Introduzione a Parmenide
 8842008206, 9788842008200

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Prima edizione

1975

INTRODUZIONE A

PARMENIDE DI

ANTONIO CAPIZZI

EDITORI LATERZA

I. LA VIA DEL NUME

E LA PORTA DALLE DOPPIE CHIAVI

A chi doppi il capo si presenta l'altro golfo contiguo, sul quale sorge una città: alcuni dei Focei che l'hanno fondata la chiamarono Ycle, altri Ele dal nome di una fonte; oggi, poi, tutti la chiamano Elea. Vi nacquero i pitagorici Parmenide e Zenone: mi risulta che la città fu governata da loro, e da altri prima di loro, nel modo giusto; ed è per questo che essi riuscirono ·a tener testa ni Lucani e ai Posidoniati e finirono per avere la meglio, pur essendo inferiori per territorio e per numero di nbit:mti. La povertà del suolo li costringe a svolgere prin­ cipalmente attività marinaresche, come la salaturn del pesce c altre simili. Antioco dice che, quando Focea cndde nelle mani di Arpago, generale di Ciro, tutti quelli che riuscirono a sfuggirgli si imbarcarono sulle navi con le loro famiglie e, navigando sotto la guida di Creon­ tindc, toccarono prima la Corsica e poi Marsiglia: essendone stati cacciati, fondarono Elea. La città dista duecento stadi da Posidonia. ( Strnbone, VI, l, l, 252) Parmenide regolò la propria patria con ottime leggi: tanto che inizialmente i cittadini facevano ogni anno solenne giuramento di rimanere fedeli alle leggi di Pannenide. (Plutarco, Adv. Colo!. XXXII, 1126 A-B) Erano con me le mie cavalle, che sanno sempre portarmi tanto lontano quanto i miei desideri si spin7

gono: tanto è vero che mi condussero lungo la famosa via del Nume, che oggi porta attraverso tutti i quartieri cittadini l'uomo che la conosce. Sl, proprio là fui por­ tato: perché mi ci portarono, trainando il carro, le tanto lodate cavalle; ma ad indicarmi la strada c'erano solo le fanciulle. L'asse nei mozzi mandava un suono acuto come le note di un flauto, c il suo attrito con i due cerchioni ben torniti che aveva alle estremità era tale da farlo quasi ince::ndiare; e intanto le fanciulle Eliadi si affrettavano a disporsi in processione:· man mano che procedevano dalle case della Notte verso la luce, levavano le mani a liberare il capo dai veli notturni. Là è 1:1 porta che divide la strada · della Notte da quella del Giorno: è limitata alle due estremità da un architrave c da una soglia di pietra, ed è stata riempita in tutta la sua altezza con due grandi battenti; ma le chiavi che la aprono da entrambe le p;mi le conserva l'inesorabile Giustizia. Le fanciulle si incaricarono di persuadcrla, commovendola col loro dolce linguaggio, a togliere di buon grado dalla porta, per amor loro, il paletto in essa inchiavardato: la porta si spa­ lancò, facendo girare l'uno dopo l'altro nelle rispettive sedi gli spessi perni di bronzo fissati ad essa mediante chiodi c caviglie, c creò una larga apertura tra i bat­ tenti; dritto là in mezzo le fanciulle guidarono il carro c i cavalli lungo la carreggiata. La dca mi accolse con benevolenza, mi prese la mano con la mano destra e mi rivolse queste parole: O tu che arrivi alla nostra casa portato dalle tue cavalle, giovane ancora, ma degno compagno degli immortali rcggitori di cavalli c di po­ poli, salve; perché non è un destino infausto quello che ti ha spinto ad inoltrarti su questa via cosl lontana dal percorso abituale degli uomini, ma il diritto c la giu­ stizia. Ora, però, dovrai esplorare tutto: non soltanto il cuore immobile della ben rotonda Verità, ma la fama presso i mortali, anche se non dà garanzia di corrispon­ dere al vero. D'altra parte, non hai sempre voluto sperimentare tutto in tutti i modi? E ora imparerai anche questo, che per farlo avresti dovuto tener conto dell'esistenza delle apparenze 1. ( Parmenide, frammento l)

1 La nuova lettura dei frammenti di Parmenide che io propongo in questo libro ha richiesto un'analisi del testo

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Negli anni trenta Guido Calogero scoprl le sor­ genti di Parmcnide: analizzando le acque apparente­ mente ferme della sua ontologia, vi scoprl dentro quei procedimenti logici che già altri da qualche lustro andavano rivelando; ma poi, passando al vaglio critico .mche la logica, si accorse che neanche quella era lim­ pida, ma portava in sé « nomi », « simboli verbali », accenni al « dire », al « significare », al « persuadere ». La sorgente del fiume parmenideo, rivelata dalla torbi­ dezza delle sue acque, è la stessa del ben più noto fiume eracliteo, quello che scorre cosl veloce da non consentire che ci si immerga due volte nelle sue acque, e in genere di tutta la logica arcaica: la norma­ tiva del linguaggio, che, non riuscendo ancorn a sepa­ rarsi da quella del pensiero e da quella della realtà, fini­ sce per avere un peso determinante nei riguardi del­ l'ontologia c delle sue strutture. Incsplorati rimangono invece gli sbocchi di quel fiume, la foce profonda del­ l'ontologia pnrmenidea: le notizie sul Parmenide legi­ slatore c magistrato di Velin non furono quasi mai messe in rapporto con i frammenti del suo poema filosofico, quasi che si trattasse di una curiosità storica irrilevante. Il frammento l, il cosiddetto « proemio », parla di « qua"rtieri cittadini », di una via che li con­ giunge tutti (aveva anche un nome, si chiamava la Via del Nume), di una porta che divide la via in due settori; descrive con realismo vivace e minuzioso pri­ ma la corsa faticosa del carro di Parmenide verso la cosl complessa e approfondita, che le mie sole forze non sarebbero state sufficienti. Colgo l'occasione per ringraziare tutti coloro che mi hanno fornito preziosi schlarimenti su materie specializzate: soprattutto Mario Napoli, Emanuele Greco c Angela Greco Pontrandolfo per l'archeologia di Ve­ lia; l\Iario Torelli per le questioni di storia greca; Gregorio Serrao per i problemi filologici e di critica del testo; Bruno Gentili per l'analisi strutturale di certi termini usati da Par­ menide; Maria Giulia Guzzo Amadasi per alcune notizie di linguistica semitica. Per una discussione più approfondita dci problemi filologici rimando al mio saggio La porta di Pan?:e­ nidc, in corso di stampa presso le Edizioni dell'Ateneo. 9

porta sprangata, poj il rumoroso girare dei battenti . sui cardini; allude i n modo trasparente alla « fama » goduta dalla via, dalle cavalle, e soprattutto da Par­ menide come auriga e come uomo di governo: tutta­ via nessuno di noi ( non voglio certo tirarmi fuori dalla schiera degli imputati) pensò a una lettura topo­ grafica del proemio, e tutti continuammo a doman­ darci soltanto se si dovesse vedere in questo racconto un'allegoria filosofica o un rito di iniziazione religiosa. La seconda chiave di lettura, quella filosofico-politica, era là a portata di mano, pronta per essere aggiunta alla chiave logico-ontologico-semantica trovata da Calo­ gero ; ma nessuno di noi allungò la mano verso la storia fino a toccare quella chiave. Un certo quadro tradizionale dell'eleatismo, favorito dalle frettolose generalizzazioni aristoteliche, affascinò gli interpreti moderni fmo alle conseguenze più radicali: all'emen­ damento, ad esempio, dei codici parmenidei ogni volta che il testo da essi fornito non era comprensibile al lume della « filosofia pura » presupposta in essi; comin­ ciando dal balflO\'n; presente nella denominazione della « Via del Nume », che divenne un nominativo plurale Snl!tove.; attribuito, con una costruzione in realtà assai contorta, alle « fanciulle » nominate poco dopo. Her­ mann Diels arrivò più in là di tutti: trovò al verso 5 del frammento 6 un :t1.6.novrat. ( = :tlciooo\'ta�, « simulano ») avente come soggetto certi « mortali » evidentemente criticati da Parmenide; non riuscendo ad ammettere che Parmenide, filosofo a diciotto carati, potesse polemizzare se non con altri filosofi, e dato che i filosofi non si accusano di « simulazione » ma di « errore », decise che il :tì.ciooo\'Tctt oMv ( « simu­ lano la via ») stava per un :t).ci.tovmt uMv { « vanno errando lungo la via »); ma non potendo d'altro lato emendare il testo (come aveva fatto con poco scru­ polo il redattore dell'edizione aldina di Simplicio) a causa della concordanza dei codici, pensò addirittura ad una forma verbale anomala (:tHtoo w come variante lO

