti la scoperta che la "'natura"", per Aristotele equivalente alPesperienza, non è tutto Pessere, ma soltanto una parte di questo, ciò che indusse il filosofo greco a ridefinire la filosofia prima, cioè la scienza che ricerca le cause prime (da lui in un prim o momento identificata con la fisica, cioè con la scienza avente per tema la natura) come la scienza avente per tema Pessere, ovvero Pente in quanto ente, che da quel momento in poi divenne la metafisica. Il problem a, dunque, è ancora il medesimo: oggi si impone però, alla luce delPintera storia della filosofia successiva, un riesame della validità della risposta aristqtelica, e di quante altre a esso sono state date. M a vediamo anzitutto di formulare correttamente il problema. C iò che caratterizza Pesperienza, in tutta la sua estensione e profondità, attraversandola interamente e intimamente, è per Aristotele, ma an­ cora oggi, cioè sempre e per tutti, il divenire, cioè il mutamento, il cambiamento, in tutte le sue forme. Aristotele ha dim ostrato, contro Parmenide, che il divenire è innegabile, perché se anche fosse solo opinione, o "fantasìa"", queste sarebbero pur sempre una form a di divenire. Il recente tentativo com piuto da Severino di ridurre il dive­ nire, inteso come sorgere delPessere dal nulla e convertirsi delPessere

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nel nulla, alFapparire e scomparire delFessere dalla coscienza, confer­ ma Finnegabilità del divenire, sia pure inteso in form a diversa. Si potrebbe anche dire che il divenire è innegabile, perché la sua stessa negazione è pur sempre una form a di divenire. Naturalm ente il divenire non è il puro sorgere dell’essere dal nulla e il puro convertirsi dell’essere nel nulla: così lo intendeva Parmenide, per la concezione univocistica che aveva dell’essere, cioè perché non concepiva che un solo m odo di essere (e di non-essere), vale a dire il puro essere (e rispettivamente il puro nulla). E per il fatto di conce­ pirlo in questo m odo, Parmenide trovava il divenire contraddittorio, perciò lo negava. Abbiam o visto invece con Aristotele che l’essere e il non-essere si dicono in molti sensi, i quali consentono di concepire il divenire in altri modi, cioè come successione, in una medesima sostanza, di accidenti diversi, o come assunzione, da parte di una

medesima materia, di forme di diverse (o da parte di una medesima form a, di materie diverse), o infine come passaggio dall’essere in potenza all’essere in atto. Per Aristotele il divenire è sempre divenire di un soggetto dive­ niente, e diveniente perché permanente, cioè perché “ continuante” come dicono gli odierni filosofi analitici (W iggins) - nel mutare delle situazioni spazio-tem porali. Q uesta dottrina aristotelica è stata ri­ presa dai moderni critici di Hegel, cioè Feuerbach, M arx e Kierke­ gaard, i quali si sono richiamati esplicitamente ad Aristotele. Per H e ­ gel, infatti, il divenire non è altro che il processo dell’Idea, o dello Spirito, la cui essenza è di essere, appunto, processo, cioè un divenire senza sostrato, o senza soggetto (inteso quest’ultim o nel senso antico del termine). A ciò Feuerbach ha osservato che si tratta di un rovesciamento dei rapporti di predicazione, cioè di porre lo Spirito che, in quanto proces­ so, è predicato, al posto del vero soggetto, che è invece la natura, o l’uom o; la stessa osservazione, richiamandosi ad Aristotele, hanno fatto Marx, che riprende addirittura il termine aristotelico di hypokeimenon (sostrato, soggetto) e Kierkegaard, che sottolinea l’indivi­ dualità, anzi la singolarità, del soggetto, il singolo uom o (Berti, 1992). M a sulle posizioni di Aristotele si ritrova l’odierna filosofia ana­ litica, la quale sottolinea con Strawson che i corpi materiali e le per­

Il problema, il Principio, il percorso

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sone, cioè i soggetti, sono "particolari di base” , mentre gli eventi e i processi, cioè i mutamenti, sono particolari secondari, vale a dire identificabili solo in relazione ai primi; e precisa con Wiggins che i particolari di base, da lui chiamati senz'altro "so stan ze” , sono "co n ­ tinuanti” , cioè continuano a mantenere la propria identità attraverso il mutare dello spazio e del tempo, e proprio questo li distingue dagli eventi e dai processi, i quali durano solo un certo tempo. Anche la fisica contemporanea parla di movimenti di particelle o, nella sua versione quantistica, di trasm issione di quanta di energia, ammettendo in tal m odo un sostrato, ovvero un soggetto, del diveni­ re. A livello cosm ico, il prim o principio della termodinamica, ammet­ tendo che la quantità complessiva di energia da cui è form ato l'uni­ verso si conserva immutata, m algrado tutte le trasform azioni di stato che avvengono in essa, riconosce sostanzialmente l'esistenza di un sostrato del divenire. N o n si deve credere, tuttavia, che il divenire, per il fatto di non essere un sorgere dell'essere dal nulla o un convertirsi dell'essere nel nulla, non implichi alcun incremento o alcuna novità. Il divenire che caratterizza l'esperienza non è uno stato fisico, come il movimento inerziale, che è simile alla quiete, ma è un mutamento di stato, come il passaggio, nella meccanica, dalla quiete al moto o dal moto alla quiete. Tale mutamento di stato si manifesta complessivamente, a livello cosmico, nell'entropìa, che è un'involuzione (tale è anche il significa­ to letterale del termine) da forme di energia più facilmente trasform a­ bili (o trasformabili senza perdite) a forme meno facilmente trasfor­ mabili, come insegna il secondo principio della termodinamica, e a livello biologico nell'evoluzione delle specie, che è un progresso ver­ so forme di organizzazione sempre più complesse. In entrambi questi processi gioca un ruolo rilevante, come è noto, il caso, che dà luogo appunto a continue novità. La novità contenuta nel divenire si manifesta ancor più chiara­ mente a livello di esperienza vissuta e di storia, dove la successione degli stati in cui vengono a trovarsi il singolo individuo, o la coscien­ za, e i gruppi sociali, o l'umanità nel suo com plesso, presenta conti­ nuamente caratteri di imprevedibilità, se si vuole anche di casualità o, se si preferisce, di libertà, di creatività. O ggi molti amano parlare a

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proposito del?esperienza, dell'esistenza e della storia, di ""eventi” , e quindi di eventualità (Diano, 1952). Il concetto di evento, pur senza eliminare il necessario riferimento a un soggetto (o a un sostrato, perché l’evento è idquod cuique evenit), esprime appunto il carattere di novità del divenire, cioè il ""venire da” e il ""venire a” , quasi dal buio alla luce, dall’ignoto al noto, dal vecchio al nuovo. Per questo suo carattere di novità il divenire è sempre occasione di stupore, di meraviglia. L a meraviglia è il sentimento che si prova di fronte a qualcosa di nuovo, di non ancora noto: ciò che è già noto non stupisce più, mentre stupisce ciò che si incontra per la prima volta, ciò che è appunto nuovo, imprevisto, inatteso. La novità è precisamente la differenza tra il prima e il poi, tra lo stato di cose esistente prima del mutamento e quello che viene a instaurarsi in seguito a esso. E il di­ venire non è altro che questa differenza, scandita dai ritmi del tempo, il quale è la vera condizione trascendentale dell’esperienza, conside­ rata in tutte le sue forme (movimento, vita, storia ecc.). Ebbene, que­ sta differenza stupisce, suscita meraviglia: dunque il divenire è p ro ­ blematico. La tesi che ci proponiam o di illustrare ora, sulla scorta di A risto­ tele e di quel suo autentico interprete che è stato, fra i metafisici a noi contemporanei. M arino Gentile, è appunto la problematicità del di­ venire. D ire che il divenire è problem atico, significa dire che esso non si spiega da sé, che non è autosufficiente, che richiede perciò una spiegazione diversa da sé (M. Gentile, 1955, c. 4). N el sostenere que­ sta tesi. M arino Gentile si è differenziato dall’altro principale espo­ nente italiano della metafisica classica, cioè da Bontadini, che nei suoi ultimi scritti ha affermato semplicemente la contraddittorietà del divenire, e si è trovato a convergere invece con la prim a fase del pen­ siero di Bontadini, secondo la quale il divenire è contraddittorio solo se assolutizzato, cioè se considerato autosufficiente, se identificato con l’interezza dell’essere. Naturalm ente la problematicità del divenire va dimostrata: non ci si può accontentare di rilevare che il divenire è fonte di meraviglia, il che peraltro è già un segno della sua problematicità. E la dim ostrazio­ ne che di tale tesi si può dare è per via di confutazione, cioè è costituita dalla confutazione, o riduzione a contraddizione, dell’assolutizza-

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zione del divenire, vale a dire delFaffermazione della sua autosuffi­ cienza, Consideriam o allora questa possibile affermazione, che sta alla base di tutte le metafisiche immanentistiche: il divenire è assoluto, cioè è Finterà realtà; ovvero il divenire è spontaneo, cioè non avviene per opera di alcuna causa; o infine il divenire è autosufficiente, cioè si spiega da sé, non ha bisogno di alcuna spiegazione. Tutte queste affermazioni implicano che il nuovo stato di cose, il cui prodursi costituisce appunto il mutamento, sia già contenuto nello stato di cose a esso precedente, cioè abbia interamente la sua origine nel precedente, non aggiunga nulla al precedente. In tal m odo esse non spiegano affatto la sua differenza dal precedente, cioè la sua novità. Esse tendono a fare del divenire non un mutamento di stato, ma uno stato immutabile, come è il movimento inerziale, che infatti non ha bisogno di cause, se non per avere inizio, per cessare, per modificarsi o per m antenersi m algrado qualche resistenza, cioè appunto per mutare. Ebbene, ciò equivale a negare il divenire, il quale, come ab­ biamo visto, è invece innegabile; oppure ad affermare che stati succes­ sivi, e perciò diversi, sono invece identici, il che è contraddittorio. Q uesta osservazione vale non solo a proposito della novità del divenire intesa in senso per così dire positivo, cioè come venire all’es­ sere di uno stato di cose che prima non sussisteva (anche se le cose da cui esso è costituito sussistevano già), ma anche a proposito della novità intesa in senso negativo, cioè come venir meno di qualcosa, come scomparire, come morire. L ’esperienza della morte, che è sempre della morte altrui, e che nel caso in cui si tratti di una persona cara può tradursi in disperazione, o l’angoscia per la propria morte sono degli Erlebnisse^ a questo proposito, particolarmente istruttivi. Il venir meno di qualcosa è infatti la prova più manifesta della sua non assolutezza, non autosufficienza, cioè della sua precarietà, instabilità, insufficien­ za, incapacità di resistere e di durare. Aristotele fa un’osservazione forse un p o ’ macabra, ma pertinente, quando afferma contro chi nega il divenire: «C olu i che dice questo un tempo lui stesso non c’era e poi di nuovo non ci sarà più» {Metaph. IV 8, 1012 b 25-26). Tutto ciò è stato espresso, appunto, da A ristotele mediante la concezione del divenire come passaggio dalla potenza all’atto e medianteja dottrina, a essa strettamente connessa, dell’anteriorità del-

