Ingmar Bergman 9788880335924, 8880335928

Ingmar Bergman (Uppsala, 1918 - Faro, 2007). Tra i massimi autori del cinema mondiale, dedito a una continua interrogazi

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Ingmar Bergman
 9788880335924, 8880335928

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Sergio Trasatti (Roma, 1939 - 1993) è stato direttore del Centro Cattolico Cinematografico, direttore editoriale della «Rivista del Cinematografo» e redattore capo dell’«Osservatore romano». Ha pubblicato numerosi saggi sui rapporti tra il mondo cattolico e i media. Per Il Castoro Cinema ha pubblicato anche Renato Castellani.

Il Castoro Cinema n. 156 © 2011 viale Abruzzi [email protected] www.castoro-on-line.it Edizione www.ridigito.it In copertina: Il settimo sigillo ISBN: 978-88-8033-749-2

Editrice

Il 72,

digitale

Castoro 20131

srl Milano

2013

Sergio Trasatti Ingmar Bergman

INGMAR BERGMAN

Come definirebbe il lavoro del regista cinematografico? La regia cinematografica? Un regista ha detto che un regista di cinema è persona che ha il tempo solo di pensare ai suoi problemi. Mi pare la definizione più esatta. Evidentemente si possono trovare anche moltissime altre spiegazioni. Si possono trovare, a cose fatte, una serie di definizioni razionali. Si può dire per esempio che la regia cinematografica consiste nel trasformare le visioni, le idee e i sogni, le stesse speranze, in immagini capaci di trasmettere poi questi sentimenti agli spettatori nel modo più efficace possibile. Si crea una sorta di veicolo: questa lunga striscia di pellicola che, tramite un complesso di macchine, trasmette dei sogni personali. Delle immagini indirizzate ad altre coscienze, ad altri individui. Non lo so. Alla regia

cinematografica si può anche dare una definizione tecnica. Con l’aiuto di un numero enorme di persone, artisti e tecnici, e di un numero colossale di macchine, si fabbrica un prodotto. Può essere un prodotto di consumo, una merce, un’opera d’arte, questo è da vedersi. Ma sebbene io giri film da quando avevo ventisette anni, non posso garantire di cosa si tratti in fin dei conti: se sia tutte queste cose assieme, o se non sia nessuna di esse. Qual è il futuro del cinema? Noi registi utilizziamo una minuscola parte di un potere straordinario, ci limitiamo a far muovere il dito mignolo di un gigante che può anche diventare pericoloso. Ma io posso anche sbagliarmi. Può anche darsi che il film abbia raggiunto il punto massimo della sua evoluzione, che questo strumento, per la sua stessa natura, non possa conquistare nuove terre, che noi ci troviamo schiacciati contro un muro, che la nostra strada non sia ormai che un vicolo cieco. Molti sono di questo parere ed è indubitabile che noi continuiamo a segnare il passo in una sorte di palude, paralizzati dalle preoccupazioni economiche, dalle convenzioni, dal timore, dall’incertezza e dal disordine. Qual è il suo rapporto con il pubblico? Io mi sono dato tre regole fondamentali, cui ho cercato di non venire mai meno. La prima: essere interessante. Di conseguenza, il pubblico che viene a vedere un mio film ha il diritto di pretendere di trovarvi delle emozioni, delle sensazioni, una gioia vitale; e io ho il dovere di dargli quello che domanda. Questo però non significa che io abbia il diritto di prostituirmi; la mia seconda regola, infatti, mi impone di agire sempre in armonia con la mia coscienza artistica. E la terza regola, facendomi considerare ogni film il mio ultimo film, mi difende dai rischi in cui potrebbe farmi cadere la seconda regola, qualora volessi sacrificare troppe cose alla mia concezione dell’arte. Che importanza dà al montaggio? Il montaggio avviene già al momento della ripresa, il ritmo viene creato nella sceneggiatura. So che molti registi procedono nel modo contrario. Il ritmo dei miei film viene concepito nella sceneggiatura a tavolino, e viene generato dinanzi alla cinepresa. Ogni forma di improvvisazione mi è estranea. Se qualche volta sono costretto a prendere una decisione senza averci riflettuto sopra, comincio a sudare, mi irrigidisco per la paura. Il cinema è per me un’illusione progettata fin nei minimi dettagli, lo specchio di una realtà che quanto più vivo tanto più mi appare illusoria. Che ne pensa della televisione? La sera, quando guardo la televisione, mi coglie improvvisa la sensazione che il cinema sia superato, invecchiato, un’arte della quale si potrebbe fare a meno, e che meriterebbe di essere gettata via. I film e i drammi che noi costruiamo non potranno mai attingere il livello drammatico della televisione, il suo potere di suggestione, la sua immediatezza. Il cinema non può stimolare l’immaginazione come la televisione. Ma qual è la differenza tra il cinema e la televisione? Le differenze tra cinema e televisione, almeno dal punto di vista della creazione artistica, sono del tutto artificiose o, comunque, non sono necessarie né fondamentali. La televisione mi ha sempre affascinato; la guardo spesso, la studio e se proprio dovessi vederci una differenza con il cinema la indicherei, nonostante il piccolo schermo, o forse proprio per questo, in una sua maggiore possibilità espressiva, di comunicazione, di penetrazione. Comunque, anche senza questa differenza di risultati, c’è, esterna, la sua differenza formale, di mezzo. Ed è questo uno dei motivi per cui mi ci rivolgo. Mi piace fare esperimenti con forme diverse, con mezzi nuovi. Avendo la prova, oltre a tutto, che non si creano grandi scissioni fra il mio lavoro in Tv e quello per il cinema dato che, regolarmente, quello che realizzo per il piccolo schermo riesce poi a essere accolto senza difficoltà anche dal grande. E il teatro?

Per qualche anno potrò ancora fare del cinema e poi la mia energia fisica comincerà a declinare. Ma continuerò a lavorare con il teatro finché saranno obbligati a farmi uscire con i piedi davanti e la testa dietro, perché a teatro si tratta di partecipare a esperienze assieme ad altre persone e di dare suggerimenti e di aprire degli orizzonti. Lei ha detto una volta che né il cinema, né il teatro possono cambiare il mondo. Ma allora perché continuare? Secondo me si deve continuare comunque, perché credo che una persona, finché vive, deve continuare a fare quello che gli piace. In fondo quello che uno fa lo fa prima di tutto per se stesso, il fine ultimo è sempre quello di mettersi in contatto con gli altri, si cerca sempre di dire: «Ascolta un momento: vieni qua e forse imparerai qualcosa di nuovo»; oppure: «secondo me questo dovrebbe essere così»; oppure: «dà un’occhiata qua, guarda quanto è bello». Oppure si può sezionare la vita intellettuale e spirituale di un individuo e dire: «Osserva, questo fenomeno consiste in questo, questo e quest’altro, eccetera…». E da tutto questo la gente può ricevere un’esperienza emotiva, o uno shock, oppure può scoprire improvvisamente che si tratta di cose bellissime o magari buffissime. E io non pretendo più di questo, le mie pretese non vanno oltre. C’è un regista europeo a cui si sente vicino? Forse Federico Fellini. Anzi, certamente. Lo ammiro molto: come artisti, credo, abbiamo lo stesso sangue. Da tempo eravamo in corrispondenza, ci scrivevamo lettere ogni tanto. Finalmente ci siamo conosciuti. Per la prima volta ho avuto l’impressione di incontrare un fratello nel mestiere. È stata un’esperienza bellissima. Nei suoi film i personaggi più positivi sono sempre quelli femminili… Ho la sensazione che siamo all’inizio di una incredibile rivoluzione. Le donne stanno finalmente cominciando ad assumersi le loro responsabilità. Naturalmente hanno ancora tante difficoltà che è impossibile sapere cosa accadrà. Da una parte l’avanguardia fa sentire la sua voce, dall’altra una grande massa di donne rimangono dietro le quinte. Eppure quasi ogni donna, anche nell’avanguardia, ha un po’ del guastatore. Come se avessero tutte una cattiva coscienza. Capiscono che c’è qualcosa di sbagliato, ma non sanno come affrontarlo. Hanno dato vita a un movimento che non va fermato anche se non sappiamo fino a dove arriverà e che cosa porterà. Le dichiarazioni sono tratte dalle seguenti fonti: Ingmar Bergman, Il dito mignolo di un gigante, «Cinema nuovo», anno VIII, n. 139, maggio-giugno 1959. S. Björkman, T. Manns, J. Sima, Le cinéma selon Bergman, Seghers, Parigi, 1973. Gian Luigi Rondi, 7 domande a 49 registi, Sei, Torino, 1975. Jörn Donner, Bergman come in uno specchio, «Epoca», 7/7/1979 e 14/7/1979. Lietta Tornabuoni, Io e il mostro, «L’europeo», 14/3/1968. Ingmar Bergman, Lanterna magica, Garzanti, Milano, 1987. Intervista con Ingmar Bergman su Il flauto magico, «CM», n. 21, 1976. Al Alvarez, Ingmar Bergman poeta della materia, «la Repubblica», 1/2/1976.

I primi film

Ingmar Bergman proviene, come suole ricordare, da una famiglia di preti e di contadini, la cui unica eccezione è un nonno farmacista. Nato a Uppsala il 14 luglio 1918 da un pastore luterano di nome Erik e da Karin Akerblom, una donna di origine olandese, Bergman trascorse la prima infanzia tra un paesino e l’altro, seguendo il padre nei suoi itinerari di ministro del culto. Ma il suo punto di riferimento preferito erano le due case della nonna, una a Uppsala e una in campagna, presso Dufnas, in Dalercalia (la casa si chiamava Varoms, che in dialetto significa “nostra”). Dopo molti spostamenti, al pastore fu assegnata la parrocchia di Hedvig Eleonora a Stoccolma, dove egli aveva

prestato servizio come vicario per diverso tempo. La famiglia si trasferì allora nell’appartamento del parroco, al terzo piano di Storgatan 7, di fronte alla chiesa. Ingmar aveva un fratello di quattro anni più grande e una sorella di quattro anni più piccola. Il pastore, per quanto abile e misurato nell’esercizio del ministero, a casa era irritabile e di umore malinconico. «Non potevamo fischiare, non potevamo camminare con le mani in tasca. Improvvisamente decideva di provarci una lezione e chi s’impappinava veniva punito. Soffriva molto per il suo udito eccessivamente sensibile, i rumori forti lo esasperavano», lamenta il regista nell’autobiografia1. Quanto alla mamma, «aveva un eccessivo carico di lavoro, era tesissima, non riusciva a dormire, faceva uso di forti sedativi che avevano effetti collaterali quali l’irrequietezza e l’ansia». Il figlio maggiore, dopo un tentativo di suicidio, si era trasferito a Uppsala. La situazione familiare oppressiva avrebbe lasciato nel giovane un segno profondo: sono da cercare qui le radici dei suoi dubbi esistenziali, del suo anticlericalismo, della sua disperata ricerca d’amore, di un Dio che non è rito o burocrazia, ma, appunto, amore. Dopo la maturità e il servizio militare Ingmar si iscrisse a un corso universitario di Storia della letteratura (che avrebbe poi concluso felicemente con una tesi di laurea su Strindberg) e cominciò a occuparsi sistematicamente di teatro. Lavorò in un centro per la gioventù nella città vecchia e si impegnò nel teatro studentesco. Intanto faceva vita comune con una giovane attrice di nome Maria. Aveva affittato una stanza nel quartiere Soder. Quando i genitori si accorsero che il giovane non dormiva a casa la notte, fu la crisi definitiva. Il padre lo picchiò, egli reagì con violenza. Lasciò la canonica e ruppe i ponti con la famiglia: non vide padre e madre per quattro anni. In cerca di inserimento nell’attività teatrale, riuscì a lavorare con attori professionisti nello Studio drammatico di Brita von Horn. Inoltre organizzava spettacoli per bambini nel centro sociale del Comune. Invitato da un attore per una tournée, lasciò Maria, interruppe gli studi e partì con la compagnia di Jonatan Esbjörnsson verso il sud. La compagnia debuttò davanti a una platea di diciassette spettatori. Dopo una recensione catastrofica del giornale locale, si sciolse. La disoccupazione durò poco. Bergman fu assunto all’Opera come assistente alla regia, ma senza stipendio. Fu aiutato da una ragazza del balletto finché non ottenne l’incarico di suggeritore per l’Orfeo all’inferno con un compenso di tredici corone per sera. Raggiunta una relativa tranquillità, cominciò a scrivere, sfornando dodici drammi e un’opera. Il direttore del teatro studentesco decise di mettere in scena un testo di immediata e sfrontata derivazione strindberghiana, La morte di Kasper. Fu la svolta. In platea c’erano Carl Anders Dymling, neodirettore della Svensk Filmindustri, e Stina Bergman, vedova del drammaturgo Hjalmar Bergman e responsabile della sezione manoscritti. Convocato il giorno dopo da lei, il giovane è assunto con uno stipendio di cinquecento corone al mese. È il 1942. Finalmente egli ha un posto fisso, una scrivania, un orario di lavoro. Insieme con quattro colleghi emenda sceneggiature, scrive dialoghi e canovacci di film. Fa pace con i genitori in una situazione, per dirla con parole sue, «di neutralità armata e con un certo rispetto reciproco»2. Una delle tante cose scritte da Bergman fu letta dal regista Gustaf Molander, il quale raccomandò che se ne ricavasse un film. La Svensk Filmindustri acquistò il testo per cinquemila corone e Alf Sjöberg lo tradusse in immagini con la collaborazione di Bergman in qualità di segretario di edizione. Per la prima volta il giovane aspirante cineasta si trovava sul set, nella Filmstaden, la Cinecittà svedese a Rasunda, nei pressi della capitale. Fu un’esperienza difficile, ma decisiva. La scuola di Sjöberg fu preziosa. Il film, intitolato Spasimo, è la storia di un professore, soprannominato “Caligola”, che opprime gli allievi. L’attore, Stig Jarrel, fu truccato in modo da assomigliare a Himmler, il capo della Gestapo. Molti videro nel film un attacco al nazismo e lo applaudirono vistosamente. A Spasimo toccò un premio nel 1946 nel corso del primo Festival di Cannes postbellico. Nella primavera del 1943 Ingmar si era sposato con Else Fischer, una ballerina e coreografa con la quale aveva stretto amicizia al tempo della tournée. Gli inizi furono burrascosi, perché lo sposo

fuggì di casa – un bell’appartamentino ad Abrahamsberg – una settimana dopo le nozze. Ma poi tornò. L’antivigilia di Natale nacque una bambina di nome Lena. Durante la lavorazione del film Bergman fu nominato direttore dello Stadsteater di Helsingborg, il teatro comunale più antico di tutta la Svezia. La situazione era però difficile, perché i finanziamenti erano stati dirottati verso il nuovo teatro di Malmö. Fu un periodo di grande impegno e di intenso lavoro. Intanto moglie e figlia, ammalate di tisi, erano finite in due sanatori. Per sostenere le spese Bergman continuava a emendare manoscritti per la società cinematografica. Nacque intanto una nuova relazione, con Ellen Lundstrom, ballerina anch’ella e coreografa, che presto si accorse di essere incinta. Per Else fu il divorzio. Per Ellen il matrimonio con un uomo al quale avrebbe dato quattro figli. Nel 1944 arrivò la grande occasione cinematografica. Il direttore della Svensk Filmindustri sottopose a Bergman il manoscritto di una commedia di autore danese intitolata La bestia madre con la proposta di ricavarne un film che sarebbe stato finalmente diretto da lui. In quattordici notti il giovane scrisse la sceneggiatura, che fu subito approvata. «Se me lo avessero chiesto – confessò più tardi – avrei sicuramente tratto un film anche dalla guida del telefono». L’intenzione però era di una produzione a basso costo, con attori disponibili perché già sotto contratto. Bergman non si trovò a suo agio. Si vide sostituire il direttore della fotografia, si impuntò su un’attrice priva di esperienza, molte altre cose non funzionarono. Ma il direttore, dopo aver visto i primi provini, gli dette una nuova opportunità. Intanto Bergman aveva alle costole Victor Sjöström che non gli lesinava consigli. Quando lasciò Filmstaden per gli esterni a Hedemora, ci si mise il maltempo a complicare le cose. Tornato in sede, Bergman pretese che si ricostruisse in studio un pezzo di strada, con un notevole (e da molti giudicato inutile) dispendio di denaro. Ci fu anche un incidente, con un ferito, per un treppiede scivolato da un palco. Il film uscì con il titolo di Kris (Crisi) e fu un fiasco. Racconta la vicenda di una ragazza che dopo varie peripezie ritrova la vera madre (fot. 1) e finisce per sposare il giovane da tempo innamorato di lei. È di scena il conflitto tra le generazioni: «Uno scontro – fa notare Alfonso Moscato – che, equilibrato in periodo di normalità, è qui acuito dal materialismo dilagante nella società postbellica»3.

FOT. 1

Per realizzare un altro film dopo questo insuccesso fu necessario voltare pagina. La nuova occasione arrivò da parte di un produttore indipendente, Lorens Marmsted, che commissionò a Bergman Piove sul nostro amore. Il film non è di eccezionale qualità. Lo stesso autore, ricordando la lavorazione, ammette che al tempo aveva scarsa padronanza dei mezzi tecnici. Tuttavia l’opera è ricca di motivi di interesse perché già anticipa un certo modo bergmaniano di fare cinema. La trama, come sempre di origine teatrale, è semplice ed elementare. Una coppia di giovani falliti (lui esce da un anno di carcere per un furtarello, lei è sotto il peso di una gravidanza non voluta, provocata da chissà chi) stenta a risolvere i problemi elementari della sopravvivenza, specialmente quello dell’abitazione. Dopo numerose peripezie il giovanotto finisce sotto processo per aver malmenato un messo comunale che gli intimava lo sfratto. Il finale è lieto, in stile Frank Capra. C’è perfino uno strano personaggio che all’inizio parla al pubblico

presentandosi come mediatore, poi fa la parte dell’avvocato difensore e infine regala ai due giovani, simbolicamente, il suo ombrello, affinché li ripari dalle insidie della vita. Nei titoli di testa questo personaggio è indicato come «il signore con l’ombrello». Alla fine la protagonista dice: «Forse era un angelo».

Nel film ci sono diversi materiali interessanti. C’è una coppia di vagabondi che sembrano il gatto e la volpe di Pinocchio rivisitati da Fellini. C’è, all’inizio, il suono insistente di un carillon che poi, come si vedrà, sarà uno degli oggetti chiave della storia. C’è il contrasto tra il dramma a forti tinte e una diffusa ironia (il cane “antipoliziotto”…). C’è già una insistente ricerca imperniata sui volti, ripresi sovente in primo piano. C’è una grottesca figura di pastore-burocrate («Noi siamo molto tolleranti col pubblico – dice ipocritamente al processo, dopo aver negato attenzione e aiuto ai due giovani – ma vogliamo che i documenti siano in ordine») che ricorda ovviamente il padre di Bergman e che tornerà spesso nei suoi film. C’è, infine, l’attenzione al problema sociale dell’inserimento dei giovani nella vita e del conflitto tra le generazioni. In questa fase è uno sfondo ricorrente della poetica dell’autore. All’inizio dell’autunno 1946 Bergman si trasferì con Ellen a Goteborg, una cittadina del cui teatro egli fu nominato primo regista. Debuttò con Caligola di Camus, poi mise in scena anche alcuni suoi drammi. Per il cinema realizzò nel 1947 altri due film, ambedue di origine teatrale, grazie alla fiducia di Lorens Malmstedt: La terra del desiderio e Musica nel buio. Il primo racconta una storia d’amore. Il giovane marinaio Johannes torna in patria dopo sette anni di viaggio. Si riaffacciano i ricordi, specie dopo l’incontro con Sally, una ragazza che a suo tempo ha amato. Egli dichiara di amarla ancora, ma lei lo respinge. Johannes vaga sulla spiaggia ripensando al passato. Il film si dipana in un lungo flashback. Rivediamo Johannes, sette anni prima, alle prese con un recupero marittimo. Il padre, il capitano Blom, è assente, i marinai scalpitano ed egli assume il comando dell’operazione. Nel frattempo il padre si trastulla tra osterie e locali notturni. In uno di questi fa scoppiare una rissa e corteggia una sciantosa. È Sally, che egli porterà poi con sé incurante delle proteste della moglie e del figlio. Ma intanto un medico gli ha annunciato le drammatiche conseguenze di una malattia agli occhi. Blom annuncia a Sally la sua imminente cecità. Quando Sally va ad abitare nella barca della famiglia Blom scoppiano tra Johannes e il padre violente liti. Tra Johannes e Sally fiorisce presto l’amore, e questo acuisce l’astio tra padre e figlio. La moglie esorta il capitano a ravvedersi, a tornare a lei, ma egli rifiuta. I due giovani innamorati fanno progetti e fanno l’amore in un vecchio mulino. Poi Sally confessa al capitano il suo amore per Johannes. Ne segue una discussione animata; lei dice al capitano: «Non sei altro che un fallito». Si procede all’operazione di recupero e il capitano, addetto alla pompa mentre il figlio lavora sotto la chiglia in uno scafandro da palombaro, tenta di ucciderlo interrompendo il flusso dell’aria. Johannes è salvato dagli altri due ma il capitano, come impazzito, fa inabissare il relitto recuperato in mare, vanificando giorni e giorni di fatica e danneggiando tutta l’attrezzatura. Poi va a terra, raggiunge la sua garçonnière in città e la devasta. Là arriva ad arrestarlo la polizia, ma egli per sottrarsi alla cattura si butta dalla finestra. Si salverà, ma morirà pochi anni dopo. Dopo il drammatico episodio, Johannes decide di partire per l’India a bordo di una nave. Sally tornerà a cantare e a ballare nello squallido locale. Finisce il flashback e Johannes torna da Sally. Le ripete che l’ama e che vuole portarla via con sé: «Bisogna cercare di evadere quando ci sentiamo chiusi. Altrimenti il muro si alza e non c’è che buttarsi dalla finestra». La donna resiste, ma alla fine cede e accetta la proposta di rifarsi una nuova vita con lui. Salpa la nave con i due giovani a bordo. Il film si conclude con un volo di gabbiani e con una musica orientale in sottofondo. La giovinezza e il vero amore hanno trionfato sull’egoismo, sull’incomprensione, sulle traversie della vita.

È un film povero, realizzato con pochi mezzi. Un film semplice, lineare, didascalico. La morale è messa via via in bocca ai protagonisti. Johannes all’inizio dice a Sally: «C’è stata una gran tempesta stanotte. A volte ci vuole, pulisce l’aria». Sally, nel vecchio mulino, gli dice: «Dobbiamo aver qualcuno da amare. Se non lo abbiamo è come essere morti». Poi, quando Johannes sta per partire per l’India, aggiunge: «Ho la sensazione che non ci sia niente al mondo che possa veramente durare. So solo che ti amo, tutto il resto non conta». Alcuni temi cari a Bergman si fondono qui con il racconto, a tratti anche banale, dell’amore contrastato tra due giovani. C’è l’apologia dell’amore come unico ideale per cui vale la pena di vivere, c’è il contrasto tra genitori e figli, c’è il riferimento

a quel muro che ogni uomo, quando è sopraffatto dal suo egoismo, innalza attorno a sé per evitare il rapporto con gli altri. L’altro film, Musica nel buio, presenta la vicenda di un pianista che diventa cieco e di una ragazza orfana che conduce una grama esistenza di cameriera. Fu finalmente un successo, anche se modesto, grazie principalmente all’attivismo del produttore. Così la Svensk Filmindustri dette ancora fiducia a Bergman commissionandogli dapprima due sceneggiature (per i film di Molander La furia del peccato ed Eva), poi un film, Città portuale, tratto da un romanzo di O. Landsberg. Qui si suole individuare l’influenza del neorealismo italiano, così come per i precedenti il punto di riferimento è nei modi del realismo francese anteguerra, con particolare riguardo a Carné e a Duvivier4. Lo sfondo lo suggerisce, trattandosi appunto di un porto ripreso dal vero (fot. 2). È di scena una ragazza che tenta di suicidarsi gettandosi in mare dopo una serie di peripezie familiari e sociali (è uscita da un correzionale) e viene salvata da un giovane marinaio (fot. 3) con il quale si avvia verso una nuova vita. Tornano i temi del contrasto tra giovani e anziani e del disadattamento sociale. Lo scarso interesse destato nel pubblico indusse di nuovo la Svensk Filmindustri a tagliare i fondi al giovane regista. Venne in suo aiuto ancora una volta l’indipendente Lorens Marmstedt, che gli commissionò La prigione: finalmente un film tratto da un soggetto originale. È la prima opera di Bergman considerata veramente importante.

FOT. 2

FOT. 3

Siamo in uno studio dove si sta girando un film. Al regista, Martin, si avvicina un vecchio professore di matematica che egli non vede da tempo. È reduce da una clinica psichiatrica. Ha un’idea per un film, un film sull’inferno e sul diavolo. Dovrebbe cominciare con un proclama del diavolo che ha conquistato la Terra:

«Ordino che tutto rimanga nel medesimo stato». Più inferno di così… Le uniche alternative all’inferno in terra sono la fede in Dio o il suicidio. Ma Dio è morto, oppure è ridotto al silenzio, il che è lo stesso. Più tardi il regista riparla del progetto con Thomas, sceneggiatore-giornalista, il quale ha un’altra idea per un film da realizzare: la storia di una prostituta, Birgitte, conosciuta durante un’inchiesta. A questo punto la finzione si mescola con la realtà, il film da fare si confonde con le vicende del regista e dello scrittore. Birgitte è vittima dei soprusi del fidanzato Peter e della sorella Linnea, che sono arrivati al punto di ucciderle la bambina appena nata perché considerata scomoda e ingombrante. Il rapporto tra Thomas e la moglie Sofie si fa intanto sempre più instabile. Lui cerca di convincere la moglie al suicidio, ma lei gli rompe una bottiglia sulla testa. Thomas allora trova rifugio nell’amore di Birgitte. Insieme, in una soffitta dove si sono rintanati, hanno qualche momento di felicità guardando un vecchio film muto con un vecchio proiettore trovato in un angolo. Il film è una comica esilarante, ma tra i personaggi si annida minacciosa la morte. Birgitte racconta a Thomas un sogno fatto il giorno prima: «Camminavo in un bosco dove gli alberi mormoravano tristi. Poi mi accorsi che gli alberi erano in realtà una moltitudine di persone. Il vento portò via l’oscurità e mi trovai nel parco di un castello. Mi sentii felice. Una donna mi diede un astuccio con dentro una pietra. Ero tanto felice che stavo per piangere…». Birgitte e Thomas fanno l’amore. Poco dopo lei si sveglia di soprassalto perché ha avuto un incubo. Lo vediamo attraverso il suo racconto. Ci sono gli alberi-persone, c’è la donna che porge la pietra preziosa, c’è Thomas che non è Thomas, c’è una donna al di là del vetro che non sente e non vede. Un bambino piange, una mano prende nella vasca un bambolotto e lo stringe. Il bambolotto si trasforma in pesce quando viene spezzato. Birgitte si sente prigioniera e batte inutilmente coi pugni sul soffitto che sembra soffocarla. Peter e Linnea leggono sul giornale che è stato ritrovato il cadavere della bambina e temono che Birgitte li accusi. La cercano, la trovano, minacciano di incolpare della morte della piccola il suo Thomas. Birgitte, impaurita, torna con loro. Poi va in cantina e si uccide con un coltello, evadendo così da quella prigione che è la vita. Thomas torna da Sofie deciso a «ricominciare da zero» per recuperare il loro rapporto. Siamo di nuovo sul set del film. Il professore chiede se hanno preso in considerazione la sua idea. Martin risponde che il film non si può fare. Finirebbe con un interrogativo senza risposta. A chi rivolgerlo infatti? L’unica via d’uscita è credere in Dio. Ma il regista non è credente, perché ritiene che sia impossibile, e l’attore neppure, perché «sarebbe troppo facile». In questo caso, conclude il professore, non c’è via d’uscita.

La prigione è un film di grande importanza anche al di là del suo valore intrinseco, perché apre la strada a quello che sarà tutto il cinema di Bergman. Anticipa gli interrogativi esistenziali: il conflitto tra realtà vera e realtà rappresentata, il gioco della lanterna magica, l’allegoria della comica, la ricerca della felicità, le difficoltà della coppia, il sogno come specchio con cui confrontarsi. Anticipa inoltre stilisticamente molti dei “segreti” del cineasta, che fin da questo momento si dimostra maestro nel giocare con la luce e con i primi piani. Basti pensare al raggio luminoso che penetra nella cantina dove si è uccisa Birgitte, il cui corpo è al di sotto del raggio, e pertanto non ne viene neppure sfiorato. O a quegli accurati studi del volto femminile che qui già diventa autonomo mezzo espressivo. Erano gli anni in cui il cinema italiano scopriva il neorealismo e quello americano le spettacolari avventure a colori. Dalla Svezia giungeva un messaggio completamente diverso: o meglio sarebbe giunto, perché in realtà La prigione arrivò in Italia molto più tardi (una decina di anni dopo), quando Bergman era già noto per Il settimo sigillo e per Il posto delle fragole. Già nel 1948 rappresentava, ha scritto Claudio Sorgi, «una specie di summa della cultura nordeuropea con influenze universali»5. Rompendo i ponti con la tradizione cui era stato ancorato nei precedenti film, il regista imboccava un percorso nuovo e originale. Scavava dentro l’uomo, nel profondo della coscienza, o meglio dell’«anima», di cui già si parla in questo film per bocca di Thomas che nel lamentare il fallimento del matrimonio dice: «Perdiamo a poco a poco la nostra identità, quello che chiamiamo anima» e poi, rispondendo a Martin che gli consiglia di andare da uno psicanalista, aggiunge: «Non sono altro che chiacchieroni. Non possono darti un’altra anima». Il film non è un capolavoro. Risente, tra l’altro, come fa notare Renato Giovinazzo6, «sia di un certo compiacimento formale, sia di una spiccata dipendenza dalla letteratura svedese in voga negli anni Quaranta». Ma Bergman non bada molto alla confezione, al punto da provocare qualche confusione. Quel che gli preme è la sostanza. La sua scelta è già precisa: sono i temi di fondo della vita degli uomini. La sua offerta di interrogativi fondamentali è già generosa, e corrisponde a una sincera e dichiarata indisponibilità a dare risposte precostituite. Egli si pone, e cerca di porre il suo pubblico,

in stato di ricerca. L’interesse destato da La prigione indusse la Svensk Filmindustri a far lavorare ancora il regista, che in un paio d’anni poté realizzare ben quattro film. Il primo, Sete, ricavato nel 1949 dalle novelle di Birgit Tengroth, è un dramma familiare a due voci, che si svolge interamente nello scompartimento di un vagone letto. Confermando la predilezione per i treni7, che molto spesso appaiono nei suoi film, Bergman anticipa l’ambientazione di Il silenzio. Su questo blocco narrativo si incastrano una scena iniziale dei due coniugi nella camera da letto di un albergo e due flashback sul passato di lui e di lei, oltre a un’azione parallela che si sviluppa dall’evocazione del passato di lui. Lei, Ruth, ex ballerina, ha avuto prima del matrimonio un amante il quale l’ha lasciata incinta. Dopo l’aborto, la donna è rimasta sterile e ne ha ricavato un astio verso gli uomini che si ripercuote sul suo rapporto col marito (qui, come altre volte, Bergman indica l’aborto tra i peggiori mali del secolo). Lui, Bertil, un impiegato, prima di sposare Ruth ha amato Viola, una donna nevrotica che lo ha condizionato per sempre nei rapporti con l’altro sesso. Il viaggio in treno è un ritorno in Svezia dall’Europa meridionale attraverso la Germania ancora ossessionata dalle piaghe della guerra. A una stazione il convoglio è assediato da gente poverissima che parla una lingua sconosciuta (come avverrà in Il silenzio). L’esperienza obbliga Ruth e Bertil a guardarsi dentro e a recuperare un rapporto umano e sereno. Alla fine si ritrovano più consapevoli dei reciproci limiti ma anche, oscillando tra la rassegnazione e la fiducia, più uniti e forse convinti di poter ricominciare a vivere in una dimensione diversa. Parallelamente si snoda la vicenda di Viola, che finisce con un suicidio dopo squallide esperienze con uno psicanalista in cerca di avventure e con un’amica di tendenze lesbiche. Sul finale un sogno fa da snodo narrativo. Uccidendo la moglie con l’immaginazione, Bertil comprende che se quella, rifiutata alla luce della ragione, è l’unica liberazione dal vuoto d’amore, tanto vale riempirlo mediocremente ma con buona volontà, cercando di capirsi e di amarsi. La «sete» del titolo è la sete d’amore, che non può essere «colmata artificialmente, con viziose anormalità»8, come mostrerà con efficacia ancora maggiore Il silenzio. In Till glädje (Verso la gioia), l’altro film del 1949, un violinista che ha perduto tragicamente la moglie e una figlia per lo scoppio di una stufa a carbone (è interpretato magistralmente dal maestro Sjöström, fot. 4, che Bergman dirigerà ancora in Il posto delle fragole) rievoca il suo passato. È un viaggio nella memoria fatto di illusioni, delusioni, ripensamenti. Il fallimento coniugale è andato di pari passo con il fallimento artistico. Alla fine il protagonista deciderà più consapevolmente di dedicarsi con amore e con impegno alla figlia sopravvissuta e alla musica9. Sånt händer inter här (Ciò non accadrebbe qui) è dedicato invece ai problemi di una profuga che tenta di sfuggire al pedinamento delle spie comuniste nella Stoccolma della seconda guerra mondiale. È un film profondamente anticomunista, un film “a tesi” piuttosto insolito per Bergman, che però qui non firma né soggetto né sceneggiatura.

FOT. 4

In quel periodo furono messi in scena due testi teatrali di Bergman – Rachele e il fattorino del cinema (che costituirà il nocciolo del primo episodio di Donne in attesa) e Uscirsene a mani vuote. Un’estate d’amore

Era la calda estate del 1949 quando Bergman, che stava girando a Helsingborg gli esterni del film Verso la gioia, conobbe la giornalista Gun Hagberg: «una ragazza dieci e lode, bella, alta, sportiva, intensi occhi blu, riso aperto, disponibile, fiera, integra, piena di forza femminile ma sonnambula», la definisce nell’autobiografia10. La relazione continuò al ritorno in sede e poi in un soggiorno di tre mesi a Parigi (Gun doveva assistere alle sfilate di moda per conto di un settimanale e Ingmar doveva parlare con lo scrittore Vilgor Sjoman, dal cui primo romanzo si intendeva realizzare un film diretto da Molander). In quei novanta giorni Bergman fu colpito dal Misantropo di Molière («Il mio sistema circolatorio spirituale, prima collegato a Strindberg, gli aprì una sua arteria») e scrisse una commedia intitolata Joackim Naken dedicata a un regista del muto. Ma dal punto di vista sentimentale furono guai. Ellen scriveva da Stoccolma che i bambini erano malati. Il marito di Gun era precipitosamente tornato in Svezia. Una sera, a teatro, nella fila davanti ai due amanti, era seduta Ellen. I due fuggirono. Poi furono raggiunti da un avvocato della famiglia di Gun. Rientrata in Svezia, Gun cedette per la paura di perdere i bambini e tornò a casa. Lui prese in affitto un piccolo appartamento, dove si trasferì con quattro dischi, della biancheria sporca e una tazza da tè. Là scrisse Un’estate d’amore, che risente intensamente dello stato d’animo di quel periodo. La ballerina Marie si vede recapitare inaspettatamente un plico contenente il diario di Henrik, un giovane da lei amato durante un’estate di tredici anni prima e morto prematuramente per un banale incidente. In una giornata libera dalle prove, raggiunge lo chalet sul mare dove visse quei giorni d’amore e li rievoca con le lacrime agli occhi. Scopre che il plico le è stato inviato da un anziano zio che dopo la morte di Henrik l’ha indotta a una squallida relazione. Poi torna in città, riprende le prove, ha un colloquio con il suo maestro di ballo che cerca di convincerla a guardare in faccia la vita senza inseguire sogni lontani. A un giovane giornalista che le vuole bene consegna infine il diario, invitandolo a leggerlo. Se dopo egli vorrà ancora sposarla, accetterà. La donna rompe così la spirale dell’egoismo che l’aveva assalita dopo la morte del giovanotto. Lo zio le aveva detto: «Nella vita si può fare solo una cosa: difenderci, proteggerci alzando intorno a noi un muro che ci isola». Ma quel muro era diventato per lei una prigione. Ora ha superato la crisi. Sorride nuovamente alla vita, che vale la pena di essere vissuta. «Vorrei piangere – dice – disperdere con le lacrime la mia vacuità, cancellare questo periodo di tempo inutile. Se mi interrogo a fondo scopro quasi che sono felice».

Il film è il primo in cui Bergman dimostra di avere la piena padronanza delle sue possibilità espressive11. Fu accolto con un certo interesse alla Mostra del cinema di Venezia del 1952, presentato fuori concorso. È, per due terzi, il racconto commosso e sincero del grande amore tra i due giovani (fot. 5); per l’ultimo terzo è una riflessione, spesso amara, sulla vita e sul destino. Si è fatto un gran parlare, al riguardo, del pessimismo bergmaniano. In effetti il film è opera aperta. Propone modi diversi di concepire e affrontare la vita, non offre soluzioni precostituite. Ma suggerisce di non dimenticare la vita di tutti i giorni, la quotidianità. C’è sempre qualcosa che vale, suole raccomandare Bergman, al di sotto di ogni riflessione sui massimi sistemi. Dal punto di vista espressivo, l’opera è di grande intensità e bellezza. Il modo in cui è presentato e fotografato il paesaggio nordico ne fa uno dei protagonisti del film (fot. 6). Da notare infine l’uso della musica, dal Lago dei cigni di Čajkovskij (che accompagna le scene di balletto, fot. 7) ai brani di Chopin (che punteggiano i momenti romantici della relazione tra i giovani). Tre semplici arpeggi cadenzano la scena del dramma. Una prorompente musica orchestrale sottolinea il momento in cui la donna rompe i ponti con il passato dei rimpianti e decide di affrontare la vita con nuova energia. Quest’uso funzionale della colonna musicale tornerà spesso nei film di Bergman, perfino in Sussurri e grida, un’opera che secondo un pregiudizio diffuso sarebbe del tutto priva di musica.

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FOT. 6

FOT. 7

Dopo la realizzazione di Un’estate d’amore ci fu una lunga protesta dei produttori per una tassa statale sui divertimenti. Il cinema svedese si fermò e Bergman con esso. Fu licenziato dalla Svensk Filmindustri, tentò di ottenere l’incarico di direttore artistico del nuovo teatro di Lorens Marmstedt ma dopo un paio di fiaschi dovette rinunciare. Intanto la relazione con Gun continuava e la donna era rimasta incinta. Ottenuto il divorzio, andò ad abitare da Bergman con i bambini, che le erano stati affidati. Il regista si trovò a dover mantenere due mogli e cinque figli, più uno in arrivo. Si adattò a collaborare a soggetti e sceneggiature per altri e perfino a realizzare cortometraggi pubblicitari. Intanto curava ambiziosi allestimenti radiofonici e teatrali. Nell’ottobre 1950 mise in scena, tra l’altro, L’opera da tre soldi per l’inaugurazione dell’Intima Teater di Stoccolma, che era diretto da Marmstedt. Poi chiese un prestito alla Svensk Filmindustri. Glielo concessero, ma col vincolo di sottoscrivere un contratto per cinque film con paga ridotta. Donne in attesa

Fu durante la relazione con Gun che nacque Donne in attesa. Gun è infatti il modello cui Bergman si ispirò per il personaggio di Karin Lobelius. Il film, realizzato nel 1952, fu presentato l’anno successivo alla Mostra di Venezia dove fu accolto con freddezza. In una casa in riva al lago quattro donne (Annette, Rakel, Marta e Karin) attendono i loro mariti, che sono quattro fratelli. C’è anche la giovane Mary, sorellina di Marta, e c’è anche il giovane Enrik, figlio di Annette. Le quattro donne decidono di raccontare le loro esperienze coniugali. Annette, nonostante le apparenze,

confessa di avere col marito Paul un rapporto pessimo: «Non c’è mai stata vera comunione tra noi, mai un attimo di comprensione». Rakel racconta il momento della verità nei rapporti col marito Eghen. Fu quando un paio d’anni prima lei lo tradì con un giovanotto. In presenza del giovane, dichiarò al marito il tradimento e ne addossò la colpa a lui, alla sua frigidità. Il racconto si articola in due flashback. Nel primo vediamo l’incontro tra i due amanti nella casa in riva al lago, i loro approcci amorosi, le loro confidenze. Nel secondo assistiamo alla spiegazione tra marito e moglie. Lei dapprima parla di perdono reciproco, ma poi si irrita e si irrigidisce: «Non sono la tua schiava». Eghen, agitato, va a rinchiudersi nella rimessa con un fucile in mano. Si teme una tragedia, ma per fortuna Paul riesce a togliere il fucile dalle mani del fratello. Getta l’arma nel lago e invita Rakel a raggiungere il marito, a riconciliarsi con lui: «Gli ho detto che il peggio non è essere traditi, è vivere in solitudine». Fine del flashback. La situazione da quel giorno è migliorata? «Per lui forse no – risponde Rakel – ma per me sì. Tratto Eghen come un figlio, ho cura di lui. Ci sosteniamo a vicenda». La storia di Marta, nel successivo flashback, comincia con un frenetico cancan in un locale di Parigi. Assistiamo all’incontro tra Marta e Martin e al loro innamoramento. Un bacio, una statuetta in dono, una passeggiata in carrozzella, una gita in barca sul fiume, il sole che occhieggia tra le nuvole, una gaia visita in chiesa. Poi l’attesa del bimbo, un mazzo di fiori nelle mani di lei, lui che non arriva all’appuntamento. È a casa dove i fratelli sono andati a comunicargli la morte del padre. Ma Martin dice di non averlo amato, dichiara che non andrà al funerale. Gli fanno capire che il suo atteggiamento gli costerà economicamente caro. Quando i fratelli e le rispettive mogli escono, Martin dapprima piange, ma poi si mostra lieto, vuol festeggiare la notizia. Decide che andrà ai funerali, non perderà l’assegno mensile. Non dà a Marta neppure il tempo di dirgli del bambino. Si lasciano senza drammi. Vediamo poi Marta rimasta sola che si lava con frenesia, ascolta una musica sdraiata sul divano, tarda a rispondere al telefono. All’altro capo del filo c’è Martin che le chiede di sposarlo, ma lei rifiuta: «Non credo che sei pentito, non è colpa tua se sei un pazzo». Poi le doglie. Marta, sotto anestesia, sogna il cancan, una giostra, il telefono che squilla, la felicità col bambino e con Martin. Nasce il bambino, o meglio la bambina. Finito il ricordo, Marta racconta alle altre donne di aver poi sposato Martin, perché in fin dei conti lo amava. A questo punto la giovane Mary, ormai stanca di ascoltare la cronaca dei compromessi, lascia la compagnia e va dal suo Enrik con il quale progetta la fuga. Andranno a Copenaghen, a Parigi e poi in Italia, perché Enrik non accetta l’arida carriera aziendale prospettatagli dai suoi. Il terzo racconto, quello di Karin, si snoda in chiave comico-grottesca. Lei e il marito Fredrik, dopo la festa per il centenario dell’azienda, rientrando a casa restano chiusi nell’ascensore a causa di un guasto. Passano il tempo confessandosi reciprocamente i tradimenti, con eleganza, senza rancore. Poi si baciano, si abbracciano. In quel momento l’ascensore riprende a camminare e i due si ritrovano, discinti e un po’ buffi ma lieti, davanti a un gruppo di persone preoccupate e meravigliate. Davanti a loro si prepara una notte d’amore. Arrivano i quattro mariti, e nella casa sul lago si fa festa. Mary confida alla sorella maggiore il proposito di partire. Marta la supplica di non andare ma lei non recede. Parte con Enrik dicendogli: «Giurami che mi amerai sempre, che non mi tradirai mai, che non cederai a compromessi, che non ti degraderai mai». Montano in barca, ma l’imbarcazione ha qualche difficoltà di avviamento, si ferma in mezzo al lago. Paul commenta la partenza, rivolto a Marta: «Che vadano pure, faranno ritorno tra breve. Si godano l’estate in pace, verrà l’inverno presto e le delusioni li faranno tornare. Non devi piangere». Marta risponde che è un pianto di felicità. Vediamo nell’ultima inquadratura la barca ormai avviata che porta lontano i due ragazzi.

Donne in attesa, ingiustamente sottovalutato dalla critica del tempo (forse perché uscito all’estero in ritardo, nel 1960, sulla scia di opere successive consacrate come capolavori), è un film di rara bellezza e di grande interesse. È costruito secondo una rigorosa geometria. Protagoniste sono le donne, come spesso accade nelle opere di Bergman, molto sensibile alle pieghe più nascoste dell’animo femminile. Sono quattro donne: è già presente la predilezione di Bergman per il numero quattro che ritroveremo in Come in uno specchio, Il silenzio, Sussurri e grida e anche altrove. I personaggi maschili, quattro anch’essi, sono in secondo piano. Secondo una ben calibrata simmetria, le quattro donne raccontano i fallimenti nella vita coniugale a una a una. Ma dal primo al quarto racconto si assiste a un progressivo affievolimento del dramma, che via via si fa commedia. È un procedimento diverso dalla consuetudine narrativa che vede il dramma e la tragedia dipanarsi via via partendo da un’ipotesi di iniziale serenità o gioia. Qui si procede al contrario, studiatamente, appropriatamente. La prima confessione, quella di Annette (la donna più anziana, fot. 8), è la più tragica e anche la più rapida. Non c’è bisogno neppure del flashback. Il fallimento è totale, resta solo l’ipocrisia della maschera esteriore che

consente di fingere un rapporto normale; sotto non c’è nulla. La seconda confessione, quella di Rakel, è dolente e drammatica: storia di un tradimento conseguente a una crisi di rapporti instaurata sul piano fisico (la frigidità della coppia a dispetto della non frigidità dei coniugi presi singolarmente, fot. 9) e trapiantata poi sul piano psicologico e su ogni risvolto della vita a due. La crisi viene risolta quando la donna cambia atteggiamento e si pone in una condizione protettiva, materna, per continuare a credere che Eghen è lo scopo della sua vita. Il terzo racconto è più gioioso, specie nella prima parte dell’incontro spensierato di Marta e Martin a Parigi (fot. 10). È una pagina di cinema magistrale, dove non c’è bisogno di parole: solamente immagini e musica per raccontarci un’intera storia d’amore. Le parole arrivano quando comincia l’incomprensione, il distacco. Molte altre volte Bergman denuncerà le parole come mezzo inadatto a comunicare, ed esalterà invece la musica come mezzo privilegiato per la comunicazione, e specialmente per una “trasfusione” d’amore tra due esseri umani. Il quarto racconto è il più gaio, perché giocato in una chiave sospesa tra il comico e il grottesco. I due partner, Karin e Fredrik, sono smaliziati (fot. 11). Tengono in piedi un rapporto superficiale e banale, ma tutto sommato accettabile. Il tradimento non è un dramma; il recupero del senso della vita coniugale avviene sul filo del paradosso, in una situazione decisamente inconsueta e straniante. Qualcosa rimane, anche se è ben poco.

FOT. 8

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La chiave del racconto è da ricercarsi però fuori del quartetto, in una coppia di giovanissimi la cui presenza attraversa orizzontalmente la trama. Mary ed Enrik fuggono dal compromesso, dall’ipotesi di una vita a due dominata dalla convenienza e dall’ipocrisia, dai problemi non risolti. Vogliono costruire un rapporto nuovo, sognano un matrimonio diverso, puro, felice. I profeti di sventura che spesso si sono accaniti contro l’opera bergmaniana attribuendole un pessimismo oltre il dovuto, segnalano il simbolo della barca che non riesce a partire. Certo: Bergman avverte che l’utopia non è a portata di mano. Ma il film finisce con l’immagine della barca che finalmente procede verso la meta (fot. 12). È vero che mentre i giovani si allontanano Paul dice: «Torneranno, quando l’estate sarà finita», ma è pur vero che Marta nel vedere la barca che si allontana assapora ella stessa un briciolo di felicità. Ed è sul suo «Sono felice» che il film si conclude, lasciando naturalmente come sempre allo spettatore il compito di trarre le conclusioni.

FOT. 12

Monica e il desiderio

Monica e il desiderio costituisce il prolungamento ideale di Donne in attesa, oltre che di Un’estate d’amore. Il titolo italiano, equivoco, è meno felice di quanto sarebbe stata la traduzione letterale di quello svedese: L’estate con Monica. È ancora una volta una storia d’amore, segnata dalla disillusione. È ancora una volta la storia di due giovani in conflitto con una società ostile. È ancora una volta una riflessione amara su quel che viene dopo il dolce calore dell’estate. Film molto discusso, ha diviso la critica. In Italia fu proiettato soltanto nel 1961, e le recensioni furono affidate ai vice. Ma nelle riletture successive è stato ripreso in considerazione con più interesse. I titoli di testa scorrono su immagini di un porto e di gabbiani in volo. Nella città portuale si incontrano in uno squallido caffè Monica e Henry, due commessi. Vivono una vita grama. Lui è orfano di madre fin da piccolo e vive con il padre malato. Lei fa parte di una famiglia troppo numerosa e rumorosa dominata dalle intemperanze di un padre ubriacone e da continue liti e scenate. Henry attacca discorso con Monica, le accende una sigaretta e lei vola con la fantasia: «La primavera è arrivata. Vorrei andare a vagare in un mondo senza meta». Decidono di andare al cinema a vedere Amore infinito. Tornato al lavoro, Henry viene rimproverato. Al cinema, più tardi, lui sbadiglia e lei piange. Ma la commozione della ragazza cessa subito dopo, quando ella si sofferma davanti a una vetrina a rimirare una camicetta che non può acquistare perché costa troppo. Al secondo incontro Henry invita Monica a casa sua. Le regala un paio di calze che lei indossa subito. Si abbracciano ma sono disturbati dal padre di Henry che rientra all’improvviso. Henry accompagna Monica a casa. Per strada sono infastiditi da un giovanotto. Ne nasce una colluttazione tra i due ragazzi. Nel negozio Monica respinge le avance di un corteggiatore. A casa trova la solita confusione. Allora fa le valigie e se ne va. Sul portone trova Henry. È la fuga. Henry va a casa della zia a prendere un sacco a pelo. Si fanno licenziare e a bordo di un motoscafo lasciano la città. «Sono pronta per il giro del mondo», dice Monica. Ora sono su un’isola, a contatto con la natura, lieti per la completa libertà di cui godono. Monica fa il caffè sulla sabbia, si lava nel mare, si specchia nell’acqua. Il cielo si fa minaccioso, scoppia un temporale. Ma torna il sereno. «Pensa, a quest’ora lavorano tutti – dice Henry. – Noi ci siamo ribellati contro loro e contro tutti». Scherzano, fanno il bagno, Henry si fa la barba, mangiano funghi, fanno l’amore. Col motoscafo raggiungono un locale dove si fermano a fare due salti. Ma poi preferiscono continuare a ballare da soli su un molo abbandonato. Monica annuncia di essere incinta. Henry consiglia di tornare a casa ma lei si rifiuta: «No, voglio godermi l’estate fino all’ultimo». Inseguono un sogno di felicità simboleggiato dall’inquadratura della barca che si allontana lentissimamente fino a diventare un puntino all’orizzonte. Ballano sul prato seguendo la musica di un valzer di Strauss diffusa da un grammofono a tromba. Uno sconosciuto tenta di dar fuoco al loro motoscafo. I due uomini si battono a sangue. Lo sconosciuto fugge e i due giovani si baciano. Monica ed Henry bevono e cantano, un po’ brilli. Poi Monica confessa di essere stufa di vivere in un modo così scomodo e di mangiare nient’altro che funghi. Propone un piccolo furto nel frutteto di una famiglia benestante che abita al di là del braccio di mare. Mette in atto il suo progetto, ma viene scoperta e quindi minacciata di denuncia. Riesce comunque a fuggire portando via un pezzo d’arrosto che, nascosta nel canneto, addenta voracemente. Passa del tempo prima che Henry arrivi col motoscafo a metterla in salvo. Lei, fatua e superficiale, piagnucola e si lamenta: «Sono così stufa di tutto. Avrò anche un figlio. Tante complicazioni e neanche un vestito da mettermi. Perché tanti se la spassano allegramente mentre altri vanno in malora?». Ma non vuole ancora tornare in città. Finisce anche il tè. Sta per finire perfino la benzina per il motoscafo. «L’ultimo film che abbiamo visto – ricorda Monica – è La donna dei sogni». «Già – risponde Henry. – Abbiamo sognato anche noi». Tornano in città. La zia di Henry li accompagna da un pastore che accetta di sposarli una volta rispettata la prassi burocratica. I due vanno a vivere in una casa della zia di Henry. Nasce una bella bambina di quattro chili, che però di notte piange e impedisce a Henry di dormire. Monica non si occupa della piccola e neppure pensa di tornare al lavoro. Si lamenta di non avere vestiti, si lamenta perché Henry la trascura, occupato com’è nel lavoro e nello studio. «Io faccio quello che posso», si giustifica il marito. La dura realtà ha distrutto il sogno. Monica comincia a frequentare locali equivoci. In una lunga sequenza in cui Monica guarda dallo schermo verso gli spettatori si intuisce il suo dramma. Henry, di ritorno da un viaggio di lavoro, non la trova in casa. Quando lei rientra, lui la accusa di adulterio: lei non nega. Confessa di amare ancora una vecchia fiamma. Henry la picchia. Monica se ne va.

La zia vende i mobili per la strada perché Henry lascia l’appartamento. Andrà a vivere con la bambina nella casa del padre. Il giovane si guarda allo specchio. Rivede il mare, la spiaggia, ripensa al rapporto d’amore con Monica. Rivede il motoscafo che lentamente si allontana.

Il film è un po’ discontinuo. A tratti sembra cadere nella trappola melodrammatica che pure l’autore si affretta a deplorare con i ripetuti accenni a un certo cinema di serie B sui cui miti si sono formati i due giovani. È da apprezzare la semplificazione stilistica e tematica, anche se a volte, come nota Alfonso Moscato, «può sembrare eccessivo il parallelismo tra la natura e l’animo della protagonista»12. «Un film minore», niente più che «un solo, efficace, studio di donna», dice Mario Verdone13. «Un dramma insieme bislacco, discutibile e commovente», osserva Giacinto Ciaccio14. Ma Jean-Luc Godard, sull’onda di una retrospettiva organizzata dalla cineteca francese, riabilita apertamente l’opera sostenendo che in essa Bergman si rivela ancor più che altrove come «il cineasta dell’istante». «Ognuno dei suoi film – scrive – nasce da una riflessione dei protagonisti sul presente, approfondisce tale riflessione attraverso una sorta di frantumazione della durata, un po’ alla maniera di Proust, ma con maggior forza, come se Proust fosse stato moltiplicato da Joyce e Rousseau insieme, e infine diventa una gigantesca e smisurata meditazione a partire da un’istantanea. Un film di Bergman è, per così dire, un ventiquattresimo di secondo che si trasforma e si dilata per un’ora e mezza. È il mondo fra due battiti di palpebre, la tristezza fra due battiti di cuore, la gioia di vivere tra due battiti di mani»15. Godard fu affascinato dalla sequenza in cui Monica (interpretata da Harriet Andersson) fissa ostinatamente la macchina da presa, cinque anni prima di Gelsomina (Giulietta Masina) in La strada (di Federico Fellini, 1954), chiamando gli spettatori a testimoni del disgusto di chi sceglie l’inferno contro il cielo: «è l’inquadratura più triste di tutta la storia del cinema» (fot. 13). Quanto all’uso funzionale del paesaggio, Godard osserva che Bergman è l’unico cineasta moderno che non rifiuta i procedimenti cari agli avanguardisti degli anni Trenta: sovrimpressioni alla Delluc, riflessi nell’acqua alla Kirsanoff, controluce alla Epstein (fot. 14). «Non sono – aggiunge sempre Godard – giochi gratuiti della macchina da presa o prodezze dell’operatore. Bergman sa sempre integrarli alla psicologia dei personaggi nell’istante preciso in cui deve esprimere un sentimento preciso». Si noti, ad esempio, l’utilizzo di diverse inquadrature soggettive dalla barca, quasi a pelo d’acqua, all’alba, per esprimere il piacere di Monica nell’attraversare in motoscafo Stoccolma che si risveglia (fot. 15), e più tardi la riproposizione di inquadrature quasi identiche, ma nel senso opposto ovviamente, quando Monica, stanca e disgustata, ritrova Stoccolma che si addormenta (fot. 16).

FOT. 13

FOT. 14

FOT. 15

FOT. 16

Una vampata d’amore

Nel 1953 l’aspirazione di Bergman a essere assunto al Dramatiska Teatern di Stoccolma fallì definitivamente per la sostituzione del direttore che gli aveva fatto delle promesse. Allora accettò l’offerta del Malmö Stadsteater, uno dei principali teatri europei, che lo assunse come regista (manterrà l’incarico otto anni, per un totale di tredici regie). Qui ebbe modo di perfezionare la collaborazione con alcuni attori affermati e ne lanciò altri costituendo così il nucleo degli interpreti abituali dei suoi film: Gunnel Lindblom, Max von Sydow, Ingrid Thulin, Harriet e Bibi Andersson. A poco più di trent’anni aveva alle spalle già una ventina di film. D’inverno metteva in scena commedie e drammi a teatro; d’estate, preferibilmente servendosi degli stessi attori, si dedicava al cinema. Forse per questo molti film del periodo hanno come sfondo e argomento l’estate, che, tra l’altro, si presta a un certo modo di fotografare uomini e cose, e nello stesso tempo corrisponde anche a uno stato d’animo del regista, che nel passaggio dall’estate all’inverno vede il mutamento dalla giovinezza all’età adulta (anche la sua personale). Nel 1953 mise in scena al teatro di Malmö Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello e Il castello di Kafka nell’adattamento di Max Brod. Per il cinema realizzò un film ambientato nel mondo del circo. La traduzione letterale del titolo svedese è Sera di un saltimbanco. In Italia divenne, per una stravaganza del distributore, Una vampata d’amore. In una specie di prologo vediamo una donna d’età che fa il bagno nuda, circondata da un gruppo di militari che la beffeggiano. È Alma, moglie del clown Frost. Questi interviene, vestito e truccato da pagliaccio, la prende in braccio, tenta a fatica di portarla sotto il tendone, ma non ce la fa e tutti e due cadono. Soccorsi da altri guitti, sono riportati nel circo. Segue la vicenda del direttore del circo, Alberto, e dell’amante Anne. Il rapporto tra i due è minato dalla gelosia e dalla stanchezza. Quando il circo raggiunge la città dove abita la moglie di Alberto, Agda, questi va a trovarla e le dice che vorrebbe tornare da lei, per vivere una vita decorosa e stabile. Agda lo respinge. Intanto Anne l’ha tradito con l’attore Frans. Col teatro locale Alberto aveva già avuto un rapporto negativo quando era andato a chiedere in prestito alcuni costumi ed era stato trattato altezzosamente. Frans, in realtà, prende in giro la donna, regalandole un gioiello apparentemente di valore, ma in realtà falso. Poi attacca Alberto. Lo deride, lo aggredisce, lo percuote sulla pista lasciandolo dolorante nella polvere. Alberto si ritira nel carrozzone deciso a suicidarsi. Ma poi all’ultimo momento rivolge la pistola contro un orso uccidendolo. Il giorno dopo il circo si rimette in cammino con tutto il suo carico umano di dolori, di umiliazioni, di delusioni.

Film tristissimo, fu definito dalla critica francese come la più perfetta delle opere “nere” di Bergman. Di scena un’umanità infelice, prigioniera di una condizione inferiore, incapace di superarla. C’è una storia d’amore come negli ultimi film, ma già aleggia qualcosa di più, di diverso, che prenderà corpo nei film successivi a partire da Il settimo sigillo. Siamo già di fronte a un tentativo abbastanza felice di introspezione nei misteri della psiche umana. Il mondo del circo rappresenta un po’ il mondo del teatro cui tanto spesso Bergman fa riferimento. L’altalena realtàfinzione, teatro-vita è ben presente come fonte di meditazione al di là del dipanarsi della trama. «Il romanticismo, trionfante o residuale, dei film precedenti – osserva Alfonso Moscato – è completamente superato da una forma di aggressività estetica che si esprime attraverso l’espressionismo delle immagini (fot. 17), la virulenza della recitazione (fot. 18) e quella specie di sadismo con il quale vengono scarnificati, umiliati, annientati il personaggio e l’umanità che esso rappresenta»16.

