Introduzione alla filosofia della mente 8842094765, 9788842094760

Come può il cervello pensare, percepire, dare luogo a esperienze coscienti? Come fa la mente a rappresentarsi la realtà

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Introduzione alla filosofia della mente
 8842094765, 9788842094760

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Biblioteca di Cultura Moderna 1209

Alfredo Paternoster

Introduzione alla filosofia della mente

Editori Laterza

© 2002, 2010, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione 2002 Nuova edizione aggiornata novembre 2010 2

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Edizione 6 7

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9476-0

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Avvertenza alla nuova edizione

A distanza di otto anni dalla pubblicazione della prima edizione, mi è parso naturale chiedermi se e come il testo andasse aggiornato. La ricerca empirica, la neuroscienza in particolare, ha fatto diversi passi avanti, e tuttavia non si può dire che la geografia generale della disciplina sia mutata in modo significativo. Inoltre, se è indubbio che la discussione su diversi temi si sia arricchita di nuovi sviluppi, è pur vero che in alcuni casi questi hanno un carattere eccessivamente tecnico (come accade nelle discipline che hanno raggiunto un certo grado di maturazione), poco consono a un testo di natura introduttiva. Insomma, per quanto posso vedere, l’impianto e i contenuti del libro hanno conservato intatti la loro validità. Per questa ragione, ho optato per qualcosa di simile a degli afterthoughts, dando conto – nella Postfazione in fondo al volume – dei principali filoni di ricerca e discussione emersi nel primo decennio del terzo millennio. Ringrazio Michele Di Francesco, Simone Gozzano, Diego Marconi, Massimo Marraffa, Cristina Meini e Sandro Nannini per gli scambi di idee sull’evoluzione recente della disciplina. Torino, giugno 2010

Introduzione

La filosofia della mente è una delle discipline filosofiche oggi più vive e frequentate. La posizione centrale che essa indubbiamente occupa all’interno della cosiddetta filosofia analitica si spiega con due ragioni. La prima è che la filosofia della mente costituisce un banco di prova cruciale per alcune teorie maturate in altri ambiti filosofici, relative, per esempio, alla natura delle nozioni di causa e di spiegazione, alla forma che deve assumere la riduzione interteorica, o ancora alla natura del significato e della rappresentazione. Chi si interroga sulla natura del mentale finisce cioè per trovarsi a un crocevia di annose questioni metafisiche, epistemologiche e semantiche che potrebbero trovare all’interno della filosofia della mente nuove risposte o diverse formulazioni. La seconda ragione è che la filosofia della mente intrattiene rapporti molto stretti con una delle più significative imprese scientifiche del nostro tempo: la scienza cognitiva, lo studio interdisciplinare delle capacità mentali. Alcuni filosofi della mente, come Paul Churchland, Daniel Dennett, o Jerry Fodor, per non fare che qualche nome, hanno portato contributi di grande rilievo ai fondamenti epistemologici della scienza cognitiva, dimostrando come, contrariamente a quanto molti filosofi e scienziati pensano, la filosofia possa svolgere un ruolo proficuo accanto e dentro la scienza. D’altra parte, l’importanza che la scienza cognitiva ha via via acquisito negli ultimi decenni del Novecento ha contribuito a conferire alla filosofia della mente lo statuto di priorità cui si è accennato sopra, soppiantando in tale ruolo la filosofia del linguaggio, considerata «filosofia prima» per più di metà del secolo scorso. Volendo dare una prima e molto approssimativa idea di che cosa ci si occupa in filosofia della mente, si potrebbero citare questioni come le seguenti: che rapporto c’è tra la mente e il cervello? Come fa la menVII

te a rappresentarsi la realtà esterna? Si possono spiegare compiutamente i fenomeni mentali all’interno delle scienze della natura? Il concetto ordinario di mente solleva diversi problemi, a cominciare dall’esistenza stessa della mente: non è affatto scontato che, al di là dell’etichetta linguistica, ci sia qualcosa di unitario che tiene insieme tutti i fenomeni mentali: il pensiero, l’esperienza, l’autocoscienza, ecc. Tuttavia, che tali fenomeni abbiano un carattere unitario è certamente un’intuizione diffusa, che può essere tranquillamente assunta in partenza, se non altro allo scopo di tentare di confutarla. Questo libro è un’introduzione alla disciplina divisa in tre parti, dedicate rispettivamente alla relazione che sussiste tra la mente e il corpo (Mente-corpo, o metafisica della mente), a come la mente si rapporta al mondo esterno (Mente-mondo, o intenzionalità), e ad alcuni aspetti qualitativi e funzionali intrinseci alla mente stessa (Mente-mente: architettura della mente e coscienza). Sebbene questa articolazione tematica sia molto diffusa, essa è – come ogni altra suddivisione – arbitraria, non soltanto perché i criteri di divisione potevano essere altri, ma anche perché, dati per buoni i tre nuclei tematici, un problema di metafisica della mente può, riformulato in modo un po’ diverso, diventare un problema di intenzionalità, o un problema relativo alla coscienza (e viceversa). Comunque si vogliano formulare i problemi, le relazioni tra questi tre ambiti tematici sono molto strette e saranno sistematicamente segnalate nel corso dell’opera. Il libro è destinato in primo luogo a studenti di filosofia o di altri corsi di laurea che prevedono un insegnamento (uno o più moduli) di filosofia della mente. Tuttavia, non richiedendo alcun prerequisito, dovrebbe essere fruibile anche per il lettore non specialista interessato a questi temi. I criteri che hanno ispirato il mio lavoro sono fondamentalmente i due seguenti. 1. L’attenzione è focalizzata sui problemi e sugli argomenti che sono stati avanzati per sostenere l’una o l’altra delle soluzioni a un certo problema. Ciò ha due implicazioni. La prima è che il libro non ha alcuna pretesa storica, ed è anzi quasi del tutto astorico. Le diverse questioni sono dibattute da un punto di vista contemporaneo, senza preoccuparsi degli antecedenti filosofici più o meno lontani di una certa posizione. Il lettore interessato a una prospettiva storica può proficuamente rivolgersi ai lavori di Michele Di Francesco (20022a) e di Sandro Nannini (2002). (Il libro di Nannini è una vera e propria storia della filosofia della mente, quello di Di Francesco si VIII

colloca un po’ a mezza via tra l’introduzione teorica e quella storica.) La seconda implicazione è che non ho cercato di presentare tassonomie esaustive delle varie posizioni dei principali filosofi della mente, né di entrare molto nei dettagli delle singole teorie. Le teorie vengono presentate in quanto esemplificano soluzioni a un certo problema, al livello di approfondimento appropriato a questo scopo. Quello che considero prioritario è che lo studente da un lato sviluppi la capacità di individuare un problema e di trarre le conseguenze indotte da una sua possibile soluzione, e dall’altro familiarizzi con un certo stile argomentativo. 2. La scelta dei temi e il taglio dato alla discussione tengono conto delle connessioni tra filosofia della mente e scienza cognitiva. È stato dato, cioè, maggior risalto a quei problemi che hanno una rilevanza anche scientifica, a quei temi su cui lavorano, anche se da punti di vista differenti, gli scienziati cognitivi. Il lettore non deve tuttavia attendersi una rassegna di risultati della scienza cognitiva o dei suoi rapporti con la filosofia della mente (anche qui, ottimi e recenti testi in lingua italiana, come quelli di Diego Marconi [2001] e di Massimo Marraffa [2002a], assolvono egregiamente entrambi i compiti). Ci sono bensì richiami a quei risultati della scienza cognitiva che hanno contribuito a illuminare un problema di rilievo, quali sono, per esempio, la teoria delle immagini mentali, o i modi di rappresentazione delle informazioni nelle reti neurali. L’organizzazione del libro viene incontro a esigenze didattiche: i contenuti sono «modularizzati» non solo in capitoli, ma anche in paragrafi e talora sottoparagrafi; si è inserito al fondo un Glossario assai ricco di voci (circa 50), beninteso molto sintetiche; ogni capitolo si conclude con un Riepilogo e con una miniguida bibliografica. Quest’ultima caratteristica mi ha indotto a non appesantire inutilmente il testo con molti rimandi bibliografici interni, che sono limitati all’indispensabile. Nella compilazione della guida bibliografica in calce ad ogni capitolo sono state privilegiate le opere fruibili in lingua italiana (che non sono poche), e delle opere straniere, ove esistente, è stata indicata direttamente la traduzione italiana (ma nella bibliografia al fondo del volume si può trovare l’indicazione dell’edizione originale). Mi auguro che ciò non scoraggi gli studenti dal misurarsi direttamente, almeno quando necessario, con i testi in lingua originale. Quando nel testo c’è un riferimento a pagine, questo è relativo all’eventuale edizione italiana dell’opera citata. IX

Ho il piacere di ringraziare Carla Bazzanella, Annalisa Coliva, Michele Di Francesco, Francesco Ferretti, Marcello Frixione, Simone Gozzano e Alberto Voltolini per alcune preziose osservazioni su parti del lavoro. Un ringraziamento particolare ad Andrea Iacona, Massimo Marraffa, Cristina Meini, Lelia Olivetti che hanno letto e commentato cospicue parti del testo. Questo libro è dedicato a Diego Marconi. Febbraio 2002

Introduzione alla filosofia della mente

Parte prima

Mente-corpo

Quale rapporto ci sia tra la mente e il corpo o, in breve, il problema mente-corpo, è la più classica delle questioni sollevate in filosofia della mente, forse quella fondamentale. Al centro delle riflessioni su questo problema, così come dell’intera filosofia della mente, è il concetto di stato mentale: pensieri, intenzioni, desideri, esperienze, dolori, ecc. La vita mentale è fatta di stati mentali. Ma che tipo di cosa è, esattamente, uno stato mentale? Che rapporto c’è tra uno stato mentale e uno stato cerebrale? Come può un sistema fisico qual è il cervello dare luogo a stati mentali? Si tratta di domande in prima istanza metafisiche, perché investono la natura degli stati mentali e indagano su che tipo di cosa è la mente. Esse sono tuttavia inestricabilmente intrecciate a problemi epistemologici, da quello della relazione tra diversi livelli di spiegazione a quello dello statuto teorico della cosiddetta psicologia del senso comune, cioè di quale sia il valore da attribuire alle categorie psicologiche dell’«uomo della strada». Nel primo capitolo vengono esposte e discusse diverse posizioni che, nell’ambito di una visione materialistica della realtà, sono state assunte riguardo alla natura degli stati mentali. Nel secondo capitolo si esamina in dettaglio una particolare cornice teorica, il funzionalismo, che ambisce a salvaguardare la peculiarità del mentale pur all’interno di una concezione materialistica. Il terzo capitolo, infine, affronta direttamente il cuore della questione mente-corpo, formulandola in termini di causalità mentale: in che modo gli stati mentali come credenze e desideri causano l’azione fisica, il comportamento? Da un lato abbiamo un dominio di enti e processi fisici: il cervello, l’organizzazione neuronale, la trasmissione sinaptica ecc. Dall’altro lato abbiamo un dominio di enti e processi mentali, come credenze e desideri. In base all’immagine scientifica del mondo, soltanto enti e processi fisici hanno proprietà genuinamente causali; eppure siamo inclini a credere che molti comportamenti abbiano cause mentali, come credenze ed intenzioni. Come è possibile? Tra le varie possibili impostazioni del problema mente-corpo, la formulazione in termini di causalità mentale è probabilmente la più perspicua e di certo quella oggi maggiormente in auge. 3

Capitolo 1

Due o tre modi di essere materialisti

Buona parte delle discussioni che animano la filosofia della mente contemporanea ruotano attorno al problema di come conciliare una visione materialistica del mondo con la natura apparentemente non materiale dei fenomeni mentali. Nella filosofia odierna l’espressione «materialismo» viene comunemente usata per denotare la tesi secondo cui l’intera realtà è costituita da massa-energia e da quant’altro è contemplato dalla fisica di base: particelle elementari, forze, onde1. Userò pertanto indifferentemente «fisicalismo» e «materialismo» per riferirmi a tale prospettiva. Il fisicalista, beninteso, non intende sostenere che l’unica vera scienza della natura è la fisica, ma che questa è la scienza fondamentale, la più basilare, in quanto ogni processo chimico, per esempio, è riducibile, almeno in linea di principio, a processi fisici. Nella cornice teorica fisicalistica una pietra e una creatura dotata di mente non differiscono per la natura degli elementi costitutivi ultimi, ma per certe proprietà di organizzazione che investono il modo in cui tali elementi si combinano tra loro dando luogo a strutture di complessità crescente. Pertanto, quando si parla di materialismo o di fisicalismo in filosofia della mente, ciò che si intende è che le menti non sono «cose», o «sostanze», che fanno parte dell’arredo metafisico del mondo alla stessa stregua degli atomi, dei tavoli o degli organi di un corpo umano: le menti non sono nient’altro che il prodotto dell’attività del cervello. Niente cervelli, niente menti (né anime). Il fisicalismo si è progressivamente imposto in opposizione alla dottrina del dualismo ontologico, la tesi cartesiana secondo cui la 1 Questa è in realtà una grande semplificazione; i problemi metafisici sollevati dalla fisica di base sono enormi. Dal punto di vista di un filosofo della mente, tuttavia, ciò è irrilevante: se la fisica fosse diversa, le questioni di cui si dibatte in questo libro non ne verrebbero influenzate.

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mente costituisce un tipo di realtà a sé. Descartes pensava infatti che nel mondo ci fossero due tipi fondamentali di enti o, in un linguaggio più classico, di sostanze: la res cogitans, la sostanza pensante, e la res extensa, i corpi materiali. Le menti sono altro dal corpo e da esso indipendenti; potrebbero esistere in assenza del corpo. Quest’ultima tesi appare oggi inverosimile alla grande maggioranza degli studiosi principalmente perché mal si accorda con alcuni capisaldi dell’immagine scientifica del mondo, come la teoria dell’evoluzione o la possibilità di conferma empirica (gioverà ricordare a questo riguardo che, nonostante le molte critiche che le vengono rivolte, l’immagine scientifica del mondo si è guadagnata autorevolezza e consenso con una molteplicità di indiscutibili successi). Ciò non significa, tuttavia, che il materialismo sollevi meno problemi filosofici del dualismo. Se infatti ciò che chiamiamo «mente» non è che il complesso delle attività del sistema nervoso, resta da spiegare come ciò sia possibile: come fa un mero conglomerato di cellule, per quanto di grandissime dimensioni, a produrre proprietà così sofisticate e in apparenza del tutto estranee al mondo fisico come il pensiero, l’esperienza, il senso dell’io? E come è possibile coniugare l’apparente libertà delle proprie scelte in un quadro teorico sostanzialmente meccanicistico? Se non si danno risposte a queste domande, il materialismo, più che proporre una chiara visione in positivo di che cosa è la mente e di quale rapporto essa intrattenga col corpo, si limita ad essere la mera negazione del dualismo. Il fisicalismo sembra, ad esempio, avere le risorse per venire a capo dell’annosa incapacità del dualismo di giustificare la coordinazione, l’armonia di funzionamento, tra mente e cervello. Le soluzioni invocate fin dal Seicento, dalla ghiandola pineale all’armonia prestabilita o all’intervento occasionale di Dio, sono tutte esplicativamente inadeguate. A prima vista nel fisicalismo questo problema semplicemente scompare: non c’è niente da sincronizzare perché c’è solo il corpo. Ma a questo punto il dualista può a buon diritto reclamare una spiegazione di come uno stato mentale, per esempio un’intenzione, possa causare un’azione fisica. In entrambi i casi sono in gioco dei fenomeni inspiegati. Pertanto, se è vero che si possono portare alcuni solidi argomenti contro il dualismo, è altrettanto vero che anche le diverse teorie materialistiche della mente sono esposte a gravi difficoltà. Così, non deve stupire più di tanto che ci siano tutt’oggi alcuni autorevoli stu6

diosi che si proclamano dualisti, e persino nel campo scientifico, come testimoniano i casi di John Eccles e Wilder Penfield. Gli autori che difendono il punto di vista dualista insistono tipicamente sulla peculiarità dell’aspetto fenomenico o qualitativo del mentale. Se pensiamo agli stati mentali in primo luogo come a stati di esperienza, se cioè ci si concentra su che cosa si prova in questa o quella situazione (la tonalità di quel rosso, l’intensità di quel mal di denti, l’irresistibilità di quel desiderio, ecc.), l’idea di una radicale differenza ontologica rispetto agli stati e agli oggetti del mondo fisico scaturisce abbastanza naturalmente. Gli stati mentali non possono essere semplicemente stati fisici perché sono caratterizzati da alcune proprietà radicalmente estranee, almeno in apparenza, al mondo fisico. Questo argomento cartesiano è stato tuttavia fondatamente criticato sulla base della considerazione che uno stesso oggetto può avere due o più descrizioni diverse e nondimeno essere lo stesso oggetto. I sintagmi «Monte Bianco» e «il monte più alto d’Europa» esprimono due prospettive affatto diverse, ma unica è la cosa che designano. Analogamente, gli stati mentali caratterizzati nei termini delle loro proprietà fenomeniche potrebbero essere mere prospettive su stati cerebrali perfettamente descrivibili nel linguaggio delle neuroscienze; «mal di denti», per esempio, potrebbe essere un’espressione del linguaggio ordinario che in realtà denota la stimolazione di alcune fibre nervose, le fibre C. A dispetto di questa replica, tuttavia, l’impressione di un’irriducibile alterità dell’esperienza resiste e la questione del dualismo riaffiora almeno come problema di spiegare in che modo il corpo produce l’esperienza: per confutare completamente il dualismo si vorrebbe una teoria scientifica che descrivesse che cosa è l’esperienza in prima persona (cfr. infra, cap. 8). Più in generale, il problema che si pone al fisicalista è quello di chiarire quale ruolo – se ne ha uno – dobbiamo attribuire alla mente in una prospettiva metafisica che contempla solo l’esistenza del corpo. Di che cosa stiamo parlando, esattamente, quando usiamo la parola «mente»? A prima vista si direbbe che le opzioni disponibili al fisicalista siano di due tipi: o ridurre la mente a qualcosa di ontologicamente non sospetto, identificandola cioè con qualcosa di materiale, o eliminare la mente, negando in modo puro e semplice la sua esistenza. In realtà, vedremo che il problema può essere affrontato in modo assai più articolato, fornendo un tipo di soluzione che non può essere sottomesso a questo schema un po’ drastico. 7

In questo capitolo esamineremo tre posizioni, che possono essere sintetizzate nelle seguenti formule: a) la mente è identica al cervello: gli stati mentali si riducono agli stati cerebrali; b) la mente non esiste; c) la mente è (un insieme di disposizioni al) comportamento.

Ciascuna di queste posizioni ha un nome: riduzionismo (nella versione «teoria dell’identità»), eliminativismo, comportamentismo; a ciascuna di esse è dedicato un paragrafo. Il capitolo successivo è invece interamente dedicato a una posizione più articolata, il funzionalismo, che è un tentativo di esplicare in termini materialistici la mente senza tuttavia né ridurla né eliminarla. Due precisazioni, prima di entrare nel merito, che giustificano entrambe il titolo un po’ bizzarro che abbiamo dato a questo capitolo. La prima è che, se si bada più alle comunanze che alle differenze, il comportamentismo può essere considerato una forma di eliminativismo. La seconda è che, come vedremo, il comportamentismo non è una vera e propria dottrina metafisica, una vera e propria teoria materialistica della mente. Emergeranno tuttavia chiaramente le ragioni per cui lo inseriamo egualmente in questo capitolo. 1. La teoria dell’identità psico-fisica Il modo più ovvio di interpretare la tesi secondo cui la mente non è nient’altro che il prodotto dell’attività cerebrale consiste verosimilmente nel dire che, se per ogni stato mentale esiste un preciso correlato neurologico, allora lo stato mentale è identico a tale correlato. Per esempio, avere mal di denti è avere una certa stimolazione delle fibre C, esattamente nello stesso senso in cui il calore è il moto molecolare o l’acqua è H2O. Analogamente, ogni volta che crediamo o desideriamo qualcosa, per esempio che ci sia della birra in frigorifero, ci troviamo in una determinata configurazione neuronale. Questa tesi, che prende il nome di teoria dell’identità di tipo (o tipo-tipo), è stata avanzata negli anni Cinquanta da Feigl, Place, Smart e ripresa, in una cornice teorica diversa, da Armstrong e in generale dalla fiorente scuola filosofica australiana. Per comprendere il nome che è stato dato alla teoria, dobbiamo fare riferimento alla cruciale distinzione, forse la madre di tutte le distinzioni filosofiche, tra particolari ed universali o, in una terminolo8

gia desunta da Peirce, tra occorrenze (tokens) e tipi (types). Nella parola «gatto», per esempio, vi sono cinque occorrenze di lettere (particolari), ma solo quattro tipi di lettere (universali), perché vi sono due occorrenze della «t». Analogamente, quando si parla di stati mentali, possiamo riferirci a occorrenze o a tipi: il mal di denti che sto provando in questo momento, o il mal di denti in generale, che io e voi possiamo provare in diversi momenti. Generalmente il contesto non lascia dubbi su quale sia l’interpretazione da dare all’espressione «stato mentale», come occorrenza piuttosto che come tipo. Per esempio, quando diciamo che due stati mentali sono identici (o che uno stato mentale è identico a un altro) chiaramente ciò che si intende è che si tratta di due occorrenze dello stesso tipo. Si parla anche di proprietà mentali, per denotare tipi di stati mentali, e di eventi mentali, per denotare occorrenze di stati2. Dunque, come suggerisce il nome che è stato dato alla teoria, l’identità in questione non è soltanto tra uno stato mentale particolare (per esempio, il pensiero che ho in questo momento che è ora di andare a pranzo) e uno stato cerebrale particolare, bensì tra tutti gli stati mentali di un certo tipo e tutti gli stati cerebrali di un altro tipo, ovvero tra una certa proprietà mentale e una certa proprietà cerebrale. Ogni volta che io o voi pensiamo che è ora di andare a pranzo ci troviamo in uno stato cerebrale di uno stesso e unico tipo, ed è in questo senso che il tipo di stato mentale denotato da «credere che sia ora di andare a pranzo» è identico a un certo tipo di stato cerebrale3. La teoria dell’identità è un tipico esempio di dottrina riduzionistica. L’idea è che una caratterizzazione appropriata degli stati mentali debba passare attraverso una riduzione interteorica. La temperatura di un gas, per esempio, è identica all’energia cinetica media delle molecole che lo compongono. Questo genere di identità prende il nome di legge-ponte; un insieme di leggi-ponte consente di ridurre la teoria di alto livello a quella di basso livello, in questo caso di ridurre la termodinamica, una branca della macrofisica, alla meccanica 2 L’espressione «stato mentale» (intesa come token) è più generale (e ha quindi un uso più frequente) di «evento mentale», perché un evento ha una durata temporale limitata, poco più che istantanea. Invece, molti episodi della nostra vita mentale si estendono nel tempo: una credenza o un desiderio, per esempio, sono tipicamente persistenti. 3 Si tenga presente che in filosofia della mente «credere» e «pensare» sono considerati sinonimi. Li useremo in modo interscambiabile.

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statistica, che è microfisica. Analogamente si presume che ci siano leggi-ponte tra neurologia e psicologia così da poter ridescrivere uno stato postulato da una teoria psicologica di alto livello nei termini di proprietà di livello neuronale e, indirettamente, di livello fisico. Queste considerazioni evidenziano come la nozione di riduzione interteorica comporti sempre un intreccio di due piani diversi, il piano ontologico (o metafisico) ed il piano epistemologico. La riduzione in senso epistemologico è una spiegazione dei fenomeni descritti da una teoria T nei termini di una teoria di livello inferiore, più fondamentale, T’; si ha invece riduzione in senso ontologico quando l’insieme di fenomeni ridotto non presuppone l’esistenza di nessun altro ente oltre a quelli coinvolti nei fenomeni riducenti. I sostenitori della teoria dell’identità contraggono, nel fare un’affermazione di portata chiaramente ontologica, anche un impegnativo debito epistemologico: ipotizzano l’esistenza di un insieme di leggi-ponte, ad oggi del tutto sconosciute, che connetterebbero psicologia e neuroscienza. In questo senso la tesi metafisica dell’identità psico-fisica può essere considerata alla stregua di un’ipotesi scientifica che guida un programma di ricerca. Il maggior pregio della teoria dell’identità è evidente: rimuove qualsiasi appello a magici parallelismi o altri bizzarri meccanismi di interazione (tipo ghiandola pineale) caratteristici di questa o quella versione del dualismo. Gli stati mentali possono causare stati fisici perché sono stati fisici. Inoltre, in virtù della postulazione di leggiponte psico-fisiche, la teoria dell’identità promette di ricomprendere la psicologia all’interno delle scienze della natura. L’obiezione della realizzabilità multipla. La tesi secondo cui tutte le occorrenze di un dato tipo mentale sono identiche a occorrenze di uno stesso tipo cerebrale è stata oggetto di una critica, dovuta a Putnam (1967), che ha minato la credibilità della teoria dell’identità. Il fatto che una proprietà mentale sia identica a una proprietà cerebrale comporta, per esempio, che tutte le volte che io e Simone crediamo che ci sia della birra in frigorifero ci troviamo nello stesso stato cerebrale, un’assunzione chiaramente molto vincolante. Se poi si considera che talora attribuiamo stati mentali anche ad animali, ne scaturisce l’assurda conclusione che due animali aventi cervelli diversi devono trovarsi in configurazioni cerebrali identiche ogni qual volta condividono uno stato mentale. Quando ho paura di essere divorato da uno squalo dovrei trovarmi nello stesso stato cerebrale di una sardina! 10

Una prima possibile mossa del riduzionista per fronteggiare questa obiezione consiste nel dire che una proprietà mentale è identica alla disgiunzione di tutte le proprietà cerebrali che la realizzano: supposto che uno stato mentale M sia realizzabile da k stati fisici distinti P1, P2,...Pk, si può porre M = P1 v P2 v ... Pk. Questa non è, tuttavia, una risposta molto soddisfacente, perché una disgiunzione di proprietà non è considerata, in generale, una proprietà genuina. Un semplice esempio: essere rosso ed essere quadrato sono proprietà genuine, ma è assai dubbio che essere rosso oppure quadrato sia una proprietà legittima; se tale la volessimo considerare, allora qualsiasi disgiunzione di predicati denoterebbe una proprietà, il che è intuitivamente implausibile4. Una risposta migliore, ma solo parziale, consiste nel relativizzare l’identità alle specie: solo all’interno di sistemi della stessa specie ha senso parlare di identità tra stati mentali e stati fisici. E più in generale si può forse interpretare la teoria dell’identità in modo più flessibile, nel senso di supporre che le classi di stati mentali candidati alla riduzione siano abbastanza ristrette ed omogenee da rendere plausibile l’identità con il tipo sottostante. In quest’ultimo caso c’è tuttavia da dubitare che gli stati mentali del senso comune, come la credenza o il desiderio, siano buoni candidati alla riduzione. Resta così l’impressione che la critica di Putnam non sia del tutto aggirabile, e non è un caso che la versione di materialismo più accreditata consista in una versione radicalmente emendata della teoria dell’identità, più debole, che postula identità tra occorrenze invece che tra tipi (cfr. infra, cap. 3). Altre obiezioni. Un’altra critica rivolta fin dall’inizio ai riduzionisti del mentale è che l’identità deve soddisfare il principio leibniziano dell’indiscernibilità degli identici: ∀x∀y ((x = y) → ∀F(Fx sse Fy)) per ogni x e y, se x è uguale ad y, allora, per ogni proprietà F, x ha F se e solo se y ha F. 4 Non è facile, tuttavia, dare una giustificazione persuasiva di questa intuizione. Tipicamente, chi vuole negare lo statuto di proprietà a questo genere di disgiunzioni fa appello alla loro irrilevanza causale: se qualcosa di rosso ed eventualmente di quadrato ha un ruolo causale ce l’ha in virtù del fatto di essere rosso, oppure in virtù del fatto di essere quadrato, ma non in virtù del fatto di essere rosso oppure quadrato.

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Cioè: se due cose sono identiche, allora devono condividere tutte le proprietà. Ma è chiaro che ci sono proprietà caratteristiche di uno stato mentale – per esempio, le sue qualità fenomeniche – che non possono essere predicate di uno stato cerebrale (e, viceversa, ci sono proprietà chimiche o elettriche di uno stato cerebrale che non si predicano di uno stato mentale). Si noti come questa critica riprenda sostanzialmente l’argomento cartesiano dell’irriducibile alterità dell’esperienza. Come già accennato, tuttavia, a questa obiezione si può efficacemente replicare che è richiesta soltanto identità di riferimento, cioè di oggetto denotato, non identità sotto ogni aspetto: come «Monte Bianco» e «il monte più alto d’Europa» possono denotare lo stesso oggetto da due prospettive diverse, analogamente è possibile caratterizzare uno stesso tipo di stato in due modi diversi, con una descrizione mentale piuttosto che con una descrizione cerebrale. Punta nella stessa direzione, ma in modo più sottile, l’assai discussa critica di Kripke (1980, pp. 136-45). Supponiamo di aver trovato una correlazione attendibile tra il dolore e la stimolazione delle fibre C, per cui, in base alla teoria dell’identità, dolore = stimolazione delle fibre C. Ora, sostiene Kripke, le identità come «acqua = H2O», sul cui modello è ricalcata l’identità psico-fisica, sono, se vere, vere di necessità (Premessa 1); invece, l’identità tra il dolore e la stimolazione delle fibre C è chiaramente contingente (Premessa 2), poiché è concepibile che le fibre C siano stimolate senza che il soggetto provi una sensazione di dolore o che una sensazione di dolore insorga in modo diverso, per esempio tramite la stimolazione di un altro gruppo di fibre. Ne consegue che l’identità in questione non può essere vera perché non è necessaria (Conclusione). L’argomento di Kripke è particolarmente spinoso perché entrambi i modi di respingerlo, attaccando la prima piuttosto che la seconda premessa, comportano difficoltà non lievi. Possiamo respingere la Premessa 1 negando che gli asserti di identità come «acqua = H2O» siano necessari: l’acqua avrebbe potuto non essere H2O, il dolore potrebbe non essere la stimolazione delle fibre C. Questa strategia è tuttavia non agevole da perseguire perché gli argomenti addotti da Kripke per giustificare lo statuto di necessità di certi asserti di identità sono abbastanza solidi5. In alternativa, possiamo prendere la strada 5 La tesi secondo cui gli asserti di identità come «acqua = H O» sono necessari 2 deriva da una teoria del riferimento dei nomi propri e di quelli di genere naturale e di sostanza che Kripke ha avanzato nel 1970, nota come teoria della designazione ri-

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di criticare la Premessa 2 mettendo in discussione l’affidabilità delle nostre intuizioni su casi controfattuali di questo genere. In realtà – si potrebbe sostenere – non abbiamo alcuna intuizione chiara sulla possibilità di dissociare stimolazione delle fibre C e sensazione di dolore. gida. Per dare un’idea della teoria bisogna preliminarmente introdurre la nozione di mondo possibile. Un mondo possibile è un mondo (immaginario) in cui certi fatti sono andati diversamente che nel mondo reale, per esempio un mondo in cui il Presidente degli Stati Uniti è Al Gore e non George Bush. I mondi possibili sono cioè «costruiti» in base a una o più ipotesi controfattuali, relative a cose che avrebbero potuto andare diversamente da come sono andate di fatto. Ora, dire che certi nomi sono designatori rigidi equivale a dire che il loro riferimento è lo stesso in ogni mondo possibile; in altri termini non è possibile che un designatore rigido non denoti ciò che esso denota nel nostro mondo. Ne consegue che un’identità in cui compaiono due designatori rigidi, quali sono secondo Kripke «acqua» e «H2O», è vera in ogni mondo possibile, cioè è vera di necessità, a differenza di un’identità come «Aristotele = Il maestro di Alessandro Magno», che è contingente perché l’espressione «Il maestro di Alessandro Magno» non è un designatore rigido. L’argomento alla base della teoria della designazione rigida è, almeno nel caso dei nomi propri, molto solido, e deriva dall’osservazione del funzionamento del ragionamento controfattuale ordinario, nel quale ascriviamo un’ipotetica proprietà a qualcosa o a qualcuno mantenendo fisso il riferimento del nome. Per esempio, quando diciamo «Se Aristotele fosse stato il maestro di Giulio Cesare...» o «Se l’acqua avesse un inebriante sapore di assenzio...», stiamo facendo delle ipotesi controfattuali su quell’individuo particolare, Aristotele, che visse su questa terra, o sulla nostra acqua, l’acqua che c’è qui nel nostro mondo. Ne consegue che in ogni altro mondo possibile, come quello individuato dall’ipotesi che l’acqua abbia un inebriante gusto di assenzio, la parola «acqua» continua a denotare ciò che denota nel nostro mondo, anche se le attribuiamo proprietà descrittive diverse. (Per un’esposizione più ampia della teoria della designazione rigida si vedano Casalegno 1997, cap. 8 o Napoli 1992.) Il lettore obietterà: ma così come si può immaginare che l’acqua abbia gusto di assenzio, si potrà ben immaginare che l’acqua non sia H2O; come può quindi l’identità in questione essere necessaria? Attenzione: in base alla teoria della designazione rigida, immaginare un mondo possibile in cui l’acqua non è H2O è in effetti immaginare un mondo in cui ciò che noi chiamiamo «acqua», vale a dire, ciò che ha le proprietà superficiali dell’acqua, non ha una certa struttura chimica. Ma questo è come dire che stiamo immaginando un mondo in cui ciò che sembra acqua non è in realtà acqua; stiamo immaginando un mondo in cui ciò che esce dai rubinetti, si trova nei fiumi e nei laghi ecc. è una sostanza straordinariamente simile all’acqua, ma non è acqua (non è H2O). La possibilità che l’acqua non sia H2O è solo apparente, è un modo fuorviante di descrivere ciò che in effetti stiamo immaginando. Sono state mosse obiezioni alla teoria della designazione rigida, specialmente nel caso dei nomi di sostanza e specie naturale. Si è sostenuto, per esempio, che la teoria presuppone l’inaccettabile idea che le cose abbiano proprietà essenziali. Nondimeno, sarebbe difficile negare che la confutazione della teoria della designazione rigida, e con essa della prima premessa dell’argomento di Kripke, è un compito assai arduo, che richiede l’elaborazione di una teoria semantica alternativa che sia altrettanto efficace nel dar conto del funzionamento del discorso controfattuale.

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L’identità sembra contingente ma è in effetti necessaria. Qui il problema è che l’onere della prova ricade su chi difende l’ipotesi che l’identità sia necessaria. In base a quali considerazioni dovremmo escludere la possibilità che, per esempio, una sensazione di dolore insorga senza una concomitante stimolazione delle fibre C? Per analogia col caso dell’acqua (cfr. supra, nota 5), dovremmo far vedere che questa è una possibilità solo apparente, che in realtà quello che stiamo immaginando è che qualcosa che ci sembra dolore, qualcosa che percepiamo come dolore, non è in effetti dolore (in quanto non è realizzato cerebralmente tramite la stimolazione delle fibre C). Ma questo è implausibile, perché qualcosa che percepiamo come dolore, qualcosa che ci sembra dolore, è dolore. Il dolore è precisamente quello che percepiamo come tale, la sensazione dolorosa; non c’è differenza fra provare (una sensazione di) dolore e avere un dolore. Quale che sia il valore che si vuole attribuire agli argomenti contro la teoria dell’identità, si deve comunque riconoscere che allo stato attuale la scienza cognitiva – e la neuroscienza in particolare – è lontana dal poter offrire esempi di identità tra stati mentali e stati cerebrali, sebbene recenti ricerche di neuroscienza computazionale (cfr. infra, 7.1) inducano a guardare al futuro con maggiore ottimismo. La teoria affida quindi a un futuro incerto le sue prospettive, anche se si deve ammettere che i successi delle riduzioni interteoriche in altri ambiti scientifici costituiscono un precedente favorevole. A volte le identità in questione sono ipotesi che guidano specifici programmi di ricerca; altre volte esse sono il punto d’arrivo di complesse risistemazioni teoriche innescate da scoperte empiriche di grande rilievo; i riduzionisti del mentale esemplificano il primo tipo di atteggiamento. 2. L’eliminativismo L’eliminativismo, o materialismo eliminativo, è una dottrina relativamente recente, anche se un punto di vista non dissimile si trova già espresso in scritti di Quine (1960), Feyerabend (1963) e Rorty (1965). Nella sua formulazione attuale, l’eliminativismo è legato soprattutto ai nomi di Patricia Smith Churchland e Paul Churchland; si tratta tuttavia di una posizione più o meno tacitamente condivisa da molti neuroscienziati. L’idea è che gli stati mentali così come caratterizzati dal senso comune sono costrutti teorici postulati da una teoria sbagliata, la cosiddetta psicologia popolare (folk psychology), alla stessa stregua di concetti oggi abbandonati come flogisto o ca14

lorico. In base allo schema concettuale della psicologia del senso comune il nostro comportamento è determinato da ciò che crediamo e ciò che desideriamo; analogamente attribuiamo ad altri credenze, desideri e altri stati mentali (intenzioni, speranze, ecc.) allo scopo di spiegare e prevedere il loro comportamento. Ma dire «credenza» o «desiderio» è come dire «strega» o «pietra filosofale», è usare etichette linguistiche vuote, prive di riferimento. Poiché questa struttura concettuale è una mera proiezione, dettata soltanto dalla nostra ignoranza, sui reali processi e organizzazioni cerebrali, tutto ciò che dobbiamo fare è studiare, a vari livelli (molecolare, della singola cellula, di sistemi di cellule e così via), il sistema nervoso; quando le neuroscienze saranno sufficientemente progredite avremo buone spiegazioni di questo o quel fenomeno mentale; l’inconsistenza del vocabolario mentalistico ordinario risulterà evidente e la psicologia del senso comune sarà un relitto storico come l’alchimia. Le ragioni addotte dai Churchland sono le seguenti: – la psicologia del senso comune è esplicativamente inadeguata: da un lato, molti fenomeni mentali, come la malattia mentale, il sogno, le illusioni, ecc., restano fuori dalle sue possibilità di spiegazione; dall’altro, essa non offre vere e proprie spiegazioni causali del nesso tra mente e comportamento, perché i suoi concetti non sono suscettibili di essere proiettati su categorie neurologiche; – la psicologia del senso comune è una sorta di teoria «stagnante», che non ha mai fatto progressi a dispetto (o forse a causa) delle sue evidenti inadeguatezze esplicative; – spesso la scienza ha fatto vedere come la concezione ordinaria del mondo fosse radicalmente sbagliata. Nessuno di questi argomenti è in realtà del tutto convincente. Riguardo alla prima osservazione si può osservare che, per quanto avara di indicazioni di dettaglio, la psicologia folk funziona, come strumento predittivo, assai bene. Quindi la sua insufficienza, più che inadeguatezza, esplicativa non è affatto una prova che sia una teoria falsa. Riguardo al secondo punto, alcuni hanno messo in discussione che la psicologia del senso comune sia una teoria nel senso scientifico del termine; non avrebbe quindi senso richiedere che essa faccia progressi. Messa in questi termini, l’obiezione è poco persuasiva: i principi che la psicologia folk implicitamente incorpora possono essere descritti come leggi predittive, cioè come particolari enunciati del tipo Se X desidera A e crede B, allora (salvo controindicazioni) farà 15

C, e una teoria è precisamente una collezione di enunciati di tipo predittivo. Possiamo eventualmente etichettare la psicologia del senso comune come una «proto-teoria ingenua» (cfr. infra, 7.4), ma questo è irrilevante per l’argomento in questione. Si potrebbe però replicare ai Churchland che la (proto)teoria è stagnante precisamente perché assolve egregiamente il suo compito: limitatamente al suo ambito di spiegazione, non c’è alcun bisogno che essa faccia progressi. Infine, la terza osservazione è inconfutabile ma, presa da sola, non costituisce una motivazione sufficiente per negare in modo puro e semplice l’esistenza degli stati mentali. Sebbene gli argomenti addotti non siano molto robusti, l’eliminativismo può essere una posizione assai attraente perché costituisce una formulazione coerente del fisicalismo libera dall’ingrato vincolo di trovare correlazioni perfette tra stati mentali e stati cerebrali; e la refrattarietà alla riduzione che, almeno a prima vista, caratterizza stati come la credenza induce proprio a ritenere che almeno certi stati mentali siano cattivi candidati ad essere incorporati in una teoria scientifica. Se, prescindendo da certe previsioni estremistiche sul futuro abbandono del linguaggio mentalistico ordinario, si identifica il cuore dell’eliminativismo nella tesi secondo cui gli stati mentali resistono all’incorporazione in una teoria scientifica appropriata, la posizione dei Churchland apparirà più ragionevole di quanto non sembri a prima vista. Veniamo ora alle difficoltà. Una critica che viene sovente rivolta agli eliminativisti è che essi si autoconfutano: per poter difendere la loro tesi devono ammettere di credere che così e così, e in tal modo sono costretti a concedere di possedere stati mentali nel momento stesso in cui ne negano l’esistenza. Benché questa critica sia stata formulata, tra gli altri, da un filosofo di grandissima statura come Hilary Putnam, essa ha tutta l’aria di essere un sofisma: la revisione del vocabolario mentalistico, infatti, non è possibile alla luce delle attuali conoscenze. Non possiamo cambiare il nostro modo di parlare finché non abbiamo dei buoni sostituti scientificamente rispettabili. Inoltre, quello che conta è l’eventualità che l’eliminativismo sia una teoria vera, non che esso venga creduto vero. Una variante di questa critica può tuttavia essere più minacciosa: se si ammette, come la maggior parte dei filosofi della mente riconosce, che i portatori primari di verità/falsità sono le credenze, in quanto solo un enunciato interpretato può essere vero o falso e l’attività interpretativa chiama in causa i pensieri delle persone, allora 16

disfarsi in modo puro e semplice della nozione di credenza comporta di fare a meno della nozione stessa di verità, il che è paradossale per chiunque nutra un atteggiamento scientifico. A questo si può tuttavia replicare negando che sussista il sopra citato legame tra verità e credenza; ci sono, in effetti, teorie semantiche che fanno tranquillamente a meno della nozione di credenza. Ma il problema più serio per l’eliminativismo è probabilmente quello di giustificare il successo della psicologia del senso comune. Forse i concetti di credenza, desiderio e simili non hanno una controparte scientifica, ma è difficile negare che la teoria o prototeoria che essi costituiscono funzioni. Poiché il successo predittivo di una teoria è considerato generalmente un buon indicatore della sua verità, sembra ingiusto non riconoscere uno statuto di qualche tipo agli stati mentali del senso comune. Come accennato sopra, tuttavia, l’eliminativista potrebbe sottrarsi a questa critica ridimensionando, più che il cuore della teoria, la sua portata polemica: un concetto come quello di credenza potrebbe essere appropriato e nondimeno non riferirsi a un genuino stato neuronale6. A questa posizione più moderata sembra del resto ispirarsi l’atteggiamento più recente dei Churchland, la cui vena polemica è oggi principalmente rivolta a difendere certi modi di studiare la mente – connessionismo, neuroscienze – contro altri (cognitivismo classico).Torneremo su questo nel capitolo 7. 3. Il comportamentismo In filosofia e in psicologia rispettivamente si intendono per «comportamentismo» due teorie ben distinte, sebbene imparentate sotto più di un aspetto. La versione filosofica, nota come «comportamentismo logico», è legata principalmente ai nomi di Hempel (e in generale dei neopositivisti), Ryle, Wittgenstein7 e ad alcuni allievi di 6 Ci sono vari modi di difendere l’appropriatezza della psicologia del senso comune senza compromettersi con la tesi della corrispondenza tra stati mentali e stati cerebrali. Rimando il lettore alla discussione della dennettiana strategia dell’interpretazione (cfr. infra, 4.2) e della teoria modularista della psicologia ingenua (cfr. infra, 7.4). 7 Vedremo in seguito come l’inclusione di Wittgenstein tra i comportamentisti sia in realtà inappropriata; si deve tuttavia al grande filosofo austriaco la più brillante formulazione di una fondamentale tesi anticartesiana del comportamentismo

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quest’ultimo, come Kenny e Malcolm. Si tratta fondamentalmente di una tesi semantica, vale a dire di una tesi sul significato dei termini del discorso mentalistico ordinario. Il comportamentismo psicologico, i cui più efficaci propagandisti furono John B. Watson e Burrus F. Skinner, è stato il paradigma dominante nella ricerca psicologica nel corso della prima metà del Novecento. Il comportamentismo psicologico è essenzialmente una tesi metodologica: esso prescrive come occorre procedere nello studio empirico dei fenomeni mentali. Se il comportamentismo psicologico è certamente ispirato a una vigorosa visione materialistica, il comportamentismo logico non è, o perlomeno non in tutti gli autori, una vera e propria dottrina fisicalistica della mente; nondimeno esso è comunemente inserito tra le teorie materialistiche, per due ragioni. La prima è che ha costituito storicamente l’attacco più incisivo al dualismo cartesiano; la seconda è che può essere apparentato sotto qualche aspetto al materialismo eliminativo. Ciò giustifica a sufficienza la sua collocazione in questo capitolo. Comportamentismo psicologico. In polemica con la psicologia di Wundt e Titchener, che si basava su resoconti introspettivi e aveva per oggetto di studio i processi consci interni, gli psicologi comportamentisti posero al centro dei loro interessi teorici la previsione e la spiegazione del comportamento, escludendo gli stati mentali dall’ambito della ricerca psicologica in quanto non osservabili. Una teoria appropriata deve infatti cercare di descrivere e spiegare il comportamento esclusivamente a partire da dati empirici certi, cioè stimoli e risposte. Il riferimento a supposti enti inosservabili a scopi esplicativi non è ammissibile. Si comprende, quindi, la portata metafisica di un siffatto atteggiamento: per un comportamentista la mente non esiste, almeno nel senso che nella pratica scientifica bisogna operare come se non esistesse. In tal modo la mente è a tutti gli effetti rimossa dalla spiegazione psicologica e dall’ontologia della scienza del comportamento. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta il comportamentismo entrò in crisi e fu soppiantato dalla psicologia cognitiva. Devastante per il comportamentismo fu in particolare la critica di Chomsky a Skinner (Chomsky 1959), nella quale il grande linguista del MIT fece logico, quella secondo cui i termini del discorso mentalistico ordinario non designano esperienze private.

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vedere come le tipiche nozioni comportamentistiche – stimolo, rinforzo, privazione, ecc. – fossero ben definite soltanto in condizioni sperimentali molto semplificate (le gabbie con leve e pulsanti in cui si muovono i topolini). Se infatti qualsiasi sollecitazione all’organismo è considerata uno stimolo, allora non può esserci alcuna legge del comportamento linguistico, perché a parità di sollecitazione fornita a un parlante le risposte verbali possono essere le più disparate. Se, all’opposto, sono considerati stimoli soltanto gli input sistematicamente correlati con determinate risposte fisse, allora la spiegazione comportamentista copre una frazione irrisoria dell’attività umana e non ha pertanto alcuna validità generale. Il comportamentismo è palesemente inadeguato nel caso del linguaggio perché questo ha una struttura grammaticale troppo complessa per poter essere appreso esclusivamente sulla base degli input ricevuti dall’esterno, cioè degli enunciati proferiti dalle persone con cui il bambino interagisce (argomento noto come «povertà dello stimolo»): a soli tre anni (circa) i bambini non affetti da deficit specifici sono in grado di produrre e comprendere frasi perfettamente grammaticali. Si deve quindi postulare l’esistenza di una base innata di regole. D’altra parte, senza chiamare in causa una facoltà sofisticata come il linguaggio, Edward Tolman fece vedere che persino il comportamento dei ratti in una gabbia non era suscettibile di una spiegazione appropriata facendo appello esclusivamente a configurazioni di stimoli e risposte. La tesi fondamentale del comportamentismo psicologico si è pertanto rivelata falsa: lungi dal poter ricorrere esclusivamente alle correlazioni stimoli/risposte, la spiegazione del comportamento richiede di postulare certe rappresentazioni e processi interni, appunto ciò che chiamiamo «mente». Questi fattori interni possono e devono essere studiati senza sacrificare il rigore sperimentale invocato dai comportamentisti. Comportamentismo logico. Sotto l’etichetta di «comportamentismo logico» (o «filosofico») si usa far rientrare un insieme di tesi indubbiamente correlate, ma elaborate da autori diversi e spesso motivate da esigenze teoriche diverse. Possiamo anzi parlare di due ispirazioni opposte, una naturalistica ed una antinaturalistica, che tuttavia, curiosamente, hanno dato luogo ad esiti convergenti. La tesi di ispirazione naturalistica, la cui formulazione più limpida si deve a Hempel (1949), è che gli enunciati contenenti termini psicologici sono traducibili in enunciati contenenti esclusivamente ter19

mini che fanno riferimento al comportamento fisico. La nozione di comportamento qui in gioco è di natura fisica: l’idea è che la psicologia possa essere ricompresa nel dominio delle scienze della natura e quindi, in definitiva, della fisica, tramite un’appropriata operazione di revisione concettuale. È chiaro come ciò sia in sintonia da un lato col comportamentismo psicologico, con cui condivide l’esigenza di eliminare il vocabolario mentalistico, e dall’altro con le istanze antimetafisiche ed empiristiche dell’epistemologia neopositivista. La tesi fondamentale del comportamentismo di ispirazione antinaturalistica è dovuta a Ryle, secondo il quale i termini psicologici ordinari, lungi dal riferirsi a fantomatici stati interni, devono essere analizzati come denotanti disposizioni al comportamento. Per esempio, desiderare di fare un pisolino non è nient’altro che avere la disposizione ad assumere una posizione comoda ed addormentarsi. Credere che P è la disposizione ad assentire a un proferimento di P, o ad asserire che P. Sotto l’indubbia somiglianza con la tesi di Hempel – entrambi promuovono una radicale riformulazione del vocabolario psicologico – si cela un atteggiamento assai diverso: a differenza di Hempel, Ryle non è un fisicalista, e il suo scopo è quello di smascherare, tramite un’analisi concettuale, un’immagine sbagliata della mente che ci è stata tramandata da Descartes. L’importanza di distinguere la posizione di Ryle da quella di Hempel risiede proprio nella circostanza che la seconda, ma non la prima, si accompagna a un’ontologia materialistica del mentale, come è evidenziato dal fatto che i comportamenti cui allude Ryle non sono processi fisici8. La tesi di Ryle di per sé non esclude la possibilità che ci siano facoltà e processi mentali suscettibili di essere studiati con tecniche empiriche. Ma il punto è che i nostri termini mentali ordinari non denotano tali processi (tesi semantica), che, d’altro canto, proprio in quanto «oggetti empirici» non sono oggetto della filosofia (tesi metodologica o, se si vuole, metafilosofica). Scienza e filosofia sono infatti due imprese assai diverse, che si muovono all’interno di spazi logici differenti. Gli stati mentali così come sono caratterizzati dal senso comune appartengono allo spazio logico proprio della filosofia e, come fa vedere Ryle, sono finzioni linguistiche mediante le quali razionalizziamo il comportamento. 8 In altri termini, per Ryle il comportamento è sempre qualcosa che un agente fa, mentre per Hempel il comportamento è un evento fisico osservabile come molti altri, che prescinde dalla nozione di agente.

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Si noti come nella tesi di Ryle ci sia una pars destruens (i termini psicologici non denotano stati interni) e una pars construens (i termini psicologici denotano disposizioni al comportamento). La tesi negativa è condivisa da Wittgenstein, che l’ha espressa in modo assai suggestivo in un celebre passaggio (§ 293) delle Ricerche filosofiche: Supponiamo che ciascuno abbia una scatola in cui c’è qualcosa che chiamiamo «coleottero». Nessuno può guardare nella scatola dell’altro; e ognuno dice di sapere che cos’è un coleottero soltanto guardando il suo coleottero. – Ma potrebbe ben darsi che ciascuno abbia nella sua scatola una cosa diversa. Si potrebbe addirittura immaginare che questa cosa mutasse continuamente. – Ma supponiamo che la parola «coleottero» avesse tuttavia un uso per queste persone! – Allora non sarebbe quello della designazione di una cosa. La cosa contenuta nella scatola non fa parte in nessun caso del giuoco linguistico; nemmeno come un qualcosa: infatti la scatola potrebbe anche essere vuota. – No, si può «dividere» per la cosa che è nella scatola, di qualunque cosa si tratti, si annulla. Questo vuol dire: Se si costruisce la grammatica dell’espressione di una sensazione secondo il modello «oggetto e designazione», allora l’oggetto viene escluso dalla considerazione, come qualcosa di irrilevante.

Dunque, non appena si rifletta su come i termini del discorso mentalistico ordinario («credenza», «desiderio», «dolore», ecc.) vengono usati, ci accorgiamo che essi non designano stati privati di esperienza o altri enti interni. Il nostro concetto ordinario di mente non è soddisfatto da alcun oggetto interno, ciò che si intende con la parola «mente» non è una cosa, un oggetto. Abbiamo riportato il passo di Wittgenstein perché evidenzia con particolare efficacia la portata anticartesiana del comportamentismo filosofico. Tuttavia, ciò non basta a fare di Wittgenstein un autentico alfiere del comportamentismo, in quanto egli non ne condivide le tesi in positivo. Il passo citato è un tipico esempio della seconda fase della sua riflessione filosofica: una dissoluzione di quello che viene considerato come un falso problema, piuttosto che una proposta in positivo sulla natura del mentale. Per esempio, Wittgenstein non dice che gli stati mentali sono disposizioni al comportamento, bensì che il comportamento è il criterio in base al quale attribuiamo stati mentali. Con tutte queste diverse osservazioni, i filosofi comportamentisti hanno contribuito in modo determinante a smantellare il paradigma cartesiano. Ma è importante sottolineare il seguente punto: la loro critica colpisce gli stati mentali in quanto stati di esperienza. In que21

sto il comportamentismo logico si sposa bene con quello psicologico, che criticava in prima istanza la psicologia basata sul metodo dell’introspezione. Con l’avvento della psicologia cognitiva, tuttavia, la nozione di stato mentale non è più compromessa con l’aspetto fenomenico, cioè gli stati mentali non sono più identificati con stati soggettivi di esperienza cosciente. Che uno stato sia conscio oppure no è sostanzialmente irrilevante per un cognitivista (basti considerare che le teorie di maggior successo vertono proprio su stati subcoscienti) ed anzi – lo vedremo bene nel prossimo capitolo – gli stati mentali sono caratterizzati nei termini del ruolo causale-funzionale che svolgono nel comportamento, prescindendo del tutto dalle componenti fenomeniche che si accompagnano a tali stati. Per questa ragione le armi del comportamentismo logico sono spuntate contro la concezione odierna degli stati mentali, e sarebbe scorretto tanto da un punto di vista storico quanto teorico leggere le critiche di Ryle o di Wittgenstein come critiche a qualunque nozione di stato mentale. Fatta questa precisazione, veniamo ai punti deboli del comportamentismo nella sua parte propositiva. L’obiezione principale è che non tutti gli stati mentali sono suscettibili di un’analisi in termini di disposizioni comportamentali. Non si riesce, in altri termini, a riformulare ogni asserto che contiene uno o più riferimenti a stati mentali in un altro che non ne contiene affatto. Questa impossibilità si manifesta in almeno due forme. In primo luogo, l’elenco delle disposizioni o azioni associate a uno stato mentale potrebbe essere illimitatamente lungo. Per esempio, avere mal di denti può indurmi a prendere un analgesico, ad andare dal dentista, a mettermi a letto o semplicemente a emettere di tanto in tanto dei gemiti. La lista può essere ben più lunga per stati come la credenza. Non si vede come trovare un criterio che ci consenta di selezionare il sottoinsieme appropriato di disposizioni. In secondo luogo – e questo è un problema ben più grave –, quali siano le disposizioni giuste dipende tipicamente dagli altri stati mentali che ho; per esempio, la mia credenza che sta piovendo è una disposizione al mio prendere l’ombrello solo se non desidero bagnarmi. Vi è dunque una circolarità: nella definizione di uno stato mentale sono menzionati altri stati mentali. Inoltre, è la nozione stessa di disposizione ad essere in qualche misura problematica: alcune disposizioni potrebbero non tradursi mai nelle azioni corrispondenti – per esempio, un vaso fragile potrebbe non rompersi mai, o una persona coraggiosa non avere mai l’occasione di manifestare il proprio coraggio – e in questo caso non si capisce 22

bene su quali basi possiamo attribuire la disposizione corrispondente. Come gli esempi citati evidenziano, in alcuni casi c’è una proprietà chimica, o un complesso di proprietà chimiche, alla base della disposizione, ma in altri casi, e gli stati mentali sembrano rientrare in questi ultimi, l’individuazione della disposizione appare arbitraria. Infine, negare qualsiasi rilievo (semantico prima che metafisico) alla componente fenomenica appare in alcuni casi completamente arbitrario: dire che avere mal di testa è avere una disposizione a prendere un analgesico cancella indebitamente la lancinante realtà della mia esperienza dolorosa, per tacere del problema di definire in modo non circolare «analgesico». Per tutte queste ragioni, il comportamentismo è ormai più oggetto di storia della filosofia che di riflessione teorica. Nondimeno vi sono in esso alcuni validi spunti teorici, che sono stati ripresi in parte nel funzionalismo, oggetto del capitolo successivo, in parte nella cosiddetta strategia dell’interpretazione, che presenteremo nel capitolo 4.

❑ Riepilogo Il dualismo cartesiano è la tesi secondo cui mente e corpo sono due tipi di enti o sostanze radicalmente diversi. Il materialismo o fisicalismo si oppone a tale prospettiva: esiste un’unica sostanza, quella corporea, e gli stati mentali sono stati del corpo. Sono stati dati tre tipi di risposte materialistiche al problema mentecorpo. Secondo la teoria dell’identità, gli stati mentali sono identici a stati cerebrali, nello stesso senso in cui la temperatura è il moto molecolare: la mente si riduce al cervello. Secondo l’eliminativismo la mente non esiste; gli stati mentali sono costrutti teorici di una teoria sbagliata destinata ad essere soppiantata dalle neuroscienze. Secondo il comportamentismo logico, i termini di stati mentali non designano esperienze private o altre entità interne, bensì disposizioni al comportamento; la mente è un concetto introdotto per razionalizzare il comportamento. I problemi più gravi di queste tesi sono i seguenti: la teoria dell’identità comporta che due animali che si trovano nello stesso stato mentale debbano trovarsi anche nello stesso stato cerebrale, un’assunzione empiricamente infondata. L’eliminativismo non è in grado di giustificare il successo predittivo della psicologia del senso comune. Il comportamentismo è incoerente, perché non riesce a fornire analisi dei concetti di stati mentali se non reintroducendo termini mentalistici. 23

s Cos’altro leggere Quasi tutti i manuali di filosofia della mente contengono una presentazione della teoria dell’identità, dell’eliminativismo e del comportamentismo. Mi limito a segnalare, in lingua italiana, W. Bechtel, Filosofia della mente, Il Mulino, Bologna 1992 e M. Di Francesco, Introduzione alla filosofia della mente, Carocci, Roma 20022. In lingua inglese: J. Kim, Philosophy of Mind, Westview, Boulder 1996; E.J. Lowe, An Introduction to the Philosophy of Mind, Cambridge University Press, Cambridge UK 2000; D. Braddon-Mitchell, F. Jackson, Philosophy of Mind and Cognition, Blackwell, Oxford 1996. Per un inquadramento storico (corredato da una bibliografia ricca e aggiornata) delle diverse filosofie materialistiche della mente nel Novecento si veda M. Marraffa, Filosofia della mente, in F. D’Agostini, N. Vassallo (a cura di), Storia della filosofia analitica, Einaudi, Torino 2002. I saggi fondamentali sulla teoria dell’identità sono H. Feigl, The «Mental» and the «Physical», in H. Feigl, M. Scriven e G. Maxwell (a cura di), Concepts, Theories and the Mind-Body Problem, in «Minnesota Studies in the Philosophy of Science», vol. 2, University of Minnesota Press, Minneapolis 1958, pp. 370-497; U.T. Place, Is Consciousness a Brain Process?, in «British Journal of Psychology», 47, 1956, pp. 44-50, e J.J. Smart, Sensations and Brain Processes, in «Philosophical Review», 68, 1958, pp. 141-56. Il saggio di Place è stato ristampato in W.G. Lycan (a cura di), Mind and Cognition, Blackwell, Oxford 19992. Sono inoltre reperibili su Internet due ottime presentazioni della teoria dell’identità: The identity theory of mind di Smart, nella Stanford Encyclopedia of Philosophy, a cura di E. Zalta (http://plato.stanford.edu/entries/mind-identity), e Identity theories di Place, in A Field Guide to the Philosophy of Mind, a cura di M. Marraffa e M. Nani (http://www.uniroma3.it/kant/field/mbit.htm). Quest’ultimo testo è rimasto incompiuto a causa della recente scomparsa dell’autore, ma sarà portato a termine da Steven Schneider. Sull’eliminativismo il testo fondamentale è P.M. Churchland, Eliminative Materialism and the Propositional Attitudes, in «The Journal of Philosophy», 78, 2, 1981, pp. 67-90. Per una prospettiva più ampia, utile l’introduzione a P.S. Churchland, Neurophilosophy, MIT Press, Cambridge MA 1986. Un’eccellente esposizione introduttiva è S. Stich, Eliminative Materialism, in R. Wilson, F. Keil (a cura di), The MIT Encyclopedia to Cognitive Science, MIT Press, Cambridge MA 1999. Sul comportamentismo logico si vedano C.G. Hempel, The logical analysis of psychology, in H. Feigl, W. Sellars (a cura di), Readings in Philosophical Analysis, Appleton-Century-Crofts, New York 1949; rist. in N. Block (a cura di), Readings in Philosophy of Psychology, Harvard University Press, Cambridge MA 1980; G. Ryle, Lo spirito come comportamen24

to, Laterza, Roma-Bari 1997 e L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1999: §§ 243-308. Una buona introduzione al comportamentismo psicologico si trova in P. Legrenzi, ll comportamentismo, in Id. (a cura di), Storia della psicologia, Il Mulino, Bologna, 19995. Sul dualismo cartesiano, qui appena accennato, utili M. Di Francesco, L’io e i suoi sé, Cortina, Milano 1998, cap. 1; S. Nannini, L’anima e il corpo. Un’introduzione storica alla filosofia della mente, Laterza, RomaBari 2002, cap. 2; J. Heil, Philosophy of Mind, Routledge, London-New York 1998, cap. 2; E.J. Lowe, An Introduction to the Philosophy of Mind, cit., cap. 2.