dialettale di :tì.U.�co) che comparirebbe per iscritto solo in Parmenide, e solo in quel verso! 2• Ciò per dare un'idea del modo in cui Parmenide è stato letto 2 Ho discusso a lungo, nel volumctto citato più sopra, questa singolare ipotesi del Diels, c riasswno qui brevemente gli argomenti. Va notato innanzi tutto che la tesi del Diels, pur accettata da tutti i traduttori successivi e perfino dal lessico di Liddell e Scott, riposa su basi di una fragilità scon­ certante: gli esempi che egli riporta, di passaggi del suono t al suono o-o-, sono tratti in parte dal dialetto tarantino (che è dorico), in parte dai più antichi apporti del greco :ù latino (che, come ha mostrato ancora di recente il compianto Pa­ gliara nel contributo Il problema /ing11istico, in Metropoli c colonie della Magna Grecia, Taranto 1963, p. 101, sono anch'essi dorici, c mai comunque ionici); non possono dunque dimostrare in alcun modo una peculiarità dialettale ionica, quale doveva essere un presunto apa.v: di Pa:u::;c:\ide, .:!'.! scrive in uno ionico del tutto privo di infiltrazioni doriche (si veda l'argomentazione del Diels nel suo Parme11idcs' Lehr­ ?.edicht, griechisch rmd detltsch, Dcrlin 1897, pp. 72-3). In secondo luogo va mostrato come la traduzione (< simulano )) si adatti al disegno delle tre vie assai meglio del (), in quanto la «via simulata )> completa alla perfe­ :r.ionc le altre due. La dea Giustizia ci presenta al fr. 2 (v. 2) la via che dice > si oppone all'altra via qui nominata, dato che tale via è stata nel fr. 2 (v. 6) definita «del tutto inesplorabile»; l':ùtro attributo, « reale», si oppone invece alla terza via, alla via (< simulata ». Insomma, una delle tre vie è «reale e sicura»; un'altra è reale (perché pcnsabile) come la prim:t, ma non sicura, es­ sendo

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finora anche da studiosi il cui rigore metodologico è assolutamente fuori questione. La nostra scarsa perspicacia aveva, certo, qualche attenuante. Nel proemio di Parmenide compaiono le divinità dal nome astratto care ad Esiodo e ad Eschi­ lo: la Giustizia, il Giorno, la Notte; e compaiono anche le fanciulle Eliadi, le figlie del Sole, due delle quali sono nominate nel dodicesimo libro dell'Odissea (vv. 1 3 1 3- 3). L'avversione pregiudiziale alla lettura realistica fece dimenticare a tutti che, dopo Omero, le Eliadi vengono sempre inserite nel mito di Fetonte, che narra la loro trasformazione in pioppi, ad opera di Zeus, mentre piangono la morte del fratello 3: mentre Parmenide scriveva, venivano rappresentate i n tutto i l mondo d i lingua greca l e Eliadi di Eschilo, che narravano appunto quella metamorfosi 4; e il mito era ormai cosl radicato nella fantnsin del lettore elle­ nico, che Euripide nell'Ippolito (vv. 738-41) nomiKti.\6t'Oos, fr. 6, v. 9) che come via non esiste, perché non porta da nessuna parte. Per inciso, la ragione che spinse il Diels alla sua ipotesi, e cioè l'identificazione dci « mortali > > del fr. 6 con gli craclitci, oggi è caduta: il Mansfcld (v. più sotto, nella sezione Storia della critica) ha tolto a tale iden­ tificazione ogni possibile appiglio, e la grande maggioranza degli storici l'ha abbandonata. 3 La prima versione della metamorfosi delle Eliadi ci viene fornita da frammenti che lo scolio ad Arato (p. 208, 15 sgg.) e Igino (Fab. 104) attribuiscono, non si sa se a ragione o a torto, ad Esiodo. Dopo Eschilo ed Euripide, riprendono il tema:. Timco, fr. 41 Miillcr; Apollonia Rodio, IV, 603-4; Strabonc, V, 1 9; Diodoro, V, 23, 3-4; Luciano, 1 Dial. deor. 25; Tzctze, Cl;il. IV, 137; Scolli a Pindaro, Ol. VI, 78; Virgilio, Ecl. VI, 62-63; Ovidio, Met. II, 340-66; Plinio, N. H. ::CO..\TII, 2, 1 1; più filosseno, Satiro e Nic::m­ dro, citati da Plinio. 4 Questo titolo ci viene fornito da Filodemo di Gadara (fr. 106 a-b), che forse aveva letto la tragedia, e comunque ne conosceva il contenuto; dagli scolli a Sofocle, Oed. C. 1248; due volte da Ateneo, X, 424 D c Xl, 469 F; da u n anonimo in A11ecd. Bekk. p. 346, 10; e infine compare i n due liste di titoli eschilci contenute l'una nel Ma11oscritto .Medi­ eco, l'altra nella S11da.

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nava le sorelle di Fetonte volendo indicare i pioppi,

senza accenno alcuno alla metamorfosi stessa; cosicché

mi sembra fuori di dubbio che le Eliadi disposte in corteo a guidare la marcia del carro di Parmenide sono soltanto i @ari di pioppi che fiancheggiano la Via del Nume 5• Quanto alle astrazioni divinizzate, nessuno ha dato importanza al fatto che esse sono presenti in tutte le parti del poema, e non soltanto nel proemio: nel frammento 2 è nominata un'altra divinità esiodea, la Persuasione; un'altra ancora, il Destino, In troviamo nel frammento 8, dove peraltro ricompare la Giustizia; c nel 13 incontriamo l'Amore, « primigenio » come in Esiodo. Un discorso analogo va fatto per le analogie col dodicesimo libro del­ l'Odissea, che viene riechcggiato in tutta l a prima p:me del poema. Formalmente, possiamo dire che il « discorso delle tre vie » della dea Giustizia a Parme­ nide (che va appunto dal frammento l al 7) è model­ lato sul « discorso delle tre vie » di Circe ad Ulisse, contenuto appunto in quel libro 6: se Ulisse viene alla casa di Circe, « dove sono le case dell'Aurora figlia del mattino e gli orienti del Sole », dalla terra dei Cimmerii, che « il sole splendente non guarda mai s Tutte le zon� non abitate del promontorio velino erano ricoperte da un bosco, forse sacro (cfr. M. Napoli, La ricerca arcbcologica di Velia, «La parola del passato», 1966, fase. 108·10, p. 201): una vegetazione certamente analoga a quella della vicina Calabria, che esportava legname c pece fino ad Atene (cfr. Tucidide, VI, 90, 3; VII, 25, '2). Ancor oggi la zona è boscosa, e assai frequenti sono i pioppi: un villaggi o sito 10 chilometri a ovest degli scavi si chiama an co ra Pioppi. 6 Od. XII, 37-110. Per la diffusione della conoscenza di Omero in terra italiota, cfr. Pagliara, Il problema linguisti:o, cit., pp. 89-91; R. Cantarclla, Omero in occidente e le ori­ gini dc/l'omerologia, in AA.VV., Letteratura e arte figrm:ta ��ella Magr1a Grecia, Taranto 1966, pp. 11-65. Per il paralle­ lismo tra il discorso di Circe in Omcro c il discorso di Di ke in Parmenide, cfr. E. A. Havclock, Parmenides and Odysscus, e il tema della « poca credibilità » sono i due poli del discorso « rassicurante » che Par­ mcnide r iv ol g e ai suoi compatrioti preoccupati della « gbria » di lerone: la . gloria mortale non è mai degna eli fede; ciò che conta sono i meriti veri, cono­ sci uti d agli dèi; e su questo piano Parmcnide non si lascer:1 superare da lerone come capo più di quanto non se ne sia lasciato superare come auriga. L:1 potenza siracusana domina dunque questa ulti­ ma parte del proemio (l'esordio del discorso della de:l ). suggerendoci la risposta alla domanda che al proemio stesso avevamo rivolto più sopra: la doman­ da sulle cause del costituirsi dell'unità velina, e della conseguente legislazione unitaria di Parmenidc. Il fon­ do 1_1ltimo di tutte queste riserve sull'autenticità delle glone do rich e è attingibile attraverso un altro dei t :mt i e pini c i pindarici per le vittorie equestri di lero­ l a Pitica l, che canta il trionfo del tiranno a elfo nel 470. lerone aveva fondato da poco la �ol oni:l d i Etna (poi Catania), a lui tanto cara che, 111 o cc� sion e di questa vittoria pitica, ordinò al bandi­ to re tii pro clamarlo « Icrone etneo » ( tale è appunto ! a edica di Pindaro) anziché « Ierone siracusano »; 111 0 tr e, cogli endo i frutti della vittoria navale otte­ nut::� qu a ttro anni prima contro gli Etruschi a Cuma, b \'ia

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aveva dedotto, in quello stesso anno 470, una colonia assai più lontana, a Pitecusa nell'isola d'Ischia ( sem­ pre, quindi, nelle acque di Cuma); e Pindaro non manca di accennare nell'ode, più o meno esplicita­ mente, a tutti questi avvenimenti. Diretto è il riferi­ mento allo scontro cumano: O Zeus, fa cessare il grido di guerra dei Tirreni, tu che hai visto la loro tracotanza marinaresca davanti a Cu­ ma, e con quali sofferenze l'abbiano poi pagata quando furono domati dal capo dei Siracusani, che buttò a mare dalle navi veloci la loro gioventù, salvando la Grecità da un pesante servaggio (Pyth. I, 71-75) .