FOT. 17

FOT. 18

Una lezione d’amore

Nel 1954 Bergman mise in scena al teatro di Malmö, tra l’altro, una Vedova allegra e un balletto intitolato Giochi crepuscolari. Nel cinema abbandonò il dramma per la commedia. Nacque il lieve Una lezione d’amore. Suona un carillon, tre pupazzi piroettano lentamente seguendo la musica. In attesa dei titoli di testa una voce fuori campo avverte: «È una commedia che potrebbe diventare una tragedia. Ma tutto si risolve in bene. E perciò è una commedia. Non l’autore, non i suoi personaggi, ma la vita con i suoi piccoli trucchi e le sue complicazioni è la maestra che impartisce questa lezione». «Disgraziato!» esclama Susanne rivolta all’amante, il ginecologo David, che vuol interrompere la relazione. «Pretendi di essere un ginecologo – prosegue – e non hai mai capito una donna in vita tua! Uno che in tutta la vita deve guardare le donne in una prospettiva capovolta è inevitabile che diventi un po’ suonato». La donna è molto delusa, vede sfumare un matrimonio in cui aveva sperato. Tenta di giocare le ultime carte, ma l’uomo ha deciso. Sull’orlo del divorzio, vuole riconciliarsi con la moglie, Marianna. Entra nello studio un’altra paziente, ma lui se ne va in fretta e furia. «Si tratta – esclama – di vita o di morte». Sale sull’auto guidata dall’autista e si abbandona ai ricordi. In un flashback vediamo il primo incontro tra lui e Susanna, che comincia con una schermaglia verbale e finisce con un lungo bacio. In un altro flashback vediamo una felice estate dei due amanti. Guardano le stelle, remano, mangiano, nuotano, si amano. Intanto l’auto raggiunge la stazione. David prende il treno per Malmö dopo aver detto all’autista di tornare a

prenderlo la sera a Copenaghen. In treno siede accanto a una donna (più tardi sapremo che è la moglie). Un passeggero scommette con lui che riuscirà a baciare la donna prima di Malmö. Dal libro che David sta leggendo cadono due fotografie raffiguranti i due figli: Puccio e Nix. Ne nasce un altro ricordo per immagini. Vediamo David che va a trovare la famiglia in villeggiatura. Incontra la figlia Nix, una quindicenne maschiaccia e ribelle che preferirebbe essere uomo e che mal sopporta l’atmosfera tesa dell’instabile ménage familiare. Ha deciso di andarsene insieme con il cane Tax. Padre e figlia passano la giornata insieme, vanno a trovare un parente vasaio. Nix racconta al padre la delusione provata perché un’amica si è sposata ed è diventata «una ridicola signora che si tinge le labbra e va in giro con un due pezzi di due misure più stretto del necessario». Poi informa che la mamma va tre volte alla settimana a Copenaghen per incontrarsi con lo scultore Carlo Adamo, una vecchia fiamma. «È naturale che abbia un amante – dice Nix al padre – come ce l’hai tu». Vediamo di nuovo la scena del treno. Rientrano Marianne e il passeggero. Questi è stato respinto e paga la scommessa. Marito e moglie fingono di non conoscersi, fingono un primo approccio. David scommette di nuovo col passeggero: sarà lui, questa volta, a tentare di baciare la donna. Segue un flashback con un ricordo di Marianne. Vediamo il momento in cui la donna scoprì il tradimento del marito e sorprese i due amanti insieme in albergo.

Di nuovo in treno. Marianne dice di essere seccata del viaggio del marito a Copenaghen «per spiarla». Lui la rimprovera per il tradimento e cerca la riconciliazione. Lei gli rinfaccia questa massima: «L’amore è una spasmodica smorfia che finisce in uno sbadiglio». Ma lui non demorde. Decidono di baciarsi per vincere la scommessa. Ma il bacio si prolunga oltre il dovuto. Ancora due flashback: la scena del matrimonio di Marianne con Carlo Adamo (che però non si fece perché all’ultimo momento la donna si accorse di amare David) e poi una festicciola in famiglia in occasione del compleanno del nonno, con tanto di picnic. Qui vediamo tra l’altro Nix che domanda al nonno se crede in Dio e il nonno che le risponde: «Sì, se per Dio intendi tutto ciò che è vita. Credo in questa vita, nella vita eterna, in ogni tipo di vita. La morte è solo una frazione della vita. Pensa che noia se ogni cosa fosse sempre la stessa. Ecco, la morte rinnova la vita per l’eternità». Il treno arriva a Malmö. Ad attendere Marianne c’è Carlo Adamo. Vanno a Copenaghen tutti e tre insieme. David non vuole lasciare soli i due amanti e tutti finiscono in un locale notturno. Marianne scopre che è stato David a mandare a Carlo Adamo il telegramma per l’appuntamento a Malmö. Carlo Adamo fa ubriacare David e lo fa corteggiare da una sua amichetta. Marianne si ingelosisce, diventa feroce e si abbandona a una scenata. Prende il marito a schiaffi, si mette a piangere. I due alla fine si abbracciano. Arriva l’autista e dice che è tutto pronto. Difatti li porta in un grande albergo dove David ha pensato a prenotare una stanza per la notte. Champagne per due. Il film si conclude con l’ingresso di Cupido nella camera dei due coniugi.

Non è altro che la dilatazione a un’ora e mezza dell’ultimo episodio di Donne in attesa. Perfino gli interpreti, Björnstrand e Dahlbeck, sono gli stessi. Operina graziosa, si segnala per la raffinatezza dell’incastro e per l’intelligenza del dialogo. Col sorriso sulle labbra si racconta una gravissima crisi coniugale. I ritorni indietro sono continui, e non sempre perfetti. Vediamo ad esempio una lunga scena tra Nix e il nonno che non potrebbe far parte del sogno di David né di quello di Marianne, in quanto nessuno dei due è presente. E vediamo uno scompartimento ferroviario più simile a una immobile quinta teatrale che a una ricostruzione fedele (fot. 19). «La prima impressione che si riceve del film – scrive Nino Ghelli – è quella di una inconsueta sciatteria formale. E viceversa, a un esame più approfondito, appare evidente che anche sotto il profilo formale il film è costruito con estrema attenzione e sorvegliatezza e che fa parte del programma dell’autore la rinuncia al conseguimento di effetti di particolare vigore figurativo per conferire all’opera una atmosfera vagamente familiare e dimessa»17.

FOT. 19

Tono da cronaca familiare, dunque? O anticipazione del cinema da camera? Non direi. Piuttosto stile di film povero in cui la ricchezza è data più dal dialogo che dal contorno. E il dialogo è affascinante, coinvolgente, appassionante. «È una lezione sostanzialmente buona – osserva Guido Sommavilla – ma anche bella, diventata tutta poesia. E cioè intelligente, divertente, a momenti anche tremenda, narrata e recitata in ogni suo punto molto bene (teatralmente, se non sempre cinematograficamente), ricca di molte piccole verità e anche di qualche grande verità»18. Se le situazioni sono simili a quelle di certo cinema americano di consumo, lo svolgimento è invece più vicino allo stile del vaudeville, rivisitato alla luce dell’esperienza del teatro svedese19. È un Bergman insolito, almeno per questo periodo, ma non un Bergman disattento alle tematiche di fondo che più gli interessano e che troveranno modo di essere sviluppate più in profondità in opere successive. Basti pensare alla meditazione del padre di David sulla morte, all’insofferenza della giovane Nix per l’ipocrisia, all’incongruenza del ginecologo che non capisce le donne, al dialogo tra padre e figlia che anticipa in qualche modo certe situazioni di Come in uno specchio.

Sogni di donna

Bergman continuava ad alternare gli inverni teatrali e le estati cinematografiche. Nei periodi liberi dagli impegni con lo Stadsteater di Malmö, realizzò anche Sogni di donna. «Avevo carta bianca – scrive nell’autobiografia – la mia vita privata non esisteva praticamente più, vivevo immerso in uno sforzo collettivo in cui tutto era diretto a fornire efficaci rappresentazioni»20. È la storia di due donne innamorate. Susanna, direttrice di un atelier, ama Henrik, un uomo sposato. Per vederlo va con un pretesto nella città dove egli risiede. Insieme con lei parte Doris, un’indossatrice reduce da un litigio col fidanzato. Susanna telefona all’amante e lo incontra in un albergo. All’inizio i loro rapporti sono un po’ freddi, ma poi si riscaldano e i due decidono di fare un viaggio insieme. Ma arriva la moglie di Henrik, che ha scoperto il tradimento. Convince il marito a tornare a casa e Susanna resta profondamente scossa. Doris, nel frattempo, incontra per la strada un anziano signore che le regala vestiti e gioielli, la porta a casa dove trova la figlia, una donna cinica e corrotta con la quale la ragazza ha un diverbio. Doris se ne va. La rivediamo il giorno dopo tornata in città, riconciliata col fidanzato. Susanna, dal canto suo, straccia la lettera con la quale Henrik la invitava al viaggio.

Non aggiunge molto al mondo poetico bergmaniano, ripropone temi abbastanza consueti: il rapporto uomo-donna, le delusioni dell’amore, la necessità un rapporto non effimero con il partner, la contrapposizione fra le donne, sensibili e sincere, anche se infantilmente suggestionate dal sogno, e gli uomini freddi, calcolatori ed egoisti. Dall’incontro-scontro tra l’immaturità femminile e l’aridità maschile nasce la crisi della coppia, che sarà un tema dominante di tanti film bergmaniani. Sorrisi di una notte d’estate

Il film che rivelò Bergman ai pubblici di tutta Europa è Sorrisi di una notte d’estate (1955), premiato a Cannes per «l’umorismo poetico». L’avvocato Fredrik Egerman ha sposato una donna giovanissima, Anne. A casa c’è il nipote di Fredrik, il giovane Henrik, studente di filosofia, che simpatizza con lei. Fredrik, un po’ geloso, si consiglia con una antica fiamma, l’attrice Désirée. Lei ha un figlio di nome Fredrik, ma non ammette di averlo avuto dall’avvocato. Mentre è dall’attrice, Fredrik viene sorpreso dal conte Malcom, un focoso dragone, anch’egli amante della donna. La moglie di Malcom, la contessa Charlotte, va a riferire ad Anne l’incontro di Fredrik con Désirée. L’attrice, desiderosa di riconquistare l’avvocato, prega la mamma di dare un ricevimento nella villa e di invitare tutta la compagnia. Désirée mette a punto con Charlotte un piano per la riconquista dei rispettivi uomini. A tavola si parla d’amore. Il giovane Henrik, che ama Anne e teme di non essere ricambiato, si adira, lascia la sala e tenta il suicidio. Poi però i due si incontrano e si dichiarano: fuggiranno insieme. Charlotte ha intanto scommesso di riuscire a conquistare Fredrik e in effetti lo attira in un padiglione. Malcom li scopre e sfida Fredrik alla roulette russa. Arriva il turno di Fredrik, ma si scopre che la pistola è caricata a salve. Malcom si riconcilia con la moglie e Fredrik con l’attrice. Intanto la servetta Marta, un simpatico personaggio da commedia dell’arte, ha conquistato anch’ella il suo uomo, il maggiordomo Fritz.

Opera raffinata ed elegante, a metà strada fra la commedia e il dramma ma più vicina alla commedia, il film fu osannato dalla critica, che vi trovò tracce di illustri antenati, forse anche troppi: da Strindberg a Kafka, da Renoir a Clair, da Shakespeare a De Musset, da Laclos a Pirandello, da Beumarchais a Marivaux. Si coniò perfino il termine di «satira filosofica» o addirittura «metafisica» contrapposta a quella «realistica» di Renoir. Si scomodò perfino Cocteau21. In effetti, oltre a essere grazioso, il film è anche colto, e certamente si propone non come un puro divertimento, ma come un’occasione per riflettere sull’amore e sui rapporti umani. Questa volta le coppie in crisi sono tre (era una in Una lezione d’amore, erano due in Sogni di donna), e la progressione è certamente voluta22. Il racconto, come quasi sempre in Bergman, è coniugato al femminile. È una donna infatti, Désirée, che conduce la danza e, insieme con altre donne, finisce per ottenere l’uomo desiderato. La ricomposizione delle coppie, sul finale, risponde perfettamente alle esigenze dei personaggi femminili, al loro ideale di partner e d’amore. Fa da sfondo alla vicenda quanto l’attrice dice, recitando in teatro, all’inizio del film: «L’amore è come un giocoliere

con tre clave: cuore, parole, sesso. È molto facile giocare con le tre clave, ma è anche molto facile farne cadere una per terra». Dalla bocca di un personaggio secondario, Fritz, il maggiordomo, che però nell’universo bergmaniano rappresenta il semplice, la persona più vicina all’istinto e alla natura, apprendiamo, verso il finale, che la notte d’estate ha tre sorrisi. Il primo sorriso è per i giovani innamorati che si giurano a vicenda eterno amore. Il secondo sorriso è per gli incoscienti e gli sciocchi senza alcuna speranza. Il terzo sorriso è «per tutti coloro che hanno trovato pace e gioia di vivere in un’anima a loro gemella». Con queste parole si chiude ottimisticamente il film, ma tra i pupazzi di un orologio a carillon mostrato un paio di volte in primo piano c’è anche il triste presagio della morte (fot. 20).

FOT. 20

Non bisogna prendere esageratamente sul serio tutti i simboli e tutte le allusioni bergmaniane, anche perché lo stesso autore ha spesso messo in guardia contro i tentativi di capire troppe cose. Ma certamente in questo film si legge la favola della vita. La breve estate svedese non è che la vita dell’uomo, e se la vita è un gioco bisognerebbe rispettarne le regole e conoscerne tutti i segreti. Per quanto riguarda l’amore, suggerisce Bergman, pochi ci riescono, e comunque sono sempre le donne a giocare meglio degli uomini. II film è impreziosito da una splendida fotografia in bianco e nero (che usa i pochi esterni in funzione espressiva, fot. 21) e dalla ragguardevole interpretazione di tutti gli attori, fra i quali troviamo alcuni di coloro che saranno le colonne del cinema bergmaniano per molti anni, come Bibi Andersson e Gunnar Björnstrand. Nell’insieme l’andamento è piuttosto teatrale e i personaggi si muovono più della macchina da presa. Ma il film prende il volo nel momento del pranzo alla villa, quando un sapiente ricorso ai primi piani ci introduce nella sfera dei sentimenti individuali, delle passioni vere, dei drammi grandi e piccoli, palesi o nascosti (fot. 22). E l’autore ci fa capire che al di là dello scherzo c’è la proposta seria di una riflessione sulla solitudine, sulla difficoltà di amare veramente, sulla precarietà dei legami superficiali.

FOT. 21

FOT. 22

Il settimo sigillo

L’idea venne a Bergman contemplando gli affreschi delle chiese medievali: menestrelli ambulanti, appestati, flagellanti, streghe sul rogo, crociati e poi la Morte che gioca a scacchi. Il soggetto deriva peraltro da un atto unico scritto da lui stesso nel 1954 per un saggio di recitazione degli allievi dell’Accademia Drammatica di Malmö. Era una breve rappresentazione scenica di una cinquantina di minuti, intitolata Pittura su legno, e servì molto bene per l’uso cui era destinata. Conteneva parti per tutti gli allievi. Ce n’era una anche per il meno dotato: quella del cavaliere muto perché i saraceni gli avevano mozzato la lingua. Un paio d’anni dopo Bergman, mentre ascoltava il disco dei Carmina burana di Orff, ebbe l’idea di trasformare Pittura su legno in un film. Ma il produttore non ne volle sapere. Poco dopo Sorrisi di una notte d’estate veniva presentato a Cannes e gratificato da un grande successo. Forte del risultato ottenuto, Bergman ripropose il soggetto di Il settimo sigillo. La risposta fu positiva, a patto che la realizzazione non durasse più di trenta giorni. Così fu. «È un film disuguale cui tengo molto – dice Bergman – perché venne girato con mezzi poverissimi, facendo appello alla vitalità e all’amore. Nel bosco notturno dove viene bruciata la strega si intravedono tra gli alberi le finestre dalle case di Rasunda»23. Il film consolidò la fama del regista. Ebbe al Festival di Cannes del 1957 il Premio speciale della Giuria e nel 1958 ricevette il Gran Premio dell’Accademia francese del cinema. In Italia, dove fu proiettato quattro anni dopo, ricevette il Nastro d’argento; in Spagna, a Valladolid, il Labaro d’oro. Il Cavaliere Antonius Block sta tornando a casa dopo una Crociata. È sfiduciato, stanco, deluso. Lo vediamo in riva al mare con il suo scudiero, Jöns, mentre una voce fuori campo legge alcuni versetti dell’Apocalisse. È l’alba, il cielo è nuvoloso, il mare mosso. Il Cavaliere prega in ginocchio, a mani giunte. Sopraggiunge la morte: è venuta a prenderlo, è da molto che lo segue. Block dice di non essere pronto: «Il mio spirito lo è ma non il mio corpo. Dammi ancora del tempo». Sfida la morte a una partita a scacchi: sarà salvo finché la partita durerà. Cavaliere e scudiero ripartono. Lo scudiero canta una canzone e racconta episodi terribili e misteriosi. Si imbatte in una persona accovacciata per terra, la tocca e si accorge che è morta. Il saltimbanco Jof sta parlando col suo cavallo quando ha la visione celestiale della Madonna col bambino. Sveglia la moglie Mia, che lo esorta a non abbandonarsi alle solite fantasticherie. Si sveglia anche l’attore che vive e lavora con loro. Si sveglia anche il figlioletto, per il quale il padre immagina un avvenire luminoso. È una famiglia felice. Mia ripete a Jof che lo ama tanto. Lo scudiero incontra un pittore che sta affrescando una parete. Il soggetto è la «danza della morte». Il pittore informa Jöns del dilagare di una terribile pestilenza.

Intanto il Cavaliere prega davanti a un crocifisso. Intravvede un monaco dietro una grata (in realtà si tratta della Morte) e gli si confida: «Il mio cuore è vuoto come uno specchio… Perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi?». Aggiunge che intende usare il tempo supplementare concessogli dalla Morte per compiere qualcosa di utile. Lo scudiero racconta al pittore i disagi della Crociata. Fuori hanno catturato una ragazza accusata di stregoneria. La esorcizzano con sangue di cane nero. Proibiscono al Cavaliere di parlarle. Lungo il cammino lo scudiero si imbatte poi in un furfante, Skat, che sta derubando un cadavere. È la stessa persona che anni prima l’ha indotto a partecipare alla Crociata. Jöns lo insulta e lo percuote. I saltimbanchi mettono in scena lo spettacolo. L’attore, beffeggiato dagli spettatori, si allontana e comincia a corteggiare una donna del luogo di nome Lisa. La recita è interrotta da una processione di flagellanti. Un monaco invasato tiene dal palcoscenico un terribile sermone sulla peste come punizione divina. Più tardi alla locanda scoppia un tafferuglio e Jof viene percosso. Malconcio e claudicante, raggiunge moglie e figlio che, presso il carro, sono in compagnia del Cavaliere. Questi mette i due sposi in guardia contro la peste e li invita ad attraversare la foresta con lui e a sostare nel suo castello. Il fabbro Plog scopre la moglie Lisa in compagnia dell’attore. Dopo un’accesa discussione, la donna chiede perdono al marito e l’attore cerca di cavarsela fingendo il suicidio. Si arrampica poi su un albero per passare la notte al sicuro: la Morte gli si avvicina, gli sega il ramo e lo fa precipitare al suolo. Più tardi il Cavaliere e i suoi compagni assistono ai preparativi del rogo per la ragazza ritenuta strega. Block chiede alla giovane se è stata assieme al diavolo: «Voglio incontrarlo anch’io, voglio domandargli di Dio». La piccola comitiva è accampata per la notte. Arriva un appestato moribondo: non c’è nulla da fare per aiutarlo. Block riprende la partita a scacchi con la Morte. Jof se ne accorge e si spaventa. Prende moglie e figlio e cerca di allontanarsi. Block riesce a distrarre per un momento la Morte, facendo cadere gli scacchi col mantello, e la famigliola riesce a mettersi in salvo. Il Cavaliere così ha compiuto la sua buona azione. La Morte gli dà scacco matto. Il Cavaliere ha ormai poco tempo. Giunto al castello, è accolto dalla moglie Karin, sola. Tutti gli altri sono fuggiti per paura della peste. Karin legge agli ospiti un brano dell’Apocalisse. Arriva la Morte, tutti le si presentano. Il Cavaliere prega, lo scudiero lo irride. «L’ora è venuta», dice qualcuno. A questo punto vedia mo la famigliola del saltimbanco in salvo, sulla spiaggia. Jof indica, sulla sommità della collina, un macabro corteo: la Morte danza con Block e con gli altri personaggi, «allontanandosi lietamente nel chiarore dell’alba verso un altro mondo ignoto».

Il film inaugura la tematica religiosa che sarà al centro di molti importanti film di Bergman. I due personaggi chiave sono il Cavaliere, credente ma assalito dal dubbio, e lo scudiero, indifferente, materialista, beffardo (fot. 23). La crisi del Cavaliere deriva dalla delusione della Crociata cui ha preso parte. Confidandosi col monaco che poi si manifesterà come la Morte, Block dice: «Vorrei confessarmi ma non ne sono capace perché il mio cuore è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare. Mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura, indifferenza verso il prossimo, verso i miei irriconoscibili simili». Si anticipa qui il tema dello specchio, che sarà sviluppato ampiamente nella trilogia e anche altrove. Si anticipa la concezione dell’uomo disperato perché non riconosce se stesso nei suoi simili, perché non riesce a capire il valore del suo essere uomo. Si anticipa il tema della paura, che tanto spazio avrà nella poetica bergmaniana. II vuoto mette paura, quando non provoca una sensazione di disgusto.

FOT. 23

Alla domanda della Morte «Non credi che sarebbe meglio morire?» il Cavaliere risponde: «L’ignoto mi atterrisce. Ma perché, perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi, per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché

dovrei aver fede nella fede degli altri? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me, sia pure in modo vergognoso e umiliante, anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché, nonostante tutto, egli continua a essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi? Vorrei sapere senza fede, senza ipotesi. Voglio la certezza. Voglio che Dio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto e voglio che mi parli». «Il suo silenzio non ti parla?», incalza la Morte. «Lo chiamo e lo invoco – replica Block – e se egli non risponde penso che non esiste. Allora la vita non è che un vuoto senza fine. Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel nulla, senza speranza». È espressa qui in modo didascalico tutta la problematica esistenziale del cinema bergmaniano. Qui, a differenza che altrove, la parabola è lineare, chiara. Il Cavaliere difatti, dopo aver attraversato nel suo simbolico itinerario i segni dei drammi e delle tragedie degli uomini (la guerra anzitutto, poi la peste, la collera, l’adulterio, la superstizione), si riscatta sottraendo alla morte la famigliola felice («Voglio usare il tempo che mi è concesso per un’azione utile…»). Al termine della vita, nel castello, quando arriva la Morte per l’appuntamento definitivo, il Cavaliere è pronto: ha riconosciuto in sé il volto del prossimo e nel prossimo il suo volto. Ha riconosciuto il volto dell’uomo. Accoglie la Morte in preghiera (fot. 24): «Dall’oscurità che tutti ci attornia mi rivolgo a te, Signore Iddio. Abbi misericordia di noi che siamo inetti e sgomenti e ignari… Dio, tu che in qualche luogo esisti, che devi certamente esistere, abbi misericordia di noi».

FOT. 24

Il settimo sigillo è l’ultimo di quelli che, secondo l’Apocalisse di San Giovanni, impediscono la lettura del libro tenuto in mano da Dio. Sulla scorta di quanto ha scritto Amédée Ayfre24, dobbiamo ricordare che quel “libro” in realtà era un rotolo di papiro, e non un codice rilegato. Ciò spiega come Giovanni abbia potuto vedere che esso è scritto anche sul verso, cosa che non avrebbe senso con un codice. I papiri, invece, una volta arrotolati, erano chiusi con sigilli lungo il bordo esteriore del foglio che era così incollato a rotolo. Era questa, tra l’altro, la disposizione richiesta dal diritto romano per i testamenti. Pertanto non si può cominciare la lettura di quei testi senza aver rotto i sette sigilli. Il settimo è dunque l’ultimo sigillo, quello la cui rottura condiziona la rivelazione suprema dei segreti contenuti nel libro di Dio. Solo l’Agnello – e cioè, secondo un sinonimo aramaico, il Servo, cioè il Cristo – può procedere a questa rivelazione, a dissigillare il libro. Le scene corrispondenti a ogni apertura di sigillo non costituiscono tanto una rivelazione parziale del contenuto del libro, quanto il simbolo dei problemi fondamentali che caratterizzano la condizione umana e costringono l’uomo a interrogarsi sul senso della sua presenza nel mondo. «E allorché l’Agnello aprì il settimo sigillo – è scritto nell’Apocalisse – si fece un gran silenzio nel cielo per circa mezz’ora». «Quel silenzio impressionante, magnificamente evocato nel film dall’aquila giovannea immobile tra le nuvole – scrive Ayfre –, sottolinea l’importanza suprema della Rivelazione, mentre il Libro dei Sigilli, ormai dissigillato, si svolge, lentamente. Tutto il film si colloca in questa mezz’ora. Questo è il tempo di dilazione che il Cavaliere, rigettato sulla spiaggia (fot. 25), chiede alla morte. Mentre i flagelli continuano a infierire quaggiù, bisogna cercare di interrogare questo silenzio del cielo, questo segreto che forse si nasconde al di là dell’ultimo sigillo

infranto. Ma per Bergman questo interrogativo resterà senza risposta. Il Libro dei Sigilli si è forse aperto, ma nessuno sa che esso ha un contenuto. In ogni caso nessuno l’ha potuto interpretare. Bergman resta alla soglia dell’Apocalisse, alla soglia della Rivelazione. “La domanda rimane”, egli dirà».

FOT. 25

Secondo Ayfre, se essere cristiano significa affermare ciò che nega l’ateo e viceversa, Bergman non è né l’uno né l’altro: «Egli non afferma né nega, ma interroga, senza fare sperare che per la sua domanda possa esserci una risposta. Ma si rende conto che la domanda è posta male? Il dilemma è forse meno rigoroso di quanto egli pensi. Tra la fede spontanea, naturale, ingenua del giocoliere e l’incredulità brutale e lucida dello scudiero, tra l’ottimismo infantile del cuore e il pessimismo adulto dell’intelligenza, tra la vita vissuta felicemente sul filo della natura e dell’istinto e la morte, dappertutto all’opera, in un mondo cattivo, vi è ancora posto, al di là della credulità e del dubbio, per una fede senza compiacenza; per una fede che, secondo la parola di Sant’Agostino, continua a cercare poiché ha già trovato». Probabilmente tutto questo, a ben guardare, trova posto nel complesso dell’opera bergmaniana e anche in Il settimo sigillo, almeno secondo una rilettura a distanza, cioè dopo aver visto Come in uno specchio, Luci d’inverno, Sussurri e grida. Si può concordare pertanto con Nino Ghelli quando afferma che il film è una sorta di mistero medievale ricchissimo di motivi spiritualistici e che l’angoscia dei personaggi, esistenziale e metafisica, è «coscienza della vacuità della loro condizione umana e al tempo stesso vertigine dell’assoluto». «L’autentico significato del film – prosegue Ghelli – consiste proprio nella rinuncia da parte dell’autore a fornire una risposta univoca all’angoscioso problema del crociato: egli ne ha invece adombrata una soluzione nella salvezza della Grazia che assiste i semplici. Una speranza, quindi, e al tempo stesso un monito»25. Sempre a posteriori, si può indicare anche un’altra strada, che è quella dell’amore. Il crociato chiede alla morte una dilazione per fare qualcosa di buono, e riesce a farlo, salvando i saltimbanchi dalla sua falce. È un atto d’amore, appunto, che – come Bergman ripeterà in film successivi – consente di leggere in questo modo un riflesso di Dio. Il tutto è filtrato attraverso un’esperienza cinematografica di grande suggestione. Per descrivere l’emozione visiva si è citato Dürer, si sono evocate le sacre rappresentazioni medievali. Esemplare è, tra le altre, la scena (fot. 26) in cui i saltimbanchi offrono al cavaliere le fragole e il latte26. Bergman gioca magistralmente con la luce. Il bianco e il nero della scacchiera sulla quale il Cavaliere e la Morte giocano la partita definitiva della vita (fot. 27) si ripropone in uno smagliante contrasto di ombre e luci nelle potenti sequenze destinate a illustrare simbolicamente i sigilli apocalittici: la peste, la violenza, la carestia, la fame, il potere. Viene rappresentato un nordico secolo XIV attraverso l’evocazione di pitture e sculture, religiose e profane (fot. 28 e 29). II gioco intellettuale dell’allegoria, dei richiami simbolici, del dubbio esistenziale si sposa armoniosamente – come di rado accade nella storia del cinema – con una raffinata poesia delle immagini.

FOT. 26

FOT. 27

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Elemento non marginale della buona riuscita dell’opera è il cast. Vediamo Max von Sydow, uscito dalla Scuola d’Arte Drammatica di Stoccolma, per la prima volta in vesti di protagonista sotto la direzione di Bergman, del quale diventerà uno degli interpreti abituali. E vediamo brillantemente all’opera Bibi Andersson alla prima esperienza e Nils Poppe, celebre come attore comico27, alle prese per la prima volta con un ruolo drammatico. Il posto delle fragole

Fra tutti i film di Bergman Il posto delle fragole è il più famoso. È quello che ha dato al regista notorietà internazionale, è quello più osannato dalla critica, è quello rimasto maggiormente impresso nella memoria collettiva. Sarà bene ricordare che quando, nel 1989, l’Ente dello spettacolo organizzò un referendum intitolato Top ten films per stabilire quali fossero secondo pubblico e critica i film ritenuti migliori di tutta la storia del cinema, il pubblico indicò Via col vento (Gone with the Wind, di Victor Fleming, 1939) e la critica Quarto potere (Citizen Kane, di Orson Welles, 1941). Ma quando i dieci film indicati dalla critica e i dieci film indicati dal pubblico vennero proiettati a Roma in una rassegna competitiva (per una ulteriore verifica, non più sul filo del ricordo, ma dopo una nuova visione a distanza di tempo), il giudizio finale degli spettatori collocò al primo posto, inaspettatamente, proprio Il posto delle fragole. Il film già al suo apparire, nel 1957, aveva ricevuto l’Orso d’oro a Berlino e il premio della critica a Venezia28. Il posto delle fragole nacque in un momento di intensa attività dell’autore, specialmente sui palcoscenici teatrali29. Bergman vi si dedicò con molta partecipazione, tanto che alla fine fu costretto a trascorrere alcuni mesi in clinica per un forte esaurimento nervoso. Il professor Isak Borg, allo scrittoio, si interroga sulla sua condizione di anziano: «I nostri rapporti col prossimo si limitano per la maggior parte al pettegolezzo e a una sterile critica del suo comportamento. Questa constatazione mi ha lentamente portato a isolarmi dalla cosiddetta vita sociale e mondana. Le mie giornate trascorrono in solitudine». Batteriologo di fama, settantottenne, Isak ha dedicato la vita alla professione. Ha un figlio medico, Evald, sposato, senza bambini. Ha ancora la mamma ultranovantenne, donna vivace malgrado l’età. La moglie è morta da qualche anno; il loro non è stato un matrimonio felice. Il professore, che si autodefinisce cocciuto e pedante, vive solo con la brava e fedele governante Agda. È domenica. Il vecchio deve recarsi da Stoccolma a Lund dove sarà festeggiato il suo giubileo professionale. Ma la giornata comincia con un incubo. Egli si trova solo in una città sconosciuta. Gli orologi non hanno lancette. Un uomo senza volto si affloscia a terra. Un carro funebre sbatte contro un lampione, la bara cade a terra. Esce una mano che prende il braccio del professore e lo tira a sé. Isak riconosce nel volto del morto il proprio volto. Al risveglio Isak chiede alla governante la colazione. È presto, ma egli ha deciso di non prendere l’aereo; andrà in macchina e ha bisogno di tempo per il viaggio. La governante lo rimprovera e gli dice che non andrà con lui, ma gli cuoce due uova. Arriva Marianne, la nuora, che gli chiede di fare il viaggio insieme. In auto, Marianne rimprovera al vecchio l’avarizia nei riguardi del figlio. Una piccola deviazione dall’itinerario porta i due nella casa dove il vecchio ha vissuto fino a vent’anni con i suoi nove fratelli e sorelle. Isak rievoca gli anni della gioventù. Rivede la cugina Sara, che egli amava ma che non riuscì a sposare. La donna è con un altro cugino, Sigfrid, che diventerà suo marito. Sta cogliendo le fragole per lo zio Aron che compie gli anni, ma Sigfrid la distrae e la bacia. Quando tutti sono a tavola, due antipatiche gemelline (una di esse è interpretata da Lara Bergman, figlia primogenita del regista) raccontano a tutti quanto hanno visto e Sara si

allontana piangente. Una giovane molto somigliante a Sara (ha anche lo stesso nome ed è impersonata dalla stessa attrice, Bibi Andersson) distoglie Isak dai suoi pensieri e gli chiede un passaggio per sé e per due amici. Il vecchio accetta e l’auto riparte. A una curva accade un lieve incidente. L’auto che incrocia quella di Isak si ribalta. Ne escono, illesi, un uomo e una donna. Sono una coppia infelice. Presi a bordo a loro volta, rendono intollerabile con i loro continui battibecchi la convivenza nell’auto, e vengono fatti scendere. Lungo l’itinerario c’è la località dove vive l’anziana mamma di Isak. Si decide per una breve visita, dopo aver fatto rifornimento da un benzinaio che rievoca il comportamento generoso del professore in gioventù e dopo aver pranzato in una trattoria. Durante il pranzo ha luogo tra i due giovanotti, uno credente, l’altro ateo, un’accesa discussione sull’esistenza di Dio. Si chiede un parere al professore, che lo rifiuta. Ma una risposta è data in chiave poetica, quando Isak e la nuora recitano questi versi: «La sua presenza è indubbia e io la sento in ogni fiore e in ogni spiga al vento…». «L’aria che io respiro e dà vigore del suo amore è piena». Durante la visita, la mamma di Isak mostra a lui e a Marianne vecchie foto e vecchi giocattoli. Si lamenta della sua solitudine, nonostante i venti nipoti e i quindici pronipoti viventi. Si riprende il cammino. Marianne guida, Isak si assopisce e ha un altro incubo. Sara, giovane, lo induce a guardare la sua immagine di anziano in uno specchio e gli annuncia la morte imminente. Poi gli dice che sposerà il suo antagonista Sigfrid. Va ad accudire il suo bambino, si chiude in casa con il marito. Isak bussa ma viene ad aprirgli un acido docente universitario che lo accompagna in classe, gli chiede il libretto, lo interroga contestandogli le risposte e trattandolo da incompetente. Gli insegna che primo dovere di un medico è chiedere perdono. Lo accusa inoltre di indifferenza, egoismo, incomprensione. Gli commina la condanna: la solitudine. Risvegliatosi, il professore confida a Marianne: «Sono morto pur essendo vivo». La donna gli confida a sua volta i difficili rapporti col marito, che non vuole il figlio in arrivo. Il viaggio ha termine. Suocero e nuora arrivano a casa di Evald e vi trovano la governante: pur brontolando, è venuta ugualmente, in aereo. Tra suoni di campane e squilli di tromba comincia la cerimonia. Viene letta la formula in latino, mentre il vecchio decide di mettere per iscritto l’esperienza di quella giornata particolare. Qualcosa in lui è mutato. A sera tratta con inusitata gentilezza la governante, poi tenta di facilitare la riconciliazione tra il figlio e la nuova. Infine si addormenta ripensando ancora ai momenti felici dell’infanzia, e in particolare all’immagine dei genitori.

Il posto delle fragole, serena meditazione sulla vita e sulla morte, è una storia di conversione, perché il vecchio al termine dell’itinerario che si snoda attraverso il racconto, e alla fine dell’itinerario terreno, cambia atteggiamento nei confronti del prossimo rammaricandosi per il suo egoismo e per la sua freddezza. È un film della nostalgia per la giovinezza, l’estate che è passata e che non potrà più tornare. È un film sugli affetti come valore primario della vita. La costruzione è perfetta, l’intrecciarsi tra realtà, sogni e ricordi è dato da una sceneggiatura rimasta come un classico nella storia del cinema. Un apporto non indifferente è costituito dagli attori, a cominciare da quel Victor Sjöström la cui maschera campeggia praticamente sullo schermo dal principio alla fine (fot. 30). Sjöström, che è stato uno dei maggiori registi30 e attori svedesi, aveva 78 anni, la stessa età del suo personaggio (morì pochi mesi dopo l’uscita del film, il 4 gennaio 1960). Bergman volle fare un omaggio al suo maestro, e il maestro ripagò l’allievo con un’interpretazione da antologia.

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A differenza di molti altri film di Bergman qui tutto è lineare, nulla è oscuro. I pochi simboli sono chiarissimi, a cominciare dall’orologio senza lancette che indica la fine del tempo, e che il vecchio vede dapprima nell’incubo (fot. 31), poi tra gli oggetti che gli vengono mostrati dall’anziana madre

(fot. 32). L’itinerario dal primo incubo al rassicurante sogno finale è quasi un inno alla vita e una esortazione a capirne la bellezza nel rapporto con gli altri. Il comportamento giullaresco dei tre giovinastri accettati come compagni di viaggio esprime la spensieratezza di una gioventù gaia (fot. 33), ma tutt’altro che superficiale: tanto è vero che il tema del grottesco litigio tra i due giovanotti è l’esistenza di Dio. La risposta dell’anziano e della donna matura è in chiave poetica, allusiva, ma certamente non negativa. Qui il problema religioso è sfiorato con delicatezza, ma Bergman non rinuncia alla lezione sull’amore come momento di soluzione di ogni crisi, anche intellettuale. «Sono morto pur essendo vivo», dice alla nuora il professor Isak che ha dimenticato l’amore. «Vorrei essere morto», dice Evald alla moglie nel rifiutare l’amore che dà la vita a un nuovo essere umano.

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Non poche sono le somiglianze con Il settimo sigillo. La minaccia incombente è sempre la morte. La partita a scacchi questa volta è costituita dal confronto con il proprio passato. Lo strumento del sogno è particolarmente caro a Bergman («I sogni riescono a dirmi molte cose; non nel modo freudiano, ma in un senso totalmente umano») e gli consente di assaporare il gusto della libertà narrativa. Col tempo il regista si allontanerà sempre più dal realismo per addentrarsi in una sperimentazione linguistica basata sull’essenziale, più sui pensieri e sulle sensazioni che sugli eventi. Il posto delle fragole è anche un film sul tempo, sul cambiamento, sulla paura, sulla maschera. Il tempo è il protagonista del racconto sia nel confronto tra le diverse epoche presentate, sia nel

contrasto tra le generazioni. Il cambiamento uno degli incubi di Bergman31, è un fattore positivo nella metanoia del protagonista, ma è un fattore negativo nel rivelarsi delle crisi di coppia (i due occasionali passeggeri, lo stesso Isak e la moglie). La paura è presente nel bimbo che Sara, nel ricordo, toglie dalla culla per consolarlo (fot. 34): «Non devi aver paura del letto, dei gabbiani, delle onde del mare. Non temere, fra poco sarà giorno». Il bimbo che piange nella culla in riva al mare, esposto ai venti e alle intemperie, è l’uomo bergmaniano in crisi che ritroviamo in tutti i suoi film. C’è chi risolve la crisi mettendosi una maschera, provocando una frattura tra l’essere e il sembrare, come vedremo in Persona. Qui la maschera se l’è messa il professore («Lo definiscono amico dell’umanità, mentre chi lo conosce da vicino…»). Marianne glielo dice e lo aiuta anche un po’ a togliersela per ritrovare quel che resta della sua umanità. Quello della maschera è, come molti altri, un tema con riferimenti precisi all’infanzia infelice di Bergman: «La famiglia di un prete – scrive nell’autobiografia32 – vive come su un vassoio, senza alcuna protezione dagli sguardi estranei… Foggiai una personalità esteriore che aveva ben poco a che fare con il mio vero io. Non riuscendo a tenere separate la mia maschera e la mia persona, ne risentii il danno fin nella vita e nella creatività dell’età adulta. A volte dovevo consolarmi dicendo che chi è vissuto nella menzogna ama la verità».

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Alle soglie della vita

Il posto delle fragole, se costò a Bergman un esaurimento nervoso, non frenò la sua attività. Tre mesi dopo la prima di quel film usciva sugli schermi svedesi Alle soglie della vita, un’opera importante specialmente se vista a distanza. A Cannes fruttò a Bergman un premio come miglior metteur en scène e alle quattro protagoniste un premio collettivo per l’interpretazione. Ma la critica rimase piuttosto fredda, e il film fu ingiustamente relegato nel limbo delle cosiddette “opere minori”. Mentre scorrono i titoli di testa udiamo la sirena di una autoambulanza. A bordo c’è Cecilia Ellius, una partoriente. Vediamo ombre muoversi dietro i vetri smerigliati e ascoltiamo voci concitate che domandano alle infermiere quanto c’è da attendere. Le infermiere si affaccendano attorno alle gestanti. Accanto a Cecilia è il marito Anders. La donna gli domanda se egli desidera veramente il figlio in arrivo. Poi viene portata in sala parto dove abortisce. «Non ci sarebbe stato niente da fare neppure se fosse venuta prima», le dicono i medici, e aggiungono: «Tornerà tutto a posto per la prossima volta». «Non ci sarà una prossima volta», risponde la donna. Poi spiega all’infermiera Brita che la accudisce: «Il bambino non era desiderato, per questo non è potuto venire al mondo. Io non sono abbastanza forte: non ho avuto il coraggio di desiderarlo.

Ho sempre avuto la certezza che non sarei stata capace di essere una buona moglie e una madre. So bene che Anders mi ama. Non me lo ha mai detto, ma glielo leggo negli occhi». Cecilia viene portata in una stanza dove sono altre due partorienti: Stine Andersson, moglie felice che attende con ansia e gioia quasi infantile la nascita del primogenito, e Hjördis, una ragazza madre che invece del figlio non vuole proprio saperne. Le due donne cercano di consolare Cecilia. Arriva il marito con un mazzo di fiori. Lei lo rimprovera e dopo una discussione lo caccia via. Più tardi è visitata dal dottor Thylenius che la assilla di domande. Hjördis guarda con astio la stanza dove sono riuniti i neonati. Va al telefono e chiama il ragazzo che l’ha messa incinta invitandolo a venirla a trovare. Lui si rifiuta dicendo: «Non sono il tuo fidanzato». «Però tu sei il padre – replica lei – e qui mi fanno tante domande…». La risposta è brusca e definitiva: «Tu non dir niente, tieni la bocca chiusa». La telefonata lascia la ragazza in preda alla rabbia e alla disperazione. L’assistente sociale la invita nel suo ufficio per un colloquio. Cerca di rassicurarla illustrandole le meraviglie del paradiso assistenziale svedese. Le consiglia di ricorrere ai genitori, ma la ragazza rifiuta: non ha detto loro nulla per paura della reazione. Il colloquio finisce bruscamente. Hjördis trova conforto nelle parole dell’infermiera Brita: «Appena nati i bambini hanno tutto quello che sarà necessario. Sono davvero delle piccole meraviglie». La ragazza replica: «Sono disgustosi. Tutto finirà nel nulla. Non servirà a niente. Vorrei non essere mai nata». Stina balla felice per il figlio in arrivo. Brita le fa bere dell’olio di ricino per affrettare il parto. «Io sono il simbolo della vita che continua – dice la donna. – Desidero tanto questo bambino. Impazzirò se non si sbriga a nascere». Brita la pettina, dolcemente. Arriva il signor Andersson con i fiori. I due sposi si baciano e pregustano insieme il momento del lieto evento. A trovare Hjördis arriva invece una collega d’ufficio, che le propone di verificare la possibilità di un aborto. Ma la ragazza rifiuta. È finito l’orario delle visite; da Cecilia non è venuto nessuno. È ora di dormire. Ma Stina comincia ad avere le contrazioni frequenti e viene portata in sala operatoria. Le altre due non riescono a dormire. Cecilia offre di nascosto una sigaretta a Hjördis, che commenta: «Non ha nessun gusto, per colpa di questo maledetto bambino». Poi si lamenta della sua condizione difficile: «Se avessi qualcuno che mi amasse, un posto dove vivere, una vera casa, allora sarei felice di avere un figlio. Non come Stina, a modo mio». Racconta di aver avuto già un aborto, afferma di temere la mamma, deplora quel «padre che non si può neanche chiamare padre». Dice che non abortirà mai più: «Non so perché l’ho fatto. Non sapevo niente quando l’ho fatto, non lo farei mai più; mi ucciderei prima di farlo». Anche Cecilia le consiglia di confidarsi con la mamma. Per Stina Andersson il parto si presenta molto difficile. Le infermiere convocano il dottore per fronteggiare le complicazioni. Vediamo intanto le puerpere con i loro bambini. Stina è riportata nella stanza. Il bambino è morto. «Non ce l’ha fatta a superare l’ultima fase del travaglio – dice il medico. – È come se la vita non lo avesse voluto». Hjördis viene informata che potrà uscire, per il momento, dall’ospedale. Un’infermiera porta dei fiori per Stina ma Hjördis le impedisce di entrare. Si reca quindi da Brita e le chiede il denaro per telefonare alla mamma. Mentre telefona è tenuta per mano dalla premurosa infermiera. «Sono stata molto male, mamma – dice –, ora sto meglio. Avrò un bambino. Volevo abortire ma non ce l’ho fatta. Voglio avere il bambino anche se dovrò allevarlo da sola… Davvero posso, anche se le cose sono andate come tu temevi?». Poi riferisce a Brita: «Hai sentito? Ha detto: “Vieni a casa al più presto possibile”». Brita dà alla ragazza i soldi per il treno. Prima di partire Hjördis ascolta Cecilia che si dice pronta a riconciliarsi con il marito perché «la vera solitudine è un’acrobazia continua: la parola è sempre in agguato dentro di te».

Il film è un inno alla vita nascente, evento più volte definito «meraviglioso». «Non potrò mai dimenticare questo momento – dice all’inizio Cecilia, pur nello sconforto dell’aborto subito – in cui sono stata così vicina alla vita». Bergman dà alla narrazione un taglio insolitamente realistico. Ci fa entrare nel mondo dell’ospedale (fot. 35) con brutalità, senza risparmiarci scene di dolore e di sofferenza (fot. 36). Ma ci fa capire che tutto ciò è giustificato dallo stupendo risultato della nascita di una nuova vita. È un film dove sono presenti più che mai i valori, a cominciare da quello della solidarietà. L’infermiera Brita (un personaggio che tornerà in Sussurri e grida nella persona della domestica che accudisce l’ammalata morente) rappresenta il darsi per gli altri, il superamento del freddo sistema assistenziale e previdenziale nordico. La mamma di Hjördis rappresenta il rifugio della famiglia, sempre pronta all’accoglienza anche se a volte può sembrare severa e ostile. Il rapporto matrimoniale tra Cecilia e Anders, che scricchiola pericolosamente, è comunque recuperato in extremis come rifiuto della solitudine.

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Interessante l’ironia sull’assistenzialismo di Stato. L’assistente sociale dice a Hjördis che ogni problema si risolve perché «la società oggi è disposta a proteggere la ragazza madre e il suo figlio illegittimo. Il neonato viene affidato a un’assistente che provvederà a fargli avere gli alimenti dal padre e lo affiderà a un asilo nido…». Le parole suonano ipocrite e la logica non resiste alle domande incalzanti della ragazza: «L’affitto come lo pago? Il bambino a chi lo lascio? E se poi mi ammalo?…». Questo è un film al femminile. Le protagoniste sono quattro donne, le tre partorienti (fot. 37 e 38) e l’infermiera Brita (fot. 39). Gli uomini stanno sullo sfondo, come manichini inutili nella loro boria e nella loro superficialità. Si salva solo il marito di Stina, ma l’immagine della loro unione perfetta è incrinata da una sottile ironia: lo rivela il dialogo in cui i due coniugi studiano il modo migliore per fare il bagnetto al bambino. Hjördis dice a un certo punto «non come Stina».

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È presente con chiarezza l’elemento religioso. «Urge all’artista Bergman la problematica soprannaturale – scrive Alfonso Moscato. – Ma il regista non si sente ancora pronto ad affrontarla; e allora vi gira intorno»33. Ma qui, a differenza di quanto accade in Il volto, in La fontana della vergine e in L’occhio del diavolo, lo sguardo alla trascendenza trova una base più che solida nel rapporto col mistero della vita. Nella gioia di Stina c’è un preciso elemento religioso. Quando le danno la medicina lei la prende anticipando una cantilena che reciterà al momento opportuno al bambino: «Uno lo prendo per papà, uno per mamma, uno per Nostro Signore Dio dell’universo…». Poi, sentendo una fitta, cita il Vangelo: «Una spada le trafiggerà il cuore». Più tardi, prima di addormentarsi, confida alle compagne di stanza: «Credo proprio che farò battezzare il mio bambino in chiesa anche se Harry non è molto d’accordo». Ma l’affermazione più evidente si trova nella progressiva “conversione” di Hjördis che, quando parla con Brita, afferma: «Tutto finirà nel nulla, tutto. Non servirà a niente», ma poi cambia completamente idea e dichiara che non rinuncerà al bambino per nessun motivo al mondo. La solidarietà dimostratale da Brita e dalla mamma e l’esperienza vissuta accanto alle due partorienti deluse l’hanno convinta che non si può disporre liberamente della vita e che non è vero che «tutto finirà nel nulla». Il volto

«Non ero in rapporti buoni con alcuni critici, avevo avuto delle difficoltà con il mio produttore, con il mio teatro e, inoltre, la mia situazione economica non era precisamente delle migliori. Avevo trovato divertente, come in una specie di gioco simbolico con me stesso, mettere in ridicolo questa situazione tanto complicata»34. Così nacque, stando alle dichiarazioni dell’autore, Il volto. Gli attori del teatro di Malmö facevano a gara per accaparrarsi una parte e Bergman fu costretto a inventare più personaggi del previsto. «Durante la lavorazione del film – annota ancora – ci siamo divertiti moltissimo». Con Il volto Bergman ottenne nel 1959 alla Mostra di Venezia il premio speciale della giuria, mentre il Leone toccò ex aequo a La grande guerra (di Mario Monicelli) e a Il generale Della Rovere (di Roberto Rossellini). Con una sfumatura polemica, i giornalisti cinematografici presenti al Lido assegnarono a Il volto il Premio Pasinetti come opera migliore della rassegna. Ma l’assegnazione avvenne a maggioranza, poiché non mancarono voci contrarie. Si rimproveravano a Bergman alcune oscurità, gli si rinfacciava l’eccessivo gusto per i valori formali. Prima metà dell’Ottocento. Una carrozza attraversa un bosco. All’interno è la «Compagnia medico-ipnotica del dottor Vogler»: un gruppo di girovaghi guidati da un illusionista. Con lui sono la moglie Manda (che, travestita da ragazzo, si fa chiamare Aman), la vecchia nonna e Tubal. Guida la carrozza il giovane Simson. Vogler scende dalla carrozza per soccorrere un alcolizzato, che a causa del suo vizio ha dovuto interrompere la carriera di attore. Si arriva alla dogana. La compagnia viene portata a un palazzo per ordine del capo della polizia. Ci sono il console Egerman con la moglie Ottilia, che si definiscono amanti della magia, e un medico di Stato, il dottor Vergérus, rigorosamente scientista e positivista. Tra lui e l’illusionista si instaura una contesa che costituisce il perno del film. Vergérus comincia a interrogare Vogler che non gli risponde. Tubal risponde per lui, informando i presenti che l’illusionista è muto. Vergérus accusa Vogler di curare i malati con il magnetismo seguendo le discusse teorie di Mésmer e lo taccia di dualismo, definendolo un idealista che fa il medico ma propina al volgo le sue

pozioni taumaturgiche. Poi fa aprire la bocca all’illusionista per verificare la causa del suo mutismo, ma non ne trova alcuna. Quindi lo sfida a sperimentare su di lui i suoi poteri magici. Ma non succede nulla. Il capo della polizia autorizza la compagnia a mettere in scena uno spettacolo, previa dimostrazione riservata per i presenti la mattina dopo. Intanto gli ospiti sono invitati a cena, ma in cucina con la servitù. Nasce tra il console e il medico di Stato una scommessa. Vincerà il console se Vogler riuscirà a dimostrare che vi sono forze innaturali inesplicabili, «il che impone di ammettere l’esistenza di un Dio». Due giovani servette, Sara e Sanna, e la cuoca Sofia sono raggiunte in cucina da Tubal, il quale offre un filtro d’amore. Ma Sofia gli dà un appuntamento senza bisogno di filtri. Simson corteggia Sara, accetta il suo invito a trasferirsi nella lavanderia e là i due fanno l’amore. L’altra ragazza intanto piange in solitudine. Viene consolata dalla nonna, che le canta una canzone sull’amore per farla addormentare. Si ode il rumore di tuoni lontani. Vogler e la moglie preparano la lanterna magica. Giunge la moglie del console, che confida la sua pena per la morte della figlia avvenuta alcuni mesi prima e chiede perdono all’illusionista per le umiliazioni che gli hanno inflitto. «Voi mi spiegherete – dice – perché mia figlia è morta, perché il cielo l’ha voluta. Siete qui per alleviare il mio dolore». Lo invita in camera sua, confidandogli di non dormire più col marito dalla morte della figlia. Vogler quindi ha un colloquio con il povero attore alcolizzato in fin di vita, il quale alla fine del dialogo crolla esanime e viene deposto in una cassa. Vergérus scopre l’identità di Manda vedendola priva del travestimento. Le offre ospitalità, ma senza il marito. Questi arriva e percuote il medico. Più tardi, a letto con la moglie, Vogler parla. Le confida che odia gli atteggiamenti delle persone del palazzo, ma aggiunge di aver paura, di sentirsi impotente di fronte a loro. Il console va dalla moglie che lo scambia per Vogler, confessando così inavvertitamente la sua simpatia per l’ospite. L’uomo la percuote, poi le chiede perdono. I girovaghi fanno la prova dello spettacolo davanti al capo della polizia, al medico e agli altri. Il trucco della lievitazione viene scoperto. Ma poi la moglie del capo della polizia è ipnotizzata e dice cose terribili sul marito. Quindi un servo, Antonsson, viene legato con una catena immaginaria. Adirato, al termine dell’esperimento aggredisce Vogler e lo atterra. Tutti lo credono morto. Il capo della polizia diffida chiunque dal mettere in dubbio la versione dell’incidente. Il medico prepara l’autopsia del cadavere appena sarà portato in soffitta. Ma Vogler è vivo. Si manifesta alla moglie pregandola di chiudere la porta della soffitta dopo che Vergérus sarà entrato. Il medico, solo con il cadavere, si spaventa a morte perché vede un occhio nel calamaio, uno specchio che gli riflette un volto quasi per magia e poi si infrange misteriosamente, una mano che si muove da sola. Cerca di uscire ma la porta è chiusa. Gli cadono gli occhiali, qualcuno li pesta infrangendoli. È sull’orlo del cedimento psichico quando si apre la porta e arriva Manda, intimando al marito di non infierire. Vergérus capisce di essere stato umiliato. Il cadavere che ha sezionato non è di Vogler, ma del povero alcolizzato. Vogler sembra aver vinto il confronto, ma poi si umilia chiedendo a Vergérus del denaro per sé e per il gruppo. Vergérus trionfante dichiara di aver vinto la scommessa. Si fanno i bagagli. Tubal sceglie di restare con la cuoca Sofia. Sara invece decide di partire con Simson e con i girovaghi. La nonna offre soldi: seimila monete guadagnate vendendo filtri d’amore. Arriva in forze la polizia, ma non per arrestare i girovaghi: per invitarli a corte dove il re li attende per uno spettacolo. Vogler assume di nuovo l’atteggiamento altero del giorno prima e la comitiva si avvia lieta verso il palazzo reale.

Il volto è un film grottesco, brillante, inquietante, gravido di ambiguità. Tra le opere di Bergman è una delle più ricche di sostanza narrativa, ma non è certo priva di spunti di riflessione. È come se il regista si immedesimasse da un lato nel medico positivista, disincantato, incredulo, ma poi si lasciasse via via suggestionare dal fascino della magia, del mistero, del soprannaturale (fot. 40). Così lo stile narrativo procede per intrecci, sovrapposizioni e giustapposizioni, alternando la chiave ironica a quella cupa e misteriosa. I personaggi, stavolta, sono molti. L’intarsio principale è tra una serie di storie e storielle d’amore e il confronto dirompente dello scienziato con l’illusionista. La partita si gioca tra realtà e fantasia, tra realismo e surrealismo, tra allusioni simboliche e carinerie sentimentali.

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Le storie d’amore sono tutte a lieto fine, come è a lieto fine la sfida dell’illusionista. Quattro coppie, dopo alterne vicende, finiscono per trovare la felicità o almeno un modus vivendi. Ci sono i due giovani che si amano, e non possono fare a meno di vivere insieme (fot. 41). Lei, Sara, seguirà Simson nel suo girovagare. Simmetricamente, due meno giovani, Tubal e la cuoca Sofia, percorrono lo stesso cammino e alla fine del film sarà lui a decidere di rimanere con lei abbandonando la carovana (fot. 42). C’è la coppia infelice, console e moglie, che raggiunge il perdono proprio nel momento in cui l’illusionista ha messo in moto un meccanismo scatenante, che li ha portati a recuperare la comunicazione interrotta con la morte della figlia. C’è, infine, la storia grottesca del capo della polizia e della sua consorte. Quest’ultima, sotto l’effetto dell’ipnosi, ne dice di tutti i colori; ma poi, finito l’effetto, nello sbalordimento generale tratta il marito con l’esteriore affetto di sempre. C’è anche una quinta storia d’amore, ed è quella di Vogler e della moglie (fot. 43), tra i quali c’è sempre un’intesa perfetta. «È la sola – scrive del personaggio Manda Ernesto G. Laura35, – che dietro la maschera conosca il volto, il volto anche spirituale, di Vogler». Infine, tra le righe, è adombrato anche il rapporto d’amore tra l’altra servetta, Sanna, e il maggiordomo Rustan.

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Si ritrovano pertanto i motivi cari a Bergman: da un lato i rapporti tra i due sessi, dall’altro le domande importanti sulla vita e sulle realtà spirituali. Qui non è di scena la religione, ma la magia. Il confronto tuttavia è come sempre tra il visibile e l’invisibile, tra la speranza in qualcosa oltre la

morte e le continue docce fredde che di giorno in giorno allontanano questa speranza. Quando nasce la scommessa tra il medico e il console, si accenna a un Dio: «Se ci sono forze innaturali inesplicabili, ciò porta ad ammettere l’esistenza di un Dio…». Ma la problematica religiosa, cui sempre Bergman s’ispira, affiora con maggior precisione nelle parole dell’attore alcolizzato (fot. 44): «Ho sempre rivolto una preghiera: guidami sulla tua strada. Ma il Signore non ha mai capito quale schiavo più devoto e fedele aveva trovato in me, e così non mi ha guidato. No, è tutta una menzogna. Giorno su giorno uno avanza incontro all’oscurità e questo procedere è la sola verità che esista. Quando ho creduto di essere morto ero torturato da spaventose visioni di sogni orribili».

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Il dissidio tra ragione e soprannaturale impersonato dai due contendenti, Vogler e Vergérus, è presentato in modo molto preciso, con riferimento alla cosiddetta “teoria mesmerista”. Vergérus parla di «malati magnetizzati da Vogler secondo i principi di Mesmer» e Manda, a nome di Vogler, lo ammette. Franz Mesmer era un medico tedesco operante tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento: più o meno al tempo in cui è ambientato Il volto. Aveva elaborato una teoria circa l’influenza dei pianeti sul corpo umano. Credeva di poter curare le malattie con l’uso di calamite, che pensava di poter sostituire con la forza innata del magnetizzatore, trasferita mediante contatto o con la sola concentrazione della volontà. II mesmerismo ebbe a suo tempo molti seguaci in Germania e viene considerato come un metodo che ha precorso il trattamento ipnotico razionale. Bergman carica di ambiguità il comportamento dell’illusionista “mesmerista” e si serve del racconto per suscitare nello spettatore interesse riguardo al rapporto tra scienza e fede, tra illusione e verità, tra medico e stregone, tra l’io e l’altro. Non a caso il terrore di Vergérus raggiunge l’acme davanti a uno specchio che gli riflette il volto dell’altro accanto al suo e poi si frantuma in tanti pezzi (fot. 45).

FOT. 45

Ma, parallelamente a questo dualismo, scorre nel tessuto narrativo un’altra trama. È di scena il gioco tra il volto e la maschera, tra l’essere e l’apparire, tra i diversi aspetti della personalità. Manda è un doppio personaggio nella veste di moglie e in quella di ragazzo aiutante di scena. Lo stesso Vogler è un doppio: muto e altero da un lato, ciarliero e umile dall’altro. Bergman scherza con il dilemma parlare-tacere insinuando il dubbio se la parola sia veramente mezzo di comunicazione e a quale livello. In realtà il personaggio di Vogler, chiave del film, è un personaggio a più facce, fortemente drammatizzato. Acutamente fa osservare Alberto Pesce: «Per chi tenti di addentrarsi nel mistero, il gioco può diventare incubo, la ricerca nevrosi e nelle creature da natura provvedute di forze medianiche un’alternanza di alterità che finisce per sconcertare se stessi prima anche che gli altri»36. Ma in Vogler c’è anche l’idea dell’artista, inteso alla Bergman come essere superiore in continuo contrasto con la volgarità che lo circonda. Come fa notare Mario Verdone, quello di Vogler è in fondo il dramma stesso del predicatore e dell’artista creatore, che spesso urta contro l’incredulità e la bassezza della massa sorda e insensibile. L’ipnotizzatore è una figura riservata e

incompresa, quasi ascetica e “sofferente di verità”, difficilmente scomponibile, la cui personalità si può commisurare soltanto a confronto con certe altre caratteristiche e personalità proposte, tramiti romanticismo ed espressionismo, dalla letteratura e dal cinema nordici»37. È da registrare qui lo svilupparsi di alcuni interrogativi mai sopiti sull’impegno sociale e politico di Bergman. Si può vedere nei personaggi negativi (Egerman, il capo della polizia, Vergérus) una critica alla società borghese? Ernesto G. Laura38 trasferisce la metafora sul piano storico, vedendo in Vergérus «l’Europa scettica e positivista del primo Ottocento» in Ottilia «la donna illusa dai miti del romanticismo» e in Starbeck «il cinico capo della polizia dei regimi assolutisti». Ma poi vede in Vogler-Bergman l’immagine dell’«uomo moderno che cerca una bussola in un tipo di cultura che è incapace di dargliela, una volta rifiutata l’illuminazione metafisica, un uomo moderno che non si arrende e cerca come può, angosciato di non trovare». L’obiettivo di Bergman, in realtà, è sempre stato più ampio della semplice critica alla borghesia del suo tempo. Il regista si dichiarava in qualche modo socialdemocratico, e certamente il suo mondo poetico era espressione della cultura socialdemocratica svedese. Ma nelle opere spostava il discorso su un piano più elevato. Mentre da un lato insisteva sulla sfera individuale evitando intromissioni nell’ambito politico-sociale, d’altro canto affrontava i problemi più generali, “planetari”, dell’uomo del ventesimo secolo: delle sue angosce esistenziali, delle sue paure, dei suoi fallimenti, dei vuoti spirituali determinati dalla società circostante o sottintesa, e comunque non limitata alla semplice esperienza scandinava. Qui si riscontra, tra l’altro, la grande attualità dell’opera di Bergman a distanza, proprio nel momento in cui dopo i fatti del 1989 la società europea cerca un modus vivendi sociale, morale, individuale, psicologico in un postmarxismo forse ancora tutto da inventare. Rivisti con gli occhi degli anni Novanta, questi film appaiono ancora più ricchi e generosi. Resta da dire del lieto fine, che ha fatto incasellare il film in un preteso filone dell’ottimismo bergmaniano. Come in Donne in attesa, l’atmosfera è inizialmente cupa e tenebrosa, ma si va rischiarando via via verso il finale, caratterizzato addirittura da una musichetta semplice e gaia, elementare, quasi felliniana, apparentemente stridente con il resto dell’opera. Ma Bergman, come molte altre volte, vuole raccontare per suoni e immagini il ritorno alla realtà della vita che – siano o meno risolti i dubbi esistenziali – è pur sempre la verità concreta nella quale siamo chiamati a operare, è pur sempre qualcosa che amiamo. La vita continua, prepotente, al di là dei nostri interrogativi e delle nostre inquietudini profonde, ed è comunque un valore. La fontana della vergine

Dopo Il volto Bergman si concesse qualche mese di pausa. Concluse la collaborazione col Malmö Stadsteater e rallentò l’attività cinematografica. Nel 1959 fece una tournée teatrale a Parigi e a Londra e il primo settembre convolò a nozze per la quarta volta. La scelta cadde su una pianista, Käbi Laretei, che gli avrebbe dato il figlio Daniel (a cui qualche anno dopo il regista dedicherà un cortometraggio intitolato, appunto, Daniel). Intanto moriva il direttore della Svensk Filmindustri, Dymling, e al suo posto veniva nominato un vecchio amico, Manne Fant, che lo chiamò a collaborare in qualità di consigliere artistico. Bergman ne avrebbe approfittato per favorire i giovani, come Flans Abramsson, Gunnar Hellström e Vilgot Sjöman, svecchiando il cinema svedese. L’attività cinematografica vera e propria riprese con La fontana della vergine, che a Bergman fruttò il primo Oscar e molti applausi al Festival di Cannes del 1960. Una giovane donna, Inger, soffia sul fuoco, appende il paiolo e poi invoca il dio pagano Odino. In un’altra parte della casa, di proprietà di un ricco signore, si prega davanti al Crocifisso. La padrona di casa, Märeta, va a svegliare la figlia, incaricata di portare le candele alla chiesa, oltre il bosco: un’incombenza riservata dalla tradizione alle vergini. La giovane chiede di indossare gli abiti più belli: la tunica di seta, la cintura con le borchie d’oro. Intanto Inger, nel preparare le provviste per la giovane, toglie la mollica a una pagnotta e la sostituisce, per dispetto, con un rospo vivo. Il padrone di casa, Töre, si reca a sua volta nella stanza della figlia e la rimprovera affettuosamente per non essersi svegliata all’alba.

