Interpreti medioplatonici del pensiero educativo filosofico di Platone

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Interpreti medioplatonici del pensiero educativo filosofico di Platone

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Questa collana nasce come risposta alle esigenze formative degli Operatori coinvolti nella Preven­ zione primaria, sottolineando l'importanza dei processi di formazione individuale e sociale come fondamentale investimento nelle strategie di in­ tervento preventivo-trattamentale sul territorio. Obiettivo della Prevenzione primaria è infatti la riduzione del rischio di future situazioni di disagio, di disadattamento e di psicopatologia con particolare attenzione all'età evolutiva e ali 'adolescenza quali irripetibili momenti di strutturazione della futura Personalità. Nel proporre contenuti selezionati in questo cam­ po di ricerca, viene rivolta particolare attenzione alla latente "patologia della normalità" anziché alla ormai evidente "normalità della patologia" per identificare e riconoscere gli indicatori di rischio, da tempo presenti nell'individuo, nelle relazioni e nel contesto territoriale come con­ dotte-sintomo, prima che riempiano le cronache giudiziarie quali fatti-reato. La metodologia di approccio è mirata alla con­ sapevolezza e alla competenza degli Operatori territoriali, nonché alla collaborazione e sinergia dei vari Professionisti quali Insegnanti, Educatori professionali e Coordinatori di Servizi, Tecnici della Prevenzione, Formatori, Operatori di Comunità, Pedagogisti, Medici ed Infermieri, Assistenti sociali e Psicologi, Sociologi e Con­ suelors, Forze di Polizia, Militari e Protezione civile, Operatori della Sicurezza, Giornalisti ed Esperti di Comunicazione.

Alfredo Pizzo li

Interpreti medioplatonici del pensiero educativo filosofico di Platone

EDIZIONI UNIVERSITARIE ROMANE

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Alji-edo Pizzo

Tutte le copie devono recare il contrassegno della SIAE. Riproduzione vietata ai sensi di legge (L. 22 Aprile 1941, n. 633 e successive modi­ ficazioni; legge 22 Maggio 1993, n. 159 e successive mod!ficazioni) e a norma delle convenzioni internazionali. Senza regolare autorizzazione scritta del/ 'Editore è vietato riprodurre questo volume, anche parzialmente, con qualsiasi mezzo, compresa lajòtocopia, sia per uso interno o personale, che didattico. I fatti e le opinioni espressi in questo volume impegnano esclusivamente l 'Autore. ©Copyright 2008 by Gaia s.r.l. Edizioni Universitarie Romane Via Michelangelo Poggio li, 2 00 1 6 1 Roma tel. 06.49. 1 5 .03 l 06.49.40.658 - fax 06.44.53.438 - www.eurom.it - [email protected] -

Finita di stampare nel luglio 2008 dalla Gaia srl Ideazione grafica di Gian Luca Pallai

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Interpreti mediopiatonici del pensiero educativo filosofico di Platone

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Sommario

CAPITOLO PRIMO La crisi della politeia......... . . . . . ... . . . . . . ........... . . . . .... . . . . . ..................... . . . CAPITOLO SECONDO L'Eros nel discorso di Diotima. CAPITOLO TERZO Nous e movimento circolare .. .

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CAPITOLO QuARTO La teoria delle Idee come "metodologia" filosofica ..... . . . . . . . . . . . . . . . ... . 43 CAPITOLO QUINTO La riflessione filosofica e la religione . .

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CAPITOLO SESTO Il fondamento logico-sociale della fede religiosa CAPITOLO SETTIMO Il terzo principio della teologia naturale . CAPITOLO OTTAVO I l modello cinematico dei corpi celesti

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CAPITOLO NoNo L'eclettismo etico del platonico Massimo di Tiro Bibliografia

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Alfredo Pizzoli

Interpreti medioplatonici del pensiero educativo filosofico di Platone

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CAPITOLO PRIMO

La crisi della politeia

Tra i molteplici aspetti della crisi che investe la democrazia ateniese del IV secolo Platone ne mette in evidenza il profondo mutamento nella politeia, centrato sulla discussione tra natura e legge' . La sua analisi parte dalla considerazione strutturale dei fattori gene­ rali politici, economici e sociali che si rilevano nel complesso giro della produzione, della distribuzione e della consumazione2• I due fattori prin­ cipali sono, dal lato della produzione3, dal lato del consu mo4: di qui le considerazioni platoniche sulle difficoltà di un'economia condannata al progresso e al lusso5 • Proprio per fustigare questa economia ipertrofica Platone ricorre all'evocazione mitica di uno stato di natura dove regnano frugalità e semplicità6• Analogamente sul piano della ripartizione e della distribuzione della popolazione è ravv isabile un fenomeno già in atto durante la guerra del Peloponneso, che consiste nello spostamento della popolazione A. W. GOULDNER, Enter Plato, Classica! Greece and the Origins of Social Theory, London 1 965, pp. 1 97-233 . Resp. III, 369a. Resp. IV, 434c, dove questo termine opponendosi alla polypragmosunè permette in riferimento alla divisione del lavoro nella città di dare una definizione tecnologico -sociologica della giustizia. Questo termine che significa avidità e cupidigia (cfr. Resp. II, 3 59c, IX, 586b; Gorg., 409a) riassume in qualche modo la legge del desiderio. Ma l' antico desiderio non è più semplicemente desiderio di avere e di potere. Desiderio politico più che desiderio economico; esso esprime il piacere del dominio e il senso dell'autorità. Cfr. Resp. Il, 373bc. Cfr. Resp. II, 372c; Polit., 27 l c-272b; Leg. III, 676a.

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dalle campagne i n città. Strettamente connesso ad esso è da sottoli­ neare la singolare divisione che viene a crearsi nella p opolazione tra ricchi e poveri, tra possidenti e nullatenenti7• Questo frazionamento della città in facoltosi e bisognosi, secondo una divisione socio-eco­ nomica, appare a Platone come un flagello che divide i l corpo sociale. Il risultato è che «necessariamente un tale Stato non si mostra uno, ma diviso, quello dei poveri e quello dei ricchi, che risiedenti sullo stesso suolo complottano gli uni contro gli altri))8. Contro questo stato storico-politico di guerra civi le9 Platone si prefiggerà come obbiet­ tivo politico quel lo della città una e unita, dove i rapporti tra i citta­ dini, regolat i dalla politeia saranno definiti come dei rapporti tra "congiunti". Ma questa crisi, per la quale tutto uno strato della popo­ lazione dimora ai margini della ricchezza e malgrado sia al centro del la città, non può veri ficarsi senza un rovesciamento delle istitu­ zioni mettendo in questione l 'equ ilibrio stabilito tra la città e i citta­ dini, fra il pubblico e il privato. Questo sconvolgimento minando alle basi le idee di legalità e giustizia porta all'individualismo e all'anar­ chia. Viene così a profi larsi una crisi della città, ma soprattutto della politeia, e da quel momento si porrà il problema per Platone di nuovi modell i politici e teorici. Orbene, ciò che è costante nella filosofia politica di Platone è l'incon­ cepibilità dell 'esistenza di una costituzione senza un "sistema di leggi", per cui la rovina delle costituzioni può spiegarsi con il rovesciamento della legalità. Le costituzioni valgono quello che valgono le loro leggi e per tanto la costituzione migliore se le leggi diventano corrotte può diventare la «peggiore))10• Si deduce che la crisi profonda di cui soffre la politeia, in senso sociopolitico del termine, è una crisi del diritto, che Platone esprime poi nel dibattito sulla natura e la legge' ' · Se esiste uno Cfr. C. Mossé, Lafin de la démocratie athénienne, Paris 1 962, pp. 1 46- 1 48 . Resp. VIII, 5 5 1 d 9 Resp. VIII, 555d. 10 Polit. , 302e. 1 1 Cfr. T. SINCLAIR, A History o f Greek Politica! Thought, London 1 95 1 , trad. i t. di A. Si1 vestri Giorgi - E. Zallone, Il pensiero politico classico, vol. l, Bari 1 973, pp. 224-247. 8

La crisi

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stato di natura, una specie di stato di pace anteriore alle leggi, che in modo sottile e sapiente, serva loro da contrasto e da modello, esiste pure un altro stato di natura simile ad uno stato di guerra che appariva quando i l diritto e la legge non esistevano, per far posto al diritto e alla legge della natura. L o stato d i natura non è altro che l 'espressione mitica di con­ troversie filosofiche12 che Platone enuncia secondo due m iti e due tesi: il mito di Kronos sul quale si articola il mito esiodeo dell'età dell'oro, ed il mito di Prometeo. Ma il problema di fondo è quello di sapere se lo stato di natura, essenzialmente ambiguo, sia pretecn ico e prepoli­ tico, se esso lascia intravedere nella sua ideal ità l 'uman ità primitiva o non ne riveli che l'animalità originaria e bruta: se lo stato tecnico e politico trascina la scomparsa o la comparsa del l'uman ità, il decadi­ mento o il suo avvento13• Ora Platone non si lascia rinchiudere nell'am­ biguità mitica né nell'alternativa fi losofica di questa problematica. Egli non sceglie tra l'una o l'altra di queste formulazioni mitologiche e filo­ sofiche, ma le rielabora tutte per ordinarie secondo una visione origi­ nale. La visione esiodea dell'età dell'oro si trova trascritta da Platone in una forma radicalizzata: gli uomini non lavorano, perché la terra pro­ duceva per loro, le costituzioni non esistevano, poiché loro conosce­ vano la pace. Ora, il senso di questa radicalizzazione è a volte politico e teologico; il mito cosmico dell'abbondanza racchiude il mito poli­ tico della pace, che a sua volta avvolge il mito teologico del pastorato divino14; questo permette infine, tramite il mito della sovranità che egli rappresenta di giustificare una profonda armonia tra una natura senza "tecnica" e una storia senza "politica". Analogamente nell'espo­ sizione del mito di Prometeo15 si trovano descrizioni delle origini tec­ niche dell 'umanità e una concezione della missione tecn ica dell'uma­ nità. L'antropologia è, infatti, meno biologica della tecnica e della poli­ tica. Animalità e umanità sono antiteticamente opposte, e l'inferiorità 12

Cfr. P.M. SCHUHL, Essai sur laformation de la pensée grecque. Introduction historique à une étude de la philosophie platonicienne, Paris 1 949, pp. 347-352. n Cfr. ESIODO, Oper. gior., v. 1 09- 1 23 . 14 Cfr. Polit. , 2 7 l e. 1 5 Cfr. Polit. , 2 74b; Prat. 3 2 1 e e 322d.

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biologica dell'inizio si trova ad essere compensata e cambiata in supe­ riorità tecnica. Mentre nel Protagora16 l'uomo è descritto nudo, senza scarpe, senza coperte e senza armi; nel Politico gli uom ini sono pre­ sentati quali erano dopo il capovolgimento cosmico «essi erano ancora sprovvisti di i ndustrie e di arte durante i primi tempi»17 e essendo l 'abbondanza cessata, «essi incontravano grandi diffìcoltà»18• Così, mentre nel Pro tagora 19 P rometeo sottrae ad Efe sto ed ad Atene l'abilità tecn ica con i l fuoco, nel Politico «dag l i dei ci sono venuti i don i, accompagnati dal l'i nsegnamento e dall'istruzione tecnica necessaria))20• Tuttavia nei due testi si trova l'idea che i l problema economico riceva da parte dell'uomo delle soluzioni tecniche e politiche: i mezzi tecnici assicurano ormai la sussistenza e la vita. L'originalità della posizione adottata da Platone in questa controversia mitica consiste nel considerare i due miti (quello di Crono e di Prometeo) come tutti e due veri, per quello che possano esserlo, a condizione che le loro verità siano considerate nella loro relatività temporale. A ltri tempi, altri racconti, altre verità, a condizione pure che la verità di un tempo non sia concepita come verità di altri tempi. In questa relativizzazione temporale, mentre i tempi antichi rappresentano il momento in cui gli uomini non hanno fatto quello che gli dei fanno per loro, i tempi moderni si mboleggiano il momento in cui gli uom ini devono fare da soli ciò che ormai gli dei non fan no più: la preoccupazione divina è finita. Così, mentre a Platone che riflette sulla crisi della politeia, Io stato di natura appare da una parte come ciò che permette di risolvere "automaticamente" e teologicamente i problemi della v ita umana che nell'età storica sono risolti tramite la tecnica e i nomoi, dall'altra esso si man ifesta come il rovesciamento del suo primo sen so ed è i nter­ pretato come uno stato di violenza dove la forza del diritto e la legge del la guerra sono venute a soppiantare le esigenze ideali della pace. 16

Prot. 32 1 c. Polit. , 274c. 1 8 Polit. , 274c. 1 9 Prot. 3 2 1 d. 20 Polit. , 274c. 17

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Questo capovolgimento tuttavia non è solamente imputabile ad una critica teorica della nozione di costituzione della legge e non dipende da una teoria del diritto di natura. Questo rovesciamento è prima di tutto rinvenibile nella storia delle cose, nelle peripezie della guerra imperia­ l istica21 e neg l i esempi del potere tirannico che forniscono a Platone delle lezioni e dei model li di v iolenza storica, che annientano nelle immagini tiranniche le nozioni di unità e uguaglianza, di legalità e di giustizia, che erano i principi fondamentali della politeia antica e rove­ sciano lo stato di natura in uno stato di guerra e di violenza. In Platone, infatti, il personaggio del tiranno diventa il simbolo della potenza, della dissolutezza e del godimento ed esprime attraverso la crisi della poli­ teia tutti i prestigi del potere personale22. Esso serve al fi losofo come emblema teorico ed onirico della violenza, poiché in lui il desiderio della tirannia e la tirannia del desiderio fanno un tutt'uno e cooperano alla rimozione dei principi più importanti della politeia. Platone dimo ­ stra che la democrazia23 produce la tirannia e che una parte del popolo, quella che possiede molto poco è quella che genera il tiranno24. Questi mentre all'inizio si presenta come semplice protettore del popolo25, un vero fi lantropo26 poi, dopo aver preso le misure demagogiche ordinarie della remissione dei debiti e della spartizione delle terre, si impegna in una politica guerriera all'esterno e repressiva all'interno. In tal modo il tiranno, per Platone, diventa il personaggio simbolico del compimento del desiderio, colui «che fa tutto ciò che vuole))27 sovvertendo ogni legge della vita e della polis. E qui, secondo il Joly28, che la critica platonica si afferma ponendo in ter­ mini di rapporti geometrici il problema di un ritorno ai principi di legalità, 21 22 23 24 25 26

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Cfr. J.P. VERNANT, Problèmes de la guerre en Grèce ancienne, Paris 1 968. Cfr. C. MOSS É , La tyrannie dans la Grèce antique, Paris 1 969. Cfr. Resp. VIII, 565a. Cfr. Resp. VIII, 565c. Cfr. Resp. VIII 565d. Cfr. Resp. VIII, 565d. Gorg. 464c e 473c; Resp. II, 359c.

Cfr. H. JOLY, Le Renversement platonicien. Logos. Episteme, Polis, Paris 1974, pp. 96-298.

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Alji-edo Pizzoli

di uguaglianza suscettibile di assicurare nel quadro di un'antropologia poli­ tica, l'ordine sociale e politico nella città così come l'ordine etico e psichico nella vita degli individui. In tale modo l'equilibrio dell'essere, del potere e dell'avere, in cui risiede l'intero ordine del mondo, della politeia e della vita, Platone lo stabilisce, in nome di una physis, di una geometria e di una tem­ peranza. Il senso di questa natura rinnova tutta una concezione del cosmo arcaicamente e teologicamente concepito come un ordine di giustizia. Questo ordine struttura nell'al di là tutto un mondo geografico, vero luogo di giustizia e di espiazione, come il raddoppiamento insieme naturale e divino, cosmico e teologico delle istituzioni giudiziarie e penitenziarie della città. Il tutto sembra poggiare dunque su un ordine geometrico: «Chi se ne intende dice, invece o Callide, che cielo, terra, dei, uomini, sono collegati in un tutto grazie all'unione, all'amicizia, all'armonia, alla temperanza, alla giustizia, e che per tale ragione, amico mio, questo tutto è chiamato cosmo (ordine) e non acosmia (disordine) e dissolutezza))29• Questo richiamo all'ordine cosmico come ordine di proporzione sembra chiudere per Platone la crisi aperta nel mondo e nella storia dell'apparizione degli irrazionali e apporta la soluzione della crisi politica: «Tu dimentichi dice Socrate a Callide, che l'uguaglianza geometrica ha tutto il potere presso gli dei e gli uomini; tu pensi infatti che bisogna esercitarsi ad avere più degli altri e che tu trascuri la geometria))30• Platone fonda, dunque, un ordine matematico-geometrico che racchiude un assetto politico, etico e psichico che vale per ordine umano nel suo insieme, da cui l'intemperanza e l'edonismo devono essere banditi come inuguali. I concetti, pertanto, di proporzione, di similitudine, di simmetria, permet­ teranno di stabilire quel principio fra gli individui; la questione della giusta misura detterà ormai le norme di ogni disposizione legislativa e giuridica. Dopo l'Apologia e il Gorgia, gli obiettivi politici e pedagogici sono in effetti gli stessi: «migliorare il più possibile i cittadini»31 e conoscere «il mezzo per diventare migliori per portare al megl io la propria casa e la propria città»32• Così i problemi relativi al «modo di vivere»33 e Gorg. 507e-508a. 30 Gorg. 508a. 31 Gorg. 5 1 3c. 32 Gorg. 520e. 33 Gorg. 500c. 29

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di «governare la città»34 sono inseparabili e richiedono una medesima «scienza di giustizia>>35 e una stessa «arte politica»36. La questione, dunque, che si pone è di sapere (come) la geometria possa portare all'arte politica dei metodi e dei concetti capaci di risol­ vere la crisi dei fondamenti della politeia e di condurre la politeia, ad essere una scienza ed un'arte. Questo problema si deve interpretare storicamente. La geometrizzazione della cosa politica giacente su una ridefi nizione del territorio e del lo spazio, del calendario e del tempo si trova all'origine della riforma clistenica e delle strutture democrati­ che della città37• Platone si ricollega a questa tradizione, invocando la geometria come scienza fondamentale per la scienza politica, anche se ne separa profondamente. Infatti quello che appare in lui è una sosti­ tuzione politica di una geometria ad un'altra, fondata sull'opposizione fino allora inedita, dell'uguaglianza aritmetica e dell'uguaglianza geo­ metrica38. La rappresentazione geometrica di un nuovo spazio fi s ico e la configurazione politica di una spazialità civica significava passare da una concezione gerarch ica del mondo e della società ad una per­ sonificazione omogenea e egualitaria del cosmo e della città. Da una parte, le nozioni fondamentali per la geometria, del la centralità, del­ l'uguaglianza definiscono un nuovo spazio circolare ed omogeneo, che si sostituisce allo spazio stabilito e valorizzato dalle antiche cosmo­ gonie39. Dal l'altra parte, presiedendo all'apparizione di un organismo politico nuovo, sono esse che contribuiscono ad ordinare la città, impie­ gando un nuovo spazio civico conforme ai principi della pubblicità del discorso, di uguaglianza davanti alla legge e di intercambiabilità dei cittadini40. Appariva così il quadro di una nuova vita politica, la stessa per tutti, 34 Gorg. 5 1 5b. 35 Gorg. 5 1 5d. 3 6 Gorg. 5 2 1 d. 37 Cfr. P. LÉVÈQUE- P. VIDAL NAQUET, Clistène l 'Athénien, Paris 1 964, cap. I. 38 Cfr. Gorg. 508ab. 3 9 J.P. VERNANT, Mito e pensiero presso i Greci, tr. it. di M. Romano e B. Bravo, Torino 1 970, pp. 85- 1 27 . 4° Cfr. J.P. VERNANT, Mito e pensiero, cit. pp. 1 36- 1 37 .

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regolata su un centro comune, l'agorà41 e ordinata secondo i principi uffi­ ciali del calendario prytanico42. La democratizzazione delle istituzioni politiche suppongono una geometrizzazione dei loro quadri spazio tem­ poral i, come se, nella cultura di questo tempo, l'ugualitarismo politico fosse simbolizzato dall'uguaglianza geometrica e la città laica da un mondo razionalizzato, prima di capovolgersi nell'utopia platonica e di cedere il posto a una città riconsacrata, disiguale e aristocratica. Alla agorà, centro politico succederà infatti un centro religioso, l'acro­ poli, che secondo le direzioni dell'alto e del basso, orienterà un nuovo spazio gerarchico43• In quanto al sistema numerico, ridivenendo duode­ cimale, da decimale che era dopo Clistene, significherà un ritorno all'ar­ caismo teologico. Analogamente lo spazio e il tempo cessano di essere la proiezione della città sul mondo per ritornare il «riflesso delle realtà siderali»44 nel la città. Per cui dato che l'evoluzione non va dalla religione alla città ma dalla religione del ghenos alla religione della polis, ciò significa che la città diventa religiosa tanto quanto la religione diventa civica. Così Platone, ricollegandosi da una parte della sua filosofia politica a una teologia poli­ tica, non fa altro che teorizzare e codificare rigorosamente una verità della città. Non è dunque errato pensare che in quest'epoca, dove l'equilibrio tra l'aritmetica e la geometria, tra i diritti e i doveri si trova rotto, Platone, formulando il principio della doppia uguaglianza, e conferendogli dei nuovi fondamenti, ritrova una verità della polis, di cui le strutture e le istituzioni le attribuiscono fisionomia di democrazia e di aristocrazia e dove l'uguaglianza e l'ineguaglianza sono sempre controbilanciate. La lezione platonica dunque della crisi della politeia pone l'accento sulla sostituzione del fatto con il diritto e dell'identificazione del nomos con la physis. Questa naturalità del diritto poggia sulla scoperta di due leggi, una più specificamente politica, la legge del più forte, l'altra appaCfr. R. MARTIN, Recherches sur / 'agora grecque. Études d'histoire et d'architecture urbaines, Paris 1 95 1 , p. 279 e sgg. 42 Cfr. P. LEVEQU E - P. VIDAL-NAQU ET, Clisthène, pp. 1 1 - 1 2. 43 Cfr. P. LEVEQU E - P. VIDAL-NAQU ET, Clisthène, pp. 1 34- 1 3 8. 44 Ibidem. 41

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rentemente più psicologica, la legge del desiderio. Ma il legame comune della forza e del desiderio è di obbedire al principio del pleon la crisi pro­ fonda della politeia, secondo Platone, deriva dal fatto che la pleonecsia ha sostituito l'isotes. Il compito della filosofia politica rigorosa consisterà allora, nel ritornare su questa antinomia del pleon e dell'ison, ponendo i problemi della giustizia e eguaglianza in termini di proporzione e distri­ buzione, e nell'oltrepassare questa antinomia in nome di una uguaglianza geometricamente ridefinita come un principio di uguaglianza nella inuguaglianza45. È da attribuire infatti a Platone l'inaugurazione di un nuovo tipo di analisi delle origini della inuguaglianza fra gli uomini e di scoprirne le cause dal lato della physis della tecne e della polis. Prima biologicamente e poi dal punto di vista delle sue attitud ini naturali, un uomo solo è adatto, secondo lui, a ricoprire unicamente una sola funzione46• Dal punto di vista tecnologico, d'altronde, e nel quadro di una città diversificata, un individuo solo non è chiamato ad esercitare che una sola professione. È ciò che Platone i ntende per oicheiopraghia47, questa facoltà che ha l'uomo di fare nella città ciò che è fatto dalla natura e che si oppone alla poliupragmosiune48 cioè alla disposizione dannosa ad e sercitare più attività. Inoltre, la divisione delle attitudini e dei compiti ha importanti ripercussioni sociologiche: essa ha come conseguenza o fine di suddivi­ dere le persone secondo un sistema convergente di categorie naturali e di classi sociali, di cui il trimetallismo esiodeo fornisce a Platone l'espres­ sione arcaica e mitologica49• A queste differenze, il cui principio si trova nella natura, nel lavoro e nelle città, si aggiungono anche le differenze che dividono cittadini e stranieri, padroni e servi, uomini maturi e gio­ vani, e infine anche se con riserva, uomini e donne. Ora queste inugua­ glianze e differenze sono abolite, secondo Platone, dalle pratiche e dai costumi democratici. Una certa forma di democrazia si riconosce degra­ data e in un certo qual modo eccessiva, dal momento che nega le inu45

Cfr. H. JOLY, op. cit. , p. 322. Cfr. Resp. I V, 433a. 47 Cfr. Resp. IV, 434c. 4R Cfr. Resp. IV, 434b. 49 Cfr. Resp. III, 4 1 4d-4 1 Sd. 46

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guaglianze fra gli uomini e considera ugualmente ed egualitariamente individui socialmente diversi. Poiché i problemi di ripartizione non pos­ sono risolversi che geometricamente e poiché, d'altra parte, la demo­ crazia dispensa identicamente una specie di uguaglianza agl i uguali e inugual i, si pone il problema di sapere che tipo di eguaglianza bisogna promuovere in grado di tener conto contemporaneamente della parità di fatto e del principio di uguaglianza. L'uguagl ianza geometrica è la risposta platonica a questa domanda che appare molto esplicitamente nelle Leggi, ancor prima di essere direttamente ereditata da Aristotele. Questa risposta ripropone, d'altronde, sotto una forma purificata e mate­ maticizzata, il principio di giustizia che, nella Repubblica, reggeva l'equilibrio della politeia. Nelle Leggi, Platone denuncia ancora una volta i misfatti di una ugua­ glianza inugualitaria che farebbe i diversi e gli uguali. Per lui, contrariamente allo spettacolo che danno i costumi di una demo­ crazia sregolata «gli schiavi e i loro padroni non potrebbero mai diventare amici più di quanto saprebbero esserlo i mascalzoni e i galantuomini, anche se sono esplicitamente gratificati da uguali diritti))50 perché, per i diversi, «l'uguaglianza porterebbe l'inuguaglianza se non si rispettasse la misura))51• È dunque al di là della uguaglianza formale, che bisogna riconoscere uguali diritti agli essere inuguali se si stabilisce un'altra uguaglianza «l'ugua­ glianza che crea l'amicizia))52• Ma qual è questa uguaglianza chiede Platone. Interrogandosi sulla natura di questa uguaglianza53 Platone introduce la dif­ ferenza fra i due tipi di uguaglianza54, l'una «è uguale per misura, peso e numero))55 e si avvicina alla prima maniera del Politico che si accontenta di «fare un rapporto tra l'uno e l'altrm)56 fra il grande e il piccolo. È quella che Aristotele definirà uguaglianza aritmetica57• 50 Leg. VI, 757a. 5 1 Leg. VI, 757a. 52 Leg. VI. 53 Leg. VI, 757b., 757a. 54 Cfr. Leg. VI, 757b. 55 Leg. VI, 757b. 56 Po/it., 2 83e. 57 Eth. Nicom. IV, V, 3 .

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L'altra uguaglianza «la più vera e la più bella, rappresenta il giudizio di ZeUS))58• È quella che assegna di più al superiore e meno all'inferiore, dando a ciascuno in proporzione alla sua natura, elargendo cioè onori più grandi a quelli che la raccolgono sotto il rapporto del la virtù e una misura minore, secondo la stessa analogia, e come conviene a coloro che sono inferiori per v irtù e educazione59• Platone aggiunge che la giusti­ zia consiste anche in «una uguaglianza concessa ogni volta secondo la natura a degli ineguali))60. Aristotele proponendo le nozioni di merito e di proporzione indicherà questo tipo di uguaglianza con il termine di ugua­ glianza geometrica61 • Questa condurrebbe ad evitare temporaneamente il naturalismo inegualitario della tirannia secondo la quale tutti gli uomini sono ineguali davanti alle nature dispotiche e l'egualitarismo democra­ tico secondo il quale, invece gli uomini sono uguali per la legge e a causa della legge62• Questo nuovo principio è importante per molti aspetti. Prima di tutto esso poggia su una concezione scientifica della cosa politica63 e testimo­ nia la cura platonica di matematizzare le scienze umane e giuridiche del suo tempo. Si tratta, infatti, di introdurre nella giustizia distributiva il rigore dell'analogia, facendo sì che il rapporto fra gli uomini sia uguale fra i beni, gli onori, le ricompense e gli incarichi. D'altronde questo principio vale come norma fondamentale della politeia platonica. I l pensiero della cosa migliore lo aveva senza dubbio portato a preferire filosoficamente la costituzione monarchica64; mentre il suo senso della realtà aveva fissato la sua attenzione sulla democrazia come il solo governo capace di rispondere alla domanda di sapere. «Essendo tutte le cose faticose per vivere essa è la meno penosa))65 Platone lo precisa di nuovo nelle Leggi, circa il sistema di elezioni basato su una ripartizione 5 8 Leg. VI, 757b. 59 Cfr. Leg. VI, 757c. 60 Leg. VI, 757d. 61 Cfr. Eth. Nic. III, V, 7. 62 Cfr. Leg. VI, 757d. 63 C fr. L. ROBIN, Platon et la science sociale, in La pensée hellénique, Paris I 957, p. 223. 64 Cfr. Polit., 294d, 293e. 65 Polit., 302b.

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dei cittadini: l'uguaglianza proporzionale favorisce una costituzione che sta tra la monarchia e la democrazia66• Là si risolve la crisi fondamentale della politeia e si instaura un tipo di costituzione che mantenendo il prin­ cipio della uguaglianza nella inuguaglianza, amministra bene una specie di aristocrazia nella democrazia. Ciò facendo Platone si pone senza dub­ bio, molto lontano dal concetto aritmetico e clistenico della uguaglainza. Ma questa concezione è mai esistita come tale? E lo spirito delle istitu­ zioni, come la pratica democratica, soprattutto quelle che si sono manife­ state nel concetto pericleo della democrazia, non suppongono al contra­ rio, una preoccupazione permanente di armonizzare gli oneri, gli onori e i meriti? Platone formulando il principio di una uguaglianza e di una giu­ stizia proporzionali non era così lontano come si è detto da questo spi­ rito aristocratico. Infine questa uguaglianza proporzionale, adattando le regole del diritto e della giustizia alle differenze appena percettibili nella natura gerarchizzata dagli esseri, istituisce una uguaglianza concessa ogni volta e in conformità della natura degli ineguali. Supponendo così una conformità di uguaglianza che sottende un adeguamento del nomos allafiusis67• Per questo motivo Platone consiglia di ricorrere il meno pos­ sibi le a l 'uguaglianza del destino che, )ungi dall'appoggiarsi sullafiu­ sis, con ciò che implica come differenze e inuguaglianze, si rimette alla tiuche arbitrariamente uguagliante. Ora questa conformità del nomos allafiusis implica in profondità, l'adeguamento del positivo al naturale distinguibile già nel Gorgia e nella Repubblica. Le leggi fondamentali sono sempre dettate infatti da riferimenti alle verità della natura, di cui esse debbono riprodurre le strutture basilari, essendo esse stesse di tipo matematico come lo prova lo schema geometrico-gittridico della propor­ zione come lo verificheranno anche le nozioni di similitudine e simme­ tria, tramite le quali Platone compie una nuova estensione del geometrico al politico68• Ma la questione risiede nel sapere come possono essere risolti in ordine geometrico i problemi più concreti dell'organizzazione della città e che, lo si è di già intravisto, devono essere posti in termini di equilibrio e di misura. 66 67 6H

Cfr. Leg. VI, 756d.

Leg. VI, 757e-758a. Cfr. H. JOLY, op. cit. , p. 323.

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È nello spazio e conformemente alle regole dell 'equilibrio e del la proporzione che la città delle Leggi trova la sua collocazione69• Tutte le disposizioni e le regolamentazioni che decidono la sua posizione così come la sua organizzazione, tanto economica, demografica che politica, obbediscono al principio del la misura che permette, tra due estremi, di fissare sempre un optimum. È infatti il principio della misura, stabilito nel Politico a titolo di categoria tecnica e riaffermato nel Filebo come caratteristica del Bene, che si trova applicato e realizzato nel materiale giuridico delle Leggi. Solo questo principio sembra abilitato a rendere conto della struttura stessa delle leggi e del la loro conformità al Bene e alla virtù. La prima utilizzazione del concetto di misura è ricco di senso a dispetto del suo prosaismo apparente. Esso concerne l'uso del vino, il piacere «misurato>>70 che vi si può prendere, il control lo della produ zione vinicola che deve essere molto «limitata»7 1 • Queste due annotazioni sono interessanti, malgrado il loro carattere fugace. Da una parte esse caratterizzano una genesi, la produzione del piacere e la produzione del vino, dall'altra le definiscono tutte e due in riferimento alla misura. Questo riferimento implica un equilibrio tra un eccesso e una mancanza, un abuso e un difetto di uso. È questo stesso principio che governa l'esame delle differenti costituzioni politiche e la scelta del migliore governo della città. In tal senso Platone nell'analisi storica che fa delle varie forme di governo allora esistenti di ordine dispotico o liberale, si interesserà par­ ticolarmente di ciò che vi è di misurato, ma anche di eccessivo in cia­ scuna di essa, ipotizzando una costituzione a metà tra la democrazia e la dispotica. Si lascia, così, intravedere una specie di media politica, risana­ trice della crisi della politeia, che presiederà all'organizzazione della vita intera della polis e dei cittadini.72 Uno spirito di moderazione regola infatti l'inserimento territoriale73 del la città, che dovrà essere più continentale che marittima, situata in 69 Cfr. Leg. IV, 804bd. 70 Leg. I, 649d. 71 Leg. II, 674c. 72 Cfr. Leg. III, 702d-e. 73 Cfr. Leg. IV, 704b.

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una zona accidentale piuttosto che piana7\ basarsi su uno stato d'autar­ chia più che di dipendenza economica75 e rispettare un equilibrio tra la città e la campagna76• È anche il senso dell'equilibrio tra la povertà e la ricchezza77 che dovrà presiedere alla produzione, stabilito dall'inaliena­ bilità del cleros18 alla ripartizione dei prodotti della terra secondo delle regole di proporzionalità adattate alle classF9, alle tariffe delle vendite negli scambi per i quali sono fissati un massimo e un minimo di prezzo, infine all'organizzazione delle importazioni e delle esportazioni che non hanno luogo che in un caso di necessità e sotto stretta sorveglianza del dono e contro-dono80• Nello stesso spirito di coerenza, il volume della popolazione è sottomesso ad un optimum demografico81 stabilito e calco­ lato in funzione della superficie coltivabile e in ragione della difesa del territorio. È infine il senso della misura che definisce l'andamento educativo dei cittadini nel sistema politico della polis.

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Cfr. Leg. IV, 704d. 75 Cfr. Leg. IV, 704c. 76 77 7H

Cfr. Leg. V, 745e. Cfr. Leg. V, 744d.

Cfr. Leg. V, 74tb. 79 Leg. VII, 848ab.

Ho Hl

Cfr. Leg. VII, 847d. Cfr. Leg. V, 737c.

Interpreti medioplatonici del pensiero educativo fi losofico di Platone

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CAPITOLO SECONDO

L'Eros nel discorso di Diotima

Platone nel Simposio fa descrivere la natura e la nascita di Eros da una sacerdotessa di Mantinea di nome Diotima82. Così come dice il suo nome 82

Non sappiamo se Diotima ha una sua realtà o è una finzione. Nell'intera opera di Platone Diotima appare solamente nel Simposio. L'assenza di ogni altra conside­ revole traccia del personaggio nella letteratura greca de li' epoca sembra permettere di pensare che sia una creazione di Platone (cfr. Y. BRÈ S, La psycologie de Platon, Paris 1 968, p. 225 n. 52 e le prudenti considerazioni di M. DETIENNE, La notion de dai"m6n dans le pythagorisme ancien, Paris 1 963, p. 1 3 8). Altri critici, come K.J. DOVER (cfr. PLATO, Symposium, Cambridge 1 980, p. 1 37), considerando con estrema importanza il problema della realtà storica della sacerdotessa, ritrova atte­ stato il nome di Diotima nella Beozia del periodo classico (cfr. R. GODEL, Socrate et Diotime, Paris 1 955). Tuttavia Proclo (cfr. In Plat. Remp. I, p. 248, 25 segg. KROLL) identificava Diotima con un «disti nto pi tagoricm> . Questa tesi, in­ fatti fu ripresa da G. WOLF (Porphyrii, De Philosophia ex oraculis haurien­ da, Berli n 1 8 56, p. 2 20) e da H. WELL (Études sur l 'antiquité grecque, Paris 1 8 97, p. 46). Ma nessuno di questi autori sembra aver apportato delle prove so­ stanziali alla storicità del personaggio. Allo stesso modo si comportano sia W. KRANZ (cfr. in «Hermes», LXI 1 926), che A.E. TAYLOR (cfr. Plato, The Man and his Work, London 1 949, tr. it. di M. Corsi, Firenze 1 968, pp. 350- 1 ), i qua­ li, pur accettando l ' esistenza storica di Diotima, non danno alcuna giustifica­ zione di questa loro interpretazione . È da dire, ino ltre, che non erano conosciu­ te donne esperte in cose re l igiose. Comunque Platone nel Menone (8 1 a) par­ la di uomini e di donne che sono sofoi perì ta theia pragmata. Non deve, tutta­ via essere dimenticato che nella Repubblica (cfr. V, 4 1 5c-45 7b) P latone con­ sidera allo stesso modo la natura dell 'uomo e della donna; quest' ultima diffe­ risce dali ' uomo so lamente per la sua conformazione fi s ica. Tra le ragioni per le quali Platone avrebbe scelto una donna come sua portavoce è da sottolinea­ re la considerazione di DOVER (cfr. P LATO, ci t., p. 1 32), il quale vede in Dio­ tima l 'agente principale «for what essentialy a mal homosexual foundation for

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ella rappresenta l'onore dovuto agli dei. La sua funzione è di ricevere e di divulgare le rivelazioni divine. La sua attività, pertanto, è diretta verso gli uomini. Il discorso che Diotima si appresta a fare intende investire la natura e l'essenza dell'amore. Socrate, pensando di servirsi delle stesse argo­ mentazioni usate con Agatone (uno degli altri interlocutori del dia­ logo), secondo il quale l'Amore è un «gran dio ed ama le cose belle))83, si imbatte in una posizione, quella espressa da Diotima, che sconvolge la sua originaria formulazione dell'Amore. L'Amore per Diotima non è «né bel lo, né brutto, né sapiente, né ignorante))84• Esso, rifuggendo dal l'essere concettualizzato in nome di una logica del contrario e del contraddittorio, si rivela invece, al di fuori da schemi puramente scientifici del «dar ragione))8S, mediante la compressione del regno dell'opinione che diventa qui l'espressione logica di chi ignora il significato del l'intermediario. Eros rappresenta, dato che non è né buono, né cattivo, né bello, né brutto, in nome di un «giudicare rettamente))86, qualcosa di mediano tra queste contrarietà: esso è un'entità di forma indetermi nata, una natura s i ntetica87, un metaxù, un punto di contatto che stabilisce una continuità tra esse88• In tal modo venendo meno quelle attribuzioni della bontà, della bel­ lezza, della fel icità, del la sapienza, che hanno sempre caratterizzato il mondo degli dei89, è impossibile riconoscere, cosi come Socrate aveva fatto con Agatone, che l'Amore è un gran dio. Anzi, proprio perché è privo di quelle attribuzioni e desidera quei beni che non ha, esso si pre­ senta affatto come un dio. Così, per questa sua distintività acquisterà una sua identità, che, in nome di questa sua natura intermedia, lo porrà philosophical activity)). Symp. 20 l e. H4 Symp. 20 l e8 -9. Hs Symp. 20 l a3 . H6 Symp. 20la6- 7. Lo stato cioè di chi ha giuste opinioni senza avere però la possi­ bilità di dame una giustificazione. 87 Cfr. L. ROBIN, La théorie platonicienne de l 'amour, Paris 1 964, p. l 08 e sgg. HH Cfr. Symp. 20 l a-202b; Phaed. 7 1 -77; Parm. 1S6a; Taet. 1 80a. 89 Cfr. Symp. 202ac. Hl

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come un essere demonico90, un tramite tra l 'umano e il divino9 1 . In tal senso in termini umani non ci sarà un diretto rapporto tra gli dei e gli uomini. La visione del divino è un regalo che viene dall'alto, attraverso la mediazione di speciali esseri che sembrano saldare quella frattura fra l'umano e il divino, di cui Eros ne è una felice espressione. La genesi, pertanto, si salva dalla dissoluzione, il tutto nel suo divenire unitario viene ricomposto come espressione di una genesi mortale perché ogni sua parte muore, immortale perché ogni momento di morte serve per la nascita di qualcosa d'altro92• Quando nacque Afrodite93, Eros fu concepito94• Difatti, durante i 9° Cfr. L. ROBIN, op. cii., p. 1 09; M. D ÉTIENNE, op. cit., p. 1 37. Già in Esio­ do i démoni hanno un ruolo i ntermediario tra Zeus e gli uomini. Analogamente nel pensiero pitagorico essi occupano una posizione i ntermedia tra gli dei e gli uomin i (cfr. J. S OUILH É , La notion platonicienne d 'intermédiaire dans la phi­ losophie des Dialogues, Paris 1 9 1 9); per un'analisi critica del la problematica de­ monologica in Platone cfr. E. ZELLER - R. MONDOLFO, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte Il, vol. I II/2 a cura di M. Isnardi Parente, Firenze 1 974, pp. 672- 678. 9 1 Quest' idea è ripetuta varie volte negli scritti platonici. N el Gorgia (508a), egli parla di «geometria e qualità» che unisce insieme il cielo e la terra, dei e uomini nel­ le forme di comunione, amicizia, ordine, controllo e giustizia. Nel Fedone (99c) si parla del bene e della necessità che unisce e lega insieme. Di contro nel libro V della Repubblica insiste Platone su ciò che unisce insieme e fa un «singolo tutto» a bene­ ficio della «parte» e del «tutto». Nel Timeo (32c ), infine, è spiegato come ogni ele­ mento del cosmo è proporzionato secondo un ordine preciso. 92 Cfr. Symp. 202 e 203. 93 In termini mitologici la nascita di Afrodite ci porta al racconto della castrazione di Urano da parte di Krono (cfr. ESIOD., Teog. 1 90f) . Nell Iliade (V, 3 70) d'altro lato Afrodite è figlia di Zeus e D ione. Pausania (cfr. Symp. 1 80d6) considera l 'alter­ nanza genealogica come una prova per l ' esistenza di due distinte Afr odite. 94 Mentre il segreto riferimento alla nascita di Afrodite, ci riconduce agli dei tradi­ zionali o pre- olimpi ci, il resoconto di Eros ci riconduce alla conoscenza di ciò che noi possiamo qualificare come post-olimpico nella società degli dc i tradizionali. Noi possiamo congetturare soltanto che Diotima considera la tradizione come "difettosa" nei riguardi di Eros; il legame tra la genesi cosmica e la generazione sessuale ha bi­ sogno di una più elaborata spiegazione. I difetti degli dei olimpici sono simbolizzati dalla ubriachezza e dalla seduzione di Poros da parte di Penia, e conseguentemente, dal concepimento di Eros. Se gli dei fossero stati perfetti Eros non sarebbe mai nato, '

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festeggiamenti che si tenevano tra gli dei per la nascita di Afrodite, Penia (la povertà)95 che sostava sulla soglia degli dei per mendicare qualcosa, inoltrandosi nel giardino di Giove dove giaceva dormiente e ubriaco di nettare Poros96• Abbondante l'Espediente, figlio di Metidea97, gli si sdraiò a fianco e lo sedusse, rimanendo cosi i ncinta di Amore. Così nacque Eros, che proprio perché compagno della bella Afrodite conformò la sua natura ad amare il bello98. L'eredità materna e quell a paterna caratterizzano dunque l'in­ tima natura di Eros. Esso è un insieme di opposti, p artecipa del­ l 'uno e del l'altro, sta nel mezzo, è l 'intermediario. In tal senso, men­ tre da una parte, conforme alla natura della madre, è sempre povero, brutto, duro, squallido, scalzo, senza casa99 non ha, non possiede, manca e cerca, dall'altra, conforme alla natura del padre, è urgenza di possedere, capacità di procurarsi in certo modo la bellezza. Perciò Eros, che è mancanza come la madre, si fa, come il padre, cercatore di ogni cosa bella, audace e incantatore formidabile, persino sofi­ sta pur di avvicinarsi al possesso della bellezza e lo prepara dispo­ nendosi ad essa100• Nonostante tutto «non è né immortale, né mortale, in uno stesso giorno sboccia, fiorisce, muore per rinascere ancora; muore sempre e mai defi nitivamente; perde e v i nce, rinasce del la stessa morte, è perenne v ita feconda))101 • Ponendosi tra l 'ignoranza e per cui egli è l ' espressione della loro incompletezza, così come la troviamo anche nel genere umano. 95 Non vi è ragione di credere che P latone trovi la sua storia in qualche scritto pre­ cedente; la formulazione di rapporti tra forze personificate come divinità è un luogo comune greco per caratterizzare queste forze. Aristofane nel 388 a.C. nel Plutus ave­ va personificata la Povertà, pochi anni prima che Platone scrivesse il Simposio. 96 Etimologicamente peirein è congiunto al verbo penetrare-traghettare, in riferi­ mento a percorsi, attraverso fiumi o mari; di qui la sua applicazione a denotare i vari modi o espedienti che servono a far fronte alle diffi coltà. Una cosmologica spiega­ zione è data da A lcmane (cfr. 5 .2). 97 Metis in Esiodo è la prima figlia di Zeus e madre di Atena (cfr. Teog. 88 6). 9H Cfr. Symp. 202b-c. 99 Cfr. Symp. 203dl-3 . 10° Cfr. Symp. 203d-10. 101 Cfr. Symp. 203e.

