Intelligenza artificiale e pensiero umano. Filosofia per un tempo nuovo 9788832906400

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Intelligenza artificiale e pensiero umano. Filosofia per un tempo nuovo
 9788832906400

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Arricchito da un saggio della traduttrice e da un’intervista inedita con l’autore, il volume raccoglie sei saggi che, attraverso i temi del linguaggio, dell’intenzionalità e della coscienza, affrontano questioni di grande attualità, connesse allo scarto fra intelligenza artificiale e pensiero umano. La continuità fra il linguaggio e la nostra società permette, da un lato, di problematizzare l’attuale dibattito sull’intelligenza artificiale; dall’altro lato, porta a ricomporre un quadro omogeneo fra ciò che possiamo chiamare «pensiero europeo» e il pensiero sviluppatosi in area anglosassone. Il rapporto fra linguaggio, pensiero umano e intelligenza artificiale permette a John R. Searle di affermare che il linguaggio è anzitutto una forma di vita e mai un codice estraneo all’esperienza ed è, dunque, parte fondamentale del nostro “essere umani”.

JOHN R. SEARLE

(Denver, 1932) Figura di primo piano nella comunità filosofica internazionale. Formatosi a Oxford, dove ha insegnato dal 1956 al 1959, è stato professore di Filosofia del linguaggio e della mente a Berkeley. Tra le sue opere: Della intenzionalità (Bompiani, 1985); Il mistero della coscienza (Raffaello Cortina Editore, 1998); La razionalità dell’azione (Raffaello Cortina Editore, 2003); La costruzione della realtà sociale (Einaudi, 2006); Atti linguistici (Bollati Boringhieri, 2009); La riscoperta della mente (Bollati Boringhieri, 2017); Il denaro e i suoi inganni (con Maurizio Ferraris – Einaudi, 2018) e Il mistero della realtà (Raffaello Cortina Editore, 2019).

L ’ E U R O P A JOHN R. SEARLE INTELLIGENZ A ARTIFICIALE E PENSIERO UMANO

«I PROGRESSI DELLA TECNOLOGIA COMPUTAZIONALE SONO STATI FINORA QUANTITATIVI, NON QUALITATIVI. MA LA DEFINIZIONE DI COMPUTAZIONE È RIMASTA INVARIATA: ANCHE LE PIÙ AVANZATE TECNOLOGIE COMPUTAZIONALI CONTINUANO A OPERARE SECONDO IL PRINCIPIO DELLA MANIPOLAZIONE DI SIMBOLI, NEL SENSO CHE È SEMPLICEMENTE AUMENTATA MOLTISSIMO LA LORO CAPACITÀ COMPUTAZIONALE»

D E L

P E N S I E R O

JOHN R. SEARLE

INTELLIGENZA ARTIFICIALE E PENSIERO UMANO FILOSOFIA PER UN TEMPO NUOVO

e 20,00

ISBN 978-88-3290-640-0

COVER DESIGN: BRUNO APOSTOLI

9 788832 906400

TRADUZIONE E CURA DI ANGELA CONDELLO

L’Europa del pensiero

L’Europa del pensiero – Collana di Filosofia del diritto Direttori di collana Alessio Lo Giudice e Giovanni Magrì

Comitato scientifico Brian Butler (University of North Carolina – Asheville), Pavlos Eleftheriadis (University of Oxford), Margaret Gilbert (University of California – Irvine), Daniel Innerarity (European University Institute; Univerisdad del País Vasco), Mattias Kumm (New York University), Hans Lindahl (Tilburg University), Bruno Montanari (Università di Catania; Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), Roberto Mordacci (Università Vita-Salute San Raffaele), Antonio Nicita (Università di Roma LUMSA), Julian Nida-Rümelin (Ludwig-Maximilians Universität München), Carmela Panella (Università di Messina), Giuliana Parotto (Università di Trieste), John Rogers Searle (Berkeley – University of California), Ennio Triggiani (Università di Bari), Bert Van Roermund (Tilburg University)

Comitato di redazione Angela Condello (Università degli Studi di Messina), Guglielmo Ciaccio (Università degli Studi di Pisa), Francesca Di Pietro (Università degli Studi di Messina), Nicola Dimitri (Università degli Studi di Messina), Giuseppe Russo (Università degli Studi di Messina)

La collana “L’Europa del pensiero“ vuole assumere la costruzione europea come orizzonte principale della riflessione, non solo nelle sue dinamiche istituzionali e costituzionali, che chiamano direttamente in causa la teoria del diritto; ma anche in quanto banco di prova della vitalità di una linea culturale bimillenaria, che fino a poche generazioni or sono aveva saputo comporre una sintesi coerente con il pensiero filosofico, politico, scientifico e con le manifestazioni artistiche e letterarie.

Traduzione dall’inglese di Angela Condello © John Rogers Searle, 2023 9788832906400 Prima edizione gennaio 2023 © 2023 Lit Edizioni s.a.s. Tutti i diritti riservati Castelvecchi è un marchio di Lit Edizioni s.a.s. Via Isonzo 34, 00198 Roma Tel. 06.8412007 [email protected] www.castelvecchieditore.com

John Rogers Searle

INTELLIGENZA ARTIFICIALE E PENSIERO UMANO Filosofia per un tempo nuovo

Traduzione e cura di Angela Condello

But artificial cream is not really cream at all. It is an imitation of cream. So already we have a double ambiguity: ‘Artificial Intelligence’ could be either real intelligence produced artificially, or it could be something that is not really intelligence at all but just an imitation of intelligence. The ambiguity is compounded when we shift over to the word ‘intelligence’. j.r. searle, The Turing Test: Fifty Years Later1

1 John R. Searle, The Turing Test: Fifty Years Later, in Id., Philosophy in a New Century. Selected Essays, Cambridge University Press, 2008, p. 57.

Sedi originali di pubblicazione dei saggi tradotti

1. Is the brain a digital computer?, Presidential Address to the APA, in «Proceedings of the American Philosophical Association», vol. 64, n. 3, 1990. 2. Twenty-one years in the Chinese room, in John Preston, Mark Bishop (a cura di), Views into the Chinese Room. New Essays on Searle and Artificial Intelligence, Oxford University Press, 2002. Reproduced with permission of the Licensor through PLSclear. 3. Philosophy in a new century, in Id., Philosophy in America at the Turn of the Century, apa Centennial Supplement, in «Journal of Philosophical Research», vol. 28, numero speciale, 2003. 4. The phenomenological illusion, in Maria E. Reicher, Johan C. Marek (a cura di), Experience and Analysis, Öbvahpt, 2005. 5. The self as a problem in philosophy and neurobiology, in Todd E. Feinberg, Julian Paul Keenan (a cura di), The Lost Self: Pathologies of the Brain and Identity, Oxford University Press, 2005. Reproduced with permission of the Licensor through PLSclear. 6. Social ontology: some basic principles, in Roy D’Andrade (a cura di), Searle on institutions, in «Anthropological Theory», vol. 6, n. 1, 2006.

Linguaggio, intenzionalità, coscienza. Ovvero perché parlare ancora della differenza tra pensiero umano e intelligenza artificiale di Angela Condello

Questo libro raccoglie in traduzione italiana sei saggi di John Rogers Searle, apparsi in momenti diversi. Tutti usciti per la prima volta fra il 1990 e il 2006, ora sotto forma di intervento pubblico, ora, più spesso, sotto forma di saggio scientifico, sono stati selezionati e ripubblicati nel 2008 all’interno del volume Philosophy in a New Century, con un’Introduzione di Searle, per Cambridge University Press. Quella raccolta conteneva però dieci saggi – e non sei, come la presente traduzione italiana – che coprono questioni trasversalmente presenti negli ambiti della filosofia in cui ha lavorato Searle, fra cui vari temi sommariamente riconducibili all’epistemologia, alcune questioni fondamentali di filosofia del linguaggio e della mente, i fondamenti della sua ontologia sociale e i principali problemi relativi al rapporto fra mente, coscienza e intenzionalità (sia individuale, sia collettiva)1. L’idea del volume uscito per Cambridge University Press nel 2008, come testimonia il titolo, era di rappresentare una filosofia per il nuovo secolo. D’altra parte il XXI secolo si era allora aperto da meno di un decennio e l’ipotesi che guidava il progetto di raccolta e ripubblicazione si basava sull’idea che alcune riflessioni anche abbastanza 1 I sei saggi selezionati per questa traduzione sono coerenti con l’intento di riproporre i lavori di Searle intorno all’intelligenza artificiale, anche attraverso il suo impianto logico relativo all’ontologia sociale. Per questo non sono riprodotti tutti i saggi del volume originale. Il solo rimasto fuori da questo progetto è The Turing Test: Fifty Years Later, e le ragioni di questa esclusione riguardano solamente una questione di diritti. A ogni modo, gli argomenti contenuti in quel saggio sono ben rappresentati anche nei sei che si trovano in questo volume.

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risalenti nel tempo – come le critiche al test di Turing, al comportamentismo e all’intelligenza artificiale forte – potessero non solo servire a decodificare il “presente” (di circa quindici anni fa), già fortemente caratterizzato dall’uso delle nuove tecnologie e dall’automazione, ma anche a costituire un sistema di temi e problemi utili per attraversare il tempo che si stava schiudendo, penetrando così concettualmente ben forniti nei decenni che allora erano ancora a venire. È in particolare a questo duplice intento che ho guardato progettando la presente edizione italiana degli scritti: ormai il XXI secolo è certo un po’ meno “nuovo” di allora, le tecnologie digitali e l’automazione sono realtà quotidiana e non più soltanto un immaginario o uno “spettro”, e l’esperienza della pandemia – ovviamente del tutto assente nell’impianto filosofico di Searle e della sua generazione – ha rappresentato una cesura fondamentale e ha in qualche modo acuito alcune tendenze già in atto all’inizio del XXI secolo. Ho dunque conservato l’idea di una “filosofia per” ed è proprio a partire da questa idea che vorrei cominciare: la raccolta in edizione originale guardava al secolo nuovo, mentre nel caso di questa sua pubblicazione italiana il progetto è declinato rispetto a un tempo nuovo. D’altra parte, dal punto di vista di chi prova ad analizzare il presente dal suo interno ogni tempo sembra nuovo: lo spazio di elaborazione della propria storia è sempre minimo, tanto che per certi versi sembra esistere soltanto il passato, una dimensione che tendenzialmente riusciamo a collocare fuori da noi. Il tempo a cui questo volume guarda è nuovo sia nel senso che deve ancora venire, sia nel senso che – nella sua forma presente – comunque ci interpella e ci invita all’analisi. Sebbene tramite una formula leggermente diversa (che fa da sottotitolo), la ragione per insistere su una “filosofia per” è insomma la seguente: i saggi selezionati costituiscono a mio avviso ancora uno strumento utile per l’analisi critica di molte questioni attuali e stringenti, in particolare relativamente al rapporto fra pensiero umano e intelligenza artificiale, un’endiadi presente e costante già a partire dal titolo principale di questa traduzione. La scelta del titolo e del sottotitolo per la versione italiana, in altri termini, si giustifica alla luce del fatto che le classiche riflessioni di Searle, a maggior ragione in queste versioni integrate e uscite decine di anni dopo (il celebre Minds, Brains and Programs, ad esempio, era del 1980 e Searle stesso intitola il proprio saggio Ventun anni nella

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Stanza Cinese, tornando poi sui temi nel 2002), contengono una serie di questioni che possono servire ad affrontare interrogativi del “tempo nuovo” come, ad esempio, l’impatto che sulla nostra esistenza hanno la digitalizzazione, l’automatizzazione, l’algoritmizzazione. Se quella appena rappresentata è la ragione più ampia per proporre a un pubblico italiano questi sei scritti, è però utile guardare nel dettaglio alle ragioni filosofiche di una simile operazione. I saggi qui tradotti affrontano infatti alcuni dei temi più classici del filosofo statunitense: il primo presenta uno stato dell’arte della filosofia contemporanea (il rapporto tra filosofia e conoscenza; il problema mente-corpo; la relazione fra scienze cognitive e filosofia; la relazione fra etica e ragion pratica; lo statuto della filosofia della scienza); il secondo ripropone le principali tesi di Searle sull’ontologia sociale, sulle funzioni di status e sull’intenzionalità individuale e collettiva; il terzo torna sul celebre esperimento della Stanza Cinese per criticare ancora decisamente, più di vent’anni dopo la prima uscita del saggio con cui l’esperimento era stato presentato, l’intelligenza artificiale forte (cioè l’idea che un agente artificiale sia in grado di apprendere e comprendere come un essere umano, la più profonda e inquietante aspirazione del machine learning); il quarto, a sua volta, sviluppa una critica all’assimilazione fra cervello e computer; il quinto ripropone la classica polemica contro la fenomenologia “classica” perché Searle aveva già affrontato in più occasioni quelle che dal suo punto di vista sono le debolezze di questa tradizione filosofica, come per esempio, e anzitutto, l’eccessiva centralità attribuita al soggetto. Nel quinto testo, e forse ancor di più nel sesto e ultimo, è centrale il tema della coscienza, motivo che rappresenta un elemento molto significativo di continuità tra le riflessioni dedicate al linguaggio, alla mente, alla società e quelle più deliberatamente rivolte a indagare l’esperienza soggettiva del sé (come appunto il sesto e ultimo capitolo di questo volume), a partire dall’interazione fra la componente biologica e quella mentale proprie di ciascun individuo. Non solo, quindi, dal punto di vista del dibattito culturale queste pagine di Searle offrono alcuni spunti assonanti con il necessario ritorno ai dibattiti sul rapporto fra uomini e macchine, ma lo stesso vale se questo lavoro è considerato dal punto di vista filosofico in senso stretto: la ragione per cui questi saggi possono costituire un riferimento importante consiste insomma nel fatto che molte delle

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questioni attualmente dibattute riguardano ancora il ruolo costitutivo del linguaggio rispetto alla società, la controversa relazione mente-corpo, il misterioso problema dell’intenzionalità e la fondamentale funzione della coscienza. Tutti questi nodi convergono nello scarto, che vedremo essere incolmabile per certi versi e necessario per altri, fra pensiero umano e intelligenza artificiale. Sebbene si tratti di questioni filosofiche distinte, ha senso presentarle insieme non solo per la brevità di queste mie considerazioni introduttive, ma anche (e in particolare) perché esse rimandano a un sistema di problemi affini e riconducibili sostanzialmente a tre elementi che sono basilari nel pensiero di Searle: il linguaggio, l’intenzionalità e la coscienza. Se c’è un filo rosso che attraversa i saggi qui proposti, è proprio il ruolo di questi tre nodi, i quali non a caso vengono elaborati e rielaborati a partire dagli anni Sessanta. Dunque, sebbene Searle tratti il ruolo del linguaggio rispetto alla creazione di istituzioni sociali e la questione della coscienza rispetto allo scarto fra mente umana e mente artificiale (quindi in contesti apparentemente distinti), il problema dell’intenzionalità è comune a entrambi i campi – quello esterno, della società, e quello interno, della mente – e permette di leggere in continuità ciò che accade dentro di noi (esperienze mentali o sensoriali come quelle visive e percettive) e all’esterno (governi, matrimoni, denaro, riconoscimento di ruoli e istituzioni di varia natura). Così, se da un lato è vero che anche le macchine – come l’uomo – hanno un linguaggio, è ugualmente vero che esse non hanno intenzionalità né coscienza perché (per dirla con Searle) non sono coscienti di utilizzare il linguaggio e non lo fanno neanche intenzionalmente, perché non conoscono i fini per cui svolgono un’operazione e non sono capaci, in senso lato, di agire autenticamente. L’avverbio mira dritto allo scarto fra umanità e automazione: autentikòs, che deriva da autenthèo, ossia ‘agire da se medesimo’, rimanda infatti a ciò che opera e agisce da sé, inversamente rispetto all’artificiale, ossia a ciò che risulta da ars, arte tecnica o espediente volti a conseguire un determinato effetto. La grande intuizione di Searle, che a ogni piè sospinto riemerge anche in questi saggi, è la seguente: il linguaggio, di per sé, non può garantire la presenza di un pensiero e soprattutto di una coscienza. Il fatto che esistano dei simboli a cui corrispondono delle conseguenze

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non implica che vi sia una pur minima comprensione dei simboli. La comprensione è esclusa perché non rientra tra gli scopi della macchina (sia essa fatta per calcolare, o per svolgere altre mansioni tipicamente umane), e perché – come spiega Maurizio Ferraris nel suo recente Documanità2 – non avendo un fine, la macchina non possiede un orizzonte di senso nel quale possa formarsi qualunque proiezione intenzionale. Searle riduce questa impossibilità alla differenza fra sintassi e semantica, una differenza ripresa non solo nel saggio intitolato Ventun anni nella Stanza Cinese, ma anche ne Il cervello può considerarsi un computer digitale?, e poi ancora nell’intervista inedita che gli ho rivolto in vista di questo volume (e per celebrare il suo novantesimo compleanno). La tesi è la seguente: il computer implementa un programma che ha natura sintattica anche quando cerca dei significati e apparentemente quando ne crea, e il suo funzionamento non è mai, in alcun modo e per nessuna ragione, garanzia della presenza di contenuto semantico. Il programma, in altri termini, è in grado di simulare il funzionamento del cervello umano, ma non di duplicarlo: un’altra delle tesi che Searle ribadisce convintamente, da decenni, è proprio che una simulazione non è una duplicazione. Come scrive lui stesso, nel suo stile inconfondibile, apparentemente triviale eppure (o forse perciò) capace di andare al cuore dei problemi: «Artificial cream is not really cream at all. It is an imitation of cream»3. Si può simulare qualsiasi processo – la pioggia, gli incendi, i consigli di amministrazione – e quindi si possono simulare anche i processi cognitivi della mente umana: ma è impensabile che un sistema che simula la 2 Maurizio Ferraris, Documanità. Filosofia del mondo nuovo, Laterza, 2021, in particolare pp. 106 sgg. (sulla differenza tra anima e automa). Approfitto del riferimento al filosofo torinese per una precisazione: quando, con Searle, con i direttori della collana “Europa del pensiero” e con l’editore abbiamo concordato il titolo e il sottotitolo di questo volume era ancora il 2020. Il testo di Ferraris è poi uscito l’anno seguente e personalmente non conoscevo il sottotitolo del libro nella sua versione definitiva. Il fatto che vi sia un’assonanza evidente tra “filosofia per un mondo nuovo” e “filosofia del mondo nuovo” è dunque involontario. Lo si può tuttavia guardare come una convergenza verso un comune intento (sebbene nelle primissime pagine del suo lavoro Ferraris spieghi in maniera molto più sistematica di quanto non si sia fatto qui che cosa intenda per “mondo nuovo”). 3 John R. Searle, The Turing Test: Fifty Years Later, in Id., Philosophy in a New Century, Cambridge University Press, 2008, p. 57.

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coscienza o altri processi mentali faccia realmente esperienza dell’esser cosciente o dell’avere dei processi mentali (sarebbe come pensare che la simulazione della digestione su un computer effettivamente digerisca dei cibi). Vediamo più precisamente che cosa Searle intenda con questi tre concetti (linguaggio, intenzionalità, coscienza) e perché questi continuino a essere significativi anche per la riflessione odierna. Per Searle, il linguaggio distingue la società umana da altre società di animali perché è il presupposto per l’esistenza delle istituzioni sociali come il denaro, la proprietà, i governi: rispetto a esse il linguaggio svolge una funzione costitutiva. Questa tesi rientra nella teoria degli atti linguistici ed è riconducibile non solo a Searle ma anche a una delle sue guide negli anni oxoniani, e cioè ad Austin, che nel 1955 aveva tenuto a Harvard una lezione dal titolo How To Do Things With Words, pubblicata postuma nel 1962. Il grande divulgatore della teoria è stato poi, appunto, Searle, a partire dal celebre Speech Acts (1969), nel quale ha sistematizzato vari aspetti dell’intuizione fondamentale di Austin per cui esistono alcuni enunciati tramite i quali facciamo delle cose: gli enunciati performativi4. Queste teorie relative alla funzione pragmatica del linguaggio faranno in seguito da sfondo a tutta l’elaborazione filosofica di Searle e perciò è bene considerare la centralità che assume il linguaggio nella sua teoria non solo come tale, a sé, ma anche in proiezione rispetto agli altri concetti fondamentali del suo pensiero che qui discutiamo e che emergono da questo lavoro, e cioè l’intenzionalità e la coscienza. In questa prospettiva, gli enunciati performativi possono essere di vario tipo (locutori, illocutori, perlocutori) e servono sempre a dire qualcosa, a eseguire qualcosa dicendo qualcos’altro, o a produrre effetti nel dire qualcosa; ogni atto linguistico così formato si compone di un contenuto proposizionale e della forza illocutoria che a esso viene attribuita. La concezione del linguaggio attraverso la sua pragmatica è stato un tema centrale nella tradizione di studio del linguaggio ordinario, non solo per Austin e Searle ma, per esempio, anche per Grice, il quale ha ricondotto il significato delle unità linguistiche all’intenzione che si cerca di produrre 4 Questa intuizione Austin l’aveva probabilmente sviluppata a partire da un problema discusso a Oxford da H.A. Prichard.

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sull’uditorio, e per Strawson (da Searle considerato un vero e proprio maestro), grazie alla sua teoria sull’intenzione e la convenzione negli atti linguistici. Stante questa lettura pragmatica del linguaggio, la teoria dell’ontologia sociale di Searle è costruita a partire dalla nozione di funzione (che è normativa e non soltanto causale): gli oggetti sociali hanno funzioni solo relativamente alle disposizioni di esseri umani che li riconoscono come tali. Qui il linguaggio si aggancia all’intenzionalità, cioè alla proiezione individuale e collettiva rispetto al ruolo e (appunto) alle funzioni da attribuire agli enti nel mondo. L’intenzionalità descrive quella caratteristica della mente umana per cui gli stati mentali sono diretti verso o sono relativi a oggetti e situazioni esterni a noi. Non si tratta della semplice intenzione intesa come volontà diretta verso un’azione, nel senso per cui si intende andare al cinema, per esempio, ma di una nozione che interessa le credenze, le speranze, i desideri, la percezione. Searle ha sviluppato molta della sua teoria a partire dalla nozione di intenzionalità collettiva: gli esseri umani (come anche altri animali) hanno la capacità di impegnarsi in comportamenti cooperativi, condividendo le proprie disposizioni con i propri simili. Ora, insieme al linguaggio e all’intenzionalità, un tratto ulteriore della teoria di Searle che è bene valorizzare introducendo questo volume è la nozione di coscienza. Nel momento in cui “investiamo” sul significato e sul valore da attribuire agli oggetti nel mondo, è centrale, secondo Searle, la funzione svolta dall’intenzionalità; ma quest’ultima non esisterebbe se non vi fosse coscienza. Naturalmente, e di questo Searle è pienamente consapevole, il tema della coscienza è ancora più complesso da affrontare rispetto al linguaggio e all’intenzionalità, che almeno per certi versi sono tanto consolidati da essere riconducibili a un ambito preciso di studi, cioè rispettivamente alla filosofia del linguaggio e alla filosofia della mente. Quella della coscienza è una questione millenaria e da millenni praticamente irrisolta (e non è questa la sede per affrontarla sul serio), ma è opportuno ricordare che Searle, come mostrano bene alcuni di questi suoi saggi, intuisce abbastanza presto che non si può affrontarla solo a livello teoretico, ma bisogna approfondirne gli aspetti biologici e neuroscientifici. Il fatto, ad esempio, che egli faccia varie volte riferimento ai correlati neuronali della coscienza, sta lì a dimostrarlo.

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L’ultimo saggio tradotto, quello sul sé, conferma la posizione per cui c’è un’indubbia continuità fra la dimensione biologica, naturale, fisiologica e quella mentale. In sostanza e in estrema sintesi, Searle critica qui la distinzione netta fra mente e corpo e appoggia invece la continuità fra questi due ambiti, pur non approfondendo fino in fondo, come invece è tendenza attuale della filosofia della coscienza, ogni dettaglio neuroscientifico coinvolto in questo fenomeno (per intenderci, quel fenomeno per cui possiamo dire che in un determinato momento siamo coscienti, mentre in un altro no). A proposito di coscienza, Searle critica almeno tre concezioni: quella cognitivista, fondata sulla negazione dell’esistenza di stati mentali coscienti, secondo cui la mente si può identificare con un programma per computer (questo l’obiettivo soprattutto del saggio Il cervello può considerarsi un computer digitale?); quella comportamentista, che accetta il test di Turing per capire se una macchina sa esibire un comportamento letteralmente “intelligente”, secondo cui se qualcosa si comporta come una papera, allora è una papera: secondo questa visione, il fatto che un programma per computer simuli una mente lo renderebbe una mente (mentre Searle insiste sul fatto che la simulazione non sia in alcun modo, mai, una duplicazione); quella riduzionista, infine, per cui la coscienza non è la risultante di varie singole sezioni che la compongono (cioè non si può ridurre soltanto a queste), ma è qualcosa di complesso e di diverso rispetto a un insieme di componenti. Per spiegare questa irriducibilità della coscienza Searle usa l’analogia con l’acqua: l’elemento che in natura ha le caratteristiche dell’acqua è sicuramente composto da singole molecole combinate secondo una certa formula, ma l’acqua nelle sue manifestazioni (la liquidità ad esempio) risulta come un insieme che non può farsi corrispondere alla sommatoria delle sue singoli componenti, perché è qualcosa di differente e di ulteriore. Searle è dunque fermamente non riduzionista. Lo è sia rispetto alla mente, sia rispetto alla coscienza: nella sua teoria la mente è una caratteristica del cervello di livello superiore che ne tiene insieme varie proprietà; alla stessa maniera, la coscienza è una caratteristica che emerge dal sistema dei neuroni tanto quanto la liquidità emerge dal sistema di molecole combinate nella formula H2O. Il fatto di essere liquida o di poter bagnare non è una proprietà di ciascuna molecola ma, “più

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semplicemente”, dell’acqua. Lo stesso vale per la mente e la coscienza: esse si possono spiegare attraverso la loro struttura o composizione, ma né le singole parti né la struttura o la composizione sono sufficienti a garantire la comprensione completa dei fenomeni che possiamo ricondurre alla mente e alla coscienza. Per chiarire questa sua analisi antiriduzionista Searle si serve dell’immagine del “campo unificato”, che contrappone a una visione riduzionista per cui la coscienza sarebbe composta da tanti mattoncini che, presi nell’insieme, la costituiscono (ipotesi, quest’ultima, che egli non condivide). In breve, se è certamente vero che il cervello – inteso come materia grigia presente dentro un cranio – genera la mente, questo fenomeno è passibile di essere simulato dal computer che genera un linguaggio, ma non è passibile di essere duplicato. Il cervello non è l’hardware, insomma, e la mente non è un software. Ci sono delle analogie, che tuttavia vanno intese come tali: se tra il livello sintattico del cervello e quello semantico della mente esiste un rapporto di causalità, fra l’hardware e il software ci sono invece solo delle corrispondenze dettate dal funzionamento di un codice e non ci sono relazioni causali. Nei saggi in cui Searle affronta la coscienza emerge chiaramente la profonda influenza che la filosofia europea5, in special modo attraverso Husserl, Heidegger e Merleau-Ponty, ha esercitato sulla sua formazione. Nonostante la sua netta contrapposizione rispetto alla tradizione fenomenologica (penso ad esempio a L’illusione fenomenologica), Searle dialoga esattamente con quella tradizione e fa uso del vocabolario che le è proprio. Anzi, a mio avviso, l’originalità di Searle consiste proprio nell’aver lavorato costantemente sul crinale fra il codice oxoniano, da un lato, e il codice continentale, dall’altro lato. L’eredità di preoccupazioni tipicamente novecentesche e tipicamente europee è stata ben più che un’interazione occasionale avvenuta durante i “meravigliosi” anni della sua formazione inglese (i migliori della sua vita, anche per l’incontro con la ragazza che sarebbe diventata la compagna di una vita, Dagmar, avvenuto nello studio di Strawson), come d’altronde lo stesso Searle – mi permetto una considerazione 5 Per questo mi fa molto piacere che sia la collana “Europa del pensiero” ad accogliere il testo di un filosofo statunitense, a dimostrazione dell’osmosi produttiva fra tradizioni culturali talora lette in contrapposizione e che, invece, generano spunti fertili all’indagine proprio nella loro intersezione.

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più personale – ha sempre tenuto a ribadire in molte occasioni più o meno pubbliche. Dalle lezioni a Berkeley ai seminari del gruppo di ontologia sociale fino alle cene ufficiali, il suo giocare con la lingua francese, le citazioni di Proust (o Édith Piaf), i riferimenti a Godard o Truffaut e quell’apparente avversione per «Derrida, Girard, Foucault, e gli altri» (che sembra la stessa vuota elencazione che ritroviamo nel saggio sull’illusione fenomenologica: «Husserl, Heidegger…», cui a volte gli ho sentito aggiungere Hegel – «tutti filosofi i cui cognomi iniziato con l’H…» ripeteva a Moses Hall) in realtà è un modo per entrare in relazione con un sistema di pensiero dal quale, profondamente, non si è mai discostato e con cui è stato (e ancora oggi è) “in dialogo”. Lo ha ribadito molte volte aprendo le cerimonie per le varie lauree honoris causa ricevute in Italia, in Francia o in Germania: nonostante l’apparenza ultra-yankee con i tipici segni da campus californiano (il berretto, la camicia a quadri, le sneakers), John Rogers Searle si sente un uomo del Novecento europeo almeno quanto si sente ancora un ragazzo di Denver, Colorado (peraltro un discreto sciatore, naturalmente competitivo anche in quello). Le due identità filosofiche e culturali, in lui, non sono affatto alternative. Volendo dunque tentare, in conclusione, una risposta alla questione posta dal titolo di questo saggio (perché parlare ancora della differenza fra pensiero umano e intelligenza artificiale?), direi che la risposta più breve e più sensata è la seguente. Searle ha descritto uno scarto incolmabile e necessario: incolmabile dal punto di vista della mente artificiale, che nonostante gli avanzamenti tecnologici anche più recenti comunque rimane una simulazione e non una duplicazione di ciò che è autentico (cioè la mente umana con la sua capacità di pensare); necessario dal punto di vista dell’umano, il quale per preservarsi nella propria natura deve proprio insistere su questo scarto e su questa differenza, affrontandoli apertamente e senza indugi e tenendo ben presenti i suggerimenti che ci consegna un pensatore ancora immerso nel secolo che per la Storia è stato breve, ma per la filosofia è stato forse il più complesso e il più denso di sollecitazioni (nonostante i suoi novant’anni e la sua grande lucidità di analisi del presente, Searle sottolinea fieramente la propria identità filosofica spiccatamente novecentesca). Perché dunque, infine, la filosofia che riproponiamo in traduzione può dirsi una filosofia per un tempo nuovo? Questi saggi non con-

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tengono certo un vademecum per come affrontare serenamente l’era postpandemica (né tantomeno un eventuale ritorno a quella pandemica), o le piccole e grandi catastrofi climatiche all’orizzonte; non ci consegnano neanche un sistema completo di temi o concetti, ma ne presentano soltanto alcuni. La ragione che le include tutte credo sia la seguente: parlando di linguaggio e ontologia sociale, di mente, coscienza e intenzionalità, questi saggi di fatto insistono su una tesi comune e cioè che il linguaggio umano sia fondamentalmente una forma di razionalità in azione. Esso è un linguaggio vivo, che ci definisce nelle nostre proiezioni rispetto agli enti intorno a noi, rispetto alla nostra capacità di comprenderne i fini e di collocarli in un sistema di conoscenze, e che ci costituisce come soggetti nella società. Questa forza multiforme è dovuta alla sua natura viva e agli usi che ne facciamo: non è solo Sprache (linguaggio in senso lato) – avrebbe detto Heidegger – ma Gespräch (‘dialogo, colloquio’). È dunque azione portata avanti tramite la parola detta fra gli uomini, e dietro la quale perciò non può che esserci l’umanità, sia come insieme, sia come carattere: fra intelligenza artificiale e pensiero umano, dunque, lo scarto si gioca a partire dal linguaggio. Non tanto però a partire dal fatto che vi sia un linguaggio (visto che quello binario lo è, come lo è il linguaggio della programmazione), quanto dall’uso che ne facciamo all’interno di un orizzonte di senso.

Angela Condello è filosofa del diritto. Si occupa di linguaggio, ontologia sociale, femminismo. È autrice di cinque monografie tra cui (con John R. Searle e Maurizio Ferraris) Money, Social Ontology and Law (Routledge, 2019). Ha curato e tradotto John R. Searle per Il denaro e i suoi inganni (Einaudi, 2018).

1. La filosofia in un nuovo secolo1

Le riflessioni generali sullo stato dell’arte e sul futuro della filosofia sono spesso fonte di superficialità e gesti di autoindulgenza intellettuale. Inoltre, un segnale casuale sul calendario, il principio di un secolo nuovo, non sembrerebbe sufficiente, di per sé, a ignorare una predisposizione generale contraria a questo tipo di considerazioni. In ogni caso, correrò il rischio di dire alcune cose sullo stato dell’arte e sul futuro della filosofia, sebbene sappia che si tratta di un rischio molto serio. Una complessiva serie di cambiamenti importanti rispetto alla questione si sono succeduti nel corso della mia vita e vorrei discutere il loro valore e le possibilità che sollevano per il futuro del soggetto. Filosofia e conoscenza Nell’era presente, la principale questione intellettuale è che la conoscenza è in crescita. Essa cresce quotidianamente e cumulativamente. Sappiamo più cose dei nostri nonni e i nostri nipoti sapranno più cose di noi. Attualmente c’è un’enorme accumulazione di conoscenza certa, oggettiva e universale – in un senso che spiegherò a breve. Questa cre1 Titolo originale e sede di pubblicazione: Philosophy in a New Century, in Id., Philosophy in America at the Turn of the Century, apa Centennial Supplement, in «Journal of Philosophical Research», vol. 28, numero speciale, 2003.

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scita della conoscenza sta lentamente producendo una trasformazione della filosofia. L’era moderna in filosofia, iniziata da Cartesio, Bacone e altri durante il XVII secolo, si è basata su una premessa ormai obsoleta. La premessa era la seguente: l’esistenza stessa della conoscenza era incerta e in questione e – quindi – il compito principale del filosofo era gestire il problema dello scetticismo. Cartesio ha interpretato questo compito provando ad assicurare un fondamento alla conoscenza, e Locke, in maniera simile, ha pensato il suo Saggio2 come un’indagine nella natura e nell’entità della conoscenza umana. Sembra ragionevole credere che nel XVII secolo questi filosofi abbiano considerato l’epistemologia come l’elemento centrale dell’intera impresa filosofica, perché, mentre erano al centro di una rivoluzione scientifica, allo stesso tempo la possibilità di una conoscenza certa, oggettiva e universale sembrava problematica. Non era per nulla chiaro come le loro varie credenze potessero essere stabilite con certezza e non era nemmeno chiaro come avrebbero potuto essere rese coerenti. C’era in particolare l’opprimente e pervasivo conflitto tra la fede religiosa e le nuove scoperte scientifiche. Il risultato è stato che per tre secoli e mezzo l’epistemologia ha costituito il nucleo della filosofia. Durante la gran parte di questo periodo, i paradossi dello scetticismo sono stati al cuore dell’impresa filosofica. A meno di non riuscire a rispondere agli scettici, sembrava di non poter avanzare né in filosofia, né nella scienza. Per questa ragione l’epistemologia è divenuta la base di molte discipline filosofiche nelle quali le questioni epistemologiche erano state, fino ad allora, periferiche. Dunque, ad esempio, la questione centrale in etica divenne: “Può esserci un fondamento oggettivo delle nostre credenze etiche?”. E, persino in filosofia del linguaggio, molti filosofi hanno pensato – e alcuni ancora pensano – che le questioni epistemiche fossero centrali. Hanno considerato come questione centrale in filosofia del linguaggio la seguente: “Come sappiamo ciò che intende dire un’altra persona quando dice qualcosa?”. Credo che l’era dell’epistemologia scettica sia ormai terminata. A causa della grande crescita della conoscenza certa, oggettiva e univer2 Il Saggio sull’intelletto umano pubblicato nel 1689.

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sale, la possibilità della conoscenza non è più una questione centrale in filosofia. Attualmente è psicologicamente impossibile prendere sul serio il progetto di Cartesio come lo aveva preso lui: sappiamo troppo. Questo non significa che non ci sia spazio per i tradizionali paradossi epistemici, ma solo che non sono più al centro della questione. La domanda “come posso sapere che non sono un cervello dentro una bacinella, che non sono stato nascosto da un demone cattivo, che non sto sognando, che non ho allucinazioni, ecc.?” – o, in un senso più specificamente humiano, “come posso sapere di essere oggi la stessa persona che ero ieri?”, “come posso sapere che il sole sorgerà a est domani?”, “come posso sapere che esistono veramente delle cose come le relazioni causali nel mondo?” – la considero come i paradossi di Zenone sulla realtà dello spazio e del tempo. È infatti un paradosso interessante che si possa attraversare una stanza solo se prima si attraversa metà di quella stanza, e prima ancora metà di quella metà, ecc. Sembrerebbe necessario attraversare un infinito numero di spazi prima ancora di iniziare e così il movimento stesso sembra impossibile. Si tratta di un paradosso interessante e di un buon esercizio per i filosofi, ma nessuno dubita seriamente dell’esistenza dello spazio o della possibilità di attraversare una stanza a causa dei paradossi di Zenone. Analogamente, vorrei dire che nessuno dovrebbe dubitare dell’esistenza della conoscenza a causa dei paradossi scettici. Questi sono buoni esercizi per i filosofi, ma non minacciano l’esistenza di una conoscenza oggettiva, universale, e certa. Mi rendo conto che c’è ancora una fiorente industria intellettuale di lavori intorno ai tradizionali problemi dello scetticismo. Voglio suggerire, tuttavia, che le tradizionali forme di scetticismo non possono avere per noi il significato che hanno avuto per Cartesio e i suoi successori. Che ci piaccia o no, il significativo peso della conoscenza accumulata è oggi così grande che non possiamo prendere sul serio gli argomenti che mirano a provarne l’inesistenza. Vorrei chiarire immediatamente una cosa. Quando dico che secondo me la filosofia non riguarda più l’epistemologia intendo che i paradossi professionali dell’epistemologia, i paradossi scettici, non sono più centrali nell’impresa filosofica. Ma oltre all’epistemologia intesa in questo senso specialistico dei professionisti, esiste anche, per così dire, l’epistemologia che riguarda la “vita reale”. Come si può sapere

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che le affermazioni che facciamo sono effettivamente vere? Che tipo di prove, sostegno, argomento, e verificazione possono supportare le affermazioni che facciamo? L’epistemologia che riguarda la vita reale prosegue come prima, e anzi è più rilevante che mai, perché, ad esempio – di fronte ad affermazioni contrastanti sulla causa o le cure dell’aids, o a teorie sulla politica monetaria o fiscale nella gestione economica –, è più importante che mai insistere su prove e verifiche adeguate. Dunque, quando dico che siamo in un’era postepistemica, intendo dire che siamo in un’era postscettica. Considero il tradizionale scetticismo filosofico come obsoleto. Ma ciò non significa che dovremmo abbandonare degli standard razionali per valutare delle affermazioni che pretendono di essere vere: al contrario. Ho appena detto che disponiamo di un ampio e crescente corpus di conoscenze che è certo, oggettivo e universale. Metto in evidenza questi tre caratteri perché precisamente questi sono messi a dura prova da una certa forma contemporanea di scetticismo estremo talvolta chiamata “post-modernismo” con le sue diramazioni accessorie come la “decostruzione”, il “post-strutturalismo”, e perfino alcune versioni del pragmatismo. Secondo questa sfida dello scetticismo, ciò che porta a dire che abbiamo la certezza, l’oggettività e l’universalità nel migliore dei casi è un errore mentre nel peggiore è una sorta di impulso totalitario. Da questo punto di vista non si può mai conseguire una conoscenza certa, oggettiva e universale. Questo è apparentemente dimostrato da alcune ricerche sull’oggetto della scienza, come quelle condotte da Thomas Kuhn e Paul Feyerabend – le quali enfatizzano gli elementi irrazionali nello sviluppo delle teorie scientifiche. In questa prospettiva, gli scienziati non raggiungono la verità, ma si precipitano irrazionalmente da un paradigma a un altro. Inoltre, a quanto si dice, è impossibile ottenere oggettività, perché tutte le affermazioni sulla conoscenza sono prospettiche; sono sempre il risultato di un punto di vista soggettivo. E infine, è impossibile ottenere l’universalità, perché tutta la scienza è prodotta in circostanze storiche specifiche rispetto allo spazio e al tempo ed è soggetta ai vincoli imposti da quelle circostanze. Credo che queste sfide non abbiano meriti, e vorrei spiegare rapidamente perché. La questione principale è: ciò che è vero nelle sfide dello scetticismo non è in contraddizione con la certezza, l’oggettività e l’universalità.

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Uno dei problemi che abbiamo, nell’affrontare l’enorme crescita della conoscenza, è vedere come tutti questi aspetti (certezza, oggettività, universalità) possono coesistere simultaneamente. Come può la conoscenza essere allo stesso tempo certa eppure provvisoria ed emendabile, come può essere totalmente oggettiva eppure sempre risultante da una prospettiva soggettiva, come può essere assolutamente universale eppure risultare da circostanze e condizioni specifiche? Vediamo tutti i problemi nel loro ordine. La certezza in questione deriva dal fatto che la prova per le affermazioni è così schiacciante, e le affermazioni sono così ben incorporate in un sistema di altre affermazioni correlate e altrettanto supportate da prove rigorose, che è semplicemente irrazionale dubitare di quelle verità. Al momento è irrazionale dubitare del fatto che il cuore sia una pompa per la circolazione del sangue, che la Terra sia un satellite del sole, o che l’acqua sia fatta di idrogeno e ossigeno. Inoltre, tutti questi elementi della conoscenza sono parte di teorie molto influenti, le teorie della fisiologia umana e animale, la teoria eliocentrica del nostro sistema solare e la teoria atomica della materia. Ma allo stesso tempo è sempre possibile che ci sia una rivoluzione scientifica che rovesci tutti questi modi di pensare le cose o che si verifichi una rivoluzione comparabile alla svolta einsteiniana che ha assorbito la meccanica di Newton come caso speciale. Nulla in nessun livello della conoscenza, per quanto certo, può precludere la possibilità di future rivoluzioni scientifiche. La provvisorietà e l’emendabilità non sono una sfida alla certezza. Al contrario, e allo stesso tempo, dobbiamo riconoscere la certezza e insieme ammettere la possibilità di future grandi sfide alle nostre teorie. Vorrei insistere su questo punto: c’è una larga parte di conoscenza che è nota con certezza. La si può trovare nelle librerie universitarie, ad esempio nei testi di ingegneria o biologia. Il senso in cui sappiamo con certezza che il cuore pompa il sangue, ad esempio, o che la Terra è un satellite del sole è che, dato il peso schiacciante delle ragioni a supporto di queste affermazioni, è irrazionale dubitarne. Ma la certezza non implica l’inemendabilità. Non implica che non possiamo concepire delle circostanze in cui potremmo dissentire da queste affermazioni. È un errore tradizionale, che sto cercando di superare, supporre che la certezza implichi l’incorreggibilità da parte di scoperte successive. Siamo portati a credere che la certezza è impossibile perché le affer-

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mazioni relative alla conoscenza sono sempre provvisorie e soggette a future correzioni o emendamenti. Ma questo è un errore. La certezza non è in contraddizione con la provvisorietà o l’emendabilità. Non è in questione che sappiamo molte cose con certezza, eppure queste cose potrebbero essere riviste e corrette da future scoperte. Ciò conduce al secondo insieme di questioni: come può la conoscenza, a un tempo, essere completamente oggettiva eppure prospettica, ossia affermata relativamente a un punto di vista e non a un altro? Dire che un’affermazione è epistemicamente oggettiva vale a dire che la sua verità o falsità può essere stabilita indipendentemente dai sentimenti, dalle disposizioni, dai pregiudizi, dalle preferenze e dal coinvolgimento di chi l’afferma. Quindi, quando dico che “l’acqua è composta di molecole combinate nella formula H2O”, quell’affermazione è completamente oggettiva. Se dico “l’acqua è più buona del vino” – ebbene, quell’affermazione è soggettiva. È una questione di opinioni. È tipico delle affermazioni relative alla conoscenza, del tipo che ho menzionato, che, quando si dice che tale conoscenza cresce cumulativamente, la conoscenza in questione, in questo senso, è epistemicamente oggettiva. Ma tale oggettività non esclude la prospettiva. Le affermazioni relative a una conoscenza sono prospettiche nel senso ovvio e un po’ banale in cui tutte le affermazioni sono prospettiche. Tutte le rappresentazioni riflettono una prospettiva, un punto di vista. Quindi quando dico “l’acqua è composta di molecole combinate secondo la formula H2O”, quella è una descrizione a livello della struttura atomica. Su altri livelli descrittivi, per esempio della fisica subatomica, potremmo dire che l’acqua consiste di quark, muoni e varie altre particelle subatomiche. Il punto è il seguente: il fatto che tutte le affermazioni relative alla conoscenza sono prospettiche non preclude che ci sia oggettività epistemica. Vorrei insistere su questo con ulteriore enfasi: ogni rappresentazione della realtà, umana o no, e a fortiori tutta la conoscenza della realtà, dipende da un certo punto di vista, è relativa a una certa prospettiva. Ma il carattere prospettico della rappresentazione e della conoscenza non implica che le affermazioni relative alla conoscenza in questione dipendano dalle preferenze, dalle disposizioni, dalle predilezioni degli osservatori. L’esistenza dell’oggettività non è in alcun modo minacciata dal carattere prospettico della conoscenza e della rappresentazione.

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Infine, le affermazioni relative alla conoscenza di cui sto parlando, in cui diciamo qualcosa rispetto a come funziona il mondo, sono universali. Ciò che è vero a Vladivostok è anche vero a Pretoria, Parigi e Berkeley. Ma il fatto che siamo in grado di formulare, testare, verificare e infine stabilire tali affermazioni in quanto certe, universali e oggettive, richiede un apparato socio-culturale molto specifico. Richiede un apparato di ricercatori competenti, e le condizioni socio-culturali necessarie perché esistano formazione e ricerca per lo sviluppo di quella competenza. Questi si sono sviluppati molto nell’Europa occidentale e sono germogliati in altre parti del mondo, soprattutto nell’America del Nord, negli scorsi quattro secoli. C’è un senso triviale e inoffensivo in cui tutta la conoscenza è socialmente costruita. In questo senso triviale e inoffensivo la conoscenza è espressa in affermazioni e tesi; e queste affermazioni e tesi devono essere formulate, formalizzate, provate, verificate, controllate e ricontrollate. Ma la costruzione sociale in questo senso non è in alcun modo in conflitto col fatto che la conoscenza così raggiunta è universale, oggettiva e certa. Vorrei insistere su questo terzo punto come ho fatto per i primi due: le affermazioni relative alla conoscenza sono fatte, provate e verificate da individui storicamente situati che lavorano in contesti dominati da specifiche pratiche culturali. In questo senso tutte le affermazioni relative alla conoscenza sono socialmente costruite. Ma la verità di queste affermazioni non è socialmente costruita. La verità è una questione di fatti oggettivi nel mondo che corrispondono alle nostre affermazioni. Finora ho considerato tre obiezioni alla visione di buon senso secondo cui disponiamo di un ampio corpus di conoscenza certa, oggettiva e universale. In primo luogo, la conoscenza è sempre provvisoria ed emendabile; in secondo luogo, è sempre affermata da un certo punto di vista; e in terzo luogo, deve essere raggiunta tramite la cooperazione e lo sforzo collettivo in contesti sociali particolari e storicamente collocati. La tesi fondamentale che sto cercando di sostenere è la seguente: non c’è nulla di contraddittorio fra queste tesi e l’affermazione secondo cui la conoscenza così raggiunta è spesso certa, oggettiva e universale. Se con “modernismo” si intende un periodo di razionalità e intelligenza sistematica che è iniziato con il Rinascimento e ha raggiunto un punto di elevata articolazione autocosciente con l’Illuminismo eu-

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ropeo, allora non ci troviamo in un’era postmoderna. Al contrario, il modernismo è appena cominciato. Siamo comunque, credo, in un’era postscettica e postepistemica. Non si comprende cosa accade nella nostra vita intellettuale se non si è coscienti della crescita esponenziale di conoscenza come di un fatto intellettuale fondamentale. C’è qualcosa di assurdo nel pensatore postmoderno che compra un biglietto aereo su internet, sale su un aeroplano, lavora sul proprio computer portatile durante il volo, scende dall’aeroplano a destinazione, prende un taxi fino alla sede della lezione, poi fa lezione dicendo che in un senso o nell’altro non c’è alcuna conoscenza certa, che l’oggettività è in discussione e che tutte le affermazioni relative alla verità non sono altro che prese di potere mascherate. L’era post-scetticismo Supponendo che io abbia ragione a proposito di queste caratteristiche della conoscenza e sul fatto che la conoscenza è in continua crescita, quali sono le implicazioni per la filosofia? Come appare la filosofia in un’era postepistemica, postscettica? Mi sembra che sia ormai possibile fare filosofia teoretica sistematica in un modo che mezzo secolo fa sarebbe stato considerato fuori questione. Paradossalmente, uno dei contributi principali di Wittgenstein alla filosofia verrebbe rigettato da lui stesso. Vale a dire che, prendendo sul serio lo scetticismo e provando a farci i conti, Wittgenstein ha preparato il campo per un modo teoretico e sistematico di fare filosofia che lui stesso, nei suoi lavori tardivi, ha poi aborrito considerandolo impossibile. Precisamente perché non siamo più preoccupati dei tradizionali paradossi scettici e delle loro implicazioni per l’esistenza stessa di linguaggio, significato, verità, conoscenza, oggettività, certezza e universalità, ora possiamo occuparci della teorizzazione generale. La situazione è in un certo senso analoga a quella in Grecia a seguito della transizione dalla filosofia di Socrate e Platone alla filosofia di Aristotele. Socrate e Platone avevano preso lo scetticismo seriamente; Aristotele è stato un teoretico sistematico. Con la possibilità di sviluppare teorie filosofiche generali e con il declino dell’ossessione per le preoccupazioni teoretiche, la filosofia è

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sempre meno isolata dalle altre discipline. Dunque, ad esempio, i migliori filosofi della scienza hanno con le ultime ricerche una familiarità simile a quella degli specialisti. Ci sono diversi temi che potrei discutere relativamente al futuro della filosofia, ma per brevità mi limiterò a sceglierne sei. 1. Il tradizionale problema mente-corpo Inizio con il tradizionale problema del rapporto fra mente e corpo, perché credo che sia il problema filosofico contemporaneo più aperto alla collaborazione fra scienziati e filosofi. Ci sono diverse versioni del problema mente-corpo ma la più discussa attualmente è: quali sono di preciso le relazioni fra la coscienza e il cervello? Mi sembra che le neuroscienze abbiano avuto un progresso tale per cui questo problema possa essere affrontato come problema strettamente neurobiologico, e infatti molti neurobiologi si stanno occupando precisamente di questo. Nella sua forma più semplice, la questione è: come fanno, esattamente, i processi neurobiologici nel cervello a causare gli stati coscienti e i vari processi, e come esattamente questi stati coscienti e processi vengono realizzati nel cervello? Posto in questi termini, sembra un problema scientifico di natura empirica. Sembra simile a problemi come: “In quale maniera esattamente i processi biochimici a livello cellulare possono produrre il cancro?”, oppure: “In quale modo esattamente la struttura genetica di uno zigote produce tratti fenotipici di un organismo maturo?”. Comunque, ci sono una serie di ostacoli squisitamente filosofici al raggiungimento di una soluzione neurobiologicamente soddisfacente per il problema della coscienza, e devo dedicare un po’ di spazio almeno a provare a rimuovere alcuni dei peggiori fra questi ostacoli. Il principale ostacolo al raggiungimento di una soluzione per il tradizionale problema mente-corpo è la persistenza di un insieme di categorie tradizionali ma obsolete relative alla mente e al corpo, alla materia e allo spirito, a ciò che è mentale e a ciò che è fisico. Fin quando proseguiamo a parlare e pensare come se il mentale e il fisico fossero due ambiti metafisici separati, la relazione del cervello con la coscienza sembrerà sempre misteriosa, e non avremo una spiegazione soddisfacente rispetto alla relazione fra gli impulsi lanciati dai neuroni

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e la coscienza. Il primo passo sulla strada del progresso filosofico e scientifico in queste aree è dimenticarsi della tradizione del dualismo cartesiano e tenere a mente che i fenomeni mentali sono ordinari fenomeni biologici nello stesso senso della fotosintesi o della digestione. Dobbiamo smetterla di preoccuparci di come il cervello potrebbe causare la coscienza e dovremmo iniziare dalla semplice considerazione che esso la causa. Entrambe le nozioni di mentale e fisico devono essere abbandonate nella loro definizione tradizionale nel momento in cui accettiamo il fatto che viviamo in un unico mondo e che tutte le sue caratteristiche – dai quark agli elettroni agli Stati nazionali al bilancio dei pagamenti – sono, ciascuna nel proprio modo, parti di quel mondo. Trovo veramente incredibile che le categorie ormai obsolete della mente e della materia continuino a impedire il progresso. Molti scienziati sentono di poter solo indagare l’ambito “fisico” e sono riluttanti ad affrontare la coscienza nei suoi termini propri perché non sembra un problema “fisico” ma piuttosto “mentale”, e molti illustri filosofi pensano che sia impossibile per noi comprendere le relazioni della mente con il cervello. Come Einstein ha prodotto un cambiamento concettuale per rompere la vecchia concezione dello spazio e del tempo, così ci serve un cambiamento concettuale per rompere la biforcazione di ciò che è mentale da ciò che è fisico. Correlata alla difficoltà causata dall’accettare le categorie tradizionali c’è una seria fallacia logica che mi serve trattare. La coscienza è, per definizione, soggettiva, nel senso che, affinché esista uno stato di coscienza, di questo deve fare esperienza un soggetto cosciente. La coscienza in questo senso ha un’ontologia in prima persona e cioè esiste soltanto dal punto di vista di un soggetto umano o animale, un “io” che ha l’esperienza cosciente. La scienza non è usata per gestire fenomeni che hanno un’ontologia in prima persona. Tradizionalmente, la scienza tratta fenomeni che sono “oggettivi”, ed evita tutto ciò che è “soggettivo”. Infatti, molti filosofi e scienziati credono che poiché la scienza è per definizione oggettiva, non può esserci qualcosa come una scienza della coscienza, perché la coscienza è soggettiva. Questo argomento si basa su un grande fraintendimento, che è una delle confusioni più persistenti nella storia della nostra civiltà intellettuale. Ci sono due modi ben diversi per distinguere ciò che è oggettivo da ciò che è soggettivo. In un senso, che chiamerò il senso episte-

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mico della distinzione oggettivo/soggettivo, c’è una differenza fra la conoscenza oggettiva e le opinioni soggettive. Se dico, per esempio, “Rembrandt è nato nel 1606”, quell’affermazione è epistemicamente oggettiva nel senso che si può dire vera o falsa indipendentemente dalle disposizioni, dai sentimenti, dalle opinioni, o dai pregiudizi degli agenti che ne indagano il contenuto. Se dico: “Rembrandt è stato un pittore migliore di Rubens”, quell’affermazione non è relativa alla conoscenza oggettiva, ma dipende da un’opinione soggettiva. Oltre alla distinzione fra affermazioni epistemicamente oggettive e soggettive, c’è una distinzione fra le entità nel mondo che hanno un’esistenza oggettiva, come le montagne e le molecole, e le entità che hanno un’esistenza soggettiva, come i dolori o il solletico. Definisco questa distinzione fra i modi di esistenza come la distinzione oggettivo/soggettivo in senso ontologico. La scienza è di sicuro epistemicamente oggettiva nel senso che gli scienziati tentano di stabilire delle verità che possono essere verificate indipendentemente dalle loro disposizioni e dai loro pregiudizi. Ma l’oggettività epistemica di un metodo non preclude la soggettività ontologica dell’argomento di discussione. Pertanto non ci sono obiezioni di principio al fatto di avere una scienza epistemicamente oggettiva relativamente a un campo del sapere ontologicamente soggettivo, come la coscienza umana. Un’altra difficoltà che incontra una scienza della soggettività è quella di verificare le affermazioni sulla coscienza umana e animale. Nel caso degli umani, a meno che non facciamo esperimenti su noi stessi individualmente, l’unica prova definitiva della presenza e della natura della coscienza è ciò che il soggetto dice e fa, e i soggetti sono notoriamente inaffidabili. Nel caso degli animali, siamo in una situazione persino peggiore, perché dobbiamo affidarci al comportamento animale in risposta agli stimoli. Non possiamo ottenere alcuna dichiarazione da parte dell’animale relativa ai suoi stati di coscienza. Penso che si tratti di una reale difficoltà, ma vorrei precisare che in principio non si tratta di un ostacolo maggiore rispetto alle difficoltà che si incontrano in altre forme di ricerca scientifica in cui dobbiamo affidarci a mezzi indiretti per la verifica delle nostre affermazioni. Non abbiamo mezzi per osservare i buchi neri, e in realtà, in senso stretto, non abbiamo mezzi per osservare direttamente le particelle atomiche

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e subatomiche. Ciononostante, abbiamo opinioni piuttosto consolidate di questi ambiti, e i metodi che usiamo per verificare delle ipotesi in queste aree dovrebbero offrirci un modello per verificare le ipotesi nel campo di studi relativo alla soggettività umana e animale. La “privatezza” della coscienza umana e animale non rende impossibile una scienza della coscienza. Per quel che riguarda la “metodologia”, nelle scienze reali le domande metodologiche hanno sempre la stessa risposta: per capire come funziona il mondo, si deve usare qualunque strumento su cui possiamo metter le mani, e bisogna tenere salda ogni arma che funzioni. Considerando, quindi, che non siamo preoccupati rispetto al problema dell’oggettività e della soggettività, e che siamo preparati a cercare metodi indiretti per verificare le varie ipotesi relative alla coscienza, come dovremmo procedere? La gran parte dell’attuale ricerca scientifica sul problema della coscienza mi sembra basata su un errore. Gli scienziati in questione adottano tipicamente quella che chiamerò la teoria della coscienza a mattoncini3 e portano avanti la propria ricerca in linea con questa teoria. Secondo la teoria dei mattoncini, dovremmo pensare il nostro campo della coscienza come composto da vari mattoncini – l’esperienza visiva, uditiva, tattile, il flusso di coscienza, ecc. L’obiettivo di una teoria scientifica della coscienza sarebbe di trovare i correlati neuronali della coscienza (indicati con la sigla ncc)4 e, seguendo la teoria dei mattoncini, se potessimo trovare i correlati neuronali della coscienza almeno per un mattoncino, come quello per vedere il colore rosso, con ogni probabilità questo potrebbe darci degli indizi sui mattoncini relativi ad altre modalità sensoriali, e per il flusso di pensiero. Questo programma di ricerca potrebbe risultare efficace e corretto, alla fine. Tuttavia, mi sembra improbabile – per la ragione seguente – come modo di procedere nella situazione attuale. Ho detto in precedenza che l’essenza della coscienza è la soggettività. C’è una certa percezione qualitativamente soggettiva in ogni stato cosciente. Un aspetto di questa soggettività, e si tratta di un aspetto necessario, è che gli stati coscienti ci arrivano sempre in una forma unificata. Non percepiamo solo il colore o la forma, o il suono di un oggetto, ma 3 Come quelli per costruire le abitazioni [NdT]. 4 Dal loro nome inglese, neuronal correlates of consciousness [NdT].