Karin parte, a cavallo, accompagnata da Inger, che è visibilmente incinta: una gravidanza rabbiosa, perché la donna è stata violentata. Durante il percorso Inger dice di aver paura e si ferma nella casa di un vecchio, che si rivelerà dedito ad arti magiche. Intanto Karin incontra tre pastori, due adulti e un fanciullo. La seguono, la invitano a dividere con loro il cibo che reca con sé. Karin accetta. In una radura, davanti a una tovaglia, cominciano a mangiare, dopo che la giovane ha recitato una preghiera. Inger, nascosta poco distante, vede tutto quel che accade. A un certo punto il rospo esce dalla pagnotta. C’è un momento di tensione. I due pastori adulti si gettano su Karin e la violentano. Poi uno di essi la uccide con una bastonata. Inger ha in mano una pietra, ma non ha il coraggio di intervenire. I pastori derubano Karin degli abiti e fuggono. Soltanto il piccolo ha un gesto di pietà gettando della terra sul povero corpo abbandonato. I pastori arrivano alla casa di Töre dove sono accolti generosamente. Viene dato loro da mangiare, e un giaciglio accanto al fuoco durante la notte gelida. I genitori di Karin pregano davanti al crocifisso, preoccupati perché la figlia non è ancora tornata. Märeta rimprovera il marito: «Mai un pensiero rivolto a Dio». Si odono alcuni colpi, e Märeta scende a vedere cosa succede, convinto che i due pastori stiano picchiando il bambino. Difatti lo vede che giace insanguinato. Uno dei pastori le offre una tunica in vendita, e la donna riconosce l’abito della figlia: è macchiato di sangue. Esce, rinchiude nella stanza i pastori, va dal marito a riferirgli la drammatica realtà. Töre avrà la conferma della tragedia da Inger. Comincia la vendetta che Töre compie secondo un rituale pagano. Abbatte una betulla, con le fronde si percuote per mortificare il suo corpo, quindi versa su di sé l’acqua della purificazione. Si arma di un coltello per scannare. Nella stanza dei pastori si siede in attesa dell’alba. Al canto del gallo li sveglia e si avventa su di loro, uccidendoli a uno a uno con fredda violenza, senza risparmiare neppure il bambino, nonostante l’intercessione della moglie. «Dio perdoni ciò che ho fatto», dice. Guidati da Inger, tutti vanno in cerca del corpo di Karin. Töre invoca Dio quasi rimproverandolo per non aver impedito l’assassinio. Poi gli chiede perdono e gli promette di costruire in quel luogo una chiesa con le sue stesse mani. Sollevano il corpo di Karin, e nel punto dove era posato il suo capo sgorga una limpida sorgente. È un segno divino. Inger e gli altri si lavano con quell’acqua in segno di purificazione.

Tratto (da Ulla Isaksson) da una ballata svedese del quattordicesimo secolo, il film affronta direttamente, a differenza di altri, una tematica religiosa. Anzitutto, il contrasto tra paganesimo e cristianesimo nel contesto storico-religioso della Scandinavia del tempo. Pagana è Inger, cristiana è Märeta. Il proprietario terriero Töre si trova in bilico fra la tradizione antica e la ventata nuova. In lui ha luogo la conversione. Emblematiche sono le sue parole finali, davanti al corpo inanimato della figlia: «Ma tu vedi, Dio! Tu vedi, vedi la morte di un’innocente, vedi la mia vendetta e non lfhai impedito. Io non ti capisco. Eppure adesso chiedo il tuo perdono. Non conosco altro mezzo per conciliarmi con queste mie mani. Non conosco altro modo per vivere. Ti faccio voto, o Signore, qui, in penitenza del mio peccato, di edificare una chiesa con queste mie mani». L’itinerario della conversione è semplice, didascalico. Ma Bergman, in altri momenti del film, va più a fondo nel presentare la sua problematica religiosa, nell’annunciare la sua ricerca che nelle opere successive assumerà forma compiuta. Lo si avverte, per esempio, nelle parole che un monaco dice al pastorello: «Vedi come il fumo trema e si abbarbica sotto il tetto come avesse paura dell’ignoto. Eppure se si librasse nell’aria troverebbe uno spazio infinito dove volteggiare. Ma forse non lo sa, e così se ne sta qui nascosto tremolante e inquieto. Con gli uomini capita lo stesso. Essi vagano inquieti come tante foglie al vento per quel che sanno e per quel che non sanno». Il film, che rinuncia quasi completamente al dialogo e si affida unicamente alle immagini, si snoda (come ha fatto notare Gian Luigi Rondi) «in un clima teso, ansioso, quasi livido»39. Il dosaggio della colonna sonora corrisponde all’intento di suggerire una meditazione spirituale. È un’opera mistica, ma il suo misticismo ha un sapore aspro, forte. La trascendenza per l’uomo è lontana: si intravvede al di là di un tunnel di orrore e di sangue. Le sequenze dello stupro e assassinio della ragazza (fot. 46) e quella della vendetta perpetuata da suo padre (fot. 47) sono di un allucinante realismo: la violenza è perpetrata a freddo, quasi secondo una logica inevitabile.

FOT. 46

FOT. 47

Il lirismo nasce dalla parabola, non dalla manifestazione dei sentimenti. Si consideri, al riguardo, la reazione della madre, composta oltre il dovuto, alla notizia della morte della figlia. In realtà Bergman si compiace nel produrre un’osmosi tra allegoria e realtà, nel giocare con il tempo40, nel mescolare eventi e presagi, nel fondere «il magico paesaggio con il dramma dei personaggi di cui costituisce una componente essenziale»41. Il contesto è simile a quello di Il settimo sigillo, ma qui lo sguardo non spazia sulle grandi piaghe dell’umanità, si limita a presentare uno scorcio di brutale violenza privata. Rispetto a Il settimo sigillo cambia pertanto il ritmo, che qui è più lento: il racconto ha un andamento ieratico, assorto. La poesia nasce dalle piccole cose di tutti i giorni: piccole gioie cancellate da grandi dolori. Ma La fontana della vergine, pur nella sua cupa ispirazione, rimane una delle opere di Bergman più nitidamente aperte alla speranza. La fontana che scaturisce sul luogo dell’assassinio della vergine innocente (fot. 48) tornerà come simbolo in non poche citazioni dell’acqua purificatrice come, ad esempio, nel finale di Il silenzio.

FOT. 48

L’occhio del diavolo

Quasi per scrollarsi di dosso l’austerità di La fontana della vergine, Bergman si dedica subito a quello che nei titoli di testa definisce un «rondò capriccioso» (fot. 49): L’occhio del diavolo. Anche qui, guarda caso, si parla della verginità femminile, ma stavolta il regista chiede allo spettatore non una profonda meditazione, bensì un complice sorriso. Accadrà la stessa cosa quando, al termine della compunta trilogia, Bergman si dedicherà alla commedia intitolata A proposito di tutte queste… signore.

FOT. 49

Le mani di un pianista che su una tastiera suona Scarlatti. Una didascalia avverte: «La verginità di una giovane è come un orzaiolo nell’occhio del diavolo». Si tratta di un proverbio irlandese che dà spunto al film. Un attore (Björnstrand) parla al pubblico presentando la commedia. Nel primo atto Belzebù convoca i suoi consiglieri – un marchese e un conte – lamentandosi dell’orzaiolo provocatogli dalla virtù di Britt Marie, la figlia di un pastore che vuole arrivare illibata al matrimonio con il fidanzato, l’agronomo Jonas. Al termine della consultazione si decide di rinviare sulla terra Don Giovanni per rimediare. Questi sta scontando la sua pena, consistente nel desiderare donne che poi scompaiono sul più bello. Il diavolo gli promette uno sconto di trecento anni sulla pena e un sonno esente da incubi nel caso riesca a sedurre la ragazza. Don Giovanni parte per la terra accompagnato dallo scudiero Pablo ma anche da un diavolo controllore, vestito da frate. L’auto del pastore si ferma per un guasto meccanico provocato da Belzebù. I due risolvono il problema e ne ricavano un invito a cena. Nella casa del pastore Don Giovanni corteggia Britt e Pablo Renata, la moglie del pastore, donna insoddisfatta. Un gatto nero serpeggia tra le stanze osservando quel che succede: probabilmente è un’altra spia del diavolo. Britt prende la corte di Don Giovanni come un gioco e accetta di baciarlo. Lo ha già fatto con altri giovanotti e non ritiene che sia d’intralcio alla purezza del suo rapporto d’amore con Jonas. L’attore ci annuncia il secondo atto. Satana scatena un temporale e il pastore invita gli ospiti a pernottare in canonica. A tavola Britt, nervosa perché si accorge che Don Giovanni ha destato in lei il desiderio, litiga con Jonas, che esce dalla casa adirato. Don Giovanni racconta ai commensali la sua vita come se fosse quella di un altro. Il pastore va a dormire. La sua preghiera della sera al Signore è che aiuti la moglie a superare i suoi problemi esistenziali e che aiuti lui stesso a essere meno ingenuo, ad avere della vita una visione più acuta e chiara, anche se sempre piena d’amore. Arriva la moglie, i due si parlano ma sembrano due estranei. Tornata nella sua stanza, accetta la corte di Pablo, che insiste e riesce a possederla nonostante che il diavolo-frate lo sconsigli e lo minacci. Non riuscendo a essere convincente, questi va a riferire tutto al pastore. Ma il pastore non gli crede, rifiuta di andare a spiare la moglie e chiude il malcapitato diavolo nell’armadio. L’attore annuncia il terzo atto. Don Giovanni entra nella stanza di Britt, ma rinuncia a sedurla perché si accorge di amarla. L’amore ha vinto sul peccatore impenitente. Il pastore intanto, dopo un battibecco col diavolo-frate, si siede sulla scala e vede Renata e Pablo che escono dalla camera da letto. È il momento della spiegazione con la moglie ed è anche il momento del perdono: «Potremo cambiare. Domani è un altro giorno, Renata, sarò diverso». Don Giovanni raggiunge ancora Britt che si è nascosta in un padiglione nel parco e le confessa il suo amore. Ma la donna gli dice di non amarlo. Don Giovanni ripiomba nell’inferno per la resa dei conti con Belzebù. «Le potenze celesti ci hanno sconfitto – dice il re dei diavoli –. Il seduttore torna a casa con il cuore infiammato d’amore. Un sacerdote la cui ingenuità faceva la gioia dell’inferno si fa scaltrito e diventa una forza per noi temibile. Renata è diventata una buona moglie. Pablo si è ribellato». Belzebù ammette la completa e irrimediabile sconfitta del male. Ma il sipario non cala ancora. Un diavolo

detto «orecchione» ci fa ascoltare quel che accade sulla terra. Britt, la sposina, dichiara al maritino di non aver mai baciato alcun uomo prima di lui. La bugia ricompone l’equilibrio. L’orzaiolo sparisce dall’occhio del diavolo. Al termine, invece della parola «fine», leggiamo la scritta «Così finisce il film». Bergman sottintende: «… e continua la commedia della vita».

L’occhio del diavolo è stato a torto considerato opera minore. Molti critici hanno scambiato una diversità di stile con una diversità di ispirazione. Invece qui, in una forma di divertimento compiaciuto ed esibito, Bergman fa il punto molto seriamente su tutti i problemi esistenziali che occupano la sua opera, a cominciare da quello religioso. Con insolita chiarezza e insistenza, ci parla della necessità di Dio e del Dio amore. Ne parla, in particolare, dalle labbra dell’attore-mediatore, nel cui pensiero è facile riconoscere quello del regista42, anche perché l’attore è quel Björnstrand al quale in molti film Bergman affida il compito di parlare a suo nome (fot. 50). «Ci sono persone – dice l’attore – che ritengono che Dio sia morto. Forse anche mai esistito. Loro pensano che il cielo sia vuoto e che il male esplichi verso il mondo la stessa funzione meccanica delle altre leggi naturali, mentre il bene rappresenta la più inspiegabile perversione dell’umanità. Una simile opinione servirebbe egregiamente come sfondo a una tragedia. Ma la nostra è una commedia e ci serve uno sfondo diverso». Un modo brioso, leggero, da “rondò” per dire cose che altrove Bergman dice con molta maggiore serietà, e cioè che la vita senza Dio sarebbe una tragedia. Al Dio amore fa riferimento lo stesso Don Giovanni, che al termine del primo incontro con Britt, vedendola turbata e sentendosi un po’ turbato egli stesso, dice: «Ho veduto l’amore da vicino. È un dono eccezionalmente raro. I mortali capaci di amare sono in numero ristretto e la loro sofferenza è grande. Pare che essi siano vicini a Dio, che siano il suo specchio e riflettano la sua luce e rendano la vita sopportabile agli altri che brancolano nel buio. Forse sarà così… Io ho scelto un’altra strada che si chiama disprezzo e indifferenza». Nel dialogo che segue, Bergman fa capire che questa è una scelta di morte.

FOT. 50

Tra le pieghe del film si trovano altre tematiche care a Bergman, come quella della maschera (Renata lamenta col marito la confusione tra persona e personaggio), del mondo come inferno o come paradiso, del matrimonio che può essere «l’arma segreta dell’inferno», della donna e della donna nordica in particolare. Ella – dicono a Don Giovanni i consiglieri del diavolo – «è passionale, imprevedibile, indipendente. Confondere i suoi atteggiamenti a volte impudichi con la sensualità è catastrofico». Qui evidentemente Bergman polemizza anche con un certo modo di vedere la donna scandinava da parte degli europei del sud. Mario Verdone individua un rapporto preciso con Il volto: «Sembra una prosecuzione e una variazione in minore (e in fondo il rondò non è che un componimento che si caratterizza nella ripetizione) di Il volto, anche se tutto ciò che nella allegorica vicenda di Vogler è dramma, qui diventa grottesco, anche se ciò che nel “mistero” mesmeriano è solenne e profondo, qui si presenta in tono leggero e fatuo, quasi inconsistente»43. C’è inoltre il tema del “cambiamento come in Il settimo sigillo, in Immagine allo specchio, in Sussurri e grida. In Don Giovanni si verifica un mutamento, una metanoia: «Dall’ideale estetico della vita Don Giovanni esce con un salto che lo porta nella vita etica», scrive Guido Aristarco44. Come ignorare, poi, che

nella figura del pastore in crisi si adombra già quella del protagonista di Luci d’inverno45? Il film inoltre è di grande interesse come rilettura del mito di Don Giovanni, che c’è tutto, in un cocktail di filosofia e di teologia tipico di Bergman. Il personaggio è attualizzato, calato suo malgrado in una dimensione spaziale e temporale diversa dalla sua, costretto a misurarsi con una realtà differente dagli stereotipi cui il suo nome è legato nella tradizione. È lui, in fin dei conti, il vero protagonista del film (fot. 51 e 52). Ne esce apparentemente sconfitto, ma in realtà arricchito, perché ha ricevuto un dono d’amore. Il castigo che gli annuncia alla fine Belzebù è emblematico: «Che Don Giovanni dorma, con o senza sogni. Sognerà il Paradiso Terrestre. Niente è abbastanza crudele per colui che ama». L’occhio del diavolo è bello anche per le intriganti simmetrie che si possono individuare negli spostamenti e negli umori dei sei personaggi principali (quattro più due), per la sua teatralità dichiarata, che però si alterna con momenti di ariosità cinematografica46 condizionando in questa altalena la stessa, pregevole interpretazione degli attori, grandi come sempre e docili come sempre alle direttive dell’autore. La musica, scarlattiana, è usata in modo funzionale. Si pensi alle poche note del clavicembalo nel momento del secondo bacio tra Britt e Don Giovanni, che fanno capire come in quel momento preciso qualcosa cambia, nulla sarà come prima. Da notare, infine, la presenza di alcuni vezzi bergmaniani, come quello di mettere in scena proverbi e modi di dire. Tutto il film è un proverbio rappresentato. Ma qua e là occhieggiano esempi più minuti della stessa attitudine: il diavolo materialmente chiuso nell’armadio, per esempio, è la visualizzazione di un modo di dire, così come lo è la morte che sega l’albero di Il settimo sigillo.

FOT. 51

FOT. 52

Come in uno specchio

Alla fine del 1960 Bergman, ormai famoso, fu chiamato a lavorare nel Kungliga Dramatiska Teater di Stoccolma (due anni dopo ne sarebbe diventato direttore) e all’inizio del 1961 mise in scena Il gabbiano di Cechov. Intanto pensava a un film diverso dagli altri, più strindberghiano. Voleva realizzare «un’opera da camera per il cinema». Intendeva ambientarlo su un’isola e aveva pensato a una delle isole Orcadi. Si recò a visitarle, ma nessuna di esse lo soddisfece. Qualcuno gli suggerì una brulla isola del Baltico, di nome Fårö. Controvoglia, prese il traghetto e andò a vederla. Dopo pochi minuti ne rimase affascinato. Non solo vi girò Come in unio specchio, ma in seguito decise addirittura di stabilirvisi. Nel 1961 il film ottenne l’Oscar per il miglior film straniero. Presentato al

Festival di Berlino del 1962 ebbe il premio Ocic. Nel mare dell’isola di Gotland quattro persone fanno lietamente il bagno. Sono due sposi, Martin e Karin, il padre di Karin, David e un giovane, Minus, fratello di Karin. Discutono allegri per stabilire chi andrà a prendere il latte. Martin è un medico. La moglie Karin è affetta da una gravissima malattia. David è uno scrittore appena rientrato dalla Svizzera, e in partenza questa volta per la Jugoslavia. Martin e David vanno a gettare le reti per la pesca, mentre i due fratelli scherzano tra loro. Minus però è dispiaciuto per l’imminente partenza del padre, e lo rimprovera anche, più tardi, durante la frugale cena all’aperto, che si svolge in un’atmosfera piuttosto tesa. David distribuisce alcuni regali, poco indovinati. Dopo la cena si gioca a moscacieca. Quindi Minus e Karin inscenano una rappresentazione, nella quale pure si parla di un «poeta senza poesia» che antepone il successo all’amore. I quattro vanno a dormire. Karin confida a Martin le sue paure: «Siamo così indifesi a volte…». Più tardi la donna si alza e si aggira sola per la casa. La vede il padre che la riporta a letto «come quando era piccola». Poi David viene chiamato per tirar su le reti, e la donna torna ad alzarsi. Frugando tra le carte del padre ne trova il diario. Leggendolo scopre che la sua malattia è senza speranza e che il genitore ne osserva i devastanti effetti con curiosità professionale, traendone materia per le sue opere letterarie. La donna sveglia Martin, piange, gli racconta tutto. Martin le ribadisce il suo amore. David e Martin partono in barca. Karin, rimasta col fratello, gli sequestra una rivista pornografica, lo interroga in latino. Poi gli racconta le sue allucinazioni, la sua convinzione che Dio è dietro una porta destinata ad aprirsi davanti a lei. Quindi confessa: «Mi sto allontanando da Martin». In barca, intanto, Martin confida a David l’angoscia della moglie, rimproverandogli la sua insensibilità. David ammette di essere stato, in Svizzera, sull’orlo del suicidio. All’interno di un relitto naufragato sul bagnasciuga, Karin abbraccia incestuosamente il fratello. Poi ha un attacco del terribile male. Rientrano Martin e David. «Voglio tornare all’ospedale – dice Karin – e non desidero essere curata. Non si può vivere in due mondi; bisogna scegliere». David chiede perdono per il suo egoismo, per il «tempo sprecato – dice – nella mia cosiddetta arte». Karin prepara le sue cose in attesa dell’ambulanza. Poi sale in solaio. La trovano che parla da sola. Si apre la porta e la donna urla di terrore. Spiega, poi, che il Dio entrato da quella porta era soltanto un ragno. Giungono i portantini al pontile e Martin accompagna la moglie. Minus chiede al padre di aiutarlo a superare l’angoscia del rapporto innaturale con la sorella. «Tutta la realtà esplose – dice – e io ne caddi fuori». Il padre gli risponde in tono rassicurante indicandogli come sostegno la fede in Dio. «Dio è la certezza – gli dice – che l’amore esiste come cosa concreta in questo mondo di uomini. Questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e alla mia disperazione». Allora, conclude il ragazzo, «Karin è circondata da Dio perché è circondata dall’amore dei suoi cari». II film si chiude con le parole di Minus «Papà ha parlato con me»: un semplice gesto d’amore ha rotto il cerchio chiuso dell’incomunicabilità.

Come in uno specchio inaugura la trilogia dedicata specificamente al problema religioso, che sarà completata, nel breve arco di due anni, da Luci d’inverno e Il silenzio (ma la tematica sarà ancora ripresa e sviluppata in opere successive). Di fatto, questi tre film sembrano prestarsi a un’analisi globale. Troppe sono le analogie sostanziali, troppe quelle formali. Bergman era solito suggerire che i suoi film fossero esaminati singolarmente, ma egli stesso accomunò i tre film nella seguente classificazione: «Trattano di una riduzione. Come in uno specchio: certezza conquistata. Luci d’inverno: certezza messa a nudo. Il silenzio – silenzio di Dio – la copia in negativo. Perciò formano una trilogia». Si è molto parlato del significato religioso finale delle tre opere viste in successione, e qualcuno si è meravigliato dello strano itinerario. Lo avrebbe voluto inverso, dal dubbio alla certezza. Ma l’apparente incongruenza si spiega accettando una lettura più semplice della trilogia. Bergman non vuol dimostrare qualcosa. Vuole soltanto proporre qualcosa alla riflessione, vuole stimolare alla ricerca. E lo fa di volta in volta presentando personaggi – persone a loro volta in stato di ricerca. Non è né credente né ateo. È solo un uomo desideroso, nel suo cammino di artista, di far partecipare il suo prossimo alle sue meditazioni, alla sua avventura nella foresta del silenzio dell’infinito. Si potrebbe dire quel che Rivette disse di Rossellini: «non dimostra, mostra». E si potrebbe usare un’altra espressione usata per Rossellini, quella dell’entomologo che depone gli insetti in una scatola e poi ne segue, ne scruta, ne analizza i movimenti senza intervenire (ma mentre il percorso per Rossellini è la storia, per Bergman è la filosofia). Bergman è più vicino al realismo rosselliniano

(non dimentichiamo che Rossellini dedicò alla psiche umana importanti film del postneorealismo) che al mondo poetico di Antonioni, nonostante che analogie con quest’ultimo si potrebbero individuare nell’attenzione al tema della “incomunicabilità”. D’altra parte Antonioni proietta ansie e problemi dei personaggi nell’ambiente circostante, mentre Bergman cerca il più possibile di sfrondare la narrazione interiorizzando la materia. Stilisticamente la trilogia rivela la tendenza a circoscrivere sia lo spazio, sia il tempo. Le vicende si svolgono in ambienti rigorosamente chiusi e in segmenti temporali brevi, ben delimitati. È l’uomo prigioniero delle sue angosce l’oggetto dell’attenzione del regista. Godard ha parlato di «cineasta dell’istante». In effetti, si ha l’impressione – appena dopo i titoli di testa (stavamo per scrivere «appena il sipario si apre») – che tutto sia già avvenuto. Bergman ci accompagna per mano a raccogliere i cocci di un disastro già accaduto. È un modo teatrale di rappresentare gli eventi umani che ha le radici nell’antica Grecia e forse anche oltre. Certo, l’esperienza teatrale di Bergman pesa sul suo stile e pesa sull’andamento della trilogia, ma limitarsi a leggere questi film come teatro filmato impedisce di gustarne a fondo il gioco delle immagini in sequenza, che è gioco intellettuale e al contempo gioco di emozioni. Bergman ama il cinema più del teatro perché il cinema gli consente più libertà. Nell’uso discreto, calibrato, ma puntuale di questa libertà sta il segreto del maestro. In ogni caso a proposito della trilogia si è parlato di Kammerspielfilm, ricollegando Bergman al movimento sorto con quel nome nel 1921 come reazione al primo espressionismo per merito dello scenarista Karl Mayer e del regista Lupu-Pick. Ciò si è tradotto, osserva il gesuita Padre Luigi Bini in «un crescente ascetismo visivo»47. Il cineasta accantona ogni effetto che potrebbe distrarre l’attenzione dello spettatore dall’universo interiore che gli vuol presentare. La drammaticità della situazione deve emergere dall’interno dei personaggi e non da quanto li circonda. Gli elementi scenografici sono ridotti al minimo, sono eliminati i flashback, sogni e fantasie sono raccontati con le parole anziché con le immagini. Il dialogo assume un’importanza primaria. Le cose fotografate si raccordano perfettamente allo snodarsi del dramma. Il realismo rasenta il simbolismo. Non a caso, in Come in uno specchio, un momento di grave crisi di due esseri umani è rappresentato all’interno di un relitto (fot. 53), che assume appunto un valore simbolico-allegorico. Gli stessi rumori – pochi, amplificati irrompenti nel cuore di lunghi silenzi – assumono una funzione irrealistica: ad esempio, il frastuono prodotto dalle pale dell’elicottero (visto attraverso una finestra, fot. 54) che arriva nell’isola per portare via Karin proprio nel momento in cui esplode la crisi.

FOT. 53

FOT. 54

La ricerca dell’infinito avviene su due binari principali e su un binario secondario. I binari principali sono Karin e David. Il binario secondario è Minus. Nessun binario segue il personaggio di Martin, sempliciotto medico positivista, banale, incapace, nonostante la sua apparente gentilezza, di dar

risposta all’ansia d’amore che lo circonda. Il binario Karin parte da un presupposto, la malattia mentale, che induce la donna a una sorta di sdoppiamento esistenziale tra la realtà e le sue fantasie. Karin dice al fratello: «Siamo così indifesi a volte. Come bambini che si sono perduti in luoghi deserti. Le civette gridano e fissano con i loro occhi gialli. Senti un fruscio sommesso e un cauto mormorio attorno a te e un ansimare leggero di umidi musi e poi le zanne dei lupi». Poi dice al padre: «Degli uccelli hanno cominciato a gridare in modo così orrendo che mi hanno svegliato». Più avanti nel film Karin confida ancora al fratello il suo incubo: «Mi trovo in un ambiente enorme – dice. – Tutto è illuminato e tranquillo. Diverse persone vanno avanti e indietro e quando mi rivolgono la parola le capisco. Tutto è splendido e io sono serena. Alcuni volti irradiano attorno una luce quasi abbagliante. Tutti aspettano lui che deve arrivare, ma senza nessuna ansia. E dicono che io devo essere presente quando ciò avverrà». A questo punto Karin piange, quasi a presagire che quel momento potrà essere un momento di dolore, di sconfitta. «A volte – prosegue – provo un’ansia irrefrenabile, un desiderio violento del momento in cui la porta si aprirà e tutti si volgeranno verso di lui che si fa avanti… Credo che sia Dio, che sia Dio stesso che debba apparirci… Dio scende dalla montagna attraverso il bosco tenebroso mentre intorno le fiere guardano nel silenzio. Dev’essere la realtà. Io non sogno e quello che dico è vero. A volte mi trovo in questo mondo e a volte nell’altro senza che io possa impedirlo». Karin è vittima di uno sdoppiamento, di una dicotomia imposta, alla quale non riesce a reagire come gli altri esseri umani distinguendo fra realtà e sogno, fra realtà e desideri, fra realtà e paure, fra realtà e fantasia. È qui il nocciolo del suo dramma, la portata della sua malattia mentale. Ma la sua malattia è anche spirituale, ed è l’illusione che al di là della porta ci sia la verità, ci sia l’infinito, ci sia Dio. Invece, come Bergman ci racconta, non c’è che l’ennesima materializzazione della sua paura. Dio c’è dove c’è amore. Dio non c’è nella follia, nel cedimento dell’essere umano all’irrealtà, nella fuga dell’uomo dalla vita. (La porta di cui Karin parla non la si vede quasi mai, mentre spesso Bergman ci fa vedere una finestra aperta sul mare, fot. 55, 56 e 57.) Così, quando Karin vede aprirsi quella porta immaginaria, vede qualcosa di cui prova orrore, quello che è stato definito il dio-ragno. «Ho avuto paura – racconta – la porta si è dischiusa, ma il Dio che è entrato era solo un ragno. Si è avvicinato a me e io l’ho visto in faccia: un viso ripugnante [come in uno specchio, lo specchio della mente o forse dell’anima, N.d.R.] e gelido. Si è lanciato su di me, voleva possedermi ma io mi sono difesa. Vedevo continuamente i suoi occhi così freddi e calmi. Non è riuscito a penetrare in me, così ha strisciato sul mio petto e se ne è andato su per la parete. Ho visto Dio». Sono queste le ultime parole di Karin. Ha cercato Dio, ha creduto di trovarlo nella sua mente pazza, ma non ha trovato al di là della porta che l’immagine del male riflessa da sé.

FOT. 55

FOT. 56

FOT. 57

Diverso è l’itinerario di David. All’inizio del film è un uomo che sbaglia tutto. Ha sbagliato a lasciare la famiglia, sbaglia pensando di lasciarla di nuovo. Ha portato regali inutili e poco graditi. Si isola in una stanza a piangere. Ha sfruttato a fini letterari l’esperienza drammatica della figlia ammalata («Provavo l’orrendo desiderio di studiarne i sintomi…»: lo stesso Bergman, durante la preparazione del film, studiò il comportamento della figlia pazza di un suo amico). Ha tentato il suicidio uscendone salvo per puro caso. «La tua insensibilità ti ha reso un essere perverso», gli dice Martin in barca. Ma David è un peccatore in fase di conversione. Parla a Martin di «un amore per Karin, per Minus, per te». Aggiunge: «Un giorno forse ti dirò tutto; adesso non ho il coraggio». Quel coraggio lo trova più tardi, quando chiede perdono a Karin e le dice: «Si traccia un magico cerchio intorno a noi, escludendo tutto ciò che può compromettere i nostri intenti, ma quando la vita spezza il cerchio gli intenti si rivelano meschini e insignificanti. Così tracciamo subito un nuovo cerchio, un nuovo riparo» (torna qui un motivo di Un’estate d’amore). Più coraggio ancora David trova nel finale, quando si apre finalmente col figlio Minus. La scena rompe sia il cerchio chiuso dell’uomo che non riesce a entrare in conflitto con l’infinito, sia il cerchio chiuso dell’incomunicabilità (Karin per comunicare si rinchiudeva nella follia: «Io la capisco…»). La chiave di volta è nell’amore, e amore è anche parlare, comunicare. Minus gli confida la sua paura dopo la tentazione dell’amplesso con la sorella: «Tutta la realtà esplose e io ne caddi fuori. È come un incubo, tutto può accadere, papà. Non posso vivere in questo nuovo mondo». Si è sulle soglie di una schizofrenia simile a quella di Karin. «Sì, – risponde però David – se avrai qualcuno su cui sostenerti». «Dio? – replica il ragazzo – dammi una prova di Dio. Non puoi». «Sì che posso. Dio è la certezza che l’amore esiste come cosa concreta in questo mondo di uomini… Ogni genere di amore, il più elevato e il più infimo, il più oscuro e il più splendido. Ogni specie d’amore… Il desiderio e la repulsione, miscredenza e fede… Non so se l’amore dimostra l’esistenza di Dio o se l’amore è Dio stesso… Questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e alla mia disperazione. Di colpo la miseria è diventata ricchezza e la disperazione speranza. È come essere graziati in punto di morte». Minus dimostra di aver capito quando risponde: «Allora Karin è tutta circondata da Dio perché noi l’amiamo davvero». Il finale, così verboso, così didascalico ed enfatico, può fare il paio col finale di Il dittatore (The Great Dictator, di Charlie Chaplin, 1940). Parla in prima persona l’autore del film, ed esprime un

punto di vista universale, chiaro, attuale, ricco. Ciò può aver indotto erroneamente certa critica a scandalizzarsi poi per le strade prese da Bergman nei film successivi, che sembravano ripartire sempre da capo. Ma l’apparente dicotomia si salda tenendo presente che il “manifesto” del finale di Come in uno specchio trova corrispondenza, qua e là, in tutto il corpus dell’opera bergmaniana anche se spesso in sordina, tra le pieghe, senza infastidire. Questo perché Bergman, come si diceva, non vuol convincere nessuno, vuole semplicemente aiutare la gente a riflettere. «Bergman non è, né vuole essere – ha scritto il gesuita belga Padre Jos Burvenich – il cantore della fede e di Dio: è piuttosto il ricercatore ansioso e angosciato della soluzione di un problema fondamentale per la sua vita di uomo e, in parte, di artista». Quella di David è una soluzione del problema esistenziale, ma ce ne possono essere altre. Tante forse quanti sono gli uomini su questa terra? Tante forse quanti sono i grandi personaggi bergmaniani, raccontati, segnalati nella loro verità e nella loro ambiguità, alla mente e al cuore degli spettatori. Anche perché in fin dei conti come diceva Chaplin, «la bellezza del cinema sta negli occhi di chi guarda». Resta da svelare il mistero del titolo. Le parole «come in uno specchio» sono tratte dagli Atti degli Apostoli, e più esattamente dalla prima Lettera di San Paolo ai Corinti, capitolo 13, versetto 12: «Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia». Padre Bini definisce la citazione «ingannevole»48, perché sostiene che il perno del film è Karin. Sollevato il velo di Karin (la porta chiusa), appare tutt’altro che la realtà divina in maniera chiara. Ma il perno del film non è Karin sic et simpliciter. Potrebbe essere Karin insieme con David; potrebbe essere l’intero quartetto. In sostanza il perno del film è un personaggio qualsiasi in cui Bergman si identifica come uomo-artista che cerca l’infinito, la trascendenza. La intravvede, come in uno specchio, in uno o più dei suoi personaggi, ma inesorabilmente, indefinitamente continua a cercarla, convinto, alla luce del testo paolino, che soltanto “allora” potrà conoscerla nella sua pienezza. Le cose si complicano quando si consideri che un altro titolo bergmaniano è ricavato dallo stesso versetto: Face to Face, titolo originale di L’immagine allo specchio. Ma ancora una volta la lettura del titolo va inquadrata nell’insieme dell’opera che è ricerca e non soluzione, mostrare e non dimostrare, ipotizzare e non definire. Il tutto è servito sul piatto d’argento del grande cinema d’autore. «Bergman – nota Giovanni Grazzini – trasporta gli spettatori in un’atmosfera arcana, fatta d’immagini essenziali di estrema espressività, grazie a una scenografia vivida, a una regia che chiede alla luce, ai silenzi, di restituire le presenze soprannaturali e il tormento delle anime, alla recitazione superba di Harriet Andersson di rappresentare la mutevolezza di una donna malata che alterna l’orrore alla felicità di non essere costretta a vivere in una sola realtà»49. «Il grande regista svedese – scriveva Guglielmo Biraghi – ha ormai nelle sue immagini un tale grado di concentrazione espressiva che non gli è più necessario, per descrivere fenomeni o sensazioni paranormali, ricorrere ogni tanto al surrealismo o all’espressionismo, come per esempio in Il volto e Il posto delle fragole»50. «Pur essendo spesso vicino al trattato di filosofia e di teologia – fa notare dal canto suo Gian Luigi Rondi, – rivela un tale senso vivo del cinema e una tale matura sapienza figurativa da lasciare lo spettatore abbacinato anche se, spesso, intimidito… Con uno stile che qua e là può sembrare indulgente verso taluni risvolti letterari, con immagini nere e grigie alla Dreyer, riesce con pochi essenzialissimi accenni a creare un clima drammatico teso a volte fino al parossismo, sfiorando argomenti anche scabrosissimi (quali ad esempio l’incesto) con perfettissima purezza»51. Luci d’inverno

Il secondo film della trilogia – Luci d’inverno – nacque da un’idea che Bergman aveva in mente da alcuni anni: un uomo entra in una piccola chiesa di campagna, d’inverno, chiude la porta, si avvicina all’altare e dice al Cristo: «Resterò qua fino a quando non mi parlerai». Era solo un’idea,

che diventò progetto dopo che il regista vide il film di Bresson Diario di un curato di campagna (Le journal d’un curé de campagne, di Robert Bresson, 1951). Ne fu profondamente colpito. «Era così assolutamente vero – disse –, così assolutamente onesto, così assolutamente privo di complicazioni estetiche»52. La lavorazione fu difficile, perché Bergman si mostrò più esigente che mai. Realizzato nel 1962 a Falum, cittadina della Svezia centrale, scelta poi per la prima mondiale del film a beneficio dei lavori di restauro della chiesa, il film vinse il primo premio all’VIII Settimana Internazionale del film religioso a Vienna, meritò il Gran Premio Ocic 1963 ex aequo con Il buio oltre la siepe (To Kill a Mocking Bird, di Robert Mulligan, 1962) con questa motivazione: «Illustra in modo straziante il tormento che costituisce per ogni anima profonda il “silenzio” di Dio». Nella navata della piccola chiesa gotica parrocchiale di Mittsunda il pastore protestante Tomas Ericsson sta celebrando la funzione. Recita le preghiere, distribuisce ai fedeli la comunione nelle due Specie: l’ostia e il vino (la traduzione letterale del titolo svedese è “I comunicandi”, e il gioco di parole mette in relazione la comunione eucaristica con la comunicazione tra gli uomini). All’esterno tutto è coperto di neve. Il rito è accompagnato dal canto gregoriano. Alla balaustra rotonda dell’altare si accostano soltanto cinque fedeli. La macchina da presa inquadra i particolari di un crocifisso di legno. La mamma rimprovera una bambina distratta. L’organista guarda l’orologio. Terminato il rito, in sagrestia, il sagrestano Algot chiede al pastore di parlargli. Il pastore gli dà appuntamento a più tardi. Arrivano i coniugi Persson, turbati. Hanno due bambini e un terzo è in arrivo. Ma il marito è affetto da mania depressiva, ossessionato dal pensiero dei cinesi che «hanno la bomba atomica e non hanno nulla da perdere». L’uomo tornerà più tardi dal pastore, per parlargli da solo a solo. Una donna, la maestra elementare Marta Lundberg, si avvicina e offre a Tomas qualcosa di caldo. Egli rifiuta. Si lamenta del «silenzio di Dio». Rimasto solo, il pastore guarda la fotografia dell’amata moglie, morta quattro anni prima. Poi estrae dal portafoglio una lettera. È Marta che ha preferito scrivergli, perché «quando si parla ci si confonde». Vediamo sullo schermo il volto stesso di Marta e ascoltiamo la sua voce che pronuncia le parole della missiva. La lunga sequenza è interrotta soltanto da un brevissimo flashback. Marta rievoca un episodio dell’estate precedente, quando Tomas rifiutò, disgustato, di pregare per un eczema che ella aveva alle mani. Dichiara di non credere nel soprannaturale, ma ammette che una sua preghiera è stata esaudita, avendo capito di amarlo. «Avevo chiesto una luce e l’avevo avuta. Ho chiesto uno scopo e l’ho avuto. Quello scopo sei tu. La mia profonda lacuna è di non saperti dimostrare il mio amore. Il mio solo desiderio è di vivere per qualcuno, ed è difficile. Ci rifletto ma non so nemmeno come si faccia». Arriva Jonas Persson, ma il colloquio tra i due è infruttuoso. Il pastore non riesce a dissuaderlo dai propositi suicidi. «Non ho la possibilità di aiutare nessuno» ammette «perché sono un cattivo pastore. Solo mia moglie riempiva il mio vuoto. Sono un povero rottame». Rimane solo, lamenta: «Dio, perché mi hai abbandonato?». Torna Marta. Entra nella chiesa una donna ad annunciare che Jonas si è ucciso con un colpo di pistola, nei pressi della cascata. Tomas si reca sul posto, poi va a casa di Marta dove la donna gli offre uno sciroppo. Aspettando Marta nell’aula scolastica, scambia alcune battute con un ragazzo. Gli domanda se andrà in seminario come il fratello e ottiene una risposta negativa senza motivazioni. Arriva Marta e si lamenta della sua freddezza. Tomas dichiara di non amarla. Poi, con lei, si avvia in auto verso la pieve di Frostnas, dove è atteso per un’altra funzione. Ma prima passa a casa della signora Persson per informarla della morte del marito. Le offre il suo conforto, mettendosi a sua disposizione ma la signora cortesemente ringrazia e lo congeda. In auto confida a Marta: «I miei genitori hanno voluto che diventassi prete». Giunto alla pieve, prima della funzione dà udienza ad Algot che gli confida alcune sue riflessioni dopo la lettura del Vangelo. Secondo lui, il momento di massima sofferenza per Cristo fu quando invocò il Padre: «Dio, perché mi hai abbandonato?». È la stessa invocazione sfuggita dalle labbra di Tomas al culmine della crisi religiosa. Anche Cristo ha sofferto del silenzio di Dio. Il pastore dà inizio alla funzione. Forse le parole di Algot hanno suscitato in lui qualche bagliore di nuova speranza, qualche luce d’inverno. Il volto di Algot è pervaso da un insolito sorriso. Sulle labbra di Marta affiora una preghiera: «Se riuscissimo a essere sicuri… se riuscissimo a credere in una verità… se riuscissimo a credere…». Comincia la funzione, il pastore recita le preghiere: «Santo, Santo, Santo…».

In Luci d’inverno chi cerca Dio è un pastore protestante, vale a dire chi dovrebbe averlo trovato prima degli altri. È uno dei soliti paradossi bergmaniani. Il grande psichiatra di L’immagine allo specchio denuncia il fallimento della psichiatria, lo scrittore David in Come in uno specchio dichiara il fallimento della poesia, e così via. Il pastore Tomas non è uomo che ha perduto la fede. Si è semplicemente accorto di non averla mai avuta. Cozza ostinatamente contro il silenzio di Dio, e

vede aprirsi uno spiraglio, alla fine, soltanto quando si rende conto, attraverso le parole di un uomo semplice come il sagrestano, che perfino Cristo soffrì per questo silenzio. Il film dedicato al silenzio di Dio è ricco di parole degli uomini. Come il precedente, è un film molto “parlato”. Come il precedente, procede per “scene”, separate l’una dall’altra da sequenze che si possono considerare intermezzi. Ogni scena contiene un colloquio, ogni colloquio avviene tra il pastore e un altro personaggio, e pertanto costituisce una tappa dell’itinerario spirituale del pastore. Qualcuno dice che il pastore è l’unica vera presenza del film. Altri accentuano il valore almeno del personaggio di Marta. In ogni caso il personaggio Jonas ha una precisa funzione, nel film e nell’insieme dell’opera di Bergman, in quanto incarna una delle paure planetarie dell’uomo contemporaneo: la guerra atomica. È un tema su cui Bergman non insiste. Al sociale, al politico egli preferisce sempre l’individuale, il personale. Lo sfiora, di tanto in tanto. Ma è uno sfiorare che lascia il segno e in qualche modo storicizza i problemi, le crisi, le nevrosi. Senza dubbio Tomas è il protagonista. In corpore vili, nel corpo e nell’anima di chi dovrebbe essere un uomo di Dio, Bergman sperimenta il peso dei suoi dubbi esistenziali, della sua crisi di coscienza, della sua tentazione di rifiutare la trascendenza. Il film comincia con una funzione religiosa (fot. 58) e termina con una funzione religiosa (fot. 59). Le parole dell’inizio e quelle del finale sono parole della Messa. Tra le une e le altre ci sono discussioni, meditazioni, fatti traumatici, moti dell’animo, ricordi, scontri, decisioni. Ci sono, cioè, alcuni fatti della vita: a volte importanti come il suicidio di Jonas, a volte insignificanti come le piccole abitudini di tutti i giorni. Tomas, tra la prima e l’ultima sequenza, non sembra cambiato. E la conversione? E l’amore? Fiumi d’inchiostro sono stati versati in proposito. Da una parte si è voluto insistere su un Bergman areligioso, permanentemente ateo e materialista, per il quale i dubbi e i problemi del prete non sono che un gioco teatrale, e dopo lo spettacolo tutto resta com’era all’inizio. O almeno su un Bergman che di film in film è andato accentuando la sua non credenza, partendo dal miracolo (La fontana della vergine) e giungendo via via al vuoto assoluto (Il silenzio). Altri hanno voluto trovare sempre in agguato tra le inquadrature bergmaniane la fede, la speranza, la certezza al di là del dubbio. Lo stesso Alberto Moravia, per esempio, è convinto che «il pastore non cessa mai, in fondo, di credere: il dubbio che lo dilania riguarda se stesso, non la religione». Per dimostrare il prevalere della speranza, si è fatto notare che nel finale – nel passaggio dal volto di Marta a quello di Tomas – c’è una costante elevazione verso il cielo. Anzi, per essere più precisi, lo sguardo di Tomas comincia a sollevarsi verso l’alto nel punto preciso in cui la macchina ha lasciato lo sguardo di Marta che a sua volta si stava sollevando.

FOT. 58

FOT. 59

In due modi diversi si può leggere anche la soluzione narrativa che vede alla fine il prete celebrare il rito nella chiesa vuota. Ciò vuol dire, osservano gli uni, che egli continua a considerare il rito come qualcosa di meccanico, di burocratico, e perciò senza crederci. Secondo gli altri, Tomas celebra ugualmente nella chiesa vuota proprio perché crede nel significato trascendente di quel che sta facendo, altrimenti non lo farebbe: a chi infatti dovrebbe render corno delle sue azioni in assenza del popolo di Dio? Una sottile polemica si è sviluppata anche a proposito dell’espressione dell’attore nell’ultima sequenza. Aristarco ha individuato nel suo atteggiamento meccanico, distaccato e distante l’indizio del suo ateismo53. Padre Bini gli ha contestato una «inesattezza visiva», sostenendo che Tomas non ha affatto un atteggiamento di distacco. Ha il volto livido e traboccante angoscia54. D’altra parte nella sceneggiatura il viso viene definito «pallido e angosciato». Circa questo discusso finale, è da registrare, quanto meno a titolo di curiosità, anche l’opinione di Truffaut, che spinge sino in fondo il pedale dell’allegoria: «Bergman vuole dirci che gli spettatori di tutto il mondo stanno abbandonando il cinema, ma pensa che sia comunque necessario continuare a fare film, anche se si dubita e anche se non c’è nessuno in sala»55. L’atteggiamento di Bergman non aiuta a risolvere la questione. Risulta che alla fine del manoscritto di Luci d’inverno egli abbia vergato di suo pugno le parole «Soli Deo gloria»56, facendo intendere che Tomas trova la fede. La tesi è avallata da Vilgot Sjöman, portavoce considerato autorevole del pensiero del cineasta57. Ma in un’intervista pubblicata sulla rivista svedese «Chaplin»58 il regista dichiarava che Luci d’inverno aveva segnato «l’annientamento completo» del problema religioso nella sua vita e nella sua opera. In realtà Bergman, indipendentemente dalle dichiarazioni via via diffuse sul suo punto di vista circa il problema religioso, non sembra aver avuto la preoccupazione di accontentare gli uni o gli altri. Probabilmente non si è mai posto il problema. È più verosimile

che non abbia mai voluto concludere i suoi film teologicamente più stimolanti con una conclusione, in un senso o nell’altro. Ha voluto soltanto offrire materia per approfondire il problema. Nessuno dei suoi personaggi, in realtà, lo risolve mai. E chi sulla terra lo risolve mai definitivamente se perfino i santi sono perseguitati da dubbi e tentazioni? Bergman non racconta mai la conquista completa della fede. Racconta sempre il cammino che l’uomo percorre cercando la fede. A volte la trova, a volte non la trova, in certi momenti crede di averla trovata, in altri momenti scopre di dover ricominciare da capo. Presenta un frammento di realtà isolato nello spazio e nel tempo. I fatti che accadono in Luci d’inverno coprono lo spazio di una giornata, e si svolgono nell’universo chiuso di una chiesetta, una canonica, una pieve, un angolo di bosco nei pressi di un ruscello. In questo tempo e in questo spazio tutto in qualche modo è già accaduto e tutto deve ancora accadere. Il fascino discreto della poetica bergmaniana è forse proprio in questo pudore nel risolvere i problemi, quasi non volesse interferire con l’autonomia intellettuale dello spettatore. Certo, nel finale del film Tomas non è lo stesso di prima. Tutto quel che è accaduto fa parte del suo bagaglio personale e in qualche modo ne condiziona la vita futura. Nulla va perduto dell’esperienza. Tutto giova nella ricerca. Ma Bergman non ci dice chiaramente quale sarà la conclusione del pastore, anche se lascia aperta la porta alla soluzione più rassicurante, e cioè alla conversione. Rispetto a Come in uno specchio troviamo elementi ulteriori per esaminare il ruolo dell’amore come apertura essenziale al divino. David indicava come strada per la ricerca di Dio l’amore, qualunque specie d’amore. Qui c’è un amore dichiarato, quello di Marta, ma non accettato. C’è l’amore insistentemente professato di Tomas per la moglie morta. C’è probabilmente l’amore che Tomas prova per Marta, senza accorgersene: perché, altrimenti, la porterebbe con sé alla pieve dopo averla rifiutata (fot. 60)? Ma nell’arco narrativo del film questo amore si rivela inefficace, almeno al momento, per scatenare il potenziale della fede. Anzi, Tomas, che per ironia è interpretato dallo stesso Gunnar Björnstrand che in Come in uno specchio era David, ne parla automaticamente, nelle sue prediche, senza convinzione. Si potrebbe addirittura pensare che in Luci d’inverno l’apologia dell’amore fatta in Come in uno specchio torni in negativo. Tomas non riesce ad accettare l’amore di Marta e non riesce a salvare Jonas perché non riesce a trasmettergli amore: questa mancanza di amore è in fin dei conti il vero silenzio di Dio, o la sua causa. Forse non si può essere certi che il finale di questo film segni, come scrive Padre Bini, il «rifiuto della disperazione». Forse non si può essere certi che, come scrive Biraghi, «la fede è come il giorno, spunta proprio quando più oscura si è fatta la notte; se non la fede, almeno la speranza di ritrovarla fiorisce nelle anime che hanno ormai conosciuto la disperazione più nera»59. Ma certamente Bergman, senza scelte di campo troppo evidenti, racconta qui la sterilità dell’ateismo. Se Dostoevskij affermava che dove non c’è Dio tutto diventa lecito, Bergman ripete fino alla nausea che dove non si riesce a trovare Dio (tanti non ci riescono, egli stesso confessa di incontrare molte difficoltà) si viene sopraffatti da un immenso vuoto esistenziale.

FOT. 60

ll silenzio

Mentre presentava in prima mondiale a Falum Luci d’inverno, Bergman fu nominato direttore del Teatro Reale Drammatico di Stoccolma. Tra le opere messe in scena in questo ruolo sono Le tre sorelle di Anton Cechov, Chi ha paura di Virginia Woolf? di Edward Albee, Tre coltelli da Wei di Harry Martinsson, Hedda Gabler di Henrik Ibsen. Intanto, a Rasunda, girava Il silenzio. Prese lo spunto da un vecchio radiodramma intitolato La città, ma fu solo uno spunto. Il resto dell’ispirazione gli venne da un sogno fatto qualche tempo prima, durante una malattia. Per le idee emerse dai sogni Bergman aveva una specie di superstizione: era convinto che i film da esse nati fossero i migliori; e anche quella volta non se le lasciò scappare. Mentre scorrono i titoli di testa si ode il tic tac di un orologio. Poi si vede l’interno di uno scompartimento ferroviario. Ci sono due donne e un bambino. Sono due sorelle, Ester e Anna. Il bambino, Johan, è il figlio di Anna. La piccola famiglia torna dalla villeggiatura. Anna ha caldo, si sventola. Johan guarda annoiato il panorama dal finestrino. Legge un avviso scritto in una lingua sconosciuta. Ne chiede il significato; non ottiene risposta. Ester si sente male, la sorella la soccorre. I tre sono costretti dall’imprevisto malessere a fermarsi alla prima stazione. Prima di raggiungerla, il bambino vede fuori dal finestrino un treno che trasporta una teoria di carri armati. Il treno arriva alla stazione. Le due donne e il ragazzo raggiungono un albergo. Anna ha sempre più caldo, fa la doccia, chiede al figlio di insaponarle la schiena. Poi il ragazzo si mette a giocare con aeroplanetti immaginari. Ester beve, fuma, ascolta la radio. Anna riposa sul letto, con Johan accanto. Ester li accarezza. Arriva un cameriere, che parla una lingua sconosciuta e non ne capisce altre. Ester cerca di spiegarle che desidera un’altra bottiglia di liquore. Poi, sdraiata, si concede qualche minuto di amore solitario. Johan si sveglia ed esce nel corridoio. Fa un dispetto al cameriere, il quale lo rincorre senza raggiungerlo. Saluta un nanetto che passa, proietta ombre cinesi sulla parete damascata. In una stanza trova numerosi nani che lo coinvolgono nei loro lazzi e lo vestono da bambina. Arriva un altro nano, evidentemente il capo, che

interrompe il gioco e fa uscire Johan dalla stanza. Intanto Anna si è svegliata, si è lavata e si è vestita, sta per uscire. Ester, rimasta sola, si lamenta. Ha bevuto troppo. Il cameriere la accudisce e lei gli sorride. Anna al bar acquista un giornale senza capire nulla di quanto c’è scritto, salvo la parola «Bach». Ester offre a Johan qualcosa da mangiare e fa progetti con lui per quando saranno tornati a casa. Johan disegna per lei un pupazzo. Anna entra in un cinema. Accanto a lei un uomo e una donna fanno l’amore senza pudore. Per la strada c’è gran confusione, ma tutti danno l’impressione di disinteressarsi completamente degli altri. Johan si intrattiene con il cameriere, che gli mostra alcune foto. Anna torna a casa, si spoglia, si pettina. Ester la guarda ed ella la rimprovera acidamente. Ascoltano insieme alla radio una musica di Bach, la Suite n. 2 per violoncello (già notata in Come in uno specchio, il che conferma un itinerario logico nella trilogia). Anna, accaldata, vuole uscire di nuovo. Invece fa uscire Johan e racconta alla sorella di aver fatto l’amore in uno scantinato con un giovane incontrato occasionalmente al bar. Ester le dice di considerare questo suo comportamento come un’umiliazione: «Per me è un tormento. Come se macchiasse anche me». Anna esce, trova ad attenderla l’uomo, lo bacia. I due entrano in una stanza e fanno l’amore. Johan li vede e torna da Ester. Nella strada deserta passa un carro armato. Arriva, si ferma un poco, poi riparte. Anna confessa allo sconosciuto, che non parla la sua lingua, il suo rancore nei confronti della sorella. Johan informa Ester dell’incontro carnale della madre. Ester raggiunge la sorella, che la provoca mostrandole l’uomo. Le due donne hanno un’aspra discussione. Ester torna nel corridoio. Le passano davanti i nani, mascherati e confusionari. Anna esce a sua volta e trova la sorella in terra. La solleva e la riporta nella stanza. Il cameriere interviene e le dà da bere. Anna va con Johan a mangiare qualcosa. Rimasta sola, Ester riflette sulla morte imminente, sulla repulsione che ha sempre avuto per gli uomini, sulla sua solitudine. Si rammarica per aver tentato di «prendere in giro la natura». Poi ha una forte crisi, ha paura, chiede un dottore. Arriva Johan e la crede morta. Ma la donna lo rassicura. Gli dice di avergli scritto una lettera, lo esorta a non aver paura. Anna è pronta per partire. Lascerà la sorella a morire sola. Il film si conclude in uno scompartimento ferroviario, come era cominciato. Ma le persone sono solo due. Johan apre la lettera della zia. Ci sono alcune parole della lingua sconosciuta. Il bambino legge: «Hadjek». Vuol dire «anima». Anna apre il finestrino ed espone il volto alla pioggia battente.

Il terzo film della trilogia, molto atteso, suscitò reazioni molto contrastanti. Furono delusi quanti si attendevano un passo avanti verso la fiducia, verso la speranza, verso la fede. Da altri pulpiti si concluse che Bergman si ripiegava su se stesso perché la ricerca di Dio era fallita60. Molti gridarono al capolavoro, elogiando lo stile sobrio, austero, rigoroso. Altri si meravigliarono e si scandalizzarono per alcune scene che parvero troppo audaci rispetto al costume dell’epoca. Tra questi ultimi Mario Verdone, che definì Bergman un «teppista» nei confronti degli spettatori, un maleducato come chi al ristorante rutta, un «caso patologico» come i suoi personaggi61. D’altra parte, come tutti sanno, Il silenzio ebbe notevoli difficoltà di ordine censorio e anche legale, e in Italia uscì con alcuni tagli non indifferenti, peraltro autorizzati dall’autore. Ma certi eccessi espressivi («urli espressionisti», per dirla con Verdone) sono proprio il nocciolo del racconto. Bergman presenta infatti due prototipi di un’umanità viziosa, disperata, dimentica dei valori, egoista, distrutta. Lo fa per additarci qual è la sorte dell’uomo quando Dio viene espulso dalla vita. Il silenzio continua con molto scrupolo introspettivo il discorso avviato nei film precedenti anche se il soprannaturale non è citato quasi mai. Ci sono soltanto tre cenni. Il primo è nel monologo di Ester, che ricorda la morte del padre. «Ora è l’eternità», egli le disse fissandola negli occhi. Il secondo cenno è in un’invocazione di Ester: «Mio Dio, fate che arrivi a casa prima di morire». Il terzo è nel famoso finale: la parola «anima» che Ester ha scritto nella lettera a Johan quasi per lasciargli una consegna prima della morte. È un punto che ha fatto discutere, perché la rivelazione del significato della parola è stata aggiunta in un secondo momento: non c’era nel trattamento originario. Comunque nel prodotto finito c’è. Tra i personaggi, come accade in tanti film bergmaniani, ce n’è uno che ha capito, o almeno che ha un barlume di consapevolezza dell’infinito. Qui è Ester, aggredita dal male, impaurita, abbandonata. Come altre volte nei film di Bergman, chi capisce più degli altri è un malato. Il destinatario del messaggio è il fanciullo, che lo legge mentre lascia il Paese sconosciuto dove si parla una lingua sconosciuta e non si comunica, dove minacciosi strumenti di guerra turbano la quiete come oscuri presagi di violenza e di morte. Il film si presta a diverse chiavi di lettura. Una delle più attendibili consiste nell’identificare nelle

due donne due aspetti di un’unica persona, che poi in controluce finisce per coincidere con la personalità di Bergman stesso. Anna è la parte fisiologica, corporea, sensuale, insofferente, superficiale, assediata dal desiderio, intollerante dell’autorità, egoista. In qualche modo ricorda la protagonista di Monica e il desiderio. Ester è la parte dell’intelletto, lucida ma ammalata, contraddittoria ma forte, isterilita fra le sue scartoffie, illusa di poter ingannare la natura sostituendo al rapporto con l’uomo quello con la donna. «Ma la natura dopo si vendica», ammette quando fa il catalogo dei suoi errori, delle sue «sciocchezze». È delusa dalla vita: «Si tentano altre strade solo per trovarle inconsistenti». Si registra il solito paradosso bergmaniano della professionalità irrisa. Ester, che è una traduttrice, non riesce a capire la lingua parlata nella città. Una persona che ha come missione quella di aiutare gli altri a comunicare tra loro diviene vittima dell’incomunicabilità. Muore sola, tra gente che non è in grado neppure di capire quello che dice. L’una e l’altra strada, suggerisce Bergman, non portano alla felicità, non portano l’uomo a realizzarsi. La sensualità non soddisfa Anna; l’amplesso la lascia assetata d’amore e incapace ancor più di prima d’amare. Puntualmente Bergman lo rappresenta in modo che risulti disgustoso, sporco, volgare. Non c’è ombra di compiacimento nel raccontare quella definita da Leo Pestelli «festa funebre che il diavolo conduce in questa storia di sorelle peccaminose»62. Ma lo stesso risultato negativo di chi conta solo sulla materialità del sesso raggiunge chi si affida soltanto all’intelletto. L’unica possibilità di uscire dal labirinto (tutto il film è giocato in un ambiente chiuso, quasi una prigione) consiste nel recuperare la dimensione spirituale, l’anima. Un elemento solo si salva in questo mare di errori: la musica. L’unica parola che si legge nel giornale indecifrabile è «Bach». L’unico momento che trova d’accordo le due astiose sorelle è il momento in cui ascoltano alla radio la musica bachiana e concordano nell’apprezzarla. «Bach», informa il cameriere, si dice nello stesso modo nelle due lingue. E «musica» suona quasi uguale: «musik». Nella musica Bergman, come farà capire altre volte, vede l’unica possibilità per gli uomini di recuperare un minimo di comunicazione quando ogni altra possibilità è preclusa. La musica è l’unico linguaggio universale e forse può aiutare a recuperare l’«anima». Il silenzio è ricchissimo di valori formali. Moravia lo definì «quasi allucinato a forza di concentrazione e di intensità immaginifica»63. È da ammirare la macchina perfetta che si snoda secondo uno schema semplice, inesorabilmente incalzante, dove nulla è casuale ma tutto è presentato come se lo fosse. Protagonisti assoluti sono i volti umani (spesso presentati con la tecnica, del movimento ascendente della macchina) e la luce, nonché gli effetti che di volta in volta la luce determina su quei volti, a cominciare dall’eccezionale gioco delle primissime inquadrature, col sole dietro ai monti riflesso sul vetro in cui si rispecchia il bambino (fot. 61)64. L’andamento della narrazione è geometrico, a spirale. I tre personaggi vengono seguiti alternativamente con un montaggio parallelo, e i loro incontri a due a due si incastrano alla perfezione come se costituissero un sistema matematico per analizzare la realtà, o meglio come un dedalo predeterminato di azioni e di reazioni (del tipo di quelli presentati con frecce e freccette nei libri di psicologia). La città misteriosa non è altro che questa terra, in cui l’uomo si agita senza riuscire a riconoscersi e a riconoscere se stesso negli altri. Fuori dalla finestra c’è il bar ma c’è anche la chiesa. Il bambino che si aggira per i corridoi come se fosse a Marienbad è in fin dei conti quello che cerca più di tutti (fot. 62). Ma verrà a capo del dilemma soltanto quando aprirà la lettera (fot. 63), cioè quando un altro essere umano l’avrà aiutato, e sarà fuori ormai dalla “prigione”.