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la sapienza, come "amore della sapienza", è filosofo; solo gli dei sono sofoi e non amano la sapienza, perché sapienti lo sono già, né l'amano gli ignoranti, perché presupponendo di essere sapienti, soddisfacenti di sé e senza dubbi, non desiderano di diventarlo, l 'amano coloro che stanno i n mezzo, i filosofi, che sanno di non essere dei. Eros è philosophos: «la sapienza è bellissima cosa e Amore è desiderio di cose belle: e per cui è necessario che egli sia amante della sapienza, cioè filosofo: e se tale sta in mezzo del sapiente e dell'ignorante))102• Cosi vuole la sua progen ie: ha di Poros, sapiente e ingegnoso, e di Penia, ignorante e povera. Dunque Eros è amore delle cose belle e chi ama il bello, ama, e i l suo amor l o spinge a che il bello diventi suo. Che senso ha questo pos­ sesso del bello? Quale utilità l'Amore apporterà a chi riuscirà a posse­ derlo? Sono questi gli interrogativi che costituiscono delle difficoltà di risposta per Socrate, al punto che Diotima propone una risposta che forse Socrate può capire e che comincia ad essere un parziale rifiuto della pre­ messa di Agatone. Sostituendo l'amore del bello con l'amore del buono103: «Chi ama il bene ama, e che ama?>>, «di posseder)o)) rispose. «E che cosa gli succederà, quando gli riuscirà di possedere il bene?)). «D iventerà felice))104• Con siderando dunque che noi desideriamo cose buone per es sere felici, il giovane Socrate viene ad essere in accordo con Agatone. Ciò spiega anche la sua precedente perplessità concernente il fine della bel­ lezza. Per Agatone le cose buone diventano belle. In altre parole: il pos­ sesso della bellezza è equivalente alla felicità. Il bellissimo Eros è causa 102

Cfr. Symp. 204b. Cfr. Symp. 204e. L' interpretazione di questo luogo trova nei critici una unani­ me versione, che rifacendosi al concetto greco del bello-buono (come stretto rap­ porto tra essi, tanto che si è parlato di una concezione estetica del bene, come di una concezione morale del bello) vede altern ative designazioni di una stessa classe: cfr. F.M. CORNFORD. The Unwrilten Philosophy and other Essays, Cambridge 1 950, p. 720; A.H. ARMSTRONG, P/atonie Lave, London 1 963 , p. 46; J.M. RIST Eros and Psyche, University of Toronto Press 1964, pp. 36-3 7; K. DOVER, op. cii., p. 144). 104 Symp. 204e-205a. La felicità è qui, per Platone, la situazione o la condizione in cui uno desidera essere. 103

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di cose buone, sia per gli dei, che per gli uomin i105• Diotima considera il bene come qualcosa di superiore al bello e distinguibile degli elementi della genesi. Il telos della genesi è la sua completezza e unità. Eros come amante del bello ci guida verso il desiderio di una parte, piuttosto che verso la completezza. Sostituendo il bello con il buono Diotima afferma che Eros desidera l 'intero. In tal modo Eros viene ad essere per Diotima il desiderio di cose buone e di felicità. L'amore per l'intero è al di là del bene e del male, nel senso che esso li supera e li comprende entrambi. Ognuno è caratterizzato dall'amore per il bene, nel senso che ognuno desidera la felicità106; tutti gli uomini desiderano le stesse cose e non alcuni si e altri no. L'amore in senso largo abbraccia altre specie (amore della ricchezza, amore del la ginnastica, amore della filosofia)107, è proprio della natura umana come tale. Qualcosa di simile capita per la poiesis: «come sai la creazione è molteplice, poi­ ché qualsiasi causa faccia passare una cosa dal non essere all'essere è creazione; è cosi che tutte le operazioni usate nelle singole arti o mestieri sono creazioni ed i loro artisti sono creatori»108• Se tutti gli uomini sono amanti, allora l'oggetto di ogni desiderio deve essere almeno potenzial­ mente buono. Ammessa la natura polimorfa di Eros, diventa impossibile dire che i corpi non siano felici, non contribuiscono alla fel icità109• Questo problema sembrava chiarito con la sostituzione del bello con il buono, ma Diotima sembra affermare qualcosa di diverso: si continua ad enunciare un certo discorso, secondo il quale amore significherebbe cercare la pro­ pria metà. Ma il mio discorso dice che Amore non aspira né alla metà né all'intero, se non nel caso, mio caro, che questo sia comunque un bene, 105

Cfr. Symp. 1 97b8 e Phaedr. 244a. Cfr. Symp. 205a3-8 1 07 Cfr. Symp. 205d. 108 Symp. 205 c. Qui la poiesis è intesa nel significato più ampio di attività crea­ trice; ma subito dopo Platone accetta la restrizione di coloro che lim itano l ' uso del termine del la poesia accompagnata da musica. L'arte, dunque, e la poesia non sono qui intese come «imitazione» delle cose, ma come potenza che fa essere quel­ lo che prima non era, anche se non sono le sole ad avere questa capacità: la poesia vera e propria è una parte o «specie» del genere; come tale è attività creativa non è imitativa. 1 09 Cfr. Symp. 205d. 106

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perché gli uomini sarebbero pronti a tagliarsi via i piedi e le loro mani, se credessero che queste parti di se stessi fossero malvage))1 10• Diotima con­ tinua a rimanere nei confini della genesi del corpo, della poiesis cerca di definire il bene in termini e in funzione del corpo. Sia il buono che il cat­ tivo si definiscono in termini corporali. La felicità in funzione del corpo è una faccenda privata. La sostituzione dell'amore del bene, per l'amore del bello ci porta allo stesso risultato; fondamentalmente gli uomini amano la parte anziché l'intero e poi solo quella parte che appartiene loro111 • Se l'in­ tero è sia corporale che buono, uno non può possederlo tutto, ma deve sce­ gliere determinate parti che gli sembrano migliori e deve lottare per man­ tenerle. Se gli uomini amano solo il buono, allora, come Diotima afferma, il cattivo per gli uomini è inaccettabile. In entrambi i casi il risultato è lo stesso: guerra tra il bene e il male. Tutti gli uomini amano dunque i l bene, vogliono possederlo, e sem­ pre: Eros è desiderio di possedere sempre il bene1 12• Ma come può l'uomo desiderare e ottenere questo possesso, se è mortale? Eros è desiderio di immortalità e perciò l 'uomo è continuo e molteplice sforzo di vincere i l imiti della sua vita mortale; cosi risulta essere «partoriente nel bello))1 13 attraverso il corpo e l'anima, ché nessun vuole generare e sgravarsi nel brutto. Essere fecondi nell'anima è gravidanza di verità, esserlo nel corpo è desiderio di infuturarsi attraverso i figli. Gravidanza è generazione e, come tale «cosa immortale))1 1\ giacché attraverso i figli l'uomo mortale sfugge alla morte; dunque Eros è amore di generazione e di immortalità1 15• L'uomo genera nella donna bella per sopravvivere nei fig li: questo è l'ap­ pagamento immediato e vitale del bisogno di non morire, indeclinabile e indomabile di ogni mortale. La maturità del corpo e della mente si manifesta, dunque, nel desi­ derio di procreare; la bel lezza attrae e sollecita l'impulso procreativo, la bruttezza lo inibisce. E l'amore, nell'uso corrente della parola, non è, 1 1o Cfr. Symp. 205e-206a. 1 11

Cfr. Symp. 206e-207a. Symp. 207a4. 113 Symp. 206e. 114 Cfr. Symp. 207al. 115 Cfr. Symp. 207a3-4. 112

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come si potrebbe pensare, desiderio dell'oggetto del bello, ma desiderio di fecondarlo. Ciò significa, come è stato detto1 16 che il desiderio masche­ rato di avere una progenie da una madre fisicamente bella; l'appetito ses­ suale in sé non è in realtà brama di piaceri derivanti dal rapporto con l'al­ tro sesso, è una passione per la paternità. Precedentemente Eros è stato descritto come un messaggero tra gli dei e gli uomini. Ora in nome di questo desiderio universale e profondo dal punto di vista fisico e fisiologico la differenza tra gli uomini e le bestie tende a sparire. Come distintività di questa sparizione la disposizione erotica non viene descritta in termini rel igiosi, ma come una malattia: «non ti accorgi del tremendo stato di tutti gli animali, terrestri e vola­ tili, quando sentono il desiderio di generare, e come tutti siano presi dal male di amore, e passionatamente disposti anzitutto a unirsi fra loro, e poi a nutrire le loro creature e sono anche pronti a lottare in loro difesa, i più indifesi perfino con quelli più forti, ed a morire per loro; e ancora si lasciano torturare dalla fame pur di nutrirli e sopportano ogni altra cosa?))1 17• Questa malattia investe la totalità degl i esseri in nome di un rinnovamento perpetuo che porti all'eternità della specie attraverso la continuità del la generazione: «la natura mortale cerca, con ogni mezzo, di perpetuarsi e di essere immortale. E può riuscirvi solo per questa via, mediante la riproduzione, perché lascia sempre un giovane al posto di un vecchim)1 18• Come l'individuo rinnova se stesso e nello stesso tempo si continua nei suoi figli, così gli elementi che compongono l'individuo stesso o di esso ne fanno parte in qualche modo sono in continua trasformazione: «Poiché anche durante il tempo in cui ogni vivente si dice che vive come unità e che è lo stesso (per esempio si dice che è la stessa persona quella che da bambino giunga fino alla vecchiaia) in realtà esso si chiama nello stesso modo, ma non conserva mai in sé le stesse cose. Anzi sempre si rinnova e in altra parte deperisce, nei capelli, nella carne nelle ossa, nel sangue e in tutto il corpm)1 19• 116 1 17 118 1 19

Cfr. A.E. TAYLOR, op. cit., p. 3 5 5 . Symp. 207a-b. Cfr. Symp. 207dl-4. Cfr. Symp. 207d3-e2. Ogni proprietà di un individuo esemplifica il comportamen-

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Pertanto anche la nostra conoscenza fugge e scivola via come un fiume: «i modi, le consuetudini, le opinioni, i desideri, i piaceri, i dolori, le paure, mai alcuna di queste rimane la stessa nella stessa persona, ma alcune nascono, altre si perdono. Ma ancora più strabiliante è che anche delle condizioni non solo alcune nascono e altre periscono, e mai noi rimaniamo gli stessi pure quanto a cognizione; ma anche che ciascuna di esse, presa a sé patisce la stessa sorte>P0. In questo modo l'uomo non fa altro che imitare l'immortalità, pro­ prio come la genesi imita oùsia. Anche la brama di gloria, di cui gli uomini sono assetati, è desiderio di immortalità12 1 ; immortale è la virtù dei "virtuosi" e ne rimane, dopo la morte, perpetuo ricordo1 22• I gra­ vidi nel corpo si immortalano attraverso la generazione dei figli, i gra­ vidi nell'anima con la produzione di opere memorande: due forme di immortalità terrena, una di natura biologica comune a tutti i viventi, l'altra di natura etico-storica, attraverso le opere degne di ricordo. I gra­ vidi nell'anima partoriscono «la sapienza e ogni altra virtù [... ], uomini produttivi, e tra loro tutti i poeti e quanti si dicono essere uomini inven­ tori>>123. Bellissima tra tutte le forme di fronesis quella del la saggezza, to attribuito da Agatone ad Eros, che fugge la vecchiaia ed è sempre giovane. Questo vuoi dire che Platone intende sottolineare sia l 'inseparabilità della psiche dal corpo, come riflesso nell 'essenza di qualsiasi dottrina di immortalità personale, sia l'equiva­ lenza tra la genesi e la natura nel cui flusso si trovano a essere l 'anima e il corpo. 120 Symp. 207e-208a. 121 Cfr. Symp. 208d. Qui si afferma infatti che gli uomini sono pronti a rischiare più per la loro fama, che per i loro figli (Diotima ci parla di Codro, il re che sacrificò la sua vita per salvare gli Ateniesi dalla schiavitù). In opposizione all' intimità del desi­ derio erotico, Eros diventa pubblico comefilia, amore per l'onore e per la saggezza; nel caso della saggezza la dimensione del privato e de ll' intimo acquista senso, per cui c'è un'analogia tra Eros fisico, sessuale e psichico. 122 Cfr. Symp. 208c. 123 Tra gli uomini «inventori>>, «gravidi nello spirito», un posto viene assegnato ai poeti, gli esiliati della Repubblica. Platone nel Simposio ed anche nel Fedro, sente intensamente la positività del sensibile e la sua bel lezza, ne avverte il fascino non ingannevole e corruttore; anche l'arte e la poesia, una «via» all ' Intelligibile, all 'idea del Bello, sono anamnesi e non mimesi : anche se più bello è il bene nel senso più esteso del termine. In questa concezione la poesia e l 'arte trovano il loro posto: rive­ lano la Bellezza attraverso l ' immagine sensibile.

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che mette ordi ne nelle città e nelle cose e si chiama «assennatezza e giustizia»1 24• Quando qualcuno, sottoli nea Platone, ha fin da giovinetto l 'anima pregna di virtù, scoccato il tempo, vuoi partorire, e giacché nessuno ama partorire nel brutto, va desideroso alla ricerca del bello; ama più i corpi belli che i brutti. Se gli capita di imbattersi in un corpo bello, dotato anche di un'anima bella, acceso dalla duplice bellezza, partori­ sce, conversando i bei discorsi, cioè la verità nella verità. La comuni­ cazione attraverso la verità generata nel bello porta alla comunione tra due anime, da tale un ione nascono i veri figl i dello spirito o le opere belle, più immortali e più belle di quelli del corpo. Chiunque preferi­ rebbe essere il padre di figli belli e imperituri, preferibili a quelli generati carnalmente1 25• E in testa, prima anche delle Leggi, i fig li di Licurgo e Solone, le opere di Omero e Esiodo e gli altri poeti buoni poeti, ammirati da tutti e immortali, capaci di conferire ai loro autori l'immortalità della gloria e del ricordoi 26. Eros, dunque, ancora una volta non è più un intermediario tra gli uomini e gli dei, un aspetto fondamentale della genesi stessa; esso cessa di essere descritto come un dio per aver origine nel corporeo. Da questo momento ha inizio l'ascesa erotica che Diotima si appresta a comunicare a Socrate come rivelazione finale. Al primo grado dell'iniziazione, dice Platone, usando un linguaggio mistico, è Eros che investe il sensibile: amare i bei corpi e possibilmente un solo corpo bello, poi come secondo stadio, aiutato dalla bellezza di quest'ultimo, partorire e generare bei 1 24

Cfr. Symp. 208e-209a. Cfr. Symp. 209b-c. 126 Cfr. 209d-e. I legislatori offrono il più alto tipo di uomo politico. Ci sono due punti degni di nota nella discussione di Diotima. Anzitutto, anche se non si rivol­ ge ad un gruppo di Ateniesi, loda Licurgo più che Solone. Licurgo è il salvatore dei Lacedemoni e deli 'EIIade, mentre So Ione è nominato soltanto per essere onorato tra gli Ateniesi. Secondariamente, perfino i barbari hanno portato alla luce molte opere feconde in ogni genere di virtù. Pertanto come nei confronti del fisiologo Eros, tut­ ti gli uomini sono gli stessi, nei riguardi de li 'Eros politico essi sono potenzialmente gli stessi. La vera differenza sta tra l 'individuo che è capace di afferrare il più alto insegnamento erotico o percepire la bel lezza in se stessa, e il resto degli uomini che non può fare ciò. 1 25

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discorsi e se belli, veri, e compreso ciò, amare, tutti i corpi belli e non più uno solo, cioè amare la bellezza fisica in quanto tale127• In questo stadio dell'ascesa dell'Eros, si passa dal momento sensibile a quello razionale: a questo punto non si ama più questo o quel corpo bello, ma è presente alla mente il concetto di bellezza: al momento estetico succede quello razio­ nale, che segue il distacco dal bello incarnato in un corpo. Infatti, dice Platone, non si ama più sensibilmente un singolo corpo bello, ma razio­ nalmente tutti i corpi belli, come dire: non se ne ama nessuno come tale, ma si cerca di amare razionalmente il concetto di bellezza fisica che tutti li include e tutti, per quanto hanno di particolare li esclude. Si passa così dalla bellezza sensibile a quella che risplende nell'anima, più pregevole di quella che traspare nel corpo, più ispiratrice all'anima di buoni e alti discorsi dei quali la innamora. Eros genera opere belle quali istituzioni e leggi, che assicurano all'uomo gloria e ricordo immortale. In esso traluce sempre la Bellezza; tutto è manifestazione dell'unico bello in sé, tutto è quale è per il suo grado di partecipazione. Dalle istituzioni lo slancio di Eros si spinge all'amore della bellezza del sapere. A partire da questo punto cessa ogni legame, anche visto intellettualmente, con il sensibile, e la vista della mente «annega nell'immenso mare del bellm>'28 e contem­ plando tira fuori da sé un gran numero di nobili ragionamenti e splendidi pensieri tutti ispirati alla Sapienza, momento filosofico vero e proprio, da cui Eros passa all'ultimo stadio, alla visione intellettiva di niente altro che di una scienza sola, quella della stessa Bellezza129• Le tappe di Eros sono finite: ha amato tanto, ma da tutto si è sempre staccato, sotto la spinta del desiderio di ascendere sempre più in alto. Ogni momento dell'ascesa ha avuto un senso, ma ciascuno di essi aveva una sua provvisorietà. Le tappe sono necessarie per il viaggio, ma quando si approda alla visione della Bellezza in sé, i gradi preparatori che le costarono tanto «fatica))130 restano assorbiti. I l valore, infine, della descrizione di Eros nell'ultimo resoconto di Diotima si muove all'interno di una specie di teologia nega­ tiva. «Bellezza eterna che non nasce e non muore, non si accresce, né 127 Cfr. Symp. 2 1 O a-b. 1 28 Cfr. Symp. 2 10d. 129 Cfr. Symp. 2 1 Oc-d.

1 30 Symp. 2 1 1 a.

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diminuisce che non è bella per un verso e brutta per l'altro, né ora si e ora no; né bella o brutta secondo certi rapporti; né bella qui e brutta li, né come se fosse bella per alcuni, ma brutta qui e brutta li, né come se fosse bella per alcuni, ma brutta per altri))13 1 • Essa si muove suggerendo origini corporee alla nostra visione senza identificare affermativamente ciò che noi vediamo come corpo: «questa bellezza non gli si rivelerà con un volto né con mani, né con altro che appartenga al corpo, e neppure come concetto o scienza, né come residente in cosa diversa da lei, per esempio in un vivente, o in terra, o in cielo, o in altro))132• La prima parte della descrizione negativa escludeva la bellezza dal cambiamento spazio­ temporale, ma non dalla presenza spazio-temporale. Il tempo e il luogo sono entrambi esclusi, eppure lo spazio-temporalità è sempre presente. La seconda parte della descrizione mostra che la bellezza non è un corpo, né un discorso, ma il fatto che essa non può essere raffigurata come un corpo, non significa che essa non appare affatto. Al contrario, la bellezza malgrado la sua unicità è visibile proprio nella sua unicità. La bellezza appare in se stessa o si presenta come qualcosa di comune ad ogni appa­ renza di se stessa. Ma ciò che è visibile e apparente deve esserlo attraverso i corpi, i discorsi o qualsiasi altra cosa che sia legata alle condi zion i spazio­ temporali della genesi. La bellezza non è qui considerata come un regno separato dal suo apparire all'uomo. La sua separazione è piuttosto una forma unica, non visibile i n qualcos'altro, se non dalla virtù di quelle "appartenenze" che coesistono in esse. Forse potremmo paragonare la bel lezza ad un numero, che non dipende nella sua esistenza dall'atto del contare, ma che è sempre presente, anche quando nessuno è capace di dare un completo logos delle sue proprietà. Per concludere Diotima ritorna sulla visione della bellezza immortale ora dipendente della cor­ retta pederastia, come una condizione della genesi corporea: «Ed ecco che quando uno partendo dalle realtà di questo mondo e proseguendo in alto attraverso il giusto amore dei fanciulli, comincia a penetrare questa bellezza, non è molto lontano dal toccare il suo fine))133• La visione istan1 3 1 Symp. 2 l l a2-6. 132 Symp. 2 1 1a6-b4. 1 33 Symp. 2 1 1 b7- l O.

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tanea della bellezza è incompleta: l'iniziato comincia a vedere la meta, ma non può interamente. possederla. Mentre il precedente resoconto di Diotima sull'ascesa era governato dal principio che l'amore per la bel­ lezza esiste per il desiderio dell'immortalità o per il perpetuo possesso del bene. Nel presente resoconto il bene non è menzionato, l'amore per l'im­ mortale bellezza rimane solo come una completezza per la lotta erotica: «Che se un giorno mai tu la scorga, ella non ti parrà da commisurarsi con la ricchezza o il lusso, o gli stupendi fanciulli e giovani, vedendo i quali ora rimani smarrito, e sei pronto, tu e molti altri, pur di tenere gli occhi addosso sui vostri amori e di starvene insieme, a non mangiare, se fosse possibile, a non bere, ma solo a contemplarli e a conviverci»134• Dal desiderio di guardare e di essere insieme al corpo dell'amato, Diotima ritorna per l'ultima volta alla bellezza in se stessa: «Che cosa allora dovremmo pensare, se capitasse ad uno di vedere la bellezza in sé, pura, schietta, non tocca, non contagiata da carne umana né da colori né da altra vana frivolezza mortale, ma potesse contemplare la stessa bel­ lezza divina nell'unicità della sua forma?»135• Il contrasto è tra il corporeo e la pura bellezza ed è caratterizzato dai termini «carne)) e «divinm>136• Ora il corpo è demoniaco mentre la psiche è divina. Dato che ci sono vari tipi di corpi - includendo le azioni e i discorsi - esiste allora più di una forma di corporea bellezza. La bellezza perseguita dalla psiche, invece è unica nel la sua forma. Le numerose forme della bellezza cor­ porea fanno parte dell'unità della psiche o della bellezza poetica. Vedere la bellezza poetica, significa allora vedere la verità dei numerosi esempi della bellezza corporea: «Forse credi che sia una vita da sciocco quella di un uomo che tenga lo sguardo su di lei e la contempli con il mezzo che 134 Symp. 2 1 I d5- I O. 1 35 Symp. 2 I I d I 0-e. 1 36 I l Bello i n s é è anche «divinm> per eccellenza, i n ragione del suo carattere «sciol­ to» da qualsiasi legame con il terreno. L ' epiteto theios non può essere considerato come un attributo filosofico se non connesso ai due epiteti fondamentali del to ca/an monoides che indica l' identità del Bello con se stesso nella sua unica forma auto che sottolinea il suo in sé come assolutezza (cfr. per queste distinzioni semantiche e per le varie sfumature di sensi di theios in questi luoghi del Simposio da noi considerati J. VAN CAMP - P. CANART, Le sens du mot "theios " chez Platon, Louvain I 956, pp. 75-87).

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le conviene e viva insieme a lei? O non pensi che solo qui, mirando la bellezza per mezzo di ciò per cui è visibile, potrà produrre non simulacri di virtù, in quanto non è a contatto di un simulacro, ma v irtù vera, per­ ché è a contatto con il vero; e che avendo dato alla luce e coltivato vera virtù, potrà riuscire caro agli dei e, se mai altro uomo lo divenne immor­ tale?))137. Gli dei sono diventati gli amici dell'uomo. La bellezza è immor­ tale, ma l'uomo non la può possedere sempre. L'immortalità è tutt'al più un possesso dell'uomo per un periodo limitato di tempo, un possesso che egli perde nel corso della sua vita. L'uomo possiede l'immortale solo nel momento in cui lo vede; afferrando la verità egli genera vera copia di esso. L'immortale è silenzioso e l'uomo si avvicina ad esso in una spe­ cie di silenziosa visione, la quale dando luogo ad un ricordo di esso fa generare discorsi da cui risplende la verità. Poiché l'uomo vede o tocca la verità, per questa ragione Eros è rimpiazzato da philia: l'uomo diventa un amico del Dio, poiché il divino è la verità. I n questo senso Diotima ha successo, là dove gli altri oratori avevano fall ito. Sen za negare che l'uomo è radicato nella genesi, ella ha mostrato come il suo desiderio per l'immortalità possa essere soddisfatto proprio con un tentativo di conci­ liazione tra l'umano e il divino.

1 37 Syrnp. 2 1 3a3 - l O.

Interpreti medioplatonici del pensiero educativo filosofico di Platone

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CAPITOLO TERZO

Nous e movimento circolare

I l Timeo e il libro X delle Leggi sono i luoghi nei quali Platone, in maniera specifica, presenta in contesti di ordine cosmologico e teologico il movimento di rotazione come modello del nous. La mia analisi, ser­ vendosi di una recente interpretazione data da E. Lee138 a questa parti­ colare problematica, prenderà in esame l'analogia tra il nous e il movi­ mento circolare, avulsa da qualsiasi riferimento alle dottrine astronomi­ che riguardanti le sfere celesti e il loro movimento, proprio perché venga colto un legame non mediato, ma diretto tra certe qualità e caratteristiche del nous e certe altre del movimento circolare. Platone descrivendo nel Timeo i due movimenti che il Demiurgo affida ai corpi celesti, parlando del primo come quel movimento rotato­ rio costante intorno al proprio asse, così lo descrive: «è un movimento che procede uniformemente, con il medesimo sugli stessi oggetti))1 39• Anche se è convinzione di qualche interprete140 che in questa descrizione Platone per la prima volta spieghi il movimento rotatorio come quello che tra i sette movimenti più di ogni altro appartenga alla ragione e all'intel­ letto, tuttavia non sembra che le cose siano così. I l filosofo non spiega l'analogia, ma la riafferma soltanto in maniera un pò più completa di quanto l'aveva già fatto nel passo 4a. Qui, infatti, egli aveva asserito che il Demiurgo fa sì che l'intero universo giri con costanza nello stesso spa1 3 R E. LEE, Reason and Rotation: Circular Movement as the Mode/ (Nous) in the Later Plato in Facets of Plato s Philosophy, Van Gorcum, Assen Amsterdam 1 976 pp. 70- 1 02. 1 3 9 Timaeus 40a 7-b l . 1 40 F.M. CORNFORD, Plato s Cosmology, London 1 937, p. 1 1 9.

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zio, dentro i propri limiti e si muova su se stesso. Questo tipo di movi­ mento è quello che Platone indica come il solo appartenente alla ragione e all'intelletto. Nel passo 40ab, dapprima è descritto il movimento in questione e poi si prosegue come se fosse completamente chiaro asso­ ciare quel movimento con le stelle costantemente pensanti, senza, tut­ tavia, chiarire in che cosa consista questa associazione. L'analogia non è spiegata, ma è esposta semplicemente, come si era fatto precedente­ mente, presupponendo la sua validità. Nel libro X delle Leggi, il filosofo, dichiara, invece, di spiegare per­ ché il movimento circolare è un modello appropriato del nous. Lo «stra­ n ierm)141 rilevando qui che la natura del nous, come la luce del Sole, è troppo luminosa per noi, per poterla vedere direttamente, manifesta la necessità di guardarla attraverso un'immagine, un modello di esso, costituito, appunto, dal movimento circolare. Quando Cl inia chiede se questo modello possa servire, vengono enumerate quelle caratteristiche di esso, secondo il filosofo, che lo qualificano come un buon modello. Consideriamo insieme il nous e il movimento, «se possiamo dire che entrambi procedono regolarmente, in maniera uniforme, in ogni loro parte, entro gli stessi limiti, intorno allo stesso punto, nella stessa dire­ zione, entrambi in conformità ad un ordine specifico, ad un unico piano, rappresentando come fedele immagine i moti di traslazione della sfera al tornio, non falliremmo nella costruzione di buoni esempi nel nostro discorsm)142. La prima affermazione è che la rotazione deve procedere in maniera regolare143, sempre ad una velocità costante, invariabile, senza fermate o interruzioni. Questo movimento rotatorio, prosegue unifor­ memente, nel lo stesso modo in ogni sua parte, con la stessa velocità e nella medesima direzione, movendosi costantemente in ogni sua sezione. Platone sembra avere in mente con chiarezza un corpo solido che ruota nella sua i nterezza intorno ad un asse fisso, per cui il suo esempio cam­ bia casualmente da una ruota che gira14\ ad una sfera o ad un globo145. 1 4 1 Cfr. Leges, X, 897d-e.

1 4 2 Leges X, 898a-d.

143 Cfr. Timaeus 34a, 36e, 40a. 1 44 Cfr. Leges, X, 898a 4-5. 1 4 5 Cfr. Leges, X, 898 bz.

Nous e movimento circolare

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Tuttavia, anche se egli parla di un solido che ruota intorno al proprio asse, questo non vuoi dire che la sua analogia sia "concreta"; egli non dice affatto che il nous è come una sfera ruotante, ma soltanto che nel­ l'attività noetica è (in qualche modo) come il "movimento rotatorio" di una sfera. Non è la natura dell'oggetto in citazione, ma la natura del movimento di rotazione la chiave del modello platonico146• Per com­ prendere la posizione platonica può esserci utile immaginare la rota­ zione di un corpo non solido, secondo un esempio riportato da E . Lee147, per cui s e un gruppo d i persone, ognuno delle quali s i muove separatamente, potesse coordinare i propri movimenti, tanto da for­ mare un cerchio che ruota uniformemente intorno ad un unico punto centrale, allora esse esemplificherebbero quel tipo di movimento voluto dal modello platonico. Platone continua dicendo che questa rotazione si deve svolgere nello stesso posto, entro gli stessi limiti per cui - poste queste proprietà si rende necessario che la figura ruotante sia un cerchio e non un qua­ drato o un albo poligono. Un solido di rotazione dunque, che, anche se irregolare, (un cilindro, un cono, un vaso simmetrico, un pilastro) basti che giri completamente intorno al proprio asse di generazione. La sfera pertanto si presenta come l'unica forma che permette la costruzione di numerosi solidi aventi differenti assi di rotazione148• Può darsi che Platone ponesse questa necessità per giungere alla conclusione che l'asse di rotazione è esso stesso immobile. Certo è che nell'introdurre l'analo­ gia tra il nous e la rotazione149 Platone si rifà alla precedente descrizione dei «movimenti))150, anche se lì il movimento circolare era spiegato come «il movimento di quegli oggetti la cui potenzialità sia l'immobilità del loro centro))15 1 • Comunque la presente caratteristica non comporta che il corpo debba assolutamente girare intorno ad un punto fisso nello spa1 4 6 Cfr. Timaeus 37a 5-7, oppure il Phaedro 79d. 147 Cfr. art. cit., p. 74. 1 4H Cfr. R.J. M ORTLEY, Plato s Choice of the Sphere in « Revue des É tudes Grecque», 82, 1 969, pp. 343-5. 1 49 Leges X, 897c4. 1 50 Leges X, 893b-894c. 15 1 Leges X, 894c4-5 .

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zio; il Timeo152 infatti ce lo mostra sufficientemente, lì infatti il movi­ mento rotatorio di ciascuna stella intorno al proprio asse è descritto come un movimento pigro, per cui anche se tutti questi corpi compiono un secondo movimento attraverso i ciel i, l'intento della teoria è quello di mostrare come i l movimento di rotazione è quello che rimane sempre entro i confini del proprio corpo ruotante. Non c'è ragione che il corpo ruotante non possa anche muoversi rispetto ad altri punti di riferimento fuori di esso. Platone vuole affermare soltanto che il movimento di que­ sto oggetto è uguale al nous, unicamente in riferimento al suo carattere rotatorio intorno al proprio asse interno. Subito dopo passa a specificare qualcosa che è stata già acquisita, cioè che la rotazione avviene intorno allo stesso unico punto. Anche questo se è già stato compreso deve essere ben esplicitato in modo da spiegare la connessione tra l'uso parziale dell'intorno allo stesso punto e l'uso cognitivo o intenzionale del la stessa preposizione (che pensa intorno allo stesso argomento), come nel Timeo153• Platone insiste poi su un'altra caratteristica già implicita nell'altra, cioè che la rotazione deve procedere sempre nello stesso senso154• Ora che tutti i momenti di identità siano stati esplicitati, Platone conclude con l'affermare senza aggiungere nulla di sostanziale alle precedenti affermazioni sull'analogia, che il movi­ mento circolare, si svolgerà su un unico piano e su un unico ordine. I l model lo platonico dunque non è il cerchio, né la sfera, ma i l movimento in un cerchio, quindi u n tipo d i movimento, non u n tipo d i figura. I l suo modello non è il movimento che descrive u n cerchio, cioè il movimento eseguito da un punto o da un corpo nel tracciare un cer­ chio con un intero giro intorno ad un'orbita circolare per poi ritornare di nuovo al punto di partenza, quella specie di movimento che Aristotele lodava, quando descriveva esso come: «il movimento di una cosa che da se stessa ritorna a se stessa>>155, né un movimento circolare intorno allo stesso percorso ripetutamente ma piuttosto la sfera o la ruota che girano 1 5 2 Timaeus 40a6-b2.

1 53 Cfr. Timaeus 40a2-bl. Per una distinzione grammaticale tra i due casi si veda E. LEE, art. cit., p. 94 n. 1 1 . 1 54 Cfr. E. LEE, art. cit. p. 94 n. 1 2. 155 Phys. VIII 8. 264b. 1 8- 1 9.

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in un determinato luogo: la rotazione immediata dell'intero corpo nella sua totalità intorno al proprio centro (o asse). Questo tipo di movimento circolare non raggiunge nessuna meta. Quindi non è un movimento che si può definire incompleto, perché manca di un traguardo, ma un movi­ mento che può essere completo in ogni momento del suo svolgersi156• In questo senso, tale movimento non serve per enumerare una molteplicità di azioni distinte. È qualcosa che potremmo compiere in poco tempo o in un lungo periodo, ma non qualcosa che noi possiamo fare incompleta­ mente o farla ripetutamente. In ultima analisi, il movimento circolare funziona come una sorta di "complesso terminale", più che come un conto di azioni. Esso serve soltanto per specificare un tipo di movimento, non per enumerare o indicare diversi atti. L'analogia platonica con l'attività del Nous, non si riferisce al senso di completezza del verbo ruotare, ma al senso della attività. La prima forma di rotazione è divisibile in parti (girare un quarto di cerchio oppure fer­ marsi a metà), ma l'altra non lo è: è movimento uniforme e indivisibile, completo di ogni momento della sua durata: una specie di azione non sol­ tanto continuabile all'infinito, ma pienamente eseguibile in qualsiasi lasso di tempo, anche brevissimo. Quando i bambini, riprendendo l'esempio di Lee157, uniscono le loro mani per formare un cerchio e danzano intorno al palo di maggio ognuno di loro può dire di girare intorno al palo nel senso della completezza del verbo; ciascuno infatti vi ruota moltissime volte; ora si troverà ad est di esso, poi al nord, poi all'ovest ed infine al sud. Ma tutto il gruppo di bimbi nella sua totalità, visto come un cerchio che ruota, non gira tante volte. Quello che avviene è soltanto questo: i fanciulli sono occupati nell'attività di danzare intorno al palo dipinto o di girare intorno al cespuglio di more. Quindi il movimento del gruppo visto come un "tutto" non consiste nel compimento di azioni enumera­ bili, ma in qualcosa di indivisibile, di completo di integro in ogni movi­ mento del suo svolgersi. Ammesso che questo sia il tipo di movimento ed anche il senso specifico della rotazione che Platone intendeva asse­ gnare al Nous, è necessario aggiungere che il modello non è basato su teorie empiriche della fisica meccanica che analizzano e visualizzano pro156

Phys. VIII 9, e specialmente 265 b2-8. 1 57 Cfr. art. cit. , p. 74.

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cessi reali o esperienze di pensiero, per cui affidano al senso del movi­ mento circolare l'idea del compimento e non dell'attività del movimento stesso. Né può essere interpretato secondo somiglianze d'espressione per cui quel tipo di attività è la formulazione più adatta a manifestare nel movimento la qualità di uno stato interiore. Entrambe queste interpreta­ zioni sono lontane dall'esatta teoria platonica, poiché la rotazione non è un modello dell'azione intellettiva, ma di quelle "qualità" del pensiero, in virtù delle quali il modello si definisce noetico. I l senso di attività della rotazione che si è cercato in qualche modo di definire, è la rotazione di un corpo in un intero, indifferenziato giro intorno al proprio centro. Quando diciamo che la sfera o la ruota girano, dobbiamo pensare ad un movi­ mento rotatorio in tutta la loro interezza. Possiamo dire, cioè, che tutte le parti della superficie ruotante hanno la medesima relazione tra loro rispetto al centro, ma nell'intero sistema ruotante esse non sono affatto delle parti distinte; l'intero si muove come intero. Geometricamente par­ lando ciò vorrebbe dire che tutte le dimensioni rimangono costanti, per cui il problema si pone non sulla fissità della figura o della forma, ma sulla totale interezza del movimento compiuto. È una completezza dina­ mica non statica, poiché la ruota gira, muovendosi in tutta la sua essenza, sempre alla stessa maniera158• Quindi non il mero fatto della rotazione o del movimento in un cerchio, ma il movimento totale è fondamentale per la nostra analogia. Comprendere che la ruota nella sua totalità sta girando intorno al suo centro, significa considerare il coordinamento di tutte le sue parti in questo movimento. Sign ifica affermare una specie di concreta unanimità, che parte dal suo centro, pervade e perciò defi­ nisce l'intero corpo. In questa particolare caratteristica della rotazione, l'immagine trasmette un senso di consapevolezza ben focalizzata, ma nello stesso tempo non localizzata: perché l'intera circonferenza è orien­ tata nella sua totalità, contemporaneamente intorno al cerchio e verso il centro del cerchio stesso159• L'intento platonico è quello di annullare la molteplicità, l'estensione e di trascendere il tutto, superando ogni limite prospettico. L a trascendenza dei limiti prospettici di cui qui si parla ora, è simile all'esperienza di una persona coinvolta nello svolgimento di 15K Timaeus 37a 7. 1 59 Cfr. E. LEE, art. cit., p. 8 1 .

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una danza circolare, ma contemporaneamente partecipe singolarmente all'azione. In ogni evento è questa "mancanza di prospettiva" che sigla il decisivo carattere del movimento rotatorio di Platone, non lo fa essere solo un insieme di aspetti meramente geometrici o dinamici appartenenti allo statico movimento rotatorio di qualcosa che gira nella sua totalità. I l Nous è come i l globo ruotante, o l a sfera, in quanto è un'attività che pro­ cede "intorno" ed è perciò definito in riferimento all'oggetto ruotante, non da un particolare punto di vista fisso, ma in una maniera illimitata, e senza prospettiva alcuna. Il globo ruotante è l'immagine di una spe­ cie di pura, totalmente impersonale circolarità, molto simile alla visione platonica della forma. L'attinenza è forse meglio rivelata nel resoconto di Diotima sulla visione della assoluta bellezza nel Symposium160, dove la visione della forma non contempla l'apparenza del suo oggetto entro i limiti di un particolare punto di vista, né l'oggetto qui può essere visto così da qui o da lì, né esiste qualche limite, una specifi c azione tempo­ rale X. Piuttosto l'oggetto è come se fosse a parte da ogn i limite deter­ minato. Una volta che è stato compreso i l modello, è chiaro che tutte le altre applicazioni derivano da esso. Poiché il modello suggerisce una rotazione statica possiamo considerare questa rotazione come rappresen­ tante o esprimente la statica qualità di qualche esperienza (contempla­ tiva, si potrebbe dire) di determinati oggetti. Secondo tale visione, queste qualità saranno sentite in connessione con il carattere a-prospettico del­ l'oggetto, il quale qui è considerato non da un particolare punto di vista, ma solo come tale. Pertanto ciò che è errato, in questa interpretazione del modello, è che essa vede il nous come avente determinate sensazioni, per cui tale lettura imporrebbe un'interpretazione psicologica della conce­ zione platonica che il modello né incoraggia, né richiede. Ma lungi dall'essere l'espressione di una qualsiasi esperienza privata il modello rappresenta una soggettività interamente assorbita e subordi­ nata alla comprensione del suo oggetto, totalmente ridotta ad un'astratta, pura totalità. Il modello platonico della rotazione rappresenta il Nous come attività psichica nel quale un oggetto è compreso in quel certo modo a-prospettico. Quindi esso rappresenta principalmente il modo nel quale l'oggetto è appreso (non prospetticamente), non un particolare stato 1 6° Cfr. 2 1 l a-b.

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d'animo del soggetto che apprende l'oggetto in quel modo. Aristotele nel riprendere la posizione platonica associa una certa immagine della rota­ zione con il modello di Platone, credendo che i l modello stesso ponga il Nous come un'entità spazialmente estesa161• Questo modo di presentare la particolare visione sembra destinato a fallire, dal momento che il modello platonico non fa altro che accostare un'attività ad un'altra: esso collega una particolare attività della mente ad un tipo di movimento nello spazio, un movimento che qualche corpo, può a volte compiere. Tale paragone tra attività e attività non richiede che i rispettivi agenti (o attori) siano entità spazialmente estese, come Aristotele invece è convinto che siano. Attraverso l'analisi che Aristotele sviluppa, egli vuoi far rilevare come il movimento circolare non è idoneo ad esprimere la attività del Nous per­ ché tale rotazione è completamente diversa in certi aspetti dalla natura del pensiero162• Questa parte della sua analisi sembra poggi su due assun­ zioni, entrambe fuorvianti secondo me per interpretare il modello plato­ nico; da un lato Aristotele considera l'analogia del modello per il contatto della mente con il suo oggetto, come vero incontro (scontro) tangenziale in cui determinati punti o segmenti della circonferenza ruotante abbiano un vero contatto con l'oggetto contemplato. Infatti l'analogia del modello, come abbiamo visto, è la rotazione, il suo procedere "intorno" al proprio asse di rotazione, il suo procedere "intorno al centro del cerchio". D'altro lato pensa all'attività rotatoria del modello platonico nel senso del com­ pimento, immaginando la rotazione come il percorrimento di un sentiero circolare. Ma l'appropriato senso della rotazione sta piuttosto nell'attività nella quale l'intero cerchio ruota nella sua totalità, intorno al suo centro. Letto in questo senso, il modello platonico può presentarsi libero dalle critiche che gli rivolge Aristotele.

1 '>� De A nima I. 3 -407a2-bl l . 1 ''2 De Anima 1.3-407a6- 1 9,a22-b5.

Interpreti rnedioplatonici del pensiero educativo filosofico di Platone

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CAPITOLO QUARTO

La teoria delle Idee come "metodologia" filosofica

Status quaestionis

Nella letteratura ottocentesca su Platone la presenza della teoria delle Idee nelle Leggi appare spesso disconosciuta o trascurata, quasi si trat­ tasse di un elemento isolabile dal contesto del pensiero platonico o di un'espressione meramente tecnica del linguaggio filosofico. Ciò si riscon­ tra sia nell'interpretazione sistematico-storica di derivazione schleierma­ cheriana prospettata da F. Ueberweg163, sia in quella naturalistico-gene­ tica di S. Ribbing16\ ed anche nell'interpretazione storico-critica di G. Grote165 e di C. Ritter166• Ad un analogo criterio riduttivo si attengono anche E. Zeller167 e F. Susemihl168, che tuttavia leggono il passo 965c dei Nomoi come una chiara allusione alla dottrina delle Idee enunciata nella Repubblica. Una diversa interpretazione è invece offerta da J. Jackson, che considera la teoria delle ldee169 nell'ultimo periodo plato1 63 F. U EBERW EG, Untersuchungen uber die Echtheit und Zeitfolge der plato­

nischen Schriflten, Wien 1 866. 164 S. RIBBING, Genetische Darstellung der platonischen Jdeenlehre, Leipzig 1 863-64. 165 G. GROTE, Plato and the other Companions of Socrates, London 1 866. 1 66 C. RITTER, Untersuchungen iiber Plato, Stuttgart 1 888. 1 67 E. ZELLER, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwick­ lung, Leipzig 1 922; P. Il. vol. III/2, trad. it. E. Zel ler-R. Mondolfo, Lafìlosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, a cura di M. Isnardi Parente, Firenze 1 974, p. 772. 168 F. SUSEMIHL, Die genetische Entwicklung der platonischen Philosophie, Leip­ zig 1 855- 1 860. 169 J. JACKSON, Plato 's Later Theory of Jdeas, in «Journa1 of Philosophy», 1 8 82- 1 8 85.

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nico (anche se non menziona in particolare le Leggi) come un puro prin­ cipio e schema logico e da M. Lutoslawski 170, secondo il quale le Idee nelle Leggi sono nozioni perfette dei "puri generi logici" di cui il passo 965c sarebbe l'esemplificazione più netta. Mentre L. Campbell persiste nel non riconoscere nelle Leggi tracce del­ l'Idea come oggetto di conoscenza, ma soltanto frequenti indicazioni del metodo della diairesis esposto nel Sofista171, la prospettiva del Lutoslawski trova consensi in M. Tannery172 e soprattutto nella presentazione critica di M.G. Lyon 173, il quale, pur formulando qualche riserva sull'interpre­ tazione di Lutoslawski, riconosce che, se lo studioso polacco ha v isto giusto, egl i avrebbe compiuto soprattutto una rivoluzione nell'interpre­ tazione del platonismo, presentando l 'ultima fase del pensiero di Platone come una sorta di "concettualismo obiettivo" che rinascerà nel criticismo moderno. Ancora nell'interpretazione di R. Schaerer174 la dottrina delle Idee sembra attutirsi nell'ultima opera platonica. A suo vedere nelle Leggi Platone, quantunque non spieghi le ragioni del suo silenzio circa tale dot­ trina, continua a giudicare futili le cose umane, di modo che l'importanza del punto di vista iniziale non è cambiata e la dialettica non ha perduto il suo valore allusivo. Più recentemente troviamo sulla scia del Lutoslawski e del Jackson la lettura di P. Kucharski175, diretta a lumeggiare la profonda trasformazione teorica del tardo Platone, in base alla quale le Idee o Forme, specialmente nelle Leggi, sarebbero da riguardare a guisa di "atomi logici" gravitanti intorno al metodo della divisione e della comprensione, caratte­ rizzato dalla molteplicità e dalla diversità. In un'atmosfera di astratta gene­ ralità si muove invece la teoria delle Idee per M. Vanhoutte176• 1 70 M. LUTOSLAWSKI, The Origin and Growth ofPlato s Logik, London 1 897. 1 7 1 L. CAMPBELL, The Sophistes and the Politicus ofPlato, Oxford 1 897. 1 72 M. TANNERY, Exégèse platonicienne, in «Revue phi losophique)), 1 898, p. 1 9. 1 73 M.G. LYON, i n «Revue de synthèse historique)), 1 903. 1 74 R. SCHAERER, La question platonicienne, Paris 1 969, pp. 78-80. 1 75 P. KUCHARSKI, Les chemins du savoir dans /es derniers dialogues de Platon, Paris 1 949, pp. 1 1 -54, e cfr. P. KUCHARSKI, Aspects de la spéculation platonici­ enne, Paris 1 97 1 . 1 76 M. VANHOUTTE, La philosophie politique de Platon dans /es «Lois», Paris 1 954.