Meno scoperta, ma sufficientemente chiara per chi sapesse leggere il greco, era l'allusione alle due nuove colonie, che allargavano l'impero marittimo di lerone fino a dargli come estremi confini i due vulcani (l'Etna in Sicilia e l'Epomeo, oggi spento, nell'isola d'Ischia), sotto i quali le tradizioni mitologiche locali delle due ·isole volevano fosse sepolto Tifone, preci­ pitato dalla folgore di Zeus; tradizioni che Pindaro, con felice sintesi poetica, fonde in una sola, immagi­ nando che il corpo del mostro, simbolo della « trac etrusca domata, si allunghi da un vulcano all'altro, fino a far coincidere b. terra e il mare che lo ricoprono con i domini siracusani: Le coste chiuse dal mare di Cuma premono il suo ispido petto da una parte, la Sicilia dall'altra; lo tiene fermo una colonna che arriva fino al cielo: l'Etna nevosa, nutrice di gelo pungente per tutto l'anno. (Pyth. I, 18-20)

Non è difficile immaginare con quale entusiasm� ascoltassero la lettura dell'ode pindarica gli abitanti delle città costiere deli'Enotria, che vivevano nel bel mezzo del « petto ispido » di Tifone, e che si ritro34

vavano i Siracusani « da una parte sulle coste chiuse dal mare di Cuma, dall'altra in Sicilia >> ; e in parti­ colare i Velini, che potevano aspettarsi di veder com­ parire le vele doriche in vista del porto fluviale nord o de l porto artificiale sud, a seconda che arrivassero da Ischia o dagli scali siculi. La fine dei contrasti si i mponeva: Annibale era alle porte, le vecchie contese dovevano essere rinviate sine die. Parmenide fu il portavoce di questa esigenza; ma, se da una parte dovette far leva sulla paura per ottenere l'apertura dcll:.1 porta ai fuorusciti c il costituirsi dell'unità, dall 'al tra dovette calmare quella paura con la pro­ messa di un governo non inferiore per qualità ( anche ncccss::uiamente inferiore nei riconoscimenti) a se quello siracusano, e capace quindi di far fronte al pericolo se l'unità fosse stata effettiva. Il discorso della Giustizia, iniziatosi con una pro­ posta politica, non si esaurisce nel proemio: come è noto, esso prosegue per l'intero poema, identifican­ dosi co n esso; i due impegni presi dalla dea negli ultimi versi del frammento l , e cioè di far conoscere a Parmcnide la « ben rotonda verità » e b « fama che le cose hanno presso i mortali », vengono mante­ nuti nelle due parti principali del poema stesso; e comu n que, anche dove i nroblemi sono speculativi o scmantici, è sempre la Giustizia che parla. La sua onniprescnza come soggetto del discorso va intesa sui t �e piani che articolano il discorso stesso: il piano lmguistico di partenza, dove la dea distingue il giusto u �o delle parole da quello scorretto; il piano onlolo­ ·�1co ?i passaggio, dove essa insegna la giusta conca­ � ena� tO ne dei concetti e condanna quella errata; infine 11. prano politico di arrivo, dove la Giustizia sugge­ dts ce t a c i ta m ente ( ma eloquentemente) le giuste misure . a prendere nella contingenza, vietando le decisioni �oppor tu nc o p ericolose . I tre piani comunicano me­ t � n tc le due porte, quella logico-semantica, indicata d:u frequenti accoppiamenti tra « dire » e « pensare », e quel la logicopolitica, rivelata dalle allusioni del

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proemio: di entrambe le porte, per usare ancora il linguaggio parmenideo, « conserva le chiavi l'inesora­ bile Giustizia » ; e il suo continuo ammonimento è scandito dal periodico comparire della Necessità, della Legge, del Destino, che sono i suoi sdoppiamenti nelle singole situazioni di discorso. Come ho detto all'inizio, la politica è lo sbocco del discorso ontologico che ha nella semantica la sua· sorgente; e, se è vero che non si può conoscere un fiume senza riferirne il corso ai suoi punti iniziale e finale, b politica deve essere la seconda chiave di lettura dell'ontologia, quella che apre la seconda porta di comunicazione. Origine semantica e sbocco poli­ tico: questi i due punti di riferimento che il presente libro propone agli interpreti del Parmcnidc filosofo. Le pagine che seguono vogliono essere più una esem­ plificazione di questo criterio di indagine che non una improbabile soluzione finale del problema parmenideo.

' II. LE TRE VIE D INDAGINE

Da che parte vuoi che cominci? Per me è lo stesso, dato che comunque ci ritornerò ... Stammi bene a sentire: comincerò col dirti che ci sono due soli modi ragionevoli di indagare su una cosa: rico­ noscere che la cosa esiste e che è necessario che esista o negarne l'esistenza ammettendo che non può esistere. La prima via è quella su cui cammina la Persuasione; e b Persuasione è seguace della Verità. Quanto alla seconda via, non ti nascondo che è un viottolo del rutto inesplo­ rabile: se davvero b cosa non esiste, non la conoscerai mai (perché sarebbe impossibile) e mai ne parlerai... E sl, perché in realtà il pensare fa tutt'uno con l'es­ sere ... Per esempio: le cose lontane, prova a guardarle col pensiero: le vedrai vicine. Difatti, per quanto impegno si metta nel disperdere qualcosa ai quattro venti, per quanto se ne metta nel ricomporla, il pensiero si rifiuterà sempre di porre una separazione netta tra due cose esi­ stenti... ,

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Insomma, bisogna dire e pensare che ciò che è, è,

perché l'essere esiste e di cose che non siano non ne esistono: questo ormai sono riuscita a fartelo ammettere. ,\Ll questa è solo una delle due vie di ricerca dalle quali

rorrei tenerti lontano: voglio che tu eviti anche l'altra, qudla simulata; simulata con doppiezza da uomini che non s a nno proprio nulla. In effetti la loro mente veleggia � u c giù per il loro petto; mn il vento che la spinge è l'incapacità. Oh, quelli, incapaci come sono di capire qudl o che odono e vedono, sono in sua completa balla. 1\Ia il fatto è che quella razza n è anche incapace di pren­ dere una decisione: oggi ti dirnnno che essere e non essere >ono In stessa cosa, domani che non lo sono. La strada che tutti costoro ci offrono non è che un circolo vizioso ... Perché non potrà mai venire imposto che le stesse cose da una parte non siano e dall'altra siano: ma tu tieni egualmente ben lontano il tuo pensiero da questa via di ricerca. Non vorrei che quella tua nbitudine di sperimcnt;tre tante cose ti costringesse a proseguire su quest:� via : a consumarti gli occhi là dove non c'è niente ùa vedere; a parlare e ad ascoltare una lingua che è solo u n rumore. Anche ora, questa argomentazione che ti ho Lt tt:�, diseutiln pure quanto vuoi: ma poi una decisione pr.:: n dil n ; e soprattutto esprimila con un discorso com­ prensibile.

( Parmenide, frammenti

5, 2, 3, 4, 6, 7)

I due livelli di lettura sono già chiaramente pre­ sen t i in questo gruppo di frammenti, in cui la dca propo ne la scelta fra le tre vie: riconoscere l 'esistenza di una co s a come necessaria, negare l 'esistenza stessa co me i m p o s sib il e , e infine rinunciare del tutto a deci­ dere se l a cosa esiste o non esiste, ammettendo i n ce rri casi perfino che possa esistere e non esistere al t� mpo stesso. Le ragioni della preferenza per la prima VIa s ono , da un lato, prettamente logiche: essa con­ ucc al la Veri tà , e il pensiero stesso è strettamente ega to con l'essere, rifiutando sia la nozione di non e sse re, sia la coesistenza delle due nozioni 1 • Ma a sua

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1

B ru?o Gentili coglie una contraddizione tr:l il fr. 2, c quella del non essere sono entr:�ombe