Capitolo 2

Il funzionalismo

Il funzionalismo è la posizione filosofica riguardo alla natura della mente forse maggiormente in voga, o almeno così è stato per molti anni. Le ragioni della sua popolarità sono principalmente due. Da un lato, esso fornisce la cornice teorica più appropriata alle scienze della mente: la maggior parte degli scienziati cognitivi fa proprie, più o meno esplicitamente, le tesi fondamentali del funzionalismo. Dall’altro lato, esso consente di adottare una prospettiva non riduzionistica pur restando all’interno di un punto di vista fisicalistico. Il forte sodalizio tra scienza cognitiva e funzionalismo si fonda sull’idea che gli stati mentali siano stati computazionali. Che cosa ciò voglia dire sarà l’oggetto di questo capitolo. La possibilità di coniugare fisicalismo e antiriduzionismo si basa sulla cruciale nozione di realizzabilità multipla e su quella ad essa imparentata di sopravvenienza. Questo secondo aspetto sarà discusso nel capitolo successivo. 1. La tesi fondamentale L’idea fondamentale del funzionalismo è che uno stato mentale è il tipo di ente che è in virtù del suo svolgere una certa funzione, ovvero ricoprire un certo ruolo, all’interno dell’intera attività mentale di un agente. In una formula, gli stati mentali sono stati funzionali. In termini generali, una proprietà di un sistema è funzionale se è individuata dal ruolo o, appunto, dalla funzione che certi elementi assolvono in quel sistema, prescindendo da come tale ruolo è realizzato fisicamente. Si tratta quindi di proprietà che investono l’organizzazione o la struttura logica di un sistema e non la sua composizione fisica. Un chiaro esempio di proprietà funzionale è quella di essere un centravanti, che un individuo soddisfa se e solo se svolge un certo ruolo all’interno di una squadra di calcio. Ma, per fare un 26

caso più interessante, anche essere un cuore è una proprietà funzionale, nella misura in cui ciò che fa di un cuore l’organo che è non è la sua composizione fisica bensì un insieme di funzioni (pompare il sangue, assicurare nutrimento e ossigenazione dei tessuti, ecc.); e infatti esistono cuori artificiali. Lo stesso si può dire delle proprietà espresse dai termini che denotano artefatti (essere un martello, essere un carburatore, ecc.). Applicata agli stati mentali, quest’idea appare intuitivamente molto plausibile. L’attività mentale può infatti essere vista come un insieme di complesse catene causali di stati. Queste relazioni causali possono essere ricondotte a tre tipi principali: quelle tra ambiente e stati interni (relazioni di input o percettive, per esempio una botta a un ginocchio mi fa avvertire una fitta dolorosa, oppure vedo un dolce in una vetrina e decido di entrare ad acquistarlo), quelle tra stati interni e stati interni (relazioni cognitive in senso stretto, come quando passo da una premessa a una conclusione in un ragionamento), quelle tra stati interni e comportamento (relazioni di output o comportamentali, per esempio un formicolio a una gamba mi fa cambiare posizione, oppure l’intenzione di prendere la parola mi fa alzare la mano). Pertanto i ruoli funzionali in questione sono ruoli causali; gli stati mentali sono cioè individuati nei termini del ruolo causale che essi svolgono. Il dolore, per esempio, può essere definito come ciò che è tipicamente causato da un danno arrecato al corpo o agli organi interni, causa uno stato di sofferenza più o meno intensa e la credenza che c’è una lesione in qualche parte del corpo, induce a comportamenti volti ad individuare l’origine del dolore e a cercare di alleviarlo in qualche modo. Analogamente, credere che stia piovendo è causalmente determinato da un corrispondente stato percettivo – vedo che fuori piove, o vedo la pioggia fuori – ed è a sua volta causa, congiuntamente al desiderio di non bagnarsi, dell’atto di prendere l’ombrello. È utile distinguere il funzionalismo come tesi metafisica dal funzionalismo come modello di spiegazione, sebbene le due cose vadano normalmente insieme. La tesi metafisica è quella che abbiamo raccontato sopra: gli stati mentali sono ruoli causali. Il funzionalismo come tipo di spiegazione deriva invece dalla seguente osservazione: se devo descrivere il comportamento di un sistema complesso, tipicamente il modo più efficace di farlo non è specificarne i componenti materiali, bensì individuarne i sottosistemi funzionali. Così, se devo descrivere il funzionamento di un personal computer, sarebbe espli27

cativamente poco interessante dire che è composto di uno schermo, una tastiera, un mouse e un tower case; dovrò invece parlare di microprocessore, memoria centrale e unità periferiche. E chiaro che la distinzione tra i due modelli di spiegazione non è così drastica: spesso un componente funzionale è realizzato da uno specifico componente fisico. Anche quando c’è una stretta corrispondenza tra struttura materiale e funzione che essa svolge, tuttavia, la funzione ha la priorità sulla struttura fisica ai fini della spiegazione di che cosa un sistema fa e di come lo fa. Analogamente, nel caso della mente, l’idea è quella di individuare i sottosistemi che svolgono un certo ruolo all’interno del sistema complessivo. Questo punto di vista è assai congeniale agli scienziati cognitivi, che spesso descrivono la struttura di certi processi cognitivi (la percezione visiva, la memoria, la comprensione del linguaggio, ecc.) con dei diagrammi a blocchi, reti di «scatole nere» (black boxes) ciascuna delle quali rappresenta un sottosistema che svolge una certa funzione. Ogni funzione è totalmente definita dai suoi input e output, ed è in questo senso che le scatole sono «nere», cioè opache: a questo livello di descrizione non è pertinente come la funzione viene fisicamente realizzata (cfr. Fig. 2.1). Le scatole nere devono, naturalmente, essere realizzate fisicamente in qualche modo – devono essere implementate – ma il loro ruolo all’interno del sistema può essere appropriatamente caratterizzato nei termini delle sole relazioni di input/output. È chiaro che l’idea della scomposizione funzionale è motivata anche da un’esigenza di semplificazione teorica: scomponendo un sistema nei suoi sottosistemi funzionali (e ripetendo il procedimento Fig. 2.1. Diagramma funzionale di un generico analizzatore linguistico (sottosistema per la comprensione del linguaggio). BASE DI CONOSCENZA

ANALIZZATORE SINTATTICO

INTERPRETE SEMANTICO

LESSICO

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GENERATORE DI INFERENZE PRAGMATICHE

su ciascun sottosistema individuato), è verosimile che si arrivi a illustrare chiaramente e compiutamente il comportamento di ciascun sottosistema elementare. Il funzionamento del tutto viene così ricostruito a partire dal funzionamento delle parti. L’affermazione che gli stati mentali sono individuati dai loro ruoli causali suggerisce che gli stati mentali abbiano efficacia causale. Ma non è necessario sposare questo punto di vista. Anzi, secondo il modo più comune di vedere la questione, gli stati mentali sono cause solo in quanto sono realizzati fisicamente. In altre parole, possiamo certamente dire che uno stato mentale occupa un ruolo causale, ma non che possiede, alla lettera, proprietà causali, perché un oggetto astratto non può avere proprietà causali. Sono gli stati fisici sottostanti ad essere causalmente efficaci, consentendo in tal modo allo stato mentale in questione di soddisfare il suo ruolo causale. In questo senso il funzionalismo è una forma di materialismo. Quello della causalità mentale è comunque uno dei problemi più spinosi correlati al funzionalismo, tanto che la sua trattazione merita un capitolo a sé, il prossimo. 2. Computazioni Benché la nozione di proprietà funzionale sia vecchia quasi quanto la filosofia, è indubbio che l’idea di applicarla al caso della mente debba molto all’analogia tra cervello e calcolatore. Come stati e operazioni di un computer possono essere descritti appropriatamente a un livello hardware e a un livello software, e le descrizioni software sono del tutto indipendenti dalle configurazioni elettriche che le realizzano, analogamente la mente può essere appropriatamente caratterizzata come il «software del cervello», in quanto tale descrivibile prescindendo dalle proprietà neurologiche di quest’ultimo. Il software è l’insieme dei programmi in esecuzione su un elaboratore. Un programma è una successione di istruzioni codificate in un certo linguaggio di programmazione; opportunamente tradotte in un codice-macchina, tali istruzioni sono direttamente eseguibili dall’hardware di un computer1. Ad un più alto livello di astrazione, 1 In realtà, affinché un programma scritto in un linguaggio di programmazione ad alto livello (come il C, o il Java, o il Cobol) sia eseguibile dall’hardware, sono necessarie diverse traduzioni (conversioni di codice) e altri tipi di operazione di cui si fa carico il sistema operativo. Per i nostri scopi possiamo tuttavia prescindere da questa complicazione.

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tuttavia, un programma può essere visto come una computazione o algoritmo, cioè come un procedimento per eseguire una certa funzione. Ma che cosa è, esattamente, un procedimento? La macchina di Turing. La nozione di computazione, o procedimento meccanico, è intuitivamente ovvia, ma la sua esplicazione rigorosa è uno dei grandi risultati della logica del Novecento, dovuto al matematico inglese Alan Turing. La macchina di Turing (d’ora in poi MT) è una delle diverse equivalenti formalizzazioni della nozione di computazione effettiva o procedimento meccanizzabile. Ciò significa che se una certa funzione è calcolabile, se cioè esiste un procedimento finito per eseguirla, allora questo procedimento è eseguibile da una MT. Ovvero, equivalentemente, se un certo problema è decidibile, se cioè il problema ammette una soluzione che può essere trovata in un tempo finito, allora c’è una MT in grado di risolverlo. Allo stesso tempo la MT può essere considerata una descrizione, al massimo livello di astrazione, di un vero computer: sebbene le MT non siano fisicamente realizzabili, in quanto abbisognano di risorse fisiche non finite, esse sono assimilabili a computer ideali, particolarmente semplici e dotati di memoria infinita. La MT è materialmente composta da: – un nastro infinito suddiviso in caselle nelle quali può essere letto o scritto un simbolo; – una testina di lettura/scrittura che ad ogni istante è posizionata su una casella del nastro e si trova in uno tra un insieme di stati interni. Fig. 2.2. La macchina di Turing. /

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*

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30

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/

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*

Le operazioni che la macchina può eseguire ad ogni istante sono soltanto le seguenti: – leggere un simbolo e spostarsi a destra di una casella; – leggere un simbolo e spostarsi a sinistra di una casella; – leggere un simbolo e sovrascriverlo con un nuovo simbolo (senza spostarsi). In ciascuno di questi tre casi, la testina di lettura/scrittura può cambiare o meno stato. Il comportamento della macchina è completamente determinato da una tabella di istruzioni che specifica, per ogni possibile stato in cui si trova la testina e ogni possibile simbolo presente sulla casella corrente, qual è lo stato successivo e qual è l’azione da compiere: spostarsi a destra, spostarsi a sinistra o sovrascrivere. La tabella di istruzioni può essere considerata la descrizione funzionale completa della macchina. Nota la tabella, non c’è bisogno di nient’altro per specificare il comportamento della macchina, perché la tabella rende esplicita la sequenza di passi che la macchina esegue, cioè la funzione che essa computa. I simboli presenti sul nastro appartengono a un repertorio o alfabeto finito; nella versione più semplice della MT i simboli sono ridotti a due soli: / e *, che stanno rispettivamente ad indicare la presenza o l’assenza di un simbolo. Dovrebbe essere sufficientemente chiara la parentela con gli elaboratori «in carne ed ossa»: il nastro corrisponde alla memoria centrale, la tabella di istruzioni corrisponde a un programma memorizzato; i simboli sono due proprio come nel sistema binario. Nonostante la sua elementare semplicità, la MT è in grado di risolvere qualsiasi problema per il quale esista un algoritmo di soluzione; si tratta soltanto di riuscire a scomporre il problema in questione in passi così elementari da poter essere eseguiti tramite una delle operazioni alla portata della macchina. Per esempio, posto di rappresentare un numero K con K+1 barrette (/)2, e di usare l’asterisco (*) come indicatore di casella vuota (necessaria per separare un numero dall’altro), la tabella di istruzioni riportata alla pagina seguente corrisponde a un programma per eseguire la somma di due numeri M ed N. La tabella si legge nel modo seguente: se lo stato corrente è Q0 e il simbolo letto è la barretta, la testina sovrascrive un asterisco e si porta nello stato Q1. Se lo stato corrente è Q0 e il simbolo letto è l’asterisco, 2

Usiamo K+1 invece di K barrette per poter codificare anche lo zero.

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Simbolo in input

/

*

Q0

*, Q1

D, Q0

Q1

condizione impossibile

D, Q2

Q2

D, Q2

/, Q3

Q3

D, Q3

S, Q4

Stato corrente

Q4

*, Q4

S, Q5

Q5

S, Q5

D, Q6

Legenda: S = spostamento a sinistra; D = spostamento a destra; Qi = stato i.

la testina si sposta a destra di una casella senza cambiare stato (e così via per il resto della tabella). Il lettore può verificare che la macchina si arresta in Q6, con la testina posizionata sulla prima di M+N+1 barrette. Il programma funziona sotto il solo vincolo che almeno un numero sia presente sul nastro. Q0 è lo stato iniziale, Q6 lo stato finale. La nozione di stato è forse la più difficile da comprendere. Non bisogna pensare agli stati come a oggetti interni alla macchina, bensì come alle diverse fasi della computazione. Tenere traccia dello stato è indispensabile per far dipendere l’azione della macchina non soltanto dal simbolo letto ma anche dall’istante in cui viene letto, cioè dalla particolare fase della computazione in cui ci si trova. Una macchina priva di stati (ovvero, che si trova sempre nello stesso stato) è capace soltanto di rispondere in un certo modo a un certo simbolo e non potrebbe eseguire un procedimento, che è qualcosa che si dispiega nel tempo. Lo stato è insomma una sorta di memoria cumulativa delle mosse compiute fino a quell’istante. Negli anni Cinquanta cominciò a circolare l’idea che i processi di pensiero potessero essere appropriatamente caratterizzati come computazioni nel senso di Turing, cioè come sequenze di passi elementari ciascuno dei quali consiste in un qualche tipo di manipolazione di simboli appartenenti a un repertorio finito. È l’idea che ciò che chiamiamo «intelligenza» possa essere realizzato da programmi per computer di opportuna complessità. I primi successi dell’intelligenza artificiale (programmi che giocavano a scacchi o che risolvevano problemi matematici) accreditarono ulteriormente l’ipotesi dell’analogia tra cervello e computer, così che un filosofo come Put32

nam, funzionalista oggi pentito, poteva scrivere (in Putnam 1960) che uno stato mentale è identico a uno stato di una MT. Una conseguenza cruciale di questa impostazione è che la mente può essere studiata in modo del tutto indipendente dal suo sostrato neurologico. Con le parole di Putnam, la mente può essere fatta di silicio, o magari di formaggio, perché sono le sue proprietà di organizzazione a fare di essa ciò che è, e l’organizzazione può in linea di principio essere realizzata con un sostrato a piacere. Oggi questa ipotesi è stata messa in discussione da molti, e quasi nessuno sosterrebbe che la conoscenza delle proprietà neurologiche è irrilevante per la conoscenza del funzionamento della mente. Bisogna tuttavia distinguere due tesi: una cosa è sostenere che la neurofisiologia del cervello pone dei vincoli alla struttura delle computazioni, un’altra cosa è sostenere che i processi cognitivi non possono essere computazioni perché il cervello non manipola simboli. La seconda tesi, non la prima, costituisce una confutazione del funzionalismo, che sarebbe smentito soltanto ove scoprissimo che il cervello umano è l’unico sistema in grado di realizzare i processi cognitivi. In tale eventualità, infatti, i processi cognitivi non sarebbero computazioni o forse sarebbero un altro tipo di computazioni (non alla Turing), al momento sconosciute. Quanto alla prima tesi, sarebbe irragionevole non essere d’accordo: un dato algoritmo certamente non potrà essere considerato un buon modello di un certo processo cognitivo se non è «implementabile» dal cervello, cioè se la sua struttura è incompatibile con i dati di cui disponiamo riguardo alla sua realizzazione neurologica. Ma il funzionalista non è obbligato a interpretare in modo così forte la tesi dell’indipendenza dalle proprietà di livello inferiore, perché tutto ciò che gli interessa è difendere la natura astratta dei processi mentali in quanto processi computazionali. Le computazioni sono enti astratti perché non sono definite dal modo materiale in cui sono realizzate: una rete neurale, un programma in Java e un circuito elettrico che, per esempio, calcolano la somma di due numeri, sono, o realizzano, la stessa computazione. Pertanto, nella misura in cui si accetta l’idea che i processi mentali siano computazioni, questi possono essere appropriatamente descritti in un modo che prescinde dalla loro implementazione neuronale3. Riconoscere la legittimità di due livelli di descrizione ben distinti, quello computa3 Possono esservi differenze al livello (astratto) del procedimento. Ritorneremo su questo punto nel capitolo 7, confrontando algoritmi alla Turing e reti neurali.

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zionale (psicologico) e quello neuronale, non implica che i fatti di un livello siano del tutto irrilevanti per l’altro. D’altra parte, il funzionalismo non è nemmeno vincolato alla tesi dell’identificazione degli stati mentali con gli stati di una MT: si può aderire a una concezione funzionalista degli stati mentali senza ispirarsi in modo particolare a nozioni computazionali. I più autorevoli sostenitori di versioni non computazionali del funzionalismo sono Armstrong (1968), Lewis (1972), Loar (1981), per i quali l’essenziale è che uno stato mentale sia specificabile attraverso una formula in cui vengono esplicitati i nessi causali pertinenti per quello stato senza far menzione di altri stati mentali. Per esempio: X prova dolore = def. ∃M1M2M3[(M2 è causato da M1 e danno ai tessuti & M3 è causato da M2, emissione di forti gemiti e corrugamento della fronte) & X è in M2].

M1, M2 ed M3 sono variabili che stanno per stati mentali; & è l’operatore logico di congiunzione. Nell’esempio si suppone per semplicità che gli stati causalmente correlati pertinenti per il dolore siano soltanto tre. L’insieme delle condizioni specificate tra parentesi tonde può essere considerato un frammento di teoria psicologica T(M1M2M3). La formula rispetta l’assunto centrale del funzionalismo secondo cui ciascuno stato mentale è completamente definito dalle relazioni causali di input-output che coinvolgono quello stato. Pur non sottovalutando l’interesse di questo tipo di formulazione, privilegeremo la versione più rilevante da un punto di vista scientifico, quella computazionale. Il prossimo paragrafo è quindi dedicato a descrivere nei dettagli la versione di funzionalismo computazionale più ortodossa, la cosiddetta teoria computazional-rappresentazionale della mente. In tutte le sue versioni, comunque, il funzionalismo costituisce una forma di materialismo, in quanto nega che la mente sia una sostanza ontologicamente indipendente; d’altra parte, nella maggior parte dei casi, e certamente nella sua versione computazionale, il funzionalismo non è riduzionistico, perché individua gli stati mentali in modo indipendente dalla loro realizzazione cerebrale. 3. La teoria computazional-rappresentazionale della mente La teoria filosofica che rappresenta in modo paradigmatico il funzionalismo nella sua versione computazionale è sicuramente la co34

siddetta teoria computazional-rappresentazionale della mente (d’ora in poi, TCRM) di Fodor. La tesi fondamentale della TCRM è che i processi cognitivi sono computazioni su rappresentazioni mentali. Essa unisce pertanto alla tesi della natura computazionale della cognizione l’idea che gli stati mentali abbiano natura rappresentazionale. In prima approssimazione ciò significa che gli stati mentali veicolano informazioni sul mondo, ce lo «presentano» in un certo modo. Nel credere, per esempio, che Torino sia a nord di Roma, mi rappresento uno stato di cose nella forma di una certa relazione spaziale tra due «oggetti». Spesso si esprime questo punto dicendo che gli stati mentali sono valutabili semanticamente, sono cioè suscettibili di essere veri o falsi: la credenza che Torino è a nord di Roma è vera, perché c’è un fatto nel mondo che la rende vera. Avremo ampiamente modo, nella Parte seconda, di discutere l’idea che gli stati mentali siano stati rappresentazionali; cominciamo ora col vedere come sono fatte le rappresentazioni mentali postulate dalla TCRM. La TCRM prevede un sistema di rappresentazioni non dissimile da un linguaggio naturale, detto linguaggio del pensiero, o «mentalese» (Fodor 1975)4. Le rappresentazioni della TCRM hanno natura linguistica in quanto (i) hanno parti costituenti che si combinano fra loro in base alle regole di una sintassi; (ii) le loro parti atomiche, cioè i costituenti strutturalmente semplici, hanno un significato, che può essere un individuo o una proprietà nel mondo; (iii) sono composizionali, cioè il loro significato è determinato dal significato dei loro costituenti e dalla loro struttura sintattica; (iv) le espressioni di tipo enunciativo hanno un valore di verità e intrattengono tra loro relazioni logiche di implicazione. È bene precisare fin d’ora che la natura computazionale della cognizione non richiede obbligatoriamente che una rappresentazione sia un’espressione linguistica, come avviene nella TCRM. Sono stati proposti altri tipi di rappresentazione, per esempio di natura analogica, come le immagini mentali o i modelli mentali (cfr. infra, 6.1); sebbene le regole che governano le computazioni su queste rappresentazioni non siano operazioni di natura linguistica, esse danno luogo nondimeno a un qualche tipo di sintassi. Oppure, si è sostenuto che la natura computazionale dei processi cognitivi non richiede rappresentazioni concepite come strutture dati che veicolano in mo4 In effetti, per ragioni che si chiariranno nel corso di questo paragrafo, il linguaggio del pensiero è più simile a un linguaggio logico che al linguaggio naturale.

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do esplicito o trasparente le informazioni rappresentate; in questo senso anche le reti neurali, nelle quali non c’è una distinzione chiara tra dati e funzioni, sarebbero rappresentazioni (ma su questo punto si veda la discussione del connessionismo nei capp. 6 e 7). Ora, le proprietà (i)-(iv) investono in buona parte questioni di semantica, e la semantica delle rappresentazioni mentali è uno dei problemi più grossi della filosofia della mente contemporanea. Cominciamo tuttavia con l’occuparci del solo aspetto computazionale, non di quello rappresentazionale, della teoria. Le computazioni sono sensibili esclusivamente alle proprietà formali delle espressioni o simboli del linguaggio del pensiero, non al loro significato. La «cecità» delle computazioni riguardo al significato è l’aspetto per cui l’analogia con le MT è particolarmente stretta. In una MT la testina di lettura che ispeziona una casella del nastro è del tutto ignara del «significato» che possiede quel simbolo: ciò che (unitamente allo stato corrente) determina la sua mossa è la presenza di una barretta piuttosto che di un asterisco, una differenza puramente fisica, concernente la mera forma esteriore del simbolo. Siamo noi che, di volta in volta, possiamo interpretare una configurazione di barrette sul nastro come un numero piuttosto che come una parola dell’italiano, o eventualmente come una codifica simbolica di qualche oggetto o proprietà del mondo reale. Analogamente, i processi mentali così come sono caratterizzati dalla TCRM sono sensibili esclusivamente alle proprietà fisiche dei simboli che manipolano: le espressioni del linguaggio del pensiero sono, per i processi cognitivi, pure iscrizioni materiali. Consideriamo un tipico processo mentale, anzi il processo cognitivo per eccellenza, il ragionamento. Un ragionamento può essere considerato una computazione nello stesso senso in cui è una computazione la dimostrazione di un teorema matematico al computer: ad ogni passo viene prodotto un enunciato della dimostrazione fino a giungere alla tesi finale, e il passaggio da un enunciato all’altro viene compiuto sulla base di un insieme di regole puramente formali. Analogamente, le computazioni con cui la TCRM identifica i processi mentali consistono tipicamente nella generazione di una successione di simboli, tale che la scelta del simbolo da generare a un certo passo dipende esclusivamente dal simbolo generato al passo precedente e dalle regole sintattiche. Se ora immaginiamo che la dimostrazione sia fatta da un essere umano, possiamo pensare ai singoli passi della dimostrazione come ad altrettanti stati di credenza o 36

pensiero. La computazione consiste cioè in una successione logica di stati di credenza che consente a un agente di arrivare a una certa conclusione partendo da certe premesse, o eventualmente di produrre un certo output comportamentale. Ne consegue che, per la TCRM, ogni volta che un agente si trova in un certo stato di credenza, egli intrattiene una relazione con un simbolo del linguaggio del pensiero. Per esempio, ogni volta che io credo che fuori piove, c’è un’iscrizione in mentalese corrispondente a «fuori piove» in un «cassetto» mentale, la cosiddetta scatola della credenze (belief box). Se invece mi trovo nello stato di desiderare che fuori piova, la medesima iscrizione è registrata in un altro cassetto, la desire box. Parlare di cassetti o scatole non è che una metafora per sottolineare il fatto che una stessa iscrizione può svolgere un ruolo funzionale differente. Il punto cruciale è che gli stati mentali ereditano dalle espressioni del linguaggio del pensiero con cui sono in relazione le loro proprietà sintattiche e semantiche. Il ruolo causale dello stato mentale, che costituisce, in base all’idea guida del funzionalismo, il principio stesso di identità dello stato, è determinato dalle proprietà sintattiche dell’espressione con cui lo stato è in relazione. E il contenuto semantico della mia credenza che fuori piove, ciò che la rende vera o falsa, è dato dalle proprietà semantiche dell’espressione in mentalese «fuori piove», cioè dalle sue condizioni di verità, il modo in cui il mondo deve essere affinché l’espressione in questione sia vera. Il ruolo causale è determinato dalla sintassi perché il fatto che un certo stato mentale ne causi un altro – per esempio, il fatto che nella scatola delle credenze le occorrenze di «Tutti gli uomini sono mortali» e di «Socrate è uomo» siano invariabilmente seguite dall’occorrenza di «Socrate è mortale» – dipende da regole sensibili esclusivamente alle proprietà formali delle iscrizioni, allo stesso modo in cui in una MT un certo stato è causato dallo stato precedente in virtù del fatto che la testina ha letto un certo simbolo; o, ciò che è lo stesso, in virtù del fatto che nella MT è «cablata», codificata internamente, una certa istruzione che dice alla macchina che cosa deve fare in quella situazione. L’occorrenza di «Socrate è mortale» è causata dalle occorrenze precedenti in virtù dell’applicazione di una regola sintattica cablata nella mente. È precisamente questo ciò che si intende quando si dice che per il funzionalismo computazionale i processi cognitivi sono manipolazioni di rappresentazioni in base a regole. Le connessioni causali tra stati mentali sono realizzate grazie alle regole sintattiche che governano la manipolazione delle rappresentazioni – nella TCRM, la 37

sintassi del linguaggio del pensiero. È in questo senso che la TCRM prende alla lettera l’analogia tra la mente e il software di un elaboratore e costituisce la versione più fedele, oltre che storicamente più fortunata, del funzionalismo computazionale. La correttezza formale dei processi cognitivi è garanzia anche della loro capacità di conservare la verità, cioè di derivare conclusioni vere da premesse vere. Se la connessione tra sintassi e ruolo causale è chiara, quella tra sintassi e semantica potrebbe invece destare qualche sconcerto: come è possibile, se le regole computazionali sono puramente formali, che i processi inferenziali conservino la verità? La risposta a questa domanda si trova in qualunque manuale di logica: una serie di teoremi mostra che le regole logiche sono semanticamente appropriate, valgono quale che sia il significato attribuito ai simboli che mettono in relazione. Così, nella misura in cui i processi mentali sono calcoli logici, possiamo dire, con le parole dello stesso Fodor, che «il ruolo causale è messo in fase con il contenuto sfruttando i parallelismi tra la sintassi e la semantica di un simbolo» (1985, p. 45). Vale a dire: una rappresentazione mentale R1 causa un’altra rappresentazione mentale R2 connessa alla precedente in modo semanticamente appropriato (per esempio, una sua conseguenza logica) in virtù dell’applicazione di una regola sintattica del tipo «Tutte le volte che c’è un’iscrizione R1, produci un’iscrizione R2». Riassumendo, la teoria computazional-rappresentazionale della mente ne è la più compiuta ed influente teoria funzionalistica. In essa: – gli stati mentali sono analoghi agli stati di una macchina di Turing; – i nessi causali tra stati mentali (e quindi i ruoli funzionali) sono spiegati da relazioni sintattiche che sussistono tra i simboli del linguaggio del pensiero. Essere in uno stato mentale equivale ad intrattenere una relazione con un simbolo del linguaggio del pensiero. Un simbolo del linguaggio del pensiero, al pari di un’espressione del linguaggio naturale, ha sia proprietà causali sia proprietà semantiche. Le sue proprietà causali sono totalmente determinate dalla sua forma, e quindi in ultima analisi dalle caratteristiche materiali del simbolo stesso. Le sue proprietà semantiche derivano dal fatto che il simbolo rappresenta qualcosa – nel caso delle espressioni enunciative, dal loro essere vere o false. Gli stati mentali ereditano dalle espressioni con cui sono in relazione sia le proprietà sintattico-causali sia quelle seman38

tiche. È precisamente in virtù dell’essere in relazione con i simboli di un linguaggio che gli stati mentali hanno tali proprietà. Che cosa, tuttavia, determina il fatto che un’espressione del linguaggio del pensiero ha il significato che ha? Come può un simbolo del mentalese avere un significato intrinseco, cioè rappresentare un oggetto, proprietà o stato di cose? La semantica del linguaggio del pensiero è certamente la parte più problematica della TCRM. Discuteremo questo problema nella Parte seconda (cfr., in particolare, 4.3). 4. Critiche al funzionalismo Critiche al paradigma in generale. La più comune critica al funzionalismo è che esso non è in grado di dar conto dei cosiddetti stati qualitativi, cioè le esperienze pure – come le emozioni, o le sensazioni dolorose – o, in generale, ogni «vissuto» fenomenologico soggettivo che si accompagna a molti dei nostri stati mentali (per esempio, l’effetto che fa vedere un oggetto rosso o pensare che c’è la guerra). In effetti, più che di veri e propri stati qualitativi – in quanto opposti a stati non qualitativi – è opportuno parlare della presenza in molti stati mentali di una componente o di un aspetto qualitativo refrattario a un’analisi in termini di relazioni funzionali, proprio in quanto le proprietà che caratterizzano l’aspetto qualitativo sono intrinseche e irriducibilmente soggettive. «Intrinseco» vuol dire che questi aspetti sono pertinenti a uno stato mentale considerato indipendentemente dalle relazioni di input/output che esso intrattiene con altri stati. In uno stato mentale vi sarebbe cioè qualcosa che nessuna relazione esterna è in grado di catturare, e che fa sì che quello stato non possa essere individuato in termini funzionali. «Irriducibilmente soggettivo» vuol dire che gli aspetti qualitativi possono essere colti soltanto dal soggetto che ne fa esperienza. L’unico modo di sapere quello che sta provando una persona è essere quella persona. Secondo il modo più comune di replicare a questa critica, il funzionalismo non si deve prendere carico di questi aspetti perché essi non sono un oggetto di conoscenza. Si consideri, ad esempio, il sistema percettivo dei pipistrelli, spesso paragonato a un sonar. Può darsi che nel fornire una descrizione scientifica del funzionamento di tale sistema ci sfugga qualcosa, cioè la particolare sensazione che un pipistrello prova nel percepire un ostacolo, ma sarebbe strano dire che per questa ragione non abbiamo una conoscenza esaustiva del sistema percettivo dei pipistrelli. Le teorie scientifiche indagano in39

fatti fenomeni osservabili ed oggettivi, fenomeni, come si suol dire, in terza persona, mentre le esperienze pure, essendo in prima persona, non ricadono in questa categoria. Non c’è conoscenza possibile dei fenomeni in prima persona; ciò che si prova non è una «cosa». Qualcuno potrebbe obiettare a questa replica che essa soddisfa uno scienziato ma non un filosofo. Un filosofo della mente che si propone di indagare la natura dei fenomeni mentali non può accontentarsi di una descrizione che lascia fuori quello che, almeno secondo alcuni, è il loro aspetto più rilevante: la soggettività, il fatto che sono io a provare quello che provo. In base a tale punto di vista, saremmo più riluttanti a credere a uno scienziato che pretendesse di dimostrarci, per esempio, che non c’è un io che prova dolore, piuttosto che a mettere in discussione la lancinante realtà soggettiva dell’esperienza dolorosa. La maggior parte degli autori è in effetti incline a riconoscere che tale vissuto soggettivo è un fenomeno rilevante che si sottrae tanto alla spiegazione funzionale quanto a tentativi di riduzione (cfr. l’argomento di Kripke sul dolore in 1.1) o di eliminazione. Si deve tuttavia ammettere che gli argomenti invocati per giustificare la tesi della refrattarietà alla funzionalizzazione degli stati qualitativi, così come i tentativi di confutarli, dipendono fortemente da intuizioni pregiudiziali. Questi argomenti si basano infatti sulla premessa, tipicamente ritenuta autoevidente, secondo cui è possibile concepire un sistema funzionalmente identico a un sistema dato, ma che differisce da esso per le proprietà qualitative. Li discuteremo in dettaglio nel paragrafo 8.3. Una seconda critica, formulata da Block (1978), imputa al funzionalismo di essere troppo liberale, nel senso che classifica come menti dei sistemi che molto verosimilmente non lo sono. Per esempio, si consideri il sistema costituito dall’intera popolazione della Cina dove a ciascun individuo è stato assegnato il compito di eseguire una singola istruzione di una MT che sta simulando un certo processo cognitivo. Grazie a un complesso sistema di segnali, si suppone che ciascun cinese conosca in quale stato si trova questa «macchina collettiva» e quale simbolo essa si accinge a leggere. Per il funzionalismo lo stato costituito da tutti questi individui, unitamente al sistema di segnali, è uno stato mentale, in quanto soddisfa il ruolo causale-funzionale previsto. Ma, si direbbe, questo sistema non è una mente, è al più un gioco di simulazione collettivo. Sotto un aspetto questa critica è una riformulazione della precedente, perché, si potrebbe dire, il sistema in questione non sembra o 40

non è una mente soltanto in quanto è privo di proprietà fenomeniche. L’esempio di Block, tuttavia, mostra più di questo: anche prescindendo dalla questione degli aspetti qualitativi, il punto messo in luce dall’esempio è che il requisito dell’identità di organizzazione è troppo debole e generico per qualificare una mente. Se il sistema ipotizzato da Block è una mente, allora deve essere capace di percepire, usare e comprendere il linguaggio, ragionare, agire, ecc. e ciò sembra essere piuttosto implausibile. Forse la sola organizzazione è una proprietà troppo astratta, esemplificabile da sistemi molto diversi tra loro, per esplicare completamente la natura della mente: anche l’economia di un paese potrebbe essere descritta come una MT. Si è tentato di venire a capo di questa critica imponendo vincoli di ordine teleologico sul sistema (cfr. per es. Lycan 1987). Ciò significa che, affinché una certa organizzazione funzionale possa essere considerata una mente, i suoi stati devono svolgere la loro funzione per soddisfare uno o più scopi del sistema complessivo, a cominciare da quelli naturalmente primari come la sopravvivenza o il buon adattamento all’ambiente. Critiche alla teoria computazional-rappresentazionale della mente e al funzionalismo computazionale in generale. In questa sezione sono esposte una serie di critiche che, essenzialmente, si basano tutte sull’idea che una proprietà fondamentale degli stati mentali, la loro intenzionalità o semanticità, cioè il loro vertere su oggetti e situazioni del mondo reale, non può essere catturata da un sistema formale, quale invece è la mente secondo il funzionalismo computazionale. Il problema della semantica delle rappresentazioni mentali sarà discusso nella Parte seconda (cfr., in particolare, i capp. 4 e 6); qui cominciamo col presentare il problema nei suoi termini generali, indipendentemente dal tipo di semantica e di rappresentazione. La più nota critica al funzionalismo computazionale può essere espressa, in termini generali, nel modo seguente: le teorie come la TCRM sono vincolate alla cosiddetta «condizione di formalità», cioè all’idea che i processi cognitivi siano sensibili esclusivamente alle proprietà non semantiche delle rappresentazioni. Ma non è così nel caso degli esseri umani: l’evidenza introspettiva e comportamentale mostra chiaramente come i nostri processi cognitivi siano tipicamente «dipendenti dal significato». Gli esseri umani sono agenti intenzionali guidati da stati rappresentazionali. La più efficace formulazione di questa critica è certamente il celebre argomento della stanza cinese di Searle (1980). Searle prende 41

come esempio di sistema computazionale un programma di elaborazione del linguaggio naturale e paragona tale sistema a un uomo chiuso in una stanza che, ignorando del tutto il cinese, è nondimeno in grado di restituire risposte appropriate scritte in cinese a domande scritte in cinese grazie a un repertorio di istruzioni formulate nella sua lingua, che spiegano come mettere in corrispondenza simboli cinesi in input con simboli cinesi in output. Le istruzioni sono cioè tabelle che mostrano quale ideogramma va prodotto in risposta a un ideogramma dato. Domande, risposte e istruzioni vengono scambiate attraverso due finestre; l’uomo è del tutto ignaro del fatto che ciò che riceve sono domande e ciò che restituisce sono risposte: egli esegue un compito meccanico di associazione di simboli con simboli, compito che è in grado di eseguire sulla base della mera capacità di tracciare ideogrammi, pure forme. È chiaro che non per questo si può dire che l’uomo comprenda il cinese. Analogamente, conclude Searle, i sistemi artificiali di comprensione non comprendono il linguaggio, perché non hanno accesso alcuno alle proprietà semantiche dei simboli che manipolano. Come l’uomo nella stanza cinese, i computer eseguono istruzioni senza realmente capire quello che stanno facendo. E così come non è la diligente attività dell’uomo nella stanza a conferire significato agli ideogrammi, non sono le operazioni puramente formali di un programma a conferire significato ai simboli che esso manipola. Delle diverse possibili repliche che lo stesso Searle prende in considerazione, particolarmente interessante è la cosiddetta «obiezione del robot» (robot reply), secondo la quale per ottenere un sistema artificiale genuinamente intenzionale occorre dotare il computer di connessioni percettive e motorie, farne cioè un robot. In questo caso, infatti, si potrebbe dire che il robot è in grado di connettere i simboli alla sua esperienza, ancorandoli in tal modo alla realtà. Un cinese e un italiano ignari delle rispettive lingue giungono lentamente a comunicare perché entrambi condividono una realtà nella quale esercitano le loro percezioni e azioni; le manipolazioni linguistiche che essi compiono acquistano senso tramite la progressiva capacità di riferire le espressioni della lingua altrui a elementi percettivamente salienti della realtà condivisa. Lo stesso potrebbe valere per un robot. Searle ha dichiarato infondata questa obiezione, perché percezione e motricità in versione computazionale sono comunque elaborazioni sintattiche, e non si può far scaturire la semantica dalla mera sintassi. Secondo i critici di Searle, tuttavia, la tesi secondo cui nes42

sun procedimento sintattico, per quanto articolato e complesso, può dare luogo a proprietà semantiche è tutt’altro che scontata. Quella che per Searle è una premessa ovvia dell’argomento (l’idea che nessuna proprietà semantica possa scaturire da elaborazioni di natura sintattica), sarebbe al contrario una tesi assai impegnativa ben lungi dall’essere stata dimostrata. Semplificando un po’, potremmo riformulare le due posizioni nel modo seguente: secondo Searle qualunque sistema artificiale non potrà mai produrre e decodificare significati perché, quand’anche fornisse prestazioni che giudicheremmo semantiche, esso sarebbe programmato (computazionalmente) per eseguirle, quindi non le eseguirebbe al modo «intenzionale» delle persone. Secondo i sostenitori dell’obiezione del robot, invece, non è affatto ovvio che gli esseri umani non le eseguano allo stesso modo, se non altro perché in un certo senso anche gli esseri umani sono programmati, dall’evoluzione. La tesi di Searle non va confusa con la diffusa idea secondo cui una macchina non può essere (o dare luogo a) una mente perché, quale che sia il grado di sofisticazione delle sue performances, queste sono il risultato di meccanismi ciechi e predeterminati laddove la mente è libera e creativa5. Searle accetta infatti l’idea che gli esseri umani siano macchine; soltanto che sono macchine biologiche, non macchine sintattiche. Non è ben chiaro, tuttavia, in base a quali principi una macchina biologica possa essere intenzionale e una macchina sintattica no. Beninteso, allo stato attuale è un fatto che le macchine biologiche ma non quelle sintattiche siano dotate di intenzionalità, ma il punto in questione è che non sappiamo perché dovrebbe essere così, non sappiamo che cosa «produca» l’intenzionalità nella macchina biologica. Cruciale per questo dibattito è la questione dei criteri in base ai quali stabiliamo che un sistema è intenzionale oppure no. Turing (1950) si era pronunciato per un criterio di tipo comportamentale: se una macchina chiusa in una stanza sostiene (in forma scritta) un dialogo con degli esseri umani, e questi non sono in grado di smascherarla, vale a dire non la distinguono da un interlocutore umano, 5 Per quanto di suggestione immediata, questa tesi non è affatto persuasiva. Infatti, anche gli esseri umani sono «programmati»: essi sono macchine biologiche, il cui comportamento è determinato in parte da programmi genetici, in parte dall’apprendimento. Creatività e libertà potrebbero scaturire dall’elevata complessità dei meccanismi.

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non vi è ragione di negare capacità intenzionali alla macchina. L’argomento di Searle è chiaramente una dimostrazione dell’inadeguatezza di un criterio per l’attribuzione di intenzionalità puramente comportamentale: l’uomo nella stanza cinese sembra (visto dall’esterno) sapere il cinese, ma in realtà non lo sa, perché, potremmo dire, i suoi processi mentali non trattano le frasi in cinese allo stesso modo dei processi mentali di un vero parlante cinese. In particolare, per Searle, i processi mentali del parlante cinese non sono affatto computazionali. Ora, certamente si può essere d’accordo con Searle sul fatto che la sola uguaglianza di comportamento non è una condizione sufficiente per dire che abbiamo replicato con successo un certo compito cognitivo (anche se, onestamente, sarebbe assai difficile negare genuina competenza semantica a un ipotetico robot capace di sostenere davvero una conversazione). Tuttavia, non avendo la minima idea di come quel compito cognitivo sia realizzato, come facciamo a scartare a priori i modelli computazionali? Certamente, l’appeal che la tesi di Searle riscuote deriva in parte dai risultati modesti conseguiti dall’intelligenza artificiale (IA) nell’elaborazione del linguaggio naturale. Allo stato attuale è difficile dire se ciò dipenda da limitazioni tecnologiche contingenti o da ragioni di principio. Non ci sono programmi (né, tantomeno, robot) capaci di interagire linguisticamente con gli uomini in situazioni che non siano quelle ipersemplificate e artificiali prodotte in laboratorio, anche se almeno in parte ciò dipende dal fatto che gli investimenti necessari per sviluppare sistemi del genere sono troppo alti rispetto ai benefici applicativi che ne possono derivare nel breve e medio termine. Ed è vero che alcune delle limitazioni che caratterizzano i tipici sistemi artificiali di elaborazione del linguaggio naturale derivano da ragioni di principio, come già nei primi anni Settanta aveva osservato Hubert L. Dreyfus. Secondo Dreyfus i sistemi realizzati nell’ambito dell’IA sono palesemente privi di intelligenza in quanto incapaci di adeguare il loro comportamento a un contesto differente da quello per cui sono stati progettati. Analizzatori del linguaggio naturale e altri sistemi di IA esibiscono buone prestazioni solo in ambiti ristretti, quali mondi-giocattolo o domini di conoscenza altamente specifici. Essi sono privi di un tratto essenziale dell’intelligenza, la flessibilità, cioè la capacità di ampliare e generalizzare le proprie conoscenze alla luce dell’esperienza. Questo limite è strettamente legato a una grave difficoltà che affligge i sistemi artificiali anche se dotati di una ricchissima base di conoscenza, difficoltà nota 44

in IA come frame problem (problema della cornice): l’ambiente cambia continuamente, anche in conseguenza delle azioni del sistema artificiale che vi opera, e il cambiamento comporta che alcune credenze del sistema vadano aggiornate, perché non più vere. Ma non esistono criteri o regole in base ai quali selezionare le opportune credenze da aggiornare, perché ciò dipende da circostanza a circostanza. Serve insomma «senso comune», senso di che cosa è pertinente e che cosa no in una data situazione; ma, ammesso che esista qualcosa come un «principio di pertinenza», esso sfugge a qualsiasi formalizzazione. In una formula, il frame problem consiste nell’apparente impossibilità di scrivere un programma che, oltre ad incorporare le conoscenze che una persona ordinaria possiede, sia anche in grado di applicare in modo appropriato tali conoscenze nelle diverse circostanze (Lowe 2000, p. 220). La soluzione di questo problema sembra passare di necessità attraverso la realizzazione di macchine che apprendono dall’esperienza. È indubbio che queste sono difficoltà assai grandi per un sistema artificiale progettato secondo i canoni della TCRM; e tuttavia sarebbe prematuro affermare che il funzionalismo computazionale ha definitivamente fallito; questo genere di critiche ha infatti stimolato nuove direzioni di ricerca che, pur rinnegando, sotto molti aspetti, il paradigma rappresentato dalla TCRM, sembrano essere ancora interne al funzionalismo computazionale – o perlomeno non è affatto ovvio che non lo siano. Di queste riferiremo nei capitoli 6 e 7. Critiche alla relazione mentale/fisico. Afferiscono a questo gruppo le critiche volte a far vedere che il funzionalismo è una spiegazione inadeguata del rapporto mente/corpo. Di queste ci occuperemo nel capitolo successivo, dopo aver presentato nei dettagli il modo in cui il funzionalismo concepisce il rapporto tra stati mentali e stati cerebrali. ❑ Riepilogo Il funzionalismo è la tesi secondo cui gli stati mentali sono stati funzionali; ciò significa che uno stato mentale è individuato dal suo ruolo causale nell’economia complessiva della vita mentale di un agente. Nella versione che ha avuto maggior impatto sulla scienza cognitiva, gli stati mentali sono assimilati a stati di una macchina di Turing: il cervello sta all’hardware di un computer come la mente al suo software, e i 45

processi cognitivi sono computazioni. Ne consegue che, in questa come nelle altre versioni del funzionalismo, il sostrato materiale è irrilevante; la mente può essere realizzata da un sistema artificiale, purché questo abbia le appropriate proprietà di organizzazione. In particolare, nella TCRM di Jerry Fodor, i processi cognitivi sono computazioni che operano su rappresentazioni di natura linguistica, cioè su formule di un linguaggio del pensiero che ha proprietà strutturali analoghe a quelle di un linguaggio formale. Uno stato mentale è una relazione tra un agente e un enunciato del linguaggio del pensiero, da cui lo stato eredita le proprietà sintattiche e semantiche. In questo modo il ruolo causale dello stato mentale è determinato dalle proprietà sintattiche dell’enunciato con cui esso è in relazione. Le critiche che sono state rivolte al funzionalismo sono principalmente due: non essere in grado di dar conto degli stati qualitativi, e attribuire la natura di mente a sistemi che intuitivamente non sono menti. La critica di fondo contro la TCRM e il funzionalismo computazionale è che libertà e creatività non possono scaturire da un mero meccanismo. Nella sua elaborazione più efficace, l’idea soggiacente a tale critica è che la semantica non può scaturire dalla mera sintassi. A questo si è obiettato che le proprietà semantiche potrebbero emergere nelle interazioni percettive e motorie con l’ambiente. I limiti degli attuali sistemi artificiali costituiscono tuttavia una fonte di imbarazzo per questa replica.

s Cos’altro leggere Le formulazioni storiche del funzionalismo si trovano nei saggi Menti e macchine e La natura degli stati mentali, entrambi in H. Putnam, Mente, linguaggio e realtà, Adelphi, Milano 1987. Si vedano anche D. Lewis, Psychophysical and Theoretical Identifications, in «Australasian Journal of Philosophy», 50, 3, pp. 249-58, e N. Block, What is Functionalism, in Id. (a cura di), Readings in Philosophy of Psychology, Harvard University Press, Cambridge MA 1980. Sulla teoria della computazione: N.J. Cutland, Computability: An introduction to recursive function theory, Cambridge University Press, Cambridge 1980; D. Harel, Computers Ltd. What they really Can’t Do, Oxford University Press, Oxford 2000. Un’esposizione esemplare del funzionalismo computazionale e della TCRM si trova nel primo capitolo di J. Haugeland, Intelligenza artificiale, Bollati Boringhieri, Torino 1988. Lo stesso autore ha curato un’ottima antologia di saggi sul tema: J. Haugeland (a cura di), Progettare la mente, Il Mulino, Bologna 1989. Si vedano, in particolare, l’introduzione del cu46

ratore, l’articolo di Newell e Simon (La scienza del computer come indagine empirica; simboli e ricerca), e l’articolo di Fodor, Il solipsismo metodologico come strategia di ricerca in psicologia cognitiva, che è l’esposizione classica della condizione di formalità. La formulazione «storica» della TCRM e dell’ipotesi del linguaggio del pensiero è in J. Fodor, The Language of Thought, Cromwell, New York 1975. Esposizioni concise ed efficaci del funzionalismo computazionale (e della TCRM) si trovano inoltre in D. Marconi, Filosofia e scienza cognitiva, Laterza, Roma-Bari 2001 (pp. 31-61 e specialmente il paragrafo Regole e rappresentazioni) e in M. Marraffa, Scienza cognitiva: un’introduzione filosofica, CLEUP, Padova 2002. Sempre in italiano, da segnalare M. Salucci, Materialismo e funzionalismo nella filosofia della mente, ETS, Pisa 1996. Tra le introduzioni alla filosofia della mente, quelle maggiormente incentrate sul funzionalismo computazionale sono G. Rey, Contemporary Philosophy of Mind, Blackwell, Oxford 1997 (spec. capp. 8-11) e T. Crane, The Mechanical Mind, Penguin, London 1995. Sulle critiche al funzionalismo si vedano N. Block, Troubles with Functionalism, in Id. (a cura di), Readings in Philosophy of Psychology, cit., e J. Searle, Menti, cervelli e programmi, CLUP, Milano 1984, che contiene l’argomento della stanza cinese, le obiezioni all’argomento e le controrepliche di Searle. Su Internet si può trovare un’ampia discussione critica dell’argomento della stanza cinese in L. Hauser, Searle’s Chinese room argument, in A Field Guide to the Philosophy of Mind, a cura di M. Marraffa e M. Nani, testo già segnalato nel capitolo precedente (ricordiamo l’URL: http://www.uniroma3.it/kant/field/mbit.htm). Infine, sono disponibili in italiano diversi buoni manuali di intelligenza artificiale. Mi limito a segnalare il recente E. Burattini, R. Cordeschi (a cura di), Intelligenza artificiale, Carocci, Roma 2000 (si veda in particolare il capitolo di Cordeschi e Tamburrini).

Capitolo 3

Cause mentali

Quando il dualismo delle sostanze si scontrò col problema della causalità mentale, fu il dualismo a perdere: la sostanza mentale non è più tra noi. La storia potrebbe ripetersi adesso: dal confronto tra dualismo delle proprietà e causalità mentale, il dualismo potrebbe nuovamente uscire sconfitto, lasciando a terra il cadavere delle proprietà non riducibili. J. Kim La mente e il mondo fisico

Nel capitolo precedente ci siamo concentrati su quegli aspetti del funzionalismo che lo hanno reso una cornice teorica particolarmente feconda per la scienza cognitiva. Ci dobbiamo ora soffermare sulla seconda circostanza che ha favorito l’avvento del funzionalismo, e cioè il suo dischiudere la possibilità di sposare una forma di materialismo non riduzionistico. Non vi è dubbio che il funzionalismo sia emerso anche come reazione alla teoria dell’identità di tipo, insoddisfacente per le ragioni discusse nel capitolo primo. In questo capitolo misureremo la capacità del funzionalismo di sostenere questo ruolo: presenteremo una metafisica della mente che si accompagna comunemente al funzionalismo e ne valuteremo la sua sostenibilità. Il problema che stiamo per affrontare, quello della causalità mentale, è attualmente uno dei più dibattuti; è infatti nei suoi termini che la filosofia della mente più recente ha reimpostato il classico problema mente-corpo. 48

1. Realizzabilità multipla e sopravvenienza Benché il funzionalismo di per sé non comporti una determinata posizione riguardo alla relazione che sussiste tra stati mentali e stati cerebrali, di fatto si è accompagnato a una tesi, nota come «realizzabilità multipla», secondo cui ogni tipo di stato (= ogni proprietà) mentale può essere realizzato da una molteplicità di stati cerebrali di tipo differente. In questo modo possiamo dire che lo stato fisico in cui mi trovo quando provo dolore è diverso da quello (per esempio) di un cane o di una rana che provano dolore; e diventa possibile dar conto della verosimile ipotesi secondo cui, anche in una stessa persona, due stati di dolore provati in due istanti diversi possono corrispondere a una diversa configurazione neuronale. La realizzabilità multipla appare poi ancora più persuasiva per stati mentali come credenze e desideri, visto che avere una certa credenza (o desiderio) sembra essere intuitivamente compatibile con una gamma molto ampia di diversi stati fisici. Pertanto (cfr. Fig. 3.1)1, dal fatto che due stati mentali m1 e m2 siano occorrenze di uno stesso tipo M non possiamo trarre alcuna Fig. 3.1. m1 e m2 sono dello stesso tipo M; p1 e p2 sono di tipo diverso (rispettivamente P1 e P2). M

m1

m2

p1

p2

P1

P2

1 A scopo di chiarezza, in questo paragrafo e nel successivo userò lettere minuscole per denotare occorrenze di stati, ovvero eventi, e lettere maiuscole per denotare tipi di stati, ovvero proprietà.

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conclusione relativamente ai tipi fisici sottostanti; tutto quello che possiamo dire è che c’è uno stato cerebrale p1 co-occorrente con m1 e uno stato cerebrale p2 co-occorrente con m2, tali che p1 e p2 possono essere di tipo differente (P1 ≠ P2). P1 e P2, o, più propriamente, p1 e p2, sono diversi possibili realizzatori di M. Si noti come questa formulazione lasci ancora aperta la possibilità di una forma di identità mente-cervello: si può ancora sostenere che ogni singola occorrenza di stato mentale è identica a un’occorrenza di stato cerebrale, ovvero che ogni evento mentale è identico a un evento cerebrale (mi = pi, per i = 1, 2, ...). Questa tesi è nota come teoria dell’identità di occorrenza, o occorrenza-occorrenza (token-token identity), ed è evidentemente contrapposta alla teoria dell’identità standard (cfr. supra, 1.1), che prevede un’identità tra tipi di stati mentali. La teoria dell’identità di occorrenza è il modo in cui molti filosofi funzionalisti concepiscono la relazione tra gli stati mentali e gli stati cerebrali. Infatti, poiché l’identità di tipo implica l’identità di occorrenza ma non viceversa, la teoria dell’identità di occorrenza corrisponde a una posizione più debole, meno vincolante. Alla realizzabilità multipla si accompagna tipicamente, nella direzione opposta, anche la tesi seguente: fissato uno stato fisico di un certo tipo, risulta univocamente determinato lo stato mentale corrispondente; ne consegue che, se un organismo si trova in due istanti differenti t1 e t2 in due stati cerebrali identici, anche i corrispettivi stati mentali saranno identici. In una formula: (S)

P1 = P2 → M1 = M2 (o, equivalentemente: M1 ≠ M2 → P1 ≠ P2)

Identità di tipo fisico implica identità di tipo mentale (ma l’implicazione non vale nella direzione opposta) o, ciò che è lo stesso, una differenza (in tipo) di stato mentale implica una differenza fisica.

Questo tipo di relazione tra mentale e fisico è nota come sopravvenienza psico-fisica. È opportuno chiarire bene le differenze tra queste tre tesi: realizzabilità multipla, sopravvenienza e teoria dell’identità di occorrenza. La realizzabilità multipla è, da un punto di vista logico, una tesi negativa, in quanto afferma che identità di stato mentale non implica identità di stato fisico. La sopravvenienza è invece una tesi positiva, in quanto afferma che identità di stato fisico implica identità di stato mentale. Entrambe le tesi mettono in relazione tipi di stati o proprietà mentali, nel senso che le identità menzionate nelle tesi so50

no da intendersi come identità di tipo. La teoria dell’identità di occorrenza postula invece un’identità di occorrenze, e può essere considerata un caso particolare di sopravvenienza, appunto quello in cui la relazione tra uno stato mentale particolare e lo stato fisico particolare che lo realizza è un’identità. Pertanto, chi si limita a sostenere che gli stati mentali sopravvengono agli stati fisici, senza postulare ’identità di occorrenza, difende, tra le opzioni fisicaliste, quella più debole che si può intrattenere riguardo alla relazione che sussiste tra mente e cervello. Il concetto di sopravvenienza, introdotto originariamente in filosofia morale, ammette in realtà diverse varianti. Qui non entreremo nel merito di queste differenze (si veda Kim 1994 o Chalmers 1996, cap. 2); ci limitiamo ad osservare che la sopravvenienza è comunemente considerata la nozione in cui trovano una sintesi tre diverse intuizioni relative al rapporto tra mentale e fisico: covarianza, dipendenza e irriducibilità. Per covarianza si intende che qualunque differenza mentale deve avere riscontro in qualche differenza fisica; non possono esserci due stati identici sotto ogni aspetto fisico ma diversi per qualche aspetto mentale. È il nucleo logico fondamentale della nozione di sopravvenienza, quello catturato dalla (S). Per dipendenza si intende che gli stati sopravvenienti dipendono ontologicamente dagli stati fisici sottostanti, sia nel senso che, se non esistessero gli stati fisici, non esisterebbero nemmeno gli stati mentali, sia in quanto le caratteristiche dei secondi sono determinate da quelle dei primi. Con le parole di Kim, «il carattere mentale di una cosa è completamente determinato dalla sua natura fisica» (1994, p. 575). Per irriducibilità si intende che, nonostante covarianza e dipendenza, il mentale conserva una sua autonomia esplicativa in quanto un tipo di stato o proprietà mentale non è in alcun modo riducibile: non c’è una proprietà fisica con cui identificare il mal di denti, o la credenza che Torino sia a nord di Roma. Ciò equivale a dire che, nella misura in cui le leggi correlano proprietà e non eventi, non ci sono leggi psico-fisiche, ad eccezione della (S) stessa. È bene ribadire che non c’è una connessione necessaria tra funzionalismo e sopravvenienza, ma soltanto un legame storico-fattuale: la sopravvenienza è la teoria del rapporto mentale-fisico a cui in larga parte hanno aderito i filosofi funzionalisti. Nel loro insieme, il funzionalismo e la sopravvenienza danno luogo a una prospettiva sulla mente che da un lato è coerente col fisicalismo e dall’altro salvaguarda il mentale come livello di spiegazione autonomo. E tutta51

via questa autonomia ha qualcosa di sconcertante, se non di paradossale: non è forse tale una proposta teorica che da un lato rivendica la dipendenza ontologica del mentale dal fisico e dall’altro nega la possibilità stessa di leggi psico-fisiche? L’obiettivo di difendere il fisicalismo respingendo a un tempo il riduzionismo rischia di essere una strada molto stretta, così stretta che qualcuno dubita che sia coerentemente perseguibile. È quanto cercheremo di appurare. 2. L’argomento dell’esclusione causale Abbiamo visto che la metafisica della mente favorita dal materialismo non riduzionistico è basata sulle nozioni di realizzabilità multipla e di sopravvenienza. Questo tipo di soluzione al problema mente-corpo si esporrebbe tuttavia, secondo alcuni autori (cfr. per es. Kim 1996), alla seguente grave difficoltà. Siano m ed m* due occorrenze rispettive di due diverse proprietà mentali M ed M*; per esempio, M è avere mal di testa e M* è avere l’intenzione di prendere un’aspirina. Siano p e p* (rispettivamente di tipo P e P*) i realizzatori fisici di m e m*. In base alla definizione di sopravvenienza, una qualsiasi occorrenza di P, per esempio p, è condizione sufficiente per un’occorrenza di M (lo stesso vale per P* ed M*). Siamo allora posti di fronte al seguente dilemma: – Da un lato, secondo un’interpretazione intuitivamente plausibile del funzionalismo, saremo propensi a dire che M causa M* solo in quanto P causa P* (cfr. Fig. 3.2: a): è lo stato cerebrale che realizza il mal di testa a causare uno stato cerebrale che è alla base della disposizione a prendere l’aspirina. Si noti come la relazione causale sia definita fra proprietà, perché (almeno secondo Kim) l’esistenza di un nesso causale tra m ed m* (così come tra p e p*) deve essere espressione di una regolarità; il legame causale deve cioè sussistere per qualsiasi occorrenza di M e di M* (di P e P*). Ma se si interpreta il funzionalismo in questo modo, riconoscendo cioè un’autentica efficacia causale soltanto ai realizzatori fisici, ne consegue l’epifenomenismo del mentale, cioè la tesi dell’irrilevanza causale degli stati mentali. Un epifenomeno si accompagna al fenomeno «vero» soggiacente come un’ombra a un corpo: c’è ma è ininfluente. Gli stati mentali sono mere ombre. L’epifenomenismo mette in discussione l’esistenza stessa degli stati mentali, almeno se si ritiene che qualunque cosa esistente debba avere qualche potere causale. 52

– Dall’altro lato, potremmo voler insistere sull’irriducibilità degli stati mentali, affermando che M causa M* in un senso genuino, non meramente «per procura». Ora, poiché M* dipende ontologicamente dai suoi realizzatori fisici (pur nel senso debole che è richiesto uno stato fisico che realizzi M*, non necessariamente uno stato di tipo P*), sembra ragionevole sostenere che non è possibile che M causi M* senza nello stesso tempo causare P*. Se M è una causa autentica della mia intenzione di prendere un’aspirina, deve determinare in qualche modo lo stato fisico sottostante a tale intenzione. Dunque, affinché M causi M*, è necessario che M causi P*: la causalità mentale richiede la «causalità verso il basso» (downward causation, cfr. Fig. 3.2: b). Ciò, d’altra parte, è implicito nella possibilità, comunemente ammessa, che gli stati mentali causino stati fisici, come quando diciamo che una fitta dolorosa al gomito ci fa emettere un gemito. La causalità verso il basso comporta però la spiacevole conseguenza della sovradeterminazione causale: P* risulta infatti causato tanto da P quanto da M. La sovradeterminazione causale potrebbe in qualche caso essere tollerabile ma, poiché l’argomento esposto ha validità generale, qui saremmo costretti ad accettare la poco attraente conclusione che c’è sovradeterminazione causale ogni volta che sono in gioco cause mentali. Si potrebbe evitare la sovradeterminazione causale invocando una priorità di P rispetto a M: P è «causa prima» di P* perché, ripercorrendo all’indietro la catena causale che ha condotto all’occorrenza di P*, sembra logico chiamare in Fig. 3.2. Le frecce rappresentano relazioni causali; la doppia linea tratteggiata sta per relazione di realizzazione o sopravvenienza. M

M*

P

P*

M

M*

P

P*

a)

b)

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causa un evento appartenente al medesimo ordine di spiegazione, cioè un evento cerebrale, piuttosto che uno mentale. In altri termini, non vi è motivo di fare ricorso a cause di natura estranea al fenomeno da spiegare, e specificamente a cause non fisiche, quando sono disponibili delle cause fisiche (è questo un modo semplice di enunciare il cosiddetto principio di chiusura causale del mondo fisico, che è comunemente considerato costitutivo del fisicalismo: si veda il paragrafo successivo). Inoltre, almeno a detta di alcuni, invocare l’esistenza di una causa primaria fisica è non solo plausibile bensì necessario perché, in caso contrario (cioè senza la mediazione dello stato cerebrale), si dovrebbe ammettere la possibilità di relazioni causali «telecinetiche», cioè di azione causale a distanza2. Necessario o soltanto ragionevole che sia, questo modo di evitare la sovradeterminazione causale ci riporta tuttavia a supporre che gli stati mentali, in questo caso M, siano causalmente inerti. Ricadiamo così nell’epifenomenismo, cioè nella negazione di quella che era l’ipotesi di partenza: l’efficacia causale degli stati mentali. Sembra quindi che concepire la relazione tra mentale e fisico in termini di sopravvenienza ci ponga in ogni caso di fronte al problema di escludere una causa di troppo, vuoi per evitare la sovradeterminazione causale, vuoi perché non c’è bisogno di invocare una causa non fisica quando ce n’è già una fisica (sufficiente). Da cui il nome di «argomento dell’esclusione causale» (causal/explanatory exclusion). Riassumendo, secondo Kim non è possibile conciliare la tesi dell’efficacia causale degli stati mentali con la sopravvenienza o altre equivalenti tesi antiriduzionistiche, se non incorrendo nell’epifenomenismo da un lato o nella sovradeterminazione causale dall’altro. Come sintetizza efficacemente Di Francesco, «se riconosciamo che il mentale sopravviene sul fisico, allora ad ogni supposta causa mentale sarà possibile associare una causa fisica, ma a questo punto le cause mentali non ci servono: [...] o si riducono a cause fisiche o non sono vere cause» (20022a, par. 2.9). L’argomento dell’esclusione causale dimostra, secondo Kim, l’inevitabilità di una qualche forma di riduzione del mentale al fisico. Egli difende infatti una particolare versione di riduzionismo, che discuteremo alla fine del paragrafo successivo. Più in generale, Kim sostiene che il tentativo di spiegare la natura degli stati mentali sulla 2 Ma si tenga ben presente che l’illegittimità dell’azione causale a distanza è una tesi assai controversa.