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I n opposizione a questi vari approcci critici si è fatta strada nel nostro secolo una corrente interpretativa che riconosce la continuità del pensiero platonico e ritrova la dottrina delle Idee in forma immu­ tata nelle Leggi, precisamente. nei passi 8 1 8a-d, 897d, 904a, 965c, 967d. Il primo rappresentante di questo orientamento è V. Brochard177 il quale, escludendo completamente l'intento platonico di sostituire la teoria delle Idee, ne sottolinea invece la continua presenza, ancora e soprattutto nelle Leggi. Analogamente T. H .. Gomperz178 considera le Leggi nello sfondo della teoria delle Idee, e lo Stefanini179 vede costan­ temente applicata nei Nomoi la legge del «paradigma>>180 cui il legi­ slatore cerca di attenersi. Dal canto suo P. Shorey181 trova nelle Leggi frequenti allusioni all'idea dei dialoghi dialettici; e non diversamente interpreta A. Diès182 quando sottolinea che la realtà intelligibi le delle Forme nell'ultimo dialogo platonico corrisponde al concetto stesso di divino. Questa posizione viene seguita da P. FriedHinder183 mentre W. Jaeger184 riconosce che la stessa teoria delle Idee della Repubblica è accennata alla fi ne delle Leggi e utilizzata per la formazione dei legislatori . All'interpretazione j aegeriana si ispira con complessità di motivazioni H. Cherniss18S, ammettendo che la problematica delle 1 77 V. BROCHARD, La théorie des idées dans !es Lois de Platon in «Année Philos­ ophique>>, 1 902, pp. 1 - 1 7, ripubblicato in Études de philosophie ancienne et de phi­ losophie moderne, Paris 1 974, pp. 1 5 1 - 1 68. 1 7R

T. H . GOMPERZ, Pensatori greci, vol. III, trad. it. di L. Bandini, Firenze 1 952, pp. 274-275. 179 L. STEFANINI, Platone, vol . Il, Padova 1 949, pp. 3 1 5-3 1 6 . IRO In proposito cfr. V. GOLDSCHMIDT, Questions platoniciennes, Paris 1 970, pp. 80- 1 02. ! H l P. SHOREY, Plato s Laws and the Unity of Plato s Thought, in «Classica! Phi­ lology», 9, 1 9 1 4, p. 345 e sgg. 1 H 2 A. DI È S, A utour de Platon, Paris 1 927, p. 530 e sgg.; Notice dell'edizione «Les Belles Lettres» delle Leggi, Paris 1 95 1 , p. XCI. I HJ P. FRIEDL À NDER, Platon, III: Die platonischen Scrfften. Zweite und Dritte Periode, Berlin 1 960, pp. 409-4 1 1 . 1 H4 W. JAEGER, Paideia, vol. III, trad. it. di A. Setti, Firenze 1 959, p. 372. IRS H. CH ERN ISS, Aristotles s Criticism of Plato and the Academy, Baltimora 1 942. .

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Idee è implicita nell'intero pensiero platonico; ciò egli ribadisce nella recensione al lavoro di G. Miil ler186, che nega la presenza della dot­ trina del le Idee nella tarda opera di P latone ed i n essa scorge sol­ tanto un'astronomia ed un metodo i cui oggetti sono meri concetti 187• I l Gorgeman n s188, invece, nel riconoscere i l tono sommessamente filosofico dell'opera, dato i l carattere "popolare" di essa, riafferma la fedeltà di Platone alla dottrina delle Idee, soprattutto nel X libro delle Leggi, dove la dottrina è solamente implicita, e tanto più nel libro XII a proposito della discussione della più alta educazione per i reggitori dello Stato. In una posizione intermedia tra quella che esclude la presenza della teoria delle Idee nelle Leggi e quella che in quest'opera ne vede la tra­ sformazione, si pone E. Des Places189, che prospetta una comprensione del pensiero platonico al fine di accogliere motivi nuovi senza volerli sostituire agl i antichi. Legato a posizioni aristoteliche appare invece N. Gulley190, quando interpreta le posizioni dottrinarie del tardo Platone come il risultato dell'abbandono di valori metafisici nella pur evidente metodologia dialettica delle Leggi. Fuori da queste dispute interpretative è per contro la scuola di Oxford, dal Burnet191 al Taylor192, che consi­ derano la dottrina delle Idee come eredità essenzialmente socratica e le Leggi come la realizzazione di una prospettiva psicologico-cosmologica di Platone.

1 86 Recensione di H. CHERNISS al lavoro di G.

MÙLLER, Studien zu den platonischen Nomoi, Munchen 1 95 1 , in «Gnomom>, 1 953, pp. 367-379. 187 G. M Ù L L E R , Studien zu den platonischen Nomoi, Mlinchen 1 96 8 , pp 1 9 1 -2 1 0. 188 H . GORGEMANNS, Beitrage zur Interpretation von Platons Nomoi, Mlinchen 1 960, p. l 00 e sgg. 189 E. DES PLACES, Les derniers dialogues de Platon et la théorie des idées, in «Antiquité Classique», 1 95 1 , pp. 1 43- 1 48 . 190 N . GULLEY, Plato s theory ofKnowledge, London 1 973, pp. 1 72- 1 73 . 1 9 1 J. BURNET, Greek Philosophy, 1 : Thales to Plato, London 1 9 1 4; Platonism, Berkeley 1 92 8 . 192 A.E. TAYLOR, Platone, l 'uomo e l 'opera, trad. i l . d i M . Corsi, Firenze 1 968.

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Le interpretazioni di V Brochard e di P. Kucharski

Da questo generale quadro interpretativo scegliamo, per un'analisi puntuale, due modelli di ricerche dai quali l 'esegesi ulteriore è partita: i lavori di V. Brochard e di P. Kucharski. Il Brochard si oppone in par­ ticolare alla l inea critica del W. Lutoslawski193• Questi riconosceva una trasformazione nel pensiero di Platone riguardo alla teoria delle Idee, nel senso che, mentre nel primo Platone le Idee costituivano realtà oggettive, vere sostanze, opposte alla soggettività delle apparenze, tanto da sem­ brare quasi una sorta di intuizioni in una visione statica19\ successiva­ mente, dopo i l Teeteto e il Parmenide, avrebbe avuto luogo un arricchi­ mento e una trasformazione nella concezione platonica della conoscenza e della realtà. Nell'ultima fase del platonismo la nozione di anima viene ad occupare il posto dominante ed acquista tale importanza da potersi affermare che non si è più alla presenza di un «sistema di idee, ma di anime>>195• Questo nuovo punto di vista antologico di Platone comporta, secondo il Lutoslawski, una revisione della stessa teoria delle Idee; le idee cessano di essere realtà oggettive, mentre trovano sede nelle anime; sono d'altronde eterne ed incancellabili, perché Dio ha creato nel suo pro­ prio pensiero gli archetipi, ed esse sono vere e proprie nozioni ideali, in senso leibnizilano e kantiano. Da parte sua i l Brochard osserva come nelle Leggi non vi sia luogo in cui non si possa riconoscere una menzione formale o concreta della primitiva teoria delle Idee, intese come esseri in sé 'esistenti o trascendenti, e nega che Platone sostituisca alla problema­ tica delle Idee una teoria concettualistica di tipo moderno. I testi citati dal Lutoslawski per sostenere la propria tesi non appaiono al Brochard deci­ sivi. Così, un passo del Timeo utilizzato dal Lutoslawski è ridiscusso dal Brochard per escludere che il perilept6n designi qui l'essere compreso o fissato in un pensiero e per sostenere che, al contrario, esso designa l'es­ sere esistente in sé o separato proprio in quanto può essere compreso dal pensiero umano. Sono temi, per il Brochard, che si ritrovano nel VI e VII libro della Repubblica: come credere, allora, che l'espressione l'es1 93 W. LUTOSLAWSKI, Op. cit., p. 492. 1 94 lvi, p. 524. 195 lvi, p. 523.

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sere, ghenesin uc echon, e tante altre simili designino i "pensieri" e non le "Idee", nel senso che Platone usa dare a questi termini nel Fedone e nella Repubblica? Proprio nel Timeo, secondo Brochard, i l Lutoslawski sembra confondere in una sola due interpretazioni indipendenti, quella secondo cui le Idee platoniche sarebbero nozioni formate per l'intendi­ mento umano nella mente di Dio e quella che invece la riconosce in noi stessi196• Non è errato dire che Platone alla fine della sua vita ha abban­ donato la teoria delle Idee se si adotta appunto la prima interpretazione, cioè se si considerano le Idee non come enti separati, ma come semplici nozioni umane. Dire che le Idee platoniche sono pensieri di Dio, modelli eterni e immutabili su cui il mondo è stato formato, non significa rinun­ ciare alla dottrina del Fedone e della Repubblica. Le due interpretazioni fornite dal Lutoslawski non si conciliano, secondo il critico francese, con la tesi che suppone l'abbandono da parte di Platone della dottrina da lui sostenuta con tanto vigore all'epoca della propria maturità. Il problema è mal posto. Non vi è nessun passo in Platone che autorizzi ad interpretare le Idee come pensieri di Dio. Un solo punto occorre tener fermo, cioè che le Idee e soprattutto l'idea del Bene, che domina su tutte le altre, sono enti veramenti esistenti e trascendenti. Nonostante il suo deciso rifiuto dell'interpretazione del Lutoslawski, il Brochard riconosce una parte di verità alla esagerazione dello stu­ dioso polacco, che vede in Platone il fondatore della logica. Questa par­ ziale verità sta nel fatto che la dottrina platonica della partecipazione, mostrando le Idee in rapporto tra loro, come le lettere dell'alfabeto, ha fondato la teoria del giudizio, mostrando, contrariamente ai Megarici, la possibilità di affermare un predicato di un soggetto. In questo senso Platone ha contribuito ad elaborare, secondo il Brochard, una parte importante della logica, poi definitivamente costruita da Aristotele. Ciò premesso, occorre notare che il tono popolare delle Leggi, rico­ nosciuto da entrambi gli studiosi, spiega per il Brochard la mancanza di uno sviluppo delle grandi teorie filosofiche di Platone nell'ultimo dialogo. Nelle Leggi il filosofo si occupa principalmente del problema politico e traccia il piano di uno Stato di cui crede possibile la realizzazione e in cui domina il paradeigma, il modello eterno. Il modello teorico costituisce 196 Timaeus, 27d. 28a.

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anzi lo sfondo di ogni esposizione filosofica dell'opera. Nel lungo passo 668c, relativo alla musica, si nota che questa è presentata come un'imita­ zione, un'immagine di qualcosa che bisogna definire, di cui bisogna spe­ cificare l'essenza197• Nel seguito del testo si opera una distinzione tra la conoscenza del filosofo quella che è sufficiente al poeta e all'artista. Per ben giudicare una copia in rapporto al suo modello occorre rispettare tre condizioni: «conoscere prima che cosa è la cosa rappresentata, poi come essa è nella sua perfezione relativamente all'imitazione, i nfine in quale misura una qualsiasi immagine fatta con le parole, le melodie o i ritmi sia ben fatta>>198• Il poeta non ha bisogno di soddisfare che la terza condi­ zione, il legislatore bene istruito deve riconoscerle tutte e tre. Lo stesso punto di vista si ritrova un po' più lontano, quando Platone, dopo avere sottolineato secondo i l suo metodo abituale che è difficile abbracciare sotto una sola idea i differenti oggetti della legislazione, cerca di determi­ nare qualche punto stabile a cui rifarsi199• La distinzione che segue tra la medicina empirica e quella che procede scientificamente, la necessità del legislatore di giustificare razionalmente le leggi perché esse siano poi vei­ colo di persuasione, e molti altri passi simili, si rifanno continuamente, secondo Brochard, a questa scienza che Platone non perde mai di vista e che ha per oggetto le vere realtà, vale a dire le Idee. Nello stesso senso il critico francese ritrova un'allusione alla teoria delle Idee nel passo in cui Platone riprendendo la celebre teoria esposta nel Convito, spiega la gene­ razione e il matrimonio con il desiderio naturale di ogni essere vivente di partecipare dell'immortalità. Le stesse espressioni di cui Platone si serve attestano fino all'evidenza che, per quanto diverse possano essere le applicazioni, egli rimane sempre ancorato agli stessi principi. 197 Dottrina che il Brochard riporta alla Repubblica e che certamente non può essere intesa come la formulazione di un puro concetto o di un genere logico. 19R Leges II, 669b. 1 99 «[ . . . ] Ma, direte, in quale formulazione generale si possono ritrovare enunciate anche siffatte cose? Il fatto è che non è assolutamente facile ridurre ad un' uni­ tà e dirle come se appartenessero ad un solo modello, ma cerchiamo d' altra parte di comprenderle tutte i n qualche modo così, se ci sarà possibile fis sare un qual­ che punto sicuro su di esse)) (Leges IV, 7 1 8c ). (La traduzione dei passi dei dialo­ ghi platonici è presa dall 'edizione laterziana: PLATONE, Opere, voli. I e II, Bari 1 967).

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Un esempio ulteriore può essere trovato in un importante passo del libro IX delle Leggi, nel quale Platone dimostra come il legislatore per essere degno del suo nome debba essere capace di «collegare le con­ seguenze ai principi ed elevarsi alle verità prime>>200 e di parlare della «giustizia in sé))201 • Questo testo, osserva il Brochard, non ci permette di dubitare che qui non si tratti della giustizia in sé, vale a dire dell'idea di giustizia. Platone infatti ci dice che alcune azioni partecipano del "giu­ sto"; e i termini usati sono quelli di cui egli si serve quando vuoi riferirsi alla teoria delle Idee. Vi è infine un testo, decisivo secondo il Brochard, il cui vero significato non può essere colto se non riallacciandosi alla teoria in questione. Esso consta di due parti, l'una alla fine del VII libro e l'altra alla fine del XII. Nella prima Platone ci indica l'educazione che bisogna impartire agli uomini liberi, le scienze alle quali bisogna i niziarli, per i fini puramente pratici del vivere quotidiano. Nel la seconda, invece, fa presente come questo tipo di educazione sia insufficfente per l 'élite dello Stato, cioè per coloro che sono capaci di governare; ad essi è necessaria un'educazione più raffinatae approfondita, che ha per oggetto la scienza che si preoccupa di riunire la plural ità sotto una sola «idea))202• In tal modo Platone riconosce, come nella Repubblica, la necessità sul piano educativo di una scienza piu alta perché avvenga la formazione dei futuri reggitori dello Stato203 • Tale rimando ad una realtà superiore ricompare in un passo assai significativo del libro XII, dove al di là dello stesso con­ cetto di anima, inteso come unico principio del divenire e dell'esistenza degli dei, della loro provvidenza e della loro incorruttibilità, è affermata l'esistenza di un principio assoluto al di sopra di tutto, concepito come la ragione stessa delle cose204 • Questa concezione unitaristica e trascendentista della dottrina delle Idee incontra però nel Kucharski severe critiche205, proprio perché essa si basa su una nozione vaga del termine "idea" e della relativa teoria. Il 200 Leges IX, 859d. 20 1 Ibidem. 202 Leges XII, 965b. 203 Leges XII, 968b. 204 Leges XII, 967d. 205 P. KUCHARSKI, Les chemins du savoir, cit.

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Brochard non si domanda, nota Kucharski, come questa teoria sia com­ posta, da quali termini sia designata, né si preoccupa di precisare se questi termini abbiano tutti lo stesso significato, la stessa funzione: non è sufficiente che essi si trovino in un testo perché si abb ia il diritto di concludere d i essere alla presenza della dottrina delle Idee. Anche se Brochard si oppone giustamente, secondo Kucharski, al Lutoslawski nel rifiutare l'interpretazione che fa delle Idee platoniche la base del sogget­ tivismo moderno, i suoi argomenti portano al falso quando egli si sforza di dimostrare che nelle Leggi ricompare la stessa teoria delle Idee che si trova nei dialoghi della maturità, proprio perché questa assimilazione si fonda su una nozione poco precisa di "idea" in generale. A questo riguardo il Lutoslawski, secondo Kucharski, osserva giustamente che nei dialoghi dialettici eidos e idea hanno lo stesso significato e desi­ gnano le specie naturali. La parola idea, per il Kucharski, nelle Leggi ha un senso particolare che si lascia rigorosamente definire: essa designa ciò che è comune e identico in una molteplicità di oggetti distinti, non legati all'unità dell'Idea dalla relazione di omonimia. I n tal modo l'intera dottrina delle Idee viene a cadere, secondo il Kucharski, dal piedistallo trascendente sul quale l'aveva posta i l Brochard ed è invece riconsiderata attraverso i modelli teorici derivanti e dal Sofista e dal Filebo206• Per il Kucharski la problematica delle Idee diventa nelle Leggi un metodo di ricerca che pone le basi per regole defi­ nite di conoscenza. Le leggi stesse saranno nel loro fondo norme di con­ dotta, modi veri di agire ispirati per la loro realizzazione a un metodo di divisione in specie e di chiarificazione delle specie stesse207. Ora, il fatto stesso che queste regole vi siano esposte raccomandate ed applicate è molto significativo. È l'utilizzazione di questo metodo ciò che mette in evidenza, secondo il Kucharski, la distanza tra le Leggi e la Repubblica; e si potrebbe supporre che è mancato a Platone uno strumento di ricerca perfezionato per abbordare per la seconda volta il problema dell'organiz206

Cfr. P. KUCHARSKI, Aspects de la spéculation platonicienne, cit., pp. 5 1 -72. P. KUCHARSKI, Les chemins du savoir, pp. 1 2-24. Per il Kucharski le divisioni e le classificazioni che si incontrano nelle Leggi non sono ben chiarite; tuttavia, ciò potrebbe essere un difetto in un'opera legislativa, non in un dialogo di Platone, ope­ ra innanzitutto filosofica e letteraria. 207

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zazione della Città. Infine bisogna rilevare una formula che interviene quando si tratta di mettere in luce e di notare le specie. A più riprese il testo dice che occorre sapere quali siano le specie, di quale natura e di quale numero esse siano. Si tratta di un dettaglio, che merita peraltro attenzione perché indica una continuità teoretica con il Filebo, soprattutto nei passaggi in cui la divisione e la numerazione sono trattate dal punto di vista dottrinale. L'intero procedimento è il metodo stesso di cui deve servirsi il legislatore; il quale, partendo dal concetto di virtù e nella sua integralità e nella sua fondamentale composizione, segue, nell'emanare le leggi, un procedimento "discendente", dove è posto in evidenza come la virtù, trovandosi sotto la direzione del nous, viene ad essere il princi­ pio e la fine della legislazione. Questo metodo consta di due momenti: il primo è costituito dalle nette definizioni che assumono le diverse specie di azioni corrispondenti a ciascuna virtù; il secondo è dato dal riconosci­ mento effettivo della classificazione che le leggi e le norme di condotta trovano nella virtù integrale208• L'applicabilità di questo metodo è affidata dal legislatore a veri guardiani dello Stato. E non si deve trascurare che verso la fine del dialogo, secondo quanto rileva il Kucharski, Platone si occupa del lato "ascendente" di questo procedimento, definendolo come la sintesi e riunione di specie diversamente denominate, e lo applica nella istituzione del Consiglio notturno209• Ora, se questo processo è possibile, vuoi dire che in tutte quelle specie esiste un fondo di identità, una stessa idea o natura o essenza generica, che si deve conoscere e definire. Tuttavia il Kucharski non manca di sot­ tolineare che in questo procedimento le essenze o le verità sono lontane dall'essere considerate, nelle Leggi, nelle loro relazioni immediate con le cose individuali. La ricerca si fonda, al contrario, sul la distinzione tra i nomi e le cose; pertanto, l 'idea o l 'oùsia non possono avere il significato che avevano nei dialoghi centrali. L'oùsia oggetto del logos non è più identica, all'oùsia presa come sinonimo di eidos il quale, oltre ad essere l'espressione del fondo identico di una molteplicità di oggetti distinti, ne è anche la comune denominazione. Nelle Leggi, invece, esso costituisce il fondo comune di una serie di oggetti distinti e diversamente denomi208 Leges I, 632e. 209 P. KUCHARSKI, Les chemins du savoir, pp. 25-32.

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nati. I n questo modo l'idea o lafiusis che è scoperta con la considera­ zione del diverso e del dissimile, vale a dire delle cose eteronime, non soltanto viene espressamente distinta dalla denominazione, ma addirit­ tura le è contrapposta210• La generica analisi del Brochard viene cosi sop­ piantata da una marcata interpretazione di carattere gnoseologico presso il Kucharski. I l quale, insistendo sui diversi significati di idea e eidos nei dialoghi della maturità e nelle Leggi, viene a sostenere, d'accordo col Lutoslawski, che nell'ultimo Platone le idee non sono se non nozione soggettive. La dialettica nelle Leggi

Secondo noi Platone nelle Leggi non si preoccupa né di enunciare la teoria delle Idee né tanto meno di dimostrarla. Essa diventa la stessa metodologia dell'opera, un modello operativo secondo il quale vengono interpretate la realtà umana e quella religiosa, preminenti oggetti di ana­ lisi del dialogo platonico211• Nel campo etico-religioso delle Leggi la teo­ ria delle idee si presenta o come l'ideale regolativo delle singole azioni umane o come l'intrinseca finalità che opera ali ' interno della realtà umana, essendone la legge la ragion di essere, mentre sul piano stret­ tamente logico del dialogo essa costituisce la lunga strada per ricono­ scere le nervature stesse della finalità. Nel riproporre la divisione puramente antologica del l 'anima dal corpo, nella quale l'anima21 2 diviene la causa paradigmatica del corpo, 2 1 0 lvi, pp. 56-57. 2 1 1 Cfr. E. SANDVOSS, Soteria. Philosophischen Grundlagen der platonischen Gesetzgebung, Gottingen 1 97 1 , pp. 335-34 1 . 2 1 2 L'anima umana è sì superiore al corpo, ma dal momento che vive con esso ne ha bisogno per realizzarsi (Leges V, 726a, 727a-728b ). Nelle Leggi si trovano, da un lato, chiari riferimenti all 'anima immortale o parte dell 'anima: « È necessario credere al le­ gislatore sempre, ed anche quando insegna che l'anima un'apparenza somigliante cia­ scuno di noi, e che bene si dice che i corpi dei morti sono soltanto immagini loro, ma che colui che è ciascuno di noi veramente ed è ciò che chiamiamo anima immortale se ne va da altri dèi a rendere conto di sé>> (Leges XII, 959b). Nelle Leggi non vi è nes­ sun esplicito riferimento ad una concezione tripartita dell 'anima, ma piuttosto ad una sua bipartizione, dove ancora una volta sono individuabili la «parte» razionale e quella

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Platone pone le basi per una lunga serie di distinzioni di piani di realtà aretè, nomos, theos concepita non come separazione, totale e i ncolma­ bile tra essi, ma come una ghenesis continua verso la realtà superiore. L'originaria separazione dell'anima dal corpo, scandita dalla fondamen­ tale tesi dell'esistenza per l'uomo di due generi di beni213, quasi una scala irrazionale. Alla prima, considerata da Platone come un elemento divino in noi, è affi­ data una funzione di controllo e di naturale supremazia: alla seconda, alla quale ven­ gono riportate tutte le facoltà di natura sensibile, è attribuita una funzione inferiore, ma di fondamentale importanza per la formazione deli 'uomo nella po/is (cfr. in proposito T.M. ROBINSON, Plato 's Psychology, Toronto 1 970, pp. 1 26- 1 27, e l 'aggiornamento dello ZELLER-MONDOLFO, vol. III/I, cit. , pp. 425-430. 21 3 «[ ... ] i beni sono di due specie: quelli umani e quelli divini. Dai divini dipendono gli umani, e se uno Stato possiede quelli, che sono maggiori, anche questi, i mi­ nori, possiede, e se no né quelli né questi. Fra i beni umani viene prima la salute e poi la bellezza e terza la forza di correre e di fare tutti gli altri movimenti del cor­ po, e quarto l ' essere ricchi di una ricchezza non cieca ma di vista acuta, quando cioè si accompagni ali ' intelligenza. Dei beni divini il primo è la fronesis, il secon­ do è la sofronpsiches procedente da questi fusi insieme con l 'andreia, il terzo è la dicaiusune, il quarto l' andreia Tutte queste cose divine sono state già ordinate e prepo­ ste ai beni mortali nella natura delle cose ... » (Leges I, 63 1 b-d). Lafronesis che ha una funzione preminente sugli altri beni e li comprende in sé tutti, esclusa l ' andreia fin dai dialoghi giovanili (Alcib. I, 1 33c; Crat. 4 1 1 a; Hipp. Min. 366a), come poi in quelli del­ la maturità (Meno 97a; Phaed. 65-a-d; Symp. 209a), esprime nella maggior parte dei casi «un pensiero puro» o «un'abilità di conoscere» su cui addirittura si cerca di pog­ giare un'etica che concepisce un'arte del vivere come ricerca di felicità nell'esperienza stessa del pensiero in quanto tale. Lo stesso RIST (Eros andpsyche. Studies in Plato, Plotinus, Origene, Toronto 1 964) a questo proposito, accogliendo la posizione dello HACKFORTH (Plato 's Phaedro, Cambridge 1 955, pp. 1 9 1 - 1 93), fa notare una certa sinonimia tra, fronesis e depistene tanto che il pensiero sarà la diretta neutralizzazio­ ne de li' esperienza del male, quasi una fuga da esso, o soltanto servirà da fondamento di alcune specifiche qualità morali. Questa accentuazione pratica dellafronesis ricor­ re anche nelle Leggi, dove, secondo noi, evoca da una, parte una saggezza di natura pratica fondata sull'organizzazione equilibrata dei diversi elementi della vita umana (Leges IV, 70ge-7 1 0a), dall'altra l 'esperienza di una intelligenza organizzatrice in sen­ so specificatamente noetico (Leges III, 688b: XII, 963a). Il secondo stadio di questo processo discensivo è dato dalla sophrosyne. Anch'essa mostra una certa instabilità di significato. Giustamente il FESTUGIÈRE (Contemplation et vie contemplative selon Platon, Paris 1 949, p. 389, n. 2) rileva che sia nella nozione di temperanza sia in quel­ la di saggezza viene a restringersi o a rendersi vaga la pregnanza semantica del termi-

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di valori nella vita quotidiana, si fa evidente proprio attraverso un pro­ ne greco: dal Carmide al Fedro il suo significato sembra oscillare fra la concettualizza­ zione di un disagio cosciente dei diversi piaceri, tanto da rassomigliare a un equilibrio psichico, e l' ideale filosofico più alto. Proprio le Leggi offrono invece il testo più chia­ ro e preciso concernente la sofrosiune. Qui Platone ne distingue due tipi: l'uno inferio­ re, indica una specie di equilibrio fondato su una sorta di aritmetica dei piaceri; l'altro è invece il potere di governare su se stesso, di vincere se stesso, instillato dall'educa­ zione in conformità con le leggi. L' interesse per l 'educazione dell'anima irrazionale e la convinzione che anche le passioni e i desideri, correttamente guidati, debbano avere un loro posto nella società, indirizzano Platone verso la sofrosiune. La virtù, per così dire, propria dell'epitiumeticon Ma l ' incisiva novità delle Leggi è il profondo orienta­ mento religioso che le pervade e le investe (cfr. Leges, IV, 7 1 6c - d). Se ne ha una pro­ va anche quando la sofriusune diventa quasi la guardiana dello Stato, là dove Platone dà il nome di Sophronisterion al riformatorio cui sono condannati i criminali colpevoli di empietà a causa di follia. I l terzo elemento che tocca la parte razionale dell'anima è la dicaiosiune. Anch'essa presenta varie individuazioni nelle opere platoniche. Nel­ la Repubblica il problema della dicaiusiune nell' individuo e nello Stato fonda e giu­ stifica tutte le altre virtù (Resp. II, 368e), tanto che essa diventa la virtù per eccellenza dell'anima (Resp. I, 355e). Questa nozione, già presente nel Fedone, tende a sostitui­ re l'originaria nozione di androsaretè (Protago, 324e325a). La dicaiusiune considera­ ta come l'aretè risulta allora la santità dell'anima. Così, nel IV libro della Repubblica (444d-e) la dicaiusiune viene elevata al rango di valore fondamentale, che il Carmide aveva tentato variamente di applicare alla sofrosiune per distinguerla dali 'areté. Nelle Leggi la Dicaiusiune, posta al terzo posto della scala dei valori dell' anima razionale, caratterizza infine lo stato di un'anima ben ordinata, in cui false emozioni implicano il rischio del disordine. Il fatto che essa sia accompagnata dall' andreia, sottende pro­ prio questo. L'ultimo scalino di questa naturale estrinsecazione della parte razionale dell'anima è costituito appunto dalla andreia. Già nella Repubblica (IV, 430b) / 'an­ dreia è provvisoriamente definita come il potere di preservare la giusta opinione in­ torno a ciò che è o non è da temere; ma altrove essa è spesso una qualità indipendente dalla ragione ostile ad essa. Infatti nella stessa Repubblica (Il, 375a) / 'andreia viene riferita ai cavalli, ai cani e agli altri animali. Si tratta comunque di un uso già respinto nel Lachete ( 1 97a), dal momento che gli animali non hanno nessuna parte di ragione. Callide, nel Gorgia, vede nell'andreia una dote che aiuti l 'uomo intelligente ad acqui­ stare un'illimitata indulgenza nei confronti di tutti i suoi desideri (49 l a-b). Ancora nel Gorgia (463a) il retore che pratica non un'arte, ma una forma di adulazione, è detto scaltro e coraggioso; nel Menone (88b) è concessa la possibilità che il coraggio possa essere qualche volta insensato. Ancora nella Repubblica (IV, 426d), mentre il corag­ gio ci viene presentato come una qualità che si addice agli uomini che sono pronti a servire i malati, oppure i governi che si trovano in cattivo stato, da un'altra parte risul-

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cesso dialettico, in cui il modello non perde mai il carattere proprio, vale a dire la sua priorità gerarchica, pur affondando le sue radici nelle atti­ vità vitali dell 'uomo. Esso si concretizza anzi in veri e specifici modi di essere più o meno legati al corpo o all'anima, tanto da costituire le parti stesse2 14 o la specie215, di un cammino verso lo sbocco costituito dal­ l'are/è nella quale si modella l'aspetto più autentico della natura umana, quello razionale, perché connesso a quell'attività dell'anima propria del nous che, in ragione di tutti gli atti nei quali un essere mortale si rea­ li zza, dai dolori ai desideri, come veri e distinti momenti di un lento porsi, configura l'aretè stessa, come unità totalizzante e assoluta nella sinfonia stessa delle molteplici posizioni. Nel momento in cui questa che chiameremmo dialettica antropologica si incarna nella struttura politica della polis, nasce una fenomenologia legislativa, che si uni forma da una parte alla struttura eidetica della antropologia, modellando su di essa la sua taxis216, il suo ordine e la sua compattezza, dall'altra a quelli che sono simboli di una legislazione ideale e divina. «Ogni legislatore - Platone scrive - anche se sia poco il suo valore, ma più di ogn i altro questo di qui che a noi procede da Zeus, dovrà sempre dare le sue leggi a nient'al­ tro mai guardando se non alla più alta virtù, che è (dice Teognide) pro­ prio l'unione fedele nei momenti più difficili e che si potrebbe chiamare anche la perfezione del giusto ... Dovevate dire ... quando si parla di uno Stato fatto da un dio, che cioè il dio tracciò le sue leggi e non guardò ad un solo aspetto della virtù e proprio al meno nobile; del la virtù aveva come sua meta il dio l'attuazione piena e unitaria e dovevate analizzare le leggi di quelli secondo ciascuno degli aspetti della legge e non que­ gli aspetti che prepongono alle loro ricerche di legge i legislatori degli uomini d'ora))217• Tutte le leggi e le regole di condotta dovranno confarta un mezzo di ascesa materiale per l 'uomo che, pur essendo ricco di tutto, sia privo del!' aretè riferimenti alla andreia sono reperibili nelle Leggi (1, 630ab; II, 66 1 a; l I l , 696b; XII, 963c), dove l' andreia è posta al quarto posto, forse per la disposizione che essa assume rispetto ali' ingiustizia e ali' arroganza (Leges Il, 66 1 d-e). 2 1 4 Leges I, 630e-63 1 a. 215 Leges I, 632e. 2 1 6 Leges I, 634a; V, 740a; IX, 859c. 2 1 7 Leges I, 630c-e.

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marsi a quella scala antropologica di valori e parteciparne. I beni umani dovranno essere subordinati a quelli divini, e quest'ultimi dovranno ispi­ rarsi ad un principio di razionalità: «ogni norma che egli impartirà ai suoi cittadini dovrà annunciarla in funzione di questi valori, e dire che, ovunque, i valori umani si ordinano ai divini e questi all'intelletto, che tutti li governa ... »218• Il legislatore deve essere in certo modo come un poeta, non nel senso di tenere «due linguaggi sopra una medesima cosa>>219 ma di fondarsi sulla conoscenza vera dell'oggetto e sul rispetto di tale conoscenza. Egli deve avere conosciuto220 l'einai di ciò che vuoi rappresentare, sia in ciò che è di ciascuno dei corpi imitati221 sia in ciò che è dell'essere imitato. In tale senso, se non vorrà errare nel suo giudizio dovrà innanzi tutto cono­ scere dell'opera ciò che essa è; l'ignorare la sua essenza, il suo fine, l'og­ getto di cui essa è veramente un'immagine, a stento potrà far conoscere la perfezione della realizzazione cui essa tende e il suo fallimento222• I l compito pertanto, non facile, dei legislatori è d i presentare la loro formu­ lazione legislativa sotto l'aspetto dell'unità e di proporla come se appar­ tenesse ad un solo ed unico modello223• Essi saranno aiutati in questo loro sforzo da un vero organo di compilazione legislativo (i nomophylakes), tenuto insieme come un tutto dai legami del nous, nella sua circolarità e impersonalità224, ed ispirato non dall'ambizione o dalla ricchezza, ma Leges l, 63 1 d. Questi, nei dialoghi giovanili (Alcib. l, 1 1 8d- 1 1 9a; Lach. 1 79c-d; Protag. 3 1 9a 320a; Meno 92e-96c ), era l 'espressione più concreta e reale de li' aneragathos come Temistocle, Pericle, C imone. Mentre nella Repubblica la loro umanità era vista in ragione della loro educazione filosofica (Il, 374e) e nel Politico (297de) invece era messa in rapporto a quella del possessore difronesis a cui tutto è permesso, nelle Leggi i legislatori da una parte devono ubbidire alla legge, data la loro natura insta­ bile (IX, 875a), venendo con ciò a superare la distinzione tra uomo reale e uomo ideale, dall 'altra risultano talvolta sostituiti da legislatori mitici nei quali si realizza piena identificazione tra ciò che essi sono e ciò che essi fanno. 220 Leges IV, 7 1 9cd. 221 Leges li, 668c. 222 Leges li, 668de. m Leges IV, 7 1 8c. 224 Leges X, 898ab. m

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dalla giustizia e dalla temperanza, nel costante lavoro di distinzione tra ciò che viene dalla ortedoxa e ciò che ha origine dal nous stesso225, per completare lo schema lasciato dai legislatori226• Il punto di partenza della loro attività legislativa è appunto l'unità assoluta e mai una delle parti o specie in cui essa si presenta. È un metodo operativo, questo dei nomophylakes abbastanza genera­ lizzato. Anche nel momento in cui si cerca di discutere sulla definizione della bellezza e della giustizia in generale, ci si rifà alla loro totalità e non al giusto e al bello nelle loro singole distinzioni. Questi sono soltanto i momenti di un processo unitario227• Così alle parti di quella totalità i nomophylakes, con una semplice funzione tecnica di verifica, dovranno collegare le s i ngole azioni umane con le varie norme legislative, pun­ tualizzando il loro esercizio nel comprendere il significato esatto della coesione azione-norma, in questo modo, rompendo del tutto l'interro­ gativo posto nella Repubblica218 circa la possibilità o meno che l'esecu­ zione di una cosa corrisponda perfettamente alla sua formulazione ver­ bale, si instaura il principio per cui si deve distinguere una ratio continua­ mente operante in una vasta materia, come quella giuridica, nella quale si sottendono costantemente generi e classi. «Bisogna affermare - dice il testo delle Leggi che sono di due specie questi omicidi, come appare, e ambedue avvenuti per ira, direi, e con la massima correttezza si potrebbe dire che stanno in mezzo fra il volontario e l'involontario, intesi que­ sti come generi delle cose. E se non si può dire così, tuttavia ciascuna delle due specie è immagine dell'uno o dell'altro genere>>229. Pertanto il nomos230 la cui unica verità è data dalla sua necessità e dalla sua intrin-

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Leges I, 632c. Leges VI, 770b. 227 Leges IX, 859c. m Resp. IV, 437d. 229 Leges IX, 867a. 2 30 Platone connette la parola nomos con il termine nous (Crat. 43 4a), implicando un profondo significato. La derivazione dei due termini non deve comunque con­ durci ad affermare con assoluta sicurezza la «piena immanentizzazione dell' intelle­ gibile» (cfr. M. ISNARDI PARENTE, op. cit., pp. 772-775). Già F. DUMMLER, Prolegomena zu Platons Staat und der platonische und aristotelische Staat­ slehre. Base) 1 89 1 , pp. 1 50-222), credendo di trovare una derivazione presocratica 226

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seca razionalità231 - non dovrà essere più un modello che debba ispirarsi nell ' identificazione platonica dei due termini, vedeva nelle Leggi la concezione di un' universale legge cosmica. Sulla scia di questa interpretazione si pone F. SOL­ MSEN (Plato 's Theo/ogy, Ithaca 1 94 1 , p. 1 63), che, imperniando la sua analisi sul concetto di anima cosmica come «una nuova fi losofia dell'anima» proposta dalle Leggi, intende che su di essa poggi il concetto stesso di «legge naturale». L 'anima, considerata dal Solmsen come ordinatrice ed intelligente, diviene in J.P. MAGUI­ RE (Plato 's Theory of Natura! Law, in «Yale Classica! StudieS)), 1 94 7, pp. 1 5 1 1 70) intell igenza demiurgica, quasi il garante di una legge universale che investe il «tuttm). Un' analoga prospettiva aveva già assunto R. MONDOLFO (Problemi del pensiero antico, Bologna 1 936), mostrando come in Platone, per un ' ispirazione presocratica, vengano a fondersi mondo fisico e mondo etico in virtù di una «legge cosmica)); una prospettiva, questa, che troviamo anche in W. JAEGER (Praise of Law. The origin of legai Philosophy and the Greeks, in lnterpretation of Modern Legai Philosophies, New York 1 947, pp. 352-3 75). La spaccatura tra nomus efiu­ sis che lo Jaeger aveva colto nei Sofisti è talmente accentuata da G . R. MORROW (Plato and the Law ofNature, in Essays Sabine, Ithaca 1 948, pp. 1 7-44), da negare completamente la possibilità di una formulazione del la «legge di natura)) prima di Platone. Il nomos che Platone considera nella sua ultima opera non è la legge della physis, ma piuttosto, come voleva il Solmsen, la legge dell'anima cosmica, la qua­ le è nella sua più profonda essenza. Nella sua successiva opera il MORROW (Pia­ lo 's Cretan City: a historical interpretation of the Laws, Princeton 1 960, p. 560 e sgg.) sosterrà che l 'aspetto divino del nomos è applicato sia alla legge cosmica sia a quella scritta. Successivamente M. GIGANTE (Nomos basileus, Napoli 1 956, p. 253), partendo da un'analisi storico-critica del concetto difiusis, chiarisce come la frattura sofistica tra nomos e fiusis venga da Platone superata con l'accentuazione nella physis di una legge universale, e del nous che la governa. Al di fuori di ogni concetto di trascendenza si pone G. M Ù LLER (op. cit., pp. 84 e sgg.) che, ritro­ vando nel cosmo delle Leggi un tutto perfetto e divino, giunge alla piena identifi­ cazione del nomos con il nous e, seguendo J. WILD (Plato 's Modern Enemies and the Theory o.fNatura! Law, Chicago 1 953, p. 1 34 e sgg.), giunge alla concezione di un ordine razionale immanente nel cosmo, continuamente presente nella stessa legge positiva. 2 3 1 Nelle Leggi il nomos appare necessario agli uomini per due ragioni: anzitutto perché le singole volontà degli individui non sono idonee a riconoscere ciò che è mi­ gliore per la vita sociale; in secondo luogo perché, quand'anche tale riconoscimento fosse ottenuto, essi non sarebbero disposti ad accettarlo. Noi abbiamo bisogno del­ la legge innanzitutto perché il nostro bene non venga ad irrigidirsi e cristallizzarsi. Il bene che dobbiamo cercare è un bene comune; e proprio perché è tale, esso deve legarci in una società che abbia un fine comune, prendendo parte al quale soltanto

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ad altre leggi, ma l'insieme delle misure legislative nate da un esemplare che affondi le sue radici nella multiformità dei casi che la realtà impone. La possibilità di procedere in questo modo deriva ai nomophylakes pro­ prio da quella proficua paideia al «modello cui si dovrebbe guardare per apprendere certe cose ed evitarne altre»232, ricevuta sin dall'infanzia e sempre presente attraverso i vari gradi del la paideia stessa (come la danza e la musica) fino alle scienze matematiche233; delle quali sono dati alla massa soltanto i rudimenti, mentre ai pochi viene fornita una cono­ scenza ngorosa. In merito a questa operazione critica di verifica, di analisi, di model­ lamento su una realtà superiore, la funzione del Consiglio Notturno234 è particolarmente indicativa. Come l'arte militare e la medicina hanno un fine235 ben preciso, che è per la prima la vittoria e per la seconda la sanità, similmente le leggi e lo Stato non possono essere conservati se non esiste nella società un organo che abbia una conoscenza chiara del fine legislativo e possegga un en al quale riferirsi continuamente come a una reale esistenza. Di tale en l 'aretè è ancora una volta l'espressione esemplare236, non nelle sue molteplici articolazioni, ma nella sua unità, potremo ottenere il bene dalla nostra propria vita (Leges IX, 875b). Ma l ' insistere, come nella Repubblica, sul valore preminente della «intera società» non comporta per se stesso che l ' individuo le sia subordinato. Il bene della società viene prima di quello dell' individuo, ma ciò non vuole indicare la repressione del bene individua­ le. Il bene del tutto porta con sé necessariamente il bene della parte : «anche tu, mi­ sero, sei una di queste e la parte che tu rappresenti sempre mira e tende al tutto, an­ che se infinitamente piccola, e su ciò a te sfugge che ogni nascere di vita avviene per questo, c cioè affinché nella vita del tutto sia presente un essere della felic ità, e non per te viene ad essere quella generazione, ma per il tutto, e infatti ogni medico, ogni esperto artigiano compie ogni sua opera in funzione della totalità e, teso verso ciò che è il piu gran bene comune, elabora la parte in funzione del tutto e non il tutto in funzione della parte. E tu ti adiri perché ignori in qual modo ciò che ti accade risulta il maggior bene per il tutto ed anche per te, e lo è per la forza della generazione co­ mune» (Leges X, 903cd). 23 2 Leges VII, 8 1 1 be. m Leges VII, 8 1 8d. 234 Leges XII, 96 1 a. 235 Leges XII, 962a. 23 6 Leges XII, 963c; 965d.

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cioè come idea unitaria che accomuni ciò che è costante e simile nelle infinite variazioni del molteplice, come una verità che le leghi e le uni­ sca e verso la quale sia continuamente fissato lo sguardo dell'anima237 nell'individuare l'unitaria.fiusis di ciò che è disseminato «in più luoghi in modi molteplici>>238: una realtà dunque, che come una presenza costi­ tuisce intrinsecamente lo schema dinamico, la direzione, il senso e la ragione di tutto ciò che diviene. Allo stesso modo, sul piano fisico-cosmologico del dialogo, l'anima presentandosi come forza di movimento spontaneo diviene il principio della stessa realtà del mondo fisico, che ancora una volta si svolge239, pro­ prio attraverso le classificazioni gerarchiche dei vari movimenti, momenti anch'essi di un procedimento dialettico fisico-cosmologico, attraverso il quale l'anima attua nell'immutabilità e nella costanza del suo moto (come lo stesso nous che si muove240) la razionalità e finalità intrinseca alla sua essenza, causa dell'essere dell'intero kosmos. Non diversamente i luoghi i ntorno alla teologia rispecchiano nelle Leggi i caratteri e i principi di un puro mondo eidetico che il filosofo a mano a mano ha enucleato nell'evoluzione del proprio pensiero24 1, e che Leges IV, 705. Apoblepein è l ' espressione costante nei dialoghi per descrive­ re e l'attività creatrice che si ispira ad un modello e l'attività cognitiva che giudica in rapporto ad un modello: cfr. Eutiph. 6e; Meno 72c; Crat. 3 89a; Resp. VI, 484c; Timaeus 28a. m Leges XII, 945d. 219 Leges X, 894ab. 240 Leges X, 898ab. 24 1 La prima determinazione positiva della natura divina è da ascrivere alla sua in­ trinseca bontà enunciata nell 'Euttfrone (noi non abbiamo alcun bene che non ci pro­ venga dagli dei, 15a), viene perseguita quasi come un commento nella Repubblica (Il, 379bc), dove il dio - presentandosi come escludere da sé ogni possibilità nega­ tiva, come netta diversità dall 'agathon, ovvero come qualcosa di nocivo e ingan­ nevole per gli uomini. In tale esclusività lajiusis del theos sovrabbondante di ogni positività, viene ad. essere la «causa» continuamente dinamica di ciò che è solo il hcne per gli uomini, mentre il contrario di esso è da «cercare in altre cose, quali che siano, ma non nel dio». Esso sarà il solo generatore di ciò che spetta agli uomini in netta «minor misura»; e in tal senso in Platone la concezione del dio «causa di tutto» (c non solamente del bene) scompare, mentre viene accettata la posizione pindarica ( 0/im. l, 35), in contrasto con quella eschilea e sofoclea ( Treh. 1 277-78), secondo m

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nell'ultima sua opera egli chiama in causa per la dimostrazione di tre tesi fondamentali: l'esistenza degli dei, il loro interessamento alla sorte degli uomini, e la impossibilità per gli uomini di corromperli. Queste tesi si sviluppano attraverso una dialettica nella quale si manifesta la fina­ lità non tanto dell'essere così piuttosto che altrimenti, quanto dell'essere assolutamente, come infinità e inesauribilità di perfezione reale, come la preferibilità dell'essere in sé e infinito sia rispetto al nulla sia rispetto all'essere parziale: il perché e il come del divenire stesso nella sua tota­ lità di significato. In tal modo l'intero svolgimento dialettico nelle Leggi, diramandosi su tre piani, quello antropologico-legislativo, quello fisico­ cosmologico e quello religioso, culmina in quest'ultimo con il presentare l'essere nella sua pienezza e nella sua pura oggettività di valore in sé.

cui l'uomo non deve attribuire agli dèi se non belle azioni. Direttamente connesse a questa funzione benefica della natura divina, stante la sua perfetta dinamicità, sono la semplicità e l ' immutabil ità della sua .fiusis entrambe specificano il carattere sem­ pl ice, distinto, immutabile della sua primitiva determinazione. Una .fiusis dunque che, trasparente a se stessa, nella sua semplicità non potrà mai ingannare o mutare a tal punto da sembrare «uno stregone malefico che ci aspetta in agguato cambian­ do continuamente aspetto e arte facendo di continuo la sua sembianza)) (Resp. II, 3 80de). La sua immutabilità è il segno distintivo della sua divinità, come qualcosa di altro e completamente diverso dalla mutevolezza incessante e spesso disordinata degli altri esseri; questo perenne e stabile «porsi)) in questo stato di infinita «fermez­ za nel bene)) è la nota costante del suo apparire come «modellm) agli uomini tutti. A queste due ultime caratteri stiche si aggiungono, quasi come un necessario com­ pletamento di quella che possiamo considerare «la natura divina)), altre fondamen­ tali attribuzioni: la perfetta saggezza: «chiamarlo sapiente, mi sembra, Fedro, ecces­ sivo, e conveniente solo a un dio ... (Phaedro 278d); la veracità: «Ebbene la parte vera di esso è liscia e divina e abita in alto fra gli dèi)) ( Crat. 408c ), «Che cosa vuoi dire il dio quando dice che io sono il più sapiente degli uomini? Certo non mente egli, che non può mentire)) (Apol. 2 1 b); l 'assenza totale di invidia: «con loro vanno solo quelli che lo vogliono e che possono perché l' invidia non ha posto nel cuore di­ vinm) (Phaedro 24e), «Dicono per quale ragione l' artefice fece la generazione e que­ sto universo. Egli era buono, e in un buono nessuna invidia nasce mai per nessuna cosa)) ( Timaeus 2ge); l' impassibilità e l ' inaccessibilità ad ogni specie di sentimento: «Non è in ogni caso verosimile che gli dèi gioiscano e soffranm) (Philebus 3 3b).