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Fatto rispetto alla potenza. Se il divenire infatti è passaggio dalla potenza, cioè da uno stato di cose in cui lo stato a esso successivo non si è ancora realizzato, ma può appunto realizzarsi, così come può non farlo, allora tale passaggio non può avvenire esclusivamente in virtù della potenza, cioè del prim o stato di cose, perché in tal caso questo conterrebbe già interamente in sé lo stato di cose successivo e non consisterebbe più nella possibilità tanto di realizzarlo quanto di non realizzarlo. Insomma, se il passaggio avvenisse esclusivamente in vir­ tù della potenza, la potenza sarebbe già atto, e si avrebbe un’identi­ ficazione di potenza e atto, cioè di non essere ancora e di essere già, di non essere e di essere, nello stesso tempo e relativamente allo stesso stato di cose, cioè si avrebbe una contraddizione in termini {Phys, V ili 4; M etapk IX 8). Tom m aso d’Aquino, nella fam osa “ prima via” per dimostrare l’esi­ stenza di D io, che resta la più forte (non a caso da lui stesso definita prima et manifestior), perché non basata sulla dottrina della parteci­ pazione, ha colto perfettamente il nucleo dell’argomento aristotelico, quando ha riconosciuto che la tesi omne quod movetur ah alio movetur (tutto ciò che si muove è m osso da altro) non è affatto un prin­ cipio, cioè una verità evidente, il cosiddetto principio di causalità, come molti tomisti hanno creduto, ma ha bisogno a sua volta di essere dimostrata. Egli l’ha dim ostrata precisamente prospettando l’ipotesi che ciò che si muove sia m osso da sé, cioè che il movimento sia auto­ sufficiente, assoluto, spontaneo, e riducendo questa ipotesi a con­ traddizione attraverso la dottrina aristotelica della potenza e dell’at­ to. Il nucleo della dim ostrazione, che è una dim ostrazione per con­ futazione, sta infatti nell’osservare che, se ciò che si muove fosse m osso da sé, esso sarebbe, in quanto si muove, cioè muta, in potenza, e in quanto muove, cioè produce lui il m utamento, in atto, quindi in potenza e in atto nello stesso tempo e rispetto allo stesso movimento, il che è appunto contraddittorio {Summa theologiae I, 2, art. 3). In Aristotele il discorso si complica con l’affermazione dell’eter­ nità del m ondo (tesi cosm ologica che in lui ha il significato, per noi oggi inaccettabile, di eternità dell’attuale ordine cosmico, in partico­ lare del movimento circolare e continuo dei cieli), la quale tuttavia, lungi dal giocare in favore dell’autosufficienza del divenire, è proprio

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l’elemento decisivo per dimostrare la necessità di un motore im m o­ bile. Il significato che tale dottrina ha per la metafisica classica è quello di coinvolgere nella problematicità il divenire nella sua globalità, cioè non solo un particolare mutamento, ma l’insieme di tutti i mutamenti passati, presenti e futuri. Proprio perché tutto ciò che muta passa dalla potenza all’atto, all’interno del divenire non si può ritrovare nulla che lo produca, nulla che lo spieghi. L o stesso significato ha la tesi, presente tanto in Aristotele quanto in Tom m aso, dell’im possibilità del regresso all’infinito nella ricerca di un motore, cioè quello di mostrare che, fino a quando si resta al­ l’interno del divenire, pur considerandolo nella sua globalità, non se ne può trovare la ragione, proprio per il carattere di potenzialità, quindi di precarietà, di problematicità, che contrassegna il divenire. Tutto ciò non implica affatto una preliminare ammissione del cosiddetto principio di causalità, il quale per Aristotele e Tom m aso non è affatto un principio, ma una tesi, cioè un teorema, che ha bisogno di essere dimostrato, e che si dimostra, come abbiam o visto, per via di confu­ tazione. 2. Problematicità delVesperienza L ’esperienza è problematica in quanto è caratterizzata, in tutta la sua estensione e profondità, dal divenire, cioè dal mutamento. M a essa è problematica anche di per se stessa, cioè in quanto esperienza, appun­ to, del divenire, in quanto divenire, per così dire, vissuto, in una molteplicità e varietà di forme. Se il divenire che finora abbiamo con­ siderato è ciò che costituisce l’oggetto, o il contenuto, dell’esperien­ za, c’è un divenire che costituisce anche l’atto dell’esperienza, cioè il processo per m ezzo del quale il primo viene esperito, o vissuto. L ’espe­ rienza a cui ci siamo richiamati, infatti, è esperienza integrale, cioè intera, non parziale. E ssa pertanto non si riduce, come abbiamo det­ to, alla sola percezione sensoriale, ma comprende l’intero processo conoscitivo, dal suo inizio ai suoi sviluppi più complessi, e non solo il processo conoscitivo, ma anche quello affettivo, quello pratico e, si potrebbe dire, anche quello estetico. " G ià la semplice percezione sensoriale è un processo: essa non si

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riduce infatti alla sola sensazione, cioè alla reazione di un organo di senso a uno stimolo isolato, quale un colore, un suono, un sapore ecc. La percezione, come risulta da un'elementare analisi fenom enologi­ ca, è sempre percezione di un oggetto sensibile considerato nella sua globalità, cioè con colore, grandezza, form a, peso, eventuale suono, eventuale sapore, un insieme insomma di qualità, ciascuna delle quali è oggetto di una singola sensazione. E ssa inoltre è percezione di un oggetto che si colloca su uno sfondo, cioè si distingue da altri, e perciò sta in relazione con altri, così come si distingue da chi lo percepisce, e sta pertanto in relazione anche con questo. La percezione sensoria­ le, insomma, è percezione di differenze, quindi di una molteplicità, di una varietà. Analogamente, la percezione sensoriale è sempre percezione di un oggetto che muta, che si trasforma, sia in relazione ad altri, sia in relazione a colui che lo percepisce; e colui stesso che lo percepisce muta in relazione a esso e in relazione a tutti gli altri oggetti che per­ cepisce. Essa, insomma, è sempre anche percezione del mutamento, del divenire. Ora, tanto la molteplicità, quanto il divenire che carat­ terizzano il livello della percezione, fanno sì che questa non sia mai percezione di dati singoli, isolati, immediati. L'im m ediatezza della percezione non esiste. La percezione è sempre relazione, quindi collegamento; è processo, quindi superamento; è insomma, sotto ogni riguardo, mediazione. A maggior ragione, allora, è mediazione l'espe­ rienza, che è l'insieme e la successione di molte percezioni, collegate tra loro e successive Luna all'altra secondo un flusso continuo. Già Aristotele aveva riconosciuto che la percezione è mediazione. Quella che egli chiama sensazione, infatti, e che corrisponde alla nostra percezione, è il risultato dell'immedesimazione dell'organo di senso con l'oggetto sensibile, cioè è l'assunzione da parte dell'organo di senso della form a dell'oggetto sensibile, che è attuazione sia della potenzialità senziente dell'organo sia della potenzialità sensibile del­ l'oggetto {De anima I I 12). E ssa dunque unifica i diversi aspetti di un oggetto sensibile sotto un'unica form a sensibile. La percezione, tut­ tavia, se ha sempre per oggetto una realtà particolare, anzi individua­ le, percepisce di questa anche gli aspetti universali. N el momento in cui si percepisce l'individuo Callia, afferma Aristotele, si percepisce

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anche Puomo che egli è (An. post. I I 19,100 a 16-18). Quindi la per­ cezione è unificazione in due sensi: essa unifica i diversi aspetti sen­ sibili di un oggetto considerato nella sua globalità, percependolo appunto come individuo, e coglie gli aspetti di esso che lo assimilano, cioè lo unificano, con altri individui della stessa specie. E ssa è dunque un'unificazione per così dire aperta, avviata e non conclusa. M a l'esperienza non è solo percezione: essa è anche ad esempio ricordo, cioè permanenza della form a sensibile percepita, vale a dire dell'immagine, nella memoria, e il ricordo costituisce rispetto alla per­ cezione un'ulteriore unificazione, perché collega e quindi unifica il proprio contenuto, cioè l'immagine, che si colloca in un momento successivo, con il contenuto della percezione, che appartiene a un m o­ mento precedente. U n'ulteriore unificazione è, per A ristotele, l'esperienza vera e propria, quella cioè che egli chiama empeirìa, da lui definita come «m olti ricordi dello stesso oggetto», i quali form ano un'unità, l'unità appunto di «un'unica esperienza» {miàs empeirìas) {Metaph. 1 1,980 b 28-981 a 1). Avere esperienza di una cosa, infatti, significa non solo averne avuto una percezione, ma averla percepita più volte, averne conservato molti ricordi ed esserne divenuti appunto "esperti" {èmpeiroij che deriva da empeirìa). L'esperienza, quindi, è già una form a di organizzazione di ciò che si è percepito, nella quale intervengono la percezione, la memoria, ma anche l'immaginazione, che la completa, e le aspettative precedenti, le "precom prensioni". E ssa tuttavia è un'organizzazione ancora in­ completa, progressiva, aperta a ulteriori unificazioni. L'esperienza è già coglimento di una certa unità, ma è anche e soprattutto ricerca di un'unità ulteriore, di un'organizzazione completa. In quanto è tale ricerca, si può dire che l'esperienza è problematicità, cioè domanda. Per dirla ancora con Aristotele, l'esperienza è conoscenza del "che" (io hoti)^ cioè del fatto, dell'evento, la quale però è già da subito d o ­ manda del "perché" (io diòti) {Metaph. 1 1, 881 b 12-13), cioè di una spiegazione, di una ragione (M. Gentile, 1955 e 1987). Per questo suo carattere di organizzazione incompleta e progres­ siva, l'esperienza è strettamente connessa con il concetto. Aristotele distingueva l'esperienza, intesa come conoscenza del particolare.