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base della nozione di sopravvenienza è inevitabilmente una pseudosoluzione del problema mente-corpo, perché la sopravvenienza non è una teoria della relazione tra mente e mondo fisico. Essa è infatti compatibile con diverse teorie del rapporto tra mente e cervello, tutte insoddisfacenti. Tra queste Kim menziona l’epifenomenismo, in base al quale il mentale è distinto dal fisico ma è privo di efficacia causale e, soprattutto, l’emergentismo, secondo cui (semplificando un po’) le proprietà mentali sono proprietà che un sistema fisico può manifestare soltanto a partire da una certa complessità di organizzazione, e non spiegabili né predicibili sulla base della sola struttura fisica3. Ciò che in particolare sembra accomunare la sopravvenienza e l’emergenza è che il legame tra le proprietà di alto livello e quelle di basso livello rimane inspiegato. In questo senso la sopravvenienza sarebbe un’ipotesi dallo scarso o nullo valore esplicativo. 3. Il paradosso della causalità mentale Come si potrebbe neutralizzare l’argomento dell’esclusione causale? Cominciamo con l’osservare che la difficoltà che esso mette in luce, lungi dall’essere «tecnica» o marginale, investe il problema centrale della metafisica della mente, il cuore stesso della questione mentecorpo: come possono gli stati mentali essere cause di stati fisici? Il problema della causalità mentale può essere presentato in modo semplice nella forma del seguente paradosso: PARADOSSO DELLA CAUSALITÀ MENTALE (PCM)

È impossibile che le tre seguenti affermazioni del senso comune siano simultaneamente vere: 1. Gli stati mentali sono distinti dagli stati fisici 2. Gli stati mentali sono cause di stati fisici (oltre che di altri stati mentali)

3. Solo gli stati fisici possono causare alcunché 3 L’emergentismo è stato proposto negli anni Venti da alcuni filosofi britannici, come Alexander e Broad. Oggi è ben rappresentato da Crane, ma ad esso hanno recentemente guardato con simpatia anche alcuni scienziati, come il neurofisiologo Sperry e il neurobiologo Varela. In generale, la nozione di proprietà emergente è molto popolare nella cosiddetta «scienza cognitiva postclassica» (cfr. infra, capp. 6 e 7), anche se non è ben chiaro se l’espressione venga usata nello stesso senso di Kim.

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A quale tesi rinunciare per venire a capo del paradosso? La candidata migliore sembra essere la prima. La tesi 2, infatti, è quella meno negoziabile, non soltanto per rivendicare il senso comune (non vogliamo smettere di dire che, per esempio, l’intenzione di farsi passare il mal di testa ha causato che il tale prendesse un’aspirina), ma anche allo scopo di difendere quella caratterizzazione degli stati mentali come mediatori tra input sensoriali e output comportamentali che è moneta corrente in scienza cognitiva. E sarebbe fonte di grave imbarazzo anche l’abbandono della tesi 3, nota come principio della chiusura causale del mondo fisico e comunemente considerata costitutiva del fisicalismo. Essa è esprimibile in modo più rigoroso nella forma «Ad ogni istante in cui uno stato fisico ha una causa, esso ha una causa fisica sufficiente»4. Ora, il modo più ovvio di negare la tesi 1 consiste nello sposare la teoria dell’identità di tipo: gli stati mentali risulterebbero identici agli stati cerebrali (strategia riduzionistica). Tuttavia, per i motivi che abbiamo visto, questa soluzione non è gradita al funzionalista, che ha cercato, tramite la teoria dell’identità di occorrenza e la nozione di sopravvenienza, un modo di negare la tesi 1 senza pagare, per così dire, un conto troppo salato – senza rinunciare alla realizzabilità multipla. L’argomento dell’esclusione causale colpisce, se conclusivo, precisamente questo tipo di strategia. Vediamo allora in modo più dettagliato alcune soluzioni del PCM, discutendone la capacità di far fronte all’argomento dell’esclusione. Il monismo anomalo. Nel classico articolo Mental Events (1970) Davidson aveva offerto una soluzione del paradosso, nota come monismo anomalo, che consiste nel negare la tesi 1: gli eventi mentali sono identici agli eventi fisici. Ne segue che il monismo anomalo è una versione della teoria dell’identità di occorrenza. Che cos’è il mentale in questa prospettiva? Per Davidson un evento mentale è un evento descritto in un vocabolario mentale, così come un evento fisico è un evento descritto nel vocabolario della fisica. Dire che un evento mentale è identico a un evento fisico significa che c’è un unico evento, che (astraendo dalle sue descrizioni linguistiche) è quello che è, e che ammette due descrizioni diverse. 4 Voglio ricordare una volta di più che «fisico» si estende a coprire l’ambito biologico e chimico. Tutte queste discussioni danno sempre per scontata la riducibilità in linea di principio della biologia alla fisica (passando attraverso la chimica).

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Il mentale non è che un livello di descrizione, come del resto lo è anche il fisico, il quale ultimo ha però dal punto di vista metafisico uno statuto privilegiato, come riconosce ogni buon materialista. L’anomalia del monismo davidsoniano consiste nel fatto che non siamo in grado di correlare tramite leggi psico-fisiche le descrizioni mentali con le descrizioni fisiche. Non ci sono identità regolari, cioè esemplificazioni di leggi-ponte, tra gli stati mentali e gli stati fisici, e questa corrispondenza manca per ragioni di principio. Davidson giustifica l’anomalia del mentale con la tesi secondo cui le proprietà mentali sono costitutivamente incompatibili con le proprietà fisiche e quindi refrattarie ad essere incorporate in leggi psicofisiche. Tale incompatibilità si spiega con la natura peculiarmente olistica e normativa del «mondo mentale». Per olismo del mentale si intende che non è possibile attribuire a una persona uno stato mentale senza nello stesso tempo attribuirgliene molti altri: ogni stato mentale è inestricabilmente connesso a una moltitudine di altri stati mentali. Per esempio, non possiamo attribuire a qualcuno la credenza che Torino è a nord di Roma senza attribuirgli anche le credenze che Roma è a sud di Torino, che Torino e Roma sono città, che normalmente a Torino fa più freddo che a Roma, e così via, senza che si capisca bene dove possiamo arrestarci. Ma l’olismo nelle scienze della natura è impensabile, perché non consentirebbe di determinare in modo preciso gli oggetti della teoria. La natura olistica della mente esclude che ci possano essere leggi psico-fisiche; se infatti tali leggi ci fossero, potremmo attribuire, sulla base di una legge del tipo «ogni volta che c’è l’evento P c’è l’evento M», una credenza in isolamento, senza chiamare in causa tutte le credenze ad essa correlate. Con normatività del mondo mentale ci si riferisce al fatto che l’attribuzione di credenze, desideri ed altri stati mentali è regolata da certi principi di razionalità volti a massimizzare il grado di sensatezza e coerenza di tali stati presi nel loro insieme. Se qualcuno violasse sistematicamente qualche principio logico, come il modus ponens o la transitività, non saremmo in grado di dare senso al suo comportamento, non potremmo cioè interpretare il suo sistema di credenze, perché l’assunzione di razionalità è per noi irrinunciabile; di fatto, ciò che facciamo di fronte a un comportamento o un’affermazione che rivela un’incongruenza logica è reinterpretare una o più credenze del soggetto in questione per restituirgli la patente di razionalità. Ebbene, è precisamente questo genere di principi di coerenza e ra57

zionalità che non trova posto alcuno in una scienza della natura. Il mentale non è un mondo di fatti ma un mondo di norme5. L’anomalia del mentale non è fonte di difficoltà per l’efficacia causale degli stati mentali, perché, come abbiamo visto, secondo Davidson un evento mentale è un evento fisico. Tuttavia proprio su tale punto si è concentrata la principale critica al monismo anomalo. L’obiezione è che nella prospettiva davidsoniana l’evento mentale è una causa non in quanto mentale, bensì in quanto fisico, e ciò equivarrebbe a negare l’efficacia causale degli stati mentali, ricadendo così nell’epifenomenismo. Se questa critica fosse fondata, il monismo anomalo ricadrebbe quindi sotto l’argomento dell’esclusione causale: l’identità di occorrenza tra mentale e fisico non sarebbe sufficiente a salvaguardare l’efficacia causale degli stati mentali. La replica di Davidson è stata che questa obiezione confonde le relazioni causali, che sussistono tra eventi indipendentemente da come noi li individuiamo, con le spiegazioni causali, che invece correlano descrizioni. Nelle spiegazioni causali gli eventi mentali vi entrano in quanto mentali, cioè in una descrizione che fa uso di un vocabolario mentale (si tratta di spiegazioni che non hanno un valore causale autentico, perché, come abbiamo visto, non sono espressioni di leggi rigorose). Ma nelle relazioni causali, a cui si fa normalmente riferimento nell’asserire la tesi 2 di PCM, gli eventi entrano in quanto tali: un evento è quello che è, e le sue proprietà causali non dipendono da come lo descriviamo, in un vocabolario mentale piuttosto che fisico. In questo senso non c’è nessun mistero nel fatto che un evento individuato mentalmente possa essere una causa. Si noti come in questo modo Davidson sia in grado di far fronte all’argomento dell’esclusione causale. Egli ne nega infatti il presupposto secondo cui l’efficacia causale si spiega facendo riferimento a proprietà: è bensì un singolo evento particolare (per esempio quello che noi descriviamo come «avere mal di testa») a causare un altro singolo evento particolare (per esempio quello che noi descriviamo come «intenzione di prendere l’aspirina»). Nondimeno diversi filosofi, a cominciare da Kim, giudicano insoddisfacente il monismo anomalo. Il problema è che, nella prospettiva davidsoniana, l’identità tra eventi mentali ed eventi fisici si configura come un brute fact, un puro e semplice fatto inspiegabile; 5 Ritroveremo considerazioni molto simili nella teoria dell’intenzionalità di Dennett (cfr. infra, 4.2).

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e ciò è tanto più sconcertante se si considera che esso si accompagna alla tesi dell’anomalia del mentale, secondo la quale, all’opposto, c’è una cesura non ricomponibile tra il mentale ed il fisico: da un lato abbiamo il mondo della fisica e delle relazioni causali; dall’altro un «mondo», quello mentale, che pur essendo lo stesso mondo di prima, osservato da un’altra prospettiva, è governato da principi molto diversi. Stando così le cose, come è possibile l’identità di eventi mentali ed eventi fisici? Che basi abbiamo, oltre a un’assunzione generica di materialismo, per sostenere tale identità? Se non ci sono leggi che correlano i due mondi, tutto quello che possiamo avere è improbabili conferme empiriche relative a singoli casi. In altri termini, il monismo anomalo non avrebbe quasi nulla da dire sul problema mente/corpo, cioè su come è articolata la relazione tra il mentale e il fisico: è una tesi meramente negativa, in quanto esclude la possibilità di veri e propri nessi esplicativo-causali, cioè di correlazioni nomologiche (= conformi a leggi), tra mentale e fisico. In questo senso il monismo anomalo rappresenta paradigmaticamente quel genere di posizioni (materialismo non riduzionistico) cui Kim imputa di essere pseudosoluzioni del problema mente-corpo. Il monismo nomologico e l’ambivalenza della nozione di causa. Un altro modo di negare la tesi 1 del PCM consiste nello sposare la sopravvenienza ed eventualmente la teoria dell’identità di occorrenza, respingendo però la supposizione davidsoniana dell’anomalia del mentale. Questa è, per esempio, la posizione di Fodor, che reputa la sopravvenienza un resoconto perfettamente adeguato della relazione tra mentale e fisico; secondo Fodor la minaccia dell’epifenomenismo si rivela infondata non appena si consideri in modo appropriato che cosa vuol dire che un evento mentale causa un evento fisico. Il punto centrale della tesi di Fodor è che un evento di tipo A causa un evento di tipo B se il supposto nesso causale tra A e B è un’esemplificazione di una legge o, come si suol dire, se c’è una legge che lo sussume. Pertanto A è una proprietà che ha efficacia causale se esiste una legge in cui essa occorre. Per esempio, essere impetuoso è una proprietà dei fiumi che causa l’erosione degli argini, ed essere dispiegata (piuttosto che ammainata) è una proprietà delle vele che causa il movimento (piuttosto che l’arresto) dello scafo. In entrambi i casi c’è una regolarità nomologica (cioè, appunto, conforme ad una legge, sia pure ceteris paribus, soggetta ad eccezioni) che correla le proprietà-causa con le proprietà-effetto. Ora, poiché ci sono 59

leggi che sussumono le correlazioni tra eventi mentali e comportamenti, non c’è nulla di inappropriato nel dire che le proprietà mentali hanno efficacia causale. Fodor assimila così le leggi e le proprietà psicologiche a quelle di una qualsiasi «scienza speciale», come l’economia, la geologia o la «teoria delle barche a vela», se esiste qualcosa del genere. Il problema sollevato in questo capitolo, tuttavia, non è tanto quello delle leggi psicologiche, quanto quello delle leggi psico-fisiche. Ebbene, secondo Fodor questo è un falso problema, in quanto la proprietà di essere uno stato mentale non pone più problemi, dal punto di vista della sua efficacia causale, della proprietà di essere un fiume impetuoso o di essere una vela: queste non sono proprietà fisiche, in quanto non appartengono al vocabolario delle scienze della natura, e possono essere realizzate fisicamente in diversi modi; nondimeno la loro efficacia causale non è messa in discussione. Certamente tale efficacia dipende dalle proprietà fisiche che realizzano le proprietà di alto livello, ma nessuno esige una teoria che correli i due livelli. Perché pretenderla nel caso psico-fisico? Chi sostiene che la sopravvenienza implica l’epifenomenismo delle proprietà psicologiche deve essere preparato ad accettare che qualunque proprietà di alto livello è causalmente inerte, una conseguenza troppo devastante per essere credibile. Quale che sia l’atteggiamento che si nutre al riguardo, a questo punto dovrebbe essere abbastanza evidente come un serio dibattito sulla questione dell’efficacia causale degli stati mentali non possa eludere una domanda metafisica enormemente impegnativa: che cos’è una causa? La natura delle cause è una questione assai complessa che, lungi dal sollevare un problema per la sola filosofia della mente, attraversa orizzontalmente molti, se non tutti, gli ambiti della filosofia. Non vogliamo qui neppur tentare di proporre una certa teoria della causalità sulla cui base risolvere il paradosso; ci limitiamo a un piccolo accenno che consenta al lettore di capire in che modo certi tipi di risposte piuttosto che altre possono orientare il dibattito. Secondo l’analisi della nozione di causa che ha goduto di maggior favore nella seconda metà del Novecento, una spiegazione causale di un fenomeno naturale consiste nel sussumerlo sotto leggi («spiegazione nomologico-deduttiva» o «modello della legge di copertura», cfr. Hempel e Oppenheim 1948). In questa prospettiva la causalità non è nient’altro che regolarità nomologica, ed è in questo senso che, per esempio, Fodor può parlare di leggi causali nell’ambito delle co60

siddette scienze speciali, come la psicologia. Questo modello di causalità è epistemologico piuttosto che metafisico: l’enfasi è posta sulla spiegazione e sulla previsione, senza richiedere l’esistenza di una presunta relazione oggettiva tra oggetti o eventi. Più di recente, tuttavia, è tornata a farsi strada una nozione forte, metafisicamente impegnativa, di causalità, spesso basata sull’idea che una relazione causa-effetto comporti una trasmissione di energia dalla prima al secondo. In altri termini, molti sono tornati a credere che le cause nel senso più genuino dell’espressione non sono relazioni esplicative, bensì relazioni di natura fisica tra eventi. Abbiamo visto come lo stesso Davidson difenda, accanto alle spiegazioni causali, anche una nozione di questo tipo. Questa ambiguità della nozione di causa ha portato diversi autori, tra cui lo stesso Fodor, a distinguere l’efficacia causale, che è una proprietà del mondo fisico, di basso livello, dalla rilevanza o responsabilità causale, che è una proprietà di alto livello, di questa o quella scienza speciale6. La questione è: che rapporto c’è, esattamente, tra l’efficacia causale e la responsabilità causale, tra la relazione causale di basso livello e quella di alto livello? Per l’antiriduzionista non vi è ragione di dubitare del fatto che le proprietà di alto livello – le proprietà tipiche delle scienze speciali – abbiano rilevanza causale in virtù del fatto che esse sopravvengono su proprietà fisiche che hanno efficacia causale. In questa prospettiva si potrebbe pensare a un rapporto di sopravvenienza anche tra nessi causali: le relazioni causali di alto livello sopravvengono su quelle causali di basso livello («causalità sopravveniente»). L’opposizione è allora tra chi ritiene, come Kim, che questo stato di cose sollevi un profondo problema metafisico, in base al sopracitato argomento dell’esclusione, e chi invece, come Fodor, ritiene che non ci sia nessun problema. Il secondo sosterrà che, così come nessuno chiede che ci siano leggi geo-fisiche (che correlano le proprietà della geologia a quelle della fisica), analogamente non vi è ragione di esigere leggi psico-fisiche; e che spesso le leggi-ponte non sono disponibili nemmeno nell’ambito 6 Almeno nelle intenzioni dei proponenti, questa distinzione non coincide con quella, diffusa tra gli allievi di Wittgenstein, tra ragioni e cause. Secondo Wittgenstein e seguaci, gli stati mentali sono ragioni, non cause del comportamento, perché credenze e desideri sono costruzioni logiche introdotte per giustificare, razionalizzare il comportamento; esse appartengono a uno spazio logico diverso da quello della scienza, al quale pertiene la nozione di causa.

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delle scienze della natura, tra biologia e chimica, o tra chimica e fisica7. Il primo insisterà sul fatto che l’analogia tra le proprietà mentali e le proprietà di ogni altra scienza speciale non consente di difendere la causalità mentale se non al prezzo di incorrere nell’epifenomenismo o nella sovradeterminazione causale. In conclusione, è chiaro che a Fodor interessa, più che cercare correlazioni tra stati mentali e stati cerebrali, difendere l’autonomia delle scienze speciali, peraltro spesso non messa in discussione nemmeno dai riduzionisti; ben più controverso è se il monismo nomologico sia in grado di far fronte all’argomento dell’esclusione causale. La distinzione tra responsabilità causale ed efficacia causale potrebbe essere, se si ritiene che l’argomento dell’esclusione causale sollevi un problema autentico, una ruota che gira a vuoto. La strategia «deflazionistica». Se il monismo anomalo e il monismo nomologico risolvono, nei limiti discussi, il problema della causalità mentale negando la tesi 1 del PCM, altri autori hanno proposto di abbandonare, o almeno di depotenziare, la tesi 3, quella che accredita di efficacia causale il solo mondo fisico. L’idea è che le nostre pratiche esplicative ordinarie, in cui rientra la tesi dell’efficacia causale degli stati mentali, siano più solide ed irrinunciabili della metafisica fisicalistica. Se non c’è un concetto di causa che consente di tenere assieme causalità mentale e fisicalismo, tanto peggio per quest’ultimo. Questo atteggiamento è stato etichettato da Kim come «deflazionistico», ad indicare che esso nega l’esistenza del problema delle cause mentali, piuttosto che tentare di risolverlo. Questa opzione è ben rappresentata da filosofi come Lynne Rudder Baker (1993) o Tyler Burge (1993), secondo i quali quella di causa è una nozione intenzionale, dipendente dagli scopi ed interessi dei soggetti. Le cause si possono appropriatamente definire proprio come il tipo di cose che sono ordinariamente menzionate nelle spiegazioni degli eventi, e le spiegazioni sono sempre intenzionali, relative a un certo scopo o contesto di discorso. L’unico vincolo che la nozione di causa deve soddisfare è quello di sostenere un controfattuale della forma «se A non si fosse verificato, ceteris paribus B non avrebbe avuto luogo». Da questo punto di vista, le questioni metafisiche sono semplice7

Questo è in effetti un punto che i riduzionisti tendono a sottovalutare.

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mente irrilevanti per il problema delle cause mentali; e diventa inutile anche la nozione di sopravvenienza, considerata per esempio come «un frammento gratuito di metafisica che ha il ruolo di soddisfare il bisogno di una tesi onnicomprensiva [totalizing]» (Baker 1993, p. 91). La sopravvenienza è infatti un tentativo di rendere compatibile l’autonomia esplicativa del mentale con gli assunti metafisici del fisicalismo standard; se questi ultimi non sono pertinenti per il problema, è chiaro che la sopravvenienza diventa inutile. Questa posizione condivide col monismo nomologico di Fodor la legittimità di riconoscere alle proprietà di alto livello rilievo causale, ma se ne allontana significativamente in quanto esprime una prospettiva antifunzionalista e sotto un certo aspetto antinaturalistica: mentre per Fodor gli stati mentali sono enti naturali oggetto di studio di una psicologia scientifica, per gli autori in discussione i concetti del senso comune di credenza, desiderio, ecc. sono perfettamente legittimi pur non avendo come controparte stati psichici o fisici analizzabili nel vocabolario di una scienza naturale. Nemmeno una psicologia computazionale – per esempio, la TCRM – può avanzare la pretesa di fornire analisi degli stati mentali, perché uno stato mentale non è identificabile con uno stato computazionale. Il primo è individuato semanticamente, sulla base del suo contenuto; il secondo sintatticamente, in termini di ruolo causale8. Per Fodor c’è un nesso tra stati mentali e stati cerebrali, catturato dalla relazione di sopravvenienza; per la maggior parte degli autori che stiamo discutendo, invece, è vano cercare correlati fisici degli stati mentali, perché la nozione di stato mentale appartiene a uno spazio logico completamente diverso. Quando si dice che uno stato mentale causa un comportamento, non si sta parlando di un presunto nesso causale di tipo fisico – ammesso che esista qualcosa del genere – perché anche il comportamento è individuato nei termini del vocabolario mentale-intenzionale. Quando diciamo, per esempio, che l’intenzione di A di prendere la parola ha causato che A alzasse la mano, non stiamo spiegando un movimento fisico tramite uno stato mentale; stiamo bensì descrivendo un’azione (l’alzare la mano), qualcosa che ha una struttura complessa che non si esaurisce in un singolo movimento fisico, qualcosa che un agente, non il suo corpo, fa. Il problema della 8 Questo punto si chiarirà ulteriormente nel capitolo successivo (cfr., in particolare, 4.4).

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riduzione o anche soltanto della realizzazione degli stati mentali è considerato mal posto e quindi privo di soluzione. Secondo Kim questa posizione elude o fraintende il problema, piuttosto che risolverlo. La questione è infatti precisamente quella di capire quale sia la metafisica coerente con il fenomeno della causalità mentale. Nessuno mette in discussione le cause mentali da un punto di vista epistemico, esplicativo: è proprio perché crediamo nella spiegazione causale-intenzionale che sorge il problema metafisico di come tenere assieme tale modello di spiegazione e il fisicalismo. Qui si potrebbe tuttavia obiettare che Kim assume la tesi 3 di PCM e con essa la metafisica fisicalistica; e quindi che il problema metafisico sorge perché fin dall’inizio viene fatta un’assunzione metafisica. D’altro canto, i cosiddetti deflazionisti sono talora reticenti a mettere davvero in discussione il principio della chiusura causale del mondo fisico; una cosa è dire che la tesi 3 di PCM è irrilevante per la questione delle cause mentali, un’altra cosa è dire che è falsa. Per provare ad avere davvero partita vinta bisognerebbe prendersi l’onere di negare la tesi 3 di PCM. Ora, come accade per molte tesi filosofiche, il principio della chiusura causale del mondo fisico ammette diverse formulazioni, più deboli e più forti. Senza entrare nel merito di queste differenze, si può nondimeno sostenere che il principio è meno ovvio di quanto possa apparire a prima vista. Lynne Baker, per esempio, sostiene che esso presuppone una nozione di causalità come relazione oggettiva, che è ben lungi dall’essere confermata (1993, pp. 91-92; cfr. anche Lowe 2000, pp. 29-32). Riassumendo, potremmo mettere le cose nei termini seguenti. Se la tesi 2 e la tesi 3 del PCM fanno rispettivamente riferimento a due diverse nozioni di causa, il paradosso non è più tale: il senso in cui gli stati mentali sono cause degli stati fisici non è lo stesso di quello per cui un evento fisico ha una ed una sola causa sufficiente. Si tratta di una soluzione non molto diversa da quella wittgensteiniana basata sulla distinzione tra ragioni e cause (cfr. supra, nota 6), benché qui le ragioni vengano assimilate alle cause, seguendo Davidson (1963). Dissolvere il problema delle cause mentali in questo modo fa sorgere tuttavia un altro problema, quello genuinamente metafisico di spiegare la natura duale o comunque ambigua delle cause. Abbiamo insomma scaricato il problema al «metafisico del piano di sotto». Se, al contrario, la nozione di causa usata nel PCM è sempre la stessa, è chiaro che per risolvere il paradosso bi64

sogna necessariamente negare una delle tre tesi. E, caratterizzando la nozione di causa in termini puramente epistemico-esplicativi, la tesi 3 del PCM appare meno solida di quanto non sembri a prima vista. L’atteggiamento deflazionista si basa precisamente su quest’ultima strategia: depotenziare significativamente il principio della chiusura causale del mondo fisico tramite una revisione del concetto di causa. Il ritorno del riduzionismo. sate:

Abbiamo visto soluzioni del PCM ba-

– sulla negazione della tesi 1 in base alla teoria dell’identità di occorrenza (monismo anomalo); – sul depotenziamento della tesi 1 in base alla nozione di sopravvenienza (monismo nomologico); – sulla negazione o almeno sul depotenziamento della tesi 3 (strategia deflazionistica). Queste soluzioni sono in grado di far fronte all’argomento dell’esclusione causale? La strategia che se ne sbarazza in modo più netto è l’ultima, perché ne respinge una premessa fondamentale, il principio della chiusura causale del mondo fisico. Anche i sostenitori del monismo anomalo respingono l’argomento dell’esclusione negandone una premessa, quella secondo cui le relazioni causali mettono in gioco proprietà mentali. L’idea è che non c’è bisogno di una legge psico-fisica per poter dire che un evento mentale causa un evento fisico, perché due eventi possono essere in relazione causale indipendentemente da come sono descritti. Quanto ai sostenitori del monismo nomologico, essi ritengono che il requisito di avere leggi psico-fisiche per giustificare la causalità mentale sia inaccettabilmente forte, sulla base dell’analogia con altri domini scientifici: ne deriverebbe l’epifenomenismo di qualsiasi proprietà non fisica. Vediamo adesso dove ci porta accettare l’argomento dell’esclusione. L’idea è che la relazione di identità di occorrenza e a fortiori quella di sopravvenienza sono troppo deboli per ottenere il risultato voluto: se si vuole difendere sia la chiusura causale del mondo fisico sia l’efficacia causale degli stati mentali, è indispensabile avere delle leggi psico-fisiche. Niente leggi, niente cause mentali, e con ciò siamo tornati a una prospettiva di tipo riduzionistico. Negli ultimi anni questo modo di vedere il problema è risalito alla ribalta, soprat65

tutto per iniziativa di Jaegwon Kim, che in una serie di articoli e nel recente La mente e il mondo fisico ha messo in discussione la sostenibilità del monismo anomalo e più in generale di tutte le posizioni filosofiche che cercano di difendere un fisicalismo non riduzionistico. Secondo Kim il fisicalismo è intrinsecamente riduzionistico, per la ragione sopra spiegata. La nozione di sopravvenienza crea soltanto l’illusione di poter fare a meno della riduzione. La proposta di Kim non è semplice da illustrare, perché mette in gioco alcune complesse questioni di filosofia della scienza, come la natura delle leggi e la nozione di riduzione interteorica. Qui la ricostruiremo in modo semplificato, ignorando questi aspetti. Il fulcro dell’idea di Kim è che se una proprietà è funzionale, allora è riducibile. La riduzione avviene pertanto in due passi: nel primo una proprietà mentale M è definita in termini funzionali come ciò che svolge un certo ruolo R. Nel secondo passo vengono specificate quali proprietà fisiche (neurologiche) P1,...Pn possono realizzare il ruolo R. Nel caso più semplice la proprietà fisica realizzatrice sarà unica (n = 1), ma Kim ammette la possibilità che ci siano più realizzatori alternativi (P1 v P2 ... v Pn). In questo modo si costruisce una legge psico-fisica della forma: Per ogni x, x ha M se e solo se x ha P1, ..., Pn che soddisfano il ruolo R.

Per esempio, x ha un dolore se e solo se il ruolo causale del dolore (= essere in uno stato M2 tale che ∃ M1M2M3 [M2 è causato da M1 e danno ai tessuti & M3 è causato da M2, emissione di forti gemiti e corrugamento della fronte, ...], cfr. supra, 2.1) è realizzato dalla proprietà (supponendo per semplicità che sia unica) di avere una stimolazione delle fibre C. Si noti come, anche ammesso che sia possibile offrire analisi funzionali come quella appena illustrata, risultino certamente non riducibili le proprietà mentali non funzionali, quali sono, presumibilmente, gli stati qualitativi (cfr. supra, 2.4, e infra, cap. 8). La proposta di Kim è una versione di funzionalismo riduzionistico, per quanto, in un certo senso, l’idea stessa di proprietà funzionale sia intrinsecamente non riduzionistica. La riduzione consiste «nell’identificare M con il suo realizzatore P in relazione alla specie o struttura presa in considerazione [...]. M è P1 nella specie 1, P2 nella specie 2, e così via» (Kim 1998, p. 121). Si tratta di una riduzione 66

vera e propria in quanto, sebbene la realizzabilità multipla sia esplicitamente ammessa, a parità di ruolo causale, anche i realizzatori sono identici9. Tuttavia, la relativizzazione dell’identità di tipo alle diverse specie non mette Kim al riparo dall’obiezione che, in una data specie, occorrenze diverse di uno stesso tipo mentale M possono avere realizzazioni fisiche diverse. In altri termini, in questo modello di riduzione funzionale permane il vincolo, a detta di molti inaccettabile, che io debba trovarmi nello stesso stato fisico ogni volta che credo che P. Il successo del modello di riduzione funzionale dipende, in definitiva, dalla plausibilità di questa assunzione. Questa versione di neoriduzionismo è concepita all’interno di un quadro teorico ancora funzionalista, anche se, lo ripetiamo, il riduzionismo non è certo il naturale «compagno di strada» del funzionalismo; negli ultimi anni è tuttavia emerso anche un altro tipo di neoriduzionismo, non funzionalista, legato agli sviluppi più recenti della scienza cognitiva, in particolare alla modellistica basata sulle reti neurali. Questi modelli sono ispirati al tentativo di avvicinare le neuroscienze alla psicologia, da un lato vincolando la psicologia computazionale con dati neurobiologici, dall’altro costruendo modelli computazionali del sistema nervoso. L’idea alla base del neoriduzionismo è che, a condizione di individuare in modo appropriato gli stati psicologici, la realizzabilità multipla non pone un problema all’identità psico-fisica. Infatti (cfr. Bickle 1998), in tutti i casi reali di riduzione interteorica si osserva realizzabilità multipla, senza che ciò metta in discussione la riduzione. Per esempio, una stessa temperatura è realizzata tramite differenti stati microfisici di uno stesso volume di gas in istanti differenti. Affinché questa analogia funzioni, è tuttavia necessario caratterizzare gli stati psicologici in un linguaggio che sia condivisibile con quello delle neuroscienze. Questa versione di riduzionismo comporta pertanto un’eliminazione degli stati mentali del senso comune a beneficio degli stati individuati da una psicologia scientifica. Non si sta cioè riducendo la psicologia del senso comune, ma una psicologia scientifica diversa dalla TCRM. Ne diremo qualcosa in più nel capitolo 7. 9 «Se due realizzatori del dolore non sono distinguibili sotto l’aspetto causale o nomologico, allora non vi è ragione di considerarli diversi, essi non sono due bensì uno solo. In base a questa spiegazione riduzionistica, il dolore non è né causalmente inefficace né epifenomenico; è soltanto che il dolore è causalmente eterogeneo» (Kim 2001, p. 38).

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Conclusioni. Riassumendo, il problema della causalità mentale consiste nello spiegare in che senso gli stati mentali hanno efficacia causale. La soluzione più ovvia sarebbe il riduzionismo puro, la teoria dell’identità di tipo in versione originale: le proprietà mentali sono identiche alle proprietà cerebrali. Ma abbiamo visto come questa posizione sia stata ritenuta insostenibile. Ogni altra soluzione comporta qualche prezzo da pagare; tipicamente questi tentativi si basano su una rielaborazione del concetto di causalità o del concetto di riduzione (o entrambe le cose). Schematicamente, i tipi di soluzione sono tre. A un estremo abbiamo il neoriduzionismo, i cui sostenitori ritengono di poter saldare il conto presentato loro dai difensori della realizzabilità multipla tramite una ridefinizione del concetto di riduzione. All’estremo opposto abbiamo la posizione antifunzionalistica (e in qualche senso antinaturalistica), che ottiene l’efficacia causale degli stati mentali al prezzo di rinunciare al principio di chiusura causale del mondo fisico, o almeno di un suo significativo depotenziamento, basato su una nozione epistemicoesplicativa del concetto di causa. In mezzo abbiamo il funzionalismo non riduzionistico, cioè le posizioni basate sulla sopravvenienza o sulla teoria dell’identità di occorrenza, il cui problema è riuscire a sfuggire alla stretta della tenaglia costituita da un lato dall’epifenomenismo e dall’altro dalla sovradeterminazione causale. Forse il funzionalismo non riduzionistico è una posizione attraente quanto instabile, condannata a un’inevitabile precarietà tra Scilla l’epifenomenista e Cariddi il dualista. Il nostro scopo non è di prendere posizione e auspichiamo che il lettore si sia fatto un’idea propria. Si può tuttavia certamente affermare che il funzionalismo congiunto alla sopravvenienza del mentale sul fisico è una dottrina monistica solo sul piano strettamente ontologico (monismo delle «sostanze»), scoprendosi in qualche senso dualistico su altri piani (cfr. il paragrafo successivo). La questione, controversa e tuttora aperta, è in che misura ciò sia compatibile col fisicalismo. 4. Il funzionalismo è una forma di dualismo? Il neoriduzionismo di Kim esprime, come abbiamo visto, l’esigenza che l’analisi funzionale fornisca una base sicura al monismo ontologico e al fisicalismo; la sua preoccupazione è che ammettere l’esistenza di proprietà mentali meramente sopravvenienti, non riducibili, apra 68

la strada a qualche forma di dualismo. Ma di quale dualismo esattamente si tratta? Ed è un dualismo tale da preoccupare seriamente un materialista? Proviamo a rispondere a queste due domande. Il genere di dualismo che la teoria dell’identità di occorrenza o la nozione di sopravvenienza lasciano intravvedere può essere etichettato come «dualismo delle proprietà» o, da un punto di vista un po’ diverso, come «dualismo epistemologico». Il dualismo delle proprietà consiste nella tesi secondo cui sebbene nel mondo ci siano esclusivamente enti (sostanze) particolari di natura fisica, questi sono dotati, oltre che di proprietà fisiche, anche di proprietà non fisiche. Le proprietà mentali sarebbero un caso di questo tipo. Il dualismo epistemologico consiste invece nella tesi secondo cui l’apparato concettuale che usiamo per caratterizzare i fenomeni mentali è irriducibile a quello neurologico. I due domini concettuali sono troppo diversi perché ci possano essere leggi-ponte o correlazioni empiriche evidenti tra stati mentali e stati fisici. Per come è stata usata qui la nozione di proprietà, in modo ontologicamente non impegnativo, le due forme di dualismo non sono ben discriminabili: non ci siamo curati di discutere, per esempio, se e in che senso il concetto di credenza sia una «cosa» diversa dalla proprietà di essere una credenza. Preferisco tuttavia usare l’espressione «dualismo epistemologico», che meglio sottolinea come il genere di dualismo implicato dal funzionalismo riguardi il piano della spiegazione, più che il piano ontologico (come si chiarirà ulteriormente tra breve). Il funzionalismo, interpretato non riduzionisticamente, implica dunque il dualismo epistemologico. Per i filosofi che si professano materialisti non riduzionisti il problema mente-corpo è divenuto il problema di venire a patti con questo tipo di dualismo. Quasi tutti respingono il cartesiano dualismo delle sostanze, e in questo senso il monismo ontologico, più che una tesi da dimostrare, è considerato un punto di partenza, un dato acquisito. Ma il dualismo epistemologico comporta nuovamente, come abbiamo visto, una sfida difficile: si tratta di una posizione coerente col fisicalismo? Le intuizioni sono diverse. Chi ritiene di sì insiste sul fatto che all’interno delle scienze della natura ci sono moltissime proprietà non riducibili a proprietà fisiche, senza che ciò tuttavia ne metta in discussione la loro dipendenza ontologica da proprietà fisiche. Per esempio, la fitness, la proprietà biologica che un organismo ha di essere bene adattato all’ambiente, non è riducibile a una proprietà fisica ma è certamente dipendente da un complesso di proprietà fisiche, sopravviene 69

a una proprietà fisica (Chalmers 1996, p. 127). Chi difende questa prospettiva ritiene che il tipo di dualismo implicato dall’esistenza di proprietà funzionali non riducibili non sia tale da impensierire un materialista, perché ciò che conta è la dipendenza ontologica (diversamente dal caso delle proprietà non sopravvenienti, quale è, secondo Chalmers, la coscienza fenomenica, cfr. infra, cap. 8. Per Chalmers, la coscienza viola davvero il fisicalismo). L’intuizione di chi, invece, ritiene che il dualismo epistemologico sia incompatibile col fisicalismo è che quest’ultimo comporta che ogni proprietà vada in ultima analisi spiegata in un vocabolario fisico. Per esempio, Bickle afferma che il cosiddetto fisicalismo non riduzionistico non è affatto fisicalismo, in quanto nega che una scienza fisica matura possa spiegare gli aspetti essenziali del mentale. In questa prospettiva non può esserci un autentico monismo ontologico in concomitanza col dualismo epistemologico. Non si può tranquillamente sostenere che le proprietà mentali dipendono ontologicamente dalle proprietà fisiche se non si è in grado di giustificare, invocando leggi opportune, questa dipendenza, se non si riesce a spiegare il mentale col fisico. Il punto è, dunque, che non c’è accordo su che cosa si debba esattamente intendere per «fisicalismo». In conclusione, una qualche forma di dualismo sembra essere l’esito tipico del funzionalismo applicato al problema mente-corpo, ed anzi è probabilmente l’esito inevitabile di qualunque posizione che cerchi di coniugare il monismo ontologico con la peculiarità del mentale. L’atteggiamento metafisico oggi più diffuso in filosofia della mente consiste quindi nel mettere insieme monismo ontologico e dualismo epistemologico. Ironicamente, siamo così tornati a una situazione molto cartesiana, con le proprietà (o i concetti) al posto delle sostanze: da un lato abbiamo le proprietà mentali, dall’altro le proprietà fisiche, e non sappiamo bene se e come correlarle. Secondo alcuni ciò dimostra che il problema mente-corpo è ancora attuale e lontano dall’avere trovato una soluzione; secondo altri questa situazione è del tutto soddisfacente e non solleva un genuino problema filosofico. ❑ Riepilogo Il paradosso della causalità mentale consiste nell’impossibilità di tenere simultaneamente per buone le tre seguenti assunzioni: 70

1. gli stati mentali sono distinti dagli stati fisici; 2. gli stati mentali sono cause degli stati fisici (e viceversa); 3. solo gli stati fisici possono causare alcunché. La soluzione del paradosso passa forzatamente attraverso una rinuncia ad 1 oppure a 3, visto che 2 non è negoziabile (a meno di sostenere che gli stati mentali sono ragioni, non cause del comportamento, come pensavano Wittgenstein e i suoi allievi, cfr. supra, nota 6). La rinuncia a 3 comporta una forma di antinaturalismo che pochi, almeno tra coloro che lavorano a un’integrazione tra filosofia e scienza cognitiva, sarebbero disposti a sottoscrivere. La rinuncia ad 1 richiede di sposare o una versione di riduzionismo o una versione di funzionalismo non riduzionistico basato sulla teoria dell’identità di occorrenza. Nessuna delle due è del tutto soddisfacente: anche nella sofisticata versione di Kim, non è chiaro se il riduzionismo possieda le risorse per venire del tutto a capo dell’obiezione della realizzabilità multipla; quanto alle teorie non riduzionistiche (monismo anomalo, monismo nomologico, emergentismo), rischiano di essere compromesse, a seconda dei casi, con l’epifenomenismo, da un lato, e con la sovradeterminazione causale dall’altro. Chi, sia pure con sfumature diverse, insiste sull’identità di occorrenza mentale-fisico dovrà far fronte all’accusa di epifenomenismo; chi insiste sull’efficacia causale degli stati mentali in quanto mentali dovrà accettare qualche forma di sovradeterminazione causale. Il funzionalismo non riduzionistico, comunque elaborato, è una forma di dualismo epistemologico o dualismo delle proprietà. Si può essere completamente a proprio agio con questo stato di cose e considerare la questione mente-corpo sostanzialmente archiviata come problema filosofico o, invece, essere assai insoddisfatti e considerare la questione mentecorpo il problema della filosofia della mente, oggi come ieri.

s Cos’altro leggere Su tutti i temi trattati e in particolare sul problema della causalità mentale imperdibile J. Kim, La mente e il mondo fisico, McGraw-Hill, Milano 2000. Si vedano anche i capitoli 6 e 9 di J. Kim, Philosophy of Mind, Westview, Boulder 1996. Quest’ultimo è uno dei manuali di filosofia della mente migliori in assoluto. Molto utili i recenti lavori di Michele Di Francesco, come Causalità mentale, riduzione e fisicalismo non riduttivo, in «Sistemi intelligenti», XII, 1, pp. 77-93; Spiegare la mente, in P. Parrini (a cura di), Conoscenza e cognizione. Tra filosofia e scienza cognitiva, Guerini, Milano 2002, o il paragrafo 2.9, dal titolo Il problema della causalità mentale, in Introduzione alla filosofia della mente, Carocci, Roma 20022. 71

Gli argomenti per la realizzabilità multipla si trovano in H. Putnam, La natura degli stati mentali, in Mente, linguaggio e realtà, Adelphi, Milano 1987, e in J.A. Fodor, Special Sciences, in «Synthese», 28, pp. 77-115. Sulla nozione di sopravvenienza si vedano: J. Kim, Supervenience, in S. Guttenplan (a cura di), A Companion to the Philosophy of Mind, Blackwell, Oxford 1994; oppure, dello stesso autore, Supervenience as a Philosophical Concept, in «Metaphilosophy», 21, 1990, pp. 1-27. Un’altra buona trattazione, di livello meno introduttivo, si deve a T. Horgan, From Supervenience to Superdupervenience, in «Mind», 102, 1993, pp. 555-86. Il saggio fondamentale per il monismo anomalo è D. Davidson, Eventi Mentali, in Id., Azioni ed eventi, Il Mulino, Bologna 1996. Un’esposizione introduttiva si trova in M. De Caro, Dal punto di vista dell’interprete, Carocci, Roma 1998, che è peraltro un’eccellente introduzione a tutta la filosofia di Davidson. Un’introduzione alla filosofia della mente molto attenta alla riflessione davidsoniana è P. Engel, Introduction à la philosophie de l’esprit, La Découverte, Paris 1994. L’esposizione migliore del monismo nomologico è J.A. Fodor, Making Mind Matter More, in Id., A Theory of Content and Other Essays, MIT Press, Cambridge MA 1990. Sulle cause mentali eccellente l’antologia J. Heil, A. Mele (a cura di), Mental Causation, Clarendon-Oxford University Press, Oxford-New York 1993, che raccoglie una serie di articoli fondamentali, tra cui quelli citati in questo capitolo di Burge e Rudder Baker. Sulla causalità in generale si veda F. Laudisa, Causalità, Carocci, Roma 1999, oppure M. Kistler, Causalité et lois de la nature, Vrin, Paris 1999. Per un breve ed efficace excursus storico: P. Dessì, Causalità e filosofia, in «Sistemi Intelligenti», XI, 2, pp. 195-206. Sul dualismo delle proprietà si veda il capitolo 4 di D. Chalmers, La mente cosciente, McGraw-Hill, Milano 1999. Sul dualismo epistemologico molto interessante A. Civita, Saggio sul cervello e la mente, Guerini, Milano 1993, scritto da un punto di vista molto diverso da quello della filosofia analitica della mente.

Parte seconda

Mente-mondo

I problemi discussi in questa seconda parte nascono dall’idea, comune alla filosofia e alla scienza cognitiva, che la mente sia essenzialmente un sistema rappresentazionale, cioè che gli stati mentali siano rappresentazioni di stati di cose e oggetti del mondo. La domanda fondamentale che tale punto di vista solleva è: come fa la mente a rappresentare il mondo? Sebbene sul tema della rappresentazione mentale l’intreccio tra filosofia della mente e scienza cognitiva sia particolarmente fitto, il modo in cui la nozione di rappresentazione è elaborata e, di conseguenza, il tipo di problemi che vengono sollevati sono almeno in parte diversi. Per uno scienziato cognitivo dire che la mente rappresenta il mondo equivale a dire che la mente è un sistema di elaborazione delle informazioni: essa recupera e immagazzina informazioni allo scopo di assicurare un controllo efficace del comportamento. Le rappresentazioni mentali sono strutture dati che mediano le risposte comportamentali agli stimoli sensoriali. In questa prospettiva la domanda fondamentale è: come sono fatte le rappresentazioni? Per un filosofo della mente, invece, dire che gli stati mentali sono stati rappresentazionali significa tipicamente che essi possiedono (o vertono su) un contenuto, ed è alla natura di tale contenuto che egli è interessato in prima istanza. Il problema non verte tanto su come sono fatte le strutture dati interne, bensì su che tipo di cose sono i contenuti, e su come facciamo a individuarli e discriminarli. Quale che sia la prospettiva adottata, le modalità di rappresentazione mentale sono essenzialmente due: una è data dall’esperienza percettiva, l’altra è quella linguistico-concettuale all’opera nel pensiero. A ciascuna di queste sarà quindi dedicato un capitolo: il quarto a come ci è dato il mondo nel pensiero, il quinto a come ci è dato il mondo nella percezione, in particolare nella visione. Il sesto capitolo è dedicato al problema della rappresentazione mentale da un punto di vista più vicino a quello della scienza cognitiva: come problema di codifica di informazioni. Rispetto al resto del libro il capitolo 6 ha un carattere più informativo che problematico, dovendo dare un’idea, per quanto concisa, di quali sono state le proposte degli scienziati cognitivi in materia di rappresentazioni mentali. 73

Capitolo 4

Il contenuto intenzionale

1. La nozione di stato intenzionale Il problema più dibattuto nella filosofia della mente del Novecento è quello dell’intenzionalità. «Intenzionale» e «intenzionalità» sono termini tecnici della filosofia, che, nell’uso che ne viene fatto oggi, furono introdotti da Franz Brentano (1874). L’intenzionalità è la proprietà, peculiare degli stati mentali, di vertere su, o essere diretti verso, qualcosa. Per esempio, la mia credenza che c’è un gatto sul tappeto è diretta verso un oggetto o contenuto intenzionale, che è ciò che è espresso dall’enunciato «c’è un gatto sul tappeto». Credenze, desideri, intenzioni, ecc. sono stati intenzionali in quanto non si può credere, desiderare, intendere, ecc. senza credere, desiderare, intendere qualcosa di determinato. Le intenzioni nel senso comune della parola sono quindi un caso particolare di stati intenzionali. Brentano pensava che l’intenzionalità fosse l’essenza stessa del mentale, perché gli stati fisici non dipendono per la loro identità da questa relazione con un «oggetto» esterno; invece, ciò che individua uno stato mentale è determinato precisamente da ciò su cui esso verte, dal suo contenuto. Spesso ci si riferisce agli stati intenzionali con l’espressione «atteggiamenti proposizionali», o «stati di atteggiamento proposizionale». L’espressione, coniata da Moore e diffusa da Russell, deriva dal fatto che tipicamente attribuiamo stati mentali tramite un enunciato, detto appunto di attribuzione o di ascrizione, della forma (1)

X verbo che P,

dove X è un agente, verbo sta per crede/desidera/spera/ecc. e P è una proposizione. L’enunciato (1) esprimerebbe quindi un atteggiamento che l’agente nutre nei riguardi di una proposizione che espri75

me il contenuto intenzionale, ciò che si crede/desidera/spera/ecc. Che cosa esattamente siano le proposizioni è in realtà un punto assai dibattuto, e ad oggi non c’è alcun consenso su che tipo di cosa sia una proposizione, né tantomeno sul fatto che esse siano un ente metafisicamente legittimo. Non entreremo qui nel merito delle diverse caratterizzazioni che si possono dare delle proposizioni, limitandoci a quest’unica osservazione: si ritiene comunemente che, per esempio, «Parigi è sulla Senna» e «Paris est sur la Seine» siano due enunciati diversi che esprimono una stessa ed unica proposizione1. Le proposizioni sarebbero quindi, a differenza degli enunciati, oggetti astratti. D’ora in poi useremo sempre l’espressione «contenuto intenzionale», che non ci vincola ad alcuna particolare nozione di proposizione né all’idea stessa che i contenuti siano, o siano espressi da, proposizioni. Uno stato intenzionale è pertanto caratterizzato da due aspetti: il tipo di atteggiamento da un lato e il contenuto dall’altro. Due atteggiamenti dello stesso tipo, come credere che ci sia un gatto sul tappeto e credere che ci sia un cane sul balcone, sono diversi in quanto hanno un contenuto differente; per converso, uno stesso contenuto può essere comune a due atteggiamenti di tipo diverso, come nel caso di credere che X vincerà le elezioni vs. desiderare che X vincerà le elezioni. L’idea che molti stati mentali godano di una particolare proprietà che li caratterizza in modo peculiare potrebbe sembrare a prima vista un po’ bizzarra; e tuttavia la nozione di intenzionalità è implicita nel modello che il senso comune si fa dell’attività mentale: quando pensiamo o ragioniamo siamo impegnati in una sorta di discorso tra noi e noi, intratteniamo una certa relazione con dei contenuti (in quanto pensare è pensare qualcosa; non si può credere o desiderare senza credere o desiderare qualcosa) che sono rappresentati in qualche modo nella nostra mente. La nozione di intenzionalità rende cioè esplicita, prendendola sul serio, l’idea che quando pensiamo, desideriamo, speriamo, ecc. qualcosa, è in gioco una relazione tra due elementi: uno stato mentale e un contenuto, ciò su cui verte quello stato. Il problema fondamentale dell’intenzionalità può essere espresso dalla seguente domanda: come fa uno stato intenzionale a vertere 1 Ciò riflette l’intuizione che se io penso che Parigi è sulla Senna e il mio amico Pierre pensa che Paris est sur la Seine, stiamo pensando la stessa cosa, stiamo cioè nutrendo la stessa credenza.

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su qualcosa? Che cosa fa, per esempio, di una certa credenza la particolare credenza che è, la credenza che ha quel contenuto piuttosto che un altro? Questa domanda ne solleva tuttavia un’altra, che sembra essere ancor più basilare: come individuiamo i contenuti intenzionali? In altri termini, in base a quali criteri stabiliamo che due tokens di stati intenzionali esemplificano lo stesso tipo di stato? Una buona teoria dell’intenzionalità dovrà specificare sia i criteri di identità dei contenuti intenzionali (questione dell’individuazione del contenuto), sia in virtù di che cosa un certo stato intenzionale ha un dato contenuto, ovvero che cosa conferisce contenuto a uno stato intenzionale (questione della fissazione, o determinazione, del contenuto)2. Come abbiamo visto nel capitolo 2, gli stati mentali sono comunemente considerati stati rappresentazionali. Per esempio, credere che la neve è bianca è rappresentarsi il mondo in un certo modo. È chiaro allora come il tema dell’intenzionalità sia strettamente legato alla questione, scientifica non meno che filosofica, della natura delle rappresentazioni mentali. La scienza cognitiva ha fatto ampio uso dell’idea che la mente sia un sistema rappresentazionale, cioè un sistema che produce il comportamento sulla base di rappresentazioni interne che veicolano informazioni sul mondo. Le rappresentazioni mentali, proprio in quanto rappresentazioni di qualcosa, sono enti mentali dotati di un contenuto; e da ciò si vede che quello della rappresentazione e quello dell’intenzionalità sono due facce di uno stesso problema. Forse lo scienziato cognitivo può limitarsi a specificare il formato di una rappresentazione mentale, cioè a ipotizzare in quali modi le informazioni rilevate dai sistemi sensoriali vengono strutturate ai fini di rendere efficace e cognitivamente plausibile la loro elaborazione; ma il filosofo della mente non può fare a meno di interrogarsi su che cosa voglia dire che uno stato mentale è intenzionale, cioè portatore di un contenuto semantico determinato.

2 Non abbiamo ancora dato una risposta alla domanda più fondamentale: che tipo di cosa sono i contenuti mentali? (questione della natura del contenuto). Come vedremo nel paragrafo 3, tuttavia, rispondere alla questione di che cosa fissi, o determini, il contenuto comporta di prendere una posizione anche sulla questione della sua natura.

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2. Spiegare l’intenzionalità: strategie generali L’importanza della nozione di contenuto intenzionale emerge con particolare evidenza nella psicologia del senso comune, che è – lo ricordiamo – quello schema di interpretazione e previsione del comportamento basato sull’idea di invocare un opportuno stato mentale per giustificare una certa azione. Per esempio, siamo inclini a spiegare il fatto che una persona sia entrata in una panetteria invocando il suo desiderio (fine, intenzione) di mangiare una focaccia unitamente alla sua credenza che in quel negozio vendano della focaccia. Si possono fare esempi più complicati, ma lo schema secondo cui una certa azione o comportamento è spiegato da una coppia 〈credenza, desiderio〉 funziona assai bene in moltissimi casi. La psicologia del senso comune sembra dunque comportare l’idea che il contenuto intenzionale degli stati mentali svolga un cruciale ruolo esplicativo: se voglio spiegare perché il tale è entrato in panetteria, non posso invocare una coppia arbitraria di stati mentali, bensì un desiderio e una credenza con un contenuto determinato, per esempio un desiderio di mangiare della focaccia. Se il desiderio fosse stato di acquistare delle sigarette, l’azione non sarebbe stata appropriata. La differenza tra desiderare di mangiare una focaccia e desiderare di acquistare delle sigarette è una differenza di contenuto. La psicologia del senso comune è pertanto una psicologia intenzionale, cioè una sorta di teoria intrinsecamente compromessa con la tesi secondo cui gli stati mentali hanno intenzionalità. Nondimeno, non tutti sono convinti della validità della psicologia intenzionale e dell’idea che l’intenzionalità sia una genuina proprietà della mente o addirittura la proprietà che contraddistingue il mentale. Abbiamo visto nel primo capitolo che si possono avere opinioni diverse su quale sia la natura degli stati mentali; è chiaro che, in relazione a quale metafisica della mente nel suo complesso si è inclini ad adottare, si nutrirà un corrispondente atteggiamento nei riguardi dell’intenzionalità. Per esempio, un eliminativista sosterrà che la psicologia intenzionale è una teoria falsa in quanto non esistono gli stati mentali nel modo in cui li concepisce il senso comune. Schematizzando, le posizioni in campo possono essere ricondotte alle tre seguenti: a) realismo intenzionale. L’intenzionalità è una proprietà genuina degli stati mentali e la psicologia del senso comune è una teoria vera. 78

b) eliminativismo. La psicologia del senso comune è una teoria sbagliata, basata su concetti vuoti. c) interpretativismo (o «strategia dell’interpretazione»). La psicologia del senso comune consente di fare previsioni attendibili non perché gli stati che essa postula siano genuini enti psichici, suscettibili di una caratterizzazione scientifica, bensì in quanto essi danno luogo a una rete concettuale coerente introdotta per razionalizzare il comportamento. a) Il realismo intenzionale e la naturalizzazione dell’intenzionalità. Il realismo intenzionale è la tesi secondo cui l’intenzionalità e la psicologia del senso comune sono da prendere sul serio. La psicologia popolare funziona perché è vera, e dire che è vera implica che i concetti che essa utilizza – quelli di stato mentale e di contenuto – hanno un referente reale che può essere appropriatamente individuato da una psicologia scientifica. In questo senso, secondo il realismo intenzionale, psicologia del senso comune e psicologia scientifica sono in larga misura convergenti. La seconda fornisce una descrizione scientificamente appropriata degli oggetti e fenomeni postulati dalla prima. Ciò fa del realismo intenzionale un programma di ricerca di tipo naturalistico: poiché l’intenzionalità è considerata una proprietà scientificamente rispettabile, al realista intenzionale spetta il compito di far vedere come caratterizzare tale proprietà in un vocabolario naturalistico. Questa caratterizzazione, ovviamente, non deve a sua volta fare riferimento a proprietà semantiche o intenzionali. Il filosofo che ha più strenuamente difeso il realismo intenzionale è Fodor. La motivazione primaria alla base della TCRM è proprio quella di elaborare una psicologia scientifica a cui ridurre la psicologia del senso comune. A rigore, più che di riduzione, si deve parlare di sopravvenienza, così da ammettere la possibilità, intuitivamente persuasiva, che uno stesso contenuto sia veicolato da rappresentazioni mentali diverse3. Ma molti altri filosofi hanno proposto ricette per naturalizzare l’intenzionalità. Il problema comune a tutte queste teorie è quello di far vedere in che modo una relazione semantica qual è quella che lega una rappresentazione mentale al suo contenuto possa essere caratterizzata in termini naturalistici senza ri3 La relazione tra stati mentali e stati computazionali è pertanto analoga a quella tra stati computazionali e stati cerebrali. In questa prospettiva gli stati mentali sopravvengono agli stati fisici per il tramite degli stati computazionali.

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correre ad altri concetti semantici o intenzionali. Si tratta di una difficoltà assai grande. Sembra infatti connaturata alla nozione stessa di rappresentazione l’idea che ci possano essere rappresentazioni erronee. Una credenza può essere vera o falsa (può cioè rappresentare uno stato di cose fedelmente – veridicamente – o meno), un desiderio potrà essere soddisfatto oppure no, e anche una rappresentazione percettiva può essere più o meno aderente alla realtà (cfr. il capitolo successivo). Ora, per poter dire che una rappresentazione rappresenta erroneamente devo disporre di un criterio che stabilisca quello che la rappresentazione dovrebbe rappresentare e di fatto non rappresenta, devo cioè disporre di una norma. E come può una norma essere caratterizzabile in termini puramente naturalistici? Quella di verità/falsità sembra essere la nozione normativa e intenzionale per eccellenza. D’altra parte, il fatto che la mente, o il cervello, rappresenti informazioni relative a stati di cose e oggetti del mondo è un fenomeno naturale. È chiaro come, da un punto di vista biologico, gli esseri umani possano essere considerati come il gradino più alto di una scala evolutiva nella quale troviamo esseri di livello più elementare che esibiscono chiaramente capacità o protocapacità rappresentazionali. Poiché dire che la mente rappresenta il mondo equivale a dire che la mente elabora contenuti, la nozione di stato intenzionale sembra essere sotto questo aspetto del tutto naturalistica. Il cuore del problema dell’intenzionalità risiede proprio in questa tensione tra aspetto normativo e aspetto naturale. Benché in ogni singola teoria si possa trovare un tentativo di venire a capo di questa tensione, difficilmente si potrebbe sostenere che ci sia qualcuno che è del tutto riuscito nell’intento. Nel paragrafo successivo daremo conto delle singole proposte, che essenzialmente si distinguono l’una dall’altra per il tipo di semantica. b) Eliminativismo. Abbiamo già presentato questa posizione nel primo capitolo, come atteggiamento sulla natura della mente in generale. Non c’è bisogno di aggiungere altro: gli stati mentali così come concepiti dal senso comune non esistono. A fortiori non esiste l’intenzionalità, se non come il mero fatto che il cervello codifica informazioni sul mondo esterno. La neuroscienza, o almeno una psicologia fortemente vincolata dalla ricerca neurologica, ben rappresentata dal paradigma di ricerca connessionista (cfr. infra, 6.2, 7.1), è il luogo appropriato in cui cercare una risposta scientifica al problema di come fa il cervello a «rappresentare» proprietà del mondo. 80

c) La strategia dell’interpretazione. Questa posizione, la cui formulazione si deve a Dennett, può essere vista come una complessa mediazione fra le due precedenti. Da un lato si ritiene che il vocabolario e il tipo di spiegazione della psicologia del senso comune vadano presi sul serio; dall’altro si afferma che essi sfuggono a un resoconto scientifico. C’è una cesura piuttosto netta tra lo spazio logico della spiegazione intenzionale e lo spazio logico della mente come oggetto di indagine di una scienza della natura: gli stati mentali del senso comune non sono proiettabili sugli stati eventualmente individuati da una psicologia scientifica. Si può anzi dubitare della fondatezza di una psicologia scientifica concepita alla maniera del funzionalismo computazionale nella versione TCRM. Tuttavia ciò non fa di Dennett un antinaturalista, perché egli è interessato all’elaborazione di una psicologia scientifica; secondo lui, anche se non c’è una corrispondenza diretta tra gli stati del senso comune e quelli individuati da una psicologia scientifica, la seconda può dirci cose molto interessanti sul funzionamento della mente4. Credenze e desideri, per Dennett, sono stati che le persone attribuiscono nell’ambito di una strategia interpretativa messa in atto per razionalizzare il comportamento altrui, per dare un senso agli altri e a noi stessi. In una formula, l’intenzionalità, lungi dall’essere una proprietà genuina della mente-cervello, è soltanto negli occhi dell’interprete; gli stati intenzionali emergono meramente come risultato di un’attività interpretativa. La strategia dell’interpretazione, tuttavia, è tutt’altro che arbitraria, priva di un serio fondamento: la psicologia del senso comune è «un calcolo razionalistico di interpretazione e previsione [...] che si è evoluto perché funziona, e che funziona perché si è evoluto» (1981, pp. 74-75). Più che vera, essa è strumentalistica, finalizzata a un certo obiettivo, e in questo senso gli stati mentali che essa postula possono essere assimilati a degli abstracta 5, 4 Invece, quando autori come Putnam o Burge affermano che l’intenzionalità non è una proprietà naturale né è riducibile a una proprietà naturale, intendono ciò in modo radicalmente antinaturalistico: non esiste una psicologia scientifica nemmeno remotamente riconducibile alla psicologia del senso comune. La cesura tra il mondo naturale e il mondo «intenzionale» non potrebbe essere più netta. Come abbiamo visto in 2.4 e in 3.2, per questi autori ciò che compete alla filosofia è l’intenzionale, non il naturale. 5 L’espressione è di Reichenbach, che li contrapponeva agli illata, dotati di un vero e proprio riferimento empirico. In una teoria fisica, per esempio, il centro di massa di un corpo rigido è un abstractum, mentre la sua massa è un illatum.