Interpreti medioplatonici del pensiero educativo filosofico di Platone

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CAPITOLO QUINTO

La riflessione filosofica e la religione

Quali sono i rapporti tra la religione dei filosofi e la religione popo­ lare?242 Si deve ritenere, ad esempio, una religione essenzialmente mani­ festazione di una fede popolare al punto che la letteratura colta si inte­ ressi poco di essa243; o al contrario si deve supporre che essendo l'apporto dei filosofi greci nella religione del loro popolo244 di fondamentale impor­ tanza, l'evoluzione delle loro credenze religiose sia largamente tributaria all'influenza degli stessi?245 Se sembra legittimo non disconoscere il contributo dei filosofi greci alla formazione dei contenuti religiosi propri delle credenze popolari, come bisogna concepire il rapporto esistente tra di loro? Sarà, forse, un rapporto di opposizione, come vorrebbe il Gigon246, quando sostiene che ogni pensiero filosofico si trova necessariamente ad entrare in con­ flitto con la religione del suo tempo, o come crede il Cogniot247, secondo il quale nella storia del pensiero greco la conoscenza si opporrebbe alla fede, al punto che come ribadirà lo stesso Pestalozzi248, il pensiero spe­ culativo va a ritroso rispetto alla religione tradizionale? 242 D. BABUT, La religion des philosophes grecs, Paris 1 974. 243 M. P. NILS SON, Geschichte der griechischen Religion, l, Miinchen 1 955, p. 746; O. KERN, Die Religion der Griechen, III, Berlin 1 938, p. 1 4 . 244 Cfr. U. von WI LAMOWITZ - MOELLENDORF, Der Glaube der Hellenen, l, Berlin, 1 93 1 . 245 Cfr. W. FAHR, "Theous Nomizein ". Zum Problem der A nfage des Atheismus bei den Griechen, H ildsheim - New York, 1 969, p. 7. 246 O. GIGON, Les grands problèmes de la philosophie antique, Paris 1 96 1 , p. 224. 247 G. COGNIOT, Le materialisme greco-romain, Paris 1 964, p. 1 7 . 24 8 H . PESTALOZZI, L a religione nella Grecia antica, Bologna 1 950, p. 1 40.

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Anche gli antichi sembra che avessero coscienza di questo antago­ nismo latente tra la visione del mondo proposta dai filosofi e quel la presentata dalle credenze tradizionali. Un aneddoto riportato nella vita di Pericle di Plutarco mostra come la figura del filosofo e dell'uomo divino sono opposte l'una all'altra, tanto da essere presentate come antitetiche249• Lo stesso Plutarco ci informa che non appena la filosofia si impose ad Atene l'opinione pubblica reagisce "contro coloro che si fanno chiamare fisici o meteorologi, proprio perché essi non riportano tutto a delle cause prive di ragione e a delle forme oscure ricche di potenza divina". Furono questi i motivi per i quali Protagora fu esi­ liato ed Anassagora fu gettato in prigione. Certamente non furono sol­ tanto questi fi losofi ad essere incriminati di empietà, ma la quasi tota­ lità, nota Drachmann250, dei casi di ateismo riconosciuti nell'antichità si riferiscono ai filosofi, proprio perché essi, nella misura in cui cercano di rendere conto dei fenomeni naturali, sono sospettati di non credere negli dei25 1 • Si comprende bene allora come il Ley252 parli d i ostilità del pensiero filosofico nei confronti della religione, al punto di ritenere che il pro­ gredire di esso comporti un progredire verso l 'ateismo. Questo giudizio come quello del Bovet253, che esclude totalmente nel sistema dei preso­ cratici la presenza del concetto di dio, trovano in Babut, invece, il critico che considera imprudente trasferire nella storia del pensiero greco l'op­ posizione peculiarmente moderna tra spiegazione scientifica e credenza religiosa. La "scienza" dei Milesi non è mai opposta alla religione e non deve essere considerata, secondo Babut, come incompatibile con le cre­ denze tradizionali greche. 249 Vedi, a questo proposito, F. M. CORNFORD, Principium sapientiae, Cambridge 1 952. 2 50 A.B. DRAC H MANN, A theism in Pagan A ntiquity, London 1 922, p. 3. L'atei­ smo non sembra, in effetti, strettamente limitato all' ambiente filosofico e intellettua­ le, cfr. PLATO, L eges, X, 8 86e5-6, 89 1 b2-4. 25 1 Leges XII, 967a. 252 H. LEY, Geschichte der Aufkliirung und der Atheismus, I, Berlin 1 966, p. 1 79. 253 P. BOVET, Le Dieu de Platon d 'après l 'ordre chronologique des dialogues, Genève 1 903, pp. 83- 1 1 5 .

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Si può, infatti, facilmente constatare che per Plutarco e sicuramente per altri prima di lui la spiegazione delle cause non esclude in alcun modo la credenza nella divinizzazione e nell'intervento degli dei nel corso degli eventi. La scienza della natura può opporsi alla superstizione non alla vera religione. In tal senso proprio Platone protesterà energicamente con­ tro la confusione del la filosofia con il determinismo meccanicistico di certi suoi rappresentanti254: "d'altra parte quali siano potuti essere i loro contrasti con le autorità religiose delle loro città, i filosofi greci raramente possono essere classificati atei"255. Molti tra di essi hanno criticato, più o meno apertamente, le credenze religiose dei loro tempi, ma pochi sono coloro che hanno esteso questa critica alle istituzioni e ai riti del culto, o afortiori hanno rifiutato di conformarsi. I processi di empietà sembrano, invece, essere stati molto rari256 nell'Atene della seconda metà del V secolo, ove per altro le ragioni di essi furono essenzialmente politiche. Gli stessi fi losofi ionici, per il Solmsen257, sono coloro che danno un'importanza capitale al problema della vera natura della divinità: e proprio in questo senso Jaeger parlerà di "una teologia dei presocratici"258• Alcuni critici spingendosi più oltre credono di discernere nel pen­ siero dei più antichi fi losofi un ritorno al fondo primitivo della reli­ giosità greca, per cui vedono in essi dei veri teologi, dei riformatori rel igiosi, dei mistici259• In tal senso il Des P laces260 arriva a ritenere che i filosofi greci in generale non siano stati mai dei puri razionalisti. 254 Leges XII, 967a-c; cfr. lbid VII, 82 1 a; Philebus, 28d; Timaes, 46e. 255 Cfr. A.C. PEARSON, Atheism ( Greek and Roman), in Encyclopaedia ofReligion and Ethics, Edinburgh, 1 909, p. 1 84, citata da W.K.C. GUTHRIE, A history ofGreek Philosophy, Cambridge 1 973, III, p. 235. 256 Cfr. J.H. LIPSIUS, Das attische Recht und Rechtsverfahren, H ildesheim 1 966, II, pp. 358-368. 257 F. SOLMSEN, Op. cit., p. 54. 2 58 W. JAEGER, Die Theologie der.friihen griechischen Denker, Stuttgart 1 953, tr. it. La teologia dei primi pensatori greci, Firenze 1 96 1 . 259 M.F. SCIACCA, Platone, II, Milano, 1 967, p. 1 2 : la maggior parte dei filoso­ fi greci sarebbero dei riformatori religiosi, come Senofane, o delle anime mistiche, come Anassimandro, Eraclito ed Empedocle. 21\{) E. DES PLACES, La religion grecque, Paris 1 969, p. 3 1 9.

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Orbene, questa ambiguità interpretativa che sembra coinvolgere le dot­ trine è destinata a reinterpretare eventi concernenti personalità del pen­ siero greco; per cui, ad esempio, Socrate26 1 considerato uno degli spi­ riti più profondamente religiosi che l ' antichità abbia avuto non sarebbe stato condannato per empietà. Cosi, tra i filosofi che sarebbero stati accusati di empietà verrebbe posto Teofrasto, primo autore greco di un trattato Sulla Pietà, nel quale si è voluto vedere una delle espres­ sioni più caratteristiche della religiosità delfica262• In conformità a que­ sta lezione Senofane e Platone vengono visti dal Drachmann263 come degli atei. Questo paradosso interpretativo se è vero si basa, da una parte sul fatto che il significato dei termini "culto", "empietà" o "ateismo"risulta differente nell 'antichità rispetto a quello dei nostri gior n i e dall'altra dal motivo che per i Greci ciò che importa non è nell 'idee, nei senti­ menti, nelle conoscenze personali degli indiv idui, ma risiede nel com­ portamento pubblico dei cittadini riguardo agli dei della propria città. L'espressione greca, infatti, che traduce la credenza nell'esistenza degli dei vuol intendere: "onorare gli dei come vuole il costume"264• Date queste premesse non sarà possibile studiare la religione popo­ lare. Non si tratta né di esaminare soltanto l'evoluzione delle concezioni teologiche dei filosofi greci o delle loro speculazioni metafisiche sul prin­ cipio supremo delle cose265, né di vedere, come voleva il Wilamowitz266, esclusivamente le forme che il sentimento religioso ha potuto assumere presso di essi; ma soprattutto di determinare la posizione che questi pen­ satori hanno preso nei confronti della religione tradizionale. Questo però non ha impedito a Babut di considerare i nsieme rel igione personale e religione civica, tenendo costantemente presente la specificità del pen26 1

Cfr. PLATO, Apologia, 26c7-8; vedi anche 1. TATE, in "Classica! Review", 1 937, p. 3-6; V. de MAGALHÀE S VILHENA, Le prob/ème de Sacra/e, Paris 1 952, p. 47, n. 2.

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KERN, Die Re/igion der Griechen, III, p. 86. A.B. DRACHMANN, Op. cit. p. 1 3 . 264 A.B. DRACHMANN, Op. cit. p. 1 53 . 265 O. GILBERT, Griechische Re/igionsphi/osophie, Leipzig 1 9 1 1 ; V. GOLDSCHMIDT, La re/igion de Platon, Paris 1 949. 266 U . von WILAMOWITZ - MOELLENDORF, Op. cit. l, p. 1 3 . 263

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siero religioso di ognuno riguardo alla concezione della natura divina e dei suoi rapporti con l'uomo. Parlare della rel igione dei filosofi presocratici è pressoché "une gageure" per Babut, giacché in tal caso si ignora quasi totalmente e la vita religiosa delle città dove essi elaborano i loro pensieri e le loro opi­ nioni religiose. Il frammento trasmesso da Aristotele267 come appartenente a Talete (che contrariamente a quanto talvolta si dice268 non sembra sia stato rite­ nuto dall'antichità come ateo) secondo il quale "tutto è pieno di dei", non deve essere preso alla lettera: esso senza dubbio non vorrà dire, cosi come interpreta Jaeger269, che la distinzione tra materia animata e inanimata non ha alcun fondamento nella realtà, che quindi "tutto ha un'anima", ma piuttosto che gli dei non sono solamente là dove li collocano le credenze o i culti tradizionali, giacché sono largamente diffusi nella natura, presenti in un certo fatto, negli oggetti reputati inanimati, come l'ambra e la pie­ tra di Magnesia, il cui potere di attrazione aveva colpito l'immaginazione di Talete. Pertanto il frammento nell'interpretazione del Babut non sot­ tende più un animismo di cui l'iniziatore del razionalismo ionico sarebbe portatore, ma piuttosto una critica implicita delle teologie delle credenze popolari. Ad Anassimandro, invece, - che viene presentato come il vero creatore della meteorologia, cioè a dire di una scienza che portava fatal­ mente alla desacralizzazione dei fenomeni celesti e che privava gli dei popolari delle loro prerogative abituali - viene riportato un frammento, con il quale è detto che "il principio supremo sembra abbracciare e diri­ gere tutte le cose" e che esso identificandosi con il divino "è immortale e imperituro"270• È vero che è difficile distinguere in esso quello che appar­ tiene ad Anassimandro e ciò che è da attribuire ad Aristotele: di solito si è negato che Anassimandro abbia identificato il suo infi n ito con il divino: mentre in realtà i due verbi "abbracciare" e "dirigere" e i due aggettivi "immortale e imperituro" sembrano provenire dal testo originale. Ora, 267 ARISTOTELE, De Anima, 1 ,5 4 1 1 a7.

268 K FREEMAN, Companion to the Presocratic Philosophers, 2• ed. Oxford, 1 966, p. 54; G. COGNIOT, Op. cit. p. 24. 269 W. JAEGER Op. cit. tr. it. p. 33 e sgg. 270 ANASSIMANDRO, in Simplicio, De physica, III, 4, 203b 1 0 1 5 .

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poiché questi termini appartengono essenzialmente alla lingua poetica si applicano ordinariamente agli dei e a ciò che appartiene ad essi271, si concluderebbe che Anassimandro non esiti a dotare il suo infinito degli attributi dati alle divinità tradizionali. Sembra tuttavia che l'intenzione di Anassimandro allorché attribuisce al suo principio le caratteristiche degli dei tradizionali, sia però del tutto dif­ ferente da questa lezione. Se questa principio è appellato "immortale" ed è detto "abbracciare" e "dirigere" tutte le cose, ciò accade non perché esso sia concepito ad immagine delle divinità olimpiche, ma piuttosto perché esso è destinato a sostituire quelle, per cui la identificazione di esso con il divino sembra contenere piuttosto la negazione della religione tradizionale, in quanto l'infinito non è altro che il divino. In tal modo Anassimandro elabora un sistema per il quale filosofia e religione appartengono a due domini sepa­ rati e distinti tra i quali non appare necessario fissare dei precisi rapporti. Il pitagorismo, che certamente potrebbe occupare un notevole posto nello studio della fi losofia religiosa dei presocratici, resta però, per noi, irrimediabil mente impenetrabile, proprio perché l 'oscurità che avvolge l'origine e gli sviluppi di esso ha fatto si che tra i moderni sorgessero interpretazioni divergenti e spesso contraddittorie. Questo è il motivo per cui alcuni studiosi prendono in considerazione solamente l'aspetto religioso della dottrina, altri i nvece solo quella razionale scientifico. Pertanto, se si ammette con J.A. Philip272 che le due tendenze dovevano coesistere nel pensiero del pitagorismo, resta tuttavia estremamente diffi­ cile determinare i rapporti tra di esse. Più importante, tra questi pensatori, appare la figura di Senofane, considerato dal Gigon273, il teologo per eccellenza, soprattutto perché di lui possediamo una notevole produzione di frammenti riguardanti que­ stioni religiose. 27 1

Vedi per esempio OMERO, lliade, 1 7, 444; OMERO, Odissea, 7,94,257; ESIO­ DO, Teogonia, 277, 305, 949; PINDARO, Pitica, 4, 273, 274; SOFOCLE, A iace, 35-36. 272 J.A. PHILIP, Pythagoras and Early Pythagoreanism, Toronto 1 966, p. 1 78; vedi anche C.J. DE VOGEL, Phi/osophia, l, Assen 1 970, p. 9 1 ; 1 03- 1 04. 27 3 O. GIGON, Die Theo/ogie der Vorsokratiker, in Entretiens sur l 'A ntiquité c/assique, l, Vandoeuvres-Genève 1 954, p. 1 27- 1 55 .

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Senofane i n questa storia della religione dei filosofi greci appare come un precursore ed un i solato. P resso d i l u i , c ome p re s s o i M i le s i , i l confl itto tra fi losofia e rel ig ione tradiz ionale s i fa più acuto274: l'epurazione del la m itologia è giustificata da ragioni sociali e politiche o ltre che morali; mentre le creden ze tradi zionali ven­ gono riportate ad emergenti motivazioni razionali e scientifiche275• Lo stesso atteggiamento polemico e critico si r iscont ra nei fram­ menti teologi c i (il rifiuto dell'immortalità degli dei omerici o esio­ dei non è la causa, ma la conseguenza del rigetto dell 'antropomor­ fismo: gli dei tradizionali sono condannati non perché non sono con­ formi a certe norme morali o religiose, ma perché sono fatti a imma­ gine dell'uomo, sia sul piano morale che su quello fisico-intellettuale) dove una teologia filosofica sembra sostituire una teologia popolare. Senofane, secondo questa interpretazione, è un filosofo che cerca di ela­ borare un concetto soddisfacente del divino ed il suo approccio ai pro­ blemi religiosi resta eminentemente razionale. Eraclito, certamente influenzato da Senofane sul piano religioso276, rivela nel suo pensiero due tratti che possono sembrare contraddittori: la critica della religione tradizionale e la trasposizione nel linguaggio filo­ sofico di certe rappresentazioni ereditate da quello religioso. I due aspetti possono essere considerati come complementari, perché l'attribuzione al Principio supremo del mondo dei caratteri distintivi degli dei popolari sottolinea come nel pensiero religioso di Eraclito il logos prenda il posto degli dei. Non è difficile notare come queste due componenti del pensiero eracliteo si riallaccino a quelle già riconosciute presso i suoi predeces­ sori: gli attacchi contro gli usi religiosi dei contemporanei rassomigliano alle critiche di Senofane contro l'antropomorfismo e la teologia dei poeti, mentre la trasposizione filosofica degli epiteti divini ricorda la diviniz­ zazione del l'apeiron nella cosmologia di Anassimandro. L'originalità di Eraclito in questo campo risiede, senza dubbio, anzitutto nel fatto di essere andato più lontano dei suoi predecessori in queste due direzioni: 274 Cfr. 1 1, 1 2, 1 4, 1 5, 1 6. 275 Cfr. 32, 40. m O. GIGON, Untersuchungen Zu Heraklit, Miinchen 1 935, p. 1 3 2; M. MARCO­ VICH, Heraclitus, Mérida (Venezue1a) 1 967, p. 473 .

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nel la messa in questione dei riti dei culti ufficiali dei dogmi teologici e nella trasposizione delle rappresentazioni religiose tradizionali. Ma, secondariamente, Eraclito è il primo nel quale queste due tendenze del pensiero dei filosofi greci in materia religiosa si trovano esplicitamente associate. Eraclito, come Senofane, non si propone di sovvertire le istitu­ zioni religiose esistenti, né di riformarle in nome di esigenze morali più severe, ma piuttosto di operare una trasformazione interna con una rein­ tegrazione che permetta il loro recupero a vantaggio della fi losofia. Il continuatore di questo atteggiamento è Parmenide che associa, deli­ beratamente come Eraclito, riflessione filosofica e linguaggio religioso; ma mentre Eraclito traspone le credenze tradizionali nel quadro della sua nuova concezione del mondo, in Parmenide il movimento si effettua piuttosto in senso inverso. Il simbolismo religioso è utilizzato qui per tra­ scrivere l'insegnamento specifico della filosofia al fine di sottolineare che la ricerca della verità è paragonabile ad un'esperienza religiosa e che l'at­ tività del filosofo, pur avendo la stessa origine dei poeti ispirati dagli dei, non è a loro inferiore in importanza e dignità277• Il contrasto tra elementi scientifici e religiosi si fa piuttosto evidente in Empedocle di Agrigento, al quale la critica ha dedicato la maggior parte dei suoi sforzi per tentare di conciliare278 o di separare279 i due aspetti. In realtà nell'autore del trattato Della Natura e Delle Purificazioni sembra rinvenirsi sia la fede nella coesistenza delle due tendenze, sia la difficoltà nel l'attuazione del la loro unione280• Tutto questo porta a credere che ci troviamo di fronte ad un testimone della Grecia arcaica protesto verso l'epoca classica281• Quasi contemporaneo di Empedocle è Anassagora di Clazomene che insieme a Diogene di Apollonia qualificato "fisico" come 277 K. REINHARDT, Parmenides und die Geschichte der griechischen Philosophie, 2" ed. Frankfurt am Main 1 959, p. 256. m Come fa per esempio E. ROHDE, Psyche, tr. it., Bari 1 970, p. 486 e sgg. 2 79 G.S. KIRK, J.E. RAVEN, The Presocratic Philosophers, Cambridge 1 957, p. 348; F.M. CORNFORD, From Religion to Philosophy, London 1 9 1 2, p. 225. 2H0 E. BIGNONE, Empedocle. Studio critico, traduzione e commento delle testimo­ nianze dei frammenti, Roma 1 963, p. 7, n. 4; D. O' BRIEN, Empedocles ' Cosmic Cycle, Cambridge 1 969, pp. 250-25 1 . 2�1 W. K.C. GUTHRIE, op. cit. , Il, p. 248 .

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luifu accusato di empietà282• Essi nel divinizzare il principio supremo del divenire cosmico o la sostanza primordiale da dove hanno origine tutte le cose aboliscono inevitabilmente ogni distinzione tra dio e la natura, tra il divino e l'umano. Per l'autore del trattato Sulla malattia sacra non vi è alcuna differenza tra le cause delle diverse malattie: tutte sono ugual­ mente naturali e divine, perche "tutto è divino e tutto è umano". La fisica di Anassagora e di Diogene ha in stretta connessione con l'indirizzo del pensiero ionico la doppia funzione di desacralizzare la natura e di seco­ larizzare il divino. Questa problematica sembra continuare presso Democrito, il quale per primo dà l'avvio ad un tentativo di esplicazione razionale della genesi del la conoscenza religiosa, ad una specie di fenomenologia della reli­ gione. L'idea che certi fenomeni metereologici sono all'origine della rap­ presentazione della divinità e del terrore che essi incutono agli uomini, rappresenta un passo in avanti in questa direzione283• Le immagini divine di Democrito, come gli dei di Empedocle, hanno perduto uno degli attri­ buti essenziali, della divinità: l'immortalità. Le immagini non sono più dei, esse fanno nascere l'idea del divino e non esiste niente di divino al di fuori di quelle284• Per Democrito, la religione nasce soprattutto dalla credenza che susci­ tano certi fenomeni naturali o certe "immagini malefiche". Prodico di Ceo, per altro, ritenendo che gli uomini hanno reputato per divino e ono­ rato come tale tutto ciò che assicura la loro sussistenza o è utile ad essi in qualche modo come il Sole, la Luna, i fiori, i Prodotti della terra, anti­ cipa una teoria moderna dell'origine delle religioni nell'affermare che tutte le pratiche religiose derivano dalla pratica dell'agricoltura e sono l'espressione della gratitudine degli uomini per i benefici che ricevono dalla terra285• Le due teorie non si escludono, anzi sono complementari 282

DIOGENE LAERZIO. Vite dei filosofi. IX, 57 (64 Al 0-K). A cura di Gigante M., Laterza (collana Biblioteca universale Laterza), 2008. 283 H. EISENBERGER, Demokrits Vorstellung vom Sein und Wirken der Gotte1; in «Rheinisches Museum», 1 3 ( 1 970), pp. 1 48-1 50. 284 P.J. BICKNELL, Democritus ' Theory of Precognition, in «Revue des Études grecques», l 969, p. 3 1 8, n. 3 . 285 84-5 0-K.

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e chiariscono due aspetti differenti della vita religiosa dei Greci. D'altro lato si può trovare tra essi un importante punto in comune: Prodico non afferma mai che ciò che è utile alla vita è dio, che il pane è Demetra o il vino è D ioniso, ma solamente che questi beni sono ritenuti per dei e onorati come tal i. Allo stesso modo Democrito nel ricercare l'origine dell'idea di dio, lascia totalmente da parte la questione del la esistenza di questo se non meriti di essere presa in esame286• Inoltre un frammento assai oscuro di Democrito287 fa pensare ad una sua critica della religione popolare o a certe forme di credenze più evo­ lute più o meno influenzate dalla fi losofia: sembra che la divinizzazione dell'aria e l'assimilazione di questo principio cosmico con lo Zeus della religione tradizionale, ammesse senza difficoltà e rese popolari negli ambienti intellettuali, siano presentate qui come una suggestione più o meno arbitraria o un'idea artificialmente inculcata. Parimenti si abbozza per la prima volta la concezione di un'origine e di un significato politico­ sociale delle istituzioni religiose, volte al fine di impressionare la genera­ lità degli uomini con la credenza di un dio onnipotente o omnisciente288• Con Protagora, la critica del l'intera teologia popolare e filosofica che essa sia raggiunge il punto culminante, nel suo trattato Sugli Dei, di cui noi conosciamo la prima fase289 dove è messo immediatamente in evi­ denza un totale agnosticismo nei confronti delle cose divine. Le teorie di Democrito e di Prodico si trovano di fatto associate nel dramma satirico intitolato Sisifo ed attribuito a Crizia di Atene. Ciò che fa l'originalità di Crizia è l'esplicazione e la radicalizzazione di certi temi che i suoi predecessori non avevano fatto altro che abbozzare. Anche la stessa teoria di un'origine politico-sociale della religione, appena considerata da Democrito è svi luppata sistematicamente. Tuttavia, mentre presso Democrito, Prodico e Protagora la questione del­ l'esistenza obiettiva degli dei è messa da parte, il Sisifo di Crizia afferma, senza ambiguità, che una tale credenza è contraria alla verità e non può 2H6 8 1 66 0-K. 2H7 T. COLE, Democritus and the Sources of Greek A nthropology, in «American Phi1o1ogica1 Associatiom>, 1 967, p. 58, n. 34. m T. COLE, op. cit. pp. 202-205. 2H9 K. VON FRITZ, Protagoras, R.E. XXIII, 1 957, co1 920.

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che essere considerata una menzogna. Si comprende bene allora che l'autore di tali dichiarazioni sia stato reputato nell'antichità come ateo. Questa sua concezione lo fa apparire un isolato in questa epoca, nella quale la negazione pura e semplice dell'esistenza degl i dei e il rigetto delle pratiche culturali restano un fatto eccezionale. Di fatti la dottrina atomistica e la teoria sulla genesi delle credenze religiose non implica affatto per Democrito l'abbandono delle forme tradizionali di devozione. Nello stesso modo l'agnosticismo protagoreo pare sottendere un'attitu­ dine positiva nei confronti della religione tradizionale e una vera riabili­ tazione della tradizione vilipesa dalla critica filosofica. È verosimile che Protagora apprezzi il fatto religioso in quanto fenomeno sociale ed ele­ mento importante della cultura umana290• Quanto a Prodico, invece, che vede nella divinizzazione dei beni naturali il fondamento del sentimento religioso, può essere considerato un notevole difensore della tradizione. Possiamo dunque concludere che i fi losofi di questa generazione offrono tutti gli aspetti possibili di una filosofia della religione. Due motivi sembrano, comunque, caratterizzare il loro pensiero: da una parte una riserva più o meno evidente nei confronti delle credenze e del conte­ nuto della religione popolare, e, dall 'altra un rifiuto totale della tradizione e di un vocabolario o di categorie concettuali improntate alla religione, in cui l'utilità di essa è riposta, a volte, solo nel valore etico-sociale. Diversità di vedute interpretative inquadrano il pensiero religioso di Socrate: tradizionalismo e critica della tradizione, teologia finalistica alla maniera ionica e agnosticismo teologico, monoteismo e politeismo, reli­ gione civica e religione personale, tutte queste interpretazioni coesistono nel ritratto che l'antichità ci ha tramandato di Socrate. Ma questa complessità di motivi speculativi per quanto sconcertante ci appaia riflette soltanto lo stato delle nostre fonti, o si può ammettere che essa corrisponda in larga misura alla verità storica? Senza pretendere di dare una risposta definitiva a una questione cosi delicata, cerchiamo di formulare due considerazioni. Senza dubbio i l Socrate di Senofonte e quello di Platone rimangono molto differenti, ma nella presentazione che fanno del pensiero di Socrate sulla religione popolare, sulla conce­ zione della natura divina, sulla provvidenza, sul suo razionalismo reli290 C.W. M Ù LLER. Protagoras uber die Gotter, in "Hermes" 1 967, p. 147.

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gioso, le loro indicazioni si confermano o si completano piuttosto che opporsi. Esiste anzitutto un certo accordo su queste fonti, anche se esse restano diffici li da interpretare. In secondo luogo, poi, non vi è ragione di meravigliarsi se i dati di cui disponiamo sulla religione di Socrate ci appaiono di una complessità notevole, trattandosi di un uomo che i con­ temporanei stessi giudicano sconcertante. Il problema di Socrate non è dunque l'unico motivo del nostro imbarazzo; forse la ragione principale di questo stato di cose è che Socrate riunisce in una viva sintesi tutte le manifestazioni della filosofia religiosa dei suoi predecessori - tradizio­ nalismo e spirito di esame, formalismo e spiritualismo della religione uffi c iale, razionalismo e senso dei limiti dell'uomo, concezioni sociopo­ litiche e individuali della religione -, perciò non sembra prudente voler dissociare per desiderio di chiarezza e di logica le varie componenti di questa sintesi. Le fonti di cui disponiamo per Platone sono abbondanti e irrecusabili, poiché si tratta degli scritti dello stesso filosofo. Indubbiamente Platone non è mai giunto ad esporre sistematicamente le sue vedute sulla rel i­ gione e sulle i nerenti questioni, ma si stenta a credere che questo stato di cose sia sufficiente a spiegare l'ambiguità delle sue posizioni e i giudizi profondamente divergenti che ha suscitato presso i moderni. Il platonismo è spesso considerato come una «filosofia religiosa nel senso più profondm)291 e Platone stesso è riguardato come un fondatore di religione292, al punto che la credenza religiosa in lui o è stata vista come un sostituto del la conoscenza scientifica oppure in intima fusione con la dialettica293. Ma questa visione è stata ugualmente criticata come del tutto anacronistica; Platone stesso non si è mai considerato altro che un fi losofo e non un fondatore di religione294• Tuttavia si è fatto osservare 29 1 H . GAUSS, Phi/osophischer Handkommentar zu den Dialogen Platos, I, Bem 1 952, p. 52. 292 P.E. MORE, The religion ofP/alo, Princeton 1 92 1 , e J. K. FEIBLEMAN, Religious P latonism. The I n fl uence of Religion on Pl ato and the Influence of Plato on Religion, London - New York 1 959. 293 V. GOL SCHMIDT, La religion de Platon, in Platonisme et pensée contemporaine, Paris 1 970, p. 36. 294 M.P. NILSSON, Geschichte der griechischen Religion, l, Miinchen 1 955, p. 8 1 9.

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che la religione è la base delle città greche contemporanee, per cui nes­ suno più dell'autore delle Leggi ha insistito sulla necessità di mantenere le forme di culto tradizionali per assicurare la sopravvivenza dello Stato e sul carattere indispensabile della mitologia nell'educazione di tutti i cittadini. Sul concetto di "devozione" in Platone i giudizi non differiscono affatto: si è giunti a parlare di bigotteria29S, di una volontà di sottomettere la libertà del giudizio alle autorità dell'ortodossia296; ma si è anche affer­ mato che Platone ha poche cose in comune con l'antica religione e non si preoccupa certo di criticarla297• Anche in ciò che concerne la teologia, gli interrogativi non sono meno numerosi; ma nonostante incertezze che caratterizzano tutti gli studi della religione di Platone, è possibile distinguere alcuni temi dominanti nella riflessione religiosa del filosofo. Il primo di questi temi è la critica della mitologia e della teologia dei poeti, sulla base di criteri etici sociali e razionali298, giacché egli sembra condividere la diffidenza di Socrate riguardo all'immortalità nei "miti di successione" di Esiodo e tende a criticare i tradizionali sacrifici e le cerimonie del culto condannando la pietà tradizionale come "tecnica commerciale"299. Dinnanzi al rifiuto di tali concezioni tradizionali Platone offre i principi di una nuova teolo­ gia, i modelli che occorre seguire per parlare di dei, quelli a cui i poeti e i mitologi dovrebbero ispirarsi per argomentare le loro favole300• I l primo di questi dogmi afferma la bontà assoluta di dio il quale non può essere causa di tutte le cose, come lo vediamo comunemente, ma solo dei beni, cioè della minima parte di ciò che ci accade301• La seconda regola, invece, dichiara la semplicità e l 'imm utabilità della natura divina302 • Dogmi questi, dunque, che, oltre ad essere il risultato di una depurazione o di 2 95 296 297 298 299 300 301 302

DRACHMANN, Op. cit. p. 77. G. GROTE, Plato and the other Companions ofSocrates, III, London 1 866, p. 1 89. H. LLOYD-JONES, The Justice ofZeus, Los Ange1es - London, 1 97 1 , p. 1 63 . Euthypron. 6a-b; Respublica II, 377e-378a. Eutiphron, 1 4e. Respublica Il, 3 79a. Respublica II, 379c-380c. Respublica II 380d 3 83c. ,

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una moralizzazione delle credenze tradizionali, riflettono i caratteri del mondo eidetico di Platone. Un altro tema fondamentale nella riflessione di Platone sui problemi reli­ giosi è l'incertezza di tutto ciò che tocca la natura degli dei e le cose divine303. In mancanza, dunque, di una verità ci si accontenterà di conformarsi a ciò che ci insegna la tradizione: così, come per un singolare rovescia­ mento di posizione non è più la religione che controlla e critica le cre­ denze tradizionali, i culti, e le pratiche religiose che ne sono l'espres­ sione, ma inversamente, sono le cerimonie e i riti ereditati dagli antenati che legittimano le credenze e dimostrano in qualche modo l'esistenza degli dei. Nel dominio dell'ignoranza non c'è altra possibilità che rispet­ tare scrupolosamente le prescrizioni consacrate dal costume nazionale. La mitologia tradizionale che abbiamo vista condannata nel! 'Eutifrone e bisognosa di purificazione secondo certi modelli, nella Repubblica, viene cosi parzialmente riabi litata304• Le stesse autorità degli oracoli, la cui ispirazione deriva dagli dei, vengono da Platone accettate: l'oracolo di Apollo a Delfi costituisce per lui il centro della vita religiosa greca. In questo modo la concezione platonica della religione culmina in una visione totalmente teocentrica della vita umana, che travalica decisamente sia le esigenze della religione uffi c iale delle città che quella della credenza popolare della religione greca. Platone, riprendendo la celebre frase di Protagora, enuncia che è dio e non l'uomo la misura di tutte le cose: ciò implica che se gli dei si prendono cura di noi, noi siamo il loro gregge, facciamo parte della loro proprietà e tutta la nostra attività non deve avere altro scopo che il loro servizio. Il culto, pertanto, non si esaurirà nel­ l'adempimento di certi riti, ma in una attitudine morale e intellettuale. I riti non avranno più valore in sé, ma saranno santificati dallo spirito di purezza di colui che li compie. Per Platone onorare la divinità è cercare di 303 Critias, l 07-b; Timaeus, 29c. Niente di più caratteristico della mentalità religiosa dei Greci, che questa idea di una divinità che sfugge totalmente al nostro intelletto a tal punto che noi ignoriamo il nome sotto il quale bisogna invocarla. Ancora una volta in ciò può essere constatato l'accordo tra religiosità platonica e quella popolare della sua epoca. 304 Leges X, 887d.

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modellarsi a questa: non può piacere alla divinità se non colui che le somi­ glia, per cui ad essa è caro solo il saggio, perché solo lui le assomiglia, e nella misura in cui le è simile pratica la vera virtù, inseparabile dalla con­ templazione della verità. Lo scopo dell'uomo saggio è dunque quello di somigliare a dio nei limiti in cui ciò sarà possibile; ma a sua volta questo sforzo non è niente altro che lo sforzo per vivere in conformità della giu­ stizia e della ragione: la pietà resta sempre fondata sulla ragione e la reli­ gione platonica è inseparabile dalla filosofia, dalla conoscenza del vero. Cosi Platone tratta di una provvidenza divina305 che non solo resta impersonale e quindi estranea ad ogni idea di misericordia o di amore quale quella di cui partecipa la concezione del Dio della Bibbia, ma non è nemmeno "antropocentrica" come la provvidenza che Senofonte fa cele­ brare da Socrate nei Memorabili. Il Demiurgo non ha creato il mondo per l'uomo, bensì l'uomo per il mondo; la sua bontà, sulla quale Platone non si dilunga, non è fatta di benevolezza o di amore per le creature, ma piuttosto caratterizza l'autorità di un buon artefice, quasi il gusto del­ l'opera ben fatta. L'aiuto degli dei è dispensato solamente a coloro che hanno saputo meritarlo elevandosi, con i loro propri sforzi al grado della dignità. Questa concezione della vita divina illustra bene la specie di tensione dialettica che distingue tutto il pensiero rel igioso di Platone. L'uomo è nelle mani degli dei, non può niente senza gli dei, ma a loro volta gli dei non possono niente per l'uomo se questi non si è già innal­ zato, con tutto il suo essere a livello della divinità, rendendo ogni inter­ vento divino possibile. Aristotele non si è mai esplicitamente soffermato su i problemi reli­ giosi. Senza dubbio espone qua e là le sue opinioni sulla divinità, noto­ riamente nel libro X I I della Metafisica; ma questa esposizione non pog­ gia mai su una vera filosofia della religione, nella quale il fenomeno reli­ gioso sia visto nella sua particolarità e venga interpretato nel quadro glo­ bale della visione aristotelica del mondo306• Le divergenze che a questo proposito possono sussistere tra Pla­ tone ed Aristotele si comprendono meglio se si osserva che la critica 305 Timaeus, 30cl e 44c7. 306 W. POTSCHER, Strukturprobleme der aristotelischen und theophrastischen Gottesvorstellung, Leiden 1 970, p. 1 2 .

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delle credenze tradizionali risponde presso l'uno e presso l'altro a dei motivi differenti ed anche opposti: Platone esige la moralizzazione, ma rifiuta la razionalizzazione dei miti, mentre Aristotele ignora ogni idea di purezza morale della tradizione, per situarsi su u n terreno esclusi­ vamente razionale307• Ed è per questo che Aristotele si ricollega soprat­ tutto all'antropomorfismo delle rappresentazioni tradizionali. È sinto­ matico, a questo riguardo, come ciascuno dei due fi losofi abbia fatto eco ad un aspetto differente della critica diretta da Senofane contro la teologia dei poeti e delle credenze popolari, giacché, mentre Platone si è mostrato sensibile alla denuncia dell'antropomorfismo etico, Aristotele considera unicamente la critica del l'antropomorfismo fisico e psichico. Se queste considerazioni possono farci concludere che le posizioni dei due filosofi riguardo alla rel igione tradizionale sono teoricamente concordanti anche i problemi rel igiosi, in realtà, rivestono, presso Aristotele un ruolo meno rilevante. Si noterà, inoltre, che i motivi del ricorso alla tradizione sono interamente differenti. Presso Aristotele la giustificazione della tradizione riposa su una base strettamente razio­ nale, dal momento che la tradizione è vera poiché essa poggia sull'espe­ rienza e poiché l'opinione comune si accorda con la ragione. La stessa tendenza razionalistica, caratteristica della fi losofia della rel igione di Aristotele, si manifesta nella sostituzione delle cause naturali e neces­ sarie per rendere conto dei fenomeni all'intervento diretto degli dei tra­ dizionali. Se la pioggia, ad esempio, rovina il raccolto ciò accade non perché Zeus lo ha voluto, ma per necessità, poiché la pioggia, causata dal fenomeno dell'esalazione, si accompagna accidentalmente, cioè a dire senza che intervenga l'intenzione di un agente, all'accrescimento del raccolto. Analogicamente i sogni divinatori non sono più dovuti agli dei, ma si spiegano con delle ragioni naturali poiché sono da riportare a un con­ corso di circostanze puramente fortuite308• Per Aristotele il divino e il naturale lungi dall'opporsi si identificano309; le cause finali o la provvi307

P. AUBENQUE, Metaphysik und Thealagie des Aristate/es, Dannstadt 1 969. F. DIRLMEIER, Aristate/es, Eudemische Ethik, Berlin 1 969, p. 490. 309 P. AUBENQUE, Le probléme de l 'Eire chez Aristate, Paris 1 962, p. 349, n. 4; cfr. p. 364, n. l . 308

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denza non si distinguono dalle cause naturali e necessarie310• La diviniz­ zazione della Natura conduce inevitabilmente ad una naturalizzazione di Dio. Ciò vuoi dire che la religione non ha più un dominio proprio, ma essa appare confondersi con la filosofia e la scienza, mentre la credenza o il sentimento religioso perdono ogni specificità. È notevole che dei tre grandi temi della riflessione religiosa di Platone il solo che non abbia il suo peso presso Aristotele è il tema dell'incer­ tezza delle cose divine, inseparabile dall'idea che la fede deve conservare la sua originalità a fianco alla ragione. Si può dire che Aristotele mette in qualche modo in crisi la concezione abituale della religione, come mette in crisi il concetto del divino: tra la teologia, la quale non è che una diversa esperienza per intendere la filosofia sotto la sua forma più alta, e un insieme di credenze mitiche e di pratiche più o meno superstiziose di cui la giustificazione è puramente sociale e psicologica, non vi è posto per un domi nio intermedio che sarebbe quello di un'autentica religione. Cosi, tra la speculazione più elevata che non è accessibile che al filosofo, e il compimento dei riti privi di ogni valore religioso, come concepire la possibilità di una vera pietà? Si è fatto notare che allorché nomi come "preghiera" appaiono nei testi aristotelici, questi non stanno a sottendere un contenuto religioso o un contenuto filosofico31 1 • I l rapporto dell'uomo con i l dio è completamente spersonalizzato e privo di ogni sentimento e di ogni spirito religioso. Correlativamente l'antica pietà cambia di natura, si riduce da una parte all'insieme di cerimonie e riti prescritti dalla legge, dall'altra ad un tentativo di perfe­ zione morale; non vi è niente in lui che possa riecheggiare l'insistenza con la quale Platone reclamava una trasformazione profonda della pietà tradizionale, che la vivificasse spiritualizzandola. In Aristotele, come in Platone, sembrerebbe che si possa parlare di una integrazione o di un assorbimento della religione nella filosofia. Ma l'identità delle for­ mule non deve far concludere nell'assimilabilità delle due attitudini. Per Platone si tratta piuttosto di una fusione o di una i nterpenetra­ zione dei dogmi religiosi e filosofici, dal momento che la filosofia è 310

W. J. VERDENIUS, Traditional and Personal Elements in Aristotle s Religion, in «Phronesis», 5 ( 1 960), p. 6 1 . 3 1 1 J. PEPIN, Idées grecques sur / 'homme et sur Dieu, Paris 1 97 1 , p. 60.

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indissolubilmente religiosa e la religione inevitabilmente filosofica. Per Aristotele, i nvece, si potrebbe affermare da una parte che la filosofia sia assimilata totalmente alla rel igione e dall'altra che se ne distacchi completamente. I due successori di Aristotele, Teofrasto e Stratone di Lampsaco, svi­ luppano alcuni aspetti del pensiero religioso del maestro. Il primo, non attribuendo affatto agli dei tradizionali il significato puramente mitico o ornamentale al quale li aveva ridotti Aristotele, riprende temi della reli­ giosità platonica, come la concezione secondo la quale agli dei non viene dato alcun bene di ciò che è offerto in sacrificio, poiché essi sono sol­ tanto attenti alle disposizioni di spirito del sacrificante non all'oggetto del sacrificio; la migliore offerta ai loro occhi è la rettitudine nel modo di concepire la natura divina e il resto delle cose. Stratone, invece, con­ ferma come la divinizzazione aristotelica della Natura porti ad una dis­ soluzione del concetto di Dio. Egli non lascia alcun posto agl i dei della tradizione: si suppone, infatti, che il suo trattato Sugli Dei abbia avuto per tema l'applicazione fisica e l'interpretazione allegorica del mito. Tre tratti essenziali, spesso messi in evidenza dagli storici del periodo ellenistico, dominano lo sviluppo della riflessione rel igiosa dei fi losofi nell'età postclassica. I l primo è il declino della religione tradizionale, accentuato dallo scompiglio sopravvenuto nella situazione politica delle città greche con l'avvento dell'impero macedone; contemporaneamente il rilassamento dei legami tra il cittadino e la sua città tende ad accre­ scere il bisogno religioso dell'individuo, lasciato libero a se stesso e pri­ vato di ciò che costituisce il perno della sua esistenza. Si riscontra infine una regressione dell'interesse puramente speculativo a profitto delle preoccupazioni di ordine pratico, quelle che riguardano la vita morale e la religione. Questo stato di cose comporta varie conseguenze: l'impor­ tanza dei problemi religiosi nella discussione dei filosofi soprattutto per il fallimento della religione tradizionale che costringe in qualche modo la filosofia a far fronte ai bisogni religiosi accresciuti dell'epoca. I noltre il regresso dell'interesse speculativo si traduce in una certa dipendenza del pensiero ellenistico nei confronti del passato e anche talvolta in una assenza di originalità nel campo della filosofia religiosa. La ripetizione, dopo Aristotele, dei principali temi della ricerca religiosa, potrebbe dare

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l'impressione che la filosofia non ha più molto di nuovo da dire. In realtà un'osservazione ci aiuta a non trarre tale conclusione: per i Greci l'origi­ nalità non si manifesta necessariamente con l'invenzione di argomenti nuovi, ma tutt'al più con il particolare mantenimento di temi ereditati dal passato e utilizzati successivamente. Due delle grandi correnti, in particolare, che caratterizzano la speculazione religiosa precedente riap­ paiono nell'età ellenistica. La prima, che possiamo chiamare distruttiva o negativa, continua la critica della religione tradizionale inaugurata da Senofane. La seconda, positiva o costruttiva, si ricollega all'atteggia­ mento platon ico volto ad integrare le credenze tradizionali nella rap­ presentazione fi l osofica del mondo, tentando cosi di modificare il conte­ nuto e il significato di esse. Queste due correnti non saranno mai total­ mente dissociate nella filosofia religiosa delle scuole ellenistiche. Nessuno sembra aver dato più vigore alla critica della nozione popo­ lare della divinità di Antistene, nel quale la tradizione antica e la maggior parte degli storici moderni vedono il fondatore del Cinismo312• Secondo lui, dio non rassomiglia a niente che noi possiamo immagi­ nare, nessuna rappresentazione sarà sufficiente a darci un'idea della sua vera natura. Al di là di questa critica classica dell'antropomorfismo tradi­ zionale, Antistene sembra aver messo in causa il principio stesso del poli­ teismo ellenico in un passo in cui si è voluto vedere3 13 uno dei rari esempi monoteistici della letteratura greca: noi apprendiamo in effetti da molti autori antichi che in un libro intitolato Physicos egli oppone l'unità del dio "secondo natura" alla molteplicità degli dei convenzionali, che non sono altro che quelli dei culti popolari. La contropartita di questa critica è una concezione della pietà simile a quella riscontrata negli autori del­ l'età classica. Come questi Antistene raccomanda che si chieda agli dei nelle preghiere i veri beni e non quelli che si pretendono che siano tali314• Lo stesso legame tra religione e città, fermamente ristabilito da Platone ed Aristotele, in lui si trova definitivamente reciso, proprio perché vuoi negare al costume nazionale e alle convenzioni sociali ogn i valore rico312

D.R. DUDLEY, A History of Cynicism, London 1 937, pp. 1 - 1 5 ; F. DECLEVA CAIZZI, A ntisthenes fragmenta, Milano 1 966, pp. 1 22- 1 23 . m W.K.C. GUTHRIE, A history o fGreek Philosophy, III, Cambridge 1 969, p. 248. 3 1 4 DIOGENE LAERZJO, Op. cit. , VI, 42.