(b \'Ia dell'essere

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volta l'essere è intimamente connesso col linguaggio : le cose che non esistono non solo non si possono conoscere, ma neanche è possibile parlame; l'asser­ zione di base, il principio di identità ( « ciò che è, è » ) , bisogna non solo p cnsarla, ma anche dirla; infine, il tramite tra la via prcscelta e la Verità a cui la via stessa conduce è dato dalla Persuasione, che cam­ mina sulla via seguendo la Verità dovunque essi vada. Pensare e dire, verità e discorso persuasivo, fanno tutt'uno: il linguaggio stesso rivela le regole del pensiero, negando la negazione e affermando la affermazione ( « ciò che è è, ciò che non è non è » ), con conseguente esclusione della coesistenza di a!fer­ mazione e negazione nello stesso discorso ( « non potrà mai venire imposto che le stesse cose da una parte siano e dall'altra non siano » ) . l'via quale linguaggio? Nel frammento 7 di linguaggi ne vengono menzio­ nati due : una « lingua che è solo un rumore U17.''1en11o1 y).,ionmt) )) c un « discorso comprensibile (Myo; ) )), È. evidente che i frammenti 6 c 7 sono in stretta corre­ lazione 2: gli « uomini che non sanno nulla » sono « incapaci di capire quello che vedono e odono (xwpor bttòo ; n•cpì.ui n n01pciTfç) »; Parmenide, dal canto suo, viene sconsigliato assai vivamente dal seguire la via che essi percorrono perché, se la seguisse, si ritrovepemabili) c il fr. 3 (identità di essere e pensiero, con con· seguente impe11sabilità del non essere): per Gentili ciò si

spiega col fatto che nel primo caso il verbo •·o•> come Parmenide le intende. Parmenide conosceva dunque, quando ha scritto il suo poema, :Ùmeno la sintassi di quella lingua; e il divieto della· dea riguarda la continuazione dello studio di essa, sia sotto forma di esercizio di lettura che sotto l'aspetto della comunicazione a voce. Non solo Parme� nide conosceva la « lingua che è solo un rumore », ma probabilmente l'aveva già insegnata al giovinetto Zenone, suo figlio adottivo 9: Zenone era detto infatti « bilingue ( ùwroteQ6yì.OJooo; ) », nomignolo conservatoci da Timone il Sillografo in un verso che gli scrittori tardi interpretarono nei modi più diversi (DK 1 9 A l ; 15 ). Il fatto che tale lingua fosse nota a Parmenide e a Zenone, dei quali non risultano lunghi viaggi prima di quello ad Atene di cui ci occuperemo in seguito, restringe il campo di ricerca alle lingue par­ late in Italia e nelle isole bagnate dal Tirreno: feni­ cio, etrusco, lingue italiche; queste ultime vengono però escluse da alcune osservazioni sul testo dei due frammenti. Innanzi tutto il tono ostile e sprezzante si adatta agli Etruschi e ai Fenici, nemici tradizionali dci Greci di occidente c responsabili della battaglia navale che costrinse i Focei ad abbandonare Alalia e a fondare appunto Velia; tanto più dopo le recenti sconfitte subite dai Fenici a Imera e dagli Etruschi a Cuma ad opera dei Siracusani, sconfitte più che sufficienti a giustificare l'ironia e il trionfalismo con­ tenuti nelle accuse di �< ignoranza » e « incapacità »: quel tono non ha invece alcun senso nei riguardi dci vicini italici di Velia, i Lucani, che non avevano ancora certamente cominciato le loro incursioni in 9 Apollodoro, Chron. in Diogene L:lerzio, IX, 44

25.

Campania, c che anzi dovevano conservare buoni rapporti coi Greci della costa, data la quantità di elementi ellenici ( ivi compreso l'alfabeto) da essi assi­ rn!l:ni a cominciare dal VI secolo 10• In secondo luogo \';1 notato che il verso 6 del frammento 6 ( come ho cercato di mettere in evidenza nella traduzione) è un concentrato di espressioni marinaresche, c comun­ que usntc nell'Odisseo per indicare navi in balla del ven to c del mare 11; c perfino espressioni come xooq'l6ç ( « sordo » o « muto ») cd 'ÌJ7.1,J Ei ç ( « rimbombante » ) , u'ntc da Parmenide nei riguardi della lingua s tra­ nitr;l, venivano spesso dagli scrittori più antichi appli­ clte al mare, alle onde e ai venti 12 per esprimere il c:trat tt:rc « assordante » c « rimbombante » del ru­ more che queste forze della natura producono ( quasi che Parmenidc volesse dire che la lingua degli « uo­ mini che non sanno nulla » somiglia più :ù rumore del mnre che alla voce umana): è evidente che la ) ci induce a optare per �a s�conda nccczione, stabilendo che « l'incapacità l> non è Il [>rlo ta cbe governa, mn il t•en/o che spinge la mente dei " mo rrali che non sanno nulla » a errare per il loro petto. 12 Il. I . 156; XIV. 16; Archiloco in Stobeo, Flor. 110, A pollonio Rodio, IV, 153; Arato, 922; Licofrone, 1452;

�; 1oro, lO(

III, 51, 2; Orpb. Arg. 1101. 45

nei luoghi comuni dci Greci; cliché che ci risulta abbastanza chiaro dai racconti dell'Odissea in cui compaiono Fenici , e che li rappresenta come uomini « famosi in ciò che concerne le navi » (XV, 4 15), che « navigano le umide strade )) ( ivi, 474). Ancora me­ glio corrisponde a quel cliché l'idea degli uomini che « simulano con doppiezza )> : i suddetti discorsi ome7 rici trattano sempre i Fenici da « imbroglioni )> ( XIV, 289; XV, 4 1 6 ) e descrivono uno di essi come « uomo che conosce gli inganni » (XIV, 288); più tardi questi luoghi comuni erano diventati talmente diffusi che si era creato l 'aggettivo q-otvtxd.ixrT); ( « simile ai Fe­ nici )> ) come sinonimo di « ingannatore )> 13• I Carta" ginesi ereditarono questo cliché con un p::tssaggio che nelle fonti è abbastanza scoperto; basti citare un passo di Cicerone: Tutti i monumenti dell'antichità c tutte le storie ci hanno tramandato che il più bugiardo di tutti i popoli è il fenicio; c i Puni, che sono di origine fenicia, ci hanno dimostrato, con le molte ribellioni dei Cartaginesi e con le molte violazioni c rotture di trattati, di non aver tra­ lignato neanche un po'.

(Pro Scauro, 1 9, 42)

In effetti quest::t ortgme, c cioè In fondazione di Cartagine ::td opera di un gruppo di Tirii guidati da unn sorella del loro re Pigmalione (Thiosso, o Elissa; o Didone, secondo le fonti), ci viene rnccontata, nclb sua versione greco-latina, come una serie di inganni: di Elissa, che finge di non provare r::tncore verso il fratello che le hn ucciso il marito, e anzi di essere pronta a portargli le ricchezze ereditate, salpando invece di nascosto da Tiro 14; dci Tirii, che sbarcano in Libia lasciando credere agli Africani che si ferme· s. v.;

13

Frammento tragico adespoto (271 s. v. 1 4 Giustino, Epil., :>..'VIII, 4, 9-10.

Suda,

46

Nauck);

Esich io

rnnno : nel prologo si mette in evidenza che egli finge di non sapere il greco perché « è un Cartagi­ nese, e tanto basta l> (vv. 1 12�1 3 ); nel quinto atto 21 Cicerone, De invent. I, 39, 71; Pseudo-Ciceronc, Rbet. ad Hcr. IX, 14, 20; 53, 66. 22 • ( v . 1 034). L'espressione è per noi interessant s­ sim a , perché nel testo greco doveva essere �tr.Qoi:i yi.•omfl, e N x eou; o ) . Quando Parmenide parla di « razze indecise » ( iixQLtet. ljlm.a, fr. 6, v. 7), forse non intende usare u n plurale poetico, ma esprimere la pluralità di razze presente nei Cartaginesi; c la stessa pluralità potrebbe essere riechcggiata, al v. 9, dalla « strada di tutti costoro » 2�. Ma la « doppiezza » dci « simulatori » è per

23 « Questi matrimoni dovevano essere soprattutto fre­ quenti tra Cartaginesi e Libici o Numicli » (B. Moscati, I Fe­ nici e Cartagine, Torino 1972, p. 60). 2� :Mi sembra superfluo chiarire che io intendo il r.&vrw� del v. 9 come un maschile riferito :t {3po;oi (si vedano glt argomenti a favore di questa lettura in M. C. S tokes, Parme· 11ides Fragme111 6, « Classica! Review >>, 1960, pp. 193-4) e non come un neutro: se il frammento 6 non parla eli filosofi, ma di comuni mortali, il problema della « via di tutte le cose » non ci può entrare. 50

Pnrmenide, come si è visto, soprattutto doppiezza di lingu aggio: nella loro lingua essere e non essere ora si iden ti ficano e ora no; c per un linguista che, come giust> e dire « non è >>. Le due chiavi del discorso parmenideo, quella ontolo; gico-semantica e quella antologico-politica, qui si ap­ paiano fino a mostrare la loro più intima concatena· zione: la premessa semantica delle assurdità lessicali e sin tattiche presenti nella lingua fenicia portava · alla conseguenza logica del rifiuto della loro doppiezza e 52

del loro « circolo VIZIOSO »; ma da t:Ùe conseguenza logica scaturiva poi il suggerimeuto politico, sottin­ te�o non

ma

assai percettibile alle orecchie dei Velini, di

r ..: n ta r e

neanche di difendersi dai Siracusani ricor­

r..:nclo ai loro nemici sconfitti, i Cartaginesi. LI chiave politica dei frammenti 6-7 va dunque ricerclta nella risonanza che, a dieci o dodici anni di dist;mza, lo scontro di Imera aveva ancora nella memoria dei Greci 29; tanto più che Pindaro, porta­ voce u ffi c i a le delle glorie dei Dinomenidi, proprio i n quef!li :mni esaltava quella vittoria paragonandola