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Simmetricamente, alle due donne corrispondono due uomini, che portano così il numero dei personaggi a quattro: la cifra magica dell’universo bergmaniano. Ma quelli maschili sono personaggi secondari. Come sempre, Bergman affida alle donne il ruolo di protagoniste. Nella sua tensione autobiografica si identifica di preferenza con la psicologia femminile. Gli uomini sono personaggi di basso profilo, utili soltanto come «specchi» a loro volta. Qui sono specchi deformanti. Anna vede nello stallone che l’ha seguita l’illusione di un rapporto possibile (fot. 64), o forse soltanto uno strumento per offendere e mortificare la sorella. Ester ha nel cameriere una persona che l’aiuta a sopportare i disagi del male, ma che le ricorda ad ogni istante, parlando la lingua incomprensibile, il fallimento della ragione (fot. 65). Due verifiche dell’impossibilità di comunicare.

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Tema del film è il non rapporto fra le sorelle. Si usa la parola «odio», ma in realtà è poco più di un crudele astio quotidiano. Bergman, come altre volte, ci consiglia di recuperare la comunicazione, l’affetto, l’amore per il prossimo cominciando dalle piccole cose della vita di tutti i giorni. Difatti nel film predomina il gusto dei particolari, apparentemente banali. I dialoghi – o meglio i soliloqui – sono per lo più sussurrati, quasi mai gridati. È l’intimo della persona che interessa più di ogni altra cosa. Il procedimento narrativo è quello abituale. Bergman dà per scontati i fatti accaduti in precedenza, dai quali dipendono i comportamenti dei personaggi. Colloca questi ultimi in una qualunque situazione di quotidianità e poi li accompagna seguendo le loro mosse, i mutamenti d’umore, gli sguardi, i contatti, i diverbi fino allo snodo narrativo finale. Si ripropone l’ipotesi rosselliniana del regista come entomologo che depone i suoi insetti in una scatola e poi li segue con la macchina nei loro movimenti «spontanei». Sarebbe proprio qui, secondo Maurice Drouzy65, la differenza tra il metodo di Bergman e quello di Dreyer. In realtà il procedimento è diverso da un altro punto di vista. Dreyer prende a spunto eventi che spesso hanno a che fare con la religiosità e li racconta drammatizzandoli con grande abilità di narratore. Bergman invece non dà per scontato nulla, salvo alcuni interrogativi, che sono poi gli interrogativi esistenziali di ciascun uomo. Parte da questi, li trasforma via via in elementi scatenanti di piccoli o grandi drammi privati, in provocazioni alla riflessione, in paradossi pirandelliani, in mine vaganti nel profondo della psicologia propria e dello spettatore. Il silenzio, al riguardo, è emblematico. «Il film – confidò Bergman a Sjöman prima di cominciare le riprese – si farà l’eco del tumulto che si produce tra il corpo e l’anima quando Dio è assente»66. Il legame con i precedenti film della trilogia è evidente nel titolo stesso, che in origine avrebbe potuto essere addirittura Il silenzio di Dio se l’autore non l’avesse ritenuto «impossibile per un film»67. «Venendo dopo Luci d’inverno, il film è la dolorosa presa di coscienza che un umanesimo senza Dio è impossibile – scrive il gesuita Luigi Bini. – L’umanità imputridisce nella morte e nella lussuria quando è abbandonata dall’“anima”, cioè dai valori dello spirito. Che questo Ester e Johan l’abbiano capito o meno è secondario. Bergman-Ester l’ha capito e tutto il suo film è lì con la sua tragica asfissiante realtà a persuaderci che è così. L’uomo mutilato dei suoi valori spirituali si abbrutisce in una solitudine che è il suo inferno. Bergman è troppo intriso di cristianesimo per condividere la persuasione di un Camus che soltanto l’ateismo può generare una carità autentica…

Il silenzio proclama la tesi opposta. L’assenza dei valori spirituali mura l’uomo nel suo egoismo»68. Il rapporto tra i primi due film e il terzo è un rapporto non di chiusura del cerchio, di conclusione, e tanto meno di carattere moralistico. È piuttosto l’allargarsi di una problematica, l’ampliarsi di una provocazione. «Impostato il problema, vivisezionati con impressionante lucidità i “mali” dell’uomo contemporaneo, analizzatene le cause – osserva Giacinto Ciaccio69, – Bergman inizia il suo discorso sugli “effetti”: quando Dio tace, il mondo diventa un inferno». Ciò aiuta a capire il simbolismo del carro armato che occhieggia fuori dai vetri: del finestrino del treno dapprima (fot. 66), della finestra della stanza d’albergo poi (fot. 67). Come si vedrà, il simbolo della vergogna della guerra verrà in seguito esplicitato, ma qui è già presente come minaccia incombente. La crisi, dopo il rifiuto di Dio, è nell’individuo. Ma rischia di sfociare in immani tragedie collettive. La violenza è in agguato, la guerra è in agguato. L’accusa rivolta spesso a Bergman di essere un solipsista, di non volersi confrontare con il sociale e con la storia, è completamente infondata. Egli semplicemente, da buon cristiano, ci ricorda costantemente che anche le tragedie più grandi nascono, in ultima analisi, nel profondo dell’io, nella coscienza degli uomini.

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A proposito di tutte queste… signore

A proposito di tutte queste… signore è ancora un film di ispirazione autobiografica. Si dice addirittura che sia nato dall’imbarazzo provocato a Bergman da una recita teatrale a Stoccolma nello stile della commedia dell’arte, dopo la quale egli avrebbe detto: «Tutte le nostre concezioni registiche sono da rivedere». Il film fu presentato fuori concorso nella serata inaugurale della XXV Mostra di Venezia nel 1964 (quella del Leone d’oro a Deserto rosso, di Michelangelo Antonioni, e del Premio speciale della Giuria al Vangelo secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini) e suscitò reazioni contrastanti. Parve a molti che Bergman si fosse preso una vacanza. Interno di una camera ardente: al centro il feretro del famoso violoncellista Felix. Il critico Cornelius depone accanto alla bara la biografia dell’artista di cui è l’autore. Sfilano a una a una le vedove: Tussaud, Beatrice, Traviata, Cecilia, Isolde, Chimera, e infine “la” vedova, cioè la moglie del morto, Adelaide. Ciascuna dice: «Così genio eppure così vivo». Cornelius poi, di nascosto, si riprende il suo manoscritto. Un flashback mostra gli eventi di quattro giorni prima. Cornelius arriva alla bella villa neoclassica di Felix per attingere notizie destinate alla biografia. Ad Adelaide confida di aver inviato una sua composizione a Felix

(intitolata Il canto del pesce oppure Astrazione n. 14) e di sperare che il maestro accetti di eseguirla. Aggirandosi per la casa, Cornelius rischia maldestramente di distruggere una statua raffigurante il maestro. Dal buco di una serratura sorprende due delle donne mentre fissano il calendario dei loro appuntamenti con il maestro. Una di loro, Chimera, si fa corteggiare dal critico, con il quale finisce per fare l’amore nella sua alcova. Entra una delle rivali, armata, e spara. Cornelius esclama che qualcuno ha tentato di uccidere il maestro. Poi il critico si intrattiene con Isolde (che gli racconta del suo rapporto amoroso col maestro) e con Cecilia, con la quale fa l’amore nel parco. Intanto Adelaide si esercita al tiro sparando alle statue. Ha promesso al marito che lo ucciderà nel caso tradisca la sua arte. Vediamo poi il critico immergersi nella piscina, con un ridicolo salvagente a forma di cigno, per carpire qualche notizia dalle conversazioni ascoltate di soppiatto. Le donne discutono, si lamentano dei tradimenti del maestro, litigano, una torta vola su una faccia. Madame Tussaud, mentre fa un solitario, racconta come ha accolto nella sua casa il maestro giovane e spiantato e come l’ha lanciato con i suoi soldi. Il maggiordomo Tristan, a sua volta, racconta di quando era un grande violoncellista, il maestro gli insidiò la moglie, qualcosa in lui «si spezzò» e finì per accettare quella proposta di lavoro. Cornelius trova in un ripostiglio alcune vecchie lettere. Per errore fa cadere un sigaro per terra e fa scoppiare alcune casse di fuochi d’artificio. Lo rivediamo col braccio al collo mentre insiste nel cercare informazioni sulla vita intima del maestro. Poi, per riuscire a incontrarlo personalmente si traveste da donna con un vestito di Beatrice, ma senza alcun risultato. Arriva il giorno del grande concerto. L’impresario si dispera perché non gli danno il programma. Felix ha deciso di eseguire la composizione di Cornelius. Adelaide è risoluta: ucciderà il marito se non sarà fedele alla sua arte. Ma la rivoltella viene puntata inutilmente. Nel momento di accingersi a suonare Felix è colto da malore e muore. Nella scena finale Cornelius illustra alle donne lo schema in quattro parti della biografia del musicista: aspetto esteriore, aspetto interiore, abilità, vita intima. Ma l’ultimo capitolo non si trova più. A questo punto arriva un giovane violoncellista povero, le donne gli si fanno attorno e la storia ricomincia.

«Torta di zucchero filato e di pasta di mandorla, di quelle che fanno male ai denti» per Domenico Rea70, «film frivolo e freddo» per Natalia Ginzburg71, A proposito di tutte queste… signore ha avuto un’accoglienza alquanto controversa. I più lo giudicarono opera minore, un intermezzo dopo le fatiche della trilogia, un «siparietto regalato ai suoi attori e ai suoi tecnici»72. Altri lo presero più sul serio. Giovanni Battista Cavallaro, per esempio, lo immaginò «come un 8 ½ rovesciato e visto dall’esterno»73. Certo, il film fa parte di quel gruppo di opere in cui il regista esce dai binari tradizionali e si concede alcune libertà. Forse l’errore è leggere il film come film comico o brillante. Meglio sarebbe accettarlo come una divagazione tra gli stili, una strizzata d’occhio a Hellzapoppin, uno sberleffo d’autore. Destinatari principali ne furono i critici, ma nel calderone finiscono, a ben guardare, anche altri soggetti: i censori, gli impresari, gli artisti stessi. Sui critici Bergman spara a volontà. Il protagonista è il critico che svolge la sua attività come ripiego, ritenendosi in realtà un artista, e che si serve del suo mestiere come arma di ricatto per convincere il musicista a eseguire una sua composizione. C’è una scena in cui il critico, dopo aver scritto una frase, se ne comanda il significato. Non riuscendo a capirlo, conclude che in fin dei conti poco importa. Ma più avanti, quando lo schermo si riempie di fuochi d’artificio, Bergman avverte, impietoso, in una didascalia: «Questi fuochi non vanno interpretati simbolicamente» (fot. 68), ironizzando su quei critici che avevano riscontrato nei suoi film significati simbolici a sproposito. I censori vengono chiamati in causa un paio di volte. Nel momento di rappresentare una scena di seduzione Bergman passa al bianco e nero e ricorre al tango. Più tardi il protagonista, in procinto di uscire dal bagno di schiuma, fa cenno alla camera di spostarsi (fot. 69). L’impresario è presentato in forma caricaturale dal principio alla fine. Quanto all’artista, è liquidato fin dalla prima scena, quando Cornelius si domanda chi sia il genio e un becchino risponde, citando Goethe: «È colui che riesce a far mutare opinione a un critico». Più velenosa è la frecciata del finale, quando il giovane musicista povero, all’arrivo del critico, si alza in piedi e lo aiuta in tono ossequioso (fot. 70).

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Con questa materia Bergman ha tentato di realizzare un film anticonformista, leggero, tra il grottesco e il raffinato, senza riuscire a ottenere un risultato omogeneo. Basti pensare all’abisso che separa alcune eleganti battute di sapore anglosassone da altre di una volgarità da caserma. Tra le prime è quella iniziale del film. Nella camera ardente uno canticchia e un altro esclama: «Non sia blasfemo», e lo spettatore ritiene che l’oltraggio venga riferito al morto. Ma arriva subito dopo la seconda metà della battuta: «Non profani così la musica». Tra le battute più volgari, invece, è da registrare quella di una signora che dice di aver imparato, nelle lezioni di violoncello, soltanto come si divaricano le gambe. «Uno scherzo autobiografico, una vacanza, ma anche un boomerang – ha scritto Grazzini74. – Giunto all’apice della fama, salutato come uno dei grandi maestri del cinema contemporaneo, Bergman

avverte di essere in pericolo di morte, qualora si prenda troppo sul serio. Conosce bene le insidie che comporta lo splendido isolamento dell’artista. Se ci raspate dentro, vedete che la frivola mano che qui tocca il problema dei rapporti fra il genio creatore e la critica ha lo stesso tremore di quella, tragica, che in Come in uno specchio affrontava i rapporti tra l’opera d’arte e la sua ispirazione… Si ride poco per essere un film comico. Ma Bergman ha il diritto di farci scherzi di cattivo gusto». «A proposito di tutte queste… signore – scrive Verdone75 – è un’opera mancata, che conferma la recessione di Bergman». Ma il giudizio negativo, precisa poi, «non coinvolge la recitazione». Comunque, rivisto a distanza, il film resiste al tempo molto meno di altri dello stesso autore. Persona

Dopo A proposito di tutte queste… signore, nell’estate del 1965, Bergman si mise al lavoro attorno all’idea di un film dedicato agli attori, da intitolare Manniskoatarna, forse Mangiatori di uomini, forse I cannibali intesi come cannibali dei personaggi, forse ancora I demoni, «che possiedono l’uomo» il quale, pur avendo accuratamente «pulito la casa, non riesce in alcun modo a farla rivivere e la vede in loro balìa». «I personaggi di quel film mai realizzato erano tormentati – ci informa Jorn Donner76 – da problemi intellettuali e ancorati nella loro carne all’esperienza dell’infanzia, a coloro che avevano influenzato la loro crescita, alle circostanze in cui la vita li aveva gettati: una specie di amaro esorcismo traumatico il quale, dopo l’inesorabile esorcismo della precedente trilogia, riemergeva dai più oscuri e segreti ambulacri del cuore umano». Poi Bergman cadde in preda a una profonda depressione psichica. Durante la convalescenza scrisse, come pura esercitazione letteraria, il brogliaccio di Persona. Qualcosa di quel progetto deve essere rimasto nel nuovo film. Quel racconto infatti, sempre secondo Donner, conteneva «sogni e visioni e forse anche un dibattito continuato sulla condizione dell’artista e sui suoi compiti». Il film segna il momento del distacco di Bergman dal Teatro Reale e del suo rinchiudersi nella solitudine dell’isola di Fårö, che aveva acquistato e dove intendeva mettere le radici77. La luce della lampada di un proiettore e l’alternarsi di spezzoni di film diversi ricordano che stiamo per assistere a un film. Mani di bambino e un chiodo che trafigge la mano del Cristo ricordano fuggevolmente il riferimento continuo di Bergman all’uomo e alla sua dimensione spirituale. Una dottoressa spiega a un’infermiera quale sarà il suo, compito nell’assistere la signora Elisabeth Vogler, giovane attrice che, mentre recitava l’Elettra, si è chiusa per un minuto in uno strano mutismo (si chiamava Vogler anche l’illusionista di Il volto, anch’egli chiuso per buona parte del film nel mutismo più assoluto). È seguito un periodo di grave prostrazione, senza che la donna risultasse malata fisicamente e psichicamente, o mostrasse reazioni di carattere isterico. L’infermiera, di nome Alma, va dalla paziente e si presenta. Dice poi alla dottoressa di essere indecisa se accettare o no l’incarico, dubitando di farcela sul piano psichico. Ma poi accetta. La vediamo mentre accudisce Elisabeth. Le apre le tende, le accende la radio che sta trasmettendo una commedia. La paziente scoppia a ridere, spegne la radio. Alma manifesta la sua ammirazione per gli artisti. Accende ancora la radio, che ora trasmette musica. Poi va a dormire, dopo essersi spalmata sul volto una crema. È serena. Sta per sposarsi, vuole avere dei bambini, il lavoro le piace. Elisabeth, nella sua stanza, accende la televisione e assiste con angoscia a un notiziario sul conflitto del Vietnam, «una guerra di cui non si vede la fine». Scorrono sul video le terribili immagini di persone che si danno fuoco in mezzo alla strada in segno di protesta. Più tardi Alma legge una lettera a Elisabeth. È del marito, e contiene la foto del figlio. Elisabeth la straccia. La dottoressa offre a Elisabeth una casa in riva al mare perché vi si trasferisca insieme con Alma che la assisterà. Dalle parole della dottoressa alla paziente veniamo a conoscenza del suo dramma interiore. Ella vuole essere, non sembrare di essere. Per questo si è chiusa in un mutismo assoluto, così non ha bisogno di recitare, di mostrarsi diversa da quello che è. Le due donne si trasferiscono nella casa al mare. Leggono, si sorridono. Alma afferma di credere in una salvezza ultraterrena. Poi confida a Elisabeth gioie e dolori del primo amore. Le confessa il piacere e il disgusto insieme di un amplesso in riva al mare con uno sconosciuto, e la rinuncia a una maternità non desiderata. Tra le due donne sorge un rapporto di amicizia, quasi di affetto. Ma Alma, recandosi a impostare alcune lettere di Elisabeth, ne legge una e scopre che ella ha rivelato tutti i suoi segreti alla dottoressa. Il rapporto si incrina, le due donne bisticciano. Alma accusa Elisabeth di essersi servita di lei. Durante il

violento litigio Elisabeth pronuncia alcune parole, ma poi si rinchiude nel mutismo. Alma le chiede di perdonarla ma senza successo. L’angoscia di Elisabeth si riflette in una vecchia fotografia di un bambino con le mani alzate nel ghetto di Varsavia durante l’aggressione tedesca. Alma è portata a identificarsi con l’attrice. Vediamo il marito di Elisabeth rivolgersi ad Alma come se fosse la moglie, li vediamo abbracciati. I volti delle due donne finiscono per confondersi l’uno con l’altro. La mano di un bambino cerca di accarezzare un volto che campeggia, sfuocato, sullo sfondo. Elisabeth ha ricomposto la foto di suo figlio e Alma in un lungo soliloquio le rinfaccia di non averlo mai amato. Alma cerca di far parlare l’attrice, le dice alcune parole senza senso da ripetere. Infine le dice di ripetere la parola «Nulla» ed ella la ripete. Le due donne lasciano la casa al mare e sullo schermo vediamo il proiettore che funziona male e la pellicola che si accartoccia.

Persona ha dichiaratamente diverse chiavi di lettura. È lo stesso Bergman a suggerircelo quando all’inizio ci fa vedere alcune immagini apparentemente in libertà, accomunate dal fatto di rappresentare il cinematografo: carboni dell’arco voltaico di un proiettore, pellicola che scorre, sequenza di cinema muto, e poi mani di bambino, sacrificio di un agnello e mano di Cristo inchiodata, neve sporca, bambino che cerca di aggrapparsi invano a un’immagine di donna irraggiungibile (fot. 71)… Questo “siparietto” ritorna a metà del film, nel momento chiave in cui il rapporto tra le due donne si fa critico e la pellicola sembra prendere fuoco e autoannullarsi (fot. 72), e poi alla fine, quando torna sullo schermo il bambino dell’inizio e “termina la proiezione” (fot. 73). Bergman ci raccomanda così, brechtianamente, di prendere il film come film78, e non come riproduzione della vita (in realtà lo straniamento brechtiano aveva una valenza politica nel mettere in guardia lo spettatore sulla falsità della rappresentazione della realtà, mentre in Bergman ha semplicemente il valore di un’esortazione a non prendere in considerazione la sua opera in chiave veristica). Ma ci avverte anche che il suo film si può leggere in diversi modi, senza che l’uno escluda l’altro. Più precisamente, in senso estetico (il cinema cinema), in senso spiritualista (l’agnello e Cristo), in senso psicanalitico, o quanto meno psicologico o psichiatrico (il bimbo).

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La prima chiave di lettura è quella più semplice, elementare. Questo film si può apprezzare come godimento puramente estetico. È grande cinema fatto di niente. «Ho visto poche opere cinematografiche così nette – ha scritto Liliana Cavani. – È il risultato di un paziente lavoro di approfondimento e di rifinitura. È uno di quei film che indicano ai registi vie nuove per tentare nuove possibilità di espressione»79. Ci si può abbandonare al gusto dell’immagine, della fotografia come gestione sapiente della luce, dell’inquadratura, dello studio dei volti. La magistrale interpretazione delle due attrici, l’una tesa ad esprimere un mondo di pensieri e di sentimenti senza pronunciare parole, l’altra attenta a non perdersi nel labirinto della logorrea cui la costringe il copione, offre un motivo in più per assaporare il gusto di un’opera di rara bellezza. Si pensi a come mutano, addirittura, i lineamenti delle due donne, così diversi all’inizio e così simili verso la fine, quando l’una è portata a identificarsi con l’altra (fot. 74). Si pensi all’inquadratura del volto della Ullmann che piano piano diviene più scuro finché, nel momento in cui la donna si distende, si trasforma in un suggestivo controluce, quasi in un’ombra cinese. Si pensi a quelle immagini quasi subliminali che si rincorrono nel film come un mirabile arabesco.

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La seconda chiave di lettura nasce dall’ipotesi psicologica del conflitto tra l’essere e il sembrare e ha due diramazioni narrativo-situazionali. Da un lato Bergman osa trasferire in materia cinematografica l’indagine psicanalitica sulla «maschera» duplice assunta da una stessa creatura femminile, sdoppiata poi nei due personaggi80. Dietro c’è senza dubbio Freud, o meglio, come acutamente taluni hanno fatto osservare, Jung81, con le sue idee sulla “maschera” e anche sul rapporto tra inconscio individuale e inconscio collettivo. “Persona”, il termine che dà il titolo al film si riferisce

al latino “dramatis persona”, che inizialmente voleva dire «maschera» e poi passò al significato di “personaggio”. E qui il discorso di Bergman sull’individuo e sulle componenti della personalità si innesta su quello, che altrettanto gli sta a cuore, circa l’attore. Non a caso Elisabeth è un’attrice. Non a caso la crisi esistenziale di una persona coincide con quella di un’attrice che, nel bel mezzo di una recita, si chiude in un ostinato mutismo e prova semplicemente una gran voglia di ridere. Fin dalle prime battute sentiamo dire da Alma: «Ho una grande ammirazione per gli aristi. L’arte di recitare ha enorme importanza nella vita, soprattutto per chi non sa superare da solo le sue difficoltà». Poco più oltre la dottoressa, parlando a Elisabeth, ci offre una vera e propria lezione di psichiatria sul problema del rapporto tra sembrare ed essere. «Credi che non ti capisca? Tu insegni un sogno disperato – dice – questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere. Essere in ogni istante cosciente di te e vigile. E nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa e provoca quasi un senso di vertigine, un timore di essere scoperta, di vederti messa a nudo, smascherata, riportata ai tuoi giusti limiti. Perché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia. Qual è il ruolo più difficile? Togliersi la vita? Ma no, sarebbe poco dignitoso. Meglio rifugiarsi nell’immobilità, nel mutismo, così si evita di dover mentire, oppure mettersi al riparo dalla vita, così non c’è bisogno di recitare, di mostrare un volto finto o fare gesti non voluti. Non ti pare? Questo è ciò che si crede ma non basta celarsi perché, vedi, la vita si manifesta in mille modi diversi ed è impossibile non reagire. A nessuno importa sapere se le tue reazioni siano vere o false. Solo a teatro il problema si rivela importante e forse neanche lì. Io ti capisco Elisabeth… e quasi ti ammiro. Secondo me devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo finché essa non perda interesse, e abbandonarla così come sei abituata a fare passando da un ruolo all’altro». Traspare da queste parole tutto l’odio-amore che Bergman ha sempre provato per i suoi attori, e specialmente per le sue attrici. Li ha usati, le ha usate sempre come mezzi, come strumenti. Ha preteso da loro ogni sorta di finzione, ogni sorta di metamorfosi. Ha trasfuso in loro la sua personalità proprio come Elisabeth, senza parlare, finisce per fare con Alma. Capita così agli attori bergmaniani di confondersi qualche volta con i loro personaggi, come dimostrano queste parole della Ullmann: «Con grandi cappelli per proteggerci il volto dal sole, trascorrevamo la giornata a studiare il copione abbandonandoci a una felicità privata che non appare mai nei film. Anche se, in una inquadratura, presa direttamente dalla realtà, si vedono due donne intente a pulire funghi, che cantano ognuna una canzoncina diversa (fot. 75). Si tratta di Alma ed Elisabeth Vogler di Persona, ma sono anche Bibi e Liv nel 1965»82.

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La terza chiave di lettura, quella religiosa, spiritualista, è certamente più cifrata. Senza dubbio Persona si collega a Il silenzio e ne è il prolungamento. Tra i due film non c’è che la divagazione di A proposito di tutte queste… signore. D’altra parte il nome di una delle protagoniste è Alma, che nel latino classico è “colei che dà la vita” e nel latino volgare si riallaccia ad “alima”, “anima”: proprio la parola che conclude Il silenzio. Soccombe qui l’anima di fronte all’invadenza del corpo, anche se muto? Non sembrerebbe, perché nell’ultima sequenza vediamo soltanto Alma e non Elisabeth,

segno che Alma alla fine è libera. Ma l’esperienza del rapporto con l’altra l’ha cambiata profondamente. L’ha rivelata a se stessa. Torna il concetto del cambiamento, che può essere un semplice voltar pagina o una conversione. Ma Bergman non ci dice più di quanto non dicano le sue immagini, le sue parole pronunciate sullo schermo. In proposito, Persona dice che l’uomo del nostro tempo, angosciato dal dualismo tra le esigenze dell’essere e del sembrare (forse anche dell’“avere”?) è sull’orlo della disperazione esistenziale. Rifiuta la strada dell’autodistruzione nel suicidio, ma rischia di chiudersi in una cupa incomunicabilità, di non riconoscere nel prossimo barlumi d’amore, anzi di prevaricare il prossimo costringendolo a somigliare a se stesso. Ma l’uomo così angosciato riassume in sé l’angoscia globale di un mondo inquieto, senza pace. È questo, e non altro, il senso del video che mostra bonzi che bruciano, della foto che ci ricorda lo sterminio nazista (fot. 76). Questi riferimenti hanno lo stesso significato del carro armato di Il silenzio, e fa ormai sorridere l’interpretazione datata di chi vi volle individuare una polemica politica contingente di carattere marxista e antiamericano. Si legga, in proposito, l’analisi di Burch83.

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L’itinerario di Alma alla scoperta di se stessa potrebbe in qualche misura coincidere con il cammino spirituale dell’uomo durante la vita. Per conoscersi Alma ha bisogno degli altri, dell’altra. Sulla strada della conoscenza incontra ostacoli e trabocchetti, ma incontra anche amore, illuminazione. Sempre più nitidamente appaiono in Bergman sotto l’influsso ognora più pressante di Kierkegaard, fa notare Verdone, «i gradi e i momenti (estetico, etico e religioso) attraverso cui l’uomo passa per giungere entro di sé a conoscere il senso e il valore vero della sua esistenza nel mondo: la confessione della colpa, il desiderio del proprio dolore e l’anelo di una via che porti all’inizio di una nuova esistenza; il sentimento del peccato come sola possibilità di ricongiungimento con Dio, da cui si è altrimenti separati da un abisso incolmabile»84. Ma Bergman non è un apologeta. Pone i problemi, non li risolve. Il suo valore consiste proprio nella proposta della questione esistenziale in un contesto storico portato verso altre fascinazioni, e nell’indicazione decisa che la proposta non è surrogabile da alcuna ideologia. Valgano, in proposito, le lucide osservazioni di Leandro Castellani proprio nel momento dell’uscita sugli schermi di Persona: «Bergman ha fondato l’incomunicabilità interpersonale, l’alienazione psicologica, sull’incomunicabilità metafisica fra l’uomo e la divinità, sull’alienazione dell’uomo nella divinità, in altri termini ha saldato insieme la “solitudine” psicologica e quella metafisica, facendo della seconda il fondamento della prima. E il ragazzo che inutilmente protende le mani verso la sfocata immagine materna – di una madre che non lo ama e non lo soccorre – è ancora una volta l’immagine del rapporto uomo-divinità. Questa visione severa, tanto appassionata e nello stesso tempo neppure sfiorata dalla caritas cristiana, sconsolata e inaccettabile nella sua affermazionenegazione di un Dio silenzioso che, forse, potrebbe soltanto coincidere con la nostra angoscia ma che, nello stesso tempo, è l’inizio e l’esito di ogni crisi spirituale, risolvibile ma non esauribile in termini di ragione e di psicologia, prende vita in un’opera stilisticamente audace»85. Castellani conclude che di questo autore si può condividere la ricerca, ma non le conclusioni (si noti che da altra sponda Goffredo Fofi dice qualcosa di molto simile: «Bergman si ferma dove potrebbe iniziare

a metterci in causa»86). Quella di Castellani è un’opportuna precisazione, utile per chi volesse scambiare il cinema di Bergman per una sorta di “cinema cattolico” o comunque come “cinema a tesi”. In realtà l’accenno alla caritas cristiana si trova, anche se in forma larvata e indiretta, nei ripetuti richiami all’amore come unico chiodo cui aggrapparsi quando ogni altra possibilità viene meno. Quanto alle conclusioni, Bergman ne tira sempre più d’una, e lo spettatore può scegliere. Sono film aperti, problematici, ricchi più di quesiti che di risposte. Accade così che l’accenno più specifico al soprannaturale, in Persona, sia contenuto in un libro che Alma legge a Elisabeth. C’è scritto: «L’ansia che è in tutti noi, i sogni irrealizzati, le crudeltà che commettiamo, l’angoscia di doverci estinguere, la consapevolezza della nostra condizione terrena hanno cristallizzato e annullato la nostra speranza in una salvezza ultraterrena. Le grida della nostra fede, del nostro dubbio nell’oscurità e nel silenzio sono una delle più terribili prove della nostra innegabile solitudine e della costante paura che ci possiede». Dopo aver letto questo brano, Alma domanda a Elisabeth se è d’accordo con quanto è scritto nel libro, ed Elisabeth risponde affermativamente con un cenno del capo. Ma Alma replica immediatamente: «Per conto mio non ci credo». Se accettiamo l’ipotesi non peregrina del dualismo dei personaggi come uno sdoppiamento della personalità dello stesso Bergman, ecco che individuiamo in una stessa persona le due spinte contrastanti, una verso il positivismo e una verso la fede. È questo che, ancora una volta, Bergman vuole rappresentare. E stavolta lo fa con una lucidità smagliante, almeno quanto la luce che inonda questo affascinante film negli indimenticabili chiaroscuri. L’ora del lupo

Dopo Persona, Bergman accettò la proposta di collaborare a un film in otto episodi, intitolato Stimulantia, realizzato da un gruppo di registi della Svensk Filmindustri: registi giovani come Donner e anziani come Molander. Il film si propone di individuare quali siano le cose più stimolanti in grado di aiutare l’uomo a vincere la noia esistenziale. Per qualcuno la cosa più stimolante è lo sport, per altri il sesso, per altri ancora l’emozione artistica. Per Bergman è il bambino, stimolo a vivere e presenza d’amore: difatti intitolò il suo episodio Daniel e lo dedicò a suo figlio Sebastian Daniel, avuto nel 1962 dalla pianista Käbi Laretei. In forma di diario, il regista descrive se stesso e il suo bambino via via che quest’ultimo cresce e acquista autonomia. Bergman appare in prima persona sullo schermo per presentare un collage di alcuni spezzoni di film familiari girati per hobby. Ma le confidenze private hanno come sempre un risvolto d’interesse generale. Il figlio, in sostanza, dice Bergman, è diventato il suo stimolante perché ogni volta che gira un film è proprio a lui che pensa, cioè al modo in cui il figlio lo vedrà e lo capirà. Cinema, dunque, per gli altri, senza ombra di equivoco, anche quando può sembrare catartico ripiegamento su se stesso. Poi Bergman, nella sua isola, riprese in mano il manoscritto I mangiatori d’uomini, lo ripensò, lo rimaneggiò. Ne nacque L’ora del lupo. Mentre scorrono i titoli di testa ascoltiamo le voci che accompagnano la realizzazione di un film: «Luci a posto?», «Il trucco?», «Silenzio!», «Ciak», «Azione!». Il regista ci ricorda così, come altre volte, che si tratta di un film, e che il film va visto senza farsi coinvolgere emotivamente tanto da perdere di vista quel che significa (di questo “straniamento” avrebbe voluto fare un prologo e un epilogo, ma poi si limitò a poche battute nella colonna sonora). Seguiamo la vicenda del pittore Johan e della moglie Alma, che si sono ritirati su un’isola praticamente abitata solo dai gabbiani. Johan è in preda a una grave crisi depressiva che affonda le radici in una punizione infertagli dal padre durante l’infanzia e maturata poi nel fallimento di un rapporto con un’amante di nome Veronica. Dopo sette anni di isolamento la nevrosi riprende il sopravvento. Gli incubi si materializzano anzitutto in un giovane licantropo che lo morde mentre sta dipingendo in riva al mare. Intanto alcuni strani personaggi invadono l’isola rifugiandosi in un vecchio castello. Alma scopre il diario di Johan e se ne serve per cercare di aiutarlo facendo propri i suoi incubi. Uno dei fantasmi, il barone von Markens, invita i due a un

party al castello. I mostri sono spaventosi e ridicoli: un capofamiglia simile a un corvo, una vecchia che quando si toglie il cappello si stacca anche la testa, un uomo ragno che cammina sui muri e una versione satanica della stessa Veronica. Johan è schernito dai fantasmi. Ubriaco e pieno di vergogna, riporta Alma a casa. Lei gli confessa di non sentirsi più sicura accanto a lui. Lui, dopo aver tentato di ucciderla, esce di casa, sconvolto. Nel bosco incontra nuovamente i fantasmi, che lo aggrediscono e lo uccidono. È forse un suicidio? Alma assiste impotente all’epilogo del dramma. Si domanda se ha amato abbastanza oppure se ha amato in modo sbagliato. Infine rimane nell’isola, legata al ricordo del suo Johan. Il film si conclude con un segno di speranza: tra due mesi nascerà un bambino.

L’ora del lupo, come dice nel film lo stesso Johan, è l’ora tra la notte e l’alba, quella in cui molta gente muore ma anche molta gente nasce, quella in cui il sonno è più profondo e gli incubi sono più reali. È l’ora in cui gli insonni sono perseguitati dai più riposti terrori, in cui i fantasmi e i demoni si fanno più possenti. Il film è dunque una storia di allucinazioni e di paure, un ennesimo viaggio nell’io, nell’inconscio. «Il tortuoso e geniale Ingmar – scrive Biraghi – è arrivato a mettere insieme quanto di più simile ci sia a una confessione vera e propria»87. Certamente è opera autobiografica, pervasa da quel grande desiderio inappagato d’amore che è tipico dell’ispirazione bergmaniana. La tragedia di Johan, ha scritto il regista, «è quella dei tentativi fatti da un uomo, conscio della sua terribile solitudine, per generare del calore e creare un contatto umano con il mondo che lo circonda; della sua amara delusione e degli sforzi disperati che fa per difendersi contro le pressioni del mondo esterno». Sono motivi autobiografici, ma, come fa notare Giovanni Battista Cavallaro, «toccano il più vasto tema dell’esistenza nel suo significato assoluto, la ragion d’essere della vita, della creazione che sembra avere esaurito la sua virtualità, la sua presenza»88. L’isola è la gabbia strindberghiana, la prigione nella quale l’uomo si trova rinchiuso quando non riesce a risolvere il problema del rapporto con gli altri e quindi dell’amore (fot. 77). Chi cerca di amare ma fallisce è principalmente Alma (fot. 78), che per il grande amore che la unisce al marito accetta di essere assalita dagli stessi fantasmi. «Una donna che vive a lungo con un uomo – dice – finisce per essere simile a lui. Dicono che se lei lo ama e cerca di pensare e vedere come lui si identifica con lui, come anche lui si trasforma nella forma di lei. Due persone che hanno vissuto tutta la vita insieme finiscono per somigliarsi. Fare tante esperienze in comune non solo cambia i pensieri, ma anche i volti, che a lungo andare finiscono per avere la stessa espressione».

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«Chi non ha visto i suoi studi sul volto e soprattutto i suoi autoritratti?», dice nel film uno dei personaggi a proposito di Johan. L’allusione agli studi sul volto che Bergman compie nei suoi film è palese. Per estensione, possiamo pensare che fosse altrettanto convinto di tracciare ancora una volta, con il film, un autoritratto, anche se parziale. Certo, in L’ora del lupo la componente autobiografica è più forte che altrove. La vergogna

L’isola di Fårö era ormai la Cinecittà di Bergman (gli svedesi la chiamavano «isola Bergman») quando egli vi realizzò interamente La vergogna, che in un primo tempo doveva chiamarsi La guerra. Di un film di guerra si tratta in effetti, anche se la guerra si vede solo di sfuggita. Meglio si direbbe un film sulla guerra. A Fårö il regista convocò pure la stampa svedese per la presentazione ufficiale, che fu piuttosto contrastata perché secondo alcuni egli assumeva una posizione qualunquistica a proposito della guerra nel Vietnam. È in corso una guerra. I coniugi Eva e Jan Rosenberg, di professione violinisti, hanno abbandonato l’attività concertistica al momento dello scioglimento della Filarmonica e si sono rifugiati da quattro anni in una casetta su un’isola dove trascorrono tranquillamente i giorni, apparentemente lontani dal conflitto, coltivando piante in una serra e curando un frutteto. Si svegliano di buon mattino, fanno colazione, caricano la macchina di mirtilli che andranno a vendere in città. Sul traghetto incontrano il sindaco Jacobi con la famiglia e lo informano che gli recapiteranno i mirtilli a casa. La città è attraversata da colonne di camion militari. Col ricavato della vendita dei mirtilli i due vanno a comprare del vino a casa dell’amico Filip in procinto di partire per il fronte. Filip offre loro da bere al suono della musica di un carillon. Tornati a casa, i due discutono sull’opportunità di avere un bambino. Lei lo desidera, pensando che un nuovo arrivato potrebbe migliorare un rapporto da tempo piuttosto freddo. Più tardi, mentre Eva e Jan stanno innaffiando le piante, passano sulle loro teste aerei da guerra. Il pilota di un aereo colpito si getta col paracadute. Eva induce il marito a recarsi in suo aiuto. Ma il pilota è morto. Arrivano altri soldati. Interrogano i due, li accusano di aver sparato al pilota, registrano con una cinepresa le risposte che Eva dà alle loro domande dicendo: «I nostri spettatori vogliono vedere le persone che abbiamo liberato». Jan, che è malato di cuore e per questo non è stato arruolato, sviene. Eva gli dà una pillola e lo conforta. Li vediamo ancora in casa abbracciati, al lume di candela, a parlare nuovamente dei figli. Stavolta Jan dice che ne avranno quando ci sarà la pace. Eva risponde che non ne vorrà mai. Si sentono altri spari, altri scoppi. La guerra si avvicina ancora. I due allora decidono di fuggire in auto. Attraversano la campagna piena di cadaveri. C’è anche il corpo esanime di una bambina. Eva scende dalla macchina, l’accarezza. La strada però è sbarrata, bisogna tornare indietro. Sono ancora a casa e ascoltano il fragore delle bombe. Jan è affranto, Eva gli fa coraggio. Il giorno dopo i due si recano in città per far compere e sono fermati dai militari. Condotti al comando, sono interrogati, percossi, torturati. L’intervista fatta a Eva è stata manipolata e gli spettatori hanno ascoltato parole diverse da quelle che lei ha pronunciato. L’accusa è di collaborazionismo col nemico. Eva e Jan vengono trattenuti per un po’ in uno stanzone dove incontrano altre vittime della repressione. C’è un sacerdote che è stato torturato; c’è un giornalista che è stato ucciso: era uscito col suo giornale inneggiante ai liberatori senza sapere che i liberatori erano stati respinti dall’esercito regolare. Adunata nel cortile: vengono comminate le pene, ma nessuna condanna a morte. I due sono convocati nell’ufficio del colonnello, il quale non è altri che Jacobi. Questi intercede per loro, anche per una antica simpatia nei confronti di Eva, e li fa riaccompagnare a casa. Jan è nervoso, un po’ geloso. Eva gli annuncia il divorzio per la fine della guerra. Poi si abbracciano. Sembra tornata la serenità. I due ascoltano musica alla radio. Arriva Jacobi con alcuni doni: lo spartito di una composizione di Dvorák, un anello per Eva. Jan, che ha bevuto molto, si appisola sul tavolo. Eva e Jacobi si appartano. Lui le dà del denaro. Poi si recano nella serra dove fanno l’amore. Intanto Jan si è svegliato e sul letto ha trovato il denaro. È adirato. Chiama la moglie, piange. Arrivano dei soldati, nemici di Jacobi. Lo catturano, gli chiedono dei soldi. Egli prega Eva di restituirgli quanto le ha dato, ma Eva non ha nulla. Jan ha preso il denaro e nega di averlo, lasciando così Jacobi al suo destino. Anzi, avuta una pistola da un soldato, gli spara personalmente, accecato dall’ira. I soldati appiccano il fuoco alla casa, i due coniugi si rifugiano nella serra. Arriva un altro uomo armato: è un disertore, si nasconde da dieci giorni. Eva gli offre da mangiare, ma Jan si apparta con lui, lo deruba e lo uccide. L’uomo mite e pauroso è stato contagiato dalla violenza della guerra. Eva e Jan fuggono. Lasciano per sempre l’isola. Prendono poche cose, le caricano su un carretto e si

avviano verso il mare. «Cosa sarà di noi se non riusciamo più a parlarci?», dice la donna. Vedono un barcone che sta per salpare, pagano e vengono fatti salire. L’imbarcazione si allontana dall’isola attraversando un braccio di mare che pullula di cadaveri di soldati. Eva racconta di aver fatto un sogno: l’immagine di una vita felice con una figlioletta, davanti a un alto muro coperto di rose, incendiate da un aereo. «Si stringeva contro di me – conclude – e per tutto il tempo sapevo che dovevo ricordare qualcosa che qualcuno aveva detto e io avevo dimenticato».

Far uscire nel mitico ’68 un film sulla guerra, ma del tutto autonomo dalle mode culturali e ideologiche correnti richiedeva grande coraggio. Bergman ne ebbe da vendere, quando realizzò La vergogna, che difatti non fu immune da contestazioni e polemiche. Ma, come sempre individualista, aveva affrontato l’impresa in piena libertà. Non gli interessava sapere di chi fosse la colpa della guerra nel Vietnam e di tanti altri focolai sparsi per il mondo. Non aveva alcuna intenzione di schierarsi da qualche parte, come ha modo di dichiarare la protagonista, Eva Rosenberg, intervistata a tradimento (fot. 79) per un ipotetico programma radiofonico di propaganda intitolato, non a caso, Voci della libertà 1968, da parte del manipolo militare che poco prima ha minacciato di morte lei e il marito. Vale la pena di riportare qui integralmente quel dialogo, che fu oggetto di tante discussioni.

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Domanda: Che idee politiche segue? Risposta di Eva: Non ho nessuna idea politica. Domanda: Come, non ha idee politiche? Risposta di Eva: È difficile tenersi al corrente qui. Abbiamo la radio rotta da tanto tempo. Domanda: Per lei è indifferente in quale sistema politico deve vivere? Risposta di Eva: No, ma con questa guerra che dura da tanto… Per noi non è facile avere delle… Domanda: Ma ha delle preferenze? Risposta di Eva: Sì… Niente di più. A questo punto il marito sviene e l’azione prosegue senza altre parole. D’altra parte all’intervistatore non importa ascoltare il resto: le risposte saranno cambiate in sede di montaggio a fini di propaganda politica. Il senso di quel dialogo non è né un’accusa contro l’una o l’altra ideologia, né una professione di fede qualunquistica. È la reazione normale di una persona normale alle brutalità di una guerra che dura da tanto tenno. È il rifiuto della guerra in sé, in blocco, come demonio, come distorsione della storia89. Il messaggio di Bergman è qui più nobile di quanto non potesse sembrare nel cuore degli anni Sessanta, quando si poteva ancora parlare di guerra lontana ma sui teleschermi di tutti gli americani arrivavano suoni e immagini del con flitto nell’Estremo Oriente a turbare gli animi. Il messaggio di Bergman è totale e totalizzante. È contro ogni forma di guerra in quanto violenza, sopraffazione dell’uomo sull’uomo. La guerra uccide (paracadutista), uccide anche gli innocenti (bambina). La guerra distrugge (casa devastata e bruciata). La guerra imprigiona (la strada verso la salvezza risulta impraticabile). La guerra sconvolge (la degradazione di lei che si concede a Jacobi) e corrompe (la degradazione di lui che arriva a uccidere e continua a uccidere). La guerra, infine, è

senza ritorno, senza speranza: i cadaveri nel finale “tentano” di impedire all’imbarcazione di uscire da quell’inferno (ma è bene notare che nella sequenza successiva, dopo la dissolvenza, la barca è mostrata nel mare libero, fot. 80 e 81).

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La vergogna è anche un film sull’arte e sugli artisti. Sono due artisti, due musicisti e protagonisti sbalestrati dal conflitto. Nel dialogo con i due, Jacobi – personaggio inquietante che impersona la corruzione e poi ne resta vittima non del tutto innocente – esclama: «Santa libertà dell’arte, santa fragilità dell’arte!». Per Bergman, ancora una volta, l’arte pura, la musica, è strumento per tentare di librarsi verso l’infinito. E a questo proposito è bene sfatare alcune ricorrenti invenzioni sul rapporto tra il regista e la musica. La vergogna, si dice, è il punto di fuga in cui Bergman rinuncia definitivamente alla musica. In realtà è pieno di musica, suonata o desiderata, dal principio alla fine: è un film, oltre che sulla guerra, sulla musica, intesa come la forma d’arte più pura. All’inizio Jan racconta a Eva un sogno in cui era con lei nell’orchestra e suonava il quarto Concerto brandeburghese di Bach, più precisamente l’“Andante”. Jan ricorda il sogno così bene, e desidera tanto ricordarlo con la nostalgia per il tempo felice, che canticchia per Eva il tema di quel movimento. È musica per il cinema, anche se non c’è una grande orchestra a suonarla. Poi, il suono del carillon a casa di Filip (fot. 82): musica sempre in funzione espressiva, se non addirittura narrativa, in quanto rievoca il tempo passato della non guerra. Ancora, Jan in un momento di tregua dei bombardamenti, tira fuori un violino del 1814 (fot. 83) (l’anno, fa notare, del Congresso di Vienna) e, parlando con la moglie di musica e di musicisti (è un momento di tregua nel loro difficile rapporto), suona qualche nota, subito rammaricandosi della mancanza di esercizio: «Ho perso tutta la scioltezza. Vuoi provare tu?». La musica torna ancora, dall’apparecchio radio, nel momento in cui i due coniugi si abbracciano dopo un litigio. Qui la musica è il simbolo del superamento dei conflitti, dell’allontanamento della guerra, del ripristino della comunicazione (come avverrà anche in Sussurri e grida). Infine, l’iconografia del violino contorto e della tastiera del pianoforte profanata dai calcinacci rappresenta il simbolo contrario e corrispondente. La musica è l’antidoto alla guerra e alla violenza. Guerra e violenza cercano di cancellare l’arte e la musica. La vergogna è dunque un film con pochissima musica, ma ricco di musica in tutti i suoi snodi narrativi.

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La polemica sulla guerra era già presente in altre opere bergmaniane, sia pure per cenni. C’era nel disgusto di Block per la crociata (Il settimo sigillo), c’era nei terrori del pescatore ossessionato dall’atomica cinese in Luci d’inverno, c’era nell’occhieggiare dei carri armati dietro l’angolo nella città immaginaria in Il silenzio, c’era sullo schermo del televisore che mostra i bonzi suicidi col fuoco all’attrice di Persona. Ma stavolta la condanna è precisa, puntuale, forte. Più forte, probabilmente, nel testo e nelle intenzioni che nel film vero e proprio. Curiosamente, proprio nel momento in cui Bergman decide di raccontare di più, di attardarsi nei dettagli narrativi, il suo grido diventa esteticamente meno efficace, meno intenso. Qui si mostra molto, si dimostra meno del solito. Lo stesso ricorso ai grandi attori (che sono quelli di sempre) non è più l’elemento portante del film, e certe enfasi rischiano di diventare momenti di distrazione. Ma l’intento è sincero, la voglia dell’artista di comunicare qualcosa di più rispetto al consueto foro interiore è indiscutibile. Bergman affronta il sociale, tenta un manifesto, alza la voce. Forse il suo grido risulta più efficace a tanti anni distanza, dopo che le delusioni sono state più numerose e la coscienza dei popoli e del mondo si è fatta più nitida nel rifiuto delle armi. Già, le armi. Quale condanna più efficace di quel breve sconfinamento nel grottesco di Jan che non ha il coraggio di tirare il collo alla gallina e cerca di ucciderla con la pistola? Le armi da fuoco sono talmente diaboliche da portare all’omicidio anche chi con le sole mani non avrebbe mai il coraggio di commetterlo. Resta da esplorare l’orizzonte dal punto di vista religioso. Il film, come sempre, può essere letto utilmente sia da un ateo, sia da un credente, e a tutti e due può offrire qualche salutare spunto di riflessione. Apparentemente non si parla mai di Dio, ma solo dell’uomo. È uno dei film sul silenzio dell’uomo come risposta al silenzio di Dio. Qualcuno ha parlato di struttura narrativa non più verticale, ma orizzontale90. Ma l’accenno alla trascendenza, almeno come indistinta nostalgia di infinito, è presente nel finale, o meglio nel sogno raccontato da Eva nel finale. Il film era cominciato col racconto di un sogno di Jan: il sogno della nostalgia per il tempo in cui non c’era guerra, ma la musica, c’erano le orchestre sinfoniche. Il film finisce con il racconto di un sogno di Eva. È anche questo un sogno che nasce dalla nostalgia, ma di qualcosa di indeterminato, di dimenticato. È una «cosa detta da qualcuno» che servirebbe, se non l’avessimo dimenticata, come chiave per capire le cose della vita. Rileggiamo le parole di Eva: «Ho fatto un sogno. Percorrevo

una bellissima strada, da un lato c’erano delle case tutte bianche con arcate, colonne, portici, mentre dall’altro lato c’era un vastissimo parco e sotto gli alberi, lungo tutta la strada, scorreva dell’acqua verde cupo [si notino i continui riferimenti al colore nei film in bianco e nero di Bergman, N.d.R]. Sono arrivata a un alto muro; era completamente ricoperto di rose. Poi all’improvviso un aeroplano ha incendiato le rose. Io non avevo alcuna paura. Era tutto così splendido. Stavo lì a guardare nell’acqua e vi vedevo quelle rose bruciare. Io avevo una bambina in braccio, era nostra figlia. Si stringeva contro di me e sentivo che la sua bocca mi sfiorava la guancia e per tutto il tempo sapevo che dovevo ricordare qualcosa che qualcuno aveva detto e che io avevo dimenticato». Torna il tema della paura, qui fugata dall’amore, dalla sensazione della maternità e dalla famiglia. «Aperture queste, a nostro avviso, meno posticce e gratuite di quanto appaiano a prima vista – scrive il gesuita Luigi Bini. – Eva e Jan non erano stati soltanto degli spettri terrorizzati. Eva aveva tentato di fare qualcosa: era corsa in aiuto del paracadutista, e se aveva ceduto a Jacobi era anche per pietà verso il collaborazionista sommerso dal disprezzo e dall’odio dei concittadini, aveva accolto in grembo il capo stanco del giovane sbandato che Jan stava per trucidare per strappargli le scarpe»91. Merita ancora attenzione il rapporto di Bergman con i suoi interpreti prediletti. Sono «completamente abbandonati nelle mani del regista – ha scritto Jos Burvenich – al punto che non è quasi più possibile considerarli in maniera autonoma né parlare di direzione degli attori, tanto profondo e sviluppato appare lo spirito di collaborazione dell’équipe artistica e tecnica»92. Il rito

Un primo incontro di Bergman con la televisione avvenne con Il rito. Il breve film fu prodotto da lui stesso e presentato nel marzo 1969 alle reti televisive di Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca. Girato in bianco e nero a sedici millimetri, completamente in interni, fu lo stesso Bergman a presentano in video, invitando «tutte le persone anche minimamente impressionabili a non guardare, e a leggere invece un buon libro». Il film si divide in nove scene, così articolate: SCENA PRIMA (Una stanza per gli interrogatori). Il giudice Abrahmsson sta esaminando un fascicolo riguardante l’accusa di oscenità a un gruppo di tre comici denominato «Les riens», «I niente». La data 13.3.68 scritta nel fascicolo ci informa che è storia contemporanea alla realizzazione del film. Vengono introdotti i tre attori, Hans Winkelmann, capocomico, Thea von Ritt, la moglie, e Sebastian Fisher, l’amante. Il giudice li accoglie con affabilità, offre loro da bere. Cominciano le domande. Lampi e tuoni in lontananza annunciano un temporale. SCENA SECONDA (Una camera d’albergo). Sebastian e Thea si sono appena svegliati dopo aver dormito insieme. Discutono, lei fa la gelosa. Poi si baciano, si accarezzano. Qualcuno bussa: non aprono. Si raccontano i rispettivi sogni. Lei accusa l’uomo di non soddisfarla sessualmente; lui immagina di incendiare il letto con i fiammiferi. SCENA TERZA (Una stanza per gli interrogatori). Il giudice interroga Sebastian, rievocando alcuni suoi torbidi precedenti, comprese le coltellate inferte a un amico durante una lite. Sebastian insulta il giudice deplorando il suo cattivo odore e la sua sporcizia, e poi la sua falsità. Dichiara il suo ateismo e spavaldamente afferma di non aver paura di nessuno. SCENA QUARTA (Un confessionale). Il giudice si accosta a un confessionale. Chiarisce al prete che non ha voglia di confessarsi, ma ha semplicemente bisogno di parlare con qualcuno. Ha il cuore malandato, presagio di morte. È assalito dall’angoscia, anche se non nasconde qualche barlume di speranza: «La gente può perdonarsi a vicenda. C’è pietà sulla terra. Ma al di fuori del fragile anelito del calore umano non c’è che crudeltà, eterna crudeltà… I miscredenti spesso si mettono a pregare. Io prego. La preghiera mi libera dall’angoscia». Si ode il suono di una campana. Il giudice si abbandona a paurosi ricordi d’infanzia. SCENA QUINTA (Una stanza per gli interrogatori). Viene interrogato Hans, che ha atteso il giudice per due ore. Sotto pressione, confida le sue pene, la tristezza e lo squallore del rapporto a tre. Poi chiede al giudice di astenersi dall’interrogare la donna da sola, data la sua ipersensibilità, la sua fragilità psichica. Pur di ottenere il risultato tenta addirittura di corrompere il giudice, il quale lo rimprovera aspramente. SCENA SESTA (Camerino di un teatro di varietà). Thea, vestita da clown, beve. Ha paura dell’interrogatorio. Hans la consola, ma si confida a sua volta con lei: «Sono stanco di noi, della nostra cosiddetta arte. Non siamo più pertinenti. La gente non ha più bisogno di noi, siamo superati». Rimprovera la donna ma ammette

di amarla. Poi, ancora, definisce la situazione «umiliante e spregevole». «Dio mio – esclama – lasciami uscire da questa prigione!». Ma non vuole morire: «Non serve». Thea brontola perché il camerino è troppo umido e lamenta di non riuscire a farsi capire dal marito. SCENA SETTIMA (Una stanza per gli interrogatori). Il giudice interroga Thea. All’inizio è cortese e accomodante. Le offre brandy. Acconsente di leggere alcuni appunti che la donna ha preparato. Poi la accusa di insincerità, la interroga rudemente, la bacia, la possiede mentre la donna si abbandona a una crisi isterica. SCENA OTTAVA (Un bar). Hans conversa amichevolmente con Sebastian. Il loro agente ha comunicato che la tournée è sospesa per la guerra nel Medio Oriente. Restano soltanto alcuni spettacoli in Italia. Hans annuncia a Sebastian che non gli presterà più denaro. Poi gli dà alcuni consigli per soddisfare sessualmente Thea. SCENA NONA (Una stanza per gli interrogatori). I tre attori rappresentano privatamente davanti al giudice la loro pantomima intitolata Il rito. Thea ringrazia il giudice per i fiori che le ha mandato. Poi comincia il gioco rituale. Gli attori si tolgono i mantelli e indossano le maschere. Thea è a seno nudo. Il giudice confida i suoi tormenti: ha sempre avuto paura, fu il padre a volerlo avvocato. «Voi siete liberi – dice –. Avete una terribile libertà. Non vi capisco. Forse ridete di me». Sebastian lo schiaffeggia. Il giudice piange, ammette che nella sua professione «c’è smania della crudeltà». A questo punto muore per un attacco cardiaco. Una voce fuori campo informa che gli artisti furono condannati, pagarono la multa, concessero interviste e a fine estate andarono in vacanza. Non tornarono più in quel Paese.

Questo film, di vago sapore kafkiano, consente a Bergman da un lato di presentare in termini grotteschi i censori che spesso si accanirono nei confronti delle sue opere, dall’altro di approfondire alcune sue riflessioni sull’arte, sugli attori, sulla libertà. È una specie di rompicapo, o forse di teorema. L’impianto è matematico. I personaggi (come quasi sempre) sono quattro: il quinto, il prete, non parla. Delle nove scene, due, la prima e l’ultima, sono interpretate da tutti e quattro i personaggi. In altre sei i personaggi si incontrano a due a due. Nella scena rimanente il giudice, personaggio chiave, ha un lungo monologo davanti al confessionale (fot. 84). Sono tutti personaggi negativi, alle spalle hanno un passato di solitudine, di incomprensioni, di insoddisfazione. Ma il giudice è il peggiore di tutti, perché a dispetto della sua professione non è esente da peccati e da reati. Torna l’ironia di Bergman sulla contraddizione tra la professione di una persona e il suo comportamento.

FOT. 84

Il film si dipana agilmente attraverso dialoghi tra due personaggi. Dal loro intrecciarsi lo spettatore può trarre motivo di interesse per il tessuto narrativo o semplicemente di riflessione sui mille risvolti

dell’animo umano. È un’opera ricchissima di simboli e di richiami a precedenti film dell’autore. Ed è un’opera molto stimolante dal punto di vista formale. Bergman si diverte, per esempio, a intrecciare le scene come gli anelli di una catena anticipando sul finire di una di esse frammenti della colonna sonora della successiva. Quando poi si arriva al momento culminante dell’interrogatorio dell’attrice, la lettura del suo appunto scritto è fatta dal giudice, mentre noi vediamo sullo schermo la mimica della donna. Poi alla voce del giudice si sovrappone quella della donna stessa, ripresa in primissimo piano, con espedienti che ricordano da vicino la lettera di Marta in Luci d’inverno, ma qui il procedimento è ancora più raffinato (fot. 85).

FOT. 85

I tre attori, fa notare Aldo Serio, rappresentano i tre aspetti dell’arte: «il capocomico è la stanchezza, il fatalismo, la rassegnazione; l’attore giovane è l’istinto, il coraggio, la forza; la donna è il sesso liberato, il sentimento, la fiamma che scalda la creazione, la molla rituale dell’amore, cioè della fusione di tutti e tre gli elementi»93. Quando sono staccati l’uno dall’altro (interrogati separatamente) rischiano di soccombere alla burocrazia, alla crudeltà, all’inquisizione. La libertà rischia di perdere la partita giocata con la ragione: infatti il capocomico fa di tutto per evitare che la donna sia interrogata da sola. Ma poi, quando il trio si ricompone, e i tre si mettono la maschera, l’arte ha il sopravvento. E chi l’ha minacciata muore. Così, sembra suggerirei Bergman, è la vita. In una stessa persona possono ritrovarsi i tre caratteri descritti, e la conquista della libertà interiore è subordinata al recupero dell’unità della personalità nella quale pur rimangono distinti i vari aspetti. Torna il discorso di Bergman sulla maschera, qui materializzata non solo nell’ultima scena, ma anche nel dialogo tra Hans e Thea, quando la donna si presenta truccata da buffo clown, e il trucco finisce per impastarsi con le sue lacrime (fot. 86). La scena trova la sua eco simmetrica nelle parole che Thea dirà al giudice: «A volte mi sento estremamente tragica, a volte incredibilmente ilare». Il riferimento pirandelliano è colto da Maurizio Del Ministro94 sotto questo aspetto: «Tali espressioni verbali e figurative debbono essere intese secondo il significato del Saggio sull’umorismo di Pirandello: l’uomo amando fortemente la vita che lo fa soffrire sente la beffa di amare il nulla e perciò ride in una smorfia tragica». Non a caso il film si chiude sull’immagine fissa di Thea che sotto la maschera accenna un enigmatico sorriso (fot. 87). Pirandelliano, d’altra parte, è tutto il gioco, che fa perno sull’arte come verità speculare della vita.

FOT. 86

FOT. 87

Passione

Sempre a Fårö, Bergman realizzò nel 1968 Passione, il film che segna la sua opzione definitiva per il colore. Ma stavolta, a differenza di Il rito, il produttore fu cinematografico e non televisivo: nuovamente la Svensk Filmindustri. Passione fu l’ultimo film diretto per questa società. Subito dopo Bergman si sarebbe messo in proprio. Un uomo di quarantotto anni, Andreas Winkelman, vive in solitudine su un’isola. Lo vediamo, all’inizio, mentre ripara alcune tegole del tetto. Poco dopo, in bicicletta, incontra un uomo che spinge un carro. È il suo amico Johan, che soffre per una fastidiosa bronchite. Andreas lo invita a casa per dargli una bottiglia di sciroppo contro la tosse. A casa di Andreas arriva una donna che per camminare si appoggia a una stampella. Si chiama Anna, chiede di fare una telefonata. Ha alle spalle un terribile incidente d’auto in cui hanno perso la vita il marito e il figlio. Andreas la accompagna al telefono e poi per qualche istante si ferma dietro la porta ad ascoltare la conversazione. Anna para con Elis, il marito di una sua amica, di una questione di denaro. Alla risposta negativa la donna scoppia a piangere. A questo punto appare sullo schermo Max von Sydow non più nei panni di Andreas, ma in quelli di se stesso. È il primo di quattro “intervalli” nei quali Bergman chiede agli attori di dare un giudizio sui personaggi interpretati. L’attore dice che interpretare il personaggio affidatogli è difficile a causa della sua inespressività. Andreas esce da un matrimonio fallito e da alcune disavventure con la legge. È in un vicolo cieco, e cerca di soffocare qualsiasi manifestazione dei suoi sentimenti. Anna è andata via dalla casa di Andreas ma vi ha lasciato la borsa. Andreas la apre e trova una lettera del marito di Anna, il quale dice alla moglie che ha deciso di lasciarla. La macchina da presa inquadra (e le inquadrerà ancora più volte) le parole della lettera in primissimo piano. Andreas va a casa di Anna per restituire la borsetta. Anna non c’è, ma ci sono Elis Vergérus e la moglie Eva. Lo invitano a entrare ma egli non si trattiene: ha troppe cose da fare. Ora è sulla neve, raccoglie alcune pigne cadute dagli alberi. Vede un uomo che corre, sente un mugolio. Trova un cagnolino impiccato a un albero. Lo libera appena in tempo, lo porta a casa, lo sfama. Andreas trova un’auto ferma: dentro Eva distesa che dorme. La donna si sveglia, lo invita a casa per la cena. A tavola sono in quattro: Eva, Elis, Anna e Andreas. Trascorrono una serata piacevole. La conversazione si sposta su argomenti seri. Eva racconta di un libro sulla creazione del mondo intitolato Luce che da bambina le veniva letto dal papà. In una illustrazione Dio era raffigurato in atto di volare sul mondo con le braccia allargate: aveva un viso bellissimo e una folta barba candida. «Ciò mi fece credere in Dio», dice Eva, e afferma di credere ancora che Dio esiste. Ma aggiunge che se avrà dei bambini non insegnerà loro a credere. Elis, che è architetto, parla di un Centro culturale da lui progettato che sta sorgendo a Francoforte, dove egli si recherà. Parla del suo lavoro con scetticismo. Anna lo critica. «Io scelgo le cose in cui credo – dice –. Ognuno di noi sa percepire quello che è vero e giusto. Ognuno di noi deve tendere a un solo scopo: raggiungere la perfezione spirituale. Non ho sbagliato l’evento più importante: vivere in perfetta comunione con Andreas (si chiama così anche lui), l’uomo con cui ero sposata. Abbiamo vissuto in armonia e comprensione. Ho ricordi stupendi, felici». Andreas la guarda con ironia, pensando alla lettera del marito che ha letto di nascosto. Alla fine del pranzo Elis invita Andreas a trattenersi per la notte ed egli accetta. Durante la notte Anna si sveglia e grida, in preda a incubi. La mattina dopo Elis accompagna Andreas al mulino dove ha sistemato il suo studio. Gli mostra una collezione di fotografie di persone. Tra le foto ci sono quelle di Anna a ventitré anni e del marito. «Era considerato un luminare della scienza ma non ha mai avuto modo di dimostrarlo – dice Elis –. Eravamo compagni di scuola. Non lo conoscevo bene. Anna l’ha amato alla follia, e forse anche lui ma a modo suo. Per un anno ho avuto mia moglie Eva per amante». Andreas è tornato a casa. Ubriaco, si aggira nel bosco sulla neve urlando, finché si accascia sotto un albero. Lo soccorre Johan, che lo porta a casa. Secondo “intervallo”. Liv Ullmann dice di capire il personaggio Anna e la sua ansia di verità. Ma questa ansia costituisce anche un pericolo, perché «quando si accorge che il mondo reagisce male, Anna non ha altra soluzione che farsi schermo con le bugie. Ci si aspetta anche dagli altri la stessa fiducia…». Eva va a casa di Andreas. È sola da tre giorni e si annoia. Il marito è a Francoforte e Anna è di nuovo all’ospedale per la quarta operazione alla gamba. I due passano insieme una gradevole serata che concludono facendo l’amore. Otto pecore sono state uccise e mutilate da uno sconosciuto. La polizia apre un’inchiesta. Da una conversazione tra Eva e Andreas a casa di Elis apprendiamo di una relazíone seria tra Andreas e Anna, che è andata ad abitare con lui. Vivono insieme, moderatamente felici, come informa una voce fuori

campo. Un giorno Anna comincia a parlare del suo matrimonio. Dice che la nascita del bambino fu una «fantastica esperienza». Anna e Andreas soccorrono Johan il cui carro si è impantanato. L’uomo dice di essere sospettato dell’uccisione delle pecore e minacciato. Sul video scorrono le immagini violente della guerra del Vietnam. Si sente un rumore. Un uccello ferito è caduto fuori della porta. «Inutile farlo soffrire», dice Anna, e Andreas lo uccide. I due si lavano le mani sporche di sangue. Anna prepara la scacchiera. Chiede ad Andreas di confessare se ha avuto una relazione con Eva, ma Andreas nega. Terzo “intervallo”. Bibi Andersson definisce Eva una donna che finalmente riesce a evadere dal suo grigiore e a prendere posizione. «Finirà per tentare ii suicidio – aggiunge – ma non è mai una soluzione. È in fondo un altro atto egoistico e voglio sperare che riescano a salvarla» Anna racconta un sogno ad Andreas. Lo vediamo sullo schermo in bianco e nero. Anna è su una barca (quella del finale di La vergogna) insieme ad altre persone che dormono. Scesa a terra, si trova di fronte uno spettacolo desolato. È sola. Desidera un po’ di calore umano, si avvicina a una donna che però la respinge. Gli abitanti del luogo hanno sprangato le porte. Altre donne si muovono verso un obiettivo ignoto, quasi in processione. Una di esse è seduta in terra e piange: il figlio sarà giustiziato. Divampano incendi. Anna si trova di fronte un cadavere e urla. Ma dalla sua bocca non esce alcun suono. La polizia è in casa di Johan che è stato trovato morto impiccato. Ha lasciato una lettera in cui spiega che alcuni uomini l’hanno linciato ritenendolo responsabile dell’uccisione delle pecore. Disperato e umiliato, si è ucciso. Anna prega per Johan. Andreas si rivolge a lei sgarbatamente. Qualcosa incrina il loro rapporto. Vivono insieme da un anno tra litigi e riconciliazioni. Anna lavora facendo traduzioni. Andreas e Anna si confidano i loro tormenti. Andreas dice di essere un fallito, ha perso il rispetto di se stesso. Quarto “intervallo”. Erland Josephson commenta il personaggio Elis, un egoista «deciso a non trascorrere notti insonni per le sofferenze altrui». Anna e Andreas fanno colazione. Lui spacca la legna. Nasce l’ennesimo litigio, Andreas percuote Anna. Una farfalla sbatte contro il vetro. È stata incendiata la stalla. Un cavallo avvolto dalle fiamme è stato ucciso. Andreas dice ad Anna che vuol tornare a essere libero. Le confessa di aver sempre saputo del suo rapporto negativo col marito. La accusa di menzogna. I due sono in auto: per un momento sembra che lei, alla guida, voglia uscire fuori strada per uccidere Andreas. Questi le domanda perché è venuta. Lei risponde: «Volevo chiederti perdono». Lui scende, l’auto riparte. Ora Andreas è solo. Va avanti e indietro su un viottolo fangoso, come un animale in gabbia. Una voce fuori campo dice: «Questa volta il suo nome era Andreas Winkelman».

Il film completa praticamente quella che è stata definita la «tetralogia di Fårö». Dopo la trilogia su Dio e sul silenzio di Dio, infatti, troviamo quattro film in cui sembra che la tematica si sia spostata: dalla ricerca vana di un paradiso metafisico alla descrizione impietosa dell’inferno che c’è sulla terra. In realtà Bergman continua coerentemente il suo discorso sul destino dell’uomo. Analizza e racconta il “cancro dell’anima” che sorge quando Dio è stato ucciso. Passione analizza quattro inferni privati. L’inferno di Anna è nella sua speranza delusa, nella sua utopia tradita dalla realtà. L’unica possibilità di fuga è purtroppo nella menzogna. L’inferno di Andreas è il suo fallimento esistenziale che lo condanna alla solitudine. L’inferno di Eva è la sua instabilità, la sua incertezza la sua incapacità di affrontare i problemi. Il suo rifugio è l’ambiguità, cui può seguire la disperazione. L’unico a trovarsi bene nell’inferno è Elis, che ha per cognome Vergérus come tanti personaggi negativi bergmaniani. Chiuso nel suo egoismo, è uno degli autori dell’inferno, rappresenta emblematicamente la causa di tutti i mali del mondo: dall’egoismo nascono la menzogna, la violenza, l’infelicità. Questa umanità in sfacelo è immersa nello scenario squallido e chiuso dell’isola, dove la natura stessa è ostile e dove perfino gli animali soffrono. Anzi, la sofferenza del cane impiccato, del cavallo bruciato, delle pecore sgozzate (fot. 88), dell’uccello ferito finisce per avere un preciso ruolo nel tessuto narrativo. È lo specchio delle sofferenze degli uomini, è forse «la proiezione delle angosce del protagonista della vicenda», come scrive Grazzini95. Bergman sottolinea che i problemi dei protagonisti del film sono in realtà i problemi degli uomini del nostro tempo. Emblematiche, al riguardo, le ultime parole del film: «Questa volta il suo nome era…», come per dire che cambiano i personaggi, cambiano le storie, ma l’argomento del suo cinema è sempre lo stesso: l’uomo con tutti

i suoi terrori, le sue paure, i suoi dubbi, le sue infelicità. A un certo punto Andreas è assorto nei suoi pensieri mentre guarda una fotografia. Una donna (probabilmente la moglie) gli dice: «Tu hai il cancro dell’anima. Dovresti operarti. Farai una morte orribile». Andreas è l’uomo che ha perduto fede, fiducia, ideali. È prigioniero del suo cancro dell’anima e non riesce a liberarsene. «Vorrei essere libero – dice ad Anna, – ma la libertà è un tremendo veleno per chi è schiavo, o è una droga che lo schiavo usa come ossigeno».

FOT. 88

Per far capire ancora meglio che al di là del film c’è la vita, Bergman usa questa volta ben due chiavi di lettura, esasperando al massimo lo straniamento brechtiano. Ricorre alla voce fuori campo del narratore (cui affida il messaggio finale) e usa i quattro “intervalli” in cui vediamo gli attori commentare in prima persona gli eventi e criticare il comportamento dei personaggi. «È come invitare lo spettatore a entrare nel dramma – scrive Cosimo Scaglioso, – a demistificare l’attore e a riportare tutta la vicenda fuori dell’aneddoto e della finzione scenica nella coscienza di ciascuno, che ne resta coinvolto. E la favola ci tocca tutti, la maschera scenica strappata permette a Bergman di svolgere il suo discorso al limite delle capacità espressive del cinema, che perde il suo fascino ammaliatore e diventa ricerca di una verità che ti inchioda alle tue responsabilità sociali e umane, nei limiti di una creatura che non ha certezze e muove in una realtà dai confini labili. La struttura narrativa del film è tale da non porre al centro questa o quella figura, ma l’uomo nella sua umiliante condizione di essere senza prospettive vincolato al male e alla solitudine»96. L’adultera

All’isola di Fårö, suo rifugio solitario dal 1967, Bergman volle dedicare Fårödokument, un documentario per la Tv svedese. In origine doveva avere due personaggi, il regista stesso e la Ullmann, e poi ne ebbe uno solo, appunto il regista, perché la Ullmann non collaborò all’impresa. Ma protagonista del breve film è la gente dell’isola, che ha modo di esporre i suoi problemi, di rivendicare i suoi diritti. Dicono che questo sia l’unico film veramente politico di Bergman. Il punto di partenza è che democrazia vuol dire uguaglianza. E allora perché persone che vivono in luoghi poco popolati e fuori mano sono defraudati dei diritti elementari garantiti invece a chi vive nei grandi centri? Dopo questo forte impegno sociale Bergman pose mano, quasi per contrasto al suo film forse più superficiale e occasionale, L’adultera. Karin ha 34 anni ed è a quanto pare una donna felice. Tranquilla madre di famiglia, ha l’hobby dei fiori, conduce un’esistenza normale in una cittadina svedese di provincia dove il marito è primario ospedaliero. I due hanno due bambini e tutto procede per il suo verso finché non arriva a turbare la quiete familiare quella faccia d’orso dell’archeologo israeliano David. Egli attrae e incanta Karin, donna matura un po’ distratta e un po’ svampita. Si sono già incontrati una volta mentre Karin usciva sconvolta dall’ospedale dove era morta la mamma. Ora invece l’incontro ha luogo a casa di Karin, dove David è invitato dal marito Andreas. David confessa alla donna di amarla fin da quel primo incontro casuale. Scocca la scintilla, Karin cade tra le braccia di David. Il primo appuntamento è presso la chiesetta in cui David lavora e in cui, in una nicchia nascosta, si è scoperta una vecchia statua di legno raffigurante la Madonna. Gli incontri fra i due si moltiplicano. È un amore fatto di tenerezze ma anche di bruschi contrasti. David ha un carattere introverso e non riesce a dimenticare lo sterminio dei suoi a opera dei nazisti. La

relazione è interrotta per un po’ da un trasferimento momentaneo dell’uomo a Londra, ma i due amanti si scrivono ogni giorno. Trascorrono due anni. Andreas scopre la tresca. Dopo un colloquio con David, lascia che sia Karin a prendere una decisione. L’incertezza rimane fino all’ultima sequenza. Intanto apprendiamo che Karin aspetta un bambino da David. Alla fine (per dirla con le parole dello stesso Bergman) «la donna cerca la ragione per la sua decisione di rimanere col marito nel focolare domestico. Parla del suo dovere e di tutto il resto. Il che, forse, è anche vero. Allora l’amante le dice: “Tu menti”. Glielo ripete tre volte. Poi lo spettatore è libero di scegliere da che parte vuol essere. Ella mente o dice la verità? Sceglie la via del dovere rinunciando a una vita avventurosa e appassionata, ma viva soprattutto, per tornare al suo mondo fiabesco? Oppure sceglie il dovere amaro vivendo un amore che non ha mai effettivamente materializzato? Mente o dice il vero?». Ma il vero problema non è l’happy end o meno, come sembra suggerire Bergman nel finale. Lo fa a suo modo, con una precisa simbologia. Quando i due amanti tornano nella chiesetta e David mostra a Karin la statuetta lignea finalmente restaurata, ci troviamo di fronte a un fenomeno inaspettato: si sono risvegliati i tarli da un lungo letargo e hanno ricominciato a erodere la statua dall’interno, per distruggerla. Come dire: inutile l’adulterio, l’evasione, l’illusione di ricominciare da capo. Il tarlo ricomincia ostinatamente a consumare l’uomo dal di dentro.

Il tarlo è nel titolo svedese, Beröringen, mentre il titolo americano suona The touch, il contatto, con riferimento al difficile rapporto tra gli esseri umani. Ma il titolo italiano, apparentemente banalizzante, riesce forse meglio degli altri a dare un’idea del più limitato ambito in cui questa volta il regista si muove. Bergman si lascia tentare dal divo americano di turno, Elliot Gould, dal colore usato in chiave semplicemente realistica, dalla musica pop adottata per sottolineare l’affaccendarsi di Bibi Andersson attorno ai fornelli (tipo Doris Day), dalla trama del solito triangolo, un genere reso famoso fino ai limiti del sentimentalismo. È un Bergman minore, grondante di materiali di riporto. Lo stesso rapporto d’amore tra i due assume fin dall’inizio un carattere più fisiologico che altro. L’evento del bambino in arrivo rimane un episodio tutto sommato marginale. La stessa riluttanza di David ad addentrarsi nel rapporto non viene sufficientemente approfondita. Bergman stesso parlò di «un film di poco valore che mi ha fatto guadagnare un bel po’ di soldi». Sussurri e grida

Dopo il tuffo nel clima del cinema americano, da qualcuno giudicato un infortunio, Bergman nel 1972 tornò con Sussurri e grida (scritto, secondo quanto dice l’autore, «in un lungo attacco di malinconia») ai temi e ai modi a lui cari, non senza però conservare di quella precedente esperienza il gusto per un certo uso del colore e per una certa dimensione dello spettacolo. Per realizzare il film Bergman dovette mettere insieme tutti i suoi risparmi e proporre ai quattro attori principali di impegnare le loro paghe come coproduttori. Il Filminstitutet concesse un prestito di mezzo milione. I lavoratori del cinema svedese protestarono: Bergman che aveva la possibilità di rastrellare capitali all’estero non doveva gravare sulle magre finanze del cinema del suo Paese. Tuttavia le cose non stavano proprio così. In quel momento il regista, dopo alcuni mezzi insuccessi, non trovava finanziatori né in patria né all’estero. Ma l’esperienza americana di L’adultera ebbe anche un risultato pratico, quando si trattò di lanciare il film. Sussurri e grida infatti fu acclamato più oltre Oceano che in patria. Nelle due sale di Stoccolma dove il film fu proiettato, il Fanfaren e lo Spegeln, gli spettatori non erano numerosi, anche se molto attenti: «parecchie signore di mezza età, alcuni intellettuali con barba, impiegati e professionisti, qualche studente, pochissimi giovanotti e ragazze», annotava il cronista97. Bergman ebbe la buona idea di organizzare un’anteprima in America, suscitando una vampata d’entusiasmo, insufficiente però ad assicurargli l’Oscar che aveva sperato per la ex moglie Liv Ullmann (andò invece a Liza Minnelli). Non era stato facile, tuttavia, trovare il noleggio. I grandi distributori non ne volevano sapere. Alla fine si trovò una piccolissima impresa specializzata in film dell’orrore e in pornosoft: s’era creato un buco nella programmazione di un cinema d’essai di New York perché non era arrivato un atteso film di Visconti. Fu l’occasione buona. Sussurri e grida fu proiettato l’antivigilia di Natale e fu un trionfo.

Ormai Bergman era lanciato verso un successo molto più vasto di quello europeo ottenuto negli anni Cinquanta. D’altra parte anche lui era cambiato. Con la collaborazione dell’ultima moglie, l’energica Ingrid von Rosen (che per lui aveva lasciato un marito e quattro figli) aveva messo in piedi una casa di produzione, la Cinematograph AB, ponendovi a capo uno dei suoi collaboratori più fidati: quel Lar-Owe Carlberg visto nei panni del poliziotto in Luci d’inverno. Non era più il tempo di attendere incarichi da parte della Svensk Filmindustri o di produttori indipendenti. Nata a Fårö, la società aveva poi cambiato sede, trasferendosi al centro di Stoccolma, in un bell’appartamentino dalle pareti rosse. Gli studi erano però rimasti nell’isola di Fårö, e là era stato girato Sussurri e grida, in una villa in rovina vicino a Mariefred. La produzione in proprio consentì notevoli risparmi: il filo costò soltanto duecento milioni di corone98. Trecento milioni avrebbe fruttato da parte del noleggio italiano: milioni non spesi male, stavolta l’esito commerciale fu piuttosto brillante. Si odono i rintocchi di un orologio, raggi di sole fendono il paesaggio boschivo. La macchina da presa inquadra il volto sofferente di Agnes. La donna è affetta da un male incurabile. Nella casa (che fu dei genitori) dove vive insieme con la domestica Anna si trovano anche le due sorelle Karin e Maria, venute ad accudirla negli ultimi giorni di vita. Agnes beve un sorso d’acqua, si alza dal letto, rimette l’orologio, guarda da una finestra, fuggevolmente, gli alberi, le acque di un lago, le colline. Poi apre un calamaio, prende una penna e scrive sul diario: «È lunedì mattina presto e sto soffrendo…». Anna porta la colazione all’inferma e alle sorelle. Quindi nella sua cameretta si raccoglie in preghiera, raccomandando al Signore la sua bambina, morta quattro anni prima. Ricordo di Agnes. Sono immagini e sensazioni dell’infanzia: la mamma vestita di bianco nella sala rossa, la lanterna magica di zia Olga. «Penso sempre alla mamma – dice Agnes fuori campo – quasi ogni giorno, anche se è morta da molti anni». Il medico di famiglia, dopo una visita all’ammalata, conferma la diagnosi infausta. Prima di congedarsi, si apparta con Maria, che è stata la sua amante. Si baciano. Ricordo di Maria. La bambina di Anna si è sentita male. Il marito è in città per affari. Il medico si trattiene a dormire in casa sua. Il mattino dopo lui le rinfaccia la sua superficialità, la sua indifferenza. Torna il marito, che tenta di uccidersi con un tagliacarte. Maria lo guarda senza intervenire. Agnes chiama Anna che le sieda accanto, sul letto, facendole poggiare la testa sull’ampio seno con atteggiamento materno. «Vorrei tornare nella culla – dice Agnes – vicino alla mamma; sei così buona tu…». Durante la notte Anna chiama Karin e Maria perché l’ammalata ha una grave crisi. L’orologio ci informa di quattro ore di sofferenza. Poi Agnes si assopisce. Le tre donne l’aiutano a lavarsi, a rivestirsi. La fanno bere. Maria, per distrarla, le legge qualcosa di «leggero»: il trentacinquesimo capitolo del Circolo Pickwick. Dopo una nuova, violenta crisi l’inferma muore. Le donne compongono la salma. Arriva il prete che legge una preghiera, pervasa da tanti «se». «L’avevo preparata io alla cresima – conclude. – La sua fede era più forte della mia». Ricordo di Karin. A cena col marito. Tra i due non c’è alcun rapporto. Lei, maldestra, rompe un bicchiere pieno di vino rosso. Va nella sua stanza; Agnes la aiuta a svestirsi e viene trattata con freddezza. Karin è desolata. Pensa alla vita come a «un insieme di bugie». Si masturba a sangue con un frammento di vetro. Poi si reca a letto e davanti al marito si imbratta la bocca con quel sangue. Maria dice a Karin: «Vorrei che fossimo amiche. Potremmo essere felici insieme». Karin legge sul diario di Agnes: «Il regalo più bello è la solidarietà, il calore umano, l’affetto. Credo che la gioia sia proprio questa». Maria cerca di accarezzare la sorella, che la respinge. Più tardi hanno ancora una discussione, al termine della quale però si rappacificano, ritrovando il gusto di parlare tra loro. Pensiero di Anna. Dalla stanza della morta si sente provenire un lamento. Anna entra e la voce le chiede se ha paura. Risponde di no. «Non riesco a dormire – dice la voce –, non riesco a lasciarvi». Chiede poi di vedere Karin. Questa entra, ma si ritrae con orrore: «Non ti voglio bene». Viene poi chiamata, ed entra, Maria. Anch’ella fugge impaurita. Resta accanto alla morta Anna: «Resto io accanto a lei». Dopo il funerale si decide di vendere la proprietà e Anna viene liquidata senza tanti complimenti; Maria le mette in mano un po’ di denaro. Andrà via alla fine del mese. Le due sorelle si parlano con disprezzo: non riescono a mantenere i buoni propositi fatti poche ore prima. Si lasciano dicendo: «Ci rivedremo all’Epifania come al solito». Il film si chiude su alcune parole del diario di Agnes e su immagini felici delle tre sorelle vestite di bianco che ridono, corrono sul prato verde, vanno in altalena sospinte da Anna. «Sento di dover essere grata alla vita – si legge nel diario di Agnes – che mi dà tanto». Una didascalia, una frase del profeta Geremia: «Quando le grida e i sospiri saranno passati».

Sussurri e grida è un film singolarmente ricco di valori formali e sostanziali. Diversi critici hanno usato giustamente l’aggettivo «sontuoso». Il racconto si svolge seguendo una serie di puntigliose simmetrie. Quattro donne sono le protagoniste, a conferma che per Bergman il quattro è un numero magico. E quattro sono anche i personaggi maschili, che però hanno ancora una volta un ruolo completamente secondario, negativo. In effetti quel che interessa al regista è l’animo femminile, come dimostra l’insieme della sua opera. Egli stesso è portato a identificarsi più con i personaggi femminili che con quelli maschili. «Fino a oggi i film sono stati fatti da uomini per gli uomini – ha scritto François Truffaut. – Ingmar Bergman è forse il primo ad aver affrontato certi segreti del cuore femminile»99. I quattro personaggi femminili, a loro volta, sono simmetrici a due a due. Le due sorelle sono i personaggi più negativi, mentre Agnes e Anna sono quelli più positivi. Karin è l’immagine del fallimento e della disperazione. Nella sua aridità spirituale non è riuscita a costruire un rapporto significativo con il marito, dal quale pure ha avuto cinque figli. «Molte volte ho pensato anche al suicidio», confida alla sorella. Maria è una fanciulla viziata, sorridente, curiosa e sensuale. Anch’ella ha alle spalle un matrimonio fallito. Dal colloquio con l’amante scopriamo i lati peggiori del suo carattere: sensualità, indifferenza, egocentrismo, cinismo, ipocrisia, indolenza, impazienza, superficialità. Parlando con Karin, Maria stessa ammette: «Io sono superficiale, tu hai letto più di me…». Né in Karin, né in Maria troviamo alcun barlume di umanità, alcun barlume di fede. È questo che le differenzia da Agnes e Anna, mentre le accomuna la solitudine. Tutte e quattro le donne sono sole, ma soltanto Agnes e Anna riescono a colmare la loro solitudine, perché aperte all’amore e pertanto all’infinito. Torna qui il tormento di Bergman sulla trascendenza e sull’anima. Le uniche tracce di Dio riscontrabili nel mondo sono, secondo lui, nell’amore. Così i due personaggi che hanno la fede sono anche le due persone che hanno l’amore. Sono sole tutte e due, perché tutte e due hanno perduto la persona più cara. Anna ha perduto la bambina, Agnes ha perduto la mamma. Ma Agnes è stata buona con la bambina di Anna quando era in vita, e Anna ripaga Agnes con lo stesso amore. Così Agnes finisce per vedere in Anna la mamma che non c’è più, e Anna finisce per vedere in Agnes la sua bambina morta. Stranamente si è parlato di ambiguità nel rapporto tra le due donne, che è invece spiegabilissimo in questi termini. Agnes è la figlia, Anna è la mamma. Ciò risponde perfettamente, tra l’altro, all’iconografia dell’immagine finale delle due donne (fot. 89), che richiama una “Pietà”100. Non a caso è una iconografia religiosa101. Così come religiosa finisce per essere l’invocazione di Agnes nella fantasia di Anna: «Vorrei tornare nella culla, vicino alla mamma…». La morte è vista dall’“homo religiosus” come una seconda nascita, e di questa seconda nascita Anna incarna il ruolo materno. L’elemento religioso difatti si innesta nitidamente nell’atteggiamento delle due donne e nel loro comportamento. È emblematica, al riguardo, la preghiera mattutina di Anna: «Grazie, mio Dio, per avermi concesso di svegliarmi sana e serena dopo una notte trascorsa in sonno profondo sotto la tua benevola protezione. Ti prego oggi qui come ogni giorno di far custodire e difendere dai tuoi angeli la mia bambina che nella tua insondabile saggezza hai voluto chiamare al tuo fianco». Della religiosità di Agnes ci dà poi testimonianza il prete quando conclude l’orazione funebre dicendo: «L’avevo preparata io alla Cresima. La sua fede era più forte della mia» (fot. 90).

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I quattro personaggi femminili costruiscono, si direbbe autonomamente, il film con tre ricordi e una fantasia. I quattro inserti (tre dei quali sono flashback) scandiscono la narrazione con geometrica puntualità. Ciascuno di essi è preceduto e seguito da una “sigla” costituita dal primo piano della donna che ricorda o pensa incastonato come un cammeo tra due dissolvenze (fot. 91). Tutte le dissolvenze sono rosse, meno l’ultima, che è viola102. I volti hanno una funzione espressiva essenziale. Questo, come altri e ancor più di altri di Bergman, è film di attori. Le quattro donne sono interpretate da quattro grandi attrici, alle quali va senza dubbio una parte notevole del merito del risultato. Quanto Bergman sia attento al volto umano come espressione dell’anima lo si deduce dalle parole che il medico-amante dice a Maria durante uno dei flashback (ed è importante che queste parole le dica un medico): «Sai da dove ti vengono le rughe? Dalla tua indifferenza. E questa lieve curva che va dall’orecchio alla punta del mento non è nitida come un tempo. Questo significa che sei superficiale e indolente. E lì alla radice del naso ora c’è troppo sarcasmo, c’è troppo scherno. E sotto i tuoi occhi inquieti mille rughe impietose, secche, quasi inavvertibili di noia e di impazienza».

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Nella stessa sequenza è da notare un’altra frase del medico: «Vieni qui, guardati allo specchio. Sei bella, sei forse anche più bella che allora, ma tanto cambiata». Il concetto delle persone “che cambiano”, si trova spesso nell’opera bergmaniana: per esempio in L’immagine allo specchio. È un aspetto della problematica esistenziale. Il cambiamento nel mondo c’è, ma non sempre è una evoluzione. Spesso è degradazione fisica (le malattie incurabili) o psichica (le nevrosi, le dissociazioni, le angosce). La vita è una partita a scacchi nella quale, un po’ come in Il settimo sigillo, si gioca la direzione del cambiamento. Alcuni esseri umani, alcuni personaggi bergmaniani hanno la forza e la capacità di una vera metanoia. Altri finiscono vittime della loro angoscia, della loro disperazione. E al capolinea c’è soltanto l’autodistruzione, che spesso assume la forma del suicidio, tentato o riuscito. In questa sequenza, che nel film è delle più ricche e stimolanti, troviamo anche riproposta la similitudine tra lo specchio e il prossimo. In Come in uno specchio e altrove è presente l’idea del nostro rapporto con gli altri come chiave per trovare l’amore, sola possibilità di vincere il silenzio

della divinità. Ebbene, l’altro è lo specchio confuso in cui riconosciamo noi stessi, nel bene e nel male. In Sussurri e grida il medico invita Maria a guardarsi nello specchio alla luce fioca di una candela. Dopo averle spiegato il motivo delle rughe e del cambiamento, la sente sussurrare: «Queste rughe le vedi in te stesso perché noi siamo uguali, tu e io». Se il rapporto d’amore è sterile, esteriore, superficiale, lo specchio non fa che riflettere la propria immagine. Non esiste nessuna comunicazione. Il silenzio di Dio resta impenetrabile. Con l’accavallarsi degli eventi il cerchio si stringe. Agnes muore, le possibilità di comunicazione all’interno della famiglia si assottigliano. Di qui nasce l’estremo tentativo di Maria e Karin di recuperare tra di loro un rapporto d’affetto familiare. È Maria a cominciare, forse a causa del suo carattere più espansivo. Ma poi chi ci crede e ne esce delusa è Karin. Il tema della comunicazione tra le persone torna a emergere. Uno dei primi piani di Karin tra le due dissolvenze ci mostra il suo volto mentre ella cerca di parlare e non ci riesce. Ma da quel che accade dopo abbiamo la conferma della sfiducia di Bergman nella parola come mezzo di comunicazione. Non si comunica con la parola, ma con l’amore. Difatti assistiamo a un dialogo tra le sorelle che discutono, mentre – durante la momentanea rappacificazione – l’audio offre soltanto musica. Vediamo le donne parlare ma non ne ascoltiamo le parole. Sono evidentemente le parole della quotidianità, insignificanti di per sé ma ricche di significato al di là del senso letterale, per il semplice motivo che vengono pronunciate. Sullo sfondo della narrazione si muovono i quattro personaggi maschili, anch’essi abbinati a due a due. I primi due sono i due mariti, assenti ed estranei, lontani anni luce dalle loro donne e da quanto sta succedendo. II commento di uno di essi alle esequie di Agnes è: «Musica bella, sermone breve». Gli altri due sono personaggi in controluce, che hanno la funzione di far risaltare “come in uno specchio” alcuni motivi essenziali del racconto. Al medico-amante di Maria è affidato, come si è visto, il compito di alter ego della donna, immagine riflessa della sua infelicità e della sua solitudine. Al pastore che recita l’orazione funebre va il merito di chiarire la natura di un altro personaggio, Agnes, e di provocare lo spettatore a una riflessione sulla morte come «altra vita». Il prete assomiglia molto a quello di Luci d’inverno. Come quello è burocrate meticoloso e freddo, è angosciato dai dubbi. Il suo discorso è pieno di “se”. Ad Agnes, dopo tutti questi “se”, chiede: «Implora il Signore che ci liberi dalle nostre angosce e debolezze, dai nostri dubbi più profondi. Pregalo di dare un senso alla nostra vita». Il prete è agli antipodi di Anna, che ha la certezza della vita oltre la morte. Infatti il sogno di Anna ci presenta una morta che vive. «È solo un sogno», dice Anna. «Forse per te, ma non per me», risponde la morta, e chiede amore. Resta da dire di due protagonisti apparentemente minori di questo film “sontuoso”. Sono il tempo e il suono. Il tempo è onnipresente, quasi come in Il posto delle fragole. Lo incontriamo in ogni momento sotto forma di lancette di orologi (fot. 92), di tic tac, di rintocchi, di carillon. Ne avvertiamo il potere nei ricordi delle donne, nel cambiamento che ha operato in Maria, in Agnes e in tutti gli altri. Ma questa volta nessuno riesce a consolarsi tornando al suo «posto delle fragole». Chi è fallito resta fallito e chi ha vinto ha vinto tutto, anche il tempo, anche la morte. Tanto più Agnes resta viva quanto più terribile è stata la rappresentazione scenica della sua morte (fot. 93). Raramente in un film la morte è rappresentata con tale realismo, in tutta la sua “oscenità” (nel senso di non rappresentabilità). Ma raramente in un film si avverte con tanta chiarezza, da suoni e immagini, il senso di qualcosa di vivo e vero al di là della fine del corpo. L’altro grande protagonista è il suono, sia esso silenzio di labbra aperte che non riescono a comunicare, sia contrasto tra i «sussurri» e le «grida» (quanto più pregnanti possono essere i sussurri…), sia musica sobriamente dosata. Nel film ascoltiamo soltanto due brani musicali. Il primo, Mazurka in la minore op. 17 n. 4 di Chopin, eseguito al pianoforte da Käbi Laretei (quarta moglie di Bergman, ora ex, convocata dalla moglie in carica, Ingrid van Rosen), accompagna il ricordo di Agnes, e in particolare il ricordo della mamma: «Le volevo bene perché era dolce, bella, viva, perché faceva

sentire la sua presenza…». Sottolinea, fa notare Aristarco, un’«armonia perduta e poi ritrovata»103. L’altra musica, la Sarabanda dalla Suite in do minore n. 5 di Bach eseguita dal violoncellista Pierre Fourneur, sostituisce il dialogo nel momento affettuoso della rottura del ghiaccio tra Maria e Karin. La musica, cioè, scandisce due momenti chiave del racconto: il rapporto di Agnes con la mamma, che determina poi il suo rapporto con Anna, e quello del momentaneo raggiungimento della comunicabilità tra le sorelle. È un uso della musica in chiara funzione espressiva. Forse Bergman vuole suggerire l’idea del potere catartico dell’arte, e specialmente di quella forma di manifestazione artistica più pura e immateriale che è appunto la musica.

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Resta da accennare a certa critica marxista che ha parlato di film antiborghese facendo leva sulla simpatia suscitata dalla domestica e sull’antipatia suscitata dalla famiglia di Agnes. A una più attenta lettura si comprende come la positività del personaggio di Anna deriva non tanto dall’idea della lotta di classe, ben lontana dall’universo di Bergman, ma dalla convinzione che gli «umili testimoni del Vangelo» sono i primi a capirlo e ad applicarlo. Cristo risorto si manifestò per primo alle pie donne104. Scene da un matrimonio

Nato come originale televisivo in sei episodi della durata di cinquanta minuti ciascuno, Scene da un matrimonio fu poi trasformato dallo stesso Bergman in un film di quasi tre ore, che fu premiato dall’associazione dei critici americani come miglior film del 1973 (Liv Ullmann ebbe il premio come migliore attrice). L’origine è un soggetto scritto da Bergman nel 1972. «Inizialmente – ha

detto – pensavo di fare un’opera teatrale su un uomo che torna a casa dalla moglie e le dice di voler rompere il loro relativamente buon matrimonio per unirsi con un’altra donna. Più tardi, quando iniziai a scrivere, mi domandai come fossero andate le cose tra di loro prima e se veramente i loro rapporti erano stati così buoni, come entrambi sostenevano. Così, prima ancora che potessi accorgermene, avevo scritto sei distinti dialoghi sull’amore, sul matrimonio e su tante altre cose». Scritto, realizzato e montato a tempo di primato, Scene da un matrimonio fu girato parte negli studi della Cinematograph a Fårö (le prime due puntate) e parte a Stoccolma. Fu proprio grazie all’organizzazione familiare della Cinematograph che Bergman poté affrontare un’impresa del genere con i limitati costi consentiti dalla televisione. 1. INNOCENZA E PANICO Marianne e Johan formano una coppia apparentemente felice e appagata, come risulta dalle risposte che danno alla giornalista durante un’intervista. Sono sposati da dieci anni, hanno due belle bambine di nome Karin ed Eva, sono soddisfatti e contenti. Lui ha quarantadue anni, è figlio di un medico, insegna in un istituto psicotecnico. Lei, trentacinquenne, è figlia di un avvocato e lavora in un importante studio legale come consulente familiare nei casi di divorzio. La loro sembra un’unione ideale. Ma qualche crepa c’è. Lui si dichiara egoista: «Bado ai fatti miei e degli altri me ne infischio». Lei invece ha a cuore i valori: «Credo nell’amore per il nostro prossimo. Se tutti gli esseri umani fin da piccoli imparassero a curarsi l’uno dell’altro, il mondo sarebbe diverso». Vediamo poi i due coniugi a cena con un’altra coppia: Peter e Katarina. Questi sono palesemente infelici, ai ferri corti. Litigano e si insultano. Lui cita Strindberg: «Mi domando se esista qualcosa di più orribile di un marito e di una moglie che si odiano». I due, prima di lasciare i due amici, si scusano per lo spettacolo che hanno dato di sé. Più tardi vediamo Marianne e Johan a letto che compiangono la coppia infelice, rallegrandosi per il fatto di essere l’«eccezione che conferma la regola». 2. L’ARTE DI NASCONDERE LA SPAZZATURA SOTTO IL TAPPETO Marianne e Johan sono alle prese con uno dei soliti problemi quotidiani: andare o non andare dai genitori per il pranzo domenicale. Da un colloquio di Johan con una compagna di lavoro scopriamo che egli ha fatto leggere a lei, e non alla moglie, le sue poesie. Marianne intanto, nel suo studio, è alle prese con una cliente, la signora Jacobi, che vuole divorziare perché nel suo matrimonio «non c’è amore». Poi vediamo i due coniugi di malumore dopo essere stati a teatro a vedere Casa di bambola di Ibsen. Ma è un malumore passeggero: spazzatura da nascondere sotto il tappeto. 3. PAULA Scoppia la crisi. Johan dichiara di essersi innamorato di un’altra donna, una studentessa ventitreenne di nome Paula, laureanda in lingue slave, bruttina. «Non ho idea di cosa succederà – dice l’uomo –. Sono disorientato e felice». Lei cerca di dissuaderlo, ma lui insiste. Partirà l’indomani. Lei lo prende con dolcezza, non riesce a rendersi conto della situazione, spera di riuscire a trattenerlo. «Sono ingiusto – ammette lui –. Siamo stati bene insieme. Credo di amarti ancora. Credo di amarti di più da quando ho incontrato Paula. Non accuso te. Tutto è andato all’inferno chissà perché». Lei cerca ancora di convincerlo, lo invita «a fare l’amore in ricordo dei vecchi tempi». La mattina dopo lei gli prepara le valigie, gli parla del più e del meno. «Promettimi che tornerai», gli dice. Johan parte. Marianne telefona a una coppia di amici per raccontare quel che è successo e si sente dire che la relazione di Johan era già nota da tempo. Erano in molti a saperlo, un sacco di persone: la ferita sanguina ancora di più. La disperazione si mescola alla rabbia. 4. VALLE DI LACRIME Sono passati sei mesi. Johan e Marianne si incontrano nella loro casa. Lei lo accoglie gentilmente, gli offre da bere. Nasce un battibecco sulla disponibilità di lui nei confronti delle bambine. Lei lo invita a cena, lo bacia. Lui è stanco di Paula, si domanda dove ha sbagliato. Lei gli racconta di aver avuto rapporti con altri e gli confessa di provare tuttora per lui un sentimento di amore-odio. Lui cerca di abbracciarla ma lei lo respinge. La invita a pranzo per il giorno dopo ma lei non accetta. Lei gli legge alcune pagine del diario scritto su suggerimento dello specialista, ma lui si addormenta. Intanto vediamo le fotografie di Marianne a varie età. Marianne invita Johan a restare a dormire con lei. Lui accetta, ma in piena notte si sveglia. «Devo andare via – dice –. Mi viene l’angoscia». Si veste e se ne va. 5. GLI ANALFABETI Marianne va a trovare Johan nel suo ufficio per controllare i documenti del divorzio. Johan è raffreddato. Le offre un cognac. Si siedono su un divano. Sentono rinascere l’attrazione fisica. Marianne si sdraia sul tappeto. Lui la costringe all’amplesso, ma lei resta indifferente. Il rapporto tra loro non è facile. Dice Johan: «Non siamo che analfabeti dal punto di vista sentimentale. Ci hanno insegnato tutto ma non ci hanno

insegnato una sola parola sulla nostra anima. L’ignoranza su noi stessi è praticamente totale». Poi confessa il suo fallimento: «Quest’estate compirò quarantacinque anni. Obiettivamente sono finito. Impiegherò gli ultimi anni ad andare in giro ad avvelenare l’esistenza degli altri». I due si rinfacciano i rispettivi errori. Si insultano, esplode l’odio. Johan percuote la donna impedendole di uscire. Alla fine della lite i due firmano i documenti del divorzio. 6. NEL CUORE DELLA NOTTE IN UNA CASA BUIA DA QUALCHE PARTE DEL MONDO Sono passati sette anni. Marianna si è risposata, Johan pure. Si incontrano per un fine settimana, Dicono di essere felici. Si raccontano i rispettivi problemi di vita quotidiana. Vanno nella loro casa di campagna: è rimasto tutto come allora. Lui propone di festeggiare il primo anniversario dal momento in cui si sono incontrati di nuovo dopo il divorzio. Lei risponde che preferisce festeggiare il ventesimo anniversario del matrimonio. Ma in quella casa i ricordi sono troppi, e i due decidono di andare in un altro posto: un cottage di campagna messo a disposizione da amici. Sono emozionati. Si scambiano confidenze, impressioni, esperienze come forse non era mai accaduto. Vanno a letto Lei ha un incubo: «Dovevo attraversare un punto pericoloso. Non avevo le mani e sprofondavo nella sabbia». Poi dice a Johan: «Credi che viviamo in una totale confusione? Credi che dentro di noi si abbia paura perché non sappiamo dove aggrapparci? Non si è perso qualcosa di importante? Credo che in fondo c’è il rimpianto di non aver amato nessuno e che nessuno mi abbia amato». Infine i due si addormentano dopo un augurale «Buona notte, amore».

Scene da un matrimonio è un film di grande verbosità, un lunghissimo, interminabile dialogo a due voci. È la meticolosa radiografia di una coppia analizzata fin nei minimi particolari per cercare la risposta a una domanda: perché tanti matrimoni falliscono? Come in tutti gli altri film di Bergman la risposta non c’è, ma c’è una miriade di spunti di riflessione sull’amore, sul rapporto tra i sessi, sulla vita, sull’egoismo. Sotto accusa è certamente il matrimonio come istituzione, ma anche il divorzio come istituzione. La via d’uscita per l’uomo, e per la donna, è riuscire a trovare al di là di tutto questo un vero rapporto d’amore, che non è soltanto sesso, ma anche tenerezza, sentimento, e forse anche qualcosa di più, di impalpabile, di irrinunciabile, che si ripropone e si ripresenta continuamente anche dopo l’esplosione dei rancori e dei contrasti. Bergman si diverte sadicamente a smantellare tutti i puntelli su cui si regge la vita apparentemente felice dei due protagonisti. Ma il tessuto narrativo non è lineare. Il percorso è tortuoso e non mancano i colpi di scena. Alla fine qualche cosa resta, ed è senza dubbio un valore positivo. Come sempre Bergman predica l’amore come unico modo di superare le angustie di quella prigione che è la vita. I personaggi sono due e soltanto due. Gli altri sono da contorno e il più delle volte, almeno nella versione cinematografica, sono presenti solo indirettamente attraverso le parole di Marianne e di Johan. Ma tra i due personaggi quello positivo è senza dubbio la donna. Ancora una volta Bergman è grande scandagliatore dell’animo femminile e grande ammiratore della donna. Marianne è il personaggio più interessante, più complesso, drammaticamente più valido. È anche il personaggio cui viene affidato il messaggio: la solidarietà da contrapporre all’egoismo. La crisi del matrimonio tra i due è crisi di un rapporto di solidarietà, e quel che lo mette in crisi è l’egoismo di Johan, dichiarato dall’inizio, fin da quando il legame coniugale non ha ancora manifestato crepe. I mezzi espressivi sono ridotti al minimo. Tutto si svolge in interni, salvo qualche breve stacco. La macchina si muove pochissimo. Il prodotto è tale da poter essere fruito con qualche risultato anche senza le immagini, magari alla radio. Ma il gioco drammatico si ripropone in un sapiente uso dei primi piani. I due protagonisti recitano con i volti, con la bocca, con gli occhi, e offrono una prova da manuale. «Le loro facce, specialmente quella della Ullmann (fot. 94, 95 e 96) – scrive Fiorenzo Viscidi – assumono tali e tanti cambiamenti nei lineamenti, nel movimento degli occhi, nei tagli della bocca, nei cenni, nelle sfumature psicologiche più raffinate, da costituire l’esempio più chiaro di una cinematografia come massima possibilità di raffigurazione della mutevolezza degli stati d’animo, legati alla complessità delle situazioni in cui i protagonisti si vengono a trovare»105. Per dirla con Bergman: «A volte si fanno dei primi piani perché la situazione li esige, ma a volte li fai perché hai una voglia furente di sfidare le tue idee e quelle degli attori sull’espressione cinematografica. In quel momento ti accorgi di quanto il primo piano sia difficile, e quante cose riesce a rivelare, non solo il primo piano, ma anche la battuta che lo accompagna»106.

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Neppure qui è assente il problema religioso, apparentemente adombrato soltanto in una citazione paolina, ma in realtà continuamente sotteso. «Lontano dallo sguardo di Dio – scrive Padre Virgilio Fantuzzi, – l’uomo si scopre in preda a istinti belluini; a Bergman non resta che spiarne il comportamento come si osserva quello di uno strano animale, e da qui nasce il senso di raccapriccio che non può non essere avvertito di fronte ai suoi ultimi film, carichi di una sorta di crudele sincerità, una smania autoconfessionista che va oltre il segno; le miserie morali vi si trovano rischiarate da un bagliore che abbacina gli occhi, mentre la speranza sprofonda nel buio interiore»107. In Scene da un matrimonio l’assenza di Dio corrisponde al trionfo dell’egoismo e all’angoscia della solitudine. Il coniuge non è che la materializzazione più immediata e tangibile del «prossimo tuo» che il Vangelo impone di amare. Il flauto magico

Il rapporto con la televisione consentì a Bergman di realizzare un antico sogno: impegnarsi nel filmopera. Avrebbe voluto dirigere Il flauto magico già venticinque anni prima a Malmö, ma non aveva osato farlo ritenendo di non avere a disposizione gli artisti più adatti e di non essere egli stesso ancora abbastanza maturo. Mozart, dunque: uno degli antichi amori di Bergman insieme con Chopin, Wagner, Bach. La musica è onnipresente nell’opera del regista, ma Il flauto magico è rimasto l’unico esempio di immersione totale nell’opera. Avrebbe voluto fare anche il Don Giovanni, ma l’idea non si è mai trasformata in

un progetto, forse perché egli ha sempre ritenuto non corrisposto il suo amore per la musica. Il flauto magico è rimasto un prototipo difficilmente eguagliabile non solo nella sua filmografia, ma anche nella storia generale dell’opera cinematografica. Il film è stato osannato dai critici cinematografici e ancor più dai musicofili. «Più intelligente, più agile, il ritmo dell’illustrazione della musica non è meno strettamente collegato alla musica, che anzi esso la raddoppia, la rende anche più esplicita, senza mai sostituirvisi», ha scritto il cinefilo G. Legrand su «Positif»108. «Rare volte è accaduto di allontanarsi da una sala di proiezione in così alto stato di estasi», ha fatto eco il cinefilo Mario Verdone»109. E il musicofilo Piero Dallamano su «Bianco e nero»110: «Il film è la fedele, completa trascrizione dell’opera tanto da poter sostituire la realtà di una rappresentazione teatrale di Il flauto magico con ugual diritto e maggiore corposità di un’edizione discografica. Qui Bergman è in primo luogo regista di teatro d’opera; si comporta cioè non diversamente da un Visconti davanti a Manon, da uno Zeffirelli in Otello... Entro i limiti dell’assoluto rispetto al testo nella sua integrità, che accetta con evidente amore e devozione, il regista a sua disposizione ha quel di più che il mezzo cinematografico gli offre, cioè una libertà, uno svincolo dallo spazio obbligato, una molteplicità di punti di ripresa che certo un palcoscenico “vero” non consente agli spettatori in teatro. E ovviamente la genialità di Bergman rifulge in questo “di più” che trasforma la trascrizione di Il flauto magico anche in un film gradevolissimo». Vediamo ora in che cosa si risolve questo “di più”. Anzitutto l’alternarsi di spazi prettamente teatrali con spazi cinematografici. Bergman non trasporta di peso lo spettatore nella dimensione cinematografica, ma fa continuo riferimento a quella teatrale per ancorare l’opera al suo tempo, al suo modo di nascere, al suo tradizionale modo di essere rappresentata. Vediamo così all’inizio, sotto i titoli di testa, gli esterni del castello settecentesco di Drottighol, fatto costruire da Gustavo III presso Stoccolma, ambiente ideale per l’opera mozartiana (fot. 97). Poi lo spettatore viene quasi invitato a entrare. Il vecchio teatro è ricostruito in uno studio televisivo in modo da poter aprire le sue quinte, di volta in volta, ai voli della fantasia creativa del regista cinematografico. Ma continuamente un volto di bambina fa da contrappunto alla rappresentazione (fot. 98), quasi a ricordare che di rappresentazione si tratta, quasi a riassumere nell’innocenza dei suoi lineamenti la posizione migliore di uno spettatore-ascoltatore di fronte al capolavoro mozartiano. D’altra parte mentre l’orchestra eseguiva l’Ouverture, Bergman ci ha mostrato scorci di pubblico, facce di persone di tutte le razze, quasi a simboleggiare l’universalità della comunicazione musicale (fot. 99). E sul susseguirsi dei volti ha dato un clamoroso esempio di adeguamento dell’immagine al ritmo della musica.

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I trucchi sono prettamente teatrali, anche se ricreati con tecnica cinematografica: si veda ad esempio la mongolfiera sulla quale volano i tre Geni. La scenografia all’inizio strizza l’occhio al barocco, ma poi, nelle scene dell’iniziazione, lascia il posto a un gioco di luci e di ombre che va molto al di là dell’atmosfera ricreabile su un palcoscenico. Di tanto in tanto, per sottolineare questa o quella frase, i personaggi stessi mostrano agli spettatori i sottotitoli scritti su grandi cartelli di legno (fot. 100). Si dice che quando nello spettacolo c’è un elemento di disturbo una delle soluzioni per renderlo innocuo consiste nell’enfatizzarlo. Così Bergman si diverte a farci vedere che è possibile giocare anche con i sottotitoli: si neutralizzano addirittura inserendoli nell’azione.

FOT. 100

Quanto all’aspetto musicale, c’è da dire che Bergman ha svolto questa volta anche il ruolo di impresario di teatro lirico e di direttore artistico. Egli stesso ha scelto gli interpreti secondo personali criteri di aspetto fisico e di doti vocali. «Una delle mie preoccupazioni principali – dichiarò in un’intervista111 – è stata di trovare cantanti che avessero delle voci naturali, se così si può dire, non voci artificiali ma voci che dessero l’impressione di venire direttamente dal cuore». Ha aggiunto del suo anche a un livello più profondo, pur senza turbare l’equilibrio del capolavoro. Anzitutto fra i temi dell’opera ha accentuato – meglio dire privilegiato – quello dell’amore. «Il flauto magico – disse nell’intervista citata112 – contiene una morale che mi piace: cioè che l’amore è la cosa più importante tra gli esseri umani, e la più importante del mondo. Per sottolineare questo punto ho dovuto renderlo esplicito; è uno dei rari cambiamenti che abbiamo ritenuto necessari rispetto al libretto originale. E tocca al primo sacerdote Sarastro, un saggio, sottolineare questo tema». Difatti qualche piccola variante rispetto all’originale c’è. Si notano colpetti di forbice (il terzetto Tamino-Pamina-Sarastro nella ventesima scena del secondo atto) e discreti rimaneggiamenti nel testo: proprio le frasi didascaliche che il regista fa pronunciare a Sarastro all’inizio del secondo atto. «Lo spettatore – scrivono Giovanni Arledler e Virgilio Fantuzzi – è condotto per mano verso la percezione del significato centrale dell’opera»113. Un altro elemento bergmaniano che si inserisce nell’universo mozartiano è quello femminile. Gran narratore di storie di donne, il regista dedica qui particolare attenzione al personaggio di Pamina e alla sua metamorfosi. Scrive Floriana Maudente: «Quando Pamina varca il tetro regno della notte; quando affronta gli orrori che fanno da diaframma alla festa della libertà e della luce, allora la sua identificazione si completa cancellando la dolce principessa. Ne prende il posto una “donna bergmaniana”: una di quelle creature che, mentre il compagno attraversa la vita suonando il suo flauto a occhi chiusi, lo guidano con polso fermo e hanno il tragico coraggio di guardare la realtà»114. Quasi come appendice a Il flauto magico, Bergman realizzò nel 1976 un’operina televisiva breve – ma tutt’altro che trascurabile – dal titolo Il ballo delle ingrate. Si tratta di un balletto che non è un balletto, di un’azione mimata in musica: per dirla con l’autore, «un dramma senza parole», una «composizione coreografica». Ha sì forma di balletto, ma l’azione si basa più sulle espressioni e sugli atteggiamenti dei personaggi che sui movimenti dei loro corpi. All’inizio una donna, ripresa a colori, annuncia lo spettacolo. Spiega che le protagoniste dell’azione sono quattro donne chiuse in una stanza. «Occorreva che le loro reazioni – dice – si riflettessero sui loro volti, sui loro atteggiamenti, sulle loro mani, sui loro occhi. Noi non comunichiamo gli uni con gli altri soltanto con la parola. Il linguaggio del corpo è estremamente più ricco e può raggiungere il nostro subcosciente con maggiore efficacia. I gesti possono rivelare il medesimo significato in culture diverse a differenza del linguaggio normale… Le protagoniste sono quattro: una donna morta vestita di nero e tre ragazze, due grandi e una bambina. Si tratta di un episodio molto semplice. Vi presenteremo il filmato una prima volta, poi tornerò da voi per illustrarvi l’idea che lo ha ispirato e quindi lo ripresenteremo. Forse allora noterete una quantità di dettagli che vi sono sfuggiti e forse

vedrete il film sotto una nuova luce». Segue, in un bianco e nero elegantissimo, la coreografia, firmata da Donya Feuer, coreografa per Il flauto magico. Le musiche di Claudio Monteverdi sono eseguite dall’orchestra Musicae Holmia; la voce lirica è di Dorothy Dorow. Le danzatrici che non danzano ma si muovono secondo la musica sono Nina Harte (la più piccola, la stessa bambina che si vede come spettatrice in Il flauto magico), Heléne Friberg, Lena Wennergren e Lisbeth Zacharisson. L’azione dura una decina di minuti. In un primo tempo l’esuberanza della giovinezza (la bambina con la bambola) sembra prevalere sulla tristezza della morte (la donna vestita di nero), ma piano piano tutto si appiattisce e sembra che perfino la bambina venga inghiottita dal velo di tristezza che si distende sulla scena. A questo punto torna la presentatrice, per illustrare il significato simbolico della coreografia. Spiega il legame con Il flauto magico: l’idea iniziale di fare un film che avesse come protagoniste le anime dannate. Ma qui «protagoniste sono le donne afflitte da una diversa dannazione. La stanza chiusa simboleggia il mondo ristretto in cui sono costrette a vivere. Il loro stato di recluse le spinge fatalmente ad aprirsi con le altre. Le più anziane insegnano alle più giovani come adattarsi alla condizione di donna. Nelle generazioni più giovani vengono inculcati vecchi concetti che opprimono le donne. L’argomento non è soltanto la lotta per il potere fra le generazioni, ma anche la loro sottomissione. La donna in nero può essere vista come figura materna avida di potere che aggredisce le tre sorelle, cioè le figlie. Prima fra tutte la bambina, ma in seguito anche lei viene attratta in questo modo dalle donne più anziane. L’oppressione è completa e totale». In effetti, rivedendo la pantomima dopo l’illustrazione della simbologia si hanno sensazioni e pensieri diversi. Il ballo delle ingrate si rivela pertanto come un apologo destinato a chiarire un tipo di rapporto tra Bergman e il suo pubblico. Il regista invita a guardare il cinema con occhio intelligente e accorto, ad andare oltre la lettera del racconto, a facilitare il compito di chi, come lui, con il cinema intende risvegliare le coscienze. Il ballo delle ingrate è una lezione sulle chiavi di lettura dell’audiovisivo e insieme un pressante invito allo spettatore a mettersi davanti allo schermo in posizione critica, intelligente, attiva. È un’esortazione a non fermarsi alle apparenze, a tener presente, ancora una volta, la differenza tra maschera e realtà, tra spettacolo e vita: non per divertirsi di più, ma per non allontanarsi poi troppo dalla vita. «L’unica cosa triste – dice alla fine del secondo intervento la presentatrice – è l’indifferenza». L’immagine allo specchio

Nacque come film televisivo anche L’immagine allo specchio, che inizialmente consisteva in quattro episodi di cinquanta minuti ciascuno. Lo stesso Bergman ne ricavò un’edizione di centotrentacinque minuti che fu presentata nel 1976 al Festival di Cannes. L’edizione che uscì in Italia, invece, durava circa un’ora e mezza. Il film, che si ispira alla storia vera di una psichiatra, fu girato in Svezia, prodotto da Dino De Laurentiis e destinato inizialmente alla televisione americana. Il titolo originale, infatti, è in inglese: Face to face. Questo “faccia a faccia” richiama ancora lo scritto di San Paolo cui si ispirò a suo tempo Come in uno specchio. Bergman non annovera L’immagine allo specchio tra i suoi film meno riusciti. «La stanchezza artistica – dice – sogghignava sotto la tela sottile»115. Il film comincia con un’immagine di mare quieto, sulla quale appare in dissolvenza incrociata il volto della dottoressa Jenny Isaksson (Liv Ullmann), assistente del direttore di una clinica psichiatrica. Sola in un appartamento vuoto, Jenny telefona alla nonna: sarà a casa per le otto, dopo aver fatto un salto in clinica, dove temporaneamente sostituisce il primario. Jenny è sola in città. Il marito Erik è assente per tre mesi: si trova a Chicago per un congresso. La figlia Anna, quattordicenne, innamorata di un ragazzo di diciassette anni, è al campeggio. In attesa di insediarsi nella nuova abitazione in allestimento, Jenny è ospitata per due mesi nella casa dei nonni. Non ha i genitori, morti in un incidente automobilistico. Prima di rincasare, dunque, Jenny passa in ospedale, dove fa visita alla sua paziente Maria, dalla quale non ottiene che poche frasi sconnesse. A casa, la nonna chiede alla nipote se c’è qualcosa che non va. Ella risponde che va tutto bene. A una festa in casa della moglie del primario, Jenny comincia ad avere

l’impressione di un distacco da quanto la circonda. Trova compagnia soltanto in Thomas, un ginecologo divorziato, che la invita a cena. Lei ha anche un amante, «meno simpatico di Erik». Gli telefona per rinviare un appuntamento. Jenny torna nella casa vuota dove trova la sua paziente Maria. È una trappola. Ci sono anche due uomini, uno dei quali, il più giovane, cerca di usarle violenza. La donna è turbata, ma forse non per la violenza quasi subita. Torna a casa di Thomas. «Ci sono certe ore della vita – dice – che non si possono evitare. O forse sono minuti». Poi si abbandona a una crisi isterica. Di nuovo a casa della nonna, si sveglia dopo un lungo sonno nella cameretta dove ha vissuto da bambina. I nonni escono, vanno in campagna, e la donna resta sola. Si sentono i festosi rintocchi delle campane della domenica. Jenny decide di uccidersi. Ingoia alcune pasticche e si abbandona, con dolcezza: «Non ho paura, non mi sento sola e non sono nemmeno triste. Anzi è una sensazione quasi piacevole». Sogno di Jenny aspirante suicida: la nonna legge una favola, lei prova disgusto per i vecchi, per la vecchiaia. Voce fuori campo: «Non abbiamo paura degli orrori che conosciamo. Sono quelli che non conosciamo che ci spaventano». Il risveglio è in un letto d’ospedale, con l’ossigeno nelle narici. Arriva Thomas a confortare Jenny. Altro sogno: la donna è tra le sue pazienti, e c’è anche Anna, la figlia. Si torna alla realtà con la visita del marito: «Perdonami… perché l’hai fatto? In parte è colpa mia anche se non so proprio dove ho sbagliato». Altro sogno. Ci sono i genitori di Jenny, ed ella dice loro: «Voglio dimenticarvi per sempre». Altro risveglio e altro incontro con Thomas, che confida a Jenny un suo trascorso omosessuale. Nuovo sogno, in cui Jenny vede il suo cadavere, vede chiudersi la bara e vede bruciare il tutto in un grande rogo. Al risveglio c’è un lungo colloquio con Thomas. Jenny gli confida le sue paure, i suoi traumi infantili, i suoi problemi, incluso quello religioso. Thomas parte, diretto in Giamaica. Arriva la figlia, per un rapido scambio di battute con la mamma che conferma la loro incomunicabilità. «Io non ti sono mai piaciuta, mamma – dice –. Sta’ tranquilla, so cavarmela da sola». E torna al suo campeggio. Una volta guarita, Jenny rientra a casa dai nonni ed è colpita dall’affetto con cui la nonna accudisce il nonno morente. «Capii – dice, fuori campo – che l’amore abbraccia tutto, anche la morte». Riprende l’attività in ospedale voltando pagina, con un sorriso nuovo sul volto. Una didascalia finale informa che la donna rassegnerà le dimissioni, si separerà dal marito e andrà a fare ricerca scientifica negli Stati Uniti.