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dall"arte {techne) e dalla scienza {episteme)^ cioè dalle conoscenze di tipo concettuale, intese come conoscenza delFuniversale; ma affer­ mava anche, come già abbiamo visto, che Funiversale è contenuto nel particolare, per cui nelFesperienza si percepisce, come particolare, Funiversale, ovvero, come Calila, Fuom o. L ’universale, infatti, non è altro che Funità di molti particolari, cioè l’aspetto comune, anzi iden­ tico, presente in tutti gli individui di una stessa specie. L ’universale colto dal concetto, tuttavia, non è un aspetto comune qualsiasi, ma quello che rivela l’essenza dei molteplici individui, cioè la loro “ for­ m a” , ciò che li fa essere quello che sono, ciò che ne spiega il com por­ tamento. A d esempio, avere il concetto di autom obile significa non tanto cogliere gli aspetti comuni a tutte le autom obili, come il fatto di avere le ruote, il telaio, il volante ecc., quanto cogliere ciò che le fa essere automobili, vale a dire Favere un motore, un congegno capace di farle muovere da sé, senza bisogno di essere trainate poniam o da un caval­ lo. Ebbene, quando percepiamo anche una singola automobile, cioè la cogliamo in tutte le sue parti e vediamo come queste sono collegate fra loro e come funzionano, ci rendiamo conto che essa è capace di muoversi da sé, e ne cerchiamo per così dire la ragione, la quale si fa chiara quando abbiamo appunto il concetto di automobile. In questo senso l’esperienza è potenzialità del concetto, presenza virtuale di esso (M. Gentile, 1955, c. 9). Q uesta connessione tra l’esperienza e il concetto è chiarita dalla funzione svolta nei confronti dell’esperienza dal principio di non contraddizione. Abbiam o visto che questo vale per ogni ente, consi­ derato appunto in quanto ente. C iò significa che ciascun ente è incon­ traddittorio, cioè non può avere nello stesso tempo e sotto lo stesso aspetto caratteri fra loro opposti, dunque è determinato, e perciò intelligibile, cioè suscettibile di essere colto per m ezzo di un concetto e di essere espresso per m ezzo di una parola significante, ovvero comprensibile e quindi fungente da m ezzo di comunicazione. L ’incontraddittorietà, la determinatezza, l’intelligibilità, la “verità” inte­ sa come proprietà trascendentale, proprie di ogni ente di esperienza, in quanto è appunto ente, non sono ancora il concetto, cioè la cono­ scenza dell’essenza, della forma, della ragione di questo ente, la “ ve­

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rità” intesa come conoscenza scientifica, ma ne sono la condizione di possibilità, e anzi in un certo senso l’esigenza, cioè la potenzialità. U n soggetto intelligente, infatti, qual è l’uom o, non si ferma mai alla semplice esperienza, ma è spinto da questa a cercare il concetto, cioè a capire con che cosa egli ha a che fare, come funziona ciò con cui ha a che fare, da dove deriva, a che cosa serve, quale valore ha. In questo senso l’intelligenza o, se si preferisce, la ragione, intesa come conoscenza concettuale, è anch’essa strettamente collegata all’espe­ rienza, è virtualmente presente in questa, è da questa richiesta. N o n c’è insomma conflitto, né dualità, tra esperienza e ragione, come so ­ stenevano da punti di vista opposti i razionalisti e gli empiristi, ma la ragione è contenuta nell’esperienza e l’esperienza richiede la ragione, è domanda di ragione. Anche in questo senso, dunque, l’esperienza è problematica. Il concetto poi, una volta raggiunto, non si presenta come una conoscenza conclusa, definitiva, esaustiva del proprio oggetto, ma come l’inizio di una serie di conoscenze ulteriori, consistenti nello stabilire la relazione fra tale oggetto e tutti gli altri che formano l’espe­ rienza, delle specie con i generi, dei generi con le classi e, in ultima analisi, con le categorie. Queste a loro volta, come abbiamo visto, si presentano come connesse tra di loro secondo una certa unità, che è la dipendenza degli accidenti, ovvero delle qualità, degli stati, dei processi, dalla sostanza. Tutte le sostanze presentano inoltre delle analogie tra di loro, nel senso che ciascuna ha una sua materia e una sua forma, ciascuna è sotto un certo aspetto in potenza e sotto un altro in atto. Esiste insomma una struttura complessiva della realtà, che è ordine, unità, regolarità, pur con notevoli margini di eventualità, casualità, imprevedibilità. L ’essere che è oggetto di esperienza, dunque, si presenta come un ordine intelligibile, in parte già conosciuto e in parte ancora da cono­ scere: la parte già conosciuta è Fintelligibilità, cioè l’unità, già realiz­ zata, mentre quella non ancora conosciuta è l’intelligibilità, cioè l’unità, che deve essere realizzata. Conoscere, come diceva Kant, significa giudicare e giudicare significa unificare, stabilire il nesso {Verbindung) tra le rappresentazioni mediante i concetti, tra i concetti mediante i giudizi e tra i giudizi mediante i ragionamenti. Il concetto, insomma.

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è una prima form a di unificazione, ma aperta, inconclusiva, orientata verso unità sempre ulteriore, che al limite è Punita stessa delFesperienza nella sua interezza. Perciò si può dire, usando sempre una term inologia kantiana, che i concetti sono princìpi regolativi, non costitutivi, della conoscenza, cioè sono come le “ idee della ragione” , che tendono a un’unità con­ clusiva senza riuscire mai a realizzarla. Solo i concetti astratti, cioè limitati a un aspetto parziale dell’esperienza, ad esempio i concetti matematici, sono conclusivi, vale a dire evidenti, esaurienti, ma lo sono appunto perché parziali, cioè perché, per così dire, si accontentano di poco. Analogamente i giudizi che vengono formati dalla connessione tra concetti regolativi non sono giudizi determinanti, in cui l’univer­ sale è già dato, e deve semplicemente essere applicato al particolare, ma sono giudizi riflettenti, in cui l’universale, cioè il principio unifi­ catore, l’unità dell’esperienza, è sempre cercato. Se a questa concezione dell’esperienza e della conoscenza, in cui convergono significativamente due pensatori sotto altri aspetti lon­ tanissimi come Aristotele e Kant, si unisce la nuova consapevolezza del carattere sempre interpretativo della conoscenza, messo in luce dall’ermeneutica contemporanea, la problematicità dell’esperienza ne risulta ulteriormente confermata e approfondita. Conoscere significa infatti interpretare, ricercare un senso e dare un senso, ma un senso che non è mai definitivo, bensì è provvisorio, cioè suscettibile di re­ visioni, integrazioni, approfondim enti continui. L ’interpretazione, proprio perché sa di essere tale, non è mai certezza definitiva, ma è sempre accompagnata dal dubbio, dalla ricerca. Per tutte queste ra­ gioni, insomma, si può dire che l’esperienza è intrinsecamente p ro ­ blematica, nel senso che è problema, domanda, ricerca. U lteriori conferm e del carattere problem atico dell’esperienza provengono dalla considerazione più ampia di essa, quella che, come abbiamo detto a proposito del tema della metafisica, comprende in sé anche le conoscenze ulteriori, cioè le scienze, nonché la vita pratica e la stessa storia. N o n c’è dubbio, infatti, che la scienza è anzitutto ri­ cerca, ricerca di una spiegazione dei fenomeni, cioè di leggi, di rego­ larità, di unità, e in questo senso di cause. Q uando si parla di cause, non è necessario dare a questo termine il significato angusto che esso

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ha assunto nella meccanica galileiano-newtoniana, cioè quello di un evento che precede un altro evento e in qualche m odo lo produce. Q uesto concetto ristretto è suscettibile della fam osa critica di Hum e, perché di questo tipo di causalità, cioè del nesso tra i due eventi, della produzione del secondo a opera del prim o, effettivamente non sem ­ pre si dà esperienza. Parlando di cause si può dare a questo termine il significato più ampio che esso aveva per Aristotele, e che è stato evocato anche di recente da un epistemologo e storico della scienza quale Thomas Kuhn, cioè quello di spiegazione, in tutti i sensi possibili in cui si può spie­ gare qualche cosa (Kuhn, 1977, trad. it., 1985, pp. 26-36). Conoscere la causa, allora, può voler dire scoprire le condizioni materiali che rendono possibile, o provocano, un fenomeno, per esempio lo stato dell’economia di una determinata società; oppure scoprire la struttu­ ra, nel senso poniam o della form ula chimica, o del codice genetico; oppure trovare l’autore, per esempio, di un delitto, o il virus che produce una malattia; o infine trovare il movente, l’interesse, che ha indotto qualcuno a compiere una determinata azione. Si tratta, come si vede, dei quattro sensi in cui parlò di cause Aristotele. Qualunque sia il significato che diamo alle cause, la scienza è ricer­ ca di esse, cioè ricerca di un “perché” {to diòti)^ di una spiegazione, di una ragione, e in quanto tale è problem atizzazione dell’esperienza, o meglio espressione della problematicità di questa. Naturalm ente la scienza non fa solo domande, ma dà anche risposte, cioè fornisce effettivamente alcune o molte delle spiegazioni che cerca. Ma per poter fare questo essa deve circoscrivere l’ambito della sua ricerca, assum e­ re dei presupposti, cioè arrestare per così dire il processo della p ro ­ blematizzazione, concludere la ricerca, facendo salva tuttavia la p o s­ sibilità di riaprirla di fronte a fatti nuovi, che smentiscano o mettano in questione le conclusioni precedentemente raggiunte. In genere la sospensione della problematizzazione nell’ambito delle varie scienze avviene per ragioni di carattere pratico, cioè operativo, non per ragioni di ordine teoretico, cioè conoscitivo. D i per sé il processo della conoscenza resterebbe sempre aperto, e la nuova con­ sapevolezza che la scienza del N ovecento ha acquisito dei propri li­ miti, cioè della provvisorietà delle proprie conclusioni, viene a con­

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fermare questa continua apertura. C i sono tuttavia due sensi in cui la conoscenza delle cause resta aperta: quello per cui non si esclude che cause, cioè spiegazioni già trovate, risultino insufficienti o parziali, o comunque insoddisfacenti, e richiedano quindi di essere sostituite da spiegazioni nuove, e quello per cui si riconosce che, per quanto scien­ tificamente soddisfacenti e di provata solidità, le spiegazioni già tro­ vate appaiono non esaurienti, non complete, non adeguate a rendere ragione dell’esperienza nella sua totalità. Aristotele illustrava questa situazione mediante la distinzione tra cause in generale e cause prime, dove con quest’ultima espressione indicava spiegazioni complete, esaustive, sufficienti, adeguate a spie­ gare l’esperienza nella sua totalità, e soprattutto non bisognose esse stesse di ulteriori spiegazioni. Il com pito di cercare le cause prime, come è noto, veniva da lui assegnato alla metafisica, che perciò si chiamava filosofia prima, perché egli aveva constatato che alcune di queste cause trascendevano l’ambito della fisica, cioè di quel sapere che per lui era l’equivalente di ciò che per noi sono le scienze parti­ colari. Anche oggi nessuna scienza pretende di trovare le cause prime, ovvero le spiegazioni ultime della realtà: pertanto la scienza da un lato attesta la problematicità dell’esperienza, cioè il suo bisogno di essere spiegata, e dall’altro attesta l’inesauribilità di tale problematicità a opera del sapere scientifico, cioè la possibilità, e forse anche la necessità, di un’ulteriore problem atizzazione. Il carattere problem atico dell’esperienza è attestato poi dalla stes­ sa vita, o condizione umana, o esistenza, la quale è caratterizzata da una continua tensione, cioè da desideri o aspirazioni perennemente insoddisfatti, e quindi spesso da sofferenze, frustrazioni, delusioni. Sotto questo aspetto si può dire che la stessa vita, cioè la prassi, l’azio­ ne, in quanto dettata dalla volontà di realizzare qualche cosa che ancora non c’è, è aspirazione a un miglioramento, a un perfezionamento, cioè ricerca, domanda, problema. C iò vale per le attività economiche, per quelle politiche, per quelle sociali in genere, oltre che naturalmen­ te e in prim o luogo per quelle individuali, cioè private. Tutto ciò è segno, evidentemente, della non assolutezza della condizione umana: un ente assoluto, perfetto, pienamente realizzato, non avrebbe infatti bisogno di agire, di migliorare, di perfezionarsi.