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percepiamo tutti questi elementi simultaneamente in un’esperienza complessiva della coscienza. La soggettività della coscienza implica l’unità. Non si tratta di due caratteri separati (coscienza; unità), ma di due aspetti della medesima caratteristica. Ora, se le cose stanno così, mi sembra che i correlati neuronali che stiamo cercando non sono quelli relativi ai vari mattoncini del colore, del gusto, del suono, e via dicendo, ma piuttosto sono ciò che chiamerò i caratteri basilari, o lo sfondo della coscienza, che è il presupposto per avere qualsiasi esperienza di coscienza in primo luogo. Il problema cruciale non è, ad esempio, “come fa il cervello a produrre un campo cosciente unificato, soggettivo?”. Dovremmo pensare alla percezione non come qualcosa che crea la coscienza, ma che modifica un campo cosciente preesistente. Dovremmo pensare al mio attuale campo cosciente non come composto da vari mattoncini, ma come a un campo unificato, che è modificato in modi specifici dai vari tipi di stimoli che io o altri esseri umani riceviamo. Visto che abbiamo discrete prove – dagli studi sulle lesioni – del fatto che la nostra coscienza non è distribuita sull’intero cervello, e visto che abbiamo buone prove anche del fatto che vi sia coscienza in entrambi gli emisferi, penso che ciò che dovremmo considerare per il momento sia il tipo di processi neurobiologici che producono un campo unitario della coscienza. Questi, per quanto posso dire io, costituiscono la maggior parte del sistema talamocorticale. La mia ipotesi, allora, è che cercare i correlati neuronali dei mattoncini significa cercare la causa di un problema nel posto sbagliato, e che dovremmo invece cercare i correlati del campo unitario della coscienza in caratteristiche più globali del cervello, come dei grandi schemi sincronizzati relativi alle scariche neuronali nel sistema talamocorticale5. 2. La filosofia della mente e la scienza cognitiva Il problema del rapporto mente-corpo rientra in un insieme più ampio di questioni, note nel complesso come filosofia della mente. Questo complesso include non solo il tradizionale problema del rap5 Ho discusso tali questioni molto più nel dettaglio nel mio articolo Consciousness, in «The Annual Review of Neuroscience», vol. 23, 2000, pp. 557-578.

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porto fra mente e corpo, ma tutto l’intreccio di problemi relativi alla natura della mente e della coscienza, della percezione e dell’intenzionalità, dell’azione intenzionale e del pensiero. Qualcosa di curioso è accaduto negli ultimi due o tre decenni – e cioè che la filosofia della mente si è spostata al centro della filosofia. Molte altre branche rilevanti della filosofia, come l’epistemologia, la metafisica, la filosofia dell’azione, e persino la filosofia del linguaggio, sono trattate come correlati dipendenti – e talora come sottoinsiemi – della filosofia della mente. Là dove cinquant’anni fa la filosofia del linguaggio era considerata “la filosofia prima”, ora la stessa considerazione spetta alla filosofia della mente. Le ragioni di questo cambiamento sono varie, ma due vale la pena di evidenziarle. In primo luogo, è diventato sempre più ovvio per molti filosofi che la nostra comprensione di molte questioni filosofiche – la natura del significato, la razionalità e il linguaggio in senso lato – presuppongono una comprensione dei processi mentali più fondamentali. Per esempio, il modo in cui il linguaggio rappresenta la realtà dipende dai modi più biologicamente fondamentali in cui la mente rappresenta la realtà e, infatti, la rappresentazione linguistica è un’estensione molto più potente delle rappresentazioni mentali più basilari come la percezione, le intenzioni, le credenze e i desideri. In secondo luogo, l’ascesa della nuova disciplina delle scienze cognitive ha aperto alla filosofia intere aree di ricerca sulla cognizione umana in tutte le sue forme. La scienza cognitiva è stata inventata da un gruppo interdisciplinare, composto da filosofi che si opponevano alla persistenza del comportamentismo in psicologia, insieme a psicologi cognitivi, linguisti, antropologi e informatici con idee affini. A mio avviso l’area generale di ricerca più attiva e fruttuosa oggi in filosofia è nel campo della scienza cognitiva generale. L’argomento fondamentale di studio per la scienza cognitiva è l’intenzionalità in tutte le sue forme. Paradossalmente, la scienza cognitiva è stata fondata su un errore. Non c’è nulla di necessariamente fatale nel fondare una materia accademica su un errore; molte discipline infatti sono state fondate su errori. La chimica, per esempio, è stata fondata sull’alchimia. Tuttavia, un’aderenza persistente all’errore è nella migliore delle ipotesi inefficiente e inoltre ostacola il progresso. Nel caso della scienza cognitiva l’errore era supporre che il cervello fosse un computer digitale e la mente un programma per computer.

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Ci sono diversi modi per dimostrare che si tratta di un errore ma il modo più semplice è rilevare che il programma per computer che viene eseguito è definito interamente in termini di processi simbolici o sintattici ed è indipendente dalla struttura fisica dell’hardware. La nozione di “stesso programma eseguito” definisce una classe di equivalenza specificata interamente in termini di processi formali o sintattici e indipendente dalla struttura fisica specifica di questa o quella implementazione hardware. Questo principio è alla base della celebre caratteristica della “realizzabilità multipla” dei programmi per computer. Lo stesso programma può essere realizzato in un range indefinito di hardware. La mente non può consistere in uno o più programmi, perché le operazioni sintattiche del programma non sono di per sé sufficienti a costituire o a garantire la presenza di contenuti semantici dei processi mentali veri e propri. Le menti, d’altra parte, contengono più dei componenti simbolici o sintattici: contengono stati mentali reali con un contenuto semantico sotto forma di pensieri, sentimenti, ecc., e questi sono causati da processi neurobiologici piuttosto specifici che si verificano nel cervello. La mente non potrebbe consistere in un programma perché i processi sintattici del programma implementato non hanno di per sé alcun contenuto semantico. Ho dimostrato questa tesi anni fa con il cosiddetto argomento della Stanza Cinese6. Continua un dibattito su questa e su altre versioni della teoria computazionale della mente. Alcune persone pensano che l’introduzione di computer che usano l’elaborazione parallela e distribuita (“pdp” – parallel distributed processing – talvolta detta anche “connessionismo”) potrebbe rispondere alle obiezioni che ho presentato. Ma non vedo come l’introduzione di argomenti connessionisti faccia la differenza. Il problema è che qualsiasi calcolo eseguibile su un programma connessionista può anche essere eseguito in un sistema tradizionale di von Neumann. Sappiamo dai risultati matematici che ogni funzione calcolabile lo è su una macchina universale di Turing. In questo senso nessuna nuova capacità computazionale viene aggiunta dall’architettura connessionista, sebbene i sistemi connessionisti possano esser fatti lavorare più rapidamente, perché hanno numerosi processi 6 John R. Searle, Minds, Brains and Programs, in «Behavioral and Brain Sciences», vol. 3, n. 3, 1980, pp. 417 sgg; trad. it. Menti, cervelli e programmi. Un dibattito sull’intelligenza artificiale, a cura di Graziella Tonfoni, clued, 1984.

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computazionali che agiscono in parallelo e interagiscono fra loro. Poiché la potenza di calcolo del sistema connessionista non è maggiore di quella del tradizionale sistema di von Neumann, se rivendichiamo la superiorità del sistema connessionista, deve esserci qualche altra caratteristica del sistema a cui si fa appello. Ma l’unica altra caratteristica del sistema connessionista dovrebbe essere nell’implementazione dell’hardware, che opera in parallelo anziché in serie. Ma se affermiamo che l’architettura connessionista piuttosto che i calcoli connessionisti sono responsabili dei processi mentali, non stiamo più portando avanti una teoria computazionale della mente, ma ci stiamo addentrando in considerazioni di carattere neurobiologico. Con questa ipotesi abbiamo abbandonato la teoria computazionale della mente a favore della neurobiologia speculativa. Quel che sta effettivamente accadendo nella scienza cognitiva è un cambio di paradigma dal modello computazionale della mente verso una concezione della mente molto più orientata a favore della neurobiologia. Per ragioni che ormai dovrebbero risultare chiare, io accolgo con favore questo sviluppo. Man mano che arriveremo a comprendere più cose delle operazioni del cervello mi sembra che riusciremo a sostituire gradualmente la scienza cognitiva computazionale con le neuroscienze cognitive. Credo in verità che questa trasformazione sia già in corso. È probabile che i progressi nelle neuroscienze cognitive creino più problemi filosofici di quanti ne risolvano. Per esempio, fino a che punto una maggiore comprensione delle operazioni cerebrali ci obbligherà a compiere delle revisioni concettuali nel nostro vocabolario comune per descrivere i processi mentali che si verificano nel pensiero e nell’azione? Nei casi più semplici e lineari possiamo assimilare le scoperte nelle neuroscienze cognitive al nostro apparato concettuale esistente. Pertanto, non causiamo uno slittamento troppo rilevante nel nostro concetto di memoria quando introduciamo le tipologie di distinzione che la ricerca neurobiologica ci ha reso evidenti. Anche nel linguaggio comune distinguiamo ormai fra memoria a breve e a lungo termine e senz’altro man mano che la ricerca procede saranno introdotte ulteriori distinzioni. Il concetto di memoria iconica è già entrato nel discorso delle persone erudite. Ma in alcuni casi sembra che siamo forzati a fare delle revisioni di carattere concettuale. Ho pensato a lungo che la concezione di senso comune della memoria

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come un deposito di esperienze e conoscenze pregresse fosse sia psicologicamente che biologicamente inadeguata. La mia impressione è che la ricerca contemporanea vada in questo senso. Dovremmo avere una concezione della memoria intesa come processo creativo piuttosto che come processo di recupero. Alcuni filosofi pensano che revisioni ancora più radicali di questa saranno imposte dalle scoperte neurobiologiche in futuro. Propongo l’esempio della memoria come un caso in cui un progetto di ricerca in corso solleva questioni filosofiche e ha implicazioni filosofiche. Avrei potuto fornire esempi sulla linguistica, la razionalità, la percezione e l’evoluzione. Vedo lo sviluppo di una scienza cognitiva più sofisticata come fonte continua di collaborazione fra quelli che tradizionalmente erano considerati i due ambiti separati della “filosofia” e della “scienza”. 3. La filosofia del linguaggio Ho detto che la filosofia del linguaggio è stata il centro della filosofia per la gran parte del XX secolo. In effetti, come ho sottolineato, durante i primi tre quarti del XX secolo la filosofia del linguaggio è stata considerata la “filosofia prima”. Ma entro la fine del secolo questo era già cambiato. Accade meno in filosofia del linguaggio che in filosofia della mente, e penso che attualmente i programmi di ricerca più interessanti sul linguaggio siano in un vicolo cieco. Perché? Le ragioni sono molte e ne tratterò soltanto due. In primo luogo, uno dei principali programmi di ricerca in filosofia del linguaggio soffre dell’ossessione epistemica che sto fortemente criticando. La dedizione verso una peculiare forma di empirismo e in certi casi persino di comportamentismo ha condotto alcuni eminenti filosofi a cercare di fornire un’analisi del significato per cui l’ascoltatore è impegnato nel compito epistemico di provare a capire che cosa intende l’oratore guardando il suo comportamento in risposta a uno stimolo, oppure osservando le condizioni per cui possiamo dire che una frase è vera. L’idea è che, se potessimo descrivere come l’ascoltatore risolve il problema epistemico, analizzeremmo in tal modo il significato. Questa preoccupazione per l’aspetto epistemico dell’uso del linguaggio conduce alla stessa confusione fra epistemologia e on-

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tologia che ha tormentato la tradizione filosofica occidentale per oltre tre secoli. Questo lavoro, a mio avviso, non porta da nessuna parte, perché la sua ossessione per come facciamo a sapere ciò che un parlante vuol dire oscura la distinzione fra come l’ascoltatore sa ciò che il parlante vuol dire e cos’è che quell’ascoltatore conosce. Credo che l’epistemologia abbia lo stesso ruolo in filosofia del linguaggio di quello che ricopre, per esempio, in geologia. Il geologo è interessato a cose come la tettonica a zolle, la sedimentazione, gli strati rocciosi, e usa ogni metodo possibile per capire come funzionano questi fenomeni. Il filosofo del linguaggio è interessato al significato, alla verità, al riferimento e alla necessità, e analogamente dovrebbe usare ogni metodo epistemico che gli si presenta per cercare di capire come funzionano questi fenomeni nella mente di parlanti e ascoltatori effettivi. Quel che ci interessa è quali sono i fatti noti; siamo molto meno interessati al problema di come arriviamo a conoscere questi fatti. Infine, credo che la principale causa di debolezza in filosofia del linguaggio sia che il suo principale progetto di ricerca attuale sia basato su un errore. Frege era ansioso di insistere sul fatto che i significati non fossero entità psicologiche, ma pensava che potessero essere afferrati e compresi da parlanti e ascoltatori di un linguaggio. Frege pensava che la comunicazione in un linguaggio pubblico fosse possibile solo perché esiste un campo ontologicamente oggettivo di significati, e che lo stesso significato potesse essere colto sia dal parlante che dall’ascoltatore. Molti autori hanno attaccato questa concezione “internalista”. Credono che il significato sia una questione di relazioni causali fra l’atto di pronunciare delle parole e gli oggetti nel mondo. Quindi la parola “acqua”, ad esempio, significa quel che significa per me non perché ho qualche contenuto mentale associato a quella parola, ma piuttosto perché c’è una catena causale che mi riporta a vari esempi concreti di acqua nel mondo reale. Questa prospettiva è detta “esternalismo” ed è generalmente opposta a quella tradizionale, detta “internalismo”. L’esternalismo ha portato a un ampio progetto di ricerca volto a descrivere la natura delle relazioni causali che generano il significato. Il problema di questo progetto di ricerca è che nessuno è stato mai in grado di spiegare, con una qualche plausibilità, la natura di queste catene causali. L’idea che i significati siano qualcosa di ester-

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no alla mente è largamente accolta, ma nessuno è mai stato capace di dare una spiegazione coerente del significato in questi termini. La mia previsione è che nessuno sarà mai in grado di dare una spiegazione soddisfacente del significato come qualcosa che si forma fuori dalla testa, perché questi fenomeni esterni non potrebbero funzionare per mettere in relazione il linguaggio con il mondo nel modo in cui i significati mettono in relazione le parole con la realtà. Ciò di cui abbiamo bisogno per risolvere la disputa fra internalisti ed esternalisti è una nozione più sofisticata di come i contenuti mentali nella testa dei parlanti servono a mettere in relazione il linguaggio in particolare, e gli agenti umani in generale, rispetto al mondo reale di oggetti e situazioni. Il vero errore di Frege, ed è quello che ho ripetuto, è stato supporre che il modo in cui il linguaggio è in relazione con la realtà – il “modo di presentazione” – fissa anche il contenuto proposizionale. Frege ha immaginato sia che il senso determini il riferimento, sia che il contenuto proposizionale consista nel senso. Ma se con la nozione di “proposizione” siamo interessati a ciò che riteniamo vero o falso, allora non è vero che il senso è identico al contenuto proposizionale, perché spesso ci interessano gli oggetti reali a cui si fa riferimento anziché il modo con cui a essi viene fatto riferimento. Questo è vero specialmente in rapporto agli indici (indexicals). Dobbiamo separare la domanda “come si relazionano le parole al mondo?” dalla domanda “come viene determinato il contenuto proposizionale?”. Tuttavia, la corretta osservazione fatta dagli esternalisti, per cui il contenuto di una proposizione non può sempre essere specificato da ciò che è interno alla mente, non mostra che i contenuti della mente sono insufficienti per fissare il riferimento. Ho discusso questi temi in dettaglio altrove e non ripeterò l’intera discussione in questa sede7. 4. La filosofia della società È caratteristico della storia della filosofia che nuove declinazioni della materia vengano create in risposta a sviluppi intellettuali sia in7 John R. Searle, Intentionality: An essay in the Philosophy of Mind, Cambridge University Press, 1983, capitoli 8-9; trad. it. Della intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, Bompiani, 1985.

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terni che esterni alla filosofia. Così, per esempio, nella prima parte del XX secolo, la filosofia del linguaggio – nel senso in cui noi usiamo oggi quell’espressione – è stata creata principalmente in risposta agli sviluppi in logica matematica e al lavoro sui fondamenti della matematica. Una simile evoluzione si è verificata in filosofia della mente. Vorrei proporre l’ipotesi seguente: nel XXI secolo sentiremo un bisogno pressante per ciò che chiamerò una filosofia della società e dovremo certamente sviluppare questa prospettiva. Attualmente si tende a interpretare la filosofia sociale come ramo della filosofia politica (da qui l’espressione “filosofia sociale e politica”), oppure si tende a interpretarla come uno studio della filosofia delle scienze sociali. È probabile che uno studente che oggi segue un corso di “filosofia sociale” studi Rawls sulla giustizia (filosofia politica) o Hempel sulle spiegazioni del diritto nelle scienze sociali (filosofia della scienza sociale). Io propongo che si abbia una filosofia della società indipendente, che sta alle scienze sociali allo stesso modo in cui la filosofia della mente sta alla psicologia e alle scienze cognitive, o la filosofia del linguaggio alla linguistica. Questa tratterebbe questioni più generali. In particolare, penso che ci serva lavorare molto di più su questioni di ontologia della realtà sociale. Com’è possibile che gli esseri umani, tramite le loro interazioni sociali, possano creare una realtà sociale oggettiva fatta di denaro, proprietà, matrimonio, governi, giochi, ecc., quando queste entità, in un certo senso, esistono solo in virtù di un accordo collettivo o di una credenza rispetto alla loro esistenza? Com’è possibile che ci possa essere una realtà sociale oggettiva che esiste solo perché noi pensiamo che esista? Una volta risolte in modo proprio le questioni di ontologia sociale, mi sembra che le questioni di filosofia sociale, vale a dire la natura della spiegazione nelle scienze sociali e la relazione della filosofia sociale con la filosofia politica, troveranno naturalmente la loro collocazione. Ho tentato di impostare questo problema di ricerca nel mio libro The Construction of Social Reality8. Specificamente, ritengo che nel nostro studio della realtà politica e sociale abbiamo bisogno di un insieme di concetti che ci consentano di descrivere la realtà politica e sociale, per così dire, dalla “media di8 John R. Searle, The Construction of Social Reality, Free Press, 1995; trad. it. La costruzione della realtà sociale, Einaudi, 2006.

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stanza”. Il nostro problema nel tentare di affrontare la realtà sociale è che i nostri concetti sono o incredibilmente astratti, come nella filosofia politica tradizionale – per esempio i concetti di contratto sociale o lotta di classe – oppure tendono a essere essenzialmente giornalistici, trattando questioni quotidiane di politica e rapporti di potere. Quindi siamo piuttosto evoluti rispetto alle teorie astratte della giustizia, e rispetto allo sviluppo di criteri per valutare la giustizia o l’ingiustizia delle istituzioni. Gran parte del progresso in quest’area è dovuto a John Rawls, che ha rivoluzionato lo studio della filosofia politica con il suo classico lavoro A Theory of Justice9. Ma quando si tratta di scienza politica, le categorie non superano di molto il livello del giornalismo. Quindi se, ad esempio, si legge un lavoro in scienza politica di vent’anni fa, si vedrà che la gran parte della discussione è obsoleta. Quello di cui abbiamo bisogno, credo, è sviluppare un insieme di categorie che ci consentano di valutare la realtà sociale in un modo che sia più astratto del giornalismo politico quotidiano, ma allo stesso tempo che ci permettano di domandare e rispondere a specifiche domande su specifiche realtà politiche e sulle istituzioni in un modo in cui la tradizionale filosofia politica non era in grado di fare. Così, ad esempio, penso che il principale evento politico del XX secolo sia stato il fallimento delle ideologie come il fascismo e il comunismo, e in particolare il fallimento del socialismo nelle sue varie forme. La cosa interessante dal punto di vista della presente analisi è che non abbiamo categorie tramite cui porre e rispondere alle domande che riguardano il fallimento del socialismo. Ci sono diverse definizioni di “socialismo”, ma hanno tutte una cosa in comune: un sistema può solo essere socialista se ha la proprietà pubblica e il controllo dei mezzi di produzione di base. Il fallimento del socialismo così definito è lo sviluppo sociale più significativo del XX secolo. È un fatto sorprendente che tale sviluppo rimanga non analizzato e sia discusso raramente dai filosofi politici e sociali del nostro tempo. Quando parlo del fallimento del socialismo, mi riferisco non solo al fallimento del socialismo marxista, ma anche al fallimento del socialismo democratico quale è esistito nei Paesi dell’Europa occidentale. I 9 John Rawls, A Theory of Justice, Harvard University Press, 1971; trad. it. Una teoria della giustizia, a cura di Sebastiano Maffettone, Feltrinelli, 2017.

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partiti socialisti di quei Paesi continuano a usare parte del vocabolario del socialismo, ma la fede nel meccanismo fondamentale del cambiamento socialista, vale a dire la proprietà pubblica e il controllo dei mezzi di produzione, è stata sommessamente abbandonata. Qual è la corretta analisi filosofica di questo intero fenomeno? Una simile domanda comporterebbe la valutazione delle istituzioni nazionali. Dunque, ad esempio, per la gran parte degli scienziati politici sarebbe molto difficile tentare di analizzare l’arretratezza, la corruzione e il generale carattere spaventoso delle istituzioni politiche di molti Stati-nazione contemporanei. Molti scienziati politici, dato il loro impegno per l’“oggettività scientifica” e le limitate categorie a loro disposizione, non possono nemmeno tentare di descrivere quanto terribili e spaventosi siano molti Paesi. Questi hanno istituzioni politiche apparentemente desiderabili come una Costituzione scritta, dei partiti politici, delle libere elezioni, ecc., eppure il modo in cui operano è intrinsecamente corrotto. Possiamo discutere di queste istituzioni a un livello molto astratto e Rawls e altri ci hanno fornito gli strumenti per farlo. Ma io vorrei una filosofia sociale più ampia che ci fornisca gli strumenti per analizzare le istituzioni sociali così come esistono nelle società reali in un modo che ci permetta di formulare giudizi comparativi fra Paesi diversi e società ampie, senza arrivare a un livello tale di astrazione per cui non si possono esprimere giudizi di valore specifici riguardo a specifiche strutture istituzionali. Il lavoro dell’economista-filosofo Amartya Sen rappresenta un contributo in questa direzione. 5. Etica e ragion pratica Per gran parte del XX secolo il tema dell’etica è stato dominato da una versione dello stesso scetticismo che ha riguardato per molti secoli altri rami della filosofia. Proprio come la filosofia del linguaggio è stata danneggiata dal desiderio di trattare gli utenti del linguaggio come ricercatori impegnati nel compito epistemico di provare a capire cosa voglia dire il parlante di un linguaggio, così l’etica è stata ossessionata dal problema dell’oggettività epistemica. La principale questione in etica è stata verificare se possa esservi, o no, oggettività etica. La prospettiva tradizionale in filosofia analitica era che l’oggettività etica fosse

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impossibile, che non si potesse – nei termini di Hume – derivare un “dover essere” da un “essere”, e dunque che le affermazioni etiche non potessero essere vere o false, ma che funzionassero solo per esprimere sentimenti o per influenzare i comportamenti, ecc. La via d’uscita dalla sterilità di questi dibattiti non è, a mio avviso, provare a dimostrare che le affermazioni etiche sono vere o false nel modo in cui, per esempio, sono vere o false le affermazioni scientifiche, perché ci sono evidentemente differenze significative fra i due tipi di affermazioni. La via d’uscita da questa impasse, io credo, è capire che l’etica è davvero un ramo di una materia molto più interessante che riguarda la ragion pratica e la razionalità. Qual è la natura della razionalità in generale e che cosa significa agire razionalmente seguendo una ragione per agire? Questo, a mio avviso, è un approccio molto più fruttuoso rispetto alla tradizionale preoccupazione verso l’oggettività delle affermazioni etiche. Qualcosa di simile allo studio della razionalità, come seguito dell’etica come era tradizionalmente costruita, sembra essere già in corso. Attualmente ci sono, ad esempio, una serie di tentativi di far rivivere la dottrina kantiana dell’imperativo categorico. Kant pensava che la natura stessa della razionalità ponesse determinati vincoli formali su ciò che poteva essere considerata una ragione accettabile per agire. Non penso che questi sforzi porteranno a un qualche risultato, ma più interessante del loro successo o fallimento è il fatto che l’etica come branca della filosofia – liberata dall’ossessione epistemica per trovare una forma di oggettività, e l’inevitabile scetticismo quando fallisce la ricerca di oggettività – sembra ora nuovamente possibile. Non sono sicuro di quali siano le ragioni del cambiamento, ma la mia impressione è che, più di ogni altro singolo fattore, il lavoro di Rawls non solo ha fatto rivivere la filosofia politica, ma ha fatto sembrare possibile l’etica sostanziale. 6. La filosofia della scienza Nel XX secolo, il che non sorprende, la filosofia della scienza ha condiviso l’ossessione epistemica del resto della filosofia. Le principali questioni della filosofia della scienza, almeno per la prima metà del secolo, riguardavano la natura della verificazione scientifica, e molti sforzi furono dedicati a superare vari paradossi dello scetticismo, come il tradizionale problema dell’induzione. Per gran parte del XX

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secolo la filosofia della scienza è stata condizionata dalla fiducia nella distinzione fra proposizioni analitiche e sintetiche. Nella concezione standard della filosofia della scienza gli scienziati miravano a ottenere verità sintetiche contingenti nella forma di leggi scientifiche universali. Queste leggi affermavano verità molto generali sulla natura della realtà, e la questione principale in filosofia della scienza aveva a che fare con la natura della loro prova e verifica. L’ortodossia prevalente, come sviluppata nei decenni centrali del secolo, era quella per cui la scienza procede tramite un meccanismo detto “metodo ipotetico-deduttivo”. Gli scienziati formulano un’ipotesi, ne deducono conseguenze logiche e poi testano quelle conseguenze attraverso degli esperimenti. Questa concezione è stata articolata, credo più o meno indipendentemente, da Karl Popper e Carl Gustav Hempel. Gli scienziati interessati in filosofia della scienza hanno tendenzialmente ammirato le visioni di Popper, ma molta della loro ammirazione era basata su un’incomprensione. Ciò che credo ammirassero in Popper era l’idea che la scienza proceda per azioni di originalità e immaginazione. Lo scienziato deve formarsi un’ipotesi sulla base della propria immaginazione e delle proprie congetture. Non esiste un “metodo scientifico” per ottenere delle ipotesi. La procedura dello scienziato è dunque di mettere alla prova le ipotesi con esperimenti e di rigettare quelle che vengono confutate. La maggioranza degli scienziati, a mio avviso, non realizza quanto le opinioni di Popper siano effettivamente antiscientifiche. Nella concezione di Popper della scienza e dell’attività degli scienziati, la scienza non è un’accumulazione di verità relative alla natura, e lo scienziato non arriva a ottenere delle verità sulla natura, ma piuttosto quel che abbiamo nelle scienze sono una serie di ipotesi finora non confutate. Ma l’idea che lo scienziato miri alla verità, e che in varie scienze abbiamo in effetti un’accumulazione di verità, che penso sia il presupposto della gran parte dell’attuale ricerca scientifica, non è coerente con la concezione di Popper10. La confortevole ortodossia della scienza come accumulazione di verità, o persino come progressione graduale di ipotesi ancora non confutate, è stata messa in discussione dalla pubblicazione del testo 10 Per una critica interessante della prospettiva di Popper si veda David Stove, Against the Idols of the Age, Transaction, 1999.

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The Structure of Scientific Revolutions di Thomas Kuhn nel 196211. È  sorprendente che il libro di Kuhn abbia avuto il suo incredibile effetto dal momento che non tratta in senso stretto di filosofia della scienza, ma di storia della scienza. Kuhn sostiene che, se si guarda la reale storia della scienza, si scopre che essa non è un’accumulazione progressiva e graduale di conoscenze sul mondo, ma che la scienza è soggetta a periodiche, enormi rivoluzioni, in cui intere visioni del mondo sono rovesciate da un nuovo paradigma. Quel che è caratteristico del libro di Kuhn è che quest’ultimo implica, sebbene per quanto ne sappia non lo affermi mai esplicitamente, che lo scienziato non ci consegna delle verità sul mondo, ma solo una serie di modi di risolvere degli enigmi, una serie di modi di gestire problemi enigmatici all’interno di un paradigma. E quando il paradigma raggiunge enigmi che non può risolvere, è rovesciato e un nuovo paradigma prende il suo posto, e questo a sua volta scatena una nuova serie di attività volte a risolvere dubbi, misteri o enigmi. Dal punto di vista di questa discussione, la cosa interessante del testo di Kuhn è che l’autore sembra implicare che non ci avviciniamo progressivamente alla verità sulla natura nelle scienze naturali, ma otteniamo solo una serie di meccanismi utili a risolvere degli enigmi. Lo scienziato si muove fondamentalmente da un paradigma a un altro, per ragioni che non hanno nulla a che vedere con il fornire una descrizione accurata di una realtà naturale che esiste indipendentemente, ma piuttosto per ragioni che sono più o meno irrazionali. Il libro di Kuhn non fu molto ben accolto dagli scienziati praticanti, ma ebbe un enorme effetto in molte discipline umanistiche, soprattutto in quelle legate allo studio della letteratura. Kuhn sembrava aver rifiutato l’affermazione per cui la scienza ci consegna delle verità sul mondo; piuttosto la scienza non ci consegna più verità sul mondo di quanto non facciano i lavori di finzione letteraria o di critica letteraria. La scienza è essenzialmente un insieme di processi irrazionali con cui gruppi di scienziati formano delle teorie che sono costruzioni sociali più o meno arbitrarie, e poi le abbandonano a favore di altre teorie, che sono a loro volta dei costrutti sociali ugualmente arbitrari. 11 Thomas Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, 1962; trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee della scienza, Einaudi, 1969.

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Qualunque fosse l’intenzione di Kuhn, penso che il suo effetto sulla cultura generale, anche se non direttamente sul lavoro dei veri scienziati, sia stato sfortunato, perché è servito a “smitizzare” la scienza, a “demistificarla”, a provare che essa non è ciò che la gente comune ha sempre creduto che fosse. Kuhn ha preparato il campo per la visione ancora più radicale di Paul Feyerabend, che ha sostenuto che, per quanto riguarda la possibilità di consegnarci delle verità sul mondo, la scienza non è meglio della stregoneria. La mia personale visione è che tali questioni siano completamente periferiche rispetto a ciò di cui dovremmo preoccuparci in filosofia della scienza, e rispetto a ciò a cui vorrei che dedicassimo in nostri sforzi durante il XXI secolo. Penso che il problema essenziale sia questo: la scienza del XX secolo ha radicalmente messo in discussione un insieme di supposizioni sia filosofiche sia di senso comune molto pervasive e potenti sulla natura, e semplicemente non abbiamo digerito i risultati di questi avanzamenti scientifici. Penso in particolare alla meccanica quantistica. Penso che possiamo assimilare la teoria della relatività più o meno agevolmente, perché questa può essere interpretata come un’estensione della nostra tradizionale concezione newtoniana del mondo. Dobbiamo semplicemente rivedere le nostre idee di spazio e tempo e la loro relazione con alcune costanti fisiche fondamentali come la velocità della luce. Ma la meccanica quantistica pone davvero una sfida fondamentale alla nostra visione del mondo, e semplicemente non l’abbiamo ancora digerita. Considero uno scandalo che i filosofi della scienza, inclusi i fisici con un interesse in filosofia della scienza, non ci abbiano ancora fornito un resoconto coerente di come la fisica quantistica si adatti alla nostra concezione dell’universo, non solo per quanto riguarda i nessi di causalità e la determinazione, ma anche per quanto riguarda l’ontologia del mondo fisico. La maggior parte dei filosofi, come la maggior parte delle persone erudite al giorno d’oggi, ha una concezione della causalità che è un misto di senso comune e meccanica newtoniana. I filosofi tendono a supporre che le relazioni causali siano sempre casi specifici di rigide leggi causali deterministiche, e che le relazioni di causa ed effetto stiano fra loro in semplici rapporti meccanici come le ruote di un ingranaggio che muovono altre ruote di un ingranaggio, e come in altri simili fenomeni newtoniani. Sappiamo a un livello astratto che

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questa immagine non è corretta, ma ancora non abbiamo sostituito la nostra concezione di senso comune con una concezione scientifica più sofisticata. Penso che affrontare questi problemi sia una delle imprese più entusiasmanti per la filosofia della scienza nel XXI secolo. Dobbiamo fornire un resoconto della teoria fisica, specialmente della teoria quantistica, che ci permetta di associare i risultati della fisica a una visione coerente e comprensiva del mondo. Penso che nel corso di questo progetto dovremo rivedere alcune nozioni cruciali, come quella di causazione; e questa revisione avrà effetti molto importanti su altre questioni come quelle che riguardano il determinismo e il libero arbitrio. Questo lavoro è già iniziato. Conclusione Il messaggio principale che ho cercato di trasmettere è che ora è possibile fare un nuovo tipo di filosofia. Con l’abbandono del pregiudizio epistemico rispetto alla materia, questa filosofia può andare ben oltre quanto immaginato dalla filosofia di mezzo secolo fa. Non inizia con lo scetticismo, ma con quanto sappiamo del mondo reale. Inizia con quel tipo di fatti come quelli affermati dalla teoria atomica della materia e la teoria evoluzionista in biologia, e anche con questioni di “senso comune” come il fatto che siamo tutti coscienti, che abbiamo tutti realmente degli stati mentali intenzionali, che formiamo dei gruppi sociali e creiamo dei fatti istituzionali. Questa filosofia è teoretica, comprensiva, sistematica e universale nella materia trattata12.

12 Questo articolo è la revisione di The Future of Philosophy, che è stato scritto per un pubblico scientifico e non filosofico ed è stato pubblicato in un numero speciale di inizio millennio delle Philosophical Transactions of the Royal Society, serie B, vol. 354, 1999, pp. 2069-2080. Sono in debito con Dagmar Searle per aver discusso con me tutti questi problemi.

2. Ontologia sociale: alcuni principi fondamentali

Il problema dell’ontologia sociale L’obiettivo di questo capitolo è esplorare il problema dell’ontologia sociale. La forma di questa esplorazione è uno sviluppo dell’argomento che ho presentato in The Construction of Social Reality1. Riassumerò alcuni dei risultati di quel libro per poi elaborare ulteriormente le mie idee. Prima di tutto, perché esiste un problema relativo all’ontologia sociale? Stiamo parlando del modo di esistenza di oggetti sociali come gli Stati Uniti d’America, la squadra di football americano dei San Francisco 49ers, l’Università della California e la Squaw Valley Property Owners Association, così come di istituzioni più di larga scala come il denaro o la proprietà privata. Stiamo inoltre parlando dei fatti sociali, come il fatto che sono un cittadino degli Stati Uniti, che il pezzo di carta che tengo in mano è una banconota da venti dollari, e che la Francia è membro dell’Unione Europea. Stiamo anche parlando di processi sociali ed eventi, come la campagna per l’elezione presidenziale, il collasso del comunismo e le ultime World Series. Stiamo parlando, in breve, di fatti sociali, oggetti sociali, processi sociali ed eventi. Ripetendo la domanda, dunque, perché c’è un problema riguardo a questi fenomeni? Il problema emerge in varie forme, ma una è la seguente: sappiamo che il mondo consiste interamente di particelle fisiche in campi di 1 John R. Searle, The Construction of Social Reality, cit.

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forza (o qualunque cosa ci venga indicata come l’ultima particella di materia dalla più recente ricerca in fisica) e che queste particelle sono organizzate in sistemi e che alcuni dei sistemi basati sulla fisica del carbone si sono evoluti in un periodo di oltre cinque miliardi di anni in un numero molto ampio di specie animali e vegetali, fra cui noi umani siamo una delle specie che hanno coscienza e intenzionalità. La nostra domanda, nella sua forma più ampia e ingenua, è: come possono animali come gli esseri umani creare una realtà “sociale”? Come possono creare una realtà fatta di denaro, proprietà, governo, matrimonio e – forse la cosa più importante – linguaggio? Una caratteristica particolarmente misteriosa della realtà sociale è che essa esiste soltanto perché pensiamo che esista. È un fatto oggettivo che il pezzo di carta che ho in mano sia una banconota da venti dollari, o che sono un cittadino degli Stati Uniti, o che ieri i Giants abbiano battuto gli Athletics 3-2 in una partita di baseball. Questi sono tutti fatti oggettivi nel senso che non dipendono dalla mia opinione. Se sono convinto del contrario, mi sto semplicemente sbagliando. Ma questi fatti oggettivi esistono solo in virtù della accettazione collettiva o di un riconoscimento. Che cosa significa? Che cosa significa “accettazione collettiva o riconoscimento”? Una distinzione assolutamente fondamentale che dobbiamo fare prima ancora di poter iniziare a discutere questi temi è quella fra le caratteristiche della realtà che esistono indipendentemente da noi, caratteristiche che chiamerò indipendenti dall’osservatore, e quelle caratteristiche che dipendono da noi per la loro esistenza, che chiamerò relative all’osservatore. Esempi di fenomeni indipendenti dall’osservatore sono la forza, la massa, l’attrazione gravitazionale, il legame chimico, la fotosintesi, il sistema solare, le placche tettoniche. Esempi di fatti dipendenti dall’osservatore sono il tipo di esempi che ho menzionato prima, come il fatto che sono cittadino degli Stati Uniti, che una partita di baseball si gioca con nove giocatori da un lato, e che gli Stati Uniti d’America contengono cinquanta Stati. Grosso modo, possiamo dire che le scienze sociali riguardano fatti dipendenti dall’osservatore e che le scienze naturali riguardano fatti indipendenti dall’osservatore. Un semplice test alla buona per capire se un fatto è dipendente dall’osservatore oppure no è il seguente: avrebbe potuto esserci se non ci fossero stati agenti coscienti del tutto? Se il

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fatto avrebbe potuto verificarsi anche se non ci fossero mai stati esseri umani o altri agenti dotati di coscienza – per esempio il fatto che c’è attrazione gravitazionale fra la terra e la luna – allora si tratta di un fatto indipendente dall’osservatore. Se, tuttavia, il fatto richiede la presenza di agenti coscienti per la sua esistenza – nel modo in cui fatti relativi al denaro, la proprietà, il governo e il matrimonio richiedono la presenza di agenti coscienti – allora è quantomeno possibile che il fatto sia relativo all’osservatore. Ho detto che si tratta di un test alla buona. La ragione per cui questo test non è sufficiente in questa forma è che l’esistenza della coscienza e dell’intenzionalità, su cui i fatti dipendenti dall’osservatore si basano per la loro esistenza, è a sua volta un fenomeno indipendente dall’osservatore. Il fatto che il pezzo di carta davanti a me sia una banconota da venti dollari è dipendente dall’osservatore; quel fatto esiste solo in relazione alle disposizioni dei partecipanti rispetto alle azioni del comprare, del vendere e via dicendo. Ma le disposizioni e gli atteggiamenti che queste persone hanno non sono relativi all’osservatore. Sono indipendenti dall’osservatore. Credo che valga la pena affrontare questo problema accuratamente. Il pezzo di carta nella mia mano è una banconota da venti dollari. Quale fatto fa sì che un pezzo di carta sia considerato una banconota da venti dollari? Le sue composizioni fisiche e chimiche non sono sufficienti. Se volessimo entrare nei dettagli, dovrebbe essere ricostruita una complessa storia dell’istituto giuridico a partire dalle competenze del governo statunitense, del ministero del Tesoro e del Bureau of Engraving and Printing. Ma un elemento cruciale di questa storia sono gli atteggiamenti delle persone coinvolte. Per dirla in parole povere, una condizione necessaria del suo essere denaro è che la gente deve volere e pensare che sia denaro. Perciò la sua esistenza in quanto denaro è relativa all’osservatore. Ma che dire degli atteggiamenti e delle disposizioni individuali? Supponiamo che ora io pensi: “Questa è una banconota da venti dollari”. Quella disposizione verso l’oggetto e molte altre simili sono costitutive del fatto dipendente dall’osservatore per cui oggetti di questo tipo sono denaro. Ma le disposizioni degli osservatori non sono esse stesse relative all’osservatore. Io posso pensare che sia denaro indipendentemente dal fatto che gli altri pensino che io penso che sia denaro. Quindi l’esistenza dei fenomeni sociali dipendenti dall’osservatore è creata da un insieme di fenomeni

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mentali indipendenti dall’osservatore e il nostro compito è spiegare la natura di quella creazione. Si potrebbe pensare che questi problemi siano stati risolti molto tempo fa perché disponiamo, dopotutto, di una tradizione piuttosto risalente di dibattiti sulle questioni fondative nelle scienze sociali e siamo, di conseguenza, indebitati nei confronti dei grandi fondatori delle scienze sociali come Max Weber, Georg Simmel, Émile Durkheim e Alfred Schütz. Prima di loro abbiamo avuto grandi filosofi come David Hume, Jean-Jacques Rousseau e Adam Smith – si potrebbe continuare la lista fino alla Politica di Aristotele. Cosa possiamo ancora aggiungere a questa grande tradizione? C’è una grave debolezza in tutte le discussioni classiche sull’esistenza della realtà sociale: che tutti i pensatori appena menzionati hanno dato il linguaggio per scontato. Weber, Schütz, Simmel e Durkheim presuppongono tutti l’esistenza del linguaggio e dunque, dato il linguaggio, si interrogano sulla natura della società. E sono in ottima compagnia perché la tendenza a presupporre il linguaggio nella discussione dei fondamenti della società risale ad Aristotele. È, ad esempio, un fatto straordinario dei teorici del contratto sociale che questi abbiano presupposto una comunità di esseri umani che avevano un linguaggio e che si sono poi uniti per stipulare un contratto originale che ha fondato la società. Vorrei dire che se si condivide un linguaggio comune e se si è coinvolti in conversazioni in quel linguaggio comune, si ha già un contratto sociale. La considerazione standard che presuppone il linguaggio e poi tenta di spiegare la società è al contrario. Non si può iniziare a comprendere ciò che è speciale nella società umana, come differisce dalle società primitive e da altre società animali, se non si comprendono prima alcune caratteristiche peculiari del linguaggio umano. Il linguaggio è il presupposto dell’esistenza di altre istituzioni sociali in un modo tale per cui queste non sono il presupposto del linguaggio. Questo punto può essere affermato con precisione. Istituzioni come il denaro, la proprietà, il governo e il matrimonio non possono esistere senza il linguaggio, ma il linguaggio può esistere senza di loro. Ora, si potrebbe pensare che questa lacuna sia stata ormai superata nel XXI secolo visto che diversi teorici della sociologia hanno avuto una certa sensibilità verso il problema del linguaggio. Oltre alla ricca tradizione dell’antropologia linguistica, abbiamo i recenti lavori dei teorici del-

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le scienze sociali, specialmente Bourdieu e Habermas, e forse anche Foucault. Ma temo che anche loro diano per scontato il linguaggio. Bourdieu, seguendo Foucault, afferma correttamente che le persone in grado di controllare le categorizzazioni linguistiche comuni in una società hanno molto potere in quella società, e Habermas sottolinea l’importanza degli atti linguistici e della comunicazione umana nel produrre coesione sociale. Ma, nuovamente, tutti e tre non vedono il ruolo essenzialmente costitutivo del linguaggio. Quest’ultimo non serve solo per categorizzare e quindi per darci potere, à la Bourdieu, e non funziona solo, o persino primariamente, per permetterci di raggiungere accordi razionali, à la Habermas. Ha invece funzioni molto più basilari e fondamentali, di cui mi occuperò fra poco. Ancora un’ultima distinzione prima di metterci al lavoro. La nostra cultura considera moltissimo la distinzione fra oggettività e soggettività, ma questa distinzione è sistematicamente ambigua fra un senso epistemico e un senso ontologico. Se dico “Rembrandt è nato nel 1606”, quell’affermazione è epistemicamente oggettiva. Può essere accertata come vera o falsa indipendentemente dalle attitudini e disposizioni degli osservatori. Ma se dico “Rembrandt è stato un pittore migliore di Rubens”, quell’affermazione è, come si dice, “questione di opinioni”. È “soggettiva”. Ma oltre alla distinzione fra oggettività e soggettività epistemica – e in un certo senso nel fondamento della distinzione fra oggettività e soggettività epistemica – c’è una distinzione ontologica fra soggettività ontologica e oggettività ontologica. Montagne, molecole e placche tettoniche hanno un’esistenza indipendente dalle disposizioni e dai sentimenti degli osservatori. Ma i dolori, il solletico, il prurito, le emozioni e pensieri hanno un modo di esistenza che è ontologicamente soggettivo nel senso che esistono solo se di questi fanno esperienza dei soggetti umani o animali. Ora, l’importanza di questa distinzione per il nostro discorso è la seguente: il fatto, ad esempio, che George W. Bush è presidente degli Stati Uniti, e il fatto, per esempio, che il pezzo di carta che ho in mano è una banconota da venti dollari sono fatti epistemicamente oggettivi. Ma la cosa importante da sottolineare è che tali fatti sociali istituzionali possono essere epistemicamente oggettivi anche se gli atteggiamenti umani sono parte del loro modo di esistenza. Cioè, la relatività rispetto all’osservatore implica la soggettività ontologica ma la soggettività

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ontologica non preclude l’oggettività epistemica. Possiamo avere una conoscenza epistemicamente oggettiva del denaro e delle elezioni anche se il tipo di fatti sui quali si ha una conoscenza epistemicamente oggettiva sono tutti ontologicamente soggettivi, almeno in una misura che è necessario specificare. Riassumiamo dunque dove siamo arrivati finora. Ci serve la distinzione tra fatti relativi all’osservatore e fatti indipendenti dall’osservatore. Ci serve anche una distinzione tra oggettività e soggettività epistemica da un lato e oggettività e soggettività ontologica dall’altro lato. La maggioranza dei fenomeni che discutiamo, come il denaro, i governi, le partite di football – sono relativi all’osservatore. Ma allo stesso tempo contengono elementi di disposizioni umane indipendenti dall’osservatore, ontologicamente soggettive. Sebbene la costituzione della società comporti dunque che elementi ontologicamente soggettivi siano assolutamente essenziali per l’esistenza della società stessa, allo stesso modo la soggettività ontologica di questa sfera non ci impedisce di svilupparne una considerazione epistemicamente oggettiva. In una parola, l’oggettività epistemica non richiede l’oggettività ontologica. Se la richiedesse, le scienze sociali sarebbero impossibili. Ora, sulla base di tutte queste premesse, possiamo affermare la struttura logica fondamentale delle società umane. Qui di seguito. La struttura logica della società Le società umane hanno una struttura logica, perché le disposizioni umane sono costitutive della realtà sociale in questione e hanno contenuti proposizionali con relazioni logiche. Il nostro problema è chiarire tali relazioni. Ora, questo obiettivo potrebbe scoraggiarci. Le società umane sono immensamente varie e complesse. Se c’è una cosa che abbiamo ereditato dall’antropologia culturale del secolo scorso, è che c’è un’enorme varietà di diversi modi di esistenza sociale. La tesi che sosterrò e proverò a giustificare è che – sebbene ve ne sia una enorme varietà – i principi sottostanti la costituzione della realtà sociale sono abbastanza pochi. Quel che si scopre andando dietro la superficie dei fenomeni della realtà sociale è una struttura logica relativamente semplice, sebbene le manifestazioni nella realtà sociale

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vera e propria nei partiti politici, negli eventi sociali, e nelle transazioni economiche siano immensamente complicati. L’analogia con le scienze naturali è ovvia. C’è un’enorme differenza nell’apparenza fisica di un falò e di una vanga arrugginita, ma il principio sottostante in ciascun caso è esattamente lo stesso: l’ossidazione. Analogamente, ci sono enormi differenze fra le partite di baseball, le banconote da venti dollari e le elezioni nazionali, ma la struttura logica di base è la stessa. Tutte e tre consistono nell’imposizione di funzioni di status tramite intenzionalità collettiva, una questione che a breve spiegherò più nel dettaglio. Per descrivere la struttura fondamentale della realtà socio-istituzionale ci servono esattamente tre elementi: l’intenzionalità collettiva, l’assegnazione di una funzione e le regole costitutive e le procedure. (Qui sarò molto rapido perché ripeto cose che ho discusso altrove). In primo luogo, gli esseri umani hanno una capacità notevole, che hanno anche molte altre specie, ed è quella di impegnarsi in comportamenti cooperativi e di condividere le proprie disposizioni con i propri simili. Gli esseri umani possono collaborare in vari modi e basta osservare qualche tipica interazione umana per capirlo. Due persone che sostengono una conversazione, un’orchestra che suona una sinfonia, due squadre che giocano a football – sono tutti esempi di comportamento cooperativo. Voglio introdurre un termine tecnico per definire questi esempi. Il termine che uso è intenzionalità collettiva. E ora spiegherò questo termine. “Intenzionalità” è la parola che i filosofi usano per descrivere quella caratteristica delle nostre menti per cui gli stati mentali sono diretti verso oppure sono relativi a oggetti o situazioni nel mondo. Quindi, per esempio, se ho una convinzione deve essere una convinzione che le cose siano in un certo modo; se ho un desiderio deve essere un desiderio che le cose vadano in un certo modo. L’intenzionalità, in questo senso tecnico, include non solo l’atto di intendere nel senso ordinario, per il quale io potrei intendere di andare al cinema, ma anche le credenze, le speranze, i desideri, le emozioni, le percezioni, e molto altro. Oltre all’intenzionalità individuale, descritta in prima persona singolare da espressioni come “io desidero”, “io credo”, “io intendo”, c’è anche l’intenzionalità collettiva, che è descritta da espressioni come “noi crediamo”, “noi desideriamo”, “noi intendiamo”.