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nosciuto. Si comprende allora come i cinici siano stati considerati nell'an­ tichità a guisa di atei. La reputazione di ateismo contestata dai moderni è ancora più sal­ damente legata al nome di Evemero di Messene; la cui dottrina riallac­ ciandosi a tentativi sofistici cerca di rendere conto delle origini di divi­ nità popolari e divinizzare figure storiche in ragione dei servizi resi all'umanità. Presso gli Epicurei, è rilevante l 'attitudine a criticare la teologia dei poeti e quella nata da opinioni volgari. Più nuova è la denuncia dei misfatti della religione: le credenze errate sulla natura degli dei, in parti­ colare quelle propagate dai miti, sono i veri colpevoli dei danni arrecati agli animi umani. Non è la scienza empia, ma la religione che spesso crea atti empi e criminali315• Sull'origine della religione, gli Epicurei hanno una propria teoria: secondo Sesto Empirico, Epicuro oltre a credere che la nozione di dio nasce dalle apparizioni che si hanno nei sogni316, riprende un'idea democritea riguardante la genesi delle religioni, constatando che le credenze tradizionali hanno origine dal terrore che lo spettacolo dei fenomeni naturali porta inevitabilmente nell'animo degli uomini, che non conoscono le vere cause. La critica epicurea della religione popolare si estende facilmente anche alla religione dei filosofi. Il punto centrale di essa è senza dubbio il rigetto della nozione di provvidenza, contro la quale gli Epicurei invo­ cano argomenti di ordine pratico. La stessa nozione platonico aristotelica di una divinità trascendente e provvidenziale per essi mostra delle con­ traddizioni interne, che portano al rigetto della concezione classica di una teologia naturale: non solamente il mondo non può essere creato dagli dei317, ma niente è organ izzato in v ista di un risultato, niente mostra il disegno di una intelligenza. Riconoscere nelle cause finali la spiegazione del mondo, è cadere in un ginepraio di rag ionamenti . Analogamente nulla di più errato per gli Epicurei del credere che tutto nella natura con­ corra al bene dell'uomo: sarà più giusto dire che se la natura è come una madre per gli altri animali, dal genere umano merita piuttosto il nome di 3 1 5 LUCREZIO, De rerumm natura, l , 80, 83 e 1 02 . 316

Adv. math., IX, 25 (fr.353 USENER). 317 Cfr. LUCREZIO, V, 1 8 1 1 86 (contro la nozione platonica di un demiurgo).

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matrigna3 18• Infine se niente, nella natura, allude al disegno o al piano di una intelligenza divina nulla rivela l'esistenza di una giustizia divina: il rifiuto della teodicea conferma e completa quello della teologia. Ma non risultano rispondere al vero intenti epicurei di soppressione della religione; né bisogna prendere sul serio tesi come quella di Bloch che parla di ateismo travestito o di irreligione epicurea3 19• Le testimonianze antiche attestano, invece, la presenza di Epicuro, come dei suoi discepoli, a feste rituali320• Il mutamento delle forme tra­ dizionali del culto non può conciliarsi con la critica epicurea dell'intera religione, popolare o filosofica, se non con la definizione di un nuovo concetto del divino, che possa poggiare le proprie basi proprio presso l'opi nione comune, dal momento che essi si appel lano alla nozione elementare che tutti gli uomini posseggono sull'esistenza degli dei. Secondo l'epicureo Velleo è la natura stessa che ha impiantato nel nostro spirito questa nozione di dio. In questo contesto la teologia epicurea non rifiuta affatto una descrizione piuttosto precisa della natura fisica del­ l'essere divino, anzi essa riconosce l'esistenza di dei maschili e fem­ minili, accordandosi su questo punto con le rappresentazioni popolari piuttosto che con le concezioni dei filosofi. Questa differenziazione ses­ suale non implica che i corpi divini siano conosciuti come identici o simili agli uomini: poiché la natura degli dei è troppo sottile per essere percepita dai sensi, essa non può avere la struttura compatta delle cose tangibili. Il loro stesso genere di vita deve corrispondere alla loro costi­ tuzione fisica. Allo stesso modo, tenendo fede a testimonianze che sottolineano i l carattere mitico della religione epicurea, vediamo che Epicuro e la sua scuola si riallacciano alla tradizione del politeismo ellenico, enunciando il principio che alla moltitudine degli esseri mortali deve corrispondere una moltitudine di esseri immortali e che le forze di conservazione devono equilibrare nel mondo le forze di distruzione. 3 18 LATTANZIO, 2, 1 0 sg.: «ltaque naturam non matrem esse generis humani, sed

novercam . . . »; SENECA, De beneficiis, II, 29, 1 -2; FILONE di ALESSANDRIA, De posteritate Caini, 1 62 . 3 19 Actes du VIII Congrés de l 'Association G . Budé, Paris, 1 969, p . 1 28. 320 G B KERFERD, in «Journa1 of Roman Studies», 1 956. p. 1 77. .

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L'immortalità stessa degli dei, collegandosi ai principi atomistici321, non è uno stato passivo o una qualità statica, ma il risultato di un processo dinamico, di un rinnovamento perpetuo: l'immortalità degli dei epicurei non è qual­ cosa data una volta per tutte, ma in qualche modo eternamente conquistata322• Dalla incorruttibilità e dalla fel icità possono dedursi le altre caratte­ ristiche della natura divina. Il principio di una sana teologia, secondo Epicuro, deve essere in effetti quello di evitare di conferire alla divi­ nità niente che sia in opposizione con la sua immortalità o i ncompati­ bile con la sua beatitudine, preoccupandosi di attribuire ad essa tutto ciò che è suscettibile di preservare l'una e l'altra. Questa nuova teologia pre­ tende un nuovo culto spirituale, nel quale i riti e le cerimonie tradizionali non rappresentano che un aspetto secondario, simbolico, dell'omaggio reso dal fedele al suo dio, mentre l'elemento essenziale è costituito dalle nozioni pie, dalle "opinioni pure e sante" che l 'uomo veramente saggio deve professare per comprendere la grandezza e la maestà della natura divina323• Correlativamente per Epicuro, come per Platone del resto, la vera saggezza si definisce come imitazione del dio: «il saggio ammira la natura degli dei e la loro condizione e si sforza di rassomigliarvi»324• L'epicureismo, in definitiva, potrebbe definirsi, usando le parole di Schmid325 come una dottrina razionale che si serve dei modi di espres­ sione religiosa per tradurre la sua rivendicazione di assoluto. Lo stoicismo non è da considerare soltanto come un sistema filosofico, ma anche come una dottrina religiosa, nella quale confluiscono le forme più arcaiche e più contestate della religione popolare, che i rappresentanti del Portico non si fanno scrupolo di interpretare in un modo totalmente arbitrario, con distorsioni e accomodamenti. Analogamente non si può 321

C. BAILEY. The Greek Atomists and Epucurus, New York 1 964, p. 46 1 -467. K. KLEVE, Die Unvergiinglichkeit der Gotter im Epikureism, in « Symbolae Osloenses», 1 960, pp. 1 1 6- 1 1 7; J.M. RIST, Epicurus. An lntroduction, Cambridge 1 972, pp. l 40- 1 63 . 3 23 G.D. HADZSITS, Significance of Worship and Prayer among the Epicureans, in «Transactions of the American Philological Associatiom>, 1 908, pp. 73-88; 324 A.J. FESTUGI È RE, Epicure et ses dieux, Paris 1 946, tr. it. Firenze 1 960. 325 W. SCHMID, Gotter und Menschen in der Theologie Epikurus, in «Rheinisches Museum», 1 95 1 , p. l 02; Idem, Epikur, in Reallexikon fiir Antike und Christentum, fase. 87, 1 96 1 , col. 746. 322

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sfuggire all'impressione che la forma allegorica della loro dottrina non sia che un pretesto per illustrare un aspetto della Scuola, piuttosto che uno sforzo sincero per fare apparire le credenze essenziali che costitui­ scono il fondo comune alla filosofia e all'antica religione. Specialmente si individuerebbe presso gli Stoici un'ambiguità fonda­ mentale nell'atteggiamento adottato nei confronti della tradizione: da una parte questa è invocata come un'autorità, donde il ricorso alle "nozioni comuni" (per cui non è possibile ricusare credenze generalmente ricono­ sciute) e all'argomento del consensus dall'altra essa è trattata con la più perfetta disinvoltura, quando non coincida con la dottrina della scuola. Il criterio delle nozioni comuni non impedisce a Zenone di fare tabula rasa di tutte le idee o rappresentazioni abituali sugli dei, quando egli inter­ preta la Teogonia di Esiodo. Senza dubbio gli Stoici, come hanno fatto altri filosofi, si sforzano di giustificare la loro posizione con il creare delle separazioni tra ciò che è valevole e ciò che è caduco nell'apporto della tradizione; ma le teorie che essi elaborano, come quella della diastrofè (il tentativo di chiarificare la "perversione" che allontana la ragione umana dalla conoscenza naturale del vero e del bene)326 risultano estre­ mamente soggettive. Nonostante tutto, pre s s o g l i storici modern i , la s cuola stoica occupa il più importante posto per la conoscenza delle idee religiose dell 'ellenismo. Nel denunziare l'empietà delle favole della mitologia classica, essi insistono soltanto sull'irrazionalità delle rappresentazioni antropomor­ fiche abituali della divinità, facendo confluire per la prima volta nella loro critica le due tendenze fondamentali della critica senofanea. Come topoi della teologia mantengono i principi che Platone aveva opposto alla teologia dei poeti. Malgrado la inclinazione profonda della teologia stoica verso il monoteismo, il politeismo tradizionale è salvaguardato dalla distinzione tra un Dio supremo e gli dei secondari, che si confondono con quelli della religione popolare. Il dio stoico è il Dio supremo diffuso nel cosmo che egli anima; gli dei della tradizione sono i nomi che questo Dio unico può assumere a seconda delle parti del mondo dove esso si mani326

M. POHLENZ, Die Stoa, Geschichte einer geistigen Bewegung, I, Gottingen 1 948, tr. it. Firenze 1 960.

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festa, sono gli aspetti i nfi n itamente vari che esso riceve, sono le forze subordinate che rappresentano in qualche modo le sue emanazioni. La creden za stoica nella divi nazione anche se demandata al con­ sensus per la sua giustificazione, è caratterizzata dalla valenza scien­ tifica della loro credenza: infatti essi non cessano di i n sistere sulla differenza tra la loro spiegazione del fenomeno e la concezione popo­ lare. La mantica non implica in effetti, secondo essi, alcun intervento diretto e miracoloso di una divinità, perché il segno è naturalmente legato alla cosa significata, sebbene le predizioni divinatorie si appog­ giano semplicemente su sintomi naturali di certi avvenimenti. Un'altra convinzione popolare integrata dallo stoicismo è la vecchia credenza nei demoni e negli eroi, che i filosofi del Portico definiscono rispettivamente come delle essenze psichiche, esseri animati e intelligenti che aleggiano nel! 'atmosfera. Un altro tratto paradossale della filosofia religiosa degli Stoici è l'uti­ lizzazione costante di argomenti e motivi usati da altri filosofi. La maggior parte delle spiegazioni sull'origine degli dei delle teolo­ gie sono improntate su autori precedenti, come per esempio l'idea che risale a Democrito sulla nozione di dio derivante dall'osservazione dei fenomeni atmosferici; oppure quella della apoteosi dei benefattori del­ l'umanità, popolarizzata da Evemero. Allo stesso modo l'idea che la credenza religiosa è un elemento indispensabile al mantenimento della moralità, tanto nella vita dell'individuo che in quelle delle società politi­ che (idea che si trova enunciata nella famosa teoria di Crizia sull'origine della religione). Anche la stessa pietà stoica trova la sua espressione naturale nel tema platonico dell'imitazione del dio e l'idea connessa che il "favore divino" è riservato a quel l i che vivono in conformità della saggezza e della ragwne. La conclusione paradossale alla quale si giunge, è che n iente sembra meno originale della filosofia religiosa delle più religiose di tutte le filo­ sofie greche. Tutto fa pensare che la filosofia del Portico sia nata per assu­ mere ed ampliare i principali temi della riflessione religiosa delle altre scuole, e precisamente quattro motivi che sono apparsi i più caratteristici della religione dei fi losofi greci e cioè la critica della teologia mitica e

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delle credenze popolari, la spiritualizzazione e la moralizzazione delle pratiche culturali e della pietà. Non esiste, sé si può propriamente parlare di teologia stoica che si possa distinguere dal resto della dottrina. Per gli Stoici, come per gli antichi fisici della Ionia, la teologia era parte inte­ grante della scienza della natura, o piuttosto non era che un'altra denomi­ nazione di questa stessa scienza, come Dio, è un altro modo di significare la Natura. Correlativamente non si può parlare di religione stoica, perché per l'adepto del Portico la religione si confonde totalmente con la scienza delle cose divine e umane. Per gli Stoici, come per Aristotele, può essere detto che la credenza religiosa è divenuta indistinguibile dalla spiegazione scientifica del mondo, e nello stesso tempo ha perso tutta la sua specificità: nell'uno e nell'altro sistema, si può considerare che la filosofia è totalmente religiosa o la religione totalmente filosofica. Questa propensione all'assorbimento della religione nel dominio della filosofia non è proprio, è vero dello stoi­ cismo o dell'aristotelismo: si constata presso Platone e presso Epicuro. Però, mentre in Platone ed in Epicuro la fusione tra fi losofia e reli­ gione conduce ad una colorazione religiosa dell'intero sistema, presso Aristotele e gli Stoici, l'identificazione del divino e del naturale conduce inevitabilmente a risultati inversi: come in quei "mescolamenti totali" descritti dalla fisica stoica, la religione si dissolve totalmente nella rap­ presentazione filosofica del mondo e perde necessariamente la sua speci­ fica essenza. Si può concludere affermando, anzitutto, come ciò che appare con­ traddittorio e incoerente nel pensiero religioso dei filosofi greci non ha delle ragioni accidentali, ma radici profonde che indicano con chiarezza come la maggior parte degli autori siano prettamente coscienti delle con­ traddizioni che imputiamo ad essi. Inoltre, nonostante le varie divergenze che possono sussistere tra i diversi filosofi, una straordinaria continuità di pensiero si profila in essi, a tal punto da costituire una sorte di religione comune ai filosofi, chiaramente definita da grandi principi: il rigetto della mitologia e della teologia dei poeti: il mantenimento delle forme esteriori di culto e della pietà tradizionale, considerate queste ultime attraverso una trasformazione interiore, nel senso di una moralizzazione e di una spiritualizzazione.

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A questa marcata continuità di pensiero si affianca anche un particolare atteggiamento nei confronti della religione civica: per cui o essi rifiutano completamente la religione civica tradizionale, oppure l ' accettano incon­ dizionatamente con tutte le proprie esigenze ed implicazioni. Si deve ammettere tuttavia, che lungi dal riconoscere alla religione un dominio proprio, la filosofia greca ha sempre tentato di interpretare il fenomeno religioso inserendolo nella sua spiegazione del mondo. Quindi niente sarebbe di più falso che far coincidere la storia del pensiero reli­ gioso con quello di un Aufklarung, di un'emancipazione progressiva dal pensiero razionale. Da un certo punto di vista l'emancipazione è compiuta nell'epoca di Anassimandro, ma da un altro è profondamente vero che i filosofi greci non hanno mai potuto rinunciare a conferire all'Essere gli attributi della divinità, e che essi sono spinti a divinizzare la natura. È indubbio che non si è potuto fare a meno di sostenere che il panteismo sia un tratto costante della religione greca e di quella dei filosofi in particolare, o ancora che Dio sia per questi ultimi nient'altro che una manifestazione particolare del divino327• Questo stato di cose implica come rilevante conseguenza il fatto che la filosofia non può rompere i legami con la religione popolare, per cui questa connessione obbligata tra la religione dei filosofi e la religione del popolo non si attuerà a beneficio esclusivo di quest'ultima poiché non escluderà, ma piuttosto implicherà una reintegrazione più o meno forzata, delle credenze tradizionali, affinché esse si armonizzino con i dogmi della filosofia.

327 E. WILL, Le mond grec et l 'Orient, Paris 1 950, l. P. 526, n. l ; W.J. VERDENlUS, Platons Gottesbegriff, cit. p. 244 «Gott ist nur die bestimmte Erscheinungsform des Gottlichem>.

Interpreti medioplatonici del pensiero educativo filosofico di Platone

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CAPITOLO SESTO

Il fondamento logico-sociale della fede religiosa

Stato e religione

Il libro X delle Leggi introduce in un ' importante fase della dottrina platonica, costituita dalla sua teologia, la quale si presenta nel filosofo come una teo logia naturale o filosofica328, ovvero come un tentativo di stabilire certe verità intorno all ' esistenza, alla natura del divino sola­ mente per mezzo della ragione. Questa teologia, secondo Platone, vuole sostituirsi alle varie e false credenze teologiche allora divulgate, proprio perché il filosofo è profondamente convinto che vi siano certe verità sul divino in grado di essere dimostrate e che il non riconoscerle o rifiutarle influisce negativamente sulla condotta privata e pubblica del polites. I l quale, privo di queste certezze che costituiscono, per Platone, il para­ metro nel quale deve essere contenuta la sua singola esistenza, tenderà a 32 R

A.E. TAYLOR (Platone L 'uomo e l 'opera, trad. it. di M . Corsi, Firenze 1 968, pp. 756-757) e G .R. MORROW (Plato s Cretan City: a historical inte1pretation of the Laws, Princeton, N. J., 1 960, p. 487) ricordano che dobbiamo questa espressio­ ne al poligrafo romano M. Terenzio Varrone, il quale distingueva tre specie di di­ scorsi sugli dei o sul divino: quello poetico consistente soltanto nei miti riferiti dai poeti, quello civile contemplante la conoscenza del calendario del culto dello Sta­ to, quello naturale o filosofico, che sottende la dottrina delle cose divine insegnata dai filosofi come parte integrante della loro visione della physis. Il primo discorso, secondo un 'opinione che risale ad Erodoto, è presentato come pura invenzione dei poeti che mirano ad interessare e divertire; il secondo è visto come una creazione dei politici per fini sociali; il terzo, come un tentativo di dare una parte della verità sul divino. Bisogna tener presente, sottolinea A. E. TAYLOR (op. cit. , p. 757) che l'epiteto «naturale» in quanto attribuito originariamente a questa specie di teologia non postula nessun contrasto con la teologia «rivelata» o «storica)), ma non signifi­ ca altro che «scientifica)).

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turbare l' ordine sociale e a cadere in una serie di atti che il sistema legi­ slativo, espressione concreta di questa auspicata unione tra il divino e l 'umano, contempla come "empi" e come tali li condanna, punendo li in vari modi329• I n tal modo il divino, divenendo la base su cui deve essere fondata la città330, deve ispirare nei cittadini una riverenza per le leggi e le istituzioni dello Stato; servirà ad essi come il più potente incentivo per una condotta legale e sarà i l più severo deterrente per la trasgressione delle leggP31 • Solo la credenza nel divino implicherà, di agire in maniera 329 Il libro prende inizio, infatti, con l ' enunciazione di un principio legislativo ap­ plicabile agli atti di hybris (Leges X, 8 84a. Per la traduzione dei passi dei dialoghi si rimanda ali ' edizione laterziana: Platone Opere. vol. Il, Bari 1 967). Nella legge greca e nella morale hybris rappresenta un concetto difficile da chiarire: quando è applicato alle offese legalmente punibili esso implica un genere di atto che com­ prende l ' ingiuria, ma anche l ' insulto a qualcuno, un' offesa che investe la reputa­ zione di una persona, la sua dignità o autorità. Le implicanze con concetti religiosi fa si che questo termine sia adatto a designare le offese contro gli dei. Platone la­ scia il termine in questa vaghezza religiosa; esso specificherà, nel caso del libro X delle Leggi tre gravi generi di errori di credenza. Y. BRÈ S (op. cit., p . . 307, n. 90), chiedendosi se la nozione di hybris designi in Platone una follia nel senso moder­ no del termine o una dismisura di ordine morale, fa risaltare come l 'espressione evidenzi un senso preciso ne li' opera platonica a tal punto che è possibile conside­ rarne tre aspetti: uno psicopatologico (Leges X, 906b), uno giuridico (92 7c), uno religioso (885b). 330 Lo Stato viene in qualche modo divinizzato, i delitti che intaccano la sua arma­ tura e minacciano la sua esistenza sono sacrilegi, veri danni sociali, che spesso Pla­ tone attribuisce ai giovani, i quali nei loro atti sacrileghi manifestano un rifiuto glo­ bale della legislazione, facendo quasi pensare che essi siano considerati dal filosofo la fonte dell'opinione pubblica (Leges X, 884a). J J I Si prova cosi l'esigenza di elaborare una legge che possa risolvere d'un sol col­ po tutti i danni che minacciano lo Stato e che mantenga l ' integrità della legislazio­ ne. Questa legge determinerà la punizione che dovrà colpire coloro che oltraggiano gli dei e con «le parole e con gli atti» (Leges X, 885b). L'empietà con le parole po­ trà corrispondere al crimine, di cui sono stati accusati i fi losofi precedenti; quanto all 'empietà negli atti non può che consistere in attentati rivolti sia al culto sia agli oggetti sacri (in Atene per es., il processo di Alcibiade). Platone non considera come empie le ricerche astronomiche condannate dal decreto di Diopeite. Egli al contrario sottolinea che tacciare di irriverenza verso gli dei le ricerche su li 'universo è para­ dossale (82 1 a).

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conforme alla struttura legislativa dello Stato. Così l 'unico obbligo impo­ sto ai cittadini della città platonica sarà quello di essere credenti332• La risposta a questo bisogno platonico di equilibrio nella vita sociale è, dunque, offerto da una fondamentale esigenza della sua nomotesia, la quale fa sì che i cittadini si persuadano che "quella verità", ovvero la comunanza che si vuole tra il divino e l'umano, diventi "una verità" sociale e sia vista non solo come un fine a cui si tende, ma come un mezzo di azione sugli altri, una condizione di efficacia di persuasione333• Il proemio - che era uno degli elementi classici del discorso, la cui azione costituiva oggetto di particolare interesse nelle scuole di retorica, come lo stesso Platone ci informa nel Fedro -, diventa nel libro decimo delle Leggi il modo di esprimersi di questa nuova ed originale coscienza del compito legislativo334• Esso esprime, oltre all'utilità pratica di una persua332 La considerazione religiosa dello Stato è in Platone un portato della mentali­ tà dell 'epoca. D 'altro lato funge da determinante in questa prospettiva l ' idea che l 'istinto di disordine che regna neli 'animo umano può essere contenuto dal credere nella divinità. I l credere nel divino è garanzia del rispetto delle leggi; esso è la mi­ gliore salvaguardia della società (cfr. M. VANHOUTTE, op. cit., p. 365). 333 Il carattere pratico della persuasione rispecchia l'aspetto didascalico di essa (cfr. Y. BRÈ S, op. cii., p. 354); riflette forse, come sostiene il SANDVOSS (op. cit., 48) la figura del l ' istitutore che crede di svegliare e di suscitare. Il SOLMSEN (Plato s Teology, Ithaca 1 94 1 , p. 1 33), poi, sottolinea come questo preludio giudicato il più lungo di tutti (cfr. MORROW, Plato s City, cit., p. 477) sia contrario allo spirito del­ la legislazione di Platone e dell'ideologia platonica di fidare interamente sull 'autori­ tà e il potere. 334 La parola che Platone spesso usa per questo tipo di persuasione è «incanta­ mento». Nel considerare questo termine bisogna però liberarsi da ogni intendimento che veda in esso una forma di magia (come fa p. es. il BRÈ S, op. cit., p. 2 1 5) oppu­ re un richiamo alla sola ragione e scorgervi piuttosto un appello al l ' integrale strut­ tura del l'uomo nel suo essere razionale ed emozionale. Ciò premesso, bisogna no­ tare che sul valore parenetico-oratorio dei proemi hanno insistito sia il MORROW (Piato and the Theory of Persuasion, in «Philosophical Review», 1 953, pp. 234254) sia H. KOLLER (Das Kitharodische Prooimion, in «Phi lologus», 1 956, pp. 1 59-206) il quale, riportando i proemi di Platone al nomos citaredico, crede all 'esi­ stenza di proemi già formulati. Più recentemente il GORGEMANNS (Beitriige zur Interpretation von Platons Nomoi, Miinchen 1 960, p. 57), insistendo sul valore pa­ renetico dei proemi, fa notare come da parte di Platone ci fosse la proposta di «una nuova posizione letteraria» che sarebbe il risultato de li 'aspetto tecnico-artistico del

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sione necessaria all'amministrazione dello Stato, proposta da Platone (in cui, a differenza degli altri Stati esistenti, governati dalla forza, vivono cittadini liberi e alimentati dal culto dell'eroe e dallo spirito di competi­ zione), anche la fondamentale esigenza che la costituzione si erga come strumento di un più alto livello di autenticità umana, caratterizzata dal trovare nella stessa struttura politica l'intrinseco valore dei fini per i quali le leggi sono disposte. Pertanto l'intento platonico nel libro decimo delle Leggi si riassume nel cercare di fornire alla fede religiosa un fondamento logico attraverso la dimostrazione di certe tesi fondamentali: dare alla religione, rafforzata e purificata nelle sue strutture tradizionali, una base giuridica sulla quale quelle tesi dovranno poggiare e una base sociale promuovendo un'intima unione della vita religiosa con quella civile335• Le tesi che a tale scopo Platone si propone di dimostrare e che costi­ tuiscono i principi fondamentali della sua teologia naturale, i cardini culturali della sua nuova politica nelle Leggi, sono chiaramente distinte secondo questo ordine: l) esistenza degli dei; 2) cura divina della sorte dell'umanità; 3) impossibilità degli dei di essere corrotti da parte degli uomini336•

Critica delle posizioni ateistiche

La prima tesi, per lo spartano del dialogo platonico, trova certamente una sua verifica positiva in due argomenti. I l primo, rispecchiando con­ siderazioni di ordine fisico-teologico, nasce da un semplice guardare e riflettere su quei fenomeni naturali che attestano l'ordine divino del Gorgia, gnoseologico-mitico del Menone e della Repubblica, divino ispiratorio del Fedro. Sul l ' originalità storica dei proemi la critica ha prospettato varie interpre­ tazioni, sulle qual i cfr. M. ISNARDI PARENTE (E. ZELLER-R. MONDOLFO, Lafilosofia dei Greci nel suo sviluppo storico. P. II, vol. III/2, Firenze 1 974, pp. 792-793). 335 E. DODDS, I Greci e l 'irrazionale, tr. it. di Vacca de Bosis, Firenze 1 959, pp. 265-6. 336 Leges, X, 885 be. Questi tre argomenti compaiono già menzionati da Platone nel libro II della Repubblica dove, pur descritti come potenziali e attuali forze di morali­ tà, non erano considerati, come nel libro X delle Leggi, quali temi filosofici.

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mondo, con la presenza del la Terra, del Sole, degli Astri, con i l suc­ cedersi delle stagioni e la loro ripartizione in mesi ed anni. Il secondo deriva, invece, da osservazioni, diremo, di ordine statistico, ovvero dal­ l'affermazione che l'esistenza degli dei trova nella "generalità degli indi­ vidui" la sua accettazione. In tal modo si può affermare che sia presso i Greci sia presso i barbari la prima tesi raggiunge un «consenso univer­ sale»337. Questi primi due argomenti attestano come, presso quelle civiltà di arcaica tradizione, l'incredulità non abbia basi dottrinali, ma radici puramente passionali: una contesa e un dissidio sull'esistenza degli dei può avere presso di loro cause riportabili solo a meri atteggiamenti di intemperanza e di smoderatezza338• Secondo Platone, queste civiltà arcai­ che non concepiscono un ateismo intellettuale nel suo principio, ignorano le cause di diffidenza, particolarmente sviluppate nelle civiltà evolute, quell'ignoranza che, invece, a coloro che la professano sembra espres­ sione della più alta saggezza339• Colpevole di 'tali incredulità, nel tempo presente, appare quel mondo culturale costituito dalle antiche favole cosmologiche o teologiche che, certamente, non ebbero spazio di sopravvivenza in quelle civiltà arcaiche (spartana-cretese) proprio perché le loro costituzioni, contemplando la censura degli scritti dannosi, ne vietarono la divulgazione340• Non si ritiene necessario apportare considerazioni valutative su que­ sto retroterra culturale-religioso, né sulla sua effettiva utilità per la dimo­ strazione dell'esistenza degli dei. Perché si manifesti uno degli assunti platonici fondamentali, cioè la imprescindibile solidarietà tra legislazione e divinità, è tuttavia opportuno rifarsi alle dottrine filosofiche del tempo che, assumendo l'autorità del vecchio argomento della teologia popo337 Leges X, 886a. La prova del/ 'argomentum e consensu omnium (cfr. GORGEMANNS, op. cit., p. 8) diventerà un luogo comune nella teologia ellenistica (cfr. R. SCHIAN, Untersuchungen uber das «argumentum e consensu omnium», Hildesheim New York 1 973, pp. 62-85). 338 Leges X, 886ab. 339 Leges X, 886b. La parola phronesis secondo GORGEMANNS (op. cit., p. 1 40) è ironica. Una specie di Unvernuft che passa per «saggezza» e che al SANDVOSS (op. cit., p. 1 76) sembra rientrare nella natura del! 'amathia. 340 Leges X, 88 6cd. Il filosofo sembra rinviare implicitamente al libro II della Re­ pubblica (377d-3 83c), dove condanna esplicitamente Omero ed Esiodo. ,

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lare, dimostrino con discorsi di presunta autorità scientifica che il Sole, la Luna e la Terra non sono dei né esseri viventi, ma nient'altro che terra e pietre341 • È necessario quindi essere fortemente persuasivP42 nel proporre que­ ste nuove tesi miranti a scardinare le dottrine di coloro che, senza alcuna logica motivazione, hanno disconosciuto completamente quella educa­ zione rel igiosa che hanno ricevuto dai loro padri343• Pertanto, affinché non ci si sdegni semplicemente per questo rifiuto immotivato di un credo che ha radici profonde nell'educazione e nella razionalità più viva del­ l 'uomo, è indispensabile la migliore serenità per rivolgersi ai non cre­ denti, ovvero a coloro che si siano lasciati corrompere nel loro pensiero, abbandonando la credenza più vera che il comportamento assunto nella vita dipende dal modo di intendere il divino stesso. Il credere nell'esi­ stenza degli dei, nella loro giustizia e integrità, fa sì che la nostra vita abbia un andamento non distorto, anzi fa riconoscere in quella accetta­ zione consapevole del divino l'unica, vera fonte del carattere etico della nostra esistenza, che verificherà la propria autenticità nell'apparato legi­ slativo della polis, la codificazione del comportamento etico degli indi­ vidui stessP44• 34 1 Leges X, 886e. 34 2 Leges X, 887ab. 343 Leges X, 887dc. Il «prostrarsi e inginocchiarsi all'alba e al tramonto» come par­ ticolare forma di culto al quale il passo fa riferimento, sembra per i l FESTUGI ÈRE (Études de philosophie grecque, Paris 1 97 1 , pp. 57-58), un travisamento dei fatti da parte di P latone dal momento che né l' oggetto del culto né le gesta di adorazione sono greci, ma barbari. Il DODDS (op. cit., p. 269), d' altra parte, pur ammettendo che sono usanze barbare anziché greche, sembra considerare che la dichiarazione di Platone sia giustificata a sufficienza dalla regola di Esiodo per la preghiera e le of­ ferte ali 'alba e al tramonto (Erga, v. 33 8) e da Aristofane (Ptut. 77 1 ). 344 Leges x, 88 8be. Sulla questione del rapporto di Platone con la religione tra­ diz ionale è possibile enunciare varie i mpostazioni interpretative: la prima si preoccupa di vedere in Platone una specie di conservatori smo re l igioso, pro­ prio perché egli non esce fuori dagli schemi del politeismo tradizionale e dai ca­ ratteri specifici dei suoi dei (cfr. P . M . CORNFORD, The Polytheism of Pia­ lo: an Apology, in « Mind», 1 93 8 , pp. 1 80- 1 89; G. MULLER, Plato and Gods, i n «Philosophical Review», 1 93 6 , pp. 452-72; W.K.C. GUTHRIE, Orpheus and Greek Religion, London 1 95 1 , p. 52 e sgg.). La seconda tendenza, notan-

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Le argomentazioni che gli atei offrono per negare l'esistenza degli dei si avvalgono di due considerazioni, il cui scopo complessivo è di spiegare l'ordine naturale mediante principi puramente meccanici. La prima sot­ tolinea la priorità assoluta dell'irrazionale e l'assenza totale di ogni fina­ lità nell'interpretazione dei fatti naturali. La seconda, riflettendo invece sulle svariate specie di relativismo che sembrano aborrire da ogni norma assoluta, affida l'individuo alla molteplicità disordinata delle azioni, dove ciascuno si lascia trascinare dal proprio istinto senza nessun principio regolativo, in maniera che le diverse condotte umane sembrano assumere lo stesso valore o essere prive di un vero valore. In proposito dobbiamo discernere quattro momenti, distinti in due fasP45. Il primo momento, ponendo l'accento sui tre termini su cui poggia do come la rel igione di Platone sia un effettivo ritorno alla religione tradiziona­ le, mette in evidenza il tentativo platonico di spiritualizzare e purificare quel­ la stessa sulla scia di fì losofì precedenti (cfr. A. DI È S, La religion de Piaton, in A utour de Platon, II, Paris 1 927, p. 575; O. REVERDIN, La religion de Platon, Paris 1 945) . La terza tendenza, pur insistendo sul carattere non tradizionale del­ l ' ultima teologia platonica, evidenzia l ' i ntento platonico di operare l ' accordo di quest' ultima con la stessa religione tradizionale, di creare comunque un profon­ do intreccio tra innovazione e conservatorismo (cfr. M. GUEROULT, Le X !ivre des Lois et la dernière forme de la physique platonicienne, in «Revue des Études Grecques», 1 924, p. 2 1 3 ; V. MARTIN, Sur la condamnation des athées par Pia­ ton au X livre des Lois, in «Studia Philosophica», II, 1 95 1 , pp. l 03- 1 54; E. DOD­ DS, I Greci e f 'irraz. cit., p. 269; D. BABUT, La religion des philosophes gre­ cs, Paris 1 974, p. 1 03). La quarta tendenza, considerando l ' intero mondo filoso­ fico di P latone profondamente rel igioso, vede il fi losofo di fronte alla rel igio­ ne tradizionale n eli ' ambito di un rinnovamento contenutistico (cfr. J .K. FEI­ BLEMAN, Religious Platonism. The lnfluence of Religion an Plato and the ln­ fluence oJ Piato on Religion, London-New York 1 95 9 ; N. GOLDSCHMIDT, La religion de Platon, in Platonisme et pensée contemporaine, Paris 1 970, p. l ). La quinta tendenza, infine mostra come Platone di fronte alla religione tradizionale si muova nell'ambito di un rinnovamento conservatore, di uno sforzo di reintegrazione della tradizione nella sua purezza (cfr. W. J. VERDENIUS, Platonis Gottesbegr!ff. in Entretiens sur l 'A ntiquité classique, l, Paris 1 954, pp. 24 1 -92; C .J. DE VOGEL, What is Godfor Plato?, in Philosophia I, Assen 1 970, pp. 2 1 0-42). Per l ' intera pro­ blematica esaminata si cfr. M. ISNARDI PARENTE (op. cit., pp. 682-7). 345 I momento: tutti gli esseri devono la loro origine chi alla Natura, chi al Caso; chi alla Tecnica; II momento: alla Natura e al Caso si devono le creazioni primarie

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la teoria, evidenzia come tutto ciò che viene ad essere è da riportare a tre possibili cause o più esattamente a tre matrici: la natura, la tecnica e il caso346• I l secondo, insistendo sulle relazioni esistenti tra questi termini, considera i due termini estremi equivalenti nel loro incontro generativo, per cui essi costituiscono un'unica e sola realtà causale, produttrice delle opere primarie e più belle, opposte a quelle nettamente secondarie pro­ dotte dalla tecne. In tal modo per una riduzione simmetrica la triplice causalità è immediatamente riportata ad una causalità doppia: i termini che, nell'enumerazione delle tre cause, sono posti in primo e terzo posto, la natura e il caso, sono presi insieme e sotto forma di coppia sono oppo­ sti alla tecnica. Infine le opere della natura e del caso sono dette pri­ marie, quelle della tecnica artificiali e secondarie347• Il terzo e il quarto momento non fanno che esplicitare l'uguaglianza tra lafiusis348 in opposi­ zione alla tecne, sviluppando successivamente i differenti aspetti che essi rivelano, scindendo il passaggio dalla prima fase della teoria di genere psico-cosmologico alla seconda di tipo chiaramente etico-sociale. La pre­ sentazione, pertanto, del terzo momento ha per oggetto l'equivalenza dei termini natura-caso dal punto di vista della loro efficacia causale. Ad essi sono infatti da riportare le grandi realtà primordialP49 così come altre (grandi e belle), al la Tecnica si devono invece, le creazioni (piccole e artifi cial i); III momento: l ) creazioni prodotte esclusivamente dalla Natura e dal Caso: i quattro elementi; 2) creazioni prodotte dalla Natura, dal Caso e dai quattro elementi: Terra, Sole, Luna, astri; il cielo e ciò che contiene; le stagioni; gli animali e le piante; la tecnica; 3) creazioni prodotte esclusivamente dalla Tecnica: oggetti privi di valore, tali come i prodotti della pittura, della musica, delle arti ausiliarie, della legislazio­ ne; 4) creazioni prodotte dalla Tecnica e dalla Natura: oggetti che posseggono qualche valore, tali come i prodotti della medicina, dell'agricoltura, della ginnasti­ ca. La politica è da una parte un prodotto della Natura, dall' altra no (la legislazione). IV momento: gli dei, il bene morale e il giusto sono esclusivamente prodotti della Tecnica. 3 46 Lege.s X, 888e. 347 Leges X , 889ab. 34 8 Leges X, 8 89be. 349 Bisognerebbe escludere pensatori come Diogene di Apollonia che, al seguito di Empedocle, ammettono l' esistenza dei quattro elementi, cercandoli di ridurre ad una realtà primitiva, e i primi fisiologi, anteriori ad Empedocle che considerano l ' uno o l ' altro di questi elementi come sostanze primordiali (cfr. F.M. CORNFORD, From

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creazioni che, pur dovendo la loro esistenza all'incontro e alla combina­ zione fortuita350 degli elementi secondo certe qualità opposte, debbono essere riportati, in ultima analisi, agli stessi due principi351 • Alla natura come principio si oppone la tecnica che, non avendo né realtà né efficacia autonome, si configura come l'ultimo prodotto della natura, perciò le sue produzioni, a differenza delle grandi e belle realizzazioni della natura, non sono che immagini prive di alcuna verità; quanto più esse si allonta­ nano dalla natura, tanto più sono pura tecnica, ovvero tanto più manife­ stano il loro carattere artificiale. In questo modo il significato secondario che la teoria attribuisce alla tecnica si mostra a vari livelli: ad uno stadio cosmologico, per la sua posteriorità rispetto agli esseri naturali (poiché Religion to Phylosophy, New York 1 9 57, p. 242; R. MUTH, Studien zu Platons «Nomoi» X, 885b2-889b3, in «Wiener Studiem>, 1 956, pp. 1 40-5 3). Certamente Pla­ tone, come interpretano il TAYLOR (op. cit., p. 758), il MORROW (Piato 's Cre­ tan, cit., p. 479) e M. ISNARDI PARENTE (op. cit., p . . 785-86), ha voluto riassu­ mere con questa enumerazione tutto ciò che prima di lui poteva essere ammesso come ipotesi cosmogonica. Analizzando più affondo il contenuto della teoria, egli parla dell'errore che commettono «tutti gli uomini che non si attaccheranno alle ri ­ cerche sulla natura». Difficilmente ammissibile, contrariamente al GUEROULT (Le X livre des Lois, ci t., p. 3 1 ) ci sembra che Platone, menzionando i quattro elementi alla fine della parte fisica della sua teoria, abbia voluto col legarsi principalmente ai sistemi che, come quelli di Anassagora e degli atomisti, pongono a base un numero infinito di elementi. 350 Sembra, come ha fatto notare il NESTLE ( Von Mythos zum Logos, Stiittgart 1 942, p. 1 1 5 , n. 5 1 ) che tra i presocratici soltanto Empedocle faccia menzione del Caso, servendosi di espressioni diverse da tuche (cfr. H. DIELS, VS3 IB 1 03). Gli atomisti escludono dal loro si stema la nozione di uX l ) (cfr. W. GREENE, Moira, Fate good and Evi! in Greek Thought, Harvard 1 948, p. 296, n. 1 28). Tuttavia, se Leucippo e Democrito rigettano il Caso, nella loro cosmogonia essi attribuiscono una grande importanza alla necessità (cfr. H. DIELS, VS6782) che, in quanto prin­ cipio immanente alla materia, è agli occhi di Platone irrazionale quanto il Caso. 35 1 Essi trascinati nello spazio con le loro tendenze si incontrano e si mescolano secondo certe qualità, appartengono ad uno stesso genere; tutto ciò avviene in un modo assolutamente irrazionale e meccanico (Leges X, 889bc). Sulla base di questi testi platonici si è tentato, come il DE MAHIEU ha fatto (La dottrine des athées au X livre des Lois de Platon, in «Revue Beige de Philologie et d'Histoire» 1 964, p. 29 e sgg.) di operare una composizione lessicografica con certi pensatori, ai quali Pla­ tone avrebbe riferito la teoria.

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essa fu inventata più tardi, quando gli uomini erano coinvolti in un vero regresso di civiltà), a livello antologico, in rapporto al principio. natura­ caso e ai quattro elementi. Così, se la tecnica non può esistere, né essere produttrice se non in dipendenza dalla natura e se, inoltre, questa dipen­ denza assume spesso un carattere di imitazione, essa non può opporsi al suo principio in maniera assoluta, tale cioè da costituire un'alternativa di scelta o di posizione. In questo modo difficilmente possono essere attri­ buiti ad essa e al campo dei suoi prodotti caratteri d i definitezza e di verità. In tal senso alla politica e alla legislazione espressioni entrambe (per i seguaci della teoria enunciata) del quadro artificiale della tecnica, è contestata qualsiasi validità. Pertanto le leggi, e in particolare quelle che si occupano dell'esistenza degli dei, mancano totalmente di verità e di specifico valore. Per i sostenitori di questa teoria gli dei non sono che il frutto dell'invenzione della legge, che non avendo alcun valore assoluto induce a ritenere che gli dei stessi differiscono secondo i diversi sistemi legislativi e pertanto siano negati quasi in ragione della loro variabilità nello spazio352• Tutto ciò che nasce da questa matrice artificiale, quale è il mondo della tecnica, è soggetto a non credibilità e spesso a mera negaziOne. Lo stesso criterio interpretativo sembra investire, secondo questa teo­ ria, l'attenzione portata al bello e al giusto. Mentre il primo acquista due sensi diversi a seconda che sia da considerare "per natura" o "per legge"; il giusto ne presenta uno solo, dato che la sua considerazione "per natura" è da respingere completamente, a causa soprattutto della sua mutevolezza nel tempo. Così, ponendo le basi ad una critica del contenuto che le leggi e le convenzioni assegnano alle nozioni del bello e del giusto, la teoria adotta due criteri differenti. Essa riconosce che esiste secondo natura un criterio del bello, benché questo criterio non corrisponda al bello quale è concepito dalla legge, mentre per il giusto essa afferma che non vi è in natura alcun criterio da scoprire. È sufficiente identificare la giustizia con il bello che impone la legge; il bello secondo natura non è per nulla para­ gonabile al bello secondo la legge, dal momento che quest'ultima conce­ pisce come bello un tipo di giustizia, il rispetto del diritto altrui, che non si trova in natura. Ciò che è bello secondo natura rispetta la formula del 352 Leges X, 8 89e.

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diritto del più forte, per cui il debole, secondo questo principio, destinato irrimediabilmente a soccombere, sottolinea come unica e sovrana giusti­ zia sia I'ingiustizia353• Lo stretto legame tra questi ultimi elementi del la teoria sembra celare una contraddizione. Da una parte si nega l'esistenza di una giustizia secondo natura, dall'altra si parla di una giustizia per eccellenza e si descrive questa nell'evocare Io spettacolo della natura, dove si vede i l più forte prevalere sul più debole senza curarsi dei diritti d i quest'ultimo. Contraddizione facile da risolvere se si nota che nel primo caso si tratta della giustizia come l'intende la legge, mentre nel secondo la stessa sta ad indicare il sistema di relazioni con il quale i moderni vogliono sostituire la giustizia che compie la legge, con il sistema che si ispira alla natura, in cui ogni giustizia manca354• Vi è dunque, in questo modo una filosofia che divide la realtà in due parti: da un Iato un universo materiale, opera della natura, che si è evoluto per effetto del caso, dall'altro un universo di immagini, opera dell'arte, che è in gran parte fittizio. Questa distinzione che viene ad adoperarsi sottende un effettivo regresso di verità. Tutto ciò che è materiale è vero e tutto ciò che viene dall'arte è falso. II poco di verità che si accorda a certe arti, come la medicina, l'agricoltura, l'igiene, dipende dal fatto che esse prolungano l'opera della natura nel restaurare, nel migliorare e nell'intendere l'ordine che questa natura ha stabilito. In tale sistema ciascuna persona non potrà affermare nulla con cer­ tezza tale è la posizione epistemologica fondamentale che esistono in re gli dei così come la legge dispone di concepirli, né potrà stabilire alcune regole morali nei rapporti tra gli individu i stessi. Rompendosi ogni legame comunitario, si cade in un vero disordine sociale che porta fatal­ mente all'ateismo e all'immoralità.