cntusiasticmnente ai due grandi successi militari ripor­ tati nello s te s so anno 480 dai Greci di occidente sui Pcrsinni, quello ateniese di Salamina e quello spar­ tano di Pl a t ea 30• La spedizione di Amilcare e la sua d i�fatta, come ci vengono raccontate da Erodoto e da Diodoro, trovano notevoli riscontri nelle malevole allusioni contenute nei due frammenti parmenidei. I n primo luogo v a notato che Amilcare era stato chia­ mato in Sicilia da Greci (Terillo tiranno di Imera e Annssilao di Reggio) 3 1 e aveva trovato nell'isola alleati greci, come i Selinuntini 32: la sconfitta di Amilcare e dci suoi amici di lingua ellenica spiega il carattere • • 29 « Per il fatto di aver vinto una battaglia importan­ ussim:t, c per il fatto che la causa di tale successo era stata la su a abilità s trntegicn, Gelone ottenne una gloria altissima no n solo tra i Sicclioti, ma anche presso tutti gli altri >> (Di o �oro, X I , 22 , 5). 30 Pytb. I, 75-80. Il paragone fra le tre battnglie doveva es sere un luogo comune letterario (Diodoro, Xl, 23 , 1 ) : �1 nto _è vero che s i volle poi legare l a lotta dei Greci occient ah contro i Fenici a quella dci Greci della madrcpatria co ntro 1. Pers i ani al punto di far coincidere le battaglie non solo nell' anno, ma anche nel giorno; cosicché Imera sarebbe avv cn utn nella stessa dnta di Sulamina secondo Erodoto ( II, 1 66 ) e delle Tcrmopili secondo Diodoro (XI, 24, l); c s�rcbbc stata preceduta da accordi tra Persiani e Cnrtagi­ (Dic;d?ro, X I, _ l, 4-5) c da mancati accordi tra Gelone a 3;oahz1one nnt!pcrsinnn (Erodoto, VII, 157-63). Erodoto, VII, 165. 32 Di odoro , X I, 21, 4.

�eÌ1

53

pressante della raccomandazione della dea a Parme­ nide (in realtà di Parmenide ai suoi concittadini) a proposito dei pericoli insiti nella via « simulata con doppiezza » dai Fenici, via il cui attributo ;-cui.iv'tQOltoç. potrebbe alludere al « ri tornare al punto di par­ tenza », c cioè al tornarscne a casa con le pive nel sacco, degli alleati di Amilcare. Va poi ricordato che i Fenici, gli « ingannatori >) per eccellenza, per­ sero quella battaglia perché caddero ingenuamente in una trappola tesa loro da Gelone, che riuscl a introdurre nel loro campo i cavalieri siracusani facen­ doli passare per Selinuntini, il che provocò la morte del re cartaginese e il disordine dell'esercito fenicio 33 : ciò si accorda bene col modo in cui il frammento 6 di Parmenide allude ai Fenici, cominciando col pre­ sentarceli « simulatori e doppi >) come voleva la tra­ dizione, m:t insistendo poi sulla loro « incapacità ». « stupidità >), « indecisione »; come a dire che i famosi « .simulatori » si erano rivelati degli incapaci, degli stupidi, degli indecisi, battuti sul loro stesso terreno (quello dell'inganno) dall'intelligenza dei Greci. Unu terza considerozione va fatta a proposito del carattere misto della spedizione di Amilcare, che Erodoto ci descrive composta non solo da Fenici, m a anche da Libici, Iberi, Liguri, Elisichi, Sardi e Corsi 34: questo particolare illumina meglio l'accenno al carattere « bi­ lingue >) dci Cartaginesi ( che Parmenide introduce quasi per spiegare col miscuglio di razze e di popoli l'incertezza della sintassi punica); c spiega anche i plurali ( « razze indecise >) , « tutti costoro ») notati più sopra. Il succo del discorso è che il Greco; sem­ plice e razionale, vale più del Fenicio, doppio nella lingua e nella razza come nel pensiero, stupido e inca­ pace come quell'accozzaglia di suoni indistinti che è il suo linguaggio. Le « tre vie » di Parmenide sono un esempio clas33

J.l

Diodoro, Xl, 21, 5; cfr. 22, 6. Erodoto, VII, 165.

54

sico

dei due passaggi che caratterizzano la sua filo­

soii, perché « è » tutto insieme ora, uno e compatto. Quale origine, del resto, gli cercherai? Come sarebbe stato accresciuto , c da che cosa? Da ciò che non esiste? Questo non ti perme t t erò né di dirlo né di pensarlo, perché dire

1 Pe r una ragione che non capisco bene, quasi tutti i t ra duttori hanno visto nell') anche se reale, la via del­ l'indecisione non era neanche reale, perché era « simu-. lata »; « reale e sicura >) è solo la via che afferma sempre e non nega mni. Le basi sem::mtiche che hanno presieduto alla con· futnzione delle due prime vie non solo ricompaiono nella dimostrazione della terza, ma mostrano il loro volto talmente scoperto che non è neanche più neces· saria una vera e propria analisi del testo per ricono· scerle 3• Già al v. 2 ci viene dichiarato senza mezzi termini che gli attributi dell'esistente (eternità, inte· grit3, omogeneità, ecc.) sono innanzi tutto oiJIIO.'tn, e cioè ( come ci chiarirà in modo inequivocabile il v. 55 ) simboli verbali. Gli ;lttributi in questione, che nei vv. 2-6 vengono soltanto elencati, sono poi dimostrati nella lunga trattazione che copre la maggior . parte del frammento 8. È fncile vedere che tale dimostra­ zione non è eccessivamente articolata: in sostanza Parmenide ci ripete con una certa monotonia il co�­ cetto della necessità della connessione tra quei predì· enti e il predicato dell'esistenza \ e dell'impossibilità (espressa mediante aggettivi verb:lli in -Tov nccompa· J Cfr. Calogero, Storia della logica ull/ica, cit., pp. 1 28 sgg4 Vv. 9, 1 1 , 1 6, 30.

60

da particelle

o nati

�on

negative) 5 di far coesistere l 'essere

i predicati opposti, adoperando anche immagini ;1�sai viva c i , co m e il Destino 6, la Legge 7, i « ceppi » 0 " l egami l> dell'ente che la Giustizia o la Necessità rcn!!' ono s aldam ente in mano 8; ma l'unica ragione che ci d21 di tutte queste necessità e impossibilità è b " forza delb persuasione veritiera » che ogni tanto co m p are ( :rior 1 0; ioz{·ç, v. 12; :tiow; àì.l){}�ç, v. 28) come a ri badire l'asserzione fatta nel frammento 2, che sulla via della Verità cammina solo la Persuasione

( c cio� che l 'unico possibile trnmite tra i l pensiero c

la veri tà è la parola). Il pensiero è sempre s tretta­

men te legato all'essere, ma anche qui il legame è

l'e s pressione verbale del pensiero stesso: l'esistenza s t essa del pensiero è legata non all'esistenza come. t::tle, ma alb parola « esistente » nella quale il pen­ siero stesso « è verbalmente espresso »; e la causa del­ l'errore, che si verifica ogniqualvolta si identifica l'es­ se r e col non essere, o si unisce l'attributo dell'esi­ stere a quelli del nascere, morire, muoversi e mutare, sono i nomi presenti nel linguaggio. Ass:ti interes­ sante, in quest'ultimo passaggio, è l'ulteriore speci­ ficazione dci « simboli verbali »: non si tratta dei no?li pronunciati a voce, ma dei nomi che « i mor­ talt . ba1mo scrit t o , persuasi che fossero veri »

( %ltrrìJ n·ro,

v.

3 9 ) ; e ciò fa sospettare che, più i n

gen c � ale, i « s i mbo l i >> che condizionano i passaggi _ logiC I di Parm en id e e attraverso essi l'intera anto­ logia , s i a n o assai pi i segni scritti che non le parole pronu n ciate . P : u m e ni d e non è un viaooiatore come Erod t o : dopo il discepolato, più o eno breve · e � o casi onnl e , alla s � cu ol a di Senofane, il pi tagorico Ami­ i a a ve :\ in Huito profond �mente su di lui, �pingen� . _ o lo a l l lJot•zw, alla t r a n q u i ll a vita dello studioso se-

Ò

;'

d

Vv. 8 c 22. . 6 v . 37. 7 V . 32. 8 V\·. 1 4-15, 26, 30-3 1 .