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enti prodotti da calcoli o costrutti logici, come l’equatore o il baricentro. Di concetti siffatti si fa ampio uso anche nelle teorie scientifiche e la loro legittimità è determinata dal ruolo o funzione che svolgono nella teoria, non dal loro avere un referente reale. Queste affermazioni possono essere lette come una tesi di ispirazione comportamentista sulla natura degli stati mentali. Dennett riconosce esplicitamente questo debito, sottolineando come Ryle avesse ben compreso che gli stati mentali sono costrutti teorici introdotti per razionalizzare il comportamento; il comportamentismo logico era soltanto viziato da un ingiustificato pregiudizio antiscientifico, che tuttavia non ne è necessariamente un corollario. La posizione di Dennett è sottile, e non stupirà che gli sia stata rivolta l’accusa di essere un eliminativista mascherato: ritenere che credenze e desideri non denotino reali enti psichici non equivale forse a sostenere che gli stati mentali non esistono? Dennett ha replicato che questa critica si basa su una considerazione ingenua e superficiale di che cosa è «reale»: ci sono molti sensi diversi in cui si può dire che una cosa è reale. I numeri sono reali ma, verosimilmente, non alla stessa stregua dei tavoli. E non c’è forse un senso in cui l’equatore o i centri di massa sono perfettamente reali? Dennett respinge l’inferenza, nella quale incorre erroneamente l’eliminativista, secondo cui se gli stati mentali non hanno proprietà neuronali o biochimiche, allora non esistono. Tuttavia, nella misura in cui egli nega che gli stati mentali del senso comune abbiano un correlato fisico, la sua strategia dell’interpretazione può forse essere assimilata, sul piano strettamente metafisico, all’eliminativismo. Beninteso, di quest’ultimo egli non condivide le tesi più estreme, proprio in quanto riconosce un notevole ruolo e valore allo schema concettuale del senso comune, che, lungi dall’essere un’approssimativa e inaffidabile collezione di concetti, è bensì il prodotto di una struttura psichica selezionata per il vantaggio evolutivo che conferisce. Più di recente (1991a), Dennett ha cercato di dare una dimensione meno strumentale e «più reale» agli stati mentali, proponendo che questi siano dei real patterns, strutture emergenti che esistono solo in quanto qualcuno le guarda, ma che allo stesso tempo non si possono non vedere. Il seguente esempio chiarirà quello che Dennett ha in mente. Si immagini una simulazione grafica al computer in cui alcuni puntini neri si spostano da una zona all’altra dello schermo. La dinamica di questi spostamenti non è completamente casuale, bensì è costruita in modo tale da far emergere con chiarezza con82

figurazioni regolari che un osservatore interpreta in modo naturale, senza sforzo alcuno da parte sua, come «agenti» che, per esempio, lottano, fuggono, si divorano. Ciò che abbiamo sotto gli occhi è una sorta di «dramma intenzionale», sebbene sullo schermo non vi siano che puntini in movimento. Ora, anche se saremmo inclini a dire che tali pattern sono interpretati come agenti piuttosto che essere dei veri agenti, la costanza o regolarità dell’interpretazione, dovuta ai principi stessi di funzionamento del nostro sistema visivo, induce ad accreditare ai pattern uno statuto oggettivo e quindi in qualche senso reale. Due sono pertanto gli aspetti fondamentali della nozione di pattern: il primo è che un pattern emerge solo in relazione a un punto di vista, solo se – potremmo dire – c’è qualcuno che lo guarda. L’altro aspetto è che il pattern emerge con regolarità: si manifesta ogni volta che viene osservato, quale che sia l’osservatore. È chiaro quindi in che senso gli stati mentali siano nello stesso tempo oggettivi («reali») e prodotto di interpretazioni. Credenze e desideri sono strutture astratte emergenti, che non possiamo fare a meno di attribuire per dare un senso all’agire degli uomini. La strategia dell’interpretazione differisce dal realismo intenzionale anche dal punto di vista computazional-rappresentazionale (cioè nel modo di concepire la psicologia scientifica), perché non prevede che esistano rappresentazioni mentali nel senso in cui le concepisce Fodor. Un sistema, naturale o artificiale che sia, può essere legittimamente interpretato come un genuino agente intenzionale sulla base di criteri comportamentali, ma a questo scopo non è affatto necessario che nella «mente» del sistema ci siano contenuti codificati esplicitamente. Si può cogliere bene questo punto di vista in un famoso esempio di Dennett (1977): un programma che gioca a scacchi può a un certo punto comportarsi come se avesse la volontà di sviluppare la regina, ma non è necessario (e in generale non sarà affatto così) che ci sia nel suo «cassetto dei desideri» un’istruzione esplicita al riguardo – l’enunciato «sviluppare la regina». È la struttura di controllo del programma, la sequenza di istruzioni che lo costituisce, a incorporare implicitamente ciò che noi chiamiamo desiderio o intenzione di sviluppare la regina. Si badi a non interpretare questa tesi come se Dennett volesse dire che noi siamo veri agenti intenzionali e il sistema artificiale no. È esattamente il contrario: il sistema artificiale è un genuino agente intenzionale perché soddisfa i criteri di razionalità richiesti dalla strategia dell’interpretazione. 83

Coerentemente con tale punto di vista, gli approcci della scienza cognitiva a cui Dennett guarda con maggior simpatia sono la semantica procedurale e il connessionismo. Per converso, alla posizione di Dennett si ispira un importante programma di ricerca dell’intelligenza artificiale più recente, quello di Rodney Brooks (cfr. infra, 6.3). 3. Semantica delle rappresentazioni mentali: le teorie del contenuto e le loro difficoltà Se non si è disposti a eliminare in modo puro e semplice la nozione di stato intenzionale, prendendo la psicologia del senso comune sul serio, è inevitabile scontrarsi con i problemi sollevati dall’elusiva nozione di contenuto. Una buona teoria dell’intenzionalità deve caratterizzare in termini naturalistici la nozione di contenuto, ovvero dare una risposta, senza chiamare in causa altri concetti semantici, alle già citate questioni della determinazione e dell’individuazione: 1. in virtù di che cosa uno stato intenzionale ha il contenuto che ha? 2. qual è il principio di individuazione del contenuto? Ovvero, in base a quali criteri possiamo dire che due stati intenzionali sono identici o distinti? A queste dobbiamo aggiungere una terza domanda: in che modo i contenuti sono rappresentati? Essendo in larga misura empirico, il problema del modo in cui la mente codifica i contenuti, o problema del formato delle rappresentazioni mentali, è stato cospicuamente analizzato dalla scienza cognitiva. Lo affronteremo nel capitolo 6. Come abbiamo visto nel capitolo 2, la TCRM – la versione fodoriana del funzionalismo computazionale – risponde alla prima domanda nel modo seguente: uno stato mentale, per esempio la credenza che Minou è sul tappeto, ha il contenuto che ha se e solo se nel cassetto delle credenze c’è un’iscrizione dell’enunciato MINOU È` SUL TAPPETO (uso il maiuscoletto per evidenziare che si tratta di un enunciato del «mentalese»). Pertanto nella TCRM uno stato mentale deriva le sue proprietà semantiche e causali dalla rappresentazione mentale associata a quello stato. In questo modo, però, il problema dell’origine del contenuto degli stati mentali è solo spostato, diventando il problema di che cosa conferisce contenuto a una rappresentazione mentale, in questo caso a un enunciato in mentalese. 84

In effetti non è obbligatorio caratterizzare gli stati mentali come relazioni con rappresentazioni (concezione relazionale): sono state proposte teorie semantiche associate ad una concezione monadica degli stati mentali (da Loar 1981; Schiffer 1982; Stalnaker 1984), in base alla quale trovarsi in uno stato mentale non comporta intrattenere una relazione con una rappresentazione. I problemi relativi al contenuto, tuttavia, non sono diversi nei due casi: semplicemente, nella concezione monadica il contenuto viene attribuito direttamente allo stato mentale, senza la mediazione di una rappresentazione esplicita. Per comodità espositiva, d’ora in poi assumeremo che ci siano rappresentazioni mentali portatrici di contenuto, per esempio, formule del linguaggio del pensiero. Avremo cura di segnalare quando questa assunzione determini una differenza di rilievo. 3.1. Determinazione e natura del contenuto: tre teorie A un livello di analisi non troppo raffinato, possiamo distinguere fondamentalmente tre tipi di teorie del contenuto: le semantiche del ruolo inferenziale, le semantiche causali-informazionali (o causali pure), e le semantiche teleologiche (o teleo-causali). Semantiche del ruolo inferenziale. Nelle semantiche del ruolo inferenziale ciò che conferisce contenuto a una rappresentazione è il complesso dei processi cognitivi, e specificamente inferenziali, in cui essa è coinvolta. Infatti il contenuto di una rappresentazione è determinato dall’insieme delle inferenze che quella rappresentazione autorizza e dall’insieme delle inferenze da cui la rappresentazione può essere derivata. Per esempio, se io credo che i gatti sono animali («Se X è un gatto, allora X è un animale» è un’inferenza che sono disposto a trarre) e che i gatti hanno la coda, ESSERE UN ANIMALE e AVERE LA CODA fanno parte del contenuto della rappresentazione GATTO. Tali teorie si ispirano da un lato a una concezione della semantica vicina a quella del secondo Wittgenstein – in base alla quale il significato di un’espressione linguistica scaturisce dalla molteplicità degli usi dell’espressione –, e dall’altro alla concezione funzionalista della mente, di cui replicano, al livello delle rappresentazioni, l’idea che uno stato mentale sia individuato dal ruolo causalefunzionale che esso svolge nel sistema-mente preso nel suo complesso. Uno stato mentale occupa infatti un certo ruolo causale se e solo se la rappresentazione mentale corrispondente occupa un cer85

to ruolo inferenziale. Per esempio, il pensiero che qualcosa è un gatto causa il pensiero che qualcosa è un animale in quanto dal contenuto del primo pensiero si può inferire il contenuto del secondo pensiero (e viceversa). In questo senso possiamo dire che nelle semantiche del ruolo inferenziale proprietà causali-funzionali e proprietà semantiche sono la stessa cosa (a differenza che nella TCRM, dove le due classi di proprietà sono indipendenti, in quanto il ruolo inferenziale non è considerato una proprietà semantica). Semantiche causali-informazionali. L’idea-guida delle teorie causali pure è che R rappresenta S se e solo se S causa R. Si considerino le seguenti analogie: le macchie rosse rappresentano il morbillo, perché il morbillo è la causa di quella particolare eruzione cutanea. Oppure: il contachilometri sul cruscotto rappresenta la velocità dell’automobile perché una variazione della velocità causa una corrispondente variazione della lancetta. L’idea è dunque che il contenuto di una rappresentazione è dato da ciò con cui la rappresentazione covaria in base a una legge causale. È importante che il nesso causale in questione non sia meramente occasionale, bensì l’espressione di una regolarità nomologica, di una legge, altrimenti molte cose potrebbero essere indebitamente identificate con il contenuto di una rappresentazione, per esempio l’occorrenza di un’altra rappresentazione: il pensiero che è cominciato l’inverno potrebbe causare il pensiero che tra poco nevicherà, ma il pensiero che tra poco nevicherà non ha per contenuto il (l’occorrenza del) pensiero che è cominciato l’inverno. Il caso tipico, potremmo dire il modello canonico, delle teorie causali è quello che lega una rappresentazione atomica (lessicale) alla proprietà che essa denota: GATTO, per esempio, ha per contenuto la proprietà di essere un gatto, perché imbattersi in un gatto in carne ed ossa causa sistematicamente (salvo eccezioni particolari) un’occorrenza di GATTO. La semantica della TCRM (cfr. supra, 2.3) è una buona rappresentante di questo tipo di teorie. Secondo Fodor le espressioni del linguaggio del pensiero hanno un unico valore semantico, il loro riferimento, e il riferimento è considerato essere il converso di una relazione causale. A seconda del tipo di espressione (atomica, complessa non enunciativa, complessa enunciativa), il contenuto sarà quindi ciò a cui l’espressione si applica: un individuo, una classe di individui (più precisamente, la proprietà che determina quella classe), o ciò che rende vera l’espressione, le sue condizioni di verità. 86

Semantiche teleo-causali. Qui l’idea è che il contenuto di uno stato mentale è determinato dallo scopo o funzione biologica che esso assolve. Si tratta di teorie teleologiche, in quanto ciò che uno stato rappresenta è determinato dalla finalità della rappresentazione. Nella versione di Ruth Garrett Millikan (1984; 1989) una rappresentazione mentale acquisisce il suo contenuto perché è stata selezionata dall’evoluzione a questo scopo: si presume che la selezione naturale produca strutture per realizzare un certo telos, che individua la loro funzione. Gli stati mentali hanno la funzione di veicolare il loro contenuto nello stesso senso in cui il cuore ha la funzione di pompare il sangue. Come un organo ha sviluppato una certa funzione perché ciò conferisce un vantaggio adattativo, analogamente gli stati mentali hanno sviluppato la funzione rappresentazionale perché ciò conferisce agli agenti un indubbio vantaggio adattativo: rappresentare serve ad anticipare il futuro e fare piani comportamentali. Obiezioni alle tre teorie. L’obiezione fondamentale alle teorie del ruolo inferenziale è che il contenuto ha una dimensione referenziale, o rappresentazionale in senso proprio, che non può essere catturata da una mera rete di inferenze: nessun legame inferenziale può dar conto del fatto che la rappresentazione mentale GATTO si riferisce ai gatti in carne ed ossa. Le relazioni inferenziali tra espressioni linguistiche non possono di per sé essere significanti se almeno alcune espressioni non sono referenzialmente ancorate a qualche elemento del mondo. Spesso questa obiezione viene formulata dicendo che gli stati mentali del senso comune sono individuati almeno in parte sulla base di proprietà extramentali: si può ipotizzare una situazione in cui due agenti si trovano esattamente nello stesso stato interno, e nondimeno nutrono stati mentali diversi. Espressa in questi termini l’obiezione, che è alla base dell’influente posizione filosofica nota come «esternismo», verte sui criteri di identità dei contenuti, e sarà discussa a fondo nel paragrafo successivo. L’obiezione fondamentale alle teorie causali pure è che a volte una rappresentazione non è causata dal suo contenuto. Per esempio, di notte io potrei scambiare una capra per una pecora; in questo caso un’occorrenza della rappresentazione PECORA viene causata da una capra, e in base alla teoria questo comporta che il contenuto di PECORA includa le capre. Più in generale, molte cose che non sono pecore possono causare, anche sistematicamente, PECORA: immagini 87

di pecore, belati, ecc. Questo è noto come problema della disgiunzione (o della rappresentazione erronea). Fodor ha risposto a questa obiezione con la cosiddetta teoria della dipendenza asimmetrica. L’idea è, in buona sostanza, che le relazioni causali spurie possono instaurarsi soltanto perché c’è il nesso causale appropriato: il fatto che i pensieri che vertono su una pecora (chiamiamoli, per brevità, «pecora-pensieri») possano essere in qualche caso causati da capre o magari da vitelli dipende dal fatto che i pecora-pensieri sono normalmente causati da pecore, ma non viceversa. Il fatto stesso che nel caso citato diciamo di aver scambiato una capra per una pecora e non viceversa presuppone che esistano pecore che causano PECORA. Diversi autori hanno tuttavia presentato dei controesempi alla teoria della dipendenza asimmetrica, che è quindi considerata dai più inadeguata. Si immagini, per esempio (Baker 1991), che in un mondo ove vi sono sia gatti sia robogatti, cioè automi superficialmente indistinguibili dai gatti, una bambina sia esposta a molti esemplari di robogatti, ciascuno dei quali causa l’occorrenza di una rappresentazione, sia essa #MIAO#. Successivamente, la bambina vede un gatto autentico, che causa lo stesso token. Qual è, allora, il contenuto di #MIAO#? La risposta per la quale propende Fodor, che #MIAO# significa entrambe le cose (gatto v robogatto), è afflitta da due difficoltà. In primo luogo, essa autorizza una proliferazione di predicati disgiuntivi: ogni qual volta le procedure di discriminazione non sono banali, si ammette che sia in gioco un concetto disgiuntivo. In secondo luogo, quando la bambina impara a distinguere i gatti dai robogatti, ragionevolmente descriverà le sue precedenti associazioni tra #MIAO# e robogatti come degli errori, eppure la teoria predice che errori non siano, visto che i robogatti stanno nell’estensione di #MIAO#. Pertanto la teoria della dipendenza asimmetrica non sembra avere le risorse per discriminare sistematicamente i nessi causali semanticamente pertinenti da quelli che non lo sono. La bizzarria dell’esempio non deve indurre il lettore a pensare che esso costituisca un’eccezione improbabile: per costruire un controesempio basta prendere due classi di oggetti superficialmente indistinguibili, o distinguibili solo da un esperto (lecci e roveri, muli e bardotti, ecc.) e ipotizzare che una persona fissi inizialmente una rappresentazione disgiuntiva, salvo apprendere in un secondo momento la differenza. Qui si vede bene all’opera il conflitto tra norma e natura cui si accennava. Il maggior pregio delle teorie teleologiche consiste proprio nel fatto che esse sembrano avere le risorse per venire a capo del pro88

blema della rappresentazione erronea. Infatti l’appello alla funzione consente di scartare certi nessi causali non pertinenti: uno stato mentale rappresenta correttamente quando le circostanze che hanno causato una sua occorrenza sono dello stesso tipo di quelle che hanno determinato evolutivamente che quel tipo di stato si costituisse. Per esempio, anche se la lingua di una rana scatta fulmineamente qualunque cosa vagamente somigliante a una mosca entri nel suo campo visivo, in particolare quando non ci sono affatto mosche ma soltanto puntini scuri proiettati, l’appello alla funzione evolutiva ci consente di escludere che la rappresentazione che guida tale comportamento sia MOSCA v PUNTINO o magari PICCOLO OGGETTO VELOCE E SCURO. È precisamente in virtù del fatto che la struttura mentale pertinente si è evoluta per rappresentare le mosche – ha per contenuto le mosche – che possiamo dire che la rana in laboratorio viene ingannata, ha una rappresentazione erronea6. Permangono tuttavia alcune difficoltà. Quella più generale verte sul fatto che le teorie teleo-causali inferiscono dall’utilità di una certa capacità cognitiva, in questo caso quella di rappresentare, che tale capacità sia stata selezionata dall’evoluzione. Questo presupposto è stato messo in discussione da molti biologi evoluzionisti, come Ernst Mayr, e come minimo si deve ammettere che esso va valutato caso per caso con grande prudenza. Una seconda difficoltà è che è difficile vedere come molti stati mentali possano avere una funzione adattativa. Qual è la funzione, per esempio, dei desideri (presumibilmente moltissimi) che non possiamo soddisfare, come parlare con un amico scomparso? Possiamo formulare questo problema dicendo che la teoria teleologica è troppo debole per dar conto della nozione ordinaria di contenuto: in generale, i nostri stati mentali sono troppo «raffinati» rispetto agli stati mentali di animali che spesso vengono menzionati come esempi di stati con funzione adattativa. D’altra parte, all’opposto, la teoria è anche troppo restrittiva perché siamo inclini ad attribuire stati mentali dotati di contenuto rappresentazionale anche a sistemi non biologici, per esempio alle macchine, o, più in generale, a sistemi che non hanno una storia evolutiva, per esempio a un mio ipotetico gemello molecolare creato istantaneamente.

6 Ignoriamo alcune obiezioni di rilievo che sono state mosse all’idea che la funzione evolutiva individui inequivocabilmente il contenuto in casi del genere. Cfr. Dretske 1986 e Fodor 1990, capp. 3-4.

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3.2. Individuazione del contenuto: internismo/esternismo Sulla questione dell’individuazione i filosofi si sono essenzialmente divisi fra due posizioni. Secondo l’internismo, il contenuto è determinato esclusivamente da fattori intramentali, interni alla testa delle persone. Ne consegue che due individui che si trovano nello stesso stato interno, due individui indistinguibili sotto l’aspetto fisico, e quindi sotto l’aspetto computazionale, nutriranno lo stesso stato mentale. Altrimenti detto, gli stati mentali sopravvengono agli stati computazionali, e questa può anzi essere considerata una buona ragione per sposare l’internismo. In base all’esternismo, invece, il contenuto di uno stato mentale è determinato almeno in parte dall’ambiente. Due persone poste in due ambienti diversi possono trovarsi in identiche condizioni interne e nondimeno nutrire stati mentali differenti. Spesso il contenuto individuato in termini di fattori interni viene detto contenuto stretto, mentre il contenuto individuato in termini di fattori esterni viene detto contenuto ampio. Non è difficile vedere che le semantiche del ruolo inferenziale, se considerate dal punto di vista naturalistico qui adottato, sono teorie internistiche7, mentre le teorie causali e teleologiche sono teorie esternistiche. L’esternismo, in questa o quell’altra specifica versione, sembra oggi godere del favore della maggioranza degli studiosi. L’argomento fondamentale per l’esternismo, la cui formulazione originaria si deve a Putnam (1975b), è stato infatti considerato assai persuasivo. Raccontiamolo. Si immagini un mondo, Terra gemella, in tutto e per tutto identico al nostro, salvo che la parola «acqua» è usata per riferirsi a una sostanza superficialmente indistinguibile dall’acqua ma con una diversa struttura chimica, la cui formula è XYZ. Su Terra gemella ciò che esce dai rubinetti è XYZ, i fiumi e i laghi sono fatti di XYZ e così via. Ora, supponiamo che sui rispettivi pianeti ci siano due agenti, Oscar ed Elmer, identici «molecola per molecola», e che questi a un certo momento proferiscano entrambi un enunciato come «L’acqua è dissetante». Ebbene, secondo Putnam questa situazione mostra che ci sono casi in cui, a parità di ciò che i due gemelli hanno in mente – in questo caso, a parità di rappresentazione mentale con7 Questa è in realtà un’affermazione molto grossolana, nella quale almeno alcuni sostenitori delle semantiche del ruolo inferenziali, come Robert Brandom, non si riconoscerebbero. Ma al livello di analisi al quale qui ci muoviamo, l’approssimazione può essere accettabile.

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nessa alla parola «acqua» –, ciò a cui essi si riferiscono con la parola «acqua» è diverso: uno si riferisce ad H2O, l’altro a XYZ. È importante sottolineare che, secondo Putnam, questo sarebbe stato vero anche prima del 1750, cioè prima che si scoprisse che l’acqua è H2O: il riferimento di un termine di sostanza o specie naturale è quello che è indipendentemente da ciò che la gente ne sa, dove «gente» può comprendere un’intera comunità linguistico-culturale. Inoltre, nella misura in cui si ritiene che una differenza di riferimento debba determinare anche una differenza di significato, anche il significato di «acqua» è diverso nei due casi. Così esposta, questa è una tesi di filosofia del linguaggio: essa stabilisce che significato e riferimento di alcune espressioni del linguaggio naturale possono variare a parità di stati mentali (di credenze). Successivamente, tuttavia, Putnam ha accreditato l’interpretazione mentalistica della sua tesi, in base alla quale anche il contenuto di uno stato mentale, per esempio di una credenza, può variare a parità di condizioni interne, cioè a parità di stati cerebrali e di stati computazionali. La credenza di Oscar che l’acqua è dissetante verte su H2O ed è pertanto diversa (= ha un diverso contenuto) dalla credenza di Elmer che l’acqua è dissetante, che verte su XYZ. La tesi fondamentale dell’esternismo del contenuto mentale può pertanto essere formulata nel modo seguente: a parità di fattori interni, il contenuto di uno stato mentale può essere diverso: l’ambiente può modificare il contenuto. Discussione. L’esternista insiste tipicamente sul fatto che la sua posizione rivendica l’intuizione del senso comune, in base alla quale gli stati mentali sono valutabili semanticamente (le credenze sono vere o false, i desideri sono soddisfacibili o insoddisfacibili) e sono individuati precisamente sulla base della proprietà pertinente per la valutazione semantica: le condizioni di verità. Il contenuto della credenza che ci sia della birra in frigorifero, per esempio, è lo stato di cose che, se realizzato, renderebbe vera la credenza, l’esserci della birra in frigorifero. Se dunque, a parità di stati interni, le condizioni di verità sono diverse, gli stati mentali devono essere considerati diversi. È la presenza di XYZ, non di H2O, a rendere vera la credenza di Elmer che l’acqua sia dissetante. L’internista può tuttavia ribattere che c’è un senso del tutto chiaro in cui i due gemelli si trovano nello stesso stato mentale: le rispettive rappresentazioni mentali che essi associano alla parola «ac91

qua» sono identiche, nel senso che, per ipotesi, tutti i nessi inferenziali pertinenti, così come le capacità di riconoscimento e di discriminazione relative alle «sostanze acquose» presenti sui rispettivi pianeti, sono uguali. E se si obiettasse che ciò pregiudica la questione di che cosa si debba intendere per «mentale», l’internista potrebbe argomentare che nulla nel comportamento dei gemelli rivela una differenza nelle credenze. Se, per esempio, Oscar fosse trasportato su Terra gemella, il suo comportamento sarebbe del tutto indistinguibile da quello di Elmer, e noi invocheremmo quindi la presenza di uno stato mentale identico. Si noti che l’ipotesi del teletrasporto è necessaria, perché se l’internista si limitasse a dire che i comportamenti dei gemelli «a casa loro» sono indistinguibili, l’esternista potrebbe ancora obiettare che, per esempio, mentre sulla Terra Oscar beve un bicchiere di H2O, su Terra gemella Elmer beve un bicchiere di XYZ: anche i comportamenti sono diversi. L’appello al comportamento svolge un ruolo cruciale nella strategia internista, perché, nella misura in cui gli stati mentali sono attribuiti ai fini della spiegazione del comportamento, differenze di contenuto devono rispecchiarsi in differenze comportamentali. Più radicalmente, si potrebbe attaccare l’esperimento mentale sostenendo che l’esternismo trae indebitamente una conclusione ontologica sulla natura dei contenuti dal modo in cui attribuiamo stati mentali, una circostanza puramente linguistica: un conto è come descriviamo gli stati mentali, un altro conto è come essi sono effettivamente. Sostenere, in base alla forma linguistica degli enunciati di attribuzione, che gli stati mentali hanno intrinsecamente una relazione col mondo esterno sarebbe come dire che la proprietà che una boccia ha di pesare 5 Kg non è intrinseca alla boccia in quanto comporta una relazione con un sistema di misura. Se questa analogia è fondata, il contenuto di credenza è come il peso di una boccia: è una proprietà intrinseca specificata relazionalmente. L’esternista potrebbe tuttavia replicare che l’analogia suggerisce al più che gli stati mentali sono interni, non che è interno il loro contenuto; ed è su quest’ultimo che verte la diatriba. Non tenere conto di questa distinzione equivale a confondere un contenuto con ciò che lo veicola; ma, a differenza del suo veicolo, il contenuto è una proprietà astratta che, in quanto tale, non può essere localizzata nella testa. Si potrebbe ancora andare avanti con obiezioni e repliche, ma ce ne siamo fatti un’idea a sufficienza; il punto sembra essere che nessuna argomentazione è in grado di correggere in un senso o nell’altro la 92

rispettiva intuizione di fondo: quella dell’internista è che, dovendo gli stati mentali sopravvenire agli stati fisici, il principio di individuazione non può che essere intramentale; l’intuizione dell’esternista è che la relazione individuativa è quella che lega gli stati mentali a quegli aspetti del mondo su cui gli stati mentali portano informazioni. La grande difficoltà di far prevalere l’una o l’altra delle due intuizioni ha spinto alcuni (si vedano soprattutto Block 1986 e McGinn 1982) a integrare in un’unica prospettiva i due punti di vista: il contenuto è determinato tanto dai fattori interni quanto da quelli esterni. In base a questa soluzione, nota come «teoria del doppio aspetto», o «teoria duale», il contenuto di una rappresentazione è dato dalla coppia 〈contenuto stretto, contenuto ampio〉, ovvero 〈ruolo inferenziale, condizioni di verità〉. Pertanto due stati mentali possono differire o per ruolo inferenziale o per condizioni di verità (o entrambe le cose). C’è tuttavia un prezzo da pagare per questa soluzione un po’ troppo a buon mercato: non si capisce bene che cosa voglia dire che un contenuto è fatto di due parti o aspetti. In altri termini una teoria duale, più che essere una teoria del contenuto degli stati mentali, è la sovrapposizione di due teorie ciascuna delle quali è relativa a un aspetto del contenuto. Inoltre, una volta ammesso che il contenuto ampio è parte integrante del contenuto, resta il problema di spiegare che cosa fissa il contenuto ampio: le teorie duali ereditano, cioè, i problemi delle teorie causal-informazionali o teleo-causali a seconda dei casi. Riassumendo, ai fini di stabilire qual è il contenuto di una rappresentazione l’internista guarda essenzialmente agli effetti che quella rappresentazione induce (il principio di individuazione degli stati mentali va determinato in relazione al ruolo che gli stati mentali svolgono nella spiegazione del comportamento), mentre l’esternista guarda essenzialmente alle cause della rappresentazione (per l’individuazione è più importante ciò che quello stato rappresenta in senso stretto, che corrisponde alla sua funzione evolutiva). Il dibattito sembra essere oggi in una situazione di stallo, per l’impossibilità di far prevalere in forza di argomenti invece che di mere intuizioni l’uno o l’altro dei due punti di vista. Si deve tuttavia sottolineare che l’esternismo è certamente la posizione maggioritaria, se non altro nella misura in cui la teoria duale è spesso considerata, non del tutto appropriatamente, esternistica, in base alla considerazione che per l’esternista è sufficiente ammettere la pertinenza di fattori extramentali. 93

3.3. Conclusioni Al lettore deve essere ben chiaro che abbiamo dato un’idea assai generale e approssimativa delle teorie dell’intenzionalità disponibili «sul mercato». A un livello più profondo di analisi si possono trovare molte varianti degli schemi teorici generali presentati, nonché posizioni non facilmente riconducibili ai tipi generali qui proposti, sui cui pregi e difetti sono state condotte discussioni assai accanite. Ciò precisato, il punto fondamentale è che ad oggi non disponiamo di alcuna teoria del contenuto davvero soddisfacente, che da un lato dia conto di tutte le intuizioni preteoriche che abbiamo sulla nozione di contenuto, e dall’altro non si esponga a evidenti difficoltà (ci siamo limitati a menzionare le più significative!). La nozione di contenuto resta in qualche misura ineffabile, e il programma di naturalizzazione dell’intenzionalità ha di fronte a sé difficoltà apparentemente insormontabili. Nel paragrafo successivo ci concentreremo sui due problemi che sollevano maggior imbarazzo per il funzionalismo computazionale. 4. Esternismo e computazionalismo: due problemi Quali che siano le sue ragioni e i suoi torti, è indubbio che l’esternismo ponga dei problemi devastanti al funzionalismo computazionale e in generale a qualsiasi approccio funzionalistico al problema mente-corpo. La prima difficoltà è la seguente. Se uno stato mentale è individuato in parte sulla base di fattori esterni, gli stati mentali non sopravvengono sugli stati computazionali né tantomeno su quelli cerebrali. Se infatti i fattori esterni pertinenti sono diversi, dall’identità di stato computazionale (o cerebrale) non segue più l’identità di stato mentale. Con ciò il progetto del materialismo non riduzionistico pare condannato al fallimento. L’implicazione dall’esternismo al fallimento della sopravvenienza è certamente molto grave per la metafisica funzionalista, ma l’argomento può anche essere letto in modo capovolto: se sposare l’esternismo comporta la rinuncia alla sopravvenienza, tanto peggio per l’esternismo. La nozione di contenuto stretto è motivata precisamente da un atteggiamento di questo tipo. Eventualmente, si può cercare di allargare la nozione di contenuto stretto in modo da incorporare le connessioni percettive e motorie con l’ambiente8. 8

Cfr. per es. Harman (1987) o, in una prospettiva un po’ diversa, Marconi

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Molti filosofi della mente ritengono tuttavia che le intuizioni che sorreggono l’esternismo siano più solide di quelle che sono alla base della nozione di sopravvenienza. Chi è di questo avviso rinuncia definitivamente al funzionalismo, come per esempio ha fatto Putnam, secondo il quale si può reiterare contro il funzionalismo lo stesso argomento critico che il funzionalista rivolge al riduzionista: come gli stati funzionali (così come sono individuati da una teoria tipo TCRM) non sono riducibili a stati neuronali, analogamente gli stati mentali del senso comune non sono riducibili, nemmeno nel senso debole di essere sopravvenienti, agli stati computazionali. Sono stati fatti dei tentativi di tenere insieme esternismo e funzionalismo computazionale, riconducibili essenzialmente a due tipi di strategia. L’una consiste nell’«ingoiare il rospo», cioè nel riconoscere che l’esternismo comporta la negazione della sopravvenienza e nel cercare di venire a patti con questo stato di cose. L’altra consiste nel «prendere il toro per le corna», cioè nel cercare un modo di rendere compatibili esternismo e sopravvenienza. Esaminiamo ambedue le opzioni. Dennett (1987) e Stich (1983) hanno scelto, in modi diversi, di «ingoiare il rospo». Comune a entrambi è l’idea che il fallimento della sopravvenienza degli stati mentali sugli stati computazionali comporti il divorzio tra la psicologia del senso comune, che è esternistica, e la psicologia scientifica, internistica. In questa prospettiva il funzionalismo computazionale resta un programma di ricerca valido, che però non è in grado di rispecchiare fedelmente la psicologia del senso comune; in altri termini il prezzo da pagare per salvare il funzionalismo è la rinuncia al realismo intenzionale. Mentre Stich interpreta il conflitto tra esternismo e sopravvenienza come una prova dell’inconsistenza della psicologia del senso comune e propone in definitiva di abbandonare a se stessa la nozione di stato mentale del senso comune a beneficio di quella di stato computazionale, Dennett riconosce un valore anche alla psicologia del senso comune grazie alla sua strategia dell’interpretazione (cfr. supra, 4.2). Psicologia del senso comune e funzionalismo computazionale si collocano a due diversi livelli di spiegazione, detti rispettivamente «livello dei sistemi (1997). Questa idea, comunque, non regge a un’obiezione formulata da un punto di vista esternista, perché, in estrema sintesi, il contenuto ampio non sopravviene nemmeno sui nessi percettivo-motori, come è dimostrato dalla possibilità di percezioni erronee.

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intenzionali» e «livello del progetto». Soltanto il funzionalismo computazionale è scientifico, ma questo non fa della psicologia del senso comune una teoria falsa, perché essa soddisfa criteri di adeguatezza quali coerenza interna e valore predittivo. Il livello dei sistemi intenzionali è personale – nel senso che gli stati mentali che essa postula sono stati consci che si attribuiscono alle persone – e semantico – nel senso che uno stato mentale viene individuato sulla base del suo contenuto intenzionale (caratterizzato esternisticamente) –; il livello del progetto è subpersonale (gli stati che esso postula sono subconsci) e sintattico. La psicologia cognitiva è una teoria appartenente al livello del progetto che specifica come i compiti cognitivi formulati nel vocabolario del livello intenzionale vengono effettivamente svolti dai processi computazionali. Veniamo adesso agli autori che hanno «preso il toro per le corna». Fodor (1994) ha cercato di tenere insieme esternismo e computazione considerando i casi riferibili alla Terra gemella come eccezioni marginali e tollerabili. In termini più rigorosi, l’idea è che sebbene sia metafisicamente possibile che a parità di stati interni si abbiano stati mentali differenti, ciò non è tuttavia nomologicamente, o naturalmente, possibile, nel senso che nei mondi possibili in cui vigono le leggi di natura contenuto e computazione sono in armonia (vedremo un’applicazione del concetto di sopravvenienza naturale o nomologica al problema della coscienza nel cap. 8). La tesi di Fodor appare tuttavia poco plausibile, perché i casi come quello di Terra gemella possono essere facilmente moltiplicati: sorgono ogni volta che le nostre capacità di discriminazione superficiale non colgono differenze metafisiche «profonde». Peacocke (1993; 1994) ha invece proposto di concepire la computazione in modo non sintattico, negando cioè che essa comporti il vincolo di formalità (cfr. supra, 2.4). I processi computazionali sono bensì sensibili al contenuto ampio dei simboli che manipolano. In questo modo gli stati mentali sopravvengono agli stati computazionali, in quanto sono entrambi individuati esternisticamente. Tale punto di vista sembra tuttavia scontrarsi col modo standard di caratterizzare la macchina di Turing. Il secondo problema posto dall’esternismo è quello dell’epifenomenismo degli stati mentali. Quando si dice che gli stati mentali sono cause del comportamento, quello che si intende è che sono cause in quanto portatori di un contenuto intenzionale: se voglio spiegare perché sono entrato in panetteria, non posso invocare una credenza e un desiderio qualsiasi, bensì una credenza e un desiderio con 96

un contenuto determinato. Come dire che il fattore causalmente responsabile è proprio il contenuto. Ma come può un contenuto ampio avere efficacia causale? Sembra che soltanto le proprietà locali, intrinseche, di una rappresentazione possano avere efficacia causale, come illustrato nella seguente analogia. Un soprano che sta cantando un’aria della Norma emette una nota molto alta, che causa la rottura di un bicchiere. È chiaro che non è la proprietà estrinseca (relazionale) di essere un’aria della Norma ad aver causato la rottura del bicchiere; la causa è bensì la proprietà intrinseca di essere una nota con una certa lunghezza d’onda, un’emissione sonora con una certa ampiezza e frequenza. Dire che i contenuti ampi hanno efficacia causale è come dire che l’aria della Norma ha causato la rottura del bicchiere. La psicologia del senso comune suppone che gli stati mentali siano cause in senso proprio, cioè in virtù del contenuto, ma questo sembra essere incompatibile col fisicalismo. Se, d’altra parte, rinunciamo alla causalità mentale in senso proprio, ricadiamo nell’epifenomenismo del contenuto. Secondo Fodor questo è un falso dilemma, che deriva dal confondere il livello di spiegazione delle leggi intenzionali con il livello di spiegazione dei meccanismi che realizzano le leggi. Le leggi intenzionali sono quelle che governano l’attribuzione di stati mentali (le leggi del tipo «se X desidera che Q e crede che P implica Q, allora, ceteris paribus, farà in modo che P»). I meccanismi sono le regole e le rappresentazioni della TCRM. La nozione di contenuto è pertinente solo al primo livello, mentre le proprietà pertinenti al livello dei meccanismi sono soltanto sintattiche. Il punto che Fodor vuole mettere in evidenza è che la spiegazione intenzionale è un’autentica spiegazione causale, quali che siano i meccanismi che implementano le leggi intenzionali. Che la spiegazione intenzionale sia una (corretta) spiegazione causale è garantito dall’esistenza dei meccanismi, non è importante quali esattamente questi siano. Si potranno eventualmente distinguere due diverse nozioni di causa pertinenti a ciascuno dei due livelli: i contenuti hanno responsabilità causale, le rappresentazioni, e in ultima analisi le loro realizzazioni fisiche, hanno efficacia causale (cfr. supra, 3.3). In alternativa, l’esternista potrebbe prendere la strada, già discussa nel precedente capitolo, di depotenziare il fisicalismo, negando che esso metta in discussione la legittimità, ed anzi la priorità, di una nozione puramente epistemico-esplicativa di causalità. In questa prospettiva, non c’è nessuna difficoltà nel sostenere che i contenuti men97

tali causano comportamenti; ed anzi, coerenza esplicativa vuole che tanto gli stati mentali quanto i comportamenti vadano individuati in modo ampio, esternistico. I comportamenti non sono movimenti, cioè proprietà di un sistema fisico, bensì azioni orientate a uno scopo, che coinvolgono relazioni tra un agente e un ambiente. In conclusione, non vi è dubbio che l’esternismo sollevi gravi imbarazzi al funzionalismo computazionale, ed è difficile sottrarsi all’impressione che l’accettazione dell’esternismo comporti una cesura tra psicologia scientifica e psicologia intenzionale. La prima fa a meno delle nozioni preteoriche di intenzionalità e contenuto, per sostituirle con qualcosa di trattabile in modo rigoroso; la seconda assume le nozioni di intenzionalità e contenuto come primitive, non analizzabili. Tuttavia la prospettiva del «computazionalismo esternistico» indicata da Peacocke ha attratto diversi studiosi, e il problema dell’armonizzazione tra esternismo e computazione non può certamente dirsi definitivamente archiviato con la conclusione negativa qui adombrata. ❑ Riepilogo L’intenzionalità è la proprietà che gli stati mentali hanno di vertere su qualcosa, che viene genericamente (cioè senza contrarre impegni metafisici sulla sua natura) definito «contenuto intenzionale». Secondo il realismo intenzionale il contenuto è una proprietà naturale, suscettibile di uno studio scientifico; secondo la strategia dell’interpretazione le proprietà intenzionali sono razionalizzazioni del comportamento che hanno tuttavia un fondamento evolutivo. Secondo l’eliminativismo, intenzionalità e contenuto non esistono. Se si è realisti intenzionali (e anche se si è «soltanto» interpretativisti), si è tenuti a spiegare che cos’è il contenuto di uno stato mentale e che cosa conferisce agli stati mentali il contenuto che hanno. Schematicamente, le teorie del contenuto mentale si dividono in tre gruppi: teorie inferenziali, teorie causali e teorie teleo-causali. Nelle teorie inferenziali il contenuto di una rappresentazione mentale è determinato dal ruolo causale-inferenziale che quella rappresentazione svolge nel sistema complessivo delle rappresentazioni. Le teorie causali e teleo-causali sono invece referenziali in quanto il contenuto di una rappresentazione mentale è determinato dal nesso che quella rappresentazione ha col mondo reale, cioè dalle condizioni di verità (o di soddisfazione) della rappresentazione. Le teorie teleo-causali si caratterizzano rispetto a quelle semplicemente cau98

sali perché spiegano l’origine del contenuto in termini di funzioni adattative. A queste si devono aggiungere le cosiddette teorie duali, nelle quali il contenuto è determinato sia dai fattori inferenziali sia dai fattori referenziali. Ogni teoria si espone a serie difficoltà, la più impervia delle quali è riconducibile alla difficoltà di conciliare aspetto naturale e aspetto normativo delle rappresentazioni. L’esternismo ha svolto un ruolo centrale nel criticare le teorie inferenziali e più in generale il funzionalismo computazionale. Se gli esternisti sono nel giusto, gli stati mentali non sopravvengono sugli stati computazionali, e il contenuto mentale è epifenomenico.

s Cos’altro leggere Una premessa: molti dei temi trattati in questo capitolo, e specificamente quelli discussi nel paragrafo 3 (teorie del contenuto) si collocano alla frontiera tra filosofia del linguaggio e filosofia della mente, in un’area di studi spesso etichettata come «Mente e linguaggio». Ne consegue che la consultazione di un manuale di filosofia analitica del linguaggio gioverà certamente a una comprensione più profonda di questi argomenti. Sono disponibili in italiano ottimi manuali di filosofia analitica del linguaggio: P. Casalegno, Filosofia del linguaggio, Carocci, Roma 1997; D. Marconi, Filosofia del linguaggio, UTET, Torino 1999; E. Picardi, Linguaggio e analisi filosofica, Patron, Bologna 1992, e M. Santambrogio (a cura di), Introduzione alla filosofia analitica del linguaggio, Laterza, Roma-Bari 1992. In lingua inglese, didatticamente utile il recente W.G. Lycan, Philosophy of Language, Routledge, London 2000. Quale che sia il manuale che si consulta, i capitoli più direttamente pertinenti per i temi qui trattati sono la semantica di Frege e la teoria del riferimento diretto. Sull’intenzionalità in generale: S. Gozzano, Storia e teorie dell’intenzionalità, Laterza, Roma-Bari 1997; W. Lyons, Approaches to Intentionality, Clarendon-Oxford University Press, Oxford-New York 1995; J. Searle, Dell’intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, Bompiani, Milano 1985. Per un punto di vista non naturalistico sull’intenzionalità: A. Voltolini, Why it is Hard to Naturalize Attitude Aboutness, in W. Hinzen, H. Rott (a cura di), Belief and Meaning, Essays at the Interface (Philosophical Analysis vol. 3), German Library of Sciences, HänselHohenhausen, Frankfurt 2002. Per un punto di vista naturalistico: E. Pacherie, Naturaliser l’intentionnalité, PUF, Paris 1993. Per una prospettiva storica: R. Lanfredini, Intenzionalità, La Nuova Italia, Firenze 1997. Su realismo intenzionale vs. eliminativismo vs. strategia dell’interpretazione si vedano J. Fodor, La guida Fodor alle rappresentazioni men99

tali. Il vademecum della zietta intelligente, in A. Paternoster (a cura di), Mente e linguaggio. Antologia, Guerini, Milano 1999; D. Dennett, L’atteggiamento intenzionale, Il Mulino, Bologna 1993, in particolare i saggi 2 (I veri credenti) e 3 (Tre tipi di psicologia intenzionale). Una riflessione sul concetto di rappresentazione mentale in generale è S. Stich, What is a Theory of Mental Representation?, in «Mind», 101, pp. 243-61, ristampato in S. Stich, T. Warfield (a cura di), Mental Representation, Blackwell, Oxford 1994. Su internismo/esternismo, la già citata antologia di Paternoster contiene una serie di articoli ben rappresentativi. Particolarmente importanti i contributi di Putnam (dove viene raccontato l’esperimento di Terra gemella), Burge (che generalizza la tesi esternistica formulata da Putnam solo per alcune classi di espressioni linguistiche/rappresentazioni) e McGinn (che difende la teoria duale). Per una panoramica generale molto sintetica, ottimo l’articolo disponibile sul web di A. Voltolini, Internalism/ Externalism, nella Field Guide to the Philosophy of Mind, già segnalato nel capitolo 1 (URL: http://www.uniroma3.it/kant/field/mbit.htm). Per un’analisi più approfondita: S.D. Edwards, Externalism in the Philosophy of Mind, Cambridge University Press, Cambridge UK 1994; F. Recanati, Direct Reference. From Language to thought, Blackwell, Oxford 1993, capp. 11 e 12; C. McGinn, Mental Content, Blackwell, Oxford 1989, spec. capp. 1 e 2. L’esposizione canonica delle teorie causali è nel capitolo 4 di J.A. Fodor, Psicosemantica, Il Mulino, Bologna 1990. Si veda anche F. Dretske, Knowledge and the Flow of Information, Blackwell, Oxford 1981, spec. la terza ed ultima parte. Ben rappresentativo delle teorie teleo-causali è R.G. Millikan, Biosemantics, in S. Stich, T. Warfield (a cura di), Mental Representation. A Reader, Blackwell, Oxford 1994. Un approccio teleocausale un po’ diverso è difeso in P. Jacob, What Minds Can Do, Cambridge University Press, Cambridge UK 1997 (di cui esiste anche una versione francese: Pourquoi les choses ont-elles un sens, Odile Jacob, Paris 1997). L’antologia di Stich e Warfield contiene anche un importante saggio di Block sulla teoria duale (la cui esposizione canonica è il già citato saggio di McGinn nell’antologia da me curata). Gli articoli classici sulla semantica del ruolo inferenziale sono spesso abbastanza ostici. Mi limiterei a suggerire W. Sellars, Meaning as Functional Classification, in «Synthese», 27 (1974), pp. 417-38 e G. Harman, (Nonsolipsistic) Conceptual Role Semantics, in E. Lepore (a cura di), New Directions in Semantics, Academic Press, New York 1987. Segnalo infine, per la grande eco che ha avuto, il torrenziale R. Brandom, Making it Explicit, Harvard University Press, Cambridge MA 1994, che difende una versione non naturalistica della semantica del ruolo inferenziale. Sul problema della disgiunzione o rappresentazione erronea: il cap. 100

13, in particolare le pp. 378-81 di P. Casalegno, Filosofia del linguaggio, cit.; il cap. 3 di H. Putnam, Rinnovare la filosofia, Garzanti, Milano 1998; il paragrafo 2.3 di A. Paternoster, Linguaggio e visione, ETS, Pisa 2001. Sui problemi posti dall’esternismo: F. Dretske, The Explanatory Role of Content, in R. Grimm, H.H. Merrill (a cura di), Contents of Thought, University of Arizona Press, Tucson 1988; P. Jacob, Externalism and mental causation, in «Proceedings of Aristotelian Society», 92, 3 (1992), pp. 203-19. Il libro a cura di Grimm e Merrill contiene saggi tutti belli ed importanti sul tema internismo/esternismo.

Capitolo 5

Percezione

Vedere il sole che tramonta, ascoltare una sonata di Chopin, sentire, accarezzandola, la morbidezza della pelle di un gatto sono esempi di stati percettivi. Nel paragrafo dedicato alle critiche al funzionalismo (2.4) abbiamo detto che gli stati mentali sono spesso caratterizzati da un intreccio tra aspetto funzionale e aspetto qualitativo. Questa caratteristica è particolarmente evidente nel caso degli stati percettivi: nel vedere il sole al tramonto, provo certe sensazioni visive, eventualmente accompagnate da una coloritura emotiva, e nello stesso tempo mi trovo in uno stato rappresentazionale che svolge un certo ruolo causale nella mia vita mentale. Cruciale per tale ruolo causale non è la qualità bensì il contenuto dell’esperienza percettiva, ciò che lo stato in questione rappresenta. Sebbene siano intrecciati nell’esperienza percettiva, una cosa è il contenuto, e un’altra è la qualità di quell’esperienza. A detta di molti, la seconda non sarebbe riducibile al primo, in virtù della sua natura privata, descrivibile solo in prima persona. Storicamente i filosofi della percezione non hanno ben distinto i due aspetti. Non appartiene alla tradizione l’idea che la fenomenologia dell’esperienza percettiva costituisca una dimensione «privata» separabile da un «contenuto» pubblicamente accessibile. Si pensi, per esempio, alle teorie fenomenistiche della percezione, come quella dei sense-data (tratteggiata da Russell 1912; cfr. anche Ayer 1940), secondo la quale l’oggetto immediato dell’esperienza, ciò di cui siamo consapevoli nell’esperienza percettiva, non è un oggetto materiale del mondo bensì un ente mentale tipicamente descritto come un insieme di qualità sensoriali, come i fosfeni, le macchioline di colore che talvolta si «vedono» ad occhi chiusi. Per quanto «qualitativi», i fosfeni erano considerati a pieno titolo parte del contenuto dell’esperienza. In questa prospettiva teoria della percezione e teoria dell’esperienza sensoriale sono sostanzialmente la stessa cosa. 102

Oggi i problemi sollevati dall’aspetto qualitativo dell’esperienza sono più frequentemente trattati nell’ambito della riflessione filosofica sulla coscienza. Ho seguito lo stesso criterio: in questo capitolo restringeremo la nostra attenzione alla percezione come sistema rappresentazionale, rinviando al capitolo 8 le considerazioni sulla componente qualitativa. 1. Il contenuto percettivo La percezione ha dunque, almeno in parte, natura rappresentazionale, o intenzionale. Nell’esperienza percettiva oggetti e stati di cose ci sono dati in un certo modo, sono rappresentati sotto questo o quell’altro aspetto. Come gli atteggiamenti proposizionali, gli stati percettivi sono valutabili semanticamente, nel senso che possono rappresentare veridicamente o falsamente oggetti e stati di cose. Essi sono tuttavia intenzionali in un modo un po’ diverso dagli stati cognitivi centrali: secondo una tesi che ha guadagnato molti consensi in questi ultimi anni, gli stati percettivi avrebbero un contenuto non concettuale, e in questo si differenzierebbero dagli stati cognitivi (come la credenza o il desiderio), che hanno invece un contenuto concettuale. Ciò significa che per vedere, ad esempio, il sole al tramonto, non è necessario avere i concetti di sole e di tramonto; i costituenti di una rappresentazione percettiva non sono concetti. Al contrario, per credere che il sole sia al tramonto, è necessario padroneggiare i concetti in questione. I concetti sono infatti definiti precisamente come i costituenti del contenuto degli atteggiamenti proposizionali: i contenuti di credenza sono fatti di concetti, nel senso che quando nutro la credenza che il sole è al tramonto, sto intrattenendo i concetti di sole e di tramonto. Se non padroneggiassi tali concetti non potrei avere il pensiero che il sole è al tramonto. Ci sarebbero quindi due tipi di stati intenzionali, quelli di «alto livello», che hanno un contenuto concettuale e quelli di «basso livello», che hanno un contenuto non concettuale. Poiché l’uso dell’espressione «concetto» può spesso ingenerare fraintendimenti e si possono avere opinioni diverse su che cosa esso sia, possiamo anche metterla in un modo terminologicamente più neutro: al contrario dei contenuti percettivi (non concettuali), un contenuto di atteggiamento proposizionale autorizza inferenze. Se credo che il sole è al tramonto, posso anche credere che c’è qualcosa che tramonta, che sta per scendere la notte e così via. Al contrario, almeno 103

secondo la maggior parte dei sostenitori della peculiarità del contenuto percettivo, l’esperienza del sole al tramonto presa di per sé non autorizza alcuna inferenza. Un’inferenza può essere tratta soltanto nel momento in cui «concettualizzo» il mio stato percettivo, passo cioè dall’avere la pura e semplice esperienza visiva del sole al tramonto alla credenza che il sole stia tramontando. A questo punto il contenuto, veicolato nei due casi dalla stessa espressione linguistica, è diventato un contenuto «concettuale», oggetto di processi inferenziali. Vi è stato chi ha messo in discussione questa distinzione, sostenendo che la percezione è concettuale fin dall’inizio (per es. McDowell 1994), che non vi è modo di dare una struttura coerente al disordinato continuum di impressioni sensoriali se non applicando concetti. Tuttavia, c’è almeno un argomento molto forte a favore della natura non concettuale della percezione: se l’esperienza percettiva richiedesse concetti, animali e bambini piccoli non potrebbero essere accreditati della possibilità di avere genuini stati percettivi, il che è molto implausibile. Si deve inoltre considerare che il contenuto percettivo si distingue da quello degli atteggiamenti proposizionali per alcuni tratti caratteristici. In primo luogo esso è più specifico e ricco di informazioni; rispetto ai contenuti proposizionali ha maglia più fine, ha cioè una «risoluzione» più alta. Dretske (1981) ha illustrato questo punto descrivendo il passaggio da uno stato percettivo alla corrispondente credenza come una conversione da un formato analogico a uno digitale. Ciò significa che certe distinzioni fini che vengono fatte a livello di contenuto percettivo scompaiono a livello di contenuto proposizionale. Questa perdita di informazioni che caratterizza la concettualizzazione va a beneficio della precisione semantica: un pensiero fa astrazione da tutte le proprietà inessenziali per veicolare un’informazione precisa, perfettamente determinata. Per esempio, quando comunico il pensiero che c’è un gatto nella stanza, prescindo dal colore e dalla razza del gatto, informazioni presenti, in qualche caso non consapevolmente, nello stato percettivo. Benché si possa in linea di principio interpretare la digitalizzazione come un passaggio da concetti a maglia fine a concetti a maglia larga, la natura più fine, analogica, del contenuto percettivo è spesso considerata un ulteriore indizio a favore del suo carattere non concettuale. Una seconda proprietà importante del contenuto non concettuale è la sua impermeabilità alle credenze. Ciò significa che non siamo in grado di modificare (il contenuto di) uno stato percettivo alla luce di quello che sappiamo da fonti indipendenti. Per esempio, nell’illusione di Müller104

Fig. 5.1. Illusione di Müller-Lyer.

Lyer (cfr. Fig. 5.1), anche se sappiamo che i due segmenti hanno la stessa lunghezza, non possiamo fare a meno di continuare a vederli di lunghezza diversa. Sono state proposte diverse spiegazioni di questo fenomeno, alcune delle quali compatibili con l’ipotesi di una natura concettuale del contenuto percettivo; tuttavia, quella probabilmente più accreditata, in linea con la tesi della natura non concettuale del contenuto, è che la percezione visiva sia un modulo, cioè un sottosistema di elaborazione dell’informazione che opera in maniera indipendente dagli altri sottosistemi cognitivi ed è in larga misura impermeabile ai risultati delle loro elaborazioni. Discuteremo in dettaglio la nozione di modulo nel capitolo 7. Riassumendo, il punto cruciale che abbiamo messo a fuoco in questo paragrafo è che quando si dice che gli stati percettivi hanno un contenuto non concettuale, quello che si intende è che si può avere una percezione con un certo contenuto anche se non si padroneggiano i concetti che sarebbero costitutivi di tale contenuto se esso fosse espresso linguisticamente; ciò non toglie che, tipicamente, uno stato percettivo sia la base per la formazione di uno stato epistemico corrispondente. Nei paragrafi seguenti presenteremo la percezione da un punto di vista più strettamente filosofico e da uno più empirico; è chiaro che, qui come altrove, i due aspetti non sono del tutto indipendenti l’uno dall’altro. 2. Teorie filosofiche della percezione Le teorie filosofiche della percezione offrono un’analisi semantica, o concettuale, dei verbi di percezione e del verbo «percepire» in ge105

nerale. Esse si propongono, in altri termini, di caratterizzare il concetto ordinario di percezione. Il principale problema filosofico che tali teorie devono affrontare è quello di riuscire a offrire delle condizioni necessarie e sufficienti per la percezione veridica, discriminandola dai casi di allucinazione, senza tuttavia far collassare questi ultimi sui casi di illusione percettiva o più in generale di percezione non veridica: una cosa è vedere la Mole Antonelliana realmente presente di fronte a noi; un’altra cosa è vederla in sogno; e un’altra ancora è vedere la Mole (realmente presente nel nostro campo visivo) con una madonnina in cima (in realtà c’è una stella). Essenzialmente, vi sono due teorie che si contendono il campo: la teoria causale e la teoria disgiuntiva. La teoria causale della percezione. Supponiamo che io stia osservando un gatto. Intuitivamente, tra il gatto (l’oggetto dell’atto percettivo o, come spesso si dice in psicologia, lo stimolo distale) e la mia esperienza del gatto sussiste una relazione causale: è stato quel gatto a causare che io avessi una certa esperienza visiva. Analogamente, se sento suonare le campane, sono state quelle campane a causare la mia esperienza uditiva. La teoria causale della percezione non è nient’altro che la tesi secondo cui tale intuizione è da prendersi sul serio: la percezione è una relazione causale nel senso che se un soggetto S ha un’esperienza percettiva R di O, allora c’è un O che causa R. La tesi è eventualmente generalizzabile al caso della percezione di eventi, come quando diciamo che A vede Gianni correre. La tesi ha carattere concettuale: il fatto che l’esperienza percettiva comporti una relazione causale non è una verità meramente empirica, bensì è intrinseco al concetto di percepire. Il concetto di percezione implica (necessariamente) quello di nesso causale. In altri termini, il punto delle teorie causali non è che il processo percettivo sia costituito da una catena causale di stadi di elaborazione, ma che non si può percepire qualcosa se quel qualcosa non è presente. La teoria causale della percezione implica quindi che il concetto di allucinazione sia chiaramente distinto da quello di percezione: io posso avere due esperienze soggettivamente indistinguibili, per esempio, della Mole Antonelliana, una dovuta al fatto che sono di fronte alla Mole e la sto guardando, l’altra in sogno o, eventualmente, indotta con l’uso di droghe o di elettrostimolazioni artificiali, ma soltanto nel primo caso possiamo dire che io percepisco la Mole, in quanto c’è una relazione causale, che manca nel secondo caso. 106

Una fonte di difficoltà per la teoria causale è il caso della percezione non veridica, quale è, per esempio, la già discussa illusione percettiva di Müller-Lyer1. Il problema è il seguente: la teoria causale non può essere formulata semplicemente dicendo che A ha un’esperienza percettiva di un O se e solo se O è la causa di tale esperienza, altrimenti i casi di rappresentazione erronea risulterebbero indistinguibili da quelli di percezione veridica: non ci sarebbe alcuna differenza tra vedere una pecora là dove c’è una pecora e vedere una capra là dove c’è una pecora. Si deve imporre l’ulteriore requisito che l’esperienza corrisponda all’oggetto, lo riproduca. D’altra parte, non si può imporre che la corrispondenza sia perfetta, altrimenti i casi alla Müller-Lyer, in cui c’è una discrepanza soltanto parziale (di una proprietà) tra l’oggetto reale e l’oggetto quale è dato nell’esperienza, non potrebbero essere ricompresi nella teoria. Si è così costretti a usare una formula vaga ed imprecisa nella caratterizzazione della relazione tra oggetto reale e oggetto nell’esperienza, del tipo «Un soggetto S percepisce un oggetto O se e solo se S ha un’esperienza percettiva il cui contenuto corrisponde adeguatamente ad O ed è causato da O» (la formulazione ricalca quella di Lowe 2000, p. 139). È chiaro come la formula «corrisponde adeguatamente» non sia in grado di fornire un criterio rigoroso. Obiezioni. Una difficoltà a cui si espone la teoria causale della percezione è costituita dal caso delle cosiddette catene causali devianti. Si immagini che io sia posto di fronte a un tavolo collegato, attraverso un complesso apparato di elettrodi, alla mia corteccia visiva, e che tale apparato induca in me un’esperienza visiva di una mela rossa tutte le volte che un oggetto viene posto sul tavolo (la funzione dell’oggetto è cioè meramente quella di innescare il funzionamento dell’apparato, senza influire sul tipo di esperienza visiva, che è prefissata). Supponiamo ora di mettere sul tavolo una mela rossa tale da rendere indistinguibili l’esperienza visiva indotta artificialmente e quella che avrei in condizioni naturali, senza alcun apparato. In questo caso c’è una catena causale che collega l’oggetto reale col mio cervello, ma l’esperienza percettiva dell’oggetto è indotta in modo artificiale: l’apparato di elettrodi si sostituisce al mio sistema visivo. Le 1 Ci sono molte altre illusioni percettive con caratteristiche analoghe. Si veda Kanizsa (1980).

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condizioni stabilite dalla formulazione della teoria causale sono soddisfatte oppure no? L’intuizione oscilla. Da un lato questo non sembra essere un vero e proprio caso di percezione, perché il fatto che l’apparato sia connesso all’oggetto «appropriato», quello presente nel mio campo visivo, è meramente contingente: basta sostituire la mela rossa con un altro oggetto per dare luogo a un’esperienza visiva non consona all’oggetto che l’ha causata; dall’altro lato, se consideriamo questo caso come una non-percezione, o come una pseudopercezione, ci esponiamo al rischio di considerare tali anche i casi di persone che vedono con l’ausilio di protesi (si veda Lewis 1980, per una rassegna di casi possibili), o quello dei sistemi percettivi di agenti artificiali. Il problema è serio perché intrinseco all’idea stessa che la percezione implichi l’esistenza di un nesso causale. L’atteggiamento forse più ragionevole è quello di non porre alcun vincolo sul tipo di nesso causale. Questa scelta ci porta alla seconda accusa che è stata mossa alla teoria causale della percezione, quella di essere troppo liberale, nel senso di non discriminare in modo adeguato il caso dell’allucinazione da quello della percezione veridica2. Questa critica si appunta sul fatto che la teoria causale, pur distinguendo l’allucinazione e l’esperienza veridica in base a una diversa origine causale, ammette la possibilità che esse siano soggettivamente indistinguibili e siano quindi, in un senso, lo stesso stato di esperienza percettiva. Chi avanza questa critica vorrebbe una teoria della percezione che istituisca una connessione più robusta tra oggetto reale dell’esperienza e contenuto dell’esperienza. Un esempio di teoria siffatta è la cosiddetta teoria disgiuntiva. La teoria disgiuntiva. La teoria disgiuntiva della percezione riflette l’esigenza di trattare percezione veridica e allucinazione come due fenomeni di natura completamente diversa. Il nome della teoria deriva appunto dal fatto che, data una certa esperienza, o si tratta di una percezione autentica, o si tratta di un’allucinazione, delle due l’una. Non è facile, tuttavia, fornire un’analisi della percezione che 2 Un’altra critica che è stata mossa alla teoria causale della percezione è che essa può condurre a uno scetticismo radicale sull’esistenza del mondo esterno. Non ci occuperemo di questo problema perché, benché lo scetticismo sia un classico e venerabile tema epistemologico, nella prospettiva tendenzialmente naturalistica che abbiamo adottato in questo manuale, l’esistenza del mondo esterno non è un’ipotesi che possa essere seriamente messa in discussione.