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M a lo stesso si può dire per quella vita, o prassi, collettiva che è la storia dei popoli, o dell’intera umanità. N ella misura in cui è determi­ nata da spinte ideali, utopistiche, o anche solo da interessi materiali, da bisogni, la storia è ricerca, problematicità. N o n c’è bisogno, per dire questo, di concepirla come orientata a un telos^ cioè come ricerca di un fine preciso, il cosiddetto m ondo migliore: anche nella sua in­ determinatezza, nella sua apertura a esiti diversi, imprevedibili, spes' so disordinati e addirittura casuali, la storia è attestazione di proble­ maticità. Persino una storia concepita come svolgimento e realizza­ zione dell’A ssoluto, qual è la storia di cui parla Hegel, è in qualche misura attestazione di problematicità, perché è la storia di un A sso ­ luto ancora non pienamente realizzato, di un A ssoluto dunque im ­ perfetto, che ha bisogno di qualche cosa, che dunque non è veramente assoluto. N ulla, forse, più della storicità è segno di relatività. 3. Problematicità della filosofia L ’esperienza, sia nel suo contenuto, ossia in ciò di cui essa è esperien­ za, vale a dire la realtà, l’ente in quanto ente (che poi, come abbiamo visto, è caratterizzato essenzialmente dal divenire), sia nel suo farsi, ossia nell’atto in cui essa consiste (che non è un atto immediato, ma una mediazione, cioè un processo), è integralmente problematica. Il riconoscimento di questa problematicità in tutta la sua portata è la filosofia. La filosofia in tal m odo viene a essere non una riflessione sull’esperienza, a questa estrinseca e ulteriore, ma l’esperienza stessa, vissuta consapevolmente, cioè la comprensione più genuina e pro ­ fonda dell’esperienza, ovvero - come è stato detto - l’intelligenza dell’esperienza (M. Gentile, 1987). Sin dal suo inizio la filosofia è stata concepita come problem atici­ tà. N e è prova l’atteggiamento di colui che è stato considerato il suo iniziatore, cioè Tálete di M ileto, il quale cercava il ""principio” {arche) di tutto e con ciò metteva in discussione tutto, riteneva che il tutto, cioè la totalità dell’esperienza, avesse bisogno di un principio, e per­ ciò si domandava quale questo fosse. N e è prova, inoltre, la concezio­ ne che della filosofia ebbero Platone e Aristotele, non solo nel m o­ mento in cui entrambi affermarono che la filosofia è essenzialmente

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meraviglia {thaumàzein)^ precisando il prim o che questa '"passione"’ è propria del filosofo {Theaet. 155 D ), e il secondo che a causa di essa «sia ora che la prim a volta gli uom ini com inciarono a filosofare» QAetaph. I 2, 982 b 12-13), ma anche quando diedero ciascuno la propria definizione della filosofia. Per Platone infatti la filosofia, da lui chiamata "dialettica” perché considerata essenzialmente come discorso dialogico, anzi come la parte che nel dialogo è svolta da colui che dom anda e confuta tutte le rispo­ ste che gli vengono date, procede "distruggendo le ipotesi” , cioè i presupposti, verso il "principio stesso ” (Resp. VII, 533 C), perciò chiamato "principio anipotetico” (VI, 510 B), cioè non presupposto, ma risultante dal mettere in questione tutte le ipotesi. E per Aristotele essa non è soltanto dom anda del "perché” {to diòti)^ cioè delle cause, come qualsiasi scienza, ma è ricerca delle "cause prim e” {Metaph. 12, 982 b 9-10), cioè dei perché ultimi, che non hanno ulteriori perché e perciò sono il perché di tutto, cioè sono le cause dell’essere in quanto essere (IV 1, 1003 a 31-32). M a la filosofia è stata concepita nello stesso m odo anche dai m o­ derni, per esempio da Descartes, quando questi ha ritenuto di doversi spogliare di tutte le certezze precedentemente acquisite e dubitare di tutto, o da Kant, quando ha deciso di sottoporre a critica tutto, com ­ presa la stessa ragione, o da H egel, quando ha affermato che «la filo­ sofia non ha il vantaggio, del quale godono le altre scienze, di poter presupporre i suoi oggetti», ma deve al contrario «m ostrare la neces­ sità del suo contenuto, e provare l’essere e i caratteri dei suoi oggetti», essendo per essa «inammissibile il fare o il lasciar correre presupposti e asserzioni» {Enciclopedia^ § 1). Del resto il nome stesso di filosofia, in quanto allude non a una form a di sapienza {sophìa), ma a un "am ore” {philìa) di essa, esprime un desiderio di sapere, quindi una ricerca, una domanda. N o n è un caso che ciò sia stato osservato per la prima volta da Platone, il quale ha osservato che il nome di "sapiente” (sophòs) si addice solo a un dio, mentre all’uom o è molto più conveniente quello di "filo so fo ” (philòsophos) {Phaedr. 278 D ). N o n hanno fondam ento, infatti, i tentativi di attribuire tale epiteto a Pitagora, data l’alta opinione che questi aveva di sé, e che soprattutto i suoi discepoli avevano di lui. Anzi è

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probabile che Platone volesse proprio contrapporre il suo maestro, Socrate - il quale proclam ava di non sapere, e perciò indagava (exe-

tàzei) tutto, giungendo al punto da dichiarare che «una vita senza indagine (anexètastos) non è vivibile dalPuomo» {ApoL 38 A) ai “ sapienti” presocratici (“ fisici” o sofisti che fossero), considerandolo Punico autentico filosofo, proprio perché non dogmatico. Certo, nessuno è obbligato a filosofare, malgrado il classico argo­ mento del Protreptico di Aristotele, secondo cui anche per dimostrare che non si deve filosofare si deve pur sempre filosofare, e quindi nessuno è obbligato a formulare esplicitamente le domande di cui pure è intessuta per tutti Pesperienza umana, né a cercarne la soluzio­ ne in m odo rigoroso, critico, scevro da presupposti dogmatici. M a chi voglia fare filosofia non può non assumere questo atteggiamento, cioè non può non domandare, non può non porsi problemi, evitando di partire da risposte pregiudiziali e mettendo sinceramente in discus­ sione tutto. L ’alternativa a questo tipo di filosofia è Patteggiamento iniziatico, quindi dogm atico, di chi si considera già in possesso della verità e pretende dagli altri solo P“ ascolto” della sua parola, da lui ovviamen­ te identificata con la voce della verità, o delP“ essere”, o di D io stesso. U n atteggiamento del genere si riscontra ad esempio nei poeti (E sio ­ do, Ferecide), da A ristotele perciò chiamati “ teologi” proprio in contrapposizione ai filosofi, o in filosofi arcaici come Parmenide ed Eraclito, i quali presentano il proprio pensiero rispettivamente come rivelazione di una dea o come il Logos che è comune a tutti. A partire da Socrate tuttavia, con buona pace di N ietzsche, la filosofia è diven­ tata altro, cioè discussione, ricerca, critica e tale vuole essere la meta­ fisica, malgrado venga spesso identificata proprio con il discorso di tipo iniziatico e dogmatico. Perciò non c’è alcun bisogno in filosofia di giustificare il cosiddet­ to principio di ragion sufficiente, form ulato da Leibniz come «nulla è senza ragione» {nihil est sine ratione), in quanto il rinunciarvi equi­ vale a rinunciare a filosofare, cioè a dom andarsi il perché di quanto ci circonda, o ci accade; anzi, se portato al limite equivale a rinunciare a pénsare, cioè a essere uomini, a “ chiedere ragione” (logon labèin) e a “ rendere ragione” (logon didònai)^ come dicevano i Greci, cioè in --5

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ultima analisi a parlare. Chi infatti non porta alcuna ragione, non fa alcun discorso, per cui, come osservava Aristotele, «è simile a una pianta» {Metaph, IV 4, 1006 al4-15). N o n a caso Heidegger, quando vuole criticare il "principio di ragione” , da lui presentato come principio del "calcolo” (perché questo è uno dei significati del termine latino ratio)^ e quindi del dominio, non trova di meglio che citare i versi del mistico Angelo Silesio, tratti àzilpellegrino cherubico (1657), secondo i quali «la rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce, di se stessa non le importa, non domanda se la si vede» (Heidegger, 1957a, trad. it., 1991, p. 68). La rosa infatti, per quanto splendida possa essere, è pur sempre una pianta. L o stesso Heidegger, poi, propone di considerare la "ragione” come il "fon d a­ m ento” (Qrund) e, in alternativa al principio leibniziano, tradotto in m odo che voglia dire «ogni essere ha un fondam ento», propone la tesi secondo cui «tessere è il fondam ento» (ivi, pp. 90-91). Ma, per poter dire questo, egli deve distinguere l’essere dall’ente, affermando la fam osa "differenza ontologica” e tornando in questo m odo a ricono­ scere che almeno l’ente ha un fondam ento, cioè una ragione. Nelle form ulazioni più recenti della "m etafisica classica” la p ro ­ blematicità della filosofia è stata espressa mediante l’affermazione che la filosofia è «un domandare tutto che è tutto dom andare» (M. G en­ tile, 1947), dove le due espressioni "dom andare tutto” e "tutto d o ­ m andare” non sono equivalenti, e dunque tautologiche, ma significa­ no l’una che la filosofia mette in questione tutto, senza lasciare nulla fuori dal proprio domandare, e la seconda che essa è solo domandare, cioè pura domanda, non includente in sé alcuna riposta precostituita, quindi è assoluta criticità. Certo, come insegna l’odierna ermeneutica, questo atteggiamento è difficile da realizzare, forse im possibile, perché tutti consapevol­ mente o inconsapevolmente abbiam o dei pregiudizi, delle precom ­ prensioni, delle abitudini, dei condizionamenti culturali, linguistici, psicologici, sociologici ecc. M a ciò non toglie che il compito della filosofia sia quello di portare alla luce nella misura maggiore possibile questi pregiudizi, di rendersene conto e con ciò di vagliarli, non ne­ cessariamente di rimuoverli, ma di metterli in questione, per vedere se meritano di essere conservati o abbandonati.