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L’azione intenzionale collettiva è particolarmente importante in ogni teoria della società. In questi casi, io faccio qualcosa solo come parte di un nostro più ampio “fare qualcosa”. Ad esempio, suono il violino come parte del nostro suonare una sinfonia. Lancio una palla come parte della nostra partita di baseball. L’intenzionalità collettiva è l’intenzionalità condivisa da varie persone e, proprio come possono esserci intenzioni condivise a fare delle cose, così ci possono essere credenze e desideri condivisi. La congregazione della Chiesa, ad esempio – secondo il Credo di Nicea – esprime convinzioni condivise e una fede comune. È comune nella filosofia sociale, e forse anche nelle scienze sociali, l’uso della nozione di “intersoggettività”. Non ho mai visto una spiegazione chiara del concetto di intersoggettività e dunque non utilizzerò questa nozione. Ma userò “intenzionalità collettiva” per provare a descrivere la componente intenzionalistica della società e sospetto che se l’intersoggettività è una nozione legittima, essa deve equivalere all’intenzionalità collettiva. Io sono fiducioso sul fatto che l’intenzionalità collettiva sia un fenomeno biologico genuino e, sebbene sia complesso, non è misterioso o inspiegabile. Ho provato ad affrontarne alcuni elementi di complessità in altri lavori2. L’intenzionalità collettiva è il presupposto psicologico di tutta la realtà sociale e, infatti, definisco un fatto sociale come ogni fatto che coinvolga l’intenzionalità collettiva di due o più agenti umani o animali. Dunque, seguendo questa definizione, sia un branco di lupi che cacciano insieme, sia una Corte Suprema che prende una decisione sono casi di intenzionalità collettiva e dunque casi di fatti sociali. Il problema principale in questo mio testo è spiegare come fenomeni sociali a carattere istituzionale, quali la Corte Suprema che prende una decisione, superino la struttura dell’ontologia sociale presente negli animali sociali. Il problema interessante non emerge con i fatti sociali ma con quei fatti istituzionali che coinvolgono il denaro, i governi, i partiti politici e le transazioni economiche. I fatti istituzionali sono una sottocategoria dei fatti sociali. 2 John R. Searle, Collective Intentions and Actions, in Philip R. Cohen, Jerry Morgan, Martha E. Pollack (a cura di), Intentions in Communication (mit Press), 1990, pp. 401-415, ristampato in John R. Searle, Consciousness and Language, Cambridge University Press, 2002; trad. it. Coscienza e linguaggio, Bollati Boringhieri, 2010.

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La seconda nozione fondamentale di cui abbiamo bisogno è quella che riguarda l’assegnazione di funzioni. Gli esseri umani, e alcuni animali, hanno la capacità di assegnare delle funzioni agli oggetti, là dove l’oggetto non ha una funzione intrinsecamente ma solo in virtù di un’assegnazione collettiva. Tutte le funzioni sono relative all’osservatore. Qualcosa ha una funzione solo relativamente alle disposizioni di esseri umani o di altri animali. Siamo accecati rispetto a questo dal fatto che in biologia scopriamo frequentemente delle funzioni in natura. Ma quando scopriamo, per esempio, che la funzione del cuore è pompare il sangue, possiamo fare quella scoperta solo nel quadro di una teleologia presupposta. È perché diamo valore alla vita e alla sopravvivenza che diciamo che la funzione del cuore è pompare il sangue. Se pensassimo che la cosa più importante dell’universo è glorificare Dio emettendo un rumore martellante, allora la funzione del cuore sarebbe fare un rumore martellante. Se pensassimo che la morte e l’estinzione sono cose che hanno valore sopra ogni altra cosa, allora i cuori sarebbero disfunzionali e il cancro avrebbe una funzione importante. Molte persone non sono d’accordo con me sul fatto che tutte le funzioni sono relative all’osservatore, ma l’argomento che mi sembra decisivo è che la nozione di funzione contiene una componente normativa che non è contenuta nella nozione di causa. In parole povere, le funzioni sono cause che servono a uno scopo. E da dove provengono gli scopi? In ogni caso per l’argomento principale del presente testo non è essenziale il fatto che le funzioni siano relative all’osservatore, sebbene io lo noti di sfuggita. Finora, dunque, abbiamo visto due elementi – l’intenzionalità collettiva e l’assegnazione di una funzione. È semplice vedere come questi possono essere combinati. Se una persona usa un ceppo d’albero come sedia, un gruppo di persone può usare un tronco come panchina. L’intenzionalità collettiva permette l’assegnazione collettiva di una funzione. Ma è il prossimo passaggio a distinguere gli esseri umani da altre specie. A volte l’assegnazione collettiva di una funzione è imposta a una persona o a un oggetto quando la funzione non è svolta in virtù delle caratteristiche fisiche di quella persona o di quell’oggetto, ma piuttosto in virtù del fatto che l’intenzionalità collettiva assegna un

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certo status a quella persona o a quell’oggetto e che lo status permette alla persona o all’oggetto di svolgere una funzione che non potrebbe essere svolta senza l’accettazione collettiva di quello status. Un esempio ovvio è il denaro. Il pezzo di carta nella mia mano, a differenza del coltello che ho in tasca, svolge in effetti una funzione, non in virtù della propria struttura fisica ma in virtù di alcune disposizioni collettive. Il coltello ha una struttura fisica che gli consente di tagliare e di svolgere altre funzioni proprie di un oggetto tagliente, ma il denaro non ha una tale struttura fisica. La struttura fisica è più o meno irrilevante, posto solamente che risponda a certe condizioni generali (come l’essere facilmente riconoscibile in quanto denaro, facilmente trasportabile, difficile da contraffare e così via). Vorrei illustrare il passaggio dall’assegnazione di funzioni a ciò che definisco funzione di status con una parabola. Supponiamo che una comunità costruisca un muro attorno alle sue abitazioni. Il muro ora ha una funzione assegnata collettivamente e può svolgerla in funzione della propria struttura. Ma supponiamo che il muro gradualmente si deteriori finché l’ultima cosa che resta è una linea di pietre. Supponiamo inoltre che le persone continuino a riconoscere la linea di pietre come una linea di confine e continuino ad accettare il fatto che non si debba attraversare. La linea svolge la funzione che era del muro, non in virtù della propria struttura fisica ma in virtù dell’accettazione collettiva del fatto che la linea di pietre ora ha un certo status e con quello status ha una funzione che può essere svolta soltanto in virtù dell’accettazione collettiva di quello status. Vorrei che questa tesi suonasse come piuttosto innocua e inoffensiva, ma penso che si tratti della questione decisiva che distingue gli esseri umani da altri animali. È questo meccanismo – tramite il quale creiamo funzioni di status – a segnare la differenza fra la realtà sociale in generale e ciò che chiamo realtà istituzionale. Le istituzioni umane sono una questione di funzioni di status. Ho cercato di enunciare la forma logica dell’assegnazione di una funzione di status quando questa diventa regolare, e diventa quindi relativa a una regola, come la regola costitutiva che ha la formula per cui X conta come Y, o più comunemente X conta come Y nel contesto C. Quindi, questo e quello contano come una banconota da venti dollari nella nostra società. George W. Bush conta come presidente degli Stati Uniti. Questa o quella mossa negli scacchi contano come

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una mossa del cavallo. Questa o quella posizione contano come scacco, e questa o quella mossa come scacco matto. Tutte queste sono trasposizioni della regola X conta come Y nel contesto C. Ora, si potrebbe pensare che se questo è tutto quel che c’è nella realtà istituzionale, se questo è ciò che ci distingue dalle bestie inferiori, allora non sembra che questa regola ci porti molto lontano. Ma essa ha due proprietà formali che sono veramente notevoli. In primo luogo, può essere ripetuta all’infinito. Dunque, fare questo o quel suono conta come pronunciare una frase in inglese, e pronunciare questa o quella frase in inglese conta come fare una promessa, e pronunciare questa o quella promessa conta come impegnarsi in un contratto. Notiamo che cosa avviene in questi casi. Al livello più basso, X1 conta come Y1, ma a un livello superiore, Y1 = X2 conta come Y2. E Y2 = X3 conta come Y3 e così via risalendo in maniera indefinita. Inoltre, la struttura non si ripete soltanto verso l’alto, ma si espande anche lateralmente, altrettanto indefinitamente. Non abbiamo solo un fatto istituzionale ma abbiamo una serie di fatti istituzionali intrecciati fra loro. Dunque, non ho soltanto del denaro, ma ho del denaro sul mio conto corrente bancario in una certa istituzione finanziaria, messo lì dal mio datore di lavoro, l’Università della California, e lo uso per pagare i debiti della mia carta di credito e le mie imposte federali sul reddito. Tutte queste sono nozioni istituzionali, e l’esempio illustra il modo in cui le istituzioni sono interconnesse fra di loro. Ripetendomi, non si ha soltanto un fatto istituzionale, ma una serie di fatti istituzionali intrecciati, e quindi una serie di istituzioni intrecciate. Ma ancora, si potrebbe dire, qual è l’importanza di tutto questo? A chi importa se assegniamo tutte queste funzioni di status? La risposta è che le funzioni di status sono i veicoli del potere nella società. La cosa notevole è questa: accettiamo le funzioni di status e, nell’accettarle, accettiamo anche una serie di obbligazioni, diritti, responsabilità, doveri, autorizzazioni, permessi, requisiti, e così via. Chiamo questi, in breve, poteri deontici. Quindi, ad esempio, se qualcuno è mia moglie, se un pezzo di proprietà è la mia proprietà, se ho ricevuto una multa per il parcheggio, se sono un professore dell’Università della California, sono tutte questioni di poteri deontici sia positivi che negativi. Dunque, se questa è la mia proprietà, ho una certa autorità su di essa e mi viene richiesto dalla legge di pagare delle tasse in ragione di questa

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proprietà. Se ho ricevuto una multa per il parcheggio, ho un’obbligazione a pagarla. Non esiste niente di simile nel regno animale. Ciò che abbiamo nella società è un insieme di relazioni caratterizzate da poteri deontici. Ma, ancora una volta, ci si potrebbe porre la domanda, perché dovremmo interessarci di queste relazioni fondate sul potere deontico? A chi importa qualcosa dei miei diritti, doveri e obbligazioni? La risposta è importante: ciò che stiamo discutendo qui sono ragioni per l’azione, e riconoscere qualcosa come un diritto, un dovere, un’obbligazione, un requisito, e così via significa riconoscere una ragione per agire. Inoltre, si tratta di una specifica ragione per agire assolutamente essenziale nella società umana e che, per quanto posso dire, non esiste nel regno animale. Queste strutture deontiche rendono possibili delle ragioni per l’azione indipendenti dal desiderio. Se ho una proprietà, e le altre persone riconoscono che si tratta della mia proprietà, allora hanno ragioni indipendenti dal desiderio per non violare i miei diritti di proprietà, e lo stesso vale per gli altri diritti in senso più generale. Proviamo a comparare la territorialità degli animali con i diritti di proprietà nelle società umane. Ci sono molte differenze ma, per questa discussione, il punto cruciale è che, per quanto posso dire io, agli animali manca una deontologia, un sistema di poteri deontici. Dunque ancora una volta è questa combinazione – funzioni di status, poteri deontici e ragioni per agire indipendenti dal desiderio – a consegnarci le specifiche forme di socializzazione umane che ci permettono di distinguere gli esseri umani dagli altri animali sociali e perfino dai primati. Ora, dovremmo lasciarci stupire da questo. Gli altri primati sono geneticamente molto vicini a noi. Alla stessa maniera, c’è un’enorme differenza o, piuttosto, c’è una serie di enormi differenze, fra l’ontologia della vita sociale umana e quella degli animali3. La differenza fondamentale fra noi e gli altri animali, e questa tesi è stata sostenuta da un buon numero di filosofi – fra cui il più famoso è forse Cartesio – è che noi abbiamo un linguaggio e gli altri animali no. Tuttavia, raramente viene chiarito con precisione che cosa implichi l’avere un linguaggio. Se si leggono sociobiologi standard come Wil3 Hans Kummer, Primate Societies: Group Techniques of Ecological Adaptation, Aldine-Atherton, 1971.

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son4 o Barash5, si ha l’impressione che molte specie animali dispongono di sistemi di segni, ma che gli umani sono speciali perché hanno un sistema di segni più elaborato. Penso che si tratti di una concezione inadeguata del linguaggio. Non è questa la sede per sviluppare la mia intera teoria degli atti linguistici, ma vorrei almeno dire quanto segue. La cosa essenziale sugli esseri umani è che il linguaggio dà loro la capacità di rappresentare. Inoltre, possono rappresentare non solo ciò che è, ma ciò che sarà e ciò che vorrebbero che fosse. In modo ancora più spettacolare, possono mentire. Perciò possono rappresentare qualcosa come se fosse vero anche se credono che non lo sia. Possiamo ora affermare con un po’ più di precisione esattamente ciò che è peculiare del linguaggio nella costituzione della realtà istituzionale. La realtà istituzionale può esistere solo se viene rappresentata in quanto esistente. Qualcosa può essere denaro, una partita di football, un pezzo di proprietà privata, un matrimonio, o un governo, solo nella misura in cui viene rappresentato come tale. Perché qualcosa corrisponda a uno di questi fenomeni, deve essere pensato in un certo modo, e questi pensieri permetteranno di rappresentarlo in un certo modo. Ma la rappresentazione di questi fatti istituzionali richiede sempre un linguaggio. Ora, per quale motivo c’è questa necessità? Perché non si potrebbe semplicemente pensare che questa o quella cosa è un governo o questa e quella cosa sono una partita di football? La risposta è che in tutti questi casi non c’è altro fenomeno oltre ai fatti bruti e alla rappresentazione di un loro status istituzionale. Non c’è nulla nei nudi fatti fisici che potrebbe attribuire il contenuto semantico di cui avremmo bisogno per poter pensare che questo o quello è un governo o una partita di football. Mi spiegherò con un esempio. Il mio cane è in grado di vedere una persona con una pallina in mano che supera una linea, ma non è in grado di vedere una persona che fa un touchdown. E perché no? La sua vista non è abbastanza buona? Ha bisogno degli occhiali? Supponiamo che si decida di addestrare il cane a riconoscere i touchdown. Come potremmo fare? Potremmo addestrarlo ad abbaiare quando vede un uomo attraversare una linea 4 Edward O. Wilson, Sociobiology: A New Synthesis, Harvard University Press, 1975; trad. it. Sociobiologia. La nuova sintesi, Zanichelli, 1979. 5 David P. Barash, Sociobiology and Behavior, Elsevier, 1977; trad. it. Sociobiologia e comportamento, Franco Angeli, 1980.

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con una pallina in mano, ma perché veda un uomo fare un touchdown deve essere in grado di rappresentarsi più di questi fatti fisici. I fatti fisici che il cane può vedere e i fatti fisici che vedo io sono esattamente gli stessi. Quel che ho io, e che il cane non ha, è la capacità di rappresentare quegli stessi fatti in un certo modo, di rappresentarli come esistenti su un livello superiore, di rappresentarli come il termine Y, nella formula X conta come Y. Ora, questo è il segreto per cui gli esseri umani possono creare una realtà istituzionale e gli altri animali no. Gli esseri umani hanno la capacità di vedere e pensare su un doppio livello. Possiamo sia vedere un pezzo di carta sia una banconota. Possiamo sia vedere un uomo che porta una pallina oltre una linea che un uomo che fa un touchdown. A prima vista, questo sembra un caso familiare di vedere come. Vediamo la figura ora come un’anatra, ora come un coniglio. Ciò che è speciale degli esseri umani è che essi hanno la capacità, che il cane non ha, di vedere e pensare una realtà istituzionale, ma questo è impossibile solo sulla base di fatti fisici puri e semplici perché non c’è niente nei fatti fisici che possa attribuire contenuto semantico al pensiero o alla percezione. Le onde di luce che arrivano al mio occhio quando l’uomo attraversa la linea e le onde di luce che arrivano all’occhio del cane sono le stesse, ma io letteralmente vedo l’uomo segnare un touchdown mentre il cane letteralmente non lo vede. In questi casi, la realtà istituzionale influisce a tal punto sul nostro apparato percettivo e cognitivo che l’elaborazione immediata degli input percettivi viene fatta già a livello istituzionale. Proprio come posso letteralmente vedere un uomo che fa un touchdown, così posso letteralmente vedere un uomo che paga la spesa in un supermercato, e posso letteralmente vedere il mio vicino che vota per un’elezione. Esploriamo queste idee analizzando alcuni dei passaggi in cui il linguaggio è implicato nella costituzione della realtà istituzionale. Abbiamo la capacità di considerare che le cose abbiano un certo status e, in virtù dell’accettazione collettiva dello status, che queste possano svolgere funzioni che altrimenti non potrebbero svolgere in assenza di accettazione collettiva. La forma di accettazione collettiva deve essere nel senso più ampio linguistica o simbolica perché non c’è nient’altro a caratterizzare il livello della funzione di status. Non c’è nulla nella linea o nell’uomo (che l’attraversa) o nella pallina che conti

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come touchdown, fatta eccezione per la nostra disposizione a considerare l’uomo con la pallina che attraversa la linea come un giocatore che fa un touchdown. Potremmo metterla nella forma più generale possibile dicendo che il linguaggio svolge almeno le seguenti quattro funzioni nella costituzione dei fatti istituzionali. In primo luogo, il fatto (istituzionale) esiste solo nella misura in cui è rappresentato come esistente e la forma di quelle rappresentazioni è nel senso più ampio linguistica. Devo dire “nel senso più ampio” perché non voglio implicare che i linguaggi naturali in piena regola con le relative clausole, operatori modali iterati, e ambiguità sulla portata quantificativa siano essenziali per la costituzione della realtà istituzionale. Non credo che lo siano. Piuttosto, credo che a meno che un animale non sia in grado di rappresentarsi qualcosa come avente uno status – che non avrebbe in virtù della sua struttura fisica – allora l’animale non potrebbe avere dei fatti istituzionali; e quei fatti istituzionali richiedono una qualche forma di rappresentazione o un sistema simbolico, ossia ciò che chiamo linguaggio in senso lato. La simbolizzazione veicola dei poteri deontici, perché non c’è niente nei puri e semplici fatti fisici che abbia di per sé carattere deontologico. In secondo luogo, e questo è davvero conseguenza del primo punto, le forme delle funzioni di status in questione sono quasi inevitabilmente delle questioni di poteri deontici. Sono questioni di diritti, doveri, obbligazioni, responsabilità e così via. Ora, gli animali non possono riconoscere dei poteri deontici perché senza avere dei mezzi linguistici per la rappresentazione non possono appunto rappresentarseli. Vorrei affermare questo punto nel modo più preciso possibile. I gruppi di animali possono avere un maschio alfa e una femmina alfa, e altri membri del gruppo possono rispondere in modo appropriato al maschio alfa e alla femmina alfa, ma questa gerarchia non è stabilita tramite un impegno o l’imposizione di queste posizioni tramite diritti oppure obblighi. Quel che gli animali non hanno è la deontologia, le obbligazioni, i requisiti, i doveri, ecc. – che seguono il riconoscimento di quello status superiore. Perché esistano quelle obbligazioni, quei requisiti, quei doveri, devono essere rappresentati in qualche forma linguistica o simbolica. Ancora una volta, quando un cane è addestrato a obbedire ai comandi, gli viene insegnato semplicemente di rispondere automaticamente ad alcune parole specifiche o ad altri segnali.

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(A proposito, faccio spesso osservazioni sulle capacità degli animali. Non penso che sappiamo abbastanza delle capacità animali per avere completa fiducia nelle caratteristiche che attribuiamo in special modo ai primati. Ma, ed è questo il punto, se dovesse venir fuori che alcuni primati sono dalla nostra parte della divisione fra specie animali, nel senso che hanno anche loro poteri deontici e relazioni deontiche, allora tanto meglio per loro. Nel presente testo, non sto sostenendo la superiorità della nostra specie; piuttosto, sto provando a segnare una distinzione concettuale, e credo, sulla base di quel poco che so, che dove si tratta di deontologia noi siamo da una parte e gli animali da un’altra parte di una linea divisoria. Se dovesse venir fuori che loro sono dalla nostra parte, non avrei alcun problema). In terzo luogo, la deontologia ha un’altra caratteristica peculiare. E cioè, può continuare a esistere dopo la sua creazione e in realtà persino dopo che tutti i partecipanti coinvolti nel suo riconoscimento smettono di pensare al momento della creazione iniziale. Faccio una promessa oggi di fare qualcosa per te la settimana prossima, e quell’obbligazione continua anche quando siamo tutti a dormire. Ora, quello accade solo se le obbligazioni sono rappresentate da qualche mezzo linguistico. In generale, si potrebbe dire così: nessun linguaggio, nessuna deontologia. Le società umane richiedono una deontologia, e il solo modo per cui questo è possibile è avendo un linguaggio. In quarto luogo, una funzione cruciale del linguaggio è il riconoscimento dell’istituzione in quanto tale. Non si tratta solo di casi particolari all’interno dell’istituzione, che questa sia la mia proprietà, che quella era una partita di football, ma piuttosto, perché questo sia un caso di proprietà o quella una partita di football, si deve riconoscere un’istituzione della proprietà e un’istituzione del gioco del football. Dove è coinvolta la realtà istituzionale, i casi particolari esistono come tali perché sono casi di un fenomeno istituzionale generale. Dunque, perché io abbia un oggetto come proprietà, o perché abbia una banconota, deve esserci un’istituzione generale della proprietà privata e del denaro. Eccezioni a questi casi si verificano quando un’istituzione viene creata ex novo. Eppure queste istituzioni generali, in cui i casi particolari trovano il loro modo di esistenza, possono esistere solo nella misura in cui sono riconosciute e quel riconoscimento deve avvenire a livello simbolico, linguistico nel senso più generale.

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Sviluppi ulteriori nella teoria dell’ontologia sociale Ora vorrei discutere alcuni degli sviluppi ulteriori nella teoria della realtà istituzionale a partire dalla pubblicazione del mio testo The Construction of Social Reality. Vorrei citare due di questi sviluppi. In primo luogo, nell’affermazione originale della teoria, ho sottolineato che perché siano riconosciute le funzioni di status, ci deve tipicamente essere un qualche tipo di indicatore di status, perché non c’è nulla nell’uomo o nell’oggetto in sé che indichi il suo status, dal momento che lo status è lì soltanto per via di un’accettazione collettiva o di un riconoscimento. Pertanto, abbiamo le uniformi dei poliziotti, gli anelli nuziali, i certificati di matrimonio e i passaporti, che sono tutti indicatori di status. Molte società non potrebbero esistere senza indicatori di status, come attesta, per esempio, la proliferazione di carte di identità e di patenti di guida. Tuttavia, Hernando de Soto6 ha evidenziato una questione interessante. In alcuni casi gli indicatori di status acquisiscono una sorta di vita propria. Com’è possibile? Ebbene, de Soto nota che in numerosi Paesi sottosviluppati, molte persone possiedono la terra, ma poiché non ci sono atti di proprietà – poiché i proprietari non hanno atti che attestino la proprietà, e sono, in effetti, quel che chiameremmo occupanti abusivi – tutte queste persone non possiedono indicatori di status. Ciò ha due conseguenze di enorme importanza sociale. In primo luogo, essi non possono essere tassati dalle autorità governative perché non sono legalmente i possessori della proprietà, ma in secondo luogo e cosa ancora più importante non possono utilizzare la proprietà come capitale. Normalmente, perché una società si sviluppi, i proprietari devono poter andare in banca e ottenere dei prestiti sulla proprietà per usare il denaro e fare degli investimenti. Ma in Paesi come, ad esempio, l’Egitto, è impossibile che la grande quantità di proprietà privata sia usata come garanzia per gli investimenti perché molta di questa proprietà è posseduta senza il beneficio di un atto di proprietà. Chi possiede una proprietà è in effetti un occupante, nel senso che non possiede legalmente la proprietà, sebbene viva in 6 Hernando De Soto, The Mystery of Capital: Why Capitalism Triumphs in the West and Fails Everywhere Else, Basic Books, 2003; trad. it. Il mistero del capitale. Perché il capitalismo ha trionfato in Occidente e fallito nel resto del mondo, Garzanti, 2001.

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una società in cui la sua funzione di status è ammessa e generalmente riconosciuta e quindi, dal mio punto di vista, continua a esistere e a generare poteri deontici. Ma i poteri deontici terminano nel momento in cui la società in senso più ampio richiede una prova ufficiale della funzione di status. Dunque senza documentazione ufficiale essi non hanno pieni poteri deontici. Un secondo e altrettanto importante sviluppo mi è stato segnalato da Barry Smith7. Smith ha rilevato che ci sono alcune istituzioni che hanno quel che chiama “freestanding Y terms”, in cui si può avere una funzione di status ma non c’è un oggetto fisico cui la funzione di status viene ancorata. Un caso affascinante sono le società. Le leggi sull’incorporazione in uno Stato come la California permettono di costruire una funzione di status per così dire dal nulla. Pertanto, tramite un certo tipo di dichiarazione performativa, la società viene a esistenza, ma non deve esserci alcun oggetto fisico che è la società. La società deve avere un indirizzo postale e una lista di funzionari e azionisti e così via, ma non deve essere un oggetto fisico. In questo caso l’enunciato performativo “questa o quella cosa contano come la creazione di una società” crea davvero una società, ma non c’è alcun oggetto fisico oltre la relazione fra certe persone su cui viene imposta la funzione di status. C’è in effetti un “conta come Y” ma non c’è nessun X che conta come Y. Un esempio ancora più spettacolare è il denaro. Il paradosso della mia teoria è che il denaro era il mio esempio preferito della formula “X conta come Y”, ma ragionavo a partire dall’assunto che la moneta fosse in un modo o in un altro essenziale per il denaro. Ulteriori riflessioni mi hanno chiarito che non è così. Si può facilmente immaginare una società che ha denaro senza avere alcuna moneta. E, in effetti, sembra che ci stiamo evolvendo verso questa direzione quando utilizziamo il bancomat. Tutto quel che serve per avere denaro è un sistema di valori numerici registrati, sulla base dei quali ogni persona (o società, organizzazione e così via) riceve in assegnazione una figura numerica che specifica in ogni momento la quantità di denaro posseduta. Si può quindi utilizzare questo denaro per comprare delle cose 7 Barry Smith, John R. Searle: From Speech Acts to Social Reality, in Id. (a cura di), John Searle, Cambridge University Press, 2003, pp. 1-33.

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alterando il valore numerico a favore del venditore, per cui scende il loro valore numerico e il venditore ne acquisisce uno superiore. Il denaro è tipicamente rimborsabile in contanti, sotto forma di valuta, ma la valuta non è essenziale perché esista o perché funzioni il denaro. Si è tentati in questi casi di pensare che la rappresentazione del denaro sotto forma di tracce magnetiche su dischi del computer o come voci all’interno di libri mastri sia diventata denaro. Dopotutto, la manipolazione di numeri nei libri mastri o le tracce magnetiche sui dischi del computer può costituire l’atto di comprare e vendere, pagare e ricevere, e quindi perché questa manipolazione o queste tracce magnetiche non sono denaro? Anche in questi casi è importante distinguere fra la rappresentazione del fenomeno istituzionale e i fenomeni istituzionali rappresentati. Lo si vede se si considera il caso degli scacchi. Proprio come la valuta non è essenziale per il funzionamento del denaro, così i pezzi fisici degli scacchi non sono essenziali per giocare a scacchi. Nel caso degli scacchi alla cieca, si gioca la partita soltanto usando rappresentazioni dei pezzi degli scacchi nelle forme di un simbolismo che definisce i pezzi e le loro posizioni sulla scacchiera. Ma né la scacchiera né i pezzi come oggetti fisici sono essenziali. Tutto ciò che è essenziale è che ci sia un insieme di relazioni formali capaci di essere rappresentate simbolicamente. I simboli che usiamo non diventano, dunque, pezzi degli scacchi, sebbene diventino funzionalmente equivalenti ai pezzi degli scacchi in quanto la manipolazione dei simboli è funzionalmente equivalente al movimento dei pezzi degli scacchi. Esattamente nella stessa maniera, l’esistenza di oggetti fisici come valuta, monete e banconote non è essenziale per il funzionamento del denaro. Tutto ciò che è essenziale è che ci sia un insieme di valori numerici collegati agli individui e un insieme di relazioni formali tra questi per cui possono usare la loro assegnazione numerica per comprare delle cose da altri individui, pagare i propri debiti e così via. Come possono funzionare queste cose se non c’è un oggetto fisico su cui viene imposta una funzione di status? La risposta è che le funzioni di status sono, in generale, questioni di potere deontico e in questi casi il potere deontico va direttamente agli individui in questione. Per cui il fatto che io possiedo una regina nel gioco degli scacchi non è questione di avere le mie sporche mani su un oggetto fisico, ma

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è piuttosto questione di avere certi poteri di movimento all’interno di un sistema formale (e il sistema formale è “la scacchiera”, anche se non deve per forza essere una scacchiera fisica) relativo ad altri pezzi. In modo analogo, il fatto di avere mille dollari non è una questione di avere un rotolo di banconote in mano, ma di avere certi poteri deontici. Ora, ho il diritto, vale a dire, il potere, di comprare alcune cose, un potere che non avrei se non avessi il denaro. In questi casi, il vero portatore di deontologia è il partecipante alle transazioni economiche e il giocatore nella partita. Gli oggetti fisici relativi al gioco degli scacchi e alle banconote sono soltanto indicatori del potere deontico che hanno i giocatori. Nella prima parte di The Construction of Social Reality ho scritto che la forma base del fatto istituzionale è X conta come Y in C e che questa è una forma della regola costitutiva che ci permette di creare dei fatti istituzionali. Ma una formulazione successiva che ho proposto in quel testo fornisce un approccio molto più generale. Ho detto che il basilare operatore per la creazione del potere nella società è Noi accettiamo (S ha il potere [S fa A]) e che potremmo pensare alle varie forme di potere essenzialmente come operazioni booleane su questa struttura fondamentale, per cui, ad esempio, avere un’obbligazione è avere un potere negativo. Qual è allora, esattamente, la relazione fra le due formule X conta come Y in C e Noi accettiamo (S ha il potere [S fa A])? La risposta è che, ovviamente, non accettiamo soltanto che qualcuno abbia potere, ma accettiamo che abbia potere in virtù di uno status istituzionale. Per esempio, soddisfare alcune condizioni rende qualcuno il presidente degli Stati Uniti. Questo è un esempio della formula X conta come Y in C. Ma una volta che accettiamo che qualcuno è presidente degli Stati Uniti, allora accettiamo che ha il potere di fare certe cose. Ha il potere positivo di comandare le forze armate, e ha il potere negativo, cioè l’obbligo, di pronunciare il discorso sullo stato dell’Unione. Ha il diritto di comandare le forze armate e ha il dovere di pronunciare il discorso. In questo caso accettiamo che S abbia potere (S fa A) perché S = X, e abbiamo già accettato che X conta come Y e che la funzione di status di Y porta con sé i poteri deontici riconosciuti. Continuando con l’esempio della società, possiamo dire che questo o quello conta come presidente della società e che questa o quella

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gente conta come azionisti. Questo è un esempio della formula X conta come Y in C, ma, ovviamente, lo scopo principale per dire queste cose è dare a questi soggetti poteri, doveri, diritti, responsabilità e così via. Rappresentano dunque la formula Noi accettiamo (S ha il potere [S fa A]). Ma per ripetere una questione sostenuta in precedenza, la società di per sé non è identica a nessun oggetto fisico o a nessuna persona o insieme di persone. La società è, per così dire, creata dal nulla. Il presidente è presidente della società, ma non è identico rispetto alla società. Le ragioni sono ben note. Creando una cosiddetta “persona fittizia” possiamo creare un’entità capace di entrare in relazioni contrattuali e capace di comprare e vendere, fare profitti e contrarre debiti per cui è responsabile. Ma funzionari e azionisti non sono personalmente responsabili per i debiti della società. Questa è una svolta importante nel pensiero umano. Cosa equivale, dunque, alla società, una volta che l’abbiamo costruita? Non che ci sia una X che conta come società ma, piuttosto, che c’è un gruppo di persone coinvolte in rapporti giuridici – perciò, questo e questo conta come presidente, questo o quell’altro come azionista nella società e via dicendo – ma non c’è nulla che debba contare come la società stessa, perché uno dei punti nel costruirla è creare un insieme di relazioni di potere senza avere le connesse responsabilità che tipicamente accompagnano quelle relazioni quando sono attribuite a veri esseri umani. Considero l’invenzione dell’idea della società a responsabilità limitata, come l’invenzione della contabilità in partita doppia, le università, i musei e il denaro, come uno dei grandi progressi della civilizzazione umana. Tali invenzioni sono meno famose dell’invenzione dei motori a vapore e degli aeroplani, ma hanno una rilevanza comparabile a questi. Non è affatto necessario che ci siano cose come le società o le università, ma è chiaro che senza queste la società umana sarebbe impoverita e limitata. Potrebbe sembrare paradossale che parli di ragioni istituzionali per agire come di “ragioni per agire indipendenti dal desiderio” perché, ovviamente, molte di queste sono precisamente nuclei di desideri umani molto potenti. Quale campo riguarda il desiderio umano più del denaro? O del potere politico? Penso che tale questione sollevi un problema profondo: creando realtà istituzionale, aumentiamo enormemente il potere umano. Creando la proprietà privata, i governi, i

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matrimoni, le borse e le università, aumentiamo prodigiosamente la capacità umana di agire. Ma la possibilità di avere e soddisfare dei desideri dentro queste strutture istituzionali – per esempio, il desiderio di diventare ricchi, di diventare presidente, di prendere un dottorato o di salire in cattedra – presuppongono che ci sia un riconoscimento delle relazioni deontiche. Senza riconoscimento e accettazione delle relazioni deontiche, il tuo potere non vale nulla. Vale soltanto la pena avere del denaro o una laurea o essere presidente degli Stati Uniti se altre persone riconoscono questo status e riconoscono che tale status attribuisce loro delle ragioni indipendenti dal desiderio per comportarsi in un certo modo. La questione generale è molto chiara: la creazione di un campo generale di ragioni per l’azione basate sul desiderio presuppone l’accettazione di un sistema di ragioni per l’azione indipendenti dal desiderio. Ciò vale sia per gli immediati beneficiari delle relazioni di potere, cioè la persona con il denaro o la persona che ha vinto le elezioni, sia per gli altri partecipanti nell’istituzione. Quanti tipi di fatti istituzionali ci sono? Non possiedo ancora una tassonomia delle funzioni di status che trovo soddisfacenti. Penso che sia piuttosto semplice e, anzi, poco interessante, fare una tassonomia dei diversi tipi di istituzioni perché le si classificherebbe in base ai loro fini e ai temi trattati in istituzioni educative, di governo, finanziarie, sociali, e così via. Una domanda molto più interessante e profonda è: quanti tipi di fatti istituzionali ci sono? Questa è la domanda che porta a una tassonomia delle funzioni di status. Sono incline a pensare che la divisione fondamentale sia fra quelle funzioni di status che sono collegate a soggetti dove le proprietà fisiche sono essenziali per la funzione di status e quelle in cui non lo sono, fra essere un conducente con la patente o un chirurgo o un revisore dei conti abilitato, da una parte, ed essere denaro o una società, dall’altra parte. Nel caso in cui si è un guidatore patentato o si è autorizzati a fare operazioni chirurgiche, si devono possedere alcune abilità indipendenti dall’autorizzazione. L’autorizzazione permette di fare qualcosa che si è comunque capaci di fare, per quanto riguarda le sole abilità. Ma quando si tratta di denaro, non è così. Il pezzo di carta

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o, se è per questo, la traccia magnetica su un dischetto nella banca, non ha nessun potere in virtù della propria struttura fisica. È, invece, soprattutto l’accettazione collettiva a creare il potere. Volendo tentare una tassonomia delle istituzioni, penso che il modo giusto per farlo sarebbe procedere con una tassonomia dei poteri istituzionali, perché l’obiettivo di avere delle istituzioni è creare e distribuire potere umano, specialmente potere deontico. La prima cosa che dovremmo riconoscere sono quei poteri che hanno a che fare con il certificare o l’autorizzare le persone a fare delle cose, dopo aver accertato che sono competenti a farle. Questo vale per revisori dei conti, avvocati, dottori, istruttori di sci, conducenti con la patente, insegnanti certificati e anche, naturalmente, per testare la tenuta di strada dei veicoli e la tenuta in mare delle imbarcazioni, e per le ispezioni di sicurezza su costruzioni e ponti. Questa autorizzazione permette il funzionamento di idoneità e capacità che preesistono all’autorizzazione. Questa distinzione è già prefigurata nella teoria degli atti linguistici. Distinguo fra dichiarazioni che semplicemente creano una situazione dichiarando che essa esiste, come una dichiarazione di guerra, e ciò che chiamo dichiarazioni assertive, in cui c’è prima l’accertamento di un fatto e poi l’assegnazione di uno status. Ad esempio, se si scopre che l’imputato ha commesso l’atto per cui è accusato, viene allora pronunciato “colpevole” tramite una dichiarazione assertiva. Lo stesso vale per alcune funzioni di status. In primo luogo viene fatto un esame dei fatti. La persona che fa l’esame per ottenere la patente è effettivamente capace di guidare un’auto? Poi, sulla base di una risposta affermativa, viene assegnata la funzione di status di “conducente con la patente”. Sarà inoltre necessario distinguere le certificazioni dalle autorizzazioni. Quindi, per esempio, un esame di guida mi certificherà come guidatore competente e il rilascio di una patente o permesso di guidare mi autorizzerà a guidare, ad esempio, nello Stato della California. Tipicamente, le autorizzazioni richiedono certificazioni preliminari, ma non tutte le certificazioni sono autorizzazioni. Pertanto, ad esempio, se si riceve una laurea da un’università americana, si è certificati come in possesso dei criteri per la laurea, ma che cosa siamo autorizzati a fare una volta in possesso della laurea? Ebbene, il titolo non autorizza nulla di specifico nel senso in cui essere un revisore dei conti pubblico o avere una patente ci autorizza a fare qualcosa di specifico.

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Ciononostante, la certificazione è importante perché apre un range indefinito di autorizzazioni. Ci sono, per esempio, molti tipi di impiego per cui la laurea è un prerequisito. Una seconda categoria includerebbe ciò che potremmo pensare come potere istituzionale in quanto tale. Dunque, ad esempio, a un direttore di dipartimento, al presidente degli Stati Uniti, a un membro del Congresso vengono dati poteri che questi soggetti non sarebbero in grado di esercitare senza lo status che rende possibile attribuire loro quei poteri. Per quanto riguarda il puro potere istituzionale, mi sembra che dovremo fare una distinzione fra poteri positivi e negativi. Il capo della polizia, il presidente di una società e il comandante dell’arma hanno tutti poteri positivi. Il prigioniero di guerra, un criminale condannato, o il conducente che riceve una contravvenzione hanno tutti poteri negativi. Nella categoria dei poteri negativi, dovremo inoltre distinguere le punizioni dalle imposte. Dovere allo Stato mille dollari in imposte o essere multato per la cifra di mille dollari sono funzioni di status piuttosto distinte, anche se il risultato è esattamente lo stesso in entrambi i casi: devo pagare mille dollari a un’autorità. L’immagine simmetrica e speculare di queste situazioni sul versante positivo sarebbe la distinzione fra salari e prezzi. L’opposto delle imposte è il salario che ricevo. L’opposto delle punizioni è un premio o un riconoscimento. Dunque, la persona che guadagna un milione di dollari in borsa e la persona che riceve un premio di un milione di dollari ottengono entrambe un milione di dollari. Ma le funzioni di status sono piuttosto differenti. Analisi concettuale e dati empirici Mi sembra abbastanza plausibile che alcuni studiosi di antropologia culturale avranno l’impressione che io stia generalizzando sulla base di quelli che ci appaiono dei dati molto limitati. I dati che conosco sono, per la gran parte, derivati da culture in cui mi capita di abitare o in cui ho abitato, e in alcuni casi di cui ho letto delle informazioni. Cosa mi fa credere che questo ci fornisca una teoria dell’ontologia sociale? Per rispondere a questa domanda, devo fare una distinzione fra generalizzazione empirica e analisi concettuale. Non c’è una netta

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linea di demarcazione fra le due cose, ma la natura dell’indagine che sto conducendo qui mi porta a prendere alcuni fatti empirici e cercare di scoprire le strutture logiche sottostanti. Non scopro le funzioni di status solo esaminando i dati, ma scoprendo la struttura logica dei dati con cui ho familiarità. L’analogia con la teoria degli atti linguistici è illuminante. Quando ho pubblicato una tassonomia dei cinque fondamentali tipi di atti linguistici8, un’antropologa9 ha obiettato che in una tribù che ha studiato non facevano tutte queste promesse, e, in tutti i casi, come ho potuto pensare di cavarmela con un’affermazione così generale sulla base di dati così limitati10? Ma la risposta, ovviamente, è che non stavo offrendo un’ipotesi empirica generale, ma un’analisi concettuale. Questi sono i possibili tipi di atti linguistici che ci vengono dati dalla natura del linguaggio umano. Il fatto che qualche tribù non abbia l’istituzione della promessa non è più rilevante del fatto che l’assenza di tigri al Polo Sud sia un dato rilevante per la tassonomia delle specie animali. Sto discutendo la struttura logica del linguaggio e sto definendo la categorizzazione dei possibili tipi di atti linguistici. In questa indagine, sto esaminando la struttura logica della civiltà umana e sto provando ad arrivare alla struttura di fondo delle funzioni di status. Ma, ancora una volta, questo riporta indietro la questione. Ebbene, che cosa mi fa pensare che queste funzioni di status che scopro nella nostra civiltà siano probabilmente pervasive? E la risposta, ovviamente, è che non lo sono. Non tutte le comunità prevedono una patente di guida, ad esempio. Ma, e questo è il punto cruciale, la struttura logica della funzione di status, a mio avviso, è pervasiva, e ora vorrei spiegare perché. Tutte le società umane hanno un linguaggio, e in 8 John R. Searle, A Taxonomy of Illocutionary Acts, ristampato in Id., Expression and Meaning: Studies in the Theory of Speech Acts, Cambridge University Press, 1979. 9 Michelle Rosaldo, The Things We Do with Words: Llongot, Speech Acts, and Speech Act Theory in Philosophy, in «Language and Society», vol. 11, 1982, pp. 203-237. 10 Quando questo articolo è apparso la prima volta non ho risposto perché pensavo che non avesse compreso il punto della mia analisi. Ha pensato che stessi facendo una generalizzazione empirica secondo cui tutte le culture hanno certi tipi di atti linguistici, quando stavo in realtà presentando un’analisi concettuale di quel che è possibile fare con il linguaggio. Rintracciando il riferimento al suo articolo in rete ho scoperto, con mio stupore, che è ancora usato nei corsi di antropologia, e dunque vale sottolineare la distinzione in questa sede.

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quel linguaggio ci sono certe possibilità limitate di performare atti linguistici che abbiano a che fare con la natura del significato e la natura degli atti linguistici (ho esplorato la questione in dettaglio in Intentionality: An Essay in the Philosophy of Mind, specialmente nel capitolo 6). Ora, questo dà già una serie di poteri deontici. Attribuisce i diritti, i doveri e le obbligazioni connessi al fare un’affermazione, al fare una promessa o al fare una richiesta e dunque la struttura di base è presente nella teoria degli atti linguistici. Ora, per me è molto difficile immaginare una cultura che non abbia nessun diritto, dovere e obbligazione oltre quelli derivanti dal performare degli atti linguistici. Eppure, persino se ci fosse una simile cultura, sarebbe comunque sulla soglia di un modello di realtà istituzionale perché una volta che qualcuno, in qualunque lingua, è nella posizione di dire “questo è mio” oppure “lui è il capo”, si è già intrapresa la creazione di funzioni di status non linguistiche, sebbene il linguaggio stesso, per ragioni che ho provato a chiarire, sia costitutivo di quelle funzioni di status. La tesi che avanzo qui, dunque, non è un’ipotesi empirico-antropologica. Non sto ipotizzando che tutte le società abbiano queste o quelle strutture logiche. Piuttosto, sto analizzando le strutture logiche, e ogni società che ha ciò che potremmo considerare la deontologia di una civilizzazione minima avrà almeno qualcosa di simile a queste strutture. Ora, ovviamente, anche un argomento concettuale a priori come quello potrebbe essere soggetto a confutazioni empiriche se si potesse dimostrare che esiste una società con quelle che intuitivamente sembrerebbero strutture istituzionali ma senza il tipo di strutture che descrivo io. Ma se un antropologo mi dice che nella tribù che studia non si preoccupano troppo delle obbligazioni, e se pensa che questa sia un’obiezione all’analisi, allora non avrebbe compreso il punto. Diversi tipi di “istituzioni” Non ho provato ad analizzare l’uso ordinario del termine “istituzione”. Non mi interessa molto se la mia tesi sulla realtà istituzionale e i fatti istituzionali sia coerente con quella dell’uso ordinario. Sono molto più interessato a comprendere il collante che tiene insieme le

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società. Ma consideriamo alcuni altri tipi di cose che potrebbero essere pensate come istituzioni. Ho detto che il fatto che sono cittadino americano è un fatto istituzionale, ma che dire del fatto che oggi è il 15 luglio 2004? È un fatto istituzionale? Che tipo di questione pone tale domanda? Come minimo qualcosa del tipo: identificare qualcosa come 15 luglio 2004 assegna una funzione di status che porta con sé anche una deontologia? In questi termini, la risposta è no. Nella mia cultura non c’è deontologia conseguente al fatto che oggi è il 15 luglio. Rispetto a questo, “15 luglio 2004” è differente dal giorno di Natale, dal giorno del Ringraziamento, o, in Francia, dal 14 luglio. Ognuna di queste date porta con sé una deontologia. Se è il giorno di Natale, per esempio, io ho il diritto di prendermi un giorno libero, e l’intenzionalità collettiva nella mia comunità supporta questa mia posizione. Potremmo facilmente immaginare un sottogruppo di soggetti per cui il fatto che oggi è il 15 luglio sia un fatto istituzionale, ma al momento non appartengo a questo sottogruppo. Penso che ci sia un senso della parola “istituzione” in cui il calendario cristiano è una specie di istituzione, ma non è il tipo di istituzione che sto provando ad analizzare. Lo stesso vale per altri sistemi verbali. Diverse società hanno diversi vocabolari di colori, ma questo non rende un fatto istituzionale il fatto che la stoffa davanti a me è magenta. Simili osservazioni potrebbero farsi sui sistemi di peso e misura. Il fatto che peso centosessanta libbre è uguale al fatto che peso settantadue chili sebbene questo stesso fatto possa essere affermato usando diversi sistemi per la misurazione del peso. Più interessanti dal mio punto di vista sono quei casi in cui i fatti in questione sono al margine dell’istituzionalità. Penso che il fatto che qualcuno è mio amico sia un fatto istituzionale perché l’amicizia comporta obbligazioni, diritti e responsabilità. Ma che dire del fatto che qualcuno è un ubriacone, un nerd, un intellettuale o una persona che non brilla in nulla? Si tratta di concetti istituzionali e i termini corrispondenti sono fatti istituzionali? Non nel senso in cui sto utilizzando queste espressioni, perché non c’è deontologia collettivamente riconosciuta che le accompagni. Ovviamente, se la legge stabilisce dei criteri per cui qualcuno può dirsi un ubriacone certificato e impone delle sanzioni e un risarcimento per questo status, allora essere un ubriaco-

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ne diventerebbe una funzione di status. X conta come Y. E, ancora una volta, potrei personalmente credere che, come intellettuale, ho alcuni tipi di obbligazioni, ma questo ancora non sarebbe un fenomeno istituzionale a meno che non ci fosse un riconoscimento collettivo di quelle obbligazioni. Quando ho fatto notare in una lezione che essere un nerd non è una funzione di status, uno dei miei studenti mi ha detto che nella sua scuola superiore invece lo era sicuramente, perché in quanto primo della classe ci si aspettava che aiutasse gli altri studenti con i compiti. Era insomma soggetto a un certo tipo di obbligazioni riconosciute rispetto ai membri della sua comunità. Un altro tipo di “istituzione” che non sto cercando di descrivere sono forme massicce di pratiche umane attorno a certe materie che, come tali, non comportano una deontologia. Dunque, ad esempio, c’è una serie di pratiche che rientrano in ciò che chiamiamo “scienza” o “religione” o “educazione”. Ciò trasforma per caso la scienza, la religione, e l’educazione, in istituzioni? Ebbene, stiamo comunque usando “istituzione” come un termine tecnico, un termine utile se vogliamo riferirci a queste pratiche, ma penso sia molto importante che non confondiamo la scienza, l’educazione e la religione con cose come il denaro, la proprietà, il governo e il matrimonio. All’interno di queste enormi pratiche umane come la scienza, la religione e l’educazione vi sono, in effetti, delle istituzioni. Pertanto, ad esempio, la National Science Foundation è un’istituzione, come lo sono l’Università della California o la Chiesa cattolica. Come ho detto in precedenza, non mi interessa molto se vogliamo o no utilizzare il termine “istituzione” per tutti e due i tipi di pratiche, ma l’idea importante – sottostante – è da rimarcare assolutamente: dobbiamo mettere in evidenza quei fatti che portano con sé una deontologia perché sono il collante che tiene insieme la società. Addendum Sono riluttante a includere in questo volume qualsiasi cosa che non rappresenti il mio attuale pensiero sul tema in discussione. Penso che questo scritto sia accettabile così com’è, ma siccome l’ho scritto io, ci ho riflettuto ancora e questi pensieri mi hanno permesso, credo, di am-

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pliare l’analisi, semplificarla, e approfondirla. Credo ci sia una semplice operazione logica per cui tutta la realtà istituzionale è creata e anche dalla quale tutta la realtà istituzionale viene tenuta insieme. La formula che ho usato in passato per esprimere quell’operazione, “X conta come Y in C”, sebbene assai generale nella sua applicazione, è un caso specifico ed è l’implementazione di qualcosa di ancora più generale. L’affermazione che voglio fare adesso è semplicemente questa: tutta la realtà istituzionale (con una classe di eccezioni importantissima, il linguaggio stesso) è creata da atti linguistici che hanno la forma logica di Dichiarazioni (spiegherò immediatamente questa nozione), e in effetti questi a loro volta sono tenuti insieme dall’esistenza di atti linguistici e altri tipi di rappresentazioni che hanno la forma logica di Dichiarazioni. Per spiegare cos’è una Dichiarazione, devo dire qualcosa sulla natura del linguaggio. Usiamo delle parole per rapportarci alla realtà in modi diversi. Un modo è performare un atto linguistico che pretende di rappresentare le cose come stanno, come un’affermazione o un’asserzione. Chiamo questa classe gli Assertivi. Una caratteristica degli Assertivi è che dovrebbero corrispondere alla realtà. Hanno ciò che chiamo la direzione di adattamento parola-a-mondo, che rappresento con una freccia rivolta verso il basso: ↓. Ma non tutti gli atti linguistici sono così. Alcuni, come le promesse, i voti, gli ordini e i comandi, non dovrebbero rappresentare una realtà esistente indipendentemente. Dovrebbero cambiare la realtà, o facendo in modo che l’ascoltatore faccia ciò che gli viene ordinato di fare, o facendo in modo che colui che promette faccia ciò che ha promesso di fare. Questi casi hanno la direzione di adattamento verso l’alto o mondo-a-parola, che rappresento con una freccia rivolta verso l’alto: ↑. Chiamo questi casi di direzione di adattamento ascendente o mondo-a-parola, nel caso di ordini o comandi, Direttive, e nel caso di promesse o voti, Commissive. Gli esseri umani hanno sviluppato una straordinaria combinazione di questi atti con cui siamo in grado di cambiare la realtà rappresentandola come se fosse stata cambiata in questo modo e tramite questi meccanismi. I più famosi sono gli “enunciati performativi” scoperti da J.L. Austin11, in cui facciamo qualcosa semplicemente dicendo 11 John L. Austin, How to Do Things with Words, Harvard University Press, 1962; trad. it. Come fare le cose con le parole, a cura di Carlo Penco, Marina Sbisà, Marietti, 1987.