L’immagine allo specchio è un film sulla paura e sulla “mutilazione spirituale”. Alla vigilia della prima Liv Ullmann domandò a Bergman: «Piacerà il nostro film?» e lui rispose: «Consideralo il bisturi di un chirurgo. Non tutti lo gradiranno». Jenny ha sempre il volto spaurito, ha paura della vita. È una donna dalla psicologia fragile. Ancora una volta Bergman ironizza sulla professione di una persona: la psichiatra che ha problemi psicologici… Dal mare quieto iniziale si arriva a una condizione di paura, che raggiunge l’acme nella crisi isterica e nel tentativo di suicidio. Da questo momento in poi si mette in moto la risacca, comincia la fase discendente verso una nuova quiete. La donna esorcizza i suoi spaventi confrontandosi nei sogni con le inquietudini infantili («Muoio se mi chiudi di nuovo nell’armadio»), si riappropria di se stessa, riacquista la padronanza della sua vita, ricomincia a credere nel rapporto con il prossimo anche quando ha verificato che le persone più vicine non sono degne di un rapporto perché in qualche modo non hanno bisogno di lei. L’altro tema, quello della “mutilazione spirituale”, si aggancia strettamente a questo riportando l’attenzione dello spettatore sulla problematica religiosa così cara a Bergman. La chiave è nel colloquio finale tra Jenny e Thomas. Jenny si dichiara mutilata nei sentimenti. «Siamo un esercito di milioni di povere anime invalide – dice – che si aggirano per il mondo chiamandosi con parole disperate senza riuscire a comprendersi, suscitando in noi terrore». Thomas le risponde: «C’è una formula magica per noi miscredenti. Vorrei che qualcuno o qualcosa avesse tanta potenza su di me per farmi diventare vero. Poter sentire una voce umana e avere l’assoluta certezza che è fatto come me…». Il cerchio così aperto si chiude con il ritorno a casa di Jenny, la quale, nell’osservare i due vecchi ancora legati da un rapporto d’amore (fot. 101), risolve in qualche modo il suo problema riportando l’amore al centro della vita, dell’universo, della riflessione sui destini dell’uomo. «Vidi la loro tenerezza, la loro dignità – dice Jenny – e capii che l’amore abbraccia tutto, anche la morte». La conseguenza è un nuovo risveglio alla vita, la decisione di recarsi puntuale l’indomani al lavoro di buon mattino, cui seguirà quella di dedicarsi alla ricerca scientifica (sforzo intellettuale per il bene del prossimo) dopo aver tagliato i ponti ormai formali con un passato ormai freddo e lontano.

FOT. 101

Nonostante abbia origini televisive, L’immagine allo specchio non è opera minore, come qualcuno a torto l’ha definito. Vi ritroviamo con molta precisione e intensità i temi fondamentali della poetica del regista, e ve li ritroviamo con una lucentezza formale di prim’ordine. L’uso dei primi piani, che taluno attribuisce a uno stile che si vorrebbe “televisivo”, consente di affidare all’audacia interpretativa di un’attrice come la Ullmann il compito di penetrare all’interno dell’universo della persona umana, di scrutarla, quasi di aiutarla nel suo riprendere il filo dell’esistenza dopo una grave frattura di presa di coscienza. Il processo di identificazione qui non si ha tanto con il personaggio, quanto con un ipotetico deuteragonista (non presente nel film, ma nella mano dell’autore) che vorrebbe aiutare il personaggio a superare l’ostacolo. Difatti lo aiuta, passo passo, ma senza prevaricare, senza offendere, rispettando tutta la sua libertà di sbagliare e di non capire. Da notare, tra gli altri pregi, l’eccezionale soliloquio della protagonista quando si libera, parlando con Thomas, dei suoi terrori infantili, e assume di volta in volta l’espressione e quasi le sembianze di altri personaggi: la madre, la nonna. Eccezionale la Ullmann, ma di altissimo livello anche l’interpretazione degli altri attori, da Gunnar Björnstrand116 a Erland Josephson117 e via via a tutti gli altri. È un film scritto da Bergman con calligrafia molto personale. Jenny è la sua immagine allo specchio. «Ho tratto grande giovamento da questo processo – scriveva il regista in una lettera ai collaboratori prima di cominciare a girare. – Il mio tormento, che fino ad allora era stato vago, assumeva un’identità. Esso perdeva qualcosa della sua aura e del suo mistero. I nostri sforzi non saranno stati vani se, oltre a noi, qualcun altro ne avrà tratto il medesimo giovamento». L’interpretazione corrente è quella psicanalitica. Nel presentare una storia di psicanalisi, il film diventa in qualche modo esso stesso seduta psicanalitica. «Un lavoro di chirurgia mentale», lo definisce Camillo Bassotto118. «È un condensato di un’analisi con tanto di paziente, medico, strumenti (i sogni), avvio alla guarigione, risanamento». Bergman, autore troppo fine e avveduto – nota Francesco Bolzoni, – non si serve ovviamente di un approccio diretto al tema, non mette in scena una cura psicanalitica. Ma di fatto segue i vari momenti (riunendoli nella seconda parte del film) di una lunga, faticosa (anche se vista dalla parte dello spettatore) analisi. Il film pretende, per essere inteso, una lettura partecipe, dall’interno»119. Ma alla lettura psicanalitica è sotteso un altro messaggio, che risulta evidente quanto più si inserisce questo film nell’insieme della produzione del regista. Anche qui e soprattutto qui assistiamo al «tentativo gigantesco di farci passare dalla

menzogna alla verità», come scrive France Farago120. E aggiunge: «Congedando fermamente i mediconi dell’anima che soffocano la difficoltà d’essere nell’espediente della chimica, Bergman riveste portamento sacerdotale. Si cura delle anime. Carità, e di conseguenza speranza. Anche la fede in definitiva confida nell’uomo… L’immagine allo specchio è anche una denuncia dell’illusione dei sensi non mediatizzati dall’anima». L’uovo del serpente

1976: Bergman si divertiva molto nel nuovo ruolo di produttore. La Cinematograph aveva sede all’ultimo piano di una bella casa settecentesca di Stoccolma, agli uffici si era aggiunta una degna sala di proiezione, alcune stanze erano adibite a uffici, altre al montaggio. Bergman, con la scrittrice Ulla Isaksson e Gunnel Lindblom aveva ultimato la sceneggiatura del film Piazza del Paradiso, la cui lavorazione sarebbe cominciata a maggio. Era appena terminata la serie televisiva L’immagine allo specchio. La società poggiava su due pilastri di alto rango: Lars-Owe Carlberg per l’amministrazione e Katinka Farago per le riprese. Utili contatti erano stati presi con produttori americani. Dino De Laurentiis aveva accettato di produrre L’uovo del serpente, la cui sceneggiatura era pronta da qualche mese. Il matrimonio con Ingrid von Rosen, collaudato da cinque anni, sembrava solido. Nulla faceva presagire la tempesta. Il 30 gennaio Bergman era in teatro, al Dramaten, per le prove di Danza di morte di Strindberg, con gli attori, l’assistente di regia, la suggeritrice, il direttore di scena. All’improvviso arrivarono due poliziotti che gli intimarono di seguirli immediatamente per un interrogatorio: una questione fiscale. Cominciarono per il regista kafkiane peripezie che durarono nove anni e si conclusero, alla fine, con il pagamento di una somma tutto sommato non astronomica: 180.000 corone. Mentre si svolgeva l’interrogatorio, la casa di Ingmar e Ingrid veniva perquisita. Uscito dall’ufficio di polizia, Ingmar ritenne prudente trasferirsi con la moglie nel piccolo appartamento a Grevturegatan dove era andato a vivere nel 1949 con Gun dopo la fuga a Parigi. I giornali fecero gran chiasso. Il regista finì per tre settimane nel reparto psichiatrico dell’ospedale Karolinska. Nel marzo 1977 tornò a Fårö, non ancora libero dalle sue angosce. Per superare la crisi psicologica, tentò di gettarsi a capofitto nel lavoro. Fu allora che nacque il soggetto di Sinfonia d’autunno, col titolo provvisorio di Madre, Figlia e Madre. A fine marzo, dati i burrascosi contatti con la burocrazia, maturò la decisione di cambiare aria. Bergman volle allontanarsi dal suo Paese ma, per non lasciare ombre dietro di sé, depositò i suoi averi su un conto bloccato, pronto a pagare il debito con le imposte quando sarebbe venuto il momento. La prima meta fu Parigi. Poi Ingmar, con la moglie, si recò a Copenaghen. Proseguivano intanto i colloqui con De Laurentiis. Si decise che L’uovo del serpente sarebbe stato girato a Monaco negli studi della Bavaria Film. A Monaco il regista fu pure incaricato di mettere in scena Il sogno al Residenztheater. I Bergman trascorsero l’estate a Los Angeles e l’autunno a Monaco, dove era ormai pronto l’appartamento ampio e luminoso preparato per loro nei pressi dell’Englischer Garten. Poi un salto a Francoforte per ritirare il premio Goethe, una puntata nell’amata Fårö, e ancora a Monaco, per la prima del film, che ebbe luogo il 28 ottobre 1977. Mentre scorrono i titoli di testa vediamo immagini in bianco e nero di persone che camminano lentamente in silenzio, con aria triste, dirette chissà dove. Si alternano con immagini colorate e festose accompagnate da un rumoroso fox-trot. Una voce fuori campo informa che siamo a Berlino, sabato 3 novembre 1923. L’inflazione non perdona: un pacchetto di sigarette costa quattro miliardi di marchi. Si è perduta la fiducia nel futuro e nel presente. Si fa festa a suon di musica. Anche Abel Rosenberg partecipa alla forzata allegria generale. Ebreo originario della Lettonia, è nato a Filadelfia ed ha trentacinque anni. È un trapezista americano, arrivato a Berlino a fine settembre insieme con il fratello Max, il quale è morto suicida. Abel è interrogato dall’ispettore Bauer, che lo sospetta di aver assassinato il fratello e altre persone trovate uccise nel quartiere. Abel pranza con Holliger, in cerca di nuovi numeri per un circo di Amsterdam. Holliger, commentando le notizie pubblicate dai giornali, dice che si stanno avvicinando tempi terribili. Abel risponde di non credere alle beghe politiche. «Non commetterò stupidaggini – dice – e non mi metterò nei pasticci». Nel pomeriggio Abel va a trovare la vedova di Max, Manuela, che lavora nel cabaret “L’asino blu”. Le dice

che Max si è sparato, che le ha lasciato una lettera. C’è scritto: «Un flagello sta per abbattersi su di noi». Manuela dice di non aver visto molto il marito ultimamente a causa di un litigio per gelosia. Al termine dello spettacolo Manuela porta Abel a casa con sé. Abel rievoca l’infanzia con il fratello. Il giorno dopo, a colazione, parlano della possibilità di tornare al circo. Abel racconta di aver visto picchiare un uomo per la strada senza che la polizia si sia mossa a soccorrerlo. Manuela deve andare a lavorare. «È un ufficio di importazioni ed esportazioni», dice. Rimasto solo, Abel fruga nei cassetti e trova un bel mucchio di soldi. Arriva Holle, la padrona di casa, che gli dà il benvenuto. Dice di volere molto bene a Manuela. L’ispettore invita Abel all’obitorio e gli mostra i cadaveri degli assassinati. Poi lo accusa. Abel cerca di fuggire, ma trova tutte le porte chiuse. Aggredisce le guardie, ma alla fine viene arrestato. Manuela va a trovarlo in carcere. «Mi hanno rubato i risparmi», dice. L’ispettore rilascia Abel. Tornati a casa, vengono a sapere che Holle non vuole più ospitare Abel. Manuela confessa ad Abel di aver avuto una relazione con Vergérus, inquietante e sinistra figura di scienziato. Abel insiste per sapere dove Manuela lavori e lei gli confessa che si tratta di un bordello di lusso, frequentato da diplomatici, giornalisti e attori famosi. Siamo a martedì 6 novembre. I giornali sono pieni di voci minacciose. Il Governo è impotente. Manuela esce di casa, seguita di nascosto da Abel. Entra in una chiesa, si avvicina al prete. Questi ha fretta, deve celebrare. La invita a tornare un’altra volta. Ma lei insiste. «Questo senso di colpa – dice – non lo sopporto. È colpa mia se Max si è suicidato. Sento che devo occuparmi anche del fratello. L’unica cosa reale è la paura. Sto male. Che devo fare per essere perdonata?». «Vuole che io preghi per lei», dice il prete, e si inginocchia. «Viviamo così lontano da Dio – dice – che forse non ci sente quando chiediamo aiuto. Perciò dobbiamo aiutarci tra noi e darci l’un l’altro quel perdono che un Dio remoto ci nega. Tu sei perdonata per la morte di tuo marito. Non devi più sentirti in colpa. Chiedo il tuo perdono per la mia apatia e per la mia indifferenza. Vuoi perdonarmi?». «Sì, la perdono», risponde la donna. «Non posso far altro – conclude il prete. – Il parroco si irrita se arrivo in ritardo». Abel e Manuela vanno ad abitare in un appartamento annesso alla clinica Sant’Anna, messo a disposizione da Vergérus. Tutti e due lavoreranno per la clinica: lei in cucina, lui in archivio. Abel è titubante, ma poi accetta. C’è un’irruzione violenta dei nazisti nel cabaret, mentre balla e canta una grassona. Il direttore, «porco ebreo», è picchiato a sangue. La distruzione si conclude con un incendio. Abel non riesce a dormire. «La gente – dice Manuela – non ha futuro, ha perso il suo futuro». Nella clinica i dottori Soltermann e Silbermann accolgono Abel, che sarà il loro assistente all’archivio. Uno di essi gli confida: «Sta succedendo qualcosa di terribile qui». Il luogo di lavoro di Abel è in fondo a lunghissimi corridoi. Angosciato, Abel trova rifugio nell’alcol. Ubriaco, rompe una vetrina e aggredisce il commerciante e sua moglie. Una prostituta lo invita. «Va’ all’inferno», risponde lui. Lei replica: «E dove credi che siamo?». Entrato nel bordello, Abel beffeggia un negro impotente. Scopre che Manuela è morta. Esce dall’appartamento, si addentra nei sotterranei della clinica. Lo aggrediscono, reagisce. Si presenta Vergérus, che gli illustra orribili esperimenti su esseri umani drogati con una sostanza chiamata “tanatoxina” e condotti alla follia e alla morte. «Tuo fratello Max – dice – era uno dei nostri migliori assistenti». Poi Vergérus, sapendo di essere stato denunciato all’ispettore Bauer, si suicida con una fiala di veleno schiacciata tra i denti. «Non sono un mostro – dice prima di morire –. Questi sono i primi esitanti passi di uno sviluppo necessario. La legge confischerà i nostri risultati e comincerà a studiarli. Tra pochi anni gli esperimenti saranno continuati su una scala più vasta. Noi precorriamo i tempi, dobbiamo essere sacrificati. La rivolta di Hitler sarà un fiasco colossale. Hitler sarà spazzato via il giorno stesso in cui scoppierà la tempesta. La gente è incapace di una rivoluzione. È troppo impaurita, troppo frustrata. Si affaccia una nuova società. L’uomo è una malformazione della natura. Sterminiamo ciò che è inferiore e incrementiamo ciò che è utile. Il mio esperimento è come un abbozzo di ciò che avverrà nei prossimi anni. Tuttavia nitido e preciso: proprio come l’interno dell’uovo di un serpente. Attraverso la sottile membrana esterna, si riesce a discernere il rettile già perfettamente formato». Poi, il suicidio spettacolare: Vergérus si guarda morire nello specchio. Abel ha dormito due giorni imbottito di Veronal. Bauer gli dice che ha parlato con Hollinger, il quale lo farà lavorare nel circo Wohlhammer. Qualcuno lo accompagnerà alla stazione. Lo informa che la rivolta hitleriana di Monaco è fallita: «Hanno sottovalutato la forza della democrazia tedesca». La voce fuori campo, a conclusione, dice che Abel eluse la scorta della polizia e che non fu mai più rivisto.

Chissà: forse Abel è ancora tra noi, a dispetto di tutte le guerre, le rivoluzioni, le intolleranze, le prepotenze. Abel è la speranza, è ciò che resta quando tutto sembra perduto. La sconfitta del male è apparente, sta per accadere qualcosa di terribile, ma Abel, l’uomo, rimane a testimoniare la fiducia in qualcosa di diverso, di superiore, di credibile, di incancellabile. Questa volta Bergman, pur senza rinunciare alle sue tematiche preferite, ricorre a un tessuto narrativo di più vasto respiro, aiutato

anche dall’ingente somma (pari a tre miliardi di lire) messa a disposizione dall’America. È un cinema evidentemente meno povero, ma non per questo è un tradimento, come qualcuno ha detto. La differenza, rispetto a molti altri film di Bergman, sta nel fatto che questa volta le circostanze di tempo e di luogo sono precisate. L’indefinito paese di Il silenzio diventa la Germania di Weimar, l’ambientazione storica della vicenda è meticolosamente indicata tra i giorni 3 e 11 del mese di novembre 1923. Ma il tutto è presentato in modo emblematico e ha valore ben al di là di quel luogo e di quel tempo. Tutte le paure planetarie di Bergman, occhieggianti qua e là nei suoi film, qui prendono vivacemente e atrocemente corpo. L’uovo del serpente è intriso di violenza, più o meno palese, dall’inizio alla fine. Una convivenza sociale libera dal peso del “Dio remoto” ma anche dall’amore tra gli uomini è un inferno. Il film si dipana in un’atmosfera cupa. Predominano le tinte scure, la luce effettata, contrappuntate di tanto in tanto da immagini solari e chiassose accompagnate da suoni fragorosi quando l’attenzione si sposta nel cabaret (fot. 102 e 103). Non a caso le scenografie sono firmate da Rolf Zehetbauer, collaboratore di Bob Fosse in Cabaret (1972). L’ambientazione negli anni Venti ha suggerito a Bergman alcune soluzioni che ricordano l’espressionismo tedesco, il modo di fare cinema in quel periodo (fot. 104). Ma il film contiene pure reminiscenze kafkiane, riscontrabili principalmente nello strano incarico affidato ad Abel in fondo a un cunicolo di scartoffie, un luogo dove non si può uscire se non accompagnati da chi conosce le regole del labirinto (fot. 105). Kafkiano è anche il compito affidato ad Abel: trasferire il contenuto delle cartelle grigie in altrettante cartelle gialle.

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Nell’inferno in terra, Vergérus, novello Dottor Caligari, è l’immagine del male, la prefigurazione di Hitler. Il monito è chiaro: bisogna vigilare contro ogni affacciarsi di perversione politica, e anche quando le forze del male sembrano per il momento sconfitte non bisogna cantare vittoria con troppa facilità. Più di una volta nel film si dice per assurdo che Hitler non avrà futuro. L’uovo del serpente sembra uno dei film meno autobiografici. Ma in realtà per Bergman ebbe una funzione catartica, quasi un ex voto. «Da anni pensavo a un film del genere – dice. – Fra il ’35 e il ’38 ho vissuto diverso tempo in Germania e sono stato spesso a Berlino. Un’impressione tetra, soffocante; la stessa che ho provato dieci anni dopo, nel ’48, quando non potendo lasciare la città ho provato un’atmosfera di claustrofobia, di prigione, la stessa che dovrebbe farsi sentire in L’uovo del serpente». Nell’estate del 1934 Bergman, all’età di dodici anni, fu ospite della famiglia di un pastore protestante in Turingia per uno scambio culturale. Era il suo primo viaggio all’estero. In casa del pastore trovò un ragazzo della sua età, Hannes, iscritto all’organizzazione giovanile locale, così come le sorelle. I fratelli erano tutti inquadrati nelle attività del partito. Persino il pastore, nei suoi sermoni, a volte attingeva, oltre che alla Bibbia, al Mein Kampf. C’erano ritratti di Hitler ovunque. Una volta si fece una gita a Weimar per assistere a una grande sfilata di regime e poi al Rienzi di Wagner all’Opera. Bergman, secondo le regole dello scambio culturale, frequentò la stessa scuola di Hannes, dove l’indottrinamento era incredibile. Tornato in Svezia, inevitabilmente risentì di quell’esperienza. Alcune estati dopo si verificò la stessa possibilità e Bergman tornò in Turingia in casa del pastore filonazista. Simpatizzava per Hitler, sotto questa pressione psicologica alla quale non aveva gli strumenti per reagire. Per giunta il suo professore di storia era rigorosamente filotedesco. Ma la stessa educazione autoritaria ricevuta in casa aveva facilitato il formarsi di una concezione distorta del giovane Ingmar. «La nostra educazione – ha scritto il regista nell’autobiografia – si basava per la maggior parte sui concetti di peccato, confessione, punizione, perdono e grazia, fattori concreti nelle relazioni dei bambini con i genitori e con Dio. In ciò era insita una logica che noi accettavamo e credevamo di capire. Questo fatto contribuì forse alla nostra ingenua accettazione del nazismo. Non avevamo mai sentito parlare di libertà e ancor meno ne conoscevamo il sapore. In un sistema gerarchico tutte le porte sono chiuse»121. Quando, dopo la guerra, si seppe dei campi di concentramento e furono diffuse le prime terribili fotografie, Bergman fu assalito da un forte senso di colpa, di vergogna per aver condiviso le idee che avevano portato a quella tragedia. «Mi vergognai terribilmente – ha detto in un’intervista. – Provavo uno sgomento terribile e tanta amarezza verso mio padre, mio fratello, i miei insegnanti e tutti quelli che mi avevano portato a sentirmi così. Però non riuscivo lo stesso a liberarmi dal senso di colpa e di disprezzo per me stesso. Credo che fu allora (naturalmente non si trattò di un processo mentale cosciente, perché non ne ero tanto cosciente, fu piuttosto un processo inconscio di rigetto) che decisi di non avere mai più niente a che fare con la politica… Per vent’anni non ho mai letto un articolo né un libro che parlassero di politica, né ho mai ascoltato un solo discorso, non ho neanche votato»122.

Si capisce bene, alla luce di tutto questo, come mai il primo film veramente politico di Bergman sia ambientato a Weimar e si risolva in un monito angosciato contro ogni pericolo di diffusione di ideologie antiumane. «Quasi un film dell’orrore. È certamente il film più forte che abbia mai fatto»123: così Bergman. In realtà è un film sull’orrore. Ogni inquadratura, ogni sequenza è finalizzata a destare nello spettatore sensazioni angosciose. Sono le prove generali di un regime che porterà il mondo alla catastrofe, ed è già una catastrofe che la gente non si accorga di quello che sta per succedere. L’uomo, protagonista del film, si chiama Abel, ma di cognome Rosenberg, come i coniugi ebrei giustiziati nell’America maccartista. È il simbolo della vittima innocente. Ma mai come questa volta il finale del film è aperto alla speranza. Abel non accetta la salvezza artificiosa che gli viene offerta da chi a suo modo l’ha perseguitato, cioè l’ispettore. Sceglie un’altra strada. Lo spettatore attento capisce che probabilmente tornerà, e alla fine l’avrà vinta. Sinfonia d’autunno

Dopo un film tedesco, nel 1978 un film norvegese, Sinfonia d’autunno, realizzato in Norvegia ma ancora con capitali tedeschi. Fu l’incontro di Ingmar Bergman con Ingrid Bergman, che non recitava nei Paesi scandinavi dal 1940, epoca di Notte di giugno (Juninatten, di Per Lindberg), se si eccettua l’episodio di Stimulantia diretto da Gustav Molander. Ingrid era già malata di cancro, ma questo non le impedì di dar prova di grande professionalità, anche se il suo rapporto col regista non fu sempre facile. L’idea di coinvolgere la sua omonima era venuta al regista ben tredici anni prima. Il progetto originario, che si intitolava Chefen fru Ingeborg (Il capo, la signora Ingeborg) fu accantonato quando Bergman venne nominato direttore del Teatro Reale. Accanto alla Bergman, in Sinfonia d’autunno, recita Liv Ullmann, che tra l’altro è norvegese. Il film nell’edizione scandinava offre un ulteriore motivo di curiosità: la Bergman parla in svedese e la Ullmann le risponde in norvegese. Intanto Bergman aveva risolto finalmente i suoi problemi col fisco, era già tornato in Svezia per ragioni private e stava per tornarvi per motivi di lavoro: anzitutto la regia di La dodicesima notte per il Dramaten di Stoccolma. Siamo in un villaggio tra i fiordi della Norvegia. Viktor, un pastore protestante, si sofferma a guardare la moglie senza farsi vedere, come fa ogni tanto, e si abbandona ai suoi pensieri: «Vorrei riuscire almeno una volta nella vita a dirle che è amata, amata profondamente. Ma non riesco a trovare parole che la convincano». Lei, Eva, ha appena scritto una lettera alla mamma, una famosa pianista, per invitarla in casa. Non la vede da sette anni. Arriva la madre, Charlotte, vivace sebbene abbia perduto da poco il suo compagno Leonardo. Madre e figlia si abbracciano, poi Charlotte va a riposare, stanca del viaggio. Ha mal di schiena. Chiede alla figlia una tavola da mettere sotto al materasso. Intanto le racconta gli ultimi eventi. «Eravamo stati vicini per diciotto anni – dice, riferendosi a Leonardo – e per tredici siamo stati insieme, e mai nessun malinteso. Eva dice alla mamma che vive da loro da oltre due anni la sorella Helena, handicappata. Charlotte, che invece, a suo tempo, aveva fatto rinchiudere la giovane in una casa di cura, chiede di vederla. Helena cerca di esprimersi con dei suoni gutturali; soltanto Eva la capisce. Charlotte le regala un orologio. Ma rimane turbata: «Stava a fissarmi su quella seggiola…». In montaggio parallelo vediamo Eva che parla con Viktor e Charlotte che si prepara alla cena mettendosi un vestito rosso. La famiglia cena. Charlotte è chiamata al telefono dal press agent, Paul, che la ragguaglia su imminenti impegni concertistici. Poi siede al pianoforte per provare il Preludio numero 2 di Chopin. Chiede a Eva di suonare a sua volta. Eva accetta malvolentieri. Quando ha finito la madre le dà dei consigli che sono critiche. Charlotte va da Eva che è nella stanza di Erik, il suo bambino affogato alla vigilia lei quarto compleanno. Eva le confida le sue sensazioni: dentro di sé sente che il bambino continua a vivere, ne avverte quasi la presenza fisica… Viktor parla con Charlotte dei problemi di Eva, che rimprovera la mamma per questa interferenza nel suo rapporto col marito. Più tardi il colloquio riprende e si trasforma in un battibecco e in vero e proprio scontro, facilitato da qualche bicchiere di vino. Le due donne si rinfacciano reciprocamente torti e mancanze. Vediamo in alcuni flashback muti momenti dell’infelice vita di Eva da bambina (la piccola è impersonata da Linn, la bambina che Bergman ha avuto dalla Ullmann). La figlia rimprovera spietatamente la mamma per averla trascurata, per averla spinta all’aborto, per aver tradito il marito, per aver provocato la malattia di Helena (che

si sarebbe innamorata di Leonardo quando ancora la sua malattia non era grave). La madre chiede di essere perdonata. «Non hai attenuanti – grida Eva, – mi dispiace, non ci può essere perdono, sei sempre riuscita ad assolverti, ma non puoi deciderlo da sola, devi assumerti le tue responsabilità e le tue colpe come tutti gli altri». Paul va a prendere Charlotte e la accompagna sul treno. Dall’arrivo a casa della figlia sono trascorse trentasei ore. Charlotte ringrazia il suo accompagnatore per averla portata via. Pensa a Helena e dice: «Ma perché ancora vive?». Ancora con montaggio parallelo, ci viene mostrata la reazione di Eva alla partenza della madre. «Povera piccola mamma – dice, – non ha resistito, è scappata, so che non la rivedrò mai più». È chiusa nel suo dolore, ma si rianima al pensiero di Viktor e di Erik. Qualche tempo dopo Eva scrive alla mamma una lettera (la conclusione del film è simile all’inizio) scusandosi per averla fatta soffrire. Ascoltiamo il testo della lettera dapprima dalla voce di Viktor, poi da quella di Eva. I volti in primo piano sono quello di Viktor, poi quello di Eva e infine quello di Charlotte. «Ho preteso troppo da te senza darti niente in cambio – è scritto nella lettera, – ti ho tormentata con un vecchio odio che non ha più ragione di esistere. Chissà se la mia lettera ti arriverà, mamma, questo non lo so. E non so se la leggerai, e comunque credo sia troppo tardi. Ma voglio sperare che serva al nostro amore perché è doloroso riconoscere i nostri errori. Al di là ogni cosa esiste la pietà, la compassione. Forse è ancora possibile curare le nostre ferite, vivere quel che resta e volersi bene. Io non farò più niente, che possa cancellarti dalla mia vita. Ho ancora fiducia. Non mi arrenderò anche se è troppo tardi. Non credo che sia troppo tardi, non può essere troppo tardi».

Più ottimista del solito, Bergman affida a questo film il compito di mettere in guardia lo spettatore contro ogni forma di egoismo, a cominciare da quella, impietosa e sottile, che non risparmia neanche i rapporti familiari e gli affetti più immediati come quello tra genitori e figli. Lo fa con un’opera semplice, rarefatta, solenne. II titolo originale in cui non si parla di una sinfonia, ma di una sonata (Sonata d’autunno) aiuta a capire il taglio dell’opera. Una sinfonia infatti è una composizione per orchestra, mentre una sonata è un brano per strumenti. I personaggi, gli interpreti sono come docili strumenti: come violoncelli, per dirla col regista. Sono strumenti solisti: eseguono degli “a solo”, si confrontano, si contrappongono. Il film è avarissimo di emozioni visive, si snoda come un lungo dialogo a due interrotto brevemente qua e là da rapidi flashback, da brevi riflessioni di Viktor, dai lamenti di Helena. La vicenda si svolge completamente in interni, salvo l’arrivo di Charlotte in auto (fot. 106), la sua partenza in treno (fot. 107) e una breve sequenza finale di Eva nel piccolo cimitero adiacente la chiesa, presso la tomba del figlio (fot. 108). La macchina da presa è quasi sempre immobile. Ascoltiamo parole, vediamo volti. Si è parlato di teatralità. Meglio sarebbe parlare del massimo grado di concentrazione ottenuto da Bergman nell’uso dei diversi strumenti di comunicazione sociale: teatro, cinema, televisione124. Ma non escluderei un cenno alla letteratura: Bergman in fin dei conti è prima di tutto un grande scrittore.

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Sul banco degli imputati è Charlotte, egoista, fatua, attenta alla carriera e disattenta ai rapporti familiari, insofferente davanti alla sofferenza, a volte addirittura cinica. Il confronto è con la figlia Eva, personaggio in qualche modo positivo perché di grande sensibilità e di profonda fede. Il suo monologo nella stanza del figlioletto morto di cui continua a sentire la presenza è esemplare e toccante: «Mi chiedo a volte dove sia la realtà dove vive il mio bambino. So bene che non può essere descritta materialmente perché è come un universo di sensazioni infinite. Per me l’uomo è una creazione incredibile, un’invenzione inconcepibile, fantastica. L’uomo ha tutto dentro di sé, colpa e innocenza. Dio ha creato l’uomo a sua immagine e in Dio c’è ogni cosa, ogni uomo. Ogni uomo somiglia a Dio, e così anche i demoni, gli iconoclasti, i profeti, i santi, gli artisti. E vivono tutti uno accanto all’altro. Esistono molte, infinite realtà oltre a quella che stiamo vivendo. Ci avvolgono e sono vicine a noi, dentro e fuori di noi. È la paura che ci ha fatto inventare i limiti e i confini». A prima vista il torto sembrerebbe essere tutto dalla parte di Charlotte e la ragione tutta dalla parte di Eva. Ma Charlotte, come può, cerca di difendersi. In realtà però Bergman non fa processi, non dà giudizi. «Ricava, dai fatti, una lezione»125. La lezione, accorata e calda, è per tutti: non nascondete la voglia di tenerezza, non innalzate muri, amate il prossimo, a cominciare dalle persone care. È un messaggio semplice, stavolta senza simbolismi. A distanza di anni, è una ulteriore “lezione d’amore”. Per dirla con Sergio Frosali, Bergman torna alla sua linea migliore, «quella della meditazione lirica sui destini spirituali, su quanto vi è in essi di solitudine irrimediabile, ma anche di tendenza a rimediare attraverso ciò che all’uomo resta di più specifico, la comunicazione affettiva e verbale»126. A volte la comunicazione diventa difficile, e distrugge i rapporti umani. Non a caso Bergman affida al colloquio il compito di far venire alla luce il rapporto di antico asilo tra madre e figlia e alla lettera scritta quello di riportare invece la serenità. È un nuovo capitolo del suo lungo saggio sull’incomunicabilità tra le persone, sul linguaggio delle parole, sul linguaggio del corpo. Esemplare rimane, in tale contesto, l’interpretazione delle due grandi attrici, che – scrive Alberto Pesce – «orchestrano con fluida ricchezza e autenticità di sfumature un meandrico magma di sentimenti a supporto di due superbi ritratti di donna dentro il crogiolo di uno scavo bergmaniano sempre più straziante e sottile»127. Qualche critica venne mossa a Bergman sul piano formale e su quello sostanziale. Quanto alla

forma, lo si accusò di incompiutezza per quella certa sciatteria nei flashback e per una eccessiva concisione128. L’impressione è che qui Bergman spinga al parossismo la tecnica del kammerspiel, asciugando al massimo il tessuto narrativo e i mezzi espressivi. Propende per la concisione onde ottenere il massimo di concentrazione, innalza il cinema povero a cinema dei sentimenti elementari, non concede suoni ai ricordi ma soltanto immagini vaghe, puramente illustrative. Il risultato può essere forse diverso dal solito, ma proprio questo film, come fa acutamente notare Paolo Valmarana, «è bergmaniano per eccellenza, forse il più bergmaniano di tutti, nel suo ridurre al minimo ogni mediazione tradizionalmente cinematografica per lasciare al dramma il massimo di spazio e di evidenza e il minimo di inquinamento»129. Sul piano sostanziale gruppi di femministe attribuirono a Bergman l’intenzione di dare un’immagine negativa della donna e della madre in particolare. Nel contestare queste accuse, Alfonso Moscato suggeriva una originale chiave di lettura: «È proprio sicuro che racconti realisticamente un conflitto madrefiglia e figlia-madre? Non potrebbe trattarsi invece di un esame di coscienza della madre fatto in forma allegorica? Le figlie allora rappresenterebbero l’una il suo fallimento come pianista, l’altra il suo fallimento come donna»130. L’ipotesi, senza dubbio suggestiva, è avvalorata da palesi analogie tra questo e altri film del regista. A mano a mano che la narrazione procede, per esempio, si ha l’impressione che quasi quasi madre e figlia tendano a confondersi in un’unica maschera, come accade in Persona. Non è l’unica analogia. La fuga finale con alle spalle il destino di una malata somiglia a quella di Il silenzio, e tutte e due le fughe avvengono in treno. La presenza viva del bambino morto richiama in qualche modo alla morta-viva di Sussurri e grida e così via. Non mancano poi, anche qui, riferimenti autobiografici. In Charlotte, Bergman raffigura alcune mancanze della propria madre. Il proiettore di diapositive usato nella prima parte del film non è che la mitica lanterna magica. La battuta di Charlotte al press agent «Mi facciano trovare una bella toilette dietro al palcoscenico, così non dovrò fare pipì in un vaso da fiori» riecheggia la necessità reale che Bergman ha sempre avuto di una toilette a portata di mano a causa dei suoi disturbi intestinali. Il pastore ricorda ancora una volta il padre del regista, anche se stavolta è dipinto eccezionalmente con maggiore simpatia del solito. È un personaggio non negativo, assolve la funzione di mediatore presentando allo spettatore le varie fasi della vicenda. Di per sé è, come dichiara, uomo di poca fede, ma, aggiunge, è aiutato dalle certezze della moglie. «La poca fede che mi è rimasta – dice – vive solo nelle sue certezze». Si definisce «persona incerta e dispersiva» ma è uomo che ama, che cerca di amare, che ha capito in anticipo e cerca di applicare la “lezione d’amore” impartita dal film. Un mondo di marionette

La parentesi tedesca è completata da Un mondo di marionette, un film realizzato con attori tedeschi tra il 1979 e il 1980 nei Bavaria Filmstudios. Pur essendosi riconciliato con il suo Paese dopo i guai con il fisco, il regista aveva continuato ad avere un ufficio a Monaco e contatti con la Repubblica Federale. Il soggetto è parte di un più ampio progetto poi accantonato (Amore senza amanti, testo per un film televisivo di sei ore in cui si prendevano, tra l’altro, a prestito da Ovidio i personaggi di Filemone e Bauci). È una storia di follia. Prologo. Nei primi minuti del film, che come gli ultimi sono a colori mentre il resto è in bianco e nero, vediamo un uomo uccidere una prostituta. È Peter Egerman, apparentemente uomo normale, gentile, benvoluto da tutti, sposato con una donna efficiente, figlio di una attrice famosa. Dopo il prologo, il film si dipana in brevi capitoli introdotti ciascuno da una didascalia. Venti ore dopo l’assassinio lo psichiatra Mogens Jensen parla con l’investigatore. Apprendiamo così i particolari sul ritrovamento del cadavere e alcune notizie su Egerman. Quattordici giorni prima della catastrofe Peter Egerman va dallo psichiatra. Gli confessa di essere terrorizzato da due anni dalla voglia di uccidere la moglie. Gli racconta dei reciproci tradimenti, del loro rapporto sessuale «favoloso». Invita lo psichiatra a dirgli che la sua ossessione è frutto soltanto di una

disfunzione ormonale. «Persone come te – gli risponde lo psichiatra – non credono all’esistenza dell’anima. Quindi non capisco la tua visita». Gli propone un ricovero nella sua clinica: «Siamo fenomenali nell’annullare la personalità degli altri. Se non c’è l’io non c’è paura». Poi, mentre crede che Peter sia uscito, lo psichiatra chiama al telefono la signora Katarina Egerman. La invita a casa ed ella arriva. Egli la porta nella stanza da letto ma non fanno l’amore perché lei dice di amare Peter. Lo psichiatra le racconta l’idea fissa di Peter. «Peter – dice Katarina – è una parte di me, lo porto sempre con me». Una settimana dopo l’assassinio: l’investigatore con la madre di Peter. La donna parla delle paure infantili del figlio e parla di sé, del suo amore per il teatro. Prima del fattaccio, dice, non si notava in Peter nulla di insolito. Cinque giorni prima della catastrofe Peter e Katarina trascorrono una notte insonne. Peter non riesce a dormire, si alza, prende una pillola, si versa un po’ di cognac. Anche Katarina si alza. Beve un whisky. Parlano del più e del meno. Lei chiede a lui il motivo della sua infelicità. «Tutte le strade sono chiuse», risponde Peter. Vediamo poi Peter che detta una lettera commerciale. Quattro giorni prima della catastrofe Katarina prepara una sfilata di moda. Alcune immagini della sfilata, poi Katarina è a pranzo con Peter. Quando questi se ne va arriva Tim, un omosessuale stretto collaboratore di Katarina, che la invita a casa. Si conoscono da quindici anni e da dodici lavorano insieme. «Le persone come me – si confida Katarina – hanno sempre trascurato l’anima e se ne rendono conto quando comincia a soffrire». «A volte è il corpo d’impaccio – risponde lui, – a volte l’anima». Katarina gli regala una sciarpa destinata a Peter. Tim si lamenta delle rughe e dell’età. Tre giorni dopo la catastrofe, una conversazione tra Tim e l’investigatore. Tim nega di aver avuto una relazione con Peter, ma ammette di averlo desiderato. È stato lui a dargli l’indirizzo della prostituta, sperando che quell’incontro lo allontanasse dalla moglie e gli facilitasse la strada. «Lo amavo segretamente – dice. – Sentimentalmente era morto, sapevo che avrei potuto salvarlo». Peter Egerman scrisse una lettera al professor Jensen (ma non fu mai spedita). In primissimo piano Peter racconta un sogno. Si tratta di un rapporto con la moglie in un’atmosfera molto sensuale. In un ambiente chiuso, lui la accarezza, lei gli sfugge. A momenti di tenerezza e di intimità segue il momento della violenza. «Katarina era morta e sapevo che l’avevo uccisa io». «Vivrò veramente – conclude Peter – oppure il sogno è il mio unico momento di vita?». Due giorni prima Peter minaccia di suicidarsi. Peter vuol saltare dal balcone, Katarina è angosciata. Arriva un amico, Heinz, che riesce a dissuaderlo. I due coniugi hanno un battibecco, poi ridono insieme. Lei cerca di ricreare tra di loro il rapporto d’amore incrinato, ma lui reagisce. Lei lo prega di rinunciare all’alcol. Tre settimane dopo la catastrofe Katarina Egerman visita la madre di Peter. «Non hai avuto figli, non puoi comprendere», dice la suocera. «Dietro questa maschera piango continuamente», dice Katarina. Quindici minuti prima della catastrofe Peter va a trovare Katarina Krafft. Peter si reca nello squallido pornoclub dove donne nude si esibiscono davanti a spettatori chiusi in appositi camerini. Grazie alla complicità di un guardiano viene ammesso nella stanza della prostituta per alcune ore. Parla a lungo con lei, seminuda. «Tutte le strade sono chiuse», dice a un tratto. Una notte, quattro settimane dopo, il Prof. Jansen detta un primo sommario. È un quadro clinico di Peter: madre dominante, pessimo rapporto con il padre, latente omosessualità, nessuna valvola di sfogo, una moglie volitiva e ossessiva, paura ingiustificata, angoscia. La catastrofe è avvenuta al primo contatto con la prostituta. È stato il momento del corto circuito emotivo. È entrata in moto la slavina degli istinti. L’Epilogo a colori. Peter in carcere mette in ordine ossessivamente il lettino, gioca a scacchi con il computer. Non legge, non ascolta la radio né la Tv, è soggetto a crisi depressive, rifiuta ogni aiuto. Tiene con sé un orsacchiotto spelacchiato, probabilmente ricordo d’infanzia.

È uno dei film cui Bergman è più affezionato, ma anche uno dei film più sottovalutati dalla critica, a cominciare da quella tedesca. Certamente l’evento drammatico prevarica l’introspezione, e la chiave di lettura psicanalitica rischia di avere la meglio sulle altre. Ma a uno sguardo attento non sfugge il legame preciso di questo film con tutta l’opera di Bergman e in particolare l’insistere – anche qui – sulle conseguenze dell’aver cancellato dal mondo l’amore nel senso più ampio e completo. «Tutte le strade sono chiuse», dice Peter, riprendendo il filo del discorso cominciato in anni lontani con La prigione. Nell’uomo non c’è più amore quando neanche nella coppia l’amore c’è più, cancellato dalla noia. Peter e Katarina non sono che la coppia vista in Scene da un matrimonio, ma là il loro inferno era appena accennato. Qui esplode in tutto il suo orrore. In fin dei conti lo stesso orrendo delitto è un simbolo (fot. 109). È la materializzazione dell’orrore che nasce inevitabilmente alla fine del tunnel dell’egoismo e dell’incapacità di instaurare un rapporto umano con il prossimo. Marionette sono gli uomini quando non riescono a essere liberati dalla prigione esistenziale a opera

dell’amore.

FOT. 109

Il film segna un momentaneo ritorno al bianco e nero, salvo le due sequenze a colori che lo aprono e lo chiudono. La scelta è dovuta forse a una qualche delusione provata per l’uso del colore sperimentato ultimamente. Il colore, diceva, grida, fa troppo chiasso, e d’altra parte scegliere i colori smorti finisce per avere poco senso: tanto vale lavorare sul bianco e nero, che aiuta la concentrazione, consente più incisivi giochi di luce, elimina ogni distrazione. Il passaggio dal colore al bianco e nero vuol essere come un campanello d’allarme, che esorta lo spettatore a vigilare, a non prendere lo spettacolo per il suo valore epidermico e distraente, ma a servirsene per una riflessione. I materiali vengono offerti in maniera palese, almeno sotto due aspetti: quello giuridico e quello psicanalitico. Sia l’investigatore, sia lo psichiatra intraprendono una ricerca per capire la dinamica e le motivazioni della «catastrofe». Ciascuno di essi trova alla fine una spiegazione logica abbastanza valida, ma Bergman nello stesso tempo fa capire che le vere motivazioni sono altrove, negli abissi dell’anima, di cui non ci fa scoprire i segreti, anche se ci suggerisce di tanto in tanto qualche spunto. Fanny e Alexander

Nello stato d’animo di chi scrive un testamento spirituale, Bergman pose mano nel 1981 a uno dei suoi film più belli e completi, Fanny e Alexander. Con la moglie Ingrid von Rosen era ancora in Germania. Sofferente più del solito per una colite che lo ha accompagnato per tutta la vita, convinto ormai di dover pagare un pedaggio all’età avanzata («La risoluzione dei problemi diventa più lenta – lamenta nell’autobiografia –, le scene creano preoccupazioni maggiori…»131, soggetto più del solito a notti insonni, incline più del solito a brontolamenti e isterismi, si sentiva anche insoddisfatto dei risultati. Lavorava tutti i giorni, dalle otto in poi, negli studi di Sundbyberg, un tempo famosi ma

negli anni Ottanta alquanto decaduti, e destinati per lo più a modeste produzioni televisive. La bassa qualità dei proiettori, la scadente “risposta” del suono, lo scarso isolamento acustico, la sporcizia di alcuni locali erano motivo di continua irritazione. Ma poi, nel constatare la qualità dei suoi collaboratori e la buona riuscita di qualche inquadratura, egli riprendeva animo. Nacque così un capolavoro, con connotazione fortemente autobiografica («un riassunto di quarant’anni di cinema», scrive Grazzini132) che si presenta come una summa della poetica dell’autore e come una ricca ricapitolazione della sua predicazione laica, dei suoi dubbi, delle sue convinzioni. La destinazione del film fu televisiva, e difatti l’opera completa dura circa cinque ore. Ne fu tratta poi una versione cinematografica di tre ore e dieci, ulteriormente ridotta nella videocassetta in circolazione a due ore e cinquanta: una versione che lascia lo spettatore pieno di desiderio per l’altra metà del lavoro ormai difficilmente reperibile. Nel 1983 collezionò quattro premi Oscar. 1907. La macchina da presa, dall’interno di un teatrino, scopre il volto di Alexander Ekdahl, giovane rampollo di una grande famiglia svedese. Alex si aggira per la casa della nonna a Uppsala, dove tutti gli Ekdahl stanno per festeggiare insieme il quarantatreesimo Natale. Si prepara l’albero, cibi sontuosi sono pronti in tavola. Poi la camera inquadra il palcoscenico di un teatro vero, l’Uppsala Teatret, dove si sta recitando uno spettacolo natalizio. Dietro il sipario c’è un’altra tavola imbandita. Il direttore del teatro, l’attore Oscar Ekdahl, offre la cena a tutta la compagnia. Ma prima rivolge ai presenti un discorso sul suo amore per il teatro. Tornato a casa, porge i regali ai figli, Alexander e Fanny. Si fa festa. C’è la matriarca, nonna Helena, ex attrice, felice di avere accanto figli e nipoti. C’è Emilie, la bella moglie di Oscar, anch’ella già attrice. C’è l’altro figlio di Helena, Gustaf Adolf, uomo fatuo, superficiale e donnaiolo, amministratore del teatro, con la moglie Alma, donna allegra e comprensiva. C’è il terzo figlio, Carl, un fallito ubriacone e squattrinato che tenta di vivere alle spalle della mamma e maltratta la moglie tedesca. Alexander e Fanny si incantano davanti allo spettacolo della lanterna magica. Poi, prima di andare a letto, fanno a cuscinate con le cameriere. Un pianista suona una marcetta. Qualcuno legge un brano del Vangelo. Gustaf si dedica agli amori ancillari con una servetta claudicante ma provocante di nome Maj e le promette una pasticceria. Alla fine della festa Helena si confida con una vecchia fiamma, l’ebreo Isak Jacobi. Tra i due è rimasto un affettuoso rapporto di amicizia. Nel teatro Oscar sta provando Amleto mentre il figlio lo guarda estasiato. Ma a un certo momento si sente male. È il crollo fisico per lo stress. Lo portano a casa dove muore tenendo il figliolo per mano. Poco tempo dopo Emilie si risposa. Sceglie un pastore, il vescovo Edvard Vergérus, e con i figli va ad abitare nel palazzo vescovile. Ben presto Alexander, irrequieto e ribelle, litiga con il patrigno, burocrate e autoritario. La vita nella casa del pastore si fa impossibile, anche perché Emilie è vessata dagli altri membri della famiglia del vescovo: la madre Blenda e la sorella Henrietta. C’è anche la presenza dolorosa e lugubre di una sorella del vescovo, Else, costretta a letto da una malattia. Alexander ogni tanto vede il fantasma del padre che lo rassicura e lo conforta. Il fantasma appare anche a Helena e a Emilie. Maj va a trovare Helena e le confessa di aspettare un bambino. Emilie fa la stessa cosa. Intanto in casa Vergérus la situazione precipita. Il vescovo punisce severamente Alexander per una lieve mancanza. Lo percuote, lo rinchiude in uno sgabuzzino. Torna la mamma, lo abbraccia e piange. Arriva a casa Vergérus il buon Isak che con uno stratagemma riesce a rapire i bambini, portandoli a casa sua, dove vive con i figli Aron e Ismaele. Quest’ultimo è segregato perché considerato anormale e pericoloso. In un’atmosfera magica Ismaele induce Alexander a immaginare la morte del vescovo. L’evento si verifica davvero. Emilie infatti dà al vescovo il sonnifero da bere dicendogli: «Ti addormenterai e quando ti sveglierai non ci sarò. Tornerò dai miei bambini a casa mia». Per disgrazia la malata, Else, fa rovesciare un lume provocando un incendio. Il vescovo, in preda al sonnifero, non riesce a sottrarsi alle fiamme e soccombe. Siamo di nuovo a casa di nonna Helena. Si fa festa anche questa volta. Sono nate infatti due belle bambine, la figlia di Emilie e la figlia di Maj. Alexander e Fanny, che hanno ritrovato gli amati giocattoli, lanterna magica compresa, si ristorano con un ricco gelato. Si ripresenta al ragazzo il fantasma del padre, ma anche quello del vescovo, dal quale, anche se cresciuto, egli non riuscirà mai a liberarsi. Gustaf fa il discorso di prammatica. Ma sono Helena ed Emilie a prendere le redini della famiglia. Incoraggiano Maj a recarsi a Stoccolma con la figlia diciassettenne di Gustaf per aprire una boutique e decidono di tornare tutte e due a recitare in teatro. Cominceranno con Il sogno di Strindberg. Alexander ha ascoltato. Poggia la testa sul grembo della nonna che comincia a leggere per lui: «Tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono, l’immaginazione fila e tesse nuovi disegni».

Alexander è, naturalmente, Ingmar Bergman. Nonna Helena è l’amata nonna di Bergman. La casa è proprio quella casa di Uppsala, sulla silenziosa Tradgardsgatan, a due passi dalla Cattedrale che ogni

tanto faceva sentire i rintocchi delle campane, cui rispondevano, più fiochi, quelli della chiesa di Gunilla. Bergman ricostruì con amore sul set quelle cinque stanze e il loro contenuto (fot. 110 e 111): orologi, mobili antichi, tendaggi, tappeti, quadri dai colori cupi, tappezzeria rossa, addirittura la statua che da piccolo, nelle sue fantasie, vedeva muoversi e che vediamo muoversi ora, puntualmente, sullo schermo (fot. 112). Ricostruì meticolosamente il suo «mondo perduto di luci, profumi, suoni». Fu quasi un atto d’amore per la persona e per i luoghi in cui riusciva di tanto in tanto a rifugiarsi durante la tumultuosa infanzia.

FOT. 110

FOT. 111

FOT. 112

Nonna Helena, magistralmente interpretata da Gun Wallgren, è fin troppo giovane. È una nonnamamma, e rappresenta un po’ l’ideale di mamma che Bergman avrebbe voluto avere invece di quella che gli toccò, infedele al marito, oppressa dai suoi malanni, poco sensibile ai problemi dei

figli. Il bieco e ipocrita pastore Vergérus (fot. 113) (questo nome – come in Il volto e in L’uovo del serpente e altrove – è anche qui associato a un personaggio negativo) è il vero padre di Bergman. Fra tutti i pastori rappresentati nella lunga filmografia, questo forse è il più drammaticamente grottesco, ma forse fra tutti è quello in cui più sinceramente Bergman ha ritenuto di immortalare il padre, quel padre-padrone che da lui è stato sempre rifiutato come un oppressore e che ha offuscato in lui per sempre il sentimento del rispetto e dell’amore filiale, rendendogli difficile anche accedere al concetto della paternità spirituale. Alexander- Ingmar non si è mai scrollato di dosso il fantasma del padre, che lo ha condizionato per tutta la vita. Non a caso il fantasma di Vergérus alla fine del film dice: «Non ti libererai mai di me». Oscar è, infine, il padre che Bergman avrebbe voluto avere: un uomo semplice, umano, pieno d’amore, appassionato di teatro.

FOT. 113

Pur prestandosi a numerose chiavi di lettura («un arazzo, un’immensa tappezzeria dove ognuno può scegliere cosa vuole vedere», lo definì l’autore), il film a prima vista si presenta come un apologo sul teatro e sul rapporto fra il teatro e la vita, un tema certamente non nuovo in Bergman, ma qui esplicitato più analiticamente e abbondantemente del solito. Il tema è annunciato fin dalle prime inquadrature, nel discorso che Oscar fa ai teatranti (fot. 114): «L’unico talento che io ho è quello di amare quel piccolo mondo racchiuso tra le spesse mura di questo edificio e soprattutto mi piacciono le persone che abitano qui in questo mondo piccolo. Fuori di qui c’è il mondo grande e qualche volta capita che il mondo piccolo riesca a rispecchiare il mondo grande tanto da farcelo capire un po’ meglio. In ogni modo riusciamo a dare a tutti coloro che vengono qui la possibilità, per qualche minuto, per qualche secondo, di dimenticare il duro mondo che è la fuori. Il nostro teatro è un piccolo spazio fatto di disciplina, di coscienza, di ordine e di amore». È l’apologia dell’arte come universo al quale le persone normali hanno dato in appalto il compito di aiutarli a liberare la fantasia. È un universo dove esiste anche il sacrificio: difatti Oscar muore. È un universo che non si può abbandonare: difatti Helena ed Emilie, alla fine, tornano sul palcoscenico. È un universo il cui fascino è irresistibile: difatti il piccolo Alexander-Ingmar e Fanny non resistono al richiamo dell’incantato mondo mostrato dalla lanterna magica (fot. 115). Bergman riprende il tema pirandelliano del rapporto tra arte e vita, fra teatro e vita. E nello stesso tempo riprende il tema della maschera-persona, cui palesemente si riferiscono Emilie e Vergérus in uno dei loro scarni, freddi dialoghi. Vergérus, in tutta la sua negatività, è prigioniero della sua maschera perversa. Ma il tema della maschera-persona torna nel suo risvolto misterioso, quasi magico, anche nell’incontro tra Alexander e Ismaele. Questi gli dice: «Forse siamo la stessa persona, forse passiamo l’uno nell’altro… Entro in te. Sono in te, tuo angelo custode». Lo stesso Ismaele è uno ma anche duplice, nel singolare aspetto lievemente ermafrodita.

FOT. 114

FOT. 115

Il tema della famiglia domina il film. È memorabile la breve sequenza di Helena che guarda dalla finestra e dice con infinita dolcezza: «Ecco la mia famiglia che arriva». Bergman celebra in questo film la bellezza di una famiglia felice. Poco importa se ciascuno dei membri ha i suoi difetti, ha i suoi dolori. La famiglia in sé, l’atmosfera della famiglia dà la felicità. Si sente qui tutta la nostalgia

di un uomo, il regista, che nella vita non ha mai potuto provare pienamente questa gioia, questa felicità. Non l’ha provata, ma la conosce, la sente, la desidera. Così ascoltiamo Oscar che prima di morire dice alla moglie, e ai figli: «Non c’è nulla che possa separarmi da voi né adesso né dopo. Io lo so, lo vedo con estrema chiarezza. Penso che potrò esservi più vicino che in vita». Bergman torna sul tema della vita oltre la morte, e sembra risolvere positivamente il suo dubbio esistenziale. Ma altri personaggi, in altri momenti, continuano a mettere in dubbio la trascendenza. Alexander stesso si lascia sfuggire a un certo punto un’esclamazione quasi blasfema. In realtà, ancora una volta, Bergman inserisce nel suo cinema il discorso religioso. Nega con forza qualsiasi possibilità di accedere alla trascendenza attraverso la burocrazia clericale offerta da un certo tipo di protestantesimo. Ma nega con altrettanta energia che sia possibile sbarazzarsi con facilità del fantasma di Dio. II Dio sconosciuto, che se ne sta in silenzio e rifiuta di comunicare con gli uomini, deve pure lasciare qualche segno sulla terra. L’unica strada per seguire queste possibili tracce è comunque l’amore. Il dubbio sull’al di là non ci autorizza all’egoismo e all’indifferenza. E poi bisogna accontentarsi di quello che c’è attorno a noi senza pretendere tanti bagliori d’infinito. Lo ripete Gustaf, il superficiale Gustaf, nel discorso finale: «Noi non siamo venuti al mondo per scrutarlo a fondo. Non siamo preparati per queste indagini. La cosa migliore è mandare all’inferno i grandi contesti. Ecco, noi vivremo in piccolo nel piccolo mondo e lo coltiveremo e useremo nel modo migliore. La morte colpisce all’improvviso. E all’improvviso si spalanca l’abisso e infuria la tempesta e la catastrofe ci sovrasta. Noi tutto questo lo sappiamo, ma ci rifiutiamo di pensare a queste cose sgradevoli… Attori, attrici, abbiamo un immenso bisogno di voi, perché sarete voi che ci darete brividi di soprannaturale e soprattutto anche i nostri piaceri terreni. Il mondo è una tana di ladroni e la notte sta per calare. Il male vaga per il mondo come un cane impazzito e tutti ne siamo contaminati. Nessuno sfugge, neppure lei, Helena, neppure la piccola Aurora. Per questo dobbiamo essere felici quando siamo felici ed essere gentili, generosi, teneri, buoni. Proprio per questo motivo è necessario gioire di questo piccolo mondo, della buona cucina, dei dolci sorrisi, degli alberi da frutto in fiore e anche di un valzer. Tengo in braccio una piccola, dolce imperatrice. È una cosa tangibile eppure incommensurabile. Un giorno mi dimostrerà che ho avuto torto in tutto quello che ho detto ora. Dominerà non solo sul piccolo mondo, ma su ogni cosa». Dov’è il cosiddetto pessimismo bergmaniano? Ecco un inno alla vita, tanto più convinto quanto più viene messo sulle labbra del Gustaf di turno, certamente non un maestro, certamente non un sapiente. Fanny e Alexander racconta tutto questo e suggerisce tante altre cose in una forma estremamente raffinata. La fotografia è quella eccezionale di sempre. L’uso del colore, con la dominante rossa già apprezzata in Sussurri e grida per le scene di famiglia e con la dominante grigia che richiama quasi il bianco e nero per le scene nella casa del vescovo, è intelligente e misurato. La musica è usata in modo rigorosamente funzionale: brani del Notturno op. 27 n. 1 di Chopin, delle Suites per violoncello (op. 72, 80 e 87) di Britten e del Quintetto per pianoforte in fa maggiore di Schumann. Gli attori meravigliosi fanno il resto. Insieme con uno stuolo di tecnici, arredatori, pittori, carpentieri costituiscono un’équipe di rara compattezza ed efficienza. «C’è una soddisfazione quasi sensuale – ha scritto Bergman – nel lavorare a contatto con persone forti, autonome e creative… Mi capita di provare una forte nostalgia di tutto e di tutti. Capisco quel che intende dire Fellini quando afferma che il cinema è per lui un modo di vivere… A volte è una particolare fortuna essere regista cinematografico»133. Dopo la prova

Il congedo dal cinema non era, evidentemente, definitivo. Nel 1983 Bergman diresse ancora un’opera, scritta però tre anni prima, cioè prima di Fanny Alexander. Si tratta di Dopo la prova, un film della durata di un’ora e dieci minuti, realizzato per la televisione, ma presentato a Cannes e distribuito come un film normale, dapprima nelle sale e poi per l’home video. È un film di attori,

che rientra nella tradizione del “cinema da camera” con pochissimi personaggi, in cui si presta più attenzione ai pensieri e agli atteggiamenti che agli eventi. I tre interpreti sono di grande classe, e molto affiatati con Bergman: un impareggiabile Erland Josephson nel ruolo di un anziano regista in vena di ricapitolare i pro e i contro della vita e dell’arte (a volte ricorda il Lancaster di Gruppo di famiglia in un interno [di Luchino Visconti, 1974], a volte il Sjöström di Il posto delle fragole), una disfatta Ingrid Thulin in una superba caratterizzazione e una acerba Lena Olin in qualche modo nella parte di se stessa. Siamo sul palcoscenico di un teatro «dopo la prova». Un uomo dorme con la testa poggiata su un copione, a sua volta poggiato su una scrivania. Accanto a lui, pochi oggetti (un libro, una tazzina da caffè, un bicchiere). È il noto regista Henrik Vogler, che sta curando per la quarta o quinta volta la messa in scena del Sogno di Strindberg. Ascoltiamo la sua voce fuori campo che dice: «Dopo le prove mi trattengo volentieri sul palcoscenico. Mi serve per riflettere in pace e con calma sul lavoro della giornata. È nell’ora del crepuscolo che piomba il silenzio sul grande teatro». Entra una giovane donna, un’attrice di nome Anna. Interpreterà un ruolo importante: quello di Agnes, la figlia di Indra. Ha perduto un braccialetto. Tra i due si intreccia un dialogo banale, sovrastato, nella colonna sonora, dalla voce che espone fuori campo i pensieri dell’uomo: «Voglio che tu te ne vada». Lei gli parla del padre e della madre, attrice anch’ella. «Era una stupenda donna», dice lui. Lei ricorda che la mamma è morta alcolizzata e dichiara di averla odiata. I due parlano della vita oltre la morte. Poi il regista parla dei problemi della rappresentazione, mentre la voce fuori campo denuncia l’«assurda retorica» di un teatro ridotto a «una convenzione che si è inaridita da sola». In un breve flashback lo rivediamo bambino, rannicchiato tra due riflettori. Poi esorta la giovane attrice a «liberarsi della sua attrice privata». Intenzionato a recarsi a riposare in albergo, il regista si mette il cappotto, ma poi se lo toglie. Resta con l’attrice, e la aiuta a entrare nel personaggio che dovrà interpretare. Le parla della morte, dell’infanzia, del rapporto del regista con gli attori e con gli spettatori. Lei parla ancora dei genitori, dei loro litigi. A questo punto le fantasie di Henrik e di Anna si materializzano. Entra in scena Rakel, la mamma di Anna morta alcuni anni prima. Provoca Henrik, lo invita a fare l’amore. Lo rimprovera per averle affidato una parte troppo breve. Piange, lamenta di trascorrere la vita in ospedale tra una crisi e l’altra. Riferisce di un litigio col marito. In un angolo del palcoscenico si vede la figuretta di Anna a dodici anni. Rakel continua a compiangersi per il fallimento come donna e come attrice. Ammette di aver picchiato la figlia, che si rifugiava tra le braccia del papà. Chiede a Henrik di avere fiducia in lei ancora una volta, ma egli la respinge implacabilmente. Ma poi la esorta ad andare a casa, a renderla accogliente per lui che la raggiungerà poco dopo. La segue per alcuni passi, la chiama per nome. Ascoltiamo i suoi pensieri: «Le cose di sempre che si ripetono. Andarle dietro e chiamarla per nome. E poi di nuovo menzogne e inutili riconciliazioni, coscienza in subbuglio, paura, maledizioni represse e infine la pietà: sempre lo stesso meccanismo». Il terzo dialogo è ancora tra Henrik e Anna. Ella, ci fa capire Bergman, potrebbe addirittura essere sua figlia. Il regista le dice di provare per lei un sentimento d’affetto, forse d’amore. Lei gli fa intendere di essere incinta di un certo Johan, e lui reagisce temendo che questo mandi all’aria lo spettacolo. Poi cambia idea. Lei gli fa balenare l’idea di un aborto e lui risponde che per il teatro non vale la pena. Ma lei incalza, dicendo che ha già abortito per accontentare Johan. Lei lo bacia. Lui le confida la sua solitudine, poi rievoca una vita insieme che non c’è mai stata, esperienze avute insieme soltanto nella fantasia, quasi cercando un alibi all’impossibilità di approfondire il rapporto con lei. Si lasciano, lei ha una prova alla radio. «Non voglio che tu sia triste», dice. Henrik resta solo, anche se in compagnia dei fantasmi che attraverso il tempo hanno affollato il teatro e che non lo abbandoneranno mai. «La cosa che più mi preoccupa in questo momento – lo sentiamo riflettere – è che non ho potuto sentire le campane della chiesa».

Dopo la prova è un esemplare tipico di teatro televisivo, di teatro filmato per la televisione, di teatro da camera filmato per la televisione con la tecnica del cinema da camera. Opera dura, ostica, nulla lascia allo spettacolo, nulla alla distrazione. La sua struttura rigidamente geometrica si risolve in una triangolazione di rapporti e pertanto di dialoghi. Il primo dialogo è tra l’uomo e la giovane che potrebbe anche essere sua figlia (fot. 116); il secondo è tra l’uomo e la sua ex amante, madre della giovane (fot. 117); il terzo è ancora tra l’uomo e la giovane (fot. 118). Nulla turba questa triangolazione, fuorché due brevi immagini retrospettive in cui vediamo dapprima Henrik bambino, poi Anna bambina. Alle tre voci, però, se ne aggiunge una quarta, quella fuori campo che ci riferisce i pensieri di Henrik, sempre devianti rispetto alle sue parole.

FOT. 116

FOT. 117

FOT. 118

Senza dubbio, in questa breve rappresentazione si riassumono tutti i temi della poetica di Bergman. Sicuramente Dopo la prova ne costituisce in qualche modo una sintesi, una ricapitolazione. Questa volta Bergman non si nasconde dietro un personaggio qualsiasi, ma dietro una sua evidente controfigura. Ascoltandolo pensiamo di ascoltare Bergman stesso. E con sincerità, a questo punto, il regista espone alcuni suoi punti di vista già accennati, forse più oscuramente, in altri film. Vediamo, per esempio, cosa dice degli attori: «Li amo molto, li amo per quello che sono – confida ad Anna mentre le insegna come si recita una scena –: il coraggio, la serietà professionale e il disprezzo della morte che sembrano avere. Capisco la loro forza e anche la lealtà difficile e brutale. Mi affascinano quando cercano di manipolarvi e in quel momento provo invidia per la loro buona fede e la chiaroveggenza. Li amo con tutte le mie forze, perciò non potrò mai far loro del male»134. D’altra parte tutto il film è un atto d’amore per il palcoscenico, la finzione scenica, il teatro e il cinema. «Una volta mi hai detto che recitare è un’esigenza morale», gli dice Anna. Il palcoscenico, il teatro serve a Bergman come metafora della vita, e nei fantasmi che affollano il palcoscenico il regista, attraverso le parole di Henrik, ci fa riflettere sulla vita oltre la morte e sulla corrispondenza d’amorosi sensi tra i vivi e i morti. Rakel, morta, torna a vivere per un poco sulle tavole di legno. Anna domanda a Henrik se crede che la mamma soffra del suo odio anche se è morta, ed egli risponde di sì. L’affermazione dell’inizio («È nell’ora del crepuscolo che piomba il silenzio nel grande teatro») fa intendere come al tramonto della vita tacciano le voci abituali e ci si ponga in ascolto di voci diverse, interiori, misteriose. Nel protagonista del film è avvenuto un cambiamento,

una conversione. Un tempo, ci riferisce Anna, egli sosteneva che la vita terrena è l’unica possibilità: il prima e soprattutto il dopo non esistono che nella fantasia. Ora invece dice: «Alla mia età succede che uno si chini in avanti e si ritrovi improvvisamente con la testa sprofondata in un’altra realtà dove i morti non sono più tali e i vivi appaiono come tanti spettri. Ciò che un momento prima sembrava chiaro diventa bizzarro e del tutto incomprensibile. Ascolta il silenzio di questo palcoscenico: quanta energia spirituale vi è racchiusa». La vita è il palcoscenico, ed è ricca di energie spirituali. Sta all’uomo affrontarne la ricerca e uscirne privo della paura, della disperazione, dell’angoscia esistenziale. È questo il consueto approccio bergmaniano con il problema dell’al di là, e per l’ennesima volta egli non offre ricette valide per tutte le latitudini. Si limita a raccontare, ma ancor più del solito scava in profondità, provoca l’intelletto dello spettatore fino a costringerlo alla complicità. «Gli attori e gli spettatori – dice, suggerendoci come nella vita noi siamo di volta in volta gli uni o gli altri – sono le uniche cose necessarie, quelle che veramente contano perché il miracolo avvenga. Questa è la mia convinzione, anche se poi finisco sempre col non seguirla sempre. In realtà sono troppo legato a questo vecchio, polveroso, schifoso strumento»135. Nella vita, il problema consiste nella persona, intesa come “maschera”. È interessante l’invito che il regista rivolge ad Anna di liberarsi dell’«attrice privata». «Senza la mia piccola recita personale – risponde lei – come potrei difendermi dal mondo?». Ma sul palcoscenico le cose sono più semplici, quando c’è il regista che aiuta a interpretare una scena. Nella vita è diverso: pesano, prima di tutto, le abitudini prese durante l’infanzia. «Da bambini – lamenta Anna – si è sottomessi, poi si va avanti così perché tutto è più facile». Ci sono in questa prospettiva molti dei consueti ascendenti filosofici di Bergman, ma c’è, in modo molto insistente, Pirandello. Viene in primo piano il discorso del teatro nel teatro, del rapporto fra teatro e vita, dell’ambiguità delle cose, dei concetti, delle idee. Il monologo sulla forcina per capelli che sembra due aghi con una sola cruna sembra il monologo pirandelliano dell’uovo nel primo atto di Il giuoco delle parti. Poi Bergman arricchisce di senso la metafora rivivendo un’esperienza dell’infanzia: l’attore non ha in mano alcuna forcina, ma lo spettatore vede la forcina. Che cosa è vero e che cosa è finzione scenica, sul palcoscenico e nella vita? Qui tuttavia Bergman lascia sfuggire al suo protagonista una frase chiave per uscire dall’ambiguità: «L’unico modo per avvicinarsi all’infinito è quello di superare il dubbio». Lo dice parlando del suo lavoro di regista, ma rimanendo nella metafora l’allusione è ricca di significato. E lo dice in un contesto narrativo in cui è onnipresente il pensiero della morte. A Henrik fa male una gamba. «È la morte – egli dice – che mi rosicchia come un acido topo». D’altra parte il nodo narrativo dell’attrice costretta a scegliere fra il teatro e il bambino viene sciolto da Bergman con un inno alla vita quando egli nell’autobiografia conclude: «Viste da una prospettiva più ampia le nostre fatiche teatrali sono piuttosto prive di senso. La nascita di un bambino porta con sé, almeno, una minima parvenza di significato. Lena Olin era contenta. Io mi rallegrai della sua gioia»136. Il segno

Per la televisione, Bergman diresse nel 1986 un altro film, Il segno. È un’opera importante, tutt’altro che “televisiva”, che purtroppo ha circolato pochissimo. Dimostra la grande vitalità artistica del regista a dispetto dell’età avanzata. Una donna, di nome Viveka, si avvia verso l’ingresso della Cattedrale di Uppsala. Entra, percorre la navata gotica e si avvia verso l’altare. Nella chiesa c’è un uomo, Sune, con la testa tra le mani, in atteggiamento di preghiera o di riflessione. La donna si fa il segno della croce, l’uomo le si avvicina, è dietro di lei. «Lei crede sinceramente in Dio?», le domanda. «Non si può vivere senza Dio», risponde Viveka. Sune risponde: «È vero, nessuno esisterebbe senza un Creatore». «Anche lei è un vero credente?», domanda Viveka. Sune si siede e si prende di nuovo la testa tra le mani. Lei gli si avvicina con un gesto consolatorio. Li rivediamo in treno. Raccontano la loro vita. Viveka è figlia di un pastore, Sune ha avuto un pastore per

nonno. Ma il padre non se la sentì di seguirne le orme e preferì «passare all’ala», lasciando al figlio il difficile compito. «Mi parlava sempre di Gesù», dice Sune. «Sei bella quando sorridi», dice poi alla donna. Viveka lamenta di avere «un occhio scuro» (il segno del titolo). Ma la macchia non influisce sulla vista; è soltanto una questione estetica. Sune continua a raccontare. La mamma morì giovane. Col padre egli era felice, ma anche il padre morì, proprio l’anno in cui egli doveva iscriversi all’università. Allora cominciò a lavorare in una segheria. Ora insegna in una scuola di artigianato. Li vediamo ora a casa di lei, a letto. È Viveka a raccontare ora. C’era un cuscino in giro per la sua casa quando era piccola: niente di straordinario, ma c’era ricamato l’occhio onniveggente di Dio, che sembrava guardarti in qualunque punto della stanza ti trovassi. «I miei non si aspettavano niente di buono da me. La mia sorellina era brava, era eccezionale, ma sono io che poi mi sono laureata. Una volta mi innamorai, ma lui tagliò la corda. L’amore è scomparso dal mondo. Non può più esistere sulla terra. Non c’è più spazio per l’amore, e nemmeno tempo». «Ma deve esistere – risponde Sune. – Non si vive senza amore». La donna gli chiede se egli sia mai stato innamorato e l’uomo risponde che non gli è mai capitato. Lei gli mostra il cuscino con l’occhio di Dio. Sette anni dopo li ritroviamo ancora a casa insieme. Si sono sposati. Sune sistema alcuni fiori e prepara una composizione di candele accese per celebrare l’anniversario del matrimonio. Sveglia Viveka, che però dice che preferirebbe non celebrare le ricorrenze. Ma Sune insiste e porta alla moglie un regalo: una coperta di piume. Servirà quando in estate andranno in montagna. Lei, mentre Sune non la vede, scopre nel pacco una ciocca di capelli biondi e la nasconde nel risvolto del lenzuolo. Viveka e Sune fanno colazione insieme. Discutono sull’opportunità di un viaggio a Uppsala dopo sette anni. Lei è contraria. Suona il campanello ed entra la sorella di Viveka, Annika. È venuta per augurarle buon compleanno. Non si tratterrà. Il marito Magnus e i bambini la aspettano in macchina. Viveka non è lieta della visita: «Non capisco perché debba essere costretta a celebrare i compleanni quando non ne ho voglia». Viveka ha un velo nero sul capo. Sune la invita a parlare, a sfogarsi, perché «ha sempre funzionato». Viveka conferma il suo odio per le ricorrenze e dice a Sune di aver voglia di picchiarlo: «La stessa cosa di quando sputai in faccia a Dio sul cuscino e poi cominciai a picchiarlo. Una bambina che vuole uccidere Dio è inevitabile che finisca male». Poi accusa il marito di tradimento, lamenta che «l’amore sta morendo». «Come puoi dire – replica Sune – una cosa così brutta? Nel bene e nel male: così è scritto». «E il tuo corpo è il mio corpo…» aggiunge Viveka, ma poi continua a accusare il marito di trascuratezza. Egli spezza le candele su uno sgabello. Viveka lo invita a divorziare e a rifarsi una vita. Dice di essere nata contaminata dal maligno e di non potersene liberare. «Non ti lascerò mai – risponde Sune. – Tu sei nel giusto, vedi le cose nella vera essenza. lo ho la testa fra le nuvole. Forse è vero che ho amato le candele più di te, ma solo per un attimo. Tu sei più vera». Viveka torna a casa dopo la spesa e non trova Sune, che arriva poco dopo mentre lei sta parlando con un inquilino. Lei cerca di ingelosire il marito. Nel bagno Viveka si specchia. Parlando col marito cita il Vangelo: «Se il tuo occhio destro…». Poi gli rinfaccia ancora l’infedeltà. Lui la picchia, poi si abbracciano. Viveka e Annika si scambiano impressioni sulla vita matrimoniale. Viveka si scusa con la sorella per il fatto di andare di rado a trovarla. Annika riferisce di un suo incontro con Sune, Viveka si ingelosisce. «Non sei tu che te la passi peggio – dice Annika, – è lui che finisce in pezzi». Viveka la picchia. Dalla buca delle lettere escono fotocopie di disegni di occhi. Viveka toglie il baldacchino del letto lamentando che qualcuno ogni notte fa cadere su di lei e sul marito dell’arsenico. Poi appende al soffitto un ombrello come riparo. «Ormai sono dappertutto – dice Viveka, – mi alitano sul collo. Ma non oseranno impadronirsi di me finché avrai fede in me». Chiede al marito di seguirla nella sua follia, portando come lei gli occhiali neri, dormendo come lei nel ripostiglio. Sune si mette gli occhiali neri. Viveka, nello sparecchiare la tavola, tocca la parete e se ne ritrae spaventata. Dice di aver sentito una scossa elettrica. «Niente può fermarli – dice Viveka, – il mondo è come un lupo». «Ma noi abbiamo scelto l’amore», dice Sune. «Ti metteranno alla prova e dovrai scegliere me o il mondo – replica Viveka. – Stanno cercando di uccidere l’amore che è in noi. Il mondo sta cercando di separarmi da te. Amore, vieni a dormire qui dentro». Sune la segue nel ripostiglio dove appeso alla parete c’è il cuscino con l’occhio di Dio. I due sono chiusi in casa da due giorni e non hanno più da mangiare. Viveka esorta il marito a mettere la testa nell’armadio per evitare la pioggia di arsenico. Sune riesce a convincerla che è opportuno comprare qualcosa da mangiare e esce. Lei intanto si arrovella pensando a suoi possibili tradimenti. Prende in mano un coltello e telefona alla polizia dicendo che il marito vuole ucciderla. Arriva la polizia e la arresta. La donna viene ricoverata in un ospedale e a Sune non è permesso di vederla. Parlando con il medico Sune cerca di convincerlo che Viveka non è pazza e chiede che venga dimessa. Al dottore Viveka si rivolge con queste parole: «Stiamo vivendo gli ultimi giorni della creazione. C’è l’odio che regna adesso. Tutta la Svezia è retta da bande di poliziotti, arrivisti, arrampicatori sociali che hanno un unico desiderio: uccidere l’amore ovunque si manifesti. Chi ha il coraggio di andare all’inferno per amore di un altro?».

Annika dice a Sune che Viveka in realtà è sempre stata un po’ strana e lo esorta a cercare di non essere contagiato dalle sue idee. «Vedo che il mondo sta crollando – risponde lui, – il vero pericolo sta nel non fare niente». Poi Sune va alla scuola, parla con una bidella, si avvicina alla lavagna e scrive KARLEKEN BESEGAR ALL, «L’amore vince tutto». Tornato in casa, Sune prende un pennello e con il manico di legno si ferisce l’occhio destro, con l’intenzione di provocarsi una macchia come quella immaginaria della moglie. Poi va all’ospedale ed entra di soppiatto nella stanza della moglie. «Ho superato la prova – dice – ci sono riuscito». Di nascosto fa uscire la donna dall’ospedale, dopo averle fatto lasciare lì gli occhiali neri, perché, dice, «non ne abbiamo più bisogno». A casa Sune finisce di scrivere una lettera al dottore: «L’amore non può sopravvivere in questo momento e noi due dobbiamo morire. La morte è la nostra vittoria. Chiediamo di essere sepolti insieme, nella stessa bara». Sune spegne due candele e apre il rubinetto del gas. I due coniugi si sdraiano uno accanto all’altro in attesa della morte.

Il film è un brillante rompicapo. Procede per paradossi e mescola lucidità e follia, fede e sfiducia, realtà e immaginazione. La pazzia di Viveka nasce dal terrore di essere contaminata dal maligno e di non riuscire a salvare l’amore che è nel mondo. Sune ama la donna senza alcun limite, e non si ritrae neanche di fronte alla decisione di condividere completamente la sua follia. A suo modo questo è amore, l’amore che muove il mondo e che a dispetto del maligno dal mondo non scompare. Ma il suicidio è la negazione dell’amore, dell’amore di Dio, e i due sono credenti, dicono al principio. Come è possibile che il più sublime atto di amore sia a sua volta la negazione dell’amore? La follia di Viveka richiama alla mente quella di Karin in Come in uno specchio, ma anche i terrori che portano Jonas al suicidio in Luci d’inverno. La risposta a questa follia, da parte di Sune, non riesce a essere altro che una risposta d’amore totale. Ma alla fine dell’itinerario non c’è che la distruzione. La conclusione in qualche modo è già nelle premesse. I due, all’inizio del loro rapporto, scelgono di allontanarsi dal mondo. Dopo l’incontro nella chiesa, come apprendiamo più tardi dal colloquio tra Sune e il dottore, decisero di abbandonare tutto e tutti e di condurre una vita vagabonda lungo la costa. «Voleva allontanarsi dal mondo – dice Sune, – evitare il contatto con la gente. Dormivamo all’aperto, accettavamo tutto ciò che Dio ci mandava. È stata un’esperienza bella». Già c’era l’errore, l’equivoco. I due costruivano un rapporto d’amore allontanandosi dagli altri, e in qualche modo premiando il loro egoismo. Il mondo si sarebbe vendicato, nella realtà o nell’immaginazione di Viveka, di questa fuga. Non si può vivere senza gli altri, non si può ignorare il prossimo. L’amore che diventa egoismo contraddice se stesso. Bergman rimescola in questo film di ampio respiro molti dei temi a lui cari, e li ripropone all’attenzione del pubblico senza pretendere neppure stavolta di indicare soluzioni di comodo. Vuole inquietare le coscienze, scuotere certezze, mettere in guardia contro le visioni semplicistiche della vita. Ma un messaggio preciso, a ben guardare, c’è, ed è il seguente: non è possibile chiudere gli occhi, non ci si può tirare indietro, non ci si può chiudere nel proprio mondo privato. «Il vero pericolo – dice Sune – sta nel non fare niente». È questa, in sostanza, la battaglia ideale combattuta da Bergman in quasi mezzo secolo di cinema: convincere il prossimo che, di fronte a un mondo in cui si cerca di uccidere l’amore, a nessuno è consentito dimenticare i suoi doveri verso gli altri. E niente va tralasciato, ignorato. Brandelli di verità si annidano perfino nella follia, anche perché, come si sente dire nel film, «le cose non sono mai folli per se stesse. Lo sono soltanto se viste dal di fuori». Conclusione

Rivisitato a distanza, il cinema di Ingmar Bergman risulta ancora più importante di quanto non sia sembrato a suo tempo. È un patrimonio di suoni e di immagini destinato a durare a lungo. È un cinema che pone problemi, che obbliga alla riflessione, che in qualche modo tormenta e inquieta. È cinema tipico della nostra epoca post-illuministica caratterizzata dalla caduta di molte certezze e dalla ricerca affannosa e difficile di valori duraturi al di là delle ideologie e delle mode culturali. Bergman ha avuto come pochi il coraggio di porsi, e di porre nei suoi film, il problema

fondamentale, quello del senso della vita, del destino soprannaturale dell’uomo. Da grande predicatore laico, non ha mai dato tregua allo spettatore. Lo ha costretto a interrogarsi su se stesso, sul significato delle sue azioni, sulla sua sincerità, sulla sua disponibilità nei confronti degli altri. Il cinema di Bergman è cinema di idee, è proposta di materiali di notevole spessore. Non se ne esce indenni. Ma Bergman non ha mai preteso di risolvere i problemi esistenziali del suo prossimo o di dissipare i dubbi. Anzi, ha fatto di tutto per insinuarli. Non possiamo considerarlo un credente in senso stretto, ma non riusciamo neppure a considerarlo un ateo. Al massimo, paradossalmente, potremmo parlare di un “ateo cristiano”, nel senso che, anche quando sembra negare ogni trascendenza, tuttavia la norma etica che propone e propugna con ostinazione è il comandamento centrale del cristianesimo: ama il prossimo tuo come te stesso. Il cinema bergmaniano è una appassionata crociata contro l’egoismo. Fra tutti i peccati, ci dice, il peggiore è tirarsi indietro, chiudersi in se stessi, rinunciare a combattere. Nei film di Bergman si parla continuamente di Dio, per affermarne o negarne l’esistenza. L’ateismo che occhieggia qua e là è, per dirla con Ayfre, «un ateismo che ha cattiva coscienza e che s’interroga. In un certo senso è un rimpianto dell’assenza»137. Bergman vorrebbe che Dio ci fosse perché solo lui può liberare l’uomo dalla prigione, impedendogli di dissiparsi in una sterile rivolta, di cristallizzarsi in un orgoglio senza speranza, di degradarsi nel vizio. Se Dio non c’è, se Dio non risponde, allora il mondo è privo di senso, è quella «favola narrata da un idiota, piena di fracasso e di furore, e che non significa niente» di cui si parla nel Macbeth di Shakespeare. È difficile trovare un’ispirazione così elevata nel cinema contemporaneo. Vengono in mente pochi nomi: Rossellini, Fellini, Olmi, Bresson, Dreyer. E viene in mente, prima di tutto, quanto diceva Rossellini circa la «posizione morale» che era alla base del neorealismo e che può essere la molla del cinema migliore. Anche Bergman faceva e fa del cinema con uno scopo preciso: quello di scuotere le coscienze. Alla nobiltà dell’ispirazione corrisponde una rara capacità di coniugare la qualità dei film con la loro accessibilità al pubblico. Bergman, regista-filosofo, è anche un grande narratore, un grande incantatore. Conosce le regole della poesia per immagini. Confeziona i film con grande eleganza e come pochi altri riesce via via a creare atmosfere dalle quali lo spettatore resta coinvolto a lungo, ben al di là delle due ore di proiezione. Le sue opere sono costruite con geometrica perfezione secondo un sapiente gioco di incastri. Si possono leggere a diversi livelli, e ogni chiave di lettura ha una sua precisa autonomia stilistica. Ogni film di Bergman è ricco di simbologie, ma ogni film di Bergman può essere gustato tranquillamente anche senza badare ai simboli. Al di là della magia delle immagini, quello di Bergman è e rimane prevalentemente il regno della parola. I suoi personaggi parlano molto, tutto viene filtrato attraverso una serrata dialettica. Ciò deriva ovviamente dall’attaccamento di Bergman al teatro, ma sarebbe ingiusto sopravvalutare questa propensione quasi declassando il cinema a modalità espressiva di riporto. Grande interesse meriterebbe invece un approfondimento del modo in cui Bergman ha saputo trovare un equilibrio interdisciplinare tra cinema e teatro, e ancor più tra cinema, teatro e televisione. Cinema povero, riesce a trarre significato da qualunque cosa: un insetto che sbatte contro una finestra, una finestra aperta su un panorama, lo spezzone di una vecchia comica, una statua, una strada innevata, il volto ripreso in primissimo piano. Bergman è maestro, nello studio dei volti umani. Dai suoi attori riesce a ottenere il massimo possibile grazie a una sapiente illuminazione che genera un gioco sottile di luci e di ombre. D’altra parte la confidenza con i suoi attori abituali è tale che egli ne conosce ogni espressione, ogni sguardo, ogni smorfia. «La presenza del volto umano è senza alcun dubbio il contrassegno che caratterizza il cinema», ha detto una volta138. Cinema povero ma nobile, cinema colto ma non elitario, cinema che avvolge l’uomo nella sua totalità, senza risparmiargli provocazioni e problemi, rimane opera aperta alle diverse

interpretazioni, opera che non merita di essere archiviata ma studiata, opera destinata a nuova vita anche grazie all’home-video. Personaggio in qualche modo isolato, quasi sempre controcorrente rispetto alle mode susseguitesi nei suoi oltre quarant’anni di attività, caposcuola, dal cinema svedese ma senza allievi, Bergman continua negli anni Novanta a mettere in scena testi teatrali, a collaborare a opere cine-televisive, a fare progetti. Ed è rimasto coerente con quello che ha sempre raccomandato: «La cosa peggiore è l’indifferenza, il peccato peggiore è l’omissione, il disimpegno».           1        Ingmar Bergman, Lanterna magica, cit., p. 125. 2        Jörn Donner, Bergman come in uno specchio, cit., p. 90. 3        Alfonso Moscato, Ingmar Bergman. La realtà e il suo doppio, Edizioni Paoline, Roma, 1981, p. 34. 4        Alberto Pesce, Oltre lo schermo, Quaderni di Humanitas, Morcelliana, Brescia, 1981, p.128. 5        Claudio Sorgi, Prigione, «Rivista del cinematografo», n. 5, 1978, p. 210. 6        Renato Giovinazzo, Prigione, «Edav Educazione Audiovisiva», n. 62/63, 1978, p. 44. 7        «Da piccolo andavo matto per il mestiere di macchinista di treni, ed era abbastanza naturale, visto che abitavo vicino a una piccola stazione ferroviaria e avevo fatto amicizia col capostazione, un ometto serio e solitario che stava sempre nel suo ufficio. Mi facevano fare dei giri su una locomotiva grande. Tutto ciò che riguardava i treni mi affascinava molto. Nei miei film ci sono sempre molti treni. Sono una delle cose più divertenti che io conosca» (Jörn Donner, Bergman: «Sono un impostore», «Epoca», 14 luglio 1971, p. 83). 8        Ernesto G. Laura, Il primo Bergman: faticosa nascita di uno stile, «Bianco e nero», n. 8/9, 1964, p. 72. 9        Jean-Luc Godard è innamorato di questo film, peraltro piuttosto ignorato dalla critica. Lo cita, tra l’altro, quando mette a confronto Bergman con Visconti: «Per un uomo di enorme talento come Visconti fare un ottimo film è, in fin dei conti, questione di ottimo gusto. È sicuro di non sbagliare e, in una certa misura, la cosa è facile. La cosa difficile è invece avventurarsi in terra sconosciuta, riconoscere il pericolo, rischiare, avere paura. È sublime il momento in cui, nelle Notti bianche, la neve cade a larghe falde attorno alla barca di Maria Schell e Marcello Mastroianni! Ma questo sublime non è nulla a confronto del vecchio direttore d’orchestra di Verso la gioia che, steso sull’erba, guarda Stig Olin osservare pieno d’amore Mai-Britt Nilsson sulla sedia a sdraio e pensa: “Come descrivere uno spettacolo così bello!”» (Jean-Luc Godard, Il cinema è il cinema, Garzanti, Milano, 1981, p. 103). 10     Ingmar Bergman, Lanterna magica, cit., p. 148. 11     «Fu il primo film – ha dichiarato Bergman a Jörn Donner (Bergman: «Sono un impostore», cit., p. 85) – in cui cominciai a sentirmi veramente in grado di esprimermi. Era già parecchio che dirigevo film. A quell’epoca ero quel che si dice a digiuno di preparazione tecnica; anzi, dal lato tecnico, ero preoccupato, incerto e pasticcione. Però c’è una cosa da tener presente: che a quei tempi la tecnica era molto più complicata di oggi». 12     Alfonso Moscato, Ingmar Bergman. La realtà e il suo doppio, cit., p. 40. 13     Mario Verdone, Sommaren med Monika, «Bianco e nero», n. 11/12, 1961. 14     Giacinto Ciaccio, Monica e il desiderio, «Rivista del cinematografo», n. 11, 1961, p. 370. 15     Jean-Luc Godard, Il cinema è il cinema, cit., pp. 99 ss. 16     Alfonso Moscato, Ingmar Bergman. La realtà e il suo doppio, cit., p. 40. 17     Nino Ghelli, Due film di Bergman, «Rivista del cinematografo», n. 2, 1961, p. 58. 18     Guido Sommavilla, Lezione d’amore, «Letture», n. 4, 1961, pp. 300 s. 19     Ugo Finetti, Il mestiere del critico, Mursia, Milano, 1962, pp. 295 s. 20     Ingmar Bergman, Lanterna magica, cit., p. 163. 21     «In tutto il film si avverte un barocchismo caro a Cocteau, che non ha molto a che spartire con la coerenza stilistica del soggetto» (Angelo Solmi, «Oggi», 5/12, 1957).

22     Alfonso Moscato, Ingmar Bergman. La realtà e il suo doppio, cit., p. 43. 23     Ingmar Bergman, Lanterna magica, cit., p. 246. 24     Amédée Ayfre, Contributi a una teologia dell’immagine, Edizioni Paoline, Roma, 1966, pp. 155 ss. 25     Nino Ghelli, Il settimo sigillo, «Rivista del cinematografo», n. 3, 1960, p 96. 26     Ha scritto sulla «Rivista del cinematografo» (n. 5, 1960, p. 166) Renato Buzzonetti: «In quelle immagini di pacata bellezza si fa presente una esemplare sintesi della condizione umana, dove l’uomo coglie, insieme al limite della sua esistenza e all’ansia della sua inesausta ricerca, la gioia della vita, il gusto del latte e delle fragole, la grazia di un bambino, la tranquilla felicità di un prato verde». 27     In Dramma e rinascita del cinema svedese (Bianco e nero editore, Roma, 1954, pp. 268 ss.) Bengt Idestam-Almquist scrive: «Il comico Poppe è una delle rivelazioni del film svedese, forse il più conosciuto ambasciatore cinematografico della Svezia… Dal 1939 recitò in molti film, poi cominciò a poco a poco a scrivere e a realizzare da sé gli scenari, con lui stesso come protagonista. Come molti altri comici, è un uomo molto serio. Ha studiato profondamente i comici di altri paesi, specialmente Chaplin, e ha preso come modello molti lavori della Commedia dell’Arte. Ma ha studiato anche profondamente l’umanità e ha creato, di sua propria iniziativa, direttamente dalla realtà… È più che un comico popolare. Ama i classici, come Ibsen e Shakespeare, e i vecchi libri comprati dagli antiquari… Una parte del pubblico, e proprio quella che è molto esigente, ritiene Poppe, per il momento, il miglior comico di tutta Europa». 28     L’elenco, in realtà, è ben più lungo, e comprende il premio del National Board of Review statunitense, l’Oscar per il miglior soggetto originale, il Golden Globe come miglior film straniero, il Bodil (specie di Oscar danese) per il miglior film europeo, il Gran Premio della cinematografia norvegese, il premio dell’Associazione critici britannici, il primo premio al Festival argentino del Mar de la Plata, il Nastro d’argento italiano. 29     Tino Ranieri, in Ingmar Bergman (La Nuova Italia, Firenze, 1974), informa che Bergman tra il 1957 e il 1958 mise in scena, fra una tournée in Gran Bretagna e una visita a Parigi, questi spettacoli: Peer Gynt di Ibsen, Il misantropo di Molière, Gente di Varmland di Dahlgren e Urfaust di Goethe. 30     Diresse, tra l’altro, I proscritti, Carretto fantasma, Vento. 31     Nell’autobiografia (Lanterna magica, cit., p. 135) Bergman, ricordando il divorzio da Else Fischer, scrive: «Non conosco la persona che ero quarant’anni fa. Il mio disgusto è tanto profondo, il meccanismo di rimozione è stato così efficace che riesco a fatica a fame riemergere l’immagine». 32     Ivi, p. 14. 33     Alfonso Moscato, Ingmar Bergman. La realtà e il suo doppio, cit., p. 47. 34     Gian Luigi Rondi, 7 domande a 49 registi, cit., p. 248. 35     Ernesto G. Laura, Il volto, «Rivista del cinematografo», ottobre 1959, p. 295. 36     Alberto Pesce, “Il volto”, in Id., Cineproposte, Brescia, La scuola, 1978, pp. 293-294. 37     Mario Verdone, Due misteri nordici di Ingmar Bergman, «Studi cattolici», n. 21, novembre/dicembre 1960. 38     Ernesto G. Laura, Il primo Bergman: faticosa nascita di uno stile, cit. 39     Gian Luigi Rondi, La fontana della vergine, «Cinema Ridotto», n. 1, 1967. 40     Scrive Camillo Bassoto in «Cineforum» (n. 3-4, 1961): «Bergman fa sentire il tempo come meditazione… Il mondo medievale leggendario è trasportato con semplicità ed efficacia nella contemporaneità. Le ore, i minuti che precedono l’alba sembrano scanditi sul battito del cuore; il tempo visivo che passa sul cuore dei servi e dei contadini mentre salgono alla radura per ritrovare Karin: il tempo segnato nella sequenza di Karin e i pastori, dapprima insignificante, diventa improvvisamente tragico, pesante». 41     Nino Ghelli, Due film di Bergman, cit., p. 59. 42     Quando il “mediatore” si rivolge direttamente allo spettatore, scrive Gianfranco Bettetini in Tempo del senso (Bompiani, Milano, 1979), si identifica empiricamente «con l’istanza enunciativa del film: è la voce dell’apparato-soggetto dell’enunciazione». 43     «Bianco e nero», n. 12, 1961, p. 84. 44     Guido Aristarco, Il dissolvimento della ragione, Feltrinelli, Milano, 1965, p. 565. 45     Cfr. La lanterna magica di Bergman, «Edav educazione audiovisiva», n. 69, giugno-luglio 1979. 46     «Il gioco sottile della commedia, presentata con aspetti e tagli teatrali, è condotto con uno scaltro e

divertito uso dei mezzi espressivi cinematografici», scrive Natal Maria Lugaro, L’occhio del diavolo, «Rivista del cinematografo», n. 1, 1962, pp. 28-29. 47     Luigi Bini, Ingmar Bergman da Come in uno specchio a Sinfonia d’autunno, Edizioni Letture, Milano, 1980, p. 13. 48     Luigi Bini, Ingmar Bergman, cit., p. 18. 49     Giovanni Grazzini, Come in uno specchio, «Corriere della Sera», 20 giugno 1962. 50     Guglielmo Biraghi, Come in uno specchio, «Il Messaggero», 20 giugno 1962. 51     Gian Luigi Rondi, Come in uno specchio, «Il Tempo», 20 giugno 1962 52     Gian Luigi Rondi, 7 domande a 49 registi, cit. 53     Guido Aristarco, Il dissolvimento della ragione, cit., pp. 566 ss. 54     Luigi Bini, Ingmar Bergman, cit. 55     François Truffaut, Il piacere degli occhi, Marsilio, Venezia, 1988, che riproduce un articolo pubblicato su «Esquire», nel 1969. 56     Jörn Donner, Il volto del diavolo, «Cineforum», 1966, p. 197. 57     Vilgot Sjöman, Journal des communiants, «Cahiers du cinéma», n. 165, 1965, pp. 54 ss. 58     Nel cinema si può fare ciò che si vuole!, «Chaplin», Stoccolma, febbraio 1968; in italiano nella rivista «Cinema & film», 1968, n. 5-6, pp. 163 ss. 59     Guglielmo Biraghi, Luci d’inverno, «Il Messaggero», 18 aprile 1963. 60     Per Grazzini, ad esempio, «Il silenzio conclude un trilogia ma non si creda che sbocchi in altro se non in un ripiegamento su certe posizioni di partenza». 61     Mario Verdone, Il silenzio, «Bianco e nero», n. 4/5, 1964, pp. 109-113. 62     Leo Pestelli, Il silenzio di Ingmar Bergman: un film audace, difficile e umano, «La stampa». 5 aprile 1964. 63     Alberto Moravia, «L’Espresso», 23 febbraio 1964. 64     Forse a questo si riferisce Jacques Aumont, L’occhio interminabile (Marsilio, Venezia, 1991) quando parla delle «mille astuzie di cui danno prova un Bergman o un Tarkovsky per far vedere la luce divina in un film»? 65     «Per Bergman l’opera si crea per agglutinazione a partire da un’immagine iniziale che, in un certo senso, prolifera, s’associa a nuovi fantasmi. Bergman lavora come uno scultore che aggiunga nuovi blocchi d’argilla all’abbozzo iniziale. Dreyer fa esattamente il contrario: opera come un artigiano di fronte a un blocco di pietra. Inizia col raccogliere un’enorme documentazione o utilizza come materiale un’opera spesso sovrabbondante o appena sgrossata. Tutto il suo lavoro consisterà perciò nel ridurre» (Maurice Drouzy, Carl Th. Dreyer nato Nilsson, Ubulibri, Milano, 1990). 66     Vilgot Sjöman, Journal des communiants, cit., pp. 54 ss. 67     Jos Burvenich, Le silence: dimensions chrétiennes, «Etudes Cinématographiques», nn. 46-47, 1966, p. 90. 68     Luigi Bini, Ingmar Bergman, cit., pp. 41 ss. 69     Giacinto Ciaccio, Il silenzio, «Rivista del cinematografo», n. 5, 1964, pp. 219 ss. 70     «Cinema nuovo», n. 174, marzo-aprile 1965. 71     «La stampa», 15 febbraio 1972. 72     Tino Ranieri, Ingmar Bergman, cit., p. 91. 73     «Il quotidiano», 28 agosto 1964. 74     «Corriere della Sera», 28 agosto 1964. 75     Mario Verdone, Da Bergman ad Antonioni, «Bianco e nero», n. 8/9, 1964, p. 9. 76     Jörn Donner, Il volto del diavolo, cit. 77     «Capitai in questo paesaggio di Fårö, con la sua assenza di colori, la sua durezza e le sue proporzioni straordinariamente ricercate e precise, dove si ha l’impressione di entrare in un mondo che è esterno, e del quale non siamo che una minuscola particella, come gli animali e le piante. Come sia accaduto non lo so, ma qui ho messo le radici e ora credo che la mia vita abbia nuovamente delle radici» (Bergman a Jörn Donner nell’intervista Come in uno specchio, cit., p. 82). 78     Al momento di scegliere il titolo del film Bergman propendeva per Cinematografo perché, disse, «la sola cosa che non si può negare al mio film è che doveva essere un film». 79     «Nostro tempo», n. 2, 1967.

80     Claudio G. Fava, Persona, «Studi cattolici», n. 72, 1967, p. 55. 81     Guido Aristarco, I sussurri e le grida, Sellerio, Palermo, 1988, p. 94. 82     Liv Ullmann, Cambiare, Mondadori, Milano, 1977. 83     Noel Burch, Prassi del cinema, Pratiche Editrice, Parma, 1980, p. 132, così replica a un «critico dilettante di sinistra» che aveva tacciato Bergman di opportunismo politico: «Questo critico è tanto accecato dal proprio sistema di referenze da non capire che per uno spirito come quello di Bergman l’immagine di un bonzo che si suicida col fuoco non è più un’immagine di significato politico, ma un’immagine della violenza e dell’ingiustizia degli uomini, e pertanto una componente poetica necessaria in quel preciso momento nel suo film». 84     Mario Verdone, Persona, «Bianco e nero», n. 2, 1967, p. 78, riprodotto in Interventi sullo spettacolo contemporaneo, Matteo, Treviso, 1979. 85     Leandro Castellani, Persona, «Rivista del cinematografo», n. 2, 1967, pp. 130 s. 86     Goffredo Fofi, Capire con il cinema, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 106. 87     Guglielmo Biraghi, L’ora del lupo, «Il Messaggero», 27 marzo 1968. 88     Giovanni B. Cavallaro, L’ora del lupo, «Rivista del cinematografo», n. 5, 1968, p. 322. 89     «Rapita nell’irrealtà del simbolo la tragica condizione dell’individuo che nessuna civiltà è riuscita a immunizzare dal morso del serpente, l’antica magia dello stile qui serve ad astrarre dal tempo e dai luoghi il marchio infame della paura che umilia la comunione degli uomini. Fra il dio dell’amore e il demone dell’egoismo, insomma, la guerra continua. Eva ne dà testimonianza e il pubblico, spaurito, sente stringersi il cuore» (Giovanni Grazzini. La vergogna, «Corriere della Sera», 30 settembre 1968). 90     «La vergogna è una tappa importante nell’opera di Bergman: per la prima volta sembra che l’autore passi decisamente da una struttura verticale a una struttura orizzontale del racconto, per meglio intenderci sembra che da un’angoscia e da una problematica di stampo metafisico Bergman sia passato a una dimensione tutta terrena» (Enzo Natta, La vergogna, «Rivista del cinematografo», n. 12, 1969, p. 93). 91     Luigi Bini, Ingmar Bergman, cit., p. 72, nota. 92     Jos Burvenich, Cinema svedese contemporaneo: appunti per una introduzione e “Incontri”di Sorrento, «Bianco e nero», novembre-dicembre 1968, p. 61. 93     Aldo Serio, Il rito, «Rivista del cinematografo», n. 2, 1971, p. 93. 94     Maurizio Del Ministro, Il rito, «Cinema Nuovo», n. 209, 1971, pp. 57 s. 95     Giovanni Grazzini, Passione, «Corriere della Sera», 17 settembre 1970. 96     Cosimo Scaglioso, Passione, «CM», n. 2, 1971, p. 115. 97     Valerio Riva, Noi tre che bella coppia, «L’Espresso», 8 aprile 1973, p. 12. 98     «… un’economia di mezzi pari soltanto alla dovizia dei risultati», osserva Giovanni Grazzini, «Corriere della Sera», 20 maggio 1973. 99     François Truffaut, Il piacere degli occhi, cit., che riproduce l’articolo Cinéma, univers de l’absence? pubblicato nel 1960 in «Collectif». 100   «È una fotografia – scrive Nazareno Taddei – che raffigura in maniera inequivocabile una composizione a “Pietà”, quasi michelangiolesca, in un misto di atteggiamento che ricorda la “Pietà” di San Pietro e di maniera scultorea che ricorda i “prigioni” o la Cappella Sistina». (Recensione in «Edav educazione audiovisiva», n. 11, 1973, p. 186). 101   Lalla Romano (Trasfigurazione secondo Bergman, «Il Giorno», 21 ottobre 1973) va oltre, giustificando il riferimento iconografico con la Pietà con una probabile identificazione del personaggio di Agnes col Cristo: «Quando le sorelle lavano Agnes, lei magra, spettinata, curva, è un Cristo beffato; e ancora un Cristo è la sua faccia terrea, cerea: un Cristo secentesco: o uno dei tanti crocefissi romanici». 102   «Ogni flashback, eccetto quelli che riguardano Agnes – fa notare acutamente Guido Aristarco (in I sussurri e le grida, cit., pp. 121 ss.) – inizia e termina con dissolvenze rosse, in genere precedute da primi piani di Maria, Karin e Anna, i cui visi una volta sono illuminati a destra e bui a sinistra e poi viceversa al riapparire delle stesse dissolvenze rosse, fino a raggiungere la dissolvenza viola che introduce l’ultima parte del film. Le dissolvenze rosse, quella bianca e quella viola hanno semanticità assai diverse dalle dissolvenze normali. Il segno si fa simbolo». 103   Guido Aristarco, I sussurri e le grida, cit., p. 144. 104   Enzo Natta (in Filmcronache, Elledici, Torino, 1979) parla di «una scelta religiosa che passa attraverso

le vie illuminate e imperscrutabili della Grazia, la stessa Grazia che nella Fontana della vergine veniva accennata soltanto simbolicamente con lo sgorgare dell’acqua sorgiva». 105   Fiorenzo Viscidi, Scene da un matrimonio, «CM», n. 18 del 1975, p. 60. 106   S. Bjorkrnan, T. Manns, J. Sima, Le cinéma selon Bergman, cit., p. 252. 107   Virgilio Fantuzzi, Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman, «La civiltà cattolica», quaderno n. 3007, 4 ottobre 1975. 108   Fascicolo n. 177 del 1976, p. 44. 109   Mario Verdone, “Il flauto magico”, in id., Interventi sullo spettacolo contemporaneo, cit., p. 220. 110   Fascicolo n. 1 del 1977, p. 108. 111   «CM», n. 21, 1976, p. 25. 112   Ivi, p. 26. 113   Giovanni Arledler S.I., Virgilio Fantuzzi S.I., Il Flauto magico di Mozart-Bergman, «La civiltà cattolica», quaderno 3044, 16 aprile 1977. 114   Floriana Maudente, Il flauto magico, «Rivista del cinematografo», p. 12, 1976, p. 538. 115   lngmar Bergman, Lanterna magica, cit., p. 211. 116   «La figura del nonno – scrive Nazareno Taddei – incide profondamente con i suoi silenzi e con la sua immobilità a dare significato non solo al personaggio, bensì all’intero film» («Edav educazione audiovisiva», n. 45, 1977, p. 882). 117   «Thomas Jacobi, il più ambiguo degli uomini – scrive Carlo Laurenzi – è anche, tra i personaggi del film, il più simile a Bergman: Erland Josephson lo interpreta con mansueta perfidia» («Il Giornale», 2 aprile 1991). 118   Camillo Bassotto, Faccia a faccia, «CM», n. 23, 1976, p. 55. 119   Francesco Bolzoni, L’immagine allo specchio, «Rivista del Cinematografo», n. 1-2, 1977, p. 37. 120   In «Esprit», ma l’articolo è uscito in lingua italiana in «CM», n. 28, 1977, pp. 21 ss., nella traduzione di Anna Maria Coltellacci. 121   Ingmar Bergman, Lanterna magica, cit., p. 13. 122   Jörn Donner, Bergman come in uno specchio, cit., p. 85. 123   Gian Luigi Rondi, “Ingmar Bergman da Hitler a Ibsen”, in Id., Il cinema dei maestri, Rusconi, Milano, 1980, p. 93. 124   Olinto Brugnoli, (Sinfonia d’autunno, «Edav educazione audiovisiva», n. 62-63, 1978, p. 40) scrive: «Il film rivela un impianto piuttosto teatrale nel senso che buona parte della significazione nasce più dalle parole e dai dialoghi che dalle immagini… Tuttavia l’immagine è sempre efficace e puntuale nel sottolineare gli stati d’animo, le sensazioni e le vibrazioni interiori dei personaggi attraverso i primi piani (in cui Bergman si riconferma maestro), sia attraverso quei brevissimi flashback, sia ricorrendo al montaggio parallelo quando ciò è richiesto dalla dialettica delle protagoniste». 125   Francesco Bolzoni, Sinfonia d’autunno, «Rivista del Cinematografo», n. 11, 1978, p. 461. 126   Sergio Frosali, Sinfonia d’autunno, «La Nazione», 21 ottobre 1978. 127   Alberto Pesce, Family life: schermi del “lessico familiare”, ed. Ancci, Roma, 1991, p. 121. 128   Morando Morandini, Sinfonia d’autunno, «Il Giorno», 16 ottobre 1978. 129   Paolo Valmarana, Sinfonia d’autunno, «Il Popolo», 17 ottobre 1978. 130   Alfonso Moscato, Ingmar Bergman, cit., pp. 68 s., nota. 131   Ingmar Bergman, Lanterna magica, cit., pp. 62 ss. 132   Giovanni Grazzini, Fanny e Alexander, «Corriere della Sera», 10 settembre 1983. 133   Ingmar Bergman, Lanterna magica, cit., p. 64. 134   Non omnis moriar... A volte Bergman si culla nella beata illusione che gli artisti siano affrancati dalla morte. Non chiede forse Skat – Il settimo sigillo – se per caso ci siano regole speciali per i buffoni? La Morte, mentre sega il tronco, gli risponde che non ce ne sono. 135   Torna il concetto della necessità dell’altro come uno specchio: «senza un tu non c’è un io», scrive Bergman nell’autobiografia. Vedi Lanterna magica, cit., p. 43. 136   Ivi, p. 44. 137   Amédée Ayfre, “L’ateismo nel cinema contemporaneo”, in Facoltà filosofica della Pontificia Università Salesiana (a cura di), L’ateismo contemporaneo, Sei, Torino, 1967, vol. I,p. 601. 138   Cfr. Guido Oldrini, Solitudine di Ingmar Bergman, Guanda, Parma, 1965.

1945 | Kris | Crisi

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; soggetto: da una commedia di Leck Fischer; fotografia: Gösta Roosling; scenografia: Arne Åkermark; musica: Erland von Koch; montaggio: Oscar Rosander; interpreti: Dagny Lind (Ingeborg), Marianne Lofgren (Jenny), Inga Landgré (Nelly), Stig Olin (Jack), Allan Bohlin (Ulf), Ernst Eklund (Edvard), Signe Wirff (Jessie), Svea Holst (Malin), Arne Lindblad, Julia Caesar, Dagmar Olsson, Anna-Lisa Baude, Karl Erik Flens, Wiktor Andersson, Gus Dahlström, John Melin, Holger Höglund, Sture Johanson; produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 93’; prima proiezione: 25.2.1946. 1946 | Det regnar på vår kärlek | Piove sul nostro amore

Regia: Ingmar Bergman; sceneggiatura: Ingmar Bergman, Hebert Grevenius; fotografia: Hilding Bladh, Göran Strindberg; scenografia: P.A. Lundgren; musica: Erland von Koch; montaggio: Tage Holmberg; interpreti: Barbro Kollberg (Maggi), Birger Malmsten (David), Gösta Cederlund (signore con l’ombrello), Ludde Gentzel (Håkansson), Douglas Håge (Andersson), Hjördis Petterson (signorina Andersson), Julia Caesar (Hanna Ledin), Gunnar Björnstrand (signor Purman), Magnus Kesster (Folke Törnberg), Sif Ruud (Gerti Törnberg), Åke Fridell (pastore), Benkt-Åke Benktsson, Erik Rosén, Sture Ericson, Ulf Johanson, Torsten Hillberg, Erland Josephson; produttore: Lorens Marmstedt per la Sveriges Folkbiografer; origine: Svezia; durata: 95’; prima proiezione: 9.11.1946. 1947 | Skepp till indialand | La terra del desiderio

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; soggetto: da un dramma di Martin Söderhjelm; fotografia: Göran Strindberg; scenografia: P.A. Lundgren; musica: Erland von Koch; montaggio: Tage Holmberg; interpreti: Holger Löwenadler (capitano Alexander Blom), Birger Malmsten (Johannes Blom), Gertrud Fridh (Sally), Anna Lindahl (Alice Blom), Lasse Krantz (Hans), Jan Molander (Bertil), Erik Hell (Pekka), Naemi Briese (Selma), Hjördis Petterson (Sofie), Åke Fridell (direttore del varietà), Peter Lindgren, Gustaf Hiort, Omas Bergström, Torsten Bergström, Ingrid Borthen, Gunnar Nielsen, Amy Aaröe; produttore: Lorens Marmstedt per la Sveriges Folkbiografer; origine: Svezia; durata: 98’; prima proiezione: 22.9.1947. 1947 | Musik i mörker | Musica nel buio

Regia: Ingmar Bergman; soggetto e sceneggiatura: Dagmar Edqvist; fotografia: Göran Strindberg; scenografia: P.A. Lundgren; musica: Erland von Koch; montaggio: Lennart Wallén; interpreti: Mai Zetterling (Ingrid), Birger Malmsten (Bengt Vyldeke), Bentg Eklund (Ebbe), OlofWinnerstrand (pastore), Naima Wifstrand (signora Schroder), Åke Claesson (signor Schroder), Bibi Skoglund (Agneta), Hilda Borgström (Lovisa), Douglas Hage (Kruge), Gunnar Björnstrand (Klasson), Segol Mann (Anton Nord), Bengt Logardt (Einar Born), Marianne Gyllenhammar (Blanche), John Elfström (Otto Klemens), Rune Andreasson (Evert), Barbro Flodquist (Hjördis), Ulla Andreasson (Sylvia), Sven Lindberg (Hedström), Svea Holst, Georg Skarstedt, Reinhold Svensson, Mona Geijer-Falkner, Arne Lindbland; produttore: Lorens Marmstedt per la Terrafilm; origine: Svezia; durata: 87’; prima proiezione: 17.1.1947. 1948 | Hamnstadt | Città portuale

Regia: Ingmar Bergman; sceneggiatura: Ingmar Bergman, Olle Länsberg da un soggetto di Länsberg; fotografia: Gunnar Fischer; scenografia: Nils Svenwall; musica: Erland von Koch; montaggio: Oscar Rosander; interpreti: Nine-Christine Jönsson (Berit), Bengt Eklund (Gösta), Berta Hall (madre di Berit), Erik Helle (padre di Berit), Mimi Nelson (Gertrud), Birgitta Valberg (assistente sociale Vilander), Hans Strååt (Vilander), Nils Dahlgren (padre di Gertrud), Harry Ahlin (Skåningen), Nils Hallberg (Gustav), Sven-Eric Gamble (Eken), Sif Ruud (signora Krona), Kolbjörn Knudsen, Yngve Nordwall, Bengt Blomgren (Gunnar), Hanny Schedin (madre di Gunnar), Helge Karlsson (padre di Gunnar), Stig Olin (Thomas), Else-Merete Heiberg, Britta Billsten, Sture Ericson (commissario); produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 100’; prima proiezione: 18.10.1948. 1948/49 | Fängelse | La prigione

Regia, soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Göran Strindberg; scenografia: P.A. Lundgren; musica: Erland von Koch; montaggio: Lennart Wallén; interpreti: Doris Svedlund (Birgitta Carolina), Birger Malmsten (Thomas), Eva Henning (Sofi), Hasse Ekman (Martin Grandé), Stig Olin (Peter), Irma Christenson (Linnéa), Anders Henrikson (Paul), Marianne Logfren (signora Bohim), Kenne Fant (Arne), Inger Juel (Greta), Curt Masreliez (Alf), Tosten Lilliecrona, Segol Mann, Börie Melivig, Åke Enflefdt, Bibi Lindqvist (Anna), Arne Ragneborn;produttore: Lorens

Marmstedt per la Terrafilm; origine: Svezia; durata: 79’; prima proiezione: 19.3.1949. 1949 | Törst | Sete

Regia: Ingmar Bergman; sceneggiatura: Hebert Grevenius dalle novelle di Birgit Tengroths; fotografia: Gunnar Fischer; scenografia: Nils Svenwall; musica: Erik Nordgren; montaggio: Oscar Rosander; interpreti: Eva Henning (Rut), Birger Malmsten (Bertil), Birgit Tengroth (Viola), Mimi Nelson (Valborg), Hasse Ekman (dottor Rosengren), Bengt Eklund (Raoul), Gaby Stenberg (Astrid), Naima Wifstrand (signora Henriksson), Sven-Eric Gamble, Gunnar Nielsen, Estrid Hesse, Helge Hagerman, Calle Flygare, Monica Wienzierl, Verner Arpe, Else Merete Heiberg, Sif Ruud; produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 83’; prima proiezione: 17.10.1949. 1949 | Till glädje | t.l. Verso la gioia

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Gunnar Fischer; scenografia: Nils Svenwall; montaggio: Oscar Rosander; interpreti: Stig Olin (Stig), Maj-Britt Nilsson (Marta), Victor Sjöström (Sonderby), Birger Malmsten (Marcel), John Ekman (Mikael Bro), Margit Carlqvist (Nelly Bro), Sif Ruud (Stina), Rune Stylander (Persson), Erland Josephson (Bertil), Georg Skarstedt (Anker), Berit Holmstrom (Lisa), Björn Montin (Lasse), Svea Holst, Ernst Brunman, Maud Hyttenberg; produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 98’; prima proiezione: 20.2.1950. 1950 | Sånt händer inte här | t.l. Ciò non accadrebbe qui

Regia: Ingmar Bergman; soggetto e sceneggiatura: Herbert Grevenius; fotografia: Gunnar Fischer; scenografia: Nils Svenwall; musica: Eric Nordrgren; montaggio: Lennart Wallén; interpreti: Signe Hasso (Vera), Alf Kjellin (Almkvist), Ulf Palme (Atkä Natas), Gösta Cederlund, Yngve Nordwall (Lindell), Stig Olin, Ragnar Klange (Filip Rundblom), Hannu Kompus, Sylvia Tael (Vanja), Els Vaarman, Edmar Kuus (Leino), Rudolf Lipp (Skuggan), Lillie Wastfeldt (signora Rundblom), Segol Mann, Willy Koblanck, Gregor Dahlmann, Gösta Holmstrom, Ivan Bousé, Hugo Bolander, Helena Kuus, Alexander von Baumgarten, Eddy Andersson, Fritjof Hellberg, Mona Åstrand, Mona GeijerFalkner, Erik Forslund, Georg Skarstedt, Tor Borong, Magnus Kesster, Maud Hyttenberg, Helga Brofeldt, Sven Axel Carlsson; produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 84’; prima proiezione: 23.10.1950. 1950 | Sommarlek | Un’estate d’amore

Regia: Ingmar Bergman; soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman e Herbert Grevenius; fotografia: Gunnar Fischer; scenografia: Nils Svenwall; musica: Erik Nordgren; montaggio: Oscar Rosander; interpreti: Maj-Britt Nilsson (Marie), Birger Malmsten (Henrik), Alf Kjellin (David), Annalisa Ericson (Kaj), Georg Funkquist (zio Erland), Stig Olin (il coreografo), Renée Björling (zia Elisabeth), Mimi Pollak (la damigella), John Botvid (Karlo), Gunnar Olsson, Douglas Hage, Julia Caesar (Maja), Carl Ström (Sandell), Torsten Lilliecrona (Ljus-Pelle), Olav Riégo, Ernst Brunman, Fylgia Zadig, Sten Mattsson, Carl-Axel Elfving; produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 96’; prima proiezione: 1.10.1951. 1951 | Nove cortometraggi pubblicitari per le saponette Bris interpretati da Bibi Andersson. 1952 | Kvinnors väntan | Donne in attesa

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Gunnar Fischer; scenografia: Nils Svenwall; musica: Erik Nordgren; montaggio: Oscar Rosander; interpreti: Anita Björk (Rakel), Maj-Britt Nilsson (Marta), Eva Dahlbeck (Karin), Gunnar Björnstrand (Fredrik Lobelius), Birger Malmsten (Martin Lobelius), Jarl Kulle (Kaj), Karl-Arne Holmsten (Eugen Lobelius), Aino Taube (Abbette), Håkan Westergren (Paul Lobelius), Kjell Nordenskiöld (Bob), Carl Ström, Märta Arbin (suor Rut), Torsten Lilliecrona, Victor Violacci, Naima Wifstrand, Wiktor Andersson, Douglas Håge, Lil Yunkers (conferenziere), Lena Brogren; produzione: Svensk Fiimindustri; origine: Svezia; durata: 107’; prima proiezione: 3.11.1952. 1952 | Sommaren med Monika | Monica e il desiderio

Regia: Ingmar Bergman; sceneggiatura: Ingmar Bergman e Per Anders Fogelström, da un romanzo di Fogelström; fotografia: Gunnar Fischer; scenografia: P.A. Lundgren; musica: Erik Nordgren, Eskil Eckert-Lundin e Walle Söderlund; montaggio: Tage Holmberg e Gösta Lewin; interpreti: Harriet Andersson (Monica), Lars Ekborg (Harry), John Harryson (Lelle), Georg Skarstedt (padre di Harry), Dagmar Ebbesen (patrigno di Harry), Åke Fridell (padre di Monica), Naemi Briese (madre di Monica), Åke Gronberg (operaio), Gösta Eriksson, Gösta Gustafsson, Sigge Fürst, Gösta Prüzelius, Arthur Fischer, Torsten Lilliecrona, Bengt Eklund, Gustaf Färingborg, Ivar Wahlgren, Renée Björling, Hanny Schedin, Andes Andelius, Gordon Lowenadler, Nils Hultgren, Nils Whitén, Tor Borong, Einar Söderbäck, Bengt Brunskog (Sicke), Magnus Kesster, Carl-Axel Elfving, Astrid Bodin, Mona Geijer-Falkner, Ernst Brunman;produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 96’; prima proiezione: 9.2.1953. 1953 | Gycklarnas afton | Una vampata d’amore

Regia, soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Hilding Bladh, Sven Nykvist; scenografia: Bibi Lindström; musica: Karl-Birger Blomdahl; montaggio: Carl-Olov Skeppstedt; interpreti: Harriet Andersson (Anne), Åke Grönberg (Albert Johansson), Hasse Ekman (Frans), Gudrun Brost (Alma), Annika Tretow (Agda), Gunnar Björnstrand (direttore Sjuberg), Erik Strandmark (Jens), Kiki, Åke Fridell, Majken Torkeli (Ekbergskan), Vanje Hedberg (suo figlio), Curt Löwgren (Blom), Conrad Gyllenhammar (Fager), Mona Sylwan (signora Fager), Hanny Schedin (zia Asta), Michael Fant (Anton), Naemi Briese (signora Meijer), Lissi Alandh, Karl-Axel Forssberg, Olav Riégo, John Starck, Erna Groth, Agda Helin, Julie Bernby, Göran Lundquist, Mats Hådell; produzione: Sandrewproduktion; origine: Svezia; durata: 93’; prima proiezione: 14.9.1953. 1953 | En lektion kärlek | Una lezione d’amore

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Martin Bodin; scenografia: P.A. Lundgren; musica: Dag Wirén; montaggio: Oscar Rosander; interpreti: Eva Dahlbeck (Marianne Erneman), Gunnar Björnstrand (dottor David Erneman), Yvonne Lombard (Suzanne), Harriet Andersson (Nix), Åke Grönberg (lo scultore Carl-Adam), OlofWinnerstrand (professor Henrik Erneman), Renée Björling (Svea Erneman), Birgitte Reimer (Lise), John Elfström (Sam), Dagmar Ebbesen, Elge Hagerman (rappresentante di commercio), Sigge Fürst (pastore), Gösta Prüzelius (ferroviere), Carl Ström (zio Axel), Torsten Lilliecrona (portiere), Arne Lindblad (direttore dell’hotel), Yvonne Brosset (ballerina); produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 96’; prima proiezione: 4.10.1954. 1954/55 | Kvinnodröm | Sogni di donna

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Hilding Bladh; scenografia: Gittan Gustafsson; musica: Stuart Görling; montaggio: Carl-Olov Skeppstedt; interpreti: Eva Dahlbeck (Susanne), Harriet Andersson (Doris), Gunnar Björnstrand (console), Ulf Palme (Henrik Lobelius), Inga Landgré (signora Lobelius), Sven Londberg (Palle), Naima Wifstrand (signora Arén), Benkt-Åke Benktsson (il signor Magnus), Git Gay (commessa), Ludde Gentzel (fotografo Sundstrom), Kerstin Hedeby (Marianne), Jessie Flaws, Marianne Nielsen (Fanny), Bengt Schött, Alew Düberg, Gunhild Kjellqvist, Renée Björling (Berger), Tod Stal (signor Barse), Richard Mattsson (Mansson), Inga Gill, Pér-Erik Aström, Carl-Gustaf Lindstedt (portiere), Asta Beckman; produzione: Sandrewproduktion; origine: Svezia; durata: 87’; prima proiezione: 22.8.1955. 1955 | Sommarnattens leende | Sorrisi di una notte d’estate

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Gunnar Fischer; scenografia: P.A. Lundgren; musica: Erik Nordgren; montaggio: Oscar Rosander; interpreti: Eva Dahlbeck (Desirée Armfeldt), Gunnar Björnstrand (Fredrik Egerman), Ulla Jacobsson (Anne Egerman), Harriet Andersson (Petra), Margit Carlqvist (Charlotte Malcom), Åke Fridell (Frid), Björn Bjelfvenstam (Henrik Egerman), Naima Wifstrand (signora Armfeldt), Jullan Kindahl, Gull Natorp (Malla), Birgitta

Valberg e Bibi Andersson (attrici), Anders Wulff (giovane Fredrik), Jarl Kulle (conte Carl Magnus Malcom), Gunnar Nielsen (Niklas), Gösta Prüzelius (cameriere), Svea Holst, Hans Strååt (Almgren), Lisa Lundholm (signora Almgren), Lena Söderblom, Mona Malm, Josef Norman, Arne Lindbland (attore), Börje Mellvig (notaio), Ulf Johanson, Yngve Nordwall, Sten Gester, Mille Schmidt; produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 108’; prima proiezione: 26.12.1955. 1956 | Det sjunde inseglet | Il settimo sigillo

Regia, soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Gunnar Fischer; scenografia: P.A. Lundgren; musica: Erik Nordgren; montaggio: Lennart Wallén: interpreti: Max von Sydow (Antonius Block), Gunnar Björnstrand (Jöns), Nils Poppe (Jof), Bibi Andersson (Mia), Bengt Ekerot (la Morte), Åke Fridell (Plog), Inga Gill (Lisa), Erik Strandmark (Skat), Bertil Anderberg (Raval), Gunnel Lindblom (la donna muta), Inga Landgré (moglie di Block), Anders Ek (il monaco), Maud Hansson (la strega), Gunnar Olsson (il pittore), Lars Lind (il giovane frate), BenktÅke Benktsson (il mercante), Gundrum Brost (la donna della taverna), Ulf Johanson (il capo dei soldati); produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 96’; prima proiezione: 16.2.1957. 1957 | Smultronstället | Il posto delle fragole

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Gunnar Fischer; scenografia: Gittan Gustafsson; musica: Erik Nordgren, Göte Lovén; montaggio: Oscar Rosander; interpreti: Victor Sjöström (Isak Borg), Bibi Andersson (Sara), Ingrid Thulin (Marianne), Gunnar Björnstrand (Evald), Folke Sundquist (Anders), Björn Bjelfvenstam (Viktor), Naima Wifstrand (madre di Isak), Jullan Kindahl (Agda), Gunnar Sjoberg (ingegner Alman), Gunnel Broström (signora Alman), Gertrud Fridh (moglie di Isak), Åke Fridell (amante della moglie di Isak), Max von Sydow (Åkerman), Sif Ruud (la zia), Yngve Nordwall (zio Aron), Per Sjöstrand (Sigfrid), Gio Petré (Sigbritt), Gunnel Lindblom (Charlotta), Maud Hansson (Angelica), Lena Bergman (Kristina), Per Skogsberg (Hagbart), Göran Lundquist (Benjamin), Eva Norée (Anna), Monica Ehrlin (Birgitta), Ann-Mari Wiman (Eva Åkerman), Vendela Rudbäck (Elisabeth), Helge Wulff (il rettore);produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 91’; prima proiezione: 26.12.1957. 1957 | Nära livet | Alle soglie della vita

Regia: Ingmar Bergman; soggetto: Ulla Isaksson; sceneggiatura: Ulla Isaksson; fotografia: Max Wilén; scenografia: Bibi Lindström; montaggio: Carl-Olov Skeppstedt; interpreti: Ingrid Thulin (Cecilia Ellius), Eva Dahlbeck (Stina Andersson), Bibi Andersson (Hjördis Petterson), Barbro Hiort af Ornäs (infermiera Brita), Max von Sydow (Harry Andersson), Erland Josephson (Anders Ellius), Ann-Marie Gyllenspetz (assistente sociale), Gunnar Sjöberg (dottor Nordlander), Margaretha Krook (dottor Larsson), Lars Lind (dottor Thylenius), Sissi Kaiser (infermiera Mari), Inga Gill (una puerpera), Kristina Adolphson (assistente), Maud Elfsiö, Monica Ekberg (amica di Hjördis), Gun Jönsson, Gunnar Nielsen (un medico), Inga Landgré (Greta Ellius);produzione: Nordisk Tonefilm; origine: Svezia; durata: 84’; prima proiezione: 26.3.1958. 1958 | Ansiktet | Il volto

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Gunnar Fischer; scenografia: P.A. Lundgren; musica: Erik Nordgren; montaggio: Oscar Rosander; interpreti: Max von Sydow (Albert Emanuel Vogler), Ingrid Thulin (Manda Vogler/Aman), Åke Fridell (Tubal), Naima Wifstrand (nonna di Vogler), Lars Ekborg (Simson), Gunnar Björnstrand (dottor Vergérus), Erland Josephson (console Egerman), Gertrud Fridh (Ottilia Egerman), Toivo Pawlo (Starbeck), Ulla Sjöblom (Henrietta Starbeck), Bengt Ekerot (Johan Spegel), Sif Ruud (Sofia Garp), Bibi Andersson (Sara), Birgitta Pettesson (Sanna), Oscar Ljung (Antonsson), Axel Düberg (Rustan), Tor Borong, Arne Mårtensson,

Harry Schein e Frithiof Bjärne (doganieri); produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 100’; prima proiezione: 26.12.1958. 1959 | Jungfrukällan | La fontana della vergine

Regia: Ingmar Bergman; sceneggiatura: Ulla Isaksson; fotografia: Sven Nykvist: scenografia: P.A. Lundgren; musica: Erik Nordgren; montaggio: Oscar Rosander; interpreti: Max von Sydow (Töre), Birgitta Valberg (Märeta), Gunnel Lindblom (Inger), Birgitta Pettersson (Karin), Axel Düberg (il magro), Tor Isedal (il muto), Allan Edwall (il mendicante), Ove Porath (il ragazzo), Axel Slangus (il ragazzo del ponte), Gudrun Brost (Frida), Oscar Liung (Simon), Tor Borong e Leif Forstenberg (contadini); produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 89’; prima proiezione: 8.2.1960. 1959/ 60 | Djävulens öga | L’occhio del diavolo

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Gunnar Fischer; scenografia: P.A. Lundgren; musica: Erik Nordgren; montaggio: Oscar Rosander; interpreti: Jarl Kulle (Don Giovanni), Bibi Andersson (Britt Marie), Stig Järrel (Satana), Nils Poppe (pastore), Gertrud Fridh (signora Renata), Sture Lagewall (Pablo), Gunnar Björnstrand (attore), Georg Funkquist (conte Armand de Rochefoucauld), Gunnar Sjöberg (marchese Giuseppe Maria de Macopanza), Axel Düberg (Jonas), Torsten Winge (il pastorello), Kristina Adolphson (donna velata), Allan Edwall (diavolo Orecchio), Ragnar Arvedson (diavolo guardiano), Börje Lundh, Lenn Hjortzberg, John Melin, Sten Torsten Thuul (sarto), Arne Lindblad, Svend Bunch, Tom Ollson, Inga Gill; produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 87; prima proiezione: 17.10.1960. 1960 | Såsom i en spegel | Come in uno specchio

Regia, soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Sven Nykvist; scenografia: PA. Lundgren; musica: Erik Nordgren; montaggio: Ulla Ryghe; interpreti: Harriet Andersson (Karin), Max von Sydow (Martin), Gunnar Björnstrand (David), Lars Passgård (Fredrik, detto Minus); produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 89’; prima proiezione: 16.10.1961. 1961/3 | Nattvardsgästerna | Luci d’inverno

Regia, soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Sven Nykvist; scenografia: P.A. Lundgran; montaggio: Ulla Ryghe: interpreti: Gunnar Björnstrand (Tomas Ericsson), Ingrid Thulin (Marta Lundberg), Max von Sydow (Jonas Persson), Gunnel Lindblom (Karin Persson), Allan Edwall (Algot Frövik), Olof Thunberg (Fredrik Blom), Elsa Ebbesen, Kolbjörn Knudsen (Aronsson), Tor Borong (Johan Åkerblom), Bertha Sånnell (Hanna Appelblad), Eddie Axberg (Johan Strand), Lars-Owe Carlberg, Johan Olafs, Ingmari Hjort, Stefan Larsson, Lars-Olof Andersson, Christer Öhman; produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 81’; prima proiezione: 11.2.1963. 1962 | Tystnaden | Il silenzio

Regia, soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Sven Nykvist; scenografia: P.A. Lundgren; musica: Ivan Renliden; montaggio: Ulla Ryghe; interpreti: Ingrid Thulin (Ester), Gunnel Lindblom (Anna), Jörgen Lindström (Johan), Håkan Jahnbe (cameriere dell’albergo), Birger Malmsten (l’uomo del bar), “Eduardinis” (i nani), Eduardo Gutierrez (impresario dei nani), Lissi Alandh (donna del varietà), Leif Forstenberg (uomo del varietà), Nils Waldt (bigliettaio), Biger Lensander, Eskil Kalling, K.A. Begman (giornalaio), Olof Widgren (un vecchio); produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 95’; prima proiezione: 23.9.1963. 1963 | För att inte tala om alla dessa kvinnor | A proposito di tutte queste… signore

Regia: Ingmar Bergman; sceneggiatura: Ingmar Bergman, Erland Josephson; fotografia (Eastmacolor): Sven Nykvist; scenografia: P.A. Lundgren; musica: Erik Nordgren; montaggio: Ulla Ryghe; interpreti: Jarl Kulle (Cornelius), Bibi Andersson (Humlan), Harriet Andersson (Isolde), Eva Dahlbeck (Adelaide), Karin Kavli (madame Tussaud), Gertrud Fridh (Traviata), Mona Malm

(Cecilia), Barbro Hiort af Ornäs (Beatrice), Allan Edwall (Jillker), Georg Funkquist (Tristan), Carl Billquist (giovanotto), Jan Blomberg (giornalista radiofonico inglese), Göran Graffman (giornalista radiofonico francese), Gösta Prüzelius (giornalista radiofonico svedese), Jan-Olof Strandberg (giornalista radiofonico tedesco), Ulf Johanson, Alex Düberg, Lars-Owe Carlberg, Doris Funcke, Yvonne Igell; produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 80’; prima proiezione: 15.6.1964. 1965 | Persona | Id.

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Sven Nykvist; scenografia: Bibi Lindström; musica: Lars Johan Werle; montaggio: Ulla Ryghe; interpreti: Bibi Andersson (Alma), Liv Ullmann (Elisabeth Vogler), Margaretha Krook (dottoressa), Gunnar Björnstrand (signor Vogler), Jörgen Lindström (ragazzo);produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 85’; prima proiezione: 18.10.1966. 1966 | Daniel | Daniel: episodio del film Stimulantia

Regia, sceneggiatura e fotografia: Ingmar Bergman; montaggio: Ulla Ryghe; interpreti: Daniel Sebastian Bergman, Käbi Laretei;produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 11’; prima proiezione: 28.3.1967. 1966/ 68 | Vargtimmen | L’ora del lupo

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Sven Nykvist; scenografia: Marik Vos-Lundh; musica: Lars Johan Werle; montaggio: Ulla Ryghe; interpreti: Liv Ullmann (Alma), Max von Sydow (Johan), Erland Josephson (barone von Merkens), Gertrud Fridh (Corinne von Merkens), Gudrun Brost (vecchia signora von Merkens), Bertil Anderberg (Ernst von Merkens); Georg Rydelberg (Lindhorst), Ulf Johanson (Heerbrand), Naima Wifstrand (signora col cappello), Ingrid Thulin (Veronica Fogler), Lenn Hjortzberg (Kreisler), Agda Helin, Mikael Rundquist, Mona Seilitz, Folke Sundquist; produzione: Svensk Filmindustri; origine: Svezia; durata: 90’; prima proiezione: 19.2.1968. 1967 | Skammen | La vergogna

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Sven Nykvist; scenografia: P.A. Lundgren; montaggio: Ulla Ryghe; interpreti: Liv Ullmann (Eva Rosenberg), Max von Sydow (Jan Rosenberg), Gunnar Björnstrand (Jacobi), Birgitta Valbeg (signora Jacobi) Sigge Fürst (Filip), Hans Alfredson (Lobelius), Willy Peters (ufficiale), Per Berglund (soldato), Vilgot Sjöman (intervistatore), Ingvar Kjellson (Oswald), Rune Lindström (uomo grasso), Frank Sundström (inquisitore), Frej Lindqvist, Ulf Johanson (dottore), Björn Thambert (Johan), Gösta Prüzelius, Karl-Axel Forssberg, Bengt Eklund, Åke Jörnfalk, Jan Bergman, Stig Lindberg; produzione: Svensk Filmindustri e Cinematograph; origine: Svezia; durata: 103’; prima proiezione: 29.9.1968. 1967 | Riten | Il rito

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Sven Nykvist; scenografia e costumi: Max Goldstein; montaggio: Siv Kanälv; interpreti: Ingrid Thulin (Thea Winkelmann), Anders Ek (Sebastian Fischer), Gunnar Björnstrand (Hans Winkelmann), Erik Hell (giudice Abrahamsson), Ingmar Bergman (sacerdote);produzione: Cinematograph; origine: Svezia; durata: 72’;prima proiezione (Tv): 25.3.1969. 1968 | En passion | Passione

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia (Eastmancolor): Sven Nykvist; scenografia: P.A. Lundgren; montaggio: Siv Kanälv; interpreti: Max von Sydow (Andreas Winkelman), Liv Ullmann (Anna Fromm), Bibi Andersson (Eva Vergérus), Erland Josephson (Elis Vergérus), Erik Hell (Johan Andersson), Sigge Fürst (Verner), Svea Holst (sua moglie), Annika Kronberg (Katarina), Hjördis Petterson (sorella di Johan), Lars-Owe Carlberg e Brian Wikström (poliziotti), Berbro Hiort af Ornäs, Malin Ek, Britta Brunius, Brita Oberg, Marianne Karlbeck; produzione:

Svensk Filmindustri e Cinematograph; origine: Svezia; durata: 72’; prima proiezione: 10.11.1969. 1969 | Fårödokument 1969 | t.l. Documentario su Fårö 1969

Regia: Ingmar Bergman; fotografia: Sven Nykvist; montaggio: Siv Lundgren-Kanalv; interpreti: Ingmar Bergman (reporter), gente di Fårö; produzione: Cinematograph; origine: Svezia; durata: 78’; prima proiezione (Tv): 1.1.1970. 1970 | Beröringen - The Touch | L’adultera

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia (Technicolor): Sven Nykvist; scenografia: P.A. Lundgren; musica: Carl Michael Bellman; montaggio: Siv Lundgren; interpreti: Elliot Gould (David Kovac), Bibi Andersson (Karin Vergérus), Max von Sydow (Andreas Vergérus), Sheila Reid (Sara, sorella di David), Barbro Hiort af Ornäs (madre di Karin), Åke Lindström (Holm, dottore), Mimmo Wählander, Elsa Ebbesen, Staffan Hallerstam (Anders Vergérus), Maria Nolgård (Agnes Vergérus), Karin Nillson (vicina di casa di Vergérus), Erik Nyhlén (archeologo), Margaretha Byström (segretaria di Andreas Vergérus), Alan Simon, Per Sjöstrand, Aino Taube, Ann-Christin Lobråten, Carol Zavis, Dennis Gotobed, Bengt Ottekil; produzione: Cinematograph, Abc Pictures (New York); origine: Svezia, Usa; durata: 115’; prima proiezione: 30.8.1971. 1972 | Viskningar och rop | Sussurri e grida

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia (Eastmacolor): Sven Nykvist; scenografia: Marik Vos; montaggio: Siv Lundgren; interpreti: Harriet Andersson (Anges), Kari Sylwan (Anna), Ingrid Thulin (Karin), Liv Ullmann (Maria/mamma di Maria), Anders Ek (Isak, il pastore), Inga Gill (la narratrice), Erland Josephson (David, il medico), Henning Moritzen (Joakim), Georg Årlin (Fredrik), Linn Ullmann, Greta e Karin Johansson, Rosanna Mariano, Malin Gjörup, Lena Bergman, Ingrid von Rosen, Ann-Christin Lobråten, Börje Lundh, Lars-Owe Carlberg, Monika Priede; produzione: Cinematograph, Filminstitutet, Liv Ullmann, Ingrid Thulin, Harriet Andersson, Sven Nykvist; origine: Svezia; durata: 91’; prima proiezione: New York dicembre 1972. 1972 | Scener ur ett äktenskap | Scene da un matrimonio

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia (Eastmancolor): Sven Nykvist; scenografia: Björn Thulin; montaggio: Siv Lundgren; interpreti: Liv Ullmann (Marianne), Erland Josephson (Johan), Bibi Andersson (Katarina), Jan Malmsjö (Peter), Anita Wall (signora Palm), Rosanna Mariano e Lena Bergman (bambine Eva e Karin), Gunnel Lindblom (Eva), Barbro Hiort af Ornäs (moglie di Jacobi), Wenche Foss, Bertil Norström (Arne);produzione: Cinematograph; origine: Svezia; durata: 294’ la versione integrale per la Tv, 155’ la versione cinematografica; prima proiezione (Tv): primo episodio 11.4.1973, secondo episodio 18.4.1973, terzo episodio 25.4.1973, quarto episodio 2.5.1973, quinto episodio 9.5.1973, sesto episodio 16.5.1973. 1974 | Trollflöjten | Il flauto magico

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: (Eastmancolor): Sven Nykvist; scenografia: Henny Noremark; musica: W.A. Mozart (eseguita dall’orchestra della Radio svedese diretta da Eric Ericson); montaggio: Siv Lundgren; interpreti: Josef Köstlinger (Tamino), Irma Urrila (Pamina), Håkan Hagegård (Papageno), Elisabeth Erikson (Papagena), Britt-Marie Aruhn (prima donna), Kirsten Vaupel (seconda donna), Birgitta Smiding (terza donna), Ulrik Cold (Sarastro), Birgit Nordin (Regina della Notte), Ragnar Ulfung (Monostatos), Erik Saedén (oratore), Gösta Prüzelius (primo sacerdote), Ulf Johanson (secondo sacerdote), Hans Johanson e Jerker Arvidson (le due guardie), Urban Malmberg, Ansgar Krook e Erland von Heijne (i tre fanciulli), Lisbeth Zachrisson, Nina Harte, Helena Högberg, Elina Lehto, Lena Wennergren, Jane Darling, Einar Larsson, Siegfried Svensson, Sixten Fark, Sven-Eric Jacobsson, Folke Johnsson, Gösta Bäckelin, Arne Hendriksen, Hans Kyhle, Carl Henric Qvarfordt; produzione: Televisione svedese Tv2; origine: Svezia; durata: 135’; prima proiezione: in Tv 1.1.1975; al cinema 4.10.1975.

1975 | Ansikte mot ansikte - Face to Face | L’immagine allo specchio

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia (Eastmancolor, panoramico): Sven Nykvist; scenografia: Anne Hagegård, Peter Kropénin; musica: Fantasia in mi minore di W.A. Mozart; montaggio: Siv Lundgren; interpreti: Liv Ullmann (dottoressa Jenny Isaksson), Erland Josephson (dottore Tomas Jacobi), Aino Taube (la nonna), Gunnar Björnstrand (il nonno), Sif Ruud (Elisabeth Wankel) Sven Lindberg (marito di Jenny), Töre Segelke (l’apparizione), Kari Sylwan (Maria), Ulf Johanson (Helmuth Wankel), Gösta Ekman (Mikael Stromberg), Kristina Adolphson (Veronica), Marianne Aminoff (madre di Jenny), Gösta Prüzelius (padre di Jenny), Birger Malmsten (un uomo), Göran Stangertz (un altro uomo), Rebecca Pawlo e Lena Olin (le ragazze); produzione: Cinematograph; origine: Svezia; durata: versione televisiva 200’, versione cinematografica 135’; prima proiezione (Tv): primo episodio 28.4.1976, secondo episodio 5.5.1976, terzo episodio 12.5.1976, quarto episodio 19.5.1976. 1976 | Das schlangenei - The Serpent’s Egg | L’uovo del serpente

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia (Technicolor, panoramico): Sven Nykvist; scenografia: Rolf Zehetbauer; musica: Rolf Wilhelm; montaggio: Petra von Oelffen; interpreti: Liv Ullmann (Manuela Rosenberg), David Carradine (Abel Rosenberg), Gert Fröbe (commissario Bauer), Heinz Bennent (Hans Vergérus), James Whitmore (pastore), Glynn Turman (Monroe), Georg Hartman (Hollinger), Edith Heerdegen (Signora Holle), Kyra Mladeck (signorina Gorst), Fritz Strassner (dottor Soltermann), Hans Quest (dottor Silbermann), Wolfgang Weiser, Paula Braend (signora Hemse), Walter Schmidinger (Solomon), Lisi Mangold (Mikaela), Grischa Huber (Stella), Paul Bürks (attore del cabaret), Isolde Barth, Rosemarie Heinikel, Andrea L’Arronge, Beverly McNeely, Toni Berger (signor Rosenberg), Erna Brunell (signora Rosenberg), Hans Eichler (Max), Harry Kalenberg, Gaby Dohm, Christian Berkel (studente), Paul Burian, Charles Regnier (dottore), Günter Meisner, Heide Picha, Günter Malzacher, Hubert Mittendorf, Hertha von Walther, Ellen Umlauf, Renate Grosser, Hildegard Busse (prostitute), Richard Bohne, Emil Feist, Heino Hall huber, Irene Steinbeiser; produzione: Rialto Film (Berlino), Dino De Laurentiis Corp. (Los Angeles); origine: Usa, Repubblica Federale Tedesca; durata: 119’; prima proiezione: 28.10.1977. 1977 | Höstsonaten - Herbstsonate | Sinfonia d’autunno

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia (Eastmancolor): Sven Nykvist; scenografia: Anna Asp; musica: Preludio numero 2 di Chopin, Suite numero 4 di Bach, Sonata Opus 1 di Haendel; montaggio: Sylvia Ingmarsdotter; interpreti: Ingrid Bergman (Charlotte), Liv Ullmann (Eva), Lena Nyman (Helena), Halvar Björk (Viktor), Marianne Aminoff (segretaria di Charlotte), Erland Josephson (Josef), Arne Bang-Hansen (zio Otto), Gunnar Björnstrand (Paul), Georg Lokkeberg (Leonardo), Mimi Pollak, Linn Ullmann (Eva bambina);produzione: Pesonafilm (Munchen); origine: Repubblica Federale Tedesca; durata: 93’; prima proiezione: 8.10.1978. 1977/79 | Fårödokument 1979 | t. l. Documentario su Fårö 1979

Regia: Ingmar Bergman; fotografia (Eastmancolor): Anne Carlsson; musica: Svante Petterson, Sigvard Huldt, Dag e Lena, Ingmar Nordstroms, Strix Q., Ola and the Janglers; montaggio: Sylvia Ingemarsson; interpreti: gente di Fårö; produzione: Cinematograph, Tv svedese Tv2; origine: Svezia; durata: 103’; prima proiezione (Tv): 24.12.1979. 1979/ 80 | Aus dem Leben der Marionetten | Un mondo di marionette

Regia e sceneggiature: Ingmar Bergman; fotografia (bianco e nero/colore): Sven Nykvist; scenografia: Rolf Zehetbauer; musica: Rolf Wilhelm; montaggio: Petra von Oelffen; interpreti: Robert Aztorn (Peter Egerman), Christine Buchegger (Katarina Egerman) Martin Benrath (Mogens Jensen), Rita Russek (Ka), Lola Muethel (Cordelia Egerman), Walter Schmidinger (Tim), Heinz Bennent (Arthur Brenner), Ruth Olafs, Karl Heinz Pelser, Gaby Dohm, Toni Berger; produzione: Personafilm (Munchen); origine: Repubblica Federale Tedesca; durata: 104’; prima proiezione:

24.1.1981. 1981/82 | Fanny och Alexander | Fanny e Alexander

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia (Eastmancolor): Sven Nykvist; scenografia: Anna Asp; musica: Chopin, Britten, Schumann, Marianne Jacobs; montaggio: Sylvia Ingemarsson; interpreti: Pernilia Alwin (Fanny Ekdahl), Bertil Guve (Alexander Ekdahl), Börje Ahlstedt (Carl Ekdahl), Harriet Andersson (Justina, sguattera), Pernilla Östergren (Maj, balia di Emilie), Mats Bergman (Aron), Gunnar Björnstrand (Filip Landahl), Allan Edwall (Oscar Ekdahl), Srina Ekblad (Ismael), Ewa Fröling (Emilie Ekdahl), Erland Josephson (Isak Jacobi), Jarl Kulle (Gustav Adolf Ekdahl), Käbi Laretei (zia Anna), Mona Malm (Alma Ekdahl), Jan Malmsjö (vescovo Edvard Vergérus), Christina Schollin (Lydia Ekdahl), Gunn Wållgren (Helena Ekdahl), Kerstin Tidelius (Henria Vergérus), Anna Bergman (Hanna Schwartz), Angelica Wallgren (Eva), Sonya Hedenbratt (zia Emma), Svea Holst-Widén (Ester, cameriera di Helena), Majlis Granlund (Vega, cuoca di Helena), Maria Grandluhnd (Petra), Emilie Werkö (Jenny Ekdahl), Christina Almgren (Lisen), Kristina Asolphson (Siri, cameriera), Eva von Hanno (Berta), Carl Billquist (sovrintendente di polizia), Alex Duberg (testimone), Olle Hilding (vecchio prete), Lena Olin (Rosa, nuova balia), Gösta Prüzelius (dottor Furstenberg, medico di famiglia), Hans Strååt (sacerdote alle nozze), Marianne Aminoff (Blenda Vergérus, madre del Vescovo), Mona Andersson (cameriera), Lerfeldt (Elsa Bergius, zia del Vescovo), Marianne Nielsen (cameriera), Marrit Olsson (Malla Tander, cuoca), Nils Brandt (signor Morsing), Lars-Owe Carlbeg (cantante di canone), Gus Dahlström (attrezzista), Hugo Hasslo (cantante di canone), Heinz Hopf (Tomas Graal), Maud HyttenbergBartoletti (signorina Sinclair), Sven Erik Jakobsen (cantante di canone), Marianne Karlbeck (signorina Palmgren), Kerstin Karte (suggeritore), Tore Karte (magazziniere capo), Åke Lagergren (Mikael Bergman), Licka Sjöman (Grete Holm), Viola Abele, Gerd Andersson, Ann-Louise Bergström (donne giapponesi); produzione: Cinematograph per Filminstitutet, Sverige Television 1, Gaumont (Parigi), Personafilm (München), Tobis Filmkunst (Berlino); origine: Svezia, Repubblica Federale Tedesca, Francia; durata: versione televisiva 312’, versione cinematografica 197’; prima proiezione: versione cinematografica 17.12.1982, versione televisiva 17.12.1983. 1983 | Efter repetitionen | Dopo la prova

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia (colore): Sven Nykvist; scenografia: Anna Asp; montaggio: Sylvia Ingemarsson; interpreti: Erland Josephson (Henrik Vogler), Lena Olin (Anna), Ingrid Thulin (Rakel), Nadja PalmstjernaWeiss (Anna a 12 anni), Bertil Guve (Henrik a 12 anni); produzione: Cinematograph per Personafilm (München); origine: Svezia, Repubblica Federale Tedesca; durata: 70’; prima proiezione (Tv): 9.4.1984. 1985 | De två saliga | Il segno

Regia: Ingmar Bergman; sceneggiatura: Ulla Isaksson da un suo romanzo; fotografia (colore): Per Norén; scenografia: Birgitta Bensén; interpreti: Harriet Andersson (Viveka Burman), Per Myrberg (Sune Burman), Christina Schollin (Annika), Lasse Poysti (dottor Dettow), Irma Christenson (signora Storm), Björn Gustafson (un vicino), Majlis Granlund (la bidella), Kristina Adolphson, Margreth Weivers, Bertil Norstrom, Johan Rabaeus, Lennart Tollén, Lars-Owe Carlberg; produzione: Tv svedese Sv2, Channel 4, Orf, Raidue, Vpro, Zdf, Yle; origine: Svezia; durata: 81’; prima proiezione (Tv): 19.2.1986. 1986 | Dokument Fanny och Alexander | t.l. Documentario su Fanny e Alexander

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia (colore): Arne Carlsson; montaggio: Sylvia Ingemarsson;produzione: Cinematograph, Filminstitutet; origine: Svezia; durata: 110’;prima proiezione (Tv): 18.8.1986. 1986 | Karins anskite | Il volto di Karin

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; musica: Käbi Laretei; durata: 14’; prima proiezione (Tv):

29.9.1986. 1995 | Sista skriket | t.l.: l’ultimo grido

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Per Norén, Raymond Wemmenlöv, Sven-Åke Visén; assistenti alla fotografia: Peter Ahlgren, Sven Jarnerup, Anna Nilsson; suono: Magnus Berglid, Göte Carlsson, Kjell Klingemark, Gunnar Frisell; scenografia: Mette Möller; costumi: Mette Möller; trucco: Leif Qviström, Mona Tellström-Bergh; montaggio: Sylvia Ingemarsson, Jan Askelöf; musica: Matti Bye; interpreti: Björn Granath (Georg af Klercker), Ingvar Kjellson (Charles Magnusson), Anna von Rosen (Elisabeth Holm, la segretaria di Magnusson); voce recitante: Ingmar Bergman; direttore di produzione: Lars Bjälkeskog; segretaria di produzione: Karin BrodahlPersson; produttore: Måns Reuterswärd; produzione: Sveriges Television AB Kanal 1, Kungliga Dramatiska Teatern; origine: Svezia; durata: 60’. 1995 | Harald & Harald

Regia e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Jan Wictorinus, Pär-Olof Rekola, Arne Halvarsson; suono: Ulf Janzon, Jan-Eric Piper, Sven-Erik Jansson; scenografia: Göran Wassberg; montaggio: Louise Brattberg; interpreti: Björn Granath (Harald), Johan Rabaeus (Harald), Benny Haag (il clown); produttore: Måns Reuterswärd; produzione: Sveriges Television AB, Kungliga Dramatiska Teatern; origine: Svezia; durata: 10’. 1997 | Lamar och gör sig till | Vanità e affanni

Regia, soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Per Norén, Per Sundin, Raymond Wemmenlöv, Sven-Åke Visén; scenografia: Göran Wassberg; montaggio: Sylvia Ingemarsson; musica: F. Schubert (Sonata per pianoforte in Si bemolle maggiore, op. postuma); interpreti: Börje Åhlstedt (Carl Åkerbolm), Erland Josephson (Osvald Vogler), Marie Richardson (Pauline Thibault), Agneta Ekemanner (Mia Falk), Peter Stormare (il proiezionista), Pernilla August (Karin Åkerbolm), Anita Björk (la “matrigna”), Gunnel Fred (il clown), Johan Lindell (il dottor Egerman), Gerthi Kulle, Lena Endre, Johan Lindell, Folke Asplund, Anna Björk, Inga Landgré, Alf Nilsson, Harriet Nordlund, Tord Peterson, Birgitta Pettersson; produzione: Svt Drama; origine: Svezia; durata: 118’. 2000 | Bildmakarna | t.l.: Il creatore di immagini

Regia: Ingmar Bergman; soggetto: Bildmakarna, pièce teatrale di Per Olov Enquist; fotografia: Raymond Wemmenlöv; suono: Thomas Krantz, Gabor Pasztor; scenografia: Göran Wassberg; costumi: Mago; montaggio: Sylvia Ingemarsson, Sofi Stridh, Sven-Åke Visén; musica: E. Avolas (Derecho Viejo), F. Schubert (Der Tod und das mädchen); interpreti: Anita Björk (Selma Lagerlöf), Lennart Hjulström (Victor Sjöström), Carl Magnus Dellow (Julius Jaenzon), Elin Klinga (Tora Teje), Henry “Nypan” Nyberg (il proiezionista); direttore di produzione: Pia Ehrnvall; produzione: Sveriges Television AB, Kungliga Dramatiska Teatern, Danmarks Radio, Yleisradio Ab; origine: Svezia/Danimarca/Finlandia; durata: 100’. 2003 | Saraband | Sarabanda

Regia, soggetto, sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Stefan Eriksson, Jesper Holmström, Sofi Stridh, Per-Olof Lantto, Raymond Wemmenlöv; suono: Carl Edström; scenografia: Göran Wassberg; costumi: Inger Pehrson; montaggio: Sylvia Ingemarsson; musica: J.S. Bach, A. Bruckner, J. Brahms; interpreti: Liv Ullmann (Marianne), Erland Josephson (Johan), Börje Ahlstedt (Henrik), Julia Dufvenius (Karin), Gunnel Fred (Martha); direttore di produzione: Pia Ehrnvall; produzione: Svensk Television Fiktion, Svensk Filmindustri, Zdf Arte, Nrk, RaiTv, Yle; origine: Svezia; durata: 107’, col.     COLLABORAZIONI A FILM DI ALTRI REGISTI 1944 | Hets | Spasimo

Regia: Alf Sjöberg; soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman. 1947 | Kvinna utan ansikte | La fiera del peccato

Regia: Gustav Molander; soggetto e sceneggiatura: Gustav Molander e Ingmar Bergman. 1948| Eva

Regia: Gustav Molander; soggetto e sceneggiatura: Gustav Molander e Ingmar Bergman. 1950 | Medan staden sover | La banda della città vecchia

Regia: Lars-Erik Kjellgren; soggetto: Ingmar Bergman. 1950 | Frånskild | I divorziati

Regia: Gustav Molander; sceneggiatura: Ingmar Bergman e Herbert Grevenius. 1956 / I Sista paret ut | La sesta coppia fuori

Regia: Alf Sjöberg; soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman. 1957 | Nattens ljus | Luce della notte

Regia: Lars-Eric Kjellgren; sceneggiatura: Lars-Eric Kjellgren e Ingmar Bergman (in piccola parte). 1961 | Lustgården | Parco dei divertimenti

Regia: Alf Kjellin; sceneggiatura: (in collaborazione) Ingmar Begman. 1969/70 | Reservatet | La riserva

Regia: Jan Molander; soggetto, sceneggiatura e supervisione: Ingmar Bergman. 1991 | Best intentions | Con le migliori intenzioni

Regia: Bille August; soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman. 1991 | Soendagsbarn | t.l. Il figlio della domenica

Regia: Daniel Bergman; sceneggiatura: Ingmar Bergman.

La prima fonte d’informazione su Bergman è doverosamente quella dei testi dei suoi film. Bergman è infatti anzitutto un brillante scrittore. C’è da dire, addirittura, che la lettura dei dialoghi da lui scritti costituisce un’emozione supplementare rispetto alla visione dei film. Le antologie fondamentali in lingua italiana sono le due pubblicate da Einaudi: Quattro film (Sorrisi di una notte d’estate, Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, Il volto), Einaudi, Torino, 1961; Sei film (Luci d’inverno, Come in uno specchio, Il rito, Sussurri e grida, Persona), Einaudi, 1979. Ma è da segnalare, se non altro per l’introduzione, anche la prima antologia uscita in Francia nel 1962 Oeuvres (Introduzione e dialoghi di Un’estate d’amore, Una vampata d’amore, Sorrisi di una notte d’estate, Il settimo sigillo, Il posto delle fragole, Il volto), Robert Laffont, Parigi, 1962. Einaudi ha

pubblicato anche i testi di altri film: Scene di vita coniugale, 1974 (con dialoghi dialoghi di Scene da un matrimonio) e L’immagine nello specchio, 1977. Molte sceneggiature si trovano nella rivista «Cineforum» (Come in uno specchio, n. 14, 1962, pp. 347-359; Luci d’inverno, n. 22, 1963, pp. 116-149, anche in «CM» n. 27, 1977, pp. 45-67; Il silenzio, n. 32, 1964, pp. 133-165; Persona, n. 61, 1967, pp. 29-56; L’ora del lupo, n. 76, 1968, pp. 427-444, anche in «CM» n. 31, 1978, pp. 3247; La vergogna, n. 83, 1969, pp. 184-206). Altri testi sono apparsi in «Cinema nuovo» (Il posto delle fragole, n. 144, 1960, pp. 169-178 e n. 145, 1960, pp. 160-274; Il rito, n. 212, 1971, pp. 297305, n. 213, 1971 pp. 375-381 e n. 214, 1971 pp. 454-463). «Filmcritica» ha pubblicato il testo di Il settimo sigillo n. 90, 1960, pp. 24-46. Della abbondantissima letteratura su Bergman fanno parte di diritto i suoi scritti, che aiutano molto a capire il suo mondo in quanto gran parte della sua opera ha un’ispirazione autobiografica. Va citata anzitutto l’autobiografia intitolata Lanterna magica, edita in Italia da Garzanti nel 1987 e seguita, a fine 1991, da un altro lavoro autobiografico, basato questa volta più sui film, dal titolo Bilder (Immagini), pubblicato in Svezia da Kiepenheuer e Witsch e in Italia da Garzanti. Ma seguire troppo alla lettera Bergman comporta alcuni rischi: distrarre troppo l’attenzione dalla sua opera, che vive di vita propria al di là di spiegazioni di comodo e perdersi nel ginepraio delle contraddizioni disseminate qua e là. Ecco comunque un elenco di scritti di Bergman particolarmente stimolanti: – Qu’est ce que «faire des films»?, «Cahiers du cinéma», n. 61, 1956 (tradotto in italiano in «Centrofilm» n. 4). – Chacun de mes films est le dernier, «Film- Nyheter», Stoccolma, maggio 1959, ripreso da «Cahiers du cinéma» n. 100, 1959. – Il dito mignolo di un gigante, «Cinema nuovo», anno VIII, n. 139, maggio-giugno 1959. – La prigione della mia solitudine, «Cineforum», n. 61, 1967, pp. 19-22. – Nel cinema si può fare ciò che si vuole!, «Chaplin», Stoccolma, febbraio 1968, ripreso da «Cinema & Film» n. 5-6, 1968. – Io vivo ogni film che faccio come un sogno, «Cineforum», n. 77, 1968, pp. 449-452. – Io difendo il mio diritto di essere quello che sono, «Cineforum», n. 77, 1968, pp. 464-474. – Se Dio vuole e se io ci riesco farò ancora quattro o cinque film e poi mi fermerò, «CM» n. 2, 1971, pp. 118-122. Vanno aggiunte le numerose interviste, a cominciare da quella famosa apparsa nell’ottobre 1968 sulla rivista svedese «Chaplin» a firma di Ernest Riffe, pseudonimo sotto il quale sembra si celasse lo stesso Bergman. Sono comunque da tener presenti le seguenti interviste: – M. Martin, Intervista a Ingmar Bergman, «Les lettres françaises» (a proposito del film La vergogna), dicembre 1967. – Lietta Tornabuoni, Io e il mostro, «L’Europeo», 14/3/1968. – Bo Stromstedt, A cosa ti aggrappi Ingmar Bergman?, «Rocca» n. 6, 1969, pp. 39-42. – L.O. Othwall, Nouvel entretien avec Ingmar Bergman, «Take One», Canada, 1969, ripreso da «Cahiers du cinéma», n. 215, 1969. – S. Björkman, T. Manns, J. Sima, Le cinéma selon Bergman, Seghers, Parigi, 1974. – Gian Luigi Rondi, 7 domande a 49 registi, Sei, Torino, 1975, pp. 240-261. – Intervista con Ingmar Bergman su Il flauto magico, «CM» n. 21, 1976. – Al Alvarez, Ingmar Bergman poeta della materia, «la Repubblica», 1/2/1976. – Jörn Donner, Bergman come in uno specchio, «Epoca», 7/7/1979 e 14/7/1979. – Gian Luigi Rondi, “Ingmar Bergman da Hitler a Ibsen”, in Il cinema dei maestri, Rusconi, Milano, 1980. – Le telefonate: Ingmar Bergman, «Il venerdì di Repubblica» 26/4/1991, pp. 98-99. Il panorama degli scritti su Bergman è oltremodo vasto. Prescindendo dagli innumerevoli e interessanti saggi critici sui singoli film (dei quali si avrà un’idea attraverso le note presenti in

questo libro), forniamo alcune indicazioni di massima per un minimo di antologia ragionata. Il punto di partenza per l’interesse suscitato da Bergman al di là delle frontiere del suo Paese è senza dubbio l’anno 1956, quando Sorrisi d’una notte d’estate fece parlare di lui al Festival di Cannes, ma è da ricordare che in Italia già da due anni Bergman era stato segnalato nel libro Dramma e rinascita del cinema svedese, di Bengt Idestam Almquist, pubblicato nella collana di studi cinematografici diretta da Giuseppe Sala per le edizioni Bianco e nero. Nel libro si parlava già di Bergman come di «uno dei maggiori talenti cinematografici della Svezia». In Francia l’occasione per scatenare l’interesse attorno a Bergman fu senza dubbio la grande retrospettiva organizzata dalla Cinéma thèque Française nel 1958. Fu allora che Godard scrisse sui «Cahiers du cinéma»: «Bergman è il cineasta dell’istante». (Jean-Luc Godard, Bergmanorama, «Cahiers du cinéma» n. 85, luglio 1958, riprodotto in Id., Il cinema è il cinema, Garzanti, Milano, 1981). Ma già due anni prima Rohmer aveva presentato Bergman ai lettori della stessa rivista e, un anno prima, già Jean Béranger aveva avviato il dibattito con un’analisi molto positiva dei primi film fino a Il settimo sigillo (Jean Béranger, Les trois meta-morphoses d’Ingmar Bergman, «Cahiers du cinéma», n. 74, agosto/settembre 1957). Dello stesso autore sono da segnalare ulteriori approfondimenti (Ingmar Bergman et ses films, Le terrain vague, Parigi, 1960; La grande aventure du cinéma suédois, Le terrain vague, Parigi, 1960; con Francis D. Guyon: Ingmar Bergman, «Premier Plan», n. 34, Lione, 1964). Dell’abbondante letteratura francese segnaliamo inoltre: – Jacques Siclier, Ingmar Bergman, Editions Universitaires, Parigi, 1960. – Claude Gauteur, Renaissance du cinéma suédois, «Cinéma 58», n. 29, luglio/agosto 1958. – Francis D. Guyon, Ingmar Bergman, «Premier Plan» n. 3, Lione, 1959. – Jean-Louis Comolli, Bergman Anonyme, «Cahiers du cinéma», n. 156, giugno 1964. – Michel Estève, Ingmar Bergman, la trilogie, «Etudes cinématographiques», n. 46/47, Parigi, 1966. – Jean Narboni, Ingmar Bergman: le festin de l’araignées, «Cahiers du cinéma», n. 193, settembre 1967. Sono poi da citare due interessanti antologie: Ingmar Bergman: la trilogie, apparsa su «Etudes cinématographiques» n. 46-48, 1966, con contributi di Berthélémy Amengual, Guido Aristarco, Pio Baldelli, Jos Burvenich, Michel Estève, Denis Marion, Claude Perrin, Vincent Pinel, Pierre Renaud, e il fascicolo speciale n. 226 del marzo 1969 di «Image et Son». Lo studioso cattolico Amédée Ayfre dedicò a Bergman già nel dicembre 1960 un importante saggio pubblicato a Barcellona sotto il titolo L’universo di Ingmar Bergman, in «Documentos». Lo scritto è riprodotto in italiano in Id., Contributi a una teologia dell’immagine, Edizioni Paoline, Roma, 1966. Tra i contributi più recenti segnaliamo il libro Ingmar Bergman di Denis Marion, Gallimard, Parigi, 1979, che ha il pregio di rivisitare le tematiche bergmaniane alla luce dei film più recenti. Nell’area inglese il primo saggio rilevante uscì nel 1958 a firma di Erik Ulrichsen Ingmar Bergman and the Devil, «Sight and Sound», n. 5, 1958. Per il resto, sono da segnalare due interventi di Peter Cowie Ingmar Bergman, Motion Publications, Loughton, Essex, 1962; Michelangelo Anto nioni, Ingmar Bergman, Alain Resnais, The Tantivy Press, Londra, 1963 e l’accurato libro di John Simon Ingmar Bergman Directs, Davis-Poynter, Londra, 1973. Nell’area americana si segnalano: – David R. Nelson, Ingmar Bergman: the Search for God, Films Studies n. 1, Boston University, 1964. – Arthur Gibson, The Silence of God. Creative Response to the Films of Ingmar Bergman, Harper and Row, New York, 1969.

– Robin Wood, Ingmar Bergman, Fredrick A. Praeger Inc., New York, 1969. Più recente, l’antologia di articoli di ventisette critici, per lo più americani e inglesi, dal titolo Ingmar Bergman: Essays in Criticism, Oxford University Press, New York, 1975. In Spagna Bergman è stato oggetto di notevole attenzione negli anni Sessanta. I titoli più rilevanti sono: – Carlos Fernandez Cuenca, Introduccion al estudio de Ingmar Bergman, Filmoteca Nacional, Madrid, 1961. – Julio Martinez, Ingmar Bergman, «Film Ideal», n. 108, Madrid, 1962. — Segismundo Molist, Ingmar Bergman o el universo crepuscolar, «Film Ideal», nn. 205-206207, Madrid, 1969. Tra i critici svedesi che si sono occupati di Bergman il più noto in Italia è Jos Burvenich (La donna nell’universo di Bergman, «Cine-forum», n. 21, 1963, pp. 13-25; Il silenzio di Dio in Bergman, «Cineforum» n. 24, 1963, pp. 373-378; Cinema svedese contemporaneo: appunti per una introduzione e «Incontri» di Sorrento, «Bianco e nero», novembre/dicembre 1968, pp. 45-63). È d’obbligo comunque un’occhiata anche allo scritto del saggista e regista di origine finlandese Jörn Donner Djavulens ansikte, Aldus Bonnies, Stoccolma, 1962, in italiano Il volto del diavolo, «Cineforum», 1966 che, prendendo lo spunto dal film L’occhio del diavolo, offre una panoramica generale sul mondo poetico di Bergman. In Italia il primo saggio di un certo peso uscì nel 1959 a firma di Corrado Farina Ingmar Bergman, «Centrofilm», n. 4, 1959, che poi sarebbe passato alla regia. Il saggio è seguito dai dialoghi di Il settimo sigillo. Nello stesso anno cominciò a occuparsi di Bergman Guido Aristarco con I volti e le possibilità astratte, «Cinema nuovo» n. 141, 1959, sulla scia della Mostra di Venezia. Aristarco prendeva le distanze dalla critica francese che aveva accentuato il lato spiritualistico del cinema di Bergman, approfondendo invece l’analisi ideologica e sociologica. Di Aristarco si leggano, in particolare, Il tema della solitudine in Dreyer e in Bergman, in «Opuscolo del Circolo Monzese del Cinema», aprile 1960; “Da Dreyer a Bergman”, in Vittorio Spinazzola (a cura di), Film 1961, Feltrinelli, Milano; Guido Aristarco, “La solitudine ontologica di Dreyer e Bergman”, in Id., Il dissolvimento della ragione, Feltrinelli, Milano, 1965, pp. 541-578; Monologo e nulla, tragedia della persona bergmaniana, «Cinema Nuovo», n. 185, gennaio/febbraio 1967; L’ateismo borghese nel Bergman del Silenzio, «Cinema Nuovo» n. 186, marzo/aprile 1967; I sussurri e le grida, Sellerio, Palermo, 1988. In questi scritti particolare rilievo merita l’analisi del rapporto tra Bergman e Dreyer e tra Bergman e Kierkegaard, nonché la prospettiva junghiana, riscontrata in modo particolare in Persona. Su una linea non lontana da quella di Aristarco si muove in genere la critica marxista, che su Bergman si esercita principalmente con la penna di Guido Oldrini, Lo sfondo culturale della critica su Ingmar Bergman, «Cinema Nuovo» n. 144, marzo/aprile 1960; Solitudine di Ingmar Bergman, Guanda, Parma, 1965; Reflusso del problematicismo nell’ultimo Bergman, «Cinema Nuovo» n. 202, novembre/dicembre 1969; e principalmente Problemi di teoria e storia del cinema, Guida Editori, Napoli, 1976, pp. 159-218. La problematica esistenziale di Bergman ha naturalmente affascinato fin dall’inizio la critica di area cattolica, che a questo regista ha dedicato un’attenzione particolare, specialmente negli anni Sessanta, ma anche in seguito. Si leggano, in proposito, gli scritti di Mario Verdone, Da Bergman ad Antonioni, «Bianco e nero» n. 8/9, 1964, pp. 7-26; Bergman o del dubbio, «Primi piani» ed. Cineforum, Siena, 1967, pp. 14-25; Gianfranco Bettetini, Ingmar Bergman, «Rivista del cinematografo» n. 1, 1961, pp. 20-24, Leandro Castellani, Temi e figure del cinema contemporaneo, Studium, Roma, 1963, pp. 76-99; Ernesto G. Laura, Ingmar Bergman: un nuovo “Kammerspiel”, «La Biennale di Venezia», n. 48, 1963; Il primo Bergman: la faticosa nascita di uno stile, «Bianco e nero» n. 8/9, 1964, pp. 58-72; Tre voci spiritualistiche nel cinema contemporaneo: Bresson- Dreyer-

Bergman, «Cineforum» n. 45, 1965, pp. 356-365. Ricordiamo ancora, oltre alle puntuali e ricche Schede filmografiche della Sanpaolofilm, gli scritti di Francesco Dorigo, Quattro maestri - Ingmar Bergman, «CM», n. 13-14, 1974, pp. 269-276; Barbara Giacomelli, Ingmar Bergman un uomo alla ricerca di Dio, «Vita pastorale», n. 2, 1978, pp. 39-42. Segnaliamo ancora: Anna Maria Pierdominici, Figli di Kierkegaard, «Rivista del cinematografo», febbraio 1973, pp. 72-79, Alberto Pesce, “Ingmar Bergman: inferno dell’uomo, silenzio di Dio”, in Id., Oltre lo schermo, Quaderni di Humanitas, Morcelliana, Brescia, 1988, pp. 127-137; Franco Farago, Dall’io crocifisso all’io risuscitato - La passione di Ingmar Bergman, «CM» n. 28, 1977, pp. 21-30. Interessanti anche le osservazioni di Angelo Lucano in Cultura e religione nel cinema, Eri, Roma, 1975, pp. 335 ss. Ma i due testi fondamentali per una panoramica generale sull’opera bergmaniana dal punto di vista cattolico sono il vasto e circostanziato volume di Alfonso Moscato, Ingmar Bergman - La realtà e il suo doppio, Edizioni Paoline, Roma, 1981 e l’approfondita ricognizione dell’itinerario interiore del regista fatta dal gesuita Luigi Bini in Ingmar Bergman da Come in uno specchio, Edizioni Letture, Milano, 1980; oltre che nelle numerose recensioni pubblicate sulla rivista «Letture». Prende occasione da Scene da un matrimonio ma si risolve in uno studio sulla religiosità di Bergman ricco di spunti originali l’articolo di Virgilio Fantuzzi pubblicato su «La civiltà cattolica» nel 1975 (“Scene da un matrimonio”di Ingmar Bergman, quaderno n. 300 7, pp. 65-73). A completamento di queste indicazioni bibliografiche va fatto poi cenno ad alcune altre opere interessanti pubblicate attraverso gli anni. Per esempio, Tito Ranieri, Ingmar Bergman, La Nuova Italia, Firenze, 1974 e il libro di Tommaso Chiaretti, Ingmar Bergman, edito da Canesi nel 1964. Per un raffronto tra il cinema di Bergman e quello di Antonioni si veda, oltre alle opere già citate, il lungo saggio di Pio Baldelli Il cinema dell’ambiguità: Bergman-Antonioni, Samonà e Savelli, Roma, 1971. Sul rapporto con Fellini si veda lo scritto di Maria Teresa Busco Miti contemporanei: Fellini e Bergman, «Bianco e nero», febbraio 1965, pp. 39-46. Sull’atteggiamento “politico” di Bergman e sul suo rapporto con la società svedese e con la socialdemocrazia è stimolante il saggio di Fernaldo Di Giammatteo Ingmar Bergman, un ribelle ai margini dell’Europa, «Bianco e nero» aprile/maggio 1964, pp. 90-97. Sul particolare uso che Bergman fa della musica nei suoi film offre spunti di riflessione Ermanno Comuzio in Musica, suoni e silenzi nei film di Bergman, «Cineforum», n. 32, 1964, pp. 166-173.

AGGIORNAMETO BIBLIOGRAFICO   Testi su Bergman e i suoi film

Guido Aristarco, I sussurri e le grida, Sellerio Editore, Palermo, 1988. Francesco Bono (a cura di), Il giovane Bergman 1944-1951, Officina, Roma, 1992. Lise-Lone Marker, Frederick J. Marker, Ingmar Bergman. Tutto il teatro, Ubulibri, Milano, 1996. Merete Kjoller, Bergman e Shakespeare, Bulzoni, Roma, 1997. Roger W. Oliver (a cura di), Ingmar Bergman. Il cinema, il teatro, i libri, Gremese Editore, Roma, 1999. Sergio Arecco, Ingmar Bergman. Segreti e magie, Le Mani, Genova, 2000. Sven Nykvist, Nel rispetto della luce. Cinema e uomini, Lindau, Torino, 2000. Aldo Garzia, Fårö, la Cinecittà di Ingmar Bergman, Sandro Teti Editore, Roma, 2001. Fabrizio Marini, Ingmar Bergman. Il settimo sigillo, Lindau, Torino, 2002. Riccardo Costantini (a cura di), Ingmar Bergman. Di silenzi e desideri, Centro Espressioni Cinematografiche/ Cinemazero/La Cineteca del Friuli, Pordenone, 2004. Luciano De Giusti (a cura di), L’opera multiforme di Bergman. Oltre il commiato: 1982-2003, Il Castoro, Milano, 2005. Olivier Assayas e Stig Bjrökman, Conversazione con Ingmar Bergman, Lindau, Torino, 2008. Giulia Carluccio e Fabio Pezzetti (a cura di), Dossier Ingmar Bergman, «La Valle dell’Eden», anno X, n. 20, Carocci Editore, Roma, gennaio-giugno 2008. Alberto Corsani, Il libro che affiora: suggestioni dal cinema di Ingmar Bergman, Seb 27, Torino, 2008. Francesco Netto, Ingmar Bergman. Il volto e le maschere, Ente dello Spettacolo, Roma, 2008. Alberto Scandola, Ingmar Bergman. Il posto delle fragole, Lindau, Torino, 2008. Lucilla Albano, Ingmar Bergman. Fanny e Alexander, Lindau, Torino, 2009. Antonio Costa (a cura di), Ingmar Bergman, Marsilio, Venezia, 2009. Andrea Minuz, Dell’incantamento. Hitchcock, Bergman, Fellini e il motivo dello sguardo, Ipermedium, Napoli, 2009. Aldo Garzia, Bergman, the genius. La vita, le idee, i film, i libri, i rapporti con l’Italia, l’amore per l’isola di Fårö, Editori Riuniti University Press, Roma, 2010. Scritti di Bergman

Ingmar Bergman, L’uovo del serpente, Einaudi, Torino, 1980. Ingmar Bergman, Fanny e Alexander: un romanzo, Ubulibri, Milano, 1987. Ingmar Bergman, Nati di domenica, Garzanti, Milano, 1993. Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, Iperborea, Milano, 1994 (con introduzione di Goffredo Fofi). Ingmar Bergman, Con le migliori intenzioni, Garzanti, Milano, 1994. Ingmar Bergman, Conversazioni private, Garzanti, Milano, 1996. Ingmar Bergman, Il quinto atto, Garzanti, Milano, 2000. Ingmar Bergman (a cura di Luca Scarlini), Pittura su legno, Einaudi, Torino, 2001. Ingmar Bergman, Il posto delle fragole, Iperborea, Milano, 2004 (con postfazione di Paolo Mereghetti). Ingmar Bergman, Sarabanda, Iperborea, Milano, 2005 (con postfazione di Paolo Mereghetti). Ingmar Bergman, Il giorno finisce presto, Iperborea, Milano, 2008 (con postfazione di Luca Scarlini). Ingmar Bergman, Maria Von Rosen, Tre diari, Iperborea, Milano, 2008 (con postfazione di Goffredo Fofi).

Indice

Dalle immagini alle coscienze Ingmar Bergman I primi film Un’estate d’amore Donne in attesa Monica e il desiderio Una vampata d’amore Una lezione d’amore Sogni di donna Sorrisi di una notte d’estate Il settimo sigillo Il posto delle fragole Alle soglie della vita Il volto La fontana della vergine L’occhio del diavolo Come in un specchio Luci d’inverno Il silenzio A proposito di tutte queste… signore Persona L’ora del lupo La vergogna Il rito Passione L’adultera Sussurri e grida Scene da un matrimonio Il flauto magico L’immagine allo specchio L’uovo del serpente Sinfonia d’autunno Un mondo di marionette Fanny e Alexander Dopo la prova II segno Conclusione

Filmografia Nota bibliografica