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Deve essere chiaro, in ogni caso, che la problematicità della filo­ sofia non è un semplice atteggiamento psicologico, uno stato sogget­ tivo di incertezza e di dubbio, e meno ancora una decisione im m oti­ vata, una voglia di domandare per il gusto di domandare, ma è una necessità intrinseca alla stessa comprensione delPesperienza. Se, come abbiamo visto, Pesperienza stessa è problematica, cioè la realtà, la vita, la storia sono un problema, la filosofia non è altro che il riconosci­ mento di questa problematicità, per così dire, reale, oggettiva, anzi è Passunzione esplicita e tematica di essa in una posizione di carattere generale, anzi universale, la quale fa dei molti problemi che si incon­ trano nelPesperienza e nella storia un unico immenso problema. A bbiam o visto che ogni form a di sapere è problematica, che in particolare lo è la scienza, anzi lo sono le scienze nella loro m oltepli­ cità e particolarità, le quali però sono sempre forme di problem atiz­ zazione, parziale, circoscritta a uno o ad alcuni problemi, quelli ap­ punto su cui ciascuna scienza particolare verte. La filosofia invece è problem atizzazione totale, che mette in que­ stione tutto, la realtà, la vita, la storia, gli oggetti, il soggetto stesso, persino i princìpi che condizionano qualunque discorso, come il principio di non contraddizione, e in definitiva persino se stessa. E proprio infatti della filosofia, più che di qualsiasi altra form a di sape­ re, dubitare di sé, della propria legittimità, della propria validità, per­ sino della propria esistenza. Proprio attraverso questa problem atizzazione totale emerge tut­ tavia una certezza, ossia quella che è stata chiamata “ Pimproblematizzabilità della problem aticità” (Bacchin, 1964). La problematicità infatti è im problematizzabile, cioè non può essere messa in questio­ ne, non può essere negata, perché Patto stesso del metterla in questio­ ne è una form a di problematicità, che dunque non la sospende, o la nega, ma la riproduce, e anzi ne m ostra Pinnegabilità. E questa una versione moderna del già citato argomento del Protreptico di A risto­ tele, che però non ha solo questo precedente storico. Anche del dub­ bio cartesiano infatti si può dire che esso è indubitabile, perché il dubitarne lo riproporrebbe, così come della criticità kantiana si p o ­ trebbe dire che è incriticabile. In tutti questi casi, come si vede, si fa ricorso ad argomenti di tipo

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elenctico, cioè dialettico, nel senso che si dim ostra Finnegabilità di una tesi confutando il tentativo di negarla. M a non si tratta di una confutazione ulteriore rispetto a quella già considerata, consistente nel mostrare la problematicità delfesperienza, o del divenire, attra­ verso la confutazione, cioè la riduzione a contraddizione, del tenta­ tivo di assolutizzarla. In fondo l'esperienza, la filosofia, la stessa con­ futazione che ne m ostra Finnegabilità, si risolvono tutte in uno stesso discorso, cioè in quella mediazione originaria in cui da sempre ci tro­ viamo e che anzi, in quanto uomini e in quanto filosofi, siamo. 4. Trascendenza del Principio La problematicità dell'esperienza porta con sé, direttamente, la tra­ scendenza del Principio, cioè la necessità che la risposta adeguata alla dom anda costituita dall'esperienza stessa sia trascendente rispetto a quest'ultima. Q uesta conclusione non è semplicemente la soddisfa­ zione di un'esigenza, quella per cui, se c'è il problem a, ci deve essere la soluzione. E ssa è il risultato necessario di una confutazione, cioè la confutazione dellapretesa assolutezza dell'esperienza. Se infatti l'espe­ rienza fosse assoluta, cioè autosufficiente, non dipendente da un

Principio, essa non sarebbe problematica, non domanderebbe di es­ sere spiegata, sarebbe perfettamente razionale, di una razionalità già attuata, già completamente dispiegata, quindi necessaria, compiuta, perfetta. A ssolutizzare il problem a significa compiere un'operazione con­ traddittoria in se stessa, perché un problem a assoluto è una contrad­ dizione in termini, è come un'insufficienza autosufficiente, un'indi­ genza non indigente, cioè un problem a che non è più un problema, ma è esso stesso soluzione. Invece la problem aticità dell'esperienza, co­ me abbiamo visto, è innegabile, e quindi è innegabile anche la trascen­ denza del Principio, cioè la sua differenza dall'esperienza, che è dif­ ferenza della soluzione dal problema, di ciò che può colmare l'indi­ genza da ciò che è intimamente indigente. Q uesta fu la considerazione che spinse pensatori come Bontadini e M arino Gentile a superare il problematicismo di U go Spirito, il quale aveva conservato il carattere intrascendibile dell'atto gentiliano (di

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Giovanni Gentile), interpretandolo come assoluto problem a (Spiri­ to, 1937), Sia Bontadini sia M arino Gentile avevano com preso che dalPatto del pensiero non si può uscire e avevano sfruttato questo risultato per superare il dualism o tra idealismo e realismo, affermando Pidentità deir atto del pensiero con Punita delPesperienza, intesa come espe­ rienza integrale. E ssi avevano tuttavia rifiutato Passolutizzazione, com piuta da Giovanni Gentile, di tale atto, rilevandone Pinterna problematicità. In ciò essi si trovavano a convergere con il discepolo e continuatore di Giovanni Gentile, Spirito appunto, il quale aveva affermato anche lui la problematicità delPatto gentiliano. Solo che Spirito, fedele alPispirazione immanentistica delPattualismo genti­ liano, aveva poi assolutizzato tale problematicità, finendo in tal m odo col negarla. Bontadini e Gentile poterono mantenere invece tanto Pintrascendibilità delPatto, quanto la sua problematicità, affermando precisamente la trascendenza del Principio metafisico. A questo punto non deve sembrare che vi sia una contraddizione tra Paffermazione che l’esperienza è intrascendibile e Paffermazione che il Principio metafisico trascende l’esperienza. L ’esperienza, inte­ sa nel senso integrale che abbiamo più volte chiarito, è intrascendibile da noi, cioè dal soggetto che fa esperienza, perché noi ne siamo, per così dire, al centro, come siamo al centro dell’orizzonte fisico, dal quale non possiam o mai uscire. Tuttavia la sua problematicità, la sua insufficienza, che noi possiam o continuamente rilevare dal di dentro, cioè vivendola, dim ostra che essa non è la totalità del reale, cioè che c’è qualcosa che la trascende e che è giusto chiamare Principio, perché è la causa prima, o la ragione ultima, o la spiegazione completa, del­ l’esperienza stessa. Q uesto Principio trascende l’esperienza, e perciò deve essere detto metafisico, ma la trascende lui, non noi, che ne comprendiamo la necessità, senza tuttavia farne mai esperienza. Fra trascendenza del Principio e intrascendibilità dell’esperienza non c’è dunque alcuna contraddizione, anzi c’è perfetta consequen­ zialità, perché un Principio trascendente è veramente tale solo se l’af­ fermazione della sua necessità non implica in alcun m odo l’esperien­ za di esso. N o i non possiam o trascendere l’esperienza, intesa nel sen­ so ampio, cioè integrale, che abbiamo detto, per fare esperienza del

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Principio. Q uesto è il valore della critica di Kant a una metafisica che pretendeva di essere scienza del trascendente nel senso di conoscerlo per mezzo di concetti costitutivi, o di giudizi determinanti. D i tale trascendenza possiam o solo sapere la necessità, ma per via negativa, cioè riconoscendo la problem aticità dell’esperienza e confutando qualsiasi tentativo di assolutizzarla. Si tratta dunque di una cono­ scenza negativa, per confutazione, cioè elenctica, dialettica, non di una scienza positiva; ma non per questo essa è meno dotata di neces­ sità, cioè meno stringente. La posizione di un Principio trascendente, in cui consiste l’essenza della metafisica classica, non estingue inoltre la problematicità del­ l’esperienza, anzi la preserva intatta. Il rapporto tra esperienza e Prin­ cipio non è infatti come il rapporto tra problem a e soluzione che ha luogo, per esempio, in geometria: qui la scoperta della soluzione estin­ gue il problema, proprio perché non c’è vera trascendenza della so ­ luzione rispetto al problema, ma entrambi si collocano sullo stesso piano. N ella metafisica, invece, la scoperta del Principio, cioè della soluzione, non estingue il problema, cioè la problematicità dell’esperienza, proprio perché il Principio è trascendente, cioè appartiene a un ordine di realtà totalmente diverso. L ’esperienza, insomma, con­ tinua a restare problematica anche dopo la scoperta del Principio, proprio perché questo la trascende. Il Principio metafisico tuttavia, pur preservando intatta la proble­ maticità dell’esperienza, deve costituirne la soluzione pienamente adeguata, cioè deve rendere ragione dell’esperienza nella sua totalità, altrimenti viene meno la sua stessa necessità, cioè esso non è più il Principio richiesto, non è più l’A ssoluto, l’unico principio capace di spiegare la totalità del reale. A questo punto qualcuno potrebbe obiet­ tare che non è detto che un A ssoluto debba comunque esserci e quin­ di, anche per chi non assolutizza l’esperienza, non c’è alcuna necessità di porre un A ssoluto a essa trascendente. La risposta a tale obiezione sta nello stesso concetto di A ssoluto: se per A ssoluto si intende ciò che non dipende da altro, ciò che è perfettamente autosufficiente, un A ssoluto non può non esserci. Q ualunque cosa ci sia, infatti - e che qualcosa ci sia è innegabile, perché la negazione dell’esperienza verrebbe a costituire essa stessa

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un’esperienza - , o è una realtà indipendente, cioè pienamente auto­ sufficiente, e allora è essa l’A ssoluto; oppure è una realtà che dipende da altro, e allora questo altro è lui l’A ssoluto. In ogni caso, dunque, un Assoluto c’è. L o stesso ragionamento vale per il concetto di tota­ lità: se c’è qualcosa non può non esserci il tutto, perché o questa cosa è già essa il tutto, e dunque c’è il tutto, oppure essa è solo una parte di un tutto, e anche in questo caso c’è il tutto. Del resto, se come abbiamo visto la negazione della trascendenza del Principio com porta l’assolutizzazione dell’esperienza, essa com ­ porta anche l’esistenza dell’Assoluto, un A ssoluto immanente all’espe­ rienza. M a se tale assolutizzazione è resa contraddittoria dalla pro ­ blematicità dell’esperienza, allora l’Assoluto non è immanente all’espe­ rienza, bensì trascendente rispetto a essa. L ’A ssoluto, dunque, in un senso non coincide con il tutto, perché del tutto fa parte anche l’espe­ rienza, ma in un altro senso esso coincide con il tutto, perché è appun­ to assoluto, cioè non dipende da altro, può benissimo stare senza niente altro. L ’Assoluto, allora, non è il tutto solo se e perché c’è anche l’espe­ rienza, la quale però potrebbe non esserci. C iò significa che l’espe­ rienza dipende totalmente dall’A ssoluto, dunque non aggiunge nulla a esso che non provenga da lui stesso. U n rapporto di trascendenza, dell’A ssoluto nei confronti dell’espe­ rienza, e di dipendenza totale, dell’esperienza nei confronti dell’A s­ soluto, equivale a un rapporto di creazione. Q uesto concetto, per essere inteso correttamente nel significato che ha in metafisica, deve essere spogliato da ogni elemento antropom orfico, cioè da ogni analogia con il produrre umano, ed essere ricondotto alla pura dipendenza totale, che è dipendenza nell’essenza e nell’esistenza, nell’essere e nel divenire, anzi nello stesso mantenersi in essere. Si può dire pertanto che il Principio metafisico è creatore, nel senso che conferisce lui al­ l’esperienza tutto ciò di cui questa è costituita. Per poter essere crea­ tore, esso deve essere trascendente, cioè deve poter essere anche senza che l’esperienza sia, così come, per poter essere veramente trascen­ dente, deve essere creatore. Se infatti la dipendenza dell’esperienza dal Principio non fosse di creazione,, ma di emanazione, o di derivazione necessaria, come è ad esempio nel neoplatonism o, il Principio non sarebbe più veramente