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vincoli il contenuto dell’esperienza al suo oggetto reale; una possibile formulazione, ancorché un po’ elusiva, è la seguente: A percepisce O se e solo se A è in «contatto diretto» con O. L’idea è che lo stato percettivo debba tanto la sua esistenza quanto la sua identità all’oggetto esterno in questione. Se O non fosse presente nel campo percettivo di A, A non avrebbe affatto un’esperienza percettiva di O; e e ci fosse un altro oggetto O* in luogo di O, l’esperienza di A sarebbe una O*-esperienza, non una O-esperienza, anche nell’ipotesi che O e O* siano indiscernibili. Rinunciando all’idea di caratterizzare la percezione in termini di nesso causale, la teoria disgiuntiva suggerisce che nell’esperienza percettiva il soggetto si trovi in una sorta di presa diretta sul mondo, mentre la teoria causale suggerisce, in virtù dell’esistenza di una catena causale, che la relazione sia indiretta o mediata. Questa opposizione tra rapporto diretto e rapporto indiretto o mediato è in realtà un tema ricorrente tanto in filosofia quanto in psicologia della percezione, che discuteremo nell’ultimo paragrafo. 3. Due teorie empiriche della percezione La percezione, in particolar modo quella visiva, è uno dei temi studiati da più tempo nelle scienze della mente. Se focalizziamo la nostra attenzione sull’ambito psicologico in senso stretto, le teorie che hanno avuto maggior impatto sono la psicologia della Gestalt, che ha una tradizione molto influente in Italia, le varie scuole costruttivistiche (di Gregory e di Rock, per fare qualche nome) eredi della psicologia di Helmholtz, la visione computazionale e la visione ecologica. Ci limiteremo a queste ultime due, principalmente perché la loro opposizione mette bene in luce i problemi filosofici posti dalla percezione (visiva). Il punto di vista computazionale, inoltre, è abbastanza in sintonia con la tradizione costruttivistica, così come, almeno sotto certi aspetti, la visione ecologica riprende alcune intuizioni della teoria della Gestalt. La visione computazionale. La visione computazionale è un programma di ricerca che ambisce a spiegare come funziona il sistema visivo animale e specificamente quello umano, cercando di costruire macchine capaci di vedere. Coerentemente con il punto di vista del funzionalismo computazionale, la visione è, come ogni altro proces109

so cognitivo, un sistema di elaborazione delle informazioni. L’ideaguida della visione computazionale è infatti che il sistema visivo può essere descritto come un insieme strutturato di algoritmi che ricostruiscono, a partire dalle informazioni contenute nei recettori fotosensoriali, lo scenario percepito. Secondo David Marr, il cui gruppo di lavoro al MIT ha sviluppato quella che è a tutt’oggi la più robusta cornice teorica computazionale della visione, il problema della visione, e cioè come fare a scoprire «che cosa c’è nel mondo e dove si trova» (Marr 1982, p. 3), è troppo complesso per poter essere affrontato a un unico livello di descrizione, per esempio neurofisiologico. I dati neurofisiologici possono imporre vincoli importanti sulla teoria – per esempio, sapere a quali tipi di informazioni sono sensibili i circuiti neuronali di questa o quell’area della corteccia visiva è certamente rilevante – ma da soli non sono sufficienti: «cercare di comprendere la percezione studiando solo i neuroni è come cercare di comprendere il volo degli uccelli studiando solo le ali: semplicemente non è possibile» (ivi, p. 27). Ne consegue che una buona teoria della visione deve articolarsi in tre livelli di descrizione: quello computazionale, quello algoritmico e quello implementativo. Il livello computazionale descrive quali funzioni, specificate meramente nei termini dei loro input e output, sono costitutive del sistema visivo3. Altrimenti detto, il livello computazionale specifica l’organizzazione funzionale della visione nel suo complesso: qual è la funzione fondamentale della visione e quali sottosistemi fanno cosa. Il livello algoritmico specifica gli algoritmi che computano la funzione di ciascun sottosistema individuato al livello superiore. Il livello implementativo descrive la realizzazione neuronale di ciascun algoritmo. Il punto di partenza è definire con chiarezza e precisione qual è l’input e qual è l’output del sistema visivo. Si tratta di un compito arduo, perché, nel caso dell’uomo, è tutt’altro che ovvio che ci sia una funzione fondamentale della visione. Le informazioni visive vengono sfruttate tanto per controllare l’azione quanto per fissare le credenze (e per molti altri scopi, come stimolare emozioni, rinforzare 3 L’uso del termine «computazionale» per denotare quello che in sostanza è il livello dell’explanandum, del problema stesso, è abbastanza infelice, perché a questo livello ancora non c’è una descrizione delle computazioni coinvolte. Meglio sarebbe «livello del problema» o «livello personale». Sterelny (1990), suggerisce «livello ecologico», efficace sotto un certo aspetto, ma fuorviante sotto un altro.

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desideri, ecc.). Cercando di coniugare il carattere di generalità della visione umana con l’esigenza di riconoscerne una funzionalità specifica, Marr ha individuato lo scopo della visione nel riconoscimento della forma (o geometria) di un oggetto. Sulla base di questa definizione generale di che cosa è il vedere, l’input è identificato con l’immagine retinica, cioè con una matrice di livelli di luminanza (cioè di intensità di luce), mentre l’output è una descrizione simbolica della forma geometrica degli oggetti presenti nell’ambiente percepito. Il sistema visivo può pertanto essere descritto come l’insieme dei processi necessari per trasformare le informazioni contenute nello stato dei fotorecettori della retina in una struttura informativa che esplicita le relazioni spaziali della porzione di ambiente percepita. Qui non è pensabile di dare un’idea, nemmeno grossolana, della teoria di Marr; ci limiteremo a illustrarne i principi fondamentali. Ricostruire la forma degli oggetti a partire dallo stato dei fotorecettori è un compito di una difficoltà formidabile, perché è sottodeterminato dalle informazioni disponibili nelle immagini retiniche. Per risolvere il problema, è necessario imporre dei vincoli (per esempio, principi di ottica geometrica) che si suppone il sistema incorpori in una base di conoscenza innata. Sono altresì necessari più stadi di elaborazione, riconducibili fondamentalmente a tre, ciascuno dei quali fornisce in uscita un certo tipo di rappresentazione. Nel primo stadio di elaborazione vengono individuati spigoli, vertici, parti dei contorni degli oggetti, ed elementi rilevanti quali macchie o strisce, grazie ad algoritmi che vanno a cercare nelle immagini retiniche gli sbalzi più forti di luminanza. Infatti, là dove lo sbalzo è più forte, è più probabile che passi la frontiera di un oggetto. La rappresentazione costruita da questo stadio di elaborazione si chiama schizzo primario. Nel secondo stadio di elaborazione vengono individuati orientamento e profondità delle superfici, che confluiscono in un tipo di rappresentazione detta schizzo 21/2-D. A questo stadio l’oggetto è stato localizzato, discriminato dallo sfondo, ma non è ancora percepito chiaramente come oggetto tridimensionale. Nell’ultimo stadio di elaborazione viene generata un’ipotesi di oggetto, che, confrontata con un insieme di modelli prememorizzati, può essere categorizzata. A questo livello di elaborazione le rappresentazioni coinvolte sono tridimensionali, da cui il nome di modelli 3-D. I primi due stadi di elaborazione costituiscono la cosiddetta visione primaria; il terzo stadio è spesso descritto come visione di alto livello. 111

Al di là dei dettagli, gli aspetti più importanti da tenere presenti sono i seguenti: 1. il fatto che l’esperienza visiva sia il risultato di una complessa catena di stadi di elaborazione (concezione indiretta e ricostruttiva della percezione visiva); 2. il fatto che la visione primaria (quindi buona parte dell’elaborazione, fino alla localizzazione e individuazione di una forma geometrica) sia completamente guidata dai dati, nel senso di non richiedere alcuna conoscenza del contesto o aspettativa da parte del soggetto. Tutte le conoscenze necessarie per integrare le informazioni contenute nello stimolo sensoriale sono innate e incorporate in sottosistemi altamente specifici (concezione bottom-up e modulare della percezione visiva). L’ultimo stadio di elaborazione, il riconoscimento di un oggetto tridimensionale – per esempio, l’identificazione della forma di un gatto come gatto –, richiede invece una ricerca guidata da ipotesi in un catalogo di modelli (di oggetti) 3-D prememorizzati (top-down). La teoria è stata parzialmente implementata su calcolatore. Sono cioè stati effettivamente sviluppati i programmi in grado di realizzare in tutto o in parte le funzioni sopra descritte; anche per questa ragione essa rappresenta, a distanza di vent’anni, una delle teorie esemplari della scienza cognitiva. La visione ecologica. Alla base della teoria di Gibson, il caposcuola della cosiddetta percettologia ecologista, c’è un principio metodologico, appunto l’ecologismo, che consiste nella tesi secondo cui il nostro sistema visivo è stato progettato dall’evoluzione per risolvere problemi significativi biologicamente, cioè per vedere in determinate condizioni ambientali. Ne consegue che molti esperimenti escogitati dagli psicologi cognitivisti e, prima ancora, dagli psicologi della Gestalt, non sono rilevanti, perché costringono l’osservatore a vedere in una situazione insolita, ecologicamente non appropriata. In questo senso molti fenomeni «costruiti» in laboratorio o a tavolino, come le illusioni, sarebbero fuorvianti. Su questo sfondo, la tesi fondamentale della teoria di Gibson è che nell’ambiente, e precisamente nella struttura della luce riflessa, ci sono già tutte le informazioni di cui un agente ha bisogno per agire in modo ecologicamente efficace. Il sistema percettivo si limita a estrarre o recuperare tali informazioni, senza elaborazioni, ricostruzioni o integrazioni. Più che di «processo visivo», espressione che 112

suggerisce l’esistenza di stadi di elaborazione, si deve parlare di un sistema di rilevamento perfettamente adattato, accordato (attuned) all’ambiente, capace di cogliere immediatamente nella struttura dinamica della luce, detta «assetto ottico ambiente» (optical array), gli invarianti pertinenti. In questa prospettiva non ha senso dire che l’input della percezione è l’immagine retinica, perché un’immagine retinica è statica, mentre la luce è così ricca di informazioni proprio perché l’assetto ottico ambiente varia in continuazione, per effetto del movimento degli occhi e di tutto il corpo. Si noti come, al contrario dell’impostazione computazionale, la percezione sia considerata in prima istanza funzionale al controllo dell’azione, senza la mediazione dei sistemi centrali. E non vi è dubbio che in diversi casi – si pensi a quando siamo alla guida di un’automobile – la necessità di una risposta molto rapida alle variazioni ambientali richieda dei circuiti veloci percezione-azione. Tuttavia, la cosiddetta teoria ecologica aspira a dar conto della percezione in generale, non soltanto di questi aspetti più periferici. Ne è testimone un altro concetto peculiare della teoria, quello di affordance, cioè, più o meno, la funzione ecologica che un oggetto riveste per gli agenti, l’insieme dei suoi potenziali usi. Le affordances di una pietra, per esempio, sono colpire, percuotere, scagliare. Ebbene, secondo Gibson, le affordances si percepiscono: quando vediamo una pietra vediamo che con essa si può colpire o percuotere. In questo senso si descrive spesso questa prospettiva dicendo che il sistema percettivo risuona armonicamente alle proprietà degli oggetti, piuttosto che individuarle sulla base di processi di natura inferenziale, che mettono in gioco memoria e possesso di concetti. Pertanto il riconoscimento di un oggetto non richiede rappresentazioni in memoria; la locuzione stessa «ri-conoscimento» sarebbe in questo senso fuorviante. Alla luce di queste considerazioni, possiamo affermare che per Gibson il fondamento della cognizione è il complesso delle interazioni sensomotorie tra animale e ambiente, e larga parte della nostra attività mentale è percezione. Non vi è dubbio che Gibson abbia messo l’accento su alcuni aspetti trascurati dall’approccio computazionale, in primo luogo l’importanza del movimento, l’aspetto dinamico della percezione. Tuttavia, viene lasciata nell’ombra, quasi fosse priva di interesse, la questione di come i sistemi sensoriali estraggono le informazioni dall’assetto ottico ambiente. Un altro percettologo ecologista, Runeson, parla di smart mechanisms, a ribadire che questi rilevatori di informazione so113

no scatole nere dentro le quali uno psicologo non è tenuto a guardare, perché, in un certo senso, non c’è niente da vedere. Un confronto critico. Secondo i computazionalisti, la visione ecologica lascia inspiegato come facciamo a vedere. Ma anche la visione computazionale ha i suoi problemi, a cominciare dalle enormi difficoltà di sviluppare algoritmi efficienti e generali di riconoscimento (cfr. le critiche al funzionalismo computazionale in 2.4). Inoltre, se il computazionalismo vuole essere un modello persuasivo della percezione visiva, deve riuscire a integrare il movimento in modo molto più sistematico ed efficace di quanto abbia fatto finora. Sono stati fatti tentativi sperimentali di falsificare l’uno o l’altro dei due approcci. Per esempio, Norman (1980; 1983) ha cercato di valutare se il tempo necessario per percepire le dimensioni di un oggetto sia direttamente proporzionale alla distanza percepita dell’oggetto, «misurata» sulle immagini retiniche (come prevede una teoria di tipo costruttivista), o sia direttamente proporzionale a rapporti dimensionali presenti nell’assetto ottico ambiente, indipendentemente dalla distanza percepita (come prevede la teoria ecologica), ma gli esperimenti hanno dato risultati talora contrastanti, talora compatibili con ambedue le teorie. Forse è difficile istituire confronti di questo tipo, perché i due approcci sono più cornici teoriche generali che modelli di specifiche capacità percettive, e non si può scaricare un intero paradigma perché si espone a qualche incongruenza locale. D’altronde, se da un lato è vero che i due approcci sono sotto alcuni aspetti significativamente conflittuali (come si è evidenziato nell’esposizione), dall’altro vi sono anche taluni punti di convergenza, per esempio sul fatto che la visione è fondamentalmente un processo «dal basso in alto» (bottom-up), guidata cioè molto di più dagli stimoli esterni che non dalle aspettative. In uno slogan, per vedere non è necessario sapere che cosa vedere. Secondo Norman (2001), i due approcci possono coesistere e vanno riunificati in un’unica cornice teorica: la visione ecologica descrive appropriatamente il funzionamento del cosiddetto «sistema dorsale», deputato al controllo visivo del comportamento motorio, mentre la visione computazionale si attaglia meglio al funzionamento del cosiddetto «sistema ventrale», il cui scopo è quello di riconoscere o identificare un oggetto4. 4 Gli attributi «dorsale» e «ventrale» alludono alla localizzazione di tali sottosistemi nella corteccia visiva: il primo è posteriore rispetto al secondo.

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Sebbene questa sia verosimilmente una semplificazione, e l’integrazione non sia agevole a causa dei differenti quadri concettuali, la proposta di Norman costituisce un interessante tentativo di mediazione, fondato su alcuni risultati sperimentali di neurofisiologia, neuropsicologia e psicofisica. È interessante sottolineare come Gibson abbia preso fortemente le distanze dalla teoria computazionale, mentre, all’opposto, Marr abbia riconosciuto la convergenza su alcuni punti. Ciò si spiega forse col fatto che Marr tende a concepire il livello algoritmico della sua teoria come una spiegazione dei fenomeni visivi descritti, a un livello più alto, dalla teoria di Gibson. Resta il fatto che, per Gibson, nel cervello quegli algoritmi proprio non ci sono. 4. Percezione diretta «vs.» mediata: argomenti filosofici e psicologici Uno degli aspetti di contrasto più evidenti tra l’approccio computazionale e l’approccio ecologico verte sulla questione della natura diretta piuttosto che mediata della percezione visiva: secondo la scuola gibsoniana la visione è una sorta di presa diretta sul mondo, mentre secondo il punto di vista computazionale l’esperienza visiva è l’esito finale di una catena di stadi di elaborazione. Questo conflitto rinverdisce un’opposizione da lungo tempo presente nella riflessione filosofica sulla percezione, quella tra il cosiddetto realismo diretto, secondo cui il contenuto di un’esperienza percettiva è il puro e semplice oggetto reale percepito e il cosiddetto realismo indiretto, secondo il quale ciò di cui siamo consapevoli in uno stato di esperienza percettiva non è l’oggetto materiale reale ma un «percetto» o «oggetto fenomenico», cioè qualcosa che è costruito dal sistema percettivo5. L’idea che la percezione sia indiretta è suggerita da un celebre argomento, detto «dell’illusione»6, che è alla base della cosiddetta teoria dei sense-data, ma che può essere utilizzato anche a sostegno di una teoria non fenomenistica, cioè non relativa ai suoi aspetti qualitativi, della percezione. In breve, l’argomento è il seguente: una per5 Si noti come in entrambi i casi si parli comunque di «realismo», così da escludere teorie idealistiche alla Berkeley in base alle quali il mondo è una sorta di artefatto costruito dai sistemi percettivi. 6 Anche se meglio sarebbe dire «dell’allucinazione», come risulterà evidente dalla sua esposizione.

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sona può avere esperienze fenomenologicamente identiche relative a un certo oggetto sia in presenza dell’oggetto sia in sua assenza. Ne consegue che il contenuto dell’esperienza non può dipendere in modo puro e semplice dall’oggetto, cioè che il contenuto (o oggetto immediato) dell’esperienza non è un oggetto materiale. Cominciamo con l’osservare che l’ovvia obiezione secondo cui un’allucinazione non è mai identica a una percezione veridica ha scarso mordente. Infatti l’identità tra esperienza veridica e allucinazione è considerata alla stregua di una possibilità metafisica. Poiché si sta discutendo del concetto di percezione, è sufficiente la sola possibilità che le due esperienze siano indistinguibili per trarre la conclusione. Si può, ad esempio, immaginare una situazione non troppo irrealistica in cui l’allucinazione è indotta attraverso la stimolazione artificiale delle stesse aree corticali coinvolte nel caso della percezione veridica. Più incisiva è invece la seguente replica, già avanzata da Austin (1962). Nell’argomento dell’illusione, semplicemente la conclusione non segue dalle premesse, perché due esperienze possono essere identiche anche se l’una ha un oggetto reale e l’altra no. Quando l’oggetto è davvero presente, il contenuto dipende dall’oggetto; quando l’oggetto non c’è, il contenuto non ne dipende. I rispettivi contenuti possono essere identici anche se l’uno dipende dall’oggetto e l’altro no. Quindi il caso dell’allucinazione non dimostra l’esistenza di qualcosa come un «oggetto fenomenico». La supposizione secondo cui per avere un’esperienza con un certo contenuto ci deve essere un ente mentale con le caratteristiche di quel contenuto è tutt’altro che giustificata o comprovata. L’obiezione colpisce in modo definitivo l’argomento dell’illusione, ma è ben lungi dallo stabilire la verità del realismo diretto. Infatti il presupposto attaccato dalla critica, in base al quale l’esperienza comporta necessariamente una relazione tra un soggetto di esperienza e un oggetto dell’esperienza, è comune tanto al realismo indiretto quanto a quello diretto. La differenza è che quest’ultimo accetta l’esistenza della relazione soltanto nel caso della percezione veridica. Inoltre, che ci siano stati percettivi in cui i soggetti sono consapevoli di qualcosa che ha proprietà differenti dall’oggetto reale è attestato da un’impressionante serie di esperimenti, messi a punto soprattutto dagli psicologi della Gestalt (ancora una volta, basta menzionare il caso delle frecce di Müller-Lyer). Non è semplice per il realismo diretto spiegare questo fenomeno. Quindi, anche volendo sfuggire alla superficiale tentazione di reificare i percetti, cioè di postulare determi116

nati enti mentali dotati di tutte le proprietà di cui siamo consapevoli nell’esperienza, resta il problema di spiegare perché non di rado quello che ci appare nell’esperienza è diverso dal suo oggetto materiale reale. L’idea stessa che gli stati percettivi siano stati intenzionali ha verosimilmente origine nella circostanza che l’esperienza è in parte indipendente dall’oggetto reale che la causa. Infatti, una caratteristica fondamentale degli stati intenzionali è che possono vertere su oggetti non esistenti; ne seguirebbe che il cosiddetto contenuto intenzionale non è un oggetto reale, bensì qualcosa come un modo di presentazione di oggetti reali (cfr. per es. Crane 2001, cap. 5). In questo senso la concezione intenzionale della percezione costituisce una sorta di versione rappresentazionale della teoria dei sense-data, nella quale in luogo di proprietà qualitative intrinseche ci sono contenuti rappresentazionali più o meno consoni agli oggetti esterni. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, l’idea che gli stati mentali, in questo caso quelli percettivi, siano stati rappresentazionali è congeniale al punto di vista del funzionalismo computazionale. L’argomento di Austin è stato rivolto anche contro la teoria computazionale della percezione visiva (per esempio, da Putnam 1994). Infatti la teoria computazionale della visione postula una successione di stadi di elaborazione i cui output sono rappresentazioni mentali. Queste rappresentazioni, e in particolare la rappresentazione finale dell’intero processo, non sono altro che correlati non fenomenici di sense-data, cioè enti mentali dotati di certe proprietà di cui possiamo essere in qualche caso consapevoli; la visione computazionale sarebbe quindi compromessa con la tesi, caratteristica dell’argomento dell’illusione, che l’oggetto immediato dell’esperienza non è l’oggetto reale. Il ragionamento di Putnam è a prima vista assai persuasivo; si può tuttavia avanzare il sospetto che esso sia viziato da una doppia commistione tra due livelli di analisi: tra livello dell’explanandum e livello dell’explanans, e tra analisi concettuale e teoria empirica. La confutazione austiniana dell’argomento dell’illusione è relativa alla percezione così come è descritta dal senso comune, cioè alla fenomenologia dell’esperienza (analisi concettuale dell’explanandum). La teoria computazionale della visione è invece essenzialmente una teoria empirica dei meccanismi del vedere (livello dell’explanans). A un livello descrittivo più alto, quello della struttura fenomenologica dell’esperienza visiva, è corretto descrivere la visione come diretta, come suggeriscono anche i nostri usi linguistici ordinari di «vedere». Dire «vedo quel libro» è come dire «sto toccando quel libro»; non vi sono dub117

bi sul fatto che «quel libro» denota l’oggetto esterno e non un sensedatum o una rappresentazione interna. Ma se si scende di un livello di analisi, molti dati inducono a ritenere che il sistema percettivo abbia molto lavoro da svolgere per restituirci affidabilmente le informazioni relative a oggetti ed eventi del mondo. Le due cose non sono in contraddizione: una cosa è il concetto che il senso comune ha della percezione, o l’immagine introspettiva che ci facciamo dell’esperienza; un’altra la ricostruzione che una teoria scientifica può fare del processo percettivo. In questo senso l’argomento di Putnam dipenderebbe da una concezione wittgensteiniana della filosofia in base alla quale compito del filosofo è unicamente quello di sviluppare analisi di concetti del senso comune. Lo stesso discorso si può fare, ad esempio, per la comprensione del linguaggio: la comprensione è da un lato un processo computazionale complesso (articolato in diversi stadi, per esempio sintattico, semantico, pragmatico) che costruisce una rappresentazione (del significato) di un enunciato; d’altra parte, per il senso comune, la comprensione è un evento istantaneo, uno stato mentale che si attribuisce oppure no in base a criteri comportamentali. A ciò Putnam potrebbe replicare che la teoria computazionale della percezione è (anche) empiricamente falsa, e che un’appropriata teoria empirica dovrebbe svilupparsi diversamente, per esempio secondo una linea gibsoniana. Tuttavia, come si è accennato nel paragrafo precedente, non è facile contrapporre direttamente sul piano empirico le due teorie; anche su questo piano permane l’impressione che le due teorie non si collochino esattamente allo stesso livello. Per questa ragione è possibile che la contrapposizione tra diretto e mediato sia stata esagerata e non svolga alcun ruolo utile all’interno di una teoria scientifica della percezione visiva. Sul fronte più propriamente psicologico, altre dicotomie sembrano essere più perspicue, come quelle tra ricostruttivo e non ricostruttivo, tra inferenziale e non inferenziale e tra top-down e bottom-up. Prendendo in considerazione questi criteri, si può misurare in modo più preciso che cosa davvero divide teoria ecologica e teoria computazionale e che cosa no. Il dibattito su questo problema resta comunque assai aperto. ❑ Riepilogo Come il pensiero, anche la percezione è un’attività intenzionale. Tuttavia, secondo la maggioranza degli studiosi, il contenuto degli stati percettivi differisce da quello degli stati di atteggiamento proposizionale: esso è a 118

maglia più fine, cioè ha una «risoluzione» più alta, ed è non concettuale, nel senso che avere un’esperienza percettiva non richiede il possesso di concetti. Il contenuto di una percezione non ha per componenti i costituenti del pensiero. Le indagini filosofiche sulla percezione si sono rivolte principalmente a delucidare il concetto di percezione, il significato di «percepire», mentre le indagini scientifiche hanno per obiettivo una spiegazione di come funziona la visione. La teoria filosofica della percezione maggiormente in auge è la teoria causale, secondo la quale la percezione di un oggetto implica l’esistenza di una relazione causale tra l’oggetto e l’agente (o, più propriamente, tra l’oggetto e uno stato mentale di quell’agente). Sebbene si possano immaginare casi che mettono a dura prova l’appropriatezza della concezione causale della percezione, è difficile elaborare una teoria alternativa che non caratterizzi la relazione tra percipiente e percepito in termini assai elusivi. Nell’ambito delle teorie empiriche, i due approcci che oggi si contendono il campo sono quello computazionale e quello ecologico. Secondo i computazionalisti, la visione è una successione di stadi di elaborazione dell’informazione che consentono di ricostruire, a partire dalle immagini retiniche, la forma geometrica dello stimolo. Secondo gli ecologisti, il sistema percettivo «legge» direttamente nella struttura della luce riflessa tutte le informazioni necessarie per muoversi con successo nell’ambiente. Tra le diverse caratteristiche che dividono i due approcci, particolarmente annosa è la contrapposizione tra diretto e mediato, un’eredità dell’empirismo inglese del Settecento. Secondo il «realismo indiretto», ciò di cui si è immediatamente consapevoli nell’esperienza percettiva non è l’oggetto reale ma un percetto o oggetto fenomenico, qualcosa di costruito dal sistema percettivo. Secondo il «realismo diretto», al contrario, il contenuto immediato dell’esperienza percettiva non può che essere l’oggetto reale. Sebbene sia intuitivamente abbastanza ovvio associare l’ecologismo al realismo diretto e il computazionalismo al realismo indiretto, una disamina più attenta può indurre a ritenere che la contrapposizione nasca dal confrontare spiegazioni che si collocano a un livello diverso.

s Cos’altro leggere L’impostazione di questo capitolo deve molto al più volte citato E.J. Lowe, An Introduction to the Philosophy of Mind, Cambridge University Press, Cambridge UK 2000. Rimando quindi ad esso, non soltanto al capitolo Perception, ma anche a quello intitolato Sensation and Appearance, così da avere un’idea delle teorie dell’esperienza percettiva in un’accezione più ampia. Per una prospettiva storica sulla filosofia dell’esperien119

za percettiva, si veda P. Spinicci, Sensazione, percezione, concetto, Il Mulino, Bologna 2000. Sul contenuto non concettuale, si vedano i saggi di A. Coliva e di S. Gozzano in P. Parrini (a cura di), Conoscenza e cognizione. Tra filosofia e scienza cognitiva, Guerini, Milano 2002. Formulazioni classiche della natura non concettuale della percezione si trovano in F. Dretske, Simple Seeing, in D. Gustafson, B. Tapscott (a cura di), Body, Mind and Method, Reidel, Dordrecht 1979 e nel capitolo 3 di C. Peacocke, A Theory of Concepts, MIT Press, Cambridge MA 1992. Peacocke è un autore importante ma di lettura particolarmente ardua. Un celebre saggio sulla teoria causale della percezione è H.P. Grice, La teoria causale della percezione, in Id., Logica e conversazione, Il Mulino, Bologna 1993. Per una difesa della teoria disgiuntiva si veda J. McDowell, Criteria, Defeasibility and Knowledge, in «Proceedings of the British Academy», 68 (1982), pp. 455-79, oppure P. Snowdon, Perception, Vision and Causation, in «Proceedings of the Aristotelian Society», 81 (1982), pp. 175-92. Entrambi i saggi (invero, di lettura non proprio agevole) sono stati ristampati in J. Dancy (a cura di), Perceptual Knowledge, Oxford University Press, Oxford. Quest’ultima è una buona antologia di saggi sulla percezione, così come lo è quella di T. Crane (a cura di), The Content of Experience, Cambridge University Press, Cambridge UK 1992. La teoria dei «sense-data» e più in generale il realismo indiretto sono difesi da H. Robinson, Perception, Routledge, London 1994, in versione fenomenistica, e da F. Jackson, Perception. A Representative Theory, Cambridge University Press, Cambridge UK 1976, in versione rappresentazionale. Per una critica, imperdibili J.L. Austin, Senso e sensibilia, Marietti, Genova 2001 e H. Putnam, Sense, nonsense and senses (The Dewey Lectures), in «The Journal of Philosophy», 91, 9, pp. 445-517. Sulla visione ecologica, fondamentale J.J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva, Il Mulino, Bologna 1999. Sulla visione computazionale, l’ideale è misurarsi direttamente con D. Marr, Vision. A Computational Investigation into the Human Representation and Processing of Vivual Information, Freeman, San Francisco 1982. Un’esposizione semplice ma abbastanza dettagliata della teoria di Marr si trova in A. Paternoster, Linguaggio e visione, ETS, Pisa 2001, cap. 5. Eccellenti rassegne delle diverse teorie scientifiche della visione sono V. Bruce, P.R. Green, M.A. Georgeson, Visual Perception, Taylor & Francis, Hove 1996 e l’enciclopedico S.E. Palmer, Vision Science, MIT Press, Cambridge MA 1999. In italiano, segnalo W. Gerbino, La percezione, Il Mulino, Bologna 1983, di impostazione gestaltista. Sempre nella tradizione della psicologia della Gestalt, splendido G. Kanizsa, Grammatica del vedere, il Mulino, Bologna 1980, che contiene una stimolante rassegna di esperimenti da fare in prima persona. 120

Capitolo 6

Tipi di rappresentazione mentale

È stato già osservato che nell’ambito del funzionalismo computazionale sono state postulate rappresentazioni mentali di tipo diverso, e che negli ultimi anni si sono fatti strada programmi di ricerca alternativi al funzionalismo computazionale canonico, la TCRM. È giunto il momento di dire qualcosa di più su tali questioni. All’interno della scienza cognitiva possiamo fondamentalmente distinguere tre cornici teoriche alla base di altrettanti programmi di ricerca: il cognitivismo simbolico classico (che a sua volta contempla diversi stili di rappresentazione mentale), il connessionismo e la cognizione corporea1 e situata; quest’ultima, più che un programma di ricerca, è un coacervo di idee che hanno ispirato diverse proposte teoriche, delle quali le più consolidate sono la robotica situata e la teoria dei sistemi dinamici. Spesso in letteratura il cognitivismo simbolico classico è designato con l’acronimo GOFAI (Good Old Fashioned Artificial Intelligence, «La buona cara intelligenza artificiale vecchio stile», o qualcosa del genere), mentre il connessionismo e la cognizione corporea e situata sono raccolti sotto l’etichetta NFAI (New Fangled Artificial Intelligence, «L’intelligenza artificiale nuovo corso»). Nel presente capitolo introdurremo questi programmi di ricerca concentrandoci esclusivamente sul modo in cui in essi viene analizzata la relazione tra mente e mondo, cioè sul solo aspetto rappresentazionale. Nel capitolo successivo saranno analizzati comparativamente pregi e difetti di GOFAI e NFAI come programmi di ricerca sulla mente considerata nella sua globalità; si tratterà cioè di discutere l’assetto epistemologico generale della scienza cognitiva.

1 L’espressione inglese è embodied, cioè «incorporata». Preferisco usare, essenzialmente per ragioni stilistiche, il meno standard «corporea».

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1. Rappresentazioni analogiche e procedurali Il cognitivismo classico è il modello della mente che incarna compiutamente i principi-guida del funzionalismo computazionale. In questo senso la TCRM è la rappresentante prototipica del cognitivismo classico. Non c’è bisogno di riprendere qui le idee portanti del funzionalismo (cfr. supra, cap. 2); entriamo direttamente nel merito della questione dei tipi di rappresentazione mentale. Nella TCRM i contenuti di credenza sono codificati tramite rappresentazioni esplicite simili ad enunciati. Ma non è necessario che sia così: da un lato, è stata suggerita la possibilità di codificare implicitamente i contenuti all’interno degli algoritmi, secondo una logica procedurale; dall’altro, è stata ipotizzata l’esistenza di rappresentazioni di natura analogica, quali le immagini mentali e i modelli mentali. Cominciamo da questo secondo punto. Rappresentazioni analogiche: immagini e modelli mentali. Abbiamo visto come nella TCRM le informazioni siano codificate in un formato linguistico, simile al calcolo dei predicati del primo ordine. Le caratteristiche principali di tale formato di rappresentazione, comunemente detto proposizionale, sono l’arbitrarietà e la discretezza. I simboli del linguaggio del pensiero sono arbitrari in quanto non vi è alcuna relazione di somiglianza tra un simbolo e ciò che esso denota; e sono entità discrete in quanto o sono espressioni complesse scomponibili in parti chiaramente separate e distinte, o sono simboli atomici che non hanno alcuna struttura interna. Nel loro insieme queste due proprietà conferiscono al codice proposizionale la massima schematicità ed astrattezza. Un enunciato in mentalese come SU (GATTO, TAPPETO) riproduce dello stato di cose che rappresenta soltanto l’esistenza di una relazione tra gli elementi costitutivi. A questa immagine della rappresentazione mentale è stata contrapposta, già dalla fine degli anni Sessanta, una tesi che riconosce un ruolo determinante anche a rappresentazioni di altra natura, analogica piuttosto che proposizionale. In prima approssimazione una rappresentazione analogica è un ente mentale che assomiglia a ciò che rappresenta, nello stesso senso in cui un quadro o una fotografia assomigliano all’oggetto che raffigurano. Inoltre, nelle rappresentazioni analogiche non sono riscontrabili costituenti discreti. Per esempio, la rappresentazione analogica di un gatto sul tappeto è l’immagine di un gatto sul tappeto: l’intera gamma di ricche informazioni percetti122

Fig. 6.1. Esperimenti di Shepard e Metzler: esempi di coppie di oggetti in orientamenti differenti.

a

b

c

ve presenti nello stato di cose viene, seppur in scala e risoluzione diverse, conservata nell’immagine. In luogo di schematicità e astrattezza abbiamo adesso conservazione del dettaglio e concretezza, ma vengono meno le proprietà di composizionalità (combinabilità) caratteristiche delle rappresentazioni simil-linguistiche. Le immagini mentali hanno una venerabile tradizione filosofica, ma allo stesso tempo sono state fatte oggetto di pesanti e fondate critiche. È quindi interessante esaminare brevemente su quali basi ed entro quali limiti alcuni scienziati cognitivi le abbiano riportate in auge. L’idea è che alcuni compiti cognitivi sono eseguiti tramite processi di immaginazione (mental imagery) nei quali i soggetti si comportano come se si trovassero di fronte a un oggetto reale, accreditando così in qualche misura l’idea che nella testa ci siano davvero rappresentazioni figurali degli oggetti reali, cioè immagini. I dati sperimentali più robusti che sostengono tale ipotesi sono tratti dai cosiddetti esperimenti di rotazione (come Shepard e Metzler 1971) e di scansione (come Kosslyn, Ball e Reiser 1978). Nei primi viene presentata su uno schermo una coppia di oggetti (cfr. Fig. 6.1) collocati in una prospettiva diversa rispetto all’osservatore, e i soggetti devono decidere se i due oggetti hanno o meno la stessa forma. Il compito veniva risolto in un tempo direttamente proporzionale a quello necessario per ruotare 123

Fig. 6.2. Esperimento di Kosslyn, Ball e Reiser: mappa utilizzata per studiare l’effetto della distanza sul tempo di scansione mentale.

mentalmente l’immagine di uno dei due oggetti in modo da cercare di sovrapporlo con l’altro, suggerendo così l’idea che l’immagine dell’oggetto venga ruotata come faremmo con l’oggetto reale. Nel secondo tipo di esperimenti, ai soggetti, cui viene preliminarmente presentata una mappa in cui sono evidenziati alcuni luoghi tramite raffigurazioni iconiche (cfr. Fig. 6.2), viene richiesto di formare un’immagine mentale della mappa e successivamente di focalizzare l’attenzione su un luogo della mappa, poi su un altro, e così via. Ebbene, il tempo necessario per spostare l’attenzione da un luogo all’altro risulta direttamente proporzionale alla distanza tra i luoghi, come se i soggetti seguissero visivamente un percorso sulla mappa stessa. 124

Anche sulla base di tali esperimenti, lo psicologo Stephen Kosslyn ha elaborato, all’inizio degli anni Ottanta, una teoria della formazione delle immagini mentali, nella quale gli effetti figurali sono spiegati col fatto che i processi di immaginazione condividono alcuni meccanismi e risorse cognitive con la percezione visiva. In particolare, nella corteccia visiva primaria vi sarebbe una specifica area di memoria a breve termine, il «registro visivo» (visual buffer), in cui vengono immagazzinate informazioni tanto dai processi di visione primaria quanto da quelli immaginativi. Quest’area di memoria funziona come uno spazio nel senso che le informazioni in esso registrate sono strutturate in modo tale da preservare le relazioni spaziali sussistenti tra le parti dell’oggetto codificato, e ciò spiega perché ci sembra di vedere immagini in senso figurale. In altri termini, sono certe caratteristiche strutturali delle aree cerebrali visive a far sì che ci siano rappresentazioni mentali aventi natura visivo-spaziale. Il fatto che il registro sia condiviso da percezione e immaginazione spiega anche perché ci sia un’analogia tra un’immagine (per esempio, di un gatto) e un percetto (per esempio, la rappresentazione percettiva di un gatto presente nel campo visivo). L’immagine è molto meno vivida dell’oggetto reale perché è costruita a partire non da informazioni «fresche», estratte dall’oggetto stesso, bensì da informazioni memorizzate, che hanno natura assai più schematica. La natura figurale delle immagini deriverebbe pertanto dal fatto che c’è un’area della memoria di lavoro che ha un’organizzazione di tipo spaziale. La teoria di Kosslyn è un risultato della scienza cognitiva di indubbio rilievo, importante dal nostro punto di vista soprattutto perché non si espone alle critiche rivolte alla nozione classica di immagine mentale. Infatti nella teoria di Kosslyn le immagini non sono identificate con significati o concetti, né sono «fotografie» immagazzinate staticamente in memoria, bensì vengono generate dinamicamente a partire da informazioni di natura linguistico-proposizionale, e soltanto quando la particolare natura del compito lo richiede. L’esistenza di questo formato di rappresentazione spaziale è stata contestata da alcuni ricercatori (per esempio, da Pylyshyn 1973; 1980), ma qui non entreremo nel merito del dibattito che divide i sostenitori delle immagini mentali dai «proposizionalisti», non ultimo perché la maggioranza degli studiosi ha accettato la tesi secondo cui ci sono davvero due modalità distinte di rappresentazione, una simil-linguistica ed una percettivo-spaziale: per quanto ogni singolo esperimento possa essere messo in discussione ed interpre125

tato dal punto di vista opposto, nel complesso c’è un considerevole corpo di dati che qualifica la mental imagery come un processo cognitivo autentico. Alle fortune delle rappresentazioni analogiche hanno contribuito significativamente anche i lavori dello psicologo inglese Philip N. Johnson-Laird, che ha elaborato una teoria del ragionamento basata sulla nozione di modello mentale. La tesi di Johnson-Laird è che per trarre la conclusione, ad esempio, di un sillogismo, i parlanti non fanno ricorso a regole di inferenza depositate in memoria – non possiedono cioè una «logica mentale» puramente formale – bensì costruiscono rappresentazioni «concrete» degli stati di cose descritti dalle premesse, nelle quali la conclusione (quando c’è) diviene, per così dire, trasparente, direttamente leggibile. Lo stesso vale per schemi di ragionamento di tipo più generale (cfr. l’esempio nella Fig. 6.3, relativo a un semplice ragionamento spaziale). Le rappresentazioni relative alle premesse sono appunto i modelli mentali, di cui è impossibile dare una definizione rigorosa: tabelle, immagini mentali, simulazioni di operazioni concrete e in generale qualsiasi mezzo si escogiti per «visualizzare» un certo stato di cose o situazione sono tutti materiali buoni per costruire un modello, che risulta quindi essere una struttura né puramente analogica né puramente proposizionale. Dalla costruzione di modelli mentali dipenderebbe, secondo Johnson-Laird, non soltanto la capacità di compiere inferenze logiche, ma anche la comprensione del discorso, un passaggio abbastanza naturale se si osserva che saper derivare la conclusione di un sillogismo richiede la comprensione delle premesse. Anche nel caso dei modelli mentali sono state avanzate obiezioni di un certo peso. Si è lamentata, per esempio, una certa indeterminatezza della nozione stessa, troppo generica ed onnicomprensiva, e si Fig. 6.3. Modello mentale di una semplice inferenza spaziale. P1) Gianni è a destra di Anna

P2) Ciro è a sinistra di Anna

A

C

→ C

G

A

A

G

C) Ciro è a sinistra di Gianni (o: Anna è tra Ciro e Gianni, ecc.)

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è sottolineato quanto sia difficile riuscire a giustificare in modo persuasivo la natura genuinamente semantica dei modelli mentali, in quanto opposta a quella puramente sintattica o formale delle regole della TCRM (cfr. Rips 1986; Wilks 1986; Paternoster 1998). Dal nostro punto di vista, tuttavia, le questioni interessanti sollevate dalla nozione di rappresentazione analogica sono essenzialmente le due seguenti: (a) quale rilievo filosofico ha, se ne ha uno, l’ipotesi che ci siano due modalità distinte di rappresentazione mentale? e (b) c’è qualcosa nella modalità della rappresentazione analogica che rende più facile venire a capo dei problemi relativi alla nozione di contenuto? Per quanto concerne la prima domanda, è indubbio che le questioni sollevate dalla nozione di rappresentazione analogica siano più pertinenti alla filosofia della scienza cognitiva che alla filosofia della mente in senso stretto, nei limiti in cui ha senso istituire una distinzione del genere. La supposta esistenza di rappresentazioni analogiche si sposa bene con il riconoscimento dell’importanza, se non della priorità, di percezione e motricità per un’appropriata comprensione della cognizione; con l’affermazione del rilievo svolto da processi di tipo simulativo in una varietà di compiti cognitivi; e con un’idea complessiva della cognizione meno formale e più pragmatica ed intuitiva. Nell’insieme tutti questi aspetti delineano una spinta verso una versione di funzionalismo computazionale più flessibile (anche se più difficile da formalizzare in modo rigoroso) di quanto non fosse la TCRM. La risposta alla seconda domanda è negativa, nel senso che nessuna proprietà intrinseca a un’immagine può fissarne il contenuto, cioè spiegare in virtù di che cosa un’immagine raffigura ciò che raffigura. L’analogicità, e specificamente la somiglianza, non possono sostenere questo ruolo, come pure superficialmente si potrebbe credere, perché le immagini sono sistematicamente soggette ad ambiguità interpretative. Per individuare il contenuto di un’immagine dobbiamo fare appello a un atto interpretativo esterno, o a un nesso causale. Sarebbe tuttavia ingiusto criticare le immagini mentali su questa base, come pure qualche volta si è fatto, perché i problemi di contenuto angustiano nella stessa misura tanto i simboli del linguaggio del pensiero quanto le rappresentazioni analogiche. Rappresentazioni implicite: la semantica procedurale. Uno dei più fortunati slogan dell’intelligenza artificiale degli anni Settanta fu «I significati sono procedure» (semantica procedurale). Ciò che si inten127

deva era, per esempio, che il significato di un ordine come «Passami il martello» consiste nell’esecuzione di quell’ordine; oppure che il significato di un sintagma come «quel gatto» consiste nella procedura di identificazione (o di reperimento nel campo visivo) di un certo gatto. Si tratta quindi di una tesi relativa al significato linguistico. L’intuizione che ne è alla base può tuttavia essere estesa al caso delle rappresentazioni mentali, e può essere resa nel modo seguente: non è necessario che una credenza sia rappresentata esplicitamente tramite un’espressione simbolica; la credenza può essere implicitamente veicolata dall’esecuzione di un frammento di algoritmo. L’idea è che alcune delle nostre conoscenze sono più simili a un know-how, un saper fare, come saper andare in bicicletta o suonare il pianoforte, che al rappresentarsi un enunciato dichiarativo2. Per esempio, credere che ci sia un gatto sul tappeto è disporre di una procedura che verifica se c’è un gatto sul tappeto in una data circostanza. In un certo senso, l’idea di semantica procedurale rinnega la nozione di rappresentazione, se si concepisce quest’ultima come un oggetto mentale semanticamente trasparente, portatore di un contenuto esplicitamente determinabile. D’altra parte, un algoritmo deve tipicamente fare uso di strutture dati. Nell’esempio precedente, la procedura deve disporre, tra l’altro, di strutture dati che descrivono le caratteristiche fisiche di gatti e tappeti; e non ci sono buone ragioni di negare che tali strutture dati siano a loro volta rappresentazioni, vettori di informazioni sul mondo. O almeno, questo è uno dei sensi in cui viene sovente utilizzato il termine «rappresentazione». Possiamo allora dire che la semantica procedurale si limita a indebolire il vincolo che ogni contenuto (oggetto, stato di cose) richieda una rappresentazione mentale esplicita che lo denota in modo, per così dire, trasparente. Da un altro punto di vista, l’idea della semantica procedurale è che il contenuto di una rappresentazione è determinato dalle manipolazioni in cui quella rappresentazione è coinvolta, non dal suo avere un legame causale con un oggetto del mondo esterno. Per esempio, un modello 3-D di Marr (cfr. supra, 5.3) non può di per sé rappresentare proprio niente se non c’è un algoritmo che lo confronta con un output della visione primaria. In questo c’è un’indubbia somiglianza con la semantica del ruolo inferenziale. Proprio per questa ragione essa è stata fatta oggetto di critiche 2 L’idea che la competenza semantica sia descrivibile come un saper fare è chiaramente espressa nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein.

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da parte di Fodor (1978), che, come abbiamo visto, difende una semantica referenziale-causale. Ora, è indubbio che, se rapportate al confronto tra GOFAI e NFAI, le contrapposizioni discusse in questo paragrafo sono più sfumate, non ultimo perché i sostenitori delle rappresentazioni analogiche e quelli delle procedure non hanno negato in modo puro e semplice l’esistenza di rappresentazioni proposizionali; hanno soltanto cercato di ridimensionarne la portata, di affermare la necessità di ammettere una molteplicità di modi di rappresentazione per spiegare diversi aspetti della cognizione. Nondimeno, queste differenze hanno dato luogo a polemiche anche assai aspre. Non ne daremo conto qui, rinviando il lettore alla guida bibliografica; prendiamo ora in considerazione i modelli proposti dalla NFAI, la scienza cognitiva «nuova» o post-classica. 2. Reti neurali Il programma di ricerca basato sulle reti neurali, o connessionismo, gode dalla fine degli anni Ottanta di grande salute e popolarità. In realtà le reti neurali non sono affatto più giovani dell’intelligenza artificiale simbolica: i primi lavori, di ispirazione molto vicina alla cibernetica o teoria del controllo automatico di Wiener e Nyqvist (per non fare che qualche nome) risalgono agli anni Quaranta (McCulloch e Pitts 1943; Hebb 1949); ma i successi conseguiti dall’intelligenza artificiale classica a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta avevano messo in ombra l’approccio connessionista. In particolare, fu un libro di Minsky e Papert pubblicato nel 1969 (Perceptrons), contenente una devastante critica del perceptrone di Rosenblatt – un tipo di rete neurale in voga negli anni Sessanta – a segnarne il momento di maggior declino. Ma un ventennio dopo i sostenitori delle reti neurali hanno potuto intonare il ritornello «ride bene chi ride ultimo». Una rete neurale è un insieme di unità interconnesse che simula, a un certo livello di astrazione, il comportamento di un conglomerato di vere cellule nervose. Ciascuna unità rappresenta infatti un neurone, e ciascuna connessione una sinapsi. Ogni unità è caratterizzata da uno stato di attivazione, un valore numerico che rappresenta grosso modo il grado di eccitazione (firing) di un neurone, cioè la frequenza con cui questo trasmette segnali lungo le sue sinapsi. È bene precisare fin da subito, tuttavia, che le reti neurali non possono essere considerate dei veri e propri modelli dei circuiti neuronali 129

Fig. 6.4. Una generica rete neurale.

Flusso dell’informazione

connessioni sinaptiche output assonale

connessioni sinaptiche output assonale

reali3, rispetto ai quali sono enormemente semplificate. Esse sono semmai un modello computazionale di alcuni processi cognitivi che si ispira al funzionamento del cervello. Ogni connessione è caratterizzata da un valore numerico, detto peso, che codifica la forza o intensità di quella connessione. L’influenza dell’unità i sull’unità j è data dal valore di attivazione dell’unità i per il peso della connessione da i a j; il peso può essere positivo o negativo, cosicché il segnale che viaggia sulla connessione può avere tanto una valenza eccitatoria quanto una inibitoria per il neurone raggiunto dalla connessione. Il valore di attivazione di un’unità dipende, secondo una legge matematica che può variare da caso a caso, dalla somma di tutti i segnali in ingresso. Lo stato di attivazione delle unità evolve quindi dinamicamente nel tempo, in funzione dello stato precedente e dei pesi sulle connessioni. Al di là dei dettagli matematici, la computazione eseguita da una rete neurale consiste semplicemente 3 Adottiamo anche noi la convenzione di usare l’aggettivo «neuronale» per riferirci a proprietà dei neuroni reali, e «neurale» per riferirci a proprietà dei loro modelli, cioè ai neuroni simulati.

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nella dinamica dei valori di attivazione, che può assumere caratteri diversi a seconda dei tipi di rete neurale, cioè a seconda della topologia della rete (numero di unità e distribuzione delle connessioni) e di come vengono fatti variare i pesi delle connessioni. Sono stati proposti, nel corso degli anni, diversi tipi di reti neurali. Qui presenteremo, a rappresentare l’intera categoria, un tipo di rete molto generale e potente, comunemente impiegata nei problemi di riconoscimento di forme (pattern recognition): la rete feedforward. Questo tipo di rete è caratterizzato dall’avere tre strati o livelli di unità: le unità di input, le unità nascoste o intermedie e le unità di output; e dal fatto che le connessioni sono monodirezionali, vanno cioè sempre dall’input verso le unità nascoste e dalle unità nascoste verso l’output. La rete nella Fig. 6.5 (cfr. pagina seguente), che ha 13 unità di input, 7 unità nascoste e 2 unità di output, è in grado di discriminare mine da rocce sulla base dello spettro di frequenza dei loro echi rilevati da un sonar. L’input è una rappresentazione dello spettro di ciascuna eco, mentre l’attivazione di una delle due unità di output rappresenta la presenza di una mina (o di una roccia). Fissati i valori iniziali di attivazione e i pesi, la rete neurale «calcola» i nuovi valori di attivazione, evolvendo così dallo stato iniziale fino a uno stato finale stabile nel quale il valore di attivazione delle unità di uscita costituisce una classificazione (come mina piuttosto che roccia) dello spettro fornito in input. Un aspetto di particolare interesse di questo tipo di reti è che possono essere addestrate, vale a dire, la rete impara a produrre il risultato voluto, regolando gradualmente il proprio stato di attivazione sulla base di un meccanismo di retroazione. L’addestramento viene realizzato più o meno nel modo seguente: all’inizio i pesi sulle connessioni sono assegnati in modo casuale, e la rete fornirà una risposta in generale molto diversa da quella desiderata. A questo punto, sulla base del confronto tra i valori forniti dalla rete e i valori desiderati, vengono calcolati i nuovi valori da assegnare ai pesi tramite una procedura detta di retropropagazione (back-propagation), perché i valori dei pesi vengono modificati all’indietro, dalle unità di output verso le unità di input. Questo processo di autoregolazione prosegue ricorsivamente fino a quando la rete assume una configurazione stabile che corrisponde al risultato voluto. Da quel momento in poi la rete risponde in modo appropriato a nuovi input. L’algoritmo di back-propagation opera in base alla seguente regola (det131

Fig. 6.5. Rete neurale per il riconoscimento degli echi. Mina

Roccia

Unità di output

Unità nascoste

ecc.

Livello di energia

1.0 –

.14 .23 .26 .57 .46 .96 .75 .67 .61 .88 .50 .32 .04 Vettore di input

Unità di input

Profilo dell’eco .5 –

0– Frequenza

Fonte: Churchland 1989.

ta «delta generalizzata»): i pesi di connessione tra due unità vengono modificati di una quantità proporzionale al prodotto dell’attivazione dell’unità di partenza per l’errore stimato dell’unità di arrivo. La procedura di apprendimento si arresta quando l’entità complessiva dell’errore valutata su un certo numero di pattern scende sotto una soglia prefissata. È evidente il grande interesse cognitivo di questo tipo di meccanismo: la rete apprende come modificare i pesi delle connessioni in modo da produrre la risposta appropriata. 132

Dal punto di vista rappresentazionale, che è quello pertinente in questo capitolo, la differenza filosoficamente più importante è quella tra reti neurali a rappresentazione locale e reti neurali a rappresentazione distribuita. Nel primo caso una singola unità della rete è associata a un certo simbolo o concetto e rappresenta quindi in modo esplicito una certa proprietà o classe di enti. Se, per esempio, viene attivata l’unità di output associata a MINA, ciò significa che la rete ha classificato l’eco in ingresso come proveniente da una mina. Nel secondo caso le singole unità della rete non hanno un’interpretazione semantica precisa, ma è soltanto un intero vettore di attivazione, per esempio l’insieme dei valori di attivazione di tutte le unità nascoste, che corrisponde a un simbolo o concetto. Nella rete di Fig. 6.5 il vettore di attivazione delle unità nascoste dà luogo a una rappresentazione distribuita nel senso che una gamma di valori possibili corrisponde a una classe di echi generati da una roccia, mentre un’altra gamma corrisponde alla classe di echi generati da una mina. Se rappresentassimo i valori di attivazione delle unità in un iperspazio cartesiano a sette assi (uno per ogni unità nascosta), risulterebbero individuati due sottospazi complementari, l’uno relativo all’eco-mina, l’altro relativo all’eco-roccia. Questa può essere considerata una rappresentazione (matematico-topologica) implicita dei concetti di mina e di roccia, rappresentazione che viene resa esplicita con l’attivazione dell’unità di output corrispondente. È evidente come il caso più interessante sia proprio quello distribuito, perché offre una concezione della rappresentazione diversa da quella esplicita o trasparente della scienza cognitiva classica. Le reti distribuite sono considerate infatti modelli subsimbolici: ciò significa che, a differenza di quanto avviene nei sistemi simbolici classici, gli oggetti manipolati dalla rete – chiamiamoli pure «rappresentazioni» – non corrispondono a entità semanticamente trasparenti, quali sono le parole di un linguaggio naturale o i simboli del linguaggio del pensiero. Nelle reti distribuite non ci sono rappresentazioni simboliche perché ogni entità è rappresentata da un pattern di attivazione distribuito su molte unità della rete, e ogni unità della rete è coinvolta nella rappresentazione di molte entità differenti. Il carattere distribuito e specificamente subsimbolico4 della rap4 La precisazione è dovuta al fatto che si possono avere rappresentazioni distribuite ma ancora simboliche, come quando rappresento il concetto di cane assegnando ad ogni unità della rete un tratto caratteristico del cane (coda, zampe, ecc.). Nel caso subsimbolico, invece, una singola unità non ha alcuna valenza simbolica.

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presentazione neurale conferisce a tali sistemi alcuni indubbi pregi come la capacità di dar conto della struttura graduale dei nostri processi di categorizzazione, e la tolleranza all’errore. Il primo aspetto consiste nel fatto che, per molte categorie, i membri non condividono tutti una determinata collezione di proprietà che devono necessariamente possedere per appartenere a quella categoria; piuttosto, la categoria è centrata su alcuni esemplari tipici, da cui gli altri membri possono via via allontanarsi in funzione del numero di tratti che condividono, in funzione cioè di quanto «somigliano» agli esemplari tipici. Queste caratteristiche sono colte bene da una rete neurale a rappresentazione distribuita: poiché la rappresentazione di una categoria avviene tramite un vettore di valori di attivazione, a variazioni piccole dell’ingresso corrisponderanno variazioni piccole dell’uscita, dando modo di rappresentare l’intera gamma di variazioni intracategoriali. Nell’esempio discusso, gli echi di una roccia (così come quelli di una mina) possono essere molto diversi l’uno dall’altro: vi saranno degli echi molto tipici, più facilmente riconoscibili, che corrisponderanno a un’eccitazione molto forte dell’unità di uscita ROCCIA; vi saranno poi degli echi meno tipici, fino ad arrivare a spettri di frequenza di cui è molto difficile capire se sono relativi a una roccia o a una mina. In sostanza, è la natura analogica del modo di rappresentare della rete a consentire di dar conto di questi fenomeni. La tolleranza all’errore è la capacità da parte della rete di dare comunque una risposta anche se l’input è degradato. Così, se il vettore di ingresso rappresenta in modo soltanto approssimativo un certo oggetto, evidenziandone per esempio soltanto alcuni aspetti (possiamo immaginare che ciò corrisponda al caso di un oggetto percepito in condizioni non ottimali), la rete risponderà con un output imperfetto, ma che comunque approssimerà il risultato voluto. Esattamente come fanno gli agenti umani. Strettamente collegata alla tolleranza all’errore è inoltre la possibilità di degrado graduale: poiché piccoli cambiamenti non alterano in modo significativo l’output prodotto, la rete è in grado di sopportare alcuni danni senza per questo diventare del tutto inutilizzabile. Ciò consente di simulare gli effetti di lesioni cerebrali locali, nei limiti sopracitati in cui questi modelli possono essere considerati modelli dell’organizzazione funzionale del cervello. Tracciamo un primo bilancio. Le reti neurali si sono dimostrate molto efficaci nei compiti di categorizzazione percettiva, e il loro modo di rappresentazione, tramite vettori di attivazione, consente di dar conto in modo più agevole, in qualche modo più naturale, di cer134

ti tratti distintivi della categorizzazione che nel paradigma classico si possono riprodurre con una certa difficoltà o comunque con metodi che appaiono essere più ad hoc rispetto alle reti neurali. Per contro, queste ultime hanno difficoltà con i compiti che mettono in gioco gli aspetti linguistico-formali delle rappresentazioni mentali. Su questa critica hanno insistito soprattutto Fodor e Pylyshyn (1988; cfr. anche Fodor e McLaughlin 1990), secondo i quali le reti neurali non possono essere un modello appropriato della mente perché non sono in grado di dar conto dell’aspetto composizionale, o combinatorio, del pensiero. Il pensiero deve essere fatto di rappresentazioni mentali capaci di combinarsi secondo le regole di una sintassi, altrimenti non sarebbe possibile spiegare la sua produttività, cioè il fatto che sappiamo costruire infiniti pensieri a partire da un repertorio finito di simboli atomici, o concetti; né sarebbe possibile spiegare la sua composizionalità, cioè il fatto che il contenuto di un pensiero complesso è determinato dal contenuto delle sue parti costituenti e dal modo in cui esse si combinano, dalla sintassi del complesso. Sono precisamente queste le motivazioni alla base dell’ipotesi del linguaggio del pensiero. Non è ancora chiaro se questa difficoltà dipenda da ragioni di principio o da ostacoli meramente tecnici, superabili con piccole modifiche nei modelli. Sembra che le proprietà combinatorie delle strutture linguistiche siano alla portata di un particolare tipo di reti neurali, le reti ricorrenti, che sono caratterizzate dall’avere sinapsi «ad anello», cioè unità connesse con se stesse. Comunque, allo stato attuale non vi è dubbio che l’aspetto composizionale sia catturato meglio dai sistemi simbolici classici. 3. Computazione senza rappresentazione: la robotica situata Le reti neurali hanno uno stile di rappresentazione molto diverso da quello della scienza cognitiva classica, ma incorporano la tesi secondo cui esistono rappresentazioni mentali. Un altro programma di ricerca, quello della robotica situata, si disfa invece della nozione stessa di rappresentazione, mantenendo tuttavia l’assunto che i processi mentali sono computazioni. Un’ottima esemplificazione di tale programma di ricerca è costituita dai lavori del gruppo di Rodney Brooks al MIT. Il gruppo di Brooks ha costruito dei robot mobili (le «creature») capaci di muoversi all’interno di un edificio dipartimentale evitando 135

i numerosi ostacoli che si possono frapporre sul cammino e compiendo un numero limitato di movimenti, come la capacità di riempire d’acqua una lattina. I robot sono dotati di un sistema sensomotorio, realizzato tramite una collezione di sonar a infrarossi, motorini che pilotano «piedi», e altre tecnologie relativamente poco sofisticate, e, al livello superiore, di una collezione di sottosistemi specializzati ciascuno dei quali è preposto allo svolgimento di una certa attività. Le attività sono, per esempio, «verificare la presenza di un ostacolo», «evitare un ostacolo», «esplorazione» (altre attività possono essere via via aggiunte). Ciascuna di esse viene eseguita da un processore che opera parallelamente agli altri, scambiando informazioni con il sistema sensoriale e con gli altri processori. Gli strati superiori sono connessi a quelli sensomotori senza la mediazione di alcuna interfaccia; in nessuna fase di queste elaborazioni vengono costruite rappresentazioni esplicite di oggetti o parti del mondo; non viene mai memorizzato nulla, perché ogni volta l’informazione viene recuperata direttamente nel mondo, così che si può dire, nel complesso, che «in larga misura lo stato del mondo determina l’azione delle creature» (Brooks 1991, p. 149). La computazione relativa a ciascuna attività è descrivibile tramite un automa a stati finiti5; in questo senso le unità di calcolo di Brooks sono processori tradizionali, a differenza di quanto avviene nelle reti neurali. Nella robotica situata non ci sono rappresentazioni esplicite che vengono costruite nelle diverse fasi dell’elaborazione percettiva; non c’è un output della percezione, non ci sono percetti o concetti. Ci sono, certamente, flussi di informazione, ma questo è tutto. Tutto quello che si può «cablare», cioè realizzare in hardware, viene cablato. E si potrebbe anche dire: l’essenza della percezione è nei trasduttori sensoriali, per esempio negli occhi, non nel cervello. Il problema è in primo luogo quello di recuperare le informazioni dall’ambiente; è poi sufficiente trasferirle ai processi pertinenti, senza memorizzare né manipolare. Secondo Brooks tale punto di vista rivendica la dennettiana strategia dell’interpretazione (cfr. supra, 4.2), la tesi secondo cui solo l’osservatore è in qualche modo legittimato ad attribuire credenze e scopi alle creature, che, di per sé, non ne posseggono alcuno. Ogni creatura è soltanto «una collezione di comportamenti in 5 Gli automi a stati finiti sono dei modelli computazionali sequenziali meno potenti delle macchine di Turing, nel senso che sono in grado di eseguire soltanto una sottoclasse delle funzioni computabili.

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competizione. Al di là del caos locale delle loro interazioni emerge, nell’occhio dell’osservatore, un pattern coerente di comportamento» (Brooks 1991, p. 149). L’ambizione teorica a lungo termine di questi modelli, che sono al momento considerati adatti a riprodurre la complessità cognitiva di un insetto, è quella di riprodurre gradualmente funzioni cognitive più complesse tramite l’aggiunta di altri moduli opportunamente integrati con i precedenti, mimando una sorta di percorso evolutivo. I punti centrali dal punto di vista teorico sono l’assunzione del sistema sensomotorio in luogo della cognizione di alto livello come modello della mente in generale e l’idea della totale assenza di rappresentazioni. Alla base di tale prospettiva c’è il principio secondo cui «in generale, le creature evolute non memorizzano né elaborano l’informazione in modi dispendiosi quando possono usare le strutture dell’ambiente e le loro elaborazioni su di esso come sostituto vantaggioso. In altre parole conosci solo quel tanto che ti è necessario per fare il tuo lavoro» (Clark 1989, p. 93). La questione teorica interessante è: gli agenti umani rappresentano o no il mondo? Spesso i sostenitori del punto di vista antirappresentazionalista fanno l’esempio dell’uomo che pianta un chiodo nel muro: certamente l’uomo non esegue questo compito formandosi rappresentazioni (esplicite) della posizione del martello e del chiodo; piuttosto, l’esecuzione del compito è controllata da circuiti retroazionati percettivo-motori6. Che questo genere di compito venga svolto senza rappresentare, tuttavia, è altrettanto vero del fatto che quando, per esempio, devo prendere una decisione, mi rappresento esplicitamente le diverse conseguenze indotte dalle opzioni disponibili. Chiaramente la robotica ha per oggetto un genere di compiti cognitivi simili all’esempio del chiodo, ma non si vede bene su quali basi generalizzare l’assunto. Il fatto che taluni compiti cognitivi non richiedono rappresentazioni, bensì, come nell’esempio sopra citato, un’attività continua di estrazione di informazioni, di per sé non sembra implicare che non ci 6 Ironicamente, questo stesso esempio era stato fatto da Miller, Galanter e Pribram, all’alba della scienza cognitiva, per sottolineare la necessità di postulare rappresentazioni mentali che mediassero stimoli e risposte. L’idea è che il sistema percettivo deve rappresentarsi la posizione del chiodo e del martello per produrre il comando motorio opportuno. Ciò dimostra quanto sia vaga e sfuggente la nozione di rappresentazione mentale.

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sia una distinzione abbastanza chiara tra agente e ambiente. Nondimeno tale distinzione viene cancellata da taluni sostenitori della cosiddetta cognizione corporea e situata, secondo i quali l’azione di un sistema va caratterizzata non come qualcosa di completamente interno al sistema stesso – come avviene tanto nei modelli classici quanto nelle reti neurali – bensì come parte di un’interazione più ampia sistema-ambiente. Secondo un’interpretazione particolarmente radicale di tale punto di vista, il sistema intelligente non è l’agente in quanto tale, bensì «l’agente-nell’ambiente», il sistema complessivo costituito dal corpo dell’agente e dal suo ambiente. La mente è dunque immersa nell’ambiente in un modo tale che non è possibile operare una distinzione chiara tra soggetto che rappresenta e contenuto rappresentato; anzi, non ha nemmeno senso dire che la mente rappresenta l’ambiente perché la mente è dentro l’ambiente, non è distinta da esso. Discuteremo nel capitolo successivo la portata epistemologica di questa tesi, forse un po’ estremistica, che segna il punto più lontano dai fondamenti della scienza cognitiva classica: computazione, rappresentazione, natura astratta della computazione. Un programma di ricerca particolarmente recente, quello dei sistemi dinamici, ripudia esplicitamente tanto la nozione di computazione quanto quella di rappresentazione, venendo in tal modo a costituire un vero e proprio paradigma alternativo. Per concludere, si noti come la cognizione corporea e situata possa essere caratterizzata come un tentativo di venire a capo del frame problem e più in generale delle critiche di Dreyfus all’intelligenza artificiale classica. Come si ricorderà, tali critiche ponevano l’accento sull’incapacità di principio di un sistema classico di applicare in modo pertinente le proprie conoscenze, a causa del carattere astratto, decontestualizzato di tali sistemi. Una mente incarnata e immersa nell’ambiente sembra avere qualche risorsa in più per sviluppare un «senso della pertinenza». ❑ Riepilogo Nell’ambito della cosiddetta scienza cognitiva classica (o GOFAI), sono state proposte, accanto alle rappresentazioni proposizionali, rappresentazioni di natura analogica e procedurale. Le prime, a differenza degli enunciati del linguaggio del pensiero, somigliano a ciò che rappresentano e lo rappresentano con continuità, non essendo scomponibili in parti 138

discrete. Le seconde assimilano il possesso di almeno alcune credenze a un saper fare: il contenuto di credenza è implicitamente veicolato da una procedura o da un frammento di procedura. Nell’ambito della scienza cognitiva nuova o postclassica (NFAI), sono stati proposti almeno due programmi di ricerca: le reti neurali e la robotica situata. Nelle prime, almeno nella loro versione distribuita, non ci sono più rappresentazioni simboliche, e i contenuti vengono veicolati da configurazioni di attivazione. Nella seconda si nega esplicitamente l’esistenza di rappresentazioni mentali: l’intenzionalità è negli occhi dell’interprete. Entrambi i programmi di ricerca si sono dimostrati assai efficaci nella simulazione di percezione e motricità, ma sono lontani dal poter riprodurre l’intenzionalità del pensiero o comunque, se si respinge la nozione di intenzionalità, le capacità concettuali-inferenziali degli agenti umani.

s Cos’altro leggere Sulle immagini mentali: F. Ferretti, Pensare vedendo, Carocci, Roma 1998. Interessante, soprattutto per l’analisi del rapporto tra immaginazione e percezione visiva, M. Massironi, La via più breve nel pensiero visivo, in «Sistemi Intelligenti», VII, 2 (1995), pp. 223-61. Una presentazione particolarmente efficace (e attenta nel segnalarne alcune difficoltà) della teoria di Kosslyn è contenuta in M. Tye, The Imagery Debate, MIT Press, Cambridge MA 1991. Sui modelli mentali: P.N. Johnson-Laird, V. Girotto e P. Legrenzi, Modelli mentali: una guida facile per il profano, in «Sistemi Intelligenti», XI, 1 (1999), pp. 63-83. Il lettore più intraprendente può misurarsi direttamente con il torrenziale P.N. Johnson-Laird, Modelli mentali, Il Mulino, Bologna 1988, una miniera di informazioni su molti temi di scienza cognitiva. Sui problemi filosofici della nozione di immagine mentale e più in generale delle rappresentazioni analogiche: D. Marconi, Filosofia e scienza cognitiva, Laterza, Roma-Bari 2001, cap. 3.; M. Mazzone, Percepire astrazioni. Uno studio cognitivo su concetti e significati, CEL, Università della Calabria, Rende 2000, spec. cap. 1. Sulla contrapposizione tra logica e modelli mentali si veda il primo capitolo di V. Girotto, P. Legrenzi (a cura di), Psicologia del pensiero, Il Mulino, Bologna 1999; assai utile l’antologia P. Cherubini, P. Giaretta e A. Mazzocco (a cura di), Ragionamento: psicologia e logica, Giunti, Firenze 2000. Sulle semantiche procedurali: D. Marconi, Semantica cognitiva, in M. Santambrogio (a cura di), Introduzione alla filosofia analitica del linguaggio, Laterza, Roma-Bari 1992, che contiene anche una limpida e concisa esposizione della teoria dei modelli mentali; A. Paternoster, Linguaggio e visione, ETS, Pisa 2001, cap. 7. 139

Sulle reti neurali: eccellenti tanto l’introduzione di Marcello Frixione a R. Smolensky, Il connessionismo. Tra simboli e neuroni, Marietti, Casale Monferrato 1992, quanto il quarto capitolo di M. Marraffa, Scienza cognitiva. Un’introduzione filosofica, CLEUP, Padova 2002. Si vedano anche D. Parisi, Intervista sulle reti neurali, Il Mulino, Bologna 1989 e il fascicolo monotematico «Sistemi Intelligenti», I, 2 (1989), in particolare l’articolo di Pietro Morasso. Sulla cognizione corporea e situata: come primo approccio può essere utile cominciare dall’ultimo capitolo di M. Marraffa, Scienza cognitiva. Un’introduzione filosofica, cit.; per un’esposizione più ampia A. Clark, Dare corpo alla mente, McGraw-Hill, Milano 2000. Sulla robotica in particolare: R. Brooks, Intelligence without representation, in «Artificial Intelligence», 47, 1-2 (1991), pp. 139-59. Altri riferimenti su reti neurali e su cognizione corporea e situata sono forniti alla fine del capitolo successivo.

Parte terza

Mente-mente

In questa terza ed ultima parte vengono affrontati temi e problemi inerenti l’organizzazione interna della mente considerata come sistema complessivo. Da un lato la sua architettura, vale a dire l’organizzazione funzionale: da quali sottosistemi è costituita e quali modelli sono più appropriati per descriverne e spiegarne il funzionamento. Dall’altro il rapporto tra questa organizzazione e la coscienza, intesa soprattutto come esperienza vissuta: la struttura funzionale può spiegare la coscienza? Il primo ambito di problemi è tra quelli su cui il dialogo tra scienziati e filosofi è particolarmente fitto. Molte delle questioni in gioco sono sollevate da scoperte o ipotesi scientifiche, anche se, allo stato attuale, si possono fare solo congetture su quale sia l’architettura della mente. Il secondo problema, al contrario, sembra essere, al momento, più terreno per speculazioni metafisiche che per una seria indagine empirica. Nel capitolo 7 ho radunato tre temi abbastanza indipendenti, tutti di grande importanza ed attualità sul piano scientifico. I primi due paragrafi discutono quello che può essere considerato il problema centrale della filosofia della scienza cognitiva: come studiare la mente. Il terzo paragrafo è dedicato alla questione architettonica per eccellenza, la controversa tesi della modularità della mente. Il quarto paragrafo dà conto della discussione sulla natura della psicologia del senso comune. Il capitolo 8 è dedicato al tema della coscienza e degli stati qualitativi, tema più volte sfiorato nel corso della trattazione, e collocato finalmente qui, a suggello del fatto che esso è lo scoglio ultimo, la cima più impervia e forse irraggiungibile per la ricerca scientifica, ma argomento assai elusivo anche per i filosofi più refrattari alle suggestioni della ricerca scientifica.

Capitolo 7

Architettura della mente

È chiaro che GOFAI e NFAI non propongono meramente tipi diversi di rappresentazione mentale, ma una visione radicalmente diversa di come funziona la mente, di quella che viene spesso chiamata la sua «architettura». Basti considerare come, per esempio, la robotica situata cerchi di sbarazzarsi della nozione stessa di rappresentazione. Abbiamo ora diversi elementi per istituire un raffronto critico tra i diversi programmi di ricerca, valutandone la portata per la scienza cognitiva e la filosofia della mente. Volendo condensare in una formula le tendenze della nuova scienza cognitiva, si potrebbe dire che essa si sta espandendo da un lato verticalmente, verso il corpo e il cervello, e dall’altro orizzontalmente, verso l’ambiente. Per un verso si ritiene che non esistano menti disincarnate e che non sia possibile fare seriamente scienza cognitiva prescindendo dalla conoscenza della neurofisiologia del sistema nervoso centrale; per l’altro si ritiene che le menti siano immerse nell’ambiente, talora fino al punto di dubitare della perspicuità della distinzione stessa tra agente e ambiente. I programmi di ricerca della nuova scienza cognitiva fanno propri uno o più di questi assunti. Il nostro intento è ora di valutare come si collocano i nuovi filoni di ricerca rispetto alla scienza cognitiva classica. È quello che faremo nei primi due paragrafi, il primo dedicato al connessionismo, il secondo ai programmi di ricerca ispirati all’idea di cognizione situata, in particolare quello più rivoluzionario e recente basato sulla teoria dei sistemi dinamici. Successivamente, nel terzo paragrafo, presenteremo e discuteremo un’ipotesi sull’architettura della mente che svolge un ruolo cruciale tanto nella «vecchia» quanto nella «nuova» scienza cognitiva: l’idea che la mente sia un sistema modulare. Infine, nel quarto paragrafo, presenteremo alcune ipotesi empiriche sulla natura della psicologia del senso comune. 143

1. Il connessionismo come ipotesi architettonica Quale sia esattamente lo statuto epistemologico delle reti neurali è una questione assai dibattuta tra gli scienziati cognitivi e i filosofi della mente. In particolare, si discute se il connessionismo sia da considerarsi come una versione di funzionalismo computazionale, per quanto assai deviante dal computazionalismo standard, o sia invece un programma di ricerca che segna la fine del sodalizio tra funzionalismo e scienza cognitiva, dichiarando tramontata l’era funzionalista. E si discute se modelli simbolici e modelli connessionistici possano proficuamente convivere, secondo un atteggiamento «ecumenico», pluralista, o se invece sia inevitabile un atteggiamento «massimalista», che contempla la possibilità di un solo tipo di modelli, le computazioni classiche o le reti neurali a seconda dei punti di vista1. Per affrontare questa discussione dobbiamo aggiungere qualche tassello alla nostra conoscenza delle reti neurali. Nel capitolo precedente abbiamo visto come una caratteristica cruciale che distingue le reti neurali dai sistemi classici sia la natura subsimbolica della rappresentazione. Ma le reti neurali sono molto diverse dai modelli computazionali classici anche sotto altri aspetti importanti. In primo luogo l’elaborazione è parallela invece che sequenziale: ci sono più unità di elaborazione attive contemporaneamente, mentre nei modelli classici in ogni istante viene elaborata una singola istruzione di un programma. In secondo luogo le reti sono sistemi analogici piuttosto che digitali: tanto i valori di attivazione quanto i valori dei pesi sono numeri reali e, più in generale, l’evoluzione di una rete neurale è descritta dalla matematica del continuo. In terzo luogo non c’è un vero e proprio concetto di programma memorizzato, perché la computazione di una rete neurale è un’evoluzione spontanea dello stato di attivazione della rete, modulata esclusivamente da un input iniziale e da un riaggiustamento dei pesi sulle connessioni. In questo senso, sebbene ci siano delle «regole» a cui la computazione si conforma, queste non sono assolutamente assimilabili a direttive esplicite come quelle dei sistemi classici. Infine, e ancor più importante, non c’è nemmeno una vera distinzione tra programma (computazione) e dati (rappresentazioni), perché l’equi1 È chiaro che le due questioni in discussione sono interdipendenti: è difficile supporre che connessionismo e funzionalismo computazionale possano convivere se li si giudica radicalmente alternativi l’uno all’altro.

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valente del concetto di rappresentazione nelle reti neurali è lo stato di attivazione dell’intera rete; e anche la computazione, come già detto, è eseguita dall’intera rete – è l’evoluzione dello stato di attivazione complessivo. Nell’insieme tutte queste caratteristiche dimostrano, a detta di molti, che le reti neurali sono un modello più plausibile della cognizione perché più fedele al modo di lavorare del cervello; le computazioni delle reti neurali sarebbero cioè «cerebriformi». Se aggiungiamo a questa considerazione il fatto che in alcuni compiti cognitivi, come la categorizzazione percettiva (riconoscimento di pattern), le reti neurali si sono dimostrate più efficaci, l’atteggiamento di chi ritenesse l’intelligenza artificiale classica il solo «gioco lecito» in scienza cognitiva appare temerario. In effetti il punto in discussione non è tanto questo, quanto il tipo di spiegazione che offrono le reti neurali e il livello di astrazione a cui esse si collocano. Il connessionismo è un programma di ricerca che mette in discussione l’idea che i processi mentali siano computazioni su rappresentazioni? Se la risposta è negativa, le reti neurali, lungi dal metterne in discussione i fondamenti, sono in continuità con la scienza cognitiva classica. Nel secondo caso, invece, i successi delle reti neurali dimostrerebbero che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel computazionalismo, e che anche i compiti cognitivi in cui esso ha avuto successo, come la sintassi, la visione o, soprattutto, il ragionamento, dovranno essere riprodotti con reti neurali. Una risposta netta a questa domanda non c’è, perché le reti neurali hanno una natura ambigua che le rende (legittimamente) interpretabili in modo differente2. In questo senso esse sono forse da considerarsi come uno strumento, qualcosa di simile a una tecnologia che può essere proficuamente sfruttata all’interno di quadri teorici diversi. L’ambiguità in questione è la seguente: da un lato l’apparato formale delle reti neurali, la matematica su cui esse si basano, è la teoria dei sistemi dinamici (cfr. il paragrafo successivo), e ciò fa sì che i modelli utilizzati si rifacciano alla fisica piuttosto che all’informatica teorica; dall’altro il modo in cui le reti neurali vengono impiegate per modellizzare certi compiti cognitivi è analogo a quello della modellistica computazionale, e la maggior parte dei sostenito2 L’ambiguità interpretativa è giustificata anche dal fatto che ci sono tanti tipi di rete.

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ri del connessionismo le considera sistemi computazionali (cfr. per es. Smolensky 1988; Elman 1998). Certamente l’evoluzione spontanea di una rete neurale è un processo molto diverso dall’esecuzione di un programma memorizzato, ma ciò non la rende di meno una computazione. E un poderoso sostegno all’interpretazione computazionale delle reti neurali è stato fornito dalla dimostrazione che la classe delle funzioni computabili da una rete neurale è equivalente alla classe delle funzioni computabili da una macchina di Turing. La conclamata affermazione che le reti neurali siano modelli computazionali non rende tuttavia meno netta la presa di distanza dei connessionisti dal funzionalismo computazionale classico. Essi affermano infatti che: a) poiché le computazioni di una rete neurale sono cerebriformi, nel senso di essere dipendenti dall’hardware neuronale, il connessionismo è antifunzionalista; b) poiché le reti neurali, almeno in alcune delle loro versioni, non manipolano simboli – le informazioni elaborate hanno natura subsimbolica –, il connessionismo non è computazionalismo in senso classico, o in senso proprio, cioè manipolazione di rappresentazioni in base a regole3. Riguardo a (b), abbiamo già le idee abbastanza chiare: il fatto che i dati manipolati da una rete neurale siano di natura subsimbolica non implica che nelle reti non ci siano rappresentazioni. Il punto è che le rappresentazioni di una rete neurale non sono semanticamente trasparenti: come le rappresentazioni procedurali, non sono esplicite. Nondimeno, i vettori di attivazione sono rappresentazioni, nella misura in cui sono un modo di codificare informazioni. In una formula, le reti neurali non sono sistemi simbolici fisici, ma non abbandonano l’idea che la mente sia essenzialmente un sistema rappresentazionale: le rappresentazioni mentali emergono come strutture di più alto livello distribuite sulle unità (Frixione 1992, p. 46). Assai più spinosa è la questione sollevata da (a): si può coerentemente difendere l’idea di un computazionalismo non funzionalista? Il dubbio nasce dalla considerazione che, se uno stato mentale è individuato in termini computazionali, allora è ipso facto funzionale: 3 La tesi (b) rafforza la tesi (a) in quanto la subsimbolicità è comunemente considerata biologicamente plausibile, o almeno assai più plausibile rispetto all’ipotesi della mente come sistema di rappresentazione simbolico.

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poiché le computazioni sono oggetti astratti, non è possibile che una computazione sia individuata dalla natura fisica del medium che la implementa. Il principio della natura astratta della computazione esclude, a rigore, che le reti neurali (in quanto modelli computazionali) violino il secondo principio cardine del funzionalismo computazionale, quello dell’indipendenza dal sostrato neurologico. Il connessionista sarebbe così posto di fronte al seguente dilemma: o ammette di essere funzionalista, oppure rinuncia a considerare le reti neurali come sistemi computazionali. A questo si può tuttavia replicare che un conto è sostenere l’irrilevanza per i processi mentali del sostrato fisico, cioè della materia cerebrale (il fatto che i tessuti nervosi siano fatti di sostanza bianca, sostanza grigia, mielina, ecc.); e un altro è sostenere l’irrilevanza dell’architettura cerebrale, cioè dell’organizzazione funzionale del cervello. Ciò che il connessionista imputa al funzionalismo computazionale classico è di aver confuso questi due livelli: se è verosimile che si possa dar conto di come funziona un processo cognitivo in modo del tutto indipendente dal fatto che il medium del processo sia fatto di tessuto nervoso (il cosiddetto «wetware»), è assai meno verosimile che sia indipendente anche da come il cervello è organizzato, dalla sua struttura funzionale. In questo senso il connessionismo sposerebbe una versione di funzionalismo empiricamente più credibile. Sarebbe esattamente per questa ragione che le computazioni di una rete neurale sono più efficaci almeno in alcuni casi. O, in altri termini, è assai plausibile che i pregi messi in luce dalle reti neurali dipendano proprio da quelle caratteristiche strutturali della computazione che sono ispirate al funzionamento del sistema nervoso centrale. Quanto detto fin qui potrebbe autorizzare una conclusione del genere: il connessionista aderisce ancora al funzionalismo computazionale, ma in una versione non antibiologica («funzionalismo subsimbolico», per usare una possibile etichetta). Le reti neurali, pur essendo molto lontane dall’archetipo del funzionalismo computazionale, restano ancora al suo interno, riformulandone, più che respingendone, alcuni assunti. Ciò garantisce in ultima analisi la continuità tra connessionismo e scienza cognitiva classica, pur nel rispetto di differenze di rilievo nella struttura della computazione e della rappresentazione. Il quadro, tuttavia, è più complesso di così. Vi è un altro contrasto, che nasce dal diverso atteggiamento che si nutre riguardo al rapporto tra stati computazionali e stati mentali del senso comune, da un lato, 147

e tra stati computazionali e stati cerebrali dall’altro. Abbiamo visto come nella TCRM gli stati computazionali siano uno specchio fedele degli stati mentali del senso comune: i secondi possono ridursi ai primi nella misura in cui la TCRM è una sorta di formalizzazione della psicologia del senso comune. Dall’altro lato, coerentemente con la lettura più diffusa del funzionalismo, la relazione tra stati computazionali e stati cerebrali sottesa dalla TCRM è quella di sopravvenienza, ciò che garantisce l’autonomia della psicologia dalle neuroscienze (cfr. supra, 3.1, 3.3). Invece alcuni sostenitori del connessionismo, come Paul e Patricia Churchland, considerano gli stati computazionali di una rete neurale gli unici legittimi stati psicologici, proprio in quanto sono (a differenza degli stati computazionali simbolici della scienza cognitiva classica) suscettibili di una riduzione agli stati neurologici. Secondo i Churchland, in altri termini, bisogna essere eliminativisti nei confronti degli stati mentali del senso comune (delle nozioni della psicologia popolare), ma perseguire un programma di ricerca riduzionistico nei confronti degli stati di una psicologia scientifica, che sono identificati con gli stati di una rete neurale (cfr. Fig. 7.1). In questo senso le reti neurali sono compatibili con un programma di ricerca eliminativista nel senso comune dell’espressione, ma riduzionistico al livello degli stati della psicologia scientifica. Anzi, una delle motivazioni per avere una psicologia scientifica basata sulla modellizzazione connessionista è proprio la sua (presunta) riducibilità: è questo che la rende scientifica. In tal modo il sostenitore delle reti neurali, pur non respingendo del tutto l’idea che gli stati mentali siano stati funzionali, identifica i primi con stati funzionali del cervello, cioè con gli stati di una rete neurale. L’interpretazione che i Churchland danno del connessionismo è alla base di un importante programma di ricerca in recente ascesa, quello della neuroscienza computazionale. In questa prospettiva le reti neurali, pur continuando ad essere in prima istanza modelli di processi cognitivi e non del cervello, possono tuttavia essere proficuamente impiegate per simulare estesi e complessi sistemi di neuroni, cioè, in sostanza, sottosistemi funzionali del cervello. La neuroscienza computazionale si configura cioè come una disciplinaponte tra psicologia e neuroscienza, da un lato fornendo vincoli «dal basso» (bottom-up) alla psicologia, dall’altro estendendo certi principi della modellistica computazionale alla ricerca neuroscientifica e favorendo in tal modo l’integrazione dei costrutti teorici delle neuroscienze all’interno della psicologia computazionale. In questo sen148

Fig. 7.1. Schema di riduzione complessa: sostituzione delle vecchie teorie, psicologica e neuroscientifica, da parte delle nuove; e derivazione della nuova teoria psicologica (connessionista) dalla nuova teoria neuroscientifica (adattato da Bechtel 1988). VECCHIA TEORIA PSICOLOGICA

(psicologia computazionale classica)

NUOVA TEORIA PSICOLOGICA SOSTITUZIONE

TENTATIVO DI RIDUZIONE

VECCHIA TEORIA NEUROSCIENTIFICA

(psicologia connessionista)

DEDUZIONE

SOSTITUZIONE

NUOVA TEORIA NEUROSCIENTIFICA

so la neuroscienza computazionale è il programma di ricerca che meglio incarna il neoriduzionismo, in specie nella versione di Bickle (1998) di cui si diceva in 3.3. È da questo contrasto, tra eliminativisti-riduzionisti da un lato e realisti intenzionali-antiriduzionisti dall’altro che nascono i rispettivi atteggiamenti massimalisti. Da un lato abbiamo autori come Fodor e Pylyshyn, secondo i quali le reti neurali possono essere considerate, nella migliore delle ipotesi, l’implementazione di basso livello di una computazione, nello stesso senso in cui è possibile realizzare una certa funzione matematica tramite un circuito logico anziché tramite un algoritmo. Secondo questa prospettiva, implementare (realizzare), per esempio, una certa procedura visiva con una rete neurale piuttosto che con un algoritmo non cambia in nulla l’architettura computazionale del sistema: la teoria di Marr potrebbe tranquillamente incorporare reti neurali, continuando ad essere il tipo di teoria che è. All’opposto, per un «connessionista massimalista» come i Churchland, è proprio l’idea di cognizione come attività simbolico-rappresentazionale ad essere sbagliata, in quanto proietta indebitamente sul cervello la struttura della psicologia del senso comune. È chiaro che se la motivazione fondamentale alla base del programma di ricerca connessionista è quella di spiegare come il cervello produce quelle che chiamiamo «attività mentali», il conflitto con il sostenitore della GOFAI è molto forte, perché quest’ultimo, lungi dall’avere preoccupazioni riduzionistiche, è interessato assai di 149

più a una sistematizzazione rigorosa del pensiero quale esso è concepito dal senso comune. I rispettivi progetti di ricerca sono cioè del tutto diversi: nell’uno la psicologia diviene in prospettiva una branca della biologia; nell’altro la psicologia assomiglia più alla formalizzazione di un insieme di concetti e principi del senso comune; ed è precisamente la grande lontananza della scienza cognitiva postclassica dalla struttura del pensiero conscio e del linguaggio che spinge qualche computazionalista ortodosso ad affermare che la TCRM è «l’unico modello scientifico della mente che possieda un minimo di plausibilità» (Piattelli Palmarini 1998, p. 255). Dato questo sfondo, è realistico assumere un atteggiamento ecumenico? Secondo Clark (1989) sì, a condizione di considerare algoritmi classici e reti neurali due livelli di spiegazione diversi. L’idea è che ci sono compiti cognitivi primitivi (percezione, controllo dell’azione) la cui architettura è adeguatamente riprodotta da una rete neurale, e compiti cognitivi sofisticati, di alto livello (pianificazione, inferenza, produzione linguistica), la cui architettura è seriale e simbolica, quindi di tipo classico. Secondo Clark, quando siamo impegnati in compiti di alto livello, evoluzionisticamente avanzati, la mente simula una macchina virtuale simbolica, cioè esegue le sue funzioni come se disponesse di un hardware diverso, seriale anziché parallelo. La psicologia del senso comune fa parte delle funzioni avanzate, e ciò giustifica la sua descrizione scientifica in termini di funzionalismo computazionale classico. In questo senso, l’interpretazione che Clark dà delle reti neurali non è di tipo eliminativista4. Fermiamoci qui; il lettore è invitato a trarre da sé le sue conclusioni. Le tabelle 7.2a, 7.2b riprodotte poco più oltre (cfr. infra, 7.2) evidenziano la collocazione del connessionismo rispetto alla scienza cognitiva classica in relazione a due aspetti diversi, l’uno epistemologico-esplicativo (tipologia dei modelli utilizzati), l’altro metafisico (natura degli stati mentali).

4 È doveroso precisare, tuttavia, che per Clark la validità della psicologia del senso comune non discende, come pensa Fodor, dall’esistenza di genuini nessi causali tra stati mentali e comportamento, ma, in modo simile a Dennett, dal fatto che essa soddisfa certi standard normativi ed esplicativi (Clark 1989, pp. 264-68).

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2. Cognizione situata e sistemi dinamici: rivoluzione o continuità? Anche l’enfasi sugli aspetti corporei e ambientali può essere interpretata in due modi, uno in continuità con il funzionalismo computazionale, l’altro in rottura. Secondo il primo punto di vista, l’approccio della GOFAI era, più che sbagliato, parziale: si sono trascurati gli aspetti sensoriali e motori, ma il funzionalismo computazionale ha le risorse per ricomprenderli al suo interno. Secondo l’interpretazione di rottura, invece, il funzionalismo computazionale non può venire a capo di questi aspetti perché la relazione sensomotoria che sussiste tra un agente e il mondo non è di tipo computazionale, o perlomeno può più proficuamente essere trattata all’interno di un quadro teorico non computazionale. Per quanto polemica verso molta intelligenza artificiale classica, la posizione dei robotisti alla Brooks (cfr. supra, 6.3) può considerarsi ancora interna al funzionalismo computazionale. La rinuncia alla nozione di rappresentazione, infatti, non inficia il fatto che l’interazione col mondo delle creature artificiali sia di tipo computazionale. E resta da vedere se l’aggiunta di attività più sofisticate alle creature non conduca prima o poi a una forma di rappresentazione. Invece, secondo altri sostenitori della cognizione corporea e situata, l’idea che gli agenti, più che rappresentare il mondo, vi sono immersi, porta all’introduzione di nuovi concetti, strumenti e metodi che potrebbero sostituire in tutto o in parte l’arsenale teorico del funzionalismo computazionale (cfr. Clark 1998), eventualmente fino al punto di farci riconsiderare le familiari distinzioni tra percezione, cognizione ed azione da un lato, e tra mente, corpo e mondo dall’altro. Certamente allo stato attuale queste idee ed intuizioni sono lontane dal dare luogo a una sistematizzazione teorica compiuta quale è, per esempio, la TCRM. Vi è tuttavia un programma di ricerca che sembra avere maggiori credenziali per render conto della nozione di immersione nel mondo: la teoria dei sistemi dinamici. I sistemi dinamici costituiscono una rottura radicale con la scienza cognitiva classica, perché ne respingono in toto l’assunto fondamentale, quello che i processi cognitivi siano computazioni su rappresentazioni. Nei sistemi dinamici non ci sono rappresentazioni e i sistemi dinamici non sono modelli computazionali. È quindi plausibile sostenere che, nell’ipotesi (per ora prematura) che i sistemi dinamici soppiantassero del tutto i modelli simbolici, si potrebbe dav151

vero parlare di un cambiamento di paradigma, laddove nel caso delle reti neurali e della robotica situata si riscontra, come si è visto, ancora un certo grado di continuità. Nondimeno, vi è chi ritiene possibile combinare i due approcci: ancora Andy Clark (1997, cap. 8) sostiene che è preferibile adottare l’uno piuttosto che l’altro a seconda che vi sia «accoppiamento» o «disaccoppiamento» tra mente-cervello e mondo, e cioè, semplificando un po’, in funzione del fatto che le informazioni pertinenti siano disponibili nel campo percettivo dell’agente oppure no: nel secondo caso si ha rappresentazione in senso proprio ed è quindi preferibile questa o quella versione del computazionalismo; nel primo caso non si ha rappresentazione ed è quindi più appropriata la modellizzazione dinamicista. Per meglio valutare queste considerazioni, dobbiamo dare un’idea almeno vaga di che cosa è un sistema dinamico. In breve, un sistema dinamico è un sistema di equazioni differenziali, cioè di leggi matematiche di tipo continuo che correlano le variabili pertinenti. Nel caso dei sistemi cognitivi, le equazioni in questione sono non lineari; ciò significa che il comportamento del sistema tende a essere instabile, saltando improvvisamente da un punto all’altro del suo spazio degli stati, e rispondendo in modo brusco a sollecitazioni anche modeste in ingresso. Ci sono tuttavia alcuni stati, detti attrattori, nei quali il sistema tende a trovarsi più spesso che in altri e nei quali tende a stabilizzarsi. Per avere un’idea di che cosa è un sistema non lineare, si pensi al tempo (nel senso climatico): l’arrivo di una perturbazione può abbattere improvvisamente la temperatura e sollevare un vento furioso. I modelli di previsione meteorologici sono appunto non lineari. Il tipo di spiegazione offerto da un sistema dinamico è assai diverso da quello di un modello computazionale: mentre nel secondo caso un certo comportamento viene riprodotto, nel primo caso quello che abbiamo è piuttosto una descrizione matematica capace di generare previsioni sul comportamento date certe condizioni iniziali. Sono state sollevate perplessità sul fatto che i sistemi dinamici siano esplicativamente adeguati nel caso dei processi cognitivi, perché essi non chiariscono come, con quale sequenza di operazioni, viene portato avanti un certo compito; per contro, i sostenitori dei sistemi dinamici motivano tipicamente la loro convinzione sulla base delle tre seguenti considerazioni: – la complessità di alcuni sistemi non consente di riprodurli con una metodologia simulativa di tipo classico (algoritmico); 152

– la relazione tra la mente-cervello e il mondo in molti casi non è una relazione rappresentazionale, ma una relazione di accoppiamento, cioè una sorta di «presa diretta» sul mondo; – i processi cognitivi si sviluppano nel tempo; reti neurali e, soprattutto, modelli simbolici fanno indebitamente astrazione da questo fatto. Ciò che particolarmente attrae i sostenitori della cognizione situata è la seconda di queste caratteristiche, in base alla quale il legame tra una variabile interna a un agente ed una esterna è catturato da una corrispondenza matematica: l’una segue l’altra in virtù di una connessione diretta, al modo in cui, per esempio, la portata di un getto d’acqua dipende dalla forza che imprimo a una pompa (per un esempio più articolato ed elegante si veda la discussione del regolatore di Watt in Van Gelder 1995). In casi del genere, non ha senso parlare di una relazione di tipo rappresentazionale tra grandezze, bensì di una covariazione dovuta a certi meccanismi di connessione o accoppiamento. Ancora più radicalmente, è possibile cancellare la frontiera tra sistema e ambiente facendo uso di «variabili collettive», che descrivono parametri comportamentali i cui valori dipendono simultaneamente da fattori interni ed esterni. Valutare oggi la bontà di questo programma di ricerca è difficile, non soltanto perché i modelli effettivamente proposti sono, in rapporto a sistemi classici e reti neurali, ancora assai pochi; ma anche perché non è ben chiaro se e come i sistemi dinamici possano essere usati per modellizzare comportamenti che non siano quelli di natura strettamente psicofisiologica, come, per esempio, il movimento ciclico degli arti di un neonato. È difficile capire in che senso un compito cognitivo come la pianificazione o la risoluzione di problemi potrebbe essere descritto da un sistema dinamico in un modo che abbia valenza esplicativa, che espliciti cioè come il compito è realizzato. D’altra parte, è indubbio che i sistemi dinamici si prestano bene a riprodurre quelle caratteristiche di auto-organizzazione che, a detta di molti, caratterizzano i fenomeni mentali. Le succitate variabili collettive descriverebbero precisamente quelle proprietà emergenti che sono tipicamente considerate il risultato dei processi di auto-organizzazione di sistemi complessi. Il sistema di controllo motorio, per esempio, sarebbe un processo che conduce a una riduzione delle variabili in gioco, nel senso che «nel corso dell’apprendimento motorio vi [è] un processo spontaneo di auto-organizzazione, che conduc[e] al fat153

to che i singoli parametri non agiscono più individualmente, ma sinergicamente (o cooperativamente)» (Luccio 2000, p. 235). La conclusione è così inevitabilmente interlocutoria: da un lato non sono ancora ben chiare le effettive possibilità dei sistemi dinamici, sia in termini di adeguatezza esplicativa intrinseca, sia in termini di ambito di fenomeni che essi possono coprire; dall’altro è indubbio che i sistemi dinamici dischiudano delle prospettive riguardo alla possibilità di descrivere i fenomeni di auto-organizzazione; le teorie basate sui sistemi dinamici hanno inoltre il vantaggio (ammesso che tale vada considerato) di essere formulate nello stesso vocabolario delle scienze fisiche. INTERMEZZO: CONCLUSIONI SUI PARAGRAFI 1 E 2

Nel complesso non vi è dubbio che la scienza cognitiva stia attraversando una fase di tumultuosa evoluzione i cui esiti non sono affatto chiari. La spinta verticale verso il cervello e il corpo e quella orizzontale verso l’ambiente sono ormai un dato di fatto; resta da capire come dar conto in modo efficace di queste esigenze; e se le differenze sempre più rilevanti tra vecchia e nuova scienza cognitiva non finiranno per condurre a una dissoluzione della disciplina. Per quanto, come abbiamo visto, molte ricerche siano in continuità col funzionalismo computazionale, non vi è dubbio che una delle tesi fondamentali del funzionalismo, l’indipendenza dal sostrato materiale, stia vacillando. Se ciò condurrà a una piena rivalutazione del riduzionismo, cioè a una versione aggiornata della teoria dell’identità di tipo (cfr. supra, 3.3), è ancora presto per dirlo. Inseriamo qui di seguito due tabelle utili per avere una visione sinottica dei rapporti tra i programmi di ricerca discussi. Tabella 7.2a. COMPUTAZIONE?

SÌ`

NO

PSICOLOGIA FOLK?

SÌ`

TCRM

(=REALISMO INTENZIONALE)

NO

ANTINATURALISMO

(la mente non è un concetto scientifico, ma del senso comune) RETI NEURALI

154

SISTEMI DINAMICI

Tabella 7.2b. SÌ`

COMPUTAZIONE?

NO

RAPPRESENTAZIONE?

SÌ`

TCRM; RETI NEURALI



NO

ROBOTICA SITUATA

SISTEMI DINAMICI

3. La modularità della mente Una delle ipotesi di maggior rilievo elaborate in seno alla scienza cognitiva classica, ma tacitamente accolta anche in diversi programmi di ricerca della NFAI, è quella secondo cui la mente ha una struttura modulare. Ciò significa, in prima approssimazione, che la mente è articolata in sottosistemi distinti, geneticamente selezionati, che eseguono funzioni molto specifiche in modo in larga misura autonomo, cioè indipendentemente gli uni dagli altri. La formulazione più limpida della tesi della modularità della mente si deve a Fodor (1983). Cominciamo quindi con l’esporre le tesi contenute in questa sua meritatamente fortunata opera. La modularità secondo Fodor. Secondo Fodor un modulo è un sottosistema di elaborazione delle informazioni che soddisfa una serie di proprietà di cui quella più importante, irrinunciabile secondo l’autore, è l’incapsulamento informativo o – per usare un’espressione di Pylyshyn e Stich – l’impenetrabilità cognitiva. Dire che un modulo è incapsulato o cognitivamente impenetrabile significa che le operazioni che esso compie utilizzano unicamente informazioni altamente specifiche interne al modulo stesso, senza mai ricorrere a conoscenze di tipo più generale disponibili al sistema preso nel suo complesso. In altre parole, un modulo non ha accesso a informazioni non appartenenti alla propria «base di dati». La tesi dell’autonomia di elaborazione è interpretata cioè in un senso molto forte. Fodor non ritiene che la mente sia uniformemente modulare; sarebbero bensì modulari soltanto quelli che egli chiama i sistemi di input, vale a dire i sottosistemi percettivi5 e il sottosistema per l’elabo5 I sistemi di input sono i sistemi percettivi in senso stretto, il cui output non è ancora una rappresentazione concettuale vera e propria; per esempio, è la sola vi-

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razione del linguaggio parlato, il cui compito consiste nel «tradurre» una sequenza di suoni in una formula nel linguaggio del pensiero. I sistemi di input si collocano a metà tra i trasduttori sensoriali, che si limitano a convertire i pacchetti di energia che li colpiscono in segnali elaborabili dai sistemi di input, e i sistemi centrali, cioè i processi inferenziali e di fissazione della credenza. Prima di esaminare le conseguenze di questa impostazione, dobbiamo tuttavia esaminare altre importanti proprietà che Fodor attribuisce ai moduli: la specificità di dominio, l’obbligatorietà e l’accessibilità limitata. Specificità di dominio significa che il tipo di dati elaborati da un modulo concerne esclusivamente una ristretta area di conoscenza; in altre parole, i moduli sono sistemi specializzati per elaborare particolari tipi di input. Ci sono meccanismi psicologici distinti corrispondenti a domini di stimolazioni distinte, per esempio, il riconoscimento di volti, la percezione del colore, il rilevamento della struttura melodica di uno stimolo acustico, ecc. Obbligatorietà significa che il modulo è automaticamente attivato ogni volta che input specifici gli sono forniti: non si può impedire che il modulo entri in azione nelle circostanze appropriate di funzionamento, per esempio non si può evitare di udire una frase proferita nella propria lingua, o di avvertire una sensazione tattile quando si posa la mano su una superficie. Accessibilità limitata significa che il soggetto può accedere esclusivamente all’output del modulo, cioè alle rappresentazioni finali che esso costruisce e non alle eventuali rappresentazioni intermedie, di cui non è consapevole. Nel loro insieme la proprietà di accessibilità limitata e quella di incapsulamento sanciscono una drastica separazione tra un modulo e il resto del sistema; il modulo lavora in indipendenza e autonomia, ed è solo al livello della sua interfaccia di output che altri processi cognitivi, in particolare i processi «centrali» di ragionamento o fissazione delle credenze, possono accedere ai dati elaborati dal modulo. Quest’ultima caratteristica è particolarmente cruciale e, relativamente al caso della percezione visiva, contraddice, e deve quindi farsi carico di spiegare in modo diverso, i fenomeni di feed-back, cioè l’apparente uso nei processi di analisi percettiva di informazione di «alto livello», comunque non specifica dello stimolo percettivo. Esempi di questi fenomeni sono le reintegrazioni di fonemi o di particolari sione primaria (quella descritta dai primi due livelli della teoria di Marr, cfr. supra, 5.3) ad essere modulare.

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visivi: se in una sequenza di suoni linguistici percepiamo l’assenza di un fonema, inseriamo il presunto fonema mancante sulla base dei fonemi precedenti e successivi, indipendentemente dal fatto che il fonema in questione fosse realmente presente nella sequenza. Nella prospettiva modularista questi fenomeni vengono spiegati affermando che gli effetti di feed-back (le integrazioni o correzioni) intervengono sui risultati dei sistemi di input, non sulle loro elaborazioni. Così, per esempio, le illusioni ottiche (frecce di Müller-Lyer e casi analoghi) sarebbero una prova a favore dell’incapsulamento, poiché sono casi in cui il modulo visivo sbaglia per ragioni intrinseche ai suoi principi di funzionamento, e non c’è nulla che possiamo fare per correggere il suo errore, salvo ricorrere alla nostra conoscenza. Ma ciò non evita l’errore, semplicemente lo corregge a posteriori6. Ulteriori proprietà dei moduli sono la velocità di esecuzione, la realizzazione neuronale fissa, la danneggiabilità selettiva. Le elaborazioni dei moduli sono caratterizzate da grande rapidità per ragioni evolutive: i compiti cognitivi che secondo Fodor possiedono una struttura modulare avevano infatti valore cruciale per la sopravvivenza (nell’era in cui l’uomo era, per esempio, una preda per molti carnivori). I moduli sono infatti sistemi selezionati geneticamente. E se sono selezionati geneticamente, è plausibile che siano implementati in circuiti neuronali sostanzialmente fissi, stabili. Quanto alla danneggiabilità selettiva, è una conseguenza dell’incapsulamento e della realizzazione neuronale fissa: un danno circoscritto a un gruppo di circuiti neuronali può colpire esclusivamente le funzioni eseguite dal modulo corrispondente a tali circuiti, lasciando intatte le altre funzioni del sistema. Torniamo ora alla tripartizione in trasduttori, sistemi di input e sistemi centrali. I sistemi centrali, come i processi di fissazione delle credenze, la pianificazione dell’azione, la scoperta scientifica, ecc. sarebbero non modulari per una ragione abbastanza intuitiva: qualsiasi informazione disponibile in qualunque parte della mente è in linea di principio pertinente per fissare una credenza o prendere una decisione. Per esempio, non è possibile circoscrivere l’ambito di conoscenze pertinenti che portano a una scoperta scientifica. Fodor esprime questa intuizione dicendo che i processi centrali hanno un carat6 Fodor respinge così radicalmente la concezione top-down della percezione, in base alla quale la codificazione percettiva di uno stimolo è determinata in larga misura da credenze e attese più o meno consapevoli del soggetto.

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tere isotropico e quineano. Isotropico significa che qualsiasi tipo di informazione può in linea di principio essere sfruttato per confermare una certa ipotesi. Quineano significa che l’acquisizione di una nuova informazione non determina l’abbandono o la conferma di una singola ipotesi, bensì conduce alla revisione di un intero «pacchetto» di credenze (questa tesi è nota come «olismo della conferma»). La restrizione della modularità ai soli sistemi di input ha due conseguenze importanti. La prima è che c’è una cesura molto netta tra pensare e percepire; la percezione funziona in modo radicalmente diverso dalla cognizione. Ritroviamo così, sulla base di argomenti di natura molto diversa, la distinzione tra contenuto concettuale e contenuto non concettuale (cfr. supra, 5.1). La seconda conseguenza ha qualcosa di sconcertante: secondo Fodor i sistemi centrali non sono suscettibili di un’adeguata indagine scientifica, perché è impossibile circoscrivere l’insieme di dati pertinenti a un sistema centrale7. Si tratta di una conclusione doppiamente paradossale, da un lato perché buona parte della scienza cognitiva sarebbe allora condannata ad essere fin dal principio un’impresa senza speranza (come ha osservato Dan Sperber, il termine «cognitivo» designa in prima istanza proprio i processi centrali), dall’altro perché la stessa teoria di Fodor, la TCRM, sarebbe sotto certi aspetti messa in discussione. Per esempio, potrebbe esserci un conflitto tra la condizione di formalità (cfr. supra, 2.3), che è un vincolo di tipo locale, e la non-modularità dei processi cognitivi. Esemplificando, da un lato Fodor ci dice che il ragionamento si sviluppa sulla base di regole formali, dall’altro che qualunque conoscenza è pertinente, in un’accezione apparentemente semantica, per giungere a una certa conclusione. A questo si potrebbe replicare che le regole specificano che cosa segue da una premessa, non come selezionare la premessa; nondimeno c’è qualcosa di sconcertante nell’elaborare una teoria (la TCRM), che aspira ad essere scientificamente rispettabile, di un fenomeno che si considera non indagabile scientificamente. Modularità «debole» e modularità massiva. Quello di Fodor non è l’unico concetto di modularità che è stato proposto. Diversi autori hanno sostenuto infatti che i vincoli imposti da Fodor sono troppo 7 Il frame problem, per esempio, è considerato da Fodor una conseguenza della natura non modulare dei sistemi centrali.

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forti perché la modularità sia un’ipotesi empiricamente plausibile. In particolare, ricade sotto questa critica la proprietà di incapsulamento informativo. Si possono menzionare almeno altre due nozioni di modularità affrancate dall’incapsulamento informativo, l’una utilizzata in neuropsicologia cognitiva, l’altra sostenuta dagli psicologi evoluzionisti. I moduli dei neuropsicologi incorporano fondamentalmente i soli principi della localizzabilità e della danneggiabilità selettiva: condizione necessaria affinché un modulo sia alla base della capacità di svolgere una certa classe di prestazioni è che tale capacità sia localizzabile e dissociabile. Per localizzabilità si intende che una lesione in una determinata area cerebrale deve comportare l’impossibilità di svolgere qualsiasi prestazione appartenente a quella classe; per dissociabilità (o selettività del deficit) si intende che quando sono colpite le prestazioni di una certa classe tutte le altre prestazioni cognitive rimangono intatte. Questi principi sono irrinunciabili per l’esistenza stessa della disciplina, che trae le sue ipotesi teoriche dai danni funzionali indotti da lesioni cerebrali più o meno estese. A danneggiabilità e selettività si accompagna talora la specificità di dominio, nel senso che in diversi casi sono stati riscontrati danni localizzati ad aree di conoscenza assai specifiche, come nomi propri, nomi di certi generi naturali, ecc. Un’altra possibile interpretazione della modularità si fonda principalmente sul criterio della specificità di dominio. I moduli sarebbero strutture selezionate geneticamente preposte all’elaborazione di una classe omogenea di informazioni8. L’interesse maggiore di tale proposta, ciò che in definitiva la motiva, è la possibilità di considerare modulari anche i processi centrali. Ci si riferisce infatti a tale proposta come «ipotesi della modularità massiva». Spesso i sostenitori della modularità massiva si richiamano, quasi come a un principio di autorità, a Chomsky. In effetti alcuni passi dei suoi scritti (soprattutto in Chomsky 1993 e 1995) inducono a ritenere che egli veda con favore questa ipotesi, sebbene nel complesso dei suoi lavori, focalizzati come sono su una facoltà mentale, il linguaggio, non si possa trovare una vera e propria teoria della 8 Occorre tuttavia far bene attenzione a non confondere genuini domini cognitivi – geneticamente determinati – con mere collezioni di credenze. Per questa ragione la definizione di metodologie sperimentali adeguate per l’individuazione dei moduli è problema cruciale.

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mente come sistema modulare. Al di là dei riscontri testuali, abbastanza sporadici, non vi è dubbio che l’opera di Chomsky sia all’origine dell’idea stessa di modularità: la tesi secondo cui la facoltà del linguaggio (o Grammatica Universale, GU) è un singolo «organo mentale» è probabilmente l’argomento più noto ed influente in favore della specificità di dominio. La GU è, in altri termini, la prima esemplificazione di sistema modulare. Tra gli argomenti in favore della modularità della GU possiamo citare la regolarità e stabilità transculturale dell’acquisizione del linguaggio (che inducono a considerare la GU come un sottosistema geneticamente specificato), l’esistenza di deficit cognitivi che non alterano minimamente le capacità linguistiche e di deficit specificamente linguistici (criterio della localizzabilità-danneggiabilità selettiva), le capacità linguistiche normali di ciechi e sordi (che confortano l’idea dell’autonomia della facoltà del linguaggio)9. Secondo Chomsky – così come interpretato dai sostenitori della modularità massiva –, oltre alla GU e ad alcuni sottosistemi percettivi sarebbero moduli cognitivi specializzati diverse facoltà di commonsense understanding, cioè di strutture concettuali del senso comune, come la psicologia del senso comune (o, più propriamente, la psicologia ingenua, cfr. il paragrafo 4) e la fisica ingenua, nonché una o più facoltà di science-forming, le strutture di conoscenza atte all’elaborazione delle teorie scientifiche, quale ad esempio la facoltà aritmetica. Quale che sia esattamente la concezione della modularità di Chomsky, il punto per noi importante è che, sulla base dell’idea di identificare nella specificità di dominio la proprietà caratterizzante i moduli, si apre la strada all’ipotesi della modularità massiva, difesa soprattutto dall’antropologo cognitivista Dan Sperber (1994; 1996) e dagli psicologi cognitivi evoluzionisti (per es. Pinker 1997). Secondo Sperber anche le capacità concettuali sono modulari, nel senso che la nostra conoscenza del mondo, i nostri sistemi di credenze, sono organizzati per aree relativamente indipendenti che si sarebbero sviluppate per aggregazioni modulari. I moduli concettuali sono tipicamente meccanismi inferenziali, i cui domini variano per dimensioni e contenuto: «Non c’è ragione di escludere micromoduli il 9 Tuttavia, come osserva Fodor, per Chomsky un modulo è fondamentalmente un corpo di conoscenze innate, «an innate database» (2000, p. 58), non un sistema di elaborazione. Quindi, che l’elaborazione sia incapsulata oppure no non è questione che Chomsky abbia preso in considerazione.

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cui dominio abbia la dimensione di un concetto, invece che di un dominio semantico» (1996, p. 134). Vediamo quali argomenti si possono portare pro o contro la modularità massiva. Secondo Sperber, Fodor ha dato un’importanza eccessiva al carattere apparentemente olistico della fissazione di credenza, fuorviato in questo dall’analogia, tutta da dimostrare, con i processi di formazione delle teorie scientifiche. Più dell’olismo, sembrano militare contro la modularità dei processi centrali il loro carattere sinteticounificatore (quindi paradigmaticamente non incapsulato) e la diversità culturale. Ci sarebbero tuttavia buone ragioni di credere che queste due circostanze siano compatibili con una modularità almeno parziale, fondata su due soli cardini: la specificità di dominio e la selettività su base genetica. L’incapsulamento informativo va invece ridimensionato, anche se, sempre secondo Sperber, l’esistenza di moduli centrali incapsulati potrebbe essere compatibile con gli effetti olistici cui allude Fodor: basta supporre che ci siano molti piccoli moduli fittamente interconnessi. Non c’è comunque bisogno di seguire Sperber fino a questo punto per difendere la tesi della modularità massiva. Queste considerazioni mostrano la mera possibilità della modularità massiva; gli argomenti veri e propri addotti in suo favore sono tipicamente di ordine evoluzionistico, nel senso che si basano sull’istituzione di un nesso molto forte tra modularità e selezione naturale. La forma generale di tali argomentazioni è la seguente: P1) Molte delle nostre capacità mentali hanno una base filogenetica (cioè sono caratterizzate da un nucleo selezionato dall’evoluzione). P2) L’evoluzione seleziona sistemi specifici per risolvere esigenze specifiche («quando si trova a dover affrontare problemi inattesi e imprevedibili la natura cerca di sbrigarsela come meglio può, senza [...] ‘cogliere l’opportunità’ di selezionare un risolutore generale di problemi», Meini 2001, p. 132). Da cui: C) Molte capacità mentali sono modulari (o hanno un nucleo modulare). L’argomento è lungi dall’essere conclusivo: P1 è vera in un senso molto generico e va valutata caso per caso; P2 è soltanto una congettura, anche se non implausibile. Sviluppare sistemi di conoscen161

ze altamente specifici conferisce un vantaggio selettivo, perché, dovendo consultare un repertorio di informazioni ristretto, la risposta del modulo sarà più veloce. Altri argomenti, che presuppongono in qualche misura il precedente, sono quello dell’implausibilità della demodularizzazione e quello dell’errore. Nel primo argomento si assume che le capacità mentali, in particolare i primi nuclei concettuali, si siano sviluppati in modo modulare, e se ne conclude che i sistemi concettuali sono modulari alla luce della presunta implausibilità dell’ipotesi che i moduli si siano integrati solo successivamente, in un secondo tempo. Nel secondo argomento si comincia con l’osservare che per un qualsiasi sistema cognitivo è cruciale la capacità di discriminare il successo dall’insuccesso (errore) delle sue prestazioni. Ora, questa capacità è verosimilmente alla portata del sistema solo quando questo è altamente specifico, poiché «ciò che conta come comportamento adattato [fit behavior] differisce in misura significativa da dominio a dominio» (Cosmides e Tooby 1994, p. 91). L’esistenza di sistemi specifici sarebbe del resto confermata da diversi lavori di psicologia sperimentale non particolarmente ispirati da considerazioni evoluzionistiche. In particolare, sarebbero moduli quei sistemi di conoscenze noti come «teorie ingenue»: la fisica ingenua, la biologia ingenua, la geometria ingenua e, la più interessante per noi, la psicologia ingenua. In Fodor il rifiuto della modularità massiva è strettamente legato a un radicale scetticismo nei riguardi della psicologia evoluzionistica. Egli respinge la correlazione tra modularità massiva ed evoluzione principalmente sulla base di due considerazioni. La prima è che non è affatto detto che esista una correlazione lineare tra una mutazione genetica a livello cerebrale e una modificazione cognitiva. Spesso questa tesi viene corroborata dall’affermazione che una certa struttura cognitiva (complessa) potrebbe scaturire come effetto secondario della selezione di un altro tratto. Il caso tipico è quello delle ali degli uccelli, che avevano in origine una funzione di termoregolazione. In assenza di ragionevoli certezze su questo punto, la premessa P1 dell’argomento per la modularità massiva non è giustificata. La seconda considerazione è che l’individuazione dello scopo o funzione evolutiva di un sistema cognitivo è in generale una scommessa azzardata. Su una linea non dissimile, Fodor critica l’argomento sopra citato di Cosmides e Tooby – quello che deduce la modularità dal successo adattativo – sostenendo che l’adattamento non è una proprietà di un singolo sottosistema cognitivo, bensì dell’inte162

ro organismo. Infine, egli ha obiettato a chi considera l’incapsulamento un vincolo del tutto dispensabile che la modularità forte (quella basata sull’incapsulamento) e la TCRM stanno o cadono insieme, poiché l’incapsulamento è una conseguenza inevitabile della condizione di formalità: se i processi cognitivi sono sensibili alle sole proprietà formali dei simboli, non possono essere non incapsulati, in quanto le proprietà formali sono proprietà locali. In uno slogan, «senza incapsulamento, effetti olistici; effetti olistici, niente computazione». Come accennato sopra, quest’ultimo argomento non imbarazza più di tanto Sperber, che ritiene compatibili incapsulamento e olismo. Resta però tutto da chiarire il rapporto tra olismo e condizione di formalità, un problema che in ambedue gli autori non è esaminato con l’attenzione dovuta. Ciò basti come introduzione al tema della modularità. Dovrebbe essere emerso con chiarezza come la nozione di modulo svolga un ruolo cruciale in tutte le discipline della scienza cognitiva e in molti dei suoi programmi di ricerca. Sebbene siano stati proposti diversi criteri per l’individuazione dei moduli, non possiamo dire che sussista un corpo di prove empiriche decisive per suffragare l’esistenza dei moduli, che si configurano così come una via di mezzo tra l’ipotesi empirica e l’assunzione di natura euristica. Per gli scopi della scienza cognitiva, è forse inevitabile considerare la modularità non come una proprietà «tutto o niente», bensì come una proprietà graduale, che un sistema può esibire in misura più o meno significativa. 4. La natura della psicologia del senso comune Abbiamo già discusso diverse volte della psicologia del senso comune. Questo tema è stato oggetto di grande interesse anche all’interno della scienza cognitiva, dando luogo a un dibattito assai acceso. Il punto di partenza è un dato empirico, ben attestato da un’ampia serie di esperimenti: la capacità di attribuire stati mentali si sviluppa compiutamente nei bambini attorno al compimento del quarto anno di vita. Gli esperimenti in questione sono noti sotto il nome di «test delle credenze false». Nel corso della più nota di queste prove, il bambino assiste a una scenetta ambientata in una stanza contenente due scatole il cui interno non è visibile. Maxi, il protagonista del cartone animato, vede un adulto inserire del cioccolato nella prima scatola, A. Esce quindi dalla stanza, e in sua assenza lo sperimentatore sposta il cioccolato nella seconda scatola, B. Maxi fa ri163

torno, e a questo punto lo sperimentatore domanda al bambino – che ha assistito allo svolgimento dell’intera scenetta – dove il pupazzo cercherà il cioccolato. Ebbene, solo verso i quattro anni i bambini rispondono, correttamente, che Maxi cercherà il bottino in A, mostrando quindi di capire che, in ragione della particolare situazione sperimentale, Maxi ha costruito una rappresentazione erronea della realtà. Pertanto, verso i quattro anni, i bambini dimostrano in modo inequivocabile di avere colto il carattere rappresentazionale degli stati mentali. Sanno cioè che uno stato psicologico non è una semplice registrazione passiva della realtà, necessariamente veridica come può esserlo una copia, ma ne è invece una ricostruzione eventualmente scorretta. In scienza cognitiva ci si riferisce a questa capacità come a una sorta di psicologia ingenua, sulla falsariga degli altri nuclei di conoscenza ingenua cui abbiamo accennato nel paragrafo precedente. Per verificare empiricamente che il bambino ha colto la natura rappresentazionale degli stati mentali è necessario ricorrere al riconoscimento di una credenza falsa, perché un test che coinvolge una credenza vera non discrimina un’attribuzione di stato mentale da una previsione attuata meramente in base alle proprie credenze. Infatti, quando un agente A nutre una credenza vera riguardo a un certo stato di cose, una rappresentazione che un altro agente B può avere di tale credenza è equivalente a una rappresentazione dello stato di cose da parte di B medesimo. Poiché diventare psicologo ingenuo significa rappresentarsi gli stati mentali come rappresentazioni, possiamo affermare che al cuore della psicologia del senso comune vi è una capacità metarappresentazionale. Gli studiosi si sono divisi su come spiegare la natura di tale capacità, dando vita a un dibattito assai acceso. Fondamentalmente, l’opposizione è tra i sostenitori della «teoria della teoria» e i difensori della «teoria della simulazione». Secondo i sostenitori della teoria della teoria, come Leslie, Perner e Wellman, le nostre capacità di psicologi ingenui si spiegano col possesso di una teoria della mente, e cioè, in termini molto generali, col disporre di un corpus di conoscenze integrate e coerenti relative al dominio psicologico. Quando prevediamo o spieghiamo il comportamento altrui, non facciamo altro che applicare concetti ed enunciati rappresentati in modo esplicito nella nostra mente. In questa prospettiva, il ragionamento psicologico ingenuo è un caso particolare di applicazione di regole tipo TCRM. Vi sono tuttavia di164

verse versioni della teoria della teoria. Da un lato ci sono coloro che equiparano esplicitamente la teoria della mente, così come altre teorie ingenue (fisica ingenua, biologia ingenua, ecc.), alle teorie scientifiche, e l’elaborazione teorica del giovane e inesperto «psicologo ingenuo» al lavoro dello scienziato in procinto di elaborare una nuova teoria. In entrambi i casi, il soggetto mette alla prova la propria teoria attuale, cercando di venire a capo delle eventuali contraddizioni, fino ad arrendersi alla prova dei fatti e cominciare faticosamente a elaborare una nuova teoria, eventualmente segno della nascita di un nuovo paradigma scientifico (nel senso di Kuhn 1962). La tradizione di riferimento resta quella piagetiana, che vede il bambino come un sistema attivo capace di costruirsi una conoscenza raffinata sul mondo a partire da uno stato iniziale estremamente povero da un punto di vista concettuale. In una seconda famiglia di teorie della teoria, che possiamo chiamare «modularista», la nozione di teoria non è più ricalcata sul modello delle teorie scientifiche, bensì si ispira a quella che è la conoscenza della grammatica secondo Chomsky: la psicologia ingenua è cioè un corpo coerente di conoscenze tacite, inconsapevoli. Alla base della versione modularista vi sono infatti gli stessi argomenti invocati a favore della Grammatica Universale come l’universalità e la precocità dello sviluppo nonostante l’assenza di un insegnamento esplicito. Secondo i sostenitori della teoria della simulazione, come Goldman, Gordon e Heal, la nostra psicologia ingenua deriva invece dalla capacità di ragionamento pratico, cioè di pianificazione dell’azione, e in particolare dalla capacità di immedesimarci nella situazione altrui, simulandone il comportamento. Mettendoci «nei panni degli altri» possiamo prevederne il comportamento o, all’opposto, spiegarne le azioni. Per far ciò utilizziamo gli stessi processi e risorse cognitivi che sono alla base della nostra capacità di prendere decisioni in situazioni concrete, ma senza dare seguito alla decisione presa, che va invece «trasferita» al soggetto che stiamo interpretando, configurandosi in tal modo come una previsione o spiegazione del suo comportamento. Il ragionamento intenzionale non richiederebbe quindi conoscenze psicologiche specifiche, bensì una certa quantità di conoscenze di tipo generico (di senso comune), unitamente alla capacità di immaginarsi di essere al posto di un altro, una propensione facilmente spiegabile alla luce della similarità dell’esperienza umana. È facile immaginare quello che pensa o farà qualcuno in una certa situazione se anche noi l’abbiamo vissuta. 165

C’è un’indubbia analogia tra la teoria della teoria e l’ipotesi del linguaggio del pensiero, da un lato, e tra la teoria della simulazione e la nozione di rappresentazione analogico-procedurale, dall’altro. Alla luce delle considerazioni svolte in precedenza (cfr. supra, 6.1), questa duplice analogia induce a ritenere che nessuna delle due spiegazioni possa essere esaustiva. Così, sebbene sia difficile sottostimare l’importanza della simulazione nel ragionamento psicologico, come nel ragionamento in generale, si può tuttavia dubitare del fatto che questa pratica possa essere posta a fondamento unico della psicologia ingenua. La frequenza con cui facciamo ragionamenti psicologici induce a ritenere che il cambiamento di prospettiva, il mettersi nei panni degli altri, non possa essere sufficiente per spiegare tutti questi casi. Una sorta di mediazione tra le due posizioni è stata recentemente proposta da Nichols e Stich (2001), che distinguono tra l’attribuzione di stati mentali e il ragionamento basato su stati mentali. Mentre il ragionamento richiede una teoria, è plausibile che l’attribuzione di stati mentali a noi stessi avvenga attraverso un sistema di controllo degli stati stessi, che ne fa affiorare alla coscienza il contenuto. Stich e Nichols ritengono tuttavia che questa non possa essere la base per attribuire stati mentali anche agli altri. ❑ Riepilogo La scienza cognitiva tradizionale, imperniata sulle nozioni di computazione e rappresentazione e sull’idea che gli stati mentali sono stati funzionali descrivibili indipendentemente dalla loro realizzazione biologica, è da alcuni anni bersaglio di molte critiche. È indubbio che sotto la spinta di queste critiche stia emergendo una nuova scienza cognitiva, che enfatizza da un lato la relazione col corpo e col cervello, e dall’altro la relazione con l’ambiente. Le reti neurali sono tuttavia un programma di ricerca ancora in continuità con l’approccio classico, perché non rinunciano alle nozioni di computazione e rappresentazione, seppur ripensate in una cornice teorica assai più attenta al funzionamento del cervello e quindi programmaticamente rispettosa dei vincoli biologici sulla struttura della computazione. Molto lontana dall’approccio classico è invece la teoria dei sistemi dinamici, che offre un tipo di spiegazione diverso, non computazionale né rappresentazionale, bensì basato su modelli matematici non lineari. Importante per molti programmi di ricerca è l’ipotesi che la mente sia un sistema modulare, cioè organizzata in sottosistemi computazionali specializzati nell’analisi di certi tipi di input. Nella versione fodoriana, la 166

modularità è ristretta ai soli sistemi di input (i sottosistemi percettivi più l’elaborazione del linguaggio parlato); nella versione di Sperber e degli psicologi evoluzionisti (come Cosmides e Tooby, o Steven Pinker), la modularità investe l’intera mente, per il vantaggio selettivo che tale organizzazione conferirebbe. L’ipotesi della modularità massiva indebolisce però – almeno secondo alcuni autori – i requisiti sulla nozione di modulo, rinunciando almeno in parte alla tesi dell’impermeabilità cognitiva, secondo la quale l’elaborazione di un modulo è fondamentalmente «chiusa» al resto del sistema, e portando in primo piano la specificità di dominio, cioè l’idea che un modulo presieda a un dominio di conoscenza circoscritto e particolare. La psicologia del senso comune, o psicologia ingenua, sarebbe una di queste facoltà modulari altamente specifiche, che matura compiutamente intorno al quarto anno di vita. Sono state tuttavia proposte spiegazioni alternative delle nostre capacità psicologiche, basate sull’idea che attribuire stati mentali ad altri deriva dalla propensione ad emulare empaticamente il comportamento altrui.

s Cos’altro leggere Per tutti gli argomenti di questo capitolo è fondamentale M. Marraffa, Scienza cognitiva. Un’introduzione filosofica, CLEUP, Padova 2002. Particolarmente preziosa la seconda parte del libro, dedicata alla scienza cognitiva post-classica (reti neurali, robotica, sistemi dinamici, neuroscienza computazionale), ma eccellente anche la prima parte, dedicata alla scienza cognitiva classica (si veda in particolare il cap. 3, dedicato alla modularità). Segnalo inoltre la MIT Encyclopedia of Cognitive Science, a cura di R. Wilson e F. Keil (MIT Press, Cambridge MA 1999) e il Companion to Cognitive Science, a cura di W. Bechtel e G. Graham, Blackwell, Oxford 1998. Entrambi sono organizzati per voci. In italiano sono disponibili diversi manuali di scienza cognitiva, per esempio: B. Bara, Il metodo della scienza cognitiva. Un approccio evolutivo allo studio della mente, Bollati Boringhieri, Torino 2000; P.N. Johnson-Laird, La mente e il computer. Introduzione alla scienza cognitiva, Il Mulino, Bologna 1990; E. Pessa, M. P. Penna, Manuale di scienza cognitiva. Intelligenza artificiale classica e psicologia cognitiva, Laterza, Roma-Bari 2000. Segnalo infine un bel libro sul rapporto tra filosofia e scienza cognitiva (psicologia in particolare): P. Engel, Filosofia e psicologia, Einaudi, Torino 2000. Sui rapporti tra connessionismo e scienza cognitiva classica molto utile il già citato volume a cura di Marcello Frixione, Il connessionismo tra simboli e neuroni, Marietti, Casale Monferrato 1992, contenente 167

un’introduzione del curatore e la traduzione italiana del saggio di Smolensky, On the proper treatment of connectionism, una delle più brillanti analisi filosofiche del connessionismo. Per un’introduzione concisa ed elementare ai sistemi dinamici e più in generale alla cognizione corporea e situata, si vedano P. Thagard, Mente, Guerini, Milano 1999 (capp. 10 e 11) o l’ultimo capitolo di R. Luccio, La psicologia: un profilo storico, Laterza, Roma-Bari 2000. Per approfondimenti, oltre al già citato A. Clark, Dare corpo alla mente, McGraw-Hill, Milano 2000, si possono leggere D. Parisi, Mente, Il Mulino, Bologna 1999, che è anche un’invettiva contro il cognitivismo classico, e R. Pfeifer, C. Scheier, Understanding Intelligence, MIT Press, Cambridge MA 1998. Una presentazione abbastanza sintetica ed efficace di tutta la scienza cognitiva postclassica è in M. Di Francesco, Introduzione alla filosofia della mente, Carocci, Roma 20022, § 3.9. Sulla modularità della mente: J.A. Fodor, La mente modulare, Il Mulino, Bologna 1988; J. Garfield (a cura di), Modularity in Knowledge Representation and Natural Language Understanding, MIT Press, Cambridge MA 1987. Sulla modularità massiva: L.A. Hirschfeld, S.A. Gelman (a cura di), Mapping the Mind. Domain Specificity in Cognition and Culture, Cambridge University Press, Cambridge UK 1994, in particolare l’introduzione dei curatori e l’articolo di Sperber, riportato anche in D. Sperber, L’epidemiologia della credenza, Feltrinelli, Milano 1999, cap. 6. Un’esposizione molto efficace della tesi della modularità massiva è R. Samuels, Massively modular minds: evolutionary psychology and cognitive architecture, in P. Carruthers, A. Chamberlain (a cura di), Evolution and the Human Mind, Cambridge University Press, Cambridge UK 2000. L’opposizione tra modularisti alla Fodor e sostenitori della modularità massiva è ben documentata anche su Internet, nella home page di D. Sperber (In Defense of Massive Modularity, URL= http://www.dan.sperber.com/modularity.htm). Sulla natura della psicologia del senso comune: C. Meini, Psicologia ingenua, McGraw-Hill, Milano 2001, utile anche per un’introduzione alle teorie ingenue in generale. Sul dibattito «teoria della teoria»/«teoria della simulazione», molto utili anche le antologie a cura di M. Davies e T. Stone, Mental Simulation e Folk Psychology, entrambe edite da Blackwell, Oxford 1995 e il fascicolo monotematico di «Sistemi Intelligenti», XIII, 1, 2001. Su specifiche teorie ingenue si vedano P. Bozzi, Fisica ingenua, Garzanti, Milano 1990 e S. Dehaene, Il pallino della matematica, Mondadori, Milano 2000.

Capitolo 8

Coscienza

Molti autori sostengono che quello della coscienza sia il più arduo ed elusivo di tutti i temi di filosofia della mente. In effetti è molto difficile formulare in modo perspicuo i problemi che la coscienza solleva, tanto che alcuni dubitano che si tratti di problemi genuini. Alla base di queste difficoltà è il fatto che la coscienza, almeno in una delle accezioni del termine, sembra essere un fenomeno intrinsecamente soggettivo, e questo rende a prima vista problematico, forse impossibile, parlarne «in terza persona». Come potrebbe esserci, infatti, una conoscenza oggettiva della soggettività? Avvertiti in tal modo del salto di difficoltà che compiamo nell’accingerci ad affrontare quest’ultimo tema, procediamo, cominciando col tracciare una mappa essenziale di questo territorio in gran parte sconosciuto. 1. Due concetti di coscienza Nell’uso comune dell’espressione, «coscienza» può significare diverse cose. In una prima accezione, essere coscienti significa semplicemente essere vivi e svegli (awake), ciò che gli psicologi chiamano «essere in uno stato vigile». In questa accezione, è non cosciente chi è svenuto, chi si trova in uno stato di coma, o chi sta dormendo, almeno in certe fasi del sonno (quando si sogna, infatti, si è ancora in qualche senso coscienti). In un secondo senso, essere coscienti è essere consapevoli di qualcosa (aware of), sia esso un evento esterno o uno stato interno. Inoltre, e certamente non abbiamo con ciò esaurito il catalogo dei significati possibili, «cosciente» può essere tanto un attributo di una persona («sono cosciente delle mie possibilità») quanto un attributo di uno stato mentale («mi trovavo in uno stato di incoscienza»). 169

La distinzione che ha goduto di maggior favore, svolgendo un ruolo cruciale nel dibattito filosofico, non coincide tuttavia con nessuna di queste. Si tratta della dicotomia, proposta da Ned Block, tra coscienza fenomenica (coscienza-F) e coscienza d’accesso (coscienzaA). La coscienza-F è la condizione per cui si prova qualcosa nell’avere una certa esperienza, ovvero fa un certo effetto avere quell’esperienza; per esempio, quando provo dolore, mi trovo in uno stato di coscienza-F (o, più brevemente, in uno stato conscio-F 1). La coscienza d’accesso è invece quella condizione di attenzione e consapevolezza che rende «trasparenti» a noi stessi i nostri stati mentali e comportamentali: una credenza o un desiderio, per esempio, sono stati di coscienza-A (consci-A) in quanto il loro contenuto è disponibile per l’elaborazione di varie operazioni cognitive, come la verbalizzazione, l’inferenza o la pianificazione dell’azione (l’espressione «coscienza d’accesso» suggerisce appunto il fatto che certi processi cognitivi possano accedere a tali stati)2. Il catalogo degli stati di coscienza fenomenica è praticamente infinito: suoni, sapori, odori, propriocezioni: la coscienza fenomenica è insomma il mondo delle sensazioni (raw feels, «sensazioni grezze»), un mondo che riusciamo a descrivere a parole solo parzialmente, con una certa difficoltà. Non è necessario riflettere su tali esperienze o prestarvi attenzione per provarle: le proviamo, punto e basta. In questo senso è chiaro che anche gli animali e i neonati hanno coscienza fenomenica. Gli stati di coscienza-A sembrano invece coincidere con gli stati intenzionali, con gli stati mentali visti nel loro aspetto rappresentazionale e funzionale. Infatti la coscienza-A viene spesso chiamata, seguendo Chalmers, «coscienza cognitiva» (o «psicologica»). L’uso di questa espressione vuole sottolineare come, a differenza degli stati consci-F, che sono fenomeni in prima persona caratterizzati da una qualità intrinseca e in quanto tali re1 In questo contesto, non c’è alcuna differenza di significato tra «cosciente» e «conscio». Useremo in modo interscambiabile le due parole, con una preferenza (del tutto stilistica) per «conscio» come attributo di uno stato e per «cosciente» come attributo di una persona. 2 Questa definizione di coscienza d’accesso presenta un’ambiguità: se il criterio è quello della disponibilità a elaborazioni cognitive in senso generale, anche stati subcoscienti come gli stati percettivi di visione primaria risultano essere consci-A. Tuttavia, come si vedrà chiaramente in un esempio discusso poco più avanti, la disponibilità che ha in mente Block è soltanto verso il livello dei processi cognitivi superiori (centrali).

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frattari – almeno secondo Chalmers – a una descrizione di tipo funzionale, gli stati di coscienza cognitiva siano stati intenzionali di cui si può quindi dar conto in termini funzionali. Un caso particolare di coscienza-A è l’autocoscienza, lo stato in cui ci troviamo quando riflettiamo su noi stessi, rivolgendo il pensiero ai nostri stati mentali. Gli stati di autocoscienza sono stati mentali del «secondo ordine», o metarappresentazionali, in quanto hanno per contenuto un altro stato mentale. L’autocoscienza è il mondo dell’io esplicito e consapevole: essere autocoscienti implica saper padroneggiare concetti e in particolare il concetto di io. Si noti come si possa essere autocoscienti di uno stato di coscienza fenomenica, come quando penso che sto provando un mal di denti insopportabile. Uno stato metarappresentazionale di questo tipo è uno stato conscio-A caratterizzabile nei termini del ruolo causale che esso svolge nella mia vita mentale: è causato da altri stati mentali, in particolare dall’avere mal di denti (caratterizzato funzionalmente), ha per effetto altri stati mentali, e ha un contenuto, sulla cui base individuiamo tali nessi funzionalicausali. Chi crede nella naturalizzazione dell’intenzionalità, non ha problemi nell’identificare gli stati di coscienza cognitiva con certi stati computazionali. Ci sono chiari esempi di stati consci-A ma non consci-F e viceversa? La questione è controversa. Si direbbe che avere una credenza sia tipicamente uno stato conscio-A ma non conscio-F, perché non si prova nulla ad averla, ma c’è chi sostiene che, per quanto evanescente, un qualche effetto lo faccia. Un esempio opposto, di uno stato conscio-F ma non conscio-A, potrebbe invece essere il seguente (Block 1994, p. 215). Supponiamo che io sia profondamente concentrato su un pensiero o impegnato in una certa attività, e che improvvisamente, a mezzanotte in punto, mi renda conto della presenza di un forte rumore. Sebbene il rumore si sia imposto alla mia attenzione soltanto a mezzanotte, sono consapevole del fatto che esso era cominciato già da un po’ di tempo. Ebbene, nel periodo precedente alla mezzanotte mi trovavo (riguardo a quel rumore) in uno stato conscio-F ma non conscio-A: «sentivo» il rumore, ma questo stato uditivo non era cognitivamente disponibile. L’esempio sembra almeno dimostrare che ci sono aspetti fenomenici degli stati mentali irrilevanti da un punto di vista psicologico (come infatti alcuni sostengono). Comunque sia, non vi è dubbio che molti dei nostri stati mentali, probabilmente la maggior parte, sono nello stesso tempo consci-F e consci-A. Ciò non toglie che i due tipi di coscienza siano 171

chiaramente distinti, poiché in ogni dato stato mentale è possibile distinguere gli aspetti puramente fenomenici da quelli puramente cognitivi; in questo senso possiamo parlare, in astratto, della compresenza di uno stato fenomenico puro e di uno stato cognitivo puro; oppure, se non ci piace questo modo di esprimerci, possiamo dire che molti stati mentali sono caratterizzati da un lato da proprietà rappresentazionali o cognitive, come il contenuto intenzionale (cfr. supra, capp. 4-5), e dall’altro da proprietà fenomeniche o qualitative (il che cosa si prova a, l’effetto che fa, trovarsi in quello stato). In altri termini, la distinzione è comunque giustificata dal fatto che è difficile sostenere che per l’individuazione di una credenza siano pertinenti le qualità che (eventualmente) la accompagnano; almeno al livello della psicologia del senso comune, la credenza è totalmente individuata dal contenuto. Per converso, nel caso degli stati a forte caratterizzazione qualitativa, non sembra possibile distinguere (per esempio) un dolore da un altro esclusivamente in base al loro ruolo funzionale; occorre chiamare in causa anche le rispettive proprietà intrinseche. In filosofia della mente è consuetudine riferirsi alle proprietà fenomeniche con l’espressione «qualia», a volte usata anche per denotare gli stati di esperienza fenomenica in quanto tali. I problemi sollevati dai qualia sono fondamentalmente di due tipi: che rapporto sussiste tra proprietà qualitative e proprietà intenzionali, e che rapporto sussiste tra stati qualitativi e stati fisici. In entrambi i casi si pone una questione di riducibilità, o di sopravvenienza: è possibile ridurre i qualia alle proprietà intenzionali, oppure no, come sembra suggerire implicitamente la distinzione? Ed è possibile ridurre gli stati qualitativi a stati fisici? Affronteremo queste due questioni metafisiche nel terzo paragrafo; prima dobbiamo discutere un’intricata questione epistemologica sollevata dal concetto di coscienza. 2. Il vuoto esplicativo Si ritiene comunemente che il problema davvero difficile sia sollevato dalla coscienza fenomenica. Con questo non si vuole dire che la nozione di coscienza d’accesso sia stata sviscerata in tutti i suoi dettagli, ma che i problemi che essa solleva possono in linea di principio essere efficacemente analizzati con i consueti metodi della scienza cognitiva, sulla base di concetti come rappresentazione, memoria, ruolo funzionale. Ci occuperemo pertanto della sola coscienza feno172

menica. La difficoltà consisterebbe nella presenza di un vero e proprio salto epistemologico, un «gap esplicativo», tra i fenomeni naturali, ivi compresi i processi mentali analizzati fin qui, come pensiero e percezione, e il fenomeno per antonomasia, il «che cosa si prova». Le scienze della natura non avrebbero le risorse per spiegare la coscienza. Da dove deriva questo supposto vuoto esplicativo? A un primo sguardo, alcune questioni sollevate dal concetto di coscienza fenomenica sembrano essere tutt’altro che refrattarie a un’indagine scientifica: chiedersi, per esempio, a quale stadio evolutivo compare la coscienza (d’ora in poi, do per scontato che stiamo parlando di coscienza fenomenica, salvo diversa precisazione), ovvero, quali sistemi sono dotati di coscienza, è una domanda difficile ma, si direbbe, certamente alla portata della scienza. È sufficiente, però, prendere in considerazione una questione diversa ma in qualche misura correlata alla precedente, chiedersi in che modo certe strutture cerebrali, o computazionali, producono la coscienza, per avere l’impressione di trovarsi di fronte a una domanda non soltanto difficile ma in un certo senso sconcertante: non si vede bene come una conoscenza anche perfettamente compiuta della struttura e del funzionamento del sistema nervoso centrale possa spiegare perché io provo qualcosa in una determinata circostanza. Per esempio, è stato scoperto che alcuni neuroni della corteccia visiva primaria danno luogo a mappe retinotopiche, vale a dire che l’eccitazione di questi neuroni si distribuisce in modo tale da formare una configurazione spaziale che riproduce all’incirca quella dello stimolo visivo. In un certo senso, quando vediamo o immaginiamo un gatto, nella corteccia visiva primaria si forma un’immagine di un gatto. Per stupefacente che questo sia, potremmo dire che le mappe retinotopiche spiegano la nostra esperienza fenomenica di quell’immagine o stimolo visivo, spiegano cioè l’effetto che fa il vedere o l’immaginare un gatto? La risposta sembra essere negativa. Abbiamo trovato una correlazione tra l’esperienza del vedere/immaginare e la formazione di mappe retinotopiche, ma la seconda non spiega la prima. È questa difficoltà apparentemente inaggirabile che induce qualcuno a sospettare che il problema sia mal formulato, che non sia un vero problema o, all’opposto, che il problema sia assolutamente genuino, ma intrinsecamente irrisolvibile. Ora, quello del vuoto esplicativo è chiaramente un problema epistemologico: è il problema di come sia possibile spiegare la coscienza. Tuttavia, come già sappiamo (cfr. supra, 1.1, 3.3), un problema di re173

lazione tra livelli di spiegazione, quale è quello della coscienza nei termini in cui l’abbiamo messo in questo paragrafo, ha sempre una «faccia» metafisica e una «faccia» epistemologica. Nel caso in esame il problema può essere trasposto in termini metafisici osservando che il vuoto esplicativo sembra essere dovuto al fatto che gli stati di esperienza sono intrinsecamente dipendenti da un soggetto; che sono io, non il mio corpo, ad avere esperienze. Messo in questi termini, il problema consisterebbe allora nell’impossibilità di istituire relazioni di identità, o almeno di sopravvenienza, tra stati di coscienza fenomenica e stati neuronali (e in ultima analisi fisici). Per esempio, il mio provare dolore non è identico a qualsivoglia meccanismo cerebrale che lo realizza. La trasposizione del problema in termini metafisici sembra in questo caso (a differenza che in altri) giovare alla perspicuità della sua formulazione, perché sono stati proposti alcuni argomenti metafisici volti appunto a mostrare che gli stati di coscienza non sopravvengono agli stati fisici. Poiché, come vedremo, c’è una connessione abbastanza chiara tra vuoto esplicativo e fallimento della sopravvenienza, eventuali argomenti conclusivi in favore di tale fallimento condurrebbero a riconoscere che la coscienza fenomenica sfugge davvero a una spiegazione fisicalistica, che la scienza cognitiva, le neuroscienze e in ultima analisi la fisica non sono in grado di rispondere alla domanda «qual è il posto della coscienza nell’ordine naturale?», ovvero, «come è possibile che un sistema fisico sia anche cosciente, nel senso di essere capace di provare esperienze?». Nel prossimo paragrafo esamineremo tali argomenti. 3. Gli argomenti sui qualia I qualia sono davvero un problema per il fisicalismo? Gli argomenti per i qualia che stiamo per prendere in considerazione sono in prima istanza supposti dimostrare che gli stati qualitativi non sopravvengono sugli stati cerebrali e, a fortiori, che gli stati qualitativi non sono identici a stati cerebrali. Ciò comporta anche che gli stati qualitativi non sopravvengono sugli stati computazionali; in caso contrario, infatti, si aprirebbe la possibilità di sopravvenienza sugli stati fisici. Quindi, se gli argomenti in questione fossero conclusivi, ne conseguirebbe, sul piano epistemologico, una forma di dualismo delle proprietà (cfr. supra, 3.4) particolarmente radicale: non soltanto le proprietà qualitative non sarebbero deducibili dalle proprietà 174

fisiche; non sarebbero nemmeno deducibili da proprietà «di organizzazione». Risulterebbe così avvalorato il vuoto esplicativo di cui abbiamo discusso nel paragrafo precedente. Con alcuni caveat, di cui diremo, nella migliore delle ipotesi gli argomenti per i qualia lasciano aperta la mera possibilità che la coscienza fenomenica emerga dalle proprietà funzionali3. Gli argomenti sui qualia hanno tutti una struttura modale: si immagina un mondo possibile in cui ci sono esseri cognitivamente simili a noi ma fenomenologicamente diversi, eventualmente del tutto privi di coscienza fenomenica. Si tratta di vedere se la situazione controfattuale proposta è davvero ammissibile e a quali condizioni. Presenteremo adesso tre di questi argomenti, i primi due di natura metafisica, in quanto vertono sulla natura degli stati di coscienza, il terzo di natura epistemologica, in quanto verte sul tipo di conoscenza che gli stati qualitativi ci forniscono. L’argomento dei qualia assenti (o della possibilità degli zombie). Questo argomento si basa sulla possibilità dell’esistenza di zombie, intesi come esseri fisicamente identici a noi, capaci in particolare di nutrire i nostri stessi stati cognitivi (dal punto di vista strettamente funzionale), ma privi di sensazioni. Qualunque sia lo stato mentale o comportamentale che essi intrattengono, non provano nulla. Se questa ipotesi è coerente, ne segue che gli stati qualitativi non sopravvengono a quelli computazionali né a quelli cerebrali: dire che è metafisicamente possibile che esistano zombie è dire che uno stesso stato fisico può essere conscio-F o meno. Un’obiezione che viene mossa contro questo argomento (in generale, contro argomenti modali di questo genere) è che non è lecito dedurre la possibilità metafisica dalla possibilità concettuale. La mera immaginabilità di qualcosa non è una condizione sufficiente per la possibilità della sua esistenza. Per esempio, molti sostengono che è concepibile, ma non metafisicamente possibile, che l’acqua non sia H2O. Tuttavia, ammesso che questo sia effettivamente un esempio di qualcosa di impossibile benché concepibile, non è chiaro che nel caso degli zombie si riesca a costruire il suo corrispettivo, per la seguente ragione – già esposta in precedenza (cfr. 1.1), ma che

3 Ammesso che, contrariamente a quanto sostiene Kim, tra emergenza e sopravvenienza vi sia una differenza significativa.

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è opportuno riprendere. Quando ci sembra possibile che l’acqua non sia H2O, quella che stiamo immaginando è una situazione in cui qualcosa che ci sembra acqua, che superficialmente ha tutte le caratteristiche dell’acqua, in effetti non è acqua, cioè non è H2O. Analogamente, quando ci sembra possibile che il calore non sia il moto molecolare, ciò che stiamo immaginando è che qualcosa che ci sembra calore, qualcosa che percepiamo come calore, non sia in effetti calore, non sia cioè determinato dal moto molecolare. Ora, la stessa cosa non funziona per gli stati di coscienza-F, perché immaginare una situazione in cui, per esempio, qualcosa che ci sembra dolore, qualcosa che percepiamo come dolore, non è in effetti dolore (non è la realizzazione cerebrale del dolore), è assurdo, perché qualcosa che percepiamo come dolore, qualcosa che ci sembra dolore, è dolore. Il dolore è precisamente quello che percepiamo come tale, la sensazione dolorosa; non c’è differenza fra non avere coscienza-F e non avere la sensazione di essere in uno stato conscio-F. Se l’unico modo di avere una concepibilità che non dà luogo a un’autentica possibilità si basa sulla distinzione tra ciò che è e ciò che sembra, questo non è disponibile nel caso per noi pertinente. Quella che nel caso dell’acqua è una possibilità solo apparente, nel caso degli zombie sembra essere una possibilità autentica. La possibilità degli zombie dimostra la non deducibilità degli stati qualitativi dagli stati fisici, e con essa l’esistenza di un vuoto esplicativo: se è possibile che a parità di stati fisici, si abbiano rispettivamente uno stato conscio-F e uno non conscio-F, la conoscenza di tutti i fatti fisici non consente di fare alcuna previsione sull’esemplificazione di proprietà fenomeniche, non ci dà conoscenza alcuna sui «fatti fenomenici». Chalmers esprime questa circostanza dicendo che la coscienza-F non sopravviene logicamente (nel senso che è logicamente possibile che a parità di stati funzionali si abbiano stati fenomenici diversi). L’argomento lascia tuttavia aperta la possibilità che la coscienza qualitativa sopravvenga nomologicamente, cioè nel rispetto delle leggi di natura, sugli stati cerebrali (via stati computazionali). Che cosa significa? L’idea è che non c’è alcun mondo possibile in cui valgono le leggi di natura e ci sono zombie; pur essendo metafisicamente (o logicamente) possibile, l’esistenza degli zombie non è naturalmente possibile, nel senso che l’assenza di coscienza in esseri fisicamente identici ad esseri coscienti sarebbe incompatibile con le leggi della fisica (intesa in senso lato). Avere una certa struttura cerebrale complessa comporterebbe per necessità naturale l’e176

mergenza di stati di coscienza qualitativa. Questa è, ad esempio, la posizione di Chalmers (1996), secondo il quale in natura non è possibile che un sistema di appropriata complessità non esibisca un certo grado di coscienza. Due considerazioni. La prima è che l’ipotesi della sopravvenienza nomologica è una mera congettura: l’argomento non la prova né la smentisce. Si può sostenere, per quel poco che ne sappiamo, che è una congettura plausibile o almeno non inverosimile (vedremo nel paragrafo successivo un argomento in favore della sopravvenienza naturale). La seconda osservazione è che, almeno secondo Chalmers, la sopravvenienza nomologica non sarebbe comunque sufficiente a colmare il vuoto esplicativo. Da un certo punto di vista questa tesi è sorprendente: se ci fosse una legge di natura che predice dall’esemplificazione di un certo tipo di stato fisico la presenza di qualia, non avremmo eo ipso una buona spiegazione della coscienza fenomenica? Una spiegazione non è forse fatta di una o più leggi di natura? Che altro dovremmo ancora pretendere? A questo Chalmers potrebbe tuttavia replicare che una legge siffatta mostra soltanto l’esistenza di una correlazione tra stati fisici e stati fenomenici, non in che modo gli stati fenomenici sono realizzati dagli stati fisici sottostanti. Soltanto una deduzione, che corrisponde al caso della sopravvenienza logica, costituisce una spiegazione. In questo senso la posizione di Chalmers è una tipica forma di dualismo epistemologico: sebbene la coscienza sia un fenomeno naturale, i concetti della fisica non sono sufficienti per spiegarla. Si deve tuttavia osservare che l’idea secondo cui una spiegazione fisicalistica della coscienza richiede una deduzione dei fatti fenomenici dai fatti fisici presuppone un certo modello di riduzione interteorica (proposto da Ernest Nagel 1961), che non è obbligatorio condividere (cfr. Bickle 1998; Kim 1998). L’argomento dei qualia inversi (o dello spettro invertito). Un argomento metafisico per la non riducibilità della coscienza non deve necessariamente provare che potrebbe non esserci coscienza a parità di fatti fisici; per smentire la tesi della riducibilità è sufficiente mostrare che, a parità di fatti fisici, i «fatti qualitativi» si distribuiscono in modo differente. Esattamente di questo tipo è l’argomento dello spettro invertito. Qui si tratta di immaginare una persona la cui esperienza fenomenica associata alla percezione dei colori è invertita, fin dalla nascita, rispetto allo spettro cromatico. Per esempio, quando noi ve177

diamo verde, lei vede rosso, quando noi vediamo blu, lei vede giallo, e così via. Il comportamento linguistico non rivela l’inversione, perché quando noi diciamo, per esempio, «questo è giallo», lei dà il suo assenso, anche se sta avendo un’esperienza identica a quella che noi associamo al termine «blu». Come nel caso dei qualia assenti, ciò dimostrerebbe che gli stati di coscienza qualitativa non sopravvengono agli stati funzionali. Questo argomento è stato contestato in base alla considerazione che non è possibile avere uno spettro invertito che non riveli una differenza funzionale. L’ipotesi dello spettro invertito comporta infatti anche l’inversione del bianco e del nero, e quest’ultima si manifesta in una differenza funzionale, perché comporta che, nella visione monocromatica, la persona in questione veda più piccolo ciò che a noi sembra più grande e viceversa (per ragioni legate alla modalità di discriminazione della figura dallo sfondo in condizioni monocromatiche, cfr. Casati 1990). I difensori dell’autonomia dei qualia hanno tuttavia obiettato che è possibile ipotizzare inversioni di spettro più sofisticate, nelle quali una tonalità di colore viene «spostata» su una tonalità di poco differente, che non si espongono all’obiezione di cui sopra. L’argomento della conoscenza (o di Mary). In questo esperimento mentale, dovuto a Jackson (1982), c’è una neuroscienziata, Mary, che è cresciuta, senza mai uscirne, in una stanza totalmente in bianco e nero. Mary non ha mai potuto vedere colori: le sue sensazioni visive sono relative esclusivamente a diverse tonalità di grigio. Mary ha tuttavia studiato a fondo la neurofisiologia della visione, in particolare di quella cromatica, e sa tutto quel che c’è da sapere al riguardo; supponendo che la neuroscienziata viva in un mondo in cui lo stato delle conoscenze neurofisiologiche è avanzato fino alla perfezione, Mary le possiede tutte; sa perfettamente come funziona la visione del colore. Bene, supponiamo ora che Mary esca finalmente dalla sua stanza e veda i colori. La domanda è: lo stato epistemico di Mary è cambiato? Provando finalmente l’esperienza in prima persona del colore, la neuroscienziata ha acquisito una nuova conoscenza? Secondo Jackson, la risposta è chiaramente positiva. La sensazione del vedere i colori è qualcosa che va al di là di tutto ciò che Mary conosceva sulla visione del colore. Mary ha imparato qualcosa di nuovo. Ciò dimostrerebbe che l’esperienza è una forma di conoscenza radicalmente diversa dalla conoscenza scientifica, che ci fa ac178

cedere a qualcosa che diversamente non potremmo conoscere: c’è qualcosa che può essere «conosciuto» soltanto in prima persona. Ci sono state diverse obiezioni all’argomento di Jackson. Secondo Dennett, l’idea del possesso di tutte le conoscenze pertinenti va al di là di ogni immaginazione, rendendo l’esperimento vacuo. Noi supponiamo che l’esperienza aggiunga qualcosa alle conoscenze di Mary soltanto perché ne sappiamo ridicolmente poco; non siamo minimamente in grado di dare un senso effettivo all’ipotesi di Jackson. Secondo un’altra obiezione, ciò che apprende Mary non è una nuova conoscenza, in due sensi possibili. In un senso, fare l’esperienza del colore non è una conoscenza, ma un’abilità; in un altro senso, facendo l’esperienza del colore, Mary ha conosciuto in un modo nuovo un fatto vecchio, un fatto che già conosceva. In entrambi i casi l’idea è che l’esperienza le ha fornito un tipo di conoscenza diversa, non una nuova conoscenza. Se intesa nel primo senso, l’obiezione ha poco mordente, perché non sembra plausibile negare valore conoscitivo all’esperienza considerata come abilità: sarebbe come dire che quando imparo ad andare in bicicletta non imparo nulla di nuovo. La conoscenza tacita è nondimeno conoscenza. Se intesa nel secondo senso, l’obiezione è meno facilmente esorcizzabile, ma è comunque lungi dall’essere decisiva, perché si basa su una nozione di fatto che l’amico dei qualia può tranquillamente respingere. Per esempio, posto che (A) il Monte Bianco è alto 4810 metri e che (B) il monte più alto d’Europa è alto 4810 metri, si può dire che A e B sono, «oggettivamente» parlando, lo stesso fatto. Ma, nel momento in cui caratterizziamo A e B come oggetti di conoscenza, non è più ovvio che siano lo stesso fatto. Non è ovvio che modi diversi di presentare uno stesso oggetto non contino come distinti oggetti di conoscenza. Ammesso che l’argomento della conoscenza sia conclusivo, esso dimostrerebbe quindi che il vuoto esplicativo esiste davvero, e in un senso particolarmente radicale: se c’è qualcosa che può essere conosciuto soltanto in prima persona, non soltanto ci sono dei fatti non fisici, che le scienze «dure» non sono in grado di spiegare, ma ci sono dei fatti che nessuna scienza è in grado di spiegare, perché le spiegazioni scientifiche sono intrinsecamente in terza persona. Una conclusione così forte induce tuttavia a qualche sospetto. Per esempio, secondo Crane (2001), l’argomento della conoscenza, pur riuscendo a dimostrare che l’esperienza in prima persona ci dà un di più di conoscenza, non minaccia affatto il fisicalismo, perché questo, lungi dall’esigere che l’intera conoscenza debba essere espressa in un vo179

cabolario fisico, richiede «soltanto» che ogni fatto dipenda causalmente da fatti fisici, indipendentemente da come noi lo accertiamo. Il fisicalismo, in altri termini, sarebbe una tesi metafisica, non una tesi sulla natura della conoscenza. Bisogna tuttavia ammettere che in questo genere di questioni è difficile districare l’aspetto metafisico da quello epistemologico. Basti ricordare l’ambiguità della nozione di causa tra una lettura metafisica ed una esplicativa (cfr. supra, 3.3). In conclusione, se si accetta almeno uno degli argomenti esposti, il massimo che si può sostenere riguardo agli stati qualitativi è che essi sopravvengono naturalmente (nomologicamente) sugli stati fisici. E, secondo la maggior parte degli autori, la sopravvenienza naturale non è sufficiente a rivendicare il fisicalismo. Qualia e intenzionalità. Concludiamo questo paragrafo con alcune considerazioni sulla rilevanza che gli argomenti discussi possono rivestire per l’altro problema sollevato dai qualia, quello del rapporto tra questi e gli stati intenzionali. Dei tre argomenti sui qualia, l’unico che ha una ricaduta diretta sulla questione del rapporto tra stati qualitativi e stati intenzionali è quello di Mary. L’argomento della conoscenza esclude che i qualia possano sopravvenire agli stati intenzionali, perché, se valesse la sopravvenienza, nel fare l’esperienza del colore Mary non si troverebbe in uno stato mentale nuovo, quindi non acquisirebbe alcuna nuova conoscenza. I due argomenti metafisici, invece, presi da soli non provano nulla riguardo agli stati intenzionali. Se tuttavia, oltre ad accettarne almeno uno dei due, si assume che gli stati intenzionali sopravvengano, via stati computazionali, sugli stati fisici, ipso facto si esclude che i qualia sopravvengano agli stati intenzionali. In questa prospettiva, i qualia sfuggono, a differenza dell’intenzionalità, a una caratterizzazione in termini funzionali. Questa è una posizione abbastanza diffusa: tipicamente, il difensore della non sopravvenienza dei qualia sugli stati fisici è incline a ritenere che i qualia non sopravvengono nemmeno sugli stati intenzionali. A parte il caso appena discusso, in cui si esclude la sopravvenienza dei qualia sugli stati intenzionali in virtù della funzionalizzabilità di questi ultimi, la tesi della riducibilità o meno dei qualia a stati rappresentazionali richiede una giustificazione indipendente. È tuttavia difficile trovare un vero e proprio argomento al riguardo. L’idea è grosso modo la seguente: essere coscienti è essere impegnati in un processo rappresentazionale. Quando, per esempio, ho l’espe180

rienza (qualitativa) del rosso, allo stesso tempo ho una rappresentazione di un oggetto rosso; e quando provo dolore, allo stesso tempo ho una rappresentazione di qualche parte del mio corpo come colpita da un danno o lesione. Questo però non basta (fin qui anche l’amico dei qualia potrebbe trovarsi d’accordo); occorre anche mostrare che nell’esperienza qualitativa non c’è nient’altro oltre alla rappresentazione. Questo passo ulteriore viene tipicamente giustificato dicendo che i qualia non sono che modi della rappresentazione, particolari aspetti o proprietà dei contenuti percettivi. In altri termini, le cosiddette proprietà qualitative sono proprietà degli oggetti percepiti così come ci sono date nell’esperienza percettiva, «le proprietà che gli oggetti sono rappresentatis4 avere», afferma per esempio Dretske (1995, p. 65). L’esperienza della rossezza non è nient’altro che il vedere un oggetto come rosso; l’esperienza del dolore non è nient’altro che il modo in cui ci rappresentiamo un disturbo o una lesione a una parte del corpo. Messa in questi termini, non è possibile che una differenza qualitativa non abbia un riscontro in una differenza di contenuto. La teoria rappresentazionale dei qualia può essere adottata sia in una prospettiva funzionalista che in una antifunzionalista. Nel primo caso, esemplificato da Lycan (1996), la coscienza fenomenica viene riassorbita nella coscienza d’accesso. Non c’è differenza qualitativa che non faccia una differenza funzionale. Nel secondo caso, esemplificato da Dretske (1995), l’impossibilità di funzionalizzare le proprietà qualitative non ne pregiudica la sopravvenienza sugli stati fisici. Per questa è infatti sufficiente che ci sia una descrizione in un vocabolario fisico delle condizioni in cui i sistemi veicolano informazioni sul mondo esterno. Come dire che l’intenzionalità è naturalizzabile anche per via non funzionale. Secondo Dretske, la teoria rappresentazionale riesce a offrire una spiegazione oggettiva della soggettività in quanto, da un lato, rispetta l’assunzione condivisa che gli aspetti qualitativi sono soggettivi o privati, e, dall’altro, rende gli aspetti qualitativi determinabili oggettivamente. Le argomentazioni usate nel dibattito tra intenzionalisti e «qualiofili» sono molto sofisticate, ma le intuizioni vi svolgono un ruolo non secondario. A questo riguardo, si può osservare che la riduzione dei qualia a costituenti del contenuto intenzionale appare senz’altro 4 Rappresentati significa rappresentati sensorialmente, e quindi in modo non s concettuale, non epistemico. Cfr. supra, 5.1.

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praticabile nel caso delle esperienze percettive (siamo inclini a pensare che, per esempio, la rossezza è una proprietà delle cose stesse, e non delle esperienze), ma diventa assai più difficile da difendere nel caso del dolore (per tacere della malinconia o della noia). Si tratta di far vedere che il dolore è un tipo di percezione. 4. Teorie della coscienza: una mappa delle posizioni Sulla base della discussione svolta nel paragrafo precedente, possiamo, schematizzando, distinguere le seguenti posizioni: a) si accettano gli argomenti sui qualia nella loro interpretazione più drastica: i qualia non sopravvengono né logicamente né (si presume) naturalmente sugli stati fisici; b) si ammette il fallimento della sopravvenienza logica ma si suppone che i qualia sopravvengano naturalmente agli stati fisici; c) si respingono gli argomenti sui qualia e si ritiene che i qualia sopravvengano (o siano identici) agli stati intenzionali; d) si respingono gli argomenti sui qualia e si ritiene che i qualia non esistano o siano funzionalizzabili. Non è possibile rubricare ciascuna posizione sotto un’etichetta precisa, perché ognuna di esse ammette diverse varianti. Esaminiamo brevemente le varie possibilità. a) (Gli argomenti sui qualia sono conclusivi; i qualia non sopravvengono nemmeno naturalmente.) Questa è la posizione di chi ritiene la coscienza un problema insolubile. Chi la sostiene non ha una teoria della coscienza e non crede possibile averla. È il caso del misterianismo di McGinn, secondo il quale la coscienza si sottrae a qualsiasi spiegazione, per dei limiti intrinseci a come è organizzata la nostra mente. La coscienza eccede le nostre capacità di comprensione. Su una linea non dissimile si colloca Nagel, che ritiene la soggettività inaccessibile per principio al metodo oggettivo della scienza: è l’idea secondo la quale l’unico modo di sapere che cosa sta provando un agente è essere quell’agente. Del tutto particolare è la posizione di Searle, che, pur accettando gli argomenti per i qualia, pensa che gli stati qualitativi possano essere spiegati da una teoria neurobiologica. Secondo Searle intenzionalità e coscienza sono due facce della stessa medaglia, nel senso che si tratta di due proprietà sistematicamente compresenti, senza che 182

nessuna delle due sia riducibile all’altra. Né l’intenzionalità né la coscienza sopravvengono a stati funzionali o fisici; tuttavia, secondo Searle la coscienza è causata da certi fatti neurobiologici di cui, verosimilmente, la scienza futura verrà a conoscenza. Si può legittimamente sospettare che nella posizione di Searle ci sia una tensione: da un lato si sostiene che la coscienza è spiegabile in termini neurobiologici e dall’altro che non è suscettibile di una riduzione. Questa tensione può forse essere ricomposta osservando che, nel dire che i fatti neurobiologici causano la coscienza, il filosofo di Berkeley usa «causare» in un senso idiosincratico rispetto all’uso standard che se ne fa in filosofia della mente e della scienza. b) (Gli argomenti sui qualia sono conclusivi ma i qualia sopravvengono naturalmente, cioè nomologicamente.) Questa è la posizione del funzionalista che ammette tuttavia l’insufficienza dell’analisi funzionale nel caso della coscienza. Viene riconosciuta l’esistenza di un vuoto esplicativo, negando però che sia naturalmente possibile che ci siano sistemi cognitivamente identici a noi e privi di coscienza. La coscienza fenomenica emerge a partire da un certo tipo di organizzazione funzionale. In questa prospettiva la coscienza è considerata una nozione primitiva che può tuttavia entrare in leggi psico-fisiche (Chalmers 1996), oppure una proprietà emergente (Crane 2001)5. Si tratta quindi di un dualismo delle proprietà che assume più o meno esplicitamente i connotati dell’emergentismo. Gli autori più rappresentativi di tale posizione sono, oltre a quelli già citati, Kim (che, naturalmente, è dualista soltanto al riguardo della coscienza, non degli stati intenzionali) e, in Italia, Di Francesco. Chalmers sfrutta una variante dell’argomento degli zombie, il cosiddetto argomento dei qualia in dissolvenza, per avvalorare la tesi della sopravvenienza nomologica. Si immagini che a una persona venga sostituito un neurone alla volta (o un numero limitato di neuroni alla volta) con un circuito in silicio funzionalmente equivalente. Se gli stati qualitativi non sopravvenissero nemmeno naturalmente sugli stati funzionali, alla fine di questo processo questa persona dovrebbe essere priva di coscienza. Supponiamo che sia così e chiediamoci a quale stadio del processo il replicante ha perduto la coscienza. Che la 5 È tuttavia corretto sottolineare come Crane, a differenza degli altri autori di questo gruppo, creda nella sopravvenienza dei qualia sugli stati intenzionali. La sua posizione è quindi un po’ a mezza strada tra i rappresentazionalisti di cui al punto c) e il gruppo in cui l’abbiamo inserito, in virtù del suo emergentismo.

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scomparsa dei qualia sia avvenuta improvvisamente non sembra credibile: sarebbe come dire che un singolo neurone, o comunque un numero ristretto di neuroni sono responsabili della coscienza. Resta quindi la sola possibilità che la coscienza si dissolva gradualmente. Ne segue che fra la persona del tutto cosciente e il replicante privo di coscienza vi sono dei replicanti intermedi che hanno stati di coscienza «sbiadita», che tuttavia, in virtù dell’ipotesi dell’equivalenza funzionale, non si manifestano né nel comportamento né nei giudizi che i replicanti formulano sui propri stati di coscienza. Per esempio, un replicante riferirà di avere un’esperienza di un rosso brillante quando in realtà ha un’esperienza di rosa pallido. Stiamo cioè immaginando una serie di replicanti che si sbagliano completamente sulle proprie esperienze, un’ipotesi assai poco verosimile. Ma se si ammette che i qualia in dissolvenza non sono naturalmente possibili, non sono naturalmente possibili nemmeno i qualia assenti: anche il replicante il cui cervello è totalmente in silicio è cosciente6. c) (Gli argomenti sui qualia non sono conclusivi; i qualia si riducono a proprietà intenzionali.) Appartengono a questo gruppo le teorie rappresentazionali della coscienza nella versione non funzionalista (Dretske 1995; Tye 1995), di cui abbiamo già detto. d) (Gli argomenti sui qualia non sono conclusivi; i qualia non esistono.) Chi respinge in modo puro e semplice gli argomenti per i qualia assume una posizione tipicamente eliminativista, in base alla quale gli stati qualitativi sono un’illusione del senso comune, e un appropriato resoconto scientifico sarà in grado di illuminare quei fenomeni che vengono tipicamente spiegati con concetti come io, esperienza, ecc. Sostengono questa posizione, con sfumature diverse, P.M. Churchland, P.S. Churchland, Dennett, Wilkes. Come in ogni buona forma di eliminativismo che abbiamo incontrato, tesi cruciale di questo atteggiamento è che quello di coscienza è un concetto mal formato che dovrà essere sostituito da una controparte scientificamente legittima. Per esempio, si sostiene che i nostri usi del termine «coscienza» rinviano a fenomeni che hanno basi neuronali molto diverse, che non dovrebbero quindi essere confusi l’uno con l’altro. 6 Un argomento dalla struttura analoga, detto dei qualia danzanti, è avanzato per mostrare l’impossibilità naturale dei qualia inversi (cfr. Chalmers 1996, pp. 270 sgg.).

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Nella versione dennettiana dell’eliminativismo, si cerca di argomentare in favore dell’illusorietà della coscienza fenomenica combinando due strategie. Da un lato, Dennett riprende l’argomento comportamentistico, e specificamente wittgensteiniano, dell’impossibilità di riferirsi a stati privati: apparentemente noi parliamo come se avessimo stati «privati» di esperienza, ma un’attenta disamina di questo modo di parlare mostra come la supposta esistenza di tali stati non sia affatto un requisito necessario per la sensatezza di tali discorsi (cfr. supra, 1.3). Dall’altro lato, Dennett afferma che nel cervello non esiste un «centro della coscienza», cioè un sistema centrale che coordina tutte le varie operazioni cognitive; esistono bensì una moltitudine di «agenzie cognitive» che operano in modo parallelo e indipendente, e l’impressione del controllo operato da un io cosciente scaturisce dal fatto che di volta in volta l’una o l’altra di tali agenzie guadagna l’accesso ai centri del linguaggio7. Entrambi gli argomenti possono essere respinti dall’amico dei qualia. Riguardo al primo, egli può obiettare che l’esperienza – per esempio, il dolore – è qualcosa di indubitabile in modo del tutto indipendente dai modi di parlarne. Non c’è bisogno di avere un linguaggio per provare qualcosa. Riguardo al secondo, si replica tipicamente che il modello delle agenzie cognitive multiple può essere un’interessante spiegazione di alcuni aspetti della coscienza d’accesso, ma non ha nulla da dire sulla coscienza fenomenica. L’idea di fondo è che la realtà della coscienza fenomenica è così autoevidente che sarebbe più facile rinunciare a una presunta teoria scientifica che ne mostrasse l’inconsistenza, piuttosto che ammetterne l’eliminabilità. Comunque sia, queste considerazioni non aggiungono nulla di significativo alle conclusioni che si possono trarre dagli argomenti sui qualia, in particolare da quello dei qualia assenti, ed è da come si valutano tali argomenti che dipende, in ultima analisi, la plausibilità della posizione eliminativista. Teorie empiriche della coscienza (cenni). Di recente la scienza ha cominciato ad occuparsi del problema della coscienza, considerato fino a non molti anni fa un problema mal formulato, non scientifico. Al contrario, oggi alcuni scienziati hanno avanzato delle proposte,

7 Gioverà ricordare, a questo proposito, che secondo Dennett la coscienza richiede capacità verbali.

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come vedremo, ancora approssimative e parziali. Più che di vere e proprie teorie, si tratta appunto di proposte su come affrontare il problema, privilegiandone l’uno o l’altro aspetto. Accenneremo a un paio di esse. Secondo il premio Nobel Francis Crick (1994; cfr. anche Crick e Koch 1990), il problema della coscienza è essenzialmente un problema di collegamento, vale a dire di come sintetizzare sincronicamente un’ampia classe di informazioni. Per esempio, come facciamo a ricostruire un percetto visivo coerente sulla base di una serie di informazioni eterogenee provenienti da diversi recettori sensoriali ed elaborate in aree diverse della corteccia cerebrale? Alla base dell’esperienza di un percetto coerente ci sono migliaia di neuroni che si attivano come una sola unità. L’ipotesi di Crick e Koch è che la sincronizzazione sia resa possibile dalla generazione di impulsi a una frequenza fissata: quando abbiamo un’esperienza visiva coerente, c’è invariabilmente una scarica simultanea alla frequenza di 40 Hertz dei neuroni che connettono il talamo alla corteccia. Quale che sia la plausibilità di questa ipotesi, è evidente che il suo valore esplicativo è molto basso. In primo luogo non si capisce in che senso l’identità delle frequenze di scarica possa dare luogo alla coscienza: questa è una correlazione interessante, ma non una spiegazione; in secondo luogo, non sembra che il problema della coscienza fenomenica possa essere posto meramente nei termini di quello del collegamento. Più articolata la proposta di Gerald Edelman (1989, 1992). Anch’egli parte da un problema affatto particolare, quello della categorizzazione percettiva. L’intento è quello di spiegare in che modo un oggetto viene percepito come quell’oggetto. La consapevolezza di un oggetto esterno deriverebbe dall’esistenza di circuiti rientranti che collegano la corteccia visiva (e uditiva, tattile, ecc.) da un lato ai circuiti di memoria, dall’altro alle aree del linguaggio. Ad oggi la proposta di Edelman è probabilmente quella che si spinge più avanti, almeno in quanto impone chiari prerequisiti sui sistemi che possono essere dotati di coscienza: memoria, capacità di apprendimento, capacità di discriminare il sé dal non sé (cioè decidere se un certo evento è relativo al proprio corpo oppure no), più i circuiti rientranti sopra accennati. Ciò consente di scartare come non coscienti molti sistemi, dai termostati alle amebe. Nondimeno, quale che sia il grado di verità di questa teoria, il difensore della non riducibilità dei qualia insiste sul fatto che essa spiega soltanto alcuni aspetti della coscienza-A, non la coscienza-F. Alla luce delle conoscenze attuali, 186

sembrerebbe che il massimo a cui una teoria scientifica riguardo alla coscienza-F può aspirare è trovare correlazioni, non spiegazioni. ❑ Riepilogo I filosofi della mente hanno accolto con favore la distinzione tra coscienza fenomenica (coscienza-F) e coscienza d’accesso (coscienza-A). La prima consiste nel fatto che, nell’avere una certa esperienza – per esempio, percettiva –, proviamo qualcosa: fa un certo effetto avere quella esperienza. La seconda consiste nell’essere consapevoli di qualcosa, cioè nel trovarsi in stati mentali suscettibili di elaborazioni cognitive ulteriori. Mentre si ritiene comunemente che gli stati di coscienza d’accesso, ivi compresi quelli di autocoscienza, siano funzionalizzabili, la coscienza fenomenica solleva dei problemi a detta di molti inaggirabili. Nella versione epistemologica, il problema assume la forma del vuoto esplicativo, cioè dell’incapacità da parte delle scienze della natura di spiegare come è possibile che a un certo stato fisico si accompagni sistematicamente uno stato conscio-F. Nella versione metafisica, il problema è che, come gli argomenti sui qualia assenti e sui qualia inversi dimostrerebbero, gli stati consci-F non sopravvengono sugli stati fisici: è possibile immaginare che due tokens identici di stati fisici siano rispettivamente conscio-F e non conscio-F. La reazione a questi argomenti va dall’accettazione incondizionata, con conseguente atteggiamento di scetticismo di fronte alla possibilità di ricondurre la coscienza nell’alveo dei fenomeni naturali, all’accettazione parziale (la coscienza non sopravviene logicamente sul fisico, ma emerge a partire da una certa organizzazione funzionale complessa) al radicale rifiuto dell’eliminativista, che considera la coscienza-F una costruzione illusoria del senso comune.

s Cos’altro leggere A differenza che negli altri capitoli, questa guida bibliografica non è organizzata per sotto-temi, perché quello della coscienza fenomenica è un problema fondamentalmente unitario, ben integrato. Per un’ampia panoramica sul problema, si veda la monografia di M. Di Francesco, La coscienza, Laterza, Roma-Bari 2000, che inquadra il problema specifico della coscienza nel contesto più ampio del problema mente-corpo e più in generale della filosofia della mente. Il celebre articolo di T. Nagel, Che effetto fa essere un pipistrello? si può trovare nel suo Questioni mortali, Il Saggiatore, Milano 1986, oppu187

re in D.R. Hofstadter, D.C. Dennett (a cura di), L’io della mente, Adelphi, Milano 1985, una ricchissima antologia di articoli di filosofia della mente e scienza cognitiva. Una bella antologia sul tema specifico della coscienza, che raccoglie molti contributi importanti, è N. Block, O. Flanagan, G. Güzeldere (a cura di), The Nature of Consciousness, MIT Press, Cambridge MA 1997. Flanagan è anche autore di un buon libro, Consciousness Reconsidered, MIT Press, Cambridge MA 1992. Il più volte citato F. Dretske, Naturalizing the Mind, MIT Press, Cambridge MA 1995 è un incisivo saggio di teoria dell’esperienza, una delle più efficaci esposizioni della tesi secondo cui la mente è un sistema rappresentazionale. T. Crane, Elements of Mind, Oxford University Press, Oxford 2001 contiene un capitolo sulla coscienza (il terzo) assai puntuale sotto il profilo della presentazione degli argomenti sui qualia. Diversi trattati sulla coscienza di filosofi autorevoli sono disponibili in italiano, per esempio: D.C. Dennett, Coscienza, Rizzoli, Milano 1993; D. Chalmers, La mente cosciente, McGraw-Hill, Milano 1999; J. Searle, La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1994. Di Searle è utile (e divertente per lo stile assai polemico) anche Il mistero della coscienza, Cortina, Milano 1998. Sono stati tradotti in italiano anche i lavori scientifici di Edelman: Il presente ricordato: una teoria biologica della coscienza, Rizzoli, Milano 1991 e Sulla materia della mente, Adelphi, Milano 1993). Infine, voglio segnalare l’assai affascinante, anche se molto speculativo e filosoficamente poco rigoroso, J. Jaynes, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Adelphi, Milano 1984.

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Postfazione

Gli sviluppi degli ultimi dieci anni

Sebbene nell’ultimo decennio si siano registrati alcuni risultati empirici di una certa rilevanza che hanno proficuamente alimentato il dibattito filosofico, non si può dire che la geografia generale del panorama filosofico sia significativamente mutata: non è detto che i progressi scientifici, per quanto rilevanti, facciano una differenza per la filosofia; e, prima di farla, devono essere metabolizzati. Nondimeno, l’interazione tra riflessione filosofica e ricerca scientifica, oltre ad aver rafforzato alcune tendenze i cui prodromi erano già ben visibili alla fine del secolo scorso, ha prodotto alcune idee nuove. Gli aspetti degni di menzione sono, in ordine di rilevanza, l’idea di mente estesa (§2), una nuova enfasi sull’importanza dell’azione (§1), una curvatura parzialmente nuova del dibattito sulla coscienza (§3). Tutti questi aspetti sono, come vedremo, reciprocamente legati. Prima di entrare nel merito di ciascuno di questi sviluppi, è opportuno spendere ancora qualche parola sui risultati della ricerca empirica. L’ultimo decennio è stato contraddistinto da un notevole sviluppo della neuroscienza, che ha mutato la geografia delle scienze cognitive. In parte questo sviluppo si spiega con la disponibilità di tecniche sperimentali più sofisticate, come la stimolazione magnetica transcranica e la risonanza magnetica funzionale (o altre tecniche di neuroimmagine). Ma il processo sembra anche essere alimentato, non solo in Italia, da un vero e proprio clima culturale, che si riflette, molto concretamente, nella notevole crescita dei finanziamenti assegnati ai progetti di ricerca sul cervello e sulle basi cerebrali del comportamento. Così, se fino a non molto tempo addietro le discipline centrali delle scienze cognitive erano la psicologia e l’intelligenza artificiale, adesso ad occupare questo ruolo è la neuroscienza nelle sue diverse articolazioni. Quali che siano le sue ricadute sul piano stret207

tamente filosofico, l’«esplosione» della neuroscienza è di per sé un fatto di grande rilievo culturale. Come accade, la crescita così forte di una disciplina ha finito per indurre una percezione distorta dell’ambito dei fatti realmente spiegabili dalla disciplina in questione, al punto che alcuni hanno parlato, non a torto, di una «neuromania»1. La ricerca sulle basi cerebrali di praticamente qualsiasi attività umana, dall’economia (neuroeconomia) alla morale (neuroetica), dalla percezione dell’opera d’arte (neuroestetica) alla spiritualità e rappresentazione del sovrannaturale (neuroteologia), tende talora a far dimenticare che un conto è chiedersi, ad esempio, quali aree cerebrali presiedono alla emissione di un giudizio morale e un altro è chiedersi qual è il comportamento giusto da tenere in una data situazione; la confusione tra questi due aspetti è un caso particolarmente evidente di fallacia naturalistica, il tipo di ragionamento che pretende di dedurre da premesse descrittive («le cose stanno così») conclusioni prescrittive o normative («dovresti comportarti così»). Nella migliore delle ipotesi, sapere quali sono le aree cerebrali coinvolte in un giudizio morale ci può dare qualche indicazione sul perché tendiamo a giudicare morali certi comportamenti piuttosto che altri. Inoltre si tende a sopravvalutare ciò che i dati empirici messi a disposizione dalle tecniche di neuroimmagine possono dimostrare, trascurando quella che è l’effettiva capacità di risoluzione di questi strumenti (cfr. Legrenzi e Umiltà, Neuromania, cit.). Nulla di tutto ciò, beninteso, implica che si debba guardare con sospetto alla neuroscienza, il cui sviluppo consentirà sicuramente di accrescere le nostre conoscenze sui fatti mentali. Più che queste considerazioni di sociologia della scienza, peraltro, ciò che ci interessa mettere in luce è quali sono le conseguenze più rilevanti per i problemi di filosofia della mente. Almeno allo stato attuale, queste sembrano essere essenzialmente due, concernenti rispettivamente il piano della spiegazione e il piano metafisico. Riguardo alla spiegazione dei fenomeni mentali, oggi si tende a cercare conferme empiriche di una teoria più nei dati delle neuroscienze che in quelli comportamentali: i vincoli «dal basso» tendono a soppiantare quelli «dall’alto» nell’elaborazione di una teoria. In questo senso il funzionalismo indifferente al cervello (cfr. cap. 2) è ormai qualcosa che appartiene al passato. Nella misura in cui il funzionalismo computazionale può ancora essere considerato un qua1

P. Legrenzi, C. Umiltà, Neuromania, Il Mulino, Bologna 2009.

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dro teorico fecondo, esso non è più antibiologico; al contrario, non di rado sono le conoscenze sulla struttura e funzione del sistema nervoso centrale a suggerire un’ipotesi teorica sulla mente. Casi emblematici sono la scoperta dei neuroni specchio, di cui daremo conto nel paragrafo seguente, e quella della cosiddetta doppia via visiva: l’esistenza di due percorsi neurali, detti «dorsale» e «ventrale», dedicati rispettivamente al controllo dei movimenti e alla rilevazione di proprietà geometriche e semantiche dell’oggetto. Riguardo alla metafisica, lo sviluppo della neuroscienza ha dato un certo impulso ai riduzionisti, tradizionalmente inclini a interpretare le scoperte sul cervello come indizi a favore della teoria dell’identità (cfr. capp. 1 e 3). Il neoriduzionismo odierno trae ulteriore alimento dal fatto che i modelli della neuroscienza tendono a loro volta a ispirarsi a quelli delle scienze di livello inferiore. Così, ad esempio, secondo Bickle, è nella neuroscienza dei livelli cellulare e molecolare che si possono trovare diversi esempi di riduzione2. Non si può dire, tuttavia, che lo sviluppo della neuroscienza abbia spostato i termini del dibattito – sebbene i dati empirici abbiano un certo ruolo, gli argomenti pro o contro la teoria dell’identità sono fondamentalmente a priori3 — né che abbia determinato un infoltimento significativo delle schiere dei riduzionisti: un nutrito gruppo di studiosi, tra i quali filosofi molto autorevoli (penso ad esempio a Burge o a Putnam), continua a considerare la teoria dell’identità letteralmente inintelligibile, e i progressi delle neuroscienze tanto eccitanti scientificamente quanto filosoficamente poco rilevanti. Quest’ultima tesi sembra essere tuttavia contraddetta dai paragrafi seguenti. 1. La «riscoperta» dell’azione: i neuroni specchio e il paradigma sensomotorio Il funzionalismo, tanto sotto l’aspetto metafisico quanto sotto quello esplicativo, si accompagnava tipicamente a una visione della mente a tre strati: percezione, cognizione e azione. Il fulcro dell’attività mentale è l’elaborazione cognitiva dei dati forniti dalla percezione ai 2 J. Bickle, Philosophy and Neuroscience. A Ruthlessly Reductive Account, Kluwer, Dordrecht 2003. 3 Si veda ad esempio S. Gozzano, Pensieri materiali, UTET, Torino 2007, che difende la teoria dell’identità coniugando il funzionalismo con una certa concezione della causalità.

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fini di innescare il comportamento appropriato. In questo senso percezione e azione sono rispettivamente l’input e l’output di una trama causale di credenze e desideri (scopi, intenzioni). Questa prospettiva conduce, da un lato, ad accordare un ruolo privilegiato ai cosiddetti stati e processi centrali: credenze, intenzioni, ragionamento, decisione; e, dall’altro, implica una separazione non solo logico-concettuale ma anche materiale (a livello neurofisiologico) dei tre strati citati: ha senso distinguere chiaramente tra percezione, cognizione e azione nella misura in cui a ciascuna di queste funzioni corrispondono sistemi cerebrali topograficamente abbastanza ben distinti e in larga misura funzionalmente autonomi. Di recente questa concezione a tre strati è stata messa fortemente in discussione soprattutto in conseguenza (i) della scoperta dei cosiddetti neuroni specchio, e (ii) dell’emergenza di un programma di ricerca, l’approccio sensomotorio, nel quale istanze della tradizione fenomenologica (in particolare della Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty) e spunti della percettologia ecologica di J.J. Gibson (cfr. supra, 5.3) hanno trovato una sintesi innovativa ed efficace. È andata così delineandosi una visione della mente nella quale percezione e azione vengono considerate come un sistema unico, e la cognizione stessa, anziché essere considerata un’attività simbolica, è profondamente radicata nelle capacità sensomotorie. Il fatto che percezione e azione siano assai più intimamente legate di quanto non si supponesse qualche anno prima ha, come vedremo, delle conseguenze filosofiche rilevanti sulla natura della coscienza, sulla natura della relazione tra mente e mondo e su altre questioni ancora. I neuroni specchio. La scoperta dei neuroni specchio, che dobbiamo a un gruppo di ricerca italiano, il team di neurofisiologi dell’Università di Parma coordinati da Giacomo Rizzolatti, è probabilmente quella che ha avuto una eco maggiore in filosofia. Trattandosi di ricerche note persino al grande pubblico, ne esporremo i risultati fondamentali in modo molto succinto, per concentrarci invece sulle conseguenze filosofiche, per la verità non del tutto chiare. Scoperti nella corteccia premotoria del macaco (le aree F4-F5), i neuroni specchio hanno la prerogativa di scaricare sia quando la scimmia è impegnata in una certa azione, come l’afferrare un oggetto, sia quando si limita a osservare un conspecifico o un essere umano impegnato nella medesima azione. Anche alla luce di alcuni dati empirici, ci sono buone ragioni di pensare che i neuroni specchio siano presenti 210

anche nell’uomo, nelle aree omologhe a quelle sopracitate: l’area di Broca, larghe parti della corteccia premotoria e del lobo parietale inferiore4. È da sottolineare che la maggior parte dei neuroni specchio (anche se non tutti) che si attiva durante l’esecuzione di un’azione di un certo tipo si attiva durante la percezione di tale azione anche se questa non viene eseguita con lo stesso movimento fisico; per esempio, molti neuroni specchio che scaricano quando il macaco afferra una nocciolina con una mano scaricano anche quando il macaco vede un conspecifico prendere la nocciolina con la bocca. Ciò sembra suggerire che questi neuroni codifichino o rappresentino un’azione a un livello abbastanza astratto, siano cioè sensibili non a un mero movimento ma appunto a un’azione (qualcosa che ha uno scopo). La scoperta dei neuroni specchio ha considerevolmente influenzato il dibattito sulla natura di almeno tre capacità mentali, anche se è tuttora molto controverso che cosa esattamente essa comporti: a) la cosiddetta teoria della mente (cfr. supra, 7.4); b) la comprensione del linguaggio; c) l’imitazione. Tralasciamo implicazioni ulteriori un po’ troppo ispirate a quella neuromania cui abbiamo accennato sopra. Riguardo alla teoria della mente, l’idea è che l’attività dei neuroni specchio consentirebbe di afferrare direttamente gli stati mentali altrui in virtù di una sorta di meccanismo di risonanza empatica: capisco cosa pensi perché, in qualche modo, rivivo quello che fai. Non sono richieste inferenze che, a partire da dati percettivi e comportamentali, sfruttano concetti mentalistici5. In tal modo, i neuroni specchio offrirebbero una conferma empirica alla cosiddetta teoria della simulazione. Il principale sostenitore della teoria sella simulazione, Alvin Goldman, tuttavia, ha di recente obiettato che l’attività dei neuroni specchio non è sufficiente per la comprensione degli stati mentali, pur svolgendo un ruolo causale6. Riguardo al linguaggio, l’idea è che la comprensione di un enunciato di azione richiede, o persino coincide, con la simulazione dell’azione medesima. Per simulazione si intende il fatto che il cervello «prepara» l’azione, nel senso di impostare parzialmente gli schemi motori necessari, senza che questa venga realmente eseguita. Più in Cfr. G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai, R. Cortina, Milano 2006. Cfr. ad es. M. Iacoboni, I. Molnar-Szakacs, V. Gallese, G. Buccino, J.C. Mazziotta, G. Rizzolatti, «Grasping the intentions of others with one’s own mirror neuron system», PLoS Biology 3, 2005, 3, pp. 529-535. 6 A. Goldman, Simulating Minds, Oxford University Press, Oxford 2006. 4 5

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generale, secondo l’interpretazione più radicale di questa teoria, qualsiasi attività mentale che diremmo concettuale, ad esempio il ragionamento, consiste in processi di tipo simulativo/immaginativo, che, lungi dal fare uso di rappresentazioni simboliche astratte, consistono nell’attivazione diretta di schemi percettivi e motori7. In tal modo l’intero pensiero viene ricondotto a processi sensomotori o a trasposizioni metaforiche di rappresentazioni sensomotorie, una tesi che ricorda il progetto neopositivista, all’epoca dimostratosi insostenibile, di ridurre l’intero linguaggio a combinazioni di dati sensoriali. Infine i neuroni specchio sono stati considerati il meccanismo alla base dell’imitazione, una capacità che, secondo alcuni, svolgerebbe un ruolo cruciale nello sviluppo della formazione dell’io e di facoltà mentali come la psicologia ingenua e il linguaggio. Nel caso dell’apprendimento del linguaggio, l’idea è che questo si realizzi attraverso la riproduzione – resa possibile dai neuroni specchio – dei movimenti del sistema fonetico-articolatorio. Questa «teoria motoria» del linguaggio era stata proposta da Alvin Liberman già negli anni Sessanta del secolo scorso8. Limitandoci a riferire ciò su cui si è raggiunto un consenso diffuso, è assai plausibile che i neuroni specchio siano il meccanismo neuronale che ci consente di riconoscere o comprendere un’intenzione motoria come l’afferrare un coltello. Questa comprensione, lungi dal richiedere una concettualizzazione del gesto percepito, avviene tramite una replicazione dell’attività cerebrale richiesta per eseguire quell’azione («simulazione» o «risonanza»), che non dà tuttavia luogo all’azione vera e propria. La scoperta dei neuroni specchio ha in tal modo contribuito a discreditare ulteriormente la TCRM (cfr. cap. 2), fornendo impulso ulteriore a quel processo di de-simbolizzazione del mentale che teorie come quelle di Johnson-Laird o di Kosslyn avevano avviato, e offrendo un supporto all’idea di cognizione corporea 7 V. Gallese, G. Lakoff, «The brain’s concepts: The role of the sensory motor system in conceptual knowledge», Cognitive Neuropsychology, 22, 2005, 3-4, pp. 455-479. Per una discussione parzialmente critica di questa proposta si veda A. Paternoster, «Le teorie simulative della comprensione e l’idea di cognizione incarnata», Sistemi Intelligenti, XXII, 2010, 1, pp. 129-159. 8 Cfr. G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, So quel che fai, cit. Sul ruolo dell’imitazione e l’origine del linguaggio si vedano M. Tomasello, Le origini della comunicazione umana, R. Cortina, Milano 2009 (ed. orig. 2008) e M. Corballis, Dalla mano alla bocca, R. Cortina, Milano 2008 (ed. orig. 2002).

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(cfr. supra, 6.1, 6.3). Su questo sfondo, essa ha innescato un circuito virtuoso con le teorie neogibsoniane della percezione, che ora andiamo a illustrare. Il paradigma sensomotorio. I neuroni specchio si calano bene in una cornice teorica emergente nello studio della percezione, la teoria sensomotoria. L’idea guida di questa prospettiva di ricerca è che la percezione sia un tipo di attività eseguibile in virtù del possesso di un certo tipo di competenza o capacità fisica, un «sapere del corpo». Ciò che percepiamo è determinato da ciò che facciamo, e ciò che facciamo è parte del processo percettivo. Infatti l’esplorazione attiva dell’ambiente da un lato richiede una continua disponibilità di informazioni percettive, e dall’altro modifica, anche con il più piccolo dei movimenti, la stimolazione sensoriale, quindi l’informazione percettiva stessa. L’essenza di ciò che chiamiamo ‘percezione’ è costituita pertanto dalla cosiddetta competenza sensomotoria, che è la conoscenza tacita di come la stimolazione varierà al variare dei movimenti corporei: avere competenza sensomotoria è comprendere in che modo i movimenti influenzeranno la stimolazione ed equivale quindi a sapere che movimenti vanno fatti per soddisfare i nostri scopi percettivi. Le relazioni sistematiche tra movimento e stimolazione vengono dette dipendenze, o contingenze, sensomotorie. Un’implicazione assai significativa di queste tesi è che la percezione non è un processo che si svolge nel cervello, ma un’attività competente dell’animale nel suo complesso. Proprio su questo punto vi è il maggior distacco con la teoria computazionale classica, criticata per aver indebitamente identificato il sistema visivo con un pezzo del sistema nervoso descritto a un livello algoritmico. Infatti per la teoria sensomotoria fanno parte della percezione anche i movimenti oculari e le altre discontinuità o interruzioni della stimolazione. C’è attività percettiva anche quando non c’è stimolazione: quando nel campo visivo non c’è ancora l’oggetto che dovrò afferrare, i movimenti che attuo a tale scopo sono già percezione. Di conseguenza l’attività neurale non è sufficiente per la visione. Un’implicazione significativa delle teorie sensomotorie consiste nel ridimensionamento del ruolo delle rappresentazioni mentali: spesso le informazioni pertinenti sono ricavate direttamente dall’ambiente, che funziona così come una sorta di memoria esterna. In questo senso le teorie sensomotorie rientrano nell’ambito di quelle posizioni che ridimensionano o addirittura cancellano la frontiera tra 213

agente e ambiente. Altre implicazioni della teoria variano a seconda degli autori. Per esempio, alcuni sostengono che l’adozione del punto di vista sensomotorio consentirebbe di affrontare lo studio della coscienza in una nuova prospettiva (cfr. §3). Altri interpretano la teoria sensomotoria come una sorta di terza via tra un realismo oggettivista, che assume un mondo già strutturato in oggetti, proprietà e relazioni che il sistema visivo ha la funzione di ricostruire, e varie forme di soggettivismo (fenomenistiche o realistiche), che riducono la percezione a processi interni all’organismo. In questa terza via l’ambiente è costruito congiuntamente dal mondo e dell’attività del soggetto, e non c’è un’opposizione tra mondo reale e mondo fenomenico, perché il mondo fenomenico non è altro che il mondo reale sotto una diversa descrizione9. Nel complesso, queste ricerche accreditano una visione della mente meno intellettualistica, da un lato, e meno cervello-dipendente dall’altro. Ne risulta, a seconda dei punti di vista, un naturalismo non fisicalistico, oppure un fisicalismo «liberalizzato» nel quale le basi materiali del mentale non vanno cercate solo nel sistema nervoso centrale, ma nell’intero corpo e nell’ambiente fisico in cui il soggetto agisce10. In questo medesimo quadro si colloca anche il concetto di mente estesa. 2. La mente estesa L’idea di mente estesa è probabilmente il contributo filosofico di maggior rilievo degli ultimi anni e certamente uno dei più discussi. Il concetto, introdotto in un articolo del 1998 di Andy Clark e David Chalmers, è stato approfondito e raffinato nel corso del decennio successivo, soprattutto per iniziativa del primo11. 9 Cfr. E. Thompson, A. Palacios, F.J. Varela (1992), «Ways of coloring: Comparative color vision as a case study for cognitive science», Behavioral & Brain Sciences, 15(1), pp. 1-74. 10 I testi che meglio espongono il punto di vista sensomotorio, sottolineandone le implicazioni filosofiche, sono S. Hurley, Consciousness in action, Harvard University Press, Cambridge MA 1998 e A. Noë, Action in perception, MIT Press, Cambridge MA 2004. 11 A. Clark, D. Chalmers, «The Extended Mind», Analysis¸ 58, 1, pp. 7-19 (diverse ristampe); A. Clark, Natural Born Cyborgs, Oxford University Press, Oxford 2003; A. Clark, Supersizing the Mind, Oxford University Press, Oxford 2008.

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Un processo che si estende al di là dei confini del corpo di una persona, coinvolgendo supporti esterni quali computer, taccuini, matite ecc., può nondimeno essere considerato a buon diritto mentale o cognitivo se la rimozione di uno dei componenti esterni del processo rende impossibile portare a termine con successo il processo stesso: «Se, quando siamo impegnati in un compito, una parte del mondo funziona come un processo che, se si svolgesse nella testa, riconosceremmo senza esitazione come parte di un processo cognitivo, allora quella parte del mondo è (così sosteniamo) parte del processo cognitivo» (A. Clark, D. Chalmers, «The Extended Mind», cit., corsivi degli autori). Così, ad esempio, se una persona impegnata al computer in un gioco (come Tetris) nel quale bisogna disporre figure geometriche bidimensionali in modo da ottimizzare la struttura risultante si serve di una funzione del computer che gli consente di ruotare le forme (p. es., un tasto o un pulsante), allora quella persona è impegnata in un processo esteso: il pulsante di rotazione è parte della sua mente. Eseguire la rotazione mentalmente o farla eseguire al computer è equivalente per la dinamica del processo complessivo: ambedue sono parti del processo che svolgono lo stesso ruolo causale. Analogamente, la mente di una persona che sta giocando a Scarabeo si estende a comprendere il leggio e le tesserine con le lettere che ha sotto i propri occhi. Questi sono infatti strumenti essenziali per portare a termine con successo il processo di composizione di una parola. Dunque la tesi, espressa in modo icastico, è che la mente delle persone si prolunga al di là dei confini non solo del cervello ma anche del corpo. Al concetto di mente estesa sono indissolubilmente legati quelli di azione epistemica e di esternismo attivo. Un’azione epistemica, in quanto opposta alle ordinarie azioni pragmatiche, è una modificazione dell’ambiente volta a migliorare l’efficacia di un processo cognitivo. Quando ha luogo un processo mentale «esteso», gli agenti coinvolti nel processo eseguono sempre una o più azioni epistemiche. Per esempio, la sopracitata rotazione al computer è un’azione epistemica in quanto lo scopo dell’azione è quello di comprendere qual è la disposizione ottimale di una figura; in altre parole, l’azione in questione surroga un’operazione mentale. Se è vero che spesso costruiamo modelli mentali per prevedere le conseguenze di certe azioni – lavoriamo di immaginazione per poter agire, in senso pragmatico, più efficacemente –, altre volte eseguiamo azioni epistemiche, cioè facciamo delle «prove» nel mondo reale per poter ragionare in modo più efficace, potenziando i nostri processi cognitivi. 215

L’esternismo attivo è la posizione filosofica che fa da sfondo al concetto di mente estesa. È chiaro che la tesi della mente estesa implica una qualche forma di esternismo del mentale in quanto, nelle circostanze in cui ha luogo un presunto processo esteso, a parità di stati fisici interni una variazione ambientale è condizione sufficiente (in qualche caso persino necessaria, vedi sotto) perché abbia luogo una variazione in un contenuto mentale. Nell’esternismo attivo, tuttavia, l’enfasi è posta sui processi subpersonali, più che sui contenuti: nell’esempio dello Scarabeo, la possibilità di comporre diverse sequenze di lettere sul leggio mi consente di trovare una parola che non sarei riuscito a trovare o avrei trovato impiegando molto più tempo se avessi eseguito lo stesso processo nella mia testa, senza ausili esterni. Si noti come il tipo di esternismo sotteso alla mente estesa differisca crucialmente da quello di Putnam e Burge (cfr. supra, 4.2.) sotto due aspetti: il ruolo dell’ambiente si esercita nel presente e localmente, laddove nell’esternismo standard l’influenza dell’ambiente è di tipo storico-causale e fondamentalmente passiva, «inerziale». In questo secondo caso, infatti, si suppone che i miei pensieri differiscano da quelli del mio gemello molecolare su Terra gemella meramente perché nel passato io sono venuto a contatto con H2O mentre lui è venuto a contatto con XYZ. Nel caso della mente estesa, invece, il ruolo casuale del supporto esterno avviene qui ed ora; esso modifica nel presente il comportamento rilevante. In questo senso si potrebbe sostenere che l’esternismo attivo è l’interpretazione più plausibile dell’esternismo. Infatti, mentre i sostenitori della versione standard non hanno una risposta davvero soddisfacente all’obiezione che tipicamente la variazione ambientale è irrilevante per il comportamento (il comportamento cambia solo se la variazione ambientale è rilevata cognitivamente, dando così luogo a una variazione di stato interno), nel caso dell’esternismo attivo, il comportamento è direttamente influenzato dalla variazione ambientale: senza il supporto esterno, il processo in questione non viene portato a termine con successo. Il fattore esterno è necessario, come abbiamo visto nell’esempio dello Scarabeo. Quella di mente estesa è certamente una delle idee-guida di quella che abbiamo chiamato NFAI12, ma ha di per sé un grande rilievo

12 Non è difficile vedere che il concetto si sposa bene con la modellistica basata sui sistemi dinamici (cfr. supra, 6.3, 7.2), anche se non la implica necessariamente:

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filosofico perché mette in discussione alcune delle nostre intuizioni più irrinunciabili: l’idea che siamo proprietari dei nostri processi mentali e l’idea che siamo delimitati dai confini del nostro corpo. Queste intuizioni si riflettono nei nostri modi di parlare: diciamo, ad esempio, di non essere capaci di fare a mente 4276 x 5419, sebbene siamo capacissimi di farlo con carta e penna, laddove, per i sostenitori della mente estesa, la carta e la penna costituiscono, insieme al processo che si svolge nel nostro cervello, il processo mentale esteso. Vale quindi la pena approfondire le argomentazioni al riguardo. Discussione. Se ci si attiene a una visione rigorosamente funzionalista dei fenomeni mentali, potrebbe sembrare difficile evitare la conseguenza che la mente sia estesa. Infatti, da un lato, se un certo supporto esterno svolge un certo ruolo causale in un processo mentale, il supporto fa a pieno titolo parte del processo; e, dall’altro, poiché i processi mentali devono essere realizzati fisicamente ma non richiedono uno specifico supporto materiale, possono essere realizzati, in linea di principio, anche da supporti fisici esterni di vario genere. Da questo punto di vista, la mente estesa sarebbe soltanto un emendamento del funzionalismo tradizionale: la base di sopravvenienza include adesso anche fattori (corporei e) ambientali. Non è quindi sorprendente che l’idea di mente estesa risulti assai più problematica se si prendono in considerazione la coscienza e gli aspetti soggettivi, la connessione tra il concetto di mente e quello di persona. In termini molto generali, l’idea è che un sistema formato, poniamo, da me e da un taccuino, non è un soggetto di esperienza, non è un io: non prova nulla a essere quel particolare sistema, non si riferisce a se stesso ecc.13. Questo genere di argomento riproduce le critiche al funzionalismo basate sulla sua incapacità di dar conto degli stati soggettivi/qualitativi (cfr. supra, 2.4): per chi pensa che la dimensione fenomenologica sia costitutiva del concetto di mente è concettualmente impossibile che la mente sia estesa. Si può tuttavia provare a mettere in discussione la plausibilità della tesi di Clark e Chalmers anche senza mettere in gioco la soggettività, se la mente è estesa, agente e ambiente formano un sistema unico descrivibile tramite l’evoluzione di variabili collettive. 13 Cfr. ad es. M. Di Francesco, Extended cognition and the unity of mind. Why we are not «spread into the world», in M. Marraffa, M. De Caro, F. Ferretti (eds.), Cartographies of the Mind, Springer, Dordrecht 2007, pp. 213-227.

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restando all’interno, per così dire, di una logica puramente funzionalista. Per quanto la mente estesa sia, come abbiamo visto, compatibile col funzionalismo, ne è davvero una conseguenza plausibile? Gli stati paradigmaticamente funzionali sono le credenze, e le credenze, sostengono Clark e Chalmers, possono certamente risiedere su supporti esterni: tra il caso di una persona sana che «consulta la propria memoria» per recuperare l’informazione relativa, ad esempio, a un numero di telefono, e quello (fantasioso) di un malato di Alzheimer che consulta continuamente taccuini per recuperare informazioni dello stesso genere non vi è nessuna differenza funzionale. Il taccuino del malato di Alzheimer è la sua memoria (sebbene, ribadiamo, ciò confligga con i nostri modi di parlare). Questa linea di ragionamento genera tuttavia conseguenze poco plausibili: se trovo un’informazione su Wikipedia, questo significa che la mia mente comprende Wikipedia? A questo genere di obiezioni Clark e Chalmers hanno replicato fornendo dei criteri più restrittivi: Wikipedia non vale come mente estesa perché non è abbastanza trasparente14. Che cosa significa? Questo concetto riassume tre requisiti che devono essere soddisfatti affinché un processo (o risorsa) possa essere considerato autenticamente mentale: 1) il processo (o risorsa) deve essere sempre disponibile e utilizzato in modo non occasionale; 2) i suoi risultati devono essere più o meno automaticamente presi per buoni; 3) deve essere facilmente accessibile. Insomma la trasparenza è questione di accessibilità automatica, pressoché irriflessa, a certi processi o risorse: solo se un agente li usa con queste modalità, processi e risorse cessano di essere strumenti e diventano parte (del sistema cognitivo) dell’utilizzatore. Come minimo, il requisito 2 non è soddisfatto da Wikipedia. Ma si consideri quest’altra obiezione15. Si immagini una studentessa molto pigra, A, che per tradurre le versioni dal latino si serve di un traduttore automatico dell’ultima generazione, che potete concepire sofisticato a piacere. A si limita a ricopiare sul suo quaderno, frase dopo frase, gli output del traduttore. È chiaro che il traduttore soddisfa i tre requisiti sopra citati. Ora si immagini un’altra ragazza, 14 Cfr. M. Di Francesco, «Soggettività e trasparenza», Rivista di Estetica, 34, 2007, 1, pp. 233-250. Si noti come la dicotomia trasparente/opaco sostituisca in tal modo quella interno/esterno. 15 L’esempio che segue è di D. Marconi, «Contro la mente estesa», Sistemi intelligenti, XVII, 3, 2005, pp.389-398.

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B, che sfrutta il padre, latinista insigne, allo stesso modo in cui A usa il traduttore elettronico. Con un pizzico di fantasia, si immagini che il padre di B soddisfi i tre requisiti. Dovremmo quindi concludere che il processo cognitivo di A include il traduttore nonché che il processo cognitivo di B include la mente (o parti della mente) del padre. E proprio qui nasce un dilemma: qual è la mente che fa le traduzioni a casa di B? Clark e seguaci direbbero che è un processo esteso di B a farle, ma andatelo a dire al professore di latino che ha scoperto tutto. Indipendentemente da questo (il professore di latino si appella al senso comune, il che equivale evidentemente a pregiudicare la questione), alla questione di quante menti ci siano a casa di B non si riesce a dare una risposta coerente, perché ce ne sono simultaneamente una, due o persino molte a seconda dei processi sui quali focalizziamo la nostra attenzione: se ci riferiamo alla traduzione dal latino e vogliamo concedere il punto ai sostenitori della mente estesa, diremo che ce n’è una; ma quando B sottopone le frasi al padre sembrerebbero essercene (almeno) due, e se il padre traduce borbottando nel frattempo contro la figlia sfaticata ce ne sono tre, una per ogni processo in cui la vita mentale di B è coinvolta. Poiché non possiamo accettare l’eventualità che ci siano simultaneamente (oltre che nello stesso luogo) una mente e più menti, il concetto di mente estesa ingenera un paradosso. L’esempio sembra dimostrare che, anche fissando i requisiti di cui sopra, non ha senso parlare di menti estese; possiamo semmai parlare di processi estesi, dove un processo esteso è composto dalla mente di una persona (o, eventualmente, di più persone) e da risorse esterne condivise; ma ciascuna mente resta ben ancorata al cervello o corpo che la ospita. Il fatto che molti processi abbiano luogo attraverso un sistematico scambio di informazioni tra cervelli e ambienti non può cancellare la realtà della distinzione, perché l’efficacia di un processo si spiega evolutivamente, in forza di un lungo e faticoso processo di adattamento dell’organismo all’ambiente. Con le parole di Marconi, «non esiste un codice genetico del sistema organismo-ambiente; il codice genetico è una proprietà dell’organismo, ed è per questo, fondamentalmente, che anche la mente è una proprietà dell’organismo; anche se il codice genetico è quello che è anche a causa delle proprietà dell’ambiente» («Contro la mente estesa», cit., p. 397). Preso di per sé, questo riferimento alle basi biologiche lascia del tutto indifferente un sostenitore della mente estesa, per il quale la distinzione tra biologia e cultura è arbitraria. Per Clark, in effetti, è 219

possibile retrodatare la comparsa di menti estese a centinaia di migliaia di anni fa: nel rispetto dei tre criteri, possiamo infatti sostenere che l’archetipo di tutte le estensioni cognitive è il linguaggio. La mente degli esseri umani, osserva Clark, era già estesa allora, ed in questo senso tutti noi saremmo dei «natural born cyborgs», dei cyborg nati. La ragione di questa apparentemente sorprendente affermazione è che il linguaggio ha cambiato radicalmente il nostro modo di pensare, e qui ‘linguaggio’ va inteso nel senso più ampio possibile: uno strumento di comunicazione basato su suoni simbolici (dotati di senso, che rinviano a qualcos’altro) che è nato e si è sviluppato in un contesto sociale, e in quanto tale è in larga parte extracranico. Dunque, da quando abbiamo la capacità di parlare, siamo ipso facto menti estese. Il linguaggio è la prima e più straordinaria delle «impalcature» esterne che sorreggono il nostro pensiero. Non è tuttavia obbligatorio leggere l’integrazione tra organismo e ambiente come espressione del funzionamento di un sistema unico; e non sembra essere nemmeno plausibile, considerato che il prezzo da pagare è la dissoluzione della nozione di soggetto. Possiamo fermarci qui: il lettore si sarà ormai fatto un’idea sufficiente per continuare a ragionare per conto proprio (...estesamente o meno), giovandosi, naturalmente, dei riferimenti citati. 3. Sviluppi del dibattito sulla coscienza La ricerca filosofica e scientifica sulla coscienza ha continuato, nel primo decennio del terzo millennio, ad essere molto intensa. Gli scienziati non hanno esitato a misurarsi direttamente con il problema di dar conto dell’esperienza in prima persona, prendendo sul serio, come auspicato da Chalmers, la dimensione fenomenologicoqualitativa e il problema del vuoto esplicativo (cfr. supra, 8.2). Sarebbe difficile sostenere, tuttavia, che sui problemi sollevati dalla soggettività e dai qualia ci vediamo oggi più chiaramente rispetto a dieci anni prima; e anche se sono state fatte scoperte interessanti manca tuttora un quadro teorico capace di integrare in modo convincente questi dati. Forse l’unico risultato abbastanza solido è che la nozione di coscienza non si riferisce a qualcosa di unitario: disponiamo di molti indizi per affermare che, lungi dall’esservi un centro della coscienza, questa emerge bensì dall’attivazione parallela di molteplici circuiti cerebrali, che realizzano quelli che Daniel Dennett, già nella monografia del 1991, chiamava le «agenzie cognitive 220

subpersonali»16. Dunque la coscienza non è una funzione sovraimposta in modo gerarchico alle altre attività cognitive, ma è distribuita nel cervello, nei circuiti dedicati alle varie funzioni cognitive, somatosensoriali e motorie. Una conseguenza in qualche misura sconcertante di questa tesi sembra essere che non esiste un io unitario. Ciò che intendiamo comunemente per io (o autocoscienza), lungi dall’avere un sostrato psicobiologico, sarebbe una sofisticata costruzione linguistico-culturale. Questa conclusione, che suggerisce che per capire la coscienza non è sufficiente guardare soltanto dentro al cervello, non ha tuttavia scoraggiato la «caccia» ai cosiddetti correlati neurali della coscienza, cioè a quei processi cerebrali che sono sistematicamente associati a un certo tipo di esperienza in prima persona17. L’esistenza di correlati neurali è infatti una supposizione plausibile nel caso di stati di coscienza fenomenica che non coinvolgono (almeno, non necessariamente) autoriflessione, come ad esempio il dolore. Queste ricerche presuppongono la tesi secondo cui l’essenza della coscienza fenomenica sia da ricercarsi nell’attività cerebrale. Tuttavia questa tesi è stata messa in discussione, soprattutto dai sostenitori delle teorie sensomotorie. L’idea è che la coscienza non sopravviene al solo cervello, bensì alla complessa struttura di relazioni dinamiche che sussistono tra cervello, corpo e mondo. L’argomento principale a sostegno di questo esternismo riguardo ai contenuti di esperienza è desunto dall’osservazione che nell’esperienza percettiva ci sono date sistematicamente alcune proprietà che non sono correntemente disponibili nella stimolazione prossimale, né, quindi, al cervello. Per esempio, quando vedo o tocco la superficie di un oggetto, ho la sensazione di avere l’intero oggetto a mia disposizione, sebbene qualche sua parte non sia realmente disponibile ai recettori sensoriali (si tratta del fenomeno che lo psicologo gestaltista Gaetano Kanizsa chiamava «completamento amodale»). Ed è ben noto come alla presenza nell’occhio della «macula cieca», la non piccola zona nella quale si innesta il nervo ottico e dunque priva di recettori, non faccia riscontro un «vuoto» nell’esperienza visiva, quasi che i soggetti completassero inconsapevolmente un percetto sistematicamente lacunoso. Sebbene l’interpretazione di quest’ultimo caso sia controversa, è un fatto che D.C. Dennett, Coscienza. Che cosa è, Laterza, Roma-Bari 2009 (ed. orig. 1991). Cfr. T. Metzinger (ed.), Neural correlates of consciousness: empirical and conceptual questions, MIT Press, Cambridge MA 2000. 16 17

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l’esperienza abbia un carattere anticipatorio, nel senso che in un dato istante percepiamo, o almeno ci sembra di percepire, anche ciò che non è presente nella stimolazione in quell’istante. Una possibile spiegazione di questo fenomeno risiede nel fatto che gli esseri umani (così come gli altri animali) possiedono competenza sensomotoria, hanno cioè la conoscenza (perlopiù tacita) di come la stimolazione varierà in funzione dei nostri movimenti. Secondo alcuni sostenitori della teoria sensomotoria ciò consentirebbe di risolvere il problema della lacuna esplicativa, in quanto questo è, per definizione, il problema di come il cervello produce l’esperienza in prima persona; ma, alla luce di quanto osservato, sarebbe il problema stesso ad essere impostato in modo fuorviante, perché non è il cervello da solo a produrre l’esperienza; i contenuti di esperienza sono determinati dalla struttura della competenza sensomotoria. Altrimenti detto, l’attività cerebrale produce solo indirettamente l’esperienza, contribuendo a questa in quanto consente agli organismi di fare certi tipi di cose. Si potrebbe obiettare che, verosimilmente, è comunque il cervello a «produrre» quella componente del contenuto che non deriva dalla stimolazione; ma soprattutto, anche se accettassimo l’origine extracraniale di tale componente, parrebbe francamente eccessivo sostenere che l’explanatory gap è dissolto, per due ragioni: da un lato, il cervello continua comunque a svolgere un ruolo, probabilmente preponderante; dall’altro bisognerebbe spiegare chiaramente in che modo i fattori esterni rilevanti concorrono a produrre l’esperienza. Invece manca un’adeguata illustrazione del contenuto della nostra competenza sensomotoria, cioè del modo in cui è realizzata la conoscenza delle dipendenze sensomotorie. Un altro elemento di novità nel dibattito sulla coscienza è rappresentato dalla messa in discussione della distinzione di Block tra coscienza fenomenica e coscienza d’accesso, distinzione che oggi appare assai meno solida rispetto a una decina d’anni fa. A suscitare molte perplessità è in particolare l’idea di Block di considerare coscienti-A certi stati in cui alcune informazioni percettive sono disponibili al cervello senza che tuttavia i soggetti ne abbiano consapevolezza alcuna18. In questo modo, infatti, diventa difficile sfuggire alla 18 Fondamentali, al riguardo, i dati neuropsicologici relativi alle sindromi del neglect e del blindsight. Cfr. A. Berti, Neuropsicologia della coscienza, Bollati Boringhieri, Torino 2010.

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conseguenza che qualunque processo cerebrale è in qualche senso cosciente. I critici di Block propendono per una concezione gradualistica della coscienza secondo la quale i) vi è un unico concetto di coscienza, più o meno corrispondente a quello ordinario, ma ii) gli stati coscienti si distribuiscono lungo un continuum: la coscienza non è una questione tutto/niente, bensì vi sono gradi inferiori di coscienza, che originano nella rappresentazione corporea, cioè nella codifica da parte del cervello di informazioni di natura somatosensoriale, e gradi superiori, che si sviluppano tanto evolutivamente (filogeneticamente) quanto ontogeneticamente a partire dai precedenti, e che culminano negli stati autoriflessivi. L’idea che gli stati fenomenici basilari derivino dalle rappresentazioni somatosensoriali si deve al neuroscienziato portoghese Antonio Damasio, secondo il quale i gradi inferiori di coscienza, che lui chiama «coscienza nucleare», costituiscono appunto una sorta di senso interno e sono strettamente associati alle emozioni, con le quali condividono alcune aree e strutture cerebrali19. Vorrei infine menzionare la crescente attenzione, anche questa dovuta soprattutto all’emergenza delle teorie sensomotorie, per la tradizione fenomenologica. La teoria sensomotoria ha contribuito a «sdoganare» la fenomenologia in virtù della comune enfasi sull’azione e sulla corporeità, condividendone inoltre la propensione a non separare il problema della coscienza da quello dell’intenzionalità. Tutti questi sono temi che si trovano nei classici lavori di Husserl o di Merleau-Ponty. Ma la ragione forse più importante di questo recupero della tradizione fenomenologica è che la possibilità stessa di fornire spiegazioni scientifiche della coscienza richiede descrizioni in prima persona. Se infatti è la coscienza fenomenica quello che vogliamo spiegare — come le cose appaiono al soggetto— non si vede bene come si possa prescindere dai resoconti dei soggetti. Così, nella prospettiva della cosiddetta «neurofenomenologia», fenomenologia e scienza della coscienza vengono integrate istituendo correlazioni sistematiche tra dati neurobiologici e descrizioni fenomenologiche, in una cornice teorica basata sulla teoria dei sistemi dinamici. Le de19 A. Damasio, Emozioni e coscienza, Adelphi, Milano 2000 (ed. orig. The Feeling of What Happens, New York 1999). La concezione gradualistica della coscienza è difesa in A. Paternoster, Il soggetto cosciente, in M. Di Francesco, M. Marraffa (a cura di), Il soggetto, Bruno Mondadori, Milano 2009. Si veda anche T. Metzinger, Being no One. The Self-Model Theory of Subjectivity, MIT Press, Cambridge MA 2003.

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scrizioni fenomenologiche sono ottenute con metodi rigorosi a cui i soggetti vengono addestrati. Ora, sul fatto che i dati fenomenologici siano un explanandum per la scienza della coscienza, quasi tutti sarebbero d’accordo; la forte diffidenza della filosofia (analitica) della mente e di molta scienza cognitiva nei confronti della fenomenologia è dovuta al fatto che, come numerosi esperimenti di psicologia hanno evidenziato, i resoconti in prima persona sono inattendibili. Uno dei pilastri epistemologici della scienza cognitiva è il rifiuto dell’introspezione, la cui inaffidabilità era stata riconosciuta molto tempo addietro20. A questa obiezione i sostenitori della fenomenologia hanno ribattuto, facendo riferimento alle analisi di Husserl e ad alcuni protocolli sperimentali recenti, che il metodo fenomenologico non è da confondersi con l’introspezione. Il fenomenologo cerca di descrivere l’esperienza in prima persona nel modo più obiettivo possibile, e si possono ottenere descrizioni accurate e intersoggettivamente controllate. Come gli psicologi della Gestalt hanno fatto vedere, gli stati fenomenici sono intersoggettivi; i loro lavori possono essere considerati come il paradigma metodologico di una fenomenologia sperimentale. Si deve tuttavia ammettere che la distinzione tra resoconti introspettivi e descrizioni fenomenologiche rigorose e controllate non è sempre facile da tracciare21. In conclusione, nonostante la ricchezza del dibattito e il notevole sviluppo della ricerca empirica, il problema della coscienza è ben lontano dall’aver trovato una soluzione. Forse il problema dei qualia è davvero irrisolvibile, o forse è un problema mal formulato. L’impressione è che l’analisi filosofica a priori basata sugli esperimenti di pensiero, come quello degli zombie (cfr. cap. 8), abbia segnato il passo e che una migliore comprensione dei fenomeni coscienti possa venire dalla discussione e interpretazione dei dati neuroscientifici. Cfr. M. Marraffa, La mente in bilico, Carocci, Roma 2009, cap. 1. Sul recupero della tradizione fenomenologica nelle scienze cognitive si veda S. Gallagher, D. Zahavi, La mente fenomenologica, R. Cortina, Milano 2009 (ed. orig. 2008). Per una discussione critica della distinzione tra fenomenologia e introspezione si veda ad esempio T. Bayne, «Closing the gap? Some questions for neurophenomenology», Phenomenology and the Cognitive Sciences 3, 2004, pp. 349364. 20 21

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Con questa nota lievemente critica su un certo modo di fare filosofia si conclude questa rapida rassegna dei temi principali della filosofia della mente degli ultimi dieci anni. Altre discussioni sarebbero state degne di menzione, come quella sulle emozioni, di recente molto viva, e, nell’ambito della metafisica della mente, quella sui tropi, un’espressione poco felice (in quanto ambigua) usata per designare le proprietà intese non come universali astratti bensì come particolari esemplificati da un oggetto, ad esempio la forma o il colore di questo libro. Lasciamo questi temi come spunti di ricerca ai lettori più curiosi ed appassionati.

Glossario*

A Atteggiamenti proposizionali Sono gli stati mentali, come credenze, desideri, speranze, ecc., che hanno per contenuto una proposizione. [4.1] C Cognizione corporea e situata Famiglia di teorie e di atteggiamenti critici verso la scienza cognitiva classica il cui denominatore comune è l’idea che un sistematico contatto fisico con l’ambiente è una condizione crucialmente necessaria della vita mentale. Si veda anche NFAI. [6.3; 7.2] Comportamentismo filosofico. È la tesi secondo cui i termini del vocabolario mentalistico ordinario, lungi dal riferirsi a reali enti psichici o cerebrali, denotano disposizioni al comportamento. [1.3] psicologico. Metodologia di ricerca incentrata sull’assunto secondo cui gli unici legittimi oggetti di indagine psicologica sono gli osservabili, cioè stimoli e risposte. [1.3] Computazione Procedimento per risolvere un problema basato su una successione di operazioni elementari ben definite, cioè esplicite e non ambigue. Sinonimi: algoritmo, procedura effettiva. La macchina di Turing è una delle diverse, equivalenti formalizzazioni della nozione di computazione. [Cap. 2, spec. 2.2] Concetti Sono i costituenti dei contenuti degli atteggiamenti proposizionali. [4.1; 5.1] Connessionismo Programma di ricerca basato sull’idea secondo cui i processi cognitivi sono particolari tipi di computazioni eseguite da reti neurali. [6.2, 7.1]

* Sono segnalate in corsivo le espressioni presenti a loro volta come voci nel Glossario. Tra parentesi quadre sono indicati i paragrafi o i capitoli in cui la voce è più frequentemente discussa.

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Contenuto Se A crede/desidera/spera/... che P, P, comunque lo si voglia caratterizzare, è (o esprime) il contenuto della credenza/desiderio/speranza/... di A. È ciò su cui uno stato mentale verte. [Capp. 4-5] contenuto stretto. Contenuto così come individuato da una teoria internista; esso coincide con il ruolo causale-inferenziale dello stato mentale. [4.3] contenuto ampio. Contenuto così come individuato da una teoria esternista; esso coincide con le condizioni di verità (o di soddisfacimento) dello stato mentale. [4.3] contenuto percettivo. Ciò su cui verte uno stato percettivo, per esempio un’esperienza visiva. Secondo molti autori è un contenuto di tipo non concettuale, vale a dire non è costituito di concetti. [Cap. 5, spec. 5.1] Coscienza-A Uno stato è conscio-A se è disponibile per l’elaborazione da parte di processi cognitivi «superiori», come l’inferenza o la verbalizzazione. [Cap. 8, spec. 8.1] Coscienza-F Uno stato è conscio-F se si prova qualcosa a trovarsi in quello stato, fa un certo effetto trovarsi in quello stato. Si veda Quale. [Cap. 8] D Dualismo ontologico. È la tesi secondo cui la mente è un tipo di cosa diversa e indipendente dal corpo; in linea di principio possono esistere menti disincarnate. epistemologico. È la tesi secondo cui almeno alcuni aspetti mentali non sono spiegabili esclusivamente sulla base di concetti neurobiologici e in ultima analisi fisici. delle proprietà. È la tesi secondo cui le proprietà mentali non sono riducibili alle proprietà cerebrali. [Capp. 1 e 3, spec. 3.4] E Eliminativismo È la tesi secondo cui i termini del vocabolario mentalistico ordinario, come «credenza», «desiderio», ecc., sono privi di riferimento. Poiché non esistono gli stati mentali così come concepiti dal senso comune, la psicologia che su di essi si basa (la psicologia folk o del senso comune) è una teoria falsa. [1.2, 4.1, 7.1] Emergentismo Famiglia di teorie il cui denominatore comune può essere definito dalla tesi secondo cui sistemi fisici aventi una certa complessità di organizzazione danno luogo a proprietà mentali (o più in generale a proprietà di alto livello) che non possono tuttavia essere né previste né spiegate sulla base delle sole proprietà fisiche (o più in generale di basso livello). Le proprietà emergenti sono tipicamente considerate l’esito di processi di auto-organizzazione in sistemi complessi. [Capp. 3 e 8; 7.2] Epifenomenismo È la tesi secondo cui gli stati mentali non hanno efficacia causale. [Cap. 3]

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Evento mentale Occorrenza (token) di stato mentale di breve durata, ovvero esemplificazione di proprietà mentale. F Fisicalismo È la tesi secondo cui tutto ciò che è reale è fisico. Non è semplice formulare la tesi in un modo preciso che non si esponga a giustificate obiezioni. Si ritiene comunemente che esso implichi almeno il cosiddetto principio di chiusura causale del mondo fisico: ad ogni istante in cui uno stato fisico ha una causa, esso ha una causa fisica sufficiente. È tuttavia controverso se ciò vada letto nel senso forte di richiedere che qualsiasi fenomeno vada spiegato in termini fisici (o riconducibili a termini fisici). [Capp. 1, 3, 8 e passim] Funzionalismo È la tesi secondo cui uno stato o evento mentale è individuato dal ruolo causale che esso svolge nell’intera vita mentale di un agente, indipendentemente da come tale ruolo è realizzato fisicamente. [Capp. 2-3 e passim] G GOFAI [Good Old-Fashioned Artificial Intelligence] È l’intelligenza artificiale tradizionale, imperniata sull’idea che i processi mentali sono computazioni su rappresentazioni mentali guidate da regole. È più o meno sinonimo di «scienza cognitiva classica». [Cap. 2, spec. 2.4; Cap. 6] I Intelligenza artificiale Branca dell’informatica che ha per scopo la riproduzione al computer di quelle prestazioni umane che sono tipicamente considerate intelligenti (in un senso ampio e generico di «intelligente»). [Capp. 2 e 6] Intenzionalità È la proprietà, caratteristica di molti stati mentali, di essere diretti verso qualcosa, ovvero di vertere su qualcosa. Uno stato intenzionale è dunque caratterizzato dall’essere in una relazione con un contenuto o oggetto. [Cap. 4] Internismo/Esternismo L’internismo è la tesi secondo cui il contenuto di uno stato mentale è completamente determinato da fattori interni a un organismo. L’esternismo è la tesi opposta: il contenuto di uno stato mentale è almeno in parte determinato dall’ambiente. [4.3, 4.4] Interpretativismo Si veda Strategia dell’interpretazione. L Leggi-ponte Enunciati, tipicamente di forma bicondizionale («P se e solo se Q»), che mettono

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in relazione proprietà postulate da teorie scientifiche appartenenti a un diverso livello di spiegazione, per esempio psicologico e neurologico (legge psico-fisica). Consentono le riduzioni interteoriche. [1.1, 3.3] Linguaggio del pensiero Sistema di rappresentazioni mentali assimilabile a un linguaggio, caratterizzato cioè da una struttura sintattica di tipo combinatorio (simboli complessi si ottengono per composizione di simboli atomici) e da una semantica di tipo referenziale (i simboli enunciativi hanno condizioni di verità; i simboli di tipo lessicale hanno condizioni di applicazione). [2.3; 4.3] M Materialismo È la tesi secondo cui l’intera realtà è costituita da materia, in un senso ampio dell’espressione, tale da includere proprietà fisiche come massa ed energia. In questo contesto l’espressione può pertanto considerarsi sinonima di fisicalismo. [Capp. 1, 3 e passim] Modulo Sottosistema di elaborazione delle informazioni dedicato all’analisi di input altamente specifici. L’elaborazione è svolta in relativo isolamento o autonomia. Secondo la tesi della modularità, la mente è più o meno diffusamente organizzata in moduli. [7.3] Monismo anomalo È la tesi secondo cui gli eventi mentali sono identici agli eventi cerebrali, ma non sono sussumibili sotto leggi psico-fisiche. [3.3] Monismo nomologico È la tesi secondo cui le proprietà mentali sopravvengono sulle proprietà cerebrali ed entrano in leggi psicologiche. [3.3] N NFAI [New Fangled Artificial Intelligence] È la nuova frontiera dell’intelligenza artificiale, critica verso l’impostazione simbolica della cosiddetta scienza cognitiva classica. Fanno parte della NFAI il connessionismo e la cognizione corporea e situata. È più o meno sinonimo di scienza cognitiva post-classica. [Cap. 6, spec. 6.2, 6.3; 7.1, 7.2] P Processo mentale Successione nel tempo di stati mentali. Proprietà mentale Tipo di stato mentale. Psicologia del senso comune (folk psychology) Modello preteorico del senso comune in base al quale il comportamento di una persona è spiegabile alla luce dei suoi stati mentali. Può essere descritta come una teo-

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ria o prototeoria «ingenua» le cui leggi sono della forma «Se X desidera che Q e crede che P implica Q, allora farà in modo che P». [1.2; 4.1, 4.2; 7.4 e passim] Psicologia ingenua È la base naturale della psicologia del senso comune: una struttura psichica selezionata geneticamente o sviluppata per apprendimento (a seconda dei punti di vista), che consente di fare le attribuzioni di stati mentali tipiche della psicologia del senso comune. [7.4] Q Quale (plur. qualia) Aspetto intrinseco e soggettivo di uno stato mentale. Esperienza pura o sensazione grezza. Ciò che si prova in una certa condizione, l’effetto che fa l’avere una certa esperienza. [2.4 e Cap. 8] R Rappresentazioni mentali In filosofia della mente: enti mentali dotati di contenuto. In scienza cognitiva: strutture di informazioni codificate nella mente che svolgono un ruolo in certi compiti cognitivi. Le due definizioni possono tranquillamente coesistere e spesso con «rappresentazione mentale» si intendono ambedue le cose. Esempi di rappresentazioni: simboli del linguaggio del pensiero, immagini mentali, strutture della visione primaria. Realismo intenzionale È la tesi secondo cui la psicologia del senso comune è una teoria vera; i termini del vocabolario mentalistico ordinario si riferiscono a reali enti psichici. [4.2] Realizzabilità multipla È la tesi secondo cui una stessa proprietà mentale può essere realizzata o implementata da diverse possibili proprietà fisiche. In altri termini, identità di tipo mentale non implica identità di tipo fisico. [1.1 e Cap. 3] Reti neurali Strutture dinamiche costituite da un certo numero di unità fittamente interconnesse ciascuna delle quali simula, a un certo livello di astrazione, il comportamento di un neurone o di un complesso di neuroni reali. Si veda connessionismo. [6.2; 7.1] Riduzione interteorica Diciamo che una teoria T1 si riduce a una teoria di livello inferiore T2 se e solo se tutti i predicati di T1 possono essere specificati nel vocabolario di T2. La riformulazione richiede l’esistenza di alcune leggi-ponte per correlare le proprietà di T1 a quelle di T2. [1.1; 3.3] Riduzionismo (psico-neurale) È la tesi secondo cui le proprietà mentali sono identiche alle proprietà cerebrali. Si veda teoria dell’identità standard. [1.1; Cap. 3]

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S Scienza cognitiva Progetto di ricerca multidisciplinare che ha per scopo lo studio scientifico del funzionamento della mente in tutti i suoi aspetti (pensiero, linguaggio, percezione, comportamento motorio, ecc.). Fondamento comune ai diversi programmi di ricerca della scienza cognitiva è l’idea che la mente sia essenzialmente un sistema di elaborazione delle informazioni. Secondo un’interpretazione diffusa, anche se non unanimemente condivisa, ciò equivale a dire che i processi mentali sono computazioni su rappresentazioni mentali. classica. Si veda GOFAI. postclassica. Si veda NFAI. [Capp. 2, 6, 7 e passim] Semantica È la teoria o studio del significato. In filosofia della mente: teoria del contenuto mentale. causale. Teoria in base alla quale il contenuto di una rappresentazione mentale è determinato dall’oggetto o stato di cose nel mondo che causa occorrenze di quella rappresentazione. [4.3] teleo-causale. Teoria in base alla quale il contenuto di una rappresentazione è determinato dalla funzione biologico-evolutiva che essa ha. [4.3] del ruolo inferenziale. Teoria in base alla quale il contenuto di una rappresentazione è determinato dalla totalità delle relazioni inferenziali che essa intrattiene con le altre rappresentazioni mentali. [4.3] procedurale. È l’idea secondo cui il contenuto è implicitamente veicolato da una procedura o da un frammento di algoritmo. [6.1] Sinapsi Connessione tra due neuroni che consente di trasmettere un segnale elettrico da un neurone all’altro. Sempre attraverso la sinapsi i neuroni si scambiano sostanze chimiche dette «neurotrasmettitori». Sistemi dinamici Modelli matematici non lineari che descrivono l’evoluzione di sistemi complessi. [7.2] Sopravvenienza Le proprietà mentali sopravvengono alle proprietà fisiche se e solo se identità di tipo fisico implica identità di tipo mentale (ovvero, a qualche differenza mentale fa sempre riscontro una differenza fisica). La sopravvenienza del mentale sul fisico corrisponde alla congiunzione di tre tesi: dipendenza (del primo dal secondo), covarianza del fisico col mentale, non riducibilità del mentale al fisico. [Cap. 3, spec. 3.1; 4.4; 8.3] Stato mentale Ogni episodio (anche non circoscritto nel tempo) della vita mentale: credenze o pensieri, desideri, intenzioni, speranze, aspettative, percezioni, esperienze, sensazioni, emozioni, ecc. Una successione di stati mentali nel tempo costituisce un processo mentale. Strategia dell’interpretazione Tesi secondo cui gli stati mentali così come concepiti dal senso comune sono costrutti teorici introdotti per razionalizzare il comportamento. In questa prospet-

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tiva, sebbene i termini di stati mentali non si riferiscano a reali stati psichici o neurologici, la struttura teorica cui essi danno luogo – la psicologia del senso comune – consente di fare previsioni attendibili perché è selezionata dall’evoluzione. [4.2] Strumentalismo Espressione spesso usata in modo equivalente a Strategia dell’interpretazione. [4.2] T Teoria dell’identità standard o di tipo. Le proprietà mentali sono identiche a proprietà cerebrali. [1.1, Cap. 3] di occorrenza. Gli eventi mentali sono identici agli eventi cerebrali. [Cap. 3, spec. 3.1]

Indici

Indice dei nomi

Alexander, S., 55n. Armstrong, D.M., 8, 34. Austin, J.L., 116-17, 120. Ayer, A., 102.

Chomsky, N., 18, 159-60, 165, 176177. Churchland, P. Smith, 14-17, 24, 14849, 184. Churchland, P.M., VII, 14-17, 24, 14849, 179, 184. Civita, A., 72. Clark, A., 137, 140, 150-52, 168, 214 e n, 215, 217-20. Coliva, A., 120. Corballis, M., 212n. Cordeschi, R., 47. Cosmides, L., 162, 167. Crane, T., 47, 55n, 117, 120, 179, 183, 188. Crick, F., 186. Cutland, N.J., 46.

Baker Rudder, L., 62-64, 72, 88. Ball, T.M., 123. Bara, B., 167. Bayne, T., 224n. Bechtel, W., 24, 167. Berkeley, G., 115n. Berti, A., 222n. Bickle, J., 67, 70, 149, 177, 209 e n. Block, N., 24, 40-41, 46-47, 93, 100, 170-71, 188, 222-23. Bozzi, P., 168. Braddon-Mitchell, D., 24. Brandom, R., 90n, 100. Brentano, F., 75. Broad, C., 55n. Brooks, R., 84, 135-37, 140, 151. Bruce, V., 120. Buccino, G., 211n. Burattini, E., 47. Burge, T., 62, 72, 81n, 100, 209, 216.

D’Agostini, F., 24. Damasio, A., 223 e n. Dancy, J., 120. Davidson, D., 56-58, 61, 64, 72. Davies, M., 168. De Caro, M., 72, 217n. Dehaene, S., 168. Dennett, D.C., VII, 58n, 81-84, 95-96, 100, 150n, 179, 184-85, 188, 220, 221n. Descartes, R., 6, 20. Dessì, P., 72. Di Francesco, M., VIII, 24-25, 54, 71, 168, 183, 187, 217n, 218n, 223n. Dretske, F.R., 89n, 100-1, 104, 120, 181-82, 184, 188. Dreyfus, H.L., 44, 138.

Carruthers, P., 168. Cartesio, vedi Descartes. Casalegno, P., 13n, 99, 101. Casati, R., 178. Chalmers, D., 51, 70, 72, 170-71, 176-77, 183, 184n, 188, 214 e n, 215, 217-18, 220. Chamberlain, A., 168. Cherubini, P., 139.

237

Hinzen, W., 99. Hirschfeld, L.A., 168. Hofstadter, D.R., 188. Horgan, T., 72. Hurley, S., 214n. Husserl, E., 223-24.

Eccles, J., 7. Edelman, G., 186, 188. Edwards, S.D., 100. Elman, J., 146. Engel, P., 72, 167. Feigl, H., 8, 24. Ferretti, F., 139, 217n. Feyerabend, P., 14. Flanagan, O., 188. Fodor, J.A., 35, 38, 46-47, 59-63, 72, 79, 83, 86, 88, 89n, 96-97, 99-100, 129, 135, 149, 150n, 155-56, 157 e n, 158 e n, 160n, 161-62, 168. Frixione, M., 140, 146, 167.

Iacoboni, M., 211n. Jackson, F., 24, 120, 178-79. Jacob, P., 100-1. Jaynes, J., 188. Johnson-Laird, P.N., 126, 139, 167, 212. Kanizsa, G., 107n, 120, 221. Keil, F., 24, 167. Kenny, A., 18. Kim, J., 24, 51-52, 54, 55 e n, 58-59, 61-62, 64-66, 67 e n, 68, 71-72, 175n, 177, 183. Kistler, M., 72. Koch, C., 186. Kosslyn, S., 123-25, 139, 212. Kripke, S., 12-14, 40. Kuhn, T., 165.

Galanter, E.H., 137n. Gallagher, S., 224n. Gallese, V., 211n, 212n. Garfield, J., 168. Gelman, S.A., 168. Georgeson, M.A., 120. Gerbino, W., 120. Giaretta, P., 139. Gibson, J.J., 112-15, 120, 210. Girotto, V., 139. Goldman, A., 165, 211 e n. Gordon, R., 165. Gozzano, S., 99, 120, 209n. Graham, G., 167. Green, P.R., 120. Gregory, R.L., 109. Grice, H.P., 120. Grimm, R., 101. Gustafson, D., 120. Guttenplan, S., 70. Güzeldere, G., 188.

Lakoff, G., 212n. Lanfredini, R., 99. Laudisa, F., 72. Legrenzi, P., 25, 139, 208 e n. Lepore, E., 100. Leslie, A., 164. Lewis, D., 34, 46, 108. Liberman, A., 212. Loar, B., 34, 85. Lowe, E.J., 24-25, 45, 64, 107, 119. Luccio, R., 154, 168. Lycan, W.G., 24, 41, 99, 181. Lyons, W., 99.

Harel, D., 46. Harman, G., 94n, 100. Haugeland, J., 46. Hauser, L., 47. Heal, J., 165. Hebb, D.O., 129. Heil, J., 25, 72. Helmholtz, H.L.F., 109. Hempel, C.G., 17, 19, 20 e n, 24, 60.

Malcolm, N., 18. Marconi, D., IX, 47, 94n, 99, 139, 218n, 219. Marr, D., 110-11, 113, 120, 128, 149, 156n.

238

Peacocke, C., 96, 120. Peirce, C.S., 9. Penfield, W., 7. Penna, M.P., 167. Perner, J., 164. Pessa, E., 167. Pfeifer, R., 168. Piattelli Palmarini, M., 150. Picardi, E., 99. Pinker, S., 160, 167. Pitts, W., 129. Place, U.T., 8, 24. Pribram, K.H., 137n. Putnam, H., 10, 16, 32-33, 46, 72, 81n, 90-92, 95, 100-1, 117-18, 120, 209, 216. Pylyshyn, Z., 125, 135, 149, 155.

Marraffa, M., IX, 24, 47, 140, 167, 217n, 223n, 224n. Massironi, M., 139. Maxwell, G., 24. Mazziotta, J.C., 211n. Mazzocco, A., 139. Mazzone, M., 139. Mayr, E., 89. McCulloch, W., 129. McDowell, J., 104, 120. McGinn, C., 93, 100, 182. McLaughlin, B., 135. Meini, C., 161, 168. Mele, A., 72. Merleau-Ponty, M., 210, 223. Merrill, H.H., 101. Metzinger, T., 221n, 223n. Metzler, J., 123. Miller, G.A, 137n. Millikan, R. Garrett, 87. Minsky, M., 129. Molnar-Szakacs, I., 211n. Moore, G.E., 75. Morasso, P., 140.

Quine Van Orman, W., 14. Recanati, F., 100. Reichenbach, H., 81n. Reiser, B.J., 123. Rey, G., 47. Rips, L., 127. Rizzolatti, G., 210, 211n, 212n. Robinson, H., 120. Rock, I., 109. Rorty, R., 14. Rosenblatt, F., 129. Rott, H., 99. Runeson, S., 113. Russell, B., 75, 102. Ryle, G., 17, 20-24, 82.

Nagel, E., 177. Nagel, T., 182, 187. Nani, M., 24, 47. Nannini, S., VIII, 25. Napoli, E., 13n. Newell, A., 47. Nichols, S., 166. Noë, A., 214n. Norman, J., 114-15. Nyqvist, H., 129.

Salucci, M., 47. Samuels, R., 168. Santambrogio, M., 99, 139. Scheier, C., 168. Schiffer, S., 85. Schneider, S., 24. Scriven, M., 24. Searle, J., 41-44, 47, 99, 182, 188. Sellars, W., 24, 100. Shepard, R., 123. Simon, H.A., 47.

Oppenheim, P., 60. Pacherie, E., 99. Palacios, A., 214n. Palmer, S.E., 120. Papert, S., 129. Parisi, D., 140, 168. Parrini, P., 71, 120. Paternoster, A., 100-1, 127, 139, 212n, 223n.

239

Sinigaglia, C., 211n, 212n. Skinner, B.F., 18. Smart, J., 8, 24. Smolensky, R., 140, 146, 168. Snowdon, P., 120. Sperber, D., 158, 160-63, 167-68. Sperry, R., 55n. Spinicci, P., 120. Stalnaker, R., 85. Sterelny, K., 110n. Stich, S., 24, 95, 100, 155, 166. Stone, T., 168. Tamburrini, G., 47. Tapscott, B., 120. Thagard, P., 168. Thompson, E., 214n. Titchener, E.B., 18. Tolman, E., 19. Tomasello, M., 212n. Tooby, J., 162, 167. Turing, A.M., 30-33, 43.

Tye, M., 139, 184. Umiltà, C., 208 e n. Van Gelder, T., 153. Varela, F., 55n, 214n. Vassallo, N., 24. Voltolini, A., 99, 100. Warfield, T., 100. Watson, J.B., 18. Wellman, H., 164. Wiener, N., 129. Wilkes, K., 184. Wilks, Y., 127. Wilson, R., 24, 167. Wittgenstein, L., 17, 21-22, 25, 61n, 71, 85, 128n. Wundt, W., 18. Zahavi, D., 224n. Zalta, E., 24.

Indice del volume

Avvertenza alla nuova edizione Introduzione

V VII

Parte prima

Mente-corpo 1. Due o tre modi di essere materialisti

5

1. La teoria dell’identità psico-fisica, p. 8 - 2. L’eliminativismo, p. 14 - 3. Il comportamentismo, p. 17 - Riepilogo, p. 23 - Cos’altro leggere, p. 24

2. Il funzionalismo

26

1. La tesi fondamentale, p. 26 - 2. Computazioni, p. 29 - 3. La teoria computazional-rappresentazionale della mente, p. 34 4. Critiche al funzionalismo, p. 39 - Riepilogo, p. 45 - Cos’altro leggere, p. 46

3. Cause mentali

48

1. Realizzabilità multipla e sopravvenienza, p. 49 - 2. L’argomento dell’esclusione causale, p. 52 - 3. Il paradosso della causalità mentale, p. 55 - 4. Il funzionalismo è una forma di dualismo?, p. 68 - Riepilogo, p. 70 - Cos’altro leggere, p. 71

Parte seconda

Mente-mondo 4. Il contenuto intenzionale 1. La nozione di stato intenzionale, p. 75 - 2. Spiegare l’intenzionalità: strategie generali, p. 78 - 3. Semantica delle rappre-

241

75

sentazioni mentali: le teorie del contenuto e le loro difficoltà, p. 84 - 4. Esternismo e computazionalismo: due problemi, p. 94 - Riepilogo, p. 98 - Cos’altro leggere, p. 99

5. Percezione

102

1. Il contenuto percettivo, p. 103 - 2. Teorie filosofiche della percezione, p. 105 - 3. Due teorie empiriche della percezione, p. 109 - 4. Percezione diretta «vs.» mediata: argomenti filosofici e psicologici, p. 115 - Riepilogo, p. 118 - Cos’altro leggere, p. 119

6. Tipi di rappresentazione mentale

121

1. Rappresentazioni analogiche e procedurali, p. 122 - 2. Reti neurali, p. 129 - 3. Computazione senza rappresentazione: la robotica situata, p. 135 - Riepilogo, p. 138 - Cos’altro leggere, p. 139

Parte terza

Mente-mente 7. Architettura della mente

143

1. Il connessionismo come ipotesi architettonica, p. 144 2. Cognizione situata e sistemi dinamici: rivoluzione o continuità?, p. 151 - 3. La modularità della mente, p. 155 - 4. La natura della psicologia del senso comune, p. 163 - Riepilogo, p. 166 - Cos’altro leggere, p. 167

8. Coscienza

169

1. Due concetti di coscienza, p. 169 - 2. Il vuoto esplicativo, p. 172 - 3. Gli argomenti sui qualia, p. 174 - 4. Teorie della coscienza: una mappa delle posizioni, p. 182 - Riepilogo, p. 187 Cos’altro leggere, p. 187

Riferimenti bibliografici

189

Postfazione. Gli sviluppi degli ultimi dieci anni

207

Glossario

227

Indice dei nomi

237