Dimostrazione del divino: la natura soprafisica del! 'anima

Platone prima di operare un'offensiva contro questa teoria, ricorda ancora una volta quale sia il fine della sua esposizione e quali siano i 353 Leges X, 889e-890b. 354 Questo punto ci fa riandare all'espressione di Trasimaco nella Repubblica (1, 338c, 339a, 340c, 343c, 344c).

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mezzi che bisogna adoperare per raggiungerl a; si tratta di farsi protettore e sostenitore dell'antica credenza nell'esistenza degli dei, inoltre di pren­ dere le difese della legge e dell'arte dimostrando che esse esistano per natura e per un principio non inferiore alla natura stessa355• L'arte, inclu­ dendo la legge, viene ad essere il Prodotto del l'intelligenza e l'intelli­ genza è la più alta manifestazione del la natura. Per far questo è neces­ sario porre una relazione logica e metafisica tra l'esistenza della legge morale e quella del divino: quanto più, uno si fa un'alta idea della legi­ slazione e del la legge morale, tanto più si è convinti dell'esistenza del divino. Prima di enunciare la sua tesi Platone cerca di sviscerare quella dei suoi avversari, tentando anche di chiarire il linguaggio di cui essa è com­ posta, in modo tale da evidenziare meglio il fatto che, secondo tale tesi, il fuoco, l'acqua, la terra e l'aria sono i primi elementi di tutti gli esseri che bisogna definire come natura, mentre l'anima traendo la sua origine da essa, viene così ad essere posta al secondo rango nella scala degli esseri, come qualcosa di puramente posteriore356• La struttura di questa posizione appare a Platone priva di alcun senso logico, per cui si pone necessario dimostrare la falsità e dell'impianto logico della teoria e del linguaggio di cui essa si serve, i� ragione della giustificazione da dare, invece, a quella legge che comanda di credere agli dei, i quali a loro volta danno senso e valore all'intera legislazione357• Di fronte a quella forma di ateismo Platone già da tempo si era espresso in maniera negativa sia nel So.fista358, sia nel Filebo359• Ora nelle Leggi sigla in opposizione a quell'ateismo una stretta connessione tra la .fiusis e tecne360• Così, mentre gli atei (tali da Platone sono considerati i 355 3 51' 35 7 3 5H 3 59

Leges X, 890e. Leges X, 89 1 c. Leges X, 89 1 e. Sophi., 265c. Phil., 28d. 360 La tecnica non deve essere considerata solo a livello umano, ma anche ad un li­ vello superiore: «ciascuno cominci con il distinguere nella produzione due arti, dice lo straniero del Solista (255b), «quali? domanda Teeteto l 'una divina, l 'altra umana risponde lo straniero; idea questa che sarà ripresa meglio ancora nel Timeo, riassun-

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filosofi precedenti) cadono in un prima e dopo quando pongono l'archè delle cose posteriore alle medesime, introducendo l'assurda teoria che il principio del divenire cosmico segue i suoi stessi effetti, Platone, invece, ristabilisce, attraverso un ragionamento ipotetico deduttivo, la gerarchia cosmica affidando all'anima, divenuta l'entità originaria, e a ciò che è congenere con l'anima stessa, l'intelligenza, l'arte e la legge, sia la prio­ rità rispetto ai corpi nel loro venire ad essere, sia la guida di tutti i muta­ menti e le trasformazioni che possano investire i corpi stessi. In tal modo ciò che è realmente natura e per natura viene ad essere la psiche, intesa come manifestazione di intelligenza, di arte, di legge, di finalità ordinata e in funzione di questo, la critica platonica costruisce la sua analisi muo­ vendosi solamente nel campo delle apparenze sensibili. Mostra così come esista una fondamentale distinzione nelle cose dell'universo, tra quelle che si trovano in riposo e quelle invece che non lo sono, perché mosse dalla legge della causa e dell 'effetto in continui e diversi movimenti. Questi, secondo Platone, possono essere ricondotti tutti ad otto movi­ menti. Entrambe le realtà, sia quelle in riposo sia quelle in movimento hanno in comune lo spazio. Il movimento, infatti, può effettuarsi e sullo stesso posto, come quello di rotazione361 o per sostituzione continua di punti di appoggio, come nel caso del rotolamento362• Ora l'incontro di una realtà mobile sia con un corpo in riposo, sia con altro mobile, porta alla divisione o alla composizione. Sia l 'una che l'altra possono aver per effetto rispettivi l'accrescimento e la diminuzione, posto che permanga la struttura fondamentale di ciascun corpo. Nel caso contrario, esse hanno per effetto comune la distruzione. Pertanto la costruzione, il venire ad essere l'edificazione di una struttura si produce allorché un principio si manifesti secondo le tre dimensioni dello spazio363• I movimenti fisici, dunque, non si concepiscono se non determinati da movimenti antecedenti e da altri movimenti. Il determinismo, la neces­ sità meccanica sono la condizione di rappresentazione obiettiva dell'inta fel icemente invece in un'altra espressione del Solista (255c): «lo penso che le arti della natura sono opera di un 'arte divina ». 361 Leges X, 893cd. 362 Leges X, 893e. 363 Leges X, 893e-894a.

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telligibilità dei fenomeni. Spesso, un fatto qualsiasi si intercala tra una causa ed un effetto: è questo l'ordine del collegamento causale, giacente alle diverse specie di movimenti precedentemente distinti e che Platone designa come una nona specie, quella del movimento capace di muovere altre cose, ma impotente a muovere se stesso, il movimento che muove indefinitivamente altre cose, ricevendo il suo cambiamento da altre364. Pur partendo ancora da un'analisi empirica, con la nona specie ci tro­ viamo nella considerazione di un movimento in generale, il quale affon­ dando comunque le radici in una rappresentazione meccanica delle cose, non avrà la pretesa di essere considerato come un valore assoluto. Platone così, affermando la necessità di un primo motore sul piano dei fenomeni, prende atto di questa impossibilità nel denunciare il carattere deficita­ rio del meccanicismo. Pertanto, obiettiva, di cui la necessità meccanica è la legge, la successione delle cause e degli effetti, il determinismo dei movimenti; dall 'altra l 'ordine dell'autodeterminismo, del movimento che muove se stesso e si comunica a tutto il resto, manifestandosi sotto la specie della composizione e della divisione, dell'accrescimento e del suo contrario, della generazione e della corruzione. Acquistando così tutte le forme dell'azione come quelle della passione, si presenta realmente come il principio del cambiamento universale, al cui ordine deve corrispondere una realtà soprafisica da identificare con.l'anima, la cui profonda lealtà è essere il principio della generazione e del movimento di tutto ciò che è, è venuto ad essere e verrà ad essere. Di rimando la necessità meccanica, l 'ordine dei movimenti ricevuti e trasmessi sono delle realtà derivate e seconde, delle semplici modalità della primitiva causalità efficiente che è l' anima365. A questa sua priorità antologica bisogna aggiungere, secondo Pla­ tone, anche una priorità temporale, data dal fatto che, venendo ad essere prima del corpo, fa sì che quest'ultimo sia una realtà secondaria e deri­ vata; inoltre poiché l'anima governa nel mondo del reale fa sì che il corpo sia guidato e governato da essa. In questo modo essa viene ad essere l'unica e sola responsabile di tutto ciò che investe e caratterizza il reale: il bene e il male, il bello e il brutto, il giusto e l'ingiusto e in generale 364 Leges X, 894ac. 365 Cfr. papiro OX. I O 1 7 .

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tutti gli opposti366• Di qui il passo è breve nell'acconsentire, come questo suo movimento, questa sua inesauribile e omnicomprensiva attività rac­ chiuda l'universo nella sua interezza367• Nel momento stesso in cui si con­ figura questa sua esclusiva disponibilità, si insinua anche la possibilità logica che essa sia «più di una))368 certamente non meno di «due))369 non 366 Leges X, 896ae. 367 Cfr. Leges, 896 e. 36R Che sia > 1 908, p. l 06; K . KER ÉNYI, Astrologia platoni­ ca, in «Archiv fiir Religionswissenschaft)) 1 923-24, pp. 245 -256). Il secondo fi lone, invece, si fa sostenitore de l l ' estrema purità greca del p ensi ero di Pla­ tone, per cui gli dei del Pedro e delle Leggi vengono a coincidere con la for­ mazione degli dei olimpici; la stessa termin ologia astrologica non ha nien­ te di astrologico (cfr. J. KERSCHENSTEINER, Platon und der Orient, Stutt­ gart 1 945, pp. 1 83-87; W.J.W. KOSTER, Le mythe de Platon, de Zarathoustra Et des Chaldéens, Leiden 1 95 1 , p . 4; E. F RANK, Pla ton und die sogennanten Pythagoreer, H alle 1 923, pp. 35, 20 l ) . Per la presentazione del quadro delle va­ rie tendenze critiche su questa particolare problematica si veda: M. ISNARDI PARENTE, op. cit. , pp. 663-67 1 ; si confronti anche lo stimolante e recente sag­ gio di D. PESCE, La fondazione religiosa della morale nelle Leggi di Platone, m

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In tal modo le divinità cosmologiche Elios e gli altri dei naturali, che erano stati più importanti nella primitiva mitologia e che nel culto del periodo classico non erano stati mai dimenticati venivano ad essere espressioni religiose dello stesso divino potere che agisce su largo rag­ gio. Ora il Sole, la Luna e le stelle muovendosi ordinatamente in una continua processione attraverso i cieli, sono la più visibile evidenza di quell'ordinante Nous, che guida questo coro, secondo una delle imma­ gini più splendenti di Platone379• I n questo modo ciascuno degli astri nella regolarità delle sue circonvoluzioni rivelerà la divinità che in lui alberga: l'anima. Essa come forza soprafìsica appare invisibile tanto che nessuno la può vedere, cosi come non è possibile vedere l'anima di nes­ sun altro corpo, sia esso vivo che morto. La psiche trasparente solo per via dell'intelletto sfugge completamente ai nostri sensP80. Se tentiamo di razionalizzare il modo in cui l'anima possa dirigere un astro, sorgono tre possibili alternative: o l'anima è interna ai corpi degli astri e li trasporta come la nostra anima fa per i nostri corpi; o ricoperta da un corpo estraneo se ne serve per spingere con forza quello dell'astro che essa guida; oppure priva di ogni corpo lo guida per qualche virtù superiore. Qualunque sia l'alternativa scelta è certo che quest'anima è qualcosa di più del sole, sia che porti la sua luce a tutti tenendolo, così come noi lo immaginiamo, in un carro, sia che dal di fuori lo spinga, ognuno deve ritenere che essa è una divinità381• Quest 'ani ma, dunque, u nica nella sua caratterizzazione382 che la rende tale da essere un vero dio cosmico, presenta nella sua formula­ zione aspetti comuni e differenti rispetto ad altre espressioni del divino teorizzate nei precedenti dialoghi: nella sua neutra ed originaria prima­ rietà viene ad essere la cosmica versione dell'anima ideata nel Fedone in «Rivista di Fi losofia Neoscolastica», IV, 1 978, pp. 57 7-603 . 379 Cfr. G. R. MORROW op. cit., p. 446. 380 Leges X, 8 8 8de. Come il Socrate del Fedone, egli previene i suoi interlocutori contro il danno che consiste nell'accecare chi guardi il sole in faccia. Ci si allontani da questo danno qualora si abbia la pretesa di comprendere la natura de li 'intelligen­ za (cfr. Phaed. 99d; Resp. VI, 506e, 51 6b). 3 81 Leges X, 889ab. 3 82 Cfr. M. VANHOUTTE, op. cit., p. 74, 79, 80; J. MOREAU, op. cit., pp. 57-84. ,

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che partecipa all'idea di vita383 e come u n fluido vitale investe il corpo; e di lì in maniera più sfumata nella Repubblica, dove l'aspetto vitale di essa è visto in un senso puramente biologico384 con chiare note di un lento processo di etizzazione385• Qualora poi essa assuma una fisio­ nomia ben definita nella sua fondamentale essenza positiva, allora ci richiama l'A nima del Mondo del Timeo386 e del Politico come matrici di intelligenza e di immaterialità387• Allo stesso modo ci avvicina alla Causa Ideale del Filebo388, come vita e intell igenza insieme389, e allo stesso Demiurgo per la sua contingenza ed eternità, per la sua intrinse­ catrice che, essendo legato e condizionato agire solo in relazione con il sensibile. È ch iaro che, al di fuori di ogni interpretazione teistica del divino390, m Qui l'anima non è un 'Idea, ma è semplicemente più prossima all' Idea che gli og­ getti sensibili. Se essa è solamente simile a ciò che è mortale, vi è presumibilmente l ' idea che essa stessa è mortale (cfr. G. VLASTOS, Postscript to the Third Man A Replay to Mr. Geach, in «Philosophical Review», 1 956, pp. 8 3 -94; O'BRIEN, The Last Argument ofPlato 's Phaedo, in «Classica! Quarterly», 1 967, pp. 1 98-23 1 ; 1 968, pp. 95- 1 06). 384 Resp. I, 3 29d. 385 Resp. I, 3 29a. 386 L'Anima del Mondo, di cui parla il Timeo, è contingente. È creata dal Demiurgo, ed è posta nel corpo del mondo dal quale si distingue per la sua immaterialità. Eter­ namente in movimento essa non è auto-motrice. È caratterizzata comunque da una forma di intelligenza datale dall 'armonica proporzione costituita dai tre elementi di cui essa è composta ( Timaeus, 3 5ab). Su questo carattere intermedio dell'Anima del Mondo del Timeo la critica ha molto discusso (cfr. M. ISNARDI PARENTE, op. cit., pp. 1 97-200). m Come nel Timeo anche nel Politico l ' Anima del Mondo è specificamente conti­ gente. Riceve eternità dal Demiurgo (26ge). Inseparabile dal corpo del mondo è do­ tata di un autokinesis di tipo rotatorio, che, in virtù della dipendenza dell 'anima del mondo dal Demiurgo e in ragione del l ' associazione con il «corporeo» può essere ostacolata nelle sue operazioni (273bc). 388 Phi/., 30c. 389 Phi/., 39c. 390 La quale affondando le sue rad ici nella critica dell 'età moderna di Herbart e Schleiermacher, opera una fusione tra il Demiurgo e i l nous e la divinità, prospettan­ do le idee come diunamis che hanno origine da quella triplice identificazione del di-

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hegelizzante391 , personalistica o spiritualistica392 visione del divino, la nostra costante preoccupazione è di evidenziare, in quella multiforme prospettiva politeistica entro cui si muove Platone, il senso che acqui­ stano progressivamente questi vari piani, come distinte verità superiori, principi assolutamente impersonali che non si escludono.

Significato e valore della natura benefica del! 'anima

Il primo postulato, il cui obiettivo era di dimostrare l 'esistenza del divino, risolve in ultima analisi la sua tesi prospettando uno schema metafisico, nel quale l'antico motto presocratico (''tutte le cose sono piene di dei"), in nome delle recenti scoperte astronomiche, acquista in Platone un nuovo significato. Il nuovo insegnamento, pertanto, inducendo a con­ siderare gli astri non più erranti, ma nei loro movimenti circolari e uni­ formi, si pone contro il meccanismo ateistico e contro il vecchio metereo­ logismo, portando avanti il principio di una vera e propria astronomia che obbliga a credere gli astri come esseri animati, intelligenti e divini393. Così, secondo Platone, l'intera vita degli esseri umani, ispirandosi a queste nuove prospettive epistemologiche, acquista un valore diverso. Per cui il secondo postulato, prefiggendosi di dimostrare la fondatezza, data l'ammissione dell'esistenza del divi no, dell'interessamento del divino stesso alle cose umane, riflette la sua attenzione sull'atteggiamento etico degli individui. Infatti questa seconda tesi nasce in Platone dall'amara constatazione che una certa parte degli individui, pur ammettendo l'esivino (cfr. M. ISNARDI PARENTE, op. cit., pp. 95-96). 391 La quale trova in ZELLER uno dei massimi sostenitori, qualora si riscontri nel­ l ' Idea del Bene il dio platonico e nel Demiurgo l 'aspetto mitico di esso (cfr. M. ISNARDI PARENTE, op. cit., pp. 98-99). 392 Fuori da queste due correnti che schematizzano in un certo senso la concezione del dio per Platone vi è anche un certo atteggiamento critico che, credendo non defi­ nito il problema in Platone, distingue i vari piani su i quali il divino deve essere co­ nosciuto (cfr. M . ISNARDI PARENTE, op. cit. , pp. 1 00- 1 05). 393 J. MOREAU, op. cit., pp. 76-7. La teologia. astrale è l ' espressione della conne­ ssione tra l 'ordine cosmico e la comunità politica (cfr. G. CAMBIANO, Platone e le tecniche, Torino 1 97 1 , p. 255).

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stenza del div ino, si rifiuta di credere in una certa partecipazione del. divino alle cose umane394; partecipazione i ntesa, come profonda vici­ nanza a tutto ciò che investe la vita degli individui stessi. Questa forma di scetticismo, altrettanto pericoloso quanto quella pri­ mitiva specie di ateismo dogmatico considerato nella prima tesi, sembra trovarsi in quegli individui, i quali si considerano, a loro modo, assai più, perché, credendo in una certa parentela tra loro e gli dei, sono portati, in nome di questa inclinazione naturale, a riconoscerli e onorarli395• I l rifiuto di riconoscere una qualità che Platone giudica essenziale alla natura divina, nasce nei difensori di questa dottrina da varie con­ statazioni offerte e dalla letteratura corrente e da riflessioni che la stessa vita quotidiana mostra. L'i nsegnamento più volte divu lgato da scrittori che la prosperità alberga spesso nelle case degli uomini ini­ qui e la considerazione che la vita di ogni giorno presenta attraverso l'ascesa ad alte cariche politiche di uomini indegni con mezzi illeciti396, fa nascere presso i sostenitori di questa teoria la riflessione che gli dei, depositari di alti valori non possono essere gli artefici di queste incon­ gruenze che la vita giornaliera offre. Allora la realtà, così come si pre­ senta nelle sue contraddizioni, deve essere considerata come qualcosa che è completamente al di fuori dell'esistenza degl i dei e questi a loro volta, devono essere visti totalmente avulsi dal la realtà degli uomini, perché certamente il loro compito non può contemplare l'interessa­ mento alle cose umane397. Questo secondo atteggiamento, il quale può essere certamente col­ legato al discorso dell'ateo radicale della prima tesi, poiché sembra pri­ vare l'essenza divina di una delle prerogative fondamentali della sua esistenza, può essere sventato, secondo Platone, provando e il totale interessamento del divino per le cose umane e la globale considerazione che gli dei hanno della realtà umana. Queste due ultime proposizioni hanno bisogno, per una giusta collocazione che Platone proporrà della loro dimostrazione, di rifarsi a dei topoi che il filosofo considera pro394 395 396 397

Leges X, 899d. Leges X, 899d. Leges X, 89ge-900a. Leges X, 900abò.

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pri della n atura divina e che già h a i n parte enucleato nei dialoghi precedenti. La prima positiva determinazione dell'essenza divina è da riportare all'intrinseca sua bontà398, intesa come unicità assoluta in perfezione ed eccellenza, che esclude da sé ogni possibilità negativa, come netta diver­ sità dall'agathon ovvero come qualcosa di nocivo e ingannevole per gli uomini399• In tale esclusività la matrice della natura divina sovrabbon­ dante di ogni positività viene ad essere la causa continuamente dinamica di ciò che è bene per gli uomini400• Direttamente collegati a questa funzione benefica del divino carat­ terizzata dalla sua perfetta dinamicità sono la semplicità e l'immutabilità della sua physis, una natura quindi che, trasparente a se stessa nella sua semplicità, non potrà mai ingannare e mutare401 • La sua immutabilità è il segno distintivo della sua divinità, come qualcosa di altro e completa­ mente diverso dalla mutevolezza incessante e spesso disordinata dagli altri esseri; in questo perenne e stabile porsi in uno stato di infinita fer­ mezza nel bene è la nota costante del suo apparire come modello agli uomini tutti. A queste due ultime caratteristiche si aggiungono quasi come necessario completamento altre fondamentali attribuzioni: la per­ fetta saggezza402, l'assenza totale di invidia403, l'inaccessibilità ad ogni specie di sentimento404• Queste altre enunciazioni nel loro insieme, pur dimostrando la necessità platonica di pensare esse in termini di presenza umana, pongono avanti il bisogno di sganciarle dal contesto in cui sono poste. Allontanamento che vuole essere esigenza di superamento, di ele­ vazione da uno stato di "ignoranza e menzogna" specifiche caratterizWH

Eutiph. 1 5 à. 399 Resp. II, 379bc. 400 Pertanto in Platone la concezione del dio «causa di tutto>> e non solamente del bene scompare, accettando nettamente la posizione pindarica (01. 1 ,35) in contrasto con quella eschilea e sofoclea (Supp. 3 22-24; Agam. 1 945-87; Trach. 1 277-78) se­ condo la quale l 'uomo non deve attribuire agli dei se non belle azioni. 401 Resp. II, 3 80de. 402 Phaed.. 278d. 403 Phaed. . 247a. 404 Phil . 3 3 a. .

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zazioni del mondo umano, le quali trovano nel mondo dei sentimenti lo stato di inferiorità, di dipendenza degli uomini rispetto a quel particolare mondo di estreme assolutezze405, che allontanando da sé ogni possibilità di negligenza e di indolenza si curano di tutte le cose: non rientra, infatti, in nessun modo nel comportamento del divino che esso si possa disin­ teressare più delle piccole cose che delle grandi406. Che un dio o un uomo possa applicare la sua intelligenza solo alle grandi cose, trascurando le piccole può far supporre o che il tralasciare le piccole cose comporti nessuna utilità al Tutto, oppure che pur com­ portando util ità al tutto, vengano trascurate per indolenza; o ancora, immaginando una terza supposizione, che cade però proprio per le premesse ind icate anteriormente, secondo le quali è impossibile pren­ dersi cura di tutto; in questo caso non si tratterà più di indolenza per colui che deve provvedere a tutto, ma di mancanza di capacità e d i potenza407• Queste alternative danno la possibilità a Platone di individuare altri due avversari : l'uno che crede gli dei influenzabili, l'altro che considera essi dei deboli, proprio perché non si preoccupano di curare le piccole cose408• In questo modo, Platone richiamando in campo una delle primi405 D' altra parte questa esigenza di «modelli» divini era perfettamente radicata nell 'anima greca, si pensi alla contrarietà tra Eschilo (Agam. 7 5 ) ed Erodoto (1, 32) per il concetto di fthonos negli dei, oppure all'idea di omniscienza divina e al contrasto tra saggezza divina ed ignoranza umana in Pindaro (Pean. 6,5 1 ) ed in Senofane (B.34 ). 4 06 Leges X, 900 cd. Senza dubbio Platone in questa seconda tesi parla di una «prov­ videnza divina», intesa come cura, sollecitudine, governo delle cose. Nel Timeo, in­ vece, lo stesso concetto di provvidenza è intesa come un preordinamento in vista di assicurare l' evoluzione futura dell ' universo. Questa provvidenza però non è in Platone la Provvidenza: non solamente essa resta puramente impersonale, estranea completamente ali ' idea di misericordia o di amore come quella del Dio della Bib­ bia, ma non è neppure «antropocentrica», come la provvidenza che Senofonte fa celebrare a Socrate nei Memorabili. Il demiurgo non crea il mondo per l 'uomo, ma piuttosto l'uomo per il mondo ( Timaeus, 4 l be; cfr. VERDENIUS, op. cit., p. 249); la sua bontà, sulla quale Platone non cessa di insistere, non è fatta di benevolenza o di amore per le sue creature, è piuttosto «la bontà di un buon artigiano». 407 Leges X, 90 l be. 408 Leges X, 90 l d.

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tive qualità riconosciute alla natura divina, cerca di fare ammettere ai due avversari come gli dei conoscono, vedono, sentono tutto, che niente può restare loro nascosto di ciò che è oggetto di scienza, poiché la virtù dell'intelligenza è fondamentale alla loro natura409• Allo stesso modo per allontanare l'altra supposizione che induce a vedere gli dei come degli incapaci, il fi losofo afferma come ad essi è da attribuire, proprio in virtù delle loro molteplici positività, anche un infinito potere410• Infine, riconsiderando ancora una volta come faccia parte dell'essenza divina agathon, ovvero un'illimitata possibilità di perfezione, sembra inutile tentare di attribuire al divino qualcosa di negativo, come la mol­ lezza, la viltà; determinazioni, queste, che si eludono da sé, poiché se qualcosa deve essere assegnato ad esso, deve avere un valore positivo ed, in questo caso, la positività che esclude in senso assoluto quelle non idonee determinazioni, sembra essere il coraggio41 1 • Così una volta eli­ minato tutto ciò che è contrario all'intelligenza ed al coraggio si appron­ tano le due nuove tesi: o gli dei rifiutano di occuparsi dei piccoli det­ tagli dell'universo, poiché non riconoscono ad essi alcuna importanza, dato che ignorano il valore da assegnare ad essi, oppure pur conoscendo e comprendendo l'importanza che essi hanno non fanno nulla per loro, perché sono distolti o dal piacere o dal dolore412• Queste due formula­ zioni si presentano più inaccettabili delle precedenti, perché eludono due altre prerogative fondamentali della natura divina: la sapienza e la tem­ peranza. Ed ecco dunque stabilito di supposizione in supposizione che gli dei vegliano sul governo del mondo in generale fin nel minimo parti­ colare, in virtù di quattro ben conosciute qualità: l'intelligenza, il corag­ gio, la sapienza e la temperanza. Ad aggiunta di questa dimostrazione della cura che gli dei hanno per le cose umane, Platone avanza tre argomentazioni di natura assai diversa. Innanzitutto un ricordo di ciò che è stato ammesso nella dimostrazione del l 'esistenza del divino: le azioni umane, del le quali protagon ista è l'uomo, il più religioso degli esseri, in ragione di una sua coscienza etica 409 Ibidem. 4 1 0 Ibidem.

4 1 1 Leges X, 90 l e. 4 1 2 Leges X, 902a.

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e intellettuale, sono dette animate, perché esse sono l'espressione nello spazio dei movimenti del nostro essere fisico413• In questo modo tutti gli esseri mortali, ripetendo un dogma orfico, compreso il cielo, sono proprietà divina e soprattutto a loro è rivolta l'attenzione degli dei414. A questo ultimo argomento di autorità se ne aggiunge un altro di conve­ nienza: gli dei avendo gli uomini in loro possesso non possono dimenti­ carli in virtù della teoria generale che ha provato la loro bontà e sollecitu­ dine415. Un ulteriore paragone chiarisce maggiormente la teoria platonica. Certamente è più difficile su un piano sensitivo e cognitivo avvertire le piccole cose che le grandi; invece su un piano pratico, di dominio e di cura delle cose stesse avviene il contrario, cioè è più difficile curare le cose grandi che le piccole416. Medici, tecnici, politici, potrebbero dimo­ strare questo principio: ognuno di essi infatti se è vero maestro nel suo mestiere, deve interessarsi nello stesso tempo sia del le cose grandi che delle piccole, poiché, trascurando queste ultime, certamente non rispet­ terebbe il fine del suo compito che vuole che si tenga presente il tutto come insieme di piccole e grandi parti. Un artista è qualificato tale in quello che fa, solamente quando utilizza sia le une che le altre secondo un'arte unica, ovvero secondo un principio che rispecchi ordine, esat­ tezza, completezza. Ciò permette di concludere che non è possibile porre nella nostra considerazione gli dei al di sotto di questi artigiani, proprio perché essi sono certamente più perfetti e spingono la loro attenzione fino nei minimi particolari. Pertanto grazie all'insieme di quelle virtù proprie della natura divina è più facile pensare che nulla possa sfuggire alla sua cura e considerazione417. Il credere, quindi, in questo provvedere universale non è che una con­ seguenza del la perfezione assoluta che bisogna attribuire al divino, una volta che si sia ammesso la sua esistenza. Il Tutto è disposto e ordinato secondo questo intrinseco valore divino e in nome di esso l'universo, per Platone, ha avuto la sua organizzazione alla quale ciascuna parte di Leges X, 902b; cfr. Timaeus, 47d; cfr. SANDVOSS, op. cit., p. 3 1 5 . Leges X, 902b. Leges X, 902c. Leges X, 902cd. 4 1 7 Leges X, 902-903a. 413 4 14 415 416

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esso collabora, operando nella misura della sua più intima natura per il mantenimento, l'integralità e l'unità dell'insieme. Ad ognuna di esse è stata affidata una divinità reggitrice perché possa vigilare sulle infinite possibilità di ogni singola parte, allo scopo di aiutare e raggiungere il fine ultimo nella sua piena completezza418• L'uomo, parte per eccellenza dell'universo, deve dirigere tutti i suoi sforzi verso la realizzazione della totalità. Il bene che egli deve cercare è un bene comune e soltanto pren­ dendo parte al quale potrà ottenere il bene della propria vita. Ogni uomo non si trova qui per il suo bene, ma per il bene del tutto. Se egli avanza delle recriminazioni, è perché ignora in quale misura ciò che egli viene ad essere sia meglio per il tutto e per sé, e perché, secondo la sua limi­ tata visione, considera il suo essere bene come il fine verso cui il divino debba operare, invece di considerare se stesso come una piccola parte del vasto ordine delle cose; considerando che ciò che è una spiacevole esperienza per la sua vita, potrebbe avere risultati benefici nell'econo­ mia del tutto4 19•

Nuove prospettive escatologiche

In questo modo Platone, ispirandosi nel senso più stretto ad una posi­ zione finalistica, presenta la totalità come il valore supremo al quale cia­ scuna parte è interamente subordinata, giocando il ruolo affidatole, nella misura delle sue proprie possibilità; così come in un immenso edifi c io nel quale sia le piccole pietre che le grandi esistono in vista dell'esistenza dell'edificio stesso e della sua perfezione architetturale. La dottrina della reincarnazione è una prova ultima di questa teoria: l'anima nelle sue vite successive si unisce o ad un corpo o ad un altro, sia per un fatto riportabile alla sua natura, sia per causa di un'altra anima. L'ordinatore di questa continua trasmigrazione di anime, come un gio418

Leges X, 903bc. 1 4 9 Leges X, 903cd. Nell'intero passo sembra quasi che Platone consideri il cosmo tutto in termini di ideali greci politici. La parola eudaimonia con la quale egli con­ sidera la migliore condizione dell'Universo ricorda analoga discussione nel libro IV della Repubblica, in cui la «felicità» di una particolare classe è detta essere meno importante che quella dell' intera comunità.

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catore di dadi, non può fare altro che indirizzare l'anima che ha acqui­ stato la migliore disposizione morale, verso un luogo migliore e quella, invece, che ne ha acquistato uno meno buono, verso un luogo inferiore. Le decisioni del giocatore dei dadi sono motivate dai meriti di ciascuna di queste anime e la sua attenzione consiste nell'affidare ad esse la sorte che ognuna rivivrà in proprio420. Prima di precisare come le anime rag­ giungano i luoghi loro riservati e la ragione per la quale l i raggiungano, Platone illustra i vantaggi che risultano da questo mezzo scelto dall'in­ teressamento divino per ottenere l'ordine universale. Immaginiamo, dice Platone, un artigiano che fabbrica un'opera avendo g l i occhi fissi sul tutto, supponiamo che egli faccia cambiare la figura di tutte le cose, per esempio, trasformi il fuoco in acqua fredda, ciò che è unità in moltepli­ cità e ciò che è molteplicità in unità; alla fine di una, due, tre generazioni non si potranno certamente notare più gli infiniti cambiamenti soprav­ venuti al seguito delle diverse trasformazioni apportate all'ordine primi­ tivo421 . Così, una volta acquisito che la sorvegl ianza dell'universo non può essere ottenuta nel cambiare continuamente la figura di tutte le cose, Platone mostra la meravigliosa facilità che tocca a colui che ha l'incarico di curare il tutto, proprio in base al canone fondamentale, posto dal filo­ sofo, della priorità assoluta dell'anima su i corpi. Ne consegue che tutte le azioni nei loro aspetti positivi e negativi sono di natura psichica, che il composto stesso dell'anima e del corpo è indistruttibile senza essere eterno, come lo sono gli dei ai quali la legge ordina di credere. Infine l'ultima dimostrazione della funzione prioritaria dell'anima si ha, considerando che tutto ciò che è bene nell'anima è utile nel mondo, tutto ciò, invece, che è male nell'anima è nocivo nel mondo. Per cono­ scere come tutte le cose sono state disposte secondo la finalità dell'ordine universale basta considerare, come naturale conseguenza, i principi enun­ ciati precedentemente, secondo i quali il "nostro re" di spone ciascuna anima in modo tale da assicurare nel tutto, il più facilmente e il meglio possibile la vittoria della virtù e la disfatta del vizio422. L'organizzazione 420

Leges X, 903de. Leges X, 903e-904a. 422 Leges X, 904ab. Come le diverse problematiche platoniche da noi esaminate, an­ che questa del male assume nel filosofo soluzioni distinte a seconda dei dialoghi nei 421

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totale del l'universo dipenderà, innanzitutto, da questa giusta colloca­ zione di ciascuna parte di esso, alle quali Platone affida la responsabi­ lità della loro formazione morale, la quale, a sua volta, sarà l'elemento ordinatore della posizione che l'anima acquisterà nel tempo, il frutto del nostro essere, dell'ordine e della legge del destino423• Quest'ultimo per­ tanto non sarà altro che questo universale provvedere, allo stesso modo che l'ordine e la legge non differiscono in niente dall'ordine e dalla legge che si manifestano nella natura. Mediante questi elementi, Platone enun­ cia come, concepisce il frequente raggruppamento delle anime destinate a mantenere l'equilibrio nel mondo. Ad una prima lettura il passo si presenta distinto dagli altri discorsi che Platone fa sullo stesso argomento424. Innanzitutto non vi è alcuna descrizione elaborata o dettagliata della topografia dell 'altro mondo, così come non vi è nessuna menzione di personaggi pittoreschi come quali è posta. È da premettere che il problema oscilla nelle varie teorie date da Pla­ tone tra un senso etico e un significato metafisica. Pertanto, mentre nel Fedro il ri­ sultato della caduta dell'anima dallo stato della sua primitiva purezza è il male, nel Protagora (326a), nel Gorgia (6 1 1 be), nel Teeteto ( 1 76ab), come nel Politico (273b) e di là nel Timeo e nelle Leggi, il corporeo, nel senso più ampio, è fonte del male. In questi ultimi dialoghi sembra che Platone voglia trovare la ragione metafisica di questo aspetto negativo del corporeo. Cosi nel Timeo il male rimane il corporeo, ma la causa metafi sica di essa è da ricercare nella chora. Ugualmente questa causa nel Filebo è l'aperon. Nelle Leggi, come sottolinea la ISNARDI PARENTE: «Si pone la possibilità che l ' irrazionale possa essere di natura psichica. Ma, anzitutto, si pone ciò ipoteticamente, in secondo luogo niente ci dice che Platone si sia allontanato qui dal punto di vista espresso nel Politico (273b), secondo cui la causa del disordine. Ci dice forse Platone che questo abbandono che l ' anima fa del nous per darsi all'anoia abbia una ragione intrinseca ali 'anima stessa? Ci parla della causa di questo errare del l'anima? No, in alcun modo; e poiché l'anima del mondo è incarnata in un corpo, niente ci impedisce di pensare che la causa dei suoi erramenti possa essere la stes­ sa che travia l'anima individuale, il suo legame con la fisicità [ ... ]» (op. cit., p. 1 79). Naturalmente i critici si sono divisi ne li ' interpretazione del problema con l 'ac­ centuare più o meno generalmente come l ' aspetto corporeo, la materia nella sua caoticità e nel suo disordine. sia o no la fonte del male per Platone (M. ISNARDI PARENTE, op. cit., pp. 1 72 - 1 73). 423 Leges X, 904bc. 4 24 Gorg. , 323a; 525ab; Phaed, 8 1 d-82b, 1 1 3d- 1 1 4c; Resp. X, 6 1 4b-6 1 6e, 6 1 7-620d; Phaed1:, 248b-249b.

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Minasse o Radamante, né dettagli di punizioni raffinate, né alcuna idea di una scelta personale del dopo-vita, di una nuova propria incarnazione, né la rilevanza dell'esperienza del premio e del castigo agli effetti di questa scelta. Tuttavia diversi motivi sembrano presentarsi, in partico­ lare nel brano delle Leggi: la connessione tra il destino di un individuo nell'altro mondo ed il suo curriculum in questo mondo; la concezione per cui la reincarnazione sembra aver luogo, o almeno sembra essere delineata con chiarezza425• I noltre, mentre nei miti precedenti c'era da parte di Platone l'esigenza di descrivere la precisa ubicazione dell'al­ tro mondo, nettamente differente da questo mondo, qui nelle Leggi l'al­ tro mondo sembra essere in nessun luogo particolare: è descritto con un linguaggio fisico-spaziale426, in termini cupi e nebulosi che sugge­ riscono che in un modo o nell'altro è coestensivo con l'intero universo fisico. L'intero oggetto del discorso escatologico è esplicitamente dichia­ rato essere la disposizione di ogni parte dell'universo, anime incluse, nella posizione che contribuirà maggiormente al bene del tutto427• In tal modo non si è più interessati al premio o alla punizione ed al modo con il quale sceglie una nuova reincarnazione, ma ad assicurare che ciò che avviene ad essa sia in qualche modo di beneficio all'universo intero. Ciò che le accade viene descritto in termini spaziali: un'anima che migliora se stessa, sale molto in alto verso qualche posto migliore; se si deteriora va verso il basso, fino a quello che è comunemente chiamato Ade; ma se essa non migliora e non si deteriora, si muove lateralmente, orizzontal­ mente, per una distanza comparativamente breve428• Il processo sem­ bra essere automatico o semi-automatico, con forse qualche remoto con­ trollo da parte di un «supervisore))429, il quale può aver fatto nulla più 4 2 5 Si deve fare assegnamento sull'anima che è associata ora con un corpo ora con un altro (Leges X, 903d3-4); una bizzarra espressione sembra suggerire una serie di morti precedenti le successive reincamazioni. 426 Leges X 903 d7. 4 27 Leges X, 904de. m Leges X, 900c8, d2; 90lbl, 3, c3, 4, 6; 902a3, 7, c2, IO, d3, c9; 903 b5; 90484, 905d2. 42 9 T.J. SAUNDERS, Penology and escato/ogy in P/ato :S Timaeus and Laws, in «Classica! Quarterly», 1 973, p. 235.

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che costruire inizialmente il sistema che successivamente opera in virtù del proprio automeccanicismo. Il cambiamento di questo modello teoretico rispetto ai precedenti dialoghi platonici sembra reperibile nella formulazione della teoria cri­ minologica sviluppata nel nono libro delle Leggi, presentata come uno strumento di controllo sociale. Qui la criminologia, pur descritta nella sua complessità e difficoltà, si profila in Platone come un accurato esame della condizione spirituale del criminale430• Il castigo viene ad essere, per una in qualche modo ingannevole metafora medica, la "cura" di una "malattia dell'anima": è medicina psico-fisica che mira a curare il crimi­ nale, affinché egli migliori le sue vedute e di conseguenza la sua condotta di vita. Pertanto il suo scopo è quello di scoprire lo stato psichico del cri­ minale, in modo da facilitare l'effettiva punizione-cura431 • Ora, nei primi dialoghi, l o scopo dell'escatologia era quello d i arre­ stare gli errori della giustizia umana: badare che premi e punizioni fos­ sero distribuiti secondo il merito, se non durante la vita, almeno dopo. 430 Platone sa di essere impegnato in questo senso ne è testimone il grado di atten­ zione esercitato verso le varie circostanze nelle quali i crimini vengono commessi, in particolare i precedenti del criminale, il suo curriculum, lo stato mentale. Però la conoscenza esatta della predisposizione di un uomo è difficile, ed, in pratica, Platone è spinto da una varietà di metodi di stima piuttosto grezzi . Forse il meno grezzo è costituito dalle serie discussioni fi losofiche imposte agli eretici in prigione: le loro reazioni riveleranno le loro tendenze e le loro opinioni e stabiliranno se essi devono essere lasciati liberi. Più grossolanamente Platone considera la collera e la premedi­ tazione come indicatori di uno stato psichico (Leges X, 886d), come pure l'età, la re­ cidività e lo stato sociale (Leges X, 909a; XII, 940e IX, 854e, 87ge; XII, 94le 942a). In tutto questo, quello che Platone sembra stia facendo è trovare una serie di giusti­ ficazioni o circostanze aggravanti che egli usa, come ogni altro legislatore e giudice, per giustificare le punizioni più miti e quelle più severe. 43 1 Eppure, con poche eccezioni, le «cure» di Platone consistono tutte nell'infl iggere una sofferenza, la quale è graduata secondo la gravità del crimine effettivo. Che la gravità del crimine effettivo sia una precisa indicazione dello stato psichico, che la severità di una punizione sia in diretta proporzione al suo, effetto curativo sono dub­ bie supposizioni: nel passo 94 1 cd è ammesso esplicitamente che non c'è necessaria­ mente correlazione tra la gravità del crimine e la depravazione psichica del crimine; nel passo 862de è detto di ffusamente che la miglior cura potrebbe non essere affatto quella di infl iggere sofferenza; ma quella di parlare al criminale, di gratificarlo.

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Quando Platone arrivò a scrivere l'escatologia delle Leggi, l'area delle funzioni richieste per un'efficiente escatologia era diventata molto più ampia. Come la criminologia teneva in considerazione g l i interessi della città di Magnesia, così l'escatologia deve considerare gli interessi del cosmo in generale; laddove la criminologia era fallita nel prendere in consideraz ione lo stato psichico, l 'escatologia deve riuscire infal­ libilmente nell'esaminare lo stato dell'anima; ed infine, laddove i giu­ dici umani erano stati incapaci di trovare le giuste misure da prendersi, l'escatologia deve sempre infal libi lmente assicurare che ciò che suc­ cede all'anima dopo la morte, a titolo di punizione o altro, sia appro­ priato. Un'escatologia che facesse tutto questo, scritta i n termini fisici e meccanici, piuttosto che mitici, e che mostrasse come, in virtù pro­ prio del modo in cui il mondo fisico è fatto, questi risultati inelutta­ bilmente flui scono, sarebbe, come strumento di persuasione, di gran lunga superiore all'escatologia di vecchio tipo432• Ora è evidente che ciò che dopo la morte è promosso o retrocesso è in effetti l'anima; ma dal momento che c'è, apparentemente, questa correlazione tra lo stato dell'anima da una parte ed il carattere (l'indole), e qui ndi, presumi­ bilmente, le azioni della persona dall 'altra, promuovere o retrocedere un'anima in un certo stato significa necessariamente punire o premiare un certo carattere e di conseguenza anche le azioni compiute in questa vita. Non c'è alcun bisogno di un Minosse o di un Radamante per far la somma dei delitti o delle buone azioni di un individuo e per deter­ minare quale castigo o premio uno meriti. Tutto ciò che è in questione è lo stato dell'anima: e lo stato dell 'anima automaticamente, meccani­ camente, da se stesso stabilisce dove l'anima deve andare, cosicché la psicoscopia post-mortem diventa inutile. L'escatologia del l ibro decimo riesce così, secondo questa i nter­ pretazione, non solo a mantenere l'importanza sul la giustizia dei miti 432 Un Giocato re di scacchi ed i l Nostro Re sembra veramente che siano coin­ volti, ma per la maggior parte il sistema sembra funzionare meccanicamente, sen­ za l ' intervento di qualche agente personale. Un' anima buona sembra salire in alto automaticamente, una cattiva automaticamente scendere in basso; e tutto questo nell' interesse del cosmo in generale. Come nella Repubblica (X, 6 1 7c), il destino dell'anima è interamente una scelta dell'anima stessa.

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escatologici antecedenti - vi rimane una correlazione tra azioni compiute in questa vita e destino dopo la morte - ma anche a risolvere le difficoltà criminologiche del libro nono. Nessuno deve esaminare l'anima per deci­ dere dove dovrebbe andare: il sistema la incasella automaticamente nel­ l'interesse del cosmo, con un'efficienza che supera di gran lunga i rozzi sistemi dei legislatori e dei giudici terreni di infliggere pene appropriate nell'interesse dello Stato in generale. Questa nuova prospettiva escatolo­ gica sembra trovare una sua base, secondo quanto ci dice il Saundérs433, nel Timeo, nel quale le creature subiscono successive reincarnazioni e possono essere promosse ad un luogo più alto o retrocesse in un luogo più basso, a seconda della qualità della vita che hanno vissuto. Anche nel Timeo l'altro mondo è semplicemente l'universo fisico, nel quale uno può migl iorare o deteriorare la propria condizione. Non è un luogo con pre­ cisi confini. In questo modo Platone tenta di fornire un modello di esca­ tologia scientifica, foggiata in termini di processi fisici434• I l vecchio trui­ smo sociale che cattivi caratteri cercano la compagnia di cattivi caratteri è in questa nuova escatologia spiegato da procedimenti fisici che portano ad una escatologia non più mitologica, ma scientifica435, secondo la quale, le virtù e i vizi premiate e puniti contribuiscono al bene del cosmo. In questo modo Platone, prospettando un sistema impersonale e autorego­ lato, propone un tipo di speculazione, secondo la quale, l'etica possa fon­ darsi sulla fisica. Questo "provvedere divino" non è altro che una conseguenza della giustizia che investe il tutto e che regola l'ordine universale secondo il criterio del la giusta remunerazione. Si comprende bene allora come non sia possibile pensare che i destini degli uomini siano inegualmente e ingiustamente ripartiti: ognuno ha in se stesso, abbiamo detto, il suo premio e il suo castigo; non più, quindi ricorso all'antica concezione, secondo la quale, le colpe dei padri vengono punite nei figli, ma ricono433 Op. cit. , p. 238. 434 Già P.M. SCHUHL ( Une rnachine à peser les arnes, in La Fabulation Platonicienne, pp. 1 05- 1 08) e i l KUCHARSKI (Observations sur le rnythe des Lois, 903b-905d, in Aspects de la spéculation platonicienne, Paris 1 97 1 , pp. 73-96) si muovono in que­ sta direzione. 435 T.J. SAUNDERS (op. cit., pp. 241 -3).