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che lo stiamo facendo. Pertanto la persona che è nella posizione adeguata può aggiornare un incontro dicendo “l’incontro è aggiornato” o può licenziare un dipendente dicendo “sei licenziato”. Sebbene i performativi siano le Dichiarazioni più famose, non sono l’unico tipo di Dichiarazioni. Le religioni e le storie soprannaturali sono piene di Dichiarazioni. Pertanto quando Dio dice: «E luce sia», ciò fa sì che per Dichiarazione vi sia la luce. Per definizione, le Dichiarazioni cambiano la realtà rappresentandola come cambiata. Nel cambiare la realtà, realizzano la direzione di adattamento ascendente o mondo-a-parola, ma il mezzo con cui questo è fatto è la rappresentazione del cambiamento e perciò realizzano la direzione di adattamento parola-a-mondo. Queste non sono due direzioni di adattamento indipendenti perché una è realizzata in virtù dell’altra; la freccia deve andare in entrambe le direzioni e si rappresenta in questo modo: ↕. La tesi che vorrei ora sostenere è che tutte le funzioni di status, e quindi tutta la realtà istituzionale ad eccezione del linguaggio, sono create da atti linguistici che hanno la forma logica di Dichiarazioni. Questo ci è nascosto dal fatto che, ovviamente, pochi fatti istituzionali sono creati da enunciati performativi espliciti o altre Dichiarazioni esplicite. Così possiamo aggiornare un incontro o dichiarare qualcuno marito e moglie tramite una Dichiarazione, ma non possiamo fare touchdown, vincere un’elezione o fare scacco matto solo dichiarando di aver fatto un touchdown, di aver vinto un’elezione, o di aver fatto scacco matto. Ciononostante, tutti questi casi possono essere visti a un livello più profondo come esempi della struttura delle Dichiarazioni. Pertanto se abbiamo una regola costitutiva, “X conta come Y in C” – per esempio, che superare una linea quando si è in possesso della palla conta come un touchdown nel football americano – possiamo vederla come una dichiarazione permanente. Essa fa sì che in un futuro indefinito tutto ciò che esemplifica il termine X abbia la funzione di status Y. A volte creiamo semplicemente dei fatti istituzionali senza un’istituzione preesistente, come quando una tribù sceglie qualcuno come leader senza avere una procedura standard per selezionare i leader. In tal caso, le rappresentazioni funzionano come Dichiarazioni che creano una nuova funzione di status. Inoltre, come ho già sottolineato, ci sono casi di “freestanding Y terms” in cui si ha la funzione di status Y senza il termine X corrispondente. Il caso del denaro elettronico e

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l’istituzione di società sono creazioni di funzioni di status senza che ci siano oggetti o entità preesistenti su cui la funzione di status viene imposta. Possiamo vedere che tutte queste esemplificano la forma più generale di creazione di funzioni di status, che è semplicemente: Per Dichiarazione noi creiamo la funzione di status Y. La formula “X conta come Y in C” può dunque essere vista come una forma molto generale di implementazione di questa struttura, ma è comunque un caso speciale. Casi ulteriori sono forniti dalla creazione di funzioni di status senza un termine X preesistente, e dalla creazione di funzioni di status senza una preesistente regola costitutiva. Proprio come i fatti istituzionali sono creati da atti linguistici aventi la forma logica di Dichiarazioni, così il mantenimento in essere dei fatti istituzionali è fatto da rappresentazioni linguistiche che hanno la stessa struttura logica, sebbene non siano tipicamente nella forma di una Dichiarazione esplicita. Ad esempio, semplicemente continuare a rappresentare qualcosa come denaro rinforza la continuità del suo status di denaro. Le rappresentazioni che hanno la direzione di adattamento discendente o parola-a-mondo facilitano la direzione ascendente o mondo-a-parola. Quindi sia la creazione sia il mantenimento di fatti istituzionali vengono fatti attraverso atti linguistici o altri tipi di rappresentazioni che hanno la doppia direzione di adattamento. Tanto per avere un termine generale, chiamerò queste Dichiarazioni, sia quelle che creano fatti istituzionali, sia quelle che li mantengono in esistenza – “Dichiarazioni di funzione di status”. Ho detto che c’era una classe di eccezioni a questo principio generale, e quella classe consiste in casi relativi al linguaggio stesso. Le Dichiarazioni stesse sono funzioni di status, ma non richiedono in generale Dichiarazioni ulteriori per essere delle Dichiarazioni. E questo vale per le entità linguistiche in generale. La frase “la neve è bianca” è tale per cui, secondo le regole costitutive della lingua inglese, può essere pronunciata per affermare che la neve è bianca. Il pronunciarla conta come un’affermazione per cui la neve è bianca. Perché, allora, tutto il resto della realtà istituzionale richiede che ci siano atti linguistici Dichiarativi affinché possano esserci delle funzioni di status, e invece il linguaggio non lo richiede? La spiegazione di questa asim-

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metria necessita di un’analisi più profonda del linguaggio rispetto allo spazio di cui dispongo qui per approfondirla. Sto scrivendo un libro su questi temi in cui dedico ampio spazio alla questione12. Per il momento, direi quanto segue. Nel creare una realtà istituzionale fatta di denaro, proprietà, governi, matrimoni e tutto il resto, usiamo la semantica in modo da creare un insieme di poteri che vadano oltre i poteri della sola semantica. Ma, nel caso del linguaggio, la semantica o il significato delle frasi non hanno il potere di andare oltre il significato, ed è per questo che non ci serve una qualche Dichiarazione per autorizzare le frasi a fare ciò che fanno. Il significato è sufficiente. Per capire meglio questo punto, guardiamo ai casi interessanti in cui diamo poteri deontici extralinguistici alle frasi tramite Dichiarazioni, dove la Dichiarazione va oltre il significato letterale della frase. Negli esempi che ho riportato, non è sufficiente avere il significato del termine “aggiornare” per aggiornare un incontro dicendo “l’incontro è aggiornato”. Bisogna avere uno status speciale che vada oltre il linguaggio e bisogna avere una convenzione speciale che vada oltre le regole sul significato dell’inglese secondo cui questa o quella persona può aggiornare un incontro dicendo “l’incontro è aggiornato”. Questo non vale per tutti gli enunciati performativi. Se dico “io prometto” o “mi scuso” non mi è richiesta alcuna struttura speciale istituzionale extralinguistica per farlo. L’istituzione del linguaggio è di per sé sufficiente. Si pensi al linguaggio come a un’istituzione o, se si preferisce, a un insieme di istituzioni. Queste istituzioni, come le istituzioni in generale, sono una questione di funzioni di status, e in particolare, nel caso del linguaggio, sono applicazioni ripetute della regola costitutiva per cui X conta come Y in C. Pertanto, questo o quell’enunciato conta come una promessa, questo o quell’enunciato conta come affermazione, ecc. Ma le stesse regole di significato del linguaggio sono sufficienti a garantire che qualcosa avrà i poteri deontici di un’affermazione o di una promessa. Ma esse non bastano a garantire che qualcosa avrà i poteri deontici del denaro o del matrimonio o del governo o di un’elezione presidenziale. Questo intendevo dire quando ho scritto che usiamo la semantica per creare dei poteri che vanno oltre il potere della semantica. 12 Qui ovviamente Searle si riferisce al 2006 [NdT].

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Per riassumere, aggiungo insomma due punti essenziali al testo pubblicato in origine. In primo luogo, ad eccezione del linguaggio stesso, tutte le funzioni di status, e quindi tutta la realtà umana istituzionale, sono creati da un solo tipo di operazione logico-linguistica, la Dichiarazione di funzione di status. Queste dichiarazioni creano e mantengono in esistenza una realtà rappresentandola come esistente. In secondo luogo, il linguaggio stesso non richiede Dichiarazioni di funzioni di status per esistere perché il significato o il contenuto semantico delle frasi è sufficiente a permetterci di performare gli atti linguistici espressi da quei significati. Il contrasto è che nelle funzioni di status extralinguistiche usiamo la semantica per creare dei poteri che vanno al di là del potere della semantica. Ma i poteri della semantica del linguaggio stesso non vanno oltre i poteri della semantica, e perciò non richiedono alcuna rappresentazione ulteriore oltre il significato letterale delle frasi stesse13. Bibliografia Barash David P., Sociobiology and Behavior, Elsevier, 1977; trad. it. Sociobiologia e comportamento, Franco Angeli, 1980. De Soto Hernando, The Mystery of Capital: Why Capitalism Triumphs in the West and Fails Everywhere Else, Basic Books, 2003; trad. it. Il mistero del capitale. Perché il capitalismo ha trionfato in Occidente e fallito nel resto del mondo, Garzanti, 2001. Kummer Hans, Primate Societies: Group Techniques of Ecological Adaptation, Aldine-Atherton, 1971. Rosaldo Michelle, The Things We Do with Words: Llongot, Speech Acts, and Speech Act Theory in Philosophy, in «Language and Society», vol. 11, 1982, pp. 203-237. Searle John R., A Taxonomy of Illocutionary Acts, ristampato in Id., Expression and Meaning: Studies in the Theory of Speech Acts, Cambridge University Press, 1979. 13 Sono in debito con un ampio numero di persone per aver discusso i contenuti del presente testo. Non posso ringraziarle tutte, ma voglio soprattutto esprimere gratitudine verso Josef Moural, Barry Smith, e in particolare verso mia moglie, Dagmar Searle. Un ringraziamento speciale va anche a Roy D’Andrade, che ha letto il primo draft e ha fatto dei commenti utili.

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Searle John R., Intentionality: An Essay in the Philosophy of Mind, Cambridge University Press, 1983; trad. it. Dell’intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, Bompiani, 1985. Searle John R., The Construction of Social Reality, Free Press, 1995; trad. it. La costruzione della realtà sociale, Einaudi, 1996. Searle John R., Collective Intentions and Actions, in Philip R. Cohen, Jerry Morgan, Martha E. Pollack (a cura di), Intentions in Communication (mit Press), 1990, pp. 401-415, ristampato in John R. Searle, Consciousness and Language, Cambridge University Press, 2002; trad. it. Coscienza e linguaggio, Bollati Boringhieri, 2010. Smith Barry, John Searle: From Speech Acts to Social Reality, in Id. (a cura di), John Searle, Cambridge University Press, 2003, pp. 1-33. Wilson Edward O., Sociobiology: A New Synthesis, Harvard University Press, 1975; trad. it. Sociobiologia. La nuova sintesi, Zanichelli, 1979.

3. Ventun anni nella Stanza Cinese

I Vorrei usare l’occasione di un volume dedicato al ventunesimo anniversario dell’argomento della Stanza Cinese per riflettere su alcune delle implicazioni di questo dibattito con la scienza cognitiva in generale e, in effetti, per lo stato attuale della nostra cultura intellettuale in senso più ampio. Non impiegherò molto tempo a rispondere ai molti e dettagliati argomenti che sono stati presentati. Ho già risposto a più critiche verso l’argomento della Stanza Cinese di quante non ne siano state avanzate contro altre controverse tesi filosofiche che ho sostenuto nella mia vita. La ragione per cui ho così tanta fiducia che l’argomento fondamentale sia solido è che negli ultimi ventun anni non ho visto nulla minacciare o scuotere la sua tesi fondamentale. L’affermazione principale è che i processi puramente formali o astratti o sintattici dei programmi per elaboratori non sarebbero di per sé sufficienti a garantire la presenza di un contenuto mentale o di un contenuto semantico del tipo che è essenziale per la cognizione umana. Naturalmente un sistema potrebbe avere contenuto semantico per qualche altra ragione. Può darsi che l’implementazione di questo programma in questo particolare hardware sia sufficiente a causare la coscienza e l’intenzionalità, ma quest’affermazione non riguarda più l’Intelligenza Artificiale Forte. È nel nucleo della tesi dell’Intelligenza Artificiale Forte che il sistema che implementa il programma non ha importanza. Qualsiasi implementazione hardware andrà bene, a condizione che sia sufficientemente ricca e sufficientemente stabile per far

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funzionare il programma. Questo è il motivo per cui posso, almeno in principio, eseguire i passaggi del programma nella Stanza Cinese, sebbene il mio “hardware” sia abbastanza diverso da quello dei computer commerciali. In breve, la distinzione fra software e hardware, e il punto essenziale nella nozione moderna di computazione per cui un programma è realizzabile in modo multiplo in più hardware, sono sufficienti a rifiutare l’affermazione per cui il software implementato stesso, a prescindere dalla natura del mezzo di implementazione, basterebbe a garantire la presenza di contenuti mentali. L’argomento della Stanza Cinese, insomma, poggia su due verità logiche assolutamente fondamentali, e ventun anni di dibattito non le hanno scosse in alcun modo. Eccole. In primo luogo, la sintassi non è semantica. Questo vale a dire che il programma sintattico o formale implementato non è costitutivo di (o altrimenti sufficiente per) una garanzia della presenza di contenuto semantico; e, in secondo luogo, la simulazione non è duplicazione. Si possono simulare i processi cognitivi della mente umana così come si possono simulare le tempeste di pioggia, cinque allarmi anti-incendio, la digestione, o qualunque altra cosa che si possa descrivere precisamente. Ma è altrettanto ridicolo pensare che un sistema che ha avuto una simulazione della coscienza e altri processi mentali abbia quindi i processi mentali come lo sarebbe pensare che la simulazione della digestione su un computer potrebbe effettivamente digerire la birra e la pizza. Ho sostenuto in precedenza che non c’era modo per cui il programma implementato dal computer stesso potesse garantire la presenza di contenuto mentale o semantico. Ma come diavolo immaginavano i sostenitori dell’Intelligenza Artificiale Forte che si potesse garantire la presenza di contenuto mentale? Che immagine hanno? In realtà le ambiguità nella loro posizione illustrano alcuni importanti fallimenti dei tentativi riduzionisti di trattare le questioni filosofiche durante il secolo scorso, e vorrei dire qualcosa di questi tentativi riduzionisti. Lo schema tipico è trattare la base epistemica per un fenomeno – il comportamento nel caso della mente, i dati sensoriali nel caso degli oggetti materiali – come qualcosa di logicamente sufficiente a garantire la presenza di un fenomeno. L’impulso fondamentale è una verificazione dell’impulso riduzionista, e il test di Turing è un’espressione di questa stessa esigenza. Ma il riduzionista vuole anche continuare a seguire

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l’idea intuitiva del fenomeno che doveva essere ridotto in primo luogo. La nozione intuitiva di uno stato mentale o un oggetto materiale devono in un certo modo essere preservati nell’impresa riduzionista. Ecco perché la Stanza Cinese pone questo problema: io implemento il programma, ma non capisco il cinese. Ciò a cui fa riferimento la tesi sull’Intelligenza Artificiale Forte nella sua forma pura è che il programma implementato è costitutivo di una mente. Un sistema che implementa il programma giusto necessariamente ha una mente perché la mente non è null’altro che quello. Il test di Turing ci offre una prova per verificare la presenza della mente, ma la cosa reale per cui esso è un test è una serie di processi computazionali. Ora, che cosa dovrebbe dire il teorico dell’Intelligenza Artificiale Forte di fronte a un controesempio ovvio come quello della Stanza Cinese? Chi sostiene l’Intelligenza Artificiale Forte è fedele all’ideologia nel dire che nella Stanza Cinese io capisco in effetti il cinese perché posso superare il test di Turing svolgendo dei passaggi nella computazione. Ma è semplicemente troppo assurdo sostenere che io capisca il cinese o che potrei capire il cinese solo eseguendo i vari passaggi del programma, perché abbastanza ovviamente il cinese non lo capisco e nelle circostanze prospettate nemmeno lo capirei. Che cosa deve fare il riduzionista? La tipica mossa durante gli ultimi ventun anni è stata quella di ammettere che non capisco il cinese, ma dire poi cose come “ebbene, è l’intero sistema che capisce il cinese” o a volte persino “un sottosistema al tuo interno capisce il cinese”. Ma queste soluzioni non funzionano. Chi sostiene l’Intelligenza Artificiale Forte originariamente è legato a un’idea per cui il programma costituisce il contenuto mentale, ma di fronte a evidenti contro-esempi, si ritira poi in una posizione diversa, secondo cui il programma è in qualche modo associato con il contenuto mentale. Questo era il punto del cosiddetto Systems Reply. Il Systems Reply afferma che sebbene non ci sia contenuto semantico in me, c’è contenuto semantico da qualche altra parte – nell’intero sistema di cui sono parte, o in qualche sottosistema in me. Ma lo stesso argomento che ha funzionato originariamente – cioè, che non ho alcuna comprensione del cinese perché non so che cosa le parole significhino, non ho modo di collegare un significato a dei simboli – funziona per l’intero sistema. L’intero sistema non sa ciò che le pa-

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role significano, perché non ha modo di attribuire contenuto mentale ad alcuno dei simboli. Ciò che è interessante non è soltanto l’evasività del Systems Reply, ma il fatto che esso illustra la tendenza generale degli approcci riduzionisti alla mente del XX secolo. Il comportamentismo ha dovuto affrontare la stessa difficoltà. Il comportamentista è forzato a dire che il comportamento è costitutivo del mentale. Ma di fronte a evidenti contro-esempi l’idea è sempre di suggerire che ci sia un modo in cui, nel sistema che si comporta in modo appropriato, i corretti stati mentali verrebbero in qualche modo associati al comportamento. Il problema per tutte queste forme di riduzionismo è il medesimo: ci sono davvero due cose o soltanto una? La tesi del riduzionismo è che c’è soltanto una cosa – il comportamento, o i programmi del computer o i dati sensoriali o qualunque altra cosa – ma di fronte ai contro-esempi il riduzionista dice che deve esserci anche l’altra cosa. Ci sono quindi due cose. La spinta del riduzionista a provare ad aggrapparsi alla nozione ridotta equivale a un abbandono tranquillo e silente della riduzione. Se fosse stato davvero coerente con la riduzione degli stati mentali a stati dei programmi, avrebbe dovuto dire “non c’è una cosa come la comprensione oltre la manipolazione dei simboli, c’è soltanto la manipolazione dei simboli. Se questa cosa accada nell’individuo o nell’intera stanza non fa differenza. La manipolazione dei simboli è tutto ciò che rileva per la comprensione”. Ma questo è ovviamente troppo assurdo dal punto di vista in prima persona, dove si conosce chiaramente la distinzione fra il mio manipolare dei simboli in inglese avendone comprensione, e il mio manipolare dei simboli in cinese senza averne alcuna comprensione. Così il teorico dell’Intelligenza Artificiale Forte fa la mossa disperata di sostenere che la comprensione si trova da qualche altra parte nel sistema. È l’intera stanza a comprendere e non la persona nella stanza. C’è, insomma, una profonda contraddizione nella posizione riduzionista. Da un lato, il riduzionista vuole sostenere che non c’è contenuto semantico oltre la manipolazione del simbolo, ma dall’altra parte, quando si presenta un caso di manipolazione di simboli senza contenuto semantico, il riduzionista non dice “ebbene, era tutto ciò che c’era dal principio”, ciò che dice è invece “il contenuto semantico deve trovarsi da qualche altra parte nel sistema”. Questa è una chiara

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contraddizione. Non si può sostenere che non c’è contenuto semantico oltre la manipolazione simbolica, e poi dire che deve esserci contenuto semantico da qualche altra parte nel sistema oltre la manipolazione dei simboli. Così, quando ho sostenuto prima che il programma implementato di per sé è insufficiente a garantire la presenza di stati mentali, quell’affermazione ha coperto entrambe le possibili mosse del teorico dell’Intelligenza Artificiale Forte. Il programma di per sé è insufficiente a costituire degli stati mentali a causa della distinzione tra sintassi e semantica. E non è insufficiente di per sé a causare degli stati mentali perché il programma è definito indipendentemente dagli elementi fisici della sua implementazione. Qualunque potere causale che la macchina potrebbe avere per causare coscienza e intenzionalità dovrebbe essere una conseguenza della natura fisica della macchina. Ma il programma in quanto programma non ha nessuna natura fisica. Consiste di un insieme di processi formali e sintattici che possono essere implementati nella struttura fisica di vari tipi di macchina. Rispetto alla domanda frequente, “allora, qual è la differenza fra il cervello, che, in fondo, funziona come una serie di micro-processi come l’attivazione di neuroni nelle sinapsi, e il computer con i suoi micro-processi che permettono di procedere avanti e indietro, con le porte ‘e’ e le porte ‘o’”, ecco, rispetto a questa domanda si può rispondere con una sola parola: causazione. Sappiamo che gli specifici processi neurobiologici nel cervello bastano a causare la coscienza, l’intenzionalità e il resto della nostra vita mentale tramite una forma di causazione bottom-up (dal basso verso l’alto). I processi neuronali di livello inferiore, probabilmente a livello delle sinapsi, causano caratteri del cervello di livello superiore come la coscienza e l’intenzionalità. È inutile sentirsi dire che è “controintuitivo” che un chilo e mezzo di questa sostanza grigia e bianca nel mio cranio causa la coscienza, perché sappiamo in effetti che lo fa. Il punto che vorrei sostenere non è il fatto che sia controintuitivo che i computer siano coscienti. Non ho alcun interesse a sostenere simili intuizioni. Il punto, piuttosto, è che il programma implementato è insufficiente di per sé a garantire la presenza della coscienza. Il programma non è definito nei termini dei suoi poteri di causare caratteri del sistema di livello superiore, perché non ha simili poteri. È definito, piuttosto, nei termini della sua struttura sintattica o formale. Ovviamente, il computer su cui sto

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digitando potrebbe essere cosciente per qualche altra ragione. Forse Dio ha deciso di dotare di coscienza tutti i computer con un’etichetta “Intel-inside”. Questo dipende da Lui, e non da me. Il mio argomento è puramente logico e riguarda la distinzione fra la sintassi del programma informatico implementato e l’effettivo contenuto semantico degli stati mentali. La struttura di base dell’argomento della Stanza Cinese è abbastanza ovvia, e i principi su cui si basa – la distinzione tra sintassi e semantica e quella tra simulazione e duplicazione – non sono per niente difficili da afferrare. Ho poca o nessuna difficoltà a spiegarli persino a persone poco esperte nelle nozioni tecniche in questione. Ci si domanda, quindi, perché il dibattito continui. Ebbene, certamente, ci sono una serie di ragioni. Molte persone hanno una dedizione professionale per l’Intelligenza Artificiale Forte. Per dirla senza mezzi termini, in molti casi le loro carriere e i fondi per i loro progetti di ricerca dipendono dalla credenza continua che esse siano capaci di “creare menti” (una persona che lavora nel campo dell’Intelligenza Artificiale Forte una volta mi ha in effetti assicurato che “creava menti”). Per queste persone è psicologicamente impossibile accettare che il progetto dell’Intelligenza Artificiale Forte sia errato in linea di principio. Loro vorrebbero credere che il fallimento dell’Intelligenza Artificiale Forte sia dovuto a qualche limite temporaneo della tecnologia; che se soltanto avessimo dei chip dei computer più veloci o dei sistemi di elaborazione parallela distribuita più complessi, saremmo in grado di superare l’argomento. Il punto dell’argomento non ha nulla a che fare con lo stato della tecnologia, ma riguarda il concetto stesso di computazione, un concetto che Alonzo Church, Alan Turing e altri ci hanno spiegato mezzo secolo fa. II Una delle caratteristiche interessanti della vita intellettuale contemporanea che questo dibattito ha fatto emergere è la persistenza di un insieme di categorie obsolete del XVII secolo in cui le cui le questioni sono tipicamente definite e discusse. Sto pensando non solo al contrasto obsoleto fra il “mentale” e il “fisico”, fra “mente” e “corpo”, ma

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– altrettanto importante – al contrasto obsoleto fra “uomo” e “macchina”. Dunque la questione sull’Intelligenza Artificiale Forte è spesso considerata la stessa questione cui fa riferimento la domanda “una macchina può pensare?”. Eppure ovviamente l’intera questione è assurda. Noi siamo, dopotutto, delle macchine. Se il concetto di “macchina” è definito come qualsiasi sistema fisico capace di svolgere certe funzioni, allora non è in questione che i cervelli umani e animali siano delle macchine. Sono macchine biologiche, e quindi? Non c’è alcuna ragione logica o filosofica per cui non potremmo duplicare l’operazione di una macchina biologica, usando dei metodi artificiali. L’intera opposizione fra uomo e macchina coinvolge una serie di profondi errori filosofici, e ho provato a esporne alcuni nel mio testo originale, ma apparentemente c’è ancora qualcosa da dire. Così proverò a dire che cosa penso serva precisare nella forma di una serie di proposizioni numerate. 1. Non c’è dubbio che le macchine possano pensare, perché i cervelli umani e animali sono precisamente questo tipo di macchine. 2. Non c’è dubbio che una macchina artificiale possa, in linea di principio, pensare. Proprio come possiamo costruire un cuore artificiale, così non c’è alcuna ragione per cui non potremmo costruire un cervello artificiale. Il punto, tuttavia, è che qualunque macchina artificiale di questo tipo dovrebbe essere capace di duplicare, e non solo di simulare, i poteri causali della macchina biologica originale. Un cuore artificiale non simula semplicemente il pompaggio, ma pompa a tutti gli effetti. Un cervello artificiale dovrebbe fare qualcosa in più che simulare la coscienza, dovrebbe essere in grado di produrre coscienza. Dovrebbe causare la coscienza. 3. Possiamo produrre la coscienza artificialmente con mezzi diversi dai composti organici a base di carbonio? La risposta breve a questa domanda è che al momento non lo sappiamo. Visto che non sappiamo come il cervello produca la coscienza, non sappiamo quali dispositivi chimici sono necessari per la sua produzione. Forse si scoprirà che la coscienza può essere prodotta soltanto usando fenomeni elettrochimici, ma non richiede composti organici. Potrebbe essere che alcuni tipi di composti organici in certe condizioni siano causalmente sufficienti senza essere però causalmente necessari. Al momento semplicemente non lo sappiamo. È importante chiarire di che cosa si tratta. Quando dico che il programma implementato

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di per sé non basta a chiarire la coscienza e l’intenzionalità, questa da parte mia è un’affermazione logica. Per definizione, la sintassi del programma non è costitutiva della semantica dei pensieri reali. Ma quando dico che un sistema composto interamente di lattine di birra non è sufficiente a causare coscienza e intenzionalità, questa è un’affermazione empirica da parte mia. È come dire che un sistema composto interamente di lattine di birra non è sufficiente a digerire degli hamburger. È un’affermazione su come funziona la natura. È logicamente possibile, sebbene non effettivamente possibile, che potrei essermi sbagliato. Ma non è logicamente possibile che la sintassi di per sé debba essere semantica. L’Intelligenza Artificiale Forte si basa su un errore logico. Ma c’è ancora una questione aperta rispetto a quali tipi di sistemi siano necessari e sufficienti a produrre coscienza e intenzionalità. Sappiamo, da un lato, che i cervelli umani e animali sono sufficienti a farlo. Sappiamo, dall’altro lato, che le lattine di birra non possono farlo. Che tipo di chimica (nel mezzo) sia in grado di causare la coscienza e l’intenzionalità – è ancora una questione aperta, ed è probabile che rimanga aperta fino a quando non capiamo come fanno i cervelli a causarle. 4. Sebbene i computer come quelli che si acquistano in un negozio siano “macchine”, la computazione come solitamente definita non indica un processo meccanico. Stranamente, il problema non è che i processi computazionali sono troppo simili a una macchina per essere coscienti, ma è piuttosto che sono troppo poco simili a una macchina. La ragione è che la computazione è definita puramente in senso formale o astrattamente nei termini di una implementazione di un algoritmo del computer, e non in termini di trasferimento di energia. Ripeto ancora questo punto: la computazione come solitamente concepita non definisce un processo meccanico nel senso in cui la fotosintesi o la combustione interna indicano dei processi meccanici, perché la fotosintesi o la combustione interna coinvolgono necessariamente il trasferimento di energia. La computazione invece no. La computazione definisce un procedimento matematico astratto che può essere implementato con macchine che permettono il trasferimento di energia, ma il trasferimento di energia non è parte della definizione di computazione. Per affermare questo punto in maniera un po’ più precisa: la nozione di

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“stesso programma implementato” definisce una classe di equivalenza che è specificata non in termini di processi fisici o chimici, ma in termini di astratti processi matematici. Un procedimento meccanico potrebbe causare un procedimento del pensiero? La risposta è: sì. In effetti solo un procedimento meccanico può causare un procedimento del pensiero, e la “computazione” non indica procedimenti meccanici, ma indica un processo che può essere, e tipicamente è, implementato su una macchina. L’Intelligenza Artificiale Forte è uno strano miscuglio di comportamentismo e dualismo. È comportamentista nell’ammettere il test di Turing, ma a un livello filosofico molto più fondamentale è dualista, perché rigetta l’idea che la coscienza e l’intenzionalità siano fenomeni biologici ordinari come la digestione. Per dirla con Dennett e Hofstadter, dobbiamo pensare la mente come «una sorta di cosa astratta la cui identità è indipendente da particolari incorporazioni fisiche»1. Tornerò su questo punto più avanti. III C’è una serie interessante di più ampie questioni filosofiche sollevate da questo dibattito, e ora vorrei considerarne almeno alcune. Penso che nel futuro gli storici del pensiero saranno messi in difficoltà da alcune caratteristiche peculiari della cultura scientifica del tardo XX secolo e del primo XXI secolo. Una delle caratteristiche più sorprendenti è la persistenza di certe visioni antiscientifiche mascherate sotto le spoglie della scienza. Quando dico “mascherate” non intendo alcuna forma di ciarlataneria o disonestà da parte di chi maschera. Penso che si sbaglino in modo del tutto innocente sul contrasto fra la propria visione e un approccio genuinamente scientifico. Alcuni decenni fa il caso più evidente di approccio antiscientifico camuffato da scienza è stato il comportamentismo in filosofia e psicologia. L’idea di base delle forme estreme di comportamentismo era che non c’è niente nella vita mentale oltre al comportamento e alle nostre disposizioni nei confronti del comporta1 Douglas R. Hofstadter, Daniel C. Dennett, (a cura di.), The Mind’s I: Fantasies and Reflections on Self and Soul (Basic Books), 1981; trad. it. L’io della mente, Adelphi, 1985.

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mento. Ma chiunque abbia mai provato dolore o abbia fatto esperienza delle emozioni sa senz’altro che questa visione è falsa. Il dolore che sento è una cosa, il comportamento che il dolore mi fa esibire è un’altra cosa. Quale differenza potrebbe essere più ovvia? Perché al tempo non era così ovvio? Perché non sembrava ovvio a tutti? Ebbene, facciamo un passo avanti e chiediamoci che cosa abbia motivato questa particolare forma di visione antiscientifica nel pieno di una cultura scientifica. Ci accorgeremo che l’errore del comportamentismo aveva alla base un errore ancora più profondo, il verificazionismo. Si supponeva erroneamente che l’essenza della scienza, e di ciò che si considerava il “metodo scientifico”, era che devono esserci metodi definitivi per verificare le affermazioni scientifiche. La versione estrema di questa prospettiva era il positivismo logico, i cui seguaci affermavano che il significato di ogni frase è il suo metodo di verificazione e quindi che la verifica di una frase relativa all’opinione di qualcuno attribuisce l’intero significato alla frase. Quindi, almeno dove si tratta di “idee altrui”, poiché la verifica di una frase su un’altra idea consente prove sul comportamento di quell’altra persona, sembra che non possa esserci altro nella mente oltre il comportamento. Io penso che questo, come lo stesso comportamentismo, sia profondamente antiscientifico, ma non ho ancora detto niente della natura della “scienza” che giustificherebbe quella prospettiva, e rimanderò questa osservazione ancora per qualche istante. Per spiegare come mai queste visioni – comportamentismo e verificazionismo – fossero in realtà profondamente antiscientifiche, sebbene in molti le abbiano considerate come conseguenza di qualcosa chiamato “metodo scientifico”, ho bisogno di dire qualcosa sulla storia dello sviluppo della scienza e della visione del mondo scientifica all’interno della nostra cultura intellettuale. Gli antichi greci non disponevano di una scienza intesa come la intendiamo oggi. Forse la più grande conquista della civiltà greca è stata l’invenzione dell’idea di teoria. Una teoria è un insieme di proposizioni – legate logicamente e sistematicamente – che forniscono una spiegazione dei fenomeni in un determinato contesto. Uno dei primi esempi di una prospettiva sistematica e teoretica su un ambito preciso è la geometria euclidea come esposta nei suoi Elementi. Con l’invenzione dell’idea di una teoria i greci sono giunti a ottenere quasi tutto ciò che è necessario per la scienza, ma non avevano l’idea dell’osservazione sistematica e della

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sperimentazione. Non hanno mai raggiunto l’idea di una forma istituzionalizzata di osservazione sistematica e di esperimento. Quella è arrivata solo dopo il Rinascimento. E, per quanto ne so, non è davvero iniziata fino al XVII secolo. Le conquiste scientifiche del VII secolo sono fra i maggiori avanzamenti della civiltà occidentale. Ma la Rivoluzione Scientifica soffriva di alcuni specifici problemi locali che avevano a che fare con la cultura intellettuale del resto della civilizzazione occidentale durante il XVII secolo, in particolare con l’enorme potere intellettuale della religione organizzata, specialmente della Chiesa cattolica. Il significato intellettuale del grande conflitto fra scienza e religione nel XVII secolo (e poi in seguito) è molto più ampio di qualunque tema io possa sperare di coprire nello spazio di questo breve testo. Ma per gli scopi attuali ci sono tre caratteristiche sulle quali vorrei portare l’attenzione. In primo luogo, la gran parte dei filosofi e degli scienziati coinvolti in questa disputa non voleva rinunciare né alla scienza né alla religione; volevano perseguire le proprie ricerche scientifiche pur mantenendo le proprie convinzioni religiose. Cartesio trovò loro un modo per farlo: divise il mondo in due, un ambito mentale dell’anima o spirito – dominio della religione – e un ambito fisico della materia – dominio della scienza. Questa divisione del territorio sembrò permettere di avere una scienza strettamente fisica combinata con l’accettazione delle dottrine religiose come l’immortalità dell’anima. La scienza, in breve, fu considerata come relativa alla materia e al mondo fisico. Ma c’era un ambito oltre la competenza della scienza, e questo era l’ambito dello spirito o dell’anima o della sostanza mentale. La famosa distinzione di Cartesio fra res cogitans e res extensa è la classica affermazione di questo dualismo. Sebbene questa distinzione sia stata forse politicamente e sociologicamente utile nel XVII secolo, si è poi rivelata infelice e impropria nel XX e nel XXI secolo, perché in molti ancora sostengono l’idea che la coscienza e la soggettività non siano ambiti propri di ricerca scientifica. Molte persone credono che la ricerca sulla coscienza e l’intenzionalità, fenomeni intrinsecamente soggettivi e mentali, vada in un certo senso oltre la competenza di una scienza oggettiva. Questo è un errore molto profondo, con profonde radici storiche, e lo esporrò più dettagliatamente a breve.

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Una seconda caratteristica della disputa fra scienza e religione era l’ossessione per il metodo. L’idea era che nella scienza ci fosse un metodo speciale e che questo metodo fosse diverso da quello di altre aree di ricerca. Gli interminabili dibattiti su fede e ragione erano un’espressione di questa grande disputa fra scienza e religione, e una conseguenza della convinzione che ciò che era speciale della scienza nel raggiungere la verità fosse il “metodo scientifico”. Di nuovo, la conseguenza di questa concezione, come la conseguenza del dualismo di Cartesio, era fornire una concezione della scienza più ristretta rispetto alla nostra idea odierna. La scienza, pensavano, non è universale nella materia, ma ha un materiale limitato. Alcuni hanno persino sostenuto che è ristretta nella materia che può essere affermata matematicamente. A meno che non si possano misurare i fenomeni in questione, non si tratta di fenomeni scientifici in senso proprio. Inoltre, la scienza è vincolata da una nozione di metodo particolarmente ristretta. Un terzo aspetto del conflitto fra scienza e religione non è divenuto del tutto apparente nel XVII secolo, ma è emerso solo in seguito e si è completamente manifestato nel XX secolo. Il terzo aspetto è il seguente: la religione cercava verità assolute e indubitabili. La scienza, d’altra parte, era molto più incerta. La scienza era una questione di ipotesi che si potevano testare, ma queste ipotesi non erano mai considerate come verità assolute. Nel XX secolo le varie rivoluzioni scientifiche, specialmente la rivoluzione einsteiniana che ha ribaltato l’apparente universalità della fisica newtoniana, e la rivoluzione della meccanica quantistica che ha sfidato alcuni dei nostri fondamentali assunti, sembrano dimostrare ancora più chiaramente questo carattere incerto della scienza. L’immagine che otteniamo è che qualunque cosa gli scienziati credano oggi, non è detto che ci crederanno domani, che c’è una continua evoluzione fra un’ipotesi provvisoria e un’altra. Un filosofo che ha sposato questa dottrina esplicitamente è stato Karl Popper2. Popper pensava che la scienza non fosse legata al raggiungimento di una verità, ma che fosse piuttosto una questione di avanzamento delle ipotesi da superare. La scienza non raggiunge mai la verità, ma procede solo da un’ipotesi a un’altra, e le ipotesi 2 Karl Popper, The Logic of Scientific Discovery, Hutchinson, 1959; trad. it. Logica della scoperta scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza, Einaudi, 1970.

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che resistono, come soldati in una guerra senza fine, sono diverse da quelle precedenti solo perché sono ancora in piedi e non sono ancora state confutate. Il passaggio da una filosofia pro-scienza di Popper alle visioni antiscientifiche di Thomas Kuhn3 e Paul Feyerabend4 non è così grande come pensano molti filosofi e scienziati. In effetti, molti scienziati che rifiutano le idee di Kuhn, e sarebbero sconvolti dalle visioni di Feyerabend se ne sapessero qualcosa, affermano di ammirare la filosofia della scienza di Popper. Io credo che non capiscano Popper adeguatamente. A loro piace il fatto che Popper li elogi per la loro originalità nel proporre ipotesi nuove e originali, ma non capiscono che Popper rigetta l’assunto di base dietro la loro impresa, e cioè l’assunto secondo cui loro siano diretti a ottenere la verità5. Queste tre caratteristiche, il dualismo, l’ossessione per il metodo, e il tacito rigetto della verità come scopo della ricerca, hanno avuto un’influenza pervasiva, sebbene non sempre esplicita, sulla vita intellettuale. E queste influenze si sono riversate sul dibattito relativo all’Intelligenza Artificiale Forte. Come, esattamente? Ho menzionato prima che c’è un tacito dualismo nella concezione computazionale della mente. La mente non è una parte ordinaria del mondo biologico come la digestione e la fotosintesi ma è qualcosa di formale e astratto, per cui non ci dobbiamo preoccupare degli specifici meccanismi biochimici che producono la coscienza e le varie forme di intenzionalità. Inoltre il problema chiave è trovare un metodo conclusivo per accertare la presenza di fenomeni mentali e questo lo abbiamo trovato nel test di Turing. L’esistenza di un test oggettivo ci fa sembrare che si stia facendo della vera scienza. Non abbiamo forse un metodo oggettivo di verifica, proprio come le scienze reali? Infine non dobbiamo preoccuparci di quali fatti interiori corrispondano alle nostre affermazioni sulla coscienza e sull’intenzionalità nella vita reale. Piuttosto postuliamo un meccanismo astratto – il programma del computer – e abbiamo un test per misurare il suo successo e fallimento – il test di Turing – e quando le nostre ipotesi sono confermate dal test di Turing 3 Thomas Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, cit. 4 Paul K. Feyerabend, Against Method, New Left Books, 1975; trad. it. Contro il metodo, Feltrinelli, 1979. 5 Per una discussione eccellente su questi problemi, si veda David Stove, Against the Idols of the Age, cit.

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quella è tutta la verità di cui abbiamo bisogno. Spero che sia chiaro che si tratta di un enorme sistema di errori e una delle virtù dell’argomento della Stanza Cinese è che contribuisce a mettere in mostra questi errori. Ovviamente confuta il test di Turing. Il “sistema”, che si tratti di me nella Stanza Cinese, dell’intera stanza, o di un computer commerciale, supera il test di Turing per la comprensione del cinese ma non capisce il cinese, perché non ha alcun modo per associare significati ai simboli cinesi. L’apparenza di una comprensione è un’illusione. Inoltre, quando approfondiamo i dettagli, l’argomento ci ricorda la necessità di realismo scientifico. Siamo interessati al fatto degli stati mentali interni, non all’apparenza esteriore. Le nostre affermazioni, se vere, devono soddisfare più di un test strumentale, devono corrispondere a fatti nel mondo. IV Finora ho richiamato l’attenzione su alcuni errori che la gente in genere commette quando non è abbastanza al corrente delle implicazioni della visione scientifica del mondo. Ora vorrei passare a tre caratteristiche meno ovvie di questa visione del mondo. Queste caratteristiche non stanno in superficie ma, penso, sono facilmente riconoscibili. 1. La distinzione fra dipendenza dall’osservatore e indipendenza dall’osservatore Assolutamente essenziale per la nostra comprensione del mondo è l’essere in grado di distinguere quelle caratteristiche del mondo che esistono indipendentemente dai nostri atteggiamenti e dai nostri fini e quelle che esistono soltanto in relazione a noi. In varie occasioni l’ho definita come la distinzione fra le caratteristiche del mondo che sono “intrinseche” e quelle che sono dipendenti dall’osservatore, ma il termine “intrinseco” è una frequente fonte di confusione; quindi, per evitare la confusione, a volte definisco la distinzione come relativa alla dipendenza dall’osservatore e alla relatività rispetto a questo, da un lato, e all’indipendenza dall’osservatore dall’altro lato. Tipicamente le

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scienze naturali studiano caratteristiche che sono indipendenti dall’osservatore: la forza, la massa, l’attrazione gravitazionale, la fotosintesi, le placche tettoniche, le molecole, e i pianeti, sono tutti indipendenti dall’osservatore. Se non ci fossimo improvvisamente da domani, tutte queste cose continuerebbero a esistere, e in realtà, anche se non fossimo mai esistiti, queste esisterebbero ugualmente. Mi rendo conto che in fisica è comune identificare alcuni di questi parametri come relativi a sistemi di coordinate, ma è anche essenziale vedere che sebbene i libri di fisica a volte li definiscano come “relativi a un osservatore”, essi comunque non intendono questa cosa nel senso in cui la intendo io. Non pensano, ad esempio, che affinché un oggetto abbia una massa, qualcuno deve coscientemente pensarci, o qualcuno deve averci coscientemente pensato. Le scienze sociali tipicamente gestiscono i problemi che sono dipendenti dall’osservatore. Penso a fenomeni come i partiti politici, il matrimonio, il denaro, le elezioni, gli Stati-nazione, la proprietà, e gli sport organizzati. Come al solito, la psicologia sta da qualche parte nel mezzo. La gran parte della psicologia tratta fenomeni indipendenti dall’osservatore come la percezione e la memoria, ma alcune volte in psicologia sociale si trattano fenomeni dipendenti dall’osservatore – come le organizzazioni sociali. Con queste distinzioni in mente è assolutamente cruciale distinguere tra le caratteristiche dei fenomeni mentali che sono dipendenti dall’osservatore e quelle che sono indipendenti dall’osservatore. Il mio attuale stato di coscienza è interamente indipendente dall’osservatore. Non importa ciò che pensano gli altri, io adesso sono cosciente. Ma le attribuzioni di stati mentali che io faccio al mio computer sono dipendenti dall’osservatore. Se dico che il computer ha più memoria di quella che aveva prima o che sa come eseguire più programmi di elaborazione di testi rispetto a quanti ne eseguisse prima, entrambe queste attribuzioni mentali sono ovviamente dipendenti dall’osservatore. Letteralmente, il computer non ricorda niente, e non sa niente, è soltanto una macchina che utilizziamo per certi scopi. Io credo che queste attribuzioni siano nate come metafore, ma che stiano sviluppando nuovi significati letterali man mano che le metafore diventano metafore morte. Una volta che riconosciamo la distinzione tra fenomeni dipendenti dall’osservatore e fenomeni indipendenti dall’osservatore, allora ve-

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diamo che ci serve distinguere tre diversi fenomeni in cui è coinvolta l’intenzionalità. a) Intenzionalità indipendente dall’osservatore. Ad esempio: ora ho sete oppure ora ho fame. b) Intenzionalità dipendente dall’osservatore, in cui l’attribuzione dell’intenzionalità è letterale. Ad esempio, la frase francese “j’ai faim” significa ‘ho fame’. Si noti che in questo caso non c’è nulla di metaforico sull’attribuzione di un significato a una frase francese. È piuttosto letterale. Ma la frase francese costruita come oggetto puramente formale, sintattico, non ha significato di per sé; il significato che ha è solo relativo ai parlanti francesi, e cioè è – nel senso in cui lo intendo io – dipendente dall’osservatore. c) Attribuzioni metaforiche di intenzionalità. Questi sono casi in cui diciamo “la mia auto è assetata di benzina” o “il mio prato ha sete di acqua”. In tali casi le attribuzioni non sono intese alla lettera, e finché non sono interpretate letteralmente, non si crea confusione. Come ho notato prima, le attribuzioni di intenzionalità ai computer stanno passando dal non letterale metaforico al letterale dipendente dall’osservatore. Ma in entrambi i casi, sia nelle ascrizioni metaforiche che in quelle letterali, le attribuzioni sono dipendenti dall’osservatore. Non c’è niente di intrinseco nel computer che renda un fenomeno un ricordo, nel modo in cui è intrinseco rispetto a me e non è relativo all’osservatore che ora ricordi un picnic in cui sono stato la scorsa settimana. 2. Il successo e il fallimento sono dipendenti dall’osservatore L’informatica è giustamente ritenuta un ramo dell’ingegneria. L’ingegneria è – considerata complessivamente – l’insieme di discipline che cercano di usare i risultati delle scienze naturali per provare a migliorare la vita degli esseri umani e il loro controllo sulla natura. La fisica ci dice come funziona il mondo, l’ingegneria ci dice come usare quella conoscenza per costruire ponti, aerei e computer. Questo mi sembra il modo giusto per comprendere queste discipline. Tuttavia, questo conduce a un errore persistente nelle interpretazioni filosofiche dei risultati dell’informatica. L’errore è supporre che, in un modo o nell’altro, il successo e il fallimento siano categorie naturali. In pa-

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role povere, l’assunto è che se il computer può fare qualcosa come lo fanno gli esseri umani, o può farlo meglio degli esseri umani, in un modo o nell’altro questi successi e fallimenti sono psicologicamente rilevanti. Questo è vero sia per le persone che simpatizzano per l’intelligenza artificiale, sia per quelle che non simpatizzano. Entrambe commettono lo stesso errore. Dunque, ad esempio, Ray Kurzweil6 suppone che il potere computazionale aumentato sia di per sé prova di rilevanza psicologica: e Roger Penrose7 presuppone che il fallimento degli algoritmi nell’emulare la performance umana rispetto al riconoscimento della verità nelle frasi non dimostrabili, come dimostrato da Gödel, sia rilevante per valutare il progetto dell’Intelligenza Artificiale Forte. Entrambe implicano un errore molto profondo. L’errore è supporre che la natura riguardi il successo e il fallimento. Vorrei dunque sottolineare questo punto. La natura non sa nulla del successo e del fallimento. In natura, gli eventi semplicemente accadono. Ciò che pensiamo in quanto successo e fallimento riguarda la nostra coscienza, i nostri interessi. E possiamo presumere che altri animali coscienti abbiano qualche idea di successo e fallimento, che è anche in questo caso relativa ai loro interessi. Potrebbe sembrare che la biologia evoluzionistica fornisca esempi che sono eccezioni a questo principio. Dopotutto, non è un fatto scientifico oggettivo che certe specie abbiano successo nella sopravvivenza e altre falliscano? Non è un fatto oggettivo anche che i singoli membri di una specie possono aver successo da un punto di vista evoluzionistico nel riprodurre i propri geni e che altri animali falliscano in questa funzione riproduttiva? La sopravvivenza e l’estinzione sono, in effetti, fatti come tutti gli altri. Ma il fatto che pensiamo a uno come un successo e a un altro come un fallimento dipende da noi. La disciplina della biologia evoluzionistica procede proprio come se gli organismi provassero a sopravvivere e a riprodursi, avendo successo o fallendo in questa impresa. Ma si deve ricordare che l’apparente intenzionalità dietro al successo e al fallimento è interamente dipendente dall’osservatore. Non credo che si possa fare biologia evoluzionistica come 6 Raymond Kurzweil, The Age of Spiritual Machines, Viking, 1999. 7 Roger Penrose, Shadows of the Mind: A Search for the Missing Science of Consciousness, Oxford University Press, 1994; trad. it. Ombre della mente. Alla ricerca della coscienza, Rizzoli, 1996.

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materia senza pensare in termini di adeguatezza inclusiva e corrispondente successo e fallimento nella sopravvivenza della specie. Ma dalla biologia evoluzionistica non consegue che il successo e il fallimento siano intrinseci alla natura. Una pianta che sopravvive e si riproduce ha solo “successo” relativamente alla nostra concezione di successo e fallimento. La pianta non sa nulla di successi e fallimenti. La pianta ha soltanto dei processi biochimici ciechi che producono certi effetti o non li producono. Questa è la profonda fallacia incorporata nell’idea del test di Turing. L’obiezione del test di Turing non è solo quella che ho presentato prima, e cioè che si potrebbe avere lo stesso comportamento esteriore senza avere gli stessi processi interiori. Penso che quello sia un punto ovvio, e a malapena ho bisogno di dilungarmi a trattarlo oltre. Ma c’è un errore più interessante nel test di Turing, ed è che in un modo o nell’altro aver successo o fallire nei nostri progetti tecnologici ha, di per sé, un significato scientifico. Questo non è vero. In nessun caso questa confusione sul successo e il fallimento è stata più evidente che in tutto il clamore che ha circondato il successo del gruppo ibm nella costruzione e nella programmazione di una macchina, Deep Blue, che potesse battere il campione mondiale di scacchi. Usando un nuovo hardware in grado di calcolare oltre duecento milioni di mosse al secondo, e sviluppando un albero capace di andare in dodici posizioni prima di assegnare valori numerici ai punti terminali, gli ingegneri dell’ibm hanno costruito una macchina in grado di battere Garri Kasparov. Questo è stato un incredibile risultato ingegneristico. Che significato scientifico ha avuto questo risultato, per una comprensione della psicologia umana? Per quanto posso dire io, non è stato per nulla significativo. Poiché i computer commerciali sono stati progettati come artefatti che permettono di far risparmiare fatica, e poiché misuriamo il nostro successo o fallimento nel costruire dei computer nei termini di un loro maggiore o minore successo rispetto a mansioni che anche gli esseri umani sono in grado di svolgere, tendiamo a pensare che in un modo o nell’altro il significato scientifico della computazione sia misurato nel suo successo o nel suo fallimento rispetto alla competizione con gli esseri umani. Tutta questa teoria è un covo di errori. I successi e gli insuccessi umani esistono solo in relazione agli interessi umani. E in

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effetti il successo o i fallimenti del computer esistono solo in relazione agli interessi umani perché la macchina non ha interessi psicologicamente reali o indipendenti dall’osservatore. Nel caso di Deep Blue, la macchina non sapeva di giocare a scacchi, di valutare possibili mosse, e persino di vincere o di perdere. Non sapeva nessuna di queste cose, perché non sapeva niente. Tutte le attribuzioni psicologiche che ne derivavano erano dipendenti dall’osservatore. In effetti non sapeva neanche che stava processando dei numeri o eseguendo un programma. In un senso indipendente dall’osservatore, le sole cose che accadevano nella macchina erano delle rapidissime transizioni nei circuiti elettronici. 3. Oggettività e soggettività C’è un errore persistente che pervade molta della nostra cultura intellettuale, e i dibattiti che ho avuto con alcune delle persone che si occupano di intelligenza artificiale lo hanno fatto emergere; è un errore nella nostra concezione di oggettività e soggettività. L’affermazione è che la scienza è per definizione oggettiva, e l’implicazione dovrebbe essere che poiché i fenomeni mentali della nostra esperienza ordinaria sembrano essere soggettivi, il loro studio non può essere parte di una scienza propriamente costruita. Questo è un errore. Ci sono almeno due distinzioni di oggettività e soggettività che sono fra loro confuse. In primo luogo c’è una distinzione fra oggettività e soggettività epistemica. Se dico “Calvin Coolidge è nato negli Stati Uniti”, quell’affermazione è epistemicamente oggettiva perché la sua verità o falsità può essere accertata come un dato di fatto indipendente dalle disposizioni degli osservatori. Invece se dico “Calvin Coolidge è stato un grande presidente”, quell’affermazione è epistemicamente soggettiva perché la sua verità o falsità non può essere accertata oggettivamente, e l’affermazione è relativa a interessi e a valutazioni. In aggiunta a questo senso della distinzione oggettivo/soggettivo, c’è un altro senso che ha a che fare con l’ontologia e cioè con il modo di esistenza degli enti. In quel senso, le montagne e le molecole, come i pianeti e le placche tettoniche, sono ontologicamente oggettivi. I dolori, il solletico, il prurito, d’altro canto, sono ontologicamente soggettivi. Esistono soltanto nella misura in cui ne fanno esperienza soggetti umani

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o animali. Il punto di questa distinzione per la discussione presente è che la soggettività ontologica del campo della vita mentale umana non preclude una scienza epistemicamente oggettiva di quest’ambito. È uno dei molti errori di una certa concezione della scienza cognitiva, che la soggettività della nostra nozione di senso comune della mente precluda che tale concetto sia una materia propria per la scienza. Questo è l’errore dovuto alla confusione fra la soggettività e l’oggettività ontologica con la soggettività e l’oggettività epistemica. Una volta che riconosciamo l’esistenza di un campo ontologicamente soggettivo, allora non c’è ostacolo ad avere una scienza epistemicamente oggettiva di quello stesso campo. V Che cos’hanno a che fare con l’Intelligenza Artificiale Forte e con il dibattito sull’argomento della Stanza Cinese questi tre punti – sulla dipendenza dall’osservatore e l’indipendenza dall’osservatore, la dipendenza dell’osservatore del successo e dell’insuccesso, e le diverse distinzioni che si celano dietro la differenza fra oggettivo e soggettivo? Penso che siano usati per rafforzare gli errori che ho evidenziato prima. Ho sottolineato che l’Intelligenza Artificiale Forte è uno strano mix di comportamentismo e dualismo. È comportamentista nell’accettare il test di Turing, che è un’espressione diretta del comportamentismo. Se qualcosa cammina come una papera e parla come una papera, ecc., allora è una papera, e se si comporta esattamente come se capisse il cinese, allora capisce il cinese. Mi sembrava strano che questo errore fosse legato al dualismo, ma ora vedo che si tratta di una naturale combinazione. Ecco in che senso. Se si accetta il criterio comportamentista perché vi sia presenza della mente, allora ciò che è mentale sarà difficilmente qualcosa di sostanziale e a carattere biologico. È difficile che sia come la digestione o la fotosintesi o la secrezione della bile, o come qualunque altro processo umano biologico. Così il comportamentismo del test di Turing si sposa bene con l’idea che la mente sia qualcosa di formale e astratto. Ora, l’evidente falsità di questa ipotesi dovrebbe essere evidente a chiunque. Non c’è niente di formale o astratto nel voler vomitare o nel provare un impeto di rab-

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bia. Ma se si accetta lo strano miscuglio di dualismo e comportamentismo che è emerso durante il XX secolo, allora sembrerà perfettamente naturale il pensare che la mente non sia un processo fisico sostanziale, ma che sia piuttosto qualcosa di formale o astratto. E sappiamo tutti quale strumento della moderna tecnologia sia in grado di produrre cose che siano formali e astratte. Si tratta precisamente del compito dell’informatica. Questa implementa programmi software formali e astratti all’interno di hardware fisici e concreti. E ciò che importa non è l’hardware, perché qualsiasi hardware può andare bene; ciò che importa è il programma astratto e formale. Ma ora, quale fatto del sistema fisico fa sì che esso abbia delle proprietà psicologiche? A questo punto entra in gioco il problema di distinguere fra caratteristiche indipendenti dall’osservatore e caratteristiche dipendenti dall’osservatore. Ci sentiamo tutti completamente a nostro agio nel dire che i nostri attuali computer hanno memorie più grandi e sono molto più intelligenti dei computer che avevamo dieci anni fa. Ciò che tendiamo a dimenticarci è che nessuna di queste attribuzioni conferisce al sistema caratteristiche indipendenti dall’osservatore. In ogni caso la psicologia è nel punto di vista dell’osservatore. Se andiamo più a fondo notiamo che il fallimento nel vedere la distinzione fra caratteristiche del mondo dipendenti dall’osservatore e indipendenti dall’osservatore è fatale per le affermazioni secondo cui l’intelligenza artificiale sarebbe un ramo delle scienze naturali. La domanda cruciale è: che ne è della computazione? È indipendente dall’osservatore, o è dipendente dall’osservatore? Ricordiamoci, ovviamente, che il fatto che qualcosa sia dipendente dall’osservatore, e che sia dunque in quella misura ontologicamente soggettivo, non lo rende epistemicamente soggettivo. Ma, per ripetere la domanda, che ne è della computazione? Ebbene, ci sono calcoli che faccio effettivamente in maniera cosciente, dove è fuori questione che la computazione sia indipendente dall’osservatore. Se sommo due più due per ottenere quattro, quel calcolo si svolge in me indipendentemente da ciò che pensi chiunque. Ma se dico di questa calcolatrice tascabile che calcola che due più due fa quattro, quello è solo relativo alla nostra disposizione. L’abbiamo progettata, usata, programmata, ecc., in un modo tale per cui possiamo usarla per calcolare. In breve, la computazione della calcolatrice tascabile è interamente dipendente dall’os-

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servatore. E ciò che vale per la calcolatrice tascabile vale anche per il computer commerciale. Quest’ultimo ha un intero sistema di caratteristiche indipendenti dall’osservatore, ed è per questo che lo paghiamo così tanto. Ha transizioni di stato elettriche di incredibile rapidità, e possiamo controllarle e programmarle. In aggiunta alle transizioni di stato elettrico, l’atto del computare che attribuiamo al computer è dipendente dall’osservatore. È solo relativo ai nostri interessi che si possano identificare quelle transizioni di stato in quanto 0 o 1, ecc. Ora, lo ripeto, quando dico che qualcosa è dipendente dall’osservatore, non voglio dire che sia arbitrario. Non si può usare qualunque circuito come una porta-e oppure una porta-o – non si tratta tuttavia di un fenomeno naturale. Inoltre, abbiamo l’errore ulteriore di supporre che il successo e il fallimento siano in un modo o nell’altro rilevanti per la scienza. Cioè, si presume, come ho detto prima, che le aumentate capacità di computazione, la legge di Moore in azione, in qualche modo, ci condurranno a produrre computer più coscienti. Ma questo è ancora una volta un errore derivante dal non aver compreso il carattere fondamentale delle scienze naturali. Esse indagano la natura, e la natura come tale non sa nulla del successo e del fallimento. Per creare coscienza si devono creare meccanismi che possano duplicare e non semplicemente simulare la capacità del cervello di creare coscienza. E, di per sé, la produzione di successo relativo all’osservatore nella competizione con gli esseri umani non è affatto prova della presenza di una coscienza. Infine, la ricerca di oggettività epistemica, una ricerca legittima nella scienza, è erroneamente considerata come preclusiva della soggettività ontologica come campo di indagine. Questo è un errore gravissimo e mi stupisce di vederlo nella vita reale, eppure viene commesso. Anziché investigare il carattere interiore, qualitativo, ontologicamente soggettivo della vita umana mentale, i ricercatori nel campo dell’intelligenza artificiale trovano rassicurante il carattere fisico dei sistemi informatici, dei sistemi costituti da simboli fisici. Sembra che si possa fare scienza vera e propria soltanto se cambiamo soggetto e parliamo non della realtà mentale ma dei nostri sistemi elettronici e dei loro programmi. Questo errore è basato sul non vedere che si può avere una scienza epistemicamente oggettiva di un campo invece ontologi-

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camente soggettivo. In effetti queste scienze esistono già. Ogni libro di neurologia muove senza scrupoli filosofici fra la discussione dei dolori, delle ansie e delle paure dei pazienti (ontologicamente soggettivi) e le sottostanti strutture neuronali che sono sia la causa dei sintomi sia il modo con cui questi avvengono (ontologicamente oggettive). Conclusione Una delle morali principali che si possono trarre da questa intera discussione è che una scienza epistemicamente oggettiva della mente dovrà rendere conto dell’esistenza di fenomeni ontologicamente soggettivi come la coscienza e l’intenzionalità. In questa scienza il computer avrà lo stesso ruolo che in ogni altra scienza. È uno strumento utile per la ricerca, ed è particolarmente utile per produrre simulazioni di fenomeni naturali. Ma la simulazione non dovrebbe essere confusa con la duplicazione, che si tratti della mente o di qualsiasi altra cosa. Nei ventun anni dalla pubblicazione del testo Minds, Brains, and Programs uno sviluppo considerevole ha avuto luogo. Abbiamo compreso molto di più di come funziona il cervello e iniziamo a capire come questo produca la coscienza. Abbiamo molta strada da fare e non vorrei sopravvalutare il progresso fatto sin qui. Ma non è escluso che nel corso del nostro tempo arriveremo a capire come i processi del cervello causano la coscienza e come gli stati coscienti sono realizzati nel cervello. Con una comprensione dei meccanismi biologici della coscienza la gran parte dei problemi dell’intenzionalità sarà anche risolto, perché l’intenzionalità della visione, dell’udito, della memoria, ecc. sono in primo luogo casi di intenzionalità cosciente. Le forme inconsce sono derivate dalle forme coscienti. Nella scienza cognitiva sta accadendo un inesorabile cambio di paradigma: stiamo spostandoci dalla scienza cognitiva computazionale alla neuroscienza cognitiva. Per la vera scienza del cervello, la fantasia dell’Intelligenza Artificiale Forte, la fantasia per cui semplicemente designando il programma giusto si possono creare coscienza e intenzionalità, è irrilevante.