5

61

dentario (Diogene, IX, 2 1 ); e in questo otium (d:i cui lo trassero probabilmente i politici per fargli fare · il paciere, funzione assai adatta ad un uomo non com. promesso con le fazioni locali ) egli doveva avere inter­ rogato per anni, prima da solo, poi col piccolo Zenone che aveva nel frattempo adottato, i testi greci e fenici, se non ( come sembra deducibile dalla sua « abitudine d i sperimentare tante cose » due volte ricordata nel poema) un po' di tutte le lingue conoscibili. Parme­ nide è forse il primo filologo della storia. Ma delle lingue studiate, e prima di tutto della sua madrelingua, lo aveva affascinato soprattutto una cosa: il verbo essere, con la sua complessa funzione sintattica 9 • Dalla sintassi fenicia egli non aveva impa· rato che esistono due verbi omonimi, l'essere con fun· zioni di predicato e con significato di esistenza da un lato, l 'essere usato come copula a introdurre pre­ d icati qualitativi dall'altro: all'inverso, cogliendo a modo suo l 'unità originaria dei due verbi, aveva visto nella separazione dei due significati, attestatagli dal confronto col fenicio, errore, incapacità, indecisione, perfino doppiezza e simulazione; e aveva fatto del significato unico il dogma della sua logica e della con· seguente antologia. Non ci sono più modi di essere; e quindi non c'è passaggio dall'uno all'altro ( muta· mento di luogo e di qualità, molteplicità temporale o spaziale o semplicemente numerica). L'essere, « tutto intero e omogeneo », si contrappone all':maloga omo­ geneità del non essere; e quindi non c'è passaggio dal primo al secondo ( morte) né dal secondo al primo ( nascita), e a rigore neanche passato e futuro, che col presente hanno pur sempre un rapporto di muta· mento, che è n;lscita c morte di qualità. Il verbo essere si dilata, in tal modo, · fino a regolare l'intera realtà, identificandosi esso stesso con la « ben rotonda verità » annunciata all'inizio. I frammenti dal 2 al 1 avevano ribadito la sceltuntx6 c; per Parmenide) esclude di per sé la traduzione del­ l'at tribu to di Parmenide con « medico >> . Non dimen­ t i ch i amo che i vari titoli ITEQl q>uaE w ; attribuiti alle op ere d c i presocratici ( che probabilmente erano senza ti tolo ) , c non solo a quelle dei presocratici definiti 8

G.

Si_ ved�no

in bibliografia (VII, 2) le opere di P. Ebner,

ese V. Nutton e A. Dc Franciscis sull'ar­ �omPugh ento. SuCarratclli, Parmcnide in rapporto nlla scuoln medica si 5 e�a�o

cnt�l

a nche, al paragrafo successivo della bibliografia, gli d1_ M. Gignntc, C. Ot taviano G. Calogero e Ph. Mcrlan.

,

?- Ebner, Parme11ide medico Cl\0fistcn » , 196 6, pp. 103-14.

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3 I f ;• ;

sat



0�.\,&oq-;, « Giornale di

G . Pugliese Carratclli, cl>w.\apxo>, di Parmenide e di Empedocle come filosofi) ci in· forma che i due pensatori sono ancora vivi e f:1mosi, anche se a condividere la loro gloria sono sorti Zenone e l'atomista Democrito. Parmenide visse dunque a lu ngo, sopravvivendo alla propria generazione e rivalcggiando con la successiva; cd è presumibile (dato il silenzio delle fonti) che morisse non molto tempo dopo, attorno ai 75 anni.

94

STORIA DELLA CRITICA

l . Varia c incostante è stata la fortuna di Parmc­ nide nel corso della storia, con particolare riferimento all'importanza che i vari autori gli hanno attribuita nella determinazione originaria dei concetti logici e mctalisici . Platone gli dedicò uno dei suoi dialoghi pitt interessanti e profondi, sostituendolo addirittura a Socrn te nella conduzione del dibattito; e un com­ mentatore di Aristotele, Filopono ( i n Phys. , 65, 23 V i t . ), sostiene che anche lo Stagirita avrebbe dedi­ cato n li 'Eleatc e alla sua dottrina un'opera, oggi per­ duta. Incondizionata era l'ammirazione di Platone per questo antico maestro: « Parmenide il grande » lo chi ama il protagonista del So/ista, di cui non ci vien e detto il nome ma, assai significativamente, la P•tt ria , che è appunto Elea (Sopb. 237 a); e il Socr::tte dc:I Tcet e/o confessa: « Di fronte a Melissa e agli �Itri che sostengono l'unità c l'immobilità del tutto, IO pro \'O un senso di vergogna, e mi assale il timore che b nostra indagine sia grossolana; ma tutti costoro lll� s si i nsie me mi ispirano un timore reverenziale n: mo rc di quello che mi fa provare, da solo, Parme­ ntd e. Par menide mi sembra, per usare un'espressione ?lll e r i ca, ' venerando e terribile nello stesso tempo ' : 10 l'h o conosciuto, quest'uomo, quando ero ancom lll � �to gio vane (e lui molto vecchio), ricavandone !mpres�ionc di ecce7.ionalc profondità >> (Tbeaet. 8� c ). Aristotele non contesta la superiorità specu­ I attva di Parmenide sugli altri Eleati (Phys. r 6,

��

95

207 a 13 sgg . ; llfet. A 5, 986 b 24 sgg.), ma la riduce a una specie di monocolia in terra di ciechi, date le gravi accuse che fa ai metodi comuni all'intera scuola: seguire come unica via il criterio della coerenza del ragionamento contro ogni evidenza sensibile, come fanno tutti gli Eleati, è per Aristotele « pazzia » se in buona fede (De ge11. et corr. A 8, 825 a 1 3 sgg.), « ragionamento eristico » se la capziosità è consape­ vole (Phys. A 3, 1 86 a 6 sgg.); e anche Parmenide, il migliore di essi, non può dissimulare « l'equivoco contenuto nel suo modo di ragionare )>, essendo evi­ dente che da un lato sono false le premesse, dall'altro sono arbitrarie le deduzioni ( ivi, 186 a 22 sgg.). Il giudizio sostanzialmente negativo di Aristotele ebbe la sua risonanza in età ellenistico-romana: Cice­ rone (De uat. deor. I, 12, 28 ) riduceva ad una pura i nvenzione (comme11ticium quiddam) l'intera conce­ zione speculativa dcll'Eleatc ; mentre, dal canto loro, Plutarco (De ali{/. 1 3 , 45 B ) e Proclo ( in · Tim. l, 345, 12 Dichl; i11 Parm. I, 665, 1 7 ) ne criticavano lo stile poetico, rimproverandogli la rozza fattura dei versi, o l'oscurità del linguaggio, o l'eccessiva c disa­ dorna semplicità dell'esposizione, che rende più pro­ sastico che poetico l'andamento del · discorso. Con la patristica cristiana Parmenide passò dal biasimo al­ l'oblio: ai Padri interessava assai pits il tema pitag� rico-platonico della metempsicosi, o il Logos > (De cael. r 1 . 298 b 16 sgg.). « Parmenide il fisico >> lo chiama invece l'Anonimo di Bisanzio (p. 52, 19 Treu); e Plu tarco lo considera « uomo scaltrito nell'indagine natumlistica >> (lldv. Colot. , 1 1 1 4 B), mentre Nicomaco attesta che questa interpretazione è assai comune ai suoi tempi, dal momento che « tutti quelli che si occupano di fisica cominciano sempre da Empedocle c da Parmcnide di Elea » (Ginmblico, V. Pytb. 166). Una terza posizione è quella di Tcofrasto che, espli­ citando un dubbio di Aristotele (Afet. A 5, 986 b 25 sgg . ), coglie una contraddizione insanabile nel­ l'esposizione parmenidea, considerando l'antologia e la fisica come due parti inconciliabili del sistema (Alessandro, in 1\Iet. A 3, 984 b 3 sgg. = Tcofrasto, fr. 6 D 482, 5 ). Le tre interpretazioni ( metafisica, fisica e dualistica) sono poi ricomparse puntualmente nella critica moderna, formando in certo modo l 'ossa­ tura dell'intera discussione su Parmenide. L'interpretazione metafisica (o più esattamente « extrafisica >>) è ancor oggi dominante in tutte le correnti che fanno capo in qualche modo ad Aristo­ tele: i tomisti, dci quali si è fatto cenno più sopra, ne sono un esempio. Ben presto la rigida negazione delle apparenze sensibili è stata unita ad altri elej menti, come la « visione » cui si accennerebbe ne proemio e la « dea » che si vuole guidi Parmenide alle più alte rivelazioni ; c ne è nata l'interpretazion teologica del poema. Le figurazioni mitologiche de proemio emno state già prese in esame, in epoca ellenistico-romana, da Sesto Empirico, che le a.v�"'1 interpretate simbolicamente, negando cosl mente ogni riferimento al soprannaturale ( VI I, 1 1 1 14 ) ; alcuni studiosi moderni hanno dato invece mag­ gior concretezza a quelle immagini, ponendo il blema della « divinità in Parmenide ». Cosl il D1e 5

i

imphot�­



�r�­

98

( Parmenides Lehrgedicbt, cit.) ha stabilito solidi lega­ mi t ra i l proemio parmenideo da una parte e Omero,