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scimento nell'uomo di un'accettazione del frutto delle sue azioni. Che il colpevole debba essere punito di persona, questa è per Platone una verità fondamentale che è possibile dimostrare e deve essere i nsegnata come articolo di fede come qualcosa che oltrepassa l'ambito legislativo ed assume dimensioni cosmiche. Se esiste un tipo di giustizia divina essa ha il carattere di una legge di gravitazione spirituale in questa e nella serie completa delle vite, ove ogni anima si muove verso la compagnia dei pro­ pri simili e i n ciò sta il suo premio e i l suo castigo; l'Ade sembra essere uno stato d'animo non un luogo436• Nessuno può sfuggire ad essa; al gio­ vane uomo che negava la provvidenza divina sulla fede di alcune ingiu­ stizie che credeva riconoscere nella prosperità dei malvagi, si fa chiaro come ora questi ultimi debbano pagare comunque il loro contributo al tutto, e come quella noncuranza degli dei che egli aveva dedotto prima, venga irrimediabilmente a non essere più riconosciuta. Disconoscere queste verità porta ineluttabilmente alla incapacità di poter svolgere, secondo Platone, un discorso sulla vita stessa, sul senso e sul valore che essa deve avere. È necessario, dunque, che ciascun indi­ viduo alla luce dell'ordine provvidenziale operi una trasformazione radi­ cale nel suo intimo, proprio perché possa operare incisivamente sul piano collettivo, dove certamente un rinnovamento potrà aversi qualora sol­ tanto il riconoscimento di quelle verità sarà il risultato della generale condotta della vita437• Gli avversari di questo modo di intendere il divino non sono finiti: vi sono coloro che credono gli dei simili ai mortali nella possibilità di essere corrottim. Il male spesso sorpassa il bene e noi siamo sballottati continuamente tra una lotta eterna che si instaura tra i due. È necessa­ rio, per questo, una vigilanza continua che ci viene proprio da quegli esseri divini ai quali noi apparteniamo439• Ora, l'esperienza ci insegna 436 Leges X, 904e-905b. 437 Leges X, 905bc. m Leges X, 905cd. 4 39 Leges X, 906a. Accanto agli dei più alti Platone considera anche altre deità come i demoni e gli eroi, i quali giocano una parte molto importante nella religione delle tribù della sua città. Il concetto di daimon sembra includere il vecchio termine ome­ rico nel quale stava a denotare un dio individuale inteso a manifestare spesse volte

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che l'ingiustizia e la violenza unite alla follia ci perdono e che la giustizia e la temperanza congiunte alla saggezza ci salvano. Ma, purtroppo, noi sappiamo anche che queste virtù in tutta la loro pienezza sono retaggio divino e che in noi si riscontrano soltanto alcune tracce440. Alcuni indivi­ dui ingiusti cercano di lusingare bassamente gli dei e di persuaderli che essi hanno il diritto di avere più degli altri uomini. Questa pleonassia, definita nel corpo malattia, peste nelle stagioni, prende il nome di ingiu­ stizia nello Stato441 . Se gli dei cedono, si rendono colpevoli di un mer­ cantaggio disonorevole, un do ut des del primitivo ritualismo che ci fa cadere in una serie di interrogativi inutili. Come i cani non abbandonano i lupi e il loro gruppo in cambio di un buon boccone, come i piloti non lasciano il loro battello, né i condottieri rinunciano alla vittoria, a mag­ gior ragione non si può credere che gli dei siano incapaci di fare ciò che fanno i semplici mortali442• Il culto, aveva dichiarato Platone, deve riflettere un valore pro­ fondamente radicato nella stessa natura dell'uomo: creare uno stato di socievolezza con il dio, cercando il più possibile di rassomigliargli443, con ciò che gli è proprio, ovvero con la continua pratica del/ 'aretè, insepa­ rabile dalla scoperta di quelle profonde verità, unico retaggio divino. In questo senso la pratica religiosa diviene il momento essenziale della vita il senso del divino potere nel mondo e nel destino degli uomini (Apol., 27cd; Symp., 202de; Crat., 297e-298a; Tim., 90a). D 'altro lato la distinzione tra demoni ed eroi è ugualmente poco chiara; anche questi ultimi sono considerati superumani nel loro potere e nella loro origine e si collocano nel culto come demoni. Per una presenta­ zione delle varie interpretazioni sul problema della «demonologia» in Platone si veda M. ISNARDI PARENTE, op. cit., pp. 672-678. 440 Leges X, 906b. 44 1 Leges X, 906cd. 442 Leges X, 906de-907a. 443 Leges IV, 7 1 6cd. Il motivo più volte ricorrente nel pensiero di Platone si era già presentato in maniera esplicita nella Repubblica, a proposito della quale I'UNTERSTEINER (Platone, Repubblica, libro X, Napoli 1 965, pp. 1 92-4) com­ menta: «Questa dottrina [ . . . ] era considerata nell 'antichità, come una delle più ca­ ratteristiche di Platone, come risulta da Albino (Ep., II 2; XXVIII, l ) e da Diogene Laerzio ( I l l , 78) [ ... ] Il concetto ha un'origine remota nelle iniziazioni religiose ove si attua, in certi casi un matrimonio con la divinità, per quanto, nel mondo mistico, l'assimilazione al divino poteva prendere varie forme».

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dell'uomo e i n special modo dell'uomo saggio, tanto da divenire una con­ dizione della sua felicità. In questa vasta cornice la posizione platonica propugna una filosofia che, nel momento stesso in cui la riflessione sul mondo e sul l'uomo sem­ bra affrancata dalla tradizione, vive in realtà di essa con un nuovo spirito di ricerca, usufruendo di quelle categorie dell'alethea che in sede logico­ gnoseologica essa aveva precedentemente elaborato. Come uomo del suo tempo, tuttavia, il fi l osofo non può fare a meno di tuffarsi nel mondo della pistis; e vi rimane i vi impigliato in dubbi e perplessità, ma anche in tacite accettazioni. Questi due aspetti della posizione platonica espri­ mono momenti fondamentali della riflessione consegnata al libro decimo delle Leggi: nel primo c'è il tentativo di filosofare nella fede, nel secondo l'esigenza di avvicinarsi ad essa con purezza che consenta al rapporto uomo-divino di non esaurirsi nel le sue molteplicità esteriori, ma di tro­ vare nell'interiorità del nostro essere la sua realtà più vera.

L 'empietà e la legge

Dopo l'esposizione del lungo proemio, Platone crede necessario pas­ sare alla formulazione di un discorso giuridico che spinga coloro che pos­ sono essere qualificati empi ad abbandonare il loro costume di vita. Così, mentre le argomentazioni intorno al divino del proemio, hanno costi­ tuito il momento persuasivo, chiarificatorio ed illuminante per il polites di Magnesia, il discorso giuridico diventa nel libro decimo delle Leggi il momento della bia, dell'incidenza e dello scuotimento sugli animi dei cittadini444• Per ciò, coloro che saranno sordi finanche a questo discorso di forza che il legislatore presenterà per salvaguardare il divino da even­ tuali manifestazioni verbali e fattuali, cadranno sotto le prescrizioni di una legge sull'empietà. L'intera società è chiamata in causa nel fare rispettare la legge, pro­ prio perché il fi l osofo ritiene necessario, dopo il particolare messaggio del proemio, che ci sia la formazione di una coscienza giuridica collet­ tiva: ogni cittadino è tenuto a difendere la legge demandando ai magi444 Cfr. E.A. WYLLER, Platons Gesetzegegen die Gotteslesleugner, Nomoi l O, 907d- 909d, in «Hennes», 1 957, pp. 298.

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strati i colpevoli. Qualora gli stessi magistrati non applicheranno com­ pletamente la legge, anch'essi potranno essere incriminati per delitto di empietà445• Ogni colpevole troverà la sua pena nel carcere non più visto da Platone come nella legislazione ateniese, nella sua funzione afflittiva, ma considerato piuttosto nel suo aspetto educativo. Pertanto i principi su i quali poggia questa penalità rispecchiano una fondamentale innova­ zione rispetto alla legislazione allora vigente, per cui la pena è vista dal filosofo come qualcosa che serve ad emendare la colpa446• Poiché le cause di empietà, come abbiamo notato dal proemio, sono di tre generi e dato che ciascuno di essi sembra sottendere per il filosofo altre due sottoclassi, saranno sei i generi nei quali Platone porrà coloro che interpretano il divino in modo errato; ad ognuno la legge si preoc­ cuperà di affidare una punizione qualitativamente e quantitativamente diversa447• I criteri che guidano il filosofo nella struttura di questa particolare diairesis rispecchiano principi puramente caratteriali, che Platone cerca di scoprire affondando la sua attenzione nell'intimo più profondo del­ l'individuo, nel momento della sua classificazione. In questo modo nella categoria di coloro che negano completamente l'esistenza del divino è possibile operare due fondamentali distinzioni : alla prima classe è da ascrivere, secondo Platone, coloro che per natura rivelano un'indole giusta, per cui hanno avversione per tutto ciò che infrange il criterio di giustizia, mentre si sentono attratti verso uomini onesti e giusti e sono portati a compiere azioni degne di ammirazione. A l la seconda classe, invece, di questa categoria degli atei dogmatici, sono da ripor­ tare coloro che pur forniti di una notevole facilità nell'apprendere, sono dotati di un indole intemperante, per cui si lasciano sbal lottare conti445 Leges X, 907de. 446 Leges X, 907e-908a. Per questo passo si consulti H. NORTH, Sophrosyne. Self Knowledge and Self Restraint in Greek Literature, New York 1 965, p. 1 95, n. 94. REVERDIN (op. cit., p. 1 88) pone il suo accento su quella che gli sembra essere la «modernità» del concetto di un luogo di pentimento; per cui per lo studioso france­ se, la prigione temporanea in cui gli atei verranno rinchiusi sarà un vero e proprio strumento di rieducazione religiosa. 447 Leges X, 908b.

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nuamente da sentimenti avversi448. Sia gli uni che gli altri, pur avendo in comune il pathos di non credere negli dei, mostrano una diversità, secondo Platone, che pone una differente problematica sociale del la loro "malattia"; per ciò l'influenza e i l danno che i primi e i secondi operano su gli altri fanno vedere i primi meno pericolosi dei secondi. Infatti, mentre la prima classe di individui è portata proprio in base alla sua connaturata onestà, a dire sinceramente quello che pensa sul divino e quindi a presentare costantemente la sua vera natura, la seconda, i nvece, pur pensando il divino come gli individui della prima classe, ovvero pur negando l'esistenza di esso, è portata a simulare questa sua convinzione i ngannando gli altri, proprio perché la sua natura è srego­ lata e priva di ogni continenza. Tal i individui, dunque, causano nella società un male maggiore, poiché sono condotti naturalmente a disco­ noscere ogni norma, generando individui predisposti a scardinare ogni forma di società, ogni principio comunitario che crede nell'etica, nella rel igione, nel la giustizia449• Per ciò la legge, mentre nei primi ricono­ scerà degli atei onesti e giusti, e li condannerà con l'ammonizione e il carcere; nei secondi vedrà degli atei di natura simulatrice e immorale e li punirà con la morte450. Ugualmente si presenteranno all'attenzione della legge altre due spe­ cie di empietà sia per coloro che pensano gli dei negligenti delle cose umane, sia altre due, per chi li considera suscettibili di essere corrotti. La punizione anche per queste altre forme di empietà sarà adeguata al danno che esse potranno apportare all'intera società. Per cui, coloro che sono portati a quelle forme di empietà non per distorta natura, né per un immorale costume di vita, ma per una specie di anoia, di ignoranza, di annebbiamento mentale sono condannati ad e ssere imprigionati nel Sophronisterion, dove, data la particolare natura di quel carcere, avranno cure miranti alla salvezza delle loro anime; infatti durante i cinque anni assegnati dalla legge a soggiornare nel Sophronisterion451, 44s

Leges X, 908bc. Leges X, 908de. 450 Leges X, 908e. 45 1 Cfr. G. MO RROW, op. cit . , pp. 500- 1 5 . Questo organismo presentato da Pl atone per la prima volta nelle Leggi sembra destare notevole i nteresse tra i

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essi saranno avvicinati soltanto dagli alti Magistrati del Consiglio Notturno, perché possano ritrovare la via della virtù, che porterà essi a far parte, alla fine dei cinque anni, dei saggi, qualora ne siano ritenuti degni, oppure condannati alla morte, se continueranno a persistere in quella loro primitiva stoltezza452• La legge sull'empietà contemplerà anche quegli individui che essendo fuori da ogni norma etica, disprezzano il genere umano, obbedendo sol­ tanto ad una smoderata sete di ricchezza che l i conduce ad una vita selvaggia, primitiva, dove ogni pensiero sul divino è calpestato, anzi è strumentalizzato per i fini profondamente egoistici della loro natura. Essi saranno colpiti dalla legge in modo feroce, così come è stata la loro vita: saranno condannati a morire in un carcere fuori da ogni contatto umano453• Affinché poi la coscienza religiosa sia maggiormente salvaguardata viene proposta una legge che condanni ogni forma religiosa che non rien­ tri sotto il controllo permanente dello Stato; anche in questo caso, però, il crimine di empietà non è considerato pienamente consumato se non critici. Mentre si è pensato ad u n ' i mitazione de l l ' Areopago (T. LEWIS, Pla­ to against the A theist, New York I 8 4 5 , p p . 3 6 3 -4 ) o d i u n antico consi­ glio cretese ( L . GERNET, Les Lois et le dro it positif, in Platon, Oeuvres X I , I , Lois I - 1 1 , P a r i s 1 95 1 , p . eVI), spesso e s s o è stato inserito n e l l a continuità del l ' ideale p l atonico, quasi come un rispecch iamento dei fi losofi re della Re­ pubblica (A. E . TAYLOR, The Laws of Plato, London I 934, pp. LXILX I I ; W. JAEGER, Paideia, vol. I I I , trad. i t . d i A . Setti, Firenze 1 95 9 , p. 34 1 ). Al­ tri c ri t i c i , invece, ri prendendo i n parte lo spirito d e l l a tesi di M. KRIEG (Die uberarbeitung der platonischen Gesetzen durch Philip von Opus, Heidel­ berg I 896) mostrano una forte perpl essità sulla compatibilità dello spirito del­ I' organ ismo p l atonico con la lettera della costituzione de l ! ' organismo stesso, tanto che lo considerano estraneo al mondo delle Leggi proprio per il suo carat­ tere non costituzionale e quindi in contrasto profondo con l ' i ntera legislazione del ! ' opera. 452 Leges X, 909a. 453 Leges X, 909bcd. Al di fuori di ogni confronto con altri passi platonici, come quello del II libro della Repubblica (364b-365a) e di ogni tentativo di col locazione storica delle figure presentate qui da Platone, egli vuole mettere fuori legge un' intera tendenza della religione greca, di cui certe dottrine dei mi steri e deli ' orfismo rappre­ sentano le più marcate manifestazioni (cfr. REVERDIN, op. cit., p. 227).

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manifesta direttamente atti dannosi alla città; così la legge obbliga colui che sacrifica clandestinamente di trasferire il culto presso un tempio pub­ blico e per far questo ricorre o alla persuasione oppure qualora l'accusato si mostri recalcitrante, all'ammenda; tuttavia, qualora l'empio sacrifichi in uno stato di impurità rituale merita la morte454•

4 54 Leges X , 90ge- 9 1 Oe.

Interpreti medioplatonici del pensiero educativo filosofico di Platone

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CAPITOLO SETTIMO

Il terzo principio della teologia naturale

L'enunciazione della terza tesi della dimostrazione del divino, secondo la quale è impossibile conciliarsi il favore degli dei mediante sacrifici e preghiere, si trova variamente scandita in dieci luoghi del libro decimo delle Leggi: l . «Nessuno di coloro che credono all'esistenza degli dei, come vuole la legge volontariamente ha mai commesso azioni empie, nè si è lasciato sfuggire parole illecite. Qualora agisca o parli così, ciò accade per una di queste affezioni che egli subisce, o perché non crede a ciò di cui ho parlato, o, in secondo luogo: perché pensa che pur esi stendo gli dei non si interessino degli uomini, o finalmente, in terzo luogo, perché ritiene che con sacrifici e preghiere si possono facilmente placare e sedurre»455• 2. «E così noi riten iamo giusto, come voi per le leggi avete ritenuto opportuno, che, prima di minacciarci duramente, proviate a persua­ derei e insegnarci che ci sono gli dei, a portarci delle prove valide, e provateci anche che gli dei sono troppo superiori per lasciarsi allet­ tare da qualche dono e per lasciarsi portar fuori strada contro la giustizia>>456• 3. «Solamente alcuni di loro, ma non molti hanno conservato in sé le altre due affezioni sugli dei, e cioè da una parte che gli dei esistono sì, ma sono del tutto incuranti delle cose umane, e l'altra affezione che segue, e cioè che si occupano sì degli uomini ma sono facili ad essere placati e influenzati con sacrifici e preghiere»457• 4 55 Leges, 885b.

456 Leges, 885c. 457 Leges, 8 88c.

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4. «Rispondano adesso che sono due, a noi tre, quei due che ambedue convengono nel l'esistenza degli dei, ma l'uno li vuole influenzabili, l'altro irresponsabili delle piccole cose))458• 5. «Ora che gli dei siano corrompibili dagli uomini ingiusti, accettando essi i loro doni, non dobbiamo concedere ad alcuno, e con ogni mezzo e nella misura delle nostre forze dobbiamo confutare))459• 6. «Suvvia, per gli dei stessi: in che modo sarebbero da noi corruttibili se lo venissero ad essere?))460• 7. «Questo d iscorso è necessario dica chi sostiene che sempre gli dei perdonano gli uomini ingiusti e i loro delitti, come se i lupi dessero ai cani una piccola parte della preda, e i cani, addomesticati, dessero via libera alla rapina del gregge. Non è questo i l discorso di coloro che affermano che gli dei si lasciano corrompere?))461 • 8. «Possiamo dire ora di aver dimostrato in modo suffic iente tutte le altre cose che ci siamo proposti e cioè che gli dei esistono, che si occupano delle cose umane e che non sono assolutamente corruttibili ad andare oltre la giustizia?))462• 9. «Ci sono parimenti altre due specie della empietà che genera il pensare gli dei negligenti degli uomini e altre due il pensarli corruttibili))463• 10. «Tutti gli uomini che divengono selvaggi come fiere; oltre a non credere negli dei o al ritenerli negligenti o corruttibili, con il loro disprezzo degli uomini si i mpadroniscono dell'an i ma di molti di quelli che vivono e si vantano di saper evocare i morti e promettono di persuadere gli dei allettandoli ciarlatanescamente con sacrifici e preghiere e scongiuri ... ))464 • A mio avviso sette dei luoghi citati465 possono prestarsi a due diversi tipi di interpretazione, di cui l'una sembra escludere nel suo significato 458 Leges, 90 l d. 459 Leges, 905d. 460 Leges, 905d. 461 Leges, 906d. 462 Leges, 907b. 463 Leges, 908e. 464 Leges, 909b. 46� Cfr. l , 3, 4, 6, 7, 9, 1 0.

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che gli dei possano essere influenzati da doni, sacrifici e preghiere di uomini ingiusti, mentre l'altra interpretazione vuole sottintendere che la implorazione agli dei da chiunque sia eseguita è, proprio in quanto sup­ plicazione, errata. Varie ragioni, come vedremo, ci portano ad accettare l'interpretazione secondo la quale Platone si pone contro la formulazione di una ingiusta petizione agli dei. Le due parole chiavi di questa lezione sono: euparaniuthetos e paraitetos. I l prefisso eu aggiungendo al verbo paramiutheomai466, dal quale il primo termine deriva, il senso del "facile", dell' "agevole", darebbe il significato del "facilmente placabile", per cui l'idea dell' "appagamento" del "dar ragione di errori" implicherebbe nella prima e terza proposi­ zione l'idea della "implorazione agli dei" da parte di uomini ingiusti. Così il secondo termine paraitetos usato sia nella forma positiva che in quella negativa467 derivante dal verbo paraiteumai, anch'esso come il verbo pre­ cedente ricco di varie sfumature semantiche, sottintendendo il senso del chiedere grazia per qualcosa sembrerebbe supplire l'idea del chiedere gra­ zia per ingiuste azioni. È da avvertire i noltre, che la seconda, la quinta e l 'ottava proposi­ zione offrono somiglianze e nel linguaggio e nelle immagini con le altre sei rimanenti frasi . Infatti nel secondo passo presenta la stessa imma­ gine del l' "allontanare" che ricorre nel primo passo. Il parà in questi due termini come nelle altre espressioni, evidenzia la ricorrenza usata per il concetto di una mera preghiera agli dei "per fare qualcosa". Nelle varie sezioni del libro X, in cui le dieci espressioni ricorrono, uno dei personaggi del dialogo, l'Aten iese, due volte supplica gli dei e per ben due volte si riferisce con particolare acredine agli ateisti, per­ ché essi, rifiutando il valore e il significato della supplicazione agli dei, secondo la loro intellettualistica mentalità diffonderebbero un certo cri­ ticismo tra i cittadini di Magnesia. Nel passo 887c, infatti, l'Ateniese commentando la prima delle sue prove dice: «Il discorso detto da te 466

Il quale ambiguo nel suo significato può sottendere sempl icemente il senso di incoraggiare, esortare oppure quello del consolare, del mitigare, del giustifica­ re, del l ' appagare, come generi di manifestazioni libere da ogni forma di errore o spiacevolezza. 467 Nel quarto e quinto luogo.

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mi par richiamare la preghiera poiché tu la esponi con calda partecipa­ zione>>. Nello stesso passo, egli ammette che «è inevitabile sopportare a stento e odiare coloro che sono divenuti per noi la causa di siffatti discorsi e lo divengono ora, non credendo ai miti che fin da piccolissimi bambini ascoltavano dalle nutrici e dalle madri quando ancora erano allevati nel latte, miti che venivano raccontati quasi con parole incan­ tatrici un po' per gioco un po' seriamente ed essi li ascoltavano anche nelle preghiere congiunte ai sacrifici e vedevano le v isioni che a que­ sti si accompagnavano, spettacoli che il giovane vede con il più grande piacere quando sono messi in atto durante il sacrificio e con piacere ascolta ... ». Contemporaneamente nel luogo 908c critica una particolare classe di ateisti «quanto al discorso pieno di libertà sug li dei, i sacri­ fici e i giuramenti». Questi luoghi sembrano dimostrare come Platone si preoccupi di porre avanti la necessità di supplicare e pregare gli dei soltanto con pura e giusta disposizione di intenti. A questo proposito il suggestivo passo intorno alla relazione degl i uomini con gli dei e i demoni, ne è chiarificatorio. Il contesto di questo luogo468 che richiama il passo del I l libro della Repubblica469, ponendosi contro la scandalosa e demoralizzante idea che l'uomo ingiusto può facilmente supplicare gli dei, assume rispetto a quello della Repubblica un carattere più teologico. Insieme, comunque, i due luoghi elogiano le cosiddette virtù interne, ma mentre nella Repubblica esse sono considerate in sé, quasi eludendo gli dei, nel passo 906a-b delle Leggi esse sono connesse con gli dei in distinti modi. Una cosa è certa dunque, che Platone secondo il terzo principio della sua teologia naturale rigetta consapevolmente certi tipi di preghiere sup­ plicatorie, ponendo, come vedremo, limitazioni e discriminazion i tra esse, formulando anche delle modalità alle quali si debba ottemperare. Si legge nel passo 716d che vi è un logos «il più bello, il più vero, credo, di tutti: che cioè per l'uomo retto il fatto di sacrificare e dare relazione sem­ pre agli dei con le sue preghiere e offerte, con tutto il culto loro rivolto, 468 Cfr. Leges, X, 906a2-906b3. 469 Adimanto chiede a Socrate di elogiare dicaiusiune e condannare adickia mo­ strando come: «Ciascuna considerata per sé e per il suo potere, dentro l'anima di chi la possiede, nascosta agli dei e agli uomini . . . )) (Resp. Il, 366eS-7).

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è ciò che vi è di più bello e migliore e più efficace per rendere felice una vita e più conveniente; per il malvagio tutto il contrario si dà per natura. Il malvagio ha impura l'anima, il buono invece l'ha pura e non è una cosa corretta che un uomo giusto o un dio accolga doni da mani macchiate. È vana, dunque, la molta fatica di pregare gli dei per chi è empio, è quanto mai opportuna solo a chi è santo. Questo è l'obiettivo cui dobbiamo mirare. Qui certamente non ci tro­ viamo più dinanzi alla formula del do ut des del primitivo ritualismo: sacrifici di animali, preghiere ed offerte erano l'espressione di una certa therapeia che Socrate critica aspramente nell'Eutifrone. L'interesse pla­ tonico, pur contemplando una theon che ha per oggetti "sacrifici e bene­ fici", si preoccupa di operare all'interno di essa delle distinzioni che inve­ stono la natura dell'uomo stesso. I benefici e gli effetti di questi dora dipenderanno dalla physis dell'uomo. L'uomo cattivo, ha una contaminazione che non lo rende orthos per gli dei ad accettare ogni dora che egli offre470• Contrariamente l'uomo è "puro" e sacrifica e comunica con gli dei per mezzo di preghiere e di sacrifici e tutto il modo della sua therapeia è bello e migliore. Infine questo suo rapporto con gli dei contribuisce lodevol mente alla sua felicità. Il concetto, poi, che si potrebbe pregare per una buona cosa è trovato espresso in concessione con la terza legge della musica e con l'argomento esposto nel settimo libro delle Leggi, relativo all'istituzione dello stato censore dei p oeti. Platone qui evidenzia che si cadrebbe in vere forme ridicole qualora i poeti domandassero agli dei "male per bene", poiché tale errore potrebbe influenzare il senso comune a tal punto da far sì che i cittadini chiedessero agli dei nelle loro preghiere il contrario di ciò che occorre «nei loro più gravi bisogni»471• Nello stesso libro settimo, troviamo precisata inoltre la necessità che nelle nostre preghiere le descrizioni degli dei siano accurate e perfette. Questa concezione nasce dall'esigenza platon ica, nel proporre la nuova religione astrale, di liberare da scrupoli religiosi certe ricerche cosmiche e teologiche come quelle che si preoccupavano di conoscere i movimenti 47° Cfr. Leges, I V. 7 1 6 e3 . 47 1 Cfr. Leges, I V. 80 l c3 .

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del Sole, della Luna e dei pianeti e di giustificare più razionalmente con una specie di legittimazione religiosa quelle ricerche stesse472• Connesso a questo concetto è quello che vien detto nel passo 688b-c del terzo libro dove appunto è messo in evidenza quanto sia pericoloso ricorrere alla preghiera senza nous a tal punto che può attenersi «il con­ trario di quel lo che si vuole)). Platone investe lo stesso problema in un senso più teologico più vasto nel libro XII dove appunto questo nous per­ vade all'interno certi tipi di preghiere.

472 Cfr. Leges, IV. 822 a4-8.

I nterpreti rnedioplatonici del pensiero educativo filosofico di Platone

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CAPITOLO OTTAVO

Il modello cinematico dei corpi celesti

Platone, nel Timeo, attribuisce la creazione del l'Anima del Mondo ad una fusione di Essere e Divenire473• Dalla mescolanza di questi due si ottiene un nuovo tipo di sostanza che non ha niente i n comune con la materia, eccetto una sola cosa: il movimento. Ma nella sua capacità di movimento l'anima differisce radicalmente dalla materia fi sica. Per Platone quest'ultima è inerte, ogni parte di essa si muove infatti soltanto quando è mossa da qualche cosa che è altro da sé; l'anima, invece, può muovere se stessa. Pertanto nel creare l 'anima il Demiurgo fa qualche cosa che avrà ampie conseguenze fisiche: il movimento con cui muove se stessa l'An ima del Mondo e quello delle anime delle stelle giustifiche­ ranno ogni movimento nei cieli: tutto il movimento celeste sarà spiegato come psicocinesi. Dopo aver creato l'Anima del Mondo il Demiurgo taglia a strisce la sostanza-anima e ne congiunge le estrem ità in modo da formare dei "cerchi". Il primo di essi viene collocato alla circonferenza del cosmo per produrre il movimento dello Stesso, un movimento che Platone pensa passi attraverso l'intero universo e che possa essere contrastato da altri mov imenti ovunque47\ eccetto nella regione del le stelle fi s se, 473 Timaeus, 3 5a. 4 74 Come questo contrastare è motivo di lunghe controversie: per questo si consulti­ no: T. L. HEATH, Aristarchus of Samos. The A ncient Copernicus, Oxford 1 9 1 3 , p. 1 74; F. M. CORNFORD, Plato's Cosmology: The «Timaeus» ofPlato, London 1 937, pp. 1 20 sgg; D.R. DICKS, Early Greek Astronomy to Aristotle, London 1 970 pp. 1 32 sgg; W. BURKERT, Lore and Science in A ncient Pythagoreanism, Cambridge 1 972, p. 326, n. 1 6 .

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dove esso si manifesta nella rivoluzione diurna da Est ad Ovest paral­ lela al piano dell'equatore celeste475• Dovendo a questo punto giustificare un'altra serie di movimenti celesti: quell i delle stelle vaganti476, come il Sole, la Luna, ed i cinque pianeti477, postula un altro cerchio nell 'Anima del Mondo, che Platone chiama il "movimento del Differente" e lo descrive come "obliquo", in una direzione inversa, «verso la sinistra per la linea della diagonale>>478, mentre il moto "dello Stesso" è verso la destra per la via del lato. Questo secondo cerchio è spezzato in sette cerchi di lunghezza ineguale con differenti velocità angolari che sono distribuite alla Luna, al Sole ed ai cinque pianeti che dimentichino il loro moto caratteristico individuale e successive posizioni di ogni membro del gruppo delle stelle vaganti con quelle delle stelle fisse su periodi di tempo estesi si troverà che esse continuano a spostarsi verso Est. Queste lente orbite verso Est differi­ scono notevolmente dalla rivoluzione diurna verso Ovest che predomina nel cielo479• In tal modo il Demiurgo prima di arrivare alla creazione del475 Naturalmente dal punto di vista geocentrico dell 'antica astronomia. 476 Per il senso dell'uso che fa Platone di questa espressione nel Timeo, si veda l 'Ap­ pendice, sez. B di G. VLASTOS, Plato 's Universe Oxford 1 975, pp . 99 sgg. 477 Nei due brani nei quali Platone fa riferimento al termine ( Timaeus, 38 c; Leges, IX, 82 1 b) lo restringe ai cinque pianeti dell'astronomia greca. L'uso postclassico, spesso ripetuto da studiosi moderni nelle discussioni di teorie astronomiche greche, sancisce l'estensione del termine per includere anche la Luna e il Sole. 478 Timaeus, 36 c. Platone ha in mente un grafico geometrico: un rettangolo inscri­ tro in un cerchio il cui lato più alto rappresenta il tropico d'estate, la sua base il tro­ pico d'inverno e la diagonale, l ' eclittica. L'Est è alla sua sinistra, l ' Ovest alla sua destra, probabil mente perché il grafico rappresenta la veduta di un osservatore che da una latitudine nordica guarda verso il sud ( Timaeus, 39d); se la veduta fosse dal sud, l ' Est sarebbe a destra (Leges, 760d) e l'Ovest a sinistra. Che il moto diagonale «verso la sinistra» sia molto più lento che il moto laterale «verso destra» non è men­ zionato, suggeri sce VLASTOS (op. cit., p. 34 n. 23) il che fa pensare che Platone Io reputa così ovvio da non aver bisogno di essere detto. 4 79 Tre delle differenze sono in modo particolare, secondo VLASTOS (op. cit, pp. 38-39) degne di nota: in primo luogo tutti i loro periodi,sono molto lunghi, con am­ pie variazioni in lunghezza tra di loro. La Luna impiega un mese lunare a ritornare nella sua posizione originale; il Sole un anno solare e Venere e Mercurio lo stesso mediamente; Marte l anno più 322 giorni ; Giove 1 1 mesi più 3 1 5 giorni; Saturno

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l'umanità ha portato al mondo una vasta popolazione di «eterni dei»480: l'Anima del Mondo, l'innumerevole moltitudine delle stelle fisse481 il cui moto visibile è esclusivamente il moto dello Stesso; il Sole, la Luna, ed i cinque pianeti, i l cui moto visibile mostra anche diversificazioni dal movimento del "Differente". Pertanto, data l'invariabile periodicità del loro tempo, le stelle forniscono visibili misure del tempo: esse sono veri cronometri celesti482• È necessario premettere, prima di andare avanti nella nostra analisi che l'astronomia greca come scienza di osservazione era notevolmente progredita al tempo in cui Platone giunse a scrivere il Timeo. Dimostrare questo progresso in ogni dettaglio non è possibile, poiché la documenta­ zione è frammentaria e spesso vaga. Ma anche così, essa ci offre mate­ riale sufficiente per attestare i vari punti essenziali. Due terzi di un secolo o circa prima che il Timeo fosse scritto, due astronomi greci: Eutemone e Metone483 avevano effettuato osservazioni scientifiche che svelavano l'inegualità delle stagioni astronomiche484• 29 anni più 1 66 giorni. In secondo luogo queste orbite procedono su piani diversi da quelli delle stelle fisse. Invece di procedere parallelamente al piano dell'equatore ce­ leste, tutte le orbite verso Est del gruppo (dei sette) si muovono su piani che lo inter­ secano obliquamente. Così il Sole si muove nel piano dell'eclittica che interseca il piano dell'equatore celeste. La Luna ed i cinque pianeti si muovono in gradi varianti di prossimità all ' eclittica e le loro orbite cadono quasi interamente entro «il circo­ lo zodiacale». In terzo luogo, tutte queste orbite mettono in mostra il fenomeno che è così evidente nel comportamento stagionale del Sole: tutte hanno delle «curve>>, punti di deviazione massima nord e sud ai quali esse tornano indietro e procedono nella direzione inversa finché hanno raggiunto l 'opposto punto di «curva». 480 Timaeus, 37c6. 48 1 Timaeus, 40a-b. 482 Altrimenti conosciuti per il loro contributo alla riforma del ca lendario. Meta­ ne per l 'autore di un «Grande Anno» di diciannove anni, che prese il suo nome, che allineava il mese lunare con l ' anno solare intercalando sette mesi nel corso del pe­ riodo di diciannove anni e, usando mesi varianti in lunghezza da ventinove a trenta giorni. 483 Timaeus, 4 l e5 ; 42d. 484 Queste sono conservate nel papiro intito lato «Ars Eudoxi» colonna 21 ( F. BLASS, Eudoxi. Ars Astronomica, qualis in charta Aegyptiaca superest, Kicl l XX7). Il papiro menziona soltanto Eutemone. Eudemo, invece, accredita sia a Eutcmonc

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Ciò che è notevole riguardo queste scoperte non è la loro accura­ tezza, come osserva l'Heath485, ma il fatto veramente sorprendente che essi confidassero nell'osservazione da sostituire l'ipotesi nel loro tempo così seducente, data l'importanza che i Greci affidavano alla simmetria - secondo la quale due i ntervalli i ntersostiziali fossero rigorosamente uguali e che entrambi gli equinozi cadessero esattamente su i loro punti di mezzo486• Considerando questo, Eutemone ed Metone, avrebbero potuto risparmiarsi la fatica di ottenere per mezzo dell'osservazione le cifre per gli equinozi ed i solstizi d'inverno: avrebbero potuto attenerle semplicemente contando i giorni tra successivi solstizi di estate e divi­ dendo per quattro il che è ciò che gli astronomi Babilonesi fecero fino alla fine del quarto secolo A.C.487 Che essi scegliessero invece la via più difficile dell'osservazione è sor­ prendente testimonianza dell'orientamento scientifico verso il quale gli astronomi greci erano allora impegnati. Chiaramente, però, questo loro atteggiamento era sostenuto da una fondamentale teoria come sottolinea Dicks, quella di una terra sferica al centro della sfera celeste48H. Anche se non avessimo avuto, secondo Vlastos, queste informazioni su i due astronomi, avremmo potuto dedurre tranquillamente che prima dei tempi di Platone - al più tardi nell'ultimo terzo del quinto secolo ­ il ruolo dell'osservazione nell'astronomia greca era cambiato dai giorni nei quali l'indagine razionale del cielo era cominciata in Mileto come una branca della physiologia. Per evidenziare il contrasto basta rifarsi al modello cosmologico offertoci da Anassimandro e ci si rende conto come esso fosse frutto solo di immaginazione: qui i l Sole è infatti un enorme che a Metone la scoperta della ineguaglianza delle stagioni. Lo stesso Tolomeo attri­ buisce ad entrambi osservazioni astronomiche e meteorologiche (Opera omnia, ed. Heiberg vol. I parte l, p. 205; vol. II, p. 67). 4 K5 T.L. HEATH, op. cit. pp. 2 1 5-2 1 6. 4K6 VLASTOS, op. cit, p. 37. m O. NEUGEBAUER, The Exact Science in A ntiquity, Princeton 1 957. m Un'asserzione veramente sostanziale, dato che l ' interrogativo se la terra sia piat­ ta o sferica rimane in discussione tra gli astronomi-fil osofi fino alla fine del quinto secolo ed anche oltre: sappiamo da Aristotele (De Cae/o, 294 B 1 3 - 1 4) che non solo Anassagora (così come ci dice Platone, P/aeto, 97d-e) ma anche Democrito era ri­ masto fermo sul l' idea che la terra fosse piatta.

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anello o cerchio di fuoco alla periferia del nostro mondo e la Luna è un altro anello di fuoco, simile nel disegno, più piccolo, essendo il diametro due terzi di quello del Sole. Questo è seguito, da un intervallo di vuoto, da un'innumerevole multitudine di anelli-stella i cui visibili orifizi sono piccoli ed i cui diametri sono la metà di quelli della Luna, un terzo di quello del Sole489. È indubbio che Anassimandro abbia prestato atten­ zione all'esistenza di qualche corpo celeste che risponda a ciò che i Greci intendevano per pianeta (stelle diverse dal Sole e dalla Luna) distinte dalle stelle fisse per il loro moto apparentemente erratico. Probabilmente a Parmenide deve essere riportata la prima identificazione di uno dei cin­ que pianeti490; gli altri quattro ed il loro ordine491 furono scoperti due generazioni dopo. Infatti i cinque pianeti sono conosciuti da Filolao492 e probabilmente da Democrito493. In ogni caso essi devono essere stati conosciuti da Platone stesso, quando nel mito di Er494 descrive la Terra al centro del cosmo, le stelle alla sua periferia ed in mezzo a questi due estremi vengono sette stelle che possono soltanto essere la Luna, il Sole 489 Per i dati relativi a questo resoconto si consultino: P. TANNERY, Pour l 'Histoire de la Science Hellène, Paris 1 930, pp. 90 sgg; D. O'BRIEN, Derived Light and Eclipses in the Fifth Century, in «Joumal of Hellenic Studi es)), 1 968, pp. 1 44-6 1 ; D. O ' BRIEN, A naximander and Dr. Dicks, in «Joumal of Hellenic Studies)), 1 970 p. 1 98 . 490 L' identificazione è attribuita a Parmenide i n u n testo dossografico d i rispettabi­ le autenticità: «Prima dell 'etere Parmenide colloca la Stella dell 'alba che egli crede identica alla stella della Sera; dopo questa, il Sole, sotto il quale egli colloca le stelle nella regione del fuoco che egli chiama «cielo)). 491 Nel loro corretto ordine in distanza radiale della loro orbita dalla terra (Mer­ curio-Venere-Marte-Giove-Saturno) eccetto che da parte della maggioranza degli astronomi Greci (come da Platone nella Repubblica (616e-617b) e nel Timeo (3 8d) fino al secondo secolo a.c. si pensa che Venere preceda Mercurio (per i riferimenti si veda A.E. TAYLOR, Commentary an Platon Timaeus. Oxford 1 928 pp. 1 92-194). 492 Cinque pianeti sono attribuiti a lui esplicitamente nei resoconti dossografici (AETIUS 2 . 7 . 7 . e 2 . 1 1 . 3 DK 44A 1 6.17). L' attribuzione dossografica a Filo­ lao è stata messa in discussione. Il Vlastos (op. cit. p. 46, n. 63) d 'accordo con il BURKERT (op. cit., pp, 337 sgg.) è in favore del l'attribuzione a Filolao. 493 Per le probabili idee di Democrito su i pianeti si veda l 'Appendice sez. G del vo­ lume di VLASTOS (op. cit., pp. 1 05-6). 494 Repubblica X, 616b-617d. =

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e cinque pianeti. Anche se non si sa niente di più circa la scoperta dei cinque pianeti nell'epoca di Platone, si è, tuttavia a conoscenza che nel­ l'ambito dell'astronomia i Greci erano allora riusciti ad uscire dalla linea della speculazione puramente immaginativa così caratteristica nella phy­ siologia ionica ed a scoprire un'altra metodica di indagine naturale dove la teorizzazione doveva essere verifi c ata da materiale soggetto all'evi­ denza dei fatti, secondo le esigenze dell'osservazione scientifica. La storia della creazione nel Timeo, malgrado la sua tinta allegorica, attesta l'assimilazione da parte di Platone dei risultati ottenuti da questa scienza nella quale la teoria e la pratica interagivano con successo. In particolare Platone arriva a conoscere: a) che il moto dei pianeti benché partecipi al movimento diurno verso ovest del le stelle fisse, è soggetto anche ad un movimento inverso molto più lento verso est "obliquamente" all'equatore celeste; b) che ci sono differenze nella dimensione delle loro orbite, nel periodo delle loro rivoluzioni e nelle loro velocità angolari relative alle stelle fisse; più particolarmente, che Venere e Marte hanno periodi di rivolu­ zione che sono uguali tra di loro (l'uno all'altro) ed a quello del Sole495 e che gli altri pianeti hanno orbite più larghe, periodi più lunghi e, secondo il suo calcolo, velocità più basse496; 495 Questo particolare - che i periodi (siderali) di Venere e Mercurio sono media­ mente di un anno solare, il che è vero per una ipotesi geogentrica ed è general­ mente considerato vero dagli astronomi Greci è menzionato e nella Repubblica (X, 6 1 7a8-b l ): «La quinta, la sesta e la settima stella (Mercurio, Venere, il Sole) procedono allo stesso passo» e nel Timeo (38d1-3); «la stella del!' Alba e la stella di Mercurio seguono un corso che è alla pari con quello del Sole rispetto alla velocità» (Cfr. VLASTOS, op. cit. , p. 49, n. 73). 496 Anche questo è implicito sia nella Repubblica (x, 6 1 7a-b: la rivoluzione più ve­ loce è quella del! ' «ottavm> cerchio, quello della Luna; quindi vengono quelli di Ve­ nere, di Mercurio e del Sole sempre più lente sono quelle di Marte, Giove, Saturno) che nel Timeo 3 6d5-6: «tre di esse (sono state comandate di girare dal Demiurgo) a velocità eguali mentre le (altre quattro a velocità che differiscono l 'una dall'altra e da quella delle tre»), come pure nelle Leggi (8223 8 : «e ancora non correttamen­ te si ritiene che quello che di essi è il più veloce sia il più lento») considerando che la velocità diventa sempre più bassa quando le orbite ed i periodi diventano sempre più grandi ( Timaeus 39a2-3). Platone calcola come velocità appropriata di ciascun pianeta quella che deriva dal movimento del «Differente>>. Egli non dichiara, e non -

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c) che le orbite planetarie mostrano peculiarità che egli descrive come "girate-indietro" e "avanzamenti" dei pianeti relativi l 'uno all'altro il che potrebbe essere soltanto un riferimento ai fenomeni di retrogra­ dazione planetari, cioé, al fatto ·che i pianeti, nel loro progredire verso Est attraverso le costellazioni dello zodiaco, non sempre si muovano in avanti a velocità costante, ma occasionalmente cominciano a ral­ lentare, sembrano arrivare a fermarsi e quindi effettivamente girano indietro per un certo tempo prima di riprendere nuovamente il loro avanzamento497. Ora vediamo che tipo di aiuto apportano all'astronomia osservazio­ nale le principali tesi platoniche. Le prime due: le stelle sono divinità ed i loro movimenti sono psicocinetici ed il moto delle stelle è circolare498 appartengono a due aree di ricerca radicalmente diverse: la prima appar­ tiene alla teologia e alla metafisica speculativa, la seconda alla scienza naturale. Platone si sforza di dedurre la seconda dalla prima combinando la prima con due ulteriori tesi della stessa categoria: le anime delle divipretende di sapere, di quanto siano più grandi le orbite ed i pianeti di Marte, Giove e Satumo rispetto a quelle di Venere, Mercurio e del Sole. Quando egli insiste nel dire che tutte «si muovono secondo ragione» ( Timaeus, 36d6-7) è possibile che egli non abbia cifre per alcuno di questi rapporti. 497 Descrivere i tipici movimenti di queste divinità, le loro «giustapposizioni» ed i «giri indietro» e gli «avanzamenti» delle loro orbite su se stesse dire quali delle di­ vinità arrivano in linea l 'una con l 'altra alla loro «congiunzione» e quali di loro sono «in opposizione», ed in quale ordine ed a quali tempi esse arrivano di fronte alle al­ tre di modo che alcune vengano a trovarsi «schermate» (cioè nascoste) alla nostra vista per riapparire una volta ancora, con ciò portando timori e presagi di cose a ve­ nire a quanti non sanno questi calcoli, queste cose sarebbe vana fatica spiegarle sen­ za avere avanti agli occhi le loro immagini ( Timaeus, 40c4-d3). Basta osservare qui il linguaggio di Platone per rendersi conto che esso è saturo di termini dell'astrono­ mia osservazionale: la «giustapposizione» quando corpi celesti sorgono e tramon­ tano in stretta v icinanza; la «congiunzione» quando essi hanno la stessa longitudi­ ne celeste, )' «opposizione>> quando la loro longitudine celeste differisce di 1 80°; la «schermatura» è l ' occultazione, ma in questo contesto si riferisce particolarmente al i ' eclissi di Sole e di Luna; e come già abbiamo accennato le «girate indietro» e gli «avanzamenti» sono episodi di retrogradazione. 49H Sono tutti circolari nel Timeo (36c). La circolarità dei moti celeste è riaffermata nelle Leggi (x, 898a).

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nità-stella. sono perfettamente razionali; ogni moto perfettamente razio­ nale è circolare; per cui date la prima la terza e la quarta tesi la seconda ne consegue: se il movimento delle stelle è causato dalle loro anime, se le loro anime sono razionali e se il moto razionale è circolare allora tutti i loro moti devono essere circolari. Ma non è così nel caso delle altre stelle che hanno moti "vaganti". All'apparenza questi movimenti non corri­ spondono con il modello perfettamente circolare. La svalorizzazione del valore epistemologico dell'esperienza sensoriale499 avrebbe potuto facil­ mente rivolgere Platone contro la metodologia che aveva trasformato lo studio del cielo da mera congettura di ispirazione in una ricerca empi­ ricamente controllata. Ma, Platone riuscì a sfuggire ad una tale tragica alienazione della scienza del suo tempo. La sua esperienza, se non la sua teoria, dimostra che egli si sarebbe reso conto della assurdità di una qual­ che teorizzazione riguardante i cieli che ignorasse o negasse fatti accetta­ bili per mezzo dell'osservazione. Il suo dovere allora era di conciliare la convinzione "a priori" che tutto il movimento celeste è rotante con i fatti empirici riguardanti i movimenti "vaganti" delle sette stelle. Nel Timeo Platone propone una teoria destinata a realizzare que­ sta conciliazione: egli ipotizza che i movimenti del Sole, della Luna e dei pianeti siano in ogni caso la composizione di movimenti circolari "non vaganti" che procedono su piani differenti, in direzioni differenti, a velocità distinte: il movimento verso Ovest dello "Stesso" sul piano del­ l'equatore celeste, combinato con il movimento molto lento verso Est del "Differente" sul o vicino al piano dell'eclittica. L'intuizione centrale500 è 499 «Poiché è chiaro che la mente sarà ingannata quando tenterà di indagare su qual­

che cosa in collaborazione con il corpO>) (Phaedo, 65b ). 500 La fertilità di questa intuizione è ben riconosciuta da P. DUHEM: «Se noi voglia­ mo trovare la fonte del la tradizione della quale noi pretendiamo di seguire il corso, bisogna risalire a Platone (Sozein ta phainomena, Paris 1 908, p. 3). Lo stesso rico­ noscimento non è stato attribuito all'originalità dell' intuizione di Platone. Nell'anti­ chità questa fu oscurata impropriamente dalla delusione che l'intuizione era stata an­ ticipata da Pitagora. Nelle storie moderne dell'astronomia greca il compimento dei due moti dello Stesso e del Differente fornisce le basi della spiegazione della teoria della «curva a spirale)); l ' attualità di questa teoria è stata riconosciuta dal DICKS: «Il riconoscimento di questi percorsi a spirale dei pianeti rivela una non insignifi­ cante intuizione astronomica da parte di Platone, poiché non ci sono prove che una

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che la composizione di movimenti circolari regolari postulati può spie­ gare i movimenti fenomenici irregolari. È possibile vederne l'applica­ zione nel Timeo al movimento a spirale composto dal Sole, secondo una raffigurazione proposta dal Vlastos501 • N

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La figura presenta una sfera immaginaria concentrica alla sfera cele­ ste, ma molto più piccola (il suo raggio è costituito dalla distanza tra il centro della Terra e il centro del Sole). NS è l'asse polare. CQDP è il grande cerchio della nostra sfera immaginaria sul piano dell'equatore celeste. Se il movimento dei Sole derivasse esclusivamente dal moviqualche simile teoria fosse considerata prima di lui>> (Early Greek Astronomy ofAri­ stotle, London 1 970, p. 1 29). 501 Le distanze QQ ', Q 'Q ", sono state esagerate; se fossero state mantenute in scala, i punti Q, Q ', Q " sarebbero stati troppo vicini. (Op. cit. , p. 56)

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mento dello Stesso costituirebbe una rivoluzione diurna verso Ovest attorno al cerchio CQDP.EPBQ è l'eclittica, un secondo grande cer­ chio sulla nostra sfera, la traettoria della rivoluzione del Sole verso Est attraverso lo zodiaco. Le linee AB ed EF sono posizioni dei cerchi nella nostra sfera immaginaria situate su i piani del tropico sud (la loro raffi­ gurazione per mezzo di linee è schematica: disegnarle come cerchi infol­ tirebbe il diagramma). Sia il centro del Sole in Q ad un dato momento quando i piani dell'equatore celeste e dell'eclittica si intersecano in QP. Il movimento dello Stesso trasporta il Sole verso Ovest lungo il cerchio CQDP. Contemporaneamente il movimento del Differente lo trasporta (molto più lentamente) nella direzione opposta lungo l 'eclittica EPBQ. Così alla fine delle ventiquattro ore il centro del Sole non sarà ritornato proprio fino al punto Q; avrà raggiunto soltanto un punto Q '. un poco ad Est di Q sull'arco QE . Quindi il movimento reale del Sole durante quel­ l'intervallo non sarà stato un cerchio sulla nostra sfera, ma una leggera spirale sulla stessa sfera, con inizio in Q che si snoda fino a Q '. Per la stessa ragione nelle successive ventiquattro ore sarà slittata indietro in Q ", un poco più avanti verso Est lungo l'arco QE, ed un'altra spira si sarà aggiunta alla spirale che abbiamo iniziato in Q. Questo continuerà giorno dopo giorno, con le spirali che diventano un poco più corte ad ogni giro, benché percorse sempre in tempi uguali, fino a quando viene raggiunto il solstizio invernale in E. Da quel punto il processo sarà inverso: le spi­ rali continueranno a scendere, diventando successivamente più grandi fino all'equinozio di primavera quindi cominceranno di nuovo a diven­ tare più corte fino a quando viene raggiunto il solstizio estivo in B ed allora il processo si invertirà ancora. Otterremo così due serie di spirali continue, un'ascendente da E a B, l'altra discendente da B ad E, una spi­ rale per ogni anno di calendario, sempre percorse in tempi uguali, ma con lunghezze variabili, le più corte ai solstizi, le più lunghe agli equi­ nozi. Pertanto il valore dell'ipotesi di Platone sembra parlare da sola. La scoperta del valore scientifico di queste dettagliate informazioni deriva, quindi, proprio dal suo modello metafisica, per cui: dal momento che il Sole è una divinità, i pensieri del quale determinano i suoi movimenti, la sua anima deve essere perfettamente razionale (tesi I e I I I); e dato che il movimento razionale è circolare (tesi IV), il movimento del Sole deve

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essere circolare (tesi II). Perché allora il moto solare non mostra la sem­ plice, lineare, circolarità dei movimenti delle stelle fisse? Perché non è, come il loro limitato al movimento circolare verso Ovest su un unico piano? Perché slitta indietro verso Est giorno dopo giorno? E perché lo slittamento avviene su un piano che attraversa obl iquamente i piani sui quali si muovono le stelle fisse? Non è la sua anima razionale come la loro? Perché allora i l suo movimento deve essere così diverso dal loro? L'ipotesi di Platone risponde felicemente a tutti questi quesiti: ipotizzare due movimenti, su piani che intersecano con direzioni diverse a velocità diverse, ciascuno dei quali operante separatamente, porterebbe il Sole in un'orbita perfettamente circolare, e si può desumere che il loro agire in concomitanza produrrà una spirale che spiega i fenomeni conformemente alla richiesta della tesi II. Essendo arrivato fin qui era difficile che Platone potesse fermarsi . Avrebbe voluto soddisfare le stesse domande nel caso dei movimenti del la Luna e dei cinque pianeti. Ma qui la sua ipotesi comincia a non dargli ciò che egli vuole. Qui egli mette a confronto movimenti che, a differenza di quello del Sole, non possono essere spiegati scomponendo ciascuno di essi nei movimenti dello Stesso e del Differente. Il movi­ mento del Differente in ogni membro del gruppo dei sei procederebbe o sull'eclittica, come avviene nel caso del Sole, o altrimenti su un piano fisso paral lelo all'eclittica. Perché, allora quel le variazioni in latitu­ dine, quei movimenti che alternativamente si avvicinano all'eclittica e si allontanano da essa? Questi movimenti laterali rimangono completa­ mente inspiegati dall'ipotesi platonica dello Stesso e del Differente. E così anche le variazioni in velocità angolare relativa al Sole esibite da Venere e Mercurio che Platone ravvisa nel descrivere il trio che alternati­ vamente «sorpassa ed è sorpassato l'uno dall'altrm>502, più generalmente, le retrogradazioni esibite di tempo in tempo da ciascuno dei cinque pia­ neti. Dal punto di vista dell'ipotesi di Platone, la quale considera soltanto i movimenti dalla velocità e direzioni costanti, queste intermittenze del movimento planetario sono scandalose irregolarità; sono fenomeni che la ipotesi di Platone non può toccare. Pertanto, mentre secondo Cornford503, 502 38d4-6. 503 P.M. CORNFORD, Plato 's Cosmology, pp. 1 36-7.

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l'energia dell'automovimento della Luna e dei cinque pianeti costitui­ sce per Platone una "terza forza" che modifica nel loro caso la direzione e la velocità impartita a ciascun di essi dallo Stesso e dal Differente, per Dicks504 e Vlastos505, invece, non c'è alcun suggerimento nel testo di Platone che egli sia mai ricorso a tale terza forza per spiegare feno­ meni lasciati inspiegati dallo Stesso e dal Differente. Indipendentemente dal fatto che Platone abbia o non abbia formalmente proposto quel pro­ blema agli astronomi del suo tempo, si può essere certi che il problema si sarebbe da se stesso posto a chiunque fosse arrivato a conoscere la sua teoria astronomica. Un tale uomo, sicuramente, fu Eudosso. Gli storici di astronomia hanno lungamente riconosciuto che la sua teoria delle sfere omeocentriche rappresenta, se non una soluzione al problema formulato nel la sopradetta citazione, almeno un brillante progresso nella giusta direzione. Ciò che non è stato riconosciuto è la continuità tra quel pro­ gresso506 e quello rappresentato dalla soluzione di Platone di una parte dello stesso problema nella sua teoria del movimento solare. In entrambi i casi abbiamo la composizione dei movimenti, semplici, uniformi, circo­ lari, che spiegano il moto fenomenico complesso, irregolare. Applicando questa formula al movimento del Sole, Platone ottiene risultati eccellenti, applicandola al movimento dei pianeti ottiene risultati precari, perché nel loro caso la sua ipotesi è veramente troppo semplice per fronteggiare la complessità del fenomeno. Eudosso applica la stessa formula al moto dei pianeti ed ottiene risultati largamente migliori, poiché egli ha trasfor­ mato la semplice costruzione platonica, sostituendola con un model lo altamente immaginativo dove tre e quattro sfere omeocentriche svolgono l'opera delle coppie di cerchi di Platone, portando le risorse del suo genio matematico alla utilizzazione di questo impianto più vigoroso. Non si potrebbe, naturalmente, paragonare la grandezza della conquista scien­ tifica di Platone con quella di Eudoxo. È nondimeno vero che fu Platone a preparare la via al trionfo di Eudoxo, perché l'opera di Platone aveva non solo posto il problema, ma lo aveva anche risolto nel caso molto più semplice del movimento del Sole. In quel caso Platone aveva veramente 504 D.R. DICKS, Op. cii. pp. 1 24- 1 27. 505 G. VLASTOS Op, cii. p. 59. 506 G. VLASTOS, op. cii. pp. 59-60.

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mostrato quali movimenti regolari ed uniformi devono essere ipotizzati per sostenere i movimenti fenomenici: il movimento dello Stesso sul piano dell 'equatore compiuto appunto in ventiquattro ore ed il movi­ mento del Differente sul piano dell'ellittica compiuto in poco più di 365 g10rm. Le teorie che il mondo ha un'anima, che tutte le stelle hanno un'anima, e che i corpi celesti si muovono come fanno perché le loro anime razio­ nali devono muoversi in cerchi perfetti, sono così fantastiche che si stenta a credere che esse potessero aver suggerito la riduzione ad un sistema compiuto di dati scientificamente stabiliti. La teoria dei moti celesti sug­ gerita a Platone dal suo schema metafisico ebbe certamente più validità scientifica della proposta di Democrito, il quale cercando una spiegazione meccanicistica del moto dei corpi celesti, si era rivolto a quel vecchio concetto a disposizione dei physiologoi, costituito dal vortice. Le Stelle si muovevano così come facevano perché rimanevano nella presa di un movimento vorticoso che, nel lontano passato, aveva provocato la forma­ zione del nostro mondo; e le differenze tra le loro velocità angolari erano dovute al fatto che il vortice diventava più debole avvicinandosi al cen­ tro, cosicché il Sole fu lasciato indietro rispetto alle Stelle fisse e la Luna ancora più indietro. I l valore esplicativo di questa ipotesi era illusorio: non c'era modo di far derivare da esso dimostrabili correlazioni delle dif­ ferenze di velocità tra, diciamo, la Luna, il Sole e le stelle fisse con le dif­ ferenze delle loro rispettive distanze dalla terra. L'ipotesi era impotente a sostenere questi fenomeni e a servire da utile guida a nuove osserva­ zioni che confermassero l'ipotesi o indicassero il modo di emendarla. Lo schema metafisico di Platone, invece, presentando il suo modello pura­ mente dinamico dei corpi celesti, nel quale le conseguenze matematica­ mente dedotte salvavano i fenomeni, apriva la strada del futuro, la strada percorsa da Eudosso, Apollonio, Ipparco, Tolomeo.

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Interpreti medioplatonici del pensiero educativo filosofico di Platone

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CAPITOLO NONO

L'eclettismo etico del platonico Massimo di Tiro

La nostra analisi, prenderà, tra le quarantuno dissertazioni di Massimo di Tiro507, in considerazione la V (H.) XI (D.); la XI (H.) XIX (A) e la XLI (H.) XLI (D.). La necessità di un rapporto con il divino attraverso la preghiera, fa riconoscere la contingenza degli eventi e di qui la riflessione sulle effet­ tive possibilità umane. Mentre da una parte l'uomo diviene il responsa­ bile parziale dei mali che gli accadono, a causa delle sue scelte, dall'altra essi sembrano essere riportati al dio. Questi i temi delle dissertazioni da noi scelte. Nonostante la suffi­ ciente unità di ogni orazione saremo chiamati a rinviare dall'una all'altra ove rinverremo sviluppi quasi identici. Massimo parte da una celebre leggenda di Mida, re della Frigia508, =

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507 MASSIMO DI TIRO il cui .floruil Eusebio lo pone intorno al 1 5 2 d.C. e la Suida pone la sua morte sotto il regno di Commodo intorno al 1 8 0- 1 9 1 d . C . può essere considerato un esponente della così detta seconda sofi stica, sem­ bra essere autore di 4 1 dissertazioni che hanno trovato la loro raccolta i n due fondamenta li edizioni, quella di F. DUBNER. Paris 1 8 90 e quella di H . HO­ BEIN, Leipzig 1 940. L' autore di quest ' u ltima edizione dedica a quest ' ope­ ra di Massimo di Tiro un altro lavoro di carattere esclusi vamente fi lologi­ co ed erudito: De Maximo Tyro quaestiones philologie selectae, Leipzig 1 8 95 . A questi lavori b i sogna aggiungere una traduzione francese d e l i ' intera ope­ ra di Massimo di Tiro J.J. COMBES-DOUNOUS, Paris 1 802. Infine è da se­ gnal are per l ' acutezza critica e l ' ampiezza di riferimenti il lavoro di G. SOURY, Aperçus de philosophie religieuse chez Maxime de Tyr platonicienne écletique, Paris 1 802. 508 Q uesto re, dice Massimo, aveva molto amore del l ' oro, catturò Silene mesco­ lando del vino alla sorgente a cui questo andava a bere. L' insensato frigio innalzò

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della quale apprezzando la portata morale mostra come un insensato, il quale, non domanda niente di buono, dopo aver pregato per ottenere, ritratta dopo averlo ottenuto. Quanto alla cattura del satira, del quale l'aneddoto fa cenno si vuoi mettere in evidenza come coloro che con la astuzia e con la violenza hanno ottenuto, ciò che desiderano e non ciò che domandano con la preghiera, attribuiscono agli dei la situazione pre­ sente, quand'anche non l'abbiano ricevuta da loro, perché nessuna cosa malvagia può derivare da un dio. La stessa insensatezza si ritrova nell'azione del re lido Creso, il quale nella sua folle presunzione di re conquistatore, non contento di fare di Apollo un complice di un'ambizione smisurata e della sua passione venale, resta insensibile al giusto ripetuto avvertimento del dio. I due esempi riportati ci mostrano che alcune preghiere sono inutili o nocive e che in luogo di un beneficio attirano su di noi il risentimento divino. Lo stesso Omero, di cui Platone già giudicava le favole poco utili offre al nostro autore degli esempi che lo inducono ad andare avanti con la sua ricerca. Questi evoca in principio la scena del! 'Iliade dove dopo una pro­ vocazione di Ettore si sorteggia tra nove guerrieri achei: «questi get­ tano i dadi verso l ' elmo di Agamennone [ . . . ] e i sacerdoti, tendono le mani verso gli dei, e ciascuno diceva levando gli occhi al vasto cielo: oh! padre Giove fa che sia scelto Aiace o il figlio di Tetide, o lo stesso re di Micene»509• Il dio non si mostra venale, ma l 'invocazione a loro favore non è stata vana. Il caso di Priamo è più sconcertante «questo prega per la propria terra e sacrifica ogni giorno a Zeus buoi e pecore e il dio lascia la sua pre­ ghiera senza effetto. Ad Agamennone, invece, questo aveva promesso e garantito, quand'anche avesse marciato contro una terra straniera che al suo demone una preghiera grazie alla quale si attendeva da questi, a suo favore, di essere esaudito attraverso il satiro «lo chiedo che la terra di questo reame diven­ ti oro così come gli alberi, le case, le cose vicine e i loro fiori. Ne derivò la carestia. La ritrattazione di M ida che questa volta è diretta agli dei, chiede di prendergli l 'an­ tica povertà della terra, ma tanto feconda e di inviare il suo oro ai suoi nemici. Le sue suppliche furono vane. Questa novella che non è la sola legata al mito di Mida è menzionata da Senofonte all' inizio delle Anabasi ( l , 2, 1 3 ). 509 VII, 17 5 sg.

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non sarebbe ripartito che dopo aver distrutto Troia e le sue alte murm>510• Massimo sottolinea tale contrasto tra il troiano che ad una causa giusta aggiunge una devozione perseverante ed il greco, che è rassicurato anti­ cipatamente: qualsiasi cosa farà, come sembra, la sua aggressione colpe­ vole, riuscirà. Un terzo esempio omerico, quello di Crise, impone a Massimo di trattare più sistematicamente la questione: «Apollo non reca in prin­ cipio aiuto a Crise vittima di un'ingiustizia, ma quando questi gli parla, senza trattenersi, ricordando la grassazza delle cosce delle vittime, allora Apollo lancia i suoi dardi sull'armata greca»51 1 • È con tale episodio che pressappoco si apre l 'Iliade. Cri se sacerdote di Apollo, è stato oltraggiato da Agamennone, quando è andato a chiedere indietro la figlia che era stata fatta prigioniera. Questi si rivolge al suo dio, che colpisce gli achei con la peste. La sua breve preghiera51 2 non è niente altro che un mercato di cui Massimo non esagera mai il carattere. La mancanza di forza degli dei di Omero, tanto più rimarchevole qualora si tratta di Zeus e di Apollo il cui prestigio, come vedremo, è grande agli occhi di Massimo, lo induce a definire la sola attitudine degna di un dio. Cambiare opinione repentinamente è indegno non solo di un dio, ma anche di un uomo dabbene, perché l 'uomo che si lascia pregare viene ad essere incline a ripensamenti; se passa dal bene al meglio è perché aveva preso una non corretta posizione, se dal meglio al meno buono viene a causare un cambiamento nocivo: la divinità i nvece è estranea a ciò che è male. In effetti o colui che prima domandava era degno di ottenere i favori del dio o non era degno; se degno li otterrà senza averli chiesti se non è degno non li otterrà neppure domandan­ doli. Perché né colui che è degno, ma negligente nella preghiera, non cessa di essere degno per il fatto che non ha pregato, né quel lo che non è degno di essere esaudito, ma che prega per ricevere, non diventa degno per il fatto che pregh i . Qui è precisamente il contrario: colui che è degno di ricevere se non farà sacrifici alla divinità è più degno 5 1 0 II, 1 1 2 sg. 5 1 1 V, 1 2 sg. 5 1 2 V, 37-42 sg.

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di ottenere, colui che non è degno, qualora sacrifichi, rimane ancora indegno. Al primo noi attribuiremo il rispetto e la fiducia, perché la fiducia lo fa perseverare nel pensiero che sarà esaudito, il rispetto gli farà mantenere egualmente la calma qualora non venga esaudito; al secondo attribuiremo la stoltezza e la cattiveria, perché la stoltezza fa che preghi, e la cattiveria fa che non sia giudicato degno. E che dire sottolinea Massimo se il dio fosse un generale e quello che porta i bagagli gli andasse a domandare di occupare i l posto di un combattente, mentre il soldato si riposa, non è forse vero che nell'interesse delle sue truppe il generale dovesse lasciare l'uno a portare i fardelli e l'altro nel numero dei combattenti? Purtroppo il generale non può sapere tutto e può lasciarsi corrompere e così essere ingannato. La divinità però non è così, essa non donerà a quanti la pre­ gano, se non sono degni e non si asterrà dal donare a quanti non la pre­ gano, ma che siano degni. I l dio dunque non può cambiare opinione senza essere tacciato di stoltezza o di cattiveria; quello che Massimo dice dell'uomo indegno aiuta a sciogliere senz'altro le due forme di utopia alle quali il dio deve restare estraneo. La preghiera non potrà dunque influenzarlo che solo se non ha visto o voluto vedere i meriti. Lungi dal fatto che l'assenza della preghiera tolga i meriti e che la preghiera cancelli i demeriti, la prima aumenta gli uni, la seconda gli altri. La parte migliore di tale dissertazione, la cui evoluzione ci prepara alla concezione finale della preghiera, è sicuramente il prodotto di una elaborazione anteriore a Massimo, come quella platon ica513• Malgrado le notevoli differenze si ritrova qui il concetto che solo Zeus sa ciò che conviene all'uomo e che la preghiera non è in grado di manifestare ciò. Ma il fedele non desidera che una cosa, che la preghiera non influenzi sempre il dio. Ancora Massimo di Tiro giudica la preghiera inutile e spesso nociva. Cosi all'inizio del quarto paragrafo di questa prima dis­ sertazione, alquanto bruscamente, senza molto prendersi cura della con­ sequenzialità della dimostrazione dice: «è certamente tra tutte le cose cui aspiriamo con le preghiere che su alcune veglia la provvidenza, su altre il destino esercita il suo controllo, su altre la fortuna le fa cambiare, 5 1 3 Si pensi all'Aicibiade ( 1 43 a).

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altre sono amministrate dall'arte. La provvidenza è opera della divinità, il destino della necessità, l'arte dell'uomo, la fortuna del caso. Le diverse attività della vita sono state attribuite a caso a tale o tale altra di queste forze sopracitate. Di conseguenza, ciò che si domanda pregando si rife­ risce sia alla provvidenza, sia alla necessità del destino sia all'esercizio dell'uomo, sia al corso della fortuna>>514• È da rilevare innanzitutto una certa noncuranza nell'esposizione di Massimo. Quando ricapitola infatti, rovescia l'eimarmene, ciò d'al­ tro canto non desta molta sorpresa trattandosi di un'astrazione più o meno personale, dopo di che elimina i l caso per parlare di «corso della fortuna))515• Passiamo ad esaminare il primo elemento che la preghiera nella sua inutilità sembra investire: la provvidenza. Due ipotesi sono possibili a tale proposito: o la provvidenza considera il tutto e tralascia le parti come i re conservano le città con leggi e diritti senza far partecipi gli individui nelle loro singolarità, o la provvidenza si interessa anche delle più pic­ cole parti. Nel primo caso non bisogna importunare il dio, perché questi non si lascerà persuadere se gli verrà rivolta una preghiera contraria al bene comune: «se si supplica che venga risparmiata una parte del corpo, Asclepio medico risponde che non è necessario che in quel caso il corpo intero perisca. Questo deve essere salvato al prezzo di alcune parti. La stessa cosa può essere detta per altri casi sia che gli Ateniesi siano vit5 1 4 Idem. 5 1 5 Noi troviamo in Pl utarco De placido philos. l , 29, 5 e così in STOB (Ec/ 1 , 92) uno schema simile: «Anassagora e gli Stoici affermano che alcune cose si fanno per necessità, al tre in quanto guidate dal destino, altre dopo una scelta ponderata, altre per fortuna, altre per caso». Questi quattro term ini si possono ridurre a tre se noi, sulla scia del nostro autore, uniamo i primi due con gli ulti­ mi due. La scelta ponderata corrisponde pressappoco all' arte umana. Manca la provvidenza, ma è cosa nota, che presso gli Stoici si confonde con l' eimarmene. STOBEO (Ecl. 1 -93) riferisce ancora attribuendola al pitagorico Diotogene, una classificazione che è simile anche in Diogene Laerzio (96). H . HOBEIN (cfr. De Maximo Tyro p . 52) ritiene che Massimo abbia tenuto conto di ciò sostituendo però i termini l egge e natura, non troppo congen iali al suo discorso con provvi­ denza e destino. La critica tedesca poi è de li 'avviso che tale passo, presente in altri autori, come Albino, Apuleo sia proprio, essendo estraneo a Platone, della tradizione platonica.

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time della peste, sia che gli Spartani del terremoto, sia che l'Etna erutti. Questa dissoluzione della materia tu la chiami rovina, ma il medico ne conosce la causa, non conosce la preghiera delle parti, salva il tutto per­ ché del tutto ha cura))516• La seconda ipotesi che contempla la prov videnza è da Massimo esposta brevemente: qui non ci sono più le preghiere «è come se un malato domandasse al medico un medicamento o qualche cosa da man­ giare. Se è utile a qualcosa il medico lo darà senza che venga chiesto, se è dannoso non lo darà anche se è stato chiesto))517• Pertanto la prov­ videnza nella sua assolutezza sembra essere né oggetto di domanda né di preghiera. Il brano sembra cosi distinguere in modo netto una provvidenza gene­ rale ed una particolare. È noto che al tempo di Massimo, fatta eccezione per gli Epicurei, gli Stoici e i Cinici tutti i filosofi credono nella provvi­ denza senza separarla dal concetto di dio518• Si ritiene infatti che pre­ sieda alla formazione del mondo un essere che è insieme intelligenza e bontà, ma non si è altrettanto sensibili all'intervento particolare del dio negli affari dell'uomo e tanto meno nella esistenza individuale. Platone nel Timeo519 i nsiste costantemente sulla bontà divina che si manifesta nell'insieme armonioso delle parti del mondo e che rende palese la prov­ videnza meravigliosa che la natura mostra in tutte le sue parti. Massimo, facendo dunque posto nella sua trattazione alla "prov­ videnza particolare", come desiderio di soccorso e sollecitudine nel senso di Asclepio, si tiene un po' lontano dalla eimarmene degli Stoici conside­ rando la pronoia niente altro che l'attività tutelare che la divinità esercita in ogni caso particolare. Essa rimane nella sua natura intoccabile dalla preghiera, la quale a sua volta si mostra incompatibile con gli attributi del dio520• 51 6 Cfr. p. 68-7 1 . 5 1 7 Cfr. F. Dubner, H. Hobein, op. cit. m L' idea centrale che le parti devono essere sacrificate al bene del tutto, insieme al paragone con il medico, si trova in parecchi autori : EPIT. II, 5, 24; SEN. De Provid. III, 2 ; M. AUR. V, 8 . 519 Timeo, 29 c. 52° Cfr. SOURY, op. cit., p. 30.

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Massimo si domanda ora se la preghiera possa agire sulla seconda delle quattro forze indicate: il destino «a tale proposito la preghiera è ancora più ridicola in quanto è più facile persuadere un re che un tiranno; il destino è una forza tirannica che non può essere piegata>>521 • La posizione che qui Massimo assume s i avvicina alla posizione stoica del destino, rich iamando però l'ineluttabilità omerica della Moira. I l destino è i l necessario concatenamento delle cause e degli effetti, deter­ minato e regolato da una volontà direttrice la quale risiede in dio, o è dio stesso. Questa volontà intelligente è la causa universale. E siccome ha tutto in sé conchiuso ed è sempre preordinata, essa è la provvidenza universale. È tale sotto alcuni aspetti il dio di Zenone, di Cleante, di Crisippo. Il destino degli Stoici però, a parte la sua inflessibilità non è in grado di scoraggiare il saggio. Al contrario esso è un principio fisso di otti­ mismo instal lato nel seno del le cose, è una ragione di fiducia nell'uni­ verso. In esso vengono a conciliarsi le due nozioni di provvidenza e di destino. Massimo i nvece sembra ridurre il valore dell'eimarmene nonostante il paragone con la tirannide, tipico del suo tempo, negandole una speci­ fica portata. Giove non ha trovato alcun modo per allontanare il destino, dice Massimo, si lamenta «sventurato che sono, perché Sarpedonte quello che tra i mortali mi è più caro, deve, questo è il destino, essere ucciso da Patroclm>522• Anche gli dei dunque sono subordinati al destino. L'eimarmene stoica è un'arricchimento della Moira omerica. Ma il Giove del Portico non è più distinto dall'eimarmene, tanto che Massimo, rifa­ cendosi per un istante, ad uno stadio anteriore del pensiero greco, la sottomette alla Moira. Giove si domanda se deve salvare Sarpedonte o )asciarlo morire. Era gli fa presente che è follia strappare al trapasso un semplice mortale da lungo tempo votato al suo destino. G iove potrebbe avere il potere di salvare Sarpedonte, ma turberebbe cosi facendo l'ordine naturale e l'ordine morale. Anche il destino quindi, ancor più della provvidenza, rende la pre­ ghiera, secondo Massimo, impensabile. 521

Cfr. F. Dubner, H. Hobein, op. cii. 52 2 Jbid. 1 6. 433 sg.

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Quanto alla fortuna, prosegue il nostro autore, necessita meno ancora della preghiera. Agli occhi di Massimo «la fortuna è senza ragione folle, imprevedibile, contro ogni previsione, è come un vortice che non sop­ porta la pressione di nessun pilota))523 • Pertanto quale preghiera potrà dunque avvicinarsi ad una forza così instabile, insensata, i ncerta, che non ha nessun rapporto con gli uomini? Se le tre forze esaminate non ascoltano affatto la preghiera ci si può avvicinare ora all'arte, la quarta forza posta da Massimo. «Quale arti­ giano, osserva il nostro autore, pregherà per la riuscita di un aratro se veramente possiede l'arte? Quale tessitore per un mantello? Quale uomo dabbene per la bontà se ha la virtù?))524• Non si tratta pertanto di pregare l'arte allo stesso modo delle tre forze precedenti, l'arte ha semplicemente alle sue dipendenze alcune delle cose che noi domandiamo. Allora si potrà dire: o possediamo l'arte e la preghiera è inutile o non l 'abbiamo ed allora a cosa servirà invocarla? Gli dei pertanto è inutile pregarli; essi non ci possono liberare da nes­ suna delle quattro forze indicate dal nostro autore. Nonostante l'inutilità della preghiera tutti per Massimo sembrano pre­ gare, anche il filosofo: Socrate discende dal Pireo per pregare la divinità e sprona gli altri a fare lo stesso. La sua vita è stata piena di preghiera. «Cosi pregava Pitagora, Platone e tutti quelli che si trattengono con gli dei. Ma tu credi che la preghiera del filosofo è la domanda di cose che non si hanno, io invece credo che sia intrattenimento familiare, una con­ versazione con gli dei su ciò che ci è proprio, una testimonianza di virtù; oppure tu credi che Socrate domandi di ricevere in dono la ricchezza o di comandare gli ateniesi? Si è di gran lunga in errore. Al contrario Socrate ha rivolto una domanda agli dei, ma poi ha raggiunto da solo con il loro consenso ciò che domandava: una vita tranquilla, la virtù dell'animo, una esistenza irreprensibile, una morte nella speranza))525• Se gli dei possono aiutare gli uomini, dice Marco Aurelio526 possono in egual modo accordare loro di non temere e di desiderare, possono evi52 3 524 5 25 526

Ibidem. Cfr. F. Dubner, H. Hobein, op. cit. Idem. IX, 40.

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tare loro l'oggetto del timore ed accordargli l'oggetto del desiderio: «ma forse dirai tu : gli dei hanno dato in mio potere di fare ciò. Allora non è meglio usare le proprie facoltà conservando la propria indipendenza, piuttosto che sforzarsi di attendere in uno stato di servaggio e avvili­ mento? E chi ha detto che gli dei non ci aiutino anche in ciò che dipende da noi? Comincia col pregarli e poi vedrai>>527• lerocle nel suo Commentano al Carmen Aureo di Pitagora52R giudica la preghiera necessaria. Ciò che dipende da noi, dice questi, in egual misura dipende dal dio. Difatti sebbene la scelta dipende da noi abbiamo bisogno del dio per realizzarla. Ci sembra che i due testi citati chiariscano in maniera singolare la tesi di Massimo: Socrate domanda agli dei e raggiunge da solo ciò che aveva domandato, con il loro consenso, la virtù dell'anima, una vita tranquilla, un'esistenza irreprensibile. In altri termini noi possiamo dare a noi stessi la virtù, la serenità, ma è necessario che gli dei siano consenzienti, ed è ciò che rende la preghiera necessaria. La riflessione sulla preghiera porta Massimo a considerare il con­ cetto di divinizzazione. Massimo imposta il problema partendo dal con­ cetto di libertà umana. «Se la mantica esiste qualche cosa può dipen­ dere anche da noi?»529 tale è il titolo della tredicesima dissertazione di Massimo di Tiro. Come nella conversazione precedente Massimo parte da un esempio. Gli Ateniesi davanti alla terribile invasione dei Medi consultarono l 'oracolo di Apollo per sapere quale manipolo di uomini dovessero rinforzare. I l dio rispose di proteggere la città con le mura di legno. Su consiglio di Temistocle, gli Ateniesi si rifugiarono sulle loro navi; se essi non avessero voluto, dice Massimo, ricorrere al dio «ma ad un uomo pieno di saggezza e capace di calcolare le forze a loro disposi­ zione, i preparativi degli avversari, il pericolo che li aspettava, è possi­ bile che i consigli di un tale uomo non fossero valsi quanto l'oracolo del dio?»530• Senza ambiguità alcuna avrebbe detto loro di lasciare ai barbari le loro case e di rifugiarsi con la loro libertà e le loro leggi in mare, dove 52 7

Idem. XXI, 48-49 Ed. MULLACH, Fragm. Phil. Graec. t.l p. 406 529 Cfr. F. Dubner, H. Hobein, op. cit. 530 Idem. 52R

sg.

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avrebbero potuto trovare riparo nelle loro triremi, assicurandosi la salute e la vittoria. Cosi se l'uomo è libero, può usare la mantica, se la mantica è infal­ libile, l'uomo è libero? E piuttosto, se l'uomo è libero può utilizzare tali previsioni del futuro, e quand'anche la mantica sia infallibile a cosa potrà servigli la conoscenza del futuro? I punti interrogativi posti da Massimo vengono analizzati attraverso un rapporto che il nostro autore pone tra l'uomo e il dio. Se la divinità non è infallibile e se l'uomo non è votato all'errore la mantica non para­ lizza la libertà umana e questa può trarre vantaggio dalle predizioni. Il dio non sa tutto e non più che l'uomo dabbene è tenuto sempre a dire la verità. Ciò ci lascia intendere che i suoi oracoli non saranno infallibili. Non c'è tra l'uomo e la divinità che una differenza di grado, non di natura. Dio presiede all'armonia, al concerto dell'universo, dove, bisogna sottintendere l'uomo che ha un suo posto ed un suo ruolo. Al dio compete una propria arte, tanto che Massimo ci invita a chia­ mare il dio artista, strumenti i calcoli degli uomini e arte la mantica che ci trascina di forza a seguire la direzione dell'eimarmene. Per chiarire questo concetto il nostro autore pone un paragone sche­ matizzato in questo modo: la prima colonna indica a cosa sono parago­ nati i termini della seconda: generale servizio militare soldato parola d'ordine armi nemiCI alleati vittoria sconfitta mantica

dio vita umana uomo destino facilità (offerta all'uomo) mali calcolo virtù VIZIO arte (l'arte che dopo i preparativi conosce l'avvenire)

In seguito sviluppa più compiutamente i l suo secondo parallelo per mettere meglio in rilievo di altre similitudini il valore del la nozione essenziale di previsione. Si tratta del pilota, del generale e del medico:

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il pilota

che ha una nave che conosce gli strumenti che osserva il mare sa ciò che arriva che osserva i venti

il generale

che ha un'armata che conosce le armi che fa i preparativi che osserva i nemici sa ciò che arriva

il medico

che vede il malato che comprende la malattia che ha coscienza della sua arte

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L'uomo dunque collabora ad un'opera di insieme nella quale egl i gioca il suo ruolo anche se non sembra; questo insieme giunge ad un fine necessario che è possibile predire quando si conoscono i dati del problema. Questo pensiero viene a precisarsi alla fine di questa dis­ sertazione: «tu vedi, dice il nostro autore, come i divinatori siano nume­ rosi e quale sia la loro sicurezza. Se dunque ciò che dipende da noi non si realizza che per noi stessi e se si è liberi dal destino, la mantica sarà completamente inutile, ma se ciò che dipende da noi è misto all'insieme come ciò che fa parte del destino, la mantica qual'ora si tratta di cose necessarie sarà decisiva, qualora si tratta di ciò che non ha una sua chia­ rezza si limiterà a deliberare»53 1 • Questo passo il cui senso non è ben chiaro sembra che voglia significare che la mantica suppone il destino, ma che non potrà esprimersi categoricamente che su ciò che vede acca­ dere di necessità. Per il resto ovvero per tutto ciò che dipende in parte dall'uomo, si limiterà a dare un consiglio, un orientamento. Il destino non ci dice che uno farà così, che l'altro subirà ciò, ma ci dice che se un uomo sceglierà tale via, una volta fatta tale scelta queste cose risulteranno come conseguenza. L'anima è dunque libera di agire o di non agire, ma la conseguenza dell'azione si compirà conforme­ mente al destino. Cosi dipenderà da Pericle rapire Elena, ma la con­ seguenza sarà la guerra di Troia. Le conseguenze dunque sono fissate dal destino. 531 Idem.

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Sembra che Massimo separi due cause che egli chiama archè la causa umana punto di partenza dell'azione e la aitia divina, la causa conforme all'ordinamento delle cose. Questa libertà umana che si integra nel qua­ dro del destino viene felicemente caratterizzata da Massimo con l'esem­ pio del prigioniero la cui libertà è di seguire volontariamente quelli che lo conducono. La divinazione suppone il destino perché se l'uomo è libero non ne avrà bisogno, ma se l'uomo non lo è del tutto a cosa serviranno i consi­ gli degli oracoli? Se si pone però l'esistenza della mantica, essa, come lascia intravedere il titolo del la dissertazione di Massimo, farà parte della libertà umana in seno alle facoltà dell'uomo. La vita si pone per­ tanto come u n miscuglio di l ibertà e di necessità, dove la perversità umana gioca un ruolo fondamentale a tal punto che bisogna domandare il modo per l iberarsene. Essa sembra avere agli occhi di Massimo qual­ che cosa di fatale, ma l'autore sembra dire che può avere un fine e che la divinità tramite i suoi oracoli può farci intravedere quanto noi doman­ diamo con la preghiera. È come dire che qualche cosa dipende da noi a dispetto della mantica; o piuttosto tale mantica può con le sue predi­ zioni, contribuire ad orientare le nostre azioni, del le quali gli uomini sono i soli responsabili. Prima di passare ad esaminare il problema del male, Massimo si domanda quale è l'origine del bene (è la prima parte del titolo della 410 dissertazione) e ritiene che è sufficiente destare gli occhi sullo spettacolo del mondo per capire il padre ed il creatore di questo. Abbiamo insomma prove dell'esistenza di dio e della provvidenza tramite la bellezza e l'or­ dine del mondo (l'argomento è senza dubbio un luogo comune nella sto­ ria del pensiero e già trattato nell'antichità da più scuole). Questa è una scoperta spontanea dell'istinto religioso dell'uomo e allo stesso tempo della sua semplice ragione532• Il dio pertanto per Massimo si presenta come intelligenza e vitalità. Con un colpo d'occhio ordina tutto ciò che tocca, come i raggi del Sole quando illuminano la parte che incontrano. Così come in Omero533: m

Anche in questa dissertazione ogni parola di Massimo potrebbe suggerire varie influenze, dal mondo omerico, a quello platonico, a quello stoico. 533 Ibidem l, 528.

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«Zeus fa un segno di testa e la terra si forma e così tutte le creature che quella nutre; il mare si forma e tutto ciò che produce; l'aria si forma e tutto ciò che essa porta; il cielo si forma e tutto ciò che si muove))534• Il concetto che il dio è ordinatore e creatore viene ad essere per Massimo inseparabile dall'altro concetto quello per cui dio è l'autore del bene: «da dove viene il male? Non viene dal cielo, perché il posto dell'in­ vidia è fuori dal coro degli dei))535• Massimo avvicinandosi a questo concetto platonico, si preoccupa del genere umano: «non vedete quante calamità si trovano sulla terra. Geme il corpo dell'uomo, si piaga di malattie che lo tormentano, di una salute mal ferma, dell'incertezza della vita ... ))536 Il suo corpo vive nella fragi­ lità e nel bisogno continuo mentre la sua anima è continuamente sbal­ lottata da una moltitudine di mali «se si respinge la tristezza, si insinua il timore, se il timore se ne va si insinua la collera, se la collera cessa, sopravviene l'invidim)537• In questo modo il cielo e la terra vengono ad essere per Massimo due focolai, «l'uno esente da mal i, l 'altro misto di male e di bene. Quest'ultimo deriva il bene dall'altro ma, i mali scaturiscono dalla per­ versità che è in lui)). Si nota con chiarezza che l'influenza platonica è rilevante. Si pensi al passo della Repubblicam dove è posto in maniera chiara il problema del male. Cosi l' immagine del focolare, sembra essere una variante della dimora stoica e il paragrafo omerico delle due botti, ripreso nella Repubblica. Così come Omero i l nostro autore dichiara che davanti a Zeus sono piazzate due botti piene l'una delle sorti favorevoli, l'altra delle sorti avverse e colui a cui Zeus, dona tanto dell 'una quanto della altra prova tanto bene quanto male, ma colui che riceve solo la seconda specie di sorti senza alcun miscuglio la fame divorante lo perseguiterà sulla terra divina. 5J4

Idem. m Phaedro 24 7 a. 5J6 Cfr. F. Dubner, H. Hobein, op. cii. 5J7 Idem, p. 23. m Repubblica, X, 6 1 7 e .

l h.'

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Q u i nd i l ' idea del destino assolutamente cattivo scompare. Massimo pensa qui solo alla terra per opposizione al cielo e la remin iscenza ome­ rica è già ingrandita da rapporti ulteriori. Come Platone prende posizione contro Omero in quanto non vede Zeus come responsabile dei mali e della loro distribuzione agli uomini. I mali, nascono, dice, si generano dalla stessa perversità che si genera dalla terra, e precisa «questa perples­ sità ha un duplice aspetto: sapere le affezioni della materia e la libertà dell'animm>539• Due pertanto sono le cause del male: le vicissitudini del la materia e la libertà della nostra anima. Le trasformazioni della materia fanno parte di quel piano d'insieme che il demiurgo mette in opera. Esso nella sua tota­ lità non è male, ma esprime compiutezza e armonia. Obbedisce a ciò che Massimo chiama, rifacendosi ad Eraclito, flusso eterno delle cose: «il fuoco vive la morte della terra, l'aria vive la morte del fuoco, l'acqua vive la morte dell'aria, la terra quella dell'acqua. Tu vedi in questo la successione della vita e la trasformazione dei corpi, il rinnovamento di tutto))540• L'altro principio del male è quello che prende inizio in noi, quello che la libertà dell'anima conquista e che si chiama vizio. Esso trova luogo nella terra, un suo rifugio naturale: «bisognava creare la terra, terra che produrrà i frutti, nutrirà i viventi, porterà con sé i mali, iso­ lati dal cielo. Dio creò tutte le specie di animali, li divise nelle loro due nature primit ive, l'una doveva essere diversa quanto al genere di v ita ed al corpo, priva della ragione portata ad una mutua distruzione, inca­ pace di concepire la divinità, estranea alla virtù, piena di forza fisica ma senza capacità intellettuali. L'altra al contrario, la n atura umana, doveva essere di una sola razza, socievole, debole fisicamente ma di una instancabile ragione, capace di comprendere la divinità, doveva parteci­ pare alla vita politica, amare la vita, avere il gusto della giustizia, delle leggi e dell'amicizia)). Massimo si propone insomma di giustificare il male secondo un piano d'insieme della creazione e il suo ragionamento disgraziatamente incompiuto come la dissertazione stessa, potrebbe essere il seguente: la terra doveva esistere con gli esseri che nutre ed 539 Cfr. F. Dubner, H. Hobein, op. cit. 540 Idem.

L'ecclettisrno etico del platonico Massimo di Tiro

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essere il rifugio dei mali. Dio creò due specie di esseri molto differenti. La specie superiore, quella umana, doveva nondimeno essere inferiore a dio. Essa non poteva esserlo con la morte. Perché ciò che il volgo chiama morte è l'inizio dell'immortalità e l'avvio alla vita futura, mentre i corpi muoiono seguendo la loro legge, l 'anima è richiamata al luogo ed alla vita propria))541• Ecco come il dio ha assicurato l'insufficienza dell'uomo dal rapporto con la divinità: «ha posto l'anima in un corpo della terra come un coc­ chiere nel suo carro, ha dato le redini al cocchiere e lo ha lasciato cor­ rere accordandogli la forza di guidare con arte, ma anche la libertà di non servirsi di questa arte. L'anima, una volta sul carro e in possesso delle redini, se è un'anima felice e fortunata, che si ricorda del dio che l'ha posta sul carro e le ha ordinato di prendere le redini, dirige il carro e reprime gli impulsi dei cavalli. Questi sono veramente di natura molto diversa, si lanciano nella loro corsa gli uni da una parte gli altri dall'altra, l'uno è intemperante,focoso, l'altro irascibile, temerario, insensato, l'al­ tro lento ed esausto, l'altro senza nobiltà, pusillanime. Casi il carro tirato a strappi da una parte e dall'altra infastidisce il cocchiere))542 • Secondo Massimo dunque, è per assicurare la nostra inferiorità in rapporto alla divinità che il dio ha immaginato questo carro. Massimo a differenza di Platone parla di cavalli in luogo di anime, e nessuno sem­ bra l'alleato del cocchiere. Si ha l'impressione non solo che il cavallo intemperante di Massimo risponda più specificatamente al cavallo vizioso di Platone, ma ancora che il cavallo irascibile, non è senza rap­ porti con il cavallo buono del Fedro. Benché questo rappresenti le pas­ sioni generose, come il suo compagno le passioni cattive, non si può che trovare qualche analogia tra le sue tendenze e quelle del cavallo irasci­ bile di Massimo. Il confronto del carro serve a mostrare che il cocchiere può o non può ben condurre l'attacco. Egli ha la libertà di non farlo, benché sia stato illuminato. Ma si ha l 'impressione che la scelta fel ice è un po' qui un 541 Idem. 542 Ancora una volta Platone con il mito del carro alato del Fedro (246 a.) sembra offrire a Massimo lo spunto per la sua dissertazione. Per il confronto con la posizio­ ne platonica si veda ancora SOURY, op. cit. p. 74 e sgg.

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dono gratuito. L'anima che tiene i due cavalli è quella che ha la bontà di ricordarsi ciò che dio attende da essa. Massimo ci mostra, dunque che i mali fisici e morali, vengono fuori dal piano generale della creazione: la resistenza della materia e quella della libertà umana. Dio è dunque giustificato poiché le condizioni stesse della esistenza determinano queste conseguenze fatali.

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