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trascendente rispetto all'esperienza, malgrado ogni sua superiorità nei confronti di questa, perché questa, derivando necessariamente da lui, esisterebbe con la stessa necessità con cui esiste il Principio, dun­ que l'A ssoluto non sarebbe più il solo Principio, ma l'insieme del Principio e dell'esperienza, e in tal m odo lo stesso Principio non potrebbe stare senza l'esperienza, cioè non sarebbe veramente tra­ scendente rispetto a essa. Il concetto di creazione, come è noto, non è stato elaborato dalla filosofia, ma è entrato nella cultura antica con la Bibbia^ ed è stato fatto proprio dai primi filosofi ebrei (Filone di Alessandria) e cristiani (gli apologisti, i padri della Chiesa, sant'A gostino), i quali l'hanno ricavato appunto dalla Bibbia. La filosofia pagana, con il neoplatoni­ smo, ha reagito a tale introduzione facendo proprio il concetto bibli­ co di dipendenza di tutte le cose da D io, ma ha interpretato tale dipen­ denza come derivazione necessaria, rifiutando il concetto biblico di creazione. In tal m odo, tuttavia, essa ha com prom esso la trascenden­ za di D io, dando origine a una metafisica che è un ibrido tra im m a­ nentismo e trascendentismo. In realtà il concetto di creazione, anche se non è stato scoperto dalla filosofia, è indispensabile per fondare una genuina metafisica della trascendenza. E sso non deve essere inteso come l'espressione di una decisione presa da D io a un certo punto, la quale comporterebbe un mutamento nella sua essenza, né quindi come un atto avvenuto nel tempo, perché D io trascende completamente la dimensione tem po­ rale, anche se in quest'ultima si colloca invece il m ondo, per il quale ha senso parlare di un inizio (restando poi da dimostrare se questo abbia avuto luogo). Il concetto di creazione implica tuttavia libertà, proprio perché non si identifica con la derivazione necessaria: ciò significa che D io crea, ma potrebbe anche non creare. La libertà pre­ suppone poi volontà, quindi intelligenza, cioè personalità, quindi un Principio creatore non può non essere anche un Principio personale. Per questo, una volta introdotto il concetto di creazione, il Principio può essere qualificato come D io, nel senso che si dà tradizionalmente a quest'ultim o termine. Prima di soffermarci ulteriormente sui caratteri di questo Princi­ pio, facciamo notare che, se la sua natura di creatore è stata resa nota

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alla cultura antica dalla Bibbia^ la sua trascendenza era stata invece compresa già dai filosofi greci, indipendentemente da qualsiasi rive­ lazione religiosa. Il contributo più rigoroso, anche se non privo di incongruenze, a causa degli inevitabili condizionamenti storico-cul­ turali, è stato dato a questo proposito da Aristotele. Questi infatti, interpretando il divenire come passaggio dalla p o ­ tenza alPatto e rilevando Panteriorità delPatto rispetto alla potenza, ha potuto concludere che un divenire eterno (espressione che, libera­ ta dal suo significato cosm ologico, anzi astronom ico, con cui indica­ va Peterna e continua rotazione del cielo su se stesso, viene a signifi­ care la totalità del divenire) richiede un Principio il quale non divenga affatto, in nessun senso e sotto nessun aspetto, cioè sia puro atto, senza alcuna potenzialità. Anche Aristotele pervenne a questa conclusione per via di confu­ tazione, cioè confutando la dottrina platonica secondo la quale il cielo si muove perché è m osso da un principio a esso immanente. Panima del mondo, cioè si muove da sé, come ogni essere animato {Timeo 34 A-36 D; Leggi X, 896 C-898 D), Secondo Aristotele, invece, se il cielo si muovesse da sé, sarebbe in potenza e in atto nello stesso tempo e rispetto allo stesso movimento, il che è contraddittorio, perciò è necessario che la parte movente di esso (Panima) e la parte m ossa (il corpo) siano distinte {Phys. V ili 5), anzi è necessario che il movente non sia parte del cielo, non ne sia Panima, ma sia un principio tutto in atto, totalmente distinto da esso {Metaph. X II 6), il quale semmai è oggetto di conoscenza e di amore da parte delPanima del cielo e in tal m odo ne causa il movimento {Metaph, X II 7). Se si riesce a liberare questa argomentazione dalle inevitabili in­ crostazioni cosm ologiche - legate del resto a quello che allora rappre­ sentava lo stadio più avanzato della ricerca scientifica, cioè la geniale teoria delle sfere omocentriche elaborata da E udosso di Guido per rendere ragione dei moti apparentemente irregolari dei pianeti - , si può scorgere in essa il prim o nucleo della metafisica classica, cioè la dim ostrazione elenctica della problematicità delPesperienza e della conseguente trascendenza del Principio. Certo, in Aristotele, come in nessun'filosofo greco prima della diffusione della Bibbia nel m on­

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do ellenistico, non eh il concetto di creazione, sia per il m odo troppo antropom orfico in cui Platone (di ciò peraltro consapevole, al punto da avvisare che si trattava di un discorso soltanto verosimile) aveva descritto Fazione demiurgica del Principio, sia perché la divisione del cosm o in cielo e terra com portava il ricorso a una pluralità di princìpi diversi (materia prima, forme eterne, etere, m otori immobili), nessu­ no dei quali era totalmente sufficiente a spiegare Fesperienza. Il contributo chiarificatore portato dalla Bibbia con il concetto di creazione - pienamente com preso tuttavia non prima del IV secolo, quando nel sim bolo niceno-costantinopolitano si introdusse la di­ stinzione tra "generazione” del V erbo e "creazion e” del m ondo mediante Fespressione genitum non factum - consentì ai filosofi ara­ bi e cristiani medioevali di riprendere e sfruttare la dimostrazione aristotelica, facendola approdare a un D io creatore. N elle form ulazioni più recenti della metafisica classica M arino Gentile è colui che Fha conservata più fedelmente, parlando delFesperienza come potenzialità di ragione e del Principio metafisico come ragione, anzi come intelligenza, interamente in atto (M. Gentile, 1955,

c.. 10; 1987, pp. 175-205), 5. Carattere del Principio La tradizione metafisica che ha accolto, insieme con la trascendenza del Principio, la tesi della creazione, ha concepito tale Principio pre­ valentemente come Essere, cioè come un ente la cui essenza è costi­ tuita dallo stesso essere, ritenendo che, se la creazione è una dipen­ denza totale nell’essere, cioè un ricevere l’essere, la fonte di essa non possa essere concepita se non come l’Essere stesso sussistente {esse ipsum subsistens). Conseguentemente essa ha tradotto il concetto di creazione, di per sé di origine non filosofica, nel concetto filosofico di partecipazione, attinto dalla filosofia di tradizione platonica e neo­ platonica. In base a questa concezione creare, da parte dell’Essere stesso, significa rendere partecipi altri del proprio essere, il quale tuttavia, una volta partecipato, risulta essere di grado inferiore, per­ ché derivato. La nozione di Essere stesso, o essere per essenza, deriva probabil­

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mente, come abbiam o già detto, da Parmenide, ma fu certamente impiegata da Platone per indicare uno dei due princìpi supremi delle idee e delle realtà sensibili, come risulta dalla relazione aristotelica delle sue "dottrine non scritte” . Tale principio, oltre che come Essere, fu qualificato da Platone anche come U no e come Bene, mentre il principio a esso opposto ebbe da lui la qualifica di D iade indefinita, non-essere (relativo, non assoluto) e male. Per tale dottrina, però, Platone fu esplicitamente criticato da Aristotele, il quale Paccusò di parmenidismo, osservando che, se c’è un ente avente come sua essen­ za (o sostanza, cioè ousìa) l’essere stesso, questo ente finisce inevita­ bilmente con l’essere l’essenza (o la sostanza) di tutti gli enti, riducen­ doli tutti a uno solo {Metaph. Ili 4, 1001 a 29-b 1). La nozione platonica di essere per essenza fu tuttavia ripresa pro ­ prio per qualificare il D io creatore della Bibbia dall’ebreo Filone di Alessandria, il quale anzi credette di trovare una conferma alla tesi che D io è l’Essere stesso nella stessa Bibbia^ precisam ente nel passo àtWEsodo (III, 14) in cui D io rivela a M osè che il suo nome è "colui che è” , o "colui che son o” . Q uesta dottrina fu quindi ripresa da tutto il neoplatonism o antico, sia pagano (con Porfirio, mentre Plotino preferì qualificare D io come l’U no), sia cristiano (per esempio con sant’A gostino), che usò anche la nozione di partecipazione per spie­ gare, rispettivamente, sia l’emanazione sia la creazione del m ondo da D io. Indi essa, a opera degli arabi, che rimaneggiarono testi neopla­ tonici spacciandoli come aristotelici (la Teologia diAristotele e il Liber de causis)^ fu introdotta nella scolastica, sia araba sia cristiana, che la credette di Aristotele, e come tale fu recepita persino da Tom m aso d’Aquino. D a allora la concezione di D io come l’Essere stesso entrò a far parte integrante del tom ism o, in tutte le sue forme, dove venne pre­ sentata addirittura come la "m etafisica àtìVEsodo " (G ilson, 1848) e venne sempre più strettamente collegata con la dottrina della parte­ cipazione (Fabro, 1960). M a proprio a causa di essa la metafisica in generale fu criticata da Heidegger, il quale, ritenendo anch’egli (a causa della sua form azione scolastica) che D io non potesse essere concepito se non come un ente avente per essenza l’essere stesso, accusò tale concezione di ridurre l’essere a un ente, sia pure all’ente som m o, e

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quindi di dimenticare la differenza ontologica tra ente ed essere, in­ som ma di dimenticare l'essere (Heidegger, 1957b). In realtà la critica di Aristotele alla nozione platonica di ente per essenza appare perfettamente valida. Se, infatti, c'è un ente che ha come essenza l'essere stesso, quest'ultim o viene inevitabilmente con­ cepito come un'essenza unica, cioè come univoco, perciò a tutti gli enti a cui appartiene l'essere apparterrà anche questa essenza, quindi tutti gli enti avranno la stessa essenza, vale a dire l'essere stesso. In tal m odo tutti gli enti si ridurranno tutti a uno, perché, là dove non vi siano altre forme di essere che quella dell'Essere stesso, nulla potrà essere diverso da questo, e ciò che ne fosse diverso sarebbe puro e semplice non-essere. N o n vale obiettare che l'essere di D io non è un'essenza, ma è l'atto stesso di essere {actus essendi)^ perché nel momento in cui tale atto è l'essenza di un ente, cioè viene entificato, ipostatizzato, è esso stesso un'essenza, e un'essenza unica. N é vale, per evitare il monismo, affermare che l'essere, o l'atto di essere, è analogo, perché l'unica differenza che viene ammessa all'in­ terno di esso è il fatto che l'essere di D io è originario, vale a dire es­ senziale, mentre quello delle creature è partecipato, vale a dire non essenziale. M a la differenza tra originario e partecipato non è una vera differenza di significato, in quanto l'essere di cui le creature parteci­ perebbero, cioè l'essere partecipato, è l'essere stesso di D io (di quale altro potrebbero altrimenti partecipare?), cioè l'essere originario. In tal m odo il concetto di partecipazione non solo non traduce fedel­ mente quello di creazione, ma finisce, malgrado ovviamente l'inten­ zione dei suoi sostenitori, con l'esserne la sostanziale negazione. N o n a caso, del resto, esso è nato e si è sviluppato nell'ambito di una tra­ dizione non creazionistica, ma piuttosto derivazionistica ed emanazionistica, quale il platonism o delle "dottrine non scritte" e il neopla­ tonism o pagano. Ben più facilmente conciliabile con il concetto biblico di creazione sembra essere l'altra concezione del Principio metafisico, quella cioè che lo concepisce come Mente, o come Intelligenza. Q uesta è nata, come già abbiamo detto, probabilmente con A nassagora, ma è stata sviluppata da Platone (il Platone dei dialoghi, non quello delle "d o t­ trine non scritte") e soprattutto da Aristotele. Q uesti infatti, dopo