Esiodo e i frammenti orfici dall'altra, strappando I 'Eieate alla tradizione scientifica per inserirlo in quella religiosa e mistica; lo Slonimsky (Heraklit rmd Pc�nllcllides) ha sostanzialmente identificato Uno, Es­

c Dio; e Jaeger e Schuhl hanno inserito Parme­ nidc nella religiosità del suo tempo, con particolare

sere

ri g u a rdo alle scuole misteriche. Osteggiata da illustri qudiusi del pensiero antico come lo Zeller e il Rein­

h:trd t, l'in terpretazione religiosa è stata riproposta piìt recentemente dal Mansfeld (Die Olfenbarung des Parmcllides rmd die meuscbliche \\7elt), che ha riletto I 'in tno poema (o almeno la parte a noi pervenuta) come il racconto della « rivelazione » mistica fatta dalla dca al l'autore: per il M:msfeld il proemio va prc�u :tlla lettera, non in senso simbolico, e la dea è il dms ex machina, la connessione tra le parti del poema, l a garanzia delle premesse da cui partono i ragionamenti nella « via della verità », ma anche la causa clliciente della cosmogonia descritta nella « via Jcll'app:uenza », cosicché l'ontologia e la fenomeno­ logia di Parmenide sono solo gli aspetti della sua teologia. Sulle tracce del Mansfcld, l 'interpretazione teologica ha ritrovato in questi ultimi anni una certa fortuna: t ra il 1968 e il 1969 l'hanno riproposta in forme diverse E. L. Miller (Parmenides the Propbet? ), R .T. Clark ( Parmenides and Seuse-Perception), W. Bur kert (Das Proomium des Parm. mrd die Katabasis des Pytbagoras) e Renzo Vitali (Il ,.,io; di Parm.), �hc , p artendo dallo studio semantico del termine "oii; In O mcro e nei filosofi che precedono Parmenide, met te in evidenza il carattere di « emanazione divina » contenuto in questa parola. Una variante dell'inter­ pr_e tazi one teologica è quella che potremmo chiamare ll ozois tica >) o « animistica », e che ebbe una certa O rtu na negli anni quaranta ad opera del Verdenius ( P�rm euides) e dello Za!ìropulo ( L'école éléate): il Prt rno pa rlò di « personalismo ilozoistico », di indi.

f
che, già contenuta in un passo dcgl � Holzwege di HeideP.ger, viene portata nel campo e h storici-filologi dal Parmenidcs di K. Riezler: le ue possi bilità �> del Reinhardt divent::mo i due erm in i di una « decisione esistenziale », di una scelta ,

l

d

�< J

101

tra verità e non verità in cui consiste appunto la scoperta dell'Esserci. La visione « kantiana » del Rein. harclt e quella « esistenzialistica » del Riezler si fon­ dono nel commento a Parmenide di J. Beaufret (Le poème de Parm.), vero impasto di interpretazioni anacronistiche: fermo restando il presupposto del Reinhardt, che le « vie di ricerca » si completano e sono inseparabili, muovendosi su linee indipendenti ma non opposte, Parmenide viene collocato in un punto intermedio tra idealismo c realismo, in quanto coglie l'inizio della filosofia nel cogito, ma d'altro lato ammette (come farà Kant) che la conoscenza è aper­ tura c relazione trascendentale con l'oggetto; la diffe­ renza tra Parmenide e Kant sta nel fatto che il primo riconosce un ''ofiv solo di ciò cui corrisponde un vu'll''L, ponendo (heideggerianamente) il rapporto sog­ getto-oggetto come una ek-stasi. I l Parmenide « fisico )> di Nicomaco e di Plutarco ha trovato i suoi moderni sostenitori nello Zeller e nel Burnct, per i quali l'unità dell'essere va intesa come assenza di determinazioni in una « materia prima » simile all'« elemento indeterminato )> di Anas­ simandro. « Secondo l'appropriata osservazione di Ari­ stotele - scriveva lo Zeller - è la sostanza del corpo­ reo stesso c non una sostanza differente dal corporeo quella di cui si tratta per lui ; e quando egli dice: solo l'essere è, intende dire: noi raggiungiamo una giusta visione delle cose se facciamo astrazione da�l.n divisibilità e mutevolezza delle apparenze sensibJ.h , per tener fermo al loro sostrato semplice, indivisib1le e immutabile come sola realtà. Già questa astrazi�ne è abbastanza potente; ma tuttavia con essa Parmemde non esce fuori dall'orientamento anteriore delle indo�­ gini filosofiche cosl interamente come sarebbe il caso se egli, senza nessun riguardo ai dati sensibili, avesse cominciato con un concetto puramente metafisica » (Zeller-Mondolfo, op. cit. , l, 3, pp. 24 1-2 ). E il B� r­ net: « Ciò che è è un plenum corporeo, finito, sfericO e immobile, c fuori di esso non c'è nulla. Le app;l· 1(\2

n�nze della molteplicità, del movimento, dello spazio

\'liO[O

c

del tempo sono pure illusioni. Vediamo perciò

ehxil caro agli an tichi fisiologi, soprattutto se si tenga pre­ sente il carattere unitario e autosufficiente dell'ente

Burnct là

1e11x

��nti nuità,

m

103

parmenideo; più tardi Io Owen (Eleatic Questions) ribadiva l'estraneità del pensiero di Parmenide rispetto alle cosmologie tradizionali, e la Guazzoni Foà (Un ripe11same11ID sulla opaiQa di Parm. ) affrontava i) baluardo dci « materialisti » (c cioè la forma sferica che il fr. 8 sembrn attribuire all'ente) vedendo nella « ben rotonda sfera >> la sintesi trn il carattere di eternità, assolutezza e infinità che l'ente e l a verità hanno in assoluto e il carattere di finitezza, relatività e temporalità che il pensiero umano non può non attribuire loro a causa della sua intrinseca limitatezza. Infine l'interpretazione « dualistica >> di Teofrasto ha trovato i suoi seguaci più autorevoli, nell'ambito della critica moderna, in F. M. Cornford (Plato and Parm. ) c in J.H.M.M. Loenen (Parm. Mel. Gorg.): per il primo « Parmcnidc rimane solo nella sua . can· dida ammissione che questa unità razionale non spie· ghcrà mai le apparenze irrazionali, ma è inconcilia· bile con esse », e il suo sistema rimnne spezzato in due parti « separate da uno stacco che egli non pre· tende di aver colmato c sempre dichiara invalicabile )) ( op. cit. , p. 5 1 ); per il secondo Parmenidc è un dua· lista ancor più radicale di Platone, perché manca ogni legame tra le cose che godono dell'attributo dell'es· sere c quelle che ne rimangono escluse. Cornford e Locnen portano cosl alle estreme conseguenze un certo taglio piuttosto netto che lo Zeller aveva posto tra ente e apparenza: ma, come il Coxon (Tbc Philo· sophy of Parm. ) aveva riaffermato contro lo Zeller l'unità del poema , cosl anche queste più radicali inter­ pretnzioni dualistiche non hanno avuto vita facile. Al Cornford si era opposto lo Schwabl (Sein tmd Doxa bei Parm ), che aveva effettuato uno studio app rof?n· dito delle due nozioni, dei loro rapporti recipro71 c della loro importanza per la coerenza del penster? parmenideo, deducendone ( in base anche alla testi· monianza dello stesso Tcofrasto) uno stretto leg:.t � tra mondo del pensiero e mondo dei sensi. Più tar. � vari studiosi hanno rivolto argomentazioni consimth ·

.

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.11 libro del Loenen: potremmo citare il Chalmers and tbe Beliefs of Mortals), per il quale l a \il ddla verità c l e opinioni umane riguardano lo stes o « non è », m a alle espressioni (( è » e « non è » nel loro valore verbale e significativo; cosicché la Mo; �t'çiJnw; u;rc••; �on e il ''OIJ!HL oi!veY.tno t'on non sono scelte di contenuto, ma scelte formali, concernenti l'uso (iel verbo ehcu , in forma positiva anziché nega· tiva, non rispetto ad un certo soggetto, ma in gene­ rale per ogni possibile soggetto. Unità, limitatezza, sfericità, tutti gli attributi che Parmenide attribuisce alla realtà, non sono più deduzioni svolte con l'occhio fisso alla realtà stessa, ma implicazioni della scelta originaria, che consiste nel dire (( è » e nel non dire mai « non è >> : manifestazioni di un « complesso gioco mentale, per cui la verità prima si costruisce nella parola c poi si oggettiva nella contemplazione, ma in u na forma che torna infine ad obbedire al comando della parola » (Storia della logica antica , cit., pp. 14 1-2 ). Anche la difficoltà fondamentale, e cioè il rapporto tra antologia e fenomenologia, viene risolta sulla base del dualismo semantico, e non metafisico, che sta alla base del ragionamento parme­ nideo: da una parte il verbo, unico, immutabile, immobile nella sua positività indifferenziata; dall'lli­ tro i nomi, molteplici, implicanti negazione reciproCll, variegata apparenza delle cose che si contrappone ;1\la loro comune realtà . Per capire meglio questa interpretazione bisog n•1 _ ricordare quanto gli storici del rapporto logica-h.n­ guaggio, Hoffmann e Ranulf, avevano comincia to 11 delineare, e lo stesso Calogero aveva chiaramen te esplicitato in altre opere: il principio « noetico », 0 106

con tcmpb tivo, e il principio « dianoetico >), o discor­ sivo, che Aristotele distinguerà senza possibilità di dubbio, si delineano faticosamente nella logica preari­ srotclica, present:.mdosi spesso confusi insieme e scar­ samente delineati nelle rispettive sfere: in tal modo l'un i tà logico-ontologica (« ente » = « vero »), tipica del modo di pensare noetico, scivola facilmente nella dimwet ica unità logico-ontologico-linguistica, impe­ dendo ai primi filosofi di distinguere chiaramente tra esigenze del pensiero ed esigenze del linguaggio, col risu l ta to che vengono scambiate per insormontabili difficoltà logiche quelle che sono soltanto le limita­ tezze p ecul i ari della lingua greca . Il largo uso del verbo essere in greco (come del resto nei linguaggi latini e germanici) fa sì che la consapevolezza logica delle omonimie in esso contenute tardi a farsi luce, c che Parmenide c gli altri si sentano obbligati a usare univocamente i concetti antologici (copul::!, pre­ dicato esistenziale, ccc.) solo perché il linguaggio si scrn: Ji una parola unica per esprimerli tutti. Di qui b necessità di un'analisi linguistica, più che spe­ culativa , dei termini usati dai presocratici in generale c da Parmenide in modo speciale. L a ) degli studi sulla logica presocratica effettuata d.tl Calogero suscitò larghi interessi e cori­ sensi , Jando, per così dire, una nuova impronta a t u t t;t la letteratura critica successiva. Già n el 1935 il Locw ( Das Verbc"iltnis von Logik tmd Leben bei Parm. ) mostrava di aver fatto tesoro della lezione deg l i Studi mll'eleatismo interpretando in senso logico­ sc ma ntico il paragone parmenidco tra la conoscenza e l� luce; c nel dopoguerra gli storici di Parmenide si n_c�rd a ro no presto dell'esegesi calogeriana. Lo Stefa11111 1 ( Ess ere e immagine in Parm. ) tornò a cercare nel linguaggio la chiave della dieresi tra essere e PP _Jrire , supponendo che Parmenide avesse separato � II?gu aggio come Logos dal linguaggio come Epos: Il i.ry"' " che ha In purezza del '"oEiv, coglie l'essere· l' .. ) ' fl:"lfiv, che coincide con l'.ìvoftci�nv, ne rimane fuori,

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c Parmenidc è costretto a ricorrere alla forza allusiva dell'immagine per scoprire una traccia di essere nel mondo dei nomi. Anche per il Pomilio (La fortuna di Parm. ) la novità di P,umenide va ricercata nella scoperta clel1a noeticità dell'essere; e cioè nella pro­ spettiva logica che lo contempla, più che nella sua natura cxtraconoscitiva. Un esame approfondito delle nozioni di ii\·, r.h·ut e 1\i,;,, da un punto di vista seman­ tico viene svolto anche dallo Szabò ( Zum 1'erstiindnis der Eleaten); mentre J. Herrero (A-faleria e idea en el ente de Parm. ) rimanda al linguaggio dei tempi di P:mnenide per la comprensione del rapporto tra materia e idea nel poema; e lo Stannard (Parm. Logic), polemizz:mdo con i Presocratic Philosophers di Kirk e Raven, ribadisce la necessità di definire meglio la logica che si attribuisce n Pnrmenide se si vuole ·comprendere il significato e il metodo del suo ragionamento. Anche il Mansfeld, che nbbiamo visto sostenitore dell'interpretnzione religiosa, non ha potuto esimersi dal riconoscere la potente esigenza logica che muove il maestro di Velia: per lui P:umenide è addiritturn il fondatore di quel metodo di ragiona­ mento che, attraverso Zenone, Gorgia e i Megarici, passerà più tardi agli Stoici. Ancor più vivamente è stato sentito, in questi ultimi anni, il rapporto, cosl chiarnmente delineato dal Calogero, tra logicn e lin· gunggio in Pnrmenide: secondo il D'Avine (Parm. e il linguaggio) l'« errore delle opinioni umane » nasc� in Parmenide dnl dualismo, sia pur necessario, det termini indicanti le cose del mondo visibile; per il Sainnti (Tra P.ml! . e Prolagora) In chinve delle aporie vn ricercatn nel conflitto, non ancorn mediato nel pensiero nrcaico, tra un logos noetico e tmnsli ngui· stico, che trovn nel suo rnpporto con l'ente la gar•1n· zia del proprio vnlore di verità, e un logos dinlogico­ linguistico che la trova inYece nella situ:1zione psi co� logica e pratica nella · qu:1le si sviluppa; il Klowskt ( Die Konstitutio11 der Begrifle Nichts tmd Sein d11rch Parm.) dimostra ncutamentc come l'intero s istema 108

an tologico di Parmenide abbia le sue origini nella Jin!èu:l parlata, dato che egli trasforma le parole i n no�ioni ;mtonome sganciate d a ogni rapporto con l'oss ervazione delle cose, e in ultima analisi anche l 'e n tc, « ciò che assolutamente è �,; è riconducibile ad 1111 fenomeno linguistico nato dall'uso di certe cate­ gNi.:: : infine la Somigliana (Come interpretare in Pc�m;. l'equivalente tra sentire e pensare) mette in evidcnza l'uso dci presocratici, compreso Parmenide, di dare un senso nllcgorico a parole trntte dal lin­ gu:lggio comune, il che spesso ha tratto in inganno �nche le fonti antiche. [';di'interpretazione logico-semnntica di Parmenide ricntr:mo sostnnzinlmente nnche due importanti mono­ '!r:lfìc uscite nell'ultimo decennio: il Parmenides del Tadn c Tbc Routc o/ Parmcuidcs del Mourelatos. Il T:1r:ln concordn col Calogero sul fatto che l'« è » c il > del fr. 2 sono privi di soggetto; dis­ �cntc invece dall'opinione che la concezione dell'ente 11:1�;::1 dn confusione tra '< è » esistenziale ed « è » copl 'lativo, fondando tale dissenso sul solo fatto che P:Hmc:nide usa anche le copule negative: comunque i runcetti « visivi » ( « limitato », « sferico », ecc.) \'C'n::>ono interpretati sempre in senso metaforico, e il « mondo delle apparenze » viene ridotto ad un '' modello di riferimento » per sistemare in qunlche ml'do h visione del mondo scnturita dai « pensieri :l ttu ali dei mortali », cui Parmenide contrappone la b�ica eternn e perfetta della dca. Anche per il i\lourelatos può . considerarsi tramontnta la pretesn di dare un soggetto ai due verbi del fr. 2, e anche per lui non è possibile pnrlare di confusione tra vnlore esistenziale e valore predicativo del verbo essere: :�ttr:.werso una serrata analisi di ben sei possibili signi­ ficati . egli opta per quello predicntivo, spiegando però (l] ui la sun divergenza dal Calogero) che si tratta di u na predicazione tutta particolare, definita « specu­ l ati va )) ; di quella predicazione, insomma, che risponde �Il a domanda « che cos'è? », definendo non gli attri109

buti accidentali di un oggetto, ma la sua essenza. Per il Mourelatos Parmenide rifiuta la predicazione nega. tiva non in generale, ma solo se l'« essere » negato è quello « speculativo » che definisce l'essenza; e t ale predicazione viene rifiutata non perché priva di senso, ma perché indeterminata, non potendosi conoscere un oggetto mediante la negazione dell'essenza che esso non ha, ma solo mediante la definizione dell'essenza che di fatto gli è propria. Neanche l'ultima monografia parmenidea, il Par­ menides di Karl Bormann (che pure è impostata oggettivamente, come commento ai frammenti), riesce a sottrarsi del tutto all'interpretazione logico-scman­ tica: tanto che l'autore insiste sul fatto che Parme­ nide è il primo filosofo a svolgere una vera argo­ mentazione ( p. 1 83 ); e studia il suo pensiero soprat· tutto dal punto di vista dci nessi logici tra i vari temi centrali (ente, conoscenza dell'ente, pensiero umano, realtà apparente) e la distinzione fra le tre vie, una vera e due false. Le conclusioni del Bormann risul­ tano nel complesso piuttosto scettiche: i frammenti non sono chiari e la dossografia non li illumina molto. · 4. Se Calogero ha mostrato alla critica storica del dopoguerra la sorgente semantica della logic:1 del­ l'ente in Parmenide, assai sporadici e poco conclu­ denti sono stati finora i tentativi di mettere in luce lo sbocco politico dell'ontologia. Possiamo dire che due soli esperimenti in questo senso sono st;lti fatti fino ad oggi, ed entrambi nell'immediato dopoguerra: quello di Gregory Vlastos (Equality and ]ustice irr Early Greek Cosmology, « Classica! Philology », 1947 , pp. 1 56-78) e l'altro di E. L. Minar (Parmenides and tbe l\7or/d of Seemùrg). Il primo interpretò b bomoiòtes, l'omogeneità dell'ente, come un indizi� atto a consentirci di ricostruire lo spirito della leg•: sbzione parmenidea, il che era giusto come punto di partenza; ma poi tradusse ( a torto) la homoiòtes nell ison omìa, nella , Paris 1924 sgg. Lll:bcrwcg F. Praechtcr K., Grrmdriss der Geschichte der Pbilosopbie, I, Berlin 192612; altre cd. Basel 1953 -

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