Indios, cinesi, falsari. Le storie del mondo nel Rinascimento
 8858124634, 9788858124635

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Storia e Società

Giuseppe Marcocci

Indios, cinesi, falsari Le storie del mondo nel Rinascimento

Editori Laterza

© 2016, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione giugno 2016

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Anno 2016 2017 2018 2019 2020 2021

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-2463-5

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

PREMESSA I volti che oggi si incontrano passeggiando per le strade di molte città del mondo, come le merci in vendita nelle vetrine dei negozi che vi si affacciano, rinviano a luoghi anche assai distanti e alle culture più diverse. Tendiamo ad associare tutto questo alla globalizzazione, un fenomeno recente secondo l’opinione diffusa, se con essa s’intende un processo di crescente omologazione del pianeta che discende dall’interdipendenza economica fra le sue parti e dagli stili di vita sempre più simili dei suoi abitanti. L’indubbia accelerazione nel mutamento dei rapporti tra uomini e mondo verificatasi nell’ultimo quarto di secolo si accompagna spesso a un discorso pubblico che evoca una nuova comunità umana globale, fondata sul rispetto dei diritti e delle differenze. Migrazioni e guerre ci ricordano ogni giorno lo scarto che esiste fra questa retorica e la realtà. Inoltre, le società del nostro tempo sembrano caratterizzate da un tacito patto che si regge sul disinteresse per il passato, come se il rispetto delle differenze richiedesse l’oblio e la costruzione del senso di unità del globo non avesse una storia. Questo aspetto distingue radicalmente il mondo del presente da quello di circa cinque secoli fa, che si misurava con la sua nuova immagine emersa a poco a poco dalle grandi esplorazioni. Se le trasformazioni legate a queste ultime ebbero un impatto notevole sulla vita materiale, la coscienza della globalità riguardava allora una minoranza, benché molto eterogenea al suo interno. A questa coscienza contribuì il fatto che la scoperta dell’America rese per la prima volta manifesta l’esistenza di continenti che si ignoravano a vicenda e portò alla convergenza dei loro tempi, fino ad allora indipendenti come quelli degli affluenti prima di unirsi nel corso di un fiume. Fu un fatto senza precedenti: accanto alla scoperta di nuove terre e di nuovi uomini, vi fu anche quella dei loro passati, che avevano lasciato una

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molteplicità di tracce materiali e di memorie trasmesse nelle forme più sorprendenti. Il mondo emergeva così come un contenitore di tante storie, ma come restituirne la polifonia? Questa domanda trovò risposte molto diverse tra loro, ma a porsela non furono solo i discendenti di coloro che avevano scoperto l’America. Come vedremo, se vi è un fenomeno che conferma l’impatto globale dell’immagine del mondo prodotta dalle esplorazioni e dalle nuove conoscenze ad essa legate, è il fatto che grossomodo negli stessi decenni, in località anche assai distanti le une dalle altre, uomini appartenenti a lingue e culture differenti si misero a scrivere storie del mondo. Era una reazione all’inattesa scoperta della pluralità del passato, che all’improvviso rese superati i racconti delle vecchie storie universali. I risultati furono molto vari, ma non si deve cadere nella tentazione di vederli come un’anticipazione degli orizzonti della storiografia attuale, tornati ad allargarsi all’intero globo. L’interesse delle storie del mondo scritte tra Cinque e Seicento risiede piuttosto nel fatto che, pur avendo intrapreso vie molto diverse da quelle seguite dagli storici odierni, risposero a un disorientamento in parte simile, dovuto alla perdita delle coordinate tradizionali delle proprie culture di appartenenza. Le vie percorse da chi si avventurò nell’impresa di scrivere una storia del mondo, mentre questo cambiava di forme e dimensioni, rivestono un interesse anche nel caso dell’Europa e dei possedimenti transoceanici delle sue maggiori potenze. Quelle opere – scritte all’ombra degli imperi iberici e dei tentativi di sfidarli da parte di francesi, inglesi e olandesi – si vennero infatti a sovrapporre e ad incrociare con il recupero dell’antichità classica che da tempo vedeva impegnati gli umanisti, svelando un Rinascimento dagli orizzonti più vasti di quelli che generalmente gli vengono attribuiti. In ogni caso, l’urgenza di misurarsi con la storia del mondo, servendosi di materiali e informazioni dalle provenienze più varie, dipese spesso da singolari esperienze di vita. Perciò, questo libro presenta un racconto affollato di uomini e storie, un viaggio a ritroso nel tempo, dal Messico alla Cina, passando per le isole Molucche e il Perù, ma anche per le botteghe dei tipografi veneziani e le grandi corti rivali di Spagna e d’Inghilterra. Qual era il passato di popolazioni come gli indios dell’America, di cui gli europei non avevano mai sentito parlare prima di allora? In che modo spiegare le testimonianze di tempi remoti di cui non dava-

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no conto né la Bibbia, né gli autori greci e latini? Come riconciliare un’improvvisa molteplicità di storie con il crescente senso di unità del globo? In un’età di conquistatori e missionari, a queste domande furono date risposte creative che entrarono in circolazione, produssero dibattiti e favorirono riprese e traduzioni da una lingua all’altra, attraverso culture che, nonostante conflitti confessionali tra cattolici e protestanti e accese rivalità fra gli imperi d’oltremare, erano tutto salvo che impermeabili. Questo non toglie, però, che la scelta di restituire voce alla storia di popolazioni assoggettate o nemiche potesse creare non pochi problemi in un’età di ferro, in cui i grandi poteri politici e religiosi pretendevano di controllare l’immagine del passato per legittimare la loro azione nel presente. È proprio questa la ragione per cui, tra i personaggi che si incontrano in questo libro, alcuni scrissero dai margini, mentre si trovavano in esilio, in ospedale o in prigione, e le loro opere raramente furono stampate. Altri, invece, scrissero per il mercato, mentre quanti assunsero il punto di vista di un impero, o dell’ordine religioso al cui servizio operavano, contribuirono a fissare modelli che restrinsero gli spazi di autonomia e sperimentazione. Una particolare attenzione, dunque, è rivolta alle circostanze in cui quelle storie del mondo furono composte, nonché all’intreccio fra queste ultime e le esperienze personali dei loro autori. Accanto a molti lavori recenti che stanno modificando l’immagine di quella che per una convenzione eurocentrica chiamiamo ancora età moderna, invitandoci a osservarla in una prospettiva più ampia e meno lineare a partire da un mondo che si reggeva sull’equilibrio fra grandi imperi globali, questo libro conserva un debito speciale con due studiosi italiani che hanno aperto la via a un nuovo modo di studiare le trasformazioni della cultura europea di fronte alle domande sollevate dalle grandi esplorazioni: Rosario Romeo e Giuliano Gliozzi1. Le loro ricerche, pubblicate in due stagioni molto diverse, il secondo dopoguerra e gli anni settanta del secolo scorso, hanno in comune una lettura ravvicinata delle fonti e la tendenza a incrociarle secondo percorsi originali che rivelarono panorami sto1 R. Romeo, Le scoperte americane nella coscienza italiana del Cinquecento (1954), Laterza, Roma-Bari 19893; G. Gliozzi, Adamo e il Nuovo Mondo. La nascita dell’antropologia come ideologia coloniale: dalle genealogie bibliche alle teorie razziali (1500-1700), La Nuova Italia, Firenze 1977.

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rici insospettati. Nelle pagine che seguono, in ogni caso, la storia come forma di scrittura e di conoscenza riveste una centralità che non ha né in Romeo, né in Gliozzi, e soprattutto l’analisi non si limita all’impatto del Nuovo Mondo, ma cerca di mostrare come la scoperta dell’America abbia fatto parte di un più generale e complesso riorientamento culturale che nasceva da un mutato rapporto con il mondo nel suo insieme, e non con una sua parte soltanto. L’inevitabilità di uno sguardo globale su questa materia si impone, per esempio, a chi trascorra un soggiorno di ricerca presso la John Carter Brown Library di Providence, negli Stati Uniti. Vi si conserva uno straordinario deposito di libri sull’America pubblicati dalla sua scoperta fino al 1800. La biblioteca risponde ancora all’obiettivo con cui fu avviata la collezione che costituisce il suo nucleo originario nella prima metà del XIX secolo: possedere ogni volume che contenga anche solo poche righe riguardo al Nuovo Mondo. Ma a scorrere le schede del catalogo manuale si ricava l’impressione che ogni tentativo di racchiudere in rigide classificazioni i titoli della biblioteca pubblicati tra Cinque e Seicento sia destinato a scontrarsi con l’orizzonte globale del loro contenuto. In questo libro non si vuole suggerire che le storie del mondo nel Rinascimento siano arrivate a rappresentare un genere di scrittura storica maturo e definito. Quelli che sono presi qui in esame furono tentativi di dare conto di un nuovo orizzonte della conoscenza che, apertosi nella prima metà del Cinquecento, esaurì la sua spinta agli inizi del Seicento. E poiché si trattò di un universo di manifestazioni culturali profondamente calate in precisi contesti storici, si è consapevolmente scelto di rifuggire da ogni pretesa di esaustività, seguendo un percorso d’indagine che si concentra su specifici casi di studio, pur mettendo in luce le connessioni tra i frammenti di quella che fu realmente una vicenda intellettuale globale. Qualche parola sull’organizzazione interna del libro e sul contenuto dei suoi sei capitoli potrà renderne più chiaro il disegno d’insieme. L’apertura è dedicata agli storici di oggi che si confrontano con la sfida della storia globale, alle resistenze che essa incontra e alle diverse forme di praticarla. È in questo ambito che ha preso corpo un interesse per le storie del mondo scritte nei secoli passati, cui potrebbe essere ricondotto a prima vista anche questo libro. Esso adotta, tuttavia, una prospettiva differente: si concentra sulla novità delle storie del mondo composte nell’età delle esplorazioni,

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viste non come una fase fra le altre all’interno di un’evoluzione delle storie universali che giunge fino al presente, ma come l’espressione di una breve stagione del Rinascimento in cui maturarono domande in parte simili a quelle attuali, pur ricevendo risposte profondamente diverse. La discussione di alcuni esempi di storie del mondo scritte da autori mughal e ottomani tra Cinque e Seicento permette di avere una più adeguata comprensione della congiuntura globale in cui quei tentativi videro la luce, respingendo ogni ulteriore insistenza su una presunta eccezionalità della storiografia europea rinascimentale. Il libro affronta, quindi, quattro diverse forme di racconto della storia del mondo nel Rinascimento. Arrivato in Messico negli anni immediatamente successivi alla conquista spagnola, il frate francescano Toribio de Benavente, detto Motolinía, fu tra i primi a fabbricare l’idea delle antichità del Nuovo Mondo, che sorresse il suo tormentato sforzo di incorporare il passato degli indios nella storia del mondo. Lo fece adattandone fonti e racconti orali a una visione diffusionista delle origini dell’umanità, mutuata, però, dalle invenzioni di un falsario di successo, Annio da Viterbo. Quest’ultimo, peraltro, fu al centro di un’accesa disputa sulla storia dell’America precolombiana, che vide anche l’intervento del frate domenicano Bartolomé de las Casas, il grande difensore dei diritti degli indios, finché in seguito Annio non avrebbe ispirato anche singolari leggende sulla fondazione dell’impero cinese. A un’immagine alternativa della storia del mondo imperniata sull’idea di un incessante movimento di uomini e merci era giunto, nel frattempo, il portoghese António Galvão, dopo aver trascorso alcuni anni come capitano alle Molucche, le isole delle spezie. Qui avrebbe raccolto dalla viva voce dei loro abitanti il racconto di una passata dominazione dei cinesi nell’Oceano Indiano. Nella sua originale storia del mondo pubblicata postuma proiettò quel racconto nell’antichità più remota fino a fare dei cinesi i primi popolatori dell’America. L’opera di Galvão, che si ispirava a uno scritto del veneziano Giovanni Battista Ramusio, non fu più ristampata in Portogallo, forse anche perché celebrava gli spagnoli come veri protagonisti della mondializzazione iberica; tuttavia, fu poi riscoperta nel tardo Cinquecento da lettori e traduttori che auspicavano la ripresa dei progetti ultramarini di Francia e Inghilterra. Ai primi del Seicento arrivò finalmente a conclusione l’ecce-

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zionale cronaca scritta in spagnolo da un indio del Perù, Guaman Poma de Ayala, che con essa cercava di riscattare la storia delle popolazioni andine soggette all’impero spagnolo. Lo fece intrecciando memorie e racconti tradizionali sulle epoche precolombiane a notizie sulla storia del Vecchio Mondo. Quella miscela unica trovò giustificazione nella rivendicazione della varietà culturale del mondo che sembrava alla base della comparazione dei costumi proposta nel trattato enciclopedico di un umanista tedesco, Hans Böhm (Johannes Boemus). Quest’opera, che in realtà Guaman Poma non lesse mai, fu un best seller del Rinascimento e le peripezie della sua circolazione, fra traduzioni, riscritture e plagi, rivelano perché, pur non essendo un’opera di storia, poté ispirare la scrittura di storie del mondo. Un prodotto meno complesso, infine, usciva allora dai torchi tipografici veneziani, che dai primi anni sessanta pubblicavano le ristampe delle Historie del mondo di Giovanni Tarcagnota con aggiunte dei suoi continuatori. Quei volumi, sorretti da una tecnica narrativa che si appoggiava alla simultaneità per legare tra loro gli eventi, ebbero grande successo tra i lettori e finirono con il subire un’agguerrita concorrenza. Fra le opere stampate a ritmo continuo, per soddisfare le richieste di un mercato all’apparenza insaziabile, alla fine del Cinquecento vi fu quella del gentiluomo aquilano Cesare Campana, che arrivò ad includervi anche un discorso in difesa della scrittura di storie del mondo. Quella variegata tendenza a connettere tra loro i passati del globo si affievolì di fronte alla penetrazione di olandesi e inglesi in Asia e in America a partire dalla fine del Cinquecento. Se i gesuiti Giampietro Maffei e José de Acosta affrontarono da due prospettive opposte la storia delle Indie orientali e occidentali, con l’effetto però di celebrare la proiezione globale dello zelo missionario della Compagnia di Gesù, la minaccia di un’espansione della Riforma protestante oltre i confini dell’Europa indusse a convertire l’immagine mossa che si ricavava dalle storie del mondo in una conoscenza statica di natura geopolitica. Fu la via indicata dalle Relationi universali dell’ex gesuita Giovanni Botero, ripresa anche nel loro rovescio, come si può interpretare il trattato Peso político de todo el mundo, completato dall’avventuriero inglese Anthony Sherley nel 1622. Si era ormai consumata, allora, la vicenda intrecciata di due storie del mondo, scritte rispettivamente dal cronista spagnolo Antonio de Herrera y

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Tordesillas e dall’esploratore e cortigiano inglese Sir Walter Raleigh. Quest’ultimo pubblicò solo il primo volume della sua History of the World. Quattro anni più tardi, nel 1618, la sua decapitazione, al ritorno da una disastrosa spedizione in America alla ricerca del mitico El Dorado, chiudeva il sipario sulle storie del mondo scritte nel Rinascimento.

RINGRAZIAMENTI Questo libro è stato scritto tra Parigi, Viterbo, Providence e Firenze. La formulazione originaria dell’idea che ne è alla base nasce da un invito di Serge Gruzinski a tenere un ciclo di seminari all’École des Hautes Études en Sciences Sociales, a Parigi, tra maggio e giugno 2013. Ho avuto poi l’opportunità di continuare a discuterne con gli studenti che hanno seguito i miei corsi all’Università della Tuscia. La stesura del libro ha tratto grande beneficio dal privilegio di soggiorni prolungati, grazie a generose borse di studio, alla John Carter Brown Library di Providence, Rhode Island (USA), nei mesi di aprile e maggio 2015, e all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, tra gennaio e marzo 2016. In entrambi i luoghi ho presentato versioni preliminari di parti del libro, così come al Dipartimento di Storia Culture Religioni della Sapienza-Università di Roma, su invito di Maria Antonietta Visceglia. Ho potuto infine avvantaggiarmi della lettura parziale o integrale del libro da parte di Lucio Biasiori, Paola Molino, Ottavia Niccoli, Alessandro Pastore, Adriano Prosperi e Sanjay Subrahmanyam. A tutte le persone ricordate in queste righe va la mia più sincera gratitudine. Ho inoltre contratto un debito con colleghi e amici che hanno discusso questo progetto con me, aiutandomi a correggere i miei errori e incoraggiandomi ad andare avanti: Louise Bénat-Tachot, Fernando Bouza, Lodovica Braida, Kathryn Burns, Hal Cook, Christian De Vito, Roquinaldo Ferreira, Jorge Flores, Carla Forti, Bérénice Gaillemin, Luís Filipe Silvério Lima, Paolo Marini, Peter Miller, Rolando Minuti, James Muldoon, Paolo Procaccioli, Felipe Rojas, Antonella Romano, Neil Safier, Jean-Frédéric Schaub, Stuart Schwartz e Nancy van Deusen. Mi auguro che il risultato finale non li deluda troppo. Questo libro semplicemente non esisterebbe senza Cecilia Palombelli e lei sa perché. Il mio ultimo pensiero va a Katryna, che ha accettato la mia rarefazione nei periodi in cui la ricerca e la scrittura mi hanno più assorbito. Mentre il libro a poco a poco vedeva la luce, dentro di lei cresceva il frutto del nostro amore.

INDIOS, CINESI, FALSARI LE STORIE DEL MONDO NEL RINASCIMENTO

Avvertenza Le citazioni delle fonti sono sempre fornite in italiano anche quando gli originali sono in altre lingue. Laddove è stato possibile, si è scelto di usare volgarizzamenti dell’epoca oppure versioni contenute in edizioni moderne. Nei restanti casi le traduzioni sono da ritenersi di esclusiva responsabilità dell’autore.

I STORICI DI UN MONDO CHE CAMBIA: OGGI E NEL RINASCIMENTO 1. La storia nell’età della globalizzazione Viviamo in un’epoca di compressione del tempo. La rapidità degli spostamenti e la possibilità di comunicare in pochi istanti con chi si trova all’altro capo del mondo inducono la sensazione di essere presi nel vortice di un eterno presente, senza più un futuro da costruire ma separati da un passato che si allontana subito, obsoleto e alieno. Custodi di un sapere antico, gli storici sembrano appartenere sempre più a quel passato. Com’è accaduto agli artigiani di un tempo, scomparsi a poco a poco di fronte al trionfo della società industriale, la cura con cui realizzano i loro levigati manufatti non basta più a garantirne l’esistenza. Ma sotto accusa non sono solo i tanti libri che scrivono e sempre meno persone leggono. C’è stato un tempo, ormai lontano, in cui gli storici hanno preso le distanze dal compito, attribuito loro nell’Ottocento, di individuare le origini del presente per favorire la coesione della comunità nazionale in formazione. Da allora si sono messi piuttosto a smontare verità date per acquisite, a delegittimare interpretazioni consolidate. Al contempo si sono confrontati con la pulsione a liberarsi dal peso del passato che ogni nuova epoca porta con sé. Da oltre un secolo a questa parte, di attacchi la storia ne ha subiti a ripetizione. In anni ancora vicini le è stato imputato di essere nulla più di un genere letterario che fabbrica il proprio oggetto, esattamente come fanno i romanzi con i loro personaggi e la trama del racconto1. Ne 1 H. White, Retorica e storia (1973), 2 voll., Guida, Napoli 1978; Id., Forme di storia. Dalla realtà alla narrazione, a cura di E. Tortarolo, Carocci, Roma 2006.

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è stata poi annunciata pomposamente la fine2. Ma la storia non è finita, e si è continuato a studiarla, a scriverla, a insegnarla. Nell’ultimo quarto di secolo, intanto, il mondo ha visto moltiplicarsi al suo interno trasformazioni sociali ed economiche che rendono la sua crescente complessità qualcosa di più vicino nell’esperienza comune di tutti i giorni, ma al contempo più difficile da afferrare. Così, le incertezze degli storici aumentano e con esse il disorientamento dei loro potenziali lettori. A volte questi ultimi, sfogliando un libro di storia, si sentono come il cinese o l’indiano immaginato da Voltaire che, volendo informarsi sulle cause delle guerre senza fine che sconvolgevano l’Europa del tempo, si sarebbe visto rispondere, con qualche imbarazzo: «gli uni credono alla grazia sufficiente e gli altri alla grazia efficiente»3. Alla storia si chiede ormai di formulare domande e proporre analisi capaci di rivolgersi a società dalla composizione culturale sempre meno uniforme. La soluzione non è inventarsi un passato su misura del presente. Ma è ormai diffusa l’insoddisfazione verso l’idea di un’intrinseca eccezionalità dell’Europa, e poi dell’Occidente, così come sempre più arbitraria suona la pretesa di applicare al resto del mondo schemi e interpretazioni elaborati per la storia europea. Questa insoddisfazione accomuna una parte del pubblico dei lettori, potenzialmente globale se raggiunto mediante una delle lingue veicolari del nostro tempo, e la comunità internazionale degli storici, in cui si confrontano oggi studiosi provenienti da una varietà di tradizioni intellettuali e linguistiche senza precedenti. Così, indagini sempre più consapevoli e raffinate cercano di riportare alla luce la polifonia della storia, la densità dei passati multipli del mondo che non si lasciano appiattire sugli schemi elaborati dagli studiosi occidentali fra Otto e Novecento. Salvo rare eccezioni, tuttavia, resta forte il disagio di quanti lasciano paesaggi storici familiari per avventurarsi tra nomi di luoghi e uomini a volte mai sentiti prima, che affollano libri dove si ricostruiscono vicende del tutto o quasi ignorate e si discutono fonti d’archivio scritte in idiomi che non padroneggiano. Un senso di ignoranza deve averlo provato anche chi ha cercato F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), Rizzoli, Milano 1992. Il passo si legge nell’Avis au public sur les parricides imputés aux Calas et aux Sirven (1766). Qui si cita da Voltaire, Due casi di parricidio, a cura di P. Fontana, Manifestolibri, Roma 2011, p. 45. 2 3

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di mettere in pratica la lezione di Marc Bloch sulla storia comparata che, fra molto altro, mette in guardia dagli errori che si commettono quando si applicano al passato unità d’analisi ricalcate sulle frontiere dei moderni stati nazionali4. Eppure, il superamento di una storia eurocentrica provoca resistenze molto più radicate di quanto non sia avvenuto, e continui ad avvenire, con l’abbandono di altri approcci identitari, centrati su una città, una regione o una nazione. Costa fatica rinunciare all’immagine storica, per molti rassicurante, di un’ineludibile asimmetria fra l’Europa e il mondo, che trovò la sua massima elaborazione al culmine dell’età del predominio dell’Occidente, nel periodo compreso fra le due guerre mondiali, quando tecnologia, capitalismo e colonialismo avevano ormai permesso alle sue maggiori potenze di assoggettare gran parte del pianeta. Fu allora che la ricerca nel passato delle spiegazioni di quella supremazia portò a retrodatarne le origini all’interno di una visione della storia universale che procedeva per scontri tra civiltà, una categoria carica di insidie. La conclusione era una: ormai da secoli le scoperte geografiche, la Riforma protestante, la rivoluzione scientifica e l’illuminismo avevano posto le condizioni che davano ragione della superiorità della civiltà occidentale5. Se pochi accolsero nel suo insieme quella proposta di rilettura della storia universale, molte ricerche, per quanto puntuali e circoscritte, si sono fondate sulle sue conclusioni. Oggi che il primato dell’Occidente è appannato, gli storici si trovano a fare i conti con la crisi della loro visione della storia del mondo proprio mentre il dibattito sulla globalizzazione ha irresistibilmente imposto il mondo stesso al centro degli studi6. Alcuni risultati si vanno già consolidando: la «grande divergenza» tra Europa e Asia sul piano dei livelli materiali di vita, pro-

4 M. Bloch, Per una storia comparata delle società europee (1928), in Id., Storici e storia, a cura di É. Bloch, Einaudi, Torino 1997, pp. 97-138. 5 A.J. Toynbee, A Study of History, 12 voll., Oxford University Press, London 1934-1961. Solo i primi due volumi dell’opera sono stati tradotti con il titolo Panorami della storia, 2 voll., Mondadori, Milano 1954-1955. Il primo volume del compendio che ne fece D.C. Somervell è uscito come Le civiltà nella storia (1947), a cura di C. Pavese, Einaudi, Torino 1950. La traduzione integrale si trova in Storia comparata delle civiltà (1947-1960), 3 voll., Newton Compton, Roma 1974. 6 P. Manning, Navigating World History: Historians Create a Global Past, Palgrave Macmillan, New York 2003; L. Di Fiore, M. Meriggi, World History. Le nuove rotte della storia, Laterza, Roma-Bari 2011.

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duzione e consumo, è spostata in avanti fino all’inizio dell’Ottocento, con effetti corrosivi sul concetto stesso di età moderna; le periodizzazioni generali modellate sulle grandi tappe della storia europea e occidentale sono messe apertamente in discussione; si ripensano tempi e centri d’irradiazione delle prime interazioni a grande distanza che accelerarono l’interdipendenza su scala mondiale, fissandone gli inizi nel cuore dell’Asia e reinterpretando le esplorazioni atlantiche degli europei come una risposta alle trasformazioni provocate dallo sconfinato impero mongolo-timuride e dalla sua dissoluzione nel corso del secolo successivo alla morte di Tamerlano (1405)7. L’odierna discussione sulle grandi coordinate della storia del mondo si esaurisce non di rado in una semplice revisione delle grandi sintesi, eredi della storia universale, che reagirono al nuovo ordine mondiale del secondo dopoguerra, continuando a interrogarsi sulle cause dell’ascesa dell’Occidente, sulle strutture materiali che ne posero le basi a partire dal capitalismo, sul ruolo dell’Europa e dello spazio atlantico nel sistema mondiale dell’economia moderna, con successive correzioni e integrazioni che hanno restituito una maggiore centralità anche all’Asia8. Questa tradizione di studi non si lascia ridurre a una moda del momento, ma la sua pratica odierna tende spesso a riproporre i difetti di una sociologia storica che costruisce le sue analisi da grandi altezze, uniformando paesaggi storici che 7 Sul confronto tra economia asiatica ed europea in età moderna cfr. K. Pomeranz, La grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna (2000), il Mulino, Bologna 2004; P. Parthasarathi, Why Europe Grew Rich and Asia Did Not: Global Economic Divergence, 1600-1850, Cambridge University Press, New York 2011. Si insiste sul valore periodizzante della morte di Tamerlano in J. Darwin, After Tamerlane: The Global History of Empire, Allen Lane, LondonNew York 2007; guarda ancora più indietro J.-M. Sallmann, Le grand désenclavement du monde, 1200-1600, Payot, Paris 2011. 8 W.H. McNeill, The Rise of the West: A History of the Human Community, Chicago University Press, Chicago 1963; F. Braudel, Il mondo attuale (1963), 2 voll., Einaudi, Torino 1966; Id., Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII) (1979), 3 voll., Einaudi, Torino 1981-1982; I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna (1974-1989), 3 voll., il Mulino, Bologna 1978-1995; J. Abu-Lughod, Before European Hegemony: The World System A.D. 1250-1350, Oxford University Press, New York-Oxford 1989; R. Bin Wong, China Transformed: Historical Change and the Limits of European Experience, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1997; A.G. Frank, ReOrient: Global Economy in the Asian Age, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1998. McNeill, fra l’altro, è anche l’autore del libro Arnold J. Toynbee: A Life, Oxford University Press, New York 1989.

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uniformi non erano9. Perché l’Europa? Quand’è che il mondo islamico perse il primato nelle scienze applicate e nella filosofia? Perché la Cina si chiuse agli scambi con l’esterno dopo aver allestito grandi spedizioni navali nell’Oceano Indiano nella prima metà del Quattrocento? A quando risale e da che cosa fu indotta l’arretratezza tecnologica dell’Africa? Come spiegare le tante forme dell’organizzazione sociale in America prima dell’arrivo di Colombo? La tentazione della storia comparata delle civiltà è ancora in circolazione e trova oggi uno dei suoi maggiori campi di applicazione nella discussione intorno alle origini della modernità, una nozione che da tempo non ha più un significato condiviso ma che, nonostante tutto, si stenta ad abbandonare10. Ecco perché qualcuno sostiene che stiamo solo assistendo al ritorno della storia universale, estromessa in passato dalla sfera professionale dell’insegnamento e della ricerca dopo un’aspra contesa con la storia nazionale11. Proprio il recupero della lunga durata, tipica della storia universale con le sue interpretazioni elaborate sull’arco di secoli, se non di millenni, viene indicato in un recente «manifesto» come la soluzione per restituire attrattiva alla storia, facendone un rimedio contro l’appiattimento sul presente delle società contemporanee e contro l’indifferenza di chi assume le decisioni politiche verso ciò che è accaduto nel passato12. «Siamo diventati tutti storici globali», dunque? No, aveva già risposto in precedenza uno dei due autori del manifesto sulla storia, con la differenza, indicativa della transizione in atto, che ora è chi non pratica la storia globale a dover spiegare perché13. 9 J. Goldstone, Perché l’Europa? L’ascesa dell’Occidente nella storia mondiale, 1500-1850 (2009), il Mulino, Bologna 2010. 10 S.N. Eisenstadt, Comparative Civilizations and Multiple Modernities, 2 voll., Brill, Leiden-Boston 2003; Comparative Early Modernities, 1100-1800, a cura di D. Porter, Palgrave Macmillan, New York 2012. 11 D. Christian, The Return of Universal History, in «History and Theory», XLIX (2010), pp. 6-27. 12 J. Guldi, D. Armitage, The History Manifesto, Cambridge University Press, New York 2014. Il volume è liberamente accessibile all’indirizzo http://historymanifesto.cambridge.org/download/. Se ne legge una severa critica in «American Historical Review», CXX (2015), pp. 527-554; una discussione a più voci in «Annales HSS», LXX (2015), pp. 285-378. 13 M. van Ittersum, J. Jacobs, Are We All Global Historians Now? An Interview with David Armitage, in «Itinerario», XXXVI (2012), pp. 7-28.

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Si può dubitare, in ogni caso, che la novità della storia globale si esaurisca nel ritorno alla pretesa di racchiudere la storia del mondo nella sua totalità in un racconto di poche centinaia di pagine. Dagli anni novanta del secolo scorso si va affermando, infatti, una variante meno interessata a proporre grandi affreschi o, peggio ancora, a inseguire il mito delle origini della globalizzazione, un fenomeno comunque tutt’altro che recente14. Questa linea alternativa respinge il sacrificio di un vaglio accurato dei documenti sull’altare di una storia del mondo scritta a partire dalla letteratura secondaria. Chi studia il commercio transculturale o le storie connesse si concentra su contesti locali o situazioni specifiche per riscoprire frammenti di relazioni e di intrecci a distanza variabile. Riaffiora così la ricchezza delle dinamiche di scambio tra mercanti che non condividevano lingua, diritto o religione, così come l’ampiezza della circolazione di uomini e idee attraverso mondi che avevamo imparato a tenere artificialmente separati15. Anziché sostituire un racconto della storia del mondo con un altro, se ne recupera la polifonia perduta attraverso attente indagini sulle fonti, capaci di ripristinare connessioni, porosità e ibridazioni, senza però costruire l’immagine anacronistica di un mondo cosmopolita e privo di violenza. Anzi, è proprio questo tipo di analisi che ha restituito la piena consapevolezza di quanto i secoli tra Quattro e Ottocento siano stati dominati dalla competizione tra imperi globali. In questo quadro, tra l’altro, si è parlato anche di una mondializzazione iberica giunta a maturazione tra 1580 e 1640, quando i possedimenti transoceanici di Portogallo e Spagna si trovavano riuniti sotto un unico sovrano. Allora, un filo iberico avrebbe legato fra loro società e culture estremamente diverse, dall’America all’Asia, favorendo relazioni di reciprocità e fusione ravvisabili in comportamenti, credenze, stili e rappresentazioni16. In altri casi, invece, si sono riper-

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P.N. Stearns, Globalization in World History, Routledge, London-New York

15 Ph.D. Curtin, Mercanti. Commercio e cultura dall’antichità al XIX secolo (1984), Laterza, Roma-Bari 1999. La sua proposta è stata rilanciata dal recente volume Religion and Trade: Cross-Cultural Exchanges in World History, 1000-1900, a cura di F. Trivellato, L. Halevi e C. Antunes, Oxford University Press, New York 2014. L’ipotesi delle storie connesse è stata avanzata nel 1997 da S. Subrahmanyam: cfr. il suo Mondi connessi. La storia oltre l’eurocentrismo, secoli XVI-XVIII, a cura di G. Marcocci, Carocci, Roma 2014. 16 S. Gruzinski, Les quatre parties du monde. Histoire d’une mondialisation,

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corse le tracce delle vite di singoli individui che hanno attraversato il mondo, ma anche di oggetti, come una misteriosa mappa della Cina che al termine di un itinerario globale giunse fino a Oxford nella seconda metà del Seicento17. Analisi di questo genere si sforzano di restituire le diverse prospettive degli attori coinvolti in un evento o in un processo storico, anche se questo comporta un paziente e difficile scavo di fonti custodite in archivi spesso molto distanti fra loro e scritte in una varietà di lingue. Si ridefiniscono così, di volta in volta, gli spazi tradizionali dell’indagine in base all’oggetto di studio, offrendo ricostruzioni plurali di aspetti necessariamente parziali della storia del mondo. Ne beneficia la profondità dell’osservazione e, insieme, il piacere della lettura. È una svolta di carattere globale, perché storici in tutto il mondo si richiamano ad essa, benché una reale condivisione delle competenze linguistiche e degli approcci disciplinari sia ancora di là da venire18. Alle sue origini si colloca il recupero della visione dei non europei attraverso l’eco pur rarefatta delle loro voci che si avverte in alcuni documenti scritti dagli europei: quasi mezzo secolo fa, un libro sulla conquista spagnola del Perù proiettò sul piano della ricerca storica la nuova sensibilità verso i vinti che emergeva dalla decolonizzazione19. Qualche tempo dopo iniziarono a levarsi le vibranti critiche provenienti dalla variegata galassia degli studi postcoloniali, con la loro denuncia della pervasività del discorso coloniale nelle categorie e nel linguaggio adottati dagli europei per descrivere i non europei20.

La Martinière, Paris 2004. Mostra perplessità sul disegno d’insieme J.-F. Schaub, Notes on Some Discontents in the Historical Narrative, in Writing the History of the Global: Challenges for the 21st Century, a cura di M. Berg, Published for the British Academy by Oxford University Press, London 2013, pp. 48-65. 17 T. Brook, Mr. Selden’s Map of China: Decoding the Secrets of a Vanished Cartographer, House of Anansi Press, Toronto 2013. Un esempio di vita globale in L. Colley, L’odissea di Elizabeth Marsh. Sogni e avventure di una viaggiatrice instancabile (2007), Einaudi, Torino 2010. 18 D. Sachsenmaier, Global Perspectives on Global History: Theories and Approaches in a Connected World, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2011. 19 N. Wachtel, La visione dei vinti. Gli indios del Perù di fronte alla conquista spagnola (1971), Einaudi, Torino 1977. 20 Alle origini di questo atteggiamento si possono considerare da un lato E.W. Said, Orientalismo (1978), Bollati Boringhieri, Torino 1991, dall’altro i volumi del

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Lo stato di incertezza in cui operano oggi gli storici discende dalle nuove cautele richieste al loro mestiere, mentre cambiano le fonti su cui fare ricerca e le prospettive di cui tenere conto nella scrittura. La storia globale rappresenta un banco di prova per chi ritiene che il rilancio della storia passi dalla capacità di offrire una conoscenza del passato più equilibrata e corale: comprendere le premesse remote dei conflitti del presente significa anche rifiutare ricostruzioni che tornino a escludere i vinti, o coloro che vinti non lo furono affatto, ma vengono avvertiti come attori secondari di processi storici che hanno sempre al centro l’Europa, o sono comunque interpretati attraverso categorie europee. È nato da qui l’invito a provincializzare l’Europa adattando le sue categorie e la loro pretesa universalità alle specificità di tradizioni intellettuali non europee a lungo relegate ai margini21. Un passo successivo è stato quello di restituire piena dignità alle forme di trasmissione della conoscenza storica che esistevano fuori dall’Europa prima che il colonialismo ottocentesco le cancellasse o rimuovesse nello stesso momento in cui formava le élites native secondo modelli educativi occidentali: è il caso dell’India meridionale tra Cinque e Settecento, quando la storia poteva essere affidata a versi composti in lingue vernacolari, le cui trascrizioni conservano i tratti della loro originaria forma orale22. 2. Mughal e ottomani scrivono la storia del mondo È l’intreccio fra la disciplina e il suo oggetto che conduce oggi a interrogarsi sulle forme in cui è stata scritta la storia del mondo nel passato. Ma chi pensa di tracciare l’archeologia di questo sapere per consolidare un nuovo modo di fare storia, o per nobilitarlo tramite la ricerca di precedenti illustri, s’inganna. La portata dell’attuale sfida lanciata dalla storia globale e la vertigine causata dalla riscoperta dei passati multipli del mondo, a lungo oscurati dalla grande narrazione dell’ascesa dell’Occidente, si spiegano solo a partire dalla collettivo dei Subaltern Studies, che prende il nome dalla collana in cui sono stati pubblicati da Oxford University Press, a partire dal 1982. 21 D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa (2000), Meltemi, Roma 2004. 22 V. Narayana Rao, D. Shulman, S. Subrahmanyam, Textures du temps. Écrire l’histoire en Inde, Seuil, Paris 2004. L’edizione originale è uscita in inglese nel 2001.

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presa d’atto di una rottura profonda con la vecchia storia universale otto-novecentesca e la sua fiducia in un’idea di modernità che si identificava con la civiltà europea. Perciò, qui non si seguirà la via di rubricare con sistematicità tutte le opere note che rivendicano di coprire la storia del mondo, facendo delle storie universali una costante di fondo in moltissime società dall’antichità ai nostri giorni23. Una posizione intermedia si trova espressa nell’articolo d’apertura del primo numero del «Journal of Global History», uscito dieci anni fa24. La rivista chiedeva una riflessione sulle tradizioni storiografiche rispetto alle quali comprendere la novità della storia globale. La risposta fu che essa rappresenterebbe un ritorno alla storia universale con i suoi tradizionali interrogativi sull’ascesa dell’Occidente, rinnovata però dai due imperativi della decostruzione di un racconto centrato sul primato dell’Europa e del superamento della storia nazionale. Prima della frattura globale segnata dal predominio dell’Occidente, la maggior parte delle storie universali scritte in Europa, in Cina e nel mondo islamico avrebbe mantenuto una prospettiva etnocentrica. È il risultato di una tendenza a giustapporre le diverse tradizioni culturali come blocchi separati per poi metterle a confronto25. Questa impostazione riproduce, in realtà, la comparazione di sapore antagonistico diffusa nella pratica di una storia del mondo debitrice della vecchia storia universale, ancora oggi molto diffusa. Le cose sono meno semplici e lineari se si considera quella storia globale che procede restaurando connessioni recise dal tempo ed esplorando complessi scambi transculturali, senza pretendere di arrivare subito a una riscrittura complessiva della storia del mondo. La sua pratica risente, naturalmente, delle condizioni in cui uno storico opera, inclusa la sua formazione intellettuale e il luogo da cui scrive. Ma l’attenzione alla precisione del dettaglio, insieme alle sfumature delle lingue in cui sono scritti i documenti e ai codici culturali di riferimento dei vari attori storici presi in esame, rappresenta una nuova frontiera della ricerca storica e risente degli stimoli

H. Inglebert, Le monde, l’histoire. Essai sur les histoires universelles, Presses Universitaires de France, Paris 2014. 24 P. O’Brien, Historiographical Traditions and Modern Imperatives for the Restoration of Global History, in «Journal of Global History», I (2006), pp. 3-39. 25 D. Woolf, A Global History of History, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2011. 23

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giunti da una varietà di discipline nella seconda metà del Novecento. Anche per questo, è illusorio proporne genealogie che risalgano più indietro nel tempo. Ciò, tuttavia, non significa che, in altre epoche, alcuni dei problemi cui la storia globale cerca oggi di rispondere non si siano posti in termini in parte simili. La storia globale studia la molteplicità dei passati del mondo e i loro complessi intrecci, servendosi di una varietà di fonti e di materiali26. Proprio questo approccio ha consentito di osservare come nell’età delle esplorazioni, in particolare tra Cinque e Seicento, siano state scritte storie del mondo che reagivano all’inattesa scoperta che le diverse parti del pianeta entrate allora in contatto stabile fra loro avevano un passato. Un aspetto rese particolare questo fenomeno, che si verificò mentre il globo terrestre acquisiva a poco a poco una nuova immagine agli occhi dei suoi abitanti: quella fioritura di storie del mondo ebbe un carattere, se non globale, certo sorprendentemente diffuso. Grossomodo negli stessi decenni, autori che vivevano in continenti diversi, appartenevano a culture distinte e scrivevano in lingue differenti fra loro guardarono alla storia per trovare un senso alle trasformazioni che accompagnarono lo straordinario allargamento degli orizzonti del mondo nel loro tempo. Se alcuni viaggiarono ed ebbero un’esperienza personale di terre e uomini di cui ignoravano l’esistenza o avevano sentito solo confusamente parlare, altri si avvantaggiarono di una circolazione di notizie senza precedenti, attraverso relazioni, mappe e libri. Ma in entrambi i casi le storie del mondo che scrissero, più o meno riuscite, possono essere intese come una risposta alla necessità di organizzare l’esplosione di informazioni da conoscere che caratterizzò la loro epoca27. Sul rapporto tra la scoperta di nuove terre e nuovi uomini e la nascita della geografia e dell’etnografia si è scritto tantissimo. Si è dimenticato, invece, che nell’età delle esplorazioni vi fu anche una scoperta del passato, o meglio dei passati multipli del mondo, che s’incontrò con quella più generale tendenza alla xenologia, all’interesse verso ciò che è estraneo, che distingue una linea certo minoritaria, ma presente in molte tradizioni di scrittura storica. Alle sue origini si possono collocare due storici vissuti entrambi a cavallo tra il II e il I secolo a.C., il S. Conrad, Storia globale. Un’introduzione (2013), Carocci, Roma 2015. A. Blair, Too Much to Know: Managing Scholarly Information Before the Modern Age, Yale University Press, New Haven (CT) 2010. 26 27

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greco Polibio e il cinese Sima Qian. Se ne rintracciano altri esempi nel corso dei secoli successivi. La novità che si registrò nel Cinquecento, tuttavia, risiede nell’intenso uso di materiali e notizie su uomini, società e poteri estranei al proprio ambito di riferimento, per inglobarli in una storia del mondo28. Fu una rara congiuntura di vera creatività, che interruppe la tradizione di precedenti storie universali in cui si compilavano prevalentemente conoscenze che già si possedevano sulla base di fonti presenti all’interno della cultura di appartenenza di un autore. Fu così che al radicale cambiamento dell’immagine del mondo dovuto alle esplorazioni si accompagnarono un nuovo sguardo d’insieme sulla sua storia e nuovi modi di scriverla. Questa reazione fu tutto salvo che circoscritta a quegli europei che, secondo la visione tradizionale, sarebbero stati i soli protagonisti delle cosiddette scoperte geografiche, un’espressione che conserva in sé la prospettiva eurocentrica da cui si è a lungo scritta la storia, proprio come quella di espansione europea si associa all’idea di una sostanziale passività del mondo non europeo. Non fu così. Nella prima metà del Quattrocento, quando le piccole imbarcazioni europee nell’Oceano Atlantico praticavano quasi soltanto la navigazione sotto costa, la grandiosa flotta imperiale cinese guidata dall’ammiraglio Zheng He solcava le acque dell’Oceano Indiano, ne controllava le rotte e assoggettava a tributo le città portuali dell’Asia meridionale, arrivando a toccare le coste dell’Africa orientale. Quelle spedizioni, bruscamente interrotte nel 1433, avevano avuto inizio nel 1405, lo stesso anno in cui Tamerlano era morto alla guida di un esercito diretto contro la Cina per abbattere la dinastia dei Ming. Lo spazio aperto dal graduale collasso dello sconfinato impero timuride fu riempito in seguito dai nuovi grandi imperi che fecero la loro comparsa sulla scena asiatica. I loro vasti movimenti espansionistici interessarono un’estrema varietà di popolazioni, inglobandone una parte all’interno delle loro frontiere mobili29. 28 S. Subrahmanyam, Alle origini della storia globale (2014), a cura di G. Marcocci, Edizioni della Normale, Pisa 2016; una versione lievemente diversa in Id., On Early Modern Historiography, in The Cambridge World History, vol. VI, The Construction of a Global World, 1400-1800 CE, a cura di J.H. Bentley, S. Subrahmanyam e M.E. Wiesner-Hanks, pt. II, Patterns of Change, Cambridge University Press, Cambridge 2015, pp. 425-445. 29 D.E. Streusand, Islamic Gunpowder Empires: Ottomans, Safavids and Mughals, Westview Press, Boulder 2011. Per un inquadramento degli imperi asiati-

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Gli imperi europei d’oltremare acquisirono una prima fisionomia con portoghesi e spagnoli all’inizio del Cinquecento. Diversamente da questi ultimi, gli imperi cinese, russo, mughal e safavide si allargarono solo via terra, mentre gli ottomani, oltre alle loro conquiste nell’Europa orientale, in Siria e in Egitto, furono a lungo una temuta potenza nel Mediterraneo e, nei decenni centrali del Cinquecento, le loro navi penetrarono anche nell’Oceano Indiano, scontrandosi a più riprese con i portoghesi30. Fino al Settecento avanzato, l’aggressiva presenza degli europei in Asia si arrestò ai margini di questi estesi poteri territoriali, i cui sovrani si rappresentavano come i signori del mondo. L’arte mughal del primo Seicento riflette la proiezione globale degli imperi asiatici. Verso la fine del secondo decennio, in un quadro di crescenti tensioni con la Persia safavide, il pittore Abu al-Hasan di Delhi disegnò una miniatura in cui si ritrae l’imperatore Jahangir (1605-1627) mentre abbraccia shah Abbas I (1588-1629) in segno di pace: entrambi i sovrani sono in piedi sopra un globo terrestre, ma le maggiori dimensioni e l’opulenza di gioielli e abiti di Jahangir non lasciano dubbi su quale dei due sia il vero dominatore del mondo31. Alcuni letterati che vivevano all’ombra di un impero asiatico parteciparono alla ridefinizione dell’immagine del mondo tentando di riscriverne la storia. Gli esiti furono i più vari, com’era inevitabile: chi si misurava allora con la storia del mondo scriveva dalla prospettiva di specifiche tradizioni intellettuali e sulla base di conoscenze comunque frammentarie; si confrontava, inoltre, con imperi in competizione tra loro, generalmente interessati a una precisa interpretazione del passato, non sempre consensuale. Solo ricostruendo con attenzione la formazione di un autore e le circostanze della sua scrittura, si può seguire l’elaborazione di storie del mondo in Asia tra Cinque e Seicento, i modelli secondo cui erano composte, la loro ricezione e circolazione, ma anche le condanne che a volte subivano, ci, compresi quelli cinese e russo, nel più ampio contesto mondiale cfr. C.H. Parker, Relazioni globali, 1400-1800 (2010), il Mulino, Bologna 2012. 30 G. Casale, The Ottoman Age of Exploration, Oxford University Press, Oxford-New York 2010. 31 Universal Empire: A Comparative Approach to Imperial Culture and Representation in Eurasian History, a cura di P.F. Bang e D. Kołodziejczyk, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2012, che reca una riproduzione della miniatura di Abu al-Hasan in copertina.

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le loro modifiche e riscritture, nonché la fine delle loro riprese da parte di altri storici. L’imperatore Jahangir, dipinto da Abu al-Hasan mentre abbraccia lo shah di Persia, salì al trono nel 1605. Meno di due anni dopo veniva conclusa una cronaca mughal in lingua persiana, intitolata Rauzat ut-Tāhirīn (Giardino immacolato)32. L’autore era Tahir Muhammad Sabzwari, la cui famiglia aveva origini persiane ma si era stabilita da tempo nell’India settentrionale. La sua opera segue lo schema abituale di una storia universale, con la creazione del mondo, i primi profeti, i protagonisti dell’epica indiana e gli albori dell’islam, fino a giungere alle grandi potenze asiatiche che precedettero la formazione dell’impero mughal. Da questo punto in avanti, il racconto si apre ai nuovi orizzonti globali del presente. L’inclusione di un mondo più ampio, che aveva comunque al centro i mughal e le vittoriose campagne di Akbar il Grande (1556-1605) verso la Persia e soprattutto le sue conquiste nelle regioni centrali e costiere dell’India, fu resa più agevole da materiali ottenuti da informatori locali. Tahir Muhammad approfittò inoltre di missioni diplomatiche per raccogliere altre notizie. Per questa duplice via la sua cronaca arriva a ricostruire in dettaglio vicende storiche relative tanto al sudest asiatico, fino a Malacca e al sultanato di Aceh, quanto a Ceylon. E qui Tahir Muhammad non racconta soltanto della resistenza opposta ai portoghesi, ma si spinge a descriverne il regno in Europa, «che è sotto il dominio dell’imperatore dei franchi». Durante un soggiorno a Goa, la capitale dell’impero portoghese in Asia, aveva appreso della morte del re Sebastiano mentre guidava una spedizione militare in Marocco (1578), della crisi dinastica che ne era seguita e del passaggio della corona di Portogallo nelle mani del re Filippo II di Spagna (1580). Tutto questo rientra nel «libro delle meraviglie», come Tahir Muhammad chiama la sua storia del mondo che, seguendo il filo portoghese, arriva ad accennare all’isola di Sant’Elena, nell’Oceano Atlantico, ma non all’America. Sul Nuovo Mondo tacevano anche gli storici cinesi, che disponevano invece di copie delle cronache sulle spedizioni quattrocentesche di Zheng He da cui ricavavano ampie conoscenze sull’Oceano India-

32 M. Alam, S. Subrahmanyam, Writing the Mughal World: Studies on Culture and Politics, Columbia University Press, New York 2012, pp. 98-115.

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no e i poteri che vi insistevano, mentre le cose andavano diversamente all’estremo opposto dell’Asia. Verso il 1580, a Istanbul, una mano anonima vergò su carta un lungo racconto sulle «Indie occidentali»33. La storia del viaggio di Colombo, la penetrazione spagnola ai Caraibi, le conquiste del Messico e del Perù, ma anche la spedizione di Miguel López de Legazpi, che aveva portato all’assoggettamento delle Filippine, sono narrate seguendo da vicino le fonti, costituite dalle traduzioni in italiano di autori europei che avevano dato alle stampe nei decenni anteriori alcuni dei primi testi sull’America spagnola. La traduzione in turco e l’adattamento di quelle «notizie fresche» – così l’anonimo chiama la sua cronaca – permettevano ai lettori ottomani di prendere coscienza delle dimensioni dell’impero spagnolo. Le copie manoscritte dell’opera conobbero una qualche circolazione, ma come i cenni al Nuovo Mondo contenuti nel Kitab-i Bahriye (Libro del mare), composto mezzo secolo prima dall’ammiraglio turco Piri Reis, celebre per una mappa del mondo (1513) dov’erano disegnate le coste orientali dell’America meridionale, non bastarono perché lo storico Mustafa Ali di Gallipoli ne trattasse nel suo Künh ül-Ahbār (Essenza della storia), composto tra 1591 e 159834. Intesa come una storia dell’impero ottomano e del mondo, si ricollega alle più prestigiose tradizioni della storiografia islamica e fa uso di fonti in turco, in arabo e in persiano. La visione della storia del mondo che ne emerge è quella di un pio ufficiale musulmano: dalla creazione all’avvento dell’islam, dall’ascesa del grande impero mongolo fino agli imperi ottomano, safavide e mughal, posti al centro della narrazione dei tempi più recenti e interpretati alla luce di accese tensioni millenaristiche. In Turchia, del resto, l’attesa dell’anno mille del calendario islamico, corrispondente al 1591-1592, fu scandita da una violenta

33 T.D. Goodrich, The Ottoman Turks and the New World: A Study of Tarih-i Hind-i Gharbi and Sixteenth-Century Ottoman Americana, Harrassowitz, Wiesbaden 1990. Il confronto tra le notizie che vi si riportano su Città del Messico con quelle su Istanbul fornite da H. Martinez, Reportorio de los tiempos (1606), è alla base di S. Gruzinski, Quelle heure est-il là-bas? Amérique et islam à l’orée des Temps modernes, Seuil, Paris 2008. 34 C.H. Fleischer, Bureaucrat and Intellectual in the Ottoman Empire: The Historian Mustafa Ali (1541-1600), Princeton University Press, Princeton (NJ) 1986. Su Piri Reis nel contesto delle conoscenze geografiche ottomane cfr. P. Emiralioğlu, Geographical Knowledge and Imperial Culture in the Early Modern Ottoman Empire, Ashgate, Burlington (VT) 2014, pp. 95-102.

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insurrezione del corpo scelto dei giannizzeri, da una serie di incendi devastanti e da un’epidemia di peste che aveva flagellato Istanbul. Mustafa Ali era un letterato con una lunga carriera alle spalle come ufficiale di provincia e non aveva più illusioni circa la possibilità di ricevere un alto incarico a corte. Slegata da committenze, la sua storia riflette comunque un’immagine integralmente islamica dell’impero ottomano, da tempo promossa dal potere. Non era sempre stato così. Qualche decennio prima, la disputa intorno ai caratteri della sovranità del sultano Süleyman il Magnifico (15201566) si era alimentata di una lettura opposta della storia del mondo e dell’impero ottomano. L’enigma di una carta geografica svela la varietà possibile delle forme del discorso storico e quanto alla metà del Cinquecento alcuni ambienti di corte a Istanbul fossero ancora sensibili a temi e immagini del Rinascimento. Nel 1559 fu stampato a Venezia un mappamondo a forma di cuore, eseguito su un modello francese del 1534. Ma i nomi dei luoghi sono scritti in turco, la «lingua che domina il mondo», come si legge nel lungo apparato testuale, anch’esso in turco, posto a corredo della carta. Le circostanze in cui vide la luce non sono del tutto chiare35. La sua realizzazione andrebbe ricondotta a un circolo di letterati legati alla memoria del gran visir di Süleyman, Ibrahim Pasha. Prima di essere giustiziato nel 1536, aveva sostenuto un’interpretazione del potere del sultano come erede della sovranità universale di Alessandro Magno e degli imperatori romani. Quella visione si accompagnava a un’enfasi sulla dimensione europea dell’impero ottomano, in aperta sfida al sacro romano impero degli Asburgo. Nei tardi anni cinquanta quell’idea di impero ispirata all’antichità classica, di cui Süleyman avrebbe incarnato l’eredità, era ancora vagheggiata da alcuni membri dell’élite colta ottomana che però non erano turchi di nascita. È il riflesso di quell’opzione politica che si coglie in un prodotto ibrido come il mappamondo cordiforme. Si spiegherebbero così anche le incertezze linguistiche nelle parti scritte, all’origine di

G. Casale, Seeing the Past: Maps and Ottoman Historical Consciousness, in Writing History at the Ottoman Court: Editing the Past, Fashioning the Future, a cura di H.E. Çıpa e E. Fetvacı, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 2013, pp. 80-99, cui mi rifaccio per l’interpretazione di fondo suggerita e per le citazioni. Del mappamondo non sopravvivono copie originali, ma solo ristampe del 1795. 35

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una lunga discussione sulla loro paternità, attribuita nella carta a un certo Hajji Ahmed, lo schiavo tunisino di un patrizio veneziano che avrebbe collaborato alla sua creazione in cambio della libertà. L’operazione vide di sicuro il coinvolgimento di Michele Membré, un veneziano nativo di Cipro, che in passato aveva condotto missioni diplomatiche alle corti safavide e ottomana. In virtù di esse, nonché delle sue competenze linguistiche, dal 1550 esercitava la carica di dragomanno, come veniva chiamato il mediatore ufficiale nelle trattative con i mercanti turchi attivi a Venezia36. La sua posizione gli avrebbe permesso di contribuire a un prodotto di geografia storica originale e di elevata complessità, che mirava a inviare un preciso messaggio ai letterati ottomani. Il senso di quel messaggio è contenuto nell’apparato testuale che circonda il planisfero. Parole e metafore scelte con cura palesano il tentativo di imporre un ordine gerarchico nella storia del mondo con al vertice il sultano ottomano, il sole che «anzitutto illumina l’Europa, ma il vigore dei [suoi] raggi brilla anche sulle terre di Asia e Africa». Süleyman, dunque, è presentato come il più potente sovrano europeo in continuità con il «sultano» Alessandro Magno e l’«impero dei romani». In linea con il coevo riorientamento della politica estera ottomana, che aveva ormai come grandi avversari i safavidi – tanto che Alessandro Magno è anacronisticamente ricordato come il vincitore sul persiano Dario –, neppure si accenna all’impero degli Asburgo, mentre Francia e Spagna sono equiparate «ai pianeti Giove e Mercurio». Astrologia e geografia si incrociano in questa singolare riscrittura della storia del mondo, che arriva persino a istituire un confronto eloquente con gli indios del Perù: «queste popolazioni un tempo erano tutte pagane, ma ora sono divenute per la maggior parte cattoliche», si legge, «e hanno imparato la lingua e i costumi spagnoli, proprio come le popolazioni di Anatolia e Karaman hanno imparato la lingua e i costumi dei turchi».

36 B. Arbel, Translating the Orient for the Serenissima: Michiel Membré in the Service of Sixteenth-Century Venice, in La frontière méditerranéenne du XVe au XVIIe siècle. Échanges, circulations et affrontements, a cura di B. Heyberger, A. Fuess e P. Vendrix, Brepols, Thurnout 2013, pp. 253-281. A Membré si deve una preziosa descrizione della corte safavide: Relazione di Persia (1542). Manoscritto inedito dell’Archivio di Stato di Venezia, a cura di G.R. Cardona, Istituto Universitario Orientale, Napoli 1969.

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3. Tentativi rinascimentali: il mondo oltre l’America Lo spettacolo di un mondo che mutava di forma e perdeva i confini di un tempo nutrì inquietudini e sogni di grandezza che alimentarono una circolazione di idee, temi e notizie su scala planetaria. La scoperta che esisteva un passato al plurale che fino ad allora era stato ignorato provocò una varietà di reazioni locali specifiche, che rispondevano a stimoli comuni, rivelando così tratti di commensurabilità fra le storie del mondo scritte in un’età di grandi imperi in equilibrio. Le tradizioni storiografiche rimasero distinte fra loro, ma in genere quegli esperimenti di scrittura presentano due caratteristiche che li separano dalle storie universali scritte in precedenza: da un lato, l’abbandono di uno schema in cui si divide il mondo tra la parte cui appartiene l’autore e tutto il resto ad essa esterno, oggetto di un trattamento diseguale, per riconoscere invece, almeno in linea di principio, un’esigenza di esaustività del racconto storico; dall’altro, l’adesione al criterio estetico di un’esposizione della materia che procede per accumulo, senza un ordine armonioso, restando così sempre aperta a nuove aggiunte e modifiche37. Alcune tradizioni culturali asiatiche ebbero la capacità di fondere in modo creativo le nuove conoscenze sui passati multipli del mondo in opere storiche di respiro globale. Che cosa emerge quando si rivolge l’attenzione all’Europa? Gli esempi presentati nelle pagine precedenti mostrano che le storie del mondo in turco o in persiano potevano incorporare fonti europee come le cronache sull’America spagnola o le informazioni che circolavano tra i portoghesi in Asia, quando non erano addirittura prodotte a Venezia, come nel caso del mappamondo cordiforme attribuito a Hajji Ahmed. Che cosa accadeva nel frattempo tra gli storici europei? Scrivevano anch’essi storie del mondo? La possibilità di rispondere a questa domanda è ostacolata dall’impostazione tradizionale che domina ancora in vari campi di studio. Si continuano a considerare espressione autentica della scrittura storica rinascimentale esclusivamente quelle opere prodotte da umanisti ed eruditi europei che si misuravano con l’antichità biblica

37 S. Subrahmanyam, On World Historians in the Sixteenth Century, in «Representations», XCI (2005), pp. 26-57.

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e classica, o con gli eventi della recente storia politica e militare di città, repubbliche o monarchie europee38. Solo all’interno di questo corpo ristretto e selezionato di testi, scritti in latino o nelle lingue volgari ancora in via di definizione, la pratica storica avrebbe segnato un reale avanzamento in direzione di una moderna disciplina che si riconobbe finalmente in regole chiare e condivise nell’Ottocento. Già nel Rinascimento, intanto, una serie di interventi, trattati e manuali avrebbe contribuito a fissare i criteri del canone storiografico: dal De historica facultate (1548) del neoaristotelico Francesco Robortello ai Dialoghi della Historia (1560) del neoplatonico Francesco Patrizi, dalla Methodus ad facilem historiarum cognitionem (1566) del giurista Jean Bodin al De emendatione temporum (1583) dell’ugonotto Joseph Juste Scaliger39. Ritagliare con tanta cura e precisione i confini di una scrittura storica genuinamente rinascimentale, tuttavia, porta a relegare le opere sulle esplorazioni e le conquiste degli imperi europei d’oltremare nell’ambito ristretto delle storie delle letterature nazionali, che si definisce a partire dalla lingua adottata. La tendenza a isolare, a loro volta, i testi scritti in America dagli altri, come se i primi avessero di per sé uno statuto autonomo all’interno delle rispettive letterature nazionali, non fa che aggravare la già arbitraria frammentazione di una materia che spesso non obbediva affatto ai criteri in base ai quali è generalmente suddivisa e classificata. La ricchezza di molti testi si perde quando sono costretti in caselle prestabilite: la specializzazione delle competenze che ne deriva rende raro lo studioso di una cronaca sul Nuovo Mondo che rilevi più di qualche eco umanistica nello stile dell’autore, così come gli specialisti di Rinascimento sono a disagio di fronte a testi scritti in lingue raramente usate nelle opere comprese nel loro elitario canone di riferimento. Per ricomporre queste fratture e ripristinare le connessioni culturali che univano l’Europa ai suoi possedimenti d’oltremare si deve

38 Seguono questa prospettiva anche contributi eccellenti come quelli raccolti in Historia: Empiricism and Erudition in Early Modern Europe, a cura di G. Pomata e N.G. Siraisi, MIT Press, Cambridge (MA)-London 2005. 39 A. Grafton, What Was History? The Art of History in Early Modern Europe, Cambridge University Press, Cambridge 2007. Sull’importanza di Robortello ha richiamato l’attenzione C. Ginzburg, Descrizione e citazione, in Id., Il filo e le tracce. Vero falso finto, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 15-38.

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partire dalla realtà di una intensa circolazione di uomini, libri e modelli di scrittura storica attraverso gli oceani, oltre a superare un paradigma della modernità che ha ridotto la conoscenza europea sul mondo soprattutto sotto il segno di saperi matematici, in primo luogo la geografia e la cartografia. Sin dall’inizio delle esplorazioni atlantiche, tuttavia, vi fu anche un’ampia riflessione su costumi, comportamenti e aspetto esteriore dell’umanità incontrata40. La storia ebbe allora un ruolo decisivo: molte delle osservazioni cui si attribuisce una grande importanza per la nascita di discipline come l’antropologia e l’etnografia si trovano in libri che si presentano come opere storiche, sia che ripercorrano le imprese violente dei conquistatori, sia che ricostruiscano credenze e organizzazione sociale delle popolazioni raggiunte dagli europei. Ma come recuperare appieno la genesi e il significato delle storie del mondo scritte nel Rinascimento, espressione di una tradizione culturale che si definì a cavallo tra le città del Vecchio Mondo e gli spazi transoceanici degli imperi europei, se si insiste su una netta separazione tra la presenza degli europei in Asia e in America? La maggiore attenzione riservata al Nuovo Mondo, benché legittimata dalla rottura provocata dalla sua scoperta e dai caratteri peculiari della sua conquista, è parte del processo di costruzione dell’immagine storica dell’Occidente. Quello che così si perde è lo sguardo d’insieme con cui la cultura europea contemplò il mondo nell’età delle esplorazioni41. A poco a poco si elaborarono forme di una conoscenza globale da subito estesa alla storia: anche quelle popolazioni di cui non si avevano notizie in precedenza e che furono spesso classificate come barbare avevano un passato, gli attribuivano un significato e lo trasmettevano secondo modalità proprie, con cui si poteva talora entrare in dialogo.

40 D. Abulafia, La scoperta dell’umanità. Incontri atlantici nell’età di Colombo (2008), il Mulino, Bologna 2010. 41 In tal senso, ribalta i termini, ma non risolve i problemi, il pur fondamentale studio di D. Lach, Asia in the Making of Europe, 3 voll., University of Chicago Press, Chicago 1965-1993. Cfr. invece i saggi raccolti in Implicit Understandings: Observing, Reporting and Reflecting on the Encounters between Europeans and Other Peoples in the Early Modern Era, a cura di S.B. Schwartz, Cambridge University Press, Cambridge-New York 1994; Facing Each Other: The World’s Perception of Europe and Europe’s Perception of the World, a cura di A. Pagden, 2 voll., Ashgate/Variorum, Aldershot 2000.

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La storia non era appannaggio esclusivo degli europei. La presa d’atto di questo aspetto decisivo già nel Rinascimento invita a riconsiderare sotto un’altra luce forme e ragioni di un confronto con l’esperienza dell’ignoto che avrebbe attinto anzitutto alla tradizione della cultura classica42. In realtà, la riduzione al noto tramite il patrimonio di costumi, miti e figure degli antichi greci e latini fu solo una delle reazioni, e non sempre la prima, che partecipò a una ridefinizione dell’immagine del mondo e del suo passato. E non solo perché il racconto biblico fornì esso stesso un repertorio di nomi, episodi e spiegazioni che si attivò anche in relazione al disegno della conversione universale43. Le storie del mondo che furono scritte o si tentò di scrivere nel Rinascimento si nutrirono certamente di tutto questo, ma furono molto di più partecipando di un ampio movimento all’origine di esperimenti creativi di scrittura storica che si registrarono allora in molte località attraverso il globo. Se tutto non si esaurisce nel rapporto tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, occorre anche ripensare la centralità della classica tesi dei tempi lenti e della frammentarietà dell’impatto dell’America sull’Europa44. Si possono così tornare ad apprezzare nel loro pieno significato gli sforzi iniziali e i piccoli segnali in direzione di un intreccio fra i passati del mondo che sin dalla fine degli anni venti del Cinquecento si affacciano nella storiografia rinascimentale, un campo più aperto a ibridazioni e contaminazioni di quanto generalmente si ammetta. Resta comunque condivisibile l’obiettivo di spostare l’attenzione sull’influenza dell’America sull’Europa, così da ribaltare una lettura parziale della trasformazione del mondo fra Quattro e Seicento in termini di sola europeizzazione45.

42 A. Grafton, New Worlds, Ancient Texts: The Power of Tradition and the Shock of Discovery, in coll. con A. Shelford e N. Siraisi, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (MA)-London 1992. 43 G. Gliozzi, Adamo e il Nuovo Mondo. La nascita dell’antropologia come ideologia coloniale: dalle genealogie bibliche alle teorie razziali (1500-1700), La Nuova Italia, Firenze 1977. 44 J.H. Elliott, Il vecchio e il nuovo mondo, 1492-1650 (1970), Il Saggiatore, Milano 1985. 45 J.M. Headley, The Europeanization of the World: On the Origins of Human Rights and Democracy, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2008. Ne mette a nudo i limiti J.H. Bentley, Europeanization of the World or Globalization of Europe?, in «Religions», III (2012), pp. 441-445.

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Un terreno su cui più di altri si consumò il confronto intorno a un’epoca di riduzione delle distanze e aumento degli scambi su scala globale fu quello della storia. Non poteva essere altrimenti. La nuova sensibilità per i mondi dal disorientante passato con cui gli europei vennero in contatto, in seguito alla costruzione dei primi imperi transoceanici, corse infatti parallela allo sforzo di recuperare l’antichità classica e darne una lettura coerente in cui erano impegnati da tempo gli umanisti. Oltre e prima ancora dei greci e dei latini vi erano state culture, società e storie cui non accennava neppure la Bibbia. Questa scoperta ebbe un effetto dirompente sul modo di scrivere la storia, perché tutto diveniva più difficile e incerto. Da qui ebbe origine la spinta a ripensare e riscrivere la storia del mondo. Gli orizzonti delle vecchie storie universali dalla creazione del mondo in avanti, di cui abbondano gli esempi nella tradizione delle cronache medievali, erano troppo ristretti e la loro struttura troppo rigida per essere riadattati. Ne sopravvisse comunque l’eredità negli aggiornamenti e nei volgarizzamenti di opere come il Supplementum chronicarum (1483) del monaco eremita agostiniano Giacomo Filippo Foresti, che continuarono a vedere la luce nel corso del Cinquecento46. Per capire se e quando le storie del mondo fecero la propria comparsa nel Rinascimento serve a poco contare i titoli relativi a singole regioni non europee, o il numero di pagine riservate a queste ultime in altre opere. Così sfuggono, infatti, aspetti forse meno appariscenti ma decisivi: dai cambiamenti nelle forme della narrazione storica, per incorporarvi i nuovi passati di cui si apprendeva l’esistenza, alle resistenze opposte da poteri imperiali che sempre meno gradirono che si ricostruisse la storia di società di cui stavano cancellando la memoria, o che tentavano comunque di assoggettare alla propria autorità. Non si tratta, dunque, di proseguire nella ricerca del carattere problematico dell’impatto del Nuovo Mondo sul Vecchio, misurando con precisione statistica quanti e quali ambiti della cultura europea, a oltre un secolo dal viaggio di Colombo, restassero ancora indenni, fra lacune e silenzi, dalle sue conseguenze47.

46 A. Krümmel, Das «Supplementum Chronicarum» des Augustinermönches Jacobus Philippus Foresti von Bergamo. Eine der ältesten Bilderchroniken und ihre Wirkungsgeschichte, Hautz, Herzberg 1992. 47 Elliott, Il vecchio e il nuovo mondo cit., pp. 13-35.

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4. Fare la storia del mondo: un ritorno indietro? L’enfasi sul grado di iniziale indifferenza degli europei per l’America risente del confronto con l’importanza poi attribuita a quest’ultima nei secoli successivi al Cinquecento. Al contrario, un’indagine delle similitudini e delle differenze nelle reazioni di europei e non europei verso il mondo esterno permetterebbe di giungere a un’immagine più corretta sul piano storico, a patto di non limitarsi a guardare solo i rapporti con il Nuovo Mondo e di respingere ogni antagonismo duale tra l’Europa da una parte e il resto del mondo dall’altra. Del resto, la cultura europea del Rinascimento non era certo un blocco omogeneo: era percorsa da tensioni interne e tradizioni in competizione, che risaltano in special modo quando si aggiunge allo studio del contenuto dei testi quello della loro produzione, con particolare attenzione per le strategie editoriali degli stampatori, e quello della loro ricezione, che si può in parte tracciare attraverso lo studio di inventari e cataloghi di biblioteche48. Non è stata questa la via intrapresa da chi si è chiesto se e come la trasformazione dell’immagine del mondo nell’età delle esplorazioni cambiò il modo in cui gli europei ne scrivevano la storia. Il racconto convenzionale individua in Voltaire il pioniere della scrittura di storie del mondo in Europa in virtù del suo interesse per la Cina manifestato nell’Essai sur les mœurs et l’esprit des nations (1756), che rompeva con la centralità del mondo ebraico-cristiano ancora evidente nel Discours sur l’histoire universelle (1681) del prelato cattolico Jacques-Bénigne Bossuet. Ma nei due secoli precedenti non erano certo mancate opere di rilievo sul mondo non europeo, benché il corpo di testi rischi di essere troppo ampio e vario se si inseguono tutte le tracce degli autori europei che dal Cinquecento in avanti hanno mostrato una genuina attenzione per la storia di altre parti del mondo, limitandosi a distinguere appena fra autori che conoscevano le lingue locali e si servivano di fonti di prima mano da un lato e divulgatori di successo dall’altro49. 48 Id., Final Reflections: The Old World and the New Revisited, in America in European Consciousness, 1493-1750, a cura di K.O. Kupperman, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1995, pp. 391-408. 49 P. Burke, European Views of World History: From Giovio to Voltaire, in «History of European Ideas», VI (1985), pp. 237-251.

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Questo esercizio porta ad attribuire anche a opere che si concentrano su una sola regione o un solo continente l’impropria qualifica di storie del mondo. Solo così si può collocare all’origine di questa tradizione il Commentario de le cose de’ turchi (1532) dell’umanista italiano Paolo Giovio, in continuità con l’argomento di chi ha ricordato che il numero di scritti dedicato ai turchi e all’Asia in Europa rimase per lungo tempo superiore a quelli sull’America50. Per tale via si può procedere rubricando le opere principali sull’impero ottomano fino agli Annales sultanorum othmanidarum (1588) e le Historiae musulmanae turcorum (1591). Questi ultimi segnarono una novità perché, come si rivendica sin dal frontespizio, furono entrambi scritti sulla scorta di fonti in turco. Il loro autore, il calvinista tedesco Johannes Löwenklau, le aveva consultate durante un soggiorno a Istanbul alla metà degli anni ottanta. Casi analoghi si incontrano anche in opere coeve su altre parti del mondo islamico. Nel 1610 il portoghese di origini ebraiche Pedro Teixeira pubblicò ad Anversa, in lingua spagnola, una storia dei sovrani della Persia fondata sulla lettura del Rauzat al-Safā’ (Giardino della purezza), una monumentale compilazione critica di testi della tradizione araba e persiana, redatta dallo storico quattrocentesco Mir Khwand. Uomo erudito e grande viaggiatore, Teixeira aveva educato il suo sguardo al mondo visitando le Filippine, la Cina e parti dell’America, oltre all’Asia meridionale. Mentre era in Persia, non trovando conformità tra le notizie che ricavava dalla tradizione europea e le informazioni che raccoglieva sul luogo, comprese «che per togliermi da confusioni e imbarazzi, avendo piacere di sapere dei loro re, mi dovevo conformare con quello se ne trovava scritto nelle loro cronache, i cui autori come testimoni più prossimi riferivano le cose in modo meno confuso e con più certezza di quelli di altre nazioni»51. Riscontri simili si possono avere con opere sulla Cina e il Giappone, o sull’America spagnola, ma il risultato non cambia: ne deriva un’immagine della storia del mondo come prodotto della somma di storie, che separatamente avrebbero consentito ai lettori europei di maturare una nuova visione d’insieme. Forse uno degli approdi cui Elliott, Il vecchio e il nuovo mondo cit., p. 24. P. Teixeira, Relaciones... d’el origen descendencia y succession de los reyes de Persia y de Harmuz, y de un viage hecho por el mismo autor dende la India oriental hasta Italia por tierra, Amberes, en casa de Hieronymo Verdussen, 1610, c. 2v. 50 51

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contribuì questa letteratura, che oscilla tra significativi avanzamenti nella conoscenza fattuale e la persistenza di stereotipi e rappresentazioni negative dei non europei, fu la maturazione di un approccio comparativo alle diverse cronologie, ma anche ai miti e alle credenze a sfondo religioso52. Tuttavia, se certamente, da Giovio a Voltaire, gli europei colti accrebbero il proprio interesse per le altre parti del globo, la novità delle storie del mondo scritte nel Rinascimento non si riduce a una galassia di testi su regioni particolari: Löwenklau o Teixeira confermano l’esistenza di una tendenza pur minoritaria alla xenologia, ma non bastano per parlare di storia del mondo, un’espressione che va riservata piuttosto alle opere che di quella storia tentarono di dare una rilettura globale, investendo direttamente anche la posizione dell’Europa. Perciò, non basta neppure interrogarsi sull’impatto che la scoperta dell’America ebbe sulla scrittura di storie del mondo, tanto più se l’unico criterio resta quello di contare le pagine che le sono dedicate. Per questa via, infatti, si arriva a concludere che la visione della storia del mondo nel Cinquecento rimase quasi inalterata a fronte del flusso continuo di informazioni sul Nuovo Mondo che derivava dalle spedizioni di esplorazione e di conquista. Fare la lista di scritti enciclopedici a carattere storico che accennano poco o nulla all’America riproduce la tentazione di trovare una scorciatoia per studiare un fenomeno straordinariamente complesso e condizionato da fattori contingenti, misurandone il rilievo sul metro di aspettative anacronistiche: la maggior parte degli storici del Cinquecento aveva ben poco in comune con quelli del tardo Settecento e dell’Ottocento che trattavano l’America come si pretenderebbe che avessero fatto i loro predecessori53.

52 Sullo studio comparato delle religioni in prospettiva globale, a partire dall’opera Conformité des coutumes des Indiens Orientaux, avec celles des Juifs et des autres peuples de l’Antiquité pubblicata nel 1704 da monsieur de la Créquinière, insiste C. Ginzburg, Provincializing the World: Europeans, Indians, Jews (1704), in «Postcolonial Studies», XIV (2011), pp. 135-150. 53 P. Burke, America and the Rewriting of World History, in America in European Consciousness cit., pp. 33-51.

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5. La riscoperta di un Rinascimento globale La scrittura di storie del mondo rappresentò una linea minoritaria nel Rinascimento. Il suo peso, tuttavia, andrebbe valutato tenendo conto anche della diffusione e della tiratura delle diverse opere, oltre al modo in cui furono lette. La storia rappresentò una forma di conoscenza che assorbì, filtrò e reinterpretò la novità delle interazioni globali nel Cinquecento, contribuendo a dare loro una collocazione rispetto al passato. Solo mediante studi puntuali, attenti alle trasformazioni nella costruzione delle storie del mondo che furono allora scritte ma non sempre pubblicate a stampa, si apprezza adeguatamente l’impatto che non solo la scoperta dell’America, ma il mutato rapporto dell’Europa con l’intero pianeta ebbe sulla loro scrittura. Gli autori europei che si lanciarono in quell’impresa agirono in simultanea ad altri storici, dai cronisti che vivevano all’ombra dei grandi imperi asiatici ai discendenti degli indios nel Nuovo Mondo. E talora furono coscienti di quello sforzo comune, tanto da arrivare a leggersi e ispirarsi a vicenda. Il mondo stava diventando un oggetto condiviso. La consapevolezza di ciò sembra emergere dall’incisione che campeggia sul frontespizio di una monumentale compilazione dal titolo Le Monde, ou la Description generale des ses quatre parties. I suoi cinque volumi, impressi a Parigi nel 1637 per i tipi di Claude Sonnius, seguono un ordine per continenti un po’ inconsueto: l’Asia, l’Africa, poi l’America e infine l’Europa. Ne era autore Pierre d’Avity, signore di Montmartin, uomo d’armi e geografo francese morto due anni prima. Dal 1613 andava pubblicando una descrizione del mondo che molti accusavano di eccessiva somiglianza con le Relationi universali di Giovanni Botero, il più celebre trattato di geopolitica del tempo. In difesa di d’Avity, fu obiettato che, proprio affinché ognuno «giudicasse la differenza leggendo l’uno e l’altro», egli «aveva [anche] tradotto Botero nella nostra lingua, dando modo a tutti i francesi di leggerlo più agevolmente»54. Le Monde ebbe un successo tale che la sua mole crebbe da un’e54 Così si legge nella prefazione, redatta forse da François Ranchin, avvocato di Montpellier, in P. d’Avity, Le monde, ou la description generale des ses quatre parties avec tous ses empires royaumes, estats et republiques, a Paris, chez Claude Sonnius, 1637, vol. I, c. ẽ jv. La traduzione non è altrimenti nota.

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dizione all’altra, grazie all’aggiunta di nuove parti, ricavate da altri autori, e fu oggetto di traduzioni e contraffazioni. Sul frontespizio dell’edizione del 1637 campeggia l’immagine realizzata dall’incisore Jean Picart. Al centro domina un grande mappamondo che esibisce l’emisfero con l’Africa, l’Europa e l’Asia. Il globo terrestre sembra come unire i due gruppi di uomini che si trovano ai suoi lati, attirandone sguardi e gesti. Sulla sinistra si vedono sei europei, finemente vestiti con abiti che seguono la moda dei loro paesi di provenienza. Ad essi corrispondono altri sei uomini dall’aspetto ben più diverso tra loro, abbigliati secondo la foggia allora attribuita in Europa alle parti del mondo di cui erano originari, Asia, Africa o America. Nell’incisione di Picart si riflette un’attrazione per il mondo che aveva contraddistinto anche un certo numero di storici nel secolo anteriore. Ma quando quell’immagine vide la luce, l’intensità e la creatività con cui questi ultimi si erano rivolti ai passati multipli del globo per capirne l’inedito intreccio nel presente si erano ormai affievolite. Benché priva di mappe, l’opera di d’Avity ha per finalità dichiarata di offrire una conoscenza utile alla politica a partire dalla geografia. Essa non è una storia del mondo, per quanto si fondi sulla vastità e varietà di materiali che si trovano alla base di molte storie del mondo composte nei decenni precedenti. Queste ultime non si appoggiano solo su fonti scritte, ma anche su racconti orali di informatori locali e, accanto ad essi, su iscrizioni, reperti, rovine. La scoperta di quanto passato esisteva al di fuori del proprio mondo divenne allora evidente toccando con mano i resti di società scomparse, a volte solo a seguito di conquiste recenti. Erano i frammenti superstiti del tempo in cui un luogo aveva avuto un volto esteriore diverso, di cui si potevano però cogliere ancora le stratificazioni che si impararono a riconoscere e a classificare, non senza fraintendimenti. Quello spettacolo muto destò particolare sconcerto negli europei giunti nel Nuovo Mondo negli anni successivi alla conquista. Alcuni cercarono di restituirgli voce studiando lingue locali, sforzandosi di intendere forme di comunicazione radicalmente diverse dalla propria, individuando possibili supporti che potessero aprire uno squarcio su una realtà scomparsa per sempre. A questo movimento non prese parte solo chi viaggiò attraverso il mondo, ma anche chi, pur senza farlo, fu in grado di procurarsi oggetti provenienti da terre lontane, che si trattasse del pezzo di una

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statua o di un recipiente, di un tessuto lacerato o di altre cose dalle forme inconsuete, a volte bizzarre, trovando loro un posto all’interno di raccolte spesso custodite nell’ombra di studi e librerie private55. D’altra parte, fu pratica corrente sin dai primi viaggi quella di portare via con sé oggetti dalle regioni visitate per offrirli a protettori o conservarli nella propria casa. Non si tardò a farli fabbricare dai nativi secondo stili che si riteneva potessero meglio soddisfare gusti e attese di chi li riceveva. Così fece già Hernán Cortés sin dai giorni della conquista del Messico56. Anche per il pericolo del falso, sempre in agguato, l’allargamento degli orizzonti nel Cinquecento contribuì alla graduale definizione di un nuovo tipo di conoscenza, l’antiquaria, che aveva la pretesa di stabilire un contatto diretto con il passato attraverso manufatti, monete e altri oggetti, arrivando così a proporre cronologie più attendibili, ricostruire miti e genealogie, penetrare il significato di organizzazione sociale e costumi di popolazioni distanti nel tempo, ma anche nello spazio. In genere, la sensibilità antiquaria si definisce anzitutto a partire da un rapporto materiale con la propria antichità. Quella forma di sapere prese il suo nome nell’Europa del Rinascimento, dove si confrontava in primo luogo con le vestigia romane e non aveva ancora acquisito una sua autonomia, confondendosi ancora con la storia57. Anche per questo, fra la prima metà del Cinquecento e gli inizi del Seicento, non solo esplorazioni e conquiste offrirono all’antiquaria nuova materia su cui esercitarsi, ma essa fu

55 A.A. Shelton, Cabinets of Transgression: Renaissance Collections and the Incorporation of the New World, in The Cultures of Collecting, a cura di J. Elsner e R. Cardinal, Reaktion Books, London 1997, pp. 177-203; I. Yaya, Wonders of America: The Curiosity Cabinet as a Site of Representation and Knowledge, in «Journal of the History of Collections», XX (2008), pp. 173-188; D. Bleichmar, Seeing the World in a Room: Looking at Exotica in Early Modern Collections, in Collecting Across Cultures: Material Exchanges in the Early Modern Atlantic World, a cura di D. Bleichmar e P. Mancall, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2011, pp. 15-30; Collecting East and West, a cura di S. Bracken, A.M. Gáldy e A. Turpin, Cambridge Scholars Publishing, Newcastle upon Tyne 2013. 56 A. Russo, Cortés’s Objects and the Idea of New Spain: Inventories as Spatial Narratives, in «Journal of the History of Collections», XXIII (2011), pp. 229-252. 57 A. Momigliano, Storia antica e antiquaria (1950), in Id., Sui fondamenti della storia antica, Einaudi, Torino 1984, pp. 3-45. Sulle riprese della sua proposta cfr. Momigliano and Antiquarianism: Foundations of the Modern Cultural Sciences, a cura di P.N. Miller, University of Toronto Press, Toronto 2007.

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di ausilio alla scrittura di storie del mondo, benché gli autori di queste ultime non sempre compresero o impiegarono adeguatamente le testimonianze messe a loro disposizione. In ogni caso, fu in questo ambito che storia e antiquaria s’intrecciarono anche con un’incipiente pratica archeologica coltivata, in modo inconsapevole, da esploratori che scoprivano nel terreno una croce o l’orma di un apostolo, a conferma che altri cristiani avevano visitato in passato le terre in cui erano giunti, o da missionari che scavavano nel suolo o sotto resti di edifici per trovare, e distruggere, oggetti votivi e altri segni tangibili della permanenza dell’idolatria tra le popolazioni che volevano convertire58. Per paradossale che possa apparire, anche questi sforzi concorsero a quella lenta conquista del passato che consiste nella riesumazione dei suoi resti materiali59. La messa in circolazione di oggetti antichi, o presunti tali, provenienti da terre lontane fu di grande importanza per la trasformazione del senso del passato. Peraltro, come la scrittura di storie del mondo, anche la sensibilità antiquaria non era allora appannaggio della sola cultura europea, ma ebbe forse una natura globale e assunse forme variabili nelle diverse culture del tempo, dallo studio di selci collezionate da antiquari e naturalisti cinesi al riuso di antichi oggetti votivi in Messico alla vigilia della conquista spagnola60. Ci si può anzi interrogare sugli eventuali intrecci tra diverse sensibilità antiquarie nel contesto dei contatti e degli scambi su scala planetaria che si intensificarono dal Cinquecento in avanti61. Qui il cerchio si chiude rivelando un parallelo tra il composito universo transculturale in cui presero forma le storie del mondo tra Cinque e Seicento e l’attenzione che prestano oggi alla cultura mate58 Sull’impiego della nozione di idolatria nella conquista dell’America cfr. C. Bernand, S. Gruzinski, Dell’idolatria. Un’archeologia delle scienze religiose (1988), Einaudi, Torino 1995. 59 Sull’intreccio fra antiquaria e archeologia nella cultura europea cfr. A. Schnapp, La conquista del passato. Alle origini dell’archeologia (1993), Mondadori, Milano 1994, pp. 109-194. 60 Antiquarianism and Intellectual Life in Europe and China, 1500-1800, a cura di P.N. Miller e F. Louis, University of Michigan Press, Ann Arbor 2012; World Antiquarianism: Comparative Perspective, a cura di A. Schnapp con L. von Falkenhausen, P.N. Miller e T. Murray, The Getty Research Institute, Los Angeles 2013. 61 Se ne è discusso al simposio internazionale Antiquarianisms Across the Atlantic, Brown University, Providence (RI), 13-14 novembre 2015. È prevista l’uscita di un volume ad esso collegato nel 2016.

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riale gli storici che indagano la dimensione globale del Rinascimento. Non si tratta di usare al plurale la «parola famigerata» Rinascimento, di cui tanti diffidano per i troppi significati diversi che ha avuto nel tempo, al punto di averne fatto una nozione valida per descrivere fioriture culturali ovunque nel mondo62. Piuttosto, è la riscoperta del carattere aperto di un movimento che siamo abituati a considerare la quintessenza della cultura europea a rivelare quanto mondo vi fosse nel Rinascimento, inteso non solo come l’attività di filologi, letterati e artisti alle prese con un rinnovamento dei campi del loro sapere a partire dal confronto serrato con gli antichi, ma anche come il prodotto di nuovi gusti e pratiche di consumo. Lo studio degli oggetti esibiti in sale pubbliche o custoditi in camere private, attestati da inventari e dipinti, rivela da quanto lontano provenissero, o come fossero composti di parti e materie che arrivavano da fuori dell’Europa: i vetri, le ceramiche e le suppellettili in metallo dalla Siria, i tappeti turchi, le sete e i velluti originari dall’Asia meridionale e dalla Cina, i marmi dall’Africa occidentale, i pigmenti americani usati per ottenere colori da usare per un abito o un dipinto. Prodotti rinascimentali come le maioliche genovesi subivano la suggestione delle porcellane cinesi con cui furono in grado di competere sui mercati, europei ma non solo, perché costavano meno63. Questo Rinascimento costruito da impulsi che andavano ben oltre l’Europa e il Mediterraneo, fino a comprendere l’America o la Cina, vide emergere la nuova immagine di un pianeta che aveva passati multipli e un’antichità globale. Alcuni avvertirono l’urgenza di confrontarsi con tutto questo, scrivendo una storia del mondo da prospettive molto diverse. Un aspetto decisivo fu l’importanza che vi ricoprirono alcune particolari forme del racconto, dell’organizzazione ed esposizione della conoscenza storica, che emersero a prescindere dai viaggi di Colombo o di Vasco da Gama, ma non corrisposero a quelle trasmesse dall’antichità classica, pur risentendone

62 J. Goody, Rinascimenti. Uno o molti? L’Europa, il mondo arabo, l’India e la Cina alle origini dell’età moderna (2010), Donzelli, Roma 2010. L’espressione «parola famigerata» per il Rinascimento è usata in A. Momigliano, Le radici classiche della storiografia moderna (1990), a cura di R. Di Donato, Sansoni, Firenze 1992, p. 75. 63 M. Ajmar-Wollheim, L. Molà, The Global Renaissance: Cross-Cultural Objects in the Early Modern Period, in Global Design History, a cura di G. Adamson, G. Riello e S. Teasley, Routledge, London 2011, pp. 11-20.

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in vario modo nei loro contenuti. Quei modelli sono rappresentati da opere oggi spesso dimenticate, o comunque quasi mai incluse nel canone letterario rinascimentale. Alcune ebbero, tuttavia, un notevole successo tra i lettori del Cinquecento e proprio per questo i loro spunti furono sviluppati dagli autori che reagirono per primi alla scoperta che esistevano tante storie quante erano le popolazioni del mondo. Talvolta, le opere che li ispirarono prolungavano la tendenza a raccontare di terre immaginarie popolate da uomini e animali dalle forme più improbabili, frutto di una fantasia che da Erodoto e Plinio fino a Mandeville aveva riempito i vuoti della conoscenza reale, ma non fu questo l’aspetto che ne determinò la ripresa da parte di chi tentò di redigere una storia del mondo nel Rinascimento. A farlo furono spesso figure di secondo piano, marginali, che scrivevano senza incarichi ufficiali, anche a costo di proporre letture sovversive del passato. I rischi che si correvano a comporre una storia del mondo divennero evidenti quando la loro scrittura incrociò i grandi poteri di un’età di ferro, finendo nelle maglie della censura o diluendosi fino a confondersi con la storia missionaria o imperiale, che rispondeva però a tutt’altre spinte e finalità. Anche per questo, nonostante riprese e riscritture da una lingua all’altra, le storie del mondo nel Rinascimento non acquistarono mai lo statuto di un vero e proprio genere. Furono piuttosto un insieme di tentativi, talora anche sperimentali, che andarono comunque a formare una tradizione interrotta, spezzata. Prima che questo avvenisse fino in fondo, nella prima metà del Seicento, quei tentativi furono alimentati dal flusso continuo di notizie e materiali che provenivano dalle più diverse località. Grazie ad essi, quelle storie del mondo ebbero un’autentica proiezione globale, o quanto meno uno sfondo planetario: affrontarono la complessa sfida di provare a tenere tutto insieme, o comunque di rendere conto di uno straordinario allargamento degli orizzonti e delle ricadute che aveva sulla percezione che l’Europa aveva di sé. In questo non si rifletteva affatto una presunta eccezionalità della scrittura storica rinascimentale, ma al contrario la sua partecipazione a un mondo più vasto dell’Europa, da cui traeva ispirazione e dove, peraltro, negli stessi anni, come si è detto, vedevano la luce tentativi simili di produrre storie che legavano tra loro i passati di uomini, società e poteri di un pianeta in trasformazione.

II LE ALCHIMIE DELLA STORIA: UN FALSARIO SBARCA IN AMERICA 1. Un francescano nella Nuova Spagna Quando i primi spagnoli percorsero il Messico centrale all’indomani della conquista di Hernán Cortés (1521), si aggiravano in un paesaggio ancora segnato da grandiose testimonianze delle società precolombiane, con resti di edifici e templi sacri scambiati per piramidi egizie o moschee islamiche. Tenochtitlan (antica Città del Messico), Tlaxcala, Cholula, Iztapalapa, Texcoco, Tlacopan: l’altipiano della valle centrale del Messico ospitava centri urbani con decine di migliaia di abitanti. I nuovi dominatori venuti dal mare ebbero allora la sensazione di entrare in un mondo parallelo, dove la vita sembrava essersi sviluppata senza alcun contatto con il resto dell’umanità. La morte di Moteuczoma II (1520) mise fine all’impero azteco, un nome dato solo molto più tardi alla complessa confederazione politica con a capo la popolazione dei mexica, che governava la regione quando arrivarono gli spagnoli. Questi ultimi si sforzarono di distruggere i simboli del potere e le pietre che ne serbavano memoria; si lanciarono anche in un sistematico tentativo, destinato a rivelarsi incompleto, di estirpare ogni traccia delle complesse culture locali. I francescani osservanti guidati da Martín de Valencia furono parte attiva di quel disegno di cancellazione. Nel 1524 giunsero in Messico in dodici, a imitazione degli apostoli. Provenivano dal cuore dell’Estremadura, terra arida e assolata, attraversata da forti spinte mistiche e riformatrici. Erano convinti che in quel mondo ignoto fosse possibile plasmare una cristianità nuova che riscattasse quella europea, corrotta e afflitta dall’avanzata della Riforma protestante, e aprire così il cammino alla conversione universale.

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Quei frati erano salpati da Sanlúcar de Barrameda, il porto andaluso da dove si partiva per l’America affrontando un rischioso viaggio attraverso l’Oceano Atlantico. Circa un anno prima, nello stesso porto era rientrata la Victoria, l’unica nave a completare la circumnavigazione del globo della flotta che aveva lasciato la Spagna nel 1519 agli ordini del portoghese Ferdinando Magellano, morto lungo il tragitto. Il mondo stava cambiando aspetto agli occhi dei suoi abitanti. La fervida spiritualità dei francescani, educati all’arte di interpretare le profezie sulla fine dei tempi, li indusse a vedere nell’incontro con un continente sconosciuto i segni celesti dell’avvento imminente dell’ultimo millennio, quando avrebbe avuto inizio un’età di pace e concordia, seguita dal giudizio finale1. I religiosi al seguito di Martín de Valencia avevano fretta di portare a compimento la loro missione, anche a costo di ricorrere a battesimi di massa, quasi che si trattasse di accelerare l’approssimarsi dell’apocalisse. Accettarono così come un male minore le violenze commesse dai conquistatori nei confronti dei nativi sopravvissuti alle guerre e alle malattie di origine europea, ridotti in schiavitù e sfruttati alla stregua di animali. Tuttavia, si dovettero presto misurare con il dato ineludibile della resistenza culturale degli indios, come si era preso a chiamare gli abitanti del Nuovo Mondo, per un errore di prospettiva che risaliva a Colombo. La conferma che i francescani avevano di fronte esseri umani a pieno titolo passò anche per la scoperta che occorresse rivolgersi al passato degli indios, irrimediabilmente perduto ma di cui restavano cospicue tracce, per comprendere e superare i caratteri essenziali della loro visione del mondo, le loro credenze, le forme della loro organizzazione sociale. Così, la storia si affermò come una forma di conoscenza di fondamentale importanza in America. Vi era in questo una continuità con l’opera di riscoperta dell’antichità da parte degli umanisti che, nell’Europa del Rinascimento, restauravano testi classici affrontando manoscritti lacunosi con le armi della filologia. L’universo violato da Cortés affondava le sue radici in un passato di cui bisognava in qualche modo impadronirsi, al pari delle lingue locali e dei codici pittografici degli indios. 1 A. Prosperi, America e Apocalisse: note sulla «conquista spirituale» del Nuovo Mondo (1976), in Id., America e Apocalisse e altri saggi, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 1999, pp. 15-63.

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La conoscenza dei territori e dei costumi degli indios, infatti, non poteva essere tenuta separata da una piena esplorazione delle culture precolombiane. Vincere questa delicata sfida era decisivo per condurre a buon fine la conquista spirituale e accelerare la conversione universale. Ma come? L’esito fu una conciliazione apparente, benché segnata dal crescente dominio coloniale. A imporsi fu una continua trasformazione dei significati attribuiti dai vari attori a prodotti culturali ibridi e in qualche modo condivisi, sempre in grado di inviare un messaggio a ciascuno, anche se non lo stesso a tutti: quella miscela cangiante rivelava una commensurabilità tra la cultura spagnola e cristiana e quelle delle popolazioni messicane che si accompagnava, però, all’impossibilità di giungere alla piena traducibilità una volta per tutte2. Anche l’accesso alle «antichità degli indios», come da subito si prese a definire i diversi frammenti del loro millenario passato, alla maniera degli umanisti e degli antiquari europei, passò attraverso un processo in parte simile3. I nativi custodivano la memoria del tempo precedente all’arrivo degli spagnoli: erano dunque gli unici possibili informatori, nonché i soli decifratori delle reliquie di un’epoca ormai tramontata. La ricerca del passato perduto delle popolazioni messicane avrebbe attraversato il primo secolo successivo alla conquista, tra i fraintendimenti di parte spagnola, gli affannosi tentativi di procurarsi notizie tramite codici precolombiani e racconti orali, le stesure non di rado affrettate e incomplete di cronache, relazioni e trattati composti dai francescani nelle pause delle loro missioni in terre spesso remote e difficili da raggiungere. Mentre si muovevano in uno spazio in trasformazione, quei frati viaggiavano anche indietro nel tempo. Così si pose loro il problema decisivo: come selezionare i materiali confