Introduzione a Spinoza
 9788858118597

Table of contents :
Indice......Page 229
Frontespizio......Page 2
Prefazione alla nuova edizione......Page 7
Avvertenza......Page 9
1. Notizie e documenti esterni......Page 11
2. Il tema della «emendatio intellectus», o del modo di condurre la mente alla maggiore perfezione possibile......Page 17
1. Il testo......Page 37
2. Prima parte: di Dio e di ciò che gli appartiene......Page 44
3. Seconda parte: dell’uomo e di ciò che gli appartiene......Page 58
1. Notizie sulla composizione dell’opera......Page 64
2. Metodo......Page 68
3. Gli argomenti......Page 71
1. Posizione del «Trattato» nella storia intellettuale di Spinoza e del suo tempo......Page 78
2. Dall’«Etica» al «Trattato teologico-politico»......Page 81
3. Prima parte (capp. 1-15): discussione del pregiudizio teologico sul primato della rivelazione rispetto alla conoscenza naturale......Page 83
4. Seconda parte (capp. 16-20)......Page 95
V. «Etica»......Page 100
1. Prima parte: Dio......Page 101
2. Seconda parte: Natura e origine della mente......Page 113
3. Terza parte: Origine e natura degli affetti......Page 119
4. Quarta parte: La schiavitù umana, ossia le forze degli affetti......Page 123
5. Quinta parte: La potenza dell’intelletto, ossia la libertà umana......Page 128
1. Il metodo della scienza politica (cap. 1)......Page 136
2. Il diritto naturale e il diritto civile (cap. 2)......Page 137
3. Il diritto di sovranità, le sue prerogative e la miglior forma di governo (capp. 3-5)......Page 138
4. Il governo monarchico (capp. 6-7)......Page 140
5. Il governo aristocratico (capp. 8-10)......Page 143
6. La democrazia (cap. 11)......Page 147
VII. Epistolario, «grammatica della lingua ebraica in compendio», «calcolo algebrico dell’arcobaleno», «calcolo delle probabilità»......Page 149
Cronologia della vita e delle opere......Page 153
1. Dall’epistolario spinoziano all’articolo del Bayle......Page 155
2. Da Leibniz a Hegel......Page 165
3. La storiografia posthegeliana......Page 174
Bibliografia......Page 186

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i Filosofi Filippo Mignini

Introduzione a Spinoza

Editori Laterza

© 2006, Gius. Laterza & Figli

Edizione digitale: ottobre 2015 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858118597 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata

Sommario

Prefazione alla nuova edizione Avvertenza I. «Trattato sull’emendazione dell’intelletto» 1. Notizie e documenti esterni 2. Il tema della «emendatio intellectus», o del modo di condurre la mente alla maggiore perfezione possibile

II. «Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene» 1. Il testo 2. Prima parte: di Dio e di ciò che gli appartiene 3. Seconda parte: dell’uomo e di ciò che gli appartiene

III. «Principi della filosofia di Cescartes» e «riflessioni metafisiche» 1. Notizie sulla composizione dell’opera 2. Metodo 3. Gli argomenti

IV. «Trattato teologico-politico» 1. Posizione del «Trattato» nella storia intellettuale di Spinoza e del suo tempo 2. Dall’«Etica» al «Trattato teologico-politico» 3. Prima parte (capp. 1-15): discussione del pregiudizio teologico sul primato della rivelazione rispetto alla conoscenza naturale 4. Seconda parte (capp. 16-20)

V. «Etica» 1. Prima parte: Dio 2. Seconda parte: Natura e origine della mente 3. Terza parte: Origine e natura degli affetti 4. Quarta parte: La schiavitù umana, ossia le forze degli affetti 5. Quinta parte: La potenza dell’intelletto, ossia la libertà umana

VI. «Trattato politico» 1. Il metodo della scienza politica (cap. 1) 2. Il diritto naturale e il diritto civile (cap. 2) 3. Il diritto di sovranità, le sue prerogative e la miglior forma di governo (capp. 3-5) 4. Il governo monarchico (capp. 6-7) 5. Il governo aristocratico (capp. 8-10) 6. La democrazia (cap. 11)

VII. Epistolario, «grammatica della lingua ebraica in compendio»,

«calcolo algebrico dell’arcobaleno», «calcolo delle probabilità» Cronologia della vita e delle opere Storia della critica 1. Dall’epistolario spinoziano all’articolo del Bayle 2. Da Leibniz a Hegel 3. La storiografia posthegeliana

Bibliografia

a Maria ed Elisa

Prefazione alla nuova edizione

Questo lavoro è stato pubblicato nel 1983, in anni nei quali, anche per impulso delle celebrazioni del terzo centenario della morte del filosofo di Amsterdam (1677-1977), gli studi spinoziani stavano conoscendo in tutto il mondo un forte risveglio e un prodigioso sviluppo. Il volumetto, pur rispettando i criteri della collana nella quale veniva pubblicato, non si propose quale semplice strumento introduttivo al pensiero di uno dei più grandi e impegnativi filosofi dell’Occidente; intese costituire anche uno strumento esegetico, intervenendo criticamente nei punti nodali della filosofia dell’autore. In particolare, esso fu la prima esposizione sistematica del pensiero di Spinoza nella quale l’ordine delle prime due opere del filosofo veniva invertito rispetto alla tradizione, con implicite conseguenze nella ricostruzione della genesi e dello sviluppo di quella filosofia. Nei ventidue anni trascorsi dalla prima edizione migliaia di titoli si sono accumulati sulla già immensa bibliografia spinoziana. Impegnativi lavori di carattere filologico ed ecdotico sono stati compiuti; nuove traduzioni delle opere complete sono state avviate. Giunto alla nona edizione nella vecchia veste, il volume viene ora sottoposto a revisione e aggiornamento. È stata rivista principalmente la forma espositiva, resa più semplice e adatta ai nuovi lettori, specialmente studenti universitari, divenuti ormai estranei alla prosa e alla capacità di lettura dei colleghi che li hanno preceduti una generazione fa: con l’orecchio e la mente formati dal linguaggio della televisione, dell’informatica e di internet, quasi del tutto ignari della sintassi di Cicerone. Qua e là sono intervenuto anche a semplificare e a ridurre interventi critici ed esegetici sul testo di Spinoza. Sono state migliorate alcune traduzioni, ne sono state adottate di nuove, nel frattempo pubblicate, secondo l’indicazione data nell’Avvertenza che segue. La bibliografia è stata aggiornata a tutto il 2005 e lievemente

limata nelle voci più antiche o di più difficile reperimento. Alcune considerazioni sintetiche sono state aggiunte alla Storia della critica, in relazione ai principali orientamenti della ricerca negli ultimi vent’anni. La filosofia di Spinoza appare ancor più che in passato, nelle presenti condizioni della nostra civiltà, punto di riferimento necessario per la continua ricostruzione dell’identità dell’Occidente e strumento di dialogo privilegiato con le altre civiltà del mondo. Per due motivi, almeno. Per la necessità di una revisione radicale di tutte le idolatrie antropocentriche, di natura religiosa e non, che hanno costituito per millenni le travi portanti della cultura occidentale; in secondo luogo, per il recupero e l’affermazione dell’assoluta indeterminatezza del principio, della quale la sostanza spinoziana costituisce uno dei possibili modelli. Con tale convinzione affido il volumetto ai lettori, augurandomi che possa essere per loro nuovamente proficuo. F. M. Dicembre 2005

Avvertenza

Nelle citazioni delle opere di Spinoza ho adottato le sigle comunemente impiegate nella letteratura spinoziana degli ultimi due decenni: B.d.S. opera posthuma, s.l. [Amsterdam], s.n. [Rieuwertsz], 1677: OP; De Nagelate Schriften van B.d.S., s.l. [Amsterdam], s.n. [Rieuwertsz], 1677: NS; Spinoza, Opera, 5 voll., C. Gebhardt (ed.), Heidelberg voll. 1-4: 1925, 19722; vol. 5: 1987: G; Tractatus de intellectus emendatione: TIE; Korte Verhandeling/Breve trattato: KV; Renati Des Cartes Principiorum Philosophiae pars I et II: PPC; Cogitata Metaphysica: CM; Tractatus theologico-politicus: TTP; Ethica: E; Tractatus Politicus: TP; Compendium grammatices linguae hebraeae: CGLH; Epistolae: Ep. Per le citazioni dall’Etica ho adottato le seguenti sigle: Definitio: Def; Axioma: Ax; Propositio: P; Corollarium: C; Scholium: S; Lemma: L.; Affectuum Definitiones: Af. Def. Ho utilizzato numeri arabi. Esempio di citazione: E1P15S: Etica, parte I, proposizione 15, scolio. Ho adottato le seguenti edizioni e traduzioni: Tractatus de intellectus emendatione: edizione e traduzione a cura di F. Mignini, Quodlibet, Macerata 2006: TIE, M; Korte Verhandeling/Breve Trattato: edizione e traduzione a cura di F. Mignini, Japadre, L’Aquila-Roma 1986: KV, M; Renati Des Cartes Principiorum Philosophiae pars I et II; Cogitata Metaphysica: edizione a cura di C. Gebhardt, Winter, Heidelberg 1925,

v. I; traduzione a cura di E. Scribano, Laterza, Roma-Bari 1990; Tractatus Theologico-Politicus: edizione a cura di C. Gebhardt; traduzione a cura di A. Droetto ed E. Giancotti, Einaudi, Torino 1972; Ethica: edizione a cura di C. Gebhardt, Winter, Heidelberg 1925, vol. II; traduzione a cura di G. Durante, note di G. Gentile, rivedute e ampliate da G. Radetti, Sansoni, Firenze 1963; Tractatus Politicus: edizione a cura di O. Proietti, Spinoza, Oeuvres, t. IV, PUF, Paris 2005; traduzione a cura di A. Droetto, Ramella, Torino 1958 (con revisioni mie); Epistolae: edizione a cura di C. Gebhardt, Winter, Heidelberg 1925, t. IV; traduzione a cura di A. Droetto, Einaudi, Torino 1951, 1974r (con revisioni mie).

I. «Trattato sull’emendazione dell’intelletto»

Il lettore che abbia già qualche conoscenza della storiografia spinoziana potrà essere sorpreso nell’osservare che questa esposizione cronologica delle opere inizi dal trattato sul metodo, considerato da una tradizione unanime posteriore al Breve trattato e quasi introduzione metodologica all’Etica. Tuttavia si può ricordare che più di un secolo fa Eduard Boehmer, pubblicando il Sommario1 dell’ancora ignoto Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene, aveva creduto di dover almeno dubitare della sua anteriorità rispetto al De emendatione. Più tardi, conosciuto l’intero trattato, tornò sull’argomento, ribadì i propri dubbi, ma non instaurò un’indagine esauriente della questione né propose ipotesi precise. Gli accenni del Boehmer non furono raccolti e considerati con sufficiente attenzione; in seguito, la tradizione già consolidata intorno alla funzione introduttiva del Trattato sull’emendazione dell’intelletto rispetto all’Etica e l’abitudine di considerare queste due opere strettamente connesse, nonché le interpretazioni riduttive del Breve trattato, a cominciare dagli studi di Jacob Freudenthal2, impedirono (fino ad oggi) di esaminare senza pregiudizi la struttura delle prime due opere spinoziane, il loro mutuo rapporto e la posizione che esse occupano nella storia intellettuale dell’autore. Ora, dopo che una lunga consuetudine con questi primi due scritti, in particolare con il Breve trattato, mi ha condotto alla convinzione che l’ordine cronologico tradizionalmente proposto non ne giustifichi l’ordine logico, cioè l’interna struttura e l’evoluzione dei concetti, mi è sembrato opportuno, avendo presentato altrove3 gli argomenti critici a favore della nuova ipotesi, saggiarla qui positivamente per la prima volta, leggendo nel nuovo ordine le due opere in questione.

1. Notizie e documenti esterni

Nella prefazione nederlandese alle Opere postume, Jarig Jelles scrive: Il trattato sull’emendazione dell’intelletto è stato una delle prime opere dell’Autore, come testimoniano il suo stile e i suoi pensieri. La dignità dell’argomento che egli vi tratta e l’utile scopo che in esso ha perseguito, cioè aprire la via lungo la quale la mente potesse essere condotta nel modo migliore alla vera conoscenza delle cose, gli hanno fatto continuamente considerare di condurlo a termine. Ma il peso della cosa, le profonde speculazioni e la vastissima conoscenza che erano richieste per completarlo imposero all’opera una lentissima prosecuzione: questa fu la causa per cui rimase incompiuta, non solo rispetto alla mancata conclusione, ma anche rispetto a ciò che manca qua e là. Infatti l’Autore ammonisce spesso nelle note, che sono tutte sue, che ciò che egli scrive dev’essere dimostrato più accuratamente o spiegato più ampiamente, o nella sua filosofia o altrove, come da lui è stato detto o sarà ancora detto. Ma poiché contiene moltissime cose eccellenti e utili, che susciteranno un grande interesse in un sincero indagatore della verità, e gli offriranno non poco aiuto nella sua indagine, non si è trovato inutile pubblicarlo, come già è stato detto nell’Avvertenza al lettore, premessa a questo scritto. (TIE, M).

In questa, dovuta probabilmente allo stesso Jelles, leggiamo: Questo Trattato sull’emendazione dell’intelletto ecc., che qui, benevolo lettore, ti presentiamo incompiuto e difettoso, è stato scritto dal medesimo Autore molti anni or sono. Fu sempre sua intenzione ordinarlo e completarlo; ma, impedito da altre occupazioni e infine strappato dalla morte, non poté condurlo al termine desiderato. Poiché tuttavia in esso sono contenute molte cose eccellenti e utili, che, siamo certi, saranno non poco vantaggiose al sincero indagatore (della verità), non abbiamo voluto privartene. E affinché lasciassi correre anche le molte cose oscure che, qua e là s’incontrano nel trattato ancora rozze e non rifinite, abbiamo voluto avvisartene, perché non ne fossi ignaro. Sta bene. (TIE, M).

I due testi ora citati affermano in primo luogo che il trattato «è stato una delle prime opere dell’Autore» e che «è stato scritto molti anni or sono», senza ulteriori dettagli cronologici. La notizia ha un tono generico e vagamente approssimativo: forse perché Jelles non era interessato a dire di più, ritenendo superfluo aggiungere notizie più specifiche, oppure perché non era in grado di dire di più? Jelles non sembra giudicare per una conoscenza diretta della vicenda redazionale del testo, ma per un’analisi oggettiva del suo stile e del suo contenuto, non diversamente da come potrebbero fare i critici odierni. Inoltre si deve notare che, sebbene ambedue i testi concordino nell’affermare che Spinoza ebbe sempre l’intenzione di completare il trattato, essi divergono sensibilmente nella spiegazione del mancato compimento. Nell’Avvertenza si attribuisce l’incompiutezza a cause esterne (le altre occupazioni e poi la morte); nella Prefazione a cause interne allo stesso trattato, quali l’importanza e la difficoltà dell’argomento, la profondità delle speculazioni e le vastissime conoscenze necessarie a svolgerlo. Ora, in ambedue i casi (ma ancor più nel primo), la spiegazione sembra essere ancora generica e poco

convincente. Spinoza fu certamente occupato nel proprio lavoro e nella composizione delle altre opere; ma se egli ebbe realmente anche l’intenzione di completare il trattato per l’importanza e l’utilità dell’argomento, non poterono essere certamente le sue occupazioni a impedirgli di concluderlo. Più vicina alla verità, anche se non convincente nella sua genericità, appare la spiegazione della Prefazione, composta dopo l’Avvertenza: riconoscendo che furono le difficoltà interne a impedire la prosecuzione dell’opera, in essa si ammette implicitamente che non furono quelle esterne ad ostacolarla. Poiché le difficoltà enunciate si opponevano anche alla composizione delle altre opere, ma non impedirono che queste giungessero a compimento, si deve concludere che vi furono degli impedimenti determinati e specifici, interni alla stessa struttura dell’indagine, che impedirono a Spinoza di proseguirla. Ambedue i testi, infine, mostrano che ci fu, da parte degli editori, almeno il dubbio (che tradisce un certo imbarazzo, dovuto allo stato redazionale dell’opera) circa l’opportunità di pubblicare il trattato: l’Avvertenza non è altro che una giustificazione della decisione positiva di pubblicarlo, così come lo è il testo della Prefazione ora citato. Come interpretare l’incertezza degli editori in merito alla pubblicazione del trattato, la genericità delle informazioni e la divergenza delle spiegazioni addotte per giustificarne l’incompiutezza? Qual era la conoscenza che essi, amici e seguaci di Spinoza sin dall’inizio della sua attività filosofica e letteraria, avevano di quest’opera? Quando venne direttamente nelle loro mani? Le considerazioni sopra svolte sembrano suggerire l’ipotesi che il trattato giungesse nelle mani degli amici, insieme agli altri autografi, solo dopo la morte dell’autore e che essi, visto lo stato dell’opera e discusso intorno all’opportunità di pubblicare un testo che l’autore stesso sembrava aver abbandonato, decidessero in senso positivo a causa delle «cose importanti e utili» in esso contenute, dopo aver opportunamente avvertito il lettore. Quest’ipotesi viene confermata e resa ancor più convincente dall’esame di due lettere nelle quali un amico piuttosto intimo di Spinoza, Johannes Bouwmeester, e un interlocutore che ebbe con il filosofo un importante scambio epistolare negli ultimi anni, il conte Ehrenfried Walther von Tschirnhaus, pongono alcune questioni intorno

al metodo e all’opera sul metodo, dimostrando che questa era per loro ancora ignota. Nella lettera, perduta, che conosciamo solo attraverso la citazione di Spinoza (Ep. 37 del giugno 1666) il Bouwmeester chiedeva «se si dia o possa darsi un metodo con il quale possiamo avanzare, senza inciampare e senza annoiarci, nella considerazione delle cose più importanti; o se invece le nostre menti siano, come i nostri corpi, esposte al caso e i nostri pensieri siano retti più dalla fortuna che dalla scienza». Spinoza risponde che un tale metodo è possibile ed esiste, e che la sua dimostrazione consiste nel fatto che abbiamo «percezioni» chiare e distinte, le quali non possono sorgere che da altre percezioni chiare e distinte e non possono avere alcun’altra causa fuori di noi. Il filosofo prosegue utilizzando temi e perfino frasi del De emendatione, ma senza citare l’opera e senza mai affermare che egli aveva trattato o stava trattando questo argomento in un lavoro specifico. D’altra parte, se il Bouwmeester, che conosceva e leggeva con gli amici tutti gli altri scritti di Spinoza, poneva una simile domanda, non solo dimostrava di non conoscere il trattato, sia pure incompiuto, ma di non essere neppure al corrente della sua esistenza. Del resto, la domanda rivolta a Spinoza da Tschirnhaus all’inizio dell’Ep. 59 (gennaio 1675) dimostra senza possibilità di dubbio che, almeno in quella data, Spinoza non aveva ancora comunicato il trattato agli amici: «Quando ci sarà concesso di conoscere il vostro metodo di dirigere la ragione alla conoscenza delle verità ignote, nonché i vostri principi generali della scienza della natura? So che avete già fatto in questi studi notevoli progressi. Quanto al primo argomento, ne ho avuto notizia; e quanto al secondo, lo si ricava dai lemmi annessi alla parte seconda dell’Etica, coi quali si risolvono facilmente molte difficoltà della fisica. [...] A voce mi indicaste il metodo, di cui vi servite nell’indagine delle verità ancora ignote. [...] Ma vorrei che mi esponeste la vera definizione dell’idea adeguata, vera, falsa, fittizia e dubbia» (G IV, 268, 18-269, 6). Nella risposta di Spinoza, tra l’altro, leggiamo: «Per quanto concerne il resto, cioè la questione del moto e ciò che riguarda il metodo, lo riservo ad altra occasione, perché sono questioni non ancora scritte con ordine» (G IV, 271, 8-10). Questa risposta prova che Tschirnhaus – il quale, attraverso l’amico

comune George Hermann Schuller, aveva già interrogato Spinoza sul metodo, riuscendo a sapere soltanto che questi aveva riposto la maggior cura nel distinguere l’idea vera da tutte le altre e, visitando personalmente il filosofo, aveva ottenuto solo risposte generiche e piuttosto evasive intorno alla posizione dello stesso problema in Descartes – non solo non conosceva il testo del trattato, ma che Spinoza non giudicava le questioni sul metodo redatte con sufficiente ordine per poter essere comunicate agli amici. E se Tschirnhaus non ne era a conoscenza, si può esser certi che non lo fosse nessuno degli altri amici: non si vede per quale ragione quel trattato dovesse essere interdetto proprio a lui, quando gli erano state trasmesse le proposizioni dell’Etica. Si deve infine notare che, non essendovi né da parte di Spinoza né da parte dello Tschirnhaus né in alcun altro luogo (al di fuori dell’Ep. 6, che tuttavia non sembra riferirsi a questo trattato) alcun accenno a un’opera De emendatione intellectus, ma solo a «un’opera sul metodo», non v’è alcuna necessità di supporre che a questa fosse stato dato, proprio dall’autore, il titolo sotto il quale ci è nota. In E1P40S1, che risale, probabilmente, a non prima del 1663-1664, Spinoza dichiara di aver riservato ad un altro trattato l’esame degli assiomi e delle diverse nozioni della mente sulle quali un tempo (aliquando) aveva già meditato. Anche qui non si accenna al trattato già iniziato, ma ad un trattato ancora da comporre, come se questo fosse nuovo e diverso da quello, oppure come se quello dovesse essere radicalmente rivisto. Non potrebbe essere questo il segno di una difficoltà strutturale e profonda di cui Spinoza era consapevole e che gli impedì di proseguire e concludere, sul fondamento gettato, l’opera sul metodo? Se nel 1675 l’opera sul metodo non era stata ancora redatta con ordine e non era stata comunicata agli amici, si può essere certi che essa non lo fu neppure nei due anni che seguirono, sia perché permanevano ancora le ragioni che ne avevano impedito la comunicazione, sia perché non sembra verosimile supporre che Spinoza abbia avuto l’intenzione e la possibilità di riprendere in mano il suo scritto interrotto, occupato come fu, prima nel tentativo di pubblicare l’Etica, poi nella redazione del Trattato politico. Sicché resta ampiamente giustificato il velato imbarazzo e l’indecisione degli editori nel pubblicare il trattato che va sotto il nome

di emendatio intellectus. Se il testo giunse nelle mani degli amici solo dopo la morte dell’autore, l’ipotesi di C. Gebhardt, fondata sull’analisi delle varianti tra il testo latino e la traduzione nederlandese delle opere postume, appare destituita di fondamento, come sembra dimostrare, del resto, un esame completo e più attento delle stesse varianti. Queste, infatti, possono (e in alcuni casi devono) essere spiegate senza supporre, come Gebhardt fece, che il testo nederlandese sia la traduzione di una prima redazione latina, in seguito rivista e corretta dallo stesso autore e così pubblicata nelle Opere postume. Al contrario, la traduzione nederlandese sembra essere redatta sul testo latino pubblicato, interpretato e precisato (alla luce delle altre opere spinoziane) con quella libertà (sempre misurata) che poteva essere suggerita e giustificata da un testo che gli stessi editori ritennero ampiamente insoddisfacente, sotto il profilo dello stile e della formulazione dei concetti. Un esempio può essere sufficiente. Il testo latino elenca «quattro» generi di conoscenza: «Si accurate attendo, possunt omnes ad quatuor potissimum reduci» (10, 7-8); la traduzione nederlandese allude invece a «tre» generi: «Zy konnen alle, indien ik naukeuriglÿk opmerk, voornamelijk tot drie gebracht worden» (NS, 412, 16-17). Gebhardt suppone che, in una prima redazione latina dell’opera, Spinoza avesse usato la stessa partizione adottata nel Breve trattato, che egli considerava precedente al Trattato sull’emendazione dell’intelletto (tre generi di conoscenza, distinguendo il primo in due classi) e ora presente nella traduzione nederlandese, che sarebbe stata subito realizzata dagli amici sul testo di quella prima redazione latina. In seguito, rivedendo il testo latino, Spinoza avrebbe invece preferito adottare la quadripartizione, che troviamo nel testo pubblicato. Tuttavia il Gebhardt non spiega perché nell’Etica (testo coevo alla presunta seconda redazione latina) Spinoza sarebbe tornato di nuovo alla tripartizione, distinguendo la prima in due classi e proponendo perciò uno schema identico a quello attestato nella traduzione nederlandese. Non sarebbe più logico supporre che il testo latino a noi noto sia l’unica redazione del Trattato sull’emendazione dell’intelletto (con quadripartizione dei generi di conoscenza), anteriore al Breve trattato (nel quale appare la tripartizione con tracce di quadripartizione), e che il testo nederlandese sia la

traduzione postuma del manoscritto latino, adattato allo schema assunto come definitivo nel Breve trattato e nell’Etica? Che il traduttore (e gli editori con lui) abbia usato nei confronti del testo latino qualche licenza interpretativa – documentabile, del resto, anche nella traduzione del Trattato politico – è chiaramente confermato, tra l’altro, dal modo con il quale è reso il termine perceptio. Con questo solo termine (in modo veramente sorprendente, se consideriamo i testi corrispondenti del Breve trattato e dell’Etica), vengono indicati indistintamente, nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto, i quattro generi di conoscenza. Il testo nederlandese riproduce la costruzione latina dei due modi che costituiscono il primo genere, rendendo perceptio con bevatting; ma modifica la costruzione degli altri due generi evitando di tradurre perceptio. Segno evidente che il traduttore (o l’editore) giudicava inadeguato l’uso di perceptio per indicare la conoscenza razionale e quella intuitiva, conformemente alle indicazioni e all’uso del Breve trattato e dell’Etica. Se dunque la traduzione nederlandese dimostra una certa libertà interpretativa nei confronti del testo latino, viene confermata anche per questa via l’ipotesi, sopra enunciata, che il trattato fosse giunto nelle mani degli amici, procurando loro al tempo stesso ammirazione e imbarazzo, solo dopo la morte dell’autore. Che cosa, dunque, impedì a Spinoza di condurre a termine quel trattato con il quale aveva iniziato la sua attività filosofica?

2. Il tema della «emendatio intellectus», o del modo di condurre la mente alla maggiore perfezione possibile Il testo spinoziano in esame, quale gli editori ci hanno trasmesso, è, a differenza di tutte le altre opere, una trattazione continua, priva di divisioni interne in parti, capitoli o paragrafi, quasi una prima stesura compiuta ad uso personale e mai rielaborata in vista di una pubblicazione, per la quale una qualche partizione sarebbe stata pur necessaria. Ora, nell’esposizione degli argomenti, mi servirò della divisione in paragrafi proposta a suo tempo da Carl Hermann Bruder e in seguito generalmente accettata e da me recentemente adottata, con qualche

modifica, nell’edizione critica dell’opera. Saranno distinte, per facilità di esposizione, cinque sezioni: 1. il cosiddetto proemio (§§ 1-17); 2. i preliminari del metodo (§§ 18-29); 3. il problema del metodo (§§ 3049); 4. la prima parte del metodo: analisi delle idee inadeguate (§§ 5090); 5. la seconda parte del metodo: formazione e connessione delle idee chiare e distinte (§§ 91-110). 2.1. I limiti della vita comune e la ricerca del sommo bene (§§ 1-17) Dopo che l’esperienza mi ebbe insegnato che tutte le cose che frequentemente s’incontrano nella vita comune sono vane e futili; e quando vidi che tutti i beni che temevo di perdere e i mali che temevo di ricevere non avevano in sé nulla né di bene né di male, se non in quanto l’animo ne era turbato, decisi finalmente di indagare se si desse qualcosa che fosse un bene vero e condivisibile, dal quale soltanto, respinti tutti gli altri beni, l’animo fosse affetto; anzi, se si desse qualche bene che, trovato e acquisito, godessi in eterno di una continua e suprema letizia.

Questo avvio dell’opera, generalmente celebrato come giustificazione o persino fondazione autobiografica dell’esperienza filosofica dell’autore, merita di essere esaminato con cura perché lascia trasparire alcuni caratteri particolarmente significativi (e poco considerati) per determinare il momento della storia intellettuale dell’autore, che il trattato sembra esprimere. Non si intende certo negare al proemio un carattere autobiografico: Spinoza si riferisce in prima persona alla propria esperienza e narra (perfino con qualche prolissità per il suo stile maturo) le fasi della lotta che egli aveva sostenuto per passare da una forma mentis a un’altra e da un regime di vita a un altro. Si può forse aggiungere che, se si vuole cercare un periodo della vita di Spinoza nel quale sia avvenuta l’esperienza narrata, si potrebbe credere verosimilmente che questa sia da collocare tra il 1656 e il 1657 per almeno due motivi: 1. nel luglio del ’56 viene espulso dalla Sinagoga portoghese (costretto perciò a interrompere ogni rapporto con la comunità dei suoi padri); 2. verso la fine dello stesso anno smette (anche per effetto dell’espulsione) l’attività commerciale che intratteneva con il fratello minore, benché la ditta Firma Bento y Gabriel d’Espinoza continui ad apparire nei registri notarili di Amsterdam fino al 16644. Spinoza si riferisce probabilmente a questi fatti (che mutarono la sua esistenza) e alla precedente esperienza di mercante e di studente della scuola rabbinica sefardita di Amsterdam, quando pronuncia quel radicale (in seguito attenuato) giudizio sulla vanità di ciò che suole incontrarsi nel comune vivere degli uomini e sopra tutto quando confessa quello stato

di timore che sembra costituire, in quel periodo, la nota dominante della sua vita affettiva. Si può ancora osservare che, nel trattato, l’esperienza della conversione filosofica viene narrata come un fatto compiuto (docuit, constitui, ecc.), come consolidata la scelta fatta e come già a tal punto avviato il cammino della ricerca, che l’autore può più volte annunciare, in nota, una propria filosofia: tutto ciò lascia ragionevolmente supporre che fosse già trascorso qualche tempo dalle vicende narrate. Se, dunque, quelle avvennero nel 1656-1657, si può supporre che queste pagine non fossero state scritte prima del ’57-58. Tuttavia, sulla base di queste sole considerazioni, si potrebbe osservare che esse avrebbero potuto essere state composte anche molto dopo, per esempio tra il ’62 e il ’63, come generalmente si crede. Ora, in assenza di documenti diretti, due sole vie possono condurre alla formulazione di una ipotesi criticamente fondata: l’analisi dei documenti indiretti concernenti la vita e l’attività di Spinoza negli anni tra il 1656 e il 1660 (nell’estate del 1661 egli abitava certamente a Rijnsburg) e l’esame del testo. Risulta con certezza che, dopo l’espulsione, Spinoza frequentò la scuola di Franciscus Van den Enden, non sappiamo se come studente (secondo la notizia data dal primo biografo Jean-Maximilien Lucas) oppure come collaboratore. Lucas afferma che Spinoza, al momento dell’espulsione, non conosceva né greco né latino e che Van den Enden si impegnò ad insegnarglieli gratuitamente, offrendogli la sua assistenza e la sua casa; quale ricompensa chiedeva soltanto che Spinoza lo aiutasse nella istruzione degli scolari, quando ne fosse divenuto capace. Invece Johannes Colerus sostiene che Spinoza apprese il latino prima di studiare teologia e scienze naturali, in particolare la filosofia di Descartes, che avrebbe provocato la crisi della sua fede giudaica. Quindi, all’atto dello herem, egli avrebbe già conosciuto il latino, ma non il greco. Gottlieb Stolle e un certo dr. Hallmann narrano, nel loro diario5, di aver sentito dal figlio di Jan Rieuwertsz, l’editore amico di Spinoza, che questi, dopo la scomunica, «per guadagnare il pane, insegnò ai fanciulli». È molto probabile che i due si riferissero all’esperienza di insegnamento nella scuola di Van den Enden (che si aprì nel 1652 ed ebbe vita fino al 1671), ma non precisano se Spinoza conoscesse già il latino a tal punto da poterlo subito insegnare, oppure se avesse aiutato Van den Enden dopo

un certo periodo di studio. Ora, se si considera che nel racconto del Colerus sulla permanenza di Spinoza nella scuola di latino non solo si riscontrano imprecisioni (si afferma, ad esempio, che Clara Maria fosse l’unica figlia del maestro), ma si narrano anche avvenimenti accaduti dopo l’espulsione come se fossero avvenuti prima (la presenza, ad esempio, di Theodor Kerckrinck, che si iscrisse solo nel 1657, e la sua relazione con Clara Maria, che sposerà nel 1671) si è costretti, da un lato, a dubitare della ricostruzione cronologica proposta e, dall’altro, ad ammettere che Spinoza frequentò certamente questa scuola di latino dopo la scomunica. Del resto, una conferma si ha dalle citazioni a memoria (che affiorano con una certa frequenza nelle opere del filosofo) dell’Andria e dell’Eunuchus di Terenzio, commedie che furono studiate e rappresentate in teatro dagli studenti di Van den Enden negli anni 1657 e 1658. Nulla impedisce di supporre che lo stesso Spinoza abbia partecipato attivamente a tali rappresentazioni. In ogni caso, se, come è probabile, Spinoza conosceva già i rudimenti della lingua latina prima dell’espulsione (o per averla studiata privatamente o per averla appresa da altri – il Colerus parla di un precedente maestro tedesco), è soltanto dopo, con l’attiva e continua partecipazione alla scuola di Van den Enden, che egli se ne impadronì a tal punto da poter iniziare a servirsene negli scritti. L’esordio del trattato indica, in forma sintetica e con un’evidente intenzione retorico-letteraria, il tema di un’esperienza di vita e il fine di una conseguente ricerca filosofica. Si tratta di un’esperienza che, svoltasi secondo il comune modo di vivere degli uomini, induce a riconoscere che tutto ciò che in esso si cerca, si ottiene, si gode, è a tal punto vano e futile che non devono essere temuti né la perdita di un presunto bene posseduto né l’arrivo di un presunto male, poiché nulla è bene o male in sé, ma solo in relazione agli affetti e alle mutazioni che la rappresentazione produce nell’animo. Risaltano l’intento retorico e il gusto lievemente barocco della costruzione letteraria, caratterizzata sia dalla ripetizione orchestrata dei due omnia sia dall’assolutezza degli asserti; ma si deve anche rilevare che nel § 3 l’omnia vana et futilia si restringe a tre cose che gli uomini considerano per lo più come sommo bene (ricchezza, onore e piacere), e che nel § 4 e sopra tutto nei §§ 11 e 17 queste tre cose vengono considerate vane e futili solo quando siano

ricercate per se stesse e non come mezzi per ottenere beni maggiori. Infine, nella nota a, che si riferisce al § 4, Spinoza precisa che il discorso sulla ricchezza avrebbe potuto essere spiegato più ampiamente e distintamente, rinviando tuttavia il chiarimento a «suo luogo». È evidente che, se si riconosce un valore, cioè una qualche essenza, a ciò che viene chiamato «vano e futile», è necessario ammettere che una qualche essenza debba essere concessa anche al timore di perderlo o di non conseguirlo. La seconda parte del paragrafo concerne l’oggetto della decisione: ricercare se esista qualcosa che sia «vero bene e capace di essere condiviso», dal quale soltanto, messi da parte tutti gli altri beni, l’animo sia affetto per godere stabilmente della gioia suprema possibile all’uomo. L’autore si propone dunque di indagare se si dia qualcosa da cui, trovato e goduto, la mente possa essere così costituita, da partecipare della stessa natura dell’oggetto conosciuto. Poiché tale scopo non può essere conseguito partecipando contemporaneamente di quelle realtà che appartengono al vivere comune, è necessario anzitutto cercare se esista «qualcosa» che sia al tempo stesso «vero» bene e abbia una natura tale da potersi comunicare ad altri, cioè tale che di esso si possa partecipare. Spinoza cerca dunque qualcosa che abbia in sé la natura del bene e sia tale da essere essenzialmente diverso da quelle cose che in sé non hanno nulla né di bene né di male. La seconda condizione richiesta è che quel qualcosa, assunto come vero bene, sia condivisibile da più individui, poiché, diversamente, il fine ultimo non sarebbe conseguibile; la terza condizione è che la mente sia in grado di lasciarsi toccare solo da quella realtà, poiché, se fosse contemporaneamente affetta anche da altri beni, essendo questi mutevoli, ne sarebbe turbata e il fine ultimo verrebbe a mancare. Ora osserviamo, anzitutto, che Spinoza ritiene possibile all’uomo godere in eterno di una gioia suprema e ininterrotta e che egli fonda l’indagine su tale presupposto. Questo significa che il Tractatus de intellectus emendatione sembra supporre che l’uomo possa liberarsi completamente dalle passioni e da ogni causa di turbamento, dalle quali quella gioia venga interrotta o diminuita; infine, che esista un vero bene per sua natura partecipabile, causa ultima e immutabile di ogni gioia. Si deve dunque supporre, a meno di non ritenere enfasi retorica il

proposito di giungere a godere di una gioia continua ed eterna – ma tale ipotesi sembra contrastare con tutto l’argomento svolto dall’autore al momento della composizione del Tractatus –, che Spinoza condividesse, in questo momento, l’opinione degli Stoici e di Cartesio – criticata poi nell’Etica6 – secondo cui l’uomo sarebbe in grado di dominare completamente le proprie passioni. Infine, si deve sottolineare la condizione fondamentale che rende possibile il conseguimento del fine ultimo: indagare l’esistenza di una realtà che sia bene vero e condivisibile. Ecco dunque indicati i due oggetti dell’indagine che Spinoza «finalmente decise» di intraprendere: 1. l’esistenza di una realtà diversa da quella che si incontra nella vita comune e di cui l’uomo possa partecipare; 2. la natura dell’uomo e il suo potere sulle passioni. Si tratta, come si vede, dei due temi fondamentali della riflessione etica spinoziana, formalmente teorizzati nel Breve trattato e nell’Etica, anche se in queste due opere la prospettiva finale rimane bensì il conseguimento della serenità dell’animo, allontanato tuttavia l’ottimismo ingenuo che sembra invece dominare questo primo movimento concettuale del Trattato sulla emendazione dell’intelletto. Si deve inoltre osservare come tale ipotesi d’indagine muti sensibilmente nei §§ 12-14. Qui infatti il filosofo definisce formalmente che cosa intenda per vero bene e per sommo bene, dopo aver premesso che bene e male si definiscono solo relativamente e che «una sola e medesima cosa può essere detta buona e cattiva secondo diversi punti di vista». Questa regola vale anche per quella realtà che nel § 1 si era supposta «vero bene»? Se si rispondesse affermativamente, si aprirebbe tra il § 1 e il § 12 un contrasto insanabile, poiché si dovrebbe dire che essa è «vero bene» solo respective, potendo essere male da altro punto di vista; ma ciò veniva categoricamente escluso dal fine perseguito. Perché non vi sia contrasto, si deve assumere che nei §§ 12-14 Spinoza parli del bene non già rispetto a ciò che è eterno, ma a ciò «che avviene», sia pure «secondo un ordine eterno e secondo leggi determinate della Natura». Proprio perché tutto «avviene» ed è regolato da quest’ordine, tutto è ciò che deve essere, né buono né cattivo, né perfetto né imperfetto. Ora, è quanto meno sorprendente che Spinoza, subito dopo avere asserito la necessità dell’ordine naturale, fondi le sue definizioni di sommo bene e di vero bene sull’incapacità umana di concepire quell’ordine e sulla conseguenza

immediata di tale incompatibilità: la necessità di definire non ciò che è bene in sé, ma ciò che è bene per l’uomo. Tuttavia questo è possibile rinunciando al puro intelletto e affidandosi alla ragione e all’immaginazione. Spinoza afferma che l’uomo, pur non potendo cogliere l’ordine naturale nella sua essenza, sarebbe in grado di concepire «una qualche natura umana molto più stabile della propria, senza veder nulla che impedisca di conseguirla»; perciò è stimolato «a cercare i mezzi che lo conducano a tale perfezione: tutto ciò che può costituire un mezzo per conseguirla, si chiama vero bene; invece il sommo bene consiste nel pervenire al godimento di tale natura, affinché egli, se è possibile insieme ad altri individui, goda di tale Natura». L’autore aggiunge che «a suo luogo» mostrerà che tale natura è «la conoscenza dell’unione che la mente ha con l’intera Natura». Dunque il fine al quale il filosofo tende è «acquisire tale Natura e sforzarmi affinché molti l’acquisiscano con me; cioè fa parte della mia felicità adoperarmi affinché molti altri intendano ciò che io intendo, affinché il loro intelletto e il loro desiderio concordino pienamente con il mio intelletto e il mio desiderio». Se, a causa della sua debolezza, la mente è incapace di percepire tutto l’ordine e la necessità della Natura per giudicare delle cose oltre il bene e il male, ma deve continuare a servirsi di tali nozioni in modo relativo e limitato al «suo proprio bene», il supremo bene o la somma perfezione dell’uomo – quella dalla quale, stando al § 1, dovrebbe derivare una gioia suprema, continua ed eterna – è la conoscenza dell’unione che la mente stessa ha con tutta la Natura nella sua perfezione e universalità. Non è difficile riconoscere in questa tesi lo sviluppo della precedente: se la Natura intera è quella realtà che è bene vero e comunicabile, il sommo bene dell’uomo non consiste solo nell’unione, ma nella coscienza o consapevolezza di tale unione; sembra che Spinoza voglia suggerire che il fine al quale tende non è l’instaurazione di «un’unione con la Natura» (quasi che questa fosse possibile e non invece necessaria e inevitabile), ma l’attuazione della conoscenza e della coscienza di tale unione. Il sommo bene è dunque riposto in uno stato o condizione della mente, resa capace di comprendere e godere l’unione con quel bene vero e immutabile costituito dalla Natura universale. «Vero bene» (si noti l’imprecisione terminologica e la conseguente oscillazione semantica) è

dunque tutto ciò che può condurre l’uomo ad acquisire quella consapevolezza, che nessun ostacolo può impedire. Non può non sorprendere tale ottimismo, se viene confrontato sia con le posizioni del Breve trattato sia con la stessa conclusione dell’Etica, nella quale, se si afferma che quel fine è raggiungibile, si riconosce anche che la via da percorrere per conseguirlo è difficilissima (perardua) (E5P42S). Qui Spinoza si propone quale condizione o, quanto meno, circostanza auspicabile per il conseguimento del sommo bene, di giungere a quel godimento, cioè a quella coscienza, con il maggior numero possibile di altri individui, con i quali si sia realizzata una piena coincidenza di mente e di affetti. Si può supporre che la ragione che spingeva Spinoza a porre tale condizione accessoria e auspicata consistesse nella consapevolezza che, essendo l’uomo costretto a vivere tra altri uomini e ad avere rapporti con essi, dovesse anche necessariamente subirne delle affezioni, capaci di turbare quella somma gioia che egli invece si proponeva di raggiungere. Ma che il giovane filosofo non nutrisse una sicura certezza intorno alla possibilità di raggiungere tale condizione è dimostrato non solo dal fatto che egli richiama la necessità di giungervi insieme ad altri uomini, o a «molti altri», ma da quell’inciso dubitativo (si fieri potest) che accompagna e limita la sua proposizione. Non si può non notare come questo ottimismo temperato contrasti, da un lato, con l’ottimismo assoluto dell’inizio, confermandone il valore retorico e, dall’altro, con il pessimismo sulla possibilità di condurre la maggior parte degli uomini allo scopo prefissato, quale appare nel Breve trattato e, sopra tutto, nelle opere seguenti. Nei §§ 14-16 Spinoza elenca i veri beni da perseguire, cioè i mezzi da approntare per giungere al fine designato: costruire una dottrina della Natura sufficiente allo scopo (non è chiaro se Spinoza alluda a una fisica o a una metafisica); formare una società che consenta al maggior numero di uomini di giungere «nel modo più facile e sicuro» al fine stabilito; costruire una Filosofia morale, una Pedagogia, una Medicina e una Meccanica. Ma, «prima di tutto» – e con questo ante omnia Spinoza pone la questione dell’ordine – «è necessario escogitare il modo di curare la mente e di purgarla, affinché, per quanto è possibile all’inizio, conosca con successo le cose, senza errore e nel miglior modo possibile». Prima di intraprendere la positiva costruzione della filosofia, cioè

dell’organismo scientifico che dev’essere orientato al conseguimento dell’unico fine indicato, è necessario instaurare l’opera, per così dire, negativa e catartica della expurgatio intellectus e della sua cura, affiché esso possa svolgere il compito prefissato. Senza avere apprestato una dottrina del metodo e senza aver purificato l’intelletto, non sarà possibile avvicinarsi alla verità e costruire la vera conoscenza. Questa prospettiva dev’essere tenuta ben ferma perché proprio la sua crisi, resa evidente dall’opposta prospettiva presente nel Breve trattato – nel quale si afferma che non la correzione dell’errore rende possibile il conseguimento della verità, ma l’attuale possesso della verità rende possibile la correzione dell’errore – costituisce forse la ragione principale della crisi e dell’interruzione della stessa opera sul metodo. Prima di passare all’indagine vera e propria sul metodo, l’autore sente tuttavia il bisogno di proporre tre regole di vita, da adottare mentre la mente è impegnata nell’opera dell’autopurificazione: 1. Adattarsi alla capacità di comprensione del volgo nelle parole e in tutte quelle azioni che non comportano alcun ostacolo al raggiungimento del nostro scopo. Infatti da esso possiamo acquisire non piccoli vantaggi, se ci adattiamo, per quanto è possibile, alla sua comprensione. Aggiungi che in tal modo presteranno orecchie amiche all’ascolto della verità. 2. Godere dei piaceri quanto basta a conservare la salute. 3. Cercare il denaro, o qualunque altra cosa, nella misura sufficiente a sostentare vita e salute e per adeguarci a quei costumi della società che non si oppongono al nostro scopo (§ 17).

Queste tre regole (non provvisorie) di vita ricordano le quattro regole «provvisorie» che Cartesio aveva proposto nel Discorso sul metodo, che lasciano un’eco, in particolare, nella prima e nella terza di Spinoza. Ma la presenza cartesiana (e anche baconiana) non si limita qui: essa si manifesta anzitutto nella separazione del metodo dalla filosofia e nella precedenza o preliminarità della sua trattazione; nella concezione del metodo inteso sopra tutto come expurgatio intellectus (di baconiana memoria), cioè più come descrizione e correzione dell’errore che come descrizione positiva della verità (giunta alla quale l’opera spinoziana si interrompe); nel programma di un’organizzazione di tutte le scienze ad un unico fine; nel giudicare il valore e l’utilità delle scienze solo in quanto riescano a conseguire il fine prefissato, scartando tutto ciò che non serve allo scopo. Si può forse osservare che lo scopo al quale Descartes e Spinoza dirigono tutte le scienze sia divergente: nel primo esso sembrerebbe conseguibile attraverso il dominio dell’uomo sulla

Natura; in Spinoza attraverso il dominio dell’uomo su se stesso o nella perfezione etica. Tale divergenza è tuttavia più apparente che reale, poiché sembra ridursi sopra tutto a una diversa accentuazione del valore della scienza, da una parte, e della felicità, dall’altra. Nondimeno, poiché la perfezione della scienza ha di mira il conseguimento di una maggiore felicità e questa, come si è visto, non si consegue senza la perfezione della scienza utilizzata come mezzo, non sembra opportuno insistere ulteriormente su questa presunta opposizione. 2.2. Preliminari del metodo (§§ 18-29): le forme della conoscenza e la scelta di quella migliore Affinché l’opera della emendatio intellectus possa essere intrapresa con successo è necessario conoscere la natura della mente e le forze di cui dispone per sapere come controllarle e organizzarle. Spinoza comincia con il riassumere tutti i modi di percepire, di cui si è servito per affermare o negare qualcosa con certezza: 1. La percezione che abbiamo per sentito dire o per qualche segno convenzionale, come si dice. 2. La percezione che abbiamo per esperienza vaga, ossia per mezzo di un’esperienza non determinata dall’intelletto; è chiamata così solamente perché si presenta a caso e, non avendo noi altra esperienza che la contrasti, resta per noi indiscutibile. 3. La percezione nella quale l’essenza di una cosa è conclusa da un’altra cosa, ma in modo non adeguato: questo avviene o quando inferiamo la causa da qualche effetto oppure quando si deduce l’essenza da un universale, che è sempre accompagnato da una qualche proprietà. 4. Infine la percezione nella quale la cosa è percepita mediante la sua sola essenza, oppure mediante la conoscenza della sua causa prossima (§ 19).

L’autore spiega ciascun modo con esempi specifici (§§ 20-22) e poi con un solo esempio (tratto dalla regola della proporzionalità) che ritroveremo, con qualche variante, nel Breve trattato e nell’Etica: se, dati tre numeri, si chiede quale sia il quarto che sta al terzo come il secondo al primo, i mercanti troveranno il quarto numero solo ricordando quello che sentivano dire dai maestri a scuola; altri generalizzando l’esperienza di casi semplici; i matematici deducendo dalla dimostrazione di Euclide e applicandola a casi particolari; altri, infine, senza fare alcuna operazione, ma intuitivamente, «vedendo» la proporzionalità esistente tra i numeri. Prima di procedere all’esame dei modi di conoscenza e alla scelta di quello più conveniente al conseguimento della suprema perfezione, l’autore ribadisce i mezzi necessari al fine ultimo prefissato: 1. Conoscere esattamente la nostra natura, che desideriamo perfezionare e, insieme, quanto è necessario della natura delle cose; 2. affinché da tale conoscenza deduciamo rettamente differenze, concordanze e opposizioni (delle cose); 3. per comprendere rettamente che cosa

possano patire e che cosa no; 4. per confrontarlo con la natura e la potenza dell’uomo. Da tali conoscenze risulterà facilmente la suprema perfezione alla quale l’uomo può pervenire.

Non può sfuggire l’assimilazione, da parte di Spinoza, di un punto importante del metodo baconiano, la classificazione e la descrizione di tutti gli elementi costitutivi di un’indagine. Ora, dei quattro generi di conoscenza descritti, il primo non è accettabile nelle scienze perché non fa conoscere l’essenza della cosa e dunque neppure la sua esistenza; attraverso il secondo si percepiranno solo gli accidenti, che tuttavia non si potranno conoscere chiaramente senza conoscere le essenze. Il terzo genere fornisce un’idea della cosa, è un mezzo sicuro di deduzione, ma non dà una conoscenza adeguata; solo il quarto è capace di conseguire tale conoscenza e, dunque, sopra tutto di esso ci si dovrà servire per raggiungere lo stato di perfezione prefissato. Ora, determinata la conoscenza necessaria a cogliere l’essenza delle cose ignote, «si deve precisare quale sia la Via e il Metodo che renda possibile conoscere l’essenza delle cose che si devono conoscere». Se si esamina attentamente questa sezione, si potranno cogliere non solo i segni di quella acerbità, imprecisione, mancanza di revisione denunciata dagli editori nell’Avvertenza, ma anche indizi non trascurabili dell’anteriorità di questo scritto rispetto al Breve trattato. Si potrebbe notare una palese e curiosa incongruenza tra l’annuncio dei quattro modi, dei quali «fino ad ora» l’autore si sarebbe servito per affermare o negare qualcosa con certezza (indubie), e la loro definizione, nella quale si afferma che i primi due sono privi di ogni certezza e che il terzo è certo solo parzialmente; ma è necessario limitarsi ai punti essenziali. 1. Della variante tra testo latino e traduzione nederlandese circa il numero dei modi (quattro nel primo, tre nella seconda) si è già detto: ora conviene aggiungere soltanto che la quadripartizione del Trattato sull’emendazione dell’intelletto si lascia difficilmente spiegare qualora si supponga posteriore alla tripartizione chiarissima del Breve trattato (nel quale permangono, tuttavia, anche tracce di quadripartizione, inspiegabili se non come residuo di un uso precedente) e dell’Etica. 2. L’ordine dei primi due modi di conoscenza del Trattato sull’emendazione dell’intelletto («sentito dire», «esperienza vaga») è invertito nel Breve trattato e nell’Etica, dove sono presentati come specificazioni

interne del primo modo. 3. Nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto tutti e quattro i modi vengono indicati indistintamente con il termine perceptio; nel Breve trattato i tre modi sono invece determinati con tre nomi specifici: «credere od opinione» il primo; «convinzione o ragione» il secondo; «intelletto» il terzo. Esattamente come nell’Etica, dove il primo viene indicato con i termini «opinione o immaginazione», il secondo con il termine «ragione», il terzo con il termine «intelletto» o conoscenza intuitiva. Se si accoglie l’ipotesi tradizionale della posteriorità del Trattato sull’emendazione dell’intelletto rispetto al Breve trattato riesce veramente difficile spiegare l’involuzione terminologica che in esso si presenta. 4. Altrettanto difficile è spiegare l’assenza completa del termine ragione, intesa come genere di conoscenza, non solo nell’esposizione ora presentata, ma in tutto il trattato. Ancora più difficile è spiegare il regresso che il concetto di ragione, con le proprietà che a questa vengono assegnate nel Breve trattato, subirebbe nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto, qualora questo venga considerato posteriore. Nel trattato sul metodo la percezione del terzo genere è una conclusione vera, ma inadeguata, sommamente precaria e instabile, come si dice nella nota h; nel Breve trattato la conoscenza di secondo genere è accomunata a quella di terzo genere per il suo contenuto di verità. Inoltre, delle quattro proprietà che le vengono assegnate, solo la prima (conoscere le cose come devono essere e non come sono in se stesse, ma pur sempre con sicurezza e stabilità) ricorda l’inadeguatezza che le veniva attribuita nel trattato sul metodo; le altre tre (è propedeutica all’intelletto chiaro, mediante cui amiamo Dio; fornisce la conoscenza del bene e del male; distingue il vero dal falso) mostrano la diversa costituzione e lo stabile valore che la ragione ha acquisito nel Breve trattato. 5. Infine, poiché i primi due generi del trattato sul metodo vengono invertiti allo stesso modo nel Breve trattato e nell’Etica, mentre il relativo ordine nell’esempio rimane invariato nelle tre opere, si può concludere che il testo del Trattato sull’emendazione dell’intelletto preceda gli altri due, sia perché è molto più verosimile spiegare il disaccordo tra enunciato ed esempio nel caso dell’utilizzazione di un testo già costituito che non nella stesura di uno nuovo (in tal caso l’errore si sarebbe ripetuto due volte, sia nel Breve trattato sia nell’Etica); sia perché, supponendo come

anteriore il Breve trattato, si dovrebbe ammettere non una sola variazione (Trattato sull’emendazione dell’intelletto), ma anche una seconda (Etica), intervenuta di nuovo a correggere la prima. 2.3. La definizione del metodo e il suo rapporto con la filosofia (§§ 3049) Affrontando la questione del metodo, Spinoza si chiede se occorra un metodo per discutere la questione del metodo: se si rispondesse positivamente, si aprirebbe un processo all’infinito e sarebbe perciò impossibile affrontare realmente la questione del metodo. Perciò la questione del metodo e la sua costituzione devono poter essere affrontate originariamente: il che significa che il metodo non può essere dimostrato e argomentato, essendo il criterio dell’argomentazione e della dimostrazione. Devono darsi, perciò, delle proposizioni e delle dimostrazioni evidenti, nella cui descrizione il metodo consista (§§ 4344). Tuttavia non si dà argomentazione, senza che questa proceda da un’idea data, la quale, essendo diversa dal suo ideato, possiede un’essenza formale ed è qualcosa di reale in quanto idea; ma poiché rappresenta un oggetto, essa è, al tempo stesso, un’essenza oggettiva (§ 33). Ora, quanto è stato detto del metodo presuppone che la verità di un’idea non possa essere determinata dal metodo, ma che sia autoevidente; la certezza è la stessa essenza oggettiva, o idea (§ 35). Che cos’è allora il metodo e qual è la sua funzione? Nel § 37 Spinoza afferma che esso non è la ricerca dei segni di verità inerenti o non alle idee acquisite, ma «la via per cercare nell’ordine dovuto la verità stessa». Questo significa che esso è la via per cercare o dedurre nell’ordine dovuto un’idea vera dall’altra, sul fondamento di una prima idea vera data. Il metodo è dunque una conoscenza riflessiva, un’analisi e una descrizione dell’idea vera, che viene distinta da tutte le altre percezioni (§§ 37-38). È evidente che, essendo l’idea, oggettivamente, ciò che l’ideato è realmente, quanto più l’idea prima vera e le altre che ne conseguono saranno perfette, tanto più l’idea di quelle idee, cioè il metodo, sarà perfetto. Perfettissimo sarà dunque quel metodo che si costituisce procedendo dall’idea dell’ente perfettissimo, origine e fonte di tutta la Natura, la cui idea sarà origine e fonte di tutte le altre idee (§§ 41-42). Spinoza non afferma che la prima idea vera del metodo deve consistere

nell’idea dell’ente perfettissimo; ma che è necessario e sufficiente procedere da una qualunque idea vera data. Pertanto, all’inizio, è compito del metodo: «1. Distinguere l’idea vera da tutte le restanti percezioni, preservando la mente da esse. 2. Fornire le regole affinché le cose sconosciute siano percepite secondo tale norma. 3. Istituire un ordine per non essere affaticati da cose inutili». Lo scopo di tale metodo è pervenire quanto prima alla conoscenza dell’ente perfettissimo, perché solo procedendo da quest’idea il metodo sarà perfetto (§ 49). Ora si può osservare che, se è necessaria una qualsiasi idea vera perché su di essa possa esercitarsi la riflessione intellettuale e il metodo possa avere inizio, il metodo non precede la filosofia come un sistema di segni la cui verità possa (o debba) essere riconosciuta prima di intraprendere la ricerca, ma inerisce alla stessa ricerca della verità, e non si dà prima che questa abbia avuto inizio. Il metodo è perciò immanente e necessario alla filosofia: non può esservi metodo senza filosofia in fieri, né filosofia che possa evolvere fino al suo culmine, con certezza e non casualmente, senza metodo. Tuttavia, il presupposto spinoziano che sia sufficiente procedere da una qualsiasi idea vera data per giungere all’idea dell’ente perfettissimo mediante un metodo o una via certa e sicura può considerarsi logicamente coerente? Infatti, fino a quando la mente non avrà concepito l’idea dell’ente perfettissimo, essa non possiederà neppure l’idea dalla quale tutte le altre dipendono e dunque non possiederà neppure quel criterio della relazione o del passaggio da un’idea all’altra, sulla cui realtà è fondata l’essenza del metodo come via sicura alla conoscenza delle verità ignote. In altri termini, Spinoza sembra ammettere che possano darsi filosofia e metodo anche senza l’idea dell’ente perfettissimo, dalla quale, però, si afferma che tutte le altre dipendono. Ma se si afferma che il metodo concepito come via si costituisce realmente (cioè in modo compiuto e perfetto) solo attraverso l’idea dell’ente perfettissimo, come l’autore sembra comunque esigere, o si assume quest’idea come prima idea necessaria della filosofia e del metodo, oppure si costringe il concetto spinoziano del metodo in un’aporia insanabile: si pretenderebbe, infatti, che ciò che deve essere fondato (il metodo come via per giungere all’idea dell’ente perfettissimo) costituisca invece il fondamento della conoscenza dell’ente perfettissimo. Non senza ragione, perciò, nel Breve trattato Spinoza insiste sulla

necessità di considerare l’idea dell’ente perfettissimo come idea prima e costitutiva dell’intelletto o della conoscenza vera. Ma non è questa, forse, una dimostrazione dell’impossibilità di considerare legittimo il processo metodico da una qualsiasi idea vera data, assunta come principio della filosofia? 2.4. La prima parte del metodo: analisi delle idee inadeguate (§§ 5090) Lo scopo della prima parte del metodo è di distinguere l’idea vera da tutte le altre, finte, false e dubbie, perché la mente non le confonda: si mostrerà quale sia l’oggetto delle percezioni inadeguate e in che modo ci si possa liberare da esse (§§ 50-51). Spinoza tratta anzitutto dell’idea finta (§§ 52-64), distinguendo due classi di finzioni, a seconda che riguardino l’esistenza o l’essenza delle cose. Le finzioni che riguardano l’esistenza hanno per oggetto le cose possibili, non le necessarie né le impossibili. Tuttavia l’autore considera anche un secondo genere di finzione, concernente l’esistenza: questa si ha quando fingiamo qualcosa, «benché comprendiamo chiaramente che la cosa non sta come la fingiamo» (§ 56). Spinoza aggiunge subito che questa finzione è possibile finché non scorgiamo impossibilità né necessità alcuna; altrimenti, per la premessa generale, essa non sarebbe possibile. Ma intendere con chiarezza che la cosa non è come la fingiamo non implica forse che si sa con chiarezza, dunque con necessità, che la realtà finta è impossibile? E dunque non v’è forse contraddizione tra l’ipotesi ora considerata e la condizione generale concernente la finzione relativa all’esistenza? È inoltre sintomatico che Spinoza non possa escludere, anche quando si conosca l’impossibilità o la necessità di un oggetto, il darsi di alcune rappresentazioni ad esso relative, che egli non chiama più finzione, ma un semplice fare. L’autore non indaga, tuttavia, la natura di questo fare e la struttura che lo rende possibile; ma poiché le sue cause non sono da individuarsi nella mente né in quanto conosca chiaramente né in quanto conosca falsamente, non sembra esagerato avanzare il sospetto che la «causa» ultima di un tale «fatto» fosse riposta in qualche modo nella volontà. Il principio generale che presiede alla dottrina della finzione «riguardante l’essenza, considerata come attuale o inattuale» è che questa può nascere solo da una conoscenza confusa della natura e dall’attività di

composizione e scomposizione della mente. Perciò, limite di tale finzione non è la finzione, ma l’intellezione: il che vuol dire che il potere della finzione è assoluto (potendosi fingere anche il contrario e il contraddittorio) finché non intervengono le regole dell’intelletto. Perciò, quando si concepisce qualcosa in modo chiaro e distinto, cioè idee semplici o composte da idee semplici, non si dovrà «temere in alcun modo di fingere qualcosa» (§ 62). La finzione, dunque, è «attenzione, simultaneamente priva di assenso, a diverse idee confuse, di diverse cose e azioni esistenti nella natura», perché si danno alla mente delle cause che le impediscono di aderire totalmente alla rappresentazione confusa: altrimenti la finzione non si distinguerebbe dalla falsità, che è attenzione con assenso a idee confuse (§ 66). Ora, se si esamina la natura della finzione, si vede che essa presuppone una contemporanea e perciò contraddittoria situazione di confusione e di chiarezza rispetto alla cosa finta: è necessario che la cosa venga concepita confusamente affinché possa essere finta; al tempo stesso, che venga concepita in modo chiaro e distinto perché si eviti l’assenso e l’idea finta non si identifichi semplicemente con quella falsa. Ma se il non-assenso è reso possibile dalla presenza di un’idea chiara e distinta, non si comprende come la finzione sia possibile, dal momento che non implica solo un’idea confusa: da che cosa sarebbe necessariamente determinata la finzione se non da una sorta di volontà di fingere? E, d’altra parte, se si ammette come reale la finzione, che cosa rende possibile la sospensione dell’assenso se non una presunta volontà di farlo? Nelle Riflessioni metafisiche, nelle quali Spinoza non espone il suo pensiero ma le questioni principali della metafisica interpretate dal punto di vista di Cartesio, troviamo la stessa distinzione tra idea finta e idea falsa, e l’assenso o la sua mancanza come criteri di quella distinzione. L’identità di prospettiva tra le Riflessioni metafisiche e il trattato sul metodo, e il fatto che questa distinzione e il suo criterio non si ritrovino nelle altre opere, ma vengano formalmente criticati e respinti (come in E2P49S) non è privo di importanza. Nell’Etica Spinoza oppone alla propria concezione dell’assoluta determinazione del volere l’obiezione secondo cui «l’esperienza null’altro sembra che insegni più chiaramente se non che noi possiamo sospendere il nostro giudizio in modo da non

assentire alle cose che percepiamo; il che è anche confermato dal fatto che nessuno dice di ingannarsi in quanto percepisce qualche cosa, ma solo in quanto dà o rifiuta il suo assenso». La risposta a questa obiezione si fonda, da un lato, sulla necessità o assoluta determinazione delle percezioni, che possono mutare solo per il sopraggiungere di una percezione diversa e, dall’altro, sull’indiscutibile inerenza strutturale dell’affermazione o dell’assenso alla percezione stessa. La posizione del Trattato sull’emendazione dell’intelletto (e naturalmente delle Riflessioni metafisiche) si fonda sull’implicita e persistente assunzione del principio cartesiano della libertà o trascendenza della mente, considerata come conoscenza chiara e distinta, rispetto alle percezioni e ai suoi contenuti, che non ne costituiscono l’essenza; o, se si preferisce, alla persistenza, nel trattato spinoziano, della valenza assegnata da Cartesio alla distinzione tra immaginazione e intelletto. Anche per Spinoza, infatti, la distinzione tra l’idea vera e le altre si può ridurre alla distinzione fondamentale tra immaginazione e intelletto: «Così abbiamo dunque distinto tra l’idea vera e le altre percezioni e abbiamo mostrato che le idee finte, le false e le altre dello stesso genere traggono la loro origine dall’immaginazione, ossia da certe sensazioni fortuite (per dir così) e slegate, che non nascono dalla potenza stessa della mente, ma da cause esterne, a seconda di come il corpo accoglie vari movimenti sia sognando sia vegliando. Oppure, se piace, qui per immaginazione intendi quel che vuoi, purché sia qualcosa di diverso dall’intelletto e da cui l’anima riceva la condizione di paziente» (§ 84). L’immaginazione è dunque definita solo in modo negativo come «altro» dall’intelletto, poiché solo questo, costituendo l’essenza della mente, è definibile positivamente nelle sue proprietà e nella sua essenza (§§ 110 e 106-108). L’immaginazione, perciò, non possedendo un’essenza e non esprimendo un’essenza, non può essere definita per sé: la mente (o anima), immaginando, non agisce secondo le proprie leggi, che sono quelle dell’intelletto, ma subendo altre leggi, che sono quelle del corpo, e perciò è completamente e soltanto passiva (§ 86). Nella prospettiva del trattato sul metodo l’immaginazione non solo non ha «nulla in comune» con l’intelletto quanto alla natura o alla qualità intrinseca delle rappresentazioni, ma anche rispetto alla struttura e all’essenza, poiché la mente non immagina in forza della propria essenza

– per la quale può soltanto intelligere – ma in quanto subisca le affezioni del corpo. Tuttavia, se la mente non ha in sé una struttura o un’essenza per cui possa immaginare, come può dirsi immaginante? Nel Breve trattato, come si vedrà, la mente è definita come idea di un corpo attualmente esistente (definizione assente dal trattato sul metodo), tale che non possa costituirsi, come mente, se non attraverso la costituzione del corpo e il darsi delle sue affezioni, pervenendo a considerare le rappresentazioni di quelle affezioni – e la struttura di quelle rappresentazioni – essenziali e costitutive della mente stessa, come si affermerà in modo più compiuto e definitivo. 2.5. La seconda parte del metodo: formazione e connessione delle idee chiare e distinte (§§ 91-110) Lo scopo della seconda parte del metodo «è di avere idee chiare e distinte, cioè tali che siano originate dalla pura mente e non da movimenti fortuiti del corpo». Affinché ciò avvenga è necessario non confondere le astrazioni della mente con le cose stesse e dedurre l’intero sistema di conoscenza da qualche essenza particolare affermativa, ossia da una definizione vera e legittima. Perciò il cardine di tutta la seconda parte del metodo consisterà solo nel conoscere le condizioni di una buona definizione e, quindi, nel modo di trovarle. Ora, perché una definizione sia buona, se si tratta di cosa creata, essa dovrà: 1. comprendere la causa prossima; 2. esser tale che da essa possano ricavarsi le proprietà della cosa. Se si tratta di cosa increata, dovrà: 1. escludere ogni causa; 2. escludere ogni possibile ulteriore domanda intorno all’esistenza della cosa definita; 3. non essere formulata mediante termini astratti; 4. contenere ed esprimere tutte le proprietà della cosa. Il tema della definizione e la distinzione tra cose increate e cose create induce Spinoza ad affrontare tre argomenti conclusivi del trattato: conclusivi, sia perché con essi il trattato s’interrompe materialmente sia perché le loro interne difficoltà furono verosimilmente causa di quella interruzione. La prima questione concerne la possibilità della definizione delle cose create in rapporto a quella delle cose increate, problema risolto da Spinoza mediante l’utilizzazione, in senso ontologico, del concetto di genere: il che difficilmente sarebbe potuto avvenire se il trattato sul metodo fosse stato scritto dopo il Breve trattato (§§ 99-101). La seconda questione – che Spinoza rinvia subito ad altro luogo – è quella dell’esperienza, della sua natura e dei suoi limiti, ma anche della sua

necessità per la conoscenza delle cose singole create (§§ 102-103), conoscenza non realizzabile mediante quel quarto modo di conoscenza che solo veniva detto adeguato. Tuttavia, e ciò è ancora più significativo, Spinoza è stato costretto a esaminare e a fondare la definizione dell’intelletto, cioè di quella conoscenza chiara e distinta da cui tutto invece deve essere dedotto, poiché costituisce il fondamento del metodo stesso (§§ 104-106). Egli avverte chiaramente che «o la definizione dell’intelletto deve essere chiara per se stessa, oppure non possiamo intendere nulla. Quella, però, non è assolutamente chiara per sé. Tuttavia, poiché le sue proprietà – come tutto ciò che abbiamo dall’intelletto – non possono essere percepite chiaramente e distintamente se non è conosciuta la loro natura, allora la definizione dell’intelletto si fa conoscere da sola, se poniamo attenzione alle sue proprietà che conosciamo chiaramente e distintamente» (§ 107). Si può subito osservare che tale definizione dell’intelletto non è svolta secondo le regole assegnate precedentemente alla «buona» definizione, sia che l’intelletto venga considerato come cosa creata, sia che venga considerato come cosa increata. Inoltre si può rilevare che, se le proprietà devono essere dedotte dalla natura o essenza definita, come Spinoza stesso ribadisce nel § 107, non si comprende come sia possibile, invece, dedurre la natura dalle proprietà, non essendovi un criterio per stabilire se e perché quelle proprietà appartengano all’intelletto. Ma questo non è possibile se non avendo un’idea dell’intelletto: dunque, o questa è per sé nota (venendo conosciuta mediante il quarto genere, e non mediante il terzo) oppure sarà inadeguata. Ma se la definizione del fondamento è inadeguata, sarà necessariamente inadeguata la definizione di ciò che su di esso è fondato. Si osservi, infine, l’uso e il valore semantico del termine intellectus, con il quale sono indicati, contemporaneamente, il quarto genere di conoscenza, quando esprime la conoscenza adeguata; il terzo genere, quando si afferma (nella 2ª e 3ª proprietà) che l’intelletto ricava alcune idee da altre; la stessa immaginazione, quando si afferma che l’intelletto immagina (5ª proprietà). È pertanto evidente che l’intelletto viene assunto in senso più ampio e più ricorrente come sinonimo di mente (in tal senso si dice che la mente deduce, immagina ecc.); in senso più specifico indica invece quel quarto genere sulla cui definizione, appunto,

la costruzione del trattato si interrompe. E se è così, non si potrebbe rivolgere a Spinoza quella critica che lo stesso Spinoza rivolge a Bacone nell’Ep. 2, cioè di scambiare spesso l’intelletto con la mente? Qui si interrompe lo svolgimento della seconda parte e rimane incompiuta l’annunciata redazione della terza (§49). 1

Benedicti de Spinoza Tractatus de Deo et homine eiusque felicitate Lineamenta atque Adnotationes ad Tractatum Theologico-politicum edidit et illustravit Eduardus Boehmer, Halae ad Salam 1852. Ma si veda anche, dello stesso: Spinozana, IV, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», 57, 1870, pp. 243-44. 2 J. Freudenthal, Spinozastudien, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», 108, 1896, pp. 238-82. 3 F. Mignini, Per la datazione e l’interpretazione del «Tractatus de intellectus emendatione» di Spinoza, «La Cultura», 17, 1979, 1/2, pp. 87-160. 4 A.M. Vaz Dias e W.G. Van der Tak, The Firm of Bento y Gabriel De Spinoza, in Spinoza Mercant & Autodidact, Reprint from «Studia Rosenthaliana», 16, 1982, 2, pp. 178-89. I ed. nederl. in Mededelingen vanwege het Spinozahuis, Leiden 1934. 5 Stolle-Hallmann’s Reisebeschreibung, in J. Freudenthal, Lebensgeschichte Spinoza’s in Quellenschriften, Urkunden und Nichtamtlichen Nachrichten, Leipzig 1899 e ora in Spinoza, Lebensbeschreibungen und Gespräche, a cura di M. Walther, F. Meiner Verlag, Hamburg 1998, pp. 125 sgg. 6 Cfr. E5 Pref.

II. «Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene»

1. Il testo Il Breve trattato fu pubblicato per la prima volta nel 1862 da Johannes van Vloten in un Supplementum alle opere di Spinoza, insieme ad altri scritti. L’opera era stata scoperta nel decennio precedente, attestata da due manoscritti in lingua nederlandese, seicentesco l’uno (A) e di copista ignoto, settecentesco l’altro (B), redatto intorno alla metà del secolo XVIII dal medico di Amsterdam Johannes Monnikhoff, che si era servito di A come esemplare1. Il trattato, sulla cui autenticità nessuno ha mai dubitato, non mancò di suscitare, tra la seconda metà del secolo XIX e il primo quarto del secolo XX, l’interesse degli studiosi: edizioni, traduzioni, studi filologici e critici cercarono di stabilirne la costituzione e la storia redazionale. Il testo apparve anzitutto come copia di una traduzione nederlandese di un originale latino perduto e fu considerato da alcuni studiosi tanto scorretto, così ricco di errori, di lezioni dubbie o prive di senso, da sembrar loro impossibile attribuirne la redazione, ma non il contenuto, allo stesso Spinoza. Freudenthal avanzò perciò l’ipotesi che un redattore, amico o lettore di Spinoza, utilizzando materiali spinoziani, li avesse composti dando loro la forma unitaria che conosciamo2. Wilhelm Meijer, qualche anno più tardi, fondandosi sull’ultima nota marginale, nella quale si legge che l’autore heeft gedicteert questo trattato, intese il verbo dicteren nel senso che Spinoza, quando ancora risiedeva ad Amsterdam, dettasse oralmente agli amici i propri pensieri intorno a Dio, all’uomo e al suo bene. Egli suppose, inoltre, che uno dei dettati trascritti fosse stato inviato in seguito allo stesso Spinoza una volta trasferitosi a Rijnsburg, il quale l’avrebbe corretto, ampliato, corredato di una lista di note e rinviato agli amici. Questi avrebbero copiato di nuovo

il tutto conferendo al trattato l’attuale forma redazionale3. Carl Gebhardt, nell’edizione del 1925, raccolse i risultati degli studi precedenti, compose insieme le due principali ipotesi del redattore e del dettato e propose un’interpretazione generale della storia redazionale e della costituzione del testo, generalmente accettata fino all’inizio degli anni Ottanta. Gebhardt distingue tre strati successivi di testi spinoziani e un corpo di testi dovuto al redattore dell’opera. Il primo strato è costituito dal resto del dettato originario in nederlandese (I, 7; II, 1 e inizio 17); il secondo è formato da brevi trattati separati, rielaborati da Spinoza in latino sulla scorta dell’originario dettato e quindi tradotti in nederlandese (I, 1-6; 8-10; II, pref.; 2-16; ultima parte del cap. 17 fino alla fine); il terzo è costituito da alcune note, dai dialoghi e dall’appendice. Secondo Gebhardt, un redattore raccolse i trattati (forse dopo averli tradotti in nederlandese), li divise in capitoli, inserì alcune parti del dettato originario non tradotte in latino dall’autore, trascrisse le note inviate dal filosofo nei luoghi che gli sembravano più opportuni, inserì i dialoghi al posto attuale e aggiunse gli scritti costituenti l’appendice. Per unificare il tutto compose egli stesso le frasi di introduzione, di passaggio, di conclusione; divise l’opera in due parti e stese le note marginali riassuntive; aggiunse egli stesso delle note, delle dimostrazioni, delle spiegazioni, intervenendo talvolta con annotazioni di lode o di biasimo. Il periodo durante il quale Spinoza si sarebbe occupato, a più riprese, del trattato si estenderebbe dall’ultimo anno del suo soggiorno ad Amsterdam (1659) fino alla Ep. 6 (che Gebhardt pone nella primavera inoltrata del 1662). Nella conclusione di quest’ultima il filosofo dichiara di aver composto un integrum opusculum concernente sia l’origine delle cose e la loro dipendenza dalla causa prima (nonché una dottrina relativa agli attributi difforme dalla tradizione) sia la emendatio intellectus, e di essere occupato nella sua correzione e trascrizione. Gebhardt sostiene che l’integrum opusculum debba essere considerato come un opus bipartitum, comprendente il Trattato sull’emendazione dell’intelletto – la cui redazione non sarebbe stata peraltro neppure iniziata nella primavera del 1662 – e il Breve trattato già composto, alla cui sola correzione l’autore sarebbe stato invece occupato. Tuttavia, un più accurato esame filologico e critico del Ms. A, alla

cui edizione ero impegnato sul finire degli anni Settanta, mi consigliò di rivedere radicalmente l’interpretazione ora esposta della storia redazionale del Breve trattato e della costituzione del suo testo. Diverse ragioni impongono di considerare il Ms. A come copia di una traduzione nederlandese dell’originale latino. Che il testo sia una traduzione dal latino non è escluso da alcuna ragione interna (stilistica, sintattica o grammaticale) ed è esplicitamente attestato dal sottotitolo dell’opera: Scritto dapprima in lingua latina da Benedictus de Spinoza ad uso dei suoi discepoli, che volevano darsi all’esercizio della morale e della vera filosofia. Ed ora tradotto in lingua nederlandese ad uso di quanti amano verità e virtù, affinché possa essere finalmente tappata la bocca a quelli che di ciò si vantano tanto, serrando in mano agli ingenui la loro merda e la loro lordura quasi fossero ambra grigia, e smettano di calunniare ciò che non intendono ancora: Dio, se stessi e la promozione del mutuo bene; e affinché quanti sono malati nell’intelletto siano guariti con lo spirito di mitezza e di tolleranza, secondo l’esempio di Cristo Signore, nostro migliore maestro (KV, M).

Poiché non vi sono ragioni sufficienti per negare attendibilità a tale sottotitolo, ovviamente di mano non spinoziana, mentre ve ne sono o per negarla o per spiegare diversamente notizie posteriori secondo le quali Spinoza avrebbe dapprima composto l’Etica in nederlandese, si deve considerare questo testo degno di fede, fino a prova contraria. Le caratteristiche stilistiche, sintattiche e grammaticali non sono invece sufficienti, da sole (contrariamente all’opinione tradizionale), a stabilire i segni di una traduzione dal latino, a causa, sopra tutto, dell’uso prevalente nella letteratura nederlandese del Seicento di costruire le frasi e i periodi sul modello del periodare latino. La mano del copista è sicura, la scrittura è chiara, ordinata, di genere calligrafico, comune nella seconda metà del Seicento; il Ms. A è composto secondo i principi della tecnica tipografica, ma non è stato preparato come copia per la stampa. In esso si possono contare circa 80 errori non corretti e 140 corretti dallo stesso copista nell’atto della trascrizione. Un numero di 80 errori (di cui solo una ventina capaci di compromettere il senso, come omissioni di parole, inclusioni di glosse, trasposizioni, errori di lettura) in 183 pagine può far considerare la trascrizione sufficientemente corretta e degna di fede. Il copista ha trascritto anche cose di cui non comprendeva esattamente il significato e l’importanza, come la doppia serie numerica (1-5; 1-97) interrotta nella prima parte e con 16 lacune nella seconda4. Il Ms. A presenta inoltre 17

lacune nei riferimenti alle pagine successive: questo dimostra non solo la sua natura di copia, ma anche che il copista non la realizzò né per la stampa né su commissione – bensì per uso personale – e che egli non fu interessato a completare, rileggere e correggere la sua copia (forse perché cominciava a possedere le prime parti dell’Etica manoscritta), oppure non fu in condizione di farlo, impedito da qualche circostanza. Sulla base dell’esame filologico e critico del testo si può pertanto ritenere che molti dei pretesi difetti ed «errori della peggior specie», lamentati dal Freudenthal, appartengano più agli interpreti che al testo, e che i veri errori possono essere facilmente attribuiti, alcuni al traduttore, altri al copista, altri al grado di elaborazione del trattato (non giunto ad una redazione definitiva) e alla evoluzione stessa del pensiero spinoziano. Non fu solo per ragioni esterne, ma anche a causa dell’ormai superato ordine concettuale del Breve trattato che Spinoza decise di rifonderne tesi e argomenti in un’opera esposta con metodo geometrico. Ci sono nel Ms. A notabilia e riferimenti interni che è difficile attribuire a un redattore diverso dallo stesso Spinoza; il senso verosimile delle due serie numeriche, infine, contraddice l’ipotesi dell’estraneità redazionale di Spinoza e suggerisce invece quella di un’ultima revisione dell’opera e di una recensione dei principali argomenti, che l’autore avrebbe compiute prima di abbandonarla, avendo già concepito, nelle grandi linee, il nuovo disegno dell’Etica. Le precedenti considerazioni sembrano dunque non solo non rendere necessaria, ma anche improbabile, l’ipotesi di un redattore. Contro l’ipotesi del dettato, fondata sull’ultima nota marginale del cap. 26, si può osservare anzitutto che non v’è alcuna necessità filologica o storico-linguistica di intendere il verbo dicteren solo nel senso di «dettare oralmente perché un altro scriva»; al contrario, vi sono ragioni fortissime, costituite sia dal contesto sia dall’uso linguistico, per intendere dicteren come un calco del latino dictare, di cui conserva il significato pregnante di «formulare, comporre, elaborare». In tal senso il barbarismo dicteren è l’equivalente di dichten, che significa comporre o scrivere un’opera, sia in versi sia in prosa. Quest’uso è attestato sia dal Middelnederlandsch Woordenboek sia, sopra tutto, dal Woordenschat5 di Lodewijk Meyer (il medico, letterato e filosofo amico di Spinoza), che recensisce la voce dicteren nella rubrica dei barbarismi, conferendole i

significati prevalenti ora ricordati. Letta in tal senso, la nota marginale («richiesta dell’autore a quelli per i quali, dietro loro domanda, ha composto questo trattato...») non contraddice né il testo a cui si riferisce – nel quale l’autore, in prima persona, si rivolge agli amici per i quali dice di scrivere il trattato (ik schryve) –, né la notizia del sottotitolo, la quale afferma che il trattato è stato scritto (beschreven) da Spinoza stesso. Una conferma del senso ora attribuito al verbo dicteren viene, del resto, dalle formule adottate da Pieter Balling nella traduzione nederlandese della prefazione dei Principi della filosofia di Cartesio, per rendere il verbo dictare, inteso nel senso materiale di parlare o leggere perché un altro scriva. Il fatto che egli non usi né dicteren né voorzeggen (ultimo e unico senso di dicteren, aggiunto da Meyer solo nella quinta edizione del 1669 e assente nella precedente del 1663, esprimente forse il «dire avanti perché un altro scriva») né alcun altro verbo singolo, ma usi delle perifrasi, dimostra che questi verbi, in particolare dicteren, non erano considerati da Balling capaci di esprimere in modo inequivoco il significato da lui inteso. Interpretando nel senso ora chiarito il verbo dicteren, si libera la ricostruzione della storia redazionale del trattato da due gravi difficoltà, contro le quali l’ipotesi del dettato necessariamente si scontra. La prima è che tale ipotesi rende incomprensibile, anzi assurda, la conclusione dell’opera, nella quale Spinoza prega gli amici di non meravigliarsi delle novità in essa contenute, di non affrettarsi a criticare e a respingere gli argomenti svolti prima di averli sufficientemente meditati, e di essere molto prudenti intorno alla comunicazione di quelle cose ad altri, data la natura dei tempi. Raccomandazioni che non avrebbero avuto alcun senso, qualora l’opera e il suo contenuto fossero stati già noti, e da lungo tempo, attraverso l’originario dettato. La seconda difficoltà è costituita dalla contraddizione dell’ipotesi del dettato rispetto all’interpretazione, data dal Gebhardt, dell’Ep. 6: se egli riconosce, come sembra necessario, che l’opera su Dio e i suoi attributi – che Spinoza stava correggendo e copiando in vista di una pubblicazione, sebbene non immediata – è il Breve trattato, riferendosi al quale egli usa l’espressione in meo hoc opere, sembra difficile sostenere, nello stesso tempo, che il filosofo si stesse occupando solo di trattati separati senza avere alcuna intenzione di pubblicarli. Infatti egli dichiara di aver già composto (composui) un integrum opusculum, un intero trattatello intorno

ai due argomenti enunciati e di essere occupato nella sua descriptio ed emendatio, termini che nell’uso tecnico della filologia umanistica significano copiare e correggere. Se Gebhardt concepisce l’integrum opusculum come opus bipartitum contenente il Breve trattato e il Trattato sull’emendazione dell’intelletto, non può concludere che il verbo composui e l’azione dell’emendare e del descrivere concernessero il solo Breve trattato, ma deve anche ammettere che concernessero il trattato sul metodo. Gebhardt, tuttavia, vedeva bene che Spinoza non avrebbe potuto né affermare di aver già composto, né tanto meno di star limando e copiando il trattato sul metodo, che era stato interrotto in modo da essere non solo incompiuto in se stesso, ma anche tale da rendere impossibile l’affermazione della compiutezza o dell’integrità del presunto opus bipartitum. Le sole ragioni filologiche (senza considerare gli argomenti interni che proibiscono di considerare il Trattato sull’emendazione dell’intelletto come posteriore al Breve trattato) impediscono dunque di considerare l’integrum opusculum come costituito, in parte, dal trattato sul metodo. Perciò, se alla fine del 1661 (come sembra più verosimile datare l’Ep. 6) l’unica opera nella quale si trattava dell’origine delle cose e si esponeva una dottrina degli attributi di Dio non conforme alla tradizione era il Breve trattato, poiché attraverso l’altro argomento che in essa era svolto non poteva essere indicato il trattato sul metodo, si può solo supporre che la emendatio intellectus indicasse semplicemente l’oggetto della seconda parte del trattato su Dio, l’uomo e il suo bene. E che ciò fosse possibile si può dimostrare con gli argomenti che seguono. Si deve premettere che il termine intellectus, come si era già notato precedentemente, è usato da Spinoza per indicare non solo il terzo genere di conoscenza, ma anche la mente, intesa sia come struttura e organo della conoscenza, sia come complesso di conoscenze o di idee in atto; la emendatio intellectus è dunque la correzione e il perfezionamento della mente, cioè della conoscenza umana. Ora, nell’indice generale dell’opera si legge che la seconda parte tratta dell’uomo giunto ad un grado tale di perfezione da potersi unire con Dio; oppure, per usare i termini del titolo generale, che essa tratta dell’uomo e del suo welstand, ossia del suo «ben essere» o del suo bene. La tesi fondamentale della seconda parte, tuttavia, insegna che la conoscenza è, a un tempo, la causa

di tutte le passioni (II, cap. 2; cap. 14), il fine ultimo e più nobile che conosciamo (cap. 4), la causa unica, quando sia vera, del welstand umano (cap. 22). Dunque l’oggetto della seconda parte è la mente, o intelletto; inoltre, il fine frequentemente additato dall’autore è quello di giungere ad «usare bene il nostro intelletto (conoscenza) (ons verstand wel gebruiken)», il che avviene correggendo e perfezionando la conoscenza debole o erronea mediante una conoscenza vera in atto, cioè dispiegando i frutti della vera conoscenza. Si noti, tuttavia, che la conoscenza chiara non è intesa come risultato della emendatio, ma come sua condizione (cap. 26): questo principio chiaramente e fortemente ribadito segna una differenza essenziale tra il Breve trattato e il Trattato sull’emendazione dell’intelletto. Del resto, la finalità catartica nei confronti dell’intelletto perseguita dall’opera è dichiarata espressamente nel sottotitolo, dove si legge che essa è stata composta per «guarire quelli che sono malati nell’intelletto (verstand)», dimostrando la vera dottrina di Dio, dell’uomo e del suo bene. Il trattato viene dunque presentato come una vera e propria medicina mentis. Ora, non è affatto sorprendente che Spinoza indicasse la medicina mentis con l’espressione emendatio intellectus, sia perché identico è il loro effetto e il loro scopo, sia perché l’equivalenza delle due formule può essere attestata storicamente: in una lettera a Christian Huygens (11 sett. 1682), indicando la propria Medicina mentis, Tschirnhaus la chiama Tractatus de emendatione intellectus. Se dunque integrum opusculum indica solamente il Breve trattato nelle sue due parti, si dovrà ammettere che questa divisione non è dovuta al redattore, ma all’autore; e in più si deve anche riconoscere che questi considerava interamente propria (in meo hoc opere) l’opera composta che stava correggendo e copiando, in vista di una pubblicazione resa incerta dalle circostanze esterne. Sulla base delle precedenti considerazioni si può dunque ritenere probabile la seguente ipotesi: 1. Gli amici di Spinoza pregano il giovane filosofo, mentre è ancora ad Amsterdam, o in occasione del suo trasferimento a Rijnsburg, di esporre in un trattato, in modo sintetico, le sue idee intorno alla metafisica e alla morale (cfr. la conclusione dell’opera, l’ultima nota marginale, la presentazione).

2. L’autore redige un’opera in latino (servendosi probabilmente di appunti precedenti) senza intenzione di pubblicazione immediata (intorno alla metà del 1660: cfr. presentazione e conclusione). 3. Gli amici chiedono di tradurre l’opera e invitano l’autore a pubblicarla (analogia con la pubblicazione dei Principi di filosofia, cfr. Ep. 13). 4. Spinoza corregge il testo latino, aggiunge i dialoghi, le note di risposta alle obiezioni sollevate dagli amici (contenuto dei dialoghi e di molte note, posteriori alla prima redazione del testo: analogia con l’edizione dei Principi e con l’Ep. 13). 5. Il testo viene tradotto in nederlandese e vengono composti (da parte dello stesso traduttore o di un collaboratore) i notabilia e i riferimenti interni (cfr. presentazione, analogia con l’edizione dei Principi; Ep. 12 a, 13, 15). 6. Spinoza lavora su una copia nederlandese, aggiunge ancora note, notabilia, riferimenti, rielaborazioni del testo costituenti la cosiddetta appendice, forse in latino ma forse anche direttamente in nederlandese. Dopo la composizione dell’appendice e, molto probabilmente, dopo la composizione dell’Ep. 2 (sett. 1661), scrive la prefazione della seconda parte e le note 3 e 4 del cap. 20. Può integrare anche il testo latino (l’opera è in questa fase all’epoca dell’Ep. 6). 7. Spinoza decide di rifondere la materia del Breve trattato in un’opera nuova; redige la doppia serie numerica (primi mesi del 1662) e comincia a comporre geometricamente la stessa opera tripartita. 8. Dall’esemplare nederlandese di Spinoza si trae una copia (cfr. la notizia di Stolle-Hallmann secondo cui Jan Rieuwertsz avrebbe copiato il Breve trattato dall’autografo spinoziano), che potrebbe coincidere con A o essere fonte di A. (KV, M, p. 22).

2. Prima parte: di Dio e di ciò che gli appartiene La prima parte del Breve trattato è costituita da 10 capitoli e da due dialoghi, che formano una sorta di appendice del capitolo secondo. La struttura generale della prima parte può essere così riassunta: il primo capitolo è dedicato alla dimostrazione dell’esistenza di Dio; il secondo e i dialoghi sono dedicati alla definizione dell’essenza di Dio e degli attributi

che la costituiscono, cioè pensiero ed estensione. I capitoli 3-7 sono dedicati all’analisi di alcune proprietà che convengono certamente a Dio, ma non ne costituiscono la natura, come generalmente si crede, esprimendo piuttosto proprietà dell’azione o dell’essenza divina. Esprimono l’azione di Dio: la sua causalità necessaria e naturale (capp. 34), la provvidenza (cap. 5), la predestinazione (cap. 6). Nel capitolo 7 vengono considerate, invece, le proprietà che esprimono l’essenza divina, a seconda che venga assunta come un tutto (infinità, eternità, causa di sé) o in relazione ai suoi attributi, pensiero (onniscienza, sapienza) ed estensione (onnipresenza ecc.). I capitoli 8-9 sono dedicati all’esame delle nozioni di Natura naturante e Natura naturata; il capitolo 10 alla definizione dei concetti di bene e male. 2.1. L’esistenza di Dio a) Le prove a priori. Il primo capitolo si apre immediatamente con due dimostrazioni a priori dell’esistenza di Dio: 1. Tutto ciò che noi intendiamo chiaramente e distintamente appartenere alla natura di una cosa, possiamo affermare, con verità, anche della cosa; ma che l’esistenza competa alla natura di Dio possiamo intendere in modo chiaro e distinto; dunque... 2. Le essenze delle cose sono da tutta l’eternità e resteranno immutabili in tutta l’eternità; l’esistenza è essenza di Dio; dunque...

La maggior parte degli interpreti ritiene, sia per una ragione letteraria sia per una ragione filosofica, che all’inizio del trattato sia caduta una preliminare definizione di Dio (contenuta o nello stesso capitolo o in una perduta prefazione della prima parte), ritenuta necessaria alla dimostrazione della sua esistenza. Tuttavia l’esame materiale del manoscritto non presenta alcun segno che imponga di ipotizzare o una lacuna nel primo capitolo o una prefazione della prima parte, ora perduta. Si può invece osservare che non v’è alcuna ragione filosofica o filologica interna all’opera che richieda di supporre necessariamente una tale prefazione; che la prefazione della seconda parte è stata aggiunta dopo la composizione del trattato; che anche la prima parte dell’Etica, corrispondente alla prima parte del Breve trattato, è l’unica priva di prefazione. Inoltre la formula d’apertura, enunciando esplicitamente l’argomento del primo punto, non è né inintelligibile né impossibile, sopra tutto rispetto alla distinzione degli argomenti enunciati nel titolo della prima parte, confermato dal sottotitolo del secondo dialogo. Per ciò che concerne la necessità di una definizione preliminare di Dio, che preceda la dimostrazione della sua esistenza, bisogna

distinguere tra le prove a priori e quelle a posteriori; bisogna distinguere, inoltre, tra l’esplicita definizione a priori di Dio data nel cap. 2 (fondata sull’esistenza di un essere che esiste per essenza o per sé, e sulla nozione di attributo) e la definizione di Dio implicata nella dimostrazione della sua esistenza (dimostrazione fondata sulle nozioni di essenza e di esistenza e sulle proprietà generali dell’essenza, che costituisce il termine medio dei due sillogismi); bisogna sottolineare, infine, che la definizione del cap. 2 si fonda direttamente sulla dimostrazione già data dell’esistenza di Dio, cioè dell’esistenza infinitamente perfetta, causa di sé, che si fa conoscere per sé e la cui conoscenza costituisce la condizione di ogni altra conoscenza. Tipico della prova a priori, secondo Spinoza, è che la cosa da dimostrare si fa conoscere da se stessa e non attraverso altro. La prova a priori è la manifestazione originaria della verità di una cosa attraverso la natura stessa della cosa, in modo tale che questa autodimostrazione della cosa costituisca la prima e assoluta conoscenza che sia possibile averne. Nessuna definizione estrinseca o preliminare può precedere questa dimostrazione, ma ogni definizione deve seguirne o esservi immediatamente implicata; oppure, se si preferisce, ogni definizione o idea dell’esistenza stessa coincide immediatamente con la sua dimostrazione. La prova a priori dell’esistenza di Dio non consiste in un processo che, muovendo da altro, pervenga all’affermazione dell’esistenza divina; ma nell’affermazione originaria dell’identità dell’idea dell’esistenza necessaria con l’idea costitutiva della mente nel suo terzo e più perfetto genere di conoscenza. Infatti la mente, considerata come intelletto o conoscenza intuitiva, non preesiste a tale idea, ma si costituisce attualmente e originariamente mediante il possesso dell’idea dell’esistenza necessaria o della necessità dell’esistenza. L’affermazione dell’esistenza di Dio deve dunque precedere logicamente la sua definizione e costituirne la possibilità. Si può aggiungere che, anche per la dimostrazione a posteriori, fondata sia su un’idea vera di Dio (cioè sulla conoscenza delle proprietà relative all’esistenza e all’essenza di Dio) sia sulle proprietà generali dell’idea vera, non è necessario supporre la definizione di Dio mediante infiniti attributi infinitamente perfetti che ne costituiscono l’essenza, ma è sufficiente supporre un’idea chiara di Dio e delle sue proprietà generali, e

la dottrina dell’idea vera e delle sue proprietà. Si può dunque osservare: 1. L’idea dell’esistenza per sé (Dio) è un’idea prima e originaria che non può essere né indotta né dedotta. 2. Procedendo da quest’idea si può «dimostrare» la necessità (o realtà) di tale esistenza, sia a priori sia a posteriori. 3. La dimostrazione a priori è fondata sulla sola realtà oggettiva dell’idea dell’esistenza per sé, cioè sulla sola analisi del concetto dell’esistenza per sé. L’essenza di tale esistenza è esistere; dunque essa esiste necessariamente e infinitamente. 4. La dimostrazione a posteriori è fondata sulla realtà formale dell’idea dell’esistenza per sé (cioè sull’essenza e sulle proprietà dell’idea vera), mediante una riflessione estrinseca sulla relazione che lega l’idea dell’esistenza per sé e l’esistenza per sé. 5. Attraverso la dimostrazione a priori, l’esistenza necessaria non si dimostra mediante altro, ma mediante se stessa. Per questa ragione le formule sillogistiche impiegate da Spinoza nelle prime due prove, distinte mediante l’introduzione, nella maggiore, di due diverse proprietà dell’essenza delle cose considerata in generale (tutto ciò che appartiene all’essenza di una cosa appartiene alla cosa; le essenze delle cose sono eterne), risultano inadeguate all’esigenza della pura dimostrazione a priori, poiché includono degli elementi esterni (a posteriori) che non dipendono dal solo concetto dell’esistenza per sé. Utilizzando come termine medio l’essenza in generale, si finisce per considerare l’essenza di Dio come equivalente all’essenza delle cose. 6. Una seconda causa di ambiguità deriva dalla distinzione logica operata tra l’esistenza di Dio (la cosa, nella conclusione) e l’esistenza per sé (l’essenza della cosa, nella minore) o tra Dio e l’esistenza, considerando l’esistenza come essenza di Dio e non come Dio stesso. È forse a causa di questa ambiguità della formula che si è pretesa una definizione di Dio prima di Dio, cioè precedente e indifferente all’affermazione dell’esistenza per sé. 7. Malgrado le difficoltà inerenti alla formulazione delle prove a priori (che, forse, hanno indotto Spinoza a modificare l’ordine della prima parte dell’Etica) la concezione della dimostrazione a priori come costituita dall’idea dell’esistenza necessaria, che è al tempo stesso affermazione (dimostrazione) della sua realtà formale, resta chiara e inequivoca, e

costituisce un fondamento nuovo e originario della filosofia spinoziana. 8. Si può ricordare, infine, che nell’Etica le tre dimostrazioni dell’esistenza di Dio sono date per assurdo e non positivamente, poiché l’esistenza di una sostanza costituita da un’infinità di attributi infinitamente perfetti non si deduce dall’esistenza di ciascuna sostanza con un solo attributo, ma riposa sull’idea originaria e non dimostrabile della necessità di un’esistenza infinita, che possiede, come attributi, tutte le essenze infinitamente esistenti. Essa si pone come il principio di identità, che non può essere dimostrato se non attraverso la negazione della sua negazione. b) Le prove a posteriori. Spinoza offre anche due dimostrazioni a posteriori, una nel testo, l’altra in una nota aggiunta posteriormente e fondata sulla definizione di Dio data nel capitolo secondo. L’argomento generale della prima dimostrazione afferma: «Se l’uomo ha un’idea di Dio, Dio deve esistere formalmente; ma l’uomo ha un’idea di Dio; dunque...». Per dimostrare la maggiore, l’autore formula una catena di sillogismi, sorretti da ampie annotazioni (veri e propri antecedenti degli scoli dell’Etica), fondati su tre principi dati come evidenti: 1. le cose conoscibili sono infinite; 2. un intelletto finito non può comprendere nello stesso tempo una quantità infinita di cose conoscibili; 3. un intelletto finito non può intendere nulla da se stesso, senza essere determinato da qualcosa di esterno. Infatti, come non ha la capacità di comprendere tutto nello stesso tempo, «tanto poco ha anche la facoltà di potere, ad esempio, iniziare a intendere questo prima di quello, o quello prima di questo. Non potendo, dunque, né la prima cosa né la seconda, esso allora non può nulla». Ora, se la conoscenza dell’uomo è determinata, cioè se l’uomo non ha il potere di «fingere assolutamente» ma solo di comporre e scomporre elementi di conoscenza già dati, la finzione, intesa come potere assoluto e originario della mente di forgiare idee, non può essere considerata causa di nessuna conoscenza. Perciò, se l’uomo ha un’idea di Dio, deve esistere una causa formale o reale, esterna all’uomo, di quella stessa idea. Ma che l’uomo abbia un’idea di Dio è dimostrato dal fatto che egli ne conosce le proprietà, quali l’infinità, la perfezione, l’unicità, l’immutabilità ecc., idee che non possono essere inventate o finte da un ente imperfetto e finito. Dunque, data l’idea di Dio, deve darsene anche la causa formale adeguata, cioè Dio.

Nella nota al § 8 Spinoza afferma che l’idea di Dio è unica, così come è unico il suo oggetto formale, non solo nel senso che se ne dà una sola, ma nel senso più sostanziale che la sua struttura è radicalmente diversa dalla struttura di tutte le altre idee, poiché in essa l’affermazione dell’essenza e dell’esistenza si implicano necessariamente in modo reciproco. Questo significa anche che se l’affermazione dell’esistenza non è separabile da quella dell’essenza, l’idea dell’essenza (o definizione) è necessariamente implicata nell’affermazione dell’esistenza. Se la definizione (o idea dell’essenza) precedesse la dimostrazione dell’esistenza, essa si porrebbe come un fondamento, ossia qualcosa di esterno o un fatto, da cui si trarrebbe non più una dimostrazione a priori ma a posteriori. Tuttavia, poiché la prova a posteriori non è possibile se non in quanto si abbia un’idea di Dio concepita non solo come un fatto, ma anche come quell’idea che implica immediatamente l’affermazione dell’esistenza, Spinoza può concludere che la prova a priori, mediante la quale Dio si fa conoscere da se stesso, è migliore di quella a posteriori, che si serve di cause esterne. Ora, si può chiedere: in che senso Spinoza può affermare che una dimostrazione a posteriori dell’esistenza di Dio, benché imperfetta, è tuttavia possibile, dal momento che Dio non ha cause esterne? Bisogna osservare, in primo luogo, che l’autore offre una sola prova a posteriori (oltre quella esposta nella nota), fondandola sull’esistenza dell’idea di Dio nell’uomo. Egli esclude ogni prova a posteriori fondata sull’esistenza di qualsiasi altro modo finito considerato come effetto. Quella che procede dall’effetto viene qualificata come prova per causa esterna, poiché l’effetto non può esser pensato senza l’idea della causa. Ma se la conoscenza dell’effetto in quanto tale è posteriore alla conoscenza della causa, non si può mai dimostrare l’esistenza e la natura di una causa determinata a partire da un effetto determinato, senza alcun’altra circostanza. Perciò, la dimostrazione che proceda a partire unicamente da un effetto determinato è impossibile. La dimostrazione a posteriori costruita da Spinoza possiede una costituzione logica speciale, perché riposa contemporaneamente sull’idea chiara e distinta di Dio e sulle proprietà generali dell’idea chiara e distinta (in particolare, che non può essere una finzione e che richiede l’esistenza

formale del contenuto oggettivo che essa possiede). È evidente che l’idea chiara e distinta di Dio, esprimendone la natura, non ha come causa le proprietà generali dell’idea chiara e distinta; dunque è indipendente da queste e da essa può essere dedotta immediatamente, cioè a priori, l’esistenza di Dio. Ma se si vuole argomentare la necessità dell’esistenza di Dio utilizzando le proprietà dell’idea chiara e distinta, si fa ricorso a cause esterne, cioè alla pura essenza dell’idea chiara e distinta di Dio e alla necessità interna di un’essenza eterna, per affermare che il contenuto oggettivo dell’idea chiara e distinta deve esistere, fuori dell’idea, in modo formale. Tale dimostrazione deve essere considerata a posteriori, perché riposa sulle proprietà logiche dell’idea chiara e distinta; dunque queste proprietà possono essere considerate cause esterne che ci obbligano ad affermare l’esistenza di Dio senza che esse siano in alcun modo causa esterna né dell’idea di Dio né della sua esistenza. Infine, poiché una tale dimostrazione non sarebbe possibile senza l’idea chiara di Dio, essa dipende dal fondamento della dimostrazione a priori ed è meno perfetta di questa. c) Le prove spinoziane e quelle cartesiane. La necessità, oltre che l’opportunità, di istituire un confronto con le dimostrazioni cartesiane dell’esistenza di Dio nasce da una constatazione di fatto: gli argomenti della prima prova a priori, oltre che di quelle a posteriori, sono tratti, alla lettera, dalle Meditazioni di Descartes; tuttavia l’ordine generale seguito nella trattazione dell’esistenza e dell’essenza di Dio, e il significato conferito agli argomenti, si oppongono a quelli prescritti e seguiti da Descartes. Questi, infatti, nelle Risposte alle prime obiezioni (un testo che Spinoza conosceva assai bene), afferma che «secondo le leggi della vera logica non si deve mai domandare di nessuna cosa se esista, se non si sa prima ciò che essa è». Più oltre, nello stesso testo, esponendo la prova dell’esistenza di Dio, la cui formulazione è ripresa sostanzialmente da Spinoza nella prima prova, Descartes costruisce la minore dell’argomento in tal modo: «Dopo aver indagato molto accuratamente che cos’è Dio, concepiamo chiaramente e distintamente che appartiene alla sua vera e immutabile natura di esistere». Invece il Breve trattato, quasi ostentatamente, premette la dimostrazione dell’esistenza di Dio alla definizione della sua essenza. Quest’ordine è il risultato di una corruzione del testo, oppure è giustificato dalla logica generale che

nell’opera, e non solo in questi due capitoli, viene costruita? Poiché non vi sono ragioni testuali che consentano di avallare la prima ipotesi, è necessario riconoscere come valida la seconda. Infatti, l’antecedenza della dimostrazione dell’esistenza di Dio rispetto alla definizione della sua essenza riposa su una diversa concezione di Dio e della mente umana, che distingue il Breve trattato non solo dalle opere di Descartes, ma anche, in parte, dallo stesso Trattato sull’emendazione dell’intelletto. Qui, come in Descartes, si presumeva di poter giungere all’idea di Dio procedendo, mediante un metodo certo, da una qualsiasi idea vera data; nel Breve trattato, invece, si afferma che nessuna vera idea può costituirsi nella mente se non in quanto proceda dall’idea vera di Dio, che, essendo unica ed essenzialmente diversa dalle altre, deve essere percepita per se stessa, costituendo la mente nel terzo genere di conoscenza: non si dà, infatti, terzo genere di conoscenza se non in quanto la mente possegga attualmente l’idea chiara e distinta della necessità e infinità dell’esistenza, che Spinoza chiama Dio o Natura. Se il metodo potrà e dovrà darsi, esso dovrà dunque prendere l’avvio dall’idea chiara e distinta di Dio. La novità e la sostanziale diversità della concezione spinoziana rispetto a quella di Cartesio è dimostrata, del resto, dalla diversa valutazione e dal diverso uso di quelle prove (ad eccezione della seconda a priori che non è, né poteva essere, in Cartesio). Si può osservare, infatti, quanto alla prima prova a priori, che se la maggiore riproduce alla lettera il testo delle Risposte analitiche alle Seconde obiezioni, la minore riproduce il testo delle Prime risposte con l’omissione significativa di ciò che Cartesio considera essenziale e necessario all’affermazione di ciò che appartiene alla natura di Dio: l’indagine preliminare sulla natura di Dio e la sua definizione. La formula spinoziana si discosta, inoltre, dal testo delle Risposte geometriche alle Seconde obiezioni, nel quale l’esistenza è considerata un attributo appartenente alla natura di Dio (ciò che Spinoza non poteva ammettere), sebbene la formula cartesiana venga utilizzata nella prova a posteriori (enunciata nella nota al § 2). Quanto alla prova a posteriori si può osservare che Spinoza considera tale quella che nel Discorso sul metodo, nelle Meditazioni 3 e 5 e nei Principi appariva come prova a priori o tratta dall’idea di Dio in noi, e che solo nelle Risposte geometriche alle Seconde obiezioni viene considerata come

prima prova dagli effetti; con la differenza, tuttavia, che Spinoza non concepisce il rapporto tra idea e oggetto dell’idea come un rapporto tra effetto e causa, data la diversa concezione della natura di Dio e della causalità, nonché della natura dell’idea e del pensiero (solo il pensiero infinito è causa formale dell’idea). Inoltre egli non usa – anzi in un caso esplicitamente rifiuta – l’equivalenza cartesiana tra gli avverbi «formalmente» o «eminentemente» con i quali si indica l’esistenza di Dio o il suo possesso delle perfezioni attribuitegli. Infatti, se nell’esistenza formale di Dio è contenuto tutto ciò che è contenuto oggettivamente nella sua idea, non si può affermare che nell’essere di Dio sia contenuto meno di ciò che è nell’idea, poiché in tal caso questa sarebbe una finzione o causa sui; né si può affermare che sia contenuto di più (cioè che Dio esista eminentemente) perché, non essendo possibile derivare l’idea di tale maggiore perfezione da Dio stesso (l’essenza di Dio essendo rappresentata in modo adeguato nell’idea vera di Dio, come si afferma in 7, 11), si dovrebbe dedurla da qualcosa che esista più realmente o eminentemente al di sopra o al di fuori di lui. Ma questo è assurdo; dunque, dall’idea adeguata di Dio non si può dedurre e affermare la sua realtà eminente, ma solo quella formale. Ancora una volta è l’impianto generale della filosofia spinoziana che diversifica strutturalmente la dottrina del Breve trattato dai testi analoghi di Cartesio e rende l’uso spinoziano di questi più simile a un omaggio o all’esplicito riconoscimento di un debito passato, che a una reale dipendenza di pensiero. 2.2. L’essenza di Dio e i suoi attributi Il secondo capitolo si apre con la definizione di Dio: «Dopo aver sopra dimostrato che Dio esiste, sarà tempo, ora, di mostrare che cos’è. Egli, diciamo, è un essere del quale tutto viene affermato, cioè infiniti attributi, ciascuno dei quali, nel suo genere, è infinitamente perfetto». Questa definizione, che troveremo sostanzialmente immutata nell’Etica, contiene già i temi e i problemi fondamentali dello spinozismo. Dio è un essere infinito e perfetto, o il tutto (se «tutto» può esserne affermato), al quale appartengono infiniti, cioè tutti gli attributi, ciascuno dei quali, nel suo genere, cioè rispetto alla propria specifica determinazione essenziale, è infinito e perfetto. Ciascun attributo esprime la perfezione dell’essenza nella quale consiste, non potendo darsi, fuori di esso, nulla di quella medesima essenza; Dio,

invece, esprime una perfezione assoluta, essendo il soggetto di tutti gli attributi, i quali, perfetti e infiniti, non hanno inizio da Dio, ma sono Dio stesso. Se Dio è il tutto, e tutta la realtà è in Dio eterna e infinita, non potendosi dare alcuna realtà fuori di esso o non esistendo alcun «fuori» rispetto ad esso, qual è la realtà del «mondo» o di ciò che si dice «sostanza finita»? Spinoza affronta questo problema nella prima metà del capitolo, dimostrando quattro proposizioni: «1. Non esiste sostanza limitata, ma ogni sostanza, nel suo genere, deve essere infinitamente perfetta: nell’infinito intelletto di Dio nessuna sostanza può essere più perfetta di quella che già esiste nella Natura. 2. Non esistono due sostanze uguali. 3. Una sostanza non può produrre l’altra. 4. Nell’infinito intelletto di Dio non esiste altra sostanza se non quella formalmente esistente nella Natura». Una sostanza non può essere limitata e finita perché avrebbe dovuto o limitare se stessa (se la si concepisce come causa di sé), oppure essere stata limitata dalla sua causa, cioè da Dio. Nessuna delle due ipotesi è possibile perché ciò che è causa di sé è necessariamente infinito nella sua esistenza, e perché Dio, concepito come causa infinita, avrebbe dovuto produrre un effetto limitato o per impotenza o per malevolenza, il che è assurdo. Dunque non si dà sostanza se non infinita. Ma se una sostanza è infinita, non possono esisterne due (diverse) dello stesso genere, poiché l’una limiterebbe l’altra e non sarebbero più infinite. Né una sostanza può essere causa di un’altra, esprimente una diversa essenza, poiché una causa non può dare ciò che non ha. Inoltre non possono darsi nell’infinito intelletto di Dio altre sostanze se non quelle esistenti nella Natura, perché altrimenti si dovrebbe supporre che la potenza di Dio non sia infinita, oppure che la volontà di Dio sia diversa dal suo intelletto e affetta da invidia o cattiveria; infine, se si ammette che una sostanza non possa produrne un’altra e si afferma che non si produce tutto ciò che è nell’intelletto di Dio, ma solo qualcosa, essendo il tutto infinitamente maggiore del qualcosa, dovrebbe esserci un numero infinitamente maggiore di sostanze non esistenti che di sostanze esistenti: il che è assurdo. Se nell’intelletto di Dio non v’è alcuna sostanza infinita nel suo genere, cioè non v’è alcun attributo che non esista realmente nella

Natura, alla Natura compete la stessa definizione di Dio: «Da ciò segue che della Natura viene affermato assolutamente tutto e che la Natura consiste perciò di infiniti attributi, ciascuno dei quali è perfetto nel suo genere: il che concorda perfettamente con la definizione che si dà di Dio». Se della Natura tutto si afferma assolutamente, la Natura non è una creatura di Dio, ma tutto le appartiene come a sostanza infinita ed eterna. In effetti, nella prima parte del secondo capitolo Spinoza argomenta contro il concetto di creazione, dimostrando che l’essere, rigorosamente concepito come assoluto, non solo non può essere più o meno perfetto in se stesso, o essere in una parte di sé trascendente rispetto a sé, ma che esso è il tutto e che tutto, dunque, deve appartenergli. Pertanto non si dà una Natura separata da Dio, né un mondo separato o trascendente Dio stesso, né una sostanza che, essendo tale, possa dirsi anche finita. D’altra parte, se le sostanze sono infinite e ciascuna è infinitamente perfetta nel suo genere, perché non costituiscono esseri separati dalla sostanza divina, come Cartesio aveva pensato, ma sono attributi di un essere infinitamente perfetto, che solo può dirsi sostanza? La prima ragione è che, essendo stato dimostrato che esiste un essere perfetto e infinito, tutto dev’essere concepito come inerente ad esso, poiché, altrimenti, si dovrebbe affermare che ad esso manchi ciò che si concepisce come sussistente fuori di esso. La seconda ragione è che, se esistessero sostanze separate, diverrebbe impossibile concepire l’unità della Natura. In terzo luogo, se l’esistenza dovesse seguire necessariamente dall’essenza di ciascuna sostanza, tale esistenza non potrebbe dirsi infinita, ma finita, essendo limitata dall’esistenza di tutte le altre infinite sostanze. È necessario pertanto concepire ciascuna sostanza come esprimente l’essenza infinita, in suo genere, di un’unica esistenza infinita; dunque, come attributo di una sola sostanza infinita, Natura o Dio. Se la Natura è Dio, poiché l’estensione è un attributo della Natura, si può affermare che l’estensione, considerata non già come quantità divisibile ma come indivisibile, è un attributo di Dio stesso esprimente, insieme al pensiero infinito, uno dei due soli attributi noti all’uomo. La divisibilità inerisce invece ai modi dell’estensione, che da essa dipendono. Spinoza non offre, ora, una definizione formale del modo né

discute la sua costituzione, la possibilità e la forma della sua dipendenza dall’attributo e, mediante l’attributo, dalla Natura o Dio. Tuttavia, nella nota al § 19 afferma che l’estensione, considerata come sostanza o attributo, «è senza e prima di tutti i modi», enunciando senza equivoci la sussistenza della sostanza e la sua anteriorità rispetto ai modi, in conformità al primo assioma dell’appendice geometrica dello stesso Breve trattato e a E1P1. Sull’uso dei termini ‘attributo’ e ‘sostanza’ come equivalenti si può osservare che esso ricorre non solo nel Breve trattato, ma anche nelle prime lettere e nelle prime dieci proposizioni dell’Etica. Si può notare, infine, che nel Breve trattato non è ancora stabilita in modo esplicito e formale la denominazione di sostanza per Dio, come invece avverrà nell’Etica, anche se Dio viene chiamato «essere sostanziale», in rapporto a tutti gli altri attributi, nella nota del cap. 7 della prima parte; inoltre, nel cap. 22 della seconda parte si legge: «Poiché tutta la Natura è solo un’unica sostanza la cui essenza è infinita, tutte le cose sono unite dalla Natura in una sola realtà, cioè Dio». 2.3. Le proprietà di Dio Concludendo il cap. 2, Spinoza avverte che tutto ciò che si riferisce a Dio, oltre al pensiero e all’estensione, non sono attributi che ne facciano conoscere l’essenza, ma solo proprietà o denominazioni estrinseche riferite o alla sua essenza (causa di sé, eterno, unico, immutabile ecc.) o alla sua azione (causa, predestinatore, reggitore di tutte le cose). a) Dio è causa immanente e per natura, cioè libera. Poiché Dio, o la Natura, è l’essere del quale vengono affermati tutti gli attributi, e i modi non esistono né sono concepibili al di fuori o senza gli attributi dai quali dipendono, si può affermare sia che Dio è causa di tutto, sia che Dio è causa immanente, in quanto i suoi effetti non possono cadere fuori di esso. Nulla esiste o è rappresentabile senza o al di fuori del Dio-Natura. Dopo aver dimostrato, nel cap. 2, che nell’intelletto infinito di Dio non v’è nulla che non sia anche nella Natura e con la medesima perfezione, nel cap. 4 Spinoza riprende l’argomento dimostrando che l’agire di Dio non è possibile, ma necessario. Come Dio non può scegliere di fare qualcosa che sia più o meno perfetto, migliore o peggiore, così non può scegliere di fare o non fare. Infatti tutto in Dio è assoluto; e se in esso vi è un’interna determinazione ad agire, non può esservi nulla, allo stesso tempo, che possa impedirla o modificarla. Se

Dio potesse agire o non agire, la sua interna determinazione non sarebbe necessaria e per natura, ma contingente, il che è assurdo: ugualmente assurdo sarebbe supporre che Dio possa iniziare o cessare di agire, poiché questo implicherebbe mutazione. La causalità divina è eterna e non temporale e tutti i suoi effetti devono esserle eternamente immanenti; perciò, contrariamente all’affermazione precedente, non sembra che Dio possa darsi prima o senza i suoi effetti. Qual è, tuttavia, la causa che muove l’agire di Dio? Poiché non può essere né esterna né antecedente, né interna a Dio e accidentale, ma interna e necessaria, essa deve coincidere con la stessa natura di Dio, che consiste in un essere infinito che produce effetti immanenti infiniti. Ne consegue che Dio è causa sommamente necessaria, poiché dovrebbe non essere Dio per poter non agire o per agire diversamente da come agisce; ma, al tempo stesso, non dipendendo che da sé, è anche causa sommamente libera. In Dio, perciò, la somma libertà coincide con la somma necessità. Che l’agire di Dio non sia determinato da altro che dalla sua natura significa anche che Dio non è mosso da una causa efficiente né agisce in vista di un fine, fosse anche il bene stesso. Concepito infatti tale bene come in sé sussistente e trascendentale, costituirebbe un ente da realizzare, al quale l’azione divina sarebbe subordinata. Se Dio è causa necessaria e per natura, non si danno effetti contingenti, che possano o non possano avvenire; ma tutto è assolutamente necessario e necessitato. Sicché tutte le cose e le opere che sono nella Natura sono perfette, sia che si tratti dei modi infiniti degli attributi, che ne esprimono l’essenza (e che Spinoza chiama Natura naturata generale), quali sono il moto e la quiete per l’estensione, l’intelletto per il pensiero, sia che si tratti di modi finiti (Natura naturata particolare), causati dall’unica Natura naturans o Dio, nella quale sono e per mezzo della quale sono concepiti. L’idea del disordine, che sembra dominare ovunque nella Natura – come quella del peccato – dipende, da un lato, dai limiti della conoscenza umana, incapace di conoscere tutte le cause della Natura e, dall’altro, dall’illusione che bene e male siano realtà assolute e non invece relative all’idea di ciò che conviene o non conviene alla propria conservazione o al proprio utile, o al fine che ci si propone come «buono». Tutta la Natura, infatti, possiede una forza

infinita, con la quale provvede alla propria conservazione e a quella di tutti i suoi effetti (provvidenza generale). Ogni parte della Natura, inoltre, in quanto partecipa di quella medesima forza, tende alla propria conservazione (provvidenza particolare) senza avere un’idea adeguata di tutte le forze o impulsi che muovono all’autoconservazione gli altri individui e l’intera Natura: ogni parte, perciò, considera come bene ciò che conviene alla propria conservazione e male ciò che a questa si oppone. Bene e male, peccato ecc., in se stessi considerati, non sono né cose né azioni, ma soltanto enti di ragione. b) Le denominazioni estrinseche dell’essenza divina e le proprietà della vera definizione. Esaminando le proprietà che generalmente vengono riferite a Dio come se fossero suoi attributi costitutivi, nel cap. 7 Spinoza indica la causa di tale errore sia nell’idea inadeguata che i filosofi hanno dell’essere assoluto, sia nel loro falso concetto della definizione, che li induce a ritenere illegittima ogni positiva definizione di Dio. Essi credono, infatti, che una definizione sia legittima quando implichi il genere e la differenza specifica della cosa definita e che Dio, non essendo specie di alcun genere, non possa essere legittimamente definito. Spinoza obietta che se questo vale per la conoscenza di Dio, deve valere anche per la conoscenza di qualunque altra cosa, perché, non potendosi mai conoscere il genere supremo – che non è specie di alcun genere – non potrà neppure essere conosciuto tutto ciò che gli appartiene e dunque non potrà mai essere conosciuto alcunché. Spinoza si limita qui a mostrare la debolezza interna dell’argomento degli avversari, avendo già sostenuto, nel capitolo precedente, che nella Natura non si danno né generi né specie, ma solo enti individuali: generi e specie sono soltanto enti di ragione. La vera definizione delle cose deve perciò seguire la vera distinzione della Natura ed è di due specie: «1. Degli attributi, che appartengono a un essere sostanziale e non hanno bisogno di alcun genere o di qualcosa attraverso cui vengano intesi o chiariti di più; infatti, poiché sono attributi di un essere esistente da se stesso, sono anche conosciuti da se stessi. 2. Di quelle cose che non esistono da se stesse, ma solo mediante gli attributi di cui sono modi e attraverso i quali, come se questi fossero loro genere, devono essere comprese». Ecco dunque delineate le tre figure fondamentali dell’ontologia

spinoziana: la sostanza, concepita come totalità degli attributi, i quali, aveva dichiarato Spinoza, «per meglio e più propriamente dire, sono un essere esistente da se stesso»; gli attributi stessi (o sostanza) che non hanno un’esistenza autonoma e separata da quella della sostanza, ma ne esprimono l’essenza; i modi, che non esistono da sé e in se stessi, ma solo nella sostanza mediante gli attributi, attraverso i quali possono anche essere compresi. Ed ecco posti anche tre problemi fondamentali: la definizione e la dimostrazione del Dio-Natura, inteso come primo essere e primo conoscibile; la relazione tra la sostanza e gli attributi, cioè tra l’unità della sostanza e l’infinità degli attributi che ne esprimono l’essenza; infine la possibile relazione tra gli attributi e i modi; i primi, infatti, dovrebbero essere concepiti senza e prima dei modi e, tuttavia, essendo cause necessarie ed eterne, non potrebbero mai darsi senza o prima dei loro effetti. Come si introduce nell’eterno e nell’immutabile la trama del tempo e della finitezza? Sono alcuni dei problemi che il Breve trattato consegna alla successiva trattazione dell’Etica.

3. Seconda parte: dell’uomo e di ciò che gli appartiene Per comodità di esposizione distingueremo nella seconda parte quattro argomenti principali, raccogliendo sotto ciascuno di essi i testi relativi, che nell’opera, talvolta, sono disposti senza un ordine continuo e sistematico. 3.1. La natura della mente La dottrina relativa alla mente umana è svolta principalmente nella prefazione, nella seconda parte dell’appendice e in due note del cap. 20, testi scritti verosimilmente dopo la prima stesura del trattato. Tale dottrina si può riassumere nei punti seguenti: 1. L’uomo non è una sostanza (dal momento che una sostanza non può essere limitata), ma un modo dei due attributi noti all’uomo, pensiero ed estensione. 2. La mente è un modo del pensiero sostanziale e parte dell’idea infinita che nasce immediatamente da Dio. 3. Poiché pensiero ed estensione sostanziali sono attributi di una sola e identica sostanza assolutamente infinita, ogni atto dell’infinita potenza della sostanza si esprime simultaneamente in tutti gli attributi, costituendosi in ciascuno di essi come una sola e identica cosa sotto forma realmente diversa. 4. La

mente umana è l’idea di un modo dell’estensione, cioè di un corpo attualmente esistente; in altri termini, l’idea è, nell’attributo pensiero, quella stessa determinazione della potenza della sostanza che, nell’attributo estensione, si dà come corpo. 5. Il corpo umano è una proporzione determinata di moto-quiete, modo infinito dell’estensione. 6. L’essenza della mente umana non è costituita né dall’attributo di cui è modo, né dall’oggetto, cioè dal corpo di cui è rappresentazione oggettiva; ma dall’essere idea (cioè modo del pensiero) di un corpo attualmente esistente. 7. Ad ogni mutazione della proporzione di motoquiete da cui il corpo è costituito, corrisponde una mutazione nella mente. 8. Poiché la mutazione nel corpo è prodotta da altri corpi, la mente la percepisce sotto forma di sensazione. 9. Se la mutazione del corpo è tale da distruggere il rapporto determinato di moto-quiete che costituisce un corpo nella sua attuale esistenza, anche la mente viene distrutta. 10. Poiché la mente è parte dell’idea infinita di Dio, può avere un’idea della realtà infinita e può unirsi a Dio, che non muta: in tal modo la mente può rendersi eterna. 11. L’idea, o la mente, è la prima modificazione del pensiero, dalla quale dipendono tutte le altre modificazioni, quali amore, odio, ecc. 3.2. I modi di conoscenza Nei capp. 1-2 Spinoza espone i tre modi con i quali è possibile conoscere: «1. per semplice credenza (che nasce o dall’esperienza o dal sentito dire); 2. per convinzione; 3. per conoscenza chiara e distinta. Il primo modo è generalmente soggetto all’errore; invece il secondo e il terzo, benché differiscano tra loro, non possono errare». Il primo genere di conoscenza, che viene chiamato più diffusamente ‘opinione’ (waan, opinie), comprende in sé i primi due generi del Trattato sull’emendazione dell’intelletto ed è «generalmente» soggetto all’errore perché, per accidens, potrebbe anche non esserlo. Il secondo genere, chiamato ‘convinzione certa’ (waar geloof) o più comunemente ‘ragione’, non è mai soggetto ad errore, a differenza di quanto si affermava nel trattato sul metodo, nel quale, invece, la conoscenza ottenuta in tal modo era detta inadeguata e sempre in procinto di trasformarsi in errore. Ciò che distingue il secondo dal terzo genere di conoscenza è che in quello la certezza si ottiene mediante ragionamenti chiari e distinti che procedono dal più noto al meno noto; in questo, invece, la certezza

nasce immediatamente dall’evidenza della cosa conosciuta. Per quanto concerne le oscillazioni del numero dei modi di conoscenza (talvolta ricorre una quadripartizione) si rinvia alle osservazioni svolte nel capitolo precedente. Prima di procedere oltre è necessario sottolineare che per Spinoza la conoscenza è produttrice di tutte le altre modificazioni della mente, siano esse azioni o passioni: «Dalla prima [forma di conoscenza] provengono tutte le passioni contrarie alla buona ragione; dalla seconda i buoni desideri e dalla terza il vero e puro amore, con tutti i suoi effetti. Perciò, dunque, poniamo la conoscenza come causa prossima di tutte le passioni nella mente». 3.3. Gli affetti L’intento fondamentale della seconda parte, per il cui conseguimento sono state predisposte sia la dottrina della mente sia quella dei generi di conoscenza, è di mostrare quali siano le condizioni nelle quali l’uomo giunge ad un tale stato di perfezione, da non dover temere l’assalto delle cause esterne. Per conseguire tale scopo è necessario instaurare un esame razionale delle passioni e mostrare le condizioni della vera libertà. La dottrina delle passioni può essere sintetizzata nei seguenti punti principali. 1. L’uomo, essendo un modo limitato, non può vivere senza affetti. 2. Se gli affetti esprimono il potere dell’uomo, sono attivi e devono essere coltivati e perfezionati; se invece esprimono il potere delle cause esterne, sono nocivi e devono essere combattuti. 3. Questi sono detti propriamente passioni. Gli affetti o passioni derivano dalla sola conoscenza: se la conoscenza dipende dalle cause esterne (opinione), da essa derivano passioni nocive; se la conoscenza esprime il potere della natura umana (ragione e intelletto) si hanno affetti attivi. 4. Le passioni non derivano dalla volontà, concepita come facoltà autonoma della conoscenza, poiché la volontà, intesa in tal senso, non esiste realmente, essendo un ente di ragione; se per volontà si intendono le singole volizioni, queste non sono altro che le singole idee delle cose e, come queste, non posseggono un’assoluta autonomia, ma dipendono dalle cause esterne, siano esse transeunti, siano esse immutabili. 5. Le passioni non dipendono dall’influsso malefico del diavolo, poiché il diavolo, se è concepito come «altro» da Dio e opposto a lui, si identifica con il nulla; se è concepito come avente un’essenza, benché minima, sarebbe la più

debole delle creature e tale da non avere alcun potere sull’uomo. 6. Le passioni che nascono dall’opinione sono generalmente nocive, cioè non conformi al vero utile dell’uomo e alla sua perfezione, perché, essendo l’opinione soggetta all’influsso delle cause esterne sensibili e mutevoli, le passioni che ne derivano legano l’uomo a beni mutevoli, la cui perdita o il cui mancato conseguimento producono timore e tristezza, con le altre passioni connesse. 7. Il fondamento del bene e del male nelle passioni è l’amore per un oggetto, in relazione alla sua perfezione e stabilità. 8. La ragione può istituire un vero e solido esame delle passioni perché possiede quattro proprietà: mostra ciò che la cosa deve essere; conduce alla conoscenza intellettuale; distingue il bene dal male; distingue il vero dal falso. 9. La ragione distingue il bene dal male formulando un’idea di perfezione umana e giudicando bene ciò che le è conforme, male ciò che le è difforme. Ma poiché la suprema perfezione umana consiste nell’unione con l’essere supremo, dal quale deriva una gioia somma e incorruttibile, bisognerà giudicare buono ciò che favorisce quest’unione, cattivo ciò che l’ostacola; oppure, usando il criterio degli effetti che la perfezione produce, si dovrà giudicare buono ciò che produce la gioia maggiore e più stabile, cattivo ciò che produce tristezza. 10. Nei capp. 3-14 la ragione instaura l’esame delle passioni giudicando il loro bene e il loro male in conformità al criterio supremo di gioia o tristezza che esse producono. 11. La ragione offre, tuttavia, anche il criterio distintivo del vero e del falso e dunque è capace di introdurre saldamente in quell’area della verità nella quale può accendersi la luce dell’intelletto. Seconda proprietà della ragione è infatti condurre alla conoscenza intellettuale. 12. Tuttavia, benché la ragione mostri con certezza bene e male nelle passioni essendo saldamente fondata nella verità, poiché conosce solo ciò che deve essere ma non l’essenza stessa della cosa, non produce l’unione con l’oggetto conosciuto e dunque neppure le passioni attive che siano capaci di contrastare quelle passive derivanti dall’esperienza diretta dell’oggetto. 13. La vittoria sulle passioni potrà essere assicurata solo dall’intelletto che, conoscendo immediatamente un oggetto immutabile, produce un amore superiore a qualunque altro e una gioia immutabile. 3.4. La vera libertà La dottrina della libertà umana dalle passioni, nella quale consiste il supremo bene (welstand), è svolta nei capp. 22-26, in particolare nell’ultimo. Può essere schematicamente riassunta così. 1.

Il principio fondamentale della dottrina della libertà è che non si giunge alla conoscenza intellettuale e all’amore di Dio attraverso il dominio delle passioni; al contrario, si dominano le passioni mediante l’amore di Dio e la vera conoscenza. Questo significa non soltanto che la ragione è insufficiente, da sola, a dominare le passioni, ma anche che la ragione non è in grado di causare la conoscenza intellettuale. 2. La conoscenza intellettuale di Dio è infatti immediata e non si consegue attraverso alcun altro mezzo o segno esterno, che non sia la stessa essenza di Dio; ma poiché la conoscenza di Dio è necessaria per la conoscenza vera di qualunque altra cosa, segue che la conoscenza razionale non è possibile senza un’adeguata conoscenza di Dio. Non si giunge, dunque, alla conoscenza intuitiva mediante quella razionale; ma a una definitiva fondazione di quella razionale mediante la conoscenza intuitiva. Da che cosa dipende che tale conoscenza si abbia oppure no? 3. Bisogna precisare che essa non dipende da un presunto amore di Dio per l’uomo, sia esso originario sia esso di risposta all’amore dell’uomo per Dio. I due termini di tale rapporto sono infatti sproporzionati, poiché Dio può amare solo se stesso. Se si vuole impiegare ancora la nozione di ‘amore’, bisogna intenderla come la legge con la quale la Natura universale conserva se stessa e tutte le sue parti. La libertà umana può dunque essere conseguita solo osservando le leggi divine, cioè le leggi della Natura. 4. Poiché si è visto che ogni passione nociva deriva dall’influsso esercitato da cause esterne, la vera libertà sarà conseguita solo quando si sia ottenuta una stabile difesa dalle affezioni esterne. 5. Ora, l’effetto di una causa interna, o immanente, non può perire finché dura la causa, poiché non può essere distrutto dalle cause esterne, che non hanno con esso nulla in comune. 6. Esiste una causa immanente eterna i cui effetti non possono essere distrutti: se dunque si è uniti a tale causa e si partecipa dei suoi effetti, questi non potranno essere distrutti dalle cause esterne. 7. Si dà un effetto, nell’uomo, che è prodotto immediatamente da Dio ed è unito alla sua causa in modo indissolubile: questo è l’intelletto chiaro e distinto, eterno come la sua causa. 8. Gli effetti dell’intelletto, essendo immanenti alla causa, sono anch’essi stabili, partecipando della stessa eternità della causa, e sono i più eccellenti da ricercare. 9. La libertà, perciò, «è una solida realtà che il nostro intelletto acquista attraverso l’immediata unione con Dio, per poter produrre in se stesso idee, e fuori

di sé opere, ben convenienti con la sua natura, senza, tuttavia, che i suoi effetti siano sottoposti ad alcuna causa esterna, dalla quale possano essere mutati o trasformati» (cap. 26). 1

Si veda C. Gebhardt, Textgestaltung alla edizione del Breve trattato, in Spinoza, Opera, I e anche F. Mignini, Introduzione all’edizione critica del Breve trattato, L’Aquila-Roma 1986. 2 Spinozastudien, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», 108, 1896, pp. 23882. 3 Cfr. Korte Verhandeling van God, de Mensch en deszelvs Welstand, a cura di W. Meijer, Amsterdam 1899, pp. XVI-XVII. 4 Cfr. F. Mignini, Un documento trascurato della revisione spinoziana del «Breve Trattato», «La Cultura», 18, 1980, 2/3, pp. 223-73. 5 L. Meijers Woordenschat, Verdeelt in 1. Bastaardt-woorden. 2. Konst-woorden. 3. Verouderde woorden, Amsterdam 16695. La prima edizione era stata curata da J. Hofman (Nederlandtsche Woordenschat, Amsterdam 1650); le successive furono riviste e ampliate da L. Meyer che, a partire dalla quinta edizione, pubblicò l’opera con il suo nome.

III. «Principi della filosofia di Cescartes» e «riflessioni metafisiche»

1. Notizie sulla composizione dell’opera Nel luglio del 1663, da Voorburg, un sobborgo de L’Aja nel quale si era da poco trasferito, Spinoza scriveva a Henry Oldenburg: Dopo aver traslocato qui la mia suppellettile nel mese di aprile, partii per Amsterdam. Lì alcuni amici mi pregarono di mettere a loro disposizione un trattato, contenente la seconda parte dei Principi di Cartesio, dimostrata con il metodo geometrico, e le questioni principali che si trattano nella Metafisica: cose che, prima d’allora, avevo ‘dettato’ (dictaveram) a un certo giovane, al quale non volevo insegnare apertamente le mie opinioni. Poi mi pregarono di esporre, prima possibile e con lo stesso metodo, anche la prima parte. E io, per non contrariare gli amici, mi accinsi subito a comporla e in due settimane la condussi a termine; la consegnai agli amici, che infine mi pregarono di poter pubblicare il tutto: cosa che poterono ottenere senza difficoltà, a questa condizione, tuttavia, che qualcuno di loro, me presente, ne perfezionasse lo stile e aggiungesse una breve prefazione, nella quale avvertisse i lettori che io non riconoscevo come mio tutto quello che era contenuto nel trattato, avendo scritto in esso non poche cose rispetto a cui penso esattamente il contrario, e mostrasse ciò con uno o due esempi. Un amico, che cura la pubblicazione di questo libretto, mi promise di fare tutto ciò e per questo mi trattenni ad Amsterdam qualche tempo (Ep. 13).

L’amico che si occupò della revisione letteraria del latino spinoziano, cioè Meyer, compilò anche le annotazioni marginali delle Riflessioni metafisiche (come risulta dall’Ep. 12a, nella quale Spinoza comunica il proprio giudizio) e la prefazione, come risulta dall’Ep. 15 di Spinoza: La prefazione, che mi inviasti per mezzo del nostro amico De Vries, ti rinvio per mezzo dello stesso. Ho posto, come vedrai, poche annotazioni, ma ne rimangono alcune che ritenni più opportuno comunicarti per lettera. 1. A pag. 4., dove informi il lettore delle circostanze in cui composi la prima parte, vorrei che o lì, o dove ti piacerà, informassi anche che la composi in due settimane. Con questa avvertenza nessuno penserà che queste cose siano esposte così chiaramente da non poter essere spiegate più chiaramente; e perciò non si offenderanno per una o due paroline che forse qua e là troveranno oscure. 2. Vorrei che avvertissi che dimostro molte cose in modo diverso da come sono state dimostrate da Cartesio, non per correggere Cartesio, ma soltanto per conservare meglio il mio ordine e per non aumentare troppo il numero degli assiomi. E che per questo stesso motivo dimostro molte cose che da Cartesio sono proposte senza alcuna dimostrazione, mentre ne aggiungo altre che Cartesio tralasciò.

Si può ritenere molto verosimile che il «certo giovane» al quale Spinoza «dettò» la seconda parte dei Principi e le Riflessioni metafisiche – non volendo comunicargli apertamente il proprio pensiero – fosse quello stesso Johannes Casearius che si iscrisse alla facoltà teologica di Leida nel 1661 e di cui il De Vries scriveva a Spinoza: «Fortunato, anzi fortunatissimo il tuo coinquilino Casearius, che abita con te sotto lo stesso tetto e può discutere con te a pranzo, a cena e a passeggio delle cose supreme». Ma Spinoza rispondeva: «Non è il caso che invidi Casearius. Nessuno infatti mi è più insopportabile e da nessuno ho cercato di guardarmi più che da lui: per questo vorrei avvertire te e quelli che conosco di non comunicargli le mie opinioni, se non quando sarà giunto a un’età più matura. È ancora troppo ragazzo, poco fermo nelle proprie opinioni, amante più della novità che della verità. Spero tuttavia che tra pochi anni si correggerà di questi difetti giovanili; anzi, per quanto posso giudicare dalla sua indole, ne sono quasi certo. Perciò il suo carattere mi costringe a volergli bene» (Ep. 9). Un’osservazione marginale, ma non trascurabile, sui due testi latino e nederlandese dell’Ep. 13, nella quale Spinoza dichiara di aver «dettato» il trattato a un giovane, può far meglio comprendere il senso di quel dettato, il metodo di lavoro che Spinoza seguiva e il rapporto che egli aveva con le sue opere. Al latino dictaveram corrisponde il nederlandese voorgelezen had, che non significa avevo dettato, ma avevo letto ad alta voce. Poiché il testo nederlandese dell’Ep. 13 contiene un’aggiunta autografa di Spinoza, è del tutto verosimile che, se non fu tradotto da lui stesso, gli fosse tuttavia noto. Come spiegare, allora, la variante? L’ipotesi più probabile è che il trattato non fosse nato come un improvvisato dettato orale rivolto a Casearius, ma che Spinoza lo avesse composto direttamente per iscritto e lo leggesse al discepolo man mano che procedeva nella composizione o una volta giunto alla fine. La redazione more geometrico dei Principi cartesiani, con aggiunte, spostamenti, spiegazioni, richiedeva infatti un’applicazione maggiore di quella che era possibile semplicemente dettando. Inoltre si deve notare che Spinoza portò con sé ad Amsterdam la copia del trattato e non è certamente credibile che portasse la copia del Casearius o che avesse redatto la propria sulla scorta di quella del discepolo. Del resto, se si indagano i motivi più profondi che indussero Spinoza

a elaborare more geometrico una parte dei Principi e le Riflessioni metafisiche prima per il Casearius, poi, completandoli in fretta, per gli amici, si vedrà che le richieste dell’uno e degli altri non furono niente più che occasioni, se non fortunati pretesti, che spinsero Spinoza a pubblicare un’opera alla quale probabilmente già pensava da tempo per ragioni diverse e più sostanziali che quelle di non rifiutare un aiuto al Casearius o di non dispiacere agli amici. Nella stessa Ep. 15, sopra citata, Meyer era invitato a togliere dalla prefazione la polemica contro un non precisato omuncolo, affinché «tutti potessero facilmente convincersi che questo libro viene pubblicato per tutti gli uomini e che tu stesso, curandone l’edizione, sei mosso dal solo desiderio di diffondere la verità e che hai cercato soprattutto di far sì che quest’opuscolo riuscisse gradito a tutti, invitando gli uomini con benevolenza e cortesia allo studio della vera filosofia, preoccupato che sia utile a tutti. Ognuno potrà crederlo facilmente se nessuno verrà leso e se non si proporrà nulla che possa essere di offesa a qualcuno». Se il desiderio di evitare polemiche e controversie da parte di un autore che dichiarava di «avere orrore delle risse» è evidente in questo invito, accolto dal Meyer, da esso traspare anche l’intenzione, da un lato, di promuovere lo studio della vera filosofia, dall’altro di presentare un’opera che, per la chiarezza e l’apoditticità del metodo geometrico, oltre che per l’imparzialità dell’esposizione, potesse essere accolta dai più, contribuendo alla soluzione delle vivaci controversie in atto intorno alla filosofia di Cartesio. Tale intenzione rispondeva a un bisogno molto sentito nello stesso circolo spinoziano, come dimostra l’affermazione esplicita fatta dal Meyer nella prefazione, dove dichiara di aver coltivato egli stesso il progetto di «disporre nell’ordine sintetico ciò che Cartesio aveva presentato nell’ordine analitico e di dimostrarlo con il metodo della geometria ordinaria». Che a quest’ultimo scopo si accompagnasse un ulteriore e più profondo motivo di carattere personale, è dichiarato esplicitamente da Spinoza nell’Ep. 13 a Oldenburg: Ora, finalmente, amabilissimo amico, mi rimane un po’ di tempo per corrispondere con voi e insieme spiegarvi la ragione per la quale permetto di pubblicare questo trattato. In questa occasione si troveranno forse alcuni, che occupano posizioni di rilievo nella mia patria, che vorranno vedere le altre cose che ho scritte e che riconosco come mie e perciò faranno in modo che le possa rendere di comune dominio senza pericolo di inconvenienti. Se questo accadrà, certamente pubblicherò subito qualcosa; altrimenti tacerò, piuttosto che imporre le mie opinioni

agli uomini senza il consenso dei concittadini, rendendoli miei nemici.

Già alla fine del 1661, come si è visto, Spinoza pensava alla pubblicazione di un integrum opusculum sull’origine delle cose e sulla emendatio intellectus, qualora si fosse offerta la possibilità di non incorrere nell’odio dei teologi; nel corso del 1662 aveva redatto more geometrico la prima parte dell’Etica, come risulta dalle Ep. 8 e 9: era comprensibile, dunque, che egli cercasse di creare le condizioni che gli consentissero di pubblicare i propri scritti, esprimenti il suo stesso pensiero, con la garanzia delle supreme autorità del paese. Condizione che egli cercò di procurare con l’esposizione geometrica dei Principi della filosofia di Descartes, sola opera pubblicata durante la vita con il proprio nome, ma che non conseguì lo scopo sperato, nonostante il successo conosciuto nei Paesi Bassi e fuori. Dieci anni dopo, l’Elettore del Palatinato offrì all’autore dei Principi una cattedra di filosofia all’Università di Heidelberg, cortesemente rifiutata in nome della libertà della ricerca filosofica. Forse per le richieste di amici che non conoscevano a sufficienza il latino, tra i quali lo stesso Jelles, che ne aveva sostenuto le spese di pubblicazione; forse per il desiderio di diffonderlo a un pubblico più ampio, il trattato fu tradotto da Balling in nederlandese e pubblicato nel 1664 da Rieuwertsz. L’edizione nederlandese contiene alcune aggiunte ed esplicazioni rispetto a quella latina. Gebhardt giunse a considerarla una «seconda edizione», più che una semplice traduzione. Forse il giudizio è eccessivo, anche se è certo che Spinoza partecipò direttamente alla preparazione dell’edizione nederlandese: «all’opera su Cartesio non ho più pensato, né di essa mi sono più occupato, dopo che uscì in lingua nederlandese», scriverà a Willem van Blyenberg (Ep. 21). Non sappiamo se Spinoza abbia redatto direttamente le aggiunte o si sia limitato a rivedere, oltre alla traduzione, le annotazioni che Balling aveva preparato. In ogni caso, le cure rivolte da Spinoza anche all’edizione nederlandese della sua opera confermano ancora, se ce ne fosse bisogno, l’acuto senso di responsabilità che egli avvertiva per i suoi lavori e rendono estremamente incredibile, per questo solo motivo, l’ipotesi secondo cui Spinoza avrebbe abbandonato nelle mani degli amici, in testi frammentari e incompiuti, il Breve trattato (prima formulazione sistematica del proprio pensiero), senza curarsi della sua redazione

unitaria.

2. Metodo La prefazione di Meyer, rivista e approvata da Spinoza, si apre con un richiamo al metodo migliore da seguire in filosofia nella ricerca della verità: «È parere unanime di tutti coloro che vogliono elevare la propria conoscenza al di sopra del volgo, che il metodo con cui i matematici ricercano ed espongono le scienze, cioè quel metodo con il quale le conclusioni sono dimostrate a partire da definizioni, postulati e assiomi, sia la via migliore e più sicura nella ricerca e nell’insegnamento della verità». Infatti, poiché non si può acquistare una conoscenza sicura delle cose ancora ignote se non traendola da conoscenze certe già possedute, è necessario porre queste ultime a fondamento di tutta la conoscenza. Tali nozioni fondamentali sono costituite dalle definizioni (che sono esplicazioni chiare e distinte dei termini con i quali si designano gli oggetti da trattare), dai postulati e dagli assiomi o nozioni comuni della mente (ossia enunciazioni chiare e distinte a cui nessuno può rifiutare l’assenso, intendendo rettamente il significato dei termini usati). È abbastanza agevole supporre che tale dichiarazione di metodo, auspicato per l’instaurazione di una nuova filosofia e solo parzialmente attuato da Cartesio, non fosse diretta solo e sopra tutto alla giustificazione dell’esposizione geometrica dei Principi, ma anche a predisporre l’accoglienza di quel trattato in tre parti (a cui Spinoza stava lavorando) nel quale, per la prima volta, questioni metafisiche, logiche, psicologiche ed etiche venivano indagate ed esposte esattamente con quel metodo di cui Meyer tesseva l’elogio. Sappiamo che verso la fine del 1662 Spinoza aveva già formulato la prima parte dell’Etica secondo il metodo geometrico, fondato su nozioni comuni e autoevidenti, previa la definizione dei termini usati. Ora, se si considera questa concezione del metodo, fatta propria da Spinoza già nel 1662, e si riflette sulla duplice distinzione della definizione proposta nell’Ep. 9 (verosimilmente del marzo 1663), sembra veramente difficile supporre che nello stesso 1662 (secondo l’ipotesi del Gebhardt) il filosofo avesse anche elaborato quel trattato (Trattato sull’emendazione dell’intelletto), nel quale non solo non v’è alcun cenno alla matematica come modello universale di metodo

scientifico, ma ricorre anche una dottrina della definizione che non prevede affatto quella che, per dirlo con le stesse parole della Ep. 9, «si propone al solo scopo di esame». Il problema della definizione, e dell’evoluzione del pensiero spinoziano al riguardo, merita di essere studiato con attenzione; ma non essendo questa la sede idonea a compiere un tale esame, sarà stato sufficiente averlo segnalato. Meyer ribadisce le notizie già incontrate nelle lettere, precisando che oltre alla seconda parte e alle Riflessioni metafisiche Spinoza aveva dettato anche un frammento della terza parte, e che nella prima parte svolta geometricamente non è esposto tutto ciò che è contenuto nella prima parte cartesiana. Meyer aggiunge che le questioni principali della Metafisica sono tratte dalle Meditazioni di Cartesio allo scopo di svolgere quelle analisi e quelle legittime conclusioni che, procedendo da esse come da principi, Cartesio non aveva tratto. Per assolvere più agevolmente il suo scopo, l’autore ha riprodotto nel trattato, parola per parola, il testo delle Risposte alle seconde obiezioni, svolte da Cartesio geometricamente, discostandosi da esse solo nell’ordine, per renderne più comprensibile e più facile la lettura: in nessun caso per «correggere» Cartesio. Ciò che più preme a Meyer è di avvertire che in tutto quel che segue, ovvero nella prima, nella seconda e nel frammento della terza Parte dei Principi, come nei suoi Pensieri metafisici, il nostro autore ha proposto le pure e semplici tesi di Descartes e le loro dimostrazioni, quali si trovano nei suoi scritti, o quali devono essere dedotte come legittime conseguenze dalle fondamenta gettate da Descartes. Avendo infatti promesso di istruire il suo discepolo nella filosofia cartesiana, egli si è fatto un sacro dovere di non allontanarsi dalle idee di Descartes nemmeno di un’unghia e di non dettare alcunchè che fosse incongruo o contrario ai suoi insegnamenti. Perciò nessuno pensi che egli insegna qui o le proprie dottrine o solo quelle dottrine cartesiane che egli approva. Infatti, sebbene ne giudichi vere alcune, e ammetta di averne aggiunte alcune di sue, se ne trovano tuttavia molte che egli respinge come false, e a proposito delle quali sostiene un’opinione molto diversa.

Di queste ultime Meyer offre due esempi: in primo luogo non si creda che l’Autore condivida ciò che sembra dimostrato con solide ragioni nei Principi, I, P15S e nelle Riflessioni, II, cap. 12, a proposito della volontà libera e della sua distinzione dall’intelletto. Infatti – Meyer non si lascia sfuggire l’occasione per presentare una brevissima sintesi del pensiero spinoziano – l’Autore ritiene che, pur esistendo nella Natura una sostanza pensante, questa non costituisca l’essenza della mente umana, poiché quella sostanza, come la sostanza estesa, è infinita. Il corpo e la mente, invece, sono soltanto determinazioni prodotte dalle

leggi delle sostanze alle quali appartengono e sono talmente uniti da doversi concludere che una mente inizia a esistere nella sostanza pensante non appena un corpo comincia a esistere nella sostanza estesa. Perciò la mente umana non è una sostanza e non conosce liberamente; ma è un pensiero determinato attraverso idee, secondo le leggi della natura pensante. Pertanto la volontà, considerata da Cartesio come libera facoltà di affermare o negare, non si distingue dall’intelletto – o piuttosto dalle singole idee –, poiché non è che una pura finzione, al pari dell’intelletto, della cupidità e delle altre nozioni astratte e generali di cui gli uomini si servono per rappresentare le cose. Presentando con prudenza e senza il loro preciso quadro di riferimento (sostanza, attributo, causalità immanente e per natura, ecc.) temi caratteristici del pensiero spinoziano, Meyer intendeva probabilmente suscitare l’interesse di quei lettori dai quali Spinoza sperava di ottenere protezione, e rivelava la ragione verosimile per cui non fu lo stesso filosofo a comporre la prefazione, come certamente avrebbe potuto: scrivendo in prima persona sarebbe stato direttamente coinvolto in eventuali polemiche; scrivendo per interposta persona e non avendo nulla pubblicato, ne sarebbe stato maggiormente al riparo. Al tempo stesso, i riferimenti del Meyer permettono di supporre che essi si fondassero con grande probabilità sul Breve trattato, essendo verosimile supporre che in quell’epoca la seconda parte dell’Etica non fosse stata ancora composta. Il secondo esempio di divergenza del pensiero spinoziano rispetto a quello di Cartesio concerne l’espressione: «questa o quella cosa supera la comprensione umana» e offre al Meyer l’occasione di annunciare che Spinoza considera solo parziali e insufficienti i principi filosofici esposti da Cartesio e necessario «condurre l’intelletto umano per una via diversa da quella aperta e appianata da Cartesio nell’indagine della verità e nella conoscenza delle cose». Spinoza è dunque presentato da Meyer non già come continuatore o anche superatore della filosofia di Cartesio, ma come un filosofo che ha aperto un’altra via e ha posto altri fondamenti alla costruzione della metafisica. Spinoza non si presenta perciò come un cartesiano, essendo incamminato per altra via; ma neppure come un avversario di Cartesio, di cui stima profondamente l’ingegno e riconosce il contributo dato alla

propagazione della vera filosofia. È per queste ragioni che la sua opera può dirsi diretta a tutti i sinceri indagatori della verità, al di fuori di ogni spirito settario e polemico, per la sola costruzione di una genuina filosofia. Qual è, dunque, il significato e l’importanza che l’opera riveste per la comprensione della filosofia e della storia intellettuale di Spinoza? Benché non abbia lo stesso interesse di opere come il De intellectus emendatione e, ancor più, il Breve trattato, nelle quali viene esposto il pensiero stesso dell’autore, essa conserva una non trascurabile importanza almeno per quattro ragioni: 1. offre un esempio impareggiabile del metodo con il quale Spinoza studiava ed esponeva i testi di un grande filosofo, sul quale in parte si era formato; 2. costituisce la fonte principale di informazioni sulle conoscenze che Spinoza ebbe non solo della filosofia cartesiana, ma anche di quella scolastica; 3. permette di misurare la distanza assunta nei confronti di Cartesio; 4. si presenta come una sorta di introduzione indiretta e, in diversi punti importanti, anche diretta, sebbene quasi cifrata, del suo stesso pensiero. Ma se tali sono i motivi di interesse, urgente è anche la necessità di intraprendere un commentario analitico e sistematico di quest’opera, che, confrontando luogo per luogo il testo spinoziano con i relativi testi cartesiani e scolastici, riesca ad offrire un’immagine più completa e più rigorosa di quella che di quest’opera e del suo autore non sia stato possibile finora costruire. E poiché non è certo questa la sede idonea a svolgere un tale esame, ci limiteremo a esporre brevemente i temi principali del trattato, segnalando in particolare quelli nei quali Spinoza interviene espressamente sul testo cartesiano per migliorarlo e integrarlo, oppure usa una formula espositiva che, senza correggere o tradire Cartesio, lascia piuttosto trasparire il suo stesso pensiero.

3. Gli argomenti 3.1. I Principi La prima parte dei Principi si apre con un’introduzione non geometrica ma analitica, nella quale sono esposte brevemente le ragioni che condussero Cartesio al dubbio universale, la via mediante cui giunse alla scoperta del fondamento di ogni scienza e i mezzi che egli usò per liberarsi da ogni dubbio. A questo riguardo

Spinoza fa due osservazioni che meritano di essere sottolineate, poiché esprimono esigenze della sua stessa filosofia. In primo luogo egli fa notare che la formula: «dubito, penso, dunque sono», non è da considerare come un sillogismo – in tal caso la conclusione (sono) dovrebbe essere meno chiara delle premesse, e queste, pur essendo tra quelle revocate in dubbio, costituirebbero il vero fondamento della conoscenza – ma come un’unica proposizione intuitiva equivalente a questa: io sono pensante. Tuttavia, poiché questo principio supremo della conoscenza certa non può essere fondato rigorosamente finché non viene conosciuta l’origine della natura umana e la sua causa, Cartesio ritiene necessario dimostrare che un Dio esiste e che non è ingannevole. Ciò equivale a confessare che il carattere dell’autoevidenza del vero non è tale se non è fondato o garantito dall’esistenza di un Dio creatore e veritiero. Spinoza aggiunge a questa dimostrazione cartesiana un ulteriore argomento che, pur presentato come sussidiario, ne è invece alternativo. Egli sostiene, cioè, che non sia necessario dimostrare l’esistenza di Dio per essere garantiti della verità dell’idea chiara e distinta dell’io penso o delle verità matematiche, ma che sia sufficiente possedere l’idea chiara e distinta di Dio, nella quale sono implicate necessariamente la sua esistenza e la sua veridicità. Infatti, essendo l’esistenza di Dio implicata e garantita dalla sua idea chiara e distinta, il criterio della chiarezza e distinzione, assunto come principio di verità, è autonomo e assoluto, e libero da una legittimazione teologica. La prospettiva cartesiana è portata dunque alle estreme conseguenze e in parte rovesciata, essendo ora costituito, quale fondamento della conoscenza, non l’io penso, ma l’idea chiara e distinta di Dio. L’autore inizia l’esposizione geometrica vera e propria riproducendo quasi alla lettera le definizioni cartesiane ricorrenti nelle Seconde Risposte redatte geometricamente, seguite da tre assiomi e quattro proposizioni, concernenti la costituzione dell’«io sono» come prima e fondamentale proposizione del pensiero, nei quali viene ripresa in parte l’esposizione dell’introduzione, in parte l’inizio dei Principi cartesiani. Seguono altri sette assiomi tratti dalle stesse Seconde Risposte, e le PP5-8, corrispondenti alle quattro proposizioni geometriche esposte da Cartesio, relative alla dimostrazione dell’esistenza di Dio e alla distinzione reale di mente e corpo. Si può notare in proposito che, nello scolio della P7, Spinoza

dichiara di non sapere cosa voglia dire Cartesio quando utilizza per la sua dimostrazione i due assiomi seguenti: «1. Chi può fare ciò che è maggiore o più difficile, può fare anche ciò che è minore. 2. È cosa maggiore creare o (per l’assioma X) conservare la sostanza piuttosto che gli attributi o proprietà della sostanza». Ciò che Spinoza non può comprendere è l’uso dei termini facile-difficile, che non sono assoluti, ma relativi; sopra tutto egli non può ammettere che ciò che crea il più perfetto possa anche creare, nello stesso tempo, il meno perfetto e che ciò che è causa della sostanza possa anche non essere, immediatamente, causa dei suoi attributi formali o essenziali, che non si distinguono dalla sostanza se non astrattamente. Si vede come l’«incomprensione» spinoziana fosse dovuta non all’uso improprio di semplici termini, ma all’impossibilità di accettare i principi filosofici sui quali quell’uso era fondato. E si vede anche come emergano chiaramente due punti basilari della dottrina esposta nel Breve trattato: la distinzione tra attributo e proprietà, e la teoria della causazione necessaria e per natura, da parte di Dio, di tutto ciò che è «nel suo intelletto», con la stessa perfezione. Si può dunque riconoscere che, almeno in questo punto, proponendo una dimostrazione diversa da quella offerta da Cartesio, Spinoza abbia realmente corretto il suo autore. Nello scolio della P9 (Dio è suprema conoscenza) l’autore sottolinea nel testo cartesiano un tema che sarà centrale nella sua stessa filosofia, ossia la presenza dell’estensione in Dio. Sebbene si debba ammettere che Dio è incorporeo, «tuttavia questo non si deve intendere come se tutte le perfezioni dell’estensione fossero da rimuovere da lui, ma solo in quanto la natura e le proprietà dell’estensione implichino qualche imperfezione». Il che equivale a dire, in aperti e rigorosi termini spinoziani, che a Dio compete l’estensione in quanto sostanza o attributo infinito, mentre non compete se concepita modalmente, cioè divisibile e corruttibile. Seguono quattro proposizioni dedicate alla natura e all’azione di Dio: ogni perfezione, che si trova in Dio, proviene da Dio; non si danno più dèi; tutto quel che esiste è conservato dalla sola forza di Dio; Dio è sommamente verace e in nessun modo ingannatore. Nello scolio della P14 (tutto ciò che percepiamo chiaramente e distintamente è vero) troviamo di nuovo una conclusione, tratta dalla premessa cartesiana, che non tiene più conto dell’opinione

cartesiana intorno alla responsabilità della volontà rispetto all’errore, quando si afferma «che possiamo sempre evitare di cadere in errore e di ingannarci (il che si capirà ancor più chiaramente da quanto segue) purché prendiamo una ferma decisione di non affermare niente, che non percepiamo chiaramente e distintamente, ossia, che non sia dedotto da principi per sé chiari e certi». Del resto, la medesima attitudine si riscontra nella formulazione della proposizione successiva (l’errore non è qualcosa di reale), dove si elimina ogni riferimento alla volontà come causa di errore, che pure appariva nella formula cartesiana. Le PP16-20 riguardano le proprietà di Dio, incorporeo, semplice, immutabile, eterno, preordinatore di tutte le cose. Si può notare, ancora, che nel corollario aggiunto alla dimostrazione della semplicità divina Spinoza afferma l’identità essenziale di intelletto, volontà e potenza divina in un senso che supera certamente le premesse cartesiane ed esprime più propriamente la spinoziana causalità per natura o per essenza. Infine, non si può non sottolineare come nella P20 (Dio ha preordinato ogni cosa da tutta l’eternità) Spinoza trascuri del tutto l’intenzione cartesiana di conciliare la predestinazione divina con il libero arbitrio, ma sottolinei, nel corollario, che Dio è sommamente costante nelle sue opere, dal momento che la sua attività creatrice, necessaria e perfetta, non può subire diminuzioni, eccezioni, sospensioni. È facile avvertire in questo richiamo alla costanza divina un implicito riferimento critico all’impossibilità del miracolo. L’esposizione della seconda parte dei Principi, come pure della terza, riproduce quasi sempre alla lettera, perfino con una certa passività, sebbene nel mutato ordine geometrico, il testo cartesiano. Spinoza formula, all’inizio, una lista di definizioni e di assiomi, tratti alla lettera o dedotti da vari luoghi del testo cartesiano, ai quali fa seguire 37 proposizioni nelle quali tratta della natura dell’estensione e della materia (1-6) oltre che della natura e proprietà del moto (P6S-P37). Sebbene l’Autore non abbia lasciato trasparire nulla del suo pensiero, si può tuttavia ricordare che egli dissentiva su alcuni punti della fisica cartesiana, quali la distinzione reale delle parti della materia (P8S), la creazione della materia o estensione da parte di Dio (essendo l’estensione attributo o essenza di Dio), l’inerzia della materia, poiché Spinoza concepisce l’estensione come costituita, nella sua essenza, da moto e quiete nello

stesso tempo. La terza parte, riguardante il mondo visibile, cioè i principali fenomeni celesti e terrestri della materia sensibile, è interrotta all’inizio, perché, come informa Meyer nella prefazione, l’Autore smise a questo punto il suo insegnamento. 3.2. Le Riflessioni metafisiche Le Riflessioni metafisiche, concernenti questioni principali di ontologia e di teodicea scolastica, esaminate ed esposte alla luce della filosofia cartesiana, sono divise in due parti. Nella prima «vengono spiegate in breve le principali questioni che si incontrano comunemente nella parte generale della metafisica, attorno all’ente e alle sue affezioni». La traduzione nederlandese presenta questa aggiunta: «Lo scopo e l’oggetto di questa parte è di dimostrare che la logica e la filosofia comuni servono solo ad esercitare e a fortificare la memoria, cosicché ricordiamo le cose che ci vengono presentate, attraverso i sensi, casualmente, senza ordine né concatenazione, e dalle quali possiamo essere affetti solo attraverso i sensi; esse non servono invece ad esercitare l’intelletto». Nei sei capitoli che costituiscono la prima parte vengono esaminate le seguenti nozioni: 1. ente reale, ente finto, ente di ragione; 2. essenza, esistenza, idea, potenza; 3. necessità, impossibilità, possibilità, contingenza; 4. durata e tempo; 5. opposizione, ordine ecc.; 6. uno, vero e bene. Gli «autori» ai quali Spinoza si riferisce, per chiarire i punti più oscuri che si incontrano nei loro trattati metafisici, sono gli scolastici Adrian Heereboord, citato esplicitamente nella seconda parte, il maestro di questi Frank Burgersdijck, Christoph Scheibler, Francisco Suarez (forse indirettamente); Spinoza cita anche Tommaso d’Aquino – ma non è facile dire se per conoscenza diretta o mediata – e i filosofi ebrei di cui aveva diretta conoscenza, quali Maimonide e Hasdai Crescas. L’intento del primo capitolo, che dà il tono a tutta la prima parte, è di rifiutare la divisione dell’essere in ente reale ed ente di ragione, esplicitamente formulata da Heereboord; infatti gli enti di ragione non sono idee o rappresentazioni oggettive delle cose, ma modi di pensare che servono solo a ricordare, spiegare o immaginare più facilmente le cose conosciute, come le nozioni di genere, specie, tempo, numero, misura e, in genere, tutte le nozioni che servono a negare. Poiché dunque l’ente di ragione è solo un modo del pensiero (che è bensì reale come tale, ma

non esprime alcuna realtà al di fuori di sé) l’essere reale dovrà dividersi in necessario e possibile. Il primo è Dio; il secondo, la cui essenza implica un’esistenza solo possibile, si distingue in sostanza e modo. Come si vede, Spinoza espone rigorosamente il punto di vista cartesiano e non il proprio pensiero, benché talvolta, come nel § 3 del cap. II, dove afferma che in Dio essenza, esistenza, intelletto e potenza non si distinguono realmente, oltrepassi di certo il limite cartesiano, introducendo un tema tipico della sua stessa filosofia. Nella seconda parte «sono spiegate in breve le principali questioni che si incontrano comunemente nella parte speciale della metafisica riguardo a Dio, ai suoi attributi e alla mente umana». Il testo nederlandese aggiunge: In questa parte l’esistenza di Dio è spiegata in modo completamente diverso da come gli uomini la intendono comunemente, perché essi confondono l’esistenza di Dio con la propria, cosicché essi immaginano Dio simile ad un uomo, e non prestano attenzione all’idea vera di Dio che è in loro, o ignorano del tutto di possederla; ne segue ancora che essi non possono dimostrare l’esistenza di Dio né a priori, attraverso la sua definizione vera, o essenza, né a posteriori, ossia dalla sua idea in quanto essa è in noi, e nemmeno possono concepire questa esistenza. In questa parte ci sforzeremo dunque di far vedere il più chiaramente possibile che l’esistenza di Dio è interamente diversa da quella delle cose create.

Per mostrare tale diversità, in undici capitoli vengono esposte le principali proprietà di Dio: eternità, unità, immensità, immutabilità, semplicità, vita, intelletto, volontà, potenza, creazione, concorso; nel dodicesimo ed ultimo capitolo si tratta della mente umana. Tutti gli attributi di Dio sono divisi in due gruppi, a seconda che essi esprimano la sua essenza attiva (conoscenza, volontà, vita, onnipotenza) o il suo modo di esistere (unità, eternità, necessità, ecc.): divisione cartesiana e non, come si può riconoscere dal Breve trattato, spinoziana. Tuttavia, anche nella seconda parte, nella trattazione della libertà del volere, si può avvertire la tendenza dell’autore o a sottolineare come la determinazione della volontà sia perfettamente comprensibile da parte della ragione, che invece è impotente a spiegare come essa si concili, nello stesso tempo, con il libero arbitrio (cfr. cap. XI); oppure, sottolineando l’identità che lo stesso Cartesio pone tra pensiero e volontà, ad omettere del tutto la distinzione (posta da Cartesio) tra volontà e intelletto. Per concludere, si può forse supporre verosimilmente che con la pubblicazione delle Riflessioni metafisiche Spinoza volesse conseguire uno scopo ulteriore a quelli sopra indicati, attraverso i due fini teorici che in

essi si era proposto: mostrando quale fosse la distinzione tra ente reale ed ente di ragione (distinzione essenziale per la vera filosofia) e ribadendo l’assoluta diversità dell’essere necessario rispetto a quello possibile, egli compiva un’introduzione indiretta, mediante una vera emendatio intellectus, alla sua stessa filosofia, che in quei due presupposti largamente riposa.

IV. «Trattato teologico-politico»

1. Posizione del «Trattato» nella storia intellettuale di Spinoza e del suo tempo Dall’Ep. 8 di Simon De Vries a Spinoza del 24 febbraio 1663 apprendiamo che, in questa data, era già in mano agli amici, intenti a discuterne, una redazione della prima parte dell’Etica; e da una lettera di Spinoza a Bouwmeester, dell’estate 1665 (Ep. 28), sappiamo che il filosofo era ancora impegnato nella stesura, molto più lunga del previsto, della terza (e, nel primitivo progetto, ultima) parte, giunta intorno alla P80. Ora, poiché l’attuale terza parte è costituita da 59 proposizioni seguita da una sezione riassuntiva di definizioni degli affetti, l’attuale quarta parte da 73 proposizioni seguita da un’appendice sintetica, l’attuale quinta parte da 42 proposizioni, si può presumere che nell’estate del 1665 Spinoza non avesse scritto neppure la metà delle ultime tre parti dell’Etica attuale. Inoltre, da una lettera a Oldenburg del settembre-ottobre dello stesso anno, apprendiamo che Spinoza era già impegnato nella stesura del Trattato teologico-politico: Sto ora componendo un trattato sul mio modo di vedere intorno alla Scrittura. A far ciò mi spingono: 1. i pregiudizi dei teologi; so, infatti, che essi costituiscono il massimo ostacolo allo studio della filosofia: mi sforzo dunque di metterli in luce e di liberare la mente dei più prudenti; 2. l’opinione che di me ha il popolo, che non cessa di accusarmi di ateismo, e che sono costretto, per quanto è possibile, a respingere; 3. la libertà di filosofare e di dire ciò che pensiamo: libertà che desidero difendere con ogni mezzo e che qui è impedita in qualunque modo dall’eccessiva autorità dei predicatori e dalla loro insolenza (Ep. 30).

Il Trattato teologico-politico viene pubblicato, anonimo, senza il nome dell’editore e con luogo di edizione falso, nel 1670. Non sappiamo se dal 1665 al 1670 Spinoza fosse interamente occupato, oltre che dal proprio lavoro di ottico, dalla stesura del Trattato o se, contemporaneamente, proseguisse anche nella redazione dell’Etica; sappiamo soltanto, da una

lettera di Oldenburg del 22 luglio 1675 (Ep. 62), che il filosofo avrebbe avuto l’intenzione di dare alle stampe l’Etica, in cinque parti. Tale proposito è confermato nella risposta: Spinoza dichiara di essersi recato ad Amsterdam nell’estate dello stesso anno per curare la stampa dell’opera (Ep. 68). Tuttavia, se si considera, da un lato, l’ampiezza del Trattato teologico-politico e l’impegno richiesto per la sua elaborazione e, dall’altro, che dal 1670 al 1675 Spinoza non attese ad alcun’altra opera, è verosimile supporre che egli avesse dedicato questi anni al completamento e alla revisione dell’Etica. Poiché, in ogni caso, è indiscutibile che tra la prima e parziale redazione dell’Etica (1662-1665) e la sua definitiva composizione in cinque parti si siano inserite la composizione e la pubblicazione del Trattato (come anche della Grammatica della lingua ebraica), la cui meditazione (con le letture e gli studi che essa implicarono) certamente influì, in particolare, sulla definitiva redazione delle ultime tre parti, è necessario premettere l’esposizione del Trattato a quella dell’Etica. Con ciò non si intende affatto sostenere che, componendo il Trattato teologico-politico, Spinoza non avesse già costituito nelle linee essenziali un’ontologia, una dottrina della mente e una dottrina delle passioni; né si intende sostenere che la riflessione intorno ai temi discussi nel Trattato conducesse l’autore a una sorta di crisi metafisica e al rovesciamento della posizione assunta nella prima redazione: troppo scarsa è la conoscenza oggettiva che di questa possediamo per formulare una tale ipotesi, che non sembra sufficientemente suffragata neppure dal confronto con le dottrine del Breve trattato. Ci limitiamo a seguire, nell’esposizione, l’ordine storico nel quale le opere sono state composte, non trascurando di cogliervi quegli elementi, ove se ne diano, che possano testimoniare un’evoluzione concettuale significativa. La situazione dei Paesi Bassi nel 1665 era caratterizzata, nella politica estera, dalla guerra contro l’Inghilterra (di cui si hanno echi nell’epistolario spinoziano); nella politica interna – oltre che da un mai sopito, anche se non sempre aperto, conflitto tra i sostenitori dell’esperienza repubblicana, allora in auge, e il partito degli Orange – da un vivace conflitto religioso tra la Chiesa calvinista, paladina intransigente e intollerante dell’ortodossia, e le numerose sette cristiane liberali o ereticali che, per la tolleranza religiosa esercitata dalle autorità

politiche, erano particolarmente vive e numerose in Olanda. La lotta dei Calvinisti si indirizzava in particolare contro Sociniani, Quaccheri e Mennoniti, tra i quali si contavano alcuni dei più fedeli amici di Spinoza. Contro questi cristiani liberi si assumono sempre più frequentemente provvedimenti di condanna e di restrizione della libertà; ma, sopra tutto, diviene sempre più insistente (e mal sopportato dalle autorità repubblicane) il tentativo di utilizzare il potere politico e civile come strumento materiale o mano armata in difesa della verità e dell’ortodossia calvinista, proclamata dalle autorità religiose. Contro tale tentativo ecclesiastico le autorità repubblicane (in primo luogo il Gran Pensionario Jan De Witt) promuovono o favoriscono un movimento di reazione caratterizzato sopra tutto dalla pubblicazione di importanti scritti politici, nei quali veniva dimostrata e propugnata la supremazia dell’autorità civile su quella religiosa e denunciati i danni dell’intolleranza. Si possono ricordare le opere dei fratelli Pieter e Jan van Hove (De la Court): in particolare, del primo, l’opera intitolata Interest van Holland (di cui due capitoli redatti dallo stesso De Witt) e, probabilmente, con lo pseudonimo Lucius Antistius Constans, il De jure Ecclesiasticorum; inoltre il Munus pastorale di Lambert van Velthuysen e l’opera Philosophia Sacrae Scripturae interpres di Lodewijk Meyer. Il Trattato teologico-politico di Spinoza, fautore dell’esperienza repubblicana, amico di Jan De Witt (che gli aveva fatto attribuire una pensione di 200 fiorini) e di influenti rappresentanti liberali del partito repubblicano, quali Johannes Hudde, Koenraad van Beuningen, Abraham Johan Cuffeler, nasce in questo clima politico e si propone, come appare dall’Ep. 30 a Oldenburg, due scopi principali: denunciare e combattere i pregiudizi dei teologi; difendere in ogni modo la libertà di pensiero e di parola. Il terzo scopo indicato nella lettera, cioè la difesa dell’autore dall’accusa di ateismo, fu tanto poco conseguito che, proprio per questa rinnovata accusa, l’opera fu attaccata violentemente subito dopo la sua pubblicazione fino alla condanna, pronunciata dalle Corti d’Olanda il 19 luglio 1674 anche contro il Philosopia Sacrae Scripturae interpres di Meyer e il Leviathan di Hobbes. L’esperienza repubblicana dei Paesi Bassi si concluse nel 1672 con l’invasione dell’Olanda da parte della Francia e con l’assassinio dei fratelli De Witt. Tuttavia, la violenta polemica e la condanna non impedirono, anzi

favorirono, un’ampia diffusione del Trattato teologico-politico in un notevole numero di edizioni, anonime o mascherate con falsi titoli, non solo in Olanda, ma anche in Germania, Francia e Inghilterra.

2. Dall’«Etica» al «Trattato teologico-politico» Se la situazione sociale e politica dell’Olanda repubblicana intorno alla metà degli anni Sessanta ebbe certamente il suo peso nella decisione spinoziana di intraprendere la stesura di un Trattato teologico-politico, si errerebbe gravemente se non si riconoscessero, nell’indagine stessa che il filosofo veniva svolgendo nell’Etica, le ragioni strutturali che lo indussero ad approfondire due temi, la cui analisi era decisiva per la prosecuzione dell’opera maggiore. Si è visto che nel giugno del 1665 la redazione dell’Etica era giunta intorno alla metà (forse anche oltre) dell’attuale quarta parte, nella quale si esamina, alla luce della ragione, il potere delle passioni e la condizione dell’uomo che ne sia schiavo. Giunto a questo punto e seguendo lo schema generale del Breve trattato, Spinoza doveva ancora affrontare la questione del potere della ragione sulle passioni e discutere la possibilità e le condizioni della libertà umana. Ora, non è affatto difficile né inverosimile supporre che, analizzando la forza delle passioni e dei pregiudizi che le generano, o, se si preferisce, analizzando la forza dell’immaginazione, Spinoza fosse stato indotto a rivolgere un’attenzione particolare a quei pregiudizi o a quelle immaginazioni che possono considerarsi fonte e causa di tutti gli altri. In secondo luogo si può sostenere con certezza, sul fondamento dell’Etica definitiva, che l’autore, dovendo analizzare la possibilità e le condizioni della libertà individuale, avesse compreso che questa sarebbe stata, se non garantita, certamente favorita dalla libertà civile e politica, della quale, dunque, anzitutto, appariva necessario analizzare possibilità e condizioni. Nell’Etica l’analisi della struttura e del potere delle passioni coincide con l’analisi di quella struttura rappresentativa del mondo esterno che, pur attuandosi secondo leggi determinate della natura umana, manifesta sopra tutto l’ordine e il potere delle cause esterne, cioè l’ordine e il potere della fortuna. L’analisi delle passioni conduce dunque Spinoza in pari tempo a indagare la natura e il potere dell’immaginazione e il ruolo della fortuna – cioè delle cause esterne – nella condotta umana e nel

conseguimento della libertà. Non a caso la prefazione del Trattato teologico-politico si apre con una dichiarazione così netta da apparire quasi epigrafica, costituendo, al tempo stesso, il problema generale (proprio dell’Etica) e la chiave di lettura dell’intera ricerca intorno al pregiudizio religioso e alla fondazione della libertà civile e politica: «Se gli uomini potessero governare tutte le loro cose con mente sicura, oppure se la fortuna fosse loro sempre favorevole, non sarebbero mai soggetti a superstizione». Spinoza sa già che tutti gli uomini sono soggetti per natura alla superstizione, poiché tutti sono soggetti alle due passioni che la generano: paura e speranza. Egli sa anche che il pregiudizio religioso o la stessa teologia, considerata come sistema della superstizione, è la fonte principale dell’umana schiavitù mediante l’esaltazione strumentale del timore di una pena eterna e della speranza di un premio eterno. Egli sa già, infine, che il potere della ragione è di gran lunga inferiore a quello della superstizione, che guida e costringe nel suo dominio la maggior parte degli uomini. Ma se questa è la condizione della maggior parte degli uomini, si pone al filosofo il problema della salvezza dei più, accanto a quella dei pochi che riescono a seguire la guida della ragione: in altri termini, si pone il problema della salvezza non già e non solo mediante la ragione, ma mediante l’immaginazione. Ecco dunque le tre esigenze fondamentali, che guidano l’indagine di tutto il trattato. 1. Descrivere e spiegare la natura dell’immaginazione (specialmente religiosa); poiché questa è causa di pregiudizi ma anche struttura necessaria della mente, da un lato si impone di verificare il potere della ragione e della conoscenza adeguate, dall’altro di ricercare se vi sia in essa stessa la possibilità di un uso che permetta di considerarla un’eventuale fonte di «libertà». 2. Poiché l’esercizio della ragione è estremamente difficile per se stesso e la «libertà» conseguita dalla moltitudine mediante una sorta di «immaginazione emendata» è per sua natura estremamente precaria, è necessario ricercare, in pari tempo, le condizioni esterne più idonee all’esercizio della ragione e al conseguimento della vera libertà. Bisogna cioè costituire o difendere, come nell’Olanda repubblicana di quegli anni, una società civile e politica che possa garantire, con la maggior sicurezza possibile, il conseguimento della libertà o il suo esercizio. 3.

Poiché, tuttavia, la costituzione e l’esercizio della libertà in un libero Stato sono minacciati anzitutto dalla superstiziosa arroganza e dallo sfrenato desiderio di potere dei teologi e delle autorità religiose, che vorrebbero asservire a se stesse le autorità civili e politiche, è necessario dimostrare, dopo avere svelato la natura della superstizione e le sue conseguenze, quali sono i fondamenti del diritto e dello Stato, e le condizioni essenziali dell’ordine e della pace. Solo dopo aver compiuto questa indagine si potrà tornare all’esame positivo della libertà umana, cioè alla quinta parte dell’Etica. La quale, dunque, non fu interrotta, nella sua più profonda successione tematica, dalla composizione del Trattato teologico-politico, che, pur assumendo una fisionomia autonoma per la specificità dei temi e l’ampiezza della trattazione, riconduce necessariamente all’Etica, come al suo naturale compimento (quale che sia il giudizio che di questo voglia darsi), chiunque non voglia limitarsi ad una lettura puramente estrinseca e parziale.

3. Prima parte (capp. 1-15): discussione del pregiudizio teologico sul primato della rivelazione rispetto alla conoscenza naturale I due scopi, oltre alla difesa personale dall’accusa di ateismo, che Spinoza nella lettera a Oldenburg dichiarava di voler perseguire – combattere i pregiudizi dei teologi; difendere con ogni mezzo il diritto alla libertà di pensiero e di parola – presiedono contemporaneamente alla costruzione di ambedue le parti in cui il trattato è diviso, sebbene in forma e con funzione diverse. Infatti, discutendo nella prima parte il primo e più profondo pregiudizio teologico intorno al primato della conoscenza rivelata su quella naturale, Spinoza intende dimostrare l’autonomia e la pari dignità della conoscenza naturale, preparando così i mezzi per poter discutere, nella seconda parte, il secondo pregiudizio teologico circa il primato dell’autorità religiosa sull’autorità civile e politica. Nella seconda parte l’autore combatterà tale pregiudizio servendosi di quella conoscenza naturale il cui diritto e la cui autonomia aveva dimostrato nella prima. Potrà perciò delineare sul suo solo fondamento l’origine e la natura della società civile e politica, rivendicando, in pari tempo, il supremo diritto

dell’autorità civile al comando e il supremo diritto della conoscenza naturale all’esercizio della libertà. Si deve notare che l’autore, nella prima parte, non combatte il pregiudizio teologico, come nella seconda, attraverso la pura e semplice conoscenza razionale, opponendo questa a quella rivelata, poiché egli comprendeva bene l’impossibilità, oltre che l’inutilità, di combattere la superstizione (ammesso che la formula «combattere la superstizione» abbia un senso nella filosofia spinoziana) con la sola ragione, non essendo, questo, un mezzo proporzionato. I documenti della rivelazione possono essere accettati come dati di fatto e interpretati secondo la loro natura propria, ma non è possibile alla ragione né fondarli mediante le loro cause prime né respingerli per esse. Spinoza scende perciò sullo stesso terreno teologico, assumendo provvisoriamente la stessa fonte di conoscenza di cui il teologo si serve, per dedurre da essa la dimostrazione della possibilità e dell’autonomia della conoscenza naturale. Come nella seconda parte dell’Etica la possibilità della ragione, considerata come conoscenza adeguata di ciò che è comune a tutti i corpi, è dedotta dalla stessa struttura immaginativa della mente, ora, in modo simile, il filosofo intende dedurre, dal maggior documento letterario costruito dall’immaginazione storica dell’Occidente, la dimostrazione della possibilità della ragione e del suo diritto alla libertà. Ecco, dunque, il criterio metodologico adottato nella prima parte: dedurre tutte le affermazioni dalla Scrittura, interpretandola per mezzo di se stessa e non per mezzo di dottrine estrinseche o di filosofie aliene, siano queste di Platone, Aristotele, Descartes o Spinoza stesso. La Scrittura deve essere interpretata mediante se stessa, per dimostrare che essa non contraddice, ma invita alla conoscenza naturale come al suo più alto compimento. Per raggiungere lo scopo, l’autore esamina prima alcuni temi specifici della Scrittura, per instaurare, quindi, una vera e propria teoria critica dell’esegesi scritturale. Distingueremo, per facilità di esposizione, quattro sezioni interne alla prima parte: 1. esame della natura e dei limiti della rivelazione profetica (capp. 1-2); 2. esame di quattro temi strutturali della Scrittura: l’elezione degli Ebrei, la legge, i riti, i miracoli (capp. 3-6); 3. teoria dell’esegesi biblica (capp. 7-13); 4. natura e diritti della teologia e della filosofia (capp. 14-15).

3.1. L’immaginazione profetica I primi due capitoli, dedicati rispettivamente all’analisi della profezia e dei profeti, sono in realtà un esame della natura, del potere e dei limiti dell’immaginazione. La definizione della profezia, che si può ricavare dalle Scritture, offre sin dall’inizio la possibilità di costruire, in contrappunto, la deduzione della conoscenza razionale: «Profezia o rivelazione è la conoscenza certa di una cosa rivelata da Dio agli uomini». Spinoza osserva subito che, essendo la conoscenza di Dio causa e fonte della conoscenza naturale di tutte le cose, anche quest’ultima può dirsi interpretazione propria e certa della mente e dei decreti di Dio, essendo fondata su principi comuni a tutti gli uomini. I cultori della scienza naturale, tuttavia, non possono dirsi profeti o interpreti di Dio, poiché non si rivolgono ad altri che, non avendo il dono della profezia, debbono accettarne l’insegnamento fidandosi della loro autorità; ma «ciò che essi insegnano può essere appreso e compreso dagli altri uomini con uguale certezza e capacità, e non con la sola fede». Rivendicato dunque il pari diritto della conoscenza naturale a dirsi conoscenza di Dio, Spinoza sottolinea subito anche due differenze: essa non è comune a tutti, non realizzandosi attraverso gli stessi mezzi (cap. 1); non implica lo stesso tipo di certezza (cap. 2). Se si esaminano attentamente le Scritture, si può riconoscere facilmente che tutte le rivelazioni furono rivolte ai profeti o attraverso parole o mediante immagini o con parole e immagini congiuntamente, e in nessun altro modo. La rivelazione profetica si attuava dunque nel solo dominio dell’immaginazione, concepita come capacità di riprodurre o anche di produrre rappresentazioni e interpretazioni di cose esterne considerate come presenti. L’unica eccezione alla legge della rappresentazione profetica di Dio, mediante immagini e parole, è costituita da Cristo, che comunicò con Dio «da mente a mente». Le Scritture, dunque, nella conoscenza che Cristo ebbe di Dio, prefigurarono e dimostrarono quale fosse la vera conoscenza che a tutti gli uomini, per natura, fosse possibile: conoscere Dio non attraverso qualche mezzo esteriore, ma immediatamente e per se stesso. Se la profezia si attua esclusivamente attraverso l’immaginazione, essa non è per sé certa, ma richiede che si accompagni a una sorta di ragionamento, cioè ad una prova esterna. I profeti, dotati rispetto agli altri uomini non

di una conoscenza razionale o intuitiva più perfetta, ma soltanto di un’immaginazione più vivida, non erano certi per la rivelazione che ricevevano, ma chiedevano sempre un segno che la confermasse. La certezza dei profeti riposava solo su tre elementi: 1. sulla forza dell’immaginazione, con la quale producevano rappresentazioni altrettanto vivide di quelle prodotte durante la veglia; 2. sui segni di prova; 3. sull’inclinazione del loro animo alla giustizia e al bene. La loro certezza non era dunque né matematica né intuitiva, non nasceva dall’evidenza della cosa conosciuta, ma era soltanto morale. La rivelazione, avendo per oggetto l’immaginazione, variava a seconda della costituzione fisica del profeta, della sua esperienza di vita e delle opinioni precedentemente professate. La profezia non accresceva mai la scienza del profeta né aveva per oggetto le cose concernenti la sola speculazione: riguardava unicamente la condotta della vita pratica e l’esercizio della giustizia e della carità. Mosè non insegnò come filosofo, ma agì come legislatore, imponendo con la forza della legge semplici norme di vita affinché gli Ebrei, abituati alla schiavitù dell’Egitto, vivessero bene. E poiché essi non sapevano riconoscere né la forza della ragione né quella della sola legge, Mosè li dominò con minacce di pena e con speranze di premi, dominando e coltivando al tempo stesso la loro superstizione. Non si devono perciò ricercare, nei libri dei profeti, né la scienza né la conoscenza universale delle cose naturali e spirituali; ma solo norme di vita pratica, adatte a luoghi, a tempi e a individui determinati, aventi come fine l’esercizio della giustizia e della carità. 3.2. I frutti della ragione e le opere della fortuna (capp. 3-6) I quattro capitoli che seguono tendono ad approfondire e a confermare la separazione tra teologia e filosofia, cioè tra fede e conoscenza naturale, confutando i pregiudizi teologici nati con gli Ebrei e in parte a questi propri, in parte comuni anche ai teologi cristiani, intorno ai motivi di elezione e di primato conseguenti al presunto possesso speciale della profezia, della legge divina, dei riti e dei miracoli. Tutta la sezione è governata teoricamente da un importante excursus proposto all’inizio del terzo capitolo, intorno ai concetti di «direzione divina», «aiuto di Dio interno ed esterno», «elezione divina» e «fortuna». L’uomo, essendo parte della Natura, è soggetto all’ordine fisso e immutabile che la costituisce, cioè alla direzione divina; e poiché ha un’essenza con la quale tende alla

conservazione di sé, tutto ciò che egli può compiere mediante la sua forza e perfezione, cioè mediante la propria cupidità, può chiamarsi aiuto interno di Dio; l’aiuto esterno, invece, è costituito dal complesso delle affezioni che il corpo riceve dagli altri corpi e di cui ha bisogno continuamente per sostenersi e rigenerarsi. Poiché l’essenza dell’uomo non implica l’esistenza, non solo la sua origine e la sua fine, ma anche in gran parte la sua conservazione dipendono dalla direzione di Dio mediante le cause esterne, cioè dalla fortuna: «per fortuna non intendo altro che la direzione di Dio, in quanto dirige le cose umane per mezzo di cause esterne e impreviste». Ora, delle tre cose, alle quali tutto ciò che desideriamo onestamente può ridursi (cioè scienza, virtù, sicurezza e salute del corpo), le prime due dipendono dalla sola natura umana e dal suo potere, cioè dal soccorso interno di Dio; la terza, invece, è riposta principalmente nel corso della fortuna, cioè nella direzione di Dio mediante le cause esterne. Scienza e virtù, dipendendo dalle sole leggi della natura umana, possono essere acquisite e possedute con pari diritto da tutti gli uomini e pertanto nessuna razza, popolo o nazione potrà distinguersi rispetto alla perfezione dell’intelletto e alla forza e serenità dell’animo. Invece, poiché a difendere la sicurezza e la salute del corpo nessun mezzo è più sicuro che fissare la propria sede in una certa regione del mondo e formare una società secondo leggi determinate – ma tutto ciò risiede in gran parte nelle mani della fortuna –, si può affermare che le nazioni «si distinguono tra loro solo in rapporto al tipo di società e alle leggi sotto le quali vivono e sono governate» (p. 83). Perciò Spinoza può affermare che la nazione ebraica fu eletta da Dio tra le altre non per la perfezione della scienza e della virtù, ma solo «riguardo all’ordinamento sociale e alla fortuna con la quale conquistò e mantenne per tanti anni il governo di sé» (p. 83). Invece, «poiché il compito del profeta non fu tanto quello di insegnare le leggi particolari della patria, quanto piuttosto la vera virtù, e di esortare a questa gli uomini, non v’è dubbio che tutte le nazioni abbiano avuto profeti e che il dono profetico non sia stato riservato ai Giudei» (p. 86). Pertanto, né gli Ebrei (o altro popolo) possono vantarsi di essere stati eletti da Dio per il dono profetico, né alcuna religione può considerare se stessa depositaria esclusiva della rivelazione profetica, poiché questo dono, come dimostrano le stesse Scritture, è comune a tutti i popoli e a tutte le

religioni. Mediante la Scrittura si può anche dimostrare che gli Ebrei e i loro profeti, compreso Mosè, non avendo una conoscenza chiara e distinta di Dio e della sua natura, ma immaginandolo come un principe umano, considerarono le rivelazioni che ricevevano non come verità eterne, ma come precetti e disposizioni, e le prescrissero e le osservarono come leggi di Dio: «ne derivò che si immaginasse Dio come rettore, legislatore, re, misericordioso, giusto ecc., benché tutti questi siano attributi della sola natura umana che devono essere del tutto rimossi dalla natura divina» (p. 110). Pertanto gli Ebrei scambiarono per legge di Dio ciò che serviva unicamente all’ottenimento e alla difesa del loro Stato particolare. Se invece avessero conosciuto Dio e la sua natura con mente pura, cioè con la pura conoscenza naturale, avrebbero compreso che in Dio la volontà non si distingue dall’intelletto e che tutto ciò che egli produce è compiuto dalla sola potenza della sua natura, con assoluta necessità. Avrebbero compreso, cioè, che la legge divina coincide con la stessa natura divina e con il suo intelletto e che essa non prescrive all’uomo se non di conoscerlo come sommo bene e di goderne. Pertanto si può affermare che la legge divina naturale: 1. è universale, cioè comune a tutti gli uomini; 2. non esige che si creda nelle narrazioni storiche perché essa è intelligibile unicamente per mezzo della sola natura umana; 3. non esige riti, cioè azioni in sé indifferenti ma considerate buone solo per istituzione o rispetto alla salute; 4. insegna che il suo maggior premio è la legge stessa, cioè conoscere Dio e amarlo con vera libertà, con animo integro e perseverante; mentre la pena è privazione di queste cose. Quelli che pretendono di essere depositari esclusivi della profezia e della legge di Dio ignorano la vera natura di queste cose e ripongono la loro fiducia nei beni della fortuna, cioè nell’aiuto esterno di Dio; né intendono ciò che la stessa Scrittura insegna per bocca di Salomone, «che parlava per virtù del lume naturale», «chiamava l’intelletto umano sorgente della vera vita e faceva consistere l’infelicità unicamente nell’ignoranza» (p. 113). Spinoza può concludere il capitolo quarto affermando che «la Scrittura raccomanda dunque senza riserve il lume e la legge divina naturale», poiché «la felicità e la serenità di colui che coltiva l’intelletto naturale dipendono sopra tutto, anche secondo

Salomone, non dal potere della fortuna (dall’aiuto esterno di Dio), ma dalla propria virtù interiore (dall’aiuto interno di Dio), in quanto, cioè, si conserva sopra tutto con l’essere vigilanti, attivi e accorti» (p. 114). Lo stesso principio vale per i riti del culto religioso, che non giovano affatto alla beatitudine ma riguardano solo la contingente prosperità di un ordinamento civile e la sicurezza dello Stato; infatti, in cambio della loro osservanza, «la Scrittura non promette se non benessere e piaceri materiali, mentre promette la beatitudine solo per la legge divina universale» (p. 125). I riti e la religione furono infatti introdotti da Mosè per governare un popolo incapace di essere guidato dalla ragione e indebolito da una lunghissima schiavitù, affinché obbedisse al comando di uno solo più per devozione che per solo timore: «questo dunque fu lo scopo dell’introduzione dei riti, di indurre gli uomini ad agire esclusivamente secondo l’altrui comando, invece che per propria deliberazione, e a confessare con le azioni e le meditazioni quotidiane di non avere alcun diritto proprio, ma di essere completamente soggetti a un diritto altrui» (p. 132). Così, come i riti dell’Antico Testamento non riguardavano se non lo Stato degli Ebrei e il loro benessere materiale, i riti cristiani furono introdotti come distintivi esteriori della Chiesa universale e in vista dell’integrità sociale: «non come cose che abbiano qualche attinenza alla beatitudine o che rechino in se stesse alcunché di santificante» (p. 132). Poiché i riti e i precetti morali furono imposti in forma di legge da Mosè e dai profeti – incapaci di percepire in forma universale – ad un popolo dominato esclusivamente dall’immaginazione, la fede nelle narrazioni bibliche può essere utile solo a quelli che non possono essere guidati dalla conoscenza naturale, purché si presti attenzione non alla loro lettera ma alla dottrina universale che vogliono insegnare e purché la vita ne venga migliorata. Quanto ai miracoli e alla fede che il volgo ha in essi, Spinoza indica due cause generali: la prima è che la maggior parte degli uomini immagina la potenza di Dio e quella delle cose naturali come numericamente distinte e crede che «fin quando la natura segue il suo corso normale, Dio non agisca e che, per contro, quando Dio agisce, la potenza della natura e le cause naturali rimangano inattive» (p. 150). Infatti il volgo crede di esaltare convenientemente la potenza di Dio solo «immaginando la potenza della natura come da lui sconfitta e soggiogata»

(p. 151). La seconda causa della fede nei miracoli consiste nel desiderio di convincersi e di convincere gli altri che il proprio Dio è il più potente tra tutti gli dei e che l’intera Natura è regolata da lui ad esclusivo vantaggio dell’uomo. Ciò ebbe inizio, «come sembra», presso gli antichi Ebrei e «ciò riuscì tanto gradito agli uomini, che fino ai nostri giorni essi non hanno cessato di immaginare miracoli per farsi credere più degli altri accetti a Dio e causa finale in vista della quale Dio ha creato e continuamente dirige tutte le cose» (p. 151). Spinoza espone in quattro punti la propria teoria critica del miracolo e la fonda sopra tutto sui principi della conoscenza naturale, essendo schiettamente filosofico il tema indagato: «se si possa concedere che in natura accada alcunché che sia contrario alle sue leggi o che non possa da esse derivare» (p. 152). 1. Poiché in Dio volontà, intelletto e natura si identificano ed egli produce ogni cosa in modo necessario e sommamente perfetto, «nulla avviene contro la natura, ma questa, al contrario, procede secondo un ordine eternamente fisso e immutabile» (p. 151). Con il termine miracolo si intende dunque solo «un fatto di cui non si sa spiegare la causa naturale con l’esempio di un’altra cosa consueta, o almeno non sa spiegarla colui che racconta o scrive il miracolo stesso» (p. 153). 2. Poiché la fede nei miracoli implica la possibilità di una sospensione o di una mutazione della conoscenza e della decisione divina, ne consegue che «con i miracoli non possiamo conoscere né l’essenza né l’esistenza di Dio e quindi neppure la sua provvidenza, mentre tutto ciò si percepisce assai meglio dall’ordine fisso e immutabile della natura» (p. 151). 3. La stessa Scrittura, con le nozioni di decreto, volontà e provvidenza di Dio, non intende se non l’ordine della Natura, necessariamente conseguente dalle sue leggi eterne. 4. Un sano metodo di interpretazione della Scrittura, rispetto ai miracoli, esige che si esaminino accuratamente e si interpretino correttamente sia le opinioni degli scrittori o dei narratori – i quali espongono generalmente più le loro opinioni che i fatti avvenuti – sia le locuzioni e gli idiotismi propri della lingua ebraica, per non attribuire alla Scrittura miracoli che gli autori non ebbero mai intenzione di presentare per tali. Se si interpreta correttamente la Scrittura si vedrà, anzi, che «in nessun luogo essa afferma che in natura accada qualcosa che sia contrario alle leggi della natura stessa o che non possa seguire da esse» (p. 167). «Se si interpreta correttamente la Scrittura»: ecco la condizione

che presiede all’analisi spinoziana e il tema dei capitoli che seguono. 3.3. L’interpretazione della Scrittura (capp. 7-13) Dopo aver chiarito con il proprio metodo i pregiudizi concernenti la profezia, la legge, i riti, i miracoli, è giunto il momento di mostrare i fondamenti e i principi di quel metodo: cosa che Spinoza compie nel settimo capitolo, di importanza teoretica primaria per tutta la prima parte. Il principio fondamentale è che «il metodo di interpretazione della Scrittura non differisce dal metodo di interpretazione della Natura, ma concorda in tutto con questo» (p. 186). Perciò, come la conoscenza della Natura va ricavata dalla sola Natura, così la conoscenza «di quasi tutto quanto è contenuto nella Scrittura va ricavata esclusivamente dalla Scrittura stessa» (p. 187), senza contaminarla con le opinioni dell’interprete e senza piegarla ai principi della conoscenza naturale. Ora, poiché la Scrittura non dà le definizioni delle cose di cui narra, è necessario dedurle dalle stesse narrazioni: «onde la regola universale dell’interpretazione della Scrittura è di non attribuire ad essa come suo insegnamento se non ciò che come tale risulta nel modo più evidente possibile dalla sua storia» (p. 188). La storia, o l’indagine sistematica della Scrittura, deve conformarsi a tre regole principali. 1. «Deve contenere la natura e le proprietà della lingua in cui i libri della Scrittura furono scritti e in cui i loro autori erano soliti esprimersi» (p. 188); 2. «deve raccogliere gli enunciati di ciascun libro e ridurli ai punti principali, in modo che così si possano avere sott’occhio tutti quelli che trattano del medesimo argomento; inoltre deve annotare tutti quelli che sono oscuri o ambigui e che sembrano tra loro contrastanti» (p. 188), per dedurne il senso e non per giudicare della loro verità; 3. «infine, tale storia deve raccogliere le notizie relative a tutti i libri profetici di cui abbiamo memoria, e cioè la vita, i costumi e la cultura dell’autore di ciascun libro, chi egli sia stato, in che occasione, in che tempo, per chi, e infine in che lingua abbia scritto. E poi la fortuna di ciascun libro, cioè come sia stato accolto in principio, in quali mani sia caduto e quante siano state le sue varie lezioni, quale Concilio ne abbia decretato l’ammissione tra i Libri Sacri, e infine come siano stati raccolti in un unico corpo tutti i libri già universalmente riconosciuti per sacri» (p. 189). Le difficoltà che si oppongono a questo metodo sono tre: 1. esso

esige una perfetta conoscenza della lingua ebraica: «ma, questa, donde attingerla ormai? Gli antichi cultori della lingua ebraica non hanno trasmesso alla posterità nessuno dei fondamenti né la dottrina di essa; noi, almeno, non ne abbiamo ricevuto alcuno: non un dizionario, non una grammatica, non una retorica» (p. 195); 2. «questo metodo esige la conoscenza di tutte le vicende dei Libri Sacri: che, invece, per la massima parte ignoriamo» (p. 198); 3. infine, alcuni libri non li possediamo nella lingua in cui furono originariamente scritti. Ora, tali difficoltà sono così gravi che «di molti luoghi della Scrittura noi ignoriamo il vero senso o lo diviniamo senza certezza» (p. 200); tuttavia, esse possono impedire di conoscere il pensiero dei profeti solo «nelle cose incomprensibili e che possiamo soltanto immaginare, ma non in quelle che possiamo perseguire con l’intelletto, e di cui possiamo facilmente formarci un chiaro concetto. Infatti, le cose che sono percepite facilmente per la loro natura non si possono mai dire in modo così oscuro da non poter essere facilmente comprese» (p. 200). E poiché i precetti della vera pietà e le cose utili alla beatitudine si esprimono con parole molto comuni e facili da comprendere, ne consegue che possiamo raggiungere con certezza il pensiero della Scrittura intorno a tali cose e non dobbiamo preoccuparci delle altre, «che per lo più non possiamo comprendere con la ragione e con l’intelletto», perché sono «più oggetto di curiosità che fonte di utilità» (p. 201). I capitoli 8-10 sono dedicati all’esame specifico dei libri dell’Antico Testamento, per mostrare che il Pentateuco e i libri di Giosuè, dei Giudici, di Ruth, di Samuele e dei Re non sono autografi, ma sono stati scritti tutti da uno stesso storico, probabilmente Esdra, che tuttavia non diede ad essi l’ultima mano. Quindi l’autore svolge un esame particolare di tutti gli altri libri dell’Antico Testamento, rispetto alla loro autenticità, all’autore e alla datazione, per concludere che essi furono inclusi in un canone per l’esclusiva decisione dei Farisei del secondo tempio, dopo l’epoca dei Maccabei. Perciò «coloro che vogliono dimostrare l’autorità della Sacra Scrittura sono tenuti a provare l’autorità di ciascun libro, e non basta dimostrare la divinità di uno di essi per estenderla poi a tutti gli altri: altrimenti bisognerebbe ammettere che il consiglio dei Farisei non ha potuto commettere errori in questa scelta dei libri, cosa che invece nessuno potrà mai dimostrare» (p. 295).

Nel capitolo 11 Spinoza sostiene che gli apostoli scrissero le loro lettere non in qualità di profeti, ma di dottori, poiché ovunque proposero i loro insegnamenti – rivolti a tutti gli uomini e non solo ad alcuni – mediante l’ausilio della ragione naturale: essi trasmisero essenzialmente precetti morali accessibili alla ragione, e li spiegarono adattandoli agli interlocutori, su diversi fondamenti, a seconda che fossero loro più noti ed accetti. Da qui «derivarono le molteplici divergenze e gli scismi, dai quali la Chiesa fu continuamente travagliata fin dai tempi degli apostoli, e dai quali sarà certamente travagliata in eterno, se infine non avverrà che la religione si separi dalle speculazioni filosofiche e si riconduca a quei pochissimi e semplicissimi dogmi che Cristo insegnò ai suoi discepoli» (p. 316). Dopo aver dimostrato, nel capitolo 12, che la Scrittura si dice «sacra» e «parola di Dio» solo in quanto e finché suscita negli uomini la vera religione, il cui supremo principio è di amare Dio sopra ogni cosa e il prossimo come se stessi – e in quanto tale essa è rimasta incorrotta –, nel capitolo 13 l’autore dimostra «che la Scrittura non insegna se non cose semplicissime e che non ha altro scopo che l’obbedienza; né della divina Natura insegna più di quanto gli uomini possano imitare con un determinato tenore di vita» (p. 333). Infatti, poiché lo scopo della Scrittura non è di insegnare le scienze né di trasmettere una conoscenza intellettuale di Dio, ma solo la sapienza della giustizia e della carità divine, la Scrittura non chiede altro che l’obbedienza a Dio mediante l’amore del prossimo. Essa chiede, pertanto, che si giudichino gli uomini non dalle loro opinioni, ma dalle loro opere. 3.4. Teologia e filosofia (capp. 14-15) Poiché lo scopo della Scrittura è di insegnare l’obbedienza, la fede non è altro che una nozione di Dio, ignorata la quale, l’obbedienza è tolta; e posta l’obbedienza, anche quella nozione è posta. Ne segue: «1. La fede è salutare, non per sé, ma solo in rapporto all’obbedienza; [...] 2. colui che è veramente obbediente ha necessariamente una fede vera e salutare [...]; 3. la fede non esige tanto dogmi di verità, quanto dogmi di pietà, cioè tali che muovano l’animo all’obbedienza» (pp. 346-47). Pertanto tutti i dogmi della fede universale, che Spinoza elenca, possono ridursi solo a questo: «esiste un Ente supremo, che ama la giustizia e la carità e al quale tutti, per essere salvi, devono obbedire e che tutti devono adorare con il culto della

giustizia e della carità verso il prossimo» (p. 349). Ora, poiché fondamento della fede «sono i racconti e la lingua» e il suo scopo è soltanto l’obbedienza e la pietà, la fede o teologia non ha alcun rapporto né affinità con la filosofia, il cui fondamento sono le nozioni comuni e il lume naturale della ragione, e il cui solo scopo è la verità. Così Spinoza può concludere, nel capitolo 15, che né la teologia è ancella della filosofia, come pretese Maimonide, né la filosofia è ancella della teologia, come volle Giuda Alpakhar, la cui teoria viene discussa e respinta. Per concludere tutta la prima parte del trattato, Spinoza espone le ragioni del proprio convincimento intorno al valore pratico della Scrittura, rispondendo all’obiezione: poiché non possiamo dimostrare con la ragione (altrimenti la teologia diverrebbe parte della filosofia) se il principio fondamentale della teologia – secondo cui gli uomini si possono salvare con la sola obbedienza – sia vero o falso, perché lo crediamo? Spinoza risponde che la certezza intorno a questo principio non è matematica, ma solo morale, pari a quella che ne ebbero i profeti, ai quali quel principio non fu rivelato. Tale certezza riposa sostanzialmente su due considerazioni: 1. l’insegnamento della Scrittura, in particolare dei profeti, è conforme alla ragione in quanto impone agli uomini, mediante l’obbedienza, l’esercizio della giustizia e della carità. Dunque, benché non possiamo sapere con certezza matematica se l’obbedienza conduca alla salvezza, possiamo tuttavia esser certi che ciò che l’obbedienza prescrive è conforme alla ragione. 2. Sarebbe stoltezza «ostinarsi a respingere, solo perché non se ne può dare una dimostrazione matematica, ciò che è confermato dalla testimonianza di tanti profeti, e da cui deriva un grande sollievo a coloro che non sono così abili nell’uso della ragione, e da cui proviene un non piccolo giovamento alla società, e che può essere accettato senza alcun rischio o pericolo: quasi che, nell’ordinare saggiamente la nostra vita, non ammettiamo come vero nulla che non possa essere revocato in dubbio da una qualche ragione di dubbio, o che la maggior parte delle nostre azioni non sia del tutto incerta e piena di rischio» (p. 367). Spinoza pertanto conclude affermando l’utilità e la necessità della Scrittura, che «ha recato un grandissimo sollievo ai mortali». «Tutti indistintamente, infatti, sono in grado di esercitare l’obbedienza, mentre sono pochissimi,

in confronto alla totalità del genere umano, coloro che acquistano l’abito della virtù dietro la guida della sola ragione; e perciò, se ci mancasse questa testimonianza della Scrittura, avremmo ragione di dubitare della salvezza di quasi tutti» (p. 369). Conclusione, questa, di grande importanza per l’interpretazione della filosofia di Spinoza, che non si mancherà di richiamare e di discutere brevemente nell’esposizione dell’Etica.

4. Seconda parte (capp. 16-20) Due sono gli scopi teorici e pratici che Spinoza ora si propone: dimostrare, sul fondamento di una teoria del diritto e dello Stato, che l’autorità civile ha il diritto di legiferare anche in materia religiosa, per quanto concerne i riti e il culto esterno, contro l’arroganza e l’avidità dei teologi e del clero; difendere il diritto di ciascuno alla libertà di pensiero e di espressione, dimostrando che questo non solo può essere concesso in un libero Stato mantenendone salve la pietà e la sicurezza, ma che esso non può essere tolto senza togliere, nello stesso tempo, la pietà e la sicurezza dello Stato. 4.1. I lineamenti di una teoria del diritto (capp. 16-17) Possiamo sintetizzare schematicamente i punti principali della dottrina spinoziana del diritto come segue: 1. Per diritto naturale s’intende il potere inerente a ciascun individuo, in quanto sia determinato dalla sua natura, cioè dalla perfezione della sua essenza, a esistere e a operare in modo certo e necessario. 2. Perciò «ciascun individuo ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere: ossia, il diritto di ciascuno si estende fin là dove si estende la sua determinata potenza» (p. 377), sia egli guidato dalla ragione sia egli guidato solo dall’istinto e dalla cupiditas. 3. Questo diritto è fondato sul supremo diritto, che ogni ente possiede, di conservare se stesso e di cercare il proprio utile. 4. Poiché gli uomini, vivendo sotto il solo diritto naturale, cioè «in mezzo alle inimicizie, agli odi, all’ira e agli inganni» (p. 379), non potevano vivere con sicurezza e senza timore, «costretti dalla necessità e consigliati dalla ragione» decisero di rinunciare ciascuno al proprio diritto su tutto, per esercitare collettivamente il medesimo diritto su tutto. 5. Infatti è legge universale della natura umana che ciascuno scelga, tra due mali, quello che sembra minore; tra due beni,

quello che sembra maggiore. 6. Perciò il patto che gli uomini stringono tra loro «non può avere alcuna forza se non in ragione dell’utilità, tolta la quale il patto stesso viene contemporaneamente annullato e resta distrutto» (p. 381); pertanto è necessario costituire la società in modo tale che, non essendo la maggior parte degli uomini guidata dalla ragione, dalla violazione del patto derivi più danno che utilità. 7. Possiede il supremo diritto chi ha il potere di costringere tutti, con qualunque mezzo, all’osservanza del patto e alla obbedienza degli ordini; conserverà tale diritto finché avrà la potenza di fare ciò che vuole. 8. Quando il diritto di ciascuno è trasferito all’intera collettività ed è «l’unione di tutti gli uomini, che ha collegialmente pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere», tale diritto dell’intera società si chiama «democrazia» (p. 382). 9. Il governo democratico sembra essere il più naturale e il più conforme alla libertà che la Natura consente a ciascuno, perché in esso «nessuno trasferisce ad altri il proprio naturale diritto in modo così definitivo da non essere poi più consultato; ma lo deferisce alla maggior parte dell’intera società, di cui è membro, e per questo motivo tutti continuano ad essere uguali come erano nel precedente stato di natura» (pp. 384-85). 10. Il diritto civile privato consiste nella «libertà di ciascuno di conservarsi nel proprio stato, che viene determinata dagli editti della somma potestà e che soltanto dall’autorità di questa è garantita» (p. 385). 11. Nessuno può mai trasferire ad altri il proprio potere e, di conseguenza, il proprio diritto, fino a spogliarsi completamente di ciò che appartiene alle leggi dell’umana natura, o fino al punto di cessare di essere uomo. E pertanto non si darà mai un potere così assoluto che possa fare tutto ciò che vuole. 12. Come nessuno, per diritto naturale, è vincolato al diritto divino – che non conosce se non per rivelazione, e al quale sarebbe soggetto solo dopo aver trasferito a Dio, con un patto, tutto il proprio diritto –, così la suprema autorità, conservando il medesimo diritto degli individui, non è subordinata ad alcun altro giudice o mortale considerato come vindice del diritto divino: «a meno che non si tratti di un profeta, che dia prove inequivocabili di essere stato espressamente inviato da Dio» (p. 389). 13. Poiché in fatto di religione gli uomini professano le opinioni più diverse, se i decreti della suprema autorità fossero giudicati e rispettati in conformità alla fede o alla superstizione di ognuno, l’ordine e la sicurezza

dello Stato ne verrebbero irrimediabilmente compromessi. Pertanto, «alla suprema autorità, alla quale sola spetta di conservare e tutelare i diritti dello Stato, sia per diritto divino sia per diritto naturale, compete il sommo potere di stabilire intorno alla religione tutto ciò che crede, e tutti sono tenuti, per la lealtà che ad essa hanno promessa e che Dio vuole assolutamente mantenuta, ad osservare i decreti e i mandati da essa emanati in tal materia» (p. 390). 4.2. Il diritto di legiferare e di giudicare conferito all’autorità religiosa e l’elezione di un monarca da parte di un popolo non abituato a vivere sotto un re, sono esiziali per lo Stato (capp. 18-19) Dall’esame della costituzione civile e della storia dello Stato ebraico Spinoza ricava, nel cap. 18, le seguenti osservazioni: 1. nella religione non sorsero sette, se non dopo che i pontefici ebbero acquistata l’autorità di legiferare e di trattare gli affari civili, usurpati i diritti sovrani e preteso il titolo di re; 2. i profeti, che erano cittadini privati, «con la loro libertà di ammonire, rimproverare e riprovare, irritavano gli uomini, più che correggerli» (p. 450); 3. finché durò il governo popolare scoppiò una sola guerra civile e si ebbero lunghi periodi di pace assoluta; dopo l’avvento dei re, «il cui animo è costantemente gonfio d’orgoglio», le guerre civili furono interminabili e non vi fu re, ad eccezione del solo Salomone, che non intraprese guerre, non già per la pace e la libertà dello Stato, ma per il prestigio. L’autore conclude, da ciò, l’estrema pericolosità, per la religione e per lo Stato, sia di concedere ai ministri del culto il diritto di legiferare e amministrare le cose civili, sia di sottoporre al diritto divino le questioni speculative, istituendo leggi intorno alle opinioni; sia, infine, per un popolo che abbia già delle leggi e non sia abituato a vivere sotto un re, di eleggersi un monarca. La storia dello Stato ebraico insegna dunque la necessità, sia per lo Stato, sia per la religione, «di riconoscere alla suprema potestà il diritto di giudicare intorno a ciò che è lecito e illecito» (p. 453). Nel cap. 19 Spinoza offre invece due dimostrazioni razionali della tesi secondo cui «il diritto circa gli affari ecclesiastici appartiene interamente alle sovrane potestà e l’esercizio esterno del culto religioso si deve adeguare alla pace della Repubblica, se si vuole rettamente obbedire a Dio» (p. 461). In primo luogo, poiché la religione consiste nell’esercizio della giustizia e della carità, e le nozioni di giustizia,

ingiustizia e carità nascono solo con l’istituzione del patto sociale e con la costituzione di una suprema autorità, segue che giustizia e carità – e dunque la stessa religione – ricevono forza di legge dal solo decreto di coloro che hanno il diritto di governare e che «Dio non ha sugli uomini alcun regno particolare, se non mediante coloro che reggono il governo» (p. 460). Inoltre, poiché la pietà verso la patria è la più alta che un cittadino possa esercitare, e la salute e la sicurezza dello Stato sono la legge suprema alla quale devono conformarsi tutte le altre, sia umane sia divine; e poiché nessun privato può conoscere ciò che è utile allo Stato se non dai decreti della somma autorità, segue che nessuno può esercitare veramente la pietà e obbedire a Dio se non obbedendo a tutti i decreti della suprema potestà. Del resto, se si consentisse alle autorità religiose, che hanno un grande potere sulle coscienze, di decidere ciò che è pio o empio, utile o dannoso, si costituirebbe un potere nel potere, si distruggerebbe l’unità dello Stato e si aprirebbe la via all’usurpazione. 4.3. «Si dimostra che in una libera Repubblica è lecito a chiunque di pensare quello che vuole e dire quello che pensa» (cap. 20) Il principio fondamentale che presiede a tale dimostrazione è che il diritto naturale individuale non è mai del tutto alienabile alla suprema autorità e che tra i diritti inalienabili, cioè tali che, se tolti, si toglie la stessa natura umana, ve ne sono almeno due: pensare e giudicare secondo il proprio modo di sentire; esprimere quello che si pensa. Tuttavia, poiché con i pensieri e sopra tutto con le parole si può ledere la pubblica utilità, si devono anche stabilire i limiti della libertà che a ciascuno può e deve essere concessa. Ora, essendo il fine ultimo dello Stato la libertà di tutti i cittadini dal timore, dalle contese e dagli odii inerenti all’esercizio del diritto naturale, la libertà e il perfezionamento individuale sono tanto maggiori, quanto maggiori sono l’ordine e la sicurezza dello Stato; e poiché per garantire quest’ultima non è necessario se non che ciascuno rinunci al diritto di agire contro il decreto delle sovrane potestà, «è lecito comunque a ciascuno, senza lederne il diritto, pensare e giudicare, e quindi anche parlare, contro il loro decreto, purché parli o insegni soltanto» (p. 483). Il secondo limite che si impone alla libertà di pensare e di parlare è che non si professino idee dalle quali derivi immediatamente la scissione del patto sociale. A queste due condizioni

può e dev’essere riconosciuto a ciascuno il diritto naturale di pensare e di dire liberamente ciò che pensa, per la stessa sicurezza dello Stato e della religione. Infatti, se si pretendesse di sopprimere mediante la legge ciò che non è sopprimibile per diritto di natura, ne seguirebbero immediatamente: 1. la slealtà nei confronti dello Stato (poiché ognuno non può impedirsi di pensare ciò che pensa); 2. l’opposizione degli spiriti più liberi e più onesti; 3. un numero interminabile di scismi e di controversie nella Chiesa, se i magistrati pretendessero di dirimere con le leggi le opinioni; 4. un decadimento generale delle scienze e delle arti, che «possono essere coltivate con successo solo da coloro che hanno il giudizio libero e per nulla prevenuto» (p. 485). «Concludiamo pertanto [...] che non v’è nulla di più sicuro per lo Stato del fatto che la pietà e la religione consistano esclusivamente nell’esercizio della giustizia e della carità e che il diritto delle supreme potestà, sia in materia religiosa sia in materia civile, venga limitato alle azioni e che peraltro sia consentito a ciascun cittadino non solo di pensare quello che vuole, ma anche di dire quello che pensa» (p. 490).

V. «Etica»

Dopo aver tentato di pubblicare l’Etica nell’estate del 1675, Spinoza sospese il progetto in attesa di tempi migliori (Ep. 65); ma, sopravvenuta la morte nel febbraio del 1677, la sua «Filosofia» vide la luce nelle Opere postume alla fine dello stesso anno, in latino e in nederlandese, con le sole iniziali dell’autore, che aveva chiesto espressamente, poco prima di morire, di non apporre il suo nome sull’Etica. E ciò, affermano gli Editori, perché volle essere coerente con quanto aveva scritto, nel cap. 25 dell’Appendice alla quarta parte, sull’uomo modesto, il quale, se vorrà «aiutare gli altri col consiglio o col fatto per godere insieme del sommo bene, si preoccuperà anzitutto di conciliarsi il loro Amore, e non di suscitare la loro ammirazione affinché una dottrina porti il suo nome, né, in generale, di dare alcun motivo di invidia». L’Etica è esposta e dimostrata con ordine geometrico, ossia seguendo quel metodo che Meyer aveva elogiato nella prefazione dei Principi della filosofia di Cartesio come il più idoneo all’invenzione delle verità sconosciute e all’esposizione di quelle trovate. Esso, infatti, procede da definizioni, assiomi e postulati alla dimostrazione delle proposizioni che si vuole indagare. Ora converrà ricordare soltanto che, mentre gli assiomi sono verità note per sé ed eterne, tali dunque che devono essere concepite sotto l’aspetto della verità, le definizioni, come Spinoza insegna nell’Ep. 9, possono essere di due specie: o riguardano l’essenza di una cosa realmente esistente, oggetto di incertezza; oppure spiegano una cosa quale è o può essere concepita «al solo scopo di esame». Il primo genere di definizione, per essere vero, deve spiegare la cosa definita quale è fuori dell’intelletto; il secondo, invece, per essere vero, ha bisogno soltanto di poter essere concepito senza contraddizione: da questo si potranno trarre le dimostrazioni volute, purché i termini definiti vengano sempre assunti nello stesso senso. Sono queste seconde le

definizioni di cui Spinoza si serve nell’Etica. L’opera è divisa in cinque parti, nelle quali si tratta: 1. di Dio; 2. della natura e dell’origine della mente; 3. dell’origine e della natura degli affetti; 4. della schiavitù umana, ossia della forza degli affetti; 5. della potenza dell’intelletto, ossia della libertà umana.

1. Prima parte: Dio La prima parte dell’Etica concerne lo stesso argomento della prima parte del Breve trattato e, come questa, è priva di prefazione; a differenza di questa, che non è scritta ordine geometrico, essa si apre invece con otto definizioni, che sarà utile citare per intero e commentare brevemente, perché costituiscono il contesto concettuale essenziale non solo alla prima parte, ma a tutta la struttura dell’Etica. Def. 1. «Intendo per causa di sé ciò la cui essenza implica l’esistenza; ossia ciò la cui natura non si può concepire se non esistente». Poiché per Spinoza «appartiene all’essenza (o natura) di una cosa ciò senza di cui la cosa non può né esistere né essere concepita; ma anche, reciprocamente, ciò che senza la cosa non può esistere né essere concepito» (E, II, Def. 2), se l’essenza della causa sui implica l’esistenza, ciò che è causa di sé è necessariamente ed eternamente esistente; perciò, costituendo tale esistenza in modo immediato e compiuto l’essenza della causa sui, la distinzione tra essenza ed esistenza non appartiene alla struttura di ciò che è causa di sé. Tale distinzione è invece estrinsecamente introdotta nella definizione della causa sui da un intelletto strutturalmente costituito dall’idea della distinzione tra essenza ed esistenza, e tale che non possa esprimere l’indistinzione se non per mezzo di negazione. La peculiarità e l’importanza della definizione spinoziana della causa sui, che precede le definizioni della sostanza e di Dio, possono essere riconosciute adeguatamente se si ricorda che la definizione deve esprimere l’essenza della cosa definita e non le proprietà che possono essere dedotte dalla stessa essenza. Separando la definizione della causa sui dalle definizioni della sostanza (e di Dio), Spinoza non considera la causa sui come «essenza» della sostanza (e di Dio, come avveniva in Cartesio), ma, semplicemente, come sua proprietà. E che la causa sui sia soltanto

proprietà della sostanza significa che questa non esiste in quanto sia causa sui, cioè in quanto la sua potenza preceda o implichi la sua essenza; ma che alla sostanza appartiene di essere anzitutto causa sui in quanto esiste in sé ed è concepibile per sé, cioè in quanto la sua potenza segua dalla sua essenza o s’identifichi con questa. Def. 2. «Si dice ‘finita nel suo genere’ quella cosa che può essere limitata da un’altra della medesima natura. Per esempio, un corpo è detto finito perché ne concepiamo un altro sempre più grande. Così un pensiero è limitato da un altro pensiero. Ma un corpo non è limitato da un pensiero né un pensiero da un corpo». La nozione di genere non indica una realtà ontologica assunta in senso aristotelico o scolastico, poiché per Spinoza essa è solo un ente di ragione, incapace di esprimere differenze essenziali costituite unicamente dagli attributi. «Nel suo genere» indica perciò solo il punto di vista rispetto a cui qualcosa viene assunto: se si afferma, pertanto, che il corpo è finito nel suo genere, ciò vuol dire che il corpo è finito solo rispetto al corpo o in quanto è corpo, e non rispetto ad altra cosa, di natura diversa. Esser finito vuol dire semplicemente poter essere limitato da altro, in quanto si assuma che sia possibile una divisibilità infinita all’interno di ciascun «genere». Ma ciò implica anche un’infinità «nel suo genere», come si vedrà nella Def. 6, che, essendo il principio di quella divisibilità o discorsività infinita, deve essere in sé indivisibile. Def. 3. «Intendo per sostanza ciò che è in sé e si concepisce per sé: vale a dire ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa dal quale debba essere formato». Che la sostanza sia in sé vuol dire che essa ha in sé e non in altro la causa della propria esistenza: essa è dunque causa di sé, perché la sua essenza implica l’esistenza. Poiché la sostanza esiste solo da sé e in sé – dunque è eterna e immutabile –, non è concepita mediante il concetto di un’altra sostanza, ma è concepita per sé. Essendo in sé e non avendo relazione con altra sostanza, non può esser causa di altra sostanza e, mediante il suo concetto, non è concepibile altra sostanza. Si osservi, tuttavia, in relazione alla successiva definizione di attributo, in che senso si dica che la sostanza è concepita per sé. Def. 4. «Intendo per attributo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza».

Se costituisce l’essenza della sostanza, l’attributo esiste nella sostanza e non è distinguibile, realmente, dalla sostanza. Tuttavia Spinoza scrive che l’attributo è ciò che l’intelletto percepisce della sostanza, per sottolineare che esso è ciò che è conoscibile, per sé, della sostanza, altrimenti inconoscibile. La sostanza si dà all’intelletto mediante l’attributo; ma poiché l’attributo costituisce l’essenza della sostanza ed è indistinguibile da essa realmente, la sostanza si dà immediatamente all’intelletto nell’attributo. Questo viene soltanto ‘concepito’ in sé e per sé, senza esistere in sé e per sé, perché in tal caso costituirebbe una sostanza (E, I, P10). Si deve notare che l’intelletto ‘percepisce’ la sostanza nell’attributo non in modo discorsivo, procedendo da una cosa più nota ad una meno nota, ma in modo intuitivo: conoscendo immediatamente ciò che è in sé sommamente conoscibile e costituendo l’origine e la struttura di tutta la conoscenza possibile. Poiché tale conoscenza deve essere necessariamente adeguata, l’intelletto che la possegga non potrà dirsi finito, ma infinito ed eterno. Def. 5. «Intendo per modo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro, per il cui mezzo è pure concepito». Il modo non si dà nella sostanza quale affezione proveniente da altro o estrinsecamente (non v’è altro o fuori rispetto alla sostanza), né in quanto implichi una mutazione della sostanza in altro (in tal caso la sostanza cesserebbe di essere sostanza, essendo eterna e immutabile). I modi devono essere pensati come autodeterminazioni della sostanza eternamente immanenti a essa, senza che la loro esistenza e il loro concetto siano necessari all’esistenza e al concetto della sostanza (in tal caso la sostanza cesserebbe di essere ciò che è in sé e che è concepito per sé, avendo bisogno dei modi per esistere e per essere concepita). D’altra parte, poiché i modi ineriscono eternamente e necessariamente alla sostanza, senza costituirne tuttavia l’essenza, non può darsi sostanza senza modi: altrimenti si introdurrebbero nella sostanza possibilità e temporalità. Che cos’è che distingue, allora, la necessità della sostanza dalla necessità dei modi e come è possibile pensare la sostanza anteriormente o senza i suoi modi? Se la sostanza è e dev’essere pensata senza i modi (essendo in sé e da sé), il concetto dei modi non può essere semplicemente dedotto da quello della sostanza, poiché in tal caso i modi costituirebbero una semplice proprietà della sostanza, che non potrebbe

esser pensata senza di essi. Donde, allora, il concetto del modo, e come esso si riferisce al concetto della sostanza? Def. 6. «Intendo per Dio un essere assolutamente infinito, cioè una sostanza costituita da un’infinità d’attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita». La definizione di Dio mediante il concetto di sostanza assolutamente infinita introduce in modo esplicito la distinzione tra questa e la sostanza-attributo descritta nelle Deff. 3 e 4; conseguentemente, anche tra la sostanza e l’attributo, approfondendo la distinzione che era già implicitamente adombrata nella Def. 4 e conferendo al concetto di sostanza la connotazione dell’unicità e dell’assoluta infinità. Nella spiegazione che segue la definizione di Dio, Spinoza distingue infatti l’infinità assoluta dall’infinità «nel suo genere». Questa esprime l’infinità rispetto ad una determinazione particolare, dunque l’infinità che compete a ciascun attributo (l’attributo dell’estensione esprime tutta e solo la perfezione dell’estensione e perciò è infinito; così il pensiero e ciascuno degli altri infiniti attributi che competono alla sostanza). L’infinità assoluta della sostanza è invece quella alla quale sono riferibili tutti gli attributi, esprimenti ciascuno un’essenza infinita nel proprio genere. L’essenza della sostanza assolutamente infinita è costituita perciò da un’infinità di essenze, esprimenti tuttavia un’unica e indivisibile esistenza. Se infatti ciascuna essenza si esprimesse in un’esistenza determinata, si avrebbe un’infinità di sostanze e non la sola sostanza infinita o Dio. Ora, che la sostanza assolutamente infinita sia costituita nella sua essenza da una infinità di differenze, è dimostrato dalla distinzione formale degli attributi, che non hanno «nulla in comune» l’uno con l’altro. Tuttavia, come pensare simultaneamente l’identità della sostanza, intesa come esistenza di tutti gli attributi e l’infinita diversità formale di ciascuno di questi? Per pensare simultaneamente identità e differenza nella sostanza, una condizione sembra imprescindibile: che la sostanza, in quanto tale, ossia in quanto esistenza necessaria e infinita, non si identifichi con nessuno degli attributi, per essere il simultaneo soggetto di ciascuno di essi. Se la sostanza, in quanto sostanza, fosse pensante, non potrebbe essere il medesimo soggetto dell’estensione, perché tra pensiero ed estensione non v’è nulla in comune. Dunque la sostanza, intesa come identica esistenza necessaria di

tutti gli attributi, dev’essere in se stessa indeterminata e indifferente. Se non fosse tale, non potrebbe essere il medesimo soggetto d’inerenza e gli attributi trapasserebbero immediatamente in infinite sostanze. Poiché la sostanza è in se stessa indifferente, e dunque in quanto tale inconoscibile, l’attributo, nella sua differenza, è ciò che l’intelletto può percepire della sostanza. L’intelletto conosce e sa che la sostanza esiste come unica, assolutamente infinita e in se stessa indifferente; dunque può conoscere che cosa sia soltanto comprendendo i suoi attributi. Def. 7. «Si dice libera quella cosa che esiste per sola necessità della sua natura e che è determinata da sé sola ad agire: si dice invece necessaria o, meglio, coatta la cosa che è determinata da altro a esistere e ad agire in una certa e determinata maniera». Da ciò che precede segue che la sola sostanza assolutamente infinita, in quanto causa di sé, può dirsi libera. Invece il modo, che è determinato a esistere dalla sostanza, si dice necessitato o coatto. Tuttavia, anche il modo può dirsi libero rispetto all’agire, quando sia determinato solo dalla sua natura e non sia invece costretto da altri modi; ma esso non può dirsi libero rispetto alla sostanza assolutamente infinita, perché da questa la sua natura è stata determinata a esistere ed agire in un certo modo. Pertanto l’uomo, essendo un modo, non può assolutamente dirsi libero rispetto alla sostanza dalla quale dipende e dalla quale è stato determinato ad agire secondo una particolare natura; ma può dirsi libero rispetto agli altri modi, quando agisce per le sole leggi della sua natura determinata e non per la coazione che subisca da essi, considerati come cause esterne. Def. 8. «Intendo per eternità l’esistenza stessa, in quanto è concepita come conseguenza necessaria della sola definizione di una cosa eterna». Se dalla definizione dell’essenza di una cosa segue che questa esiste necessariamente, tale esistenza non solo è eterna, ma esaurisce interamente il concetto di eternità. E questo avviene perché quell’esistenza è immediatamente implicata nella sola definizione dell’essenza, dalla quale è esclusa ogni differenza temporale o di durata. Allo stesso modo che l’essenza della cosa è una verità eterna, cioè non si costituisce estensivamente o discorsivamente in un tempo sia pure concepito senza principio e senza fine, così l’esistenza che le inerisce o che la costituisce è la stessa eternità, dalla quale sono distinti ed esclusi sia il tempo sia la durata.

Alle definizioni seguono sette assiomi, cioè proposizioni concepite come autoevidenti e universalmente valide e tali che, compreso il senso comune dei termini in esse impiegati, sia impossibile negare loro l’assenso: 1. Tutto ciò che è, è o in sé o in altro. 2. Ciò che non può essere concepito per mezzo d’altro dev’essere concepito per sé. 3. Da una determinata causa data segue necessariamente un effetto, e, al contrario, se non è data nessuna causa determinata, è impossibile che segua un effetto. 4. La conoscenza dell’effetto dipende dalla conoscenza della causa e la implica. 5. Le cose che non hanno nulla di comune tra loro, non possono neanche essere concepite l’una per mezzo dell’altra, ossia il concetto dell’una non implica il concetto dell’altra. 6. L’idea vera deve accordarsi col suo ideato. 7. L’essenza di tutto ciò che si può concepire come non esistente non implica l’esistenza.

Senza entrare nel commento di tali assiomi, si può soltanto osservare che se essi, assunti assolutamente e per sé, possono essere riconosciuti come proposizioni evidenti purché sia noto il significato dei termini, posti invece nel contesto di quella struttura dell’essere delineata nelle definizioni, richiedono forse qualche ulteriore determinazione del senso dei termini usati (e dei relativi concetti), come ad esempio gli assiomi 1, 3, 5, 7. Si dovrebbe infatti precisare come e in che senso ciò che è in sé e ciò che è in altro possano dirsi simultaneamente e indistintamente essere; si dovrà spiegare perché la sostanza, concepita come essere infinito e perfetto, possa e debba pensarsi come causa data; in che modo nella sostanza possano darsi realtà che non hanno nulla in comune tra loro; e, infine, come sia possibile concepire nella sostanza qualcosa di non esistente, se nella sostanza si dà solo l’eterno e il necessario. Le 36 proposizioni che costituiscono la prima parte possono essere distinte, per comodità di esposizione, in tre sezioni, concernenti: 1. Natura e proprietà della sostanza: natura naturante (PP1-20); 2. Gli effetti della causalità immanente della sostanza: natura naturata (PP21-29); 3. Confutazione di pregiudizi concernenti natura e azione della sostanza (PP30-36 e Appendice). 1.1. Natura e proprietà della sostanza La prima sezione (PP1-10) utilizza ancora il concetto di sostanza-attributo, quale appare nel Breve trattato, nelle prime lettere coeve, e quale può essere ricavato dalle Deff. 3 e 4, assunte in se stesse, senza relazione con la definizione di Dio. Ma attraverso l’esame della nozione di sostanza-attributo Spinoza giunge, nella P11, ad affermare l’unicità della sostanza o Dio. Due sono le proposizioni basilari, dalle quali si ricavano le ulteriori conseguenze: «La

sostanza è anteriore per natura alle sue affezioni» (P1); «nella Natura non si possono dare due o più sostanze della medesima natura, ossia del medesimo attributo» (P5). La prima è una conseguenza analitica delle definizioni di sostanza e di modo, affetta dalle medesime difficoltà esposte nel commento relativo. La seconda deriva dalle definizioni di sostanza e di attributo: se si ammettessero più sostanze del medesimo attributo, si dovrebbe ammettere che esse siano identiche, poiché costituite dalla medesima essenza concepita in sé e per sé, cioè eterna e infinita; esse, pertanto, non si distinguerebbero in nulla e non sarebbero se non una sola sostanza definita da un solo attributo. Perciò le sostanze si distinguono solo per i loro attributi (P4), non hanno nulla in comune tra loro, essendo diverse in tutta la loro essenza e, non avendo nulla in comune, non possono essere causa l’una dell’altra (P3). Una sostanza, dunque, non può essere prodotta da un’altra sostanza (P6) e alla sua natura appartiene di esistere (P7). Ma la sostanza non può esistere come finita, perché dovrebbe essere limitata da un’altra della stessa natura, che non esiste. Dunque alla natura della sostanza appartiene di esistere e di esistere come infinita (P8). Ora, dimostrato che non possono darsi più sostanze del medesimo attributo, nelle PP9 e 10 l’autore intende dimostrare, al contrario, che una sostanza può avere più attributi e tanti più quanto più è perfetta. La dimostrazione della P9 («Quanto più di realtà o essere ciascuna cosa possiede, tanto maggiore è il numero di attributi che le competono») è dichiarata evidente per la Def. 4; ma poiché in questa si afferma semplicemente che l’attributo costituisce l’essenza della sostanza, e nella P10, in conseguenza delle Deff. 3 e 4, si afferma che ciascun attributo di una medesima sostanza dev’essere concepito per sé (dal momento che un attributo non ha nulla in comune con l’altro), non è affatto evidente come una medesima sostanza possa essere costituita da essenze o attributi formalmente diversi, conservando l’identità di sostanza e di unica simultanea esistenza di tutti gli attributi. Questo è possibile, come si è visto, soltanto a condizione di considerare la sostanza, per sé, indifferente alla diversità formale degli attributi. Per Spinoza, comunque, «lungi dall’essere un’assurdità attribuire più attributi ad una medesima sostanza, nulla invece è più chiaro, in natura» (P10S); perciò può concludere sia

che l’essere assolutamente infinito deve possedere tutti gli attributi, sia che non si dà alcun’altra sostanza al di fuori di tale essere. Perciò la sostanza è unica e qualsiasi altra «sostanza» non può essere più pensata come tale, ma come attributo della sostanza unica. Nella P11 Spinoza offre tre prove a priori dell’esistenza di Dio e una a posteriori, fondate sulla definizione di Dio e sull’assurdità della negazione della sua esistenza. Poiché Dio è sostanza assolutamente infinita, negandone l’esistenza si dovrebbe ammettere che questa non sia implicata dalla sua essenza; ma ciò è contrario alla «natura della sostanza, alla quale appartiene l’esistere» (P7). Inoltre, poiché esiste necessariamente ciò di cui non si dà alcuna causa che ne impedisca l’esistenza, e poiché è assurdo che vi sia in Dio o fuori di Dio una causa che ne impedisca l’esistenza, Dio esiste necessariamente. In terzo luogo, poiché poter esistere è perfezione, e Dio è sommamente perfetto, Dio «possiede da sé una potenza assolutamente infinita di esistere, e perciò esiste assolutamente». Dall’ultimo argomento si può trarre anche una dimostrazione a posteriori: se esistessero solo gli esseri finiti, questi avrebbero maggior potenza di esistere e dunque maggior perfezione dell’essere assolutamente infinito; il che è assurdo. Alla natura della sostanza assolutamente infinita, oltre all’esistenza, competono altre tre proprietà: di essere indivisibile, perché altrimenti dovrebbe essere costituita di parti finite, contro la sua infinità (PP12-13); di essere unica, perché se esistesse un’altra sostanza dovrebbe avere in comune con Dio qualche attributo, il che è impossibile per la P5 (P14); di essere ciò in cui tutto esiste ed è concepito (P15). Dalla P14 Spinoza ricava il corollario che «la cosa estesa e la cosa pensante sono o attributi di Dio o affezioni degli attributi di Dio»; nello scolio della P15, invece, respinge le obiezioni di quelli che negano che l’estensione possa appartenere alla natura di Dio, dimostrando che tale negazione è possibile solo se si suppone che l’estensione, concepita come sostanza, sia divisibile, il che è assurdo. A queste proprietà si devono aggiungere l’eternità di Dio e dei suoi attributi (P19), e l’identità, in Dio, di essenza ed esistenza (P20). Da ciò segue che l’esistenza di Dio, come la sua essenza, è una verità eterna e che Dio è immutabile, ossia che tutti gli attributi di Dio sono immutabili: «Se, infatti, essi cambiassero rispetto all’esistenza,

dovrebbero pure cambiare rispetto all’essenza, cioè diventare, da veri, falsi; il che è assurdo» (P20C2). Nella P16, di fondamentale importanza, Spinoza si propone di giustificare il principio stesso e la possibilità della causalità divina, prima di descriverne le modalità: «Dalla necessità della natura divina devono seguire infinite cose in infiniti modi (cioè tutto quello che può cadere sotto un intelletto infinito)». Spinoza non dà una vera e propria dimostrazione, poiché «questa proposizione dev’essere evidente per chiunque, purché rifletta che dalla definizione data di una cosa qualunque l’intelletto conclude parecchie proprietà che in effetti seguono necessariamente dalla definizione stessa (cioè dalla stessa essenza della cosa) e ne conclude tante più, quanta maggiore realtà è espressa dalla definizione della cosa, cioè quanta maggiore realtà è implicata nella sua essenza» (E1P16D). Ora, che dalla definizione di una cosa si deducano proprietà appartenenti strutturalmente e costitutivamente alla cosa stessa, cioè senza alcuna differenza temporale o ontologica, è concedibile; ma che tali proprietà siano cose, cioè modi costituiti da una struttura ontologica diversa da quella della sostanza, e la cui essenza non implichi l’esistenza, questo non è evidente per sé e dev’essere ulteriormente dimostrato. Non è evidente, infatti, come sia possibile che dall’essere costituito dall’identità di essenza e di esistenza «segua necessariamente» l’essere costituito dalla diversità di essenza ed esistenza; oppure, in altri termini, non è affatto evidente che Dio possa essere, oltre che causa sui, anche causa di altro, sia pure immanente e necessaria. Se si ammette tale possibilità o, meglio, necessità della sostanza di esser causa «di infinite cose in infiniti modi», non si possono certamente non accogliere le proprietà attribuite da Spinoza alla causalità divina. La prima e fondamentale proprietà è che «Dio agisce per le sole leggi della sua natura e senza essere costretto da nessuno» (P17). Infatti non v’è nulla di «esterno» che possa costringere Dio ad agire; Dio può esser detto «causa libera» perché agisce per la sola necessità della sua natura. Inoltre, poiché in Dio intelletto e volontà coincidono con l’essenza (cfr. P17S e PP30-32), ne consegue che «le cose non hanno potuto essere prodotte da Dio in nessun’altra maniera né in nessun altro ordine se non nella maniera e nell’ordine in cui sono state prodotte» (P32). Infatti, poiché la

potenza di Dio consiste nella sua essenza (P34) – la quale esiste necessariamente –, tutto ciò che si può concepire come appartenente al potere di Dio esiste necessariamente (P35) e in modo perfetto, come conviene alla perfezione della natura divina. La seconda proprietà della causalità di Dio è che egli è causa immanente, non transitiva, di tutte le cose (P18). L’agire di Dio non può né avere un oggetto esterno né costituire qualcosa di esterno rispetto a Dio stesso, perché fuori di Dio non si dà alcun’altra sostanza. Dunque, tutti gli effetti che seguono dalla natura divina sono necessitati, perfetti e immanenti a essa. La terza proprietà è che tutto ciò che segue immediatamente da un attributo di Dio, o da una modificazione immediata di un attributo di Dio, esiste in modo necessario e infinito (PP21-23). Ciò che resta da dimostrare è la possibilità che qualcosa non derivi immediatamente da un attributo o da un modo immediato. Ed è quanto si cercherà di esaminare in ciò che segue. 1.2. Gli effetti della causalità immanente della sostanza: natura naturata (PP21-29) «L’essenza delle cose prodotte da Dio non implica l’esistenza» (P24). Questa è la proposizione che regola tutta la teoria delle cose finite ed è dimostrata mediante l’assunto (indimostrato) che tali cose esistano e che siano prodotte da Dio: se sono prodotte da Dio non esistono da sé e dunque la loro essenza non implica l’esistenza. Dio, inoltre, è causa non solo della loro esistenza, ma anche della loro essenza (P25); ma se Dio è causa necessaria dell’essenza e dell’esistenza delle cose, queste sono assolutamente determinate a operare da Dio (P26) e non possono rendere se stesse indeterminate (P27); dunque «nella natura non si dà nulla di contingente, ma tutto è determinato dalla necessità della natura divina ad esistere e a operare in una certa maniera» (P29). Tuttavia, poiché il finito non può essere prodotto e determinato ad agire dalla natura assoluta di un attributo o di una modificazione immediata (da questi seguono solo effetti infiniti, per le PP21-23), Spinoza è costretto ad ammettere che «una cosa singolare qualsiasi, ossia qualunque cosa che è finita e ha un’esistenza determinata, non può esistere né essere determinata a operare, se non è determinata ad esistere e ad operare da un’altra causa, anch’essa finita e avente un’esistenza determinata: e a sua volta questa causa non può esistere né essere

determinata ad operare se non è determinata ad esistere e operare da un’altra, anch’essa finita e avente un’esistenza determinata, e così via all’infinito» (P28). Con questa proposizione si conferma e viene alla luce con tutta evidenza la difficoltà già sopra rilevata intorno alla possibilità della sostanza infinita di dirsi causa d’altro. Qual è, infatti, il punto di connessione o di relazione tra l’infinito e il finito? Poiché esso non può esservi, altrimenti l’infinito scadrebbe a finito (cattiva infinità), Spinoza è stato costretto a pensare un regresso infinito di cause finite, che si costituisce, tuttavia, in modo parallelo alle cose infinite. In che modo, dunque, la serie delle cose finite è in Dio e da Dio? La P28, ora citata, suggerisce una seconda questione: se tutti i modi sono determinati a esistere e ad agire in modo certo e determinato non solo da Dio, concepito come causa ultima (ammessa la legittimità della causazione), ma anche dagli altri modi finiti considerati come cause prossime, qual è la possibilità e l’ambito «dell’agire mediante la propria natura»? Si è visto, infatti, che per la Def. 7 si dice libero ciò che agisce in forza della propria natura ed è proprio su questo principio, in contrasto con l’azione determinata da cause esterne, che si fonda nella quarta e nella quinta parte la dimostrazione della libertà dell’uomo. Nella P28 si afferma, invece, che qualunque cosa singolare non può esistere né operare se non è determinata da un’altra cosa finita; e ciò sembrerebbe escludere la possibilità di un’operazione che derivi dalla forza della natura stessa di una cosa finita. 1.3. Confutazione di pregiudizi concernenti la natura e l’azione della sostanza (PP30-36 e Appendice) Avendo forse avvertito questa difficoltà, nella proposizione conclusiva della prima parte Spinoza precisa che «non esiste alcuna cosa, dalla cui natura non segua qualche effetto» (P36); la dimostrazione si fonda su quella medesima proposizione 16 dalla quale doveva risultare dimostrata la possibilità della causalità divina in base al principio che dalla definizione o dall’essenza di una cosa qualunque l’intelletto conclude «parecchie proprietà»; ma si è visto che altro sono le proprietà, altro sono gli effetti che mediante quelle proprietà possono essere prodotti. In ogni caso, nella dimostrazione Spinoza conclude genericamente che «da tutto deve seguire qualche effetto» e non precisa se questo segua dalla natura della cosa senza la determinazione delle cause esterne o mediante quella determinazione,

né pone alcun rapporto esplicito tra tale proposizione e la P28. Si tratta dunque di un problema aperto al quale sarà necessario ritornare trattando del potere dell’uomo e della sua libertà. 1.4. Il pregiudizio finalistico Non si può concludere l’esposizione della prima parte senza dedicare un cenno, sia pur breve, all’appendice conclusiva che, per il tema trattato, per la particolare polemica contro il pregiudizio finalistico, considerato come teologico, per i vibranti richiami all’esercizio delle scienze e delle arti nel loro valore immediatamente politico, simili a quelli che ricorrono nell’ultimo capitolo del Trattato teologico-politico, è forse verosimile ritenere aggiunta durante o dopo la composizione di quest’opera. Dopo aver richiamato sinteticamente i temi principali svolti nella prima parte, in particolare la necessità dalla quale l’essenza e l’agire di Dio sono regolati (principio alternativo alla dottrina della creazione di un mondo finito da parte di un Dio dotato di intelletto e volontà non coincidenti con la sua stessa essenza), Spinoza vuole indicare il pregiudizio fondamentale, dal quale molti altri derivano, che impedisce la comprensione delle dottrine esposte precedentemente. Esso consiste in ciò: «gli uomini suppongono comunemente che tutte le cose della natura agiscano, come essi stessi, in vista d’un fine e ammettono anzi come cosa certa che Dio stesso diriga tutto verso un fine determinato: dicono, infatti, che Dio ha fatto tutto in vista dell’uomo, e ha fatto l’uomo affinché lo adorasse». Il pregiudizio finalistico deriva dal fatto che gli uomini nascono ignari delle cause delle cose e nello stesso tempo sentono di essere mossi alla ricerca del loro utile: perciò pensano che il loro agire non sia determinato da cause efficienti ma da cause finali, ossia da ciò che appetiscono nella forma dell’utile. Essi perciò credono facilmente, proiettando la propria esperienza sulle cose naturali e sulla loro causa prima, che tutto sia mosso da un fine e non, invece, da sole cause efficienti. Dall’idea che Dio stesso, creando il mondo, sia stato mosso dal fine di ricevere maggior gloria dalla creatura, sono nate tutte le superstizioni del culto e della religione. Ora, che il pregiudizio finalistico sia falso risulta evidente non solo dalla sua origine immaginativa e dalle dimostrazioni date nella prima parte, ma anche dal suo considerare come effetto ciò che in realtà è causa, posteriore ciò che è anteriore e dal

rendere imperfettissimo ciò che è perfettissimo. Ammettendo infatti che Dio possa agire in vista di un fine, si dovrebbe ammettere che egli manchi di ciò a cui tende, il che è assurdo. Dal pregiudizio teleologico, cioè dall’idea che tutto sia stato fatto per essi, gli uomini «non hanno potuto fare a meno di giudicare che in ogni cosa l’elemento principale è ciò che presenta per essi la massima utilità, e di stimare come le più eccellenti tutte le cose da cui sono affetti nel modo più gradevole», come il bene, il male, l’ordine, la confusione, il caldo, il freddo, la bellezza, la bruttezza, la lode, il biasimo, il peccato e il merito. Tutte queste nozioni «non sono altro che modi di immaginare» e non indicano la natura di alcuna cosa, ma solo la costituzione dell’immaginazione, in quanto percepisca e rappresenti alcune cose come convenienti o non convenienti all’equilibrio attuale del corpo, mediante il sentimento del piacere e del dispiacere. Ciò che è più conveniente alla loro natura e che avvertono come piacevole, gli uomini lo ritengono buono, ordinato, armonioso, bello ecc., a seconda del senso particolare affetto dalle cose; ma pretendere che la vera natura e perfezione delle cose si misuri dal piacere o dal dispiacere che gli uomini ne ricavano, vuol dire giudicare Dio e i suoi effetti alla stregua della natura umana, sovvertendo interamente l’ordine delle cose.

2. Seconda parte: Natura e origine della mente La seconda parte, costituita da una breve prefazione (nella quale è possibile percepire l’eco della prefazione alla seconda parte del Breve trattato), da 7 definizioni, 5 assiomi e 49 proposizioni, può essere distinta in sei sezioni: 1. fondamenti ontologici della dottrina della mente (PP110); 2. natura della mente (PP11-13); 3. natura del corpo (assiomi, lemmi e postulati tra la P13 e la P14); 4. la conoscenza inadeguata della mente (PP14-31); 5. deduzione e natura della conoscenza adeguata (PP32-47); 6. natura della volontà (PP48-49). 2.1. Fondamenti ontologici della dottrina della mente(PP1-10) Il primo fondamento è costituito dalla dimostrazione (a posteriori, in quanto procede dall’esistenza dei pensieri e dei corpi finiti) che pensiero ed estensione sono attributi di Dio (PP1-2) e, dunque, per la P16 della prima parte, che dal pensiero (o idea) infinito di Dio e dalla sua

estensione infinita seguono infiniti pensieri e infiniti corpi, necessariamente ed eternamente (PP3-4). Pertanto ogni idea deve avere la propria causa reale solo nell’attributo di cui è modo e non in altro attributo o modo di altro attributo (P5). Il secondo principio generale è costituito dall’affermazione dell’identità dell’ordine e della connessione delle idee con l’ordine e la connessione delle cose (P7). Questo principio riposa sull’identità della sostanza e della sua essenza, cioè sull’identità di intelletto e natura nella sostanza divina, per cui, di tutto ciò che segue dalla natura divina vi è un’idea che ne riproduce l’ordine e la connessione. A proposito dell’ordine e della connessione di ciò che «segue» dalla natura divina, non sarà inutile ribadire che, data la natura eterna e infinita della sostanza, ordine e connessione non potrebbero costituirsi se non nell’eternità e nella simultaneità, interamente scevre di tempo; e che, al contrario, se vengono concepiti temporalmente, manca, come si è visto, la deduzione della loro possibilità. Spinoza, tuttavia, concepisce l’ordine e la connessione delle idee – identici all’ordine e alla connessione delle cose – come temporali e costituiti da realtà singolari e finite. Perciò sente il bisogno di precisare, nella P9: «l’idea di una cosa singolare esistente in atto ha Dio come causa, non in quanto è infinito, ma in quanto è considerato come affetto da un’altra idea di cosa singolare esistente in atto, della quale Dio è pure causa, in quanto è affetto da una terza, e così via all’infinito». Per questa proposizione valgono le stesse considerazioni rivolte alla P28 della prima parte, dalla quale dipende. Il terzo principio fondamentale è che l’uomo non è sostanza (P10), poiché, se lo fosse, esisterebbe necessariamente e si darebbero più sostanze della medesima natura, ciò che è assurdo. Perciò l’essenza dell’uomo è costituita da certe modificazioni degli attributi di Dio, ossia del pensiero e dell’estensione. 2.2. La natura della mente (PP11-13) Poiché l’essenza dell’uomo è costituita da un modo del pensiero e da un modo dell’estensione, cioè da un’idea e da un corpo, e poiché a ogni modificazione che avviene nell’attributo dell’estensione corrisponde una modificazione nell’attributo del pensiero (e viceversa), segue che la mente non è se non l’idea di un corpo, ossia di un certo modo, esistente in atto, dell’estensione, e «niente altro» (P13). Ma che il corpo esistente in atto

sia oggetto dell’idea che costituisce la mente non vuol dire che l’oggetto sia la causa formale dell’idea; al contrario, causa formale o reale dell’idea è solo l’attributo del pensiero, cioè Dio stesso considerato come cosa pensante. Si può affermare, pertanto, che la mente umana non è se non un’idea, affetta da altre idee, mediante la quale Dio ha una conoscenza del corpo. Se in Dio si darà una conoscenza del corpo mediante la sola idea del corpo umano, quell’idea sarà adeguata; se invece si darà una conoscenza del corpo mediante l’idea di altri corpi, quell’idea sarà parziale o inadeguata (P11C). Questa definizione della conoscenza adeguata e inadeguata, insieme alla definizione generale della mente ora esposta, dovrà essere considerata con la massima attenzione quando si tratterà di definire la possibilità e la condizione della conoscenza adeguata. 2.3. Natura e proprietà del corpo Poiché per corpo si intende «un modo che esprime in una maniera certa e determinata l’essenza di Dio, in quanto è considerata come una cosa estesa» (Def. 1), i corpi dovranno tutti partecipare non solo dell’estensione ma del modo immediato e infinito dell’estensione, la relazione di moto-quiete. Non potendo tuttavia partecipare dell’uno e dell’altro in modo immediato e infinito, perché altrimenti i corpi sarebbero identici, ne consegue che «i corpi si distinguono gli uni dagli altri in ragione del movimento e della quiete, della velocità e della lentezza, e non in ragione della sostanza» (L1); segue, inoltre, che «tutti i corpi convengono in alcune cose» (L2), cioè nell’unico attributo dell’estensione e nel modo infinito del moto e della quiete di cui partecipano. Se infatti i corpi non partecipassero del medesimo modo infinito di moto e quiete, non potrebbero neppure distinguersi in ragione della diversa proporzione di moto e quiete da cui sono costituiti. Ora, poiché i corpi sono modi finiti dell’estensione secondo una determinazione particolare di moto e quiete, si deve affermare che essi «sono stati determinati al moto o alla quiete da un altro corpo, che è stato pure determinato al moto e alla quiete da un altro e questo a sua volta da un altro, e così via all’infinito» (L3). I corpi, pertanto, non esistono né sono determinati ad agire se non da altri corpi singolari, determinati a loro volta da altri e così all’infinito. Infine, per esporre nell’essenziale la teoria spinoziana del corpo, sarà

sufficiente citare quattro dei sei postulati che concludono questa sezione: 1. Il corpo umano è composto di moltissimi individui (di natura diversa), ciascuno dei quali è assai composito. 3. Gli individui componenti il corpo umano e, conseguentemente, il corpo umano stesso, sono affetti dai corpi esterni in moltissimi modi. 4. Il corpo umano, per conservarsi, ha bisogno di moltissimi altri corpi dai quali è continuamente come rigenerato. 6. Il corpo umano può muovere in moltissimi modi i corpi esterni e in moltissimi modi disporli. 2.4. La conoscenza della mente, concepita come idea di un corpo attualmente esistente, è inadeguata Poiché la mente è idea di un corpo esistente in atto, essa non è semplice, ma costituita di moltissime idee, così come il corpo è formato da moltissimi individui (P15); perciò, più il corpo è capace di essere modificato, più la mente è atta a percepire moltissime cose (P14). Inoltre, poiché il corpo umano è necessariamente affetto da altri corpi, l’idea di tale affezione implica sia la natura del corpo afficiente sia la natura del corpo affetto (P16); e se quello è esterno, la mente lo contemplerà come esistente in atto e come presente a sé, fino a quando il corpo non riceva un’altra affezione che ne escluda l’esistenza o la presenza (P17). Nelle due ultime proposizioni viene fondata la dottrina dell’immaginazione, concepita come rappresentazione necessaria e meccanica (regolata da leggi) dei corpi esterni considerati come presenti. Poiché la mente, immaginando, agisce secondo leggi necessarie, non erra in quanto immagini, «ma solo in quanto si consideri priva dell’idea che escluda l’esistenza delle cose che essa immagina a sé presenti» (P17S). Dalle premesse ora poste Spinoza deve trarre conseguentemente le PP19 («La mente umana non conosce né il corpo umano né sa che esiste se non mediante le idee delle affezioni da cui il corpo è affetto») e 23 («La mente umana non conosce se stessa se non in quanto percepisce le idee delle affezioni del corpo»). Da queste proposizioni (nelle quali si afferma che la mente, o l’idea del corpo umano che è in Dio, non si costituisce mediante il solo corpo umano, ma mediante l’idea delle affezioni di altri corpi) e dalla definizione di idea inadeguata, data nel corollario della P11, segue che tutta la conoscenza che la mente può avere immaginando, cioè in quanto sia concepita come idea di un corpo attualmente esistente, è inadeguata. E tale conseguenza viene esplicitamente teorizzata da Spinoza nelle

PP24-31, in particolare nella P26. 2.5. Possibilità e natura della conoscenza adeguata Nello scolio e nel corollario della P29 Spinoza introduce una sorprendente limitazione all’ambito della conoscenza inadeguata, fondata sulla definizione della mente come idea di un corpo esistente in atto, affermando che la Mente non ha né di sé né del suo corpo né dei corpi esterni una conoscenza adeguata [...] tutte le volte (quoties) che percepisce le cose secondo l’ordine comune della natura, cioè tutte le volte che è determinata dall’esterno, ossia dal concorso fortuito delle cose, a considerare questo o quello, e non già tutte le volte (quoties) che è determinata dall’interno, cioè dal fatto che considera più cose simultaneamente, a conoscere le loro concordanze, le loro differenze e le loro opposizioni; tutte le volte, infatti, che essa è disposta interiormente in questo o in quel modo, contempla le cose chiaramente e distintamente.

Dinanzi a tale dichiarazione devono essere sollevate almeno tre questioni: 1. Come è possibile che la mente (date le PP13, 19 e 23) possa concepire qualcosa senza essere determinata dall’esterno, cioè com’è possibile la sospensione della condizione di assoluta inadeguatezza implicata nella teoria finora costruita? 2. Ammesso (ma non concesso) che la mente possa concepire ora inadeguatamente e ora adeguatamente, da che cosa dipende tale diversa possibilità? che cos’è che regola e determina il quoties? 3. La simultaneità della considerazione di concordanze, differenze e opposizioni non implica in ogni caso il tempo e la memoria, cioè strumenti dell’immaginazione? come è possibile, allora, che dall’immaginazione possa sorgere una conoscenza adeguata? Della conoscenza adeguata (ferma restando la definizione della mente data nella P13) Spinoza offre una formale deduzione nelle PP38 e 39, affermando che «ciò che è comune a tutte le cose, e ciò che è ugualmente nella parte e nel tutto, non può essere concepito se non adeguatamente» (P38) e che «di ciò che è comune e proprio al corpo umano e ad alcuni corpi esterni da cui il corpo umano suole essere affetto, e che è ugualmente nella parte e nel tutto di qualunque di questi corpi, ci sarà pure nella mente un’idea adeguata» (P39). La deduzione della conoscenza adeguata, fondata su ciò che è comune a tutti i corpi, cioè sull’estensione e sul rapporto infinito di moto e quiete, oltre che sulle nozioni innate e comuni della mente, cioè sugli assiomi, si fonda sul fatto che ciò che è comune alla parte e al tutto, trovandosi identicamente nella parte e nel tutto, non può essere concepito in modo parziale, ma, necessariamente, in modo adeguato. Infatti, per quanto si

consideri parziale l’affezione del corpo portatrice di ciò che è comune, in essa ciò che è comune si dà come si darebbe se si percepisse l’intero. La ragione, o secondo genere di conoscenza, consiste nella conoscenza attuale di ciò che è comune nelle affezioni del corpo. Evidentemente, considerata sotto questo profilo, non si darebbe ragione senza le affezioni del corpo, percepite nella imaginatio. Tuttavia la ragione è, originariamente, forma di conoscenza diversa e altra rispetto a quella immaginativa. La mente immaginante non riesce a superare se stessa autorisolvendosi in quella ragione di cui Spinoza, nella seconda parte, non sembra dubitare, concependola come struttura delle nozioni comuni e facoltà della conoscenza adeguata. Nella quinta parte, tuttavia, si incontra una nuova fondazione della ragione mediante una diversa definizione della mente, concepita non più come idea di un corpo esistente in atto, ma come idea dell’essenza del corpo: esigenza strutturale del sistema, oppure indizio di un’avvertita difficoltà inerente alla prima fondazione? Nella P40S2 Spinoza elenca i generi di conoscenza: l’opinione o immaginazione, che nasce o da esperienza vaga o da segni, sia uditi sia letti; la ragione, che consiste nell’avere nozioni comuni e idee adeguate delle cose; l’intelletto o conoscenza intuitiva, che consiste nel procedere «dall’idea adeguata dell’essenza formale di certi attributi di Dio alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose». La conoscenza immaginativa è l’unica causa della falsità, mentre la conoscenza razionale e intuitiva sono necessariamente vere (P41) e costituiscono il criterio della distinzione del vero dal falso (P42). In particolare «è proprio della natura della ragione contemplare le cose non come contingenti, ma come necessarie» (P44) e dunque «sotto una certa specie di eternità» (P44C). Infine, nelle PP45-47 l’autore intende dimostrare la possibilità della conoscenza intuitiva fondandola su un’idea adeguata dell’essenza e dell’esistenza di Dio, che sarebbe nota a tutti; proposizioni, anche queste, che andrebbero ampiamente discusse e commentate, molto più di quanto non sia stato fatto finora o di quanto sia possibile fare qui. Su di esse si tornerà brevemente nell’esposizione della quinta parte. 2.6. Natura della volontà Poiché la mente è un modo certo e determinato del pensare, che è ed agisce, come ogni altro modo, in

quanto sia determinato ad essere e ad agire da altri modi determinati, Spinoza conclude che «nella mente non c’è alcuna volontà assoluta o libera» (P48). Inoltre, poiché per volontà non intende la cupidità, cioè la facoltà di desiderare o non desiderare, ma la facoltà di affermare o negare, l’autore conclude che «nella mente non si dà alcuna volizione, cioè alcuna affermazione o negazione, oltre quella che l’idea, in quanto è idea, implica» (P49). Nello scolio della P49 Spinoza spiega più ampiamente, rispondendo a quattro obiezioni, la dottrina dell’identità di intelletto e volontà, che non consistono se non nelle singole idee e nell’affermazione o negazione che queste, per loro natura, implicano. Egli difende con quattro ragioni l’utilità della sua teoria della determinazione del volere: 1. Essa «insegna che noi agiamo per il solo volere di Dio e siamo partecipi della natura divina, e ciò tanto più quanto più perfette sono le azioni che compiamo e quanto sempre più conosciamo Dio». 2. «insegna in qual modo ci dobbiamo comportare verso le cose della fortuna o che non sono in nostro potere, ossia verso le cose che non seguono dalla nostra natura: aspettando e cioè sopportando con animo uguale l’alterno volto della fortuna, giacché tutto segue dall’eterno decreto di Dio con la medesima necessità con cui dall’essenza del triangolo segue che i suoi tre angoli sono uguali a due retti». 3. «Questa dottrina giova alla vita sociale in quanto insegna a non odiare, a non disprezzare, a non deridere nessuno, a non odiarsi con nessuno, a non invidiare nessuno». 4. «Questa dottrina, infine, giova pure non poco alla comune società; in quanto insegna in qual modo i cittadini devono essere governati e diretti: non affinché servano da schiavi, ma affinché compiano liberamente ciò che è meglio».

3. Terza parte: Origine e natura degli affetti Nella prefazione alla terza parte Spinoza inizia polemizzando contro la maggior parte dei filosofi e dei moralisti, che hanno considerato l’uomo nella Natura come «un impero nell’impero» ritenendo, da un lato, che abbia un potere assoluto sulle proprie azioni e che non sia determinato che da se stesso; attribuendo, dall’altro, l’impotenza umana non alla comune potenza della natura, ma ad un incomprensibile vizio della natura umana. In realtà essi preferiscono deridere e disprezzare gli

affetti più che intenderli. Quindi annuncia il suo programma di indagine e il principio generale che lo guida: Nulla avviene nella natura che si possa attribuire ad un suo vizio, giacché la natura è sempre la medesima e la sua virtù e potenza d’agire sono dappertutto una sola e medesima. Ossia, le leggi e le regole della natura, secondo le quali tutto avviene e si muta da una forma nell’altra, sono dovunque e sempre le medesime, e quindi una sola e medesima deve pure essere la maniera di conoscere la natura delle cose, quali che esse siano, e cioè mediante le leggi e le regole universali della natura. Gli affetti, dunque, dell’odio, dell’ira, dell’invidia ecc., considerati in sé, seguono dalla medesima necessità e dalla medesima virtù della natura da cui seguono le altre cose singole; quindi riconoscono certe cause mediante le quali sono intese e hanno certe proprietà altrettanto degne della nostra conoscenza, quanto le proprietà di qualunque altra cosa di cui la sola contemplazione basta a darci diletto. Tratterò dunque della natura e delle forze degli affetti e del potere della mente su di essi col medesimo metodo con cui ho trattato nelle parti precedenti di Dio e della mente, e considererò le azioni e gli appetiti umani come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi.

La terza parte è costituita, oltre che dalla prefazione, da 3 definizioni, 2 postulati, 59 proposizioni e da una sezione riassuntiva di 48 definizioni di affetti, più una definizione generale conclusiva. Poiché, data la natura dell’argomento, non è possibile offrirne un’esposizione analitica, come sarebbe necessario, si indicheranno soltanto i principi generali dell’indagine e quelle definizioni degli affetti dalle quali tutte le altre sono regolate. Si è visto, nella P28 della prima parte, che ogni modo singolare e finito esiste e agisce in quanto sia determinato da un altro singolare e finito; nella seconda parte si è visto che il corpo non può esistere né agire se non in quanto sia determinato da altri corpi e che la mente non ha idea del corpo né di se stessa se non mediante le affezioni che il corpo, di cui è mente, riceve dagli altri corpi. Spinoza definisce gli affetti come «le affezioni del Corpo (dalle quali la potenza d’agire del corpo stesso è accresciuta o diminuita, assecondata o impedita) e, insieme, le idee di queste affezioni» (Def. 3). Da un lato, dunque, l’affetto non si distingue dall’idea delle affezioni del corpo, avendo la stessa natura, perfezione e durata dell’idea; dall’altro se ne distingue, perché esso non è soltanto idea dell’affezione, ma affezione stessa. L’affetto si mostra dunque come una struttura bipolare, costituita simultaneamente dall’affezione corporea e dall’idea di tale affezione. Poiché tra l’affezione e l’idea non si dà nulla in comune, essendo modi di due attributi (estensione e pensiero) che non hanno nulla in comune, come è possibile pensare all’identità e simultaneità nell’affetto di modi

che non hanno nulla in comune? La risposta a tale quesito sembra risiedere solamente nella considerazione dell’affetto come determinazione della potenza neutra della sostanza (unica potenza esistente in natura) in se stessa indifferente sia al pensiero sia all’estensione e per questo simultaneamente pensabile sotto i due attributi. Si riscontra nella definizione dell’affetto la stessa situazione ontologica riscontrata nella definizione dell’uomo, inteso come un solo e medesimo individuo che si pensa, simultaneamente, sotto l’attributo del pensiero e sotto quello dell’estensione (E3, P2S). Che cosa si intenda per potenza di agire, attività e passività viene dichiarato nella Def. 2: «Dico che siamo attivi quando accade in noi o fuori di noi qualche cosa della quale siamo la causa adeguata, cioè (per la definizione precedente) quando dalla nostra natura segue in noi o fuori di noi qualche cosa che può essere intesa chiaramente e distintamente solo per mezzo di essa. Invece dico che siamo passivi quando in noi accade qualche cosa, o quando dalla nostra natura segue in noi o fuori di noi qualche cosa della quale non siamo se non una causa parziale». Se non è difficile intendere che qualcosa derivi dalla natura umana considerata come concausa insieme alle affezioni esterne, date le premesse ontologiche e logiche sopra stabilite, non altrettanto agevole è intendere come sia possibile che qualcosa derivi dalla sola natura umana, considerata come causa di un effetto. Perché qualcosa possa considerarsi derivato dalla sola natura umana è infatti necessario che quel modo che l’uomo è, possa esistere e agire senza la determinazione degli altri modi; in secondo luogo, che gli effetti di quell’azione e di quella potenza siano necessari e universali, non potendo non darsi, posta la natura dalla quale dipendono. Se si affermasse che questi effetti conseguono sempre in potenza dalla natura umana, ma sono impediti dalla forza delle cause esterne, si ammetterebbe o che queste sono attuali ed agiscono necessariamente sulla natura umana, contro l’ipotesi della possibilità di un’azione della sola natura umana; oppure, che queste sono solo possibili: ma in tal caso, ammettendo la passibilità della non azione, si interromperebbe la determinazione universale e necessaria delle cause che regola l’esistenza e l’azione dei modi finiti. E dunque, come si può intendere che la natura umana agisca da sola o sia causa adeguata di qualche effetto? Si tratta, come si vede, del medesimo problema

sollevato a commento dell’ultima proposizione della prima parte. Nella prima proposizione della terza parte, Spinoza indica in che cosa consistono l’attività e la passività della mente, che, «in quanto ha idee adeguate, è necessariamente attiva in certe cose e in quanto ha idee inadeguate, è necessariamente passiva in certe cose». Resta da precisare perché la mente sia ora attiva e ora passiva, in alcune cose attiva, in altre passiva, come si era già osservato a commento dello scolio della P29 della seconda parte. La difficoltà è acuita dalla corretta interpretazione della P2: «Né il corpo può determinare la mente a pensare, né la mente può determinare il corpo al moto o alla quiete o a qualche altra maniera d’essere (se ce n’è qualche altra)». Tale proposizione, lungi dall’affermare l’indipendenza e l’autonomia del corpo e della mente concepiti (erroneamente) come sostanze, afferma invece la loro identità reale e la distinzione della loro causa formale (nello scolio si dichiara che essi «sono una sola e medesima cosa che è concepita ora sotto l’attributo del pensiero, ora sotto quello dell’estensione»), come del resto era stato già precisato nella P5 della seconda parte. La difficoltà viene acuita poiché si deve spiegare non solo come sia possibile che due modi, costituiti da essenza diversa, possano formare «una sola e medesima cosa»; ma anche come sia possibile che «una sola e medesima cosa» possa agire senza patire e patire senza agire, se l’agire e il patire ineriscono ad esse con lo stesso diritto. Alla discussione di questo problema, che già all’inizio della terza parte si impone con chiarezza, sono dedicate in particolare la quarta e la quinta parte dell’Etica. Ora si deve notare che la definizione dell’essenza di quella «sola e medesima cosa» che è l’uomo, come di ogni altra cosa, è fondata da Spinoza su ciò che costituisce il principio stesso, non dell’esistenza, ma della perseveranza o della conservazione dell’essere: poiché «ciascuna cosa, per quanto sta in essa, si sforza di perseverare nel suo essere» (P6), «lo sforzo col quale ciascuna cosa si sforza di perseverare nel suo essere non è altro che l’essenza attuale della cosa stessa» (P7). Perciò l’appetito o cupiditas, con il quale l’uomo è determinato a compiere qualcosa (sia agendo sia patendo) per conservare se stesso, costituisce la sua stessa essenza (P9) e la cupiditas «è l’essenza stessa dell’uomo, in quanto, da una sua qualunque affezione data, è concepita come determinata a fare

qualche cosa» (Af. Def. 1). Da tale definizione risulta chiaramente che, senza un’affezione data, l’essenza dell’uomo non può essere determinata a compiere qualcosa; ma non è chiaro, ed è ciò che si dovrà accertare, se l’uomo stesso possa considerarsi causa adeguata o sola di qualche sua affezione, dalla quale venga poi determinato ad agire in modo attivo. Ma dalla definizione ora citata non sembra possibile che ciò avvenga, poiché l’autoaffezione dell’uomo non potrebbe avvenire se non mediante quella stessa essenza che, invece, non può essere determinata ad agire, se non avendo già una qualche affezione data (si veda, su questo punto, la formulazione alquanto divergente di E4, P61). Poiché la cupiditas, dunque, è il fondamento di tutti gli affetti, e gli affetti non si distinguono realmente dalle idee, la cupiditas esprime in pari tempo la tendenza strutturale di ogni idea o rappresentazione della mente, sia essa immaginativa sia essa razionale o intellettiva, ad affermare ciò che promuove la conservazione dell’essere e a negare ciò che la ostacola. Inoltre, poiché nella mente vi è un’idea di ogni modificazione del corpo (E2, P12), vi è nella mente l’idea o l’affetto corrispondente ad ogni modificazione prodotta nella perfezione del corpo e, di conseguenza (E3, P11), della stessa mente. Anzi, l’idea di tale modificazione, sia questa crescente sia decrescente, costituisce il principio regolativo della cupiditas, che cercherà, cioè amerà, ciò che produce il passare ad una maggiore perfezione, odierà ciò che produce il passare ad una minore perfezione. Perciò, le idee o gli affetti con i quali si percepisce il passaggio ad una maggiore o minore perfezione (o, più precisamente, che costituiscono il passaggio ad una maggiore o minore perfezione), chiamati da Spinoza letizia (o gioia) e tristezza, sono gli affetti fondamentali dai quali tutti gli altri derivano, attraverso la determinazione della cupiditas in amore per ciò che produce gioia, odio per ciò che produce tristezza.

4. Quarta parte: La schiavitù umana, ossia le forze degli affetti All’inizio della prefazione Spinoza enuncia l’argomento della quarta parte: «Chiamo schiavitù l’impotenza dell’uomo a moderare e a reprimere gli affetti. Infatti l’uomo sottoposto agli affetti non è padrone di sé, ma è in balia della fortuna, al cui potere è così soggetto che spesso è costretto a

fare il peggio, benché veda il meglio. Mi sono proposto, in questa parte, di dimostrare la causa di tale fatto e, inoltre, che cosa gli affetti hanno di buono e di cattivo». L’autore ricorda, come già aveva fatto nel Breve trattato (I, 10) e nell’appendice alla prima parte dell’Etica, che la perfezione e l’imperfezione, il bene e il male, sono in sé nient’altro che enti di ragione, formati mediante il confronto di individui della medesima specie o del medesimo genere. Tuttavia, poiché lo scopo che il trattato persegue è quello di formulare un’idea di uomo che possa costituire quasi un modello (exemplar) di natura umana a cui guardare per imitarlo, sarà utile conservare gli stessi vocaboli. «Per buono, dunque, intenderò in seguito ciò che sappiamo con certezza essere un mezzo per avvicinarci sempre più al modello che ci proponiamo della natura umana. Per cattivo, invece, ciò che con certezza sappiamo che ci impedisce di riprodurre tale modello. Diremo, poi, più perfetti o più imperfetti gli uomini, a seconda che si avvicinino più o meno a questo stesso modello.» Nelle prime 18 proposizioni l’autore esamina le cause e le condizioni dell’impotenza umana. Esse sono regolate dal solo assioma proposto: «Nessuna cosa singolare è data nella natura delle cose, senza che ne sia data un’altra più potente e più forte. Ma, se ne è data una qualunque, ne è data un’altra più potente dalla quale quella data può essere distrutta». Se a questo assioma si congiunge la P2 («In quanto siamo una parte della Natura che non si può concepire di per sé senza le altre, noi siamo passivi») si delinea una condizione di passività o impotenza assoluta e insuperabile. Perché ciò non avvenga si dovrebbe concepire l’uomo o come non facente parte della Natura oppure come più potente di tutte le altre. La prima condizione è impossibile, per le premesse generali del sistema; la seconda è vietata dalla P3: «La forza per la quale l’uomo persevera nell’esistenza è limitata, ed è superata infinitamente dalla potenza delle cause esterne». Nella P4, tuttavia, Spinoza introduce di nuovo, nell’ambito dell’assoluta dipendenza umana dalle cause esterne, come già nella seconda e nella terza parte, la possibilità che l’uomo agisca solo mediante la sua natura, producendo in se stesso affezioni di cui sia causa adeguata. Tale possibilità, di cui si dovrà cercare il fondamento nella quinta parte, non è tuttavia concepita come una sospensione della dipendenza necessaria dalle cause esterne, ma come una concomitanza

con esse. Infatti nel corollario della stessa proposizione si legge: «Da ciò segue che l’uomo è sempre sottoposto alle passioni, segue l’ordine comune della Natura e gli obbedisce e vi si adatta, per quanto lo esige la natura delle cose». Ora, in che modo la potenza dell’uomo, cioè la ragione e l’intelletto, possono dominare le passioni che dipendono dall’immaginazione? Nella P1 Spinoza fa una precisazione importante: «Nulla di quel che una idea falsa ha di positivo, è tolto dalla presenza del vero, in quanto vero». In altri termini, poiché le rappresentazioni che si dicono false sono formulate dall’immaginazione, che possiede una struttura necessaria e necessitante, la conoscenza del vero, in quanto sia semplicemente vero, non impedisce che l’immaginazione continui a produrre immagini secondo la propria struttura e potenza. Per questo si dovrà affermare che l’uomo è sempre soggetto alle passioni, essendo ineliminabile e necessaria la struttura della sua immaginazione, cioè della rappresentazione del mondo esterno percepito come attualmente presente. La struttura dell’immaginazione detta il principio regolativo della maggiore o minore potenza degli affetti: quelli che nascono dalla considerazione di una cosa concepita come presente o attualmente esistente sono più forti di quelli che derivano dall’affezione di una cosa concepita come assente o possibile (PP9-13). La ragione potrà vincere la potenza dell’immaginazione solo se sarà in grado di produrre affezioni e affetti che si riferiscano a un oggetto esterno considerato come presente e attuale. E se questo sia possibile si vedrà nella quinta parte. Nello scolio della P18 Spinoza enuncia il criterio generale con cui la ragione giudica ciò che è bene e ciò che è male nelle passioni: «Poiché la ragione nulla esige contro la natura, essa dunque esige che ciascuno ami se stesso, ricerchi il proprio utile, ciò che è veramente utile, e appetisca tutto ciò che conduce veramente l’uomo a una perfezione maggiore: assolutamente parlando, che ciascuno si sforzi di conservare il proprio essere, per quanto dipende da lui». Ora il fondamento della virtù, che non è altro se non agire secondo le leggi della propria natura, è la stessa cupiditas di conservare il proprio essere; e la felicità consiste per l’uomo nel poter conservare il proprio essere. Perciò la felicità inerisce all’esercizio stesso della virtù e questa non può essere cercata in vista

d’altro, ma per se stessa. Pertanto la ragione giudicherà buoni (o utili) quegli affetti che giovano alla conservazione e al perfezionamento dell’essere; cattivi (o dannosi) quelli che l’ostacolano. Ma poiché l’idea del passaggio ad una perfezione maggiore o minore non è altro che l’affetto di letizia o di tristezza, tutti gli affetti accompagnati da letizia saranno buoni, cioè utili alla conservazione dell’essere; tutti gli affetti accompagnati da tristezza saranno cattivi, cioè dannosi o contrari al vero utile. Servendosi di questo criterio, Spinoza esamina tutti gli affetti dei quali, nella parte precedente, aveva indagato genesi e struttura, per distinguere quelli conformi alla ragione e convenienti a un uomo libero, cioè alla sua utilità, e quelli, invece, contrari. Qui non è possibile riassumere le analisi e le dimostrazioni che valgono per ogni singolo affetto; ma sarà conveniente accennare brevemente alle considerazioni che l’autore svolge intorno a ciò che è sommamente utile all’uomo per il conseguimento della perfezione, cioè della conoscenza chiara e della maggiore sicurezza possibile del corpo. Poiché tra le cose esterne all’uomo ve ne sono molte utili che egli deve desiderare, le più eccellenti sono quelle che più si accordano con la stessa natura umana: «nulla, dunque, è più utile all’uomo che l’uomo stesso: nulla, dico, di più eccellente gli uomini possono desiderare se non che tutti si accordino in tutto, in modo che le menti e i corpi di tutti formino quasi una sola mente e un solo corpo, e tutti si sforzino insieme, per quanto possono, di conservare il proprio essere, e tutti cerchino insieme per sé l’utile comune di tutti» (P18S). Dopo aver dimostrato, nelle PP29-36, che solo ciò che ha qualcosa in comune con la natura umana può essere per questa buono o cattivo (a seconda che giovi o nuoccia alla sua conservazione), e che gli altri uomini possono essere sommamente nocivi se guidati dalle passioni e sommamente utili se guidati dalla ragione, nella P37S2 (che è da leggere in relazione al cap. 16 del Trattato teologico-politico e ai primi cinque capitoli del Trattato politico) l’autore espone brevemente l’origine e la natura dello Stato. Poiché ciascun individuo esiste e agisce «per supremo diritto di natura», e la maggior parte degli uomini non vive sotto la guida della ragione e non cerca ciò che è utile a tutti, ma solo ciò che giudica utile a sé, segue che gli uomini sono supremamente nocivi gli uni agli

altri: «Affinché, dunque, gli uomini possano vivere concordi ed essere di aiuto gli uni agli altri, è necessario che rinunzino al loro diritto naturale e si assicurino vicendevolmente di non fare alcunché che possa riuscire di danno agli altri». Ora, poiché «nessun affetto può essere ostacolato se non da un affetto più forte e contrario all’affetto da ostacolare [...], una società si potrà stabilire saldamente purché rivendichi a sé il diritto che ha ciascuno di vendicarsi e di giudicare del buono e del cattivo, ed abbia, quindi, il potere di prescrivere una regola comune di vita, di far leggi e di rafforzarle, non con la ragione che è incapace d’ostacolare gli affetti, ma con minacce. E questa società, resa forte dalle sue leggi e dal suo potere di conservarsi, si chiama Stato, e quelli che sono protetti dal suo diritto si chiamano cittadini» (P37S2). Pertanto, se vivere concordemente è il supremo utile per gli uomini, è utile ciò che contribuisce a rafforzare lo Stato, dannoso ciò che introduce in esso discordia (P40); quindi l’uomo guidato dalla ragione cerca lo Stato perché in esso è più libero che nella solitudine, potendo vivere secondo regole che garantiscono la virtù e l’utilità comune, dunque anche il maggior utile individuale (P73). Per concludere, non si può non osservare, a proposito dell’ultimo testo citato, che, se in esso si afferma che la costituzione dello Stato è conforme a ragione in quanto garantisce la concordia tra gli uomini, si afferma anche, tuttavia, che lo Stato non ottiene questo risultato con l’esercizio della ragione, ma con l’uso di affetti contrari, più forti di quelli che potrebbero minacciare la sua sicurezza, cioè con le pene comminate ai trasgressori, fino alla pena suprema della morte. Infatti se gli uomini fossero guidati dalla ragione, cercherebbero il bene comune per la sola forza della ragione e non avrebbero bisogno di leggi. Ma se vi è bisogno di leggi per garantire la concordia sociale (e in quanto la garantiscono sono razionali) non è possibile che esse siano rispettate per il solo assenso razionale, dalla cui mancanza sono state rese necessarie. Questo avverrebbe anche se agli uomini dominati dagli affetti si insegnasse l’utilità che deriva dalla ragione, giacché questa, osserva Spinoza, «è incapace di ostacolare gli affetti». La dichiarazione è categorica ed è certamente coerente con le premesse poste all’inizio della quarta parte; ma se la ragione fosse assolutamente incapace di ostacolare gli affetti, come sarebbe possibile la sua costituzione? Se, d’altra parte, la sua incapacità è

soltanto parziale, quali sono le condizioni che rendono possibile l’attuarsi della sua potenza e quali sono i suoi limiti? È anche questo, come vedremo subito, l’argomento della quinta parte.

5. Quinta parte: La potenza dell’intelletto, ossia la libertà umana Nella prefazione, dopo aver dichiarato che lo scopo di questa parte è mostrare «quanto e quale dominio» la ragione abbia sugli affetti, Spinoza ricorda (contro gli Stoici e contro Cartesio, che ritenevano le passioni interamente dominabili dalla volontà) che non abbiamo sugli affetti «un dominio assoluto», come si era mostrato nella quarta parte. La teoria del potere limitato della ragione sugli affetti riposa, da un lato, sul rifiuto di una volontà intesa come autonoma e più estesa dell’intelletto; dall’altro, sulla concezione dell’immaginazione come una struttura necessariamente determinata, e sulla convinzione che la potenza della mente consista solo nella conoscenza chiara e distinta. Poiché la conoscenza chiara e distinta, o adeguata non toglie né modifica, nella sua causa e natura, la conoscenza immaginativa, e poiché a questa si accompagneranno sempre affetti passivi, non potrà mai darsi uno stato della mente privo di passioni, seppur minime. Tuttavia, posti questi limiti, come si costituisce il potere della ragione sulle passioni? La quinta parte è composta da due sezioni e da una conclusione: nella prima sezione (P1-20S) si esaminano le condizioni che permettono alla ragione di esercitare un certo dominio sulle passioni, riducendole «ad una parte minima» della mente; nella seconda (PP21-40) si costruisce, invece, mediante una nuova definizione della mente, una diversa fondazione dell’intelletto e della ragione, allo scopo di mostrare la loro eternità. La conclusione (PP41-42) riguarda la coincidenza di beatitudine e di virtù e tale tesi si trae «anche se non sapessimo che la nostra Mente è eterna» (P41). Tra la prima e la seconda sezione sta lo scolio della P20, che sintetizza le proposizioni precedenti sul potere della ragione e introduce quelle che seguono enunciando la nuova prospettiva assunta nell’analisi della mente. 5.1. Prima sezione (PP1-20S) Per illustrare le tesi principali della prima parte, mi servirò dello scolio che segue la P20, nel quale l’autore espone i principali risultati conseguiti nelle proposizioni precedenti.

Infatti, sia all’inizio sia alla fine dello scolio Spinoza afferma di avere raccolto nelle proposizioni che precedono (1-20), fondandosi sulle definizioni della Mente e degli affetti date nella seconda e terza parte (ma specialmente sulle proposizioni 1 e 3 della terza), «tutti i rimedi degli affetti, ossia tutto ciò che la mente, considerata in sé sola, può contro di essi». Per «mente considerata in sé sola» è da intendere la conoscenza adeguata, che esprime la sola potenza della mente e della natura umana, senza alcuna influenza delle cause esterne, come avviene invece nella conoscenza immaginativa, che, pur costituendo l’essenza della mente, esprime anche il potere e l’ordine delle cause esterne. La potenza della mente è dunque costituita da cinque ragioni, che verranno ora esposte e brevemente commentate. 1. Il potere della mente consiste anzitutto «nella conoscenza stessa degli affetti (vedi lo scolio della P4 di questa parte)». La P4 afferma che «non c’è alcuna affezione del corpo della quale non ci possiamo formare un qualche concetto chiaro e distinto». Poiché in ogni affezione del corpo vi è qualche cosa di comune a tutti i corpi, come anche alle parti e al tutto di ciascun corpo – e di ciò che è comune non si può non avere un’idea adeguata –, segue che si avrà anche «un qualche concetto chiaro e distinto» dell’affetto corrispondente, o dell’idea di quell’affezione. 2. La seconda ragione di potenza della mente consiste «nel fatto che essa separa gli affetti dal pensiero della loro causa esterna che è da noi immaginata confusamente (vedi la prop. 2 con lo stesso scolio della prop. 4 di questa parte)». La P2 dichiara: «Se separiamo una commozione o un affetto dell’animo dal pensiero della sua causa esterna e l’uniamo ad altri pensieri, allora l’amore e l’odio verso la causa esterna, come pure le fluttuazioni d’animo derivanti da questi affetti saranno distrutti». Nella dimostrazione Spinoza non spiega né come sia possibile, strutturalmente, «togliere l’idea della causa esterna» o «separare da essa l’affetto corrispondente» (benché queste due operazioni non siano identiche); né per quale causa, posto che la mente non è libera di autodeterminarsi, essa potrebbe essere indotta a compiere una tale separazione. Si può osservare, tuttavia, che tale separazione sembra impossibile poiché richiederebbe, permanendo l’affezione in atto esercitata sul corpo da altri corpi, che non vi fosse nella mente un’idea corrispondente di tale affezione. Perciò l’idea della causa esterna potrà

essere tolta con il togliersi della stessa causa esterna; ma questo non è, propriamente, opera della mente, bensì della fortuna. Se per separare si intende, invece, conoscere in modo adeguato l’affezione, si allude alla correzione mentale dell’immagine corrispondente, consistente nella formazione di un’idea diversa da quella che nell’immaginazione si forma riguardo all’affezione data. Tale immagine non scompare, ma perde forza nei confronti di un’idea più adeguata di quella affezione. 3. La potenza della mente consiste, inoltre, «nella maggior durata delle affezioni che si riferiscono alle cose che conosciamo chiaramente rispetto alla durata delle affezioni che si riferiscono alle cose che concepiamo in modo confuso o mutilato (vedi la prop. 7 di questa parte)». Nella P7, tuttavia, si legge: «Gli affetti, che nascono o sono suscitati dalla ragione, sono, se si tiene conto del tempo, più potenti di quelli che si riferiscono alle cose singole che consideriamo assenti». Ora, senza entrare nel merito della dimostrazione della P7, contro la quale, forse, si potrebbe far valere più di una difficoltà, sarà sufficiente notare che il testo dello scolio si fonda illegittimamente su questa proposizione, poiché omette quella condizione essenziale che in questa consente agli affetti della ragione di avere una maggiore durata di quelli suscitati dall’idea di cose singole, solo e in quanto siano considerate come assenti. Nello scolio, invece, la «maggior durata» degli affetti che nascono da idee di cose concepite chiaramente viene affermata come generale e assoluta, e dunque come assoluto il potere della ragione. Qualunque interpretazione si voglia dare di tale discordanza, si deve osservare che l’essere assente o il togliersi della causa esterna non dipende dal potere della mente, ma dall’ordine delle cause esterne, cioè dalla fortuna. 4. La quarta ragione consiste «nel gran numero delle cause da cui sono rafforzate le affezioni che si riferiscono alle proprietà comuni delle cose, ossia a Dio (vedi le propp. 9 e 11 di questa parte)». Ora, anche in questo caso, il riferimento dello scolio alle PP9 e 11 è ampiamente discutibile, poiché, tralasciando altre ragioni, si considera come valido per gli affetti della ragione (che conosce ciò che è comune, e dunque anche unico e universale) ciò che vale invece per quelli che derivano dall’immaginazione, come appare evidente dalla 11: «Quanto maggiore è il numero delle cose a cui un’immagine si riferisce, tanto più essa è

frequente, cioè tanto più spesso essa riprende vigore e occupa la mente». 5. L’ultima causa del potere della mente consiste «nell’ordine in cui la mente può ordinare e concatenare vicendevolmente i suoi affetti (vedi lo scolio della prop. 10 e inoltre le propp. 12, 13 e 14 di questa parte)». Anche ora, come era avvenuto per la P7, nello scolio viene omesso il limite strutturale (dichiarato nella P10) della validità di ciò che viene affermato, e cioè che la mente possiede il potere di ordinare «finché non siamo combattuti da affetti che sono contrari alla nostra natura». La dimostrazione della P10, del resto, essendo puramente tautologica (giacché essa potrebbe rendersi, schematicamente, così: «finché la mente non è combattuta da affetti che le impediscano di conoscere, il suo potere di conoscere non è impedito e dunque conosce adeguatamente») lascia irrisolto il problema di quel «finché» (quamdiu) sulla cui causa, costituzione ed estensione è già stata sollevata la questione, enunciando lo scolio della P28 della seconda parte. Una conclusione, comunque, appare indiscutibile: quale che sia la spiegazione che si voglia dare di questo sorprendente e ingiustificato procedimento dello scolio, nel quale si pretende di assegnare alla ragione un potere molto più ampio di quello che le stesse proposizioni invocate non consentano, esso appare il segno della difficoltà concettuale, chiaramente avvertita dall’autore, di fondare la natura e il potere della ragione sulla definizione della mente data nella seconda parte. Se infatti il potere di esercitare l’ordine dell’intelletto, cioè di ragionare in forma adeguata, si attua solo se e finché «non siamo combattuti da affetti contrari alla nostra natura», non solo la «nostra natura» non può nulla contro di essi, ma ne è completamente in balia. L’esercizio della ragione sarebbe completamente riposto nelle mani della fortuna. Poteva considerarsi, questa, una conclusione soddisfacente? Coerente con la definizione generale di mente, data nella seconda parte, senza dubbio; conveniente all’intenzione generale dell’opera, certamente no. Era necessario, dunque, assegnare alla ragione un’altra fondazione. Alla fine dello scolio sopra discusso si legge: «E con ciò ho finito tutto quello che riguarda la vita presente. [...] È tempo, dunque, di passare a ciò che si riferisce alla durata della mente, senza relazione al corpo». «Senza relazione al corpo» non indica, evidentemente, uno stato della mente concepita come sostanza separata dal corpo (poiché la mente non è sostanza, bensì modo), né la mente concepita come idea di un

corpo attualmente esistente (E2, P13), ma la mente concepita come idea dell’essenza del corpo, cioè dell’essenza di questo o di quel corpo umano. 5.2. Seconda sezione (PP21-40) Nelle PP22-23 l’autore intende dimostrare che la mente non può essere concepita solo come idea dell’esistenza attuale di un corpo, ma anche come idea della sua essenza: «In Dio è data necessariamente un’idea che esprime l’essenza di questo e di quel corpo umano sotto la specie dell’eternità» (P22) e dunque tale idea deve essere anche qualcosa che appartiene all’essenza della mente. Se alla mente appartiene l’idea dell’essenza di questo o di quel corpo umano, poiché l’essenza è eterna, anche quell’idea, o parte della mente che la concepisce, sarà eterna e non perirà con il perire dell’esistenza attuale del corpo. La questione dell’«eternità» della mente è tra le più importanti, delicate e complesse dell’intera filosofia, non solo spinoziana, e meriterebbe, in altra sede, un esame ampio e minuzioso1. Ora ci si limiterà a porre due sole questioni: l’idea che in Dio esprime il corpo umano individuale appartiene a Dio come quella sola idea infinita con cui contempla attualmente tutte le cose, oppure come idea costitutiva della serie infinita di idee finite, corrispondenti alla serie infinita dei corpi finiti? In nessuno dei due casi sembra che tale idea possa appartenere all’essenza della mente umana, poiché nel primo caso quella essenza sarebbe costituita dall’intelletto assolutamente infinito di Dio, nel secondo dalla simultanea considerazione di tutta la serie delle cause e degli effetti, ciò che è impossibile alla mente finita. In secondo luogo, data la definizione spinoziana di essenza (E2, Def. 2), si dovrebbe affermare che appartiene all’essenza di un corpo individuale ciò senza di cui quel corpo non può né esistere né essere concepito, ma anche, contemporaneamente, ciò che senza quel corpo individuale non può né essere né essere concepito. E allora, come sarà possibile separare l’essenza del corpo individuale (non «del corpo», come ambiguamente si legge nelle PP23, 29, ecc.) dalla sua attuale esistenza? in che cosa l’una e l’altra potranno distinguersi? e dunque come sarà possibile conoscere il corpo individuale sotto la specie dell’eternità, cioè nella sua essenza? Dopo aver distinto due modi di concepire sub specie aeternitatis, propri della ragione e dell’intelletto, attribuendo a quest’ultimo la conoscenza dell’essenza del corpo, nella conclusione della dimostrazione della P29

Spinoza subordina ogni possibilità di concepire sub specie aeternitatis (dunque anche la ragione) alla conoscenza dell’essenza del corpo. Sembra, perciò, che la ragione non si costituisca indipendentemente dall’intelletto, in un genere di conoscenza autonomo relativo alle proprietà comuni dei corpi, ma solo in relazione all’esistenza attuale del terzo genere di conoscenza. Ma se l’intelletto costituisce il fondamento della ragione, questa deve esserne dedotta, dal momento che non si dà prima e senza di esso. D’altra parte, se è necessario che l’intelletto sia già costituito e conosca le cose singole nella loro essenza determinata affinché la ragione si dia, qual è la necessità della conoscenza di ciò che è comune e come è possibile che si deduca dall’intelletto? Questo infatti non procede (ammesso che tale procedere, come sopra è stato notato, sia realmente pensabile) dalla conoscenza dell’essenza di Dio alla conoscenza delle cose singole attraverso l’idea di ciò che i corpi hanno in comune, dal momento che ciò che è comune non costituisce l’essenza di alcuna cosa singola. Qual è, dunque, la fondazione della ragione e il suo statuto? Ancora due punti meritano di essere sottolineati, prima di concludere: l’intelletto, o terzo genere di conoscenza, è eterno in quanto costituisce «una parte» dell’infinita idea con la quale Dio conosce se stesso e tutto ciò che segue dalla sua essenza infinita (PP30-31), o in quanto sia concepito come un «modo eterno del pensare» che, insieme agli altri infiniti modi eterni del pensare, costituisce l’intelletto eterno e infinito di Dio (P40S). La mente è dunque in grado di conoscere le cose «sub specie aeternitatis», ossia con il terzo genere di conoscenza, perché «la mente stessa è eterna» (P31). Spinoza può affermare che la mente è eterna perché dell’essenza di ogni corpo, e dunque anche dell’essenza del corpo di cui è idea, si dà nel modo infinito mediato del pensiero un’idea eterna, che costituisce la radice e il fondamento eterno della mente. Concepito in tal modo, l’intelletto non sembra avere, tuttavia, alcuna relazione con l’esistenza del corpo individuale (poiché esso è eterno e non ha relazione al tempo) e neppure con l’essenza del corpo individuale, poiché questa non può esistere né essere pensata senza l’esistenza attuale del corpo (E2, Def.2). In che modo, dunque, l’eterno e indistruttibile amore intellettuale dell’uomo per Dio – che segue alla conoscenza del terzo genere come parte dell’amore intellettuale che Dio ha per se stesso (PP33-37) – può difendere la mente dall’assalto della

fortuna? Esso infatti si costituisce là dove la fortuna, cioè la connessione delle cause esterne, ha cessato di esistere. Ma vi è un luogo e un tempo nel quale la fortuna, cioè la direzione di Dio mediante le cause esterne, cessa di esistere e di operare? 5.3. Conclusione Non senza motivo, dunque, nelle due ultime proposizioni Spinoza torna a considerare le cose dal punto di vista della ragione, considerata come secondo genere di conoscenza, guida al conseguimento di quella perfezione umana da essa stessa formulata e criterio della distinzione del vero e del falso: «anche se non sapessimo che la nostra mente è eterna, daremmo tuttavia il primo posto alla pietà e alla religione, e, assolutamente parlando, a tutto ciò che nella quarta parte abbiamo mostrato riferirsi alla fermezza d’animo e alla generosità» (P41). «Anche se non sapessimo che la nostra mente è eterna...»: come è possibile che una mente eterna perda la memoria di sé, oppure l’acquisti, dopo averla perduta? D’altra parte, come è possibile che una mente non eterna, ma diveniente, possa comprendere adeguatamente il vero, concepito, anch’esso, come eterno e non diveniente? Infatti non si giunge al vero mediante l’emendazione dell’errore, ma si emenda l’errore mediante l’originario possesso del vero, così come non godiamo della beatitudine «perché reprimiamo le nostre voglie; ma, viceversa, perché ne godiamo possiamo reprimere le nostre voglie» (P42). Tuttavia non si gode della beatitudine come di uno stato definitivamente conquistato, poiché esso consiste nella virtù stessa, cioè nella potenza d’agire sotto la guida della ragione, alla ricerca del vero utile. Ogni conseguimento di vero utile produce nel corpo e nella mente un mutamento di perfezione accompagnato da un affetto di gioia; ma l’affetto di gioia provato spinge la cupiditas naturale a cercare di nuovo le condizioni che lo hanno prodotto, in un progresso senza fine. Per questo il sapiente, «considerato come tale», «difficilmente è turbato nel suo animo, ma, essendo consapevole di sé e di Dio e delle cose per una certa eterna necessità, non cessa mai di essere, ma possiede sempre la vera soddisfazione dell’animo». 1

Rinvio, su questo punto, a F. Mignini, «Sub specie aeternitatis». Notes sur l’«Ethique» V, prop. 22-23, 29-31, in Spinoza. La cinquième partie de l’Ethique, «Revue Philosophique de la France et de

l’Étranger», 119, 1994, pp. 41-54; Id., «Sub quadam aeternitatis specie». Significato e problemi di un sintagma spinoziano, in Con l’ali de l’intelletto. Studi di filosofia e di storia della cultura, a cura di F. Meroi, Firenze 2005, pp. 209-35 e la bibliografia ivi indicata.

VI. «Trattato politico»

Gli editori delle Opere postume, nelle quali il trattato, interrotto dalla morte dell’autore, fu pubblicato, aggiunsero anche, come prefazione, la lettera di Spinoza «ad un amico», non identificabile con sicurezza, nella quale viene annunziata la composizione dell’opera e il suo piano: Ho ricevuto ieri la vostra gradita lettera. Vi ringrazio cordialmente per la cura affettuosa che avete per me. Non trascurerei l’occasione [...] se non fossi occupato in una cosa che giudico più utile e che a voi, credo, farà più piacere, cioè nella composizione di un Trattato politico, che ho iniziato qualche tempo addietro per vostro suggerimento. Ne ho già compiuti sei capitoli. Il primo contiene come l’introduzione dell’opera; il secondo tratta del diritto naturale; il terzo del diritto del sommo potere; il quarto dei compiti politici dipendenti dal sommo potere; il quinto del bene ultimo e più alto che la società possa considerare; il sesto del criterio secondo il quale si deve istituire il regime monarchico perché non degeneri in tirannide. Sto ora lavorando al capitolo settimo, nel quale dimostro metodicamente tutte le parti del precedente sesto capitolo, che riguardano l’ordinamento di una monarchia ben costituita. Passerò quindi al Governo aristocratico e popolare; infine alle leggi e alle altre questioni particolari concernenti la politica. E con questo, vi saluto, ecc. (lett. 84).

La lettera, non datata, può essere posta, verosimilmente, nella seconda metà del 1676; nel febbraio dell’anno successivo, al momento della morte, la trattazione s’interruppe all’undicesimo capitolo, nel quale si iniziava a descrivere il regime democratico. Ciascun capitolo è stato diviso in paragrafi dall’autore.

1. Il metodo della scienza politica (cap. 1) Dopo aver osservato che i filosofi tradizionali sono i meno adatti non solo alla direzione della cosa pubblica, ma anche alla sua teorizzazione, essendo avvezzi a lodare una natura umana inesistente e a deridere, compiangere o esecrare la natura umana realmente esistente (§ 1) Spinoza osserva che i teorici della politica, sapendo, come Tacito, «che esisteranno vizi finché esisteranno uomini», ebbero invece molto maggior successo dei filosofi, poiché, «avendo presa per maestra l’esperienza, essi non insegnarono alcuna cosa che non avesse riferimento alla pratica» (§ 2). Essendo dunque convinto che non vi sia alcuna possibile organizzazione dello Stato che il bisogno di provvedere alla propria sicurezza e l’esperienza non abbiano già indicato agli uomini (§ 3), l’autore, trattando della scienza politica, non si propone «nulla di nuovo o di impensato, ma soltanto di dimostrare con argomenti certi e irrefragabili, cioè di dedurre dalla condizione stessa

della natura umana, quei principi che si accordano perfettamente con la pratica, e, per procedere in questa indagine scientifica con la medesima libertà di spirito con la quale usiamo applicarci alla matematica», egli si è proposto «di non ridere né piangere sulle azioni umane, e nemmeno di detestarle, ma di comprenderle» (§ 4). Ora, poiché gli uomini sono necessariamente soggetti alle passioni e, come è stato mostrato nell’Etica, la ragione non solo non ha su di esse un potere assoluto, ma la sua via è estremamente difficile e rara, non ci si può illudere che la massa degli uomini o i suoi governanti «si inducano a vivere secondo il dettame esclusivo della ragione» (§ 5). Perciò è compito della scienza politica definire le condizioni di un’organizzazione sociale che sia indifferente alla virtù o ai vizi degli amministratori e sia invece in grado di garantire l’ordine e la «sicurezza» dello Stato, unico valore che un regime politico deve perseguire (§ 6). Tale definizione non deve esser tratta, tuttavia, dai principi della pura ragione, ma «dalla comune natura o condizione degli uomini», poiché tutti gli uomini, la cui maggioranza non è guidata dalla ragione, «entrano ovunque in rapporto tra loro e danno forma a qualche ordinamento politico» (§ 7).

2. Il diritto naturale e il diritto civile (cap. 2) La dottrina del diritto, che costituisce il fondamento della teoria politica, è dedotta, come nel Trattato teologico-politico, dai principi generali della filosofia spinoziana esposti nell’Etica. Poiché le cose naturali, compreso l’uomo, non esistono e non operano in virtù della loro essenza, non essendo questa la causa della loro esistenza, bisogna affermare che esse esistono ed operano per la sola potenza di Dio. Ora, come in Dio il diritto a tutto coincide con la sua assoluta e infinita potenza, così ciò che partecipa della potenza di Dio partecipa anche del suo diritto, in misura esattamente proporzionata al grado di potenza o di perfezione posseduto. Per natura, dunque, l’uomo (come ogni altro ente) ha diritto a tutto ciò che può, o a tutto ciò a cui la sua cupiditas (cioè la sua essenza determinata ad agire) lo inclina. Nello stato naturale non si hanno perciò né bene né male, né reato né colpa né merito: sia l’uomo guidato dalla ragione, sia l’uomo guidato dai soli istinti, agiscono per le sole leggi della Natura. Da questa premessa si traggono due conseguenze rilevanti per l’interpretazione della genesi della società: la prima è che ciascuno è soggetto al diritto di un altro finché è soggetto all’altrui potere o finché non può respingere l’altrui violenza; la seconda è che dall’accordo tra due o più individui consegue un aumento della loro potenza e dunque del loro diritto. Il diritto del singolo, considerato come semplice individuo, sarà tuttavia puramente astratto, poiché la sua potenza sarà

sopraffatta dalla potenza di tutti gli altri: nella situazione del puro stato di natura il singolo non riuscirà né a mantenersi in vita né a coltivare la mente. Pertanto l’autore conclude «che il diritto naturale, in quanto proprio del genere umano, non è concepibile se non nel caso in cui gli uomini abbiano diritti comuni e possano così, insieme, rivendicare le terre che sono capaci di abitare e di coltivare, e possano fortificarsi in modo da essere in grado di respingere ogni violenza e di vivere secondo un comune tenore di vita» (§ 15). Il diritto che inerisce al potere di una «moltitudine», cioè di un’associazione di uomini, la quale soltanto, dunque, sembra partecipare in concreto della potenza e del diritto della Natura, «si vuole chiamare imperium» (§ 17). Il termine imperium, il più usato nel Trattato politico, assume significati diversi in diversi contesti: qui potrebbe essere inteso nel senso di «Stato», dal momento che si tratta del potere-diritto dell’intera moltitudine; ma esso esprime anche la «sovranità» quando si afferma che detiene lo Stato, cioè il potere-diritto e la sovranità che a questo inerisce, chi amministra la cosa pubblica «promulgando, interpretando e abrogando leggi, fortificando città, decidendo della guerra e della pace, ecc.». Infine imperium sembra piuttosto indicare la forma di governo, quando si distinguono democrazia, aristocrazia e monarchia, a seconda che la sovranità e l’amministrazione dello Stato siano retti da tutta la moltitudine, da pochi scelti o da uno solo (§ 17). Dunque, poiché lo Stato e il suo potere-diritto dipendono dalle sole leggi della Natura, e in questa non si danno né bene né male, né pietà né empietà, né giustizia né ingiustizia, lo Stato e il suo diritto non sono subordinati a nessuna norma determinata di moralità, a nessuna religione e a nessun diritto; al contrario, moralità, religione organizzata in forme di culto esterno, nozioni e norme di giustizia e di ingiustizia nascono solo con il costituirsi della società, delle sue leggi e delle sue convenzioni.

3. Il diritto di sovranità, le sue prerogative e la miglior forma di governo (capp. 3-5) Se s’immagina la società come un individuo costituito di corpo e di mente, si dovrà dire che il diritto di sovranità, definito dalla potenza del

sovrano, è la mente direttiva dello Stato e la fonte della moralità e della giustizia, oltre che dell’amministrazione della cosa pubblica. Il diritto di sovranità è lo stesso diritto naturale determinato non dalla potenza dei singoli ma dell’intera collettività. È diritto esclusivo del potere sovrano promulgare le leggi, esercitare la giustizia giudicando le azioni dei privati, deliberare intorno alla guerra e alla pace e imporre ai sudditi le proprie deliberazioni. Tra due Stati o poteri sovrani vige il medesimo rapporto che c’è tra due uomini nello stato di natura: essi sono per natura nemici, avendo ognuno diritto sull’altro se riesce a ridurlo in proprio potere. Tuttavia, poiché ciascuno Stato è più debole di tutti gli altri, tenderà a stringere alleanza con altri, dal momento che il potere di due Stati alleati è la somma dei loro poteri: maggiore è il numero degli alleati, minore è il pericolo che ciascuno costituisce per gli altri. Avendo tuttavia ciascuno il diritto supremo di difendere se stesso, ciascuno può recedere dal patto quando lo ritenga utile per sé. Nessuno Stato, dunque, può affidare completamente se stesso all’altro, senza divenirne suddito o senza poter essere abbandonato. Inoltre, poiché il diritto naturale di ognuno cessa necessariamente nello Stato civile, non già per diritto naturale, ma per lo stesso diritto civile (che non può costituirsi se a quello naturale ciascuno non rinuncia in tutto ciò che è necessario alla costituzione del diritto civile, cioè del diritto di sovranità dello Stato), ai cittadini privati non è consentito di interpretare i decreti e le leggi dello Stato, né di intraprendere autonomamente alcunché, sia pure a beneficio dello Stato, senza il consenso del supremo potere. Pertanto i cittadini sono tenuti ad obbedire ai decreti dello Stato anche se appaiono contro ragione, perché solo il supremo potere ha il diritto di giudicare del maggior utile e di decidere ciò che ad esso è conforme. Ciò non vuol dire, tuttavia, né che il potere del sovrano sia assoluto e senza limiti, né che il suddito si spogli interamente del diritto naturale. Benché il potere del sovrano non sia soggetto ad alcun diritto civile, coincidendo questo con quello, esso è soggetto alla suprema norma del diritto naturale, che prescrive a ciascuno di creare il proprio utile nei limiti che la stessa natura delle cose prescrive. Quando il potere sovrano opera per conservare se stesso, agisce in conformità alla ragione ed è massimamente potente e autonomo; ma poiché l’autorità dello Stato consiste nel potere collettivo di tutti i sudditi, esso agirà conformemente

a ragione quando procurerà che non vengano meno, da parte dei cittadini, i motivi del rispetto e dell’ossequio. Non rientrano perciò appieno nel diritto del sovrano tutti i decreti e le azioni che dispiacciono alla maggioranza; inoltre, non rientrano nel diritto civile tutte quelle azioni alle quali i cittadini non possono essere indotti dalla speranza di premi o dalla minaccia di pene, quali la libertà dei giudizi, dei sentimenti, e il diritto a non compiere azioni che la natura umana per lo più aborre. Il potere sovrano garantisce massimamente se stesso quando promuove nel miglior modo il fine per cui è istituito: la pace e la sicurezza del vivere, che dipendono in massima parte non dalla probità o dalla malizia dei sudditi, ma dalla costituzione e dalla qualità del governo (5, § 2). E poiché la pace non è assenza di guerra, «ma virtù che nasce dalla forza dell’animo» (§ 4), la pace e concordia di uno Stato formato da un popolo libero, che è mosso dalla speranza e dal desiderio di accrescere la propria potenza e perfezione, sono molto diverse da quelle che invece possono essere imposte con diritto di guerra a un popolo dominato dal timore e animato solo dal desiderio di evitare la morte (§ 6). Analogo al governo imposto per diritto di guerra e non formato da un popolo libero è quello del tiranno, che, sentendosi esposto a quotidiane insidie, è costretto a nutrire per il popolo sentimenti di diffidenza più che di affezione. L’«acutissimo» Machiavelli forse intese dimostrare, col suo Principe, quanto fosse dissennato voler abbattere un tiranno se non si possono eliminare anche le cause per le quali il principe diventa tiranno, e insieme volle forse ammonire un popolo libero di non affidare la propria sorte ad un uomo solo: «quell’uomo prudente fu infatti un partigiano della libertà, per la salvaguardia della quale suggerì salutari consigli» (§ 7).

4. Il governo monarchico (capp. 6-7) Ha inizio dal cap. 6 la trattazione delle tre forme di governo che la natura e l’esperienza hanno insegnato per lo più agli uomini: lo scopo dell’autore è di indagare e proporre tutti quei mezzi che servono non già alla preservazione dello Stato civile (che, essendo causato dalla stessa legge naturale, non sarà mai abbandonato definitivamente), ma alla

preservazione delle singole forme di governo, perché non degenerino in forme corrotte. Nei due capitoli ora in esame l’autore si propone di illustrare quelle condizioni e quella struttura politico-amministrativa che impediscono a un regime monarchico di degenerare in tirannide. Una sola regola Spinoza dichiara di aver seguito nel gettare le fondamenta del governo monarchico: «il popolo può conservare sotto il re una libertà abbastanza ampia, purché riesca a far sì che la potenza del re sia esclusivamente determinata dalla propria potenza e sia presidiata dalla propria forza» (7, § 31). Se, infatti, per moderare le passioni umane si intendesse affidare la suprema autorità ad un solo uomo, il suo governo sarebbe destinato inevitabilmente a trasformarsi in tirannide, poiché il potere di uno solo è infinitamente inferiore a quello di tutti gli altri, sopra tutto quando siano dominati dalle passioni. Egli temerebbe i propri sudditi più degli stessi nemici e cercherebbe più di procurare loro difficoltà che di amministrarli; egli temerebbe i suoi stessi figli e sarebbe indotto dal desiderio del dominio e dal timore di perderlo a mantenere l’ordine, non promuovendo la concordia e l’unione degli animi, ma impedendo le sedizioni, cioè mantenendo i sudditi nella schiavitù (6, §§ 5-7). È necessario pertanto che l’autorità del re sia garantita da una costituzione e da una struttura amministrativa al cui rispetto egli stesso sia tenuto, affinché provveda quanto più efficacemente è possibile al benessere del popolo, che costituisce la legge suprema del buon governo (6, § 8). Due sono i mezzi necessari a garantire la libertà del popolo e la sicurezza del governo monarchico: 1. l’istituzione di un ampio consiglio di cittadini eletti a tempo determinato in rappresentanza di tutte le famiglie, con lo scopo di proporre le leggi e controllare l’amministrazione dello Stato; 2. l’istituzione di un esercito stabile, costituito esclusivamente da cittadini, nessuno escluso (6, § 10). Poiché nel porre le fondamenta del buon governo si devono considerare sopra tutto le passioni umane e guardare non a ciò che si dovrebbe fare, ma a ciò che è realmente possibile fare, e poiché ciascuno persegue con tutte le forze il proprio privato interesse, l’istituzione di un consiglio generale e la scelta dei consiglieri devono avvenire in modo che il conseguimento dell’interesse privato dipenda dal conseguimento dell’utile comune (7, § 4). Perciò sarà necessario che i terreni e le case siano di diritto pubblico e

vengano dati ai cittadini in locazione dietro pagamento di un canone annuo che servirà, in parte, alle opere di fortificazione dello Stato, in parte all’uso privato del re (6, § 12); i consiglieri dovranno essere molti, sia per evitare la corruzione, più facile quando siano pochi, sia perché in tal modo verranno più facilmente rappresentate ed esposte le esigenze di tutti i cittadini; essi saranno scelti direttamente dal re in numero di 3, 4 o 5 per ogni famiglia, tra i membri che abbiano superato i 50 anni di età e siano moralmente irreprensibili; i membri eletti saranno in carica per un periodo limitato di 3, 4 o 5 anni, in modo che l’intero consiglio sia sempre costituito in parte da membri nuovi, in parte da membri più anziani: «La funzione primaria di questo consiglio sarà di difendere i diritti fondamentali dello Stato e di proporre le opere da compiersi, in modo che il re sappia che cosa sia da decretarsi per il pubblico bene e non gli sia concesso di prendere decisioni senza avere preventivamente sentito il parere di questo consiglio» (6, § 17). Al re spetterà di scegliere tra tutte le proposte presentate dal consiglio purché abbiano ottenuto almeno cento voti. «È compito di questo consiglio, inoltre, promulgare le disposizioni o i decreti del re, e curare l’esecuzione degli ordini relativi alla cosa pubblica, nonché di sorvegliare tutta l’amministrazione dello Stato, nella loro qualità di vicari del re» (6, § 18); «incombe a questo consiglio anche la cura di educare i figli del re, nonché di provvedere alla loro tutela, nel caso che il re muoia durante l’infanzia o la puerizia del suo successore» (6, § 20). Il consiglio generale esprimerà due consigli speciali, di numero più ridotto ma sempre abbastanza ampio (circa 50 membri), che dovranno amministrare rispettivamente la cosa pubblica e la giustizia: spetterà al consiglio generale, che si riunisce almeno quattro volte l’anno, controllare l’operato dei due consigli speciali. La seconda garanzia di libertà nel regime monarchico è costituita da un esercito formato esclusivamente dai sudditi, nel quale tutti siano tenuti a prestare servizio per poter essere ammessi nel numero dei cittadini. Nessuno stipendio deve essere pagato ai soldati. Un esercito stabile di soli cittadini ha, da un lato, il vantaggio di presidiare, cioè di limitare la potenza del re con la sola forza dei cittadini, impedendogli di agire contro di essi con truppe mercenarie (7, § 17); dall’altro indurrà il consiglio a decidere la guerra solo in caso estremo per la difesa della libertà e quando non temerà che i figli e i parenti, abbandonata la cura

delle famiglie per il servizio militare, non ne tornerebbero «senza altro guadagno che le cicatrici di ferite inutilmente riportate» (7, § 7).

5. Il governo aristocratico (capp. 8-10) L’autore distingue due forme di governo aristocratico, a seconda che lo Stato sia accentrato nella sola città capitale, come a Venezia (cap. 8), oppure che esso sia costituito dalla confederazione di più città, come in Olanda (cap. 9); egli esamina infine le ragioni dell’alterazione e della dissoluzione dei regimi aristocratici (cap. 10). Si chiama aristocratico «quel governo che è composto non da uno solo, ma da alcuni scelti tra la popolazione, che d’ora in poi chiameremo patrizi» (7, § 1). L’accesso al numero dei patrizi solo mediante elezione distingue il regime aristocratico da quello democratico, nel quale, invece, tutti quelli che possono dirsi cittadini, per il solo fatto di esserlo, «rivendicano giustamente a se stessi il diritto di voto nel supremo consiglio e di accesso alle pubbliche cariche, né è lecito negarlo loro se non per delitto o per indegnità» (11, § 1). La differenza che c’è tra il governo aristocratico e quello monarchico consiste anzitutto nel fatto che mentre la potenza di uno solo è impari a sostenere un governo, ciò non si può dire di un consiglio sufficientemente ampio; inoltre i re sono mortali, mentre i consigli sono eterni; in terzo luogo il potere monarchico è precario a causa delle vicende personali del re, mentre il potere del consiglio rimane sempre uno e identico; infine la volontà di un singolo è varia e incostante e dev’essere controllata dal potere di un consiglio, mentre la volontà di un consiglio abbastanza grande deve necessariamente coincidere con il diritto. Perciò si può concludere che il potere trasferito nelle mani di un consiglio abbastanza grande è molto vicino a quello assoluto, anzi è assoluto se si considera che il governo aristocratico non torna mai al popolo e che i suoi fondamenti devono consistere esclusivamente nella volontà e nel giudizio del consiglio, e non nel controllo del popolo, che perciò viene escluso sia dalle consultazioni sia dalle deliberazioni. Dunque il motivo per cui in pratica il governo non è assoluto, non può essere altro che questo, che i governanti hanno paura del popolo, il quale perciò mantiene una certa libertà, che, se non è sancita da una legge esplicita, gli è tuttavia

tacitamente riconosciuta (8, § 4). Poiché questa forma di governo è molto più vicina al governo assoluto (che solo si ha nella democrazia) di quanto non lo sia quello monarchico, essa è tanto più conforme al dettato della ragione e di conseguenza adatta alla conservazione della pace e della libertà (8, § 7), purché si osservino precise condizioni nell’organizzazione e nell’amministrazione dello Stato, che Spinoza indica in dettaglio. La prima e fondamentale condizione per la potenza del consiglio e per la garanzia della libertà e della giustizia, è che il consiglio generale dei patrizi sia sufficientemente ampio, in modo da rappresentare i cittadini in proporzione di uno a cinquanta. Pertanto, in uno Stato di media grandezza, che abbia cioè una capitale di media grandezza, il numero del consiglio generale dovrà essere di circa cinquemila patrizi, eletti tra i cittadini liberi, di onesti costumi, che abbiano superato i trent’anni: «Compito di questo consiglio sia di fare e di abrogare le leggi, di eleggere i colleghi patrizi e tutti i ministri dello Stato» (9, § 6). L’assemblea plenaria dei patrizi deve riunirsi periodicamente in epoche determinate e agli assenti, che non siano impediti da malattia o dai pubblici affari, deve essere comminata una notevole multa in denaro, poiché, «se non si facesse così, i più anteporrebbero la cura degli interessi privati all’amministrazione dei pubblici» (8, § 16). L’amministrazione dei pubblici affari, che non può essere adempiuta da un consiglio così numeroso, dev’essere affidata a un consiglio più ristretto, a cui spetti di «promulgare le leggi dello Stato, provvedere alla fortificazione della città nei modi stabiliti, distribuire i diplomi militari, imporre le tasse ai cittadini e destinarne i proventi, rispondere agl’inviati stranieri e decidere dove se ne debbano inviare» (8, § 29). Le decisioni più rilevanti, come quelle riguardanti la guerra e la pace, l’imposizione di nuovi tributi o la scelta degli ambasciatori devono essere ratificate dal consiglio supremo. A tutti i patrizi che abbiano compiuto il cinquantesimo anno di età deve essere garantita la possibilità di raggiungere l’ordine senatorio: se ne eleggeranno circa quattrocento ogni anno (un dodicesimo), e potranno essere rieletti dopo un biennio. Ai senatori va assegnata, quale emolumento, la centesima o cinquantesima parte delle merci esportate o importate, «in modo che ad essi debba essere più utile la pace che la guerra» (7, § 31). Poiché, tuttavia, l’intero

consiglio dei senatori non è in grado, per il suo numero, di sbrigare gli affari correnti, esso nominerà tra i propri membri con procedura stabilita e per brevi periodi un numero di patrizi abbastanza grande da non essere facilmente corrotto, che provvedano all’amministrazione quotidiana della cosa pubblica, convochino il senato quando alcuni di loro, anche pochi, lo ritengano necessario, propongano l’ordine della discussione, sciolgano il senato e provvedano all’esecuzione dei suoi decreti. A questi viene dato il nome di consoli. L’amministrazione della giustizia, sia civile sia penale, è affidata a un tribunale o consiglio di giudici eletto tra i patrizi, e abbastanza numeroso da non essere facilmente corrotto dai privati; il suo compito è «di dirimere le questioni sorgenti tra i privati, sia patrizi sia plebei, e di esigere le pene inflitte ai delinquenti, anche patrizi, sindaci e senatori» (7, § 38). La garanzia del retto funzionamento del consiglio dei giudici, dei consoli, del senato e dello stesso consiglio supremo o generale, è affidata a un consiglio speciale, composto di alcuni patrizi eletti a vita, che abbiano compiuto il sessantesimo anno e svolto la funzione senatoria, in numero di uno a cinquanta rispetto al consiglio generale dei patrizi, il cui compito sia «esclusivamente di vigilare affinché il diritto pubblico concernente i consigli e i funzionari del governo sia rispettato e che perciò abbiano la facoltà di chiamare davanti al proprio giudizio e di condannare ai sensi di legge qualsiasi ministro che si sia reso colpevole» (8, § 20). Ai componenti di questo consiglio, supremi custodi e garanti del diritto dello Stato, si dà il nome di sindaci. Si deve aggiungere che nel regime aristocratico mutano due norme basilari del regime monarchico: poiché l’uguaglianza è da esigersi tra i patrizi soltanto, e poiché la potenza di questi supera di gran lunga quella della plebe, non è necessario che l’esercito sia costituito esclusivamente da cittadini (benché non debba essere loro precluso), mentre è necessario che nessuno possa essere scelto tra i patrizi se non abbia appreso l’arte militare (8, § 9). In secondo luogo non è più necessario che i beni immobili siano di diritto pubblico, ma è utile, invece, che i privati ne posseggano in proprietà, poiché tutti, ad eccezione dei patrizi, sono stranieri in patria e potrebbero abbandonare in massa le città in caso di pericolo se non fossero trattenuti da beni non trasferibili (8, § 10).

Quanto alla religione, infine, è opportuno che tutti i patrizi professino la medesima religione, la più semplice e universale possibile; che lascino a tutti quelli che professano religioni diverse la libertà di parlare e di costruirsi «tanti templi quanti vogliono, ma piccoli e di determinate dimensioni e in luoghi l’uno dall’altro alquanto discosti. Ma i templi dedicati alla religione dello Stato importa molto che siano grandi e sontuosi, e che ai soli patrizi o senatori sia concesso di compiervi gli atti essenziali del culto» (8, § 46). Il governo aristocratico di uno Stato costituito da più città confederate non si distingue sostanzialmente da quello che precede se non per la diversa organizzazione del consiglio supremo: infatti, poiché questo Stato non ha capitale e ogni città, costituendo una parte considerevole dello Stato, ha anche un diritto considerevole proporzionato alla sua forza, diversa da quella di ogni altra città, ne consegue che i patrizi di ciascuna città hanno il sommo potere su di essa e compiono tutti gli atti necessari alla sua conservazione e al suo incremento. Per la trattazione degli affari comuni dello Stato va invece creato un senato analogo a quello del regime aristocratico unitario. Il consiglio supremo, il cui compito principale è di fare le leggi e di abrogarle, e di nominare i ministri, non va convocato «se non quando sia necessario riformare il governo stesso, o quando sia da trattare qualche difficile affare, che i senatori non si ritengano in grado di concludere da soli» (9, § 6). Per il resto la struttura amministrativa del governo aristocratico unitario va riprodotta in ciascuna città. Il regime di confederazione è preferibile a quello unitario perché in esso vengono meglio garantite la libertà dei cittadini e l’autorità del supremo potere: infatti, i patrizi di ciascuna città, per conservare e accrescere il proprio potere nella città e nello Stato, cercheranno sopra tutto la benevolenza del popolo, che si traduce in maggiore libertà. Inoltre il supremo consiglio, non essendo convocato in tempo e luogo prestabiliti, potrà essere difficilmente destituito con la forza. I cittadini troppo potenti non faranno paura perché, essendo molte le città, non riusciranno a dominarle tutte; infine, la libertà è dominio dei più, poiché «dove una città sola è regina, al bene di tutte le altre si provvede solo nella misura in cui la cosa convenga a questa città sovrana» (9, § 14). Quanto alle cause della corruzione degli Stati, Spinoza concorda con

«l’acutissimo scrittore fiorentino» (Niccolò Machiavelli) nel ritenere che la causa primaria sia dovuta al fatto che «allo Stato, così come al corpo umano, continuamente si viene aggregando qualcosa, che di quando in quando esige un intervento curativo» (10, § 1). E l’autore ritiene che nella delineata costituzione del governo aristocratico il consiglio dei sindaci possa assolvere a questa funzione di prevenzione e correzione che, meno felicemente, altri hanno affidato di tanto in tanto ad un dittatore. Per combattere invece i vizi che in tempo di pace sogliono insinuarsi nella società civile, si dovranno stimolare quelle passioni contrarie, come l’ambizione, il desiderio di accrescere i propri beni e perfino l’avarizia, che possono opporsi alle altre e contribuire maggiormente alla stabilità e al bene dello Stato. Infatti le leggi «non possono conservarsi inviolate, se non siano difese dalla ragione e dalla comune passione degli uomini; perché, se si appoggiano al solo sostegno della ragione, restano inefficaci e facilmente soccombono. Avendo dunque noi dimostrato che i diritti fondamentali dei due governi aristocratici concordano con la ragione e con la comune passione umana, possiamo affermare che, se si danno governi perpetui, questi sono necessariamente tali, non potendo essere distrutti da alcuna causa loro imputabile, ma soltanto da una qualche inevitabile fatalità» (10, § 9).

6. La democrazia (cap. 11) La trattazione del governo democratico fu interrotta, dopo il quarto paragrafo, dalla morte dell’autore. La differenza tra il governo democratico e quello aristocratico consiste principalmente, come si è già detto, nel fatto che in questo i membri del consiglio supremo vengono eletti, mentre in quello vengono designati per legge, purché si trovino in certe condizioni. L’autore intende trattare solo di quel governo democratico «nel quale tutti coloro che sono soggetti esclusivamente alle patrie leggi, che sono liberi di sé e che vivono onestamente, hanno il diritto di voto nel supremo consiglio e di accesso alle pubbliche cariche» (§ 3). Dunque Spinoza esclude rigorosamente gli stranieri, soggetti all’altrui potere; le donne, considerate «per natura» soggette ai mariti (§ 4); i servi, soggetti ai padroni; e quelli che, o per delitti commessi o per tenore di vita, sono

indegni di amministrare lo Stato. Qui si interrompe la trattazione di quella forma di governo, che, per essere del tutto assoluto, cioè essendo in esso la grande maggioranza dei cittadini contemporaneamente soggetto ed oggetto del sommo potere, era preferito da Spinoza come più conforme alla ragione, alla sicurezza e alla libertà.

VII. Epistolario, «grammatica della lingua ebraica in compendio», «calcolo algebrico dell’arcobaleno», «calcolo delle probabilità»

L’epistolario è costituito, fino ad oggi, da 88 lettere di e a Spinoza, di cui 75 (compresa quella preposta come introduzione al Trattato politico) pubblicate nelle Opere postume, le altre provenienti da altra fonte. L’edizione critica del Gebhardt contiene 86 lettere, alle quali sono da aggiungere la lettera 12 a (di Spinoza a Meyer) recentemente scoperta e 48 b di Spinoza a Jelles, contenuta in tre testimonianze. Alcune lettere sono indirizzate ai destinatari attraverso terzi, come la lettera 43 a Jacob Ostens in risposta ad una lettera di van Velthuysen sul Trattato teologicopolitico e le lettere a Tschirnhaus, tramite Schuller; la lettera 30, infine, nei suoi due frammenti, è citata da Oldenburg in due lettere a Robert Moray (7.10.1665) e a Robert Boyle (10.10.1665). L’epistolario si apre con una lettera di Oldenburg del settembre 1661 e si conclude con la lettera che annuncia la composizione del Trattato politico, della seconda metà del 1676. Delle 88 lettere 50 appartengono a Spinoza e 38 ai corrispondenti; 52 lettere sono state composte originariamente in latino e 26 in nederlandese; di Spinoza si conoscono 13 autografi, di cui 2 in nederlandese. Cinquanta lettere in quindici anni non sono molte, anche se non sono tutte quelle che Spinoza scrisse; l’attività epistolare del filosofo non è comunque paragonabile a quella regolare e talvolta monumentale di molti suoi contemporanei. Per di più, nella maggior parte delle lettere che possediamo sono stati tolti dallo stesso autore, o, forse, anche dagli editori, tutti i riferimenti privati che non avessero un immediato interesse filosofico. Non per questo, tuttavia, l’epistolario cessa di

rivestire un’importanza fondamentale per la conoscenza della storia intellettuale di Spinoza, della sua personalità, del suo ambiente e dei primi giudizi dati sulla sua opera. Sotto il profilo puramente dottrinale non c’è nulla o quasi, nell’epistolario, che non sia contenuto nell’Etica o nelle altre opere; esso, tuttavia, offre informazioni preziose e documenti insostituibili per studiare e ricostruire, specie nella fase iniziale, l’evoluzione di un pensiero che, altrimenti, si consegnerebbe a noi in forma cristallizzata e quasi impenetrabile nella sua storia. L’epistolario offre, infine, informazioni esclusive sull’attività tecnica e sulle teorie ottiche professate da Spinoza, nonché le sue opinioni e i suoi interessi scientifici in fisica, chimica e astronomia. La Grammatica della lingua ebraica in compendio (Compendium Grammatices linguae hebraeae), incompiuta, fu pubblicata nelle Opere postume, in latino (senza essere tradotta in nederlandese) dopo le Lettere, con numerazione autonoma (pp. 1-112), per decisione degli editori, i quali, come avvenne per il Tractatus de intellectus emendatione e secondo la dichiarazione di un’analoga Admonitio ad lectorem, non vollero privare i lettori di un’opera alla quale l’autore, versatissimo nella conoscenza dell’ebraico, aveva atteso proprio su richiesta degli amici, desiderosi di approfondire lo studio della «santa lingua». Tuttavia, non si tratta propriamente di una grammatica dell’ebraico scritturale, che già altre volte prima di Spinoza era stata composta; ma di una grammatica della lingua ebraica, mai prima scritta. Lo ricordano gli editori nella prefazione generale delle Opere postume, dove avvertono che la cosa principale che l’autore raccomanda di meditare è che tutte le voci della lingua ebraica, eccettuate le interiezioni, le congiunzioni e qualche altra rara particella, hanno la natura e le proprietà del nome. Dell’etimologia, infatti, cioè della declinazione dei nomi e della coniugazione dei verbi si occupa la parte composta, che costituiva, nel disegno dell’autore, la prima parte dell’opera; la seconda, neppure iniziata, doveva essere dedicata alla sintassi e se, come lo fu quasi per intero la prima, fosse stata portata a compimento, non poco merito l’autore avrebbe ottenuto dai cultori della lingua ebraica. Si è ritenuto comunemente che l’opera fosse stata composta da Spinoza negli ultimi anni; ma il Gebhardt, che ne ha dato l’ultima

edizione critica (G, I, 285-403), preferisce pensare che essa sia stata composta in prossimità o in concomitanza del Trattato teologico politico, come quella «Historia linguae Hebraicae» che qui viene prescritta come prima condizione per una scientifica interpretazione della Scrittura (cap. 7; G, III, 99, 33-100, 7). I due inizi di trattati in lingua nederlandese, dal titolo Calcolo algebrico dell’arcobaleno e Calcolo delle probabilità furono pubblicati la prima volta a L’Aja nel 1687 presso l’editore Levijn van Dijk. Alla probabile esistenza del primo presso qualche amico di Spinoza – «a meno che l’autore non l’abbia dato alle fiamme» accennano gli editori delle Opere postume; sicché, quando il volumetto seicentesco che li conteneva cadde nelle mani di quello stesso libraio Friedrieck Müller di Amsterdam, che trovò anche il Ms. B del Breve trattato, il Calcolo algebrico dell’arcobaleno venne inserito da Van Vloten nel Supplementum alle opere di Spinoza del 1862. Nella prima edizione (1883) delle opere di Spinoza a cura di Van Vloten e Land venne inserito anche il secondo trattato; i due frammenti appaiono ora nel quarto volume dell’edizione Gebhardt, alle pagine 345349 e 360-362. Il Calcolo dell’arcobaleno, che, stando al sottotitolo, fu composto allo scopo di ottenere una più stretta connessione della fisica con la matematica, è una dimostrazione della teoria cartesiana esposta nel trattato delle Meteore; il Calcolo delle probabilità trae la sua origine dall’interesse che questo genere di ricerca suscitava intorno alla metà del Seicento non solo nei matematici ma anche negli uomini di governo, che pensavano di servirsene come strumento di previsione nell’amministrazione della vita pubblica. Blaise Pascal aveva composto un Traité général de la roulette (1659); Christian Huygens due trattati De ratiociniis in ludo aleae (1656) e Van rekeningh in spelen van geluck (1660); lo stesso Gran Pensionario De Witt un trattato dal titolo Waerdye van lijfrenten naar proportie van losrenten (1671). Una formulazione dei problemi del trattato si trova nella lettera 38 (1° ottobre 1666) di Spinoza a Johan van der Meer, che (interessato al calcolo delle probabilità come amministratore) aveva posto al filosofo una questione intorno alle condizioni che offrissero pari probabilità di successo a due giocatori d’azzardo. Si è ritenuto probabile che Spinoza avesse iniziato a comporre il Calcolo delle probabilità per lo stesso van der Meer, nelle cui mani

sarebbe rimasta la parte composta, insieme all’inizio del Calcolo algebrico dell’arcobaleno. Van der Meer aveva molti contatti a L’Aja ed è possibile che avesse concordato con Levijn Van Dijck l’edizione dei due frammenti, che videro la luce l’anno successivo alla sua morte (1686). Tuttavia, recentemente, è stata respinta con solidi argomenti la paternità spinoziana dei due frammenti, che pertanto devono essere considerati di incerta attribuzione (cfr. J.J.V.M. Vet, Was Spinoza de auteur van «Stelkonstige Reeckening van den Regenboog» en van «Reeckening van Kanssen»?, «Tijdschrift voor filosofie», 45, 1983; Wim Klever, Nieuve argumenten tegen de toeschrijving van het auteurschap van «Stelkonstige Reeckening van den Regenboog» en «Reeckening van Kanssen» aan Spinoza, «Tijdschrift voor filosofie», 47, 1985, pp. 493-502).

Cronologia della vita e delle opere

1632 II 24 novembre nasce ad Amsterdam Bento/Baruch/Benedictus da Michael d’Espinoza (Despinoza o De Spinoza), mercante della comunità ebraica portoghese. In famiglia parla il portoghese, ma apprende anche il nederlandese. Nello stesso anno nascono il pittore Jan Vermeer e il naturalista Antoni van Leeuwenhoek, inventore del microscopio. Rembrandt dipinge la Lezione di anatomia del prof. N. Tulp, le cui Observationes medicae si troveranno nella biblioteca di Spinoza. Galilei pubblica il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo; l’anno seguente sarà condannato dal tribunale dell’Inquisizione e costretto a ritrattare. 1637 Descartes, Discours de la Méthode. 1639 Spinoza inizia a frequentare la Scuola della Comunità giudaico-portoghese di Amsterdam, dove apprende la lingua ebraica e studia i testi dell’Antico Testamento e il Talmud. Rembrandt acquista la famosa casa in Joden-Breestraat, a poca distanza da quella di Spinoza. 1640 Uriel da Costa, che dalla religione ebraica era passato alla cristiana, viene pubblicamente flagellato per essere riammesso nella comunità ebraica; dopo la condanna si suicida. Spinoza probabilmente assiste alla flagellazione. Grozio, De imperio summarum potestatum circa sacra. 1641 Descartes, Méditations. 1642 Hobbes, De cive. 1644 Descartes, Les Principes de la Philosophie. 1648 Pace di Münster con la Spagna e dichiarazione di indipendenza delle Sette Provincie nederlandesi. 1649 Muore il fratello Jshac e probabilmente Bento è chiamato dal padre a partecipare direttamente all’attività commerciale. Descartes, Les Passions de l’Âme. 1650 Morte di Descartes. 1651 Nei registri della Scuola appare ancora il nome di Spinoza, che scompare negli anni successivi. Hobbes, Leviathan. 1652 Prima guerra anglo-olandese. Van den Enden apre ad Amsterdam una scuola di latino. 1654 Muore Michael lasciando forti debiti a causa di investimenti perduti nel naufragio di una nave. Il commercio paterno viene continuato dalla nuova Firma Bento y Gabriel d’Espinoza. Bento riceve un tutore, non essendo ancora maggiorenne. 1655 Spinoza denuncia un debitore moroso, lo fa arrestare, ottiene giustizia e gli offre di nuovo un prestito per pagare le guardie e uscire di prigione. Si stabilisce ad Amsterdam Juan de Prado, ebreo, filosofo e deista con il quale Spinoza entra in contatto. Il nome di Baruch figura ancora nel libro delle offerte della comunità Talmud Thora. 1656 Spinoza è sospettato di eterodossia ed è sottoposto ad interrogatorio; subisce un attentato da parte di un fanatico ebreo che gli avrebbe scagliato un pugnale per ucciderlo: secondo Bayle all’uscita dal teatro; secondo Colerus all’uscita dalla Sinagoga. Il 27 luglio viene scomunicato.

1656-1658 È in contatto con esponenti di sette cristiane, quali Mennoniti, Collegianti, Quaccheri. Frequenta la scuola di latino di Van den Enden, nella quale, probabilmente, svolge anche la funzione di ripetitore. Negli anni 1657 e 1658 gli allievi della scuola studiano e mettono in scena le commedie di Terenzio Andria ed Eunuco, delle quali ricorrono diverse citazioni, a memoria, nelle opere spinoziane, ad eccezione che nel Tractatus de intellectus emendatione, in corso di composizione in questi stessi anni. Lavora alla molatura delle lenti e studia più intensamente le opere di Descartes. 1661 Si trasferisce a Rijnsburg (forse nella prima metà dell’anno). Dalla prima lettera dell’epistolario (di Oldenburg, da Londra, agosto 1661) sappiamo con certezza che Spinoza abita a Rijnsburg nel luglio 1661. In questi mesi porta a termine la Korte Verhandeling (Breve trattato). 1662 Riformula more geometrico la prima parte del Breve trattato: è il De Deo, prima delle tre parti progettate per la sua Filosofia, che verso la fine dell’anno viene inviata al circolo degli amici di Amsterdam. 1663 Pubblica Renati Des Cartes Principiorum Philosophiae pars I & II e i Cogitata Metaphysica. Incontra Jan de Witt, che gli offre una pensione annua di 200 fiorini. Si trasferisce a Voorburg (vicino a L’Aja), dove abitano anche Huygens e i libertini francesi Charles de St.-Evremond e Gabriel de St.-Glain: quest’ultimo tradurrà più tardi il Tractatus theologico-politicus. 1664 Esce la traduzione nederlandese dei Principia e dei Cogitata. 1665 Invasione dei Paesi Bassi da parte della Francia. Seconda guerra anglo-olandese (pace di Breda 1667). Spinoza annuncia a Oldenburg di avere iniziato a comporre il Tractatus theologicopoliticus (Ep. 30). 1669 Muore Rembrandt. 1670 Viene pubblicato il Tractatus theologico-politicus. Spinoza si trasferisce a L’Aja. Pascal, Pensées. 1672 Guerra contro la Francia e l’Inghilterra. I francesi invadono l’Olanda. Jan de Witt deve dimettersi. Guglielmo III d’Orange assume insieme le cariche di Capitano generale e di Governatore (Stadhouder). Fine dell’esperienza repubblicana: i fratelli De Witt vengono assassinati (20 agosto). Samuel Puffendorf, De jure naturae et gentium. 1673 Spinoza è invitato a insegnare filosofia all’Università di Heidelberg: rifiuta temendo limitazioni alla libertà di ricerca e di insegnamento. 1674 Le Corti d’Olanda condannano il Tractatus theologico-politicus insieme alla Philosophia s. Scripturae interpres di Meyer e al Leviathan di Hobbes. 1675 Va ad Amsterdam per curare l’edizione dell’Etica; desiste a causa dell’«odio teologico». Muore Vermeer. 1676 Sta componendo il Tractatus politicus. Riceve la visita di Leibniz. 1677 II 21 febbraio muore a L’Aja. Nello stesso anno vengono pubblicate le Opere postume in latino e in nederlandese, con le sole iniziali B. D. S., senza editore e senza luogo. Contengono, nell’ordine: Ethica, Tractatus politicus, Tractatus de intellectus emendatione, Epistolae, Compendium grammatices linguae hebraeae. 1687 Vengono pubblicati dall’editore Van Dijck a L’Aja i trattati incompiuti Stelkonstige Reeckening van den Regenboog (Calcolo algebrico dell’arcobaleno) e Reeckening van Kanssen (Calcolo delle probabilità), per molto tempo attribuiti a Spinoza e oggi considerati di incerta attribuzione. 1862 Jan van Vloten cura la prima edizione della Korte Verhandeling (Ms. B) in un Supplementum alle opere di Spinoza. Il Ms. A verrà pubblicato da Carl Schaarschmidt nel 1869.

Storia della critica

1. Dall’epistolario spinoziano all’articolo del Bayle Nel delineare, sia pure rapidamente, i temi e i tempi della storiografia spinoziana, è opportuno rivolgere l’attenzione anzitutto all’epistolario, che registra e trasmette le prime osservazioni, domande, perplessità, obiezioni e critiche, rivolte al sistema o ad alcune sue parti, nel suo stesso costituirsi, sia prima sia dopo la pubblicazione dei Principi della Filosofia di Cartesio (1663) e, sopra tutto, del Trattato teologico-politico (1670). Si tratta di difficoltà, obiezioni e giudizi che verranno ripresi e confermati anche dopo la pubblicazione delle Opere postume (1677) e ai quali resterà sostanzialmente ancorata tutta la critica settecentesca. Non sarà dunque ingiustificato rivolgere una particolare attenzione a questi primi documenti della critica spinoziana, anche per la comodità del lettore, che potrà controllarne direttamente i testi e con molta più facilità di quanto non sia possibile fare con le opere seicentesche e settecentesche che verranno in seguito ricordate. Nell’epistolario si possono distinguere due generi di critiche, a seconda che esse siano originate da puro interesse speculativo, oppure da sensibilità, giudizi o, talvolta, pregiudizi di ordine affettivo, morale e religioso. Il secondo genere di critica prevale di molto sul primo, per il numero, la passionalità e le conseguenze degli interventi; le critiche dettate da puro desiderio di indagine e di comprensione hanno, invece, sollevato questioni filosofiche centrali a lungo dibattute nella storia dello spinozismo e in gran parte, forse, ancora insolute. Iniziando da queste ultime si possono elencare le questioni che seguono: 1. Il problema della definizione viene sollevato già da Oldenburg nell’Ep. 3, dove si chiede se e come, dalla sola definizione di Dio, possa essere immediatamente dimostrata la sua esistenza; ma esso è posto formalmente come problema della natura, delle condizioni e della

validità di una definizione vera nell’Ep. 8 di De Vries, a cui Spinoza risponde nelle Ep. 9 e 10. 2. Il problema della relazione tra l’infinità degli attributi, concepiti come sostanze esistenti per sé e pensabili per sé, e l’unità della Sostanza assolutamente infinita o Dio, affiora già nell’Ep. 3 di Oldenburg, al quale sembra che affermare l’autocausalità delle sostanze e la loro assoluta reciproca indipendenza equivalga a farne «altrettanti dèi, negando così la prima causa di tutte le cose». Il problema riappare nell’Ep. 8 di De Vries, alla quale Spinoza risponde nell’Ep. 9, dimostrando che una sola e medesima cosa può essere chiamata con due nomi diversi (sostanza e attributo), a seconda del diverso riferimento nel quale la si assume: «ciò che esiste in sé e si concepisce per sé» (ad esempio il pensiero o l’estensione) si dice sostanza; ma si chiama attributo rispetto all’intelletto che considera tale ‘sostanza’ come appartenente essenzialmente a quell’unica sostanza che sola è assolutamente infinita. Tale spiegazione, tuttavia, non doveva apparire del tutto chiara e convincente neppure al signor Hudde, alle cui questioni intorno all’unità di Dio Spinoza rispose nelle Ep. 34-36. 3. Altro problema cruciale è quello della relazione tra sostanza e modi. Nell’Ep. 3 Oldenburg osserva (concependo ancora i modi come sostanze) che, non essendovi nulla in comune tra Dio e le cose create, il primo non poteva esser considerato causa delle seconde, se tra due sostanze che non hanno nulla in comune non può esservi alcun rapporto causale. Spinoza risponde, nella lettera successiva, di avere affermato esattamente il contrario nella definizione di Dio, cioè che le cose hanno tutto in comune con Dio, non potendo esistere né essere pensate al di fuori e senza di Dio. Ma Oldenburg, nell’Ep. 5, torna di nuovo a porre la questione: «finché non avrò visto chiaramente da quale causa e in che modo le cose abbiano cominciato a esistere, e in qual rapporto di dipendenza si trovino con la prima causa, se pure questa sussiste, tutto quello che sento o che leggo mi parrà inutile». Il problema principale ed esplicitamente posto da Oldenburg concerne dunque la possibilità di intendere la causalità divina («se pure questa sussiste») concependo, dal suo punto di vista, le cose create come sostanze; ma probabilmente egli avvertiva anche che, ammessa la causalità, cioè la comunanza essenziale o formale tra causa ed effetti, veniva a porsi un problema di relazioni che

non poteva essere spiegato mediante la causalità transitiva e che più tardi avrebbe condotto all’accusa di panteismo. La medesima difficoltà doveva essere presente nelle lettere di Meyer, perdute, alle quali Spinoza risponde nell’Ep. 12, intorno alla natura dell’infinito. 4. Sulla definizione dei due soli attributi «a noi noti» (pensiero ed estensione) e sulla loro differenza, insiste Oldenburg nell’Ep. 1; lo Tschirnhaus, invece, nelle Ep. 63 e 65 chiede una dimostrazione positiva, e non solo per assurdo, dell’impossibilità di conoscere altri attributi all’infuori del pensiero e dell’estensione; nell’Ep. 67A Niels Stensen nega che Spinoza riesca a dimostrare l’unione tra estensione e pensiero, ma in riferimento ai Principi della filosofia cartesiana. 5. Infine, nelle Ep. 80 e 82 Tschirnhaus pone la questione della deduzione delle proprietà dalla definizione di una qualunque cosa data, riferendosi alla problematica proposizione 16 della prima parte dell’Etica e alla possibilità di dedurre a priori, dalla definizione di estensione, la varietà, la figura e il movimento dei corpi. Nella risposta (Ep. 83) Spinoza dichiara che è impossibile dimostrare a priori la varietà delle cose dal solo concetto di estensione e che, «per questo, la materia è mal definita da Cartesio con l’estensione, ma si deve necessariamente spiegare con un attributo che ne esprima l’essenza eterna e infinita. Ma di ciò tratteremo forse qualche volta insieme più chiaramente, se resterò in vita. Infatti, finora non ho potuto ordinare le mie idee su questo punto». Come si vede, la domanda posta da Tschirnhaus intorno al rapporto tra materia ed estensione, e alla natura del moto, poneva una questione ancora completamente aperta e destinata a rimaner tale per la morte dell’autore, avvenuta sette mesi dopo. Tra le critiche o, piuttosto, le accuse mosse alla filosofia spinoziana in nome dei diritti della moralità, della pietà e della religione, con toni che vanno dal rispettoso dissenso dell’Oldenburg alla distaccata critica del van Velthuysen e ai torbidi insulti di Albert Burgh, vanno considerate principalmente quelle che ora vengono brevemente enunciate. 1. La filosofia di Spinoza, fondata sull’affermazione della necessità della causazione divina per sola natura, e non per libera scelta di intelletto e volontà, è un determinismo assoluto, che distrugge morale, pietà e religione, perché toglie la responsabilità individuale, la colpa e il merito, il premio e la pena, concludendo o alla negazione della realtà del

male, oppure all’affermazione che causa del male è Dio. Si vedano, ad esempio, le Ep. 18 e 20 di Van Blyenberg: nella seconda, in particolare, emergono due motivi che appariranno più tardi in interpretazioni cruciali per la storia dello spinozismo. Il primo, che prelude al «salto mortale» di cui parlerà Jacobi, nasce dalla duplice regola che l’interlocutore di Spinoza dichiara di seguire: «la prima consiste nel concetto chiaro e distinto del mio intelletto: la seconda, nel Verbo rivelato di Dio, ossia nella divina volontà. Per la prima cerco di essere amante della verità, e per entrambe di essere un filosofo cristiano». Naturalmente, quando il filosofo si fosse trovato in contrasto con il cristiano, sarebbe stato quest’ultimo e la sua fede nell’autorità della parola rivelata, a prevalere. Il filosofo Van Blyenberg è condotto ad approvare gli argomenti di Spinoza; ma il cristiano che è in lui gli impone di dissentire: «Se io giudicassi la vostra lettera sulla sola base della mia prima regola, escludendo la seconda come se io non me la imponessi o essa non sussistesse, molte cose dovrei ammettervi, come infatti vi ammetto, e i vostri sottili concetti si imporrebbero alla mia approvazione. Ma la seconda regola mi obbliga a dissentire maggiormente da voi». Il secondo motivo trae alimento dalle esigenze del sentimento, cioè dal bisogno della consolazione e del rassicuramento, sicché ad una filosofia vera (o che appaia tale) si preferisce una filosofia consolatoria: «a questo, appunto, sembrano condurmi le vostre opinioni, per le quali cessando io di esistere quaggiù, cesserò di esistere anche in eterno; mentre quel Verbo e la volontà di Dio mi consolano con l’interiore testimonianza che dopo questa vita godrò di uno stato più perfetto nella contemplazione della perfettissima Deità» (corsivo mio). Analoghe critiche o accuse di determinismo, con conseguente negazione della divina provvidenza, si trovano nell’Ep. 42 di van Velthuysen, nell’Ep. 55 di Hugo Boxel, nell’Ep. 57 di Tschirnhaus, nell’Ep. 67 di Burgh e, infine, nelle Ep. 74, 77 e 79 di Oldenburg, per il quale proprio la dottrina della fatale necessità di tutte le cose e di tutte le azioni appare, ai lettori del Trattato teologico-politico, sovvertire interamente la pratica della vita religiosa. 2. La seconda accusa è quella di ateismo: secondo van Velthuysen, identificando Dio con l’Universo e attribuendo alla sua opera creatrice una fatale necessità, Spinoza «insegna con sottili e larvati argomenti uno schietto ateismo» (Ep. 42): è la prima accusa esplicita di ateismo,

immediatamente successiva alla pubblicazione del Trattato teologicopolitico, di cui la lettera costituisce una severa, ma non astiosa recensione critica. L’accusa di ateismo ricorre pesantemente nell’Ep. 67 di Burgh («riflettete alla misera e inquieta vita degli atei»); in modo velato nell’Ep. 71 di Oldenburg, nella quale si rimprovera l’autore di confondere ambiguamente Dio e la Natura. Ma l’accusa di ateismo rivoltagli dal popolo emerge anche dalla stessa penna di Spinoza, che cerca di respingerla: già nell’Ep. 30 (del 1665) il filosofo dichiara ad Oldenburg che uno dei motivi che lo hanno indotto a tentare un nuovo esame della Scrittura è «l’opinione che di me ha il volgo, il quale non cessa di dipingermi come ateo»; nell’Ep. 68 di dieci anni dopo, Spinoza narra, sempre all’Oldenburg, come fosse fallito il suo tentativo di pubblicare l’Etica a causa della notizia, preventivamente divulgata dai teologi, che un suo libro, nel quale cercava di dimostrare «che Dio non esiste», fosse già sotto il torchio. 3. Nell’Ep. 67A di Stensen, affiora forse l’unica accusa esplicita di materialismo, che sia possibile registrare nell’epistolario: «Voi trattate della materia in movimento come se la causa di questo fosse lontana o non esistesse affatto. È una religione di corpi, e non di anime, quella che voi introducete. Il vostro amore del prossimo contempla le azioni necessarie alla conservazione dell’individuo e alla propagazione della specie; ma di quelle azioni, che hanno di mira la conoscenza e l’amore del creatore, voi vi curate poco o nulla». 4. La dottrina di Spinoza nega l’immortalità dell’anima, come si legge nelle Ep. 20 e 24 di Van Blyenberg. 5. Con la sua dottrina della profezia, Spinoza non riconosce la divinità e l’infallibilità della Scrittura (Ep. 20 di Van Blyenberg); e nell’Ep. 42 van Velthuysen osserva che gli argomenti spinoziani distruggono del tutto l’autorità della Sacra Scrittura «giacché dai suoi principi si deve conchiudere che anche il Corano è da tenersi in conto di parola di Dio. Neppure un argomento resta ancora all’Autore per provare che Maometto non fu un vero profeta, perché anche i Turchi osservano, secondo il precetto del loro profeta, quelle virtù morali di cui non vi è discussione tra le genti: e secondo il nostro Autore non è cosa insolita per Dio il condurre all’obbedienza e alla ragione con altre rivelazioni anche coloro ai quali non ha partecipato le profezie riservate

agli Ebrei e ai Cristiani». 6. Del resto, la certezza della divina rivelazione è distrutta con la negazione della possibilità e del valore dei miracoli, osserva Oldenburg nell’Ep. 71; van Velthuysen, nell’Ep. 42, ricorda che «nel pensiero del nostro autore il miracolo è ciò che avviene inopinatamente e per cause che il volgo ignora», dal momento che «la natura e l’ordine delle cose sono altrettanto necessari quanto la natura di Dio e le verità eterne»; e Oldenburg, nell’Ep. 79: «La vostra persistenza nel ritenere equipollenti i miracoli e l’ignoranza sembra fondata sul fatto che la creatura possa e debba essere consapevole dell’infinita potenza e sapienza del Creatore, mentre io sono finora assolutamente convinto del contrario». 7. Nell’Ep. 71 Oldenburg fa sapere a Spinoza che molti «dicono che voi nascondete la vostra opinione intorno a Gesù Cristo»; ma avendo udito le risposte date da Spinoza, conclude così l’Ep. 79: «La vostra affermazione, infine, che la passione, la morte e la sepoltura di Cristo si debbano intendere alla lettera, ma la resurrezione allegoricamente, non è suffragata, a quanto mi pare, da alcun argomento. Nei Vangeli sembra esposto in termini letterali tanto la resurrezione quanto il resto. E sul dogma della resurrezione poggia tutta la religione cristiana e la sua verità, e se essa è negata, la missione e la celeste dottrina di Cristo crollano insieme. Non vi può essere sfuggito quanto Cristo risorto si sia preoccupato di convincere i suoi discepoli della verità della resurrezione così propriamente intesa. E il voler tradurre tutto ciò in allegorie equivale al proposito di distruggere l’intera verità della narrazione evangelica». La lettera è dell’11 febbraio 1676; non sappiamo se il rapporto epistolare con l’Oldenburg abbia avuto seguito. È evidente, tuttavia, che anche nel segretario della Royal Society, dopo una relazione epistolare con Spinoza durata quindici anni, la seconda regola professata da Van Blyenberg ebbe il sopravvento sulla prima, avendo dimenticato quell’esortazione che molti anni prima egli stesso aveva rivolto a Spinoza, quando lo invitava a cercare il conforto degli uomini «veramente dotti ed acuti [...], piuttosto che uniformarsi, secondo il costume del nostro tempo, al beneplacito dei teologi, più preoccupati della comodità che della verità» (Ep. 11, 3 aprile 1663). La diffusione che il Trattato teologico-politico ebbe subito, sopra tutto in Olanda, Francia, Germania, Inghilterra e Svizzera, attraverso le

numerose edizioni che anche sotto falso titolo vennero stampate, non mancò di suscitare opposizioni critiche e confutazioni, nelle quali, in modo più o meno violento, vengono mosse le accuse che emergono già dall’epistolario e vengono difesi i diritti della religione, della pietà e della teologia. Nell’anno stesso della pubblicazione del Trattato si può registrare l’attacco verbale, pronunciato in un sermone da JacobThomasius (maestro di Leibniz) e pubblicato più tardi col titolo: Programma adversus anonimum de libertate philosophandi (1693). Nel 1671 appare l’Epistola ad Amicum, continens censuram libri, cui titulus: Tractatus theologico-politicus di Johannes Melchior, ristampato l’anno successivo col titolo: Religio ejusque natura et principium sive epistola qua ad examen vocatur Tractatus Theologico-Politicus (Utrecht 1672). Importanza particolare ebbe il ritratto che di Spinoza fece Jean-Baptiste Stouppe in un libello, costituito da alcune lettere, dal titolo La religion des Hollandois (1673), scritto allo scopo di mettere in cattiva luce le numerose chiese riformate che vivevano in Olanda, e di criticare i teologi olandesi che non avevano ancora risposto con la necessaria energia al trattato di Spinoza. Bayle cita nel suo articolo il giudizio dello Stouppe e, benché con alcune riserve, mostra di condividerlo sostanzialmente. Secondo lo Stouppe, scopo del Trattato teologico-politico sembra essere quello «di distruggere tutte le religioni, e particolarmente quella giudaica e quella cristiana, per introdurre l’ateismo, lo spirito libertino e la libertà di tutte le religioni». L’anno successivo (1674), annunciato già da alcuni provvedimenti ufficiali precedenti, giunge la condanna del Trattato da parte delle Corti di Olanda; nello stesso anno escono ad Amsterdam le confutazioni di Regnier van Mansvelt, Adversus Anonymum Theologico-Politicum Liber singularis e di Johannes Batalerius, Vindiciae miraculorum; nel 1675 appare la Enervatio «Tractatus Theologico-Politici» di Johannes Bredenburg, lodato dal Bayle perché nessuno, come lui, seppe scoprire e mostrare i semi dell’ateismo nascosti in quel «libro pernicioso e detestabile»; il Bredenburg, tuttavia, come anche Franz Kuyper, che pubblicò nel 1676 gli Arcana atheismi revelata, philosophice et paradoxe refutata, fu in seguito accusato di aver condiviso gli stessi principi spinoziani, che si era sforzato di combattere. Dopo la pubblicazione delle Opere postume (1677), gli attacchi non si rivolgono solo al Trattato teologico-politico (che, tuttavia, avendo avuto una

più ampia diffusione, suscitava maggiori discussioni e critiche) ma anche all’Etica. Nel 1679 esce la Demonstratio evangelica di Pierre Daniel Huet, che Spinoza attendeva già nel luglio del 1676 (Ep. 83); nel 1680 appaiono il De tribus impostoribus magnis di Christian Kortholt, gli Opera omnia di Lambert van Velthuysen, che contengono una confutazione del Trattato teologico-politico, e la Philosophia theologica, contra Cartesii et Spinozae theologicam philosophiam di Johannes Fridericus Helvetius. Sono ancora da ricordare L’Impiété convaincue (1681) di Pierre Yvon; L’impie convaincu ou Dissertation contre Spinoza (1684) di Noël Aubert de Versé, che pubblicò anche, nel 1687, un Traité de la liberté de conscience ou de l’autorité des souverains sur la religion des peuples, opposé aux maximes impies de Hobbes et de Spinoza, e lo Specimen artis ratiocinandi naturalis et artificialis (1684) di Abraham Johan Cuffeler, anch’egli accusato di larvato spinozismo. Particolare importanza ha l’Anti-Spinoza, sive Examen Ethices Benedicti de Spinoza et Commentarius de Deo et ejus attributis, pubblicato ad Amsterdam da Christoph Wittichius nel 1690; altre confutazioni sono contenute nelle Investigationes theologicae, VIII (1692) di Heinrich Horchius, nell’opera di François Lamy Le nouvel athéisme renversé (1696) e nella Dissertation sur l’existence de Dieu (1697) di Isaac Jaquelot. L’opera del Lamy, approvata anche da Jacques-Bénigne Bossuet, conteneva, in appendice, una Réfutation scritta da François Fénelon, in particolare contro i concetti di sostanza e di infinito; ma fu ripubblicata nel 1731 con il titolo Réfutation des erreurs de Benoit de Spinoza, par M. de Fénelon, archevêque de Cambrai, par le P. Lamy bénédictin et par M. le comte de Boulainvilliers. Malebranche, il cui cartesianesimo suggeriva a seguaci e critici di compararne il pensiero con quello di Spinoza, trovandovi talora forti analogie, si sforzò sempre di manifestare il proprio dissenso dalle teorie spinoziane, sia nelle Méditations chrétiennes et métaphysiques (1683), nelle quali si parla del «misérable Spinoza», sia negli Entretiens sur la métaphysique et la religion (1688), sia nella corrispondenza con Dortous de Mairan tra il 1712 e il 1714. Una considerazione particolare merita la Medicina mentis (1687) di Tschirnhaus che, rispetto alla teoria del metodo, della verità e dell’errore, e infine della morale espone molte tesi di Spinoza, sebbene spesso indebolite e talvolta interpretate «ereticamente», secondo

l’espressione usata dallo stesso autore in una lettera a Leibniz del 1682. Nell’articolo Spinoza del Dizionario storico e critico di Bayle, pubblicato nel 1697, ma rivisto ed ampliato in seconda edizione nel 1702, viene raccolta la tradizione precedente e formulato un ritratto di Spinoza e una definizione dello spinozismo che diverranno dominanti per tutto il Settecento: «Spinoza, ebreo di nascita, poi disertore dell’ebraismo ed infine ateo, era di Amsterdam. Egli fu un ateo sistematico, secondo un metodo tutto nuovo, quantunque i fondamenti della sua dottrina siano comuni a quelli di molti altri filosofi antichi e moderni, sia europei sia orientali». Questo è il celebre inizio dell’articolo, nel quale, caduta ogni esitazione intorno all’ateismo che sarebbe implicito nell’assunzione dell’universo come unica sostanza o nell’affermazione «che Dio e il mondo sono un unico essere», Bayle sostiene che Spinoza fu il primo a ridurre a sistema l’ateismo, «facendone una dottrina coerente e concatenata alla maniera dei matematici»; ma egli aggiunge che l’identificazione di Dio con il mondo o con la materia non è un’invenzione di Spinoza. Questa idea si trova già professata in alcune sette maomettane e, per la tradizione greco-cristiana, Bayle cita Davide di Dinant, Pietro Abelardo, Stratone di Lampsaco e la teoria dell’anima del mondo presso gli Stoici; tra le filosofie orientali vengono ricordate quella dei Pendet indiani, il sufismo e perfino Confucio. Secondo Bayle, il modo migliore per combattere questo sistema è non solo dimostrare «la sua opposizione agli assiomi più evidenti e più universali che siano stati finora accettati», ma sopra tutto di «far notare che le proposizioni di Spinoza si contraddicono fra loro». Egli, tuttavia, non segue questa norma, ma si limita a combattere ciò che riconosce come principio primo del sistema: «che Dio è la sola sostanza che si abbia nell’universo e che tutti gli altri esseri non sono altro che modificazioni di questa sostanza». Anche in questa confutazione, tuttavia, Bayle non sembra criticare Spinoza con le categorie stesse di Spinoza, ma con un concetto di modificazione che egli desume per analogia sia dalla filosofia scolastica sia da Cartesio: quasi non osasse entrare nel recinto di quella filosofia, ma volesse solo mostrare di combatterla dall’esterno con grande risolutezza. Come interpretare l’atteggiamento del Bayle nei confronti di Spinoza? Non sembra sia molto proficuo sottolineare la personalità ambigua e l’atteggiamento intellettuale, talvolta contraddittorio, di questo grande

erudito che, scettico e razionalista, accusa Spinoza di ateismo, empietà e libertinismo, difendendo la religione cristiana, i demoni e i miracoli, se si cerca nel suo pensiero la soluzione del contrasto e non si scorge in esso l’annuncio e il simbolo della nuova età che si apre: la quale, lungi dall’essere tempo della ragione, si annuncia piuttosto come tempo della ricerca e dell’esaltazione della ragione, troppo acutamente sentita come affetta da un insanabile dissidio con il sentimento e con le esigenze della finitezza. Nell’articolo del Bayle, a ben vedere, gli argomenti di ordine logico contro l’unicità della sostanza e il concetto di modificazione coesistono – essendone forse sopraffatti – con argomenti di ordine morale ed estetico in senso lato, ispirati cioè dal bisogno di garantire il primato del sentimento e del cuore sulla ragione, per la suprema consolazione del finito. La difesa del Bredenburg, che il Bayle si assume nella nota M, è fondata appunto sull’ammissione che, pur essendovi diversità, anzi contrarietà tra le esigenze della ragione e quelle del sentimento, nell’esperienza individuale, tuttavia, non sia impossibile la loro coesistenza: «bisogna pur sempre notare che non si ha alcuna contraddizione fra queste due cose: 1. il lume della ragione mi dimostra che questo è falso; 2. io, per altro, ci credo perché sono persuaso che questo lume non è infallibile, e perché preferisco affidarmi alle prove del sentimento e alle intuizioni della coscienza, in una parola, alla voce di Dio, piuttosto che ad una dimostrazione metafisica. Ciò non significa affatto credere e non credere nel medesimo tempo in una medesima cosa». Nel confronto tra l’ipotesi spinoziana e quella cristiana, che Bayle indica come «quella comune», la seconda è preferibile perché «ci si presenta con maggiore evidenza» in ciò che ha di chiaro e dimostrabile, mentre invece in ciò che ha di oscuro «ci appare meno contrario ai lumi della ragione». Tuttavia nella stessa nota O, Bayle non sembra completamente sicuro di quest’ultima affermazione perché giunge ad ammettere che le difficoltà possono essere uguali da una parte e dall’altra. Anche in tal caso, tuttavia, «bisognerebbe ugualmente optare per il sistema di vita normale, perché, oltre al privilegio del possesso, esso presenta ancora il vantaggio di prometterci grandi beni per l’avvenire, lasciandoci mille risorse consolanti nelle infelicità di questa vita. Nelle miserie, infatti, quale consolazione è più grande di quella di lusingarsi

che le preghiere che indirizziamo a Dio saranno esaudite e che in ogni caso egli terrà conto della nostra pazienza per darcene poi una splendida ricompensa? È certamente una grande consolazione anche poter fare affidamento sul fatto che gli altri uomini conferiscono una certa importanza alla voce della loro coscienza e al timore di Dio: ciò significa che l’ipotesi comune è al tempo stesso più vera e più comoda di quella dell’empietà. Per respingere la teoria di Spinoza, dunque, bastava dire semplicemente: essa non è esposta a difficoltà minori dell’ipotesi cristiana». Se le difficoltà sono pari, come può Bayle affermare che «l’ipotesi comune» è «al tempo stesso più vera e più comoda»? Più comoda, forse, ma non certo più vera, per la stessa premessa posta. Non è il caso, tuttavia, di chiedere troppo rigore logico a un autore che, come Van Blyenberg sensibile al bisogno della consolazione, subordina la regola filosofica a quella teologica e che, da teologo, come ricordava l’Oldenburg a Spinoza, è «più preoccupo delle comodità che della verità». Oppure si dovrà supporre che Bayle provasse una segreta simpatia per il sistema spinoziano, che avvertiva di non poter sovvertire assumendo i suoi stessi principi? Nell’articolo non v’è nulla di esplicito che possa suffragare tale ipotesi. L’unico riconoscimento che viene concesso a Spinoza è per la virtù della sua vita: «coloro che hanno avuto qualche contatto con Spinoza e gli abitanti del villaggio ove egli visse ritirato per qualche tempo, sono concordi nel dire che egli era un uomo di buona compagnia, affabile, onesto, gentile e assai austero nei suoi costumi. Ciò è assai strano ma, in fondo, non bisogna meravigliarsene più di quanto si faccia vedendo persone che, completamente persuase della verità dell’Evangelo, vivono in pratica assai malamente». Dall’articolo di Bayle emerge, dunque, bensì l’immagine di Spinoza «ateo virtuoso», ma anche e sopra tutto l’ammissione implicita e inquietante – che farà diversamente discutere tutto il secolo, da Leibniz a Friedrich Heinrich Jacobi – che quella filosofia potesse anche essere inattaccabile dalle critiche della sola ragione.

2. Da Leibniz a Hegel Nell’ottobre del 1671 Leibniz inviava a Spinoza, «celeberrimo

medico e profondissimo filosofo», una nota dal titolo Ragguaglio sui progressi dell’ottica, dicendosi convinto di non poter trovare in questo genere di studi «un più competente critico» (Ep. 45). Spinoza rispose (Ep. 46) con alcune osservazioni, chiese ulteriori chiarimenti e promise a Leibniz di inviargli il Trattato teologico-politico, se non fosse ancora giunto tra le sue mani e, naturalmente, se lo avesse gradito. Spinoza auspicava nella stessa lettera la prosecuzione della corrispondenza; l’epistolario non ne conserva alcun ulteriore documento, ma da alcuni accenni contenuti sia nell’Ep. 70 (1675) di Schuller a Spinoza («questo stesso Leibniz tiene in molta considerazione il Trattato teologico-politico, a proposito del quale – dice – egli ha anche scritto a V. S. una lettera»), sia nella risposta di quest’ultimo, è possibile desumere che vi fosse stato tra i due filosofi uno scambio epistolare più ampio di quello a noi noto. Era stato Tschirnhaus, da Parigi, a chiedere a Spinoza, attraverso lo Schuller, che permettesse di comunicare i suoi scritti a Leibniz; ma Spinoza dall’Aja: «quel Leibniz, di cui scrive, credo infatti di averlo conosciuto per lettera, ma non capisco per qual motivo egli si sia recato in Francia, mentre prima era consigliere a Francoforte. A quanto ho potuto conoscere dalle sue lettere, mi è sembrato uomo di indole liberale e versato in tutte le scienze. Reputo tuttavia imprudente di confidargli così presto i miei scritti. Vorrei prima sapere che cosa sia andato a fare in Francia e sentire il parere del nostro Tschirnhaus, dopo che lo avrà frequentato più a lungo e avrà conosciuto più a fondo i suoi costumi» (Ep. 72). In effetti, in quello stesso periodo Leibniz aveva qualche parte nelle confutazioni del Trattato teologico-politico che si stavano preparando a Parigi, in particolare in quella di Daniel Huet, come si può arguire dall’Ep. 80; nel 1676, tuttavia, si recò in visita da Spinoza, come egli stesso ammette (nonostante le ulteriori smentite) in una nota sulla dimostrazione dell’esistenza di Dio attraverso il concetto di perfezione: «Questo ragionamento ho mostrato allo Spinoza, quando mi trovavo a L’Aja. Lo ha trovato solido: ma poiché all’inizio mi contraddiceva, l’ho posto per scritto e gliel’ho letto» (si vedano anche i Saggi di Teodicea, § 376). All’uscita delle Opere postume Leibniz scrive a Christophe Justel di trovare nell’Etica «una quantità di bei pensieri conformi ai miei, come sanno alcuni miei amici che sono stati anche amici di Spinoza»1; ma nell’Estratto critico2 della prima parte dell’Etica definisce l’argomentazione

spinoziana confusa e paralogistica; nella lettera al Langravio d’Assia del 1686 abbraccia il giudizio di Antoine Arnauld (Spinoza è «l’uomo più empio e pericoloso di questo secolo») ed afferma che «egli era veramente ateo, cioè non ammetteva l’esistenza di una Provvidenza dispensatrice di beni e di mali secondo giustizia e credeva di averne dato dimostrazione. [...] Tuttavia, per quanto egli faccia gran rumore delle sue dimostrazioni, è molto lontano dal possedere l’arte della dimostrazione e non aveva che una conoscenza assai mediocre dell’analisi e della geometria»3. Nel Discorso di metafisica4 (1686), che costituisce il primo tentativo di formulazione sistematica del proprio pensiero, Leibniz polemizza duramente contro i derniers novateurs, unendo il nome di Spinoza a quello di Cartesio per criticare, attraverso la confutazione degli errori mostruosi del primo, quelli del secondo, che ne sono all’origine. Il progetto di combattere Cartesio e il cartesianesimo attraverso la confutazione di Spinoza appare ora chiaramente delineato. Degno di nota è che Leibniz intenda confutare l’ateismo di Spinoza, la sua negazione delle cause finali e il suo materialismo deterministico attraverso l’analisi di alcune categorie estetiche, confutandone la teoria della soggettività ed apparenza del bello, dell’ordine, dell’armonia, ecc. Infatti, osserva Leibniz, se si toglie al bello, all’ordine, al bene ecc. il carattere della sostanziale oggettività, si toglie la ragione sufficiente all’azione creatrice di Dio e si nega al suo amore infinito l’occasione di manifestarsi e diffondersi in quelle infinite espressioni del bello, del bene, dell’ordine che costituiscono la struttura stessa e l’intima tessitura dell’essere: la divina armonia di tutte le cose. Il progetto filosofico di Leibniz è già definito: dimostrare la convenienza o l’accordo tra i dogmi fondamentali del cristianesimo e i principi della ragione, rispetto alla bontà di Dio, alla libertà dell’uomo e all’origine del male. La separazione della ragione dalla fede proclamata da Bayle, in particolare nel Dizionario, costituisce anche uno dei temi fondamentali della polemica leibniziana nella Teodicea (1710), come risulta chiaramente nel «Discorso preliminare sulla conformità della fede con la ragione». Evidentemente, la polemica contro Bayle e la sua teoria della separazione della ragione dalla fede ha di mira la piena confutazione della «bruta e cieca necessità» di Spinoza, che l’ammissione di quella separazione sembra sottrarre agli attacchi della pura ragione. Insomma,

gli atei, i deterministi e i materialisti non possono essere confutati con le scelte della fede e i bisogni del sentimento, perché questo equivarrebbe ad affermare che essi non possono esserlo mediante la sola ragione. Dimostrata invece la convenienza della fede cristiana con la ragione, si combatta con la sola ragione (cristiana) contro Spinoza: ecco il disegno e il tentativo di Leibniz all’inizio del secolo. Come esso fosse accolto e quali ne fossero gli esiti si tratterà ora di vedere brevemente. Si può intanto osservare che, se si eccettua la posizione di Christian Wolff, «felice divulgatore della filosofia leibniziana», gli esponenti principali del primo illuminismo tedesco (Christian Thomasius, Andreas Rüdiger, A. Felix Hoffmann, Christian August Crusius) denunciarono e combatterono Spinoza contemporaneamente per il suo ateismo e per il metodo puramente speculativo della sua filosofia. Essi erano mossi, insieme, dal bisogno di difendere una fede morale e religiosa, e da una concezione della ragione ridotta entro i limiti dell’esperienza e seguita come guida affidabile solo nella ricerca della tranquillità dell’animo5. Nella Theologia naturalis (1737) Wolff dedica una sezione specifica all’esposizione dello spinozismo, criticandone non solo il fatalismo per le conseguenze negative sulla religione, sulla pietà e sulla morale, ma anche le nozioni di finito e di infinito, che avrebbero compromesso la sostanzialità del finito, e sopra tutto la teoria e l’uso delle definizioni: queste sarebbero state costruite da Spinoza in vista di un’ipotesi già concepita e precostituita, per trarne la dimostrazione come da un principio, invece di essere tratte dalle cose stesse, per dedurre da queste le ipotesi, come sarebbe necessario. Nella Einleitung zu der Vernunftlehre (1691) Thomasius delimita la verità di cui la ragione è capace alla sola prova o determinazione dei sensi ed esclude perciò dal novero delle cose conoscibili sia le infinitamente piccole sia le infinitamente grandi, «come le cose spirituali, soprannaturali e divine», e cioè Dio, l’anima e le sostanze in genere. L’ateismo spinoziano è visto dunque come la conseguenza inevitabile dell’applicazione della ragione matematica alla filosofia: combattere l’ateismo spinoziano significa confutare la pretesa assolutistica della ragione a determinare anche gli oggetti della morale e della religione. «Folle è Spinoza quando si sforza di dimostrare il suo ateismo con metodo matematico», esclama Rüdiger nel De sensu (1709, 17222), cioè

procedendo da una definizione arbitraria di sostanza, non convalidata da nessuna esperienza. Si comprende perciò come, su questo fondamento, fosse possibile al Crusius, come già al pietista Johann Joachim Lange (Causa Dei et religionis naturalis adversus atheismum, 1723; Modesta disquisitio novi philosophiae systematis de Deo, mundo et homine, 1723), rifiutare il principio di ragione sufficiente professato da Leibniz e da Wolff, perché da esso, considerato in realtà come principio di ragione determinante, discendono quella medesima necessità e quel medesimo fatalismo che Leibniz e Wolff inutilmente rimproveravano a Spinoza. Nel De usu et limitibus principii rationis determinantis, vulgo sufficientis (Lipsia 1743) del Crusius, viene dunque già affermato esplicitamente quell’esito fatalistico della filosofia di Leibniz e di Wolff, che verso la fine del secolo Jacobi tornerà a mostrare con insistenza. La critica al principio di ragione sufficiente si accompagna a quella del primato dell’intelletto sulla volontà (Leibniz e Wolff) o della riduzione della volontà all’intelletto (Spinoza). Sostenendo il primato della volontà sull’intelletto Crusius riconosce nell’incondizionata obbedienza alla legge divina il supremo principio «formale» dell’etica, dimostrando chiaramente l’influsso che la teologia pietistica e la mistica tedesca avevano esercitato sul suo pensiero. Negli stessi anni, tuttavia, la medesima formazione pietistica conduceva Edelmann a sostenere l’inconfutabilità dello spinozismo e a difendere la coincidenza in Dio di necessità e libertà (Die Göttlichkeit der Vernunft, 1740); il suo dialogo Möses (1740) può essere considerato in qualche modo precursore del dialogo tra Lessing e Jacobi, costruito negli Spinozabriefe di quest’ultimo. Intanto, in Inghilterra, l’ateismo materialistico e il determinismo di Spinoza sono combattuti da Samuel Clarke (A Demonstration of the Being and Attributes of God; more Particularly in Answer to Mr. Hobbes, Spinoza and Their Followers, 17113) e da John Toland (Lettere a Serena, 1704) che conia la parola «panteista» e che di panteismo fu in seguito accusato per l’identificazione di materia e forza. Influssi del Trattato teologico-politico si possono riconoscere nel Discorso sul libero pensiero (1713) e nel Discorso sui fondamenti e le ragioni della religione cristiana (1724) di Antony Collins. In Francia furono pubblicati, in un solo volume intitolato Réfutation des erreurs de Benoît de Spinoza, sopra citato, tre testi notevolmente diversi tra loro, che ebbero grande importanza, insieme all’articolo di Bayle, per

la conoscenza e la diffusione dello spinozismo negli anni successivi. Il primo testo era di Fénelon, che criticava in particolare il concetto di sostanza, di infinito e il rifiuto della creazione dal punto di vista, tuttavia, di chi sa di essere sospettato di spinozismo per la sua teoria dell’immanenza di Dio al mondo. Il secondo testo è costituito dalla famosa confutazione del padre Lamy, di cui si è già detto, e il terzo dalla falsa «confutazione» del conte di Boulainvilliers, che in realtà riespone in ordine diverso e non geometrico il medesimo testo spinoziano. Attraverso la Réfutation del 1731 e l’articolo di Bayle, Voltaire conobbe la filosofia di Spinoza, il cui ateismo rifiutò con convinzione, usando le stesse critiche già ripetutamente utilizzate nella precedente tradizione storiografica (si veda in particolare l’articolo Dieu del Dictionnaire philosophique, 1770). Un fenomeno degno di considerazione è il cosiddetto «neospinozismo», che si afferma intorno alla metà del secolo e che riceve tale designazione non per il suo intenzionale riferimento e ispirazione alla filosofia spinoziana storicamente determinata (riferimento e derivazione in genere rifiutati), ma per l’analogia di alcune sue tesi fondamentali – monismo materialistico; determinismo; unità della natura – con le tesi dell’Etica. Si possono citare i nomi di Julien Offray de la Mettrie (Traité de l’âme, 1744; Homme-machine, 1747; Abregé des systèmes, 1751), Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (Système de la nature, essai sur la formation des corps organisés, 1751), Denis Diderot (articolo Spinoza dell’Enciclopedia, 1759; Pensées philosophiques, 1746, anonimo; Entretien de Diderot et de d’Alembert, 1769; Principes sur la matière et le mouvement, 1770; Jacques le Fataliste, 1773), Paul Heinrich D. D’Holbach (Système de la nature ou des lois du monde physique et du monde moral, 1770). Anche in Italia6 non mancarono reazioni critiche alla filosofia di Spinoza, raramente ispirate da una conoscenza diretta dei testi e quasi sempre conformi ai tradizionali moduli critici professati da Bayle e dagli altri polemisti europei: si criticarono il concetto di sostanza e la sua unicità, il determinismo, il metodo geometrico. Si possono citare i nomi di Giuseppe Valletta (Istoria filosofica, 1716); Francesco Maria Spinelli (Riflessioni su le principali materie della prima filosofia, 1733); Antonio Genovesi, che ebbe una conoscenza diretta delle opere spinoziane (Elementa metaphysica, 1743); Francesco Maria Leoni (Epistolae duae,

quarum altera est de Pentateuchon divinitus dato, altera de usu rationis in Theologia, 1736); Tommaso Vincenzo Moniglia (Dissertazione contro i fatalisti, 1744; Dissertazione contro i materialisti e altri increduli, 1750); Antonino Valsecchi (Dei fondamenti della religione e dei fonti dell’empietà, 1765); Giacinto Sigismondo Gerdil (Confutazione del sistema di B. Spinoza in Opere edite e inedite, II, 1806; e Sur l’incompatibilité des principes de Descartes et de Spinoza, in Opere edite e inedite, IV, 1806); Rosario Giovanni Arfisi (Fondamenti dell’onestà naturale dell’uomo contro gli errori dello stoicismo, pirronismo, spinozismo e deismo, 1776); Appiano Buonafede (Restaurazione di ogni filosofia nei secoli XVI, XVII e XVIII, 1785). La pubblicazione delle Lettere a M. Mendelssohn sulla dottrina di Spinoza (1785) da parte di Jacobi è generalmente considerata, e non a torto, un evento cruciale nella storia dello spinozismo, costituendo la prima esposizione pubblica del sistema di Spinoza «nella sua vera forma e secondo la necessaria connessione delle parti» (p. 114). Che la decisione di dibattere apertamente la filosofia di Spinoza fosse nata dalla sorpresa provocata in Jacobi dall’esplicita confessione di spinozismo da parte di Lessing, o che essa fosse nata, piuttosto, da un interiore e già lungo dibattito tra l’anima pietista e quella filosofica di Jacobi – dibattito provocato da quello Spinoza che egli affermava di conoscere «come solo assai pochi possono averlo conosciuto» –, la pubblicazione dell’opera non ha importanza rilevante solo o principalmente nella storiografia spinoziana, ma sopra tutto nella storia dell’illuminismo tedesco. Non è forse esagerato affermare che non fu tanto l’interesse speculativo diretto per la filosofia di Spinoza (del resto innegabile) a provocare la discussione; ma un fondamentale interesse di ordine esistenziale e «pratico» per la propria «salvazione» e per i mezzi ad essa più idonei – ragione o fede – che fece decidere Jacobi ad assumere pubblicamente la filosofia di Spinoza come termine di paragone o come metro di giudizio definitivo. Una volta riconosciuto che la filosofia di Spinoza è inconfutabile e che essa soddisfa pienamente le esigenze della ragione speculativa – un’autentica filosofia non può che essere determinista –; ma riconosciuto anche che essa non soddisfa parimenti le esigenze del cuore e il bisogno della consolazione del finito, che solo un Dio personale può garantire, Jacobi invita il suo secolo a pronunciarsi, non già su Spinoza,

ma su se stesso, e a scegliere tra Bayle e Leibniz. Egli, Jacobi, come Bayle e, perché no?, come già Van Blyenberg, sceglie la doppia regola di «verità», dichiarandosi pronto a compiere il «salto mortale», dalla ragione che gli indica la sostanza di Spinoza, alla fede che lo consola con l’abbraccio del Dio-Persona; e perciò, come già gli illuministi tedeschi della prima metà del secolo (Thomasius, Rüdiger, Crusius, Edelmann) egli è pronto a condannare Leibniz e Wolff, che avevano tentato di conciliare la ragione con la fede, come fatalisti al pari di Spinoza, sebbene di gran lunga più inconseguenti di lui. Anche Moses Mendelssohn, nei Gespräche del 1755, aveva considerato Leibniz come conclusione inevitabile delle filosofie di Cartesio e di Spinoza, ma non per condannare Leibniz attraverso Spinoza, bensì per «salvare» Spinoza attraverso Leibniz, considerandolo un precursore dell’armonia prestabilita; ed ora, dinanzi al proclamato spinozismo di Lessing, considerato campione supremo della religione della ragione, Mendelssohn cerca di purificare il panteismo spinoziano dimostrando come in esso possa essere accolta anche una dottrina della libertà e dunque come esso possa essere considerato compatibile con le esigenze pratiche della religione e della morale (Morgenstunden). Analogo tentativo di salvare Spinoza dall’ateismo e dal panteismo fu compiuto da Johann Gottfried Herder nei dialoghi del Gott (1787), nei quali riconosce la peculiarità della concezione spinoziana di Dio nell’affermazione del primato (o forse anche dell’assolutezza) dell’esistenza, concepita come forza infinita, che produce nei modi finiti un progressivo perfezionamento della cupiditas sese conservandi, cioè dell’amore: non senza ragione, come altri primi romantici, Herder assume Spinoza, insieme a san Giovanni, come apostolo dell’amore. La forte presenza di Spinoza nella letteratura romantica e idealistica è testimoniata dalle Lettere filosofiche (1786) di Friedrich Schiller, dagli scritti Spinozismo, Esposizione del sistema di Spinoza, e Discorsi sulla religione (1799) di Friedrich D.E. Schleiermacher; dalle famose pagine di Poesia e Verità di Johann Wolfgang Goethe, che riconosce esplicitamente il grande influsso esercitato da Spinoza su tutto il suo modo di pensare: «Dopo che mi ero guardato attorno in tutto il mondo per trovare un mezzo di foggiare la mia strana natura, mi imbattei alla fine nell’Etica di quest’uomo. Non saprei render conto di quello che ho tratto dalla

lettura di quell’opera, di quel che ci ho messo di mio: basti dire che vi trovai un acquietamento delle passioni, e parve che mi si aprisse un’ampia e libera veduta sul mondo sensibile e morale. Ma quel che mi avvinse di più fu lo sconfinato disinteresse che traspariva da ogni massima. Quelle parole singolari: ‘Chi ama Dio davvero non deve pretendere che Dio a sua volta lo ami’ con tutte le premesse su cui si basano, con tutte le conseguenze che ne derivano, riempirono tutta la mia facoltà di riflessione». Una caratteristica accomuna queste interpretazioni a quelle più propriamente filosofiche che ora verranno brevemente ricordate: la filosofia di Spinoza non viene letta, recepita, adattata con obiettivo metodo storico-critico, ma con profondo «interesse» sistematico. Essa appare come il termine di paragone ideale per comprendere meglio e fondare criticamente la nuova filosofia della natura e dello spirito che il nascente idealismo tedesco sta costruendo. Johann Gottlieb Fichte non esita a dichiarare che la parte teorica della sua Dottrina della Scienza «è realmente, come si vedrà a suo tempo, lo spinozismo sistematico»; ma aggiunge: «soltanto che l’Io di ciascuno è esso stesso l’unica sostanza suprema». In questa semplice battuta appare chiaramente non solo l’eco della precedente critica di Jacobi, ma le critiche che muoveranno insieme Friedrich Wilhelm Joseph Schelling e Georg Wilhelm Friedrich Hegel alla «morta» sostanza di Spinoza. In molti suoi scritti Schelling dedica una particolare attenzione a Spinoza (si possono ricordare Idee per una filosofia della natura, 1797; Sull’anima del mondo, 1798; Primo abbozzo di un sistema di filosofia della natura, 1799; il capitolo dedicato a Spinoza nelle Lezioni monachesi, 1834), ma sarà sufficiente rivolgersi a un testo presente nelle Lezioni di Stoccarda (1810), per trovare sintetizzate le differenze tra il «moderno (idealistico) sistema dell’identità» e quello di Spinoza: 1. In Spinoza c’è l’identità dei principi costitutivi dell’assoluto, cioè pensiero ed estensione, ma questi sono completamente inattivi, non c’è fra essi alcuna opposizione o compenetrazione vivente. 2. La fisica di Spinoza è esclusivamente meccanicistica: nel suo sistema manca qualsiasi movimento. 3. La sostanza di Spinoza, per l’inattività degli attributi che la costituiscono, è vuota e inerte; mentre nel sistema idealistico dell’identità, al contrario, «si trova il concetto del Dio vivente, di Dio inteso come personalità suprema».