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avere osservato che il Principio deve essere puro atto, e un puro atto sempre in atto, cioè sempre attivo, quindi un’attività (en èrgeia) non comportante alcun mutamento, cercò quale potesse essere un’attività di questo tipo e non trovò di meglio che identificarla con l’attività del pensiero, non tuttavia del pensiero discorsivo, che implica passaggio, e quindi mutamento, ma l’attività di un pensiero intuitivo, cioè quello che egli chiamò "pensiero di pensiero” {Metaph. X II 9). Se si concepisce il Principio metafisico come pensiero di pensiero, cioè come un ente che, pur essendo il prim o ente, o l’ente som mo, perché è quello dal quale tutti gli altri dipendono, non ha tuttavia come sua essenza l’essere stesso (perché l’essere stesso non c’è, in quanto l’essere si dice in molti sensi), ma ha come sua essenza, appun­ to, il pensiero, un pensiero puramente intuitivo, cioè immutabile, non solo si evita il m onism o, quindi si preserva l’assoluta trascendenza del Principio, ma se ne mette in luce il carattere fondamentale, indispen­ sabile per poter parlare, poi (cioè non in Aristotele), di creazione, vale a dire la personalità. Il pensiero, dice infatti Aristotele, è una form a di vita, anzi la più alta form a di vita, perciò un Principio pensante è un principio vivente. La sua vita inoltre sarà la migliore che ci possa essere, perché essendo egli pensiero intuitivo, che intuisce effettivamente il proprio oggetto, anzi vi si adegua totalmente, non potendo in lui esserci alcuna m ol­ teplicità, sarà la vita di un ente che ha perfettamente realizzato il pro ­ prio fine, quindi una vita beata {Metaph. X II 7). A d Aristotele tutto questo serve per concludere che tale Principio è un dio, perché per i Greci la nozione di "d io ” (nome comune) era appunto quella di un essere vivente dotato di vita eterna e beata; ma per la stessa ragione noi possiam o concludere che egli è un essere personale, cioè, per dirla con Dante, un essere dotato di "intelletto ed am ore” , ovvero un essere, per usare un’espressione giuridica, "capace di intendere e di volere” . Che l’A tto puro sia capace di intendere è fuori discussione, appunto perché la sua essenza è il pensiero, cioè l’intelligenza; che egli sia capace di volere, e quindi di amare, è reso manifesto dal fatto che è felice. O ra l’intelletto e la volontà, cioè la personalità, sono appunto le condizioni necessarie per ammettere un rapporto di creazione. La creazione infatti si distingue dall’emana­

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zione, e quindi non possiede la necessità propria di quest'ultim a, proprio perché è un atto di libertà, quindi di intelligenza e di volontà. D el resto la nozione di intelligenza si addice all"Assoluto molto più di ogni altra, perché essa indica non solo la form a più alta di vita, ma - essendo la vita la form a più alta di essere - anche la stessa form a suprema delFessere. D i solito a ciò si obietta che l’essere comprende tutte le perfezioni, e che quindi la vita e lo stesso pensiero, in quanto sono perfezioni, sono compresi nella nozione di essere. Q uesto in­ tanto è vero solo se si fa riferimento alla nozione di essere perfetto, perché non ogni ente, che ha l’essere, è vivente e intelligente; poi resta il fatto che la nozione di essere, anche perfetto, non esprime, non dice, quelle di vita e di pensiero, mentre la nozione di pensiero non solo comprende quelle di vita e di essere, ma anche le esprime, perché non si può dare un pensante che non sia anche vivente e, quindi, essente. La metafisica di per sé non ha nulla a che fare con la fede religiosa, perché è una parte della filosofia e si fonda su conoscenze puramente naturali, cioè non rivelate. Tuttavia, poiché oggi essa è condivisa quasi esclusivamente dai credenti, non è privo di interesse rilevare che la nozione di D io come Intelligenza, elaborata dagli antichi filosofi greci senza l’aiuto di alcuna rivelazione, non solo non si oppone alla nozio­ ne biblica di D io, ma anzi è profondam ente in armonia con quest’ultima. Mentre, infatti, la definizione di D io data nell’£50 Jo è interpre­ tabile anche diversamente da quella di essere per essenza, poiché «io sono colui che sono» può significare «io sono sempre lo stesso, cioè non muto parere, resto fedele ai patti», così come può significare «sono quello che sono e non chiedetemi il mio nome, non ho un particolare nom e», è invece inequivocabile il significato di altre espressioni, rife­ rite a D io nel Nuovo Testamento^ quali «D io è Spirito» {Gv^ 4,2 4 ) e «D io è amore» ( / Gv^ 4, 8). La contrapposizione tra il ''D io dei filosofi” e il "D io di Abram o, di Isacco e di G iacobbe” , o il "D io di G esù G risto” , introdotta da Pascal, è valida solo se riferita, come avveniva in Pascal, alla nozione di D io teorizzata da Descartes, cioè il D io geometra, che diverrà il D io orologiaio di Leibniz e il D io "grande architetto dell’universo” della massoneria, ma non ha alcun valore se riferita al D io dei filosofi antichi. Com e attesta infatti il fam oso discorso di san Paolo agli ate­

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niesi, quando i primi cristiani dovettero, per "inculturare” la fede, scegliere un concetto di D io dalla cultura del loro tempo, agli dèi della religione politeistica preferirono senz'altro il "D io dei filosofi” , cioè il Dio-intelligenza di Platone, di Aristotele e del filosofo stoico C le­ ante di A sso, del cui Inno a Zeus san Paolo addirittura cita un verso

{Atti, 17, 15-33, e Pannenberg, 1991, pp. 19-20). Il grande contributo portato dalla Bibbia a questa nozione di D io è il concetto di creazione, il quale, come abbiamo detto, non fu sco­ perto per via filosofica, ma è risultato indispensabile a una corretta comprensione della trascendenza del Principio metafisico e del suo rapporto con il m ondo dell'esperienza, cioè di un rapporto adeguato a spiegare quest'ultim o nella sua totalità e a preservare al tempo stesso l'assoluta trascendenza del primo. Tutto ciò naturalmente non ha nulla a che vedere con il contenuto specifico delle fede religiosa, in parti­ colare cristiana, che è costituito com'è noto dai misteri della Trinità divina e dell'incarnazione, del peccato e della redenzione. 6. Dialetticita del discorso metafisico Al termine del discorso, inevitabilmente som m ario, lacunoso, perso­ nale, in cui può consistere un'esposizione della metafisica, anzi l'espo­ sizione di una particolare metafisica - discorso che richiederebbe di essere integrato soprattutto da una cosiddetta metafisica dell'uom o, cioè da una giustificazione metafisica del concetto di persona umana, o da un'esposizione delle implicazioni metafisiche dell'assunzione di tale concetto - , è legittimo chiedersi quale sia la sua struttura logica, o il suo statuto epistemologico, o il tipo di percorso in cui esso consiste. Q uest'ultim o termine, "percorso ” , o quello a esso equivalente di "itinerario” , che potrebbe essere ugualmente usato, rievoca il concet­ to di "m etod o ” {mèthodos), che in greco significa appunto strada, via {hodòs). E sso potrebbe pertanto richiamare il problem a del m etodo della metafisica, che forse sarebbe potuto sembrare opportuno af­ frontare all'inizio, e non al termine del discorso metafisico, come fece Descartes, che considerò tale problem a preliminare all'esposizione del suo sistema, sia fisico sia metafisico. Il fatto di parlarne soltanto alla fine, invece, è frutto di una scelta precisa, basata sulla convinzione

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che il discorso sul m etodo della metafisica, e della filosofia in genera­ le, non possa precedere lo svolgimento concreto, cioè lo sviluppo del percorso, di quest'ultima, in m odo da fungere da regola per essa, come accade invece nel Discorso cartesiano, compendiabile in quattro pre1 CISC regole . La filosofia, infatti, non accetta regole im poste da chicchessia, perché qualsiasi determinazione di regole per essa non potrebbe che essere essa stessa un discorso filosofico. In filosofia, dunque, il m eto­ do non è una trattazione preliminare al percorso vero e proprio della filosofia, ma coincide con questo, ponendosi come m etodo nel senso antico del termine, cioè appunto come percorso, come itinerario, e pertanto l’esposizione di esso non può che essere il frutto di una ri­ flessione a posteriori sul cammino fatto. C iò che vale per la filosofia in generale, vale a maggior ragione per la metafisica, che della filosofia è la parte, per così dire, più indipendente, perché non verte su un particolare oggetto, o tema, già dato, ma deve giustificare essa stessa il suo oggetto, il suo m etodo e il suo risultato. Se riflettiamo quindi sul cammino com piuto dalla metafisica clas­ sica, dobbiam o fare una prima osservazione. Si tratta di un cammino assai unitario e, in fondo, semplice, cioè non articolato in fasi succes­ sive. Per com odità di esposizione abbiamo parlato prima di un "tem a” della metafisica, cioè l’esperienza integrale, ovvero l’ente in quanto ente, con tutti i suoi significati, le sue proprietà, i suoi princìpi; poi di un "problem a” metafisico, cioè la problematicità del divenire, del­ l’esperienza, della stessa filosofia; e infine di una "soluzion e” , cioè della posizione di un Principio m etafisico e della determinazione dei suoi caratteri. In realtà il tema coincide con il problem a e la formulazione del problem a coincide con l’indicazione della sua soluzione, sicché l’in­ tero discorso si concentra tutto in un unico momento, o meglio in un’unica argomentazione. Il tema della metafisica, infatti, cioè l’espe­ rienza integrale, ovvero l’ente in quanto ente, è esso stesso il suo problema, perché, come abbiamo cercato di far vedere, l’esperienza è intrinsecamente problematica, e la sua problematicità, resa manife­ sta soprattutto dal divenire, è la stessa problem aticità della filosofia. M a tale problematicità, nella sua stessa form ulazione, è già l’indica­ •

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zione di una soluzione, cioè della trascendenza del principio, perché il problem a per definizione non è altro che la richiesta di una soluzio­ ne, cioè Fespressione della sua mancanza e insieme della sua necessità. La metafisica non è dunque, come pretende una tradizione m o­ derna, culminante in H eidegger (che non si colloca ''d o p o ” , ma "den ­ tro ” di essa) una "onto-teologia” , cioè una com posizione tra ontolo­ gia, o scienza dell’essere, e teologia, o scienza di D io, comportante, sempre secondo Heidegger, una riduzione dell’essere all’ente, sia pure all’ente som m o. In essa, al contrario, ontologia e teologia coincidono, nel senso che il problem a dell’essere o, come dice Heidegger, del senso dell’essere, non è altro che il problem a di quale sia il principio dell’es­ sere, la sua causa prima, la sua ragione, il suo fondamento. E, se D io entra nella filosofia, anzi nella metafisica, vi entra non come un ente al quale si riduce il senso dell’essere, ma come il principio, il fonda­ mento, il senso stesso dell’essere. Il discorso metafisico tuttavia, pur essendo unitario, anzi addirit­ tura semplice, non per questo è un atto immediato, cioè un’intuizio­ ne, perché se fosse tale sarebbe infondato, arbitrario, gratuito, non più discorso vero e proprio, ma asserzione perentoria, dogmatica. Esso, al contrario, è mediazione, come è mediazione l’esperienza, con cui la filosofia si identifica, cioè è, dal punto di vista della struttura logica, argomentazione, anzi vera e propria dimostrazione. M a non può trattarsi di una dim ostrazione di tipo deduttivo, che muova cioè da princìpi e ne deduca le necessarie conseguenze, perché da quali princìpi mai potrebbe muovere la filosofia, che non siano da essa stes­ sa posti, e perciò dimostrati? La filosofia non ha il vantaggio, direbbe Hegel, che è proprio delle altre scienze, di poter presupporre dei princìpi, perché essa, in quanto integrale problematicità, non può presupporre nulla, dunque non può essere una deduzione. L ’unica dim ostrazione praticabile dalla filosofia è, come ha m o­ strato già Aristotele a proposito del principio di non contraddizione, la dimostrazione elenctica, o per confutazione, o dialettica (nel senso antico di quest’ultimo termine), cioè la dimostrazione consistente nella prospettazione del tentativo di negare una determinata tesi e nella sua riduzione a contraddizione, in m odo da far risultare l’innegabilità della te^i in questione. Il ricorso a questo tipo di dim ostrazione si

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rende necessario, come abbiamo visto, a proposito del principio di non contraddizione, la cui negazione si rivela non tanto contraddit­ toria - il che non sarebbe sufficiente per confutarla, perché Fautore di essa non accetta, almeno nelFintenzione, il principio di non con­ traddizione, e quindi non può considerarsi confutato dalFincorrere in una contraddizione - quanto im possibile, perché nelFatto in cui tenta di costituirsi essa risulta essere non una negazione, ma una pre­ supposizione del principio stesso. M a una dim ostrazione per confutazione è anche la dimostrazione della necessità del divenire, ovvero delFesperienza. Com e abbiamo visto, infatti, ogni negazione del divenire si risolve essa stessa in una form a di divenire, così come ogni negazione delFesperienza si risolve in una form a di esperienza. Del resto, se è elenctica la dimostrazione del principio di non contraddizione, non può non esserlo anche quel­ la delFesperienza, perché il principio di non contraddizione non è altro che l'espressione della determinatezza, cioè della molteplicità, e quindi delFintelligibilità, delFesperienza stessa. U na dim ostrazione per confutazione, inoltre, è la dimostrazione della problematicità delFesperienza, la quale si impone appunto per­ ché è improblematizzabile, cioè perché la sua negazione si risolve nella sua stessa riproposizione. E una dim ostrazione per confutazione è la dim ostrazione della trascendenza del Principio, che consiste precisamente nella riduzione a contraddizione della pretesa di assolutizzare l'esperienza, di fare di essa il Principio. Ebbene, tutte queste dim o­ strazioni per confutazione, quella del principio di non contraddizio­ ne, quella delFesperienza e del suo divenire, quella della sua proble­ maticità e quella della trascendenza, coincidono in un'unica dim o­ strazione, che è appunto il discorso metafisico. M olti sostengono che la dim ostrazione per confutazione è soltan­ to un argumentum ad hominem^ cioè un argomento valido soltanto relativamente a un interlocutore, il quale appunto neghi la tesi che l'argomentante intende dimostrare. Q uesto è vero, ma non è tutta la verità, perché la dim ostrazione per confutazione è sì ad hominem^ cioè dialettica, ma non per questo ha meno valore, anzi è valida anche in assoluto. Che essa sia ad hominem è evidente: per confutare infatti è necessario dar vita alla negazione di ciò che si intende dimostrare.

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cioè è necessario un interlocutore, anzi un avversario (nel senso spor­ tivo del termine), con il quale ingaggiare una discussione. Per questo motivo la dim ostrazione per confutazione è un’argomentazione dia­ lettica, nel senso antico di questo termine, cioè di tecnica del dialogo, della discussione, in cui due interlocutori sostengono tesi opposte e ciascuno dei due cerca di confutare l’altro e di non farsi confutare da lui. N o n si tratta della dialettica nel senso m oderno, per esempio della dialettica di cui parla Kant, che è “logica dell’apparenza” , cioè «arte sofistica di dare alla propria ignoranza, anzi alle proprie volontarie illusioni, la tinta della verità» {Critica della ragion pura^ trad. it., p. 103), bensì piuttosto di quella che Kant chiama “ critica dell’apparen­ za” , o anche “ m etodo zetetico” , o “ metodo scettico” (ivi, pp. 363-64), cioè della tecnica inaugurata da Zenone di Elea, e perfezionata poi da Socrate, Platone e Aristotele, di dimostrare una tesi mediante la ridu­ zione ad autocontraddizione di quella a essa opposta (opposta come sua contraddittoria, non semplicemente come sua contraria). N é si tratta, per esempio, della dialettica nel senso hegeliano, dove l’accet­ tazione della contraddizione rende im possibile la confutazione e quindi non giustificato il “ toglim ento” {Aufhebung) della contraddi­ zione medesima (Berti, 1987b). Il discorso metafisico è un discorso dialettico nel senso antico, perché è necessariamente dialogo, non m onologo; ma non dialogo inteso come semplice conversazione, bensì dialogo inteso come di­ scussione, come confronto, come scontro (sempre in senso sportivo, cioè confairplay) fra posizioni opposte, e decisione, soluzione della controversia a favore dell’una o dell’altra parte. C iò non toglie che esso sia anche dim ostrazione in senso forte, perché non solo in virtù del principio di non contraddizione la tesi confutata è necessariamen­ te falsa, ma anche, in virtù del principio del terzo escluso, la tesi a essa opposta, secondo un’opposizione contraddittoria, è necessariamen­ te vera, cioè è dimostrata nel senso più proprio del termine. Q uesto carattere dialettico del discorso metafisico ha un’im por­ tante conseguenza: esso com porta infatti la sua perenne e inesauribile apertura. Se infatti la dim ostrazione metafisica vive esclusivamente della,confutazione della tesi opposta, essa appunto vive solo se alla metafisica viene opposta una negazione, un’obiezione, una critica che

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possa essere confutata. La metafisica, come abbiamo visto, è fonda­ mentalmente confutazione dei tentativi di assolutizzare Fesperienza, o il divenire. Questi tentativi sono stati form ulati nel corso della sto­ ria della filosofia in vari modi, tutti non precedentemente prevedibili; perciò è presumibile che essi continueranno a essere formulati, in modi oggi assolutamente imprevedibili. La metafisica vivrà se, e solo se, riuscirà continuamente a confutare i tentativi di negarla, cioè di asso­ lutizzare Fesperienza. Qualcuno ha obiettato a questo proposito che, una volta ridotta a contraddizione Fassolutizzazione dell’esperienza, la verità della metafisica si deve considerare dim ostrata una volta per sempre (Vi­ gna, 1989). Il fatto è che Fassolutizzazione dell’esperienza può pre­ sentarsi in form e sempre nuove che, per poter essere considerate confutate, devono essere ricondotte alla form a generale di essa. E b ­ bene, questa operazione, che non è affatto facile, perché le forme nuove sono pressoché infinite, è praticamente una confutazione sempre nuova, perciò si può dire che la metafisica non è mai dimostrata de­ finitivamente. C iò non significa che ciascuna dim ostrazione, o con­ futazione, non sia vàlida, cioè non sia concludente. E ssa è concluden­ te di per sé, ma non esclude la necessità di nuove confutazioni, e quindi di nuove dim ostrazioni, in presenza di nuove obiezioni. Anche la metafisica, dunque, come ogni altro discorso umano, in quanto appartenente all’esperienza, è un discorso inevitabilmente storico, cioè non solo non mai definitivo, ma anche sempre aperto a nuovi sviluppi, anzi a nuove vere e proprie riformulazioni, come stanno a dimostrare ad esempio il passaggio dalla metafisica di Platone a quella di Aristotele, da quella di Aristotele a quella di Tom m aso, da quella di Tom m aso a quella del razionalism o moderno, o la ripresa di A ri­ stotele costituita dall’odierna "m etafisica classica” . La sua storicità è la stessa storicità della filosofia, perciò anche la metafisica, come del resto è ovvio, appartiene alla storia della filosofia ed è destinata a continuare con il continuare di questa.

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Enrico Berti

Introduzione alla metafisica La metafisica è la disciplina filosofica più impegnativa, poiché si avven­ tura in ambiti che per definizione oltrepassano quelli della conoscenza scientifica sottraendosi alle forme di controllo che sono consuete nei procedimenti scientifici. Di tale disciplina questo volume offre un quadro tracciato con esempla­ re chiarezza, illustrando innanzitutto l'origine e il significato del termine «metafisica» e i diversi tipi di metafisica elaborati nel corso della storia del pensiero occidentale, nonché le critiche che a essi sono state rivolte. Viene quindi presentato il tema proprio della metafisica che, secondo la tradizione classica, è costituito dall'essere, dalle vane categorie in cui questo si articola e dalle sue proprietà trascendentali. Dal problema ini­ ziale della totalità dell'esperienza all'esito finale, costituito dal principio trascendente, viene infine delineato il percorso della metafisica classica, che pone in luce la dialetticità del procedimento e quindi il carattere incon­ clusivo dei risultati raggiunti. Uno studio di grande rigore e puntualità, che è anche presentazione della p ro ^ ttiv a filosofica di Enrico Berti.

Enrico Berti è professore ordinano di Storia della filosofia all'Università di Padova; è stato presidente nazionale della Società Filosofica italiana (1983-1986), premio Nietzsche per la filosofia (1987), ed è socio corri­ spondente dell'Accademia Nazionale dei Lincei. Per UTET Libreria ha curato anche la traduzione del Protreptico di Aristotele.

In copertina: Giorgio De Chinco, L'angoxia dell'attesa. Fondazione Magnani Rocca, Corte di Mamiano (C 1999 Foto Scala Firenze by SIAE 2006)