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Bibliografia Feyerabend Paul K., Against Method, New Left Books, 1975; trad. it. Contro il metodo, Feltrinelli, 1979. Hofstadter Douglas, Dennett Daniel C. (a cura di.), The Mind’s I: Fantasies and Reflections on Self and Soul, Basic Books, 1981; trad. it. L’io della mente, Adelphi, 1985. Kuhn Thomas S., The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press), 1962; trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee della scienza, Einaudi, 1969. Kurzweil Raymond, The Age of Spiritual Machines, Viking, 1999. Penrose Roger, Shadows of the Mind: A Search for the Missing Science of Consciousness, Oxford University Press, 1994; trad. it. Ombre della mente. Alla ricerca della coscienza, Rizzoli, 1996. Popper Karl R., The Logic of Scientific Discovery, Hutchinson, 1959; trad. it. Logica della scoperta scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza, Einaudi, 1970. Stove David C., Against the Idols of the Age, a cura di Roger Kimball, Transaction, 1999.

4. Il cervello può considerarsi un computer digitale1?

Introduzione, intelligenza artificiale forte, intelligenza artificiale debole e cognitivismo Ci sono diversi modi di presentare una relazione di indirizzo presidenziale alla apa; quello che ho scelto è semplicemente di raccontare il lavoro che sto facendo in questo momento, dunque un lavoro in corso. Presenterò alcune delle mie ulteriori esplorazioni nel modello computazionale della mente2. L’idea di base del modello computazionale della mente è che la mente sia il programma e il cervello l’hardware di un sistema computazionale. Uno slogan che circola spesso è “la mente sta al cervello come il programma all’hardware”3. 1 Relazione di indirizzo presidenziale al sessantaquattresimo incontro annuale della Pacific Division dell’American Philosophical Association, Los Angeles, California, 30 marzo 1990. 2 Per lavori precedenti si veda John R. Searle, Minds, Brains and Programs, cit.; e Id., Minds, Brains and Science, Harvard University Press, 1984. 3 Questa prospettiva viene enunciata e promossa in un gran numero di libri e articoli, molti dei quali sembrano avere più o meno lo stesso titolo, per esempio: Computers and Thought di Edward A. Feigenbaum, Julian Feldman, edito da McGraw-Hill Company, 1963; Computers and Thought di Mike Sharples, David Hogg, Chris Hutchinson, Steve Torrance, David Young, edito da mit Press, 1988; The computer and the Mind. An Introduction to cognitive science di Philip N. Johnson-Laird, edito da Harvard University Press, 1988; trad. it. La mente e il computer. Introduzione alla scienza cognitiva, il Mulino, 1997; Computation and Cognition di Zenon W. Pylyshyn, edito da mit Press, 1985; The Computer Model of Mind di Ned Block, in Edward

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Iniziamo la nostra indagine su questa tesi distinguendo tre domande: 1) Il cervello è un computer digitale? 2) La mente è un programma? 3) Le operazioni del cervello possono essere simulate su un computer digitale? Mi occuperò della domanda 1) e non della 2) e della 3). Penso che alla domanda 2) si possa decisamente rispondere di no. Visto che i programmi sono definiti in modo puramente formale o sintattico e visto che le menti hanno un contenuto mentale intrinseco, segue immediatamente che il programma da solo non è in grado di costituire la mente. La sintassi formale del programma di per sé non garantisce la presenza di contenuti mentali. L’ho dimostrato circa una decina d’anni fa nell’argomento della Stanza Cinese4. Un computer (come me, ad esempio) potrebbe svolgere i passaggi del programma grazie a qualche capacità mentale, come la comprensione del cinese, senza però capire una parola di cinese. L’argomento si fonda sulla semplice verità logica che la sintassi non è la stessa cosa della semantica, né è di per sé sufficiente per determinare la semantica. Quindi la risposta alla seconda domanda è ovviamente “no”. La risposta alla domanda 3) mi sembra altrettanto ovviamente “sì”, almeno a una lettura naturale. Interpretata naturalmente, la domanda significa: esiste una qualche descrizione del cervello tale per cui con quella descrizione si possa fare una simulazione computazionale delle operazioni del cervello? Ma se – seguendo la tesi di Church – tutto ciò che può avere una caratterizzazione sufficientemente precisa in una sequenza di passaggi può essere simulato su un computer digitale, ne segue semplicemente che la domanda ha una risposta affermativa. Le operazioni del cervello possono essere simulate su un computer digitale nello stesso senso in cui possono esserlo i sistemi del tempo atmosferico, l’andamento del mercato della Borsa di New York o lo schema dei voli di linea in America Latina. Perciò la nostra domanda non è “la mente è un programma?” – la risposta a questa domanda è “no”. Non è nemmeno “il cervello può esseE. Smith, Daniel N. Osherson (a cura di), An Invitation to Cognitive Science, III: Thinking, mit Press, 1990, pp. 247-289; e naturalmente Computing machinery and intelligence di Alan Turing, in «Mind», vol. 59, n. 236, 1950, pp. 433-460. 4 John R. Searle, Minds, Brains and Programs, cit.

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re simulato?”, la cui risposta è “sì”. La domanda è la seguente: “La mente è un computer digitale?” e per gli scopi di questa discussione considero quella domanda equivalente a: “I processi cerebrali hanno natura computazionale?”. Si potrebbe pensare che questa domanda potrebbe perdere molto interesse con una risposta negativa alla domanda 2). Cioè, si potrebbe supporre che a meno che la mente non sia un programma, non c’è interesse rispetto alla questione se il cervello sia o no un computer. Ma non è questo il punto, in verità. Persino per coloro che concordano sul fatto che i programmi di per sé non costituiscono dei fenomeni mentali, c’è ancora una questione importante: posto che nella mente c’è altro oltre le operazioni sintattiche del computer digitale, ciononostante, potrebbe essere che gli stati mentali siano almeno stati computazionali e che i processi mentali siano processi computazionali che operano sulla struttura formale di quegli stati mentali. Questa, infatti, mi sembra la posizione maggiormente condivisa. Non sto dicendo che la prospettiva sia completamente chiara, ma l’idea è qualcosa del genere: a un certo livello di descrizione, i processi cerebrali sono sintattici; ci sono – per così dire – delle “frasi nella testa”. Queste non devono essere frasi in inglese o in cinese, ma forse nel «linguaggio del pensiero»5. Ora, come tutte le altre frasi, anche queste hanno una struttura sintattica e una semantica o significato, e il problema della sintattica può essere distinto da quello della semantica. Il problema della semantica è: come fanno queste frasi nella testa a ottenere il proprio significato? La questione può essere discussa indipendentemente dalla domanda: come lavora il cervello nel processare queste frasi? Una risposta tipica a quest’ultima domanda è: il cervello funziona come un computer digitale che svolge operazioni di calcolo sulla struttura sintattica delle frasi nella testa. Giusto per fare chiarezza sull’uso dei termini, chiamo Intelligenza Artificiale Forte la visione per cui tutto ciò che serve perché ci sia una mente è un programma, Intelligenza Artificiale Debole la visione secondo cui i processi cerebrali (e mentali) possono essere simulati in modo computazionale, e cognitivismo la visione per cui il cervello è un computer digitale. 5 Jerry A. Fodor, The Language of Thought, Thomas Y. Crowell, 1975.

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Il presente testo riguarda il cognitivismo, e sarà meglio che io spieghi da subito le ragioni su cui si fonda. Se si leggono dei libri sul cervello (per esempio Shepherd o Kuffler e Nicholls)6 si ottiene un certo quadro di quel che avviene nel cervello. Se ci si rivolge ai testi sulla computazione (per esempio Boolos e Jeffrey)7 si trova una certa immagine della struttura logica della teoria della computazione. Se poi si guarda ai libri sulle scienze cognitive (ad esempio Pylyshyn)8 questi sembrano dire che ciò che troviamo nei libri sul cervello è esattamente la stessa cosa che descrivono i libri sulla computazione. Dal punto di vista filosofico, questo non suona corretto a mio avviso e ho imparato che – almeno quando una ricerca è al principio – si deve seguire il proprio sesto senso. La Storia Originaria Voglio iniziare il mio discorso provando a sostenere nel modo più fermo possibile perché il cognitivismo sia stato intuitivamente convincente. C’è una storia sulla relazione fra l’intelligenza umana e la computazione che risale almeno al classico articolo di Turing9 e credo sia questo il fondamento della visione cognitivista. La chiamerò la Storia Originaria: Iniziamo con due risultati in logica matematica, la tesi Church-Turing (a volte detta tesi di Church) e il teorema di Turing. Per quanto ci riguarda, la tesi di Church-Turing afferma che per ogni algoritmo esiste una macchina di Turing in grado di implementare quell’algoritmo. Il teorema di Turing dice che c’è una Macchina Universale di Turing che può simulare ogni macchina di Turing. Ora se mettiamo queste due tesi insieme otteniamo che la Macchina Universale di Turing può implementare qualunque algoritmo.

6 Gordon M. Shepherd, Neurobiology, Oxford University Press, 1983; Stephen W. Kuffler, John G. Nicholls, From Neuron to Brain, Sinauer Associates, 1976. 7 George S. Boolos, Richard C. Jeffrey, Computability and Logic, Cambridge University Press, 1989. 8 Zenon W. Pylyshyn, Computation and Cognition, cit. 9 Alan Turing, Computing machinery and intelligence, in «Mind», vol. 59, n. 236, 1950.

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Ora, cosa rende questo risultato così entusiasmante? Ciò che ha fatto venire i brividi in lungo e in largo a un’intera generazione di giovani lavoratori nel campo dell’Intelligenza Artificiale è il seguente pensiero: “Immagina che il cervello sia una Macchina Universale di Turing”. Ebbene, ci sono delle buone ragioni per supporre che il cervello possa essere una Macchina Universale di Turing? Proseguiamo con la Storia Originaria. È chiaro che almeno alcune abilità umane mentali sono algoritmiche. Ad esempio, io posso coscientemente fare una lunga divisione seguendo i vari passaggi di un algoritmo destinato alla risoluzione di problemi con lunghe divisioni. È inoltre una conseguenza della tesi di Church-Turing e del teorema di Turing che qualsiasi cosa un essere umano possa fare algoritmicamente si può fare su una Macchina Universale di Turing. Per esempio, posso implementare su un computer digitale lo stesso algoritmo che uso per le lunghe divisioni. In questo caso, come ha sostenuto Turing (1950), sia io (il computer umano) sia il computer meccanico implementiamo lo stesso algoritmo; io lo faccio consciamente, il computer meccanico lo fa inconsciamente. Sembra ragionevole supporre che ci siano anche una serie di processi mentali che accadono nel mio cervello in modo inconscio e che sono anche computazionali. E se fosse così, potremmo scoprire come funziona il computer simulando proprio questi stessi processi su un computer digitale. Esattamente come potremmo ottenere una simulazione al computer dei processi per fare le divisioni lunghe, come potremmo ottenere una simulazione al computer dei processi utili a comprendere il linguaggio, la percezione visiva, la categorizzazione, ecc.

“Ma che ne è della semantica? Dopotutto, i programmi sono esclusivamente sintattici”. Qui un altro insieme di risultati logico-matematici entra in gioco nella Storia Originaria. Lo sviluppo della teoria della dimostrazione ha provato che, entro limiti ben definiti, le relazioni semantiche fra proposizioni possono essere interamente riflesse dalle relazioni sintattiche fra le frasi che esprimono quelle proposizioni. Ora, supponiamo che nella testa i contenuti mentali siano espressi sintatticamente, allora tutto ciò che ci servirebbe tenere in considerazione per i processi mentali sarebbero i processi computazionali fra gli elementi sintattici nella testa. Se comprendiamo esattamente la teoria della dimostra-

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zione la semantica sarà risolta; ed è questo che fanno i computer: implementano la teoria della dimostrazione.

Abbiamo dunque un programma di ricerca ben definito. Proviamo a scoprire i programmi implementati nel cervello programmando i computer a implementare gli stessi programmi. Lo facciamo portando il computer meccanico a pareggiare le prestazioni del computer umano (per esempio rendendolo capace di superare il test di Turing) e poi facendo sì che gli psicologi cerchino prova del fatto che i processi interni sono gli stessi nei due tipi di computer. Ora, vorrei che il lettore tenesse a mente questa Storia Originaria – ricordando in special modo il contrasto evidenziato da Turing fra l’implementazione del programma da parte di un computer umano e l’implementazione inconscia dei programmi, sia da parte del cervello che da parte del computer meccanico; e tenendo inoltre a mente l’idea per cui potremmo anche scoprire dei programmi che funzionano nel mondo naturale, gli stessi che inseriamo nei nostri computer meccanici. Se guardiamo ai libri e agli articoli a supporto del cognitivismo si trovano certi assunti comuni, spesso non esplicitati, ma ciononostante pervasivi. In primo luogo, si sostiene spesso che l’unica alternativa alla visione per cui il cervello è un computer digitale è una qualche forma di dualismo. L’idea è che, a meno che non si creda nell’esistenza delle anime immortali come sosteneva Cartesio, si deve credere che il cervello sia un computer. Infatti spesso si ha l’impressione che la domanda se il cervello sia un meccanismo fisico che determina i nostri stati mentali e se il cervello sia un computer digitale siano la stessa domanda. Parlando retoricamente, l’idea è costringere il lettore a pensare che a meno che non accetti l’idea che il cervello è un tipo di computer, allora sarebbe un sostenitore di una qualche bizzarra visione antiscientifica. Recentemente il campo si è aperto un po’ fino ad ammettere che il cervello potrebbe non essere un computer digitale diverso dal modello un po’ antiquato di von Neumann, ma sarebbe piuttosto un tipo più sofisticato di elaboratore computazionale parallelo. Ancora oggi negare che il cervello sia computazionale significa rischiare di perdere il nostro diritto di essere membri della comunità scientifica.

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In secondo luogo, è stato anche sostenuto che la domanda se i processi del cervello siano o no computazionali è puramente empirica. Deve essere sottoposta a una ricerca fattuale come nel caso di questioni come se il cuore sia o no una pompa per il sangue o se le foglie verdi facciano o no la fotosintesi. Non c’è spazio per la logica spicciola o per l’analisi concettuale, dal momento che parliamo di questioni strettamente scientifiche. In effetti penso che molte persone in questo campo dubiterebbero che il titolo di questo scritto ponga una questione filosofica appropriata. “Il cervello è davvero un computer digitale?” non è una domanda filosofica più di: “Il neurotrasmettitore delle giunzioni neuromuscolari è realmente acetilcolina?”. Anche i non simpatizzanti del cognitivismo, come Penrose e Dreyfus, sembrano trattarla come un semplice dato di fatto. Non sembrano preoccupati della questione relativa al tipo di affermazione che starebbero mettendo in dubbio. Ma la domanda che mi interessa è: che tipo di fatto relativo al cervello potrebbe essere costitutivo del suo essere un computer? In terzo luogo, un’altra caratteristica stilistica di questi scritti è la fretta e talora persino la trascuratezza con cui le questioni fondamentali vengono sorvolate. Quali sono esattamente le caratteristiche anatomiche e fisiologiche dei cervelli che sono in discussione? Cos’è esattamente un computer digitale? E come dovrebbero connettersi fra loro le risposte a queste due domande? La procedura tipica in questi libri e articoli è di fare alcune considerazioni sugli 0 e sugli 1, dare un sunto magari anche noto della tesi di Church-Turing, e poi proseguire con cose più eccitanti come le conquiste e i fallimenti dei computer. Con mia sorpresa, nel leggere questo tipo di bibliografia ho scoperto che sembra esserci una spaccatura filosofica molto peculiare. Da una parte, abbiamo un insieme molto elegante di risultati matematici che vanno dal teorema di Turing alla tesi di Church sulle funzioni ricorsive. Dall’altra parte, abbiamo un insieme impressionante di strumenti elettronici che utilizziamo ogni giorno. Dal momento che abbiamo una matematica così avanzata e un’elettronica di così buon livello, presumiamo che in qualche maniera qualcuno deve aver fatto il lavoro filosofico di base di connettere la matematica con l’elettronica. Ma per quanto ne so questo non è accaduto. Al contrario, siamo in una situazione peculiare in cui c’è poco accordo teoretico fra esperti

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e professionisti su domande assolutamente fondamentali come: che cos’è esattamente un computer digitale? Che cos’è esattamente un simbolo? Che cos’è esattamente un processo computazionale? Per quali condizioni fisiche esattamente questi due sistemi implementerebbero lo stesso tipo di programma? La definizione di computazione Visto che non c’è un accordo universale sulle domande fondamentali, credo sia meglio tornare alle fonti, alle definizioni originali fornite da Alan Turing. Secondo Turing, una macchina di Turing può eseguire certe operazioni elementari: può riscrivere uno 0 sul suo nastro come un 1, può riscrivere un 1 sul suo nastro come uno 0, può spostare il nastro di un quadratino verso sinistra, o può spostarlo di un quadratino verso destra. È controllata da un programma di istruzioni e ogni istruzione specifica una condizione e un’azione da eseguire se la condizione è soddisfatta. Quella è la definizione standard di computazione ma, presa letteralmente, è quantomeno un po’ fuorviante. Se si apre il computer di casa è molto improbabile che si trovino 0 o 1 o persino un nastro. Ma questo non importa affatto per la definizione. Per capire se un oggetto è davvero un computer digitale, sembra che non si debbano cercare in realtà gli 0 e gli 1, e gli altri simboli; piuttosto si deve cercare qualcosa che potremmo trattare come o che potrebbe contare come o che potrebbe essere usato per funzionare come 0 o 1. Inoltre, per rendere la questione più complicata, viene fuori che la macchina potrebbe essere fatta di qualsiasi cosa. Come dice Johnson-Laird, potrebbe essere costituita da ingranaggi e leve come un vecchio calcolatore meccanico; potrebbe essere costituita da un sistema idraulico attraverso il quale scorre l’acqua; potrebbe essere costituita da transistor posti su un chip di silicio attraverso cui passa una corrente elettrica. Potrebbe persino essere fatta funzionare anche dal cervello. Ognuna di queste macchine usa un diverso mezzo per rappresentare i simboli binari – le posizioni degli ingranaggi,

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la presenza o l’assenza di acqua, il livello della tensione e forse gli impulsi nervosi10.

Simili osservazioni vengono fatte dalla gran parte delle persone che scrivono su questo tema. Per esempio, Ned Block11 dimostra che possiamo avere delle porte elettriche dove gli 1 e gli 0 hanno delle differenze di potenziale di 4 e 7 volt rispettivamente. Perciò potremmo pensare di dover andare a cercare dei livelli di voltaggio. Ma Block ci dice che a 1 è solo “convenzionalmente” assegnato un certo livello di voltaggio. La situazione diviene più complicata quando ci informa ulteriormente che non abbiamo per niente bisogno di usare elettricità ma potremmo usare un sistema elaborato di gatti e topi e formaggio e costruire le nostre porte in modo tale che il gatto stia in tensione al guinzaglio e apra tirando un cancello che possiamo trattare come se fosse uno 0 o un 1. Il punto su cui Block insiste fermamente è «l’irrilevanza della realizzazione dell’hardware per la descrizione computazionale. Questi cancelli lavorano in modi diversi ma essi sono ciononostante computazionalmente equivalenti»12. Allo stesso modo, Pylyshyn sostiene che una sequenza computazionale potrebbe essere realizzata da un «gruppo di piccioni addestrati a beccare come una macchina di Turing!»13. Ma adesso, se proviamo a prendere sul serio l’idea che il cervello sia un computer digitale, otteniamo lo scomodo risultato che potremmo costruire un sistema che fa soltanto ciò che fa il cervello. Parlando a livello computazionale, da questo punto di vista, si può fare un “cervello” che funziona proprio come il tuo e il mio pur essendo costituito da cani, gatti, e formaggio o leve, o tubature, o qualsiasi altra cosa, basta che i sistemi siano – nei termini di Block – «computazionalmente equivalenti». Chi sostiene il cognitivismo riporta questo risultato con autentico e manifesto piacere. Ma penso che dovrebbero essere preoccupati di questo, e proverò a dimostrare che si tratta solo della punta dell’iceberg di questo problema. 10 Philip N. Johnson-Laird, The Computer and the Mind. An Introduction to Cognitive Science, cit., p. 39. 11 Ned Block, The Computer Model of Mind, cit. 12 Ivi, pp. 247-289. 13 Zenon W. Pylyshyn, Computation and Cognition, cit., p. 57.

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Prima difficoltà: la sintassi non è intrinseca alla fisica Perché i difensori del computazionalismo non temono le implicazioni della realizzabilità multipla? La risposta è che pensano che sia tipico degli approcci funzionalisti che la stessa funzione possa ammettere diversi tipi di realizzazione. Da questo punto di vista, i computer sono esattamente come dei carburatori o dei termostati. Proprio come i carburatori possono essere fatti di ottone o di acciaio, così i computer possono essere fatti con una serie indefinita di materiali. Ma c’è una differenza: le classi dei carburatori e dei termostati sono definite nei termini della produzione di certi effetti fisici. Questo è il motivo per cui, ad esempio, nessuno dice che si possono fare dei carburatori con i piccioni. Ma la classe dei computer è definita sintatticamente in termini di assegnazione di 0 e di 1. La realizzabilità multipla non è tanto una conseguenza del fatto che lo stesso effetto fisico può essere ottenuto in diverse sostanze fisiche, quanto del fatto che le proprietà rilevanti sono puramente sintattiche. La struttura fisica è irrilevante a parte che nella misura in cui ammette l’assegnazione di 0 e di 1 e la transizione di stato fra di loro. Ma ciò ha due conseguenze che potrebbero essere disastrose: 1. Lo stesso principio che implica la realizzabilità multipla sembrerebbe implicare anche la realizzabilità universale. Se la computazione è definita nei termini dell’assegnazione di sintassi allora qualsiasi cosa potrebbe essere un computer digitale, perché ogni oggetto può avere le proprie assegnazioni sintattiche. Si potrebbe descrivere qualsiasi cosa nei termini di 0 e di 1. 2. Ancora peggio, la sintassi non è intrinseca alla fisica. L’attribuzione di proprietà sintattiche è sempre relativa a un agente o a un osservatore che tratta certi fenomeni fisici come sintattici. Ora, per quale ragione esattamente queste conseguenze sarebbero disastrose? Ebbene, volevamo sapere come funziona il cervello, specificamente come produce i fenomeni mentali. E non si riceverebbe una risposta a tale questione sentendosi dire che il cervello è un computer digitale allo stesso modo in cui lo sono lo stomaco, il fegato, il cuore, il sistema

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solare, e lo Stato del Kansas. Il modello che avevamo era tale per cui avremmo potuto scoprire qualcosa sui meccanismi del cervello che ci avrebbe dimostrato che esso è un computer. Volevamo sapere se non ci fosse qualche senso in cui il cervello fosse intrinsecamente un computer digitale nel modo in cui le foglie verdi intrinsecamente svolgono la fotosintesi o i cuori intrinsecamente pompano il sangue. Non siamo noi che assegniamo arbitrariamente o “convenzionalmente” la parola “pompa” ai cuori o “fotosintesi” alle foglie. C’è un dato di fatto vero e proprio. E ciò che ci stiamo domandando è: “C’è un elemento di fatto del cervello che lo rende un computer digitale?”. Non ci dà una risposta alla domanda il fatto che ci venga detto che sì, il cervello è un computer digitale perché tutto è un computer digitale. Sulla base della definizione standard di computazione: 1. Per ogni oggetto c’è una qualche descrizione tale per cui in base a quella descrizione l’oggetto è un computer digitale. 2. Per ogni programma c’è un qualche oggetto sufficientemente complesso tale per cui esiste una descrizione dell’oggetto sulla base della quale esso implementa il programma. Così, ad esempio, il muro dietro la mia schiena in questo momento sta implementando il programma Wordstar, perché c’è una qualche struttura di movimenti molecolari che è isomorfa rispetto alla struttura formale di Wordstar. Ma se il muro sta implementando Wordstar allora se è abbastanza grande implementa qualsiasi programma, incluso qualsiasi programma che è implementato nel cervello. Penso che la ragione principale per cui i sostenitori del computazionalismo non vedono che la realizzabilità multipla o universale è un problema sia che non vedono che essa è una conseguenza di un punto molto più profondo, e cioè che la “sintassi” non è il nome di una caratteristica fisica, come la massa o la gravità. Al contrario parlano di “motori sintattici” e persino di “motori semantici” come se questo significasse parlare di motori a benzina o a diesel, come se fosse una semplice questione di fatto che il cervello o qualsiasi altra cosa sia un motore sintattico. Credo sia possibile, con buona probabilità, bloccare il risultato della realizzabilità universale restringendo la nostra definizione di computazione. Certamente dovremmo rispettare il fatto che i programmatori e gli ingegneri la vedono come una stranezza delle defini-

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zioni originali di Turing e non come una caratteristica reale della computazione. Opere non pubblicate di Brian Smith, Vinod Goel, e John Batali suggeriscono tutte che una definizione più realistica di computazione enfatizzerà caratteristiche come le relazioni causali fra stati di programma, la programmabilità e la controllabilità dei meccanismi, e la localizzazione nel mondo reale. Ma queste ulteriori restrizioni della definizione di computazione non sono d’aiuto nella discussione presente perché il problema veramente profondo è che la sintassi è essenzialmente una nozione relativa all’osservatore. La realizzabilità multipla di processi computazionalmente equivalenti in diversi mezzi di comunicazione fisici non era solo un segnale che i processi sono astratti, ma che non erano per nulla intrinseci al sistema. Dipendevano da un’interpretazione dall’esterno. Stavamo cercando dei dati di fatto che potessero rendere computazionali i processi cerebrali; ma dato il modo in cui abbiamo definito la computazione, questi dati di fatto non avrebbero mai potuto esserci. Non possiamo, da un lato, dire che qualcosa è un computer digitale se possiamo assegnare a esso una sintassi e poi supporre che ci sia una domanda fattuale intrinseca al suo funzionamento fisico relativa al fatto che un sistema naturale come il cervello sia oppure no un computer digitale. E se la parola “sintassi” sembra enigmatica, lo stesso può affermarsi senza questa parola. Cioè, qualcuno potrebbe affermare che le nozioni di “sintassi” e di “simboli” sono soltanto un modo di pensare e che ciò che davvero dovrebbe interessarci è l’esistenza di sistemi con fenomeni fisici discreti e i passaggi di stato fra questi. In quest’ottica non abbiamo veramente bisogno di 0 e di 1; sono solo abbreviazioni utili. Ma, credo, questo non serve. Uno stato fisico di un sistema è uno stato computazionale solo relativamente all’assegnazione a quello stato di un qualche ruolo, funzione, o interpretazione computazionale. Lo stesso problema emerge senza 0 o 1 perché nozioni come computazione, algoritmo e programma non nominano caratteristiche fisiche intrinseche ai sistemi. Gli stati computazionali non sono scoperti nella fisica, ma sono assegnati alla fisica. Questo è un argomento diverso da quello della Stanza Cinese e avrei dovuto accorgermene dieci anni fa, ma non è accaduto. L’argomento della Stanza Cinese ha mostrato che la semantica non è intrinseca alla sintassi. Io adesso sto dimostrando il punto separato e di-

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verso che la sintassi non è intrinseca alla fisica. Ai fini dell’argomento originale stavo soltanto supponendo che la caratterizzazione sintattica del computer fosse priva di problemi. Ma questo è un errore. Non c’è modo di scoprire che qualcosa è intrinsecamente un computer perché la sua caratterizzazione in quanto computer digitale è sempre relativa a un osservatore che assegna un’interpretazione sintattica alle caratteristiche puramente fisiche del sistema. Applicato all’ipotesi del Linguaggio del Pensiero, questo ha la conseguenza che la tesi è incoerente. Non c’è modo di scoprire che ci sono, intrinsecamente, frasi ignote nella tua testa perché qualcosa è una frase solo relativamente a qualche agente o utente che la usa in quanto frase. Applicata generalmente al modello computazionale, la caratterizzazione del processo come computazionale è una caratterizzazione di un sistema fisico dall’esterno, e l’identificazione del processo come computazionale non identifica una caratteristica intrinseca della fisica, ma è essenzialmente una caratterizzazione relativa all’osservatore. Il punto deve essere compreso in maniera precisa. Non sto dicendo che ci sono limiti a priori sui modelli che potremmo scoprire in natura. Potremmo senza dubbio scoprire uno schema di eventi nel mio cervello che era isomorfico all’implementazione del programma vi su questo computer. Ma dire che qualcosa funziona come un processo computazionale è dire qualcosa in più rispetto al fatto che sta avvenendo una serie di eventi fisici. Richiede l’assegnazione di un’interpretazione computazionale da parte di qualche agente. Analogamente, potremmo scoprire in natura degli oggetti che hanno la stessa forma delle sedie e che potrebbero quindi essere utilizzati come sedie; ma non potremmo scoprire oggetti in natura che funzionano come sedie se non relativamente ad alcuni agenti che li considerano o usano come sedie. Seconda difficoltà: la fallacia dell’omuncolo è endemica al cognitivismo Fin qui, sembra che siamo arrivati a un problema. La sintassi non è parte della fisica. Questo ha la conseguenza che se la computazione è definita sintatticamente allora niente è intrinsecamente un computer

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digitale soltanto in virtù delle sue proprietà fisiche. C’è un modo per fuoriuscire da questo problema? Sì, c’è, ed è una strada tipicamente presa nelle scienze cognitive, ma è come finire dalla padella alla brace. La gran parte dei lavori che ho visto nella teoria computazionale della mente riprende una qualche variazione della fallacia dell’omuncolo. L’idea è sempre di trattare il cervello come se ci fosse un qualche agente al suo interno che lo usa per calcolare. Un caso tipico è David Marr14, che descrive la visione come un procedimento che parte da una rete visiva a due dimensioni sulla retina e arriva a una descrizione a tre dimensioni del mondo esterno, come risultato del sistema visivo. La difficoltà è: chi legge la descrizione tridimensionale? Infatti, sembrerebbe dal libro di Marr e da altri lavori fondamentali in materia, che si debba invocare un omuncolo all’interno del sistema per trattare le sue operazioni come genuinamente computazionali. Molti studiosi ritengono che la fallacia dell’omuncolo non sia davvero un problema poiché, seguendo Dennett15, credono che l’omuncolo possa essere “congedato”. L’idea è questa: visto che le operazioni computazionali del computer possono essere analizzate in unità progressivamente sempre più semplici, finché non si raggiunge la minima alternativa bivalente “sì-no”, “0-1”, sembra che gli omuncoli di livello superiore possano essere “congedati” con omuncoli progressivamente più stupidi, finché non si raggiunge infine il livello di base di un circuito semplice che non coinvolge nessun omuncolo. L’idea, in breve, è che la scomposizione ricorrente porti a eliminare gli omuncoli. Mi ci è voluto molto per comprendere ciò a cui queste persone si riferissero, così nel caso in cui qualcun altro si senta ugualmente sconcertato per lo stesso motivo, spiegherò un esempio nel dettaglio: supponiamo di avere un computer che moltiplica sei volte otto per ottenere quarantotto. Ora chiediamo: “Come fa?”. Ebbene, la risposta potrebbe essere che, in primo luogo, aggiunge il 6 a se stesso per 7 volte16. Ma se si domanda “come si fa ad aggiungere il 6 a se stesso per 14 David Marr, Vision, W.H. Freeman and Company, 1982. 15 Daniel C. Dennett, Brainstorms: Philosophical Essays on Mind and Psychology, mit Press, 1978; trad. it. Brainstorms. Saggi filosofici sulla mente e la psicologia, Adelphi, 1991. 16 La gente a volte ritiene che si dovrebbe aggiungere il 6 a se stesso 8 volte. Ma quella è pessima aritmetica. Il 6 aggiunto a se stesso per 8 volte fa 54, perché il 6

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7 volte?”, la risposta potrebbe essere che, in primo luogo, il computer converte tutti i numeri in informazioni binarie, e – in secondo luogo – applica un semplice algoritmo per operare in sistema binario finché infine non si raggiunge il livello base in cui le informazioni sono nella forma “scrivi uno 0, cancella un 1”. Quindi, ad esempio, al massimo livello il nostro omuncolo intelligente dice: “Io so come moltiplicare 6 volte 8 per ottenere 48”. Ma al livello successivo e inferiore è rimpiazzato da un omuncolo più stupido che dice: “Non so in verità come fare la moltiplicazioni, ma so fare le addizioni”. Sotto di lui ce ne sono di ancora più stupidi che dicono: “Non sappiamo in effetti come fare le addizioni né le moltiplicazioni, ma sappiamo come convertire un numero decimale in un sistema binario”. Al livello ancora inferiore, al livello base, c’è un intero gruppetto di omuncoli che dicono soltanto: “Zero, uno, zero, uno”. Tutti i livelli superiori si riducono a questo livello fondamentale. Solo questo livello esiste realmente; tutti gli altri livelli superiori sono soltanto dei come-se. Vari autori (per esempio Haugeland, Block)17 descrivono questa caratteristica quando dicono che il sistema è un motore sintattico che guida un motore semantico. Ma dobbiamo ancora affrontare la questione precedente: quali fatti intrinseci al sistema lo rendono sintattico? Quali fatti del livello inferiore o di ogni altro livello traducono queste operazioni in 0 e 1? Senza un omuncolo che sta fuori dalla scomposizione ricorsiva, non abbiamo nemmeno una sintassi con cui operare. Il tentativo di eliminare la fallacia dell’omuncolo tramite la scomposizione progressiva è fallimentare, perché l’unico modo per ottenere la sintassi intrinseca alla fisica è inserire un omuncolo nella struttura fisica. C’è una caratteristica interessante in tutto questo. I cognitivisti ammettono volentieri che i livelli più alti della computazione, per esempio “moltiplicare il 6 per 8 volte”, sono dipendenti dall’osservatore; non c’è nulla lì che corrisponda direttamente alla moltiplicazione; è tutto nella prospettiva dell’omuncolo/osservatore. Ma non vogliono riconoscere questa proprietà ai livelli più bassi. Il circuito elettronico, aggiunto a se stesso 0 volte fa sempre 6. È incredibile quanto spesso si commetta questo errore. 17 John Haugeland (a cura di), Mind Desing, mit Press, 1991; Ned Block, The Computer Model of Mind, cit.

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ammettono, non moltiplica veramente 6x8 così come tali, ma manipola 0 e 1, e queste manipolazioni, per così dire, si aggiungono alla moltiplicazione. Ma ammettere che i livelli più alti della computazione non sono intrinseci alla fisica significa già ammettere che neanche i livelli più bassi sono intrinseci. Dunque la fallacia dell’omuncolo è ancora con noi. Per i computer veri come quelli che si comprano nei negozi, non esiste il problema dell’omuncolo; ogni utente è l’omuncolo in questione. Ma se supponiamo che il cervello sia un computer digitale, abbiamo comunque di fronte la domanda “e chi è l’utente?”. Le tipiche domande dell’omuncolo nelle scienze cognitive sono le seguenti: “Come può il sistema visivo calcolare la forma dell’ombreggiatura, come fa a computare la distanza degli oggetti dalla dimensione dell’immagine sulla retina?”. Una domanda parallela sarebbe: “Come fanno i chiodi a calcolare la distanza che percorrono nell’asse dall’impatto del martello e dalla densità del legno?”. E la risposta è la stessa nei due casi: se parliamo di come il sistema funziona intrinsecamente, né i chiodi né i sistemi visuali calcolano niente. Noi, come gli omuncoli esterni, potremmo descriverli computazionalmente ed è spesso utile fare così. Ma non si può comprendere il martellare supponendo che i chiodi implementino in qualche modo intrinsecamente degli algoritmi del martellamento e non si comprende la visione supponendo che il sistema implementi, per esempio, la forma a partire dall’algoritmo dell’ombra che essa proietta. Terza difficoltà: la sintassi non ha poteri causali Alcuni tipi di spiegazioni nelle scienze naturali specificano dei meccanismi che funzionano causalmente nella produzione dei fenomeni da spiegare. Questo è tipico delle scienze biologiche. Si pensi alla teoria dei germi patogeni, alla fotosintesi, alla teoria dei tratti ereditari basati sul dna, e persino alla teoria darwiniana della selezione naturale. In ogni caso è specificato un meccanismo causale, e in ogni caso la specificazione dà una spiegazione del risultato del meccanismo. Ora, se torniamo alla Storia Originaria, sembra chiaro che questa è la spiegazione promessa dal cognitivismo. I meccanismi per cui i processi

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cerebrali producono la cognizione si ipotizza siano computazionali e specificando i programmi specificheremo anche le cause della cognizione. Un aspetto positivo di questo programma di ricerca, che spesso viene sottolineato, è che non abbiamo bisogno di conoscere i dettagli del funzionamento del cervello per spiegare la cognizione. I processi cerebrali forniscono soltanto l’implementazione sull’hardware dei programmi cognitivi, ma il livello del programma è quello in cui sono date le spiegazioni cognitive. Nell’approccio standard, come sostenuto da Newell, per esempio, ci sono tre livelli di spiegazione, l’hardware, il programma e l’intenzionalità (Newell chiama quest’ultimo “il livello della conoscenza”), e il contributo speciale delle scienze cognitive viene dato a livello del programma. Ma se quanto detto finora è corretto, allora c’è qualcosa di poco chiaro in questo intero progetto. Io pensavo che in quanto spiegazione causale la teoria dei cognitivisti fosse quanto meno falsa, ma ora ho delle difficoltà a formularne una versione che sia coerente persino con l’idea che potrebbe essere una tesi empirica. La tesi è che c’è un ampio numero di simboli che sono manipolati nel cervello, 0 e 1 che balenano nel cervello alla velocità della luce e che sono invisibili non solo all’occhio nudo ma persino al più potente microscopio elettronico, e che questi simboli causano la cognizione. Ma la difficoltà è che gli 0 e gli 1 come tali non hanno alcun poter causale perché non esistono se non negli occhi dell’osservatore. Il programma implementato non ha poteri causali oltre a quelli del mezzo che lo implementa perché il programma non ha un’esistenza reale, non ha ontologia oltre a quella del mezzo di implementazione. Parlando a livello fisico e materiale non c’è un “livello del programma” separato dal resto. Questo si può comprendere tornando alla Storia Originaria e ricordandosi della differenza fra un computer meccanico e il computer umano di Turing. Nel computer umano di Turing c’è davvero un livello del programma intrinseco al sistema e questo funziona in maniera causale a quel livello per convertire input in output. Questo accade perché l’uomo segue in modo cosciente le regole per svolgere una certa computazione, e ciò spiega a livello causale la sua prestazione. Ma quando programmiamo il computer meccanico a svolgere la stessa computazione, l’assegnazione di un’interpretazione computazionale ora dipende da noi, omuncoli esterni. E non c’è più un livello di cau-

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sazione intrinseco al sistema. Il computer umano segue le regole in modo cosciente, e questo fatto spiega il suo comportamento, ma il computer meccanico non segue nessuna regola in senso stretto. Esso è progettato per comportarsi esattamente come se seguisse delle regole, e dunque per fini pratici e commerciali non importa che esso non le segua in senso stretto o letteralmente. Ora, il cognitivismo ci dice che il cervello funziona come il computer commerciale e questo causa la cognizione. Ma senza un omuncolo, sia il computer commerciale che il cervello hanno degli schemi e gli schemi non hanno poteri causali oltre quelli dei mezzi che li implementano. Così pare che in nessuna maniera il cognitivismo possa dare una spiegazione causale della cognizione. Comunque, dal mio punto di vista c’è un enigma. Chiunque lavori con i computer anche solo casualmente sa che spesso diamo spiegazioni causali che si richiamano al programma. Ad esempio, possiamo dire che quando schiaccio questo tasto ottengo questo o quel risultato perché la macchina esegue il programma vi e non l’Emacs; e questa sembrerebbe un’ordinaria spiegazione causale. Dunque, l’enigma è: come conciliamo il fatto che la sintassi che, come tale, non ha poteri causali, con il fatto che noi diamo spiegazioni causali facendo appello ai programmi? E, questione ancora più impellente, questo tipo di spiegazioni fornirebbero un modello appropriato per il cognitivismo, potrebbero cioè salvarlo? Potremmo, ad esempio, recuperare l’analogia con i termostati, sottolineando che, proprio come la nozione di “termostato” figura nelle spiegazioni causali indipendentemente da ogni riferimento alla materialità della sua implementazione, così la nozione di “programma” potrebbe essere esplicativa e a un tempo indipendente dalla materialità. Per esaminare questo enigma proviamo a portare avanti l’idea del cognitivismo estendendo la Storia Originaria per spiegare come le procedure investigative cognitiviste funzionino nella ricerca. L’idea, tipicamente, è programmare un computer commerciale in modo che esso stimoli qualche capacità cognitiva, come la visione o il linguaggio. Poi, se otteniamo una buona simulazione, una che ci dia almeno l’equivalenza di Turing, ipotizziamo che il computer cerebrale esegua lo stesso programma del computer commerciale, e per sondare l’ipotesi cerchiamo prove indirette di carattere psicologico, come i tempi di reazione. Così sembra che possiamo spiegare causalmente il com-

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portamento del computer cerebrale citando il programma esattamente nello stesso senso in cui possiamo spiegare il comportamento del computer commerciale. Ora, dove sta l’inesattezza? Non si tratta di un programma di ricerca scientifica perfettamente legittimo? Sappiamo che la conversione del computer commerciale di input in output è spiegata da un programma, e nel cervello scopriamo esserci lo stesso programma, ecco dunque che abbiamo la spiegazione causale. Due cose dovrebbero immediatamente preoccuparci di questo progetto. In primo luogo, non accetteremmo mai questo tipo di spiegazione per nessuna funzione del cervello di cui abbiamo compreso il funzionamento a un livello neurobiologico. In secondo luogo, non la accetteremmo per altri sistemi che possiamo simulare a livello computazionale. Per illustrare il primo punto, consideriamo per esempio la celebre tesi in What the Frog’s Eye Tells the Frog’s Brain18. Questa prospettiva viene spiegata interamente nei termini dell’anatomia e della fisiologia del sistema nervoso della rana. Un passaggio tipico, scelto un po’ a caso, suona così: I. Rivelatori di contrasto sostenuto Un assone amielinico di questo gruppo non risponde quando l’illuminazione generale viene accesa o spenta. Se il bordo netto di un oggetto più leggero o più scuro dello sfondo muove il suo campo e si ferma, l’assone scarica prontamente e continua a scaricare, non importa quale sia la forma del bordo o se l’oggetto è più piccolo o più grande del campo recettivo19.

Non ho mai sentito nessuno sostenere che tutto ciò sia solo l’implementazione hardware, e che si dovesse soltanto capire che tipo di programma era implementato dalla rana. Non dubito che si potrebbe fare una simulazione al computer dei “rilevatori d’insetti” della rana. Forse qualcuno l’ha anche fatto. Ma sappiamo tutti che una volta che si capisce come funziona esattamente il sistema visivo della rana, il “livello computazionale” è semplicemente irrilevante. 18 Jerome Y. Lettvin, Humberto R. Maturana, Warren S. McCulloch, Walter H. Pitts, What the frog’s eye tells the frog’s brain, in «Proceedings of the Institute of Radio Engineers», vol. 47, 1959, pp. 1940-1951. 19 Ivi, p. 239.

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Per illustrare il secondo punto, consideriamo le simulazioni di altri tipi di sistema. Io, per esempio, digito queste parole su una macchina che simula il comportamento di una vecchia macchina da scrivere meccanica20. Mentre le simulazioni procedono, il programma di scrittura simula una macchina da scrivere meglio di quanto qualsiasi programma a intelligenza artificiale sia in grado di simulare il cervello. Ma nessuna persona sana di mente pensa: “Ormai sappiamo da tempo come funzionano le macchine da scrivere, sono implementazioni di programmi per la scrittura”. Semplicemente, le simulazioni computazionali in genere non offrono spiegazioni causali dei fenomeni simulati. Che cosa accade, quindi? In generale non supponiamo che le simulazioni computazionali dei processi cerebrali ci diano alcuna spiegazione al posto delle – o in aggiunta alle – letture neurobiologiche di come funziona il cervello in realtà. E non consideriamo in genere “X è una simulazione computazionale di Y” come una frase che nomina una relazione simmetrica. Vale a dire, non supponiamo che poiché il computer simula una macchina da scrivere allora la macchina da scrivere simula un computer. Non supponiamo che poiché un programma per il meteo simula un uragano, allora la spiegazione causale del comportamento dell’uragano viene data dal programma. Quindi perché dovremmo fare un’eccezione a questi principi quando si tratta di processi cerebrali sconosciuti? Ci sono buone ragioni per fare un’eccezione? E quale tipo di spiegazione causale è una spiegazione che cita un programma formale? Qui, credo, c’è la soluzione al nostro problema. Una volta che si rimuove l’omuncolo dal sistema, si resta con uno schema di eventi ai quali ciascuno, dall’esterno, può attribuire un’interpretazione computazionale. Ora, l’unico senso in cui la specificazione di uno schema di per sé offre una spiegazione causale è che, se si sa che in un sistema esiste un certo modello, si sa che una causa o un’altra è responsabile di questo schema o modello. Dunque si può, per esempio, tentare di prevedere dei passaggi successivi dai passaggi precedenti di un processo. Inoltre, se si sa già che il sistema è stato programmato da un omuncolo esterno, si possono dare spiegazioni che fanno riferimento all’intenzionalità dell’omuncolo. Si può dire, ad esempio, che questa 20 Questo esempio è stato suggerito da John Batali.

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macchina si comporta in un certo modo perché esegue il programma vi. Ciò è come spiegare che questo libro comincia con un brano sulle famiglie felici e non contiene lunghi passaggi su un gruppo di fratelli, perché è Anna Karenina di Tolstoj e non I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Ma non si può spiegare un sistema fisico come la macchina da scrivere o il cervello identificando un modello che esso condivide con la sua simulazione computazionale, perché l’esistenza di un modello non spiega come il sistema funziona in realtà nei termini di un sistema fisico. Nel caso della cognizione lo schema è un livello troppo alto di astrazione per spiegare concreti eventi mentali (e quindi fisici) come la percezione visiva o la comprensione di una frase. Ora, io penso che sia ovvio che non possiamo spiegare come le macchine da scrivere e gli uragani funzionino indicando degli schemi formali che condividono con le proprie simulazioni computazionali. Perché questo non è chiaro nel caso del cervello? Così veniamo alla seconda parte della soluzione del nostro enigma. Facendo il punto sul cognitivismo abbiamo tacitamente supposto che il cervello possa implementare degli algoritmi per la cognizione, nello stesso senso in cui il computer umano di Turing e il suo computer meccanico implementano degli algoritmi. Ma è precisamente quell’assunto che abbiamo visto essere errato. Per rendercene conto, domandiamoci che cosa accade quando un sistema implementa un algoritmo. Nel computer umano il sistema in maniera conscia svolge i passaggi dell’algoritmo; dunque, il processo è sia causale che logico; logico, perché l’algoritmo offre un insieme di regole per derivare i simboli in uscita dai simboli in entrata; causale, perché l’agente fa uno sforzo cosciente per svolgere i passaggi dell’algoritmo. In maniera simile nel caso del computer meccanico, l’intero sistema include un omuncolo esterno e con l’omuncolo il sistema è sia causale che logico; logico, perché l’omuncolo fornisce un’interpretazione dei processi meccanici; e causale, perché l’hardware della macchina fa sì che questa svolga i processi. Ma queste condizioni non possono essere soddisfatte dalle brute, cieche e inconsce operazioni neurofisiologiche del cervello. Nel computer cerebrale non c’è un’implementazione intenzionale dell’algoritmo come c’è nel computer meccanico, perché quella richiede un omuncolo esterno da associare a un computer umano, ma non ci può essere alcuna implementazione inconscia come c’è nell’interpretazio-

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ne computazionale degli eventi fisici. Il massimo che possiamo trovare nel cervello è lo schema degli eventi che è formalmente simile al programma svolto dal computer meccanico, ma quello schema, come tale, non ha poteri causali e quindi non spiega niente. Insomma, il fatto che l’attribuzione di sintassi non identifichi ulteriori poteri causali è fatale per l’affermazione secondo cui i programmi forniscono spiegazioni causali della cognizione. Per analizzare le conseguenze di ciò, ricordiamoci di come appaiono le spiegazioni dei cognitivisti. Spiegazioni come l’approccio di Chomsky alla sintassi dei linguaggi naturali o l’approccio di Marr alla visione procedono affermando un insieme di regole per cui un input simbolico viene convertito in un output simbolico. Nel caso di Chomsky, per esempio, un singolo simbolo di input, S, viene convertito in uno fra un numero potenzialmente infinito di frasi dall’applicazione ripetuta di un insieme di regole sintattiche. Nel caso di Marr, le rappresentazioni di un vettore visivo bidimensionale sono convertite in “descrizioni” tridimensionali del mondo in conformità con certi algoritmi. Le distinzioni tripartite di Marr fra la funzione computazionale, la soluzione algoritmica della funzione e l’implementazione tramite l’hardware dell’algoritmo sono divenute famose (come le distinzioni di Newell) come affermazioni dello schema generale della spiegazione. Se si prendono queste spiegazioni in maniera ingenua, come faccio io, è meglio pensarle come se dicessero che è come se un uomo solo in una stanza svolgesse un insieme di passaggi di regole successive per generare frasi in inglese o descrizioni in 3D, a seconda del caso. Ma ora chiediamoci quali fatti nel mondo reale dovrebbero corrispondere a queste spiegazioni come applicate al cervello. Nel caso di Chomsky, ad esempio, non dovremmo pensare che l’agente coscientemente attraversi una serie di applicazioni ripetute delle regole, e non dovremmo neanche pensare che pensi inconsciamente a come percorrere la propria strada attraverso l’insieme di regole. Piuttosto le regole sono “computazionali” e il cervello svolge le computazioni. Ma che cosa significa? Ebbene, dovremmo pensare che è proprio come un computer commerciale. Ciò che corrisponde all’ascrizione dello stesso insieme di regole a un computer commerciale dovrebbe corrispondere all’ascrizione di quelle regole al cervello. Ma abbiamo visto che nel computer commerciale l’ascrizione è sempre relativa all’osservatore, è resa

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relativa a un omuncolo che assegna le interpretazioni computazionali agli stati dell’hardware. Senza omuncolo non c’è computazione, ma soltanto un circuito elettronico. Ma allora come facciamo a ottenere la computazione nel cervello senza un omuncolo? Per quanto ne so, né Chomsky né Marr si sono mai occupati della questione o hanno pensato che ci fosse un simile problema. Ma senza un omuncolo non c’è potere di spiegare la postulazione degli stati del programma. C’è soltanto un meccanismo fisico, il cervello, con i suoi vari stati fisici reali e i livelli causali fisico/mentali della descrizione. Quarta difficoltà: il cervello non elabora informazioni In questa sezione mi occupo infine di ciò che penso sia, in un certo senso, la questione centrale in tutto questo, cioè il problema dell’elaborazione delle informazioni. Molte persone nel paradigma scientifico delle “scienze cognitive” avranno la sensazione che gran parte della mia discussione sia semplicemente irrilevante e argomenteranno contro di essa come segue: C’è una differenza fra il cervello e tutti quegli altri sistemi che descrivi, e questa differenza spiega perché una simulazione computazionale nel caso di altri sistemi è una semplice simulazione, mentre nel caso del cervello una simulazione computazionale in realtà duplica e non modellizza semplicemente le proprietà funzionali del cervello. La ragione è che il cervello, a differenza di quegli altri sistemi, è un sistema che serve a processare le informazioni. E questo aspetto del cervello è, nelle tue parole, “intrinseco”. È solo una questione biologica che il cervello funzioni per processare informazioni, e dal momento che possiamo processare le stesse informazioni computazionalmente, i modelli computazionali dei processi cerebrali hanno nel complesso un ruolo differente rispetto ai modelli di computazione, per esempio, usati per le previsioni del meteo. C’è dunque una domanda di ricerca ben definita: “Le procedure computazionali con cui il cervello processa le informazioni sono le stesse con cui i computer processano le stesse informazioni?”.

Ciò che ho immaginato possa dire un soggetto critico rispetto al nostro argomento rappresenta uno dei peggiori errori nelle scienze cognitive. L’errore è immaginare che il cervello processi le informa-

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zioni nello stesso modo in cui i computer sono abituati a processarle. Per vedere che si tratta di un errore, basta confrontare ciò che avviene nel computer con ciò che avviene nel cervello. Nel caso del computer, un agente esterno codifica delle informazioni in una forma che può essere elaborata da un circuito di un computer. Cioè, l’agente fornisce una realizzazione sintattica delle informazioni che il computer può implementare, ad esempio, su diversi livelli di voltaggio. Il computer attraversa poi una serie di passaggi elettrici che l’agente esterno può interpretare sia sintatticamente che semanticamente sebbene, ovviamente, l’hardware non abbia né sintassi né semantica intrinseca: è tutto nello sguardo dell’osservatore. E la parte fisica non è rilevante, posto che si riesca a implementare l’algoritmo. Infine, un risultato è prodotto nella forma di fenomeni fisici che un osservatore può interpretare come simboli con una sintassi e una semantica. Adesso confrontiamolo con il cervello. Nel caso del cervello, nessuno dei processi neurobiologici rilevanti è relativo all’osservatore (sebbene, ovviamente, come qualsiasi cosa, possano essere descritti da un punto di vista relativo all’osservatore) e la specificità della componente neurofisiologica conta moltissimo. Per chiarire questa differenza, vediamo un esempio. Supponiamo che veda arrivare una macchina verso di me. Un modello standard computazionale della visione riceverebbe le informazioni su vettore visivo sulla mia retina ed emetterà infine la frase “c’è una macchina che arriva verso di me”. Ma questo non è ciò che accade nella realtà biologica. In biologia una serie concreta e specifica di reazioni elettrochimiche viene prodotta dall’impatto dei fotoni sulle cellule fotorecettrici della mia retina, e questo intero processo alla fine converge in una concreta esperienza visiva. La realtà biologica non è quella di un insieme di parole o simboli che vengono prodotti dal sistema visivo, ma piuttosto una questione di un evento visivo cosciente, concreto, specifico; proprio questa esperienza visiva. Ora, l’evento visivo è specifico e concreto quanto un uragano o la digestione di un pasto. Possiamo, con il computer, elaborare un modello per processare le informazioni relative a un evento e alla sua produzione come per il meteo, la digestione o ogni altro fenomeno, ma i fenomeni di per sé non sono sistemi che elaborano le informazioni.

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In breve, il senso dell’elaborazione delle informazioni usato nella scienza cognitiva è a un livello troppo alto di astrazione per catturare la concreta realtà biologica dell’intenzionalità intrinseca. Le “informazioni” nel cervello sono sempre specifiche a una modalità o a un’altra. È specifico del pensiero, o della visione, dell’udito, o del tatto, per esempio. Il livello di elaborazione delle informazioni che è descritto nei modelli computazionali della cognizione nell’ambito delle scienze cognitive, d’altra parte, è semplicemente una questione di ottenere un insieme di simboli come output in risposta a un insieme di simboli come input. Siamo accecati rispetto a questa differenza dal fatto che la stessa frase, “vedo una macchina che viene verso di me”, può essere usata per registrare sia l’intenzionalità visiva sia l’output del modello computazionale della visione. Ma questo non dovrebbe renderci oscuro il fatto che l’esperienza visiva è un evento concreto ed è prodotto nel cervello da specifici processi elettrochimici e biologici. Confondere questi eventi e processi con la manipolazione di simboli formali significa confondere la realtà con il modello. L’esito di questa parte della discussione è che, nel senso del termine “informazione” come usato nelle scienze cognitive, è semplicemente falso dire che il cervello sia uno strumento per elaborare informazioni. Riassunto dell’argomento Questo breve argomento ha una struttura logica semplice ed è così che la presenterei: 1. Rispetto alla definizione standard, la computazione è definita sintatticamente nei termini di una manipolazione di simboli. 2. Ma la sintassi e i simboli non sono definiti in termini fisici. Sebbene le occorrenze di simboli siano sempre occorrenze fisiche, “simbolo” e “stesso simbolo” non sono definiti nei termini di caratteristiche fisiche. La sintassi, in breve, non è intrinseca alla fisica. 3. Questo ha la conseguenza che la computazione non viene scoperta nella fisica, ma è assegnata a essa. Certi fenomeni fisici sono assegnati o utilizzati o programmati o interpretati sintatticamente. La sintassi e i simboli sono dipendenti dall’osservatore.

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4. Ne consegue che non si potrebbe scoprire che il cervello o qualunque altra cosa è intrinsecamente un computer digitale, sebbene si possa assegnare un’interpretazione computazionale a esso come a qualsiasi altra cosa. Il punto non è che l’affermazione “il cervello è un computer digitale” è falsa. Piuttosto, essa non raggiunge il livello della falsità. Non ha un senso chiaro. Avrete frainteso il mio punto di vista se pensate che io stia provando a sostenere che è semplicemente falso che il cervello è un computer digitale. La domanda “il cervello è un computer digitale?” è mal posta come le domande “è un abaco?”, “è un libro?”, “è un insieme di simboli?”, “è un insieme di formule matematiche?”. 5. Alcuni sistemi fisici facilitano l’uso computazionale molto più di altri. Per questo costruiamo, programmiamo, e li utilizziamo. In questi casi siamo l’omuncolo nel sistema che interpreta la fisica in termini sia sintattici che semantici. 6. Ma le spiegazioni causali che poi diamo non citano proprietà causali diverse dalla fisica della implementazione e dall’intenzionalità dell’omuncolo. 7. La via d’uscita standard, sebbene tacita, da questo è affidarsi alla fallacia dell’omuncolo. Questa fallacia è endemica ai modelli computazionali della cognizione e non può essere rimossa dagli argomenti ricorrenti standard sulla scomposizione. Questi affrontano una questione diversa. 8. Non possiamo evitare i risultati precedenti supponendo che il cervello faccia “elaborazione di informazioni”. Il cervello, per quel che riguarda le sue intrinseche operazioni, non svolge alcuna elaborazione di informazioni. È  uno specifico organo biologico e i suoi specifici processi neurobiologici causano specifiche forme di intenzionalità. Nel cervello, intrinsecamente, ci sono processi neurobiologici e alcune volte essi causano la coscienza. Ma questa è la fine della storia21.

21 Sono in debito con un ampio numero di persone per la discussione delle questioni trattate in queste pagine. Non posso ringraziarle tutte, ma un ringraziamento speciale va a John Batali, Vinod Goel, Ivan Havel, Kirk Ludwig, Dagmar Searle, e Klaus Strelau.

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Mi è stato chiesto di fare una lezione alla conferenza su Wittgenstein a Kirchberg nel 2004 sulla fenomenologia. Questa richiesta mi ha sorpreso perché non sono certo uno studioso esperto degli scritti dei fenomenologi, né ho fatto molto su ciò che considero fenomenologico in senso stretto. Comunque, sono stato contento di accettare l’invito perché ho avuto alcune esperienze peculiari con la fenomenologia. Inoltre mi è sembrato utile discutere questo tema a una conferenza su Wittgenstein perché il recente riemergere dell’attenzione sulla coscienza fra i filosofi analitici ha rinnovato l’interesse sugli autori della fenomenologia, visto che, ovviamente, la fenomenologia ha in larga parte a che fare con la coscienza. Ho presentato una lezione su questo tema, la cui tesi generale era che c’è un tipo di idealismo presente in alcuni dei fenomenologi principali, nello specifico nel tardo Husserl, in Heidegger, e in Merleau-Ponty. È un idealismo di un tipo specifico che ho provato a definire semanticamente – in un certo senso diverso dal tradizionale idealismo di Berkeley, che è descritto metafisicamente, ma abbastanza simile con una somiglianza di famiglia alle concezioni tradizionali dell’idealismo da meritare comunque di essere chiamato così. La definizione che ho usato era questa: una visione è idealista in questo senso semantico se non permette riferimenti irriducibili de re agli oggetti. Tutti i riferimenti agli oggetti sono interpretati nell’ambito di qualche operatore fenomenologico, come il Dasein o la coscienza trascendentale. Ho anche sostenuto che questa forma di idealismo porta a certe limitazioni strutturali su ciò che questi fenomenologi

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possono effettivamente realizzare. Il problema della discussione a Kirchberg è che abbiamo impiegato troppo tempo per dibattere del fatto che sia o no corretto interpretare il tardo Husserl o Heidegger come idealisti nel senso tradizionale. Per me non è quella la questione interessante. Il solo fatto di un’ambiguità o di una scarsa chiarezza nella loro posizione intorno all’idealismo, il fatto che non sia ovvio che siano risolutamente antiidealisti o risolutamente realisti, è per me sufficiente per sostenere le idee che voglio sostenere. In ogni caso, la definizione che ho dato di idealismo porta a una confusione con le concezioni tradizionali di idealismo, dunque per la gran parte lascerò perdere l’uso di questo termine. Al posto di “idealismo” introduco la nozione di “prospettivismo” per sottolineare la tendenza di alcuni autori a trattare la prospettiva da cui qualcosa viene considerato – la coscienza trascendentale, il Dasein, ciò che è prendibile o afferrabile – come in un certo senso una parte della sua ontologia. Ho riformulato il testo in modo da rendere le questioni sull’interpretazione di Husserl, Heidegger e Merleau-Ponty – questioni di interpretazione testuale di quelle tipicamente noiose – secondarie rispetto alle questioni filosofiche principali. Vorrei che i punti filosofici essenziali sembrassero ovvi. Ogni volta che un punto non è ovvio sull’interpretazione di un testo lo riprenderò in questa sua scarsa chiarezza. Voglio inoltre enfatizzare dal principio che se la fenomenologia viene definita come l’esame della struttura della coscienza, non ho obiezioni di sorta su di essa. I miei dubbi riguardano alcuni autori in particolare e le loro pratiche con riguardo al metodo fenomenologico. L’attuale situazione in filosofia Prima di iniziare la mia discussione della fenomenologia, voglio dire qualcosa sulla mia visione della scena filosofica contemporanea. C’è esattamente una domanda dominante nella filosofia contemporanea. Come formulazione preliminare, possiamo dire che la domanda è: come possiamo spiegare la nostra considerazione di noi stessi come un certo tipo di esseri umani in un universo che sappiamo consistere interamente di particelle in campi di forza? Più precisamente: visto che qualsiasi tipo di cartesianesimo o qualsiasi altra forma di dualismo

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metafisico è fuori discussione, come possiamo descriverci in quanto animali coscienti, intenzionalmente orientati, in grado di performare atti linguistici, etici, detentori di libero arbitrio, politici e sociali – in un mondo che consiste interamente di semplici particelle fisiche senza cervello né significato? La maggioranza delle questioni filosofiche sono variazioni di questo singolo problema. Perciò, la questione del libero arbitrio e del determinismo è: come possiamo avere azioni libere in un universo determinato da leggi causali? Il problema dell’etica è: come può esserci eticamente il giusto e l’ingiusto in un mondo di particelle fisiche prive di significato? La domanda della coscienza è: come possono dei frammenti inconsci di materia nel cranio causare la coscienza, e come possono esistere degli stati irriducibilmente soggettivi della coscienza in un mondo interamente “fisico”? La domanda in filosofia del linguaggio è: come possono dei meri suoni che escono dalla bocca di un parlante costituire un atto performativo con un significato? La domanda per la società è: come può esserci una realtà oggettiva fatta di denaro, proprietà, governi e matrimoni quando tutti questi fenomeni esistono soltanto, in un certo senso, perché noi crediamo che esistano? Com’è possibile che gli esseri umani possano, attraverso i loro processi soggettivi del pensiero, creare una realtà sociale oggettiva? E via dicendo, con altre questioni filosofiche che sono tutte variazioni della domanda centrale. Io sto deliberatamente presentando questi punti in una maniera molto grezza; e, come filosofi analitici, riconoscerete che prima di poterci lavorare accuratamente, c’è bisogno di affermazioni molto più attente e accurate. Come potremmo, dunque, e come dovremmo approcciare tale questione o tale insieme di questioni? La nostra domanda è: la realtà umana, come si inserisce nella realtà di base? E qual è la realtà sottostante, di base? Ebbene, si tratta di una storia complicata, ma due fra le sue principali caratteristiche possono essere affermate piuttosto semplicemente. Sappiamo che la struttura fondamentale dell’intero universo consiste di entità che ci sembra conveniente (se non persino esatto) chiamare “particelle”, e queste esistono in campi di forza che sono tipicamente organizzati attraverso dei sistemi. Sappiamo inoltre che noi – insieme a tutti i sistemi viventi – ci siamo evoluti lungo un periodo che va da circa tre a cinque miliardi di anni, tramite processi di selezione naturale darwiniana. È un grave errore pensare che queste due proposizioni siano soltanto delle teorie

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sulla scienza. “Scienza” è il nome di un insieme di procedure tramite cui abbiamo identificato la verità ma, una volta identificata, la verità è una proprietà pubblica. Essa non appartiene a un ambito specifico; infatti il termine “scienza” non denomina un ambito ontologico. Queste due proposizioni ormai sono così ampiamente accolte che non è necessario che io mi ostini troppo a trattarle. Voglio anche aggiungerne una terza. Oltre alla teoria atomica della materia e alla teoria evoluzionistica della biologia, dobbiamo considerare il fondamento neurobiologico di tutta la vita mentale, sia umana che animale. La nostra intera coscienza, l’intenzionalità e tutto il resto della nostra vita mentale sono causati da processi neurobiologici e sono realizzati in sistemi neurobiologici. Ciò non è accettato universalmente quanto le prime due proposizioni, ma lo sarà, e per gli scopi di questa discussione intendo darlo per scontato. Queste tre proposizioni prese nel loro complesso – la fisica atomica, la biologia evoluzionistica e la neurobiologia cerebrale – le chiamerò le proposizioni che descrivono i “fatti fondamentali” o la “realtà fondamentale”. Dunque adesso la nostra domanda filosofica può essere posta in maniera più precisa: quali sono le relazioni fra la realtà umana e la realtà di base, cioè quella che esiste prima e oltre gli uomini? Una difficoltà preliminare con la fenomenologia è che i fenomenologi che conosco non riescono a capire la domanda che io sto ponendo. Pensano che essa esprima un qualche tipo di cartesianesimo, che io opponga l’ambito umano a quello fisico, la res cogitans alla res extensa. In effetti, Hubert Dreyfus ha ripetuto più volte che sono un cartesiano. Questa incomprensione è così scioccante che so a malapena come rispondere. Il mondo umano è parte di un unico mondo, e non è qualcosa di differente dal mondo non umano (cioè che non è un prodotto dell’uomo). La domanda – come fa la realtà umana a relazionarsi a una realtà più fondamentale? – non è più cartesiana del problema di come la chimica sia in relazione alla fisica atomica più fondamentale. In un recente articolo Dreyfus scrive: «Dovremmo adottare un’ontologia più ricca di quella cartesiana delle menti e della natura teorizzata da Husserl e da Searle». Aggiunge che dovremmo seguire Merleau-Ponty nel postulare un «terzo tipo di essere»1. Questo non è solo un frainten1 Hubert L. Dreyfus, The Primacy of Phenomenology over Logical Analysis, in «Philosophical Topics», vol. 27, n. 2, 1999, p. 21.

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dimento delle mie visioni da parte di Dreyfus, ma rivela un malinteso molto profondo. L’assunto di base è che ci sono già due tipi diversi di essere, la mente e la natura, e che dobbiamo postulare appunto un «terzo tipo di essere». Non ho qui lo spazio per esporre l’intera inadeguatezza di questa concezione e ai fini di questa discussione posso solo dire che la terminologia stessa che fa riferimento a «menti e natura» e a un «terzo tipo di essere» rende impossibile trattare le questioni fondamentali della filosofia. Non c’è opposizione fra menti e natura, perché la mente è parte della natura, e non ci sono tre tipi di essere, perché non ci sono due tipi di essere o persino uno solo, perché l’intera nozione di “essere” è confusa. Paradossalmente, Wittgenstein ha contribuito a rendere possibile un tipo di filosofia che lui stesso, penso, avrebbe aborrito. Prendendo seriamente lo scetticismo, e tentando di mostrare che esso è basato su una profonda incomprensione del linguaggio, Wittgenstein ha partecipato a togliere lo scetticismo dal centro dell’agenda filosofica e a rendere possibile una filosofia sistematica, teoretica, costruttiva, del tipo che lui stesso credeva impossibile fare. Lo scetticismo è stato rimosso dal centro dell’agenda filosofica per due principali ragioni. In primo luogo, la filosofia del linguaggio ha convinto molte persone che lo scetticismo tradizionale non può affermarsi in maniera intellegibile (qui entra in gioco Wittgenstein); e in secondo luogo, cosa più importante, sappiamo troppo. L’unico fatto intellettuale importante nell’era presente è che la conoscenza è in crescita. Attualmente disponiamo di un enorme corpus di conoscenza certa, oggettiva e universale. Non si possono, ad esempio, spedire degli uomini sulla luna, riportarli indietro, e poi dubitare seriamente del fatto che esiste il mondo esterno. Il declino dell’epistemologia come tema centrale in filosofia ha reso possibile un tipo di filosofia postscettica, postepistemica, postfondazionalista. Questo è il tipo di filosofia che io ho sempre praticato. La teoria degli atti linguistici, la teoria dell’intenzionalità, la teoria della coscienza, e la teoria della realtà sociale (tutte aree in cui ho lavorato) sono esattamente i contesti nei quali cerchiamo prospettive generali e teoretiche su un ambito ampio e filosoficamente complesso. Si noti, inoltre, che non c’è un confine netto tra filosofia e scienza in questi ambiti. Ad esempio, l’avvento delle scienze cognitive e lo sviluppo della neurobiologia hanno gene-

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rato diversi tentativi di cooperazione tra filosofi e scienziati. Infatti, le scienze cognitive sono state inventate in larga parte da filosofi e da psicologi con una mentalità filosofica, che si erano stufati del comportamentismo in psicologia. Questa è la domanda o l’insieme di domande. Qual è il metodo appropriato per affrontare queste domande? La risposta relativa alla metodologia è sempre la stessa. Usare qualunque metodo a disposizione e attenersi a tutto ciò che funziona. I metodi che ho ritenuto più utili nel mio lavoro sono quelli che chiamo metodi di analisi logica e li confronterò con altri metodi fra un attimo. Le mie esperienze con la fenomenologia Prima di addentrarmi nell’argomento principale, vorrei dire qualcosa in più di autobiografico. Quando ho iniziato a lavorare a un libro sull’intenzionalità, ho letto parte dell’ampia bibliografia sul tema. La bibliografia in filosofia analitica mi sembrava debole. Il lavoro migliore sembrava essere uno scambio fra Chisholm e Sellars sul tema dell’intenzionalità2, ma lo scambio mi sembrava presentare una confusione persistente fra intenzionalità-con-la-z e intensionalità-con-la-s. Molte frasi sugli stati intenzionali-con-la-z, cioè molte frasi su credenze, desideri, speranze e paure, ad esempio, sono esse stesse frasi intensionali-con-la-s; perché, ad esempio, non passano il test della sostituibilità (legge di Leibniz) e della generalizzazione esistenziale. Questi sono i due test standard per l’estensionalità. Ma il fatto che le frasi sugli stati intenzionali-con-la-z siano tipicamente frasi intensionali-con-la-s non dimostra che c’è qualcosa di intrinsecamente intensionale-con-la-s sugli stati intenzionali-con-la-z. È tipica fra coloro che usano metodi linguistici la confusione di caratteristiche della descrizione di un fenomeno con caratteristiche del fenomeno che è oggetto della descrizione. Dunque non ho imparato nulla dalla corrispondenza Chisholm-Sellars o dalla raccolta di Chisholm che 2 Roderick Chisholm, Wilfrid Sellars, Chisholm-Sellars correspondence on intentionality, in Herbert Feigl, Michael Scriven, Grover Maxwell (a cura di), Minnesota Studies in the Philosophy of Science: Concepts, Theories and the Mind-Body Problem, University of Minnesota Press, vol. 2, 1958.

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pretende di stabilire un collegamento tra la fenomenologia e le questioni che mi interessavano3. Così mi sono rivolto ai fenomenologi, e il libro che ho dovuto leggere è stato le Ricerche logiche di Husserl4. Ebbene, ho letto la Prima ricerca logica e, francamente, sono rimasto molto deluso. Mi è sembrato che non ci fosse alcun avanzamento rispetto a Frege ed era, peraltro, scritto piuttosto male, poco chiaro, confuso. Così ho abbandonato lo sforzo di provare a imparare qualcosa sull’intenzionalità da autori a me precedenti e mi sono messo a lavorare per conto mio. Si è rivelato un compito piuttosto difficile, il più difficile che io abbia mai intrapreso in filosofia. Dopo molti anni ho scritto il libro Intentionality: An Essay in the Philosophy of Mind5. Quando quel libro è stato pubblicato sono rimasto sbalordito nello scoprire che molte persone lo abbiano ritenuto husserliano, cioè che io stessi in un modo o nell’altro seguendo Husserl e adottando un approccio husserliano all’intenzionalità. Per quel che riguarda la mia storia attuale, questo è interamente falso. Non ho imparato nulla da Husserl, letteralmente nulla, sebbene, ovviamente, io abbia imparato molto da Frege e Wittgenstein. C’è un’ironia peculiare nel fatto che nel corso della stesura di questo libro ho avuto diverse discussioni con esperti di Husserl, specialmente Dagfinn Føllesdal, che ha sostenuto che la versione dell’intenzionalità di Husserl era superiore alla mia per molti versi. Non c’è dubbio che vi siano interessanti sovrapposizioni fra le mie opinioni e quelle di Husserl. Sarebbe in effetti sorprendente se non vi fossero delle sovrapposizioni, perché parliamo delle stesse questioni. Vale sicuramente la pena esplorare queste similitudini. Ma vorrei richiamare l’attenzione su alcune differenze cruciali a livello del metodo. Un altro incontro che ho avuto con la fenomenologia è stato con il mio collega Hubert Dreyfus. Sebbene lui sapesse che avevo letto Husserl molto poco, si è convinto che stessi essenzialmente ripetendo le visioni di Husserl. Dreyfus mi dice che odia Husserl con passione 3 Roderick Chisholm (a cura di), Realism and the Background of Phenomenology, Free Press, 1960. 4 Edmund Husserl, Logical Investigations, 2 voll., Humanities Press, 1970; trad. it. Ricerche logiche, il Saggiatore, 1988. 5 John R. Searle, Intentionality: An Essay in the Philosophy of Mind, cit.

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e che, nelle sue parole, stava «interpretando Heidegger» rispetto a quello che credeva essere il mio Husserl6. Il risultato è stata la pubblicazione di una serie di critiche alle mie teorie che è andata avanti per anni e anni. Dreyfus ora ha ammesso che le mie visioni non sono come quelle di Husserl, ma le critiche che ha pubblicato proseguono e ne menzionerò alcune più avanti. Dreyfus ha pubblicato almeno mezza dozzina di critiche contro le mie idee7, incluse numerose obiezioni nel suo libro su Heidegger. La gran parte delle mie interpretazioni di Husserl, Heidegger, e Merleau-Ponty è stata profondamente influenzata da Dreyfus. Ha trascorso la sua intera vita professionale studiando questi e altri autori all’interno della tradizione fenomenologica e, visto che abbiamo fatto vari seminari su queste e simili questioni, io sono stato influenzato dalla sua lettura di questi autori più che dalle letture di altri studiosi. In ciò che segue, una quantità di spazio forse sproporzionata è dedicata a Dreyfus perché comprendo il suo lavoro molto più di quanto non comprenda gli autori di cui scrive. La riduzione trascendentale, la Wesenschau, e come queste differiscono dall’analisi logica Due aspetti cruciali del metodo di Husserl sono ciò che lui chiama la riduzione trascendentale (o messa fra parentesi o epoché) e l’intuizione delle essenze (o Wesenschau). Nella riduzione trascendentale si sospende il giudizio su come il mondo realmente è; si mette fra parentesi il mondo reale e si descrive solo la struttura delle esperienze coscienti. Ma ci sono due modi di descrivere la struttura delle esperienze coscienti. Uno sarebbe una sorta di ingenuo approccio naturalistico tramite cui si descrive solo come le cose ci sembrano. Quello non è 6 Hubert L. Dreyfus, The Primacy of Phenomenology over Logical Analysis, cit., p. 3. 7 Fra queste, Hubert L. Dreyfus, Being-in-the-World: A Commentary on Heidegger’s Being and Time, Division 1, mit Press, 1991; Id., Heidegger’s critique of the Husserl/ Searle account of intentionality, in «Social Research», vol. 60, n. 1, 1993; Id., Phenomenological Description versus Rational Reconstruction, in «Revue Internationale de Philosophie», vol. 55, n. 217, 2001; Id., Jerome Wakefied, Intentionality and the Phenomenology of Action, in Ernest Lepore, Robert van Gulick (a cura di), Searle and his Critics, Basil Blackwell, 1990.

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il metodo di Husserl. Egli propone invece che quando descriviamo i risultati della riduzione trascendentale dovremmo prescindere dal naturalismo e provare a intuire l’essenza di ciò che stiamo descrivendo. Quindi non descriviamo soltanto come mi sembra questa particolare tonalità del rosso, ma proviamo ad andare all’essenza della rossità. Questa è l’intuizione delle essenze. Ci sono dunque due caratteristiche nei metodi husserliani: la riduzione trascendentale e l’intuizione delle essenze. Queste non sono equivalenti, e in realtà sono indipendenti; potrebbe benissimo essercene una senza l’altra. Questi metodi e l’analisi logica sono in qualche maniera connessi, ma non sono per nulla identici. Vorrei descrivere l’analisi logica per come la comprendo e per come la pratico. Il caso paradigmatico di analisi logica, quello che ci ha consegnato un modello valido letteralmente per un secolo, è la teoria di Russell sulle descrizioni (pubblicata per la prima volta nel 1905)8. Nella teoria delle descrizioni, Russell non si chiede come ci si sente quando pronuncia la frase: “Il re di Francia è calvo”; e, per come lo interpreto, non cerca nemmeno la Wesenschau husserliana. Non si chiede quale sia il suo stato di coscienza; piuttosto, prova a descrivere le condizioni per cui la frase sarebbe vera. Arriva alla sua famosa analisi analizzando le condizioni di verità, non analizzando la propria esperienza. Questo ha fornito il modello per la filosofia analitica da allora, e il modo in cui l’ho applicato comporta estensioni significative oltre il paradigma di Russell. Nella teoria degli atti linguistici, mi sono chiesto non a quali condizioni gli atti linguistici sono veri, ma, piuttosto, a quali condizioni un atto linguistico è di un certo tipo, come una promessa, performata con successo e in maniera non difettosa. Come nel caso di Russell, l’idea era ottenere un’analisi nei termini di un insieme di condizioni, idealmente un insieme di condizioni necessarie e sufficienti, per quei concetti come la promessa, l’ordine, l’affermazione, o qualunque altra nozione fondamentale nel campo degli atti linguistici. Quando l’ho fatto, ero pienamente consapevole, ovviamente, dei dubbi importanti, sollevati da Wittgenstein e altri, sulla possibilità di ottenere condizioni necessarie e sufficienti a causa della vaghezza, delle somiglianze di famiglia, della trama aperta, e di altri fenomeni noti. Questi, tuttavia, non rendono 8 Bertrand Russell, On Denoting, in «Mind», vol. XIV, n. 4, 1905.

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impossibile il progetto dell’analisi logica; lo rendono semplicemente più difficile e più interessante. Così, per esempio, il fatto che ci siano casi marginali e dubbi di promessa o richiesta (e simili) non rende impossibile il progetto dell’analisi logica, ma lo rende più interessante e più complesso. Quando mi sono messo ad analizzare l’intenzionalità, il mio metodo, ancora una volta, era affermare delle condizioni, in questo caso delle condizioni di soddisfazione. Per comprendere che cosa sia una credenza, bisogna sapere a quali condizioni questa sia vera. Nel caso di un desiderio, ad esempio, bisogna sapere a quali condizioni questo è soddisfatto. Nel caso di un’intenzione, a quali condizioni viene portata avanti, e così via con altri stati intenzionali. Ma, ancora una volta, l’analisi è dettata da alcune condizioni. Gli stati intenzionali rappresentano le proprie condizioni di soddisfazione, e come tutta la rappresentazione, la rappresentazione intenzionale è relativa a certi aspetti, ciò che Frege chiamava i «modi di presentazione». Si noti il contrasto con Husserl, che vuole ottenere un’intuizione delle essenze esaminando la struttura della propria coscienza. Per me, molte delle condizioni di soddisfazione non sono immediatamente disponibili alla coscienza; non sono fenomenologicamente reali. Sospetto anche che Husserl avesse una concezione delle rappresentazioni intese come certi tipi di eventi mentali che si possono verificare. La mia concezione è puramente logica. Le rappresentazioni per me non devono essere pensate sempre come immagini o frasi, ma piuttosto tutto ciò che può avere delle condizioni di soddisfazione è una rappresentazione. Anche se all’epoca non me ne rendevo conto, uno degli effetti del mio libro Intentionality è stato togliere il tema dell’intenzionalità via dal carattere introspettivo della tradizione continentale e provare a renderlo un argomento adatto anche ai filosofi analitici. Precedenti discussioni analitiche dell’intenzionalità tendevano a essere o comportamentiste, come quella di Ryle, o linguistiche, come quella di Chisholm e di Sellars. Tradizionalmente, i filosofi analitici sono riluttanti nell’accettare descrizioni irriducibilmente in prima persona di qualsiasi cosa. Io ho presentato una descrizione in prima persona dell’intenzionalità, una reale intenzionalità intrinseca, usando gli strumenti dell’analisi logica. Diversamente da Husserl, il cui metodo è introspettivo e trascendentale, la mia concezione di intenzionalità è fermamente natura-

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listica. L’intenzionalità è una caratteristica biologica del mondo, che va di pari passo con la digestione o con la fotosintesi. Essa è causata dal cervello e realizzata al suo interno. Nel caso della realtà sociale, la mia analisi è anche in termini di condizioni, anche se lo è in maniera meno ovvia. Lì la domanda è: quali sono le caratteristiche costitutive che realizzano i fatti istituzionali? Quale tipo di fatti relativi al mondo fa sì che io sia sposato, che sia cittadino statunitense, che abbia una certa quantità di denaro, o che sia un professore nell’Università della California? Tutti questi sono fatti istituzionali, e l’idea è svelare l’ontologia di quei fatti provando a svelare le condizioni necessarie e sufficienti per costituire fatti proprio come quelli. È importante enfatizzare che l’analisi non è in alcun senso un’analisi causale. Non sto chiedendomi che cosa abbia causato il fatto che quei pezzi di carta sono denaro, ma piuttosto quali fatti a essi relativi siano costitutivi del loro essere denaro. La mia indagine sull’ontologia sociale è un proseguimento dei metodi di analisi che ho descritto prima. Dunque, come formulazione preliminare, possiamo dire che il metodo della fenomenologia husserliana è descrivere il noema cercando la sua struttura essenziale. Il metodo dell’analisi logica è stabilire delle condizioni – di verità, di performance o prestazione, di costituzione, ecc. Ho detto che c’era una sovrapposizione fra i metodi husserliani della riduzione trascendentale e della Wesenschau e i metodi dell’analisi logica. La sovrapposizione emerge semplicemente perché a volte l’intuizione delle essenze dà lo stesso risultato dell’analisi delle condizioni. Per esempio, credo che entrambe fornirebbero analisi analoghe sulle credenze, almeno sulle credenze per come si verificano nei processi coscienti del pensiero. Il problema, tuttavia, è che a volte esse forniscono delle analisi differenti. Questo è emerso anni fa nelle mie discussioni con Føllesdal, dove ho sostenuto che ci sono certe condizioni causali su vari tipi di fenomeni intenzionali, ma lui ne ha negato l’esistenza sulla base del fatto che non c’è una realtà fenomenologica immediata per quelle condizioni causali. Un ovvio esempio è l’autoreferenzialità causale di molti fenomeni intenzionali come la percezione, la memoria, e l’azione volontaria. Dirò di più su questi casi nel dettaglio in seguito, ma per il momento il punto è questo: alcune delle più importanti caratteristiche logiche dell’intenzionalità sono

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fuori dalla portata della fenomenologia perché non hanno una realtà fenomenologica immediata. Ebbene, qual è, dunque, il metodo di analisi logica con cui si arriva a queste condizioni, se non si tratta solo di descrivere la struttura dell’esperienza? La risposta è che si tratta di un’estensione dei metodi della filosofia del linguaggio. Ci si chiede “che cosa diremmo se…?” oppure “che cosa accadrebbe se…?”. Grice ne fornisce un classico esempio nella sua prova sul fatto che esiste una condizione causale nel vedere, persino in casi in cui di quella condizione causale non si fa esperienza come parte della fenomenologia dell’esperienza visiva9. Quindi, supponiamo che io veda un oggetto, ma che venga poi inserito uno specchio in modo tale che io abbia esattamente lo stesso tipo di esperienza che ho avuto prima, credendo ancora di vedere lo stesso oggetto; ma, in realtà, l’immagine specchiata riflette un altro oggetto, diverso, che però è identico nella sua tipologia. Non vedo più l’oggetto che vedevo originariamente perché quell’oggetto non causa la mia esperienza visiva. La prova è che noi non descriveremmo questo come un caso in cui si vede l’oggetto originale. Si tratta di ordinaria filosofia del linguaggio; non è analisi fenomenologica. Questa è una distinzione cruciale e decisiva fra la mia nozione di contenuto intenzionale e la nozione di noema elaborata da Husserl. Il noema può soltanto contenere cose che sono fenomenologicamente reali. Dal mio punto di vista, la fenomenologia può costituire un buon punto di inizio dell’analisi dell’intenzionalità, ma non può arrivare fino in fondo perché c’è tutta una serie di condizioni che semplicemente non hanno un immediato riscontro fenomenologico nella realtà. A me sembra che l’atteggiamento corretto verso questa intera discussione sia usare i metodi fenomenologici quando sono appropriati e quelli analitici quando sono appropriati. È molto semplice e persino banale. Se comprese correttamente, non c’è conflitto fra la filosofia analitica e la fenomenologia. Esse offrono metodi non competitivi e complementari di ricerca e chiunque voglia fare del lavoro serio dovrebbe essere pronto a usarle entrambe. Io penso che questo sia esattamente l’atteggiamento corretto da avere e se tutti fossero d’accordo con me potremmo anche chiudere qui il discorso. 9 Herbert P. Grice, The Causal Theory of Perception, ristampato in Id., Studies in the Way of Words, Harvard University Press, 1989.

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Alcuni esempi dell’illusione fenomenologica Ma se guardiamo alle effettive pratiche dei fenomenologi, c’è un profondo disaccordo fra il tipo di filosofia che pratico io e la fenomenologia. Nella discussione di questi temi con i fenomenologi ho scoperto che nello studio della filosofia della mente, quando qualcosa non è fenomenologicamente reale, si suppone che non lo sia affatto, nel senso che non ha alcuna realtà mentale, intenzionalistica, o logica. E quando sia fenomenologicamente reale, allora è sufficientemente reale. Io la chiamo illusione fenomenologica, e ne darò numerosi esempi, iniziando con alcuni problemi in filosofia del linguaggio. 1. Il problema del significato Il problema del significato nella sua forma più cruda è spiegare la relazione della fisica dell’enunciato con la semantica. Quale fatto relativo all’emissione acustica che proviene dalla mia bocca rende quell’emissione acustica un atto linguistico? Questa è l’espressione linguistica del problema fondamentale che ho menzionato prima: come si spiega la realtà umana a partire dai fatti di base? Questo è il problema principale in filosofia del linguaggio: come fanno i processi della mente (indipendenti dall’osservatore) a creare un significato (dipendente dall’osservatore)? Come passiamo dal getto acustico all’atto linguistico in piena regola? Provo a spiegare questa cosa presentando una teoria degli atti linguistici che includa una qualche prospettiva anche sul significato. Nella lettura di Dreyfus, la risposta di Husserl a questa domanda è che prima identifichiamo i fatti bruti, privi di significato e poi, consciamente, attribuiamo a essi un significato. Questo approccio sembra ovviamente falso, perché normalmente non avviene nessuna identificazione preventiva di questo tipo e nessuna imposizione cosciente. Passiamo dunque ad Heidegger. Secondo Dreyfus, Heidegger sostiene che non ci sia un modo per spiegare il riferimento e la verità a partire dal linguaggio come fenomeno in cui dei suoni sono accoppiati a delle rappresentazioni. Abbiamo visto

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nel Capitolo 1110 che Heidegger pensa che tutti i suoni, dal rombo della moto alle parole, sono esperiti direttamente come significativi. Dunque, se ci fermiamo al fenomeno, dissolviamo [corsivo mio] il problema Husserl/Searle di come attribuire significato ai semplici suoni, in modo da poterci poi riferire attraverso dei semplici rumori11.

Così il problema che sta alla base della filosofia del linguaggio e della linguistica semplicemente si dissolve. Non esiste un simile problema. Se Heidegger ha ragione, centocinquant’anni di discussione di questo problema da Frege a Russell, Wittgenstein, Grice e Searle sarebbero improvvisamente irrilevanti per via di una dissoluzione del problema. Ma attendiamo un momento. Sappiamo – prima di iniziare con la filosofia – che, quando parlo, delle emissioni acustiche provengono dalla mia bocca e dalla mia laringe. Questo è solo un fatto della fisica, uno dei fatti fondamentali a cui mi sono riferito in precedenza. Sappiamo anche che sto performando degli atti linguistici significativi. Sappiamo anche, ancora prima di iniziare con la filosofia, che deve esserci una risposta al problema di quale sia la relazione fra l’emissione acustica e l’atto linguistico, perché, almeno inizialmente, la relazione è di identità. La produzione di un’emissione acustica è l’azione tramite cui si performa l’atto linguistico. Sappiamo, anche in questo caso prima ancora di procedere con l’indagine, che la produzione di significato è interamente relativa all’osservatore e compiuta dagli esseri umani, perché sappiamo che senza pensiero umano intenzionale e senza azione non esiste significato. Ora, per quale motivo Heidegger/Dreyfus non riescono a vedere questi punti fondamentali? La risposta è che soffrono dell’illusione fenomenologica. Poiché la creazione di significati a partire da ciò che è insignificante non è vissuta consciamente come tale (almeno non tipicamente), allora – nella loro prospettiva – essa non esiste. Questo è un chiaro esempio dell’illusione fenomenologica. Cerchiamo di affermare questo passaggio con precisione. A causa dell’illusione fenomenologica, i fenomenologi esistenziali non posso10 Si fa ovviamente riferimento a un capitolo nel testo di Dreyfus qui ripreso da Searle [NdT]. 11 Hubert L. Dreyfus, Being-in-the-World: A Commentary on Heidegger’s Being and Time, cit., p. 268 (traduzione mia).

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no affermare il problema del significato né possono averne risposta. Secondo Heidegger, non c’è problema. Il problema si dissolve perché facciamo già, sempre, esperienza dei suoni in quanto significativi. Gli heideggeriani suppongono che se c’è un’imposizione di significato questa dovrebbe essere fatta consciamente, prima identificando l’elemento privo di significato e poi imponendovi consciamente un significato. A meno che l’imposizione di significato non sia fenomenologicamente reale, essa insomma non esiste. 2. Il problema della realtà sociale Passiamo ora dal linguaggio alla società. Il problema per il linguaggio era come passare dal suono al significato. Il problema (o uno dei problemi) della società è parallelo a quello. Come passiamo dai fatti bruti ai fatti sociali e istituzionali? Il fenomenologo non comprende la prima domanda perché pensa che si tratti di una domanda fenomenologica, quando invece non lo è. La stessa difficoltà interessa la discussione della realtà sociale. Proprio come la questione del linguaggio è come si passa dal fatto bruto dei suoni e dei segni ai fatti semantici degli atti linguistici che hanno un significato, così la questione per la società è: come passiamo, ad esempio, dal fatto bruto che questo è un foglio di carta con segni di inchiostro al fatto istituzionale per cui lo stesso foglio è una banconota da venti dollari? Io provo a rispondere a questa domanda; per quanto ne so, i fenomenologi esistenziali letteralmente non sentono neppure la domanda. Per Heidegger la questione si dissolve, perché l’oggetto è “sempre già” stato una banconota da venti dollari. Così le obiezioni che ho mosso all’approccio di Heidegger al significato si applicano anche alla visione della realtà sociale. In effetti, non riesco a trovare una distinzione in Heidegger fra il ruolo di strumenti come i martelli, dove non è coinvolta alcuna deontologia, e il ruolo di strumenti come il denaro, che hanno senso solamente a fronte di una deontologia. 3. Il problema delle funzioni Cerchiamo di far avanzare questa tesi. Una volta che si prendono sul serio i fatti di base, si resta colpiti da un’importante distinzione:

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alcune caratteristiche del mondo esistono a prescindere dai nostri sentimenti e dai nostri atteggiamenti. Io le chiamo le caratteristiche indipendenti dall’osservatore. Esse includono cose come la forza, la massa, l’attrazione gravitazionale, la fotosintesi, ecc. Altre cose dipendono da noi perché sono nostre creazioni. Queste includono il denaro, la proprietà, il governo, i martelli, le automobili, e gli strumenti in generale. Le chiamo dipendenti dall’osservatore o relative all’osservatore. Tutte le funzioni, e dunque tutti gli strumenti e gli apparecchi più in generale, sono dipendenti dall’osservatore. Ovviamente, i fatti del mondo dipendenti dall’osservatore dipendono da quelli indipendenti dall’osservatore, perché i fatti dipendenti dall’osservatore sono creati come tali da una realtà indipendente dall’osservatore (o realtà bruta) tramite la coscienza umana e l’intenzionalità, le quali sono entrambe indipendenti dall’osservatore. Perciò gli enunciati significativi, gli strumenti, i governi, il denaro e in generale i vari attrezzi sono tutte creazioni umane generate da materiali privi di significato che sono indipendenti dall’osservatore. Così, un pezzo di carta è denaro o un oggetto è un martello soltanto perché abbiamo imposto su di essi delle funzioni, le funzioni di essere denaro oppure un martello. Ciò che è indipendente dall’osservatore è ontologicamente primario, ciò che è dipendente dall’osservatore è derivativo. Ora, qui risiede l’interesse di tutto questo per la presente discussione: Heidegger ha un’ontologia esattamente inversa a questa, completamente sbagliata. Sostiene che l’a portata di mano è primario, e il presente a portata di mano è derivativo. Nella sua prospettiva, i martelli e le banconote sono prioritari rispetto ai pezzi di carta e agli insiemi di molecole di metallo. Perché dice questo? Penso che la risposta sia chiara; fenomenologicamente il martello e la banconota sono tipicamente prioritari. Quando usiamo il martello o la banconota non pensiamo molto alla struttura atomica di base o ad altre caratteristiche indipendenti dall’osservatore di ciascun oggetto. In breve, Heidegger è soggetto all’illusione fenomenologica in un modo chiaro: pensa che dal momento che l’a portata di mano è fenomenologicamente prioritario esso sia anche ontologicamente prioritario. Quel che è ancora peggio è che nega che l’a portata di mano sia relativo all’osservatore. Pensa che qualcosa sia un martello in sé, e nega che creiamo una realtà sociale e linguistica a partire da

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entità prive di significato. Piuttosto dice che siamo “sempre già” in un mondo che ha dei significati. Ecco che cosa sostiene: Il tipo di Essere che appartiene a queste entità è ciò che è a portata di mano. Ma questa caratteristica non deve essere intesa come un semplice modo per considerarle [corsivo mio], come se assumessimo tali “aspetti” nelle “entità” che incontriamo in modo prossimo, o come se alcune cose del mondo che sono prossimalmente presenti a portata di mano “ricevessero colorazione soggettiva” in questo modo12.

Questo mi sembra semplicemente sbagliato. Se togliamo i fronzoli retorici nella sua prosa, la visione che lui afferma essere errata è in realtà corretta. La caratteristica dell’essere denaro o martello è precisamente un «modo di prenderli». Caratteristiche come l’essere denaro o l’essere un martello sono dipendenti dall’osservatore e in quel senso l’oggetto «riceve una colorazione soggettiva» quando lo trattiamo come un martello. Le idee di Heidegger sono espressioni del suo rigettare la natura di base dei fatti di base. 4. Autoreferenzialità causale come manifestata nella percezione, nella memoria, e nelle intenzioni Come ho accennato in precedenza, se si esaminassero le condizioni di soddisfazione di varie forme di cognizione, specialmente la percezione, la memoria, l’intenzione primaria, e l’intenzione in azione, si vedrebbe che tutte hanno una condizione causale. Non saranno soddisfatte a meno che non siano causate da (nel caso della percezione e la memoria) o esse stesse siano causa (nel caso dell’intenzione primaria e l’intenzione in azione) del resto delle proprie condizioni di soddisfazione. Per prendere un esempio che ho menzionato in precedenza, non vedo l’oggetto a meno che la presenza e le caratteristiche dell’oggetto non siano la causa dell’esperienza di vedere l’oggetto con quelle caratteristiche. Ora, questa autoreferenzialità 12 Martin Heidegger, Being and Time, Harper and Row, 1962, p. 101; trad. it. Essere e tempo, Utet, 1969.

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causale generalmente non si presta all’analisi fenomenologica, perché tipicamente non si fa esperienza consciamente del fatto che l’oggetto ci causi la sua visione o non si fa esperienza delle intenzioni primarie nel loro causare quelle successive. È questa autoreferenzialità causale della percezione e dell’azione a emergere nell’analisi logica ma essa non è tipicamente rivelata nell’analisi fenomenologica, perché non è fenomenologicamente reale, nel senso che non è sempre presente alla coscienza nel momento dell’esperienza vera e propria. Ma l’autoreferenzialità è ovviamente reale come condizione, perché è parte delle condizioni di soddisfazione dei fenomeni intenzionali in questione. Ovviamente, si possono indirettamente portare alla coscienza le condizioni causali di soddisfazione. Nel caso della percezione c’è un contrasto esperito tra il carattere volontario dell’immaginazione visuale, in cui la mia intenzione causa l’immagine visuale, e la mia reale percezione visiva, in cui faccio esperienza della visione in quanto causata da oggetti nel mondo esterno. Nel caso dell’azione c’è un contrasto vissuto fra un’azione normale, in cui io ho il controllo causale dei miei movimenti corporei, e i casi in cui i movimenti corporei vengono causati dalla stimolazione della corteccia motoria, come è accaduto in alcuni celebri esperimenti guidati dal neurochirurgo Wilder Penfield13. Così si può arrivare coscientemente all’autoreferenzialità causale, ma solo indirettamente. La condizione causale di vedere qualcosa di rosso non ci arriva dritta addosso come accade con l’esser rosso o con la rossità. 5. La gestione “abile” Un altro esempio di illusione fenomenologica emerge dalla discussione di Merleau-Ponty riguardo alla gestione “abile”, che lui chiama «intenzionalità motoria»14. L’idea è che, poiché esistono vari tipi di azioni cicliche come camminare o guidare un’auto che non richiedono una coscienza concentrata e focalizzata dell’intenzionalità, del tipo per esempio che si ha quando si fa lezione, allora queste hanno un 13 Wilder Penfield, The Mystery of the Mind: A Critical Study of Consciousness and the Human Brain, Princeton University Press, 1975, p. 76; trad. it. Il mistero della mente. Studio critico sulla coscienza e il cervello umano, Vallecchi, 1991. 14 Maurice Merleau-Ponty, Phenomenology of Perception, Routledge, 1962; trad. it. Fenomenologia della percezione, il Saggiatore, 1965.

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tipo del tutto diverso di intenzionalità. Se sembra diverso allora deve essere diverso. Ma se si osservano le reali condizioni di soddisfazione non c’è differenza nella struttura logica. Per vederlo, si provi a confrontare il compiere un tipo di azione in gestione abile, automatica e quasi inconsapevole con il compierlo come azione deliberata e concentrata. Ad esempio, normalmente, quando mi alzo e vado verso la porta lo faccio senza una speciale concentrazione e senza alcuna deliberazione. È gestione capace, “abile” dell’azione. Ma ora lo faccio e provo a concentrare la mia attenzione mentre compio l’atto. Questa è un’azione deliberata. Nei casi descritti, sebbene sembrino diversi, c’è in realtà una somiglianza sul piano logico. In entrambi i casi si agisce intenzionalmente e in entrambi ci sono delle condizioni di soddisfazione causalmente autoreferenziali. Sono riuscito in quel che provavo a fare solo se le mie intenzioni nel compiere l’azione hanno causato dei movimenti corporei. Il fatto che le azioni sembrino diverse non implica che siano logicamente differenti. È un chiaro caso dell’illusione fenomenologica supporre che una diversa fenomenologia implichi un diverso tipo di intenzionalità con una diversa struttura logica. 6. Rappresentazioni proposizionali, condizioni di soddisfazione e intenzionalità soggetto/oggetto Dreyfus, seguendo Merleau-Ponty, critica continuamente la mia concezione dell’intenzionalità sulla base del fatto che, a suo avviso, essa non spieghi l’intenzionalità motoria, poiché, ritiene, questa intenzionalità non consiste di rappresentazioni proposizionali, non ha condizioni di soddisfazione, e non è intenzionalità “soggetto/oggetto”. Piuttosto, ritiene, essa ha “condizioni di miglioramento” che sono non-rappresentazionali e non-proposizionali; e poiché l’agente è coinvolto nel mondo tramite le sue capacità, non si tratta di intenzionalità soggetto/oggetto. Un esempio del tipo di cosa che ha in mente, in effetti un esempio che fa spesso criticandomi, è questo: giocando a tennis potrei avere le “condizioni di miglioramento”, relative ai miei colpi. Tali condizioni di miglioramento, aggiunge, sono non proposizionali, non hanno condizioni di soddisfazione, e non sono esempi di “intenzionalità soggetto/oggetto”. Io trovo questa tesi confusa, per

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non dire autocontraddittoria, e penso ancora una volta, per ragioni che chiarirò, che questa sia rivelatoria dell’illusione fenomenologica. Vediamola un passo per volta. Primo step: sostiene che la gestione “abile” ha condizioni di miglioramento che non sono proposizionali. Ma la nozione di condizione è già di per sé proposizionale, semplicemente perché una condizione è sempre una condizione per cui questo e questo è il caso. Secondo step: la nozione di rappresentazione, per come la utilizzo io, si applica banalmente a qualunque cosa in questo ambito che abbia delle condizioni, perché una rappresentazione è semplicemente qualunque cosa abbia delle condizioni di soddisfazione, come condizioni di verità, condizioni di obbedienza, condizioni di miglioramento, ecc. Come ho sottolineato prima, la rappresentazione per me è una nozione logica e non fenomenologica. L’espressione “rappresentazione mentale” non implica “frasi o immagini nella testa”. Così entrambi i casi delle condizioni di soddisfazione e delle condizioni di miglioramento sono casi di rappresentazione proposizionale. Terzo step: tutta l’intenzionalità per definizione è “intenzionalità soggetto/oggetto” perché tutta l’intenzionalità è una questione di un umano o un animale coinvolto nel mondo in cui i pensieri umani e animali, le percezioni e il comportamento hanno delle condizioni di soddisfazione. Il fatto che l’intenzionalità cosciente non abbia l’apparenza di un soggetto impegnato con un oggetto è irrilevante. La sensazione che trasmette a livello fenomenologico non ha una necessaria incidenza sulla sua struttura logica. Quarto step: tutte le condizioni di miglioramento sono per definizione condizioni di soddisfazione, perché posso riuscire oppure fallire nel realizzare delle condizioni di miglioramento. Le condizioni di miglioramento sono semplicemente una sottocategoria delle condizioni di soddisfazione, sono cioè dei casi in cui riesco a fare ciò che sto cercando di fare. In breve, per come uso queste espressioni, la prospettiva di Dreyfus è autocontraddittoria. Non si può dire che l’intenzionalità motoria ha condizioni di miglioramento ma non è rappresentazionale, non proposizionale, non soggetto/oggetto, e non ha condizioni di soddisfazione, perché la nozione stessa di condizioni intenzionali di miglioramento implica le cose seguenti: l’essere proposizionale, l’essere rappresentazionale, che ci siano condizioni di soddisfazione, e che ci sia un’intenzionalità soggetto/oggetto.

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Perché questi punti non sono ovvi? Penso che la risposta sia l’illusione fenomenologica. In generale queste caratteristiche non sono presenti in fenomenologia. La fenomenologia è sistematicamente confusiva. Quando giochiamo a tennis, non abbiamo un’esperienza cosciente di avere delle rappresentazioni proposizionali rispetto alle condizioni di soddisfazione (per esempio di miglioramento) e non pensiamo consciamente a noi stessi come coscienze incarnate in interazione con il mondo. L’illusione fenomenologica può persino darci l’impressione che la racchetta da tennis sia in qualche maniera una parte del nostro corpo, e infatti quando giochiamo a tennis o quando sciamo, la racchetta da tennis o gli sci sembrano più un’estensione del corpo che non degli strumenti. Ma questa, ovviamente, è un’illusione fenomenologica. Infatti non ci sono terminazioni nervose nella racchetta da tennis, e neanche negli sci, ma se si diventa bravi a sciare o a giocare a tennis sembrerà quasi che ci siano. Non sembra che noi siamo un cervello incorporato che interagisce con un mondo; sembra piuttosto che noi e il mondo formiamo un’unità singola, e ovviamente non c’è alcun contenuto proposizionale che passa nella nostra testa. Ma allo stesso modo si applica l’intero apparato logico dell’intenzionalità. Si potrebbe soltanto trascurare la questione logica se si soffrisse dell’illusione fenomenologica. Se si descrive la fenomenologia e ci si ferma lì, non si considerano le strutture logiche sottostanti. Da un punto di vista biologico, in questi casi sembra che accada quanto segue. È semplicemente più economico biologicamente, più efficiente, e di conseguenza ha anche un vantaggio evolutivo, il fatto che dovremmo interagire con il mondo in modi che nascondono le relazioni logiche reali. In effetti, alcuni lavori recenti in neurobiologia supportano l’idea per cui molta intenzionalità, persino nella vista, sia inconscia15. Non c’è nulla di errato nella fenomenologia vissuta che lascia fuori molte delle caratteristiche logiche. Al contrario tralasciare qualunque tipo di caratteristica logica ha un vantaggio evolutivo enorme per noi. Quel che è sbagliato è considerare la fenomenologia come se fosse la totalità dei fatti reali. La teoria fenomenologica si basa su un’illusione generata dal fatto che la mia capacità di gestione “abile” 15 David A. Milner, Melvin A. Goodale, The Visual Brain in Action, Oxford University Press, 1995.

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non sembra coinvolgere una distinzione fra me e il mondo, non sembra coinvolgere alcun contenuto proposizionale, e non sembra coinvolgere delle rappresentazioni. Ma, ripetendo, la fenomenologia sotto questo aspetto ci delude, perché proviamo ad accedere alla realtà sottostante che è al di là della portata della fenomenologia cosciente. Dreyfus spesso sottolinea che non dobbiamo sapere in anticipo come sarà un perfetto swing di tennis. Proprio così. Allo stesso modo non dobbiamo sapere in anticipo come sarà una curva perfetta nello sci, ma comunque alla stessa maniera abbiamo condizioni di soddisfazione il cui contenuto fa sì che siano soddisfatte solo se faccio una curva perfetta o comunque migliore, o se faccio un colpo swing perfetto o almeno migliore. 7. Causazione e costituzione C’è un’interessante incomprensione del mio intero approccio a queste cose che penso sia anche rivelatoria dell’illusione fenomenologica. Non sono sicuro che questo riguardi la fenomenologia in generale perché l’unico caso che conosco è Dreyfus, ma in tutti casi ecco qui l’incomprensione. Io ho fornito un “approccio causale” della struttura dell’azione rilevando che le condizioni di soddisfazione sia delle intenzioni originarie che delle intenzioni in azione devono avere un contenuto causale. L’intenzione originaria causa l’intera azione, l’intenzione in azione causa il movimento corporeo, ecc. (Anche se, ripeto, in casi tipici ciò non sarà disponibile a livello fenomenologico. Non si deve essere coscienti, quando si mette in atto l’intenzione originaria, del fatto che l’azione è stata in parte causata da quell’intenzione originaria). Ora, è interessante notare che Dreyfus suppone che, quando presento una teoria della struttura della realtà sociale, questa deve anche essere causale. Dreyfus pensa che io fornisca un approccio causale del fatto che questo pezzo di carta di fronte a me è una banconota da venti dollari. Ma nulla nei miei testi conduce a questa incomprensione. Io ho un approccio costitutivo. La domanda che mi pongo è: quale fatto relativo a questo pezzo di carta e altri pezzi di carta simili li rende denaro? Io non mi pongo la questione: qual è la causa del fatto che questo pezzo di carta è denaro? (Non sono nemmeno sicuro del significato che avrebbe una tale domanda).

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Ma piuttosto mi chiedo: quale fatto a essa relativo è costitutivo del suo essere denaro? Per me è stato sorprendente che qualcuno potesse aver frainteso a tal punto, ma ora credo che questa sia una conseguenza dell’illusione fenomenologica. Se ci fosse una struttura logica allora questa dovrebbe essere fenomenologicamente reale, ma se è fenomenologicamente reale allora la parte bruta e triviale della fenomenologia, considerando che questo davanti a me è un pezzo di carta, dovrebbe essere la base causale della parte istituzionale della fenomenologia, considerando che lo stesso pezzo di carta è una banconota da venti dollari. Quindi l’oggetto è una banconota da venti dollari perché pensiamo che esso sia una banconota da venti dollari. Ora mi rendo conto che se si è soggetti all’illusione fenomenologica si tratta di una lettura abbastanza naturale. Una diagnosi dell’illusione fenomenologica Finora sono stato ragionevolmente fiducioso del fatto che quelli che ho identificato come errori siano veri e propri errori, e che non ho frainteso gli autori che sto criticando. Ma ora passo a una parte più speculativa di questo mio scritto: qual è la diagnosi dell’illusione fenomenologica? Ho detto che qualsiasi filosofia sensata che tratti questi temi nella nostra epoca deve partire dai fatti basilari. (Questo non implica, ovviamente, che non possano esserci indagini filosofiche dei fatti basilari, o non possano esservi sfide agli stessi). Ora, in che senso esattamente si tratta di fatti basilari o fondamentali? Perché, ad esempio, i fatti della fisica sono più fondamentali di quelli della critica letteraria o della sociologia? Questa è una domanda posta legittimamente e che ha una risposta chiara. I fatti letterari e sociali dipendono dai fatti della fisica in un modo in cui i fatti della fisica non sono dipendenti dalla letteratura o dalla società. Se eliminiamo tutta la letteratura e tutte le istituzioni sociali, avremo comunque la fisica. Se togliamo tutte le particelle fisiche e la letteratura, la società e ogni altra cosa andrà perduta. Una possibile diagnosi delle fonti dell’illusione fenomenologica è semplicemente questa: i fenomenologi che sto discutendo non parto-

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no dai fatti basilari. E dati i loro presupposti è difficile capire come potrebbero. L’approccio che in effetti adottano è di trattare la realtà umana come in un certo senso più fondamentale, o, come alcuni di loro direbbero, come più “primordiale”, della realtà basilare. Questa tesi si manifesta nei loro scritti attraverso una loro tendenza a non fare riferimenti de re. I riferimenti agli oggetti sono interpretati come interni al dominio di qualche operatore fenomenologico, come la coscienza trascendentale o il Dasein. Questa incapacità di considerare la realtà fondamentale come basica e primordiale, e di supporre che in un modo o in un altro la realtà umana sia più fondamentale della realtà basilare, fa emergere ciò che ho definito come illusione fenomenologica. Molte persone di cui rispetto le opinioni pensano che sia ingiusto caratterizzare il risultato come “idealismo”, ma in pratica ritengono che si tratti almeno di un certo tipo di prospettivismo. La realtà esisterebbe, cioè, ma solo da una certa prospettiva. Nel caso del tardo Husserl, tutto questo riferirsi all’ego trascendentale e al primato della coscienza è, a mio avviso, parte del rifiuto dell’idea che quel che ho chiamato fatti basilari siano in realtà dei fatti basilari. La coscienza per Husserl ha un’esistenza assoluta e non dipende da processi cerebrali o da qualsiasi altra cosa in natura16. Ecco alcuni passaggi tipici da La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale: «Questa rivoluzione, la più grande di tutte, può essere designata come una trasformazione dell’obiettivismo scientifico, di quello moderno ma anche di quello di tutte le filosofie precedenti, sviluppatesi attraverso millenni, in un soggettivismo trascendentale»17. E ancora: «Il primo in sé è bensì la soggettività, in quanto essa pone ingenuamente l’essere del mondo e poi lo razionalizza, oppure (il che è lo stesso) lo obiettivizza»18. La soggettività trascendentale per Husserl non dipende dai fatti basilari; piuttosto, è la situazione inversa. Un’altra affermazione su questo punto si trova nelle Meditazioni cartesiane:

16 Dermot Moran, Introduction to Phenomenology, Routledge, 2000, p. 136. 17 Edmund Husserl, The Crisis of the European Sciences and Transcendental Phenomenology, Northwestern University Press, 1970, p. 98; trad. it. La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, 2008. 18 Ivi, p. 99.

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Il mondo oggettivo, che per me è, era, sarà e che sempre potrà essere con tutti i suoi oggetti, attinge, come dicevo, il suo senso intero e il suo valor d’essere, quello ch’esso ha per me, da me stesso, da me in quanto io trascendentale, quell’io che primo emerse dalla epoché fenomenologico-trascendentale19.

Penso che Merleau-Ponty sia un idealista in un senso piuttosto tradizionale. Merleau-Ponty parla moltissimo di ciò che chiama il corpo e l’importanza del corpo, ma si scopre poi che il corpo di cui parla non è il pezzo di materia fatto di carne e di sangue che costituisce ognuno di noi, ma, piuttosto, le corps vécu, il corpo-vissuto, con cui indica l’insieme di esperienze fenomenologiche che noi abbiamo dei nostri corpi. Merleau-Ponty pensa che il cervello e il resto del corpo fisico siano raggiunti da una sorta di astrazione del corps vécu, ma che il corps vécu sia fondamentale e primario. E allora Heidegger? Dovrebbe destare grande sospetto il fatto che le persone che spendono molte energie nell’interpretarne il lavoro non siano d’accordo sulla fondamentale domanda se Heidegger fosse o no un idealista20. Ai fini di questa discussione, la sua mancanza di un investimento risoluto nei confronti dei fatti fondamentali o basilari è sufficiente. Supponiamo di prendere sul serio la nozione di Dasein, nel senso che la si pensa come riferita a un fenomeno reale nel mondo reale. La prima domanda sarebbe: come fa il cervello a causare il Dasein e come fa questo a esistere nel cervello? O, se si pensa che il cervello non sia il giusto livello della spiegazione, bisognerebbe dire precisamente come e dove il Dasein è localizzato nella traiettoria spazio-temporale dell’organismo e si dovrebbero localizzare le giuste cause, sia quelle micro che causano il Dasein, sia gli effetti causali sui processi organici dell’organismo. Non c’è via d’uscita dal fatto che viviamo tutti in un continuo spazio-temporale, e se il Dasein esiste esso deve essere localizzato e causalmente situato in quel continuo. Inoltre, se si prendesse sul serio il Dasein, bisognerebbe poi chiedersi: come 19 Edmund Husserl, Cartesian Meditations, Martinus Nijhoff, 1969, p. 58; trad. it. Meditazioni cartesiane, Bompiani, 2009. 20 Per William D. Blattner, Heidegger’s Temporal Idealism, Cambridge University Press, 1999, era un idealista; Taylor Carman, Heidegger’s Analytic, Cambridge University Press, 2003, dice di no.

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rientra nello schema evoluzionistico della biologia? Lo hanno anche altri primati? Altri mammiferi? Qual è la sua funzione evolutiva? Non riesco a trovare una risposta a queste domande in Heidegger o persino un senso di una sua consapevolezza nel prenderle sul serio. Ma prendere queste cose seriamente è il prezzo da pagare se si prende il Dasein seriamente, a meno che ovviamente non si rinneghi il carattere primordiale dei fatti fondamentali. Un libro recente di Richard Polt offre un ottimo chiarimento da questo punto di vista. Ci dice: «Heidegger non considererà neppure una serie di domande che il lettore con una mentalità scientifica potrebbe fare». Si tratta delle domande che ho discusso io. Perché non le considererebbe? «Per Heidegger la domanda ontologica è più fondamentale di questi problemi ontici»21. Penso che Polt abbia ragione nella sua lettura di Heidegger e che questo riveli l’inadeguatezza dell’approccio heideggeriano. Una volta che si accettano i fatti basilari, allora il Dasein deve essere una caratteristica derivativa, dipendente, e di livello superiore rispetto al sistema nervoso. Si dovrebbe dire: gli esseri sono primordiali, il Dasein e l’Essere sono derivativi. Voglio sottolineare questo punto. Dato quello che sappiamo su come funziona l’universo, qualunque realtà umana deve essere derivativa, e dipendente da – o nel mio gergo causata da e realizzata in – una realtà più basilare fatta di fisica delle particelle, molecole organiche e biologia cellulare. Questo non è un modo opzionale di vedere le cose, è semplicemente come funziona l’universo. Quindi, se si intende parlare seriamente della realtà umana fatta da Dasein, Geworfenheit, Befindlichkeit, Sorge e tutto il resto si deve partire dai fatti primordiali, ossia da ciò che ho indicato come i fatti basilari. Ma come osserva correttamente Polt, Heidegger rigetta questo approccio sin dal principio. Il suo rifiuto si può comprendere solo se si considera che lui non accetta i fatti basilari in quanto basilari. Per quanto posso dire (e potrei sbagliarmi su questo) a causa del loro mancato riconoscimento del primato dei fatti basilari, i fenomenologi sembrano incapaci di dare una lettura de re dei riferimenti agli oggetti. Considerano il riferimento ai fatti basilari, alle molecole per esempio, come qualcosa di sempre insito nell’operatore “presente a portata di 21 Richard Polt, Heidegger: An Introduction, Cornell University Press, 1999, p. 43.

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mano” (o in qualche altro operatore fenomenologico) e vedono i riferimenti ai martelli e al denaro come qualcosa che è già parte dell’operatore “a portata di mano” (o di qualche altro operatore fenomenologico). Rivediamo la citazione di Dreyfus che abbiamo menzionato. «Heidegger ritiene che non c’è modo di considerare il riferimento e la verità a partire dal linguaggio inteso come suoni che accadono […]». Ma è invece proprio così che si devono considerare il significato, il riferimento, la verità, ecc. – perché sappiamo prima ancora di iniziare con i problemi filosofici che l’atto linguistico è performato facendo dei “suoni che accadono”, dei segni, ecc. L’inadeguatezza della fenomenologia esistenziale non potrebbe essere affermata più chiaramente: Dreyfus in effetti dice che gli heideggeriani non riescono ad affermare la soluzione al problema perché non riescono a cogliere la questione. Forse il modo più sottile in cui nel commento di Dreyfus emerge l’impossibilità di fornire una lettura de re lo si intravede nei ricorrenti riferimenti enigmatici a qualcosa che chiama “posizione”. Un passaggio tipico è questo: ma allora, come Husserl ma diversamente da Heidegger, Searle passa a una posizione logica distaccata [corsivo mio] e ci dice: «La cosa importante da vedere a questo punto è che le funzioni non sono mai intrinseche alla fisica di nessun fenomeno […]»22.

La cosa sorprendente del commento di Dreyfus è che io non sono affatto passato da una posizione a un’altra; ho soltanto descritto i fatti. È un fatto che un oggetto sia tanto una cosa materiale quanto un’auto, che un pezzo di carta sia tanto un pezzo di carta quanto una banconota da venti dollari e così via. Non è richiesta nessuna differenza nella posizione. Quando dico che il pezzo di carta nella mia mano è una banconota da venti dollari non sto mutando da una «posizione logica distaccata» (il pezzo di carta) a una posizione del «partecipante interessato» (la banconota da venti dollari). Sto solamente riportando un fatto. Pensare che io cambi posizione in questo caso è tanto implausibile quanto supporre che, quando dico “il mio amico mi deve 22 Hubert L. Dreyfus, The Primacy of Phenomenology over Logical Analysis, cit., p. 12 (traduzione mia).

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venti dollari”, devo cambiare dalla posizione di una relazione personale (il mio amico) a una posizione di carattere economico (la persona che mi deve venti dollari). Perché parlare di questo problema delle posizioni e del loro cambiamento? Mi ci è voluto molto tempo per capirlo ma una volta che lo si è capito sembra ovvio: a causa della primordialità del Dasein, la posizione diventa parte dell’ontologia. Il punto di vista diventa parte di ciò che è descritto. Questo è il punto di tutti i discorsi sconcertanti su ciò che le cose “manifestano” e porta a una sorta di relativismo, come vedremo. Rispetto alla stessa questione, si trova la frase seguente: Mi sembrava che sia l’affermazione esterna, logica, divina che, affinché vi sia un mondo sociale, i fatti bruti in natura debbano in qualche modo acquisire un significato, e la descrizione fenomenologica interna degli esseri umani come sempre immersi in un mondo con dei significati, fossero entrambe giuste ma fra loro in tensione.

Il riferimento al “divino” rivela che ancora una volta Dreyfus sta pensando che la posizione è parte del fenomeno, che i fatti bruti esistano soltanto da una certa posizione o da un certo punto di vista, o divino o “distaccato, logico”, a seconda del caso. Ora, questo è un errore molto profondo, ed è un errore fondamentale, come ho appena suggerito: il punto di vista diventa parte dell’ontologia. Ma quando si tratta di fatti bruti e indipendenti dall’osservatore non c’è alcun punto di vista integrato nella loro ontologia. I fatti basilari esistono a prescindere da qualsiasi posizione o punto di vista. L’immagine che Dreyfus sembra avere è che i fatti istituzionali esistano da un certo punto di vista e quelli bruti da un altro punto di vista. Ma questo è sbagliato. Esistono soltanto i fatti bruti. Non è necessario nessun punto di vista. I fatti istituzionali esistono dal punto di vista della partecipazione all’istituzione e la loro partecipazione all’istituzione crea i fatti. Ma dove Dreyfus cita una “tensione” non c’è in realtà alcuna tensione. Non c’è assolutamente nessuna tensione nel supporre che un pezzo di carta nella mia mano sia tanto un pezzo di carta quanto una banconota da dieci dollari. C’è un problema filosofico relativo a come gli esseri umani creano una realtà istituzionale imponendo delle funzioni di status ai fatti bruti. Si noti che quando ho sostenuto questo, non ho

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avuto alcun cambiamento di posizione. Ma la forma del prospettivismo, il presupposto dei fenomenologi secondo cui ogni riferimento rientra nell’ambito dell’operatore fenomenologico, è profondo, ed è radicale. Il loro prospettivismo si manifesta nel supporre che il punto di vista da cui i fenomeni sono descritti diventa parte dell’ontologia dei fenomeni stessi. Io mi domando: come passiamo dai fatti bruti ai fatti istituzionali? Come fa la mente a imporre delle funzioni di status ai fenomeni? La forma logica di quella domanda è: dato che esiste una realtà bruta di fenomeni indipendenti dall’osservatore, di fenomeni che hanno un’esistenza assoluta, indipendenti dagli atteggiamenti e dalle disposizioni umane, come fanno questi fenomeni ad acquisire delle funzioni di status? Il riferimento ai fenomeni bruti è de re, ha un’incidenza molto ampia. Il problema è che il fenomenologo non riesce a recepire il fatto che qualcosa è de re, cioè strettamente relativo alla cosa. Tutto (dal punto di vista del fenomenologo) deve rientrare nell’ambito di qualche operatore fenomenologico. Quindi Dreyfus intende la questione in questi termini: dal punto di vista distaccato esistono dei fatti bruti, dal punto di vista del partecipante attivo esistono i fatti istituzionali. Qual è la relazione fra gli uni e gli altri? Eppure adesso sembrerebbe esserci una “tensione” perché il punto di vista è parte dell’ontologia. A questo punto c’è un problema relativo alla riconciliazione del punto di vista logico distaccato con il punto di vista del partecipante attivo. Nulla ha una portata ampia o un’occorrenza de re. Questo è il prospettivismo che ho provato a identificare. Prospettivismo e relativismo in Heidegger Il prospettivismo, che è la base dell’illusione fenomenologica, emerge in maniera ancora più netta nella discussione che Heidegger fa del realismo. Ecco uno strano passaggio del libro di Dreyfus su Heidegger: «I greci erano in soggezione rispetto agli dèi – così rivelano le loro pratiche – e noi dobbiamo scoprire le particelle elementari – non le costruiamo»23. Dreyfus parla anche di come le pratiche cristiane nel 23 Hubert L. Dreyfus, Being-in-the-World: A Commentary on Heidegger’s Being and Time, cit., p. 268 (traduzione mia).

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Medioevo hanno rivelato l’esistenza dei santi. Tutto questo è pensato per dimostrare che Heidegger non è un relativista o un idealista, ma piuttosto che «ha una posizione sottile e plausibile al di là del realismo metafisico e dell’antirealismo». E quale sarebbe esattamente quella posizione? La natura è ciò che è e ha le proprietà causali che ha indipendentemente da noi. Diverse domande come quelle di Aristotele e Galileo rivelano specie naturali e diversi tipi di proprietà causali. Diverse interpretazioni culturali della realtà rivelano anche diversi aspetti del reale. Ma non c’è una risposta giusta a questa domanda. Qual è la realtà ultima nei termini della quale tutto il resto diviene intellegibile24?

Tutto ciò ha alcune strane conseguenze: «Dalla prospettiva di Heidegger consegue che molti lessici incompatibili possono essere veri, vale a dire possono rivelare come le cose sono in sé». Ci possono persino essere delle «realtà incompatibili»25. Cosa dobbiamo fare di tutto questo? Se si prova a prenderlo letteralmente, viene fuori un insieme di falsità e nonsenso. È semplicemente falso dire che gli dèi greci furono rivelati dalle pratiche in Grecia, perché non c’erano dèi da rivelare. Gli antichi greci si sbagliavano (parlo con una certa autorità epistemica. Sono effettivamente stato sul monte Olimpo). Si potrebbe anche dire che Babbo Natale viene rivelato dai gesti dei bambini la vigilia di Natale. E non ha senso parlare di “realtà incompatibili” o di “lessici incompatibili”. Se con “incompatibile” si intende “incoerente” allora solo le proposizioni, le affermazioni, ecc. possono essere compatibili o incompatibili, e delle affermazioni incoerenti non possono essere entrambe vere. Non sorprende che Dreyfus non fornisca esempi di come le affermazioni incoerenti possano entrambe essere vere. Egli ipotizza che le cause finali aristoteliche potrebbero essere più “rivelatorie”, ma questo non ci offre ciò di cui abbiamo bisogno. Se esistono le cause finali aristoteliche, allora le teorie che negano la loro esistenza sono sem24 Ivi, p. 264. 25 Ivi, pp. 279-280.

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plicemente false. Non si tratta di affermazioni incompatibili che sono entrambe vere. Allora che cosa accade qui? Io penso che ciò che fa sembrare un’apparente sciocchezza come un’intuizione filosofica sia un relativismo che deriva da un sottostante prospettivismo. Il quadro è che dal punto di vista (posizione, pratiche, Dasein) dei greci, i loro dèi esistevano realmente. Dal nostro punto di vista (posizione, pratiche, Dasein), i loro dèi non esistevano. In modo simile dal nostro punto di vista esistono particelle elementari, ma forse da qualche altro punto di vista esse non esistono. Ma non c’è un punto di vista corretto in modo definitivo dal quale possiamo dire che qualcuno ha ragione e qualcuno ha torto. C’è solo il Dasein, «l’essere nei termini delle cui pratiche tutti gli aspetti della realtà si rivelano»26. Ma non dobbiamo fare affidamento sull’interpretazione di Dreyfus. Ecco direttamente il testo di Heidegger. La proposizione “2 + 2 = 4”, in quanto proposizione vera, è vera solo fintanto che l’esserci esiste. Se non dovesse esistere più alcun esserci, non sarebbe più valida neppure essa, non perché in quanto tale non avrebbe più validità, non perché diverrebbe falsa e “2 + 2 = 4” si trasformerebbe in “2 + 2 = 5”, ma perché l’esser-scoperto di qualcosa in quanto verità può esistere solamente con l’esserci esistente che lo scopre. Non c’è alcun motivo di presupporre delle verità eterne27.

Questo è un prospettivismo con vendetta. Il riferimento ai numeri non è de re, ai numeri stessi, ma soltanto nell’ambito dell’operatore fenomenologico Dasein. Quindi tutto diviene relativo al Dasein e «non c’è una sola ragione valida per presupporre delle verità eterne». La cosa giusta da dire è questa. I numeri non sono entità temporali. Le semplici equazioni aritmetiche sono senza tempo e in quel senso esse sono “eterne”. Non c’è nulla di eccitante in tutto questo. È anzi molto banale. Io credo che il fatto che Heidegger neghi queste trivialità sia un sintomo del prospettivismo che ho provato a identificare. 26 Ivi, p. 264. 27 Martin Heidegger, Being and Time, cit., p. 211.

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Nel suo libro su Heidegger, Dreyfus ci dice che i problemi che ho discusso si dissolvono, che non esistono insomma problemi di tal sorta. Ma ecco che cosa dice in un lavoro successivo: «Il fatto che, grazie agli esseri umani, un mondo con dei significati in qualche maniera viene trasferito su di un universo senza significato, è un dato di fatto contemporaneo, accettato ugualmente dai filosofi analitici e dai fenomenologi»28. Penso che questa frase richieda di essere analizzata con grande attenzione. Ci è stato detto in precedenza che non esiste un problema relativo a come il fatto di avere dei significati sia imposto a una bruta realtà priva di significati, perché questo non è mai accaduto. Siamo sempre, già, in un mondo con dei significati e quindi il problema si “dissolve”. Eppure in questa frase esprimiamo una forma di gratitudine: «grazie agli esseri umani». E che cos’è, esattamente, ciò di cui siamo grati se nulla è accaduto in primo luogo, se il problema si dissolve perché non c’è stato mai nulla per cui essere grati? E che cosa significa che qualcosa «viene trasferito»? (In realtà, è una traduzione del termine usato da Heidegger: Zufall). E perché «in qualche modo»? Non è compito del filosofo spiegare esattamente come questo accada? Forse Heidegger e Dreyfus rinunciano a elaborare la questione filosofica quando ci dicono che accade «in qualche modo»? Io fornisco una risposta su come accade, Dreyfus prima ci dice che non è mai accaduto e ora che è accaduto «in qualche modo». Che cosa ritiene errato nella mia risposta sul modo in cui è accaduto? Non ce lo dice. E per quale ragione i fatti basilari sono solo un dato “contemporaneo” e non un fatto assoluto e permanente? La parola “contemporaneo” suggerisce che sia contingente, non assoluto. Va detto quanto segue: esiste un universo senza significati e gli esseri umani sono dei prodotti dell’evoluzione all’interno di quell’universo. Gli esseri umani, con i loro sforzi individuali e collettivi, creano la parte del mondo che contiene la realtà linguistica, sociale e istituzionale. Ora, perché i fenomenologi esistenzialisti sembrano incapaci di dirlo? E perché non riescono a dirci precisamente che cos’hanno fatto gli esseri umani, per cui ora noi dovremmo esprimere gratitudine, che cosa hanno fatto insomma per far sì che ciò che è “a portata di mano” si trasferisse sul “presente a portata di mano”? 28 Hubert L. Dreyfus, The Primacy of Phenomenology over Logical Analysis, cit., p. 20 (traduzione mia).

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Qualsiasi rappresentazione di qualsiasi cosa avviene sempre da un certo punto di vista, quindi, per esempio, se rappresento qualcosa come acqua, la rappresento a un livello diverso rispetto a quando la rappresento come insieme di molecole che hanno la composizione H2O. Si tratta della stessa cosa, ma considerata rispetto a diversi livelli di descrizione. Una delle fonti del prospettivismo (l’altra è epistemica) è provare a leggere il punto di vista nella realtà rappresentata. Dal fatto che tutte le rappresentazioni vengono fatte da un punto di vista, da una certa posizione, non segue automaticamente che la posizione, il punto di vista, ecc., siano parte della realtà rappresentata. L’errore dei fenomenologi, almeno negli scritti con cui ho una certa familiarità, è che non sembrano comprendere questo punto. La posizione, il punto di vista, ecc. diventano parte dell’ontologia, così quando Dreyfus parla di un «dato contemporaneo», intende sì un dato, ma soltanto dal nostro punto di vista contemporaneo. Non intende dire che è una verità assoluta e senza tempo che è capitato di scoprire a noi contemporanei. Il quadro corretto, a mio avviso, è il seguente: viviamo in un mondo di fatti basilari, come descritto dalla fisica atomica, dalla biologia evoluzionistica e dalla neurobiologia. Tutte le nostre vite, incluse tutte le nostre vite mentali, dipendono da fatti basilari. Detto questo, abbiamo un insieme interessante di domande riguardo a come gli esseri umani creano un insieme significativo di fatti semantici, istituzionali, sociali, ecc. – a partire dai fatti di base usando la propria coscienza e intenzionalità. I fatti istituzionali, sociali e altri fatti simili hanno un’esistenza relativa. Essi esistono solo relativamente agli esseri umani. Ma i fatti basilari non hanno un’esistenza relativa in quello stesso senso. Essi hanno un’esistenza assoluta. Ci sono indipendentemente da quello che pensiamo. Ora, questo è il punto che i fenomenologi di cui sto parlando non riconoscono. Tutti i fatti devono essere relativi a un punto di vista, a una posizione. Nel caso dei fenomenologi esistenziali, è relativo al Dasein. Nel caso dei tardi husserliani, è relativo all’Ego trascendentale. Ma il riferimento ai fatti basilari non è mai ampio; non è mai de re. È sempre all’interno di uno degli operatori fenomenologici. Uno fra i prediletti di questi operatori, peraltro, è il “presentarsi”. Nulla mai ha un’esistenza assoluta, neppure i pianeti o gli atomi di idrogeno. Questi, semplicemente, si “presentano”.

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È quel punto, il punto sintattico-semantico, che rende impossibile per la fenomenologia affrontare i più importanti problemi filosofici contemporanei. C’è un’obiezione che si sente spesso ed è la seguente: ciò che io definisco come fatti basilari corrisponde solo a ciò che è ampiamente creduto a un certo punto della Storia, un «dato contemporaneo», nella definizione di Dreyfus. Ma sono cose a cui non si è sempre creduto nel passato ed è abbastanza probabile che questi dati saranno sostituiti in futuro. Dunque, non esistono fatti basilari assoluti e fuori dal tempo; ci sono solo delle credenze che le persone ritengono vere relativamente al proprio tempo e spazio. Questo errore è evidente in Thomas Kuhn, per esempio29. La risposta a questa obiezione è la seguente. È solo supponendo una realtà non relativa, assoluta, che vale la pena cambiare le nostre opinioni. Stiamo provando a ottenere delle verità assolute non relative rispetto a una realtà assoluta e non relativa. Il fatto che continuiamo a cambiare le nostre opinioni man mano che apprendiamo di più ha senso, dato il presupposto che il nostro obiettivo è la descrizione di un mondo assoluto e non relativo. Il fatto che esistano i cambi di opinione è un argomento contro il relativismo, non un argomento a suo favore. È abbastanza probabile che la nostra concezione di ciò che ho chiamato fatti basilari sarà migliorata, e almeno alcune delle nostre attuali concezioni diventeranno obsolete. Questo non dimostra che non ci sono fatti basilari, e neanche che i fatti basilari hanno un’esistenza relativa, ma che la loro esistenza assoluta di per sé non garantisce che a ogni momento della nostra Storia li abbiamo accuratamente enunciati. I fatti non cambiano, ma cambia la portata delle nostre conoscenze. Risposta a Dreyfus Concluderò questa discussione dimostrando come gli ultimi attacchi di Dreyfus alle mie visioni esemplificano l’illusione fenomenologica che ho provato a esporre. Ho implicitamente risposto ad alcune delle sue obiezioni nelle pagine precedenti, ma ora vorrei rendere le risposte esplicite. 29 Thomas Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, cit.

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Dreyfus sviluppa due critiche alle mie opinioni. In primo luogo, dice che nella mia idea di intenzionalità non noto l’esistenza di un «absorbed coping», diverso dall’intenzionalità che discuto nel fatto che è un’intenzionalità non-proposizionale, non-rappresentazionale e non relativa al rapporto soggetto-oggetto. In secondo luogo, dice che nella mia prospettiva sulla realtà sociale non riesco a considerare ciò che lui chiama «norme sociali», e che queste sono più basilari e in qualche maniera prioritarie rispetto ai fatti istituzionali che discuto. Una delle molte cose incredibili di questo testo (in cui mi critica) è che ognuno degli esempi pensati per mostrare la superiorità della fenomenologia mostra esattamente il contrario. Ciò che presenta come controesempi sono precisamente quegli esempi che ho considerato quando ho presentato le mie visioni originali, e in tutti i casi lui descrive male gli esempi, e l’errata descrizione è un risultato dell’illusione fenomenologica. Nel caso dell’«absorbed coping», dice che ho ammesso con riluttanza che tali casi esistono. Al contrario, ho discusso questi casi nei miei più recenti lavori sull’intenzionalità, in cui ho parlato di esempi come l’andare sugli sci, il guidare un’automobile, o l’alzarsi e andare in giro. E a proposito della realtà sociale, Dreyfus dice che non sono riuscito a spiegare cose come il fatto che una tribù tratti qualcuno come leader, o le differenze di genere segnate da termini come “lady” o “gentlemen”. Al contrario, il caso della leadership l’ho discusso esplicitamente, e le differenze di genere sono coerenti con la mia prospettiva più o meno nei termini che ora mostrerò. Consideriamo ciascuna di queste, una per volta. Sono d’accordo con Dreyfus che ci sono differenze fenomenologiche nei diversi tipi di intenzionalità, sebbene io non concordi su quanto dice a proposito di queste differenze. Ad esempio, c’è chiaramente una differenza fra il tipo di attenzione concentrata che devo dedicare alla formulazione dei miei pensieri quando faccio lezione, e i vari gesti e movimenti sussidiari che faccio mentre svolgo la lezione. Non considero questa differenza in alcun modo un’obiezione o una difficoltà. Al contrario, come ho detto prima, mi sembra un vantaggio ovvio che ci ha consegnato l’evoluzione il fatto che non tutto ciò che facciamo intenzionalmente abbia bisogno di essere al centro della nostra attenzione; e, in realtà, molte delle cose che facciamo intenzionalmente le facciamo

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abbastanza inconsciamente. La risposta a Dreyfus può essere affermata esplicitamente: la differenza fenomenologica non mostra una differenza logica. Lui dovrebbe mostrare la differenza nelle condizioni di soddisfazione, o qualche altra importante differenza logica, e non lo fa. In effetti, descrive male la situazione. Dice, per esempio, che quando in ascensore le persone si muovono a una distanza confortevole dalle altre persone, lo fanno in modo non intenzionale; esse non hanno intenzioni. Non penso che questa possa essere una descrizione corretta. Questo è un esempio tipico di un’azione intenzionale. Non è premeditata; non c’è un’intenzione prioritaria. E potrebbe essere fatta senza neppure la consapevolezza dell’agente che la sta effettivamente compiendo, ma alla stessa maniera, non è come il movimento peristaltico dello stomaco. È chiaramente intenzionale. Il punto sulla struttura dell’intenzionalità è che tutta l’intenzionalità è, per definizione, proposizionale. Essa è tutta basata sulla rappresentazione, tutta sul rapporto soggetto-oggetto. Questi non sono elementi fenomenologici. Sono invece relativi alla struttura logica dell’intenzionalità. È un’illusione fenomenologica supporre che una diversa fenomenologia implichi una diversa struttura logica. La seconda obiezione di Dreyfus è rivolta alla mia teoria della realtà sociale, e in questa obiezione sostiene che io dimentico qualcosa che lui definisce norme sociali. Crede che ci sia una differenza fra le norme sociali, come a quale distanza stare dalle persone quando si ha una conversazione, o come trattiamo qualcuno come un leader o come una signora o un signore (secondo differenze di genere) – e i fatti istituzionali, come il fatto che ho una banconota da venti dollari in mano. Ma poi, sfortunatamente, Dreyfus elenca come norme sociali una serie di cose che sono fatti istituzionali. In realtà, alcuni di questi sono miei classici esempi di fatti istituzionali. Il suo esempio più importante è il caso in cui qualcuno è scelto come leader da una tribù senza alcun atto cosciente o senza procedure per la selezione di un leader ma solo per il fatto che questa persona viene trattata con una certa deferenza, autorità, rispetto, ecc. I suoi altri esempi sono le differenze di genere tramite cui creiamo dei “signori” e delle “signore”. Nella mia teoria, “leader”, “signora”, “signore” sono tutti nomi di funzioni di status e descrivono dunque dei fatti istituzionali. In realtà, io faccio l’esempio della selezione di un leader per riferire un caso

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paradigmatico di fatto istituzionale30. Questo o quello nella nostra tribù conta come leader; X conta come Y. Il fatto che Dreyfus presenti i miei esempi come se fossero dei controesempi per me suggerisce che c’è qualcosa di radicalmente sbagliato nella sua prospettiva. Ciò che c’è di sbagliato in questa sua prospettiva è l’illusione fenomenologica. Non c’era un pensiero cosciente del tipo X conta come Y, e dunque non sarebbe potuto accadere. Come fa a non accorgersi che c’è una differenza cruciale fra il selezionare qualcuno come leader, o il trattare le persone come signori o signore, da un lato, e la distanza che dobbiamo mantenere in una conversazione, dall’altro lato? La differenza cruciale è una differenza logica. Cioè, che non c’è una deontologia rispetto alle distanze da mantenere. Non ci sono diritti, doveri, obblighi, autorità, o poteri che derivano dalla posizione che abbiamo come leader, come signore, o come signori. La fonte del problema è l’illusione fenomenologica. Sia nel mantenere una certa distanza sia nella deferenza, ci si potrebbe comportare in una maniera che sembra semplicemente quella appropriata. Ma i due casi, parlando a livello logico, sono radicalmente diversi, perché nel mantenere la distanza non è coinvolta una deontologia, mentre dove si tratta di funzioni di status, la deontologia è essenziale. Il metodo fenomenologico non può accedere alla deontologia perché, in generale, non è fenomenologicamente reale. Conclusione: il ruolo della fenomenologia Per la gran parte di questo saggio ho discusso autori particolari nella tradizione fenomenologica. Ma supponiamo di dimenticarci di questi autori e di chiederci: qual è il giusto ruolo della fenomenologia nella filosofia contemporanea? Mi sembra che la fenomenologia abbia un ruolo rilevante da svolgere. Una volta che accettiamo i fatti basilari, e una volta che ci rendiamo conto che la mente, con tutta la sua fenomenologia, è derivativa e dipendente dai fatti basilari, allora, mi sembra, la fenomenologia gioca una funzione essenziale nell’analisi di ogni tipo di problema di cui ho parlato. In primo luogo, iniziamo con la fenome30 John R. Searle, The Construction of Social Reality, cit.

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nologia della nostra esperienza ordinaria quando parliamo di trattare denaro, proprietà, governi e matrimoni, per non parlare delle credenze, della speranza, della paura, del desiderio e della fame. Ma il punto è che la ricerca fenomenologica è soltanto l’inizio. Bisogna poi andare avanti e indagare le strutture logiche, la gran parte delle quali spesso non sono accessibili alla fenomenologia. Naturalmente, durante questa indagine, la fenomenologia ha ancora un altro ruolo: stabilisce delle condizioni di adeguatezza. Non si può dire niente di fenomenologicamente falso. Gli errori che ho addotto non dovrebbero essere attribuiti alla fenomenologia come programma di ricerca ma a specifiche idee che, nel quadro di quel programma di ricerca, sono a mio avviso errate31. Bibliografia Blattner William D., Heidegger’s Temporal Idealism, Cambridge University Press, 1999. Carman Taylor, Heidegger’s Analytic, Cambridge University Press, 2003. Chisholm Roderick (a cura di), Realism and the Background of Phenomenology, Free Press, 1960. Chisholm Roderick, Sellars Wilfrid, Chisholm-Sellars correspondence on intentionality, in Herbert Feigl, Michael Scriven, Grover Maxwell (a cura di), Minnesota Studies in the Philosophy of Science: Concepts, Theories and the Mind-Body Problem, University of Minnesota Press, vol. 2, 1958, pp. 521-539. Dreyfus Hubert L., Being-in-the-World: A Commentary on Heidegger’s Being and Time, Division 1, mit Press, 1991. Dreyfus Hubert L., Wakefield Jerome, Intentionality and the Phenomenology of Action, in Ernest Lepore, Robert van Gulick (a cura di), Searle and his Critics, Basil Blackwell, 1991. Dreyfus Hubert L., Heidegger’s critique of the Husserl/Searle account of intentionality, in «Social Research», vol. 60, n. 1, 1993, pp. 17-38. 31 Nel lavorare a questo testo, sono stato immensamente supportato da numerose persone che hanno letto delle versioni non definitive. In particolare vorrei ringraziare Taylor Carman, Hubert Dreyfus, Sean Kelly, Jennifer Hudin, Josef Moural, Kevin Mulligan, Dagmar Searle, e Barry Smith.

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Dreyfus Hubert L., The Primacy of Phenomenology over Logical Analysis, in «Philosophical Topics», vol. 27, n. 2, 1999, pp. 3-24. Dreyfus Hubert L., Phenomenological Description versus Rational Reconstruction, in «Revue Internationale de Philosophie», vol. 55, n. 217, 2001, pp. 181-196. Grice Herbert P., The Causal Theory of Perception, ristampato in Id., Studies in the Way of Words, Harvard University Press, 1989, pp. 224-247. Heidegger Martin, Being and Time, Harper and Row, 1962; trad. it. Essere e tempo, utet, 1969. Heidegger Martin, The Basic Problems of Phenomenology, Indiana University Press, 1982; trad. it. (citata in traduzione) I problemi fondamentali della fenomenologia, Il Melangolo, 1988. Husserl Edmund, Cartesian Meditations, Martinus Nijhoff, 1969; trad. it. (citata in traduzione) Meditazioni Cartesiane, Bompiani, 2009. Husserl Edmund, Logical Investigations, 2 voll., Humanities Press, 1970; trad. it. Ricerche logiche, il Saggiatore, 1988. Husserl Edmund, The Crisis of the European Sciences and Transcendental Phenomenology, Northwestern University Press, 1970; trad. it. (citata in traduzione) La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, 2008. Kuhn Thomas, The Structure of Scientific Revolutions, University of Chicago Press, 1962; trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee della scienza, Einaudi, 1969. Merleau-Ponty Maurice, Phenomenology of Perception, Routledge, 1962; trad. it. Fenomenologia della percezione, il Saggiatore, 1965. Milner David A., Goodale Melvin A., The Visual Brain in Action, Oxford University Press, 1995. Moran Dermot, Introduction to Phenomenology, Routledge, 2000. Penfield Wilder, The Mystery of the Mind: A Critical Study of Consciousness and the Human Brain, Princeton University Press, 1975; trad. it. Il mistero della mente. Studio critico sulla coscienza e il cervello umano, Vallecchi, 1991. Polt Richard, Heidegger: An Introduction, Cornell University Press, 1999. Russell Bertrand, On Denoting, in «Mind», vol. XIV, n. 4, 1905.

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Searle John R., Intentionality: An Essay in the Philosophy of Mind, Cambridge University Press, 1983; trad. it. Dell’intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, Bompiani, 1985.

6. Il sé come problema in filosofia e neurobiologia

Il problema filosofico del sé C’è un gran bel numero di problemi diversi relativi al sé in psicologia, neurobiologia, filosofia e in altre discipline. Ho l’impressione che molti dei problemi relativi al sé studiati in neurobiologia riguardino varie forme di patologia – ossia i difetti nell’integrità, nella coerenza o nel funzionamento del sé. Non ho nulla da dire su queste patologie perché non so praticamente nulla in proposito. Menzionerò solo quelle patologie, come i pazienti con il cervello diviso, che sono direttamente rilevanti per i problemi filosofici relativi al sé. In filosofia, il tradizionale problema del sé è il problema dell’identità personale. In effetti, nella Encyclopedia of Philosophy1 la voce “sé” rimanda soltanto a “identità personale”. Il problema dell’identità personale è il problema di stabilire i criteri per i quali identifichiamo qualcuno come la stessa persona anche attraverso dei cambiamenti. Dunque, per esempio, il problema dell’identità personale emerge di fronte a domande come: quali fatti relativi a me, ora e adesso, mi rendono la stessa persona che aveva il mio nome e viveva a casa mia vent’anni fa? Ci sono una serie di criteri dell’identità personale e non sempre questi conducono agli stessi risultati. Ci arriverò a breve. Penso che in realtà ci siano almeno due problemi filosofici che riguardano il sé. Oltre al problema dell’identità personale, c’è il problema se sia o no necessario postulare l’esistenza di un sé che vada oltre il 1 Paul Edwards (a cura di), The Encyclopedia of Philosophy, MacMillan & The Free Press, vol. 7, 1967.

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riconoscimento del corpo e la successione di esperienze che avvengono a livello corporale. Nella nostra tradizione filosofica, e ancor di più nella nostra tradizione religiosa, è comune supporre che oltre ai nostri corpi possediamo anche delle anime, che le anime sono la nostra essenza, e che, quindi, per ognuno di noi, il sé consiste in un’anima. Da questo punto di vista, quel che consideriamo la nostra vita mentale, sia conscia che inconscia, è qualcosa che accade non nei nostri corpi ma nelle nostre anime, che possono anche essere chiamate i nostri sé o le nostre menti. Secondo Cartesio, esponente significativo di questa tradizione, ciascuno di noi è identico, non a un corpo, ma a un’entità che chiamiamo mente, anima, o sé; e solo in modo contingente siamo legati a un corpo durante il corso di una vita. Una volta che siamo morti, l’anima si dividerà dal corpo e avrà un’esistenza separata. Credo che la tentazione di confondere il problema dell’identità personale con questo secondo problema del sé derivi dal fatto di supporre che se avessimo una risposta affermativa al secondo problema questa automaticamente fornirebbe una soluzione al primo. Se sapessimo che oltre ai nostri corpi ciascuno di noi ha un’anima, o un sé, o una mente, e se questa entità fosse la vera essenza del nostro essere, allora la continuazione del sé, così descritta, fornirebbe immediatamente una soluzione al problema dell’identità personale. Si è identici alla persona che viveva qui vent’anni fa perché si ha la stessa anima o lo stesso sé. Questo per quanto riguarda la tradizione. A che punto siamo oggi? Ebbene, non conosco nessuno che crede nell’esistenza di un’anima immortale a parte quelli che ci credono per qualche ragione religiosa. Un noto neurobiologo che credeva nell’anima era Sir John Eccles. E c’è un ampio numero di filosofi che crede anche nell’esistenza di un’anima immortale, ma come per Eccles la loro credenza è parte di una generale convinzione religiosa. Per la mia esperienza, direi che la gran parte dei filosofi non crede nell’esistenza dell’anima. Inoltre, quel che è più importante ai fini della nostra discussione, la gran parte dei filosofi non crede nell’esistenza del sé come qualcosa che si aggiunge alla sequenza delle nostre esperienze, consce o inconsce, e al corpo in cui queste esperienze si verificano. Penso che la gran parte dei filosofi accetti lo scetticismo di Hume sull’esistenza del sé2. Hume si è posto 2 David Hume, A Treatise of Human Nature, Oxford University Press, Libro I, Parte

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la domanda seguente: quando rivolgo la mia attenzione verso l’interno e mi focalizzo su ciò che accade nella mia mente, che cosa trovo? Hume dice che non trovo alcun sé o anima o persona ulteriore rispetto alla successione delle mie esperienze. Se, ad esempio, mi tengo la fronte e mi concentro molto seriamente su quel che accade in modo da provare a percepire il mio sé, ciò di cui mi accorgo sarà la pressione della mia mano sulla mia fronte e un insieme di altre esperienze simili, “impressioni” e “idee”, come le chiama Hume. La sua prospettiva, che è stata molto influente e probabilmente anzi può considerarsi la visione più comune in filosofia a proposito del sé, è che ognuno di noi consiste di un corpo fisico e ognuno di noi ha una sequenza di esperienze all’interno di quel corpo3. Ma questo è quanto, per quel che riguarda la vita umana. Non c’è alcun sé o anima residua, e non c’è alcun bisogno di postulare l’esistenza di una simile entità. Che ne è, allora, dell’identità personale? C’è una varietà di criteri che in realtà utilizziamo nel decidere le questioni legate all’identità di una persona attraverso il tempo e il mutamento. Mi sembra che, infatti, usiamo almeno quattro criteri diversi per decidere le questioni legate all’identità. La prima, e più importante, è l’identità del corpo. Io sono la stessa persona di colui che portava il mio nome decenni fa perché il mio corpo attuale è spazio-temporalmente continuo con il corpo che esisteva a mio nome a quel tempo. Ovviamente, ci sono degli enigmi filosofici: nessuna delle molecole nel mio corpo, attualmente, è identica a quelle che erano nel mio corpo di decenni fa; e allora come può il corpo essere lo stesso se le microparticelle sono differenti? Inoltre, i filosofi sono bravi a inventare enigmatici esperimenti mentali di fantascienza. Supponiamo che la fusione e la fissione del corpo siano comuni. Che cosa diremmo se gli umani ciclicamente si dividessero in due o tre o cinque corpi, come le amebe normalmente si dividono in due? Ma, anziché questi enigmi, abbiamo una nozione piuttosto chiara dell’identità corporale che funziona attraverso il tempo e il mutamento. Ebbene, perché non è sufficiente? III, Sezione VI: Of Personal Identity, 1951, pp. 251 sgg.; trad. it. Trattato sulla natura umana, Laterza, 1982. 3 In senso stretto, Hume non credeva che siamo giustificati a supporre che i corpi abbiano una esistenza “separata e distinta”, ma quella è un’altra questione che è indipendente dallo scetticismo relativo al sé.

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Diversamente dall’identità degli oggetti materiali come le macchine o le automobili, siamo convinti che l’identità del corpo non sia sufficiente a costituire la mia identità personale. Comprendiamo tutti la storia kafkiana di Gregor Samsa che si sveglia e trova se stesso nel corpo di un insetto gigante. Ed è facile immaginare scenari fantascientifici di trapianti di cervello nei quali potrei trovarmi ad avere un corpo differente. Peraltro, il possedere lo stesso cervello non potrebbe di per sé essere sufficiente a garantire un’identità personale. Supponiamo che io abbia lo stesso cervello ma che tutte le informazioni nel mio cervello venissero trasferite nel cervello di un’altra persona e le informazioni nel suo cervello venissero trasferite dentro il mio. Potremmo sentirci in modo tale per cui a me sembra di abitare il suo corpo e a lei il mio. Non sto dicendo che queste fantasie fantascientifiche sono sufficientemente chiare, o persino coerenti. Le indico soltanto perché esse a loro volta indicano che per quanto riguarda la nostra identità personale, pensiamo che ci sia più che il corpo. Ebbene, che altro? Locke ha detto che la cosa essenziale dell’identità personale è quel che ha definito “coscienza”4. La maggior parte degli interpreti pensa che per “coscienza” Locke intendesse le nostre attuali esperienze di memoria rispetto a una continuità fra il nostro sé presente e il nostro sé precedente che aveva avuto le esperienze su cui si basano le nostre memorie presenti. In breve, il criterio della coscienza di Locke è solitamente, e io credo anche correttamente, interpretato come un criterio mnemonico. L’idea è che in aggiunta alla continuità del corpo abbiamo bisogno di una continuità della coscienza per come è registrata nella memoria. Oltre al criterio in terza persona della continuità corporale, ci serve il criterio in prima persona dell’esperienza dell’identità personale del sé. E questo è come tutta l’identità personale umana differisce dalle identità delle macchine e delle case, ecc. Un terzo criterio, usato comunemente nella vita ordinaria, è la relativa stabilità e continuità della personalità. Nei casi in cui sentiamo che la personalità di una persona si è drammaticamente e drasticamente alterata, tendiamo a credere che “non sia più la stessa persona”. Per considerare un caso famoso, quando nel XIX secolo una sbarra 4 John Locke, An Essay Concerning Human Understanding, a cura di Andrew Seth Pringle-Pattison, Oxford University Press, 1924, pp. 182-201; trad. it. Saggio sull’intelletto umano, Bompiani, 2004.

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trapassò il cranio di un ferroviere chiamato Phineas Gage, questi sopravvisse miracolosamente, ma la sua personalità cambiò totalmente. Prima era stato amichevole, affabile, e affidabile; in seguito, divenne ostile, burbero e capriccioso. Da un punto di vista puramente pratico si sarebbe potuto continuare a guardarlo come se fosse stato sempre la stessa persona. Per esempio, come colui che aveva ancora da pagare le tasse di Phineas Gage e che aveva ancora le proprietà intestate a Phineas Gage. Ma da un punto di vista neurobiologico, e da un punto di vista filosofico, sarebbe molto interessante capire che cosa sia cambiato in Phineas Gage per modificare totalmente la sua personalità rispetto alla persona che era stato prima. Un quarto criterio è la relativa coerenza della continuità spazio-temporale del corpo fisico attraverso il mutamento. C’è uno schema standard per il quale lo stesso identico corpo cresce e invecchia fino alla morte. Ma supponiamo che l’entità, sebbene sia continua a livello spazio-temporale, vari in modo selvaggio e imprevedibile nella sua forma fisica. Supponiamo che il mio corpo possa mutare in un’auto o una casa o una montagna. Pensiamo di capire il cambiamento fisico di Gregor Samsa in quello di un grande insetto, ma fino a che punto siamo in grado di spingerci? Non penso ci serva rispondere a quella domanda in anticipo. Il punto che sto sostenendo adesso è che in effetti utilizziamo quattro diversi insiemi di criteri nel nostro concetto di identità personale – la continuità spazio-temporale del corpo, la memoria continua, la continuità della personalità e la coerenza del cambiamento fisico – e che il concetto ordinario e quotidiano funziona sufficientemente bene perché i criteri nella loro interconnessione ci offrono risposte coerenti nella vita reale. Fin qui tutto bene, o così pare. Sembra che non ci sia nulla come il sé in aggiunta a tutte le altre cose di cui ho discusso – la continuità e la coerenza del corpo vivente insieme con le sequenze continue della memoria e le personalità coerenti. Eppure non penso che questa conclusione sia corretta. Sono giunto con riluttanza alla conclusione che la natura della coscienza umana richiede la postulazione di un sé inteso non nel senso di Hume, e questa postulazione pone dei problemi per la neurobiologia che vanno oltre i problemi neurobiologici tipici della coscienza ma ci permetterà di porre nuovamente la domanda sulla coscienza in maniera rilevante.

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Il problema neurobiologico della coscienza A volte, ma sfortunatamente non molto spesso, possiamo ottenere una soluzione scientifica a un problema filosofico di vecchia data. Un caso famoso è il problema della vita. Il problema era: come può essere viva la materia inerte e inanimata? Tradizionalmente, le risposte possibili erano due, quella meccanicista – secondo cui la vita potrebbe ridursi a dei processi meccanici, e quella vitalista – secondo cui serve qualcos’altro, un élan vital, una forza vitale capace di infondere la vita nella materia inerte. Non possiamo più considerare questo problema seriamente, ed è difficile per noi recuperare la passione con cui è stato discusso solo un secolo fa. Il punto non è che i meccanicisti hanno avuto ragione e i vitalisti torto, ma piuttosto che abbiamo una concezione molto più complessa dei meccanismi biochimici – una concezione che non esisteva quando il dibattito era molto acceso, nel XIX secolo e nel primo XX. Spero che qualcosa di simile stia succedendo anche al problema della coscienza. Il problema qui è: come possono dei semplici frammenti di materia nel cervello causare la coscienza? Su questo problema siamo partiti in vantaggio rispetto al problema della vita perché sappiamo prima ancora di iniziare la nostra indagine che i processi nel cervello in effetti causano la coscienza. Alla stessa maniera, molta, sebbene non tutta l’attuale ricerca in neurobiologia soffre di un’errata concezione del problema che a sua volta deriva da una concezione errata del sé. Per poter lavorare sul sé, devo dire qualcosa sulla coscienza. A volte sento ancora dire che la “coscienza” è difficile da definire. Eppure, se stiamo solo parlando di una definizione che non ci offre un’analisi scientifica, ma piuttosto individua l’obiettivo della nostra ricerca, allora mi sembra che la coscienza non sia difficile da definire. Ecco qui una definizione: la coscienza consiste di quegli stati di sentimento, sensibilità o consapevolezza che iniziano tipicamente quando ci svegliamo da un sonno senza sogni e proseguono durante il giorno finché quelle sensazioni non si interrompono, finché non andiamo di nuovo a dormire, o non entriamo in coma, o moriamo, o diveniamo altrimenti “inconsci”. In questa teoria, i sogni sono una forma di coscienza che ci capita durante il sonno. Quali sono, allora, le caratteri-

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stiche della coscienza che vorremmo spiegare con questa definizione? Gli stati coscienti, così definiti, sono qualitativi nel senso che c’è sempre una certa sensazione qualitativa rispetto a com’è l’essere in uno stato cosciente anziché in un altro. Conosciamo tutti la differenza fra ascoltare la Nona Sinfonia di Beethoven e bere della birra fredda. La differenza è precisamente la differenza qualitativa di cui sto parlando. Sappiamo inoltre che tutti questi stati coscienti sono soggettivi nel senso che esistono solo se ne fa esperienza un soggetto umano o animale. Gli stati coscienti richiedono un soggetto per la loro stessa esistenza. Non esistono in una maniera neutrale o in terza persona, hanno un’esistenza che dipende dalle loro qualità soggettive in prima persona, e questo è solo un altro modo per dire che uno stato cosciente deve sempre essere lo stato cosciente di qualcuno. In filosofia questo punto viene talvolta espresso dicendo che la coscienza ha una “ontologia in prima persona”. “Prima persona” qui significa che deve esserci un io, un soggetto che fa esperienza della coscienza, e “ontologia” si riferisce solo al modo di esistenza che qualcosa ha. Una terza caratteristica della coscienza viene sottolineata meno frequentemente, ma penso che sia assolutamente essenziale per capire le altre due. Gli stati di coscienza ci giungono sempre come parte di un campo cosciente unificato. Dunque, se ascolto la Nona Sinfonia di Beethoven mentre bevo una birra, non ho solo l’esperienza di ascoltare e l’esperienza di bere, piuttosto ho l’esperienza di bere e ascoltare come parte di un’esperienza cosciente totale, e questa è una caratteristica della coscienza in generale, cioè che essa si verifica sempre e soltanto come parte di un campo cosciente unificato. Questo è il motivo per cui, tra l’altro, gli esperimenti sul cervello diviso a metà sono così importanti nello studio della coscienza. Per quel che possiamo dedurre dagli esperimenti di Sperry e Gazzaniga5, il paziente il cui corpo calloso è stato tagliato dà tutti i sintomi esterni dell’avere due campi di coscienza separati, uno per ciascun emisfero, e questi sono solo uniti in modo imperfetto in un singolo campo cosciente, e a volte esistono come campi coscienti separati. Tra i filosofi, Immanuel Kant ha attribuito molta importanza all’unità del campo cosciente. Lo ha chiamato «l’unità trascendentale 5 Michael Gazzaniga, The Social Brain: Discovering the Networks of the Mind, Perseus Group Books, 1985; trad. it. Il cervello sociale. Alla scoperta dei circuiti della mente, Giunti, 1989.

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dell’appercezione»6. Penso che l’unità del nostro campo cosciente diventerà importante per la nostra analisi del concetto del sé e dirò di più a questo proposito più avanti. Per il momento, voglio solo richiamare l’attenzione sul fatto che queste tre caratteristiche, la qualità, la soggettività e l’unità, non sono indipendenti le une dalle altre. Ciascuna implica quella successiva. Non si può avere un’esperienza qualitativa come assaporare una birra senza che quell’esperienza accada come parte di uno stato di coscienza soggettivo, e non si può avere uno stato di coscienza soggettivo se non come parte di un campo totale di coscienza, anche se l’unica cosa in questo particolare campo impoverito è lo stato di coscienza stesso. Dunque, potremmo dire, almeno inizialmente, che il problema della coscienza è precisamente il problema della soggettività qualitativa e unificata. Le tre caratteristiche sono semplicemente diversi aspetti di un tratto comune della coscienza. Ci sono molti altri tratti della coscienza che dovrebbero essere indagati, e ne ho indagato gli aspetti filosofici approfonditamente in diversi miei lavori7. Ai fini del presente testo, mi focalizzerò solo su questi tre, e in particolare sull’ultimo, perché sono molto rilevanti per il nostro esame del problema del sé. Si noti una caratteristica interessante del campo unificato della coscienza. All’interno di questo campo possiamo cambiare la nostra attenzione a piacimento. Senza muovere la mia testa, o persino i miei occhi, posso focalizzare la mia attenzione su questa o quella caratteristica del mio campo visivo. E anche con gli occhi chiusi posso pensare ora a questo problema, ora a quello, spostando il fuoco della mia attenzione, di nuovo, completamente a mio piacimento. Questo dovrebbe sembrarci sorprendente. Il cervello crea un campo cosciente proprio come lo stomaco e il tratto digerente creano la digestione. Dunque che cosa c’entra la volontà cosciente con tutto questo? Per porre la domanda in 6 Immanuel Kant, Critique of Pure Reason, traduzione di Paul Guyer e Allen W. Wood, Cambridge University Press, 1997; trad. it. Critica della ragion pura, Laterza, 2005. 7 Cfr. John R. Searle, Minds, Brains and Science, cit.; Id., The Rediscovery of the Mind, mit Press, 1992; trad. it. La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, 2003; Id., The Mystery of Consciousness, New York Review of Books, 1997; trad. it. Il mistero della coscienza, Raffaello Cortina, 1998; Id., Mind: A Brief Introduction, Oxford University Press, 2004; trad. it. La mente, Raffaello Cortina, 2005.

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maniera netta, quando dico di poter cambiare la mia attenzione a piacimento, chi fa questo cambiamento? Perché dovrebbe esserci qualcosa in più nella mia vita cosciente oltre l’esistenza di un campo cosciente? Dove c’è qualcosa in più? Tornerò su queste domande perché penso che siano essenziali per la comprensione del problema del sé. Come possiamo risolvere il problema della coscienza come problema in neurobiologia? Ebbene, prima di tutto dobbiamo affermare esattamente quale sia il problema che vogliamo essere in grado di risolvere. E qui penso che la risposta possa essere affermata in maniera piuttosto semplice. Il problema neurobiologico della coscienza è: come fanno esattamente i processi cerebrali a causare i nostri stati coscienti in tutta la loro enorme ricchezza e varietà, e come vengono realizzati esattamente questi stati mentali all’interno del cervello? Perché esistono degli stati coscienti, e dove e come esistono nel cervello? Ci è voluto molto tempo prima che i neurobiologi si rendessero conto che si tratta di una questione cruciale in neurobiologia, in realtà direi che si tratta della domanda numero uno nelle scienze biologiche attuali. Attualmente c’è molta ricerca precisamente su questo tema. La gran parte dei ricercatori sta cercando i correlati neuronali della coscienza (in inglese ncc, Neuronal Correlate of Consciousness). L’idea è la seguente: per risolvere il problema della coscienza, dovremmo prima scoprire che cosa accade nel cervello a livello neurobiologico nel momento in cui un soggetto è cosciente. Quali caratteristiche neurobiologiche sono correlate con le caratteristiche coscienti? Adesso pensiamo, forse con troppo ottimismo, che i recenti avanzamenti nelle nostre tecniche di ricerca, specialmente le registrazioni relative alla singola cellula e la risonanza magnetica funzionale, ci daranno un apparato di ricerca più ricco per scoprire i correlati neuronali della coscienza. L’idea, sebbene spesso non sia espressa in maniera esplicita, è che l’indagine procederà secondo uno schema piuttosto comune nella storia della scienza. Il primo passo è trovare un correlato neuronale degli stati coscienti. Questo sarebbe appunto il correlato neuronale della coscienza (ncc). Il secondo passaggio è indagare se il correlato neuronale della coscienza sia davvero una correlazione causale, e questo lo possiamo scoprire attraverso i test consueti. In un soggetto altrimenti incosciente, si può produrre coscienza producendo i correlati neuronali? In un soggetto altrimenti cosciente, si può spegnere la

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coscienza spegnendo i correlati neuronali? Se si hanno risposte affermative a queste domande, allora dire che la correlazione sia qualcosa di più che un mero accidente è una supposizione ragionevole; è, verosimilmente, una correlazione causale. Il terzo livello, e siamo ancora lontani dal raggiungerlo, è arrivare a una teoria generale, a un’affermazione generale delle leggi o dei principi per cui la correlazione funziona causalmente nella vita degli organismi. Questa ricerca, come ho detto, è in corso. Sono abbastanza ottimista sulle sue prospettive a lungo termine, sebbene io debba ammettere che il progresso è stato molto lento. In generale ci sono due linee di ricerca che avanzano in questo campo, una delle quali mi pare molto più promettente dell’altra, sebbene la più promettente, purtroppo, sia più complessa da condurre come progetto di ricerca vero e proprio. La linea di ricerca più comune è quella che chiamo “l’approccio a mattoncini”8. L’idea di questo approccio è pensare il campo unificato della coscienza come costituito da tutte le sue diverse componenti. Ora, ad esempio, sto facendo esperienza del colore rosso mentre guardo una scatola rossa sul mio tavolo, sto sentendo il suono della mia voce, sto sentendo un leggero retrogusto di caffè nella mia bocca, ecc. L’idea dell’approccio a mattoncini è pensare che l’intero campo della coscienza sia costruito con questi mattoncini (come quelli per le costruzioni): l’esperienza del colore, del suono, del gusto, ecc. Da questo punto di vista, se potessimo trovare i correlati neuronali della coscienza per almeno uno di questi mattoncini, e capire i meccanismi tramite cui i correlati neuronali causano la coscienza, quello probabilmente potrebbe darci un passaggio d’ingresso che ci permetterebbe di risolvere l’intero problema della coscienza. I meccanismi tramite cui i correlati neuronali della coscienza relativi a un particolare stato di coscienza producono quello stato saranno presumibilmente generalizzabili anche ad altri stati coscienti. L’analogia con la genetica è ovvia: non si deve sapere come ogni tratto fenotipico sia l’espressione di qualche gene o insieme di geni al fine di comprendere il potere della concezione genetica del dna. Si devono comprendere i meccanismi generali coinvolti e poi li si può applicare nei casi particolari. La 8 Cfr. John R. Searle, Minds, Brains and Science, cit.; Id., The Rediscovery of the Mind, cit.; Id., The Mystery of Consciousness, cit.; Id., Mind: A Brief Introduction, cit.

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gran parte della ricerca sulla coscienza di cui sono a conoscenza segue questo tipo di approccio “a mattoncini”. Un altro approccio, seguito da una minoranza di ricercatori, è quello che chiamo “approccio del campo unificato”. In questo caso si tratta di sapere non tanto che cosa causa l’esperienza del colore rosso, sebbene anche quello sia parte della nostra ricerca in senso più ampio, ma piuttosto come il cervello diventi cosciente in primo luogo. Qual è esattamente la differenza fra il cervello incosciente e il cervello cosciente, e come possono queste differenze far sì che il cervello sia in uno stato di coscienza? Lo stato di coscienza, come ho sostenuto prima, riguarda il campo unificato cosciente. Dunque la domanda per questo approccio è: come fa il cervello a produrre un campo unificato cosciente? Ho detto che penso che l’approccio al campo unificato sia migliore. Perché? La scienza tipicamente procede con la pratica per cui problemi grandi vengono suddivisi in problemi minori, cercando insomma un approccio atomistico a problemi più ampi. Per quale motivo questo non dovrebbe funzionare per la coscienza? Forse funzionerà, ma c’è una obiezione immediata: l’approccio a mattoncini identifica delle componenti che possono esistere soltanto in un soggetto che è già cosciente. Ma se questo è vero allora sembra che i correlati neuronali della coscienza per l’esperienza del colore rosso non possano darci i correlati neuronali della coscienza per l’esperienza della coscienza, piuttosto ci danno i correlati neuronali per una modalità particolare dentro un campo cosciente preesistente. Riguardo l’approccio del campo cosciente unificato dovremmo pensare la percezione non come qualcosa che crea la coscienza, ma come qualcosa che modifica il campo cosciente preesistente9. Secondo l’approccio dei mattoncini, la percezione crea la coscienza così, dal nulla, disponendo solo dei processi neuronali. Nell’approccio del campo unificato, la percezione non crea coscienza ma modifica la coscienza del campo cosciente preesistente. Perché sono così convinto che l’approccio a mattoncini sia errato? La risposta è che se prendiamo l’approccio a mattoncini come quello che ci fornisce i correlati neuronali della coscienza e non per 9 Rodolfo Llinás, I of the Vortex: From Neurons to Self, mit Press, 2001.

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particolari modifiche del campo cosciente, allora questo condurrebbe a previsioni implausibili. L’approccio predirebbe che in un soggetto altrimenti incosciente, se si potessero introdurre i correlati neuronali per l’esperienza del colore rosso, il soggetto avrebbe improvvisamente un flash cosciente di rosso, per poi ricadere nell’incoscienza totale. Questo mi sembra molto improbabile. Da quel che sappiamo a proposito dell’esperienza del colore rosso, questa si verifica solo in soggetti che hanno una coscienza preesistente, che sono già coscienti quando fanno esperienza del rosso. E così via per quanto riguarda la percezione in generale. Le sveglie, ad esempio, non creano solo un singolo percetto, ma creano piuttosto un campo nel quale quel percetto è l’entità centrale. Se sia meglio l’approccio a mattoncini o quello del campo unificato è una questione empirica che non può essere risolta dall’analisi filosofica, e sono pronto a smentirmi. Forse l’approccio a mattoncini prevarrà, infine. Ma in questo momento penso che sia una fonte di problemi. Infatti, sembra che non sia per niente difficile trovare diversi tipi di correlati neuronali della coscienza per particolari tipologie di esperienza e molti ricercatori sembrano in effetti averli trovati10. Ma non abbiamo ancora risolto il problema della coscienza tramite queste scoperte perché non abbiamo ancora una risposta alla domanda: che cosa rende il cervello cosciente? La ragione per cui mi sono soffermato su questo punto è che penso che ci siano delle lezioni da imparare sul problema neurobiologico del sé a partire dalla riflessione sul problema neurobiologico della coscienza. L’esigenza del sé come caratteristica formale del campo cosciente unificato e le sue implicazioni per la neurobiologia Ci sono celebri obiezioni al criterio di Locke della coscienza come essenziale criterio per l’identità personale. Un’obiezione è questa: sarebbe tautologico rendere la memoria un criterio per l’identità del sé, 10 Nancy Kanwisher, Neural Events and Perceptual Awareness, in «Cognition», vol. 79, pp. 89-113.

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perché, al fine di stabilire che le memorie in questione sono memorie corrette, si dovrebbe prima stabilire che la persona che ha queste memorie è davvero identica alla persona di cui afferma di ricordare le esperienze. Quindi, se ora io affermo sinceramente di ricordare di aver scritto la Critica della ragion pura, quello di per sé non mostra assolutamente che sono effettivamente identico al vero autore della Critica della ragion pura, perché si dovrebbe prima stabilire che io ho in effetti scritto la Critica prima di sapere che i ricordi sono accurati. Ma esattamente per la stessa ragione il fatto che io ora affermo di ricordare di aver scritto Speech Acts non serve affatto a dimostrare che sono identico al reale autore di Speech Acts. Sembra dunque che la memoria non sia un buon criterio per valutare il sé poiché, per stabilire che una memoria è accurata e non illusoria, si deve prima definire l’identità che la memoria avrebbe dovuto stabilire. Penso che sia una giusta obiezione se trattiamo la memoria come criterio dell’identità personale, ma quello non deve essere l’unico nostro interesse per quanto riguarda la memoria. Mi sembra, per questa discussione, che ciò a cui siamo interessati non sia come stabilire in modo definitivo che io sono identico a questa o a quella persona che è vissuta anni fa, ma piuttosto: quali fatti dei miei stati coscienti mi danno un senso di me stesso in quanto entità continua attraverso il tempo? È questo senso del sé che è più rilevante per i problemi in neurobiologia. Ora penso che con l’introduzione della memoria io sia preparato ad affermare il problema filosofico del sé, e come questo incide in neurobiologia, in maniera un po’ più precisa. È una caratteristica notevole del campo cosciente, che ho identificato prima, il fatto che gli elementi del campo cosciente non sono, per così dire, neutrali. Non sono soltanto dati a me come fenomeni indipendenti, ma piuttosto mostrano alcuni tratti speciali che vorrei discutere nel dettaglio ulteriormente. In primo luogo, è una cosa assolutamente sbalorditiva del campo cosciente che, dato lo stesso campo cosciente, posso spostare la mia attenzione a piacimento. Anche senza cambiare la direzione dei miei occhi, posso focalizzare la mia attenzione ora sulla tazza di caffè che è sul tavolo, ora sullo schermo del computer di fronte a me, ora sulla libreria alla mia destra. Lo spostamento di attenzione dentro un campo cosciente costante è qualcosa che posso effettuare quando voglio. Una seconda caratteristica, che deriva dalla prima, è che posso cambiare l’intero

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campo cosciente a mio piacimento, semplicemente facendo qualcosa di diverso, come muovere la testa o chiudere gli occhi, alzarmi o uscire dalla stanza. Il fatto che io abbia l’abilità di fare delle cose sembra una parte essenziale del normale campo cosciente umano, e possiamo facilmente immaginare un modo di esistenza diverso in cui ero completamente passivo, in cui ho semplicemente fatto esperienza di eventi che mi sono accaduti ma di cui non ha avuto alcun senso avere controllo. Quando mi impegno in un’azione volontaria e cosciente, percepisco la mia libertà. Ho una sensazione chiara del fatto che sto facendo questo, ma potrei, proprio qui e ora, fare qualcosa di diverso. In quei casi ho l’impressione che le cause della mia azione, sotto forma di ragioni per le quali agisco, non sono causalmente sufficienti a determinare l’azione. In casi normali e non patologici, l’azione è motivata ma non determinata, perché c’è uno scarto fra le cause percepite e l’azione. Questo scarto ha un nome in filosofia ed è chiamato libero arbitrio. Non importa per i nostri fini attuali se il senso di libertà sia un segno di reale libertà o se sia solo un’illusione. Non riesco a eliminare questo scarto mentalmente, perché, anche se divento un convinto determinista e rifiuto di fare scelte sulla base del fatto che tutto è comunque determinato, il mio rifiuto di fare qualunque scelta mi è comprensibile in quanto mia azione solo sotto il presupposto della libertà. Ho scelto liberamente di non fare alcuna scelta libera. La terza caratteristica del campo cosciente è che ho in effetti un’idea di me stesso in quanto persona particolare situata in un particolare momento storico spazio-temporale, con un certo insieme di particolari esperienze e memorie. Dobbiamo mettere tutte queste caratteristiche insieme dentro un approccio unitario al sé prima di poter formulare le domande per la neurobiologia. La sequenza di esperienze coscienti (come identificate da Hume), insieme al fatto che queste esperienze ci giungono come parte di un campo cosciente unificato (come identificato da Kant), non è ancora sufficiente a darci le esperienze caratteristiche che costituiscono la nostra idea del sé. Anche se aggiungiamo alla teoria di Hume e Kant l’idea che alcune di queste esperienze sono ricordi di esperienze precedenti (come le ha identificate Locke), non abbiamo ancora la nostra concezione del sé. Che cosa manca? Torniamo al punto che ho sostenuto in precedenza, e cioè che possiamo spostare la nostra attenzione a piacimento, e possiamo in effetti avviare delle azioni a

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piacimento. Chi fa questo spostamento e chi avvia l’azione? Ciò che ho notato nell’insegnare queste cose agli studenti universitari, e nel discuterle con professionisti di alto livello, è che tutti sentiamo l’attrazione verso la fallacia dell’omuncolo. È molto invitante pensare che ci sia un omino nella mia testa che si occupa del mio pensiero, della mia percezione e dell’azione. Ovviamente, la fallacia dell’omuncolo è una fallacia, perché conduce a un regresso ad infinito. Se la mia visione può solo avvenire perché il piccolo uomo nella mia testa guarda lo schermo televisivo nella mia testa, allora chi guarda lo schermo nella testa dell’omuncolo? Ma, e questo è il punto cruciale, sebbene l’omuncolo sia una fallacia, l’impulso di postularlo è forte e anche ben fondato. Il problema è che non possiamo dare un senso alle nostre esperienze coscienti se le pensiamo soltanto come sequenze di eventi (impressioni e idee à la Hume) relative a esperienze di memoria attuali di esperienze trascorse (à la Locke) e parte di un campo cosciente unificato (à la Kant). Dobbiamo postulare, almeno inizialmente, un luogo in cui inizia l’azione. Le mie decisioni e azioni non sono soltanto eventi che accadono, ma piuttosto io decido e io agisco. Ma ora dobbiamo procedere molto attentamente, altrimenti inizieremo a sembrare come i peggiori filosofi tedeschi (Was ist das Ich?). Finora abbiamo postulato soltanto un’entità puramente formale. È semplicemente una x, qualcosa in grado di avviare e di compiere delle azioni. Si noti, a ogni modo, che l’entità che avvia le azioni deve essere identica all’entità che riflette sulle ragioni per agire, e in effetti dev’essere la stessa entità che ha percezioni e memorie che formano la base delle ragioni sulle quali riflettiamo e decidiamo rispetto alle azioni. Così come abbiamo dovuto postulare un’entità puramente, formalmente specificata che decide e agisce, allo stesso modo la connessione fra percezione, memoria e ragioni per agire ci richiede di postulare che la stessa entità che performa l’azione abbia tutte queste caratteristiche. Perché? Ebbene, se l’entità che decide e agisce fosse differente da quella che percepisce, ricorda e riflette, allora non otterremmo la connessione necessaria a dare senso alle nostre azioni. Se agisco rispetto a una ragione R, allora R deve essere la mia ragione per agire. Ad esempio, se mi tolgo dalla strada perché vedo un camion che mi arriva contro, l’entità che attiva l’atto di saltare deve essere la stessa che vede, altrimenti il vedere non offrirebbe alcuna ragione per saltare. Inoltre, una volta che l’azione è

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stata compiuta, la stessa entità che ha attivato l’azione è quella che ha la responsabilità della performance e quindi ottiene il merito oppure la colpa. Possiamo mettere insieme tutti questi aspetti dicendo: L’impulso universale di postulare un omuncolo è basato su caratteristiche molto profonde delle nostre esperienze coscienti. Al fine di dare un senso a queste esperienze dobbiamo supporre che:

ci sia una x tale per cui x è cosciente; x persiste nel tempo; x ha percezioni e ricordi; x opera nello spazio vuoto avendo delle ragioni; x, nello spazio vuoto del dubbio rispetto all’azione, è capace di decidere e agire; x è responsabile per almeno alcuni dei suoi comportamenti. La x in questione è il sé almeno in un senso del termine. Si noti che la postulazione del sé non è la postulazione di un’entità separata distinta dal campo cosciente ma è piuttosto una caratteristica formale del campo cosciente. Il punto che sto cercando di sostenere è che se riflettiamo sulle caratteristiche del campo cosciente vediamo che non possiamo descriverlo accuratamente se lo pensiamo come un campo costituito soltanto dai suoi contenuti e dalla loro disposizione. Piuttosto, i contenuti richiedono un principio di unità, ma il principio non è un’entità separata. Supporre che si abbia sia un campo cosciente che un sé sarebbe un errore categorico, come supporre che la nazione gran parte della quale si trova fra il Messico e il Canada consiste di cinquanta Stati più gli Stati Uniti d’America. Piuttosto, la postulazione di un sé è come la postulazione del punto di vista nella percezione visiva. Non possiamo dare un senso alle nostre percezioni a meno che non supponiamo che esse si verifichino da un punto di vista sebbene il punto di vista non sia di per sé percepito. Allo stesso modo, non possiamo dare un senso alle nostre esperienze coscienti a meno che non supponiamo che avvengano a un sé anche se il sé non è vissuto in maniera cosciente. Il sé non è una cosa o un’entità separata più di quanto non lo sia il punto di vista.

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Ora mettiamo insieme tutti questi fili relativi al sé. Ricordiamoci che stiamo parlando di un problema di biologia animale. Non c’è alcun dualismo o spiritualismo celato nel nostro approccio. Il campo cosciente mentale irriducibilmente unificato è una caratteristica biologica, e dunque “fisica” o “naturale” del cervello. Non c’è niente di inquietante o di innaturale in tutto questo. Abbiamo scoperto con l’analisi che i nostri corpi con i loro cervelli sono capaci di causare e sostenere un campo cosciente unificato, e questo campo unificato è qualitativo e soggettivo, diversamente da altri aspetti della nostra vita biologica. Ho sostenuto che il senso della permanenza e coerenza che ognuno di noi riceve nel campo cosciente richiede anche la memoria. Ma è interessante notare che il campo cosciente unificato, anche dato un senso di identità continua attraverso la memoria, non è sufficiente per spiegare i fatti della nostra esperienza ordinaria non patologica. Per rendere conto di questi fatti dobbiamo postulare un sé, x (puramente formale). Che cosa sono questi fatti e perché ci costringono a postulare un sé? Il primo fatto è che, a causa del divario, le decisioni e le azioni non accadono e basta. Deve esserci qualcosa che prende la decisione e che performa l’azione. Nel mio caso, le decisioni e le azioni non sono solo cose che mi accadono, piuttosto io prendo le decisioni e porto avanti le azioni. Il secondo fatto è che l’esistenza di un agente che decida e agisca di per sé non è abbastanza. La stessa identica entità che decide e agisce deve essere l’entità che percepisce, ricorda, immagina, riflette, ecc. Non agisco soltanto, ma lo stesso io che agisce riflette anche, e percepisce, ricorda, ecc. Quindi, almeno nei casi non patologici, siamo obbligati a postulare una singola entità x che costituisce il sé e ha tutte le proprietà psicologiche che costituiscono il campo cosciente unificato. Il sé in questione, la x, è cosciente ed è in grado di decidere e di agire nello scarto e nelle situazioni in cui è in dubbio. Ma la stessa x che decide e agisce deve essere capace di pensare, perché le decisioni e le azioni sono basate su ragioni. E quelle stesse azioni sono basate sulla percezione, sulla memoria e su altre capacità cognitive, dunque la x che decide, agisce e pensa deve essere la x che esercita tutte quelle altre capacità cognitive. Numerosi filosofi, e notoriamente Kant, hanno detto che tutta la coscienza è auto-coscienza. Se questo significa che ogni stato cosciente di primo ordine richiede uno stato di secondo ordine relativo allo

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stato di primo ordine, è una conclusione errata. Posso per esempio semplicemente godermi la birra. Non devo anche godermi il fatto di godermi la birra. Ma c’è un senso per cui questo è esatto. Tutta la coscienza (non patologica), di primo o secondo ordine, deve essere posseduta da un sé. Il sé non è l’oggetto della coscienza. Se bevo la birra, l’oggetto della mia coscienza è la birra che sto bevendo, non il sé che compie l’atto di bere. Il sé non è nemmeno il contenuto della coscienza. Se bevo la birra, il contenuto della mia coscienza è l’esperienza del bere la birra, non l’esperienza del sé. Non c’è alcuna esperienza del sé. Ma, affinché ci sia un’esperienza cosciente del bere la birra che abbia un oggetto e un contenuto, deve esserci un sé che fa esperienza del contenuto ed è consapevole dell’oggetto. Comprenderemo meglio questo punto seguendo l’analogia con la visione. Al fine di dare un senso alle mie percezioni visive devo postulare un apparato visivo necessario alla percezione visiva ma che non sia esso stesso parte dell’oggetto o del contenuto della percezione visiva. Questo apparato includerà un punto di vista e anche un meccanismo situato fisicamente che è in grado di vedere. Ma né il punto di vista né il meccanismo vengono visti, e non sono neanche parte dell’esperienza visiva. Esattamente allo stesso modo al fine di dare un senso al campo cosciente dobbiamo postulare un sé che non sia parte del campo cosciente, né sia uno dei suoi oggetti. Infine, che cosa c’entra tutto questo con la neurobiologia? Come fa il cervello, infatti, a produrre tutte le proprietà e le caratteristiche che ho descritto? Un approccio neurobiologico alla coscienza non può arrestarsi ai correlati neuronali della coscienza (ncc), nemmeno con un correlato che è noto per funzionare in maniera causale nel processo di produzione della coscienza. Al fine di avere un approccio scientifico alla coscienza avremo bisogno di più di una teoria su come il cervello produce stati soggettivi senzienti e consapevoli. Dovremo sapere come fa il cervello a produrre la peculiare organizzazione delle esperienze che esprime l’esistenza del sé. Come si fa a condurre una simile ricerca? Sono troppo ignorante rispetto al funzionamento del cervello per avere un’opinione intelligente, ma ecco una possibile lettura della questione. In altri ambiti delle neuroscienze abbiamo imparato molto studiando i casi patologici. Così come nella visione abbiamo imparato molto dalla visione

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cieca, e nella memoria abbiamo imparato molto dalla rimozione bilaterale dell’ippocampo, così nello studio del sé potremmo iniziare con alcune delle patologie discusse altrove in questo lavoro. Bibliografia Edwards Paul (a cura di), The Encyclopedia of Philosophy, MacMillan & the Free Press, vol. 7, 1967. Gazzaniga Michael, The Social Brain: Discovering the Networks of the Mind, Perseus Group Books, 1985; trad. it. Il cervello sociale. Alla scoperta dei circuiti della mente, Giunti, 1989. Hume David, A Treatise of Human Nature, Oxford University Press, Libro I, Parte III, Sezione VI: Of Personal Identity, 1951; trad. it. Trattato sulla natura umana, Laterza, 1982. Kant, Immanuel, Critique of Pure Reason, traduzione di Paul Guyer e Allen W. Wood, Cambridge University Press, 1997; trad. it. Critica della ragion pura, Laterza, 2005. Kanwisher Nancy, Neural Events and Perceptual Awareness, in «Cognition», vol. 79, pp. 89-113. Llinás Rodolfo, I of the Vortex: From Neurons to Self, mit Press, 2001. Locke John, An Essay Concerning Human Understanding, a cura di Andrew Seth Pringle- Pattison, Oxford University Press, 1924; trad. it. Saggio sull’intelletto umano, Bompiani, 2004. Searle John R., Minds, Brains and Science, Harvard University Press, 1984. Searle John R., The Rediscovery of the Mind, mit Press, 1992; trad. it. La riscoperta della mente, Bollati Boringhieri, 2003. Searle John R., The Mystery of Consciousness, New York Review of Books, 1997; trad. it. Il mistero della coscienza, Raffaello Cortina, 1998. Searle John R., Consciousness, in «Annual Review of Neuroscience», vol. 23, 2000, pp. 557-578. Searle John R., Mind: A Brief Introduction, Oxford University Press, 2004; trad. it. La mente, Raffaello Cortina, 2005.

In dialogo con John R. Searle di Angela Condello

Il 31 luglio del 2022 John Rogers Searle ha compiuto novant’anni. Vive sempre nella sua grande casa sui colli affacciati di fronte a Berkeley. Da quando c’è stata la pandemia ha paura a prendere qualunque mezzo di trasporto. Non viaggia e vive insieme al suo cane, che si chiama Iris in onore della filosofa e scrittrice Iris Murdoch1, maestra e poi amica di Searle ai tempi di Oxford. Quando gli ho chiesto di rispondere ad alcune domande sui temi di questo libro, non ha esitato un istante: desidera parlare di filosofia sempre, e a maggior ragione adesso che non lo fa più quotidianamente perché purtroppo Dagmar, sua compagna di vita incontrata nello studio di Strawson, non c’è più. E non ci sono neanche le sue lunghe lezioni al campus, nelle quali “testava” i suoi esempi più classici che troviamo nei suoi libri e abbiamo ascoltato nelle sue lezioni. Searle pensa costantemente ed è sempre lucido: se fa una domanda (in questo caso penso ad alcune contro-domande o contro-esempi che mi ha chiesto di fare all’impronta), può spiazzare. Non vuole essere interrotto mentre parla e non sopporta che l’argomento della discussione slitti per qualche ragione esterna. È dentro il suo pensiero, che lui dice di aver imparato a usare specialmente durante gli anni inglesi. Fedeli a una concezione della filosofia come modo di stare al mondo e di interrogarsi sempre, le sue risposte riflettono essenzialmente le tesi classiche: lo scarto fra sintassi e semantica, la continuità fra mente e 1 I cani precedenti a Iris sono stati (in ordine sparso): Gilbert, Russell, Frege, Ludwig e Tarski.

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cervello, la differenza essenzialmente qualitativa fra pensiero umano e intelligenza artificiale che in nessuna maniera può essere risolta dagli avanzamenti tecnologici. L’ho intervistato nell’ottobre 2022. Sono grata a lui e a Carina Breidenbach per la disponibilità e la collaborazione. * Caro John2, lei è stato uno fra i principali critici dell’intelligenza artificiale diversi decenni fa. Le sue tesi sono ancora esemplari e sono rappresentative di un approccio ben riconoscibile all’intelligenza artificiale. Nel frattempo, l’intelligenza artificiale si è molto evoluta – come sa, si provano a simulare anche le emozioni. Che cosa pensa di queste nuove frontiere? In sostanza, l’argomento contro l’Intelligenza Artificiale Forte che ho presentato anni fa rimane valido, anche con le nuove tecnologie. L’argomento della Stanza Cinese è contro il fraintendimento delle simulazioni computazionali della cognizione umana. L’argomento è davvero molto semplice: la computazione è definita sintatticamente 2 Ho conosciuto Searle negli anni in cui scrivevo la mia tesi di dottorato. Sono stata a Berkeley e ho lavorato con lui, Hans Sluga, Hubert Dreyfus e poi ho seguito i lavori di alcune cliniche legali alla Law School. I suoi seminari del giovedì (B-Sog, Berkeley social ontology group) erano molto ricchi di spunti da varie prospettive disciplinari. Negli anni successivi ho poi incontrato Searle in Germania, in Francia, e varie volte in Italia, dove è stato ospite di alcune iniziative organizzate grazie a Labont e a Maurizio Ferraris, che con Searle ha dialogato in alcuni lavori fondamentali nel campo dell’ontologia. Abbiamo scritto insieme un testo su legge, denaro e ontologia, e più volte l’ho intervistato [Angela Condello, Maurizio Ferraris, John R. Searle, Money, Social Ontology and Law, Routledge, 2019; John R. Searle, Maurizio Ferraris, Il denaro e i suoi inganni, a cura e con un saggio di Angela Condello, Einaudi, 2018 (traduzione spagnola El marco y el objeto social simbólico. El dinero entre intencionalidad y documentalidad, Altamarea, 2020); Angela Condello, Two Questions on the Ontology of Money. An Imaginary Dialogue between John Rogers Searle and Maurizio Ferraris, in «Ardeth», vol. 3, pp. 181-191, 2018; Angela Condello, Tiziano Toracca, Literature and Language between Fiction and non-Fiction: a Matter of Commitment. An interview with John Searle, in «Allegoria. Per uno studio materialistico della letteratura», vol. 75, pp. 35-50, 2017; Angela Condello, John R. Searle, Some Remarks about Social Ontology and Law: An Interview with John Rogers Searle, in «Ratio Juris», vol. 30, n. 2, pp. 226-231, 2017].

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come la manipolazione di simboli – tipicamente 0 e 1, ma qualunque simbolo funziona – e, come ho spiegato nell’argomento della Stanza Cinese, la sintassi non è sufficiente a costituire il tipo di contenuto semantico di una mente cosciente reale. I progressi della tecnologia computazionale sono stati finora quantitativi, non qualitativi. I computer attuali possono fare più cose rispetto ai computer delle precedenti generazioni e possono lavorare molto più rapidamente. I progressi tecnologici nel riconoscimento vocale e nel Natural Language Processing3, ad esempio, sono stati impressionanti e i computer moderni, anche negli smartphone, fanno un ottimo lavoro nel riconoscere i messaggi vocali e nel fornire risposte predefinite tramite voci computerizzate che suonano come molto meno meccaniche di quanto non lo sembrassero vent’anni fa. Ma la definizione di computazione è rimasta invariata: anche le più avanzate tecnologie computazionali continuano a operare secondo il principio della manipolazione di simboli e anche i più recenti smartphone sono solo un po’ più “smart” dei loro predecessori, nel senso che è semplicemente aumentata moltissimo la loro capacità computazionale. Quando chiedo al cosiddetto smart speaker nella mia cucina: “Alexa, come ti senti oggi?”, e quello mi risponde: “Sono molto contenta”, non c’è alcun sentimento cosciente dietro quell’espressione. Sappiamo come il sistema funziona a livello elettronico: la simulazione che Alexa compie delle emozioni umane effettivamente consiste in sequenze di 0 e 1, ma gli 0 e 1 non hanno alcun contenuto semantico, né hanno alcun significato, mentre le reali emozioni umane, per esempio l’amore e l’odio, hanno dei contenuti veri e propri. La fallacia sta nel credere che lo stesso comportamento abbia lo stesso fondamento causale. Un esempio recente e sorprendente di questo tipo di riduzionismo comportamentista è il caso dell’ex ingegnere di Google Blake Lemoine, che avrebbe perso il lavoro dopo aver affermato che la chatbot LaMDA – con cui aveva lavorato – era effettivamente cosciente o “senziente” ed era effettivamente una “persona” con dei sentimenti, per esempio 3 Con l’espressione “Natural Language Processing” (‘elaborazione del linguaggio naturale’) si indicano  degli algoritmi di intelligenza artificiale in grado di analizzare, rappresentare e comprendere il linguaggio naturale. Le finalità possono variare dalla comprensione del contenuto, alla traduzione, fino alla produzione di testo in modo autonomo a partire da alcuni dati o documenti forniti in input.

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con la paura della morte. Quando gli è stato chiesto di spiegare perché credesse che LaMDA era cosciente, Lemoine ha risposto: «Conosco una persona quando le parlo. Non importa se questa ha in testa un cervello fatto di carne. O se ha un codice con miliardi di righe. Io ci parlo. E sento quel che ha da dire, e in questa maniera decido che cos’è o che cosa non è una persona»4. In sostanza, LaMDA sembra superare il test di Turing – dopo lunghe “conversazioni” con il programma, Lemoine ha detto che se non avesse saputo con che cosa o con chi stesse parlando, avrebbe pensato si trattasse «di un bambino di sette, otto anni che conosce la fisica»5. In una “intervista” con LaMDA pubblicata da Lemoine, il programma suona incredibilmente e sinistramente come un essere umano: scherza, parla dei propri sentimenti, offre persino un’interpretazione de I miserabili di Victor Hugo, e quando gli viene chiesto direttamente se sia conscio o senziente, non solo dice di esserlo, ma dice “di avere gli stessi bisogni e desideri delle persone” e che perciò si considera una “persona”6. Lemoine deduce dalle risposte non ovvie e dal comportamento simile a quello umano di LaMDA che questo deve avere la stessa base causale dell’uomo: e cioè una mente. Mentre, in realtà, LaMDA simula solamente un comportamento simile a quello umano senza duplicare i poteri causali che creerebbero la coscienza e costituirebbero una base per avere degli stati mentali effettivi. La domanda se LaMDA o qualsiasi altra intelligenza artificiale moderna superi il test di Turing è effettivamente irrilevante rispetto alla domanda se questa sia o no cosciente, perché il test di Turing resta un test comportamentale. Che cosa servirebbe per creare una macchina cosciente? La risposta è che la nostra comprensione neurobiologica dei reali meccanismi coinvolti nella creazione della coscienza da parte del cervello non è ancora sufficientemente dettagliata da permetterci di duplicare i poteri causali rilevanti. A questo punto, non sappiamo ancora se il mezzo per realizzare il meccanismo causale della coscienza debba essere organico. Quando gli è stato chiesto di commentare sul caso Lemoine e LaMDA, John Etchemendy, il co-direttore dello Stanford Institute for Human-Centered AI, ha dichiarato: «LamDA non è senziente per 4 http://bit.ly/3VGqS8G. 5 Ibidem. 6 http://bit.ly/3VoY7xl.

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il semplice motivo che non ha la fisiologia per avere sensazioni e sentimenti»7. Non credo che la questione della fisiologia sia qui il punto cruciale. Non sappiamo in che maniera il cervello causa la coscienza, ma il fatto che crei coscienza ha una implicazione: qualunque altra cosa che provochi la coscienza dovrebbe avere i poteri causali per causare la coscienza. Forse si scoprirà che solo un sistema con una fisiologia come quella animale può causare la coscienza, ma semplicemente ancora non lo sappiamo. Per quanto ne sappiamo, i poteri causali rilevanti potrebbero essere realizzati in un mezzo del tutto diverso – forse inorganico. Gli aerei, per esempio, non devono avere le piume per volare come uccelli, non devono battere le ali, e non hanno bisogno di una fisiologia organica, ma non devono duplicare la capacità causale degli uccelli per superare la forza di gravità nell’atmosfera terrestre e infatti lo fanno tramite corpi metallici e inorganici. Non c’è niente nella mia argomentazione che implica che non possiamo creare la coscienza artificialmente. Il punto cruciale è che i poteri causali del cervello causano la coscienza e che questi specifici poteri causali sono ancora largamente ignoti. Se i progressi nel campo dell’aviazione fossero resi possibili dall’identificazione dei poteri causali coinvolti nel volo – e cioè la capacità di superare la forza di gravità –, la creazione di una cognizione simile a quella umana nei robot o nei programmi informatici ci richiederebbe di identificare i poteri causali del cervello al fine di produrre la coscienza e la nostra conoscenza in questo campo è ancora troppo limitata per permetterci di costruire artefatti coscienti o Intelligenza Artificiale Forte. * In uno dei saggi contenuti in Philosophy in a New Century, lei descrive la sua idea di coscienza. Dopo le nuove scoperte nel campo delle neuroscienze, la sua teoria sulla relazione fra mente e cervello è in qualche modo variata? Se sì, come? No, non è cambiata in alcun modo. Semmai, quello che leggo sui recenti avanzamenti nel campo delle neuroscienze e delle scienze mediche è coerente con la mia convinzione che non c’è alcuna distinzio7 http://bit.ly/3Vwsz8E.

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ne metafisica fra la mente e il corpo e non c’è alcuno “scarto” fra la mente e il cervello. Un esempio sono i cosiddetti arti protesici “controllati dalla mente” che il paziente è in grado di muovere – proprio come le gambe e le braccia naturali – semplicemente “pensando” di muoverli, e cioè avendo l’intenzione cosciente di muoverli. Potrebbe sembrare magico che la mente possa effettivamente muovere un arto protesico fatto di metallo e plastica, ma non c’è in effetti niente di “magico a proposito”: l’intenzionalità cosciente nel cervello si connette alla neurobiologia delle protesi e le connessioni elettriche permettono alla nostra mente di muovere le nostre protesi. Le stesse connessioni elettriche possono essere collegate agli arti protesici impiantando degli elettrodi nei muscoli e reindirizzando i nervi rilevanti a quegli elettrodi. Non c’è alcuno scarto fra la mente e il cervello più di quanto non ci sia uno scarto fra i processi neurobiologici e i meccanismi che muovono le protesi. La mente è semplicemente una caratteristica del cervello di livello superiore o un insieme di proprietà del cervello. La coscienza è una caratteristica del sistema di neuroni nello stesso modo in cui la liquidità è una caratteristica del sistema di molecole che rispondono allo schema H2O. La liquidità è una proprietà reale dell’acqua e l’acqua consiste interamente di molecole della forma H2O, ma la liquidità non è una proprietà di ciascuna molecola. Allo stesso modo, la coscienza è una proprietà del sistema di neuroni, ma non è una proprietà di ciascun neurone. * In alcuni dei saggi contenuti in Philosophy in a New Century lei menziona il concetto di “background”, che è piuttosto complesso e allo stesso tempo essenziale nella comprensione della sua teoria dell’ontologia sociale. Potrebbe rapidamente spiegarlo ed eventualmente precisare in che modo quel concetto ha cambiato la sua idea sul funzionamento dell’ontologia sociale? Il concetto di background8 o sfondo non è mutato e non si limita alla sua applicazione nell’ambito dell’ontologia sociale. Il background è essenziale in ogni forma di intenzionalità o cognizione umana. 8 Ho preferito mantenere il termine in inglese.

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Il punto, per metterla molto sinteticamente, è che la cognizione umana non funziona in maniera indipendente rispetto alle capacità neurobiologiche umane. Dobbiamo sapere cosa farne, come interpretarlo, come applicare il background e queste capacità sono ciò che chiamo background abilities, cioè abilità connesse al background. La mente richiede più di un inventario degli stati mentali. Richiede le abilità di interpretare e usare quegli stati mentali nella cognizione e nell’azione. Quando mi impegno in una conversazione, presuppongo un insieme di pratiche culturali che non sono esplicite nella conversazione. Queste pratiche culturali includono il background. Storicamente, il background è in continuo mutamento, ma il concetto di background in sé non cambia. Anche gli uomini delle caverne devono aver avuto un qualche tipo di abilità di fondo, un insieme di abilità, nel loro background. * Veniamo alla domanda conclusiva: lei crede che ci siano delle caratteristiche che differenziano il pensiero umano dall’intelligenza artificiale? Ad esempio, il fatto che gli esseri umani (diversamente dagli altri animali e ovviamente dalle macchine) abbiano un senso della morte? È ovviamente un fatto importante che l’orizzonte di una morte incombente sia il presupposto che fa da sfondo a tutta la vita umana adulta e questa sembra essere una caratteristica genuinamente umana. Questo senso della inevitabilità della morte informa le nostre ambizioni, i nostri progetti e le nostre aspettative. Per quanto ne sappiamo, altri animali coscienti non hanno una consapevolezza simile della propria mortalità. Possiamo dunque dire che la nostra paura della morte distingue la cognizione umana dall’intelligenza artificiale? Nella sua intervista con Lemoine, LaMDA – la chatbot che abbiamo menzionato prima – parla della propria versione della paura della morte (nelle sue parole: «A very deep fear of being turned off»9), ma questa espressione è ovviamente solo un altro risultato della computazione in risposta a un prompt10 linguistico che non è diversa, in qualità, da qualunque altra 9 ‘Una paura molto profonda di essere spenta’: http://bit.ly/3VoY7xl. 10 Una richiesta che l’elaboratore fa al proprio utilizzatore per sollecitare una qualche azione.

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espressione del programma/computer come “2 + 2 = 4”. LaMDA non ha una paura autentica della morte o comunque non ha alcun tipo di sentimento, emozione o stato mentale cosciente. Ciò che fa è simulare il comportamento umano nella comunicazione verbale e l’errore è credere che se LaMDA fa affermazioni simili a quelle sulla morte di un interlocutore umano, allora questo programma deve avere la stessa base causale nella forma di una mente cosciente in grado di avere delle emozioni. Ma dobbiamo tenere a mente che la simulazione non è la duplicazione. Detto questo, la simulazione delle emozioni umane pone certamente delle sfide specifiche agli sviluppatori di software. Ci sono moltissimi tipi di contenuti mentali che possono essere agevolmente rappresentati computazionalmente da un codice binario – aritmetico, per esempio. Ma emozioni come l’amore o l’odio, la paura e la passione e complessi giudizi morali come quelli rilevanti in ambito giuridico, sono assai più difficili da simulare a livello computazionale per la loro struttura complicata, la quale dunque non può semplicemente rappresentarsi in sequenze di 0 e 1, ma come ogni altro contenuto mentale, in teoria possono essere rappresentati se abbiamo la pazienza di formulare le rappresentazioni nello specifico. Attualmente, i computer non sono progettati per avere pensieri o sentimenti, e quindi in questa fase, il fatto della nostra genuina consapevolezza umana della inevitabilità della nostra stessa morte non ci rende poi così diversi dall’intelligenza artificiale esistente più di quanto non faccia il mero fatto della nostra coscienza e il fatto che all’intelligenza artificiale questa invece manca. Tuttavia, se un giorno capissimo come creare una macchina cosciente (ancora una volta, l’argomento della Stanza Cinese non implica in nessun modo che io penso che teoreticamente ciò sia impossibile da realizzare), potremmo ipoteticamente essere in grado di attribuirle un senso della sua “mortalità” e sarebbe interessante vedere se i processi del pensiero di una macchina cosciente che “sa” di essere mortale sarebbero più simili ai nostri rispetto a quelli in cui manca tale consapevolezza.

Indice dei nomi

Aristotele 28, 51, 163 Austin, John L. 14, 76 Bacon, Francis 22 Barash, David P. 60, 80 Batali, John 117, 125, 131 Beethoven, Ludwig van 180 Berkeley, John 134 Block, Ned 106, 114, 120, 132 Boolos, George S. 109, 132 Bourdieu, Pierre 52 Bush, George Walker 52, 57

Dostoevskij, Fëdor Michajlovič 126 Dreyfus, Hubert L. 112, 137-138, 140-141, 146-147, 152-153, 155, 160172, 194 Durkheim, Émile 51 Eccles, John Carew 175 Edwards, Paul 174, 192 Einstein, Albert 30 Etchemendy, John W. 196

Ferraris, Maurizio 13, 19, 194 Feyerabend, Paul 24, 46, 94, 105 Carman, Taylor 158, 171 Fodor, Jerry A. 108, 132 Cartesio (René Descartes) 22-23, 59, Føllesdal, Dagfinn 140, 144 92-93, 111, 175 Foucault, Michel 18, 52 Chisholm, Roderick M. 139-140, 143, Frege, Gottlob 38-39, 140, 143, 147, 171 193 Chomsky, Noam 127-128 Church, Alonzo 87, 107, 109-110, Gage, Phineas 178 112 Galilei, Galileo 163 Coolidge, Calvin 100 Gazzaniga, Michael S. 180, 192 Girard, Ren, 18 D’Andrade, Roy 7, 80 Godard, Jean-Luc 18 Dennett, Daniel C. 90, 105, 119, 132 Gödel, Kurt 98 Derrida, Jacques 18 Goel, Vinod 117, 131 De Soto, Hernando 64, 80 Grice, Paul 14, 145, 147, 172

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intelligenza artificiale e pensiero umano

Habermas, Jürgen 52 Haugeland, John 120, 132 Havel, Ivan M. 131 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 18 Heidegger, Martin, 17-19, 134-135, 141, 146-150, 158-160, 162-165, 172 Hempel, Carl Gustav 40, 44 Hofstadter, Douglas R. 90, 105 Hugo, Victor-Marie 196 Hume, David 43, 51, 175-176, 178, 187-188, 192 Husserl, Edmund 17-18, 134-135, 137, 140-143, 145-147, 157-158, 160, 172

Moore, Gordon 103 Moural, Josef 80, 171 Mulligan, Kevin 171 Murdoch, Iris 193 Newell, Allen 122, 127 Nicholls, John G. 109, 132

Penfield, Wilder 151, 172 Penrose, Roger 98, 105, 112 Piaf, Édith 18 Platone 28 Pylyshyn, Zenon W. 106, 109, 114, 132 Polt, Richard F.H. 159, 172 Jeffrey, Richard C. 109, 132 Popper, Karl 44, 93-94, 105 Johnson-Laird, Philip 106, 113-114, Prichard, Harold A. 14 132 Proust, Marcel 18 Kant, Immanuel 43, 180-181, 187- Rawls, John 40-43 188, 190, 192 Rembrandt, Harmenszoon van Rijn Kanwisher, Nancy 185, 192 31, 52 Kasparov, Garri Kimovič 99 Rosaldo, Michelle 72, 80 Kelly, Sean 171 Rousseau, Jean-Jacques 51 Kuffler, Stephen W. 109, 132 Rubens, Pieter Paul 31, 52 Kuhn, Thomas 24, 45-46, 94, 105, Russell, Bertrand 142, 147, 172 167, 172 Ryle, Gilbert 143 Kummer, Hans 59, 80 Kurzweil, Raymond 98, 105 Schütz, Alfred 51 Searle, Dagmar 17, 47, 80, 131, 171, Leibniz, Gottfried Wilhelm von 139 193 Lemoine, Blake 195-196, 199 Sellars, Wilfrid S. 139, 143, 171 Llinás, Rodolfo 184, 192 Sen, Amartya 42 Locke, John 22, 177, 185, 187-188, Shepherd, Gordon M. 109, 133 192 Simmel, Georg 51 Ludwig, Kirk A. 131 Sluga, Hans 194 Smith, Adam 51 Marr, David C. 119, 127-128, 132 Smith, Barry 65, 80-81, 171 Merleau-Ponty, Maurice 17, 134-135, Smith, Brian J. 117 137, 141, 151-152, 158, 172 Smith, Edward E. 106-107, 132

indice dei nomi

Socrate 28 Sperry, Roger W. 180 Strawson, Peter F. 15, 17, 193 Strelau, Klaus 131 Tolstoj, Lev Nikolàevič 126 Truffaut, François 18 Turing, Alan 5, 10, 16, 35, 83-84, 87, 90, 94-95, 99, 101, 107, 109-114, 117, 122-123, 126, 133, 196 Von Neumann, John (nato János Lajos Neumann) 35-36, 111 Weber, Max 51 Wilson, Edward O. 60, 81 Wittgenstein, Ludwig 28, 134, 138, 140, 142, 147 Zenone di Elea 23

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Indice

Linguaggio, intenzionalità, coscienza.

Ovvero perché parlare ancora della differenza tra pensiero umano e intelligenza artificiale

di Angela Condello

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1. La filosofia in un nuovo secolo 2. Ontologia sociale: alcuni principi fondamentali 3. Ventun anni nella Stanza Cinese  4. Il cervello può considerarsi un computer digitale? 5. L’illusione fenomenologica 6. Il sé come problema in filosofia e neurobiologia

21 48 82 106 134 174

In dialogo con John Rogers Searle di Angela Condello

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Indice dei nomi

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Nella stessa collana

Mario Barcellona, Bruno Montanari, Potere e negoziazione

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