Nelle Lezioni sulla storia della filosofia Hegel riconosce nel sistema di Spinoza il punto di partenza della stessa filosofia («essere spinoziani è l’inizio essenziale del filosofare») per la sua affermazione dell’assolutezza della sostanza, nella quale non è implicato alcun ateismo, ma solo la negazione di ogni altra possibile sostanza concepita come reale, cioè la negazione del mondo (acosmismo). Dichiarando acosmistica la filosofia spinoziana, Hegel ne definisce il valore, ma anche, e sopra tutto, il limite: Spinoza non ha saputo dedurre dall’infinito e nell’infinito il finito e il determinato («il particolare di cui Spinoza parla viene soltanto trovato, preso dalla rappresentazione, senza venir giustificato»). Attribuendo (erroneamente) alla sostanza spinoziana due soli attributi, considerati (alla maniera di Schelling) privi di ogni rapporto dinamico con la sostanza, Hegel conclude che essi non sono concepiti da Spinoza come costituenti realmente l’essenza della sostanza, ma solo come ciò che un intelletto estrinseco le attribuisce. Degno di nota è il completo disinteresse di Hegel per ogni altro tema della filosofia spinoziana, in particolare per la dottrina del corpo e dei suoi rapporti con la mente, per i temi fondamentali della cupiditas, della natura e della dinamica degli affetti, dell’immaginazione e del ruolo che questa svolge nella conoscenza.

3. La storiografia posthegeliana La storiografia spinoziana posthegeliana è caratterizzata, rispetto a quella precedente, da una nuova esigenza di indagine filologica e storica: essa avverte anzitutto la necessità di leggere Spinoza su testi criticamente attendibili. Alla prima riedizione delle Opere, pubblicate da H.E. Gottlob Paulus già nel 1802-3 (alla sua preparazione partecipò anche Hegel), seguirono le migliori edizioni di A. Gfroerer (1830) e di Hermann Bruder (1843-6). Ma è intorno alla metà del secolo, in concomitanza e in conseguenza sopra tutto del ritrovamento del Breve trattato, pubblicato da Van Vloten nel 1862, che si assiste all’inizio di una prima ampia e intensa fase di ricerca filologica, storica e critica intorno ai testi spinoziani e alle loro fonti, che si concluderà alle soglie della seconda guerra mondiale. In questo periodo vedono la luce le due principali edizioni complete, a cura di Van Vloten-Land (1883) e di Gebhardt

(1925), e vengono eseguite traduzioni nelle principali lingue europee, molte delle quali tuttora in uso. È impossibile qui delineare un quadro storiografico che aspiri ad una, sia pure approssimativa, sistematicità e completezza rispetto alle migliaia di titoli che costituiscono la bibliografia spinoziana di questo periodo. Ci si limiterà perciò a ricordare i temi di indagine, le interpretazioni e gli studi critici e filologici più importanti, rinviando il lettore alle indicazioni già date precedentemente nel testo e alla bibliografia che segue, per una più ampia informazione. L’interpretazione hegeliana della non appartenenza reale degli attributi alla sostanza fu difesa da Johann Eduard Erdmann in vari scritti a iniziare dal 1836 (Versuch einer wissensch. Darstellung d. Gesch. d. neueren Philos., I, 2, Leipzig-Riga-Dorpat 1836, pp. 59-63; Die Grundbegriffe des Spinozismus, in Vermischte Aufsätze, Leipzig 1848, pp. 118-92 e Grundr. d. Gesch. d. Phil, 1878, II, pp. 57-62) e fu combattuta da Kuno Fischer (Geschichte d. neueren Philosophie, II2, pp. 375-76), che difendeva invece la tesi dell’appartenenza reale. Secondo la prima interpretazione, gli attributi non costituiscono realmente l’essenza della sostanza, perché, non avendo essi nulla in comune, la sostanza ne verrebbe necessariamente divisa e resa impensabile nella sua unità: essi sono dunque da intendere unicamente come attribuzioni riferite da un intelletto estrinseco alla sostanza, che in sé è e deve essere indeterminata. Fischer, al contrario, richiamandosi alla definizione di Dio e alla sua explicatio, alla definizione dell’attributo, alla dimostrazione della P. 4, nella quale si afferma esplicitamente che al di fuori dell’intelletto «non c’è nulla per cui le cose possano distinguersi l’una dall’altra, salvo le sostanze o, che è lo stesso, i loro attributi e i loro modi», sostiene che gli attributi costituiscono ed esprimono realmente l’essenza della sostanza indipendentemente dall’intelletto. La polemica inaugurata da Erdmann e Fischer, per l’importanza della questione e dei concetti fondamentali in essa implicati (Dio, sostanza, attributo, modo), ha attraversato tutta la storiografia posthegeliana fino ai nostri giorni, promuovendo contributi critici significativi in tutte le maggiori interpretazioni dello spinozismo. Tra le più recenti vanno ricordate quella di Harry Austryn Wolfson, che spinge la teoria soggettivistica fino ad una concezione puramente nominalistica dell’attributo, equiparato ad un universale (The Philosophy

of Spinoza, Cambridge, Mass., 1934, I, pp. 142-157), e quella contraria del Martial Gueroult, che riesamina sistematicamente tutta la questione, anche nel suo sviluppo storico, e sottopone a critica minuziosa le precedenti principali interpretazioni soggettivistiche (Spinoza. Dieu (Éthique, 1), Paris 1968, pp. 428-68). La scoperta e la pubblicazione (1862) del Breve trattato dettero nuovo impulso alla storiografia spinoziana. Le prime analisi e le prime questioni intorno a quest’opera e al suo rapporto con gli altri scritti furono proposte da Eduard Boehmer, sia nell’introduzione e nelle note alla sua edizione del Korte Schetz (Halle, 1852) da lui trovato, sia in alcuni articoli apparsi sotto il titolo Spinozana nella «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», in particolare nn. 36 (1860), 42 (1863), 57 (1870). Christoph Sigwart, in un saggio critico sul Breve trattato, seguito poco dopo da una traduzione tedesca della stessa opera, ne studiò la struttura, la sua relazione con gli altri primi scritti e le possibili fonti (Spinoza’s neuentdeckter Tractat von Gott, dem Menschen und dessen Gluckseligkeit, Gotha 1866 e Kurzer Tractat von Gott, dem Menschen und dessen Gluckseligkeit, Tubingen 1870, 18812). Nel 1867 apparve un importante contributo critico-interpretativo di Adolf Trendelenburg (Beiträge zur Philosophie, III, Vermischte Abhandlungen, Berlin 1867, pp. 277-398) seguito l’anno dopo da un saggio di Richard Avenarius (Ueber die beiden ersten Phasen des Spinozaischen Pantheismus und das Verhältniss der zweiten zur dritten Phase, Leipzig 1868), nel quale l’autore cerca di determinare le fasi dell’evoluzione storica del pensiero di Spinoza. Un’analisi sistematica dell’influsso delle fonti ebraiche fu invece intrapresa con particolare riguardo al Trattato teologico-politico e al Breve trattato da Manuel Joel (Spinozas «Tractatus Theologico-Politicus» auf seine Quellen geprüft, Breslau 1870 e Zur Genesis der Lehre Spinoza’s, Breslau 1871). Intanto, anche in Inghilterra appaiono i primi importanti contributi alla storia dello spinozismo: va ricordata anzitutto la monografia più volte ristampata di Friedrich Polloch (Spinoza, London 1880; New York 1966), un saggio di James Martineau (A Study of Spinoza, London 1882; Freeport 1971) e ancora la monografia di John Caird (Spinoza, London 1888; Freeport 1971). In Italia, influenzato dall’idealismo hegeliano e alla luce della sua idea

della circolarità dello spirito europeo a partire dal Rinascimento italiano, Bertrando Spaventa indica nella filosofia di Giordano Bruno una fonte dello spinozismo e sottopone ad analisi critica i temi fondamentali dell’infinito, della sostanza e dell’attributo, proponendo interpretazioni importanti per gli influssi che ebbero sulla storia dello spinozismo in Italia: Concetto dell’infinità (1853) e Critica dell’infinità dell’attributo (185456) in Saggi di critica, Napoli 1867; Concetto dell’opposizione e lo Spinozismo (1867) in Scritti filosofici, a cura di Giovanni Gentile, Napoli 1900; La filosofia di Gioberti, Napoli 1863. Anche Antonio Labriola, tra il 1862 e il 1866 si occupò di Spinoza in vari scritti, ma in forma frammentaria, se si eccettua forse il saggio su Origine e Natura delle passioni secondo l’«Etica» di Spinoza (1866), ora in Opere, Milano 1959. È tuttavia con l’ultimo decennio del secolo scorso che la storiografia spinoziana conosce un fervore di ricerche storiche, indagini filologiche e interpretazioni critiche, tali da segnare un’impronta decisiva intorno a molte questioni fino ai nostri giorni. Freudenthal indicò nella Scolastica, con una convinzione da altri giudicata eccessiva, la fonte principale del pensiero spinoziano (Spinoza und die Scholastik, in Philosophische Aufsätze Eduard Zeller gewidmet, Leipzig 1887); più tardi dedicò studi che esercitarono notevole influsso, anche se non interamente condivisibili, all’analisi del Breve trattato (Spinozastudien, «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», 238-82, 1896; 1-25, 1897) e pubblicò la prima raccolta, ancor oggi indispensabile, di fonti e testimonianze per la ricostruzione della vita e delle opere di Spinoza (Die Lebengeschichte Spinozas, Leipzig 1899), preceduta di poco da una simile altrettanto fondamentale indagine di K.O. Meinsma sul circolo degli amici di Spinoza, ora tradotta in francese con importanti integrazioni (Spinoza en zijn Kring, ’s Gravenhage 1896; trad. tedesca, Berlin 1909; trad. francese, Paris 1983). La monografia di Freudenthal su Spinoza, del 1904, di nuovo pubblicata a cura del Gebhardt col titolo Spinoza, sein Leben und seine Lehre, 2 voll., Heidelberg 1927, seguiva l’altra fortunata e giustamente famosa di Leon Brunschvicg (Spinoza, 1894) che dalla terza edizione prese il titolo Spinoza et ses contemporains, per l’aggiunta di una seconda parte contenente studi pubblicati tra il 1904 e il 1906, su Descartes, Pascal, Malebranche, Fénelon, Leibniz (Paris 1923, 19715). All’inizio del nuovo secolo appare il primo saggio sull’Etica in forma

di commentario a cura di Harold H. Joachim (A Study of the «Ethics» of Spinoza, Oxford 1901; New York 1964) che prosegue con un importante commento al Tractatus de intellectus emendatione, pubblicato postumo molti anni dopo (Oxford 1940, 1958r; New York 1964r). Sempre sul Tractatus de intellectus emendatione C. Gebhardt pubblica un saggio (Spinoza’s Abhandlung über die Verbesserung des Verstandes, Heidelberg 1905), ripreso con alcune varianti nella Textgestaltung della sua edizione degli Opera (Heidelberg 1925, vol. II), la cui interpretazione della genesi e della costituzione testuale solo oggi comincia ad essere messa in discussione. Nel 1906 Louis Robinson pubblica delle importanti Untersuchungen über Spinozas Metaphysik («Archiv für Geschichte der Philosophie», 19, 1906, pp. 297-332; 451-86) seguite molti anni dopo da un commento alla prima parte dell’Etica (Kommentar zu Spinozas «Ethik», Leipzig 1928). Nello stesso periodo sono da ricordare due articoli di Victor Brochard (L’éternité des âmes dans la philosophie de Spinoza, «Revue de Méthaphysique et de Morale», 9, 1901 e Le Dieu de Spinoza, ivi, 16, 1908) e, nello stesso anno e nella stessa rivista, l’articolo di Victor Delbos (La notion de substance et la notion de Dieu dans la philosophie de Spinoza), ripreso nel successivo volume Le spinozisme (Paris 1968), nel quale vengono raccolte lezioni tenute alla Sorbona nel 1912-13. Mentre a L’Aja era in corso la pubblicazione dell’importante Chronicon Spinozanum, che raccolse dal 1921 al 1927 i contributi dei maggiori studiosi del tempo, e un anno prima dell’edizione Gebhardt, viene pubblicata in Italia la prima e fino ad oggi unica monografia, più volte ristampata, a cura di Augusto Guzzo (Il pensiero di Spinoza, Torino 1924; Torino 19642; Firenze 19803). Fedele all’assunto che ogni individuo esprime necessariamente il tempo nel quale vive, Gebhardt indica nella filosofia di Spinoza la manifestazione sistematica della cultura barocca (si veda, in particolare, Rembrandt und Spinoza, «Chronicon Spinozanum», 4, 1924-26, pp. 160-83 e anche Vier Reden, Heidelberg 1927 e Spinoza, Leipzig 1932) mentre Stanislas von Dunin Borkowski, limitando la tesi del Freudenthal (giacché Spinoza non avrebbe conosciuto direttamente né i grandi scolastici del Medioevo né quelli del Seicento, ma solo attraverso compendi e libri di scuola) sottolinea l’influsso che esercitarono sul pensiero spinoziano la filosofia del

Rinascimento e la cultura olandese contemporanea. Le ricerche del Von Dunin Borkowski ebbero la loro monumentale conclusione in quattro volumi (di cui il primo, dedicato alla giovinezza di Spinoza, costituisce la riedizione di un precedente lavoro del 1910) nei quali viene raccolto e analizzato un immenso materiale documentario e storiografico, la cui conoscenza è indispensabile, anche se le interpretazioni proposte non sono sempre condividibili, ad ogni indagine scientifica dello spinozismo (Spinoza, 4 voll., Münster 1933-36). A completare i precedenti tentativi di ricondurre la filosofia di Spinoza ad una fonte storica determinata (Cartesio, la Scolastica, la cultura barocca, il Rinascimento italiano, la cultura olandese del Seicento) Harry Austin Wolfson intese finalmente riesaminarne i temi principali alla luce delle fonti ebraiche, sopra tutto medievali, considerandole se non come unica, certamente come sua principale sorgente (The Philosophy of Spinoza, 2 voll., Cambridge, Mass., 1934; New York 1960; più recentemente Spinoza. A Life of Reason, New York 19692). L’epoca storiografica che va dalla seconda guerra mondiale alla celebrazione del terzo centenario della morte di Spinoza (1977) è caratterizzata da un’ampia produzione letteraria che, accettando sostanzialmente le conclusioni tratte dalla critica precedente intorno alla genesi, alla storia e alla costituzione dei testi spinoziani, ha esaminato temi specifici non ancora indagati o approfondito questioni ancora non sufficientemente studiate. Appaiono numerose monografie, sia di esposizione sistematica sia di carattere interpretativo, quali lo Spinoza di Stuart Hampshire (London 1951, 19562, New York 1961), i due volumi di Harold Foster Hallett, Benedicti de Spinoza. The Elements of His Philosophy (London 1957) e Creation, Emanation and Salvation. A Spinozistic Study (Den Haag 1962); lo Spinoza di Robert Misrahi (Paris 1964) e il saggio di Edwin Curley, Spinoza’s Metaphysics. An Essay in Interpretation (Cambridge, Mass., 1969); lo Spinoza di Gilles Deleuze (Paris 1970 e 19812) e il volume di Manfred Walther, Metaphysik als Anti-Theologie (Hamburg 1971). In Italia propone una lettura testuale Emilia Giancotti Boscherini (Che cosa ha veramente detto Spinoza, Roma 1972) e un’interpretazione in forma divulgativa, specialmente della storia dello spinozismo, Piero Di Vona nel suo Baruch Spinoza (Firenze 1975). Si ricordano ancora i volumi di Errol E. Harris, Salvation from Despair. A

Reappraisal of Spinoza’s Philosophy (Den Haag 1973); Pierre-François Moreau, Spinoza (Paris 1975); Konrad Hecker, Gesellschaftliche Wirklichkeit und Vernunft in der Philosophie Spinozas (Regensburg 1975). Un rilievo particolare, per l’ampiezza della trattazione analitica e per l’autorevolezza delle interpretazioni proposte, meritano i due volumi dedicati da Gueroult al commento delle due prime parti dell’Etica (Spinoza. Dieu, Paris 1968; Spinoza. L’Âme, Paris 1974). Più attento e insistente diviene l’esame degli influssi esercitati dalla filosofia spinoziana su altre filosofie o su movimenti culturali successivi: dopo il volume di Madeleine Francès, Spinoza dans les pays néderlandais de la seconde moitié du XVIIe siècle, Paris 1937, appare il fondamentale saggio di George Friedmann su Leibniz et Spinoza, Paris 1946, 19753 e l’anno successivo un articolo di Giorgio Radetti su Gentile e Spinoza, «Giornale critico della filosofia italiana», 1947. George L. Kline delinea un quadro della storia dello spinozismo in Russia e traduce saggi di autori sovietici (Spinoza in Soviet Philosophy, London 1952) mentre Paul Vernière pubblica un’opera fondamentale sullo spinozismo in Francia prima della Rivoluzione: Spinoza et la pensée française avant la révolution, 2 voll., Paris 1954. L’influenza dello spinozismo nella formazione della filosofia hegeliana (Padova 1961) è studiata da Franco Chiereghin, mentre un’analisi dei giudizi hegeliani su Spinoza è stata recentemente pubblicata da Pierre Macheray (Hegel ou Spinoza, Paris 1979). L’influenza dello spinozismo sul primo romanticismo e sull’idealismo tedesco è analizzata anche da Angelo Pupi (Alla soglia dell’età romantica, Milano 1962), da Valerio Verra, con particolare riferimento a Jacobi (F.H. Jacobi, Lo spinozismo di Lessing, «Filosofia», 13, 1962 e F.H. Jacobi. Dall’illuminismo all’idealismo, Torino 1963) e in vari contributi contenuti nel volume di AA.V.V., Lo Spinozismo ieri e oggi, Padova 1978 (si veda, in particolare, il saggio di Marco Maria Olivetti, Da Leibniz a Bayle: alle radici degli «Spinozabriefe»). Sono da ricordare, infine, la Nota sulla diffusione della filosofia di Spinoza in Italia, «Giornale critico della filosofia italiana», 1963, nella quale Emilia Giancotti Boscherini delinea un primo quadro sistematico della storiografia spinoziana in Italia, e il libro di Antonio Banfi, Spinoza e il suo tempo, Firenze 1969. Dedicati alla gnoseologia sono i lavori di George H.R. Parkinson (Spinoza’s Theory of Knowledge, Oxford 1954), di Charles De Deugd sul

primo genere di conoscenza (The Significance of Spinoza’s First Kind of Knowledge, Assen 1966) e, sullo stesso argomento, ma con particolare riguardo ai rapporti della teoria dell’immaginazione con i temi del bello e dell’arte, Filippo Mignini, «Ars imaginandi». Apparenza e rappresentazione in Spinoza, Napoli 1981. Piero Di Vona ha sottoposto ad un esame ampio e accurato alcuni temi specifici dell’ontologia spinoziana: Studi sull’ontologia di Spinoza, I, Firenze 1960; II, Firenze 1969; Spinoza e i trascendentali, Napoli 1977; Logica e metafisica in Spinoza e nel suo tempo, «Rassegna di scienze filosofiche», 22, 1969; Le proprietà dell’essenza nella filosofia di Spinoza, «Verifiche», 6, 1977; La definizione dell’essenza in Spinoza, «Revue Internationale de Philosophie», 31, 1977. Silvain Zac ha rivolto l’attenzione ai temi della vita (L’idée de vie dans la philosophie de Spinoza, Paris 1963), dell’interpretazione delle Scritture (Spinoza et l’interprétation de l’Écriture, Paris 1965), della morale (La morale de Spinoza, Paris 1966) e ai rapporti tra filosofia, teologia e politica (Philosophie, théologie et politique dans l’oeuvre de Spinoza, Paris 1979). A quest’ultimo tema hanno dedicato lavori notevoli anche Stanislas Breton, Spinoza. Théologie et politique, Paris 1977 e Alexandre Matheron, Le Christ et le Salut des ignorants chez Spinoza, Paris 1971. Rivolti a temi specifici di particolare rilievo i lavori di Herman J. de Vleeschauwer, More seu ordine geometrico demonstratum, Pretoria 1961; Hugenius Gezinus Hubbeling, Spinoza’s Methodology, Assen 1964; Gilles Deleuze, Spinoza et le problème de l’expression, Paris 1968. Sul pensiero politico si possono citare gli studi di Arturo Deregibus, La filosofia etico-politica di Spinoza, Torino 1963; Jean Preposiet, Spinoza et la liberté des hommes, Paris 1967; Robert J. Mc Shea, The Political Philosophy of Spinoza, New York-London 1968; Alexandre Matheron, Individu et communauté chez Spinoza, Paris 1969; Claudio Signorile, Politica e ragione. Spinoza e il primato della politica, Padova 1970; Mario Corsi, Politica e saggezza in Spinoza, Napoli 1978. È da ricordare, infine, la pubblicazione di preziosi strumenti di lavoro, quali sono le bibliografie e i lessici: si segnalano, in particolare, la fondamentale bibliografia di Adolph S. Oko (A Spinoza Bibliography, Boston 1964), integrata da Jon Wetlesen (A Spinoza Bibliography, 19401970, Oslo-Bergen-Tromsö 1971) e quella, utile per la divisione degli argomenti, di Preposiet (Bibliographie spinoziste, Paris 1973). Per le più recenti e parziali bibliografie aggiornate si rinvia all’elenco dato nella

Bibliografia che segue. Tra i lessici ha un’importanza particolare il Lexicon Spinozanum di Emilia Giancotti Boscherini (2 voll., L’Aja 1970), mentre più recentemente è iniziata la pubblicazione degli indici e delle concordanze delle opere di Spinoza, eseguiti mediante calcolatore: Spinoza, Ethica, Concordances, Index, Liste de fréquences, Tables comparatives, par Michel Guéret, André Robinet, Paul Tombeur, Louvain-la-Neuve 1977 e Tractatus politicus - Traité politique, Index informatique par PierreFrançois Moreau e Renée Bouveresse, Paris 1979. Qualche migliaio di titoli si è aggiunto alla storiografia spinoziana dal 1977 al 2005: contributi pubblicati in numeri unici di riviste, in miscellanee, in Atti di congressi tenuti in occasione del terzo centenario della morte del filosofo, oltre a saggi critici e a monografie. In questo contesto non è possibile neppur tentare un bilancio analitico dell’immensa letteratura pubblicata sul filosofo di Amsterdam. Mi limiterò a indicare, schematicamente, le principali tendenze della storiografia spinoziana e della fortuna di Spinoza negli ultimi due decenni. L’ampia rassegna bibliografica ragionata, che chiude il volume e alla quale si rinvia il lettore, potrà offrire un quadro più esaustivo e dettagliato rispetto alle indicazioni che seguono. 1. Il primo carattere, addirittura macroscopico, che colpisce lo storico è l’estendersi e il rapido incrementarsi della ricerca spinoziana in aree del mondo nelle quali era stata carente o addirittura assente. Mi riferisco in particolare ai Paesi di lingua spagnola, portoghese e angloamericana. Associazioni di studiosi e amici di Spinoza sono sorte in questi Paesi, come anche in Israele e in Giappone, organizzando seminari e convegni, talvolta periodici, bollettini dedicati alla pubblicazione di studi e ricerche, notiziari bibliografici annuali. Nuove traduzioni complete delle opere di Spinoza sono state pubblicate (come quella in lingua spagnola a cura di Atilano Dominguez), altre sono in corso di completamento (come quella avviata negli Stati Uniti da Edwin Curley). 2. L’esigenza di comunicazione tra i molti ricercatori e le diverse comunità di ricerca che in tutto il mondo continuano a indagare il pensiero di Spinoza ha consigliato di costruire uno strumento di informazione e una sorta di forum nel quale potessero trovare espressione le diverse linee di ricerca e i principali risultati delle indagini in corso.

Nel 1985 ha così avuto inizio la rivista internazionale «Studia Spinozana», giunta al quattordicesimo volume. La scelta di un tema centrale per ciascun volume denota, già da sola, gli interessi e gli orientamenti della ricerca spinoziana negli ultimi vent’anni: quasi la metà dei volumi è dedicata al confronto tra la filosofia di Spinoza e altre filosofie o tradizioni culturali (Descartes, Hobbes, Leibniz, la filosofia antica, la tradizione ebraica, Spinoza nella letteratura, Spinoza e la modernità); gli altri volumi a temi ritenuti ancora non adeguatamente indagati (filosofia della società, epistemologia, filosofia della religione, il ruolo dell’etica nell’Etica, psicologia e psicologia sociale) o a questioni riaperte (come quella dei primi scritti di Spinoza). L’interesse della rivista risiede tuttavia anche e, talvolta ancor più, negli articoli di vario argomento, nei documenti nuovi e inediti concernenti le fonti, gli interlocutori e la storia dello spinozismo, e nell’ampia rubrica di recensioni alla principale letteratura pubblicata. Per le ragioni ora indicate «Studia Spinozana» costituisce un riferimento imprescindibile per lo studioso di Spinoza negli ultimi venti anni. 3. L’introduzione delle metodologie di ricerca informatica nelle scienze umane ha consentito la produzione di stru-menti di analisi quantitativa di tutte le opere latine di Spinoza (indici delle forme e dei lemmi, concordanze) e la pubblicazione in CD dell’intera opera di Spinoza, con la possibilità di indagine lemmatica attraverso motore di ricerca: Spinoza, Opera omnia (a cura di Carl Gebhardt), edizione informatizzata a cura di Roberto Bombacigno e Monica Natali, BibliaTecnologie per l’informazione, Milano 1998. Sugli strumenti di analisi testuale cfr. Bibliografia, IV. 4. Un carattere distintivo della ricerca spinoziana degli ultimi venti anni è costituito dall’attenzione portata all’analisi filologica dei testi, sia sotto il profilo della ricostruzione della loro genesi e delle fonti sia sotto quello dell’edizione critica delle opere e della preparazione di nuove traduzioni. Si possono ricordare, in questo ambito, le nuove edizioni del Breve Trattato e del Trattato sull’emendazione dell’intelletto (Mignini), del Trattato teologico-politico (Fokke Akkerman), dell’Etica (Akkerman e Piet Steenbakkers) e del Trattato politico (Omero Proietti). Indagini sul lessico latino e sulle fonti classiche di Spinoza sono state condotte da Akkerman e Proietti; sulla trasmissione ed edizione delle Opere Postume da

Steenbakkers; sulla cronologia e datazione delle opere da Mignini. Nuove traduzioni (o revisioni di traduzioni precedenti) delle opere complete sono state avviate in lingua francese (con edizione critica a fronte) sotto la direzione di Pierre-François Moreau (PUF, Paris); in lingua italiana (con edizione critica a fronte) sotto la direzione di Mignini (Bibliopolis, Napoli), in lingua tedesca (Meiner Verlag, Amburgo), in lingua inglese, a cura di Edwin Curley (Princeton); in lingua spagnola, a cura di Atilano Dominguez (Alianza editorial, Madrid). 5. Si può affermare, considerando il complesso degli studi spinoziani, che la ricerca si è orientata negli ultimi decenni prevalentemente sui seguenti campi d’indagine: sulla teoria della conoscenza, con particolare riferimento alle dottrine dell’immaginazione e della scienza intuitiva; sulla teoria degli affetti e, più in generale, sulla psicologia; sulla teoria politica, concepita come espressione organica dell’intero sistema spinoziano, con speciale riferimento alla fondazione che essa riceve nell’Etica; sulle relazioni tra la filosofia di Spinoza e altre filosofie, precedenti e successive. Il lettore potrà trovare ampia informazione su questi ambiti d’indagine nella Bibliografia che segue. Si può osservare che, sotto il profilo speculativo, la critica più recente tende a valorizzare la filosofia di Spinoza nella peculiarità radicale del modello ontologico, logico e politico che essa offre nel panorama complessivo della filosofia moderna e quale punto di riferimento critico alternativo alle tendenze culturalmente prevalenti della filosofia moderna e post-moderna. Sotto il profilo storico-critico si tende ad approfondire e ampliare le indagini sulla genesi della filosofia di Spinoza in relazione ai grandi movimenti di pensiero che hanno alimentato la civiltà occidentale, intensificando ancor più le ricerche sulle fonti ebraiche e sulla presenza della tradizione averroista, non ancora adeguatamente studiata. Infine, sotto il profilo del dialogo interculturale, la filosofia di Spinoza appare una delle prospettive più feconde, anche per le radici che essa affonda nella tradizione araba, ebraica e latina, nelle quali la civiltà occidentale possa confrontarsi e dialogare con le altre civiltà. 1 2

Cfr. L. Stein, Leibniz und Spinoza, Berlin 1890, p. 307. La lettera è del 4 febbraio 1678. Die philosophischen Schriften, Leipzig 1937, I, pp. 139-52.

3

Sämtliche Schriften und Briefe, Darmstadt 1926, I, p. 535. Discours de Métaphysique, a cura di H. Lestienne, Paris 1929; trad. it. a cura di V. Mathieu, in G.W. Leibniz, Saggi filosofici e lettere, Bari 1963, pp. 104-44. 5 Sul primo illuminismo tedesco e la sua reazione a Spinoza si veda R. Ciafardone, L’illuminismo tedesco, Il Velino, Rieti 1978. 6 Per una più ampia informazione sulla letteratura spinoziana in Italia si veda E. Giancotti Boscherini, Nota sulla diffusione della filosofia di Spinoza in Italia, «Giornale critico della filosofia italiana», 43, 1963, pp. 339-62; e C. Santinelli, Spinoza in Italia. Bibliografia degli scritti italiani dal 1675 al 1982, Urbino 1983. 4

Bibliografia

I. BIBLIOGRAFIE E RASSEGNE Linde A.v.d., Benedictus Spinoza. Bibliografie, ’s Gravenhage 1871; rist., Nieuwkoop 1961; 1965. Meijer W., Spinozana, 1897-1922, Heidelberg 1922. Oko A.S., The Spinoza Bibliography, Boston 1964. Wetlesen J., A Spinoza Bibliography. Particularly on the Period 1940-1967, Oslo 1968. Seconda edizione, estesa al 1970, Oslo-Bergen-Trömso 1971. Diliberto Reale M.A., Rassegna spinoziana, «Filosofia», 21, 1970, pp. 411-32. Altwicker N., Bibliographie, in Texte zur Geschichte des Spinozismus, Darmstadt 1971, pp. 393-410. Giulietti G., Recenti studi spinoziani, «Rivista rosminiana», 66, 1972, pp. 179-97; 67, 1973, pp. 27-43. Préposiet J., Bibliographie spinoziste, Paris 1973. Curley E., Recent Work on 17th Century Continental Philosophy, «American Philosophical Quarterly», 11, 1974, pp. 235-55. Bartuschat W., Neuere Spinoza-Literatur, «Philosophische Rundschau», 1977, pp. 1-44. Kingma J. e Offenberg A.K., Bibliography of Spinoza’s Works up to 1800, «Studia Rosenthaliana», 1, 1977, pp. 1-32. Bulletin de Bibliographie Spinoziste, a cura dell’«Association des Amis de Spinoza», «Archives de Philosophie», Paris (ultimo fascicolo di ogni anno), a partire dal 1979. Leone A., Bibliografia spinoziana 1972-1979, «Verifiche», 1, 1982, pp. 59-97. Garoux A., Spinoza: Bibliographie 1971-1977, «Travaux et Documents» du Centre de philosophie politique de l’Université de Reims, 1982. Santinelli C., Spinoza in Italia. Bibliografia degli scritti italiani dal 1675 al 1982, Urbino 1983. Werf T. van der, Siebrand H. e Westerween C., A Spinozistic Bibliography 1971-83, Leiden 1984. Bollettino spinoziano, edito dall’Associazione Italiana degli Amici di Spinoza, a cura di D. Bostrenghi e C. Santinelli, Urbino 1988-1994; con il coordinamento di M. Chamla, Milano 1995-1998. Boletín de bibliografía spinozista, «Anales del Seminario de Historia de la Filosofía», Madrid, a partire dal n. 14 (1997). Wolf A., The Abraham Wolf Spinoza Collection to UCLA, The Menno Hertzberger Catalogue, UCLA University Research Library, Departement of Special Collections, Los Angeles 1990. Boucher W.I., Spinoza in English. A Bibliography from the Seventheenth Century to the Present, Leiden 1991. Walther M., Das Leben Spinozas: Eine Bibliographie, «Studia Spinozana», 10, 1994, pp. 209-

317. Dmitriev T., XIX-XX Centuries Russian Literature Bibliography about Spinoza, «Studia Spinozana», 12, 1996, pp. 235-64. Barbone S. e Rice L., Spinoza Bibliography: 1991-1995, North America Spinoza Society, Baltimore 1997. Banaszkiewicz A., Spinoza in Polen – Wirkung und Rezeption, «Studia Spinozana», 14, 1998, pp. 233-44. II. EDIZIONI DELLE OPERE 1. Edizioni di opere pubblicate dall’autore Renati Des Cartes Principiorum Philosophiae Pars I & II, More Geometrico demonstratae per Benedictum de Spinoza Amstelodamensem. Accesserunt Ejusdem Cogitata Metaphysica, In quibus difficiliores, quae tam in parte Metaphysices generali, quam speciali occurrunt, quaestiones breviter explicantur, Amstelodami, Apud Johannem Rieuwertsz, [...] 1663. Renatus Des Cartes Beginzelen der Wysbegeerte, I en II Deel, Na de Meetkonstige wijze beweezen door Benedictus de Spinoza Amsterdammer. Mitsgaders des zelfs Overnatuurkundige Gedachten, in welke de zwaarste geschillen, die zoo in ’t algemeen, als in ’t byzonder deel der Overnatuurkunde ontmoeten, kortelijk werden verklaart. Alles uit ’t Latijn vertaalt door P. B. t’ Amsterdam, By Jan Rieuwertsz, [...] 1664. (Traduzione nederlandese dei PPC a cura [verosimilmente] di P. Balling.) Tractatus Theologico-Politicus Continens Dissertationes aliquot, Quibus ostenditur Libertatem Philosophandi non tantum salva pietate, & Reipublicae Pace posse concedi: sed eandem nisi cum Pace Reipublicae, ipsaque Pietate tolli non posse. Johann. Epist. I. Cap. IV. vers. XIII: «Per hoc cognoscimus quod in Deo manemus, & Deus manet in nobis, quod de Spiritu suo dedit nobis», Hamburgi, Apud Henricum Künrath, 1670. (I nomi della città e dell’editore sono falsi. Questa edizione, princeps, in 4° fu pubblicata ad Amsterdam da J. Rieuwertsz, che la ristampò immutata nel 1672. La stessa opera, insieme alla Philosophia S. Scripturae Interpres di Lodewijk Meyer, fu di nuovo pubblicata in 8° dal Rieuwertsz nel 1673 sotto tre falsi titoli: Francisci Henriquez de Villacorta [...] opera chirurgica omnia, Amsterdam, Jac. Paulli; Danielis Heinsii operum historicorum collectio, Leiden, Isaac Herculis; Totius medicinae idea nova seu Francisci de le Boe Sylvii opera omnia, Amsterdam, Carolus Gratiani. Nel 1673 e nel 1674 fu ancora pubblicata da Rieuwertsz con il titolo dell’editio princeps insieme alla Philosophia S. Scripturae Interpres del Meyer. Nel 1674 l’opera fu condannata dalle Corti d’Olanda.) 2. Edizioni postume e moderne B. d. S., Opera Posthuma, Quorum series post Praefationem exhibetur, 1677. La prefazione latina è la traduzione a cura di L. Meyer delle opere postume con alcune varianti della prefazione composta da J. Jelles per l’edizione nederlandese (Nagelate Schriften). Le opere contengono, nell’ordine: Ethica, Tractatus Politicus, Tractatus de Intellectus emendatione, Epistolae, Compendium grammatices linguae Hebraeae. De Nagelate Schriften van B.d.S. Als Zedekunst, Staatkunde, Verbetering van ’t Verstant, Brieven en Antwoorden. Uit verscheide Talen in de Nederlandsche gebragt, Gedrukt in ’t Jaar 1677. Benedicti de Spinoza opera quae supersunt omnia. Iterum edenda curavit, praefationes, vitam auctoris, nec non notitias, quae ad historiam scriptorum pertinent, addidit H.E.G. Paulus, Jenae 1802-1803. Benedicti de Spinoza opera philosophica omnia edidit et praefationem adjecit A. Gfroerer,

Stuttgart 1830. Benedicti de Spinoza Opera quae supersunt omnia. Ex editionibus principibus denuo edidit et praefatus est Carolus Hermannus Bruder, Lipsiae 1843-46 (19137). Ad Benedicti de Spinoza Opera quae supersunt omnia Supplementum. Continens Tractatum hucusque ineditum De Deo et homine, Tractatum de Iride, Epistolas nonnullas ineditas, et ad eas vitamque philosophi collectanea. Amstelodami 1862. (Edizione a cura di J. van Vloten, che pubblica per la prima volta la Korte Verhandeling da poco scoperta, ma seguendo il Ms. B, e corredandolo di una traduzione latina a fronte.) Benedicti de Spinoza, «Korte Verhandeling van God, de mensch en deszelvs welstand», Tractatuli deperditi de Deo et homine ejusque felicitate versio belgica. Edidit et praefatus est Car. Schaarschmidt, Amstelodami 1869. Spinozae Opera philosophica im Urtext, hrsg. v. H. Ginsberg, Leipzig 1875-82. Benedicti de Spinoza Opera quotquot reperta sunt. Recognoverunt J. van Vloten et J.P.N. Land, Hagae Comitum 1882-83; 18952; 19143. Spinoza Opera, im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften, hrsg. v. C. Gebhardt, Heidelberg [1925]; 1972r; Supplementa, vol. V, hrsg. v. C. Gebhardt, Heidelberg 1987. Letter from Spinoza to Lodewijk Meyer, 26 July 1663 (12A), a cura di A. K. Offenberg, in Speculum spinozanum 1677-1977, London-Henley-Boston 1977, pp. 426-35. Spinoza, Korte Verhandeling van God, de Mensch en deszelvs Welstand, tekstverzorging, inleiding en aantekeningen door F. Mignini, in Werken van Spinoza, III (Korte Geschriften), Amsterdam 1982. Korte Verhandeling/Breve Trattato, introduzione, edizione, traduzione e commento di F. Mignini, L’Aquila-Roma 1986. Oeuvres, édition publiée sous la dir. de Pierre-François Moreau. Sono apparsi: t. III, Tractatus theologico-politicus. Traité théologico-politique, texte établi par Fokke Akkerman, traduction et notes par Jacqueline Lagrée et Pierre-François Moreau, Paris 1999; t. IV, Tractatus politicus. Traité politique, Texte établi par Omero Proietti, traduction, présentation, notes, glossaires, index et bibliographie par Charles Ramond, avec une notice de PierreFrançois Moreau et des notes de Alexandre Matheron, Paris 2005. III. TRADUZIONI 1. In italiano De Intellectus Emendatione, trad. a cura di O.D. Bianca, Torino 1942. La riforma della intelligenza, a cura di A. Carlini, Milano 1950. Emendazione dell’intelletto. Princìpi della filosofia cartesiana. Pensieri metafisici, a cura di E. De Angelis, Torino 1962, Milano 19902. L’emendazione dell’intelletto, a cura di M. Berté, Padova 1966. De intellectus emendatione, a cura di L. Rossi, Padova 1969. Tractatus de intellectus emendatione/Trattato sull’emendazione dell’intelletto, introduzione, edizione, traduzione e commento di F. Mignini, Macerata 2006. Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità, a cura di G. Semerari, Firenze 1953. Breve Trattato su Dio, l’uomo e il suo bene, introduzione, edizione, traduzione e commento di F. Mignini, l’Aquila-Roma 1986. Cogitata metaphysica, trad. a cura di E. Garulli, in Garulli E., Saggi su Spinoza, Urbino 1958.

Pensieri di metafisica, a cura di A. Scivoletto, Firenze 1966. I principi di filosofia di Cartesio e l’Appendice, a cura di B. Widmar, Lecce 1970. Principi della filosofia di Cartesio. Pensieri metafisici, a cura di E. Scribano, Bari 1990. Trattato teologico-politico, a cura di C. Sarchi, Milano 1875. Trattato teologico-politico, a cura di S. Casellato, Firenze 1971. Trattato teologico-politico, a cura di A. Droetto e E. Giancotti Boscherini, Torino 1972. Dell’Etica, a cura di C. Sarchi, Milano 1880. L’Etica. Della correzione dell’intelletto, a cura di M. Rosazza, Milano-Torino-Roma 1913. Etica, a cura di E. Troilo, Milano 1914. L’Etica, a cura di P. Martinetti (trad. parziale con commento), Torino 1928. Etica, a cura di A. Corsano, Milano 1938. Etica, a cura di A. Renda, Milano 1939; 2ª ediz. riveduta, ampliata e corretta dell’autore, a cura di G.M. Sciacca, Palermo 1974. Etica, a cura di G. Giulietti, Padova 1947. Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, a cura di S. Giametta, Torino 1959. Ethica, testo latino, trad. it. di G. Durante, note di G. Gentile, rivedute e ampliate da G. Radetti, Firenze 1963. Etica, a cura di R. Mango, Napoli 1969. Etica e Trattato teologico-politico, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Torino 1972. Etica, a cura di E. Giancotti, Roma 1988 (1993). Tractatus politicus, a cura di A. Meozzi, Lanciano 1918. Trattato politico, a cura di D. Formaggio, Torino 1950. Trattato politico, a cura di A. Droetto, Torino 1958. Trattato politico, a cura di A. Montano, Napoli 1992. Trattato politico, trad. di L. Pezzillo, Roma-Bari 1995. Trattato politico, testo e traduzione a cura di P. Cristofolini, Pisa 1999. Lettere, a cura di U. Lopes-Pegna, Lanciano 1938. Epistolario, a cura di A. Droetto, Torino 1951; 19742. 2. In tedesco B.v. Spinoza’s sämtliche Werke, aus dem lateinischen mit dem Leben Spinoza’s, v. Berthold Auerbach, Stuttgart 1841. B. v. Spinoza’s sämtliche philosophische Werke, Übers. und erläutert v. J.H. von Kirchmann und C. Schaarschmidt, Berlin 1868-69. B. de Spinoza, Sämtliche Werke. In Verbindung mit O. Baensch und A. Buchenau, hrsg. und mit Einleitungen, Anmerkungen und Registern versehen v. C. Gebhardt, Leipzig 1922. Opera-Werke, Lateinisch und Deutsch, hrsg. v. K. Blumenstock, 2. voll. (Tractatus de intellectus emendatione – Ethica), Darmstadt 1967 (19892). Baruch de Spinoza, Sämtliche Werke, F. Meiner, Hamburg, 1982-1998. Algebraische Berechnung des Regenbogens – Berechnung von Warscheinlichkeiten, hrsg. und übers. v. H.C. Lucas und M.J. Petry, Hamburg 1982. Briefwechsel, hrsg. v. M. Walther, Hamburg 19863. Descartes’ Prinzipien der Philosophie auf geometrische Weise begründet mit dem «Anhang, enthaltend metaphysischer Gedanken», hrsg. v. W. Bartuschat, Hamburg 19876. Kurze Abhandlung von Gott, dem menschen und seinem Glück, hrsg. v. W. Bartuschat, Hamburg 1991.

Abhandlung über die Verbesserung des Verstandes, hrsg. und übers. v. W. Bartuschat, Hamburg 1993. Theologisch-politischer Traktat, hrsg. v. G. Gawlich, Hamburg 19943. Politischer Tracktat, hrsg. und übers. v. W. Bartuschat, Hamburg 1994. Ethik in geometrischer Ordnung dargestellt, Lat.-Deutsch, neu übers., hrsg. mit einer Einleitung versehen v. W. Bartuschat, Hamburg 1999. Kurze Abhandlung von Gott, dem Menschen und Seinem Gluck, hrsg. v. C. Gebhardt, Hamburg 1959. Theologisch-politischer Traktat, übertragen und eingeleitet nebst Anmerkungen und Registern v. C. Gebhardt, Hamburg 1955. Die Ethik und Briefe, hrsg. v. F. Bülow, übertragen v. C. Vogel, Stuttgart 1955. Die Ethik nach geometrische Methode dargestellt, Übers., Anmerkungen und Register v. O. Baensch, Einleitung v. Rudolf Schottlander, Hamburg 1955; Auswahlbibliographie v. W. Bartuschat, Hamburg 1989, ND 1999. Die Ethik, Lat./Dt., Übers. v. Jakob Stern mit einem Nachwort v. B. Lakebrink, Stuttgart 1977. Abhandlug vom Staate, Übers. v. C. Gebhardt, Einleit. V.K. Hammacher, Hamburg 1977, pp. 53-181. 3. In francese Oeuvres de Spinoza, nouvelle édition revue et corrigée d’après l’édition de Heidelberg, par Ch. Appuhn, Paris s.d. (1964-65)2. Oeuvres complètes, Texte nouvellement traduit ou revu, présenté et annoté par R. Callois, M. Francès et R. Misrahi, Paris 1954. Spinoza, Œuvres, édition publiée sous la direction de Pierre-François Moreau, PUF, Paris 1999-. Tractatus theologico-politicus/Traité théologico-politique, établissement du texte par Fokke Akkermann, traduction et notes par Pierre-François Moreau et Jacqueline Lagrée, Paris 1999 (t. III); Tractatus politicus-Traité politique, texte établ. par O. Proietti, trad., prés., notes, glossaires, index et bibliographie par Ch. Ramond, avec une notice de P.-F. Moreau et des notes de A. Matheron, Paris 2005 (t. IV). Traité de la Réforme de l’Entendement et de la meilleure voie à suivre pour parvenir à la vraie connaissance des choses, texte, traduction et notes par A. Koyré, Paris 19796 (1994). Traité de la réforme de l’entendement, préface de B. Rousset, traduction de C. Appuhn, présentation et commentaires de B. Huisman, Paris 1987. Traité de la réforme de l’entendement, préface, traduction et commentaires par André Scala, Paris 1991. Traité de la réforme de l’entendement, établissement du texte, traduction, introduction et commentaires par Bernard Rousset, Paris 1992; Paris 2002. Traité de la réforme de l’entendement, traduction et postface de Séverine Auffret, Paris 1996. Traité de l’amendement de l’intellect, traduction par Bernard Pautrat, Paris 1999. Traité de la réforme de l’entendement. Tractatus de intellectus emendatione. Présentation et traduction par André Lécrivain, Paris 2003. Éthique, texte latin en regard (ed. Gebhardt), traduction nouvelle de Bernard Pautrat, Paris 1988 (1999r). Éthique, introduction, traduction, notes et commentaire de Robert Misrahi, Paris 1990.

Abrégé de grammaire hébraïque, introduction, traduction française et notes par J. Askenazi et J. Askenazi-Gerson, préface de F. Alquié, Paris 1968 (1987). Traité politique, Texte, traduction, introduction et notes par Sylvain Zac, Paris 1968. Traité politique, trad. de E. Saisset (1861), revue avec introd. et notes par L. Bove, Paris 2002. 4. In inglese The Chief Works of Benedict de Spinoza, transl. from the Latin with an Intr. by R.H.M. Elwes, with a Bibliographical Note by F. Cordasco, New York 19512 (18831). The Collected Works of Spinoza, ed. and transl. by E. Curley, vol. I: Treatise on the Emendation of the Intellect, Short Treatise on God, Man, and His Well-Being; Parts I and II of Descartes «Priciples of Philosophy», Appendix Containing Metaphysical Thoughts; Ethics; Letters (August 1661-September 1665), Princeton 1985. Ethics, transl. by W. Hale White, London 1883. On the Improvement of the Understanding, transl. by J. Katz, Indianapolis 1958. Spinoza’s Short Treatise on God, Man and His Well-Being, transl. with an intr. and comm., and a Life of Spinoza, by A. Wolf, London 1910; New York 19632. The Correspondence of Spinoza, transl. with an intr. and ann. by A. Wolf, London 1928; New York 19662. Political Works. The Tractatus Theologico-Politicus in part and the Tractatus Politicus in full, ed. and transl. with an introd. and notes by A.G. Wernham, Oxford 1958; 1965. Ethics, edited with a revised translation by G.H.R. Parkinson, London 1989. Tractatus Theologicus-Politicus, transl. by S. Shirley, Introd. by B.S. Gregory, Leiden-New York-Københaven-Köln 1989. Political Treatise, transl. by S. Shirley, introd. and adn. by S. Barbone and L. Rice, Indianapolis-Cambridge 2000. 5. In nederlandese Tradotte a cura di W. Meijer appaiono ad Amsterdam le seguenti opere: Godgeleerd staatkunding vertoog (1895); Ethica (1896; 19233); Brieven (1896); Korte Verhandeling van God, de Mensch en deszelvs Welstand uit een Neerduitsche vertaling der 17e eeuw in de taal van onzen tijd overgebracht (1899); Aantekeningen op het Godgeleerd-Staatkundig Vertoog (1901); Staatkundig vertoog (1901). Werken van B. de Spinoza I - Briefwisseling, door F. Akkerman, H.G. Hubbeling, A.G. Westerbrink, Amsterdam 1977. II - Ethica, door N. van Suchtelen, Amsterdam 1979. III - Korte Geschriften (R. Descartes, De Beginselen van de Wijsbegeerte; Korte Verhandeling van God, de Mensch en deszelvs welstand; Vertoog over de verbetering van het verstand; Stelkonstige reeckening van den regenboog), door F. Akkerman, H.G. Hubbeling, F. Mignini, M.J. Petry, N. en G. van Suchtelen, Amsterdam 1982. IV - Theologisch-politick traktaat, door F. Akkermann, Amsterdam 1997. 6. In spagnolo Obras completas, prol. por A.J. Weiss y G. Weinberg, trad. de M. Calès y O. Cohan, Buenos Aires 1977, 5 vol.

Tratado de la reforma del entendimiento. Principios de Filosofia de Descartes. Pensamientos metafisicos, introd., trad. y notas de Atilano Dominguez, Madrid 1988. Tratado Breve, trad., prólogo y notas de Atilano Dominguez, Madrid 1988. Tratado teológico-político, trad., intr., notas y índices de Atilano Dominguez, Madrid 1986. Ética, introd., trad. y notas de Vidal Peña, Madrid 1987 (1996r). Ética, prólogo y trad., José Gaos; revisión y glosario, Octavio Castro López, Mexico 1983. Tratado Político, trad., introd., índice analítico y notas de Atilano Dominguez, Madrid 1986. Correspondencia, intr., trad., notas y índices de Atilano Dominguez, Madrid 1988. 7. In portoghese Tratado da Reforma da Inteligência, trad., intr. e notas de Lívio Teixeira, São Paulo 1966. Tratado sobre a reforma do entendimento, trad., pref. e notas de A. Borges Coelho, Lisboa 1971. Tratado da reforma do entendimento, edição bilingue, trad. de Abílio Queiroz, Lisboa 1987. Tratado Teológico-político, trad., introd. e notas de Diogo Pires Aurélio, Lisboa 1988. Ética, Parte I: trad., intr. e notas de J. De Carvalho; Parte II e III: trad. de J. Ferreira Gomes; Parte IV e V: trad. de A. Simões, 3 vols, Coimbra 1950, 1962, 1965; Lisboa 19922. Tratado Político, trad. de Manuel de Castro, Lisboa 1970, 19972. Correspondencia (cartas 2, 4, 9, 12, 21, 32, 34 e 50) trad. de Marílena Chaui, São Paulo 1972. IV. LESSICI E STRUMENTI DI LAVORO Richter G.Th., Spinozas philosophische Terminologie, Leipzig 1913. Runes D.D., Spinoza Dictionary, New York 1951. Crapulli G. e Giancotti Boscherini E., Ricerche lessicali su opere di Descartes e Spinoza, Roma 1969. Giancotti Boscherini E., Lexicon Spinozanum, L’Aia 1970, 2 voll. Naess A., Equivalent Terms and Notions in Spinoza’s Ethics, Oslo s.d. Wetlesen J., Internal Guide to The Ethics of Spinoza. Index to Spinoza’s cross References in the Ethics, Rearranged so as to Refer from Earlier to Later Statements, Oslo 1974. Spinoza, Ethica, Concordances, Index, Listes de fréquences, Tables comparatives, par M. Guéret, A. Robinet, P. Tombeur, Louvain-la-Neuve 1977. Deleuze G., Index des principaux concepts de l’«Ethique», in Spinoza, Philosophie pratique, Paris 1981, pp. 63-148. Spinoza, Tractatus politicus - Traité politique, Texte latin, traduct. franç. par P.F. Moreau; Index informatique par P.F. Moreau et R. Bouveresse, Paris 1979. Canone E. e Totaro G., «Index locorum del Tractatus de intellectus emendatione», in Lexicon philosophicum. Quaderni di terminologia filosofica e storia delle idee, a cura di A. Lamarra e L. Procesi, 5, Roma 1991, pp. 31-127. Totaro G. e Veneziani M., Indici e concordanze del «Tractatus theologico-politicus» di Spinoza, in Lexicon philosophicum. Quaderni di terminologia filosofica e storia delle idee, a cura di A. Lamarra e L. Procesi, Firenze 1993, pp. 101-204. Spinoza, Opera omnia, (a cura di C. Gebhardt, Heidelberg 1925), edizione elettronica a cura di R. Bombacigno e M. Natoli, Biblia-Tecnologie per l’informazione, Milano 1998. Spinoza, Corrispondenza, Index Locorum, a cura di M. Paciaroni, CEET Università di Macerata, Macerata 2000.

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Frontespizio Prefazione alla nuova edizione Avvertenza I. «Trattato sull’emendazione dell’intelletto»

2 7 9 11

1. Notizie e documenti esterni 11 2. Il tema della «emendatio intellectus», o del modo di condurre la mente alla maggiore perfezione possibile 17

II. «Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene» 1. Il testo 2. Prima parte: di Dio e di ciò che gli appartiene 3. Seconda parte: dell’uomo e di ciò che gli appartiene

III. «Principi della filosofia di Cescartes» e «riflessioni metafisiche» 1. Notizie sulla composizione dell’opera 2. Metodo 3. Gli argomenti

IV. «Trattato teologico-politico» 1. Posizione del «Trattato» nella storia intellettuale di Spinoza e del suo tempo 2. Dall’«Etica» al «Trattato teologico-politico» 3. Prima parte (capp. 1-15): discussione del pregiudizio teologico sul primato della rivelazione rispetto alla conoscenza naturale 4. Seconda parte (capp. 16-20)

37 37 44 58

64 64 68 71

78 78 81 83 95

V. «Etica»

100

VI. «Trattato politico»

136

VII. Epistolario, «grammatica della lingua ebraica in compendio», «calcolo algebrico dell’arcobaleno», «calcolo delle probabilità » Cronologia della vita e delle opere Storia della critica

149 153 155

Bibliografia

186

1. Prima parte: Dio 2. Seconda parte: Natura e origine della mente 3. Terza parte: Origine e natura degli affetti 4. Quarta parte: La schiavitù umana, ossia le forze degli affetti 5. Quinta parte: La potenza dell’intelletto, ossia la libertà umana 1. Il metodo della scienza politica (cap. 1) 2. Il diritto naturale e il diritto civile (cap. 2) 3. Il diritto di sovranità, le sue prerogative e la miglior forma di governo (capp. 3-5) 4. Il governo monarchico (capp. 6-7) 5. Il governo aristocratico (capp. 8-10) 6. La democrazia (cap. 11)

1. Dall’epistolario spinoziano all’articolo del Bayle 2. Da Leibniz a Hegel 3. La storiografia posthegeliana

101 113 119 123 128 136 137 138 140 143 147

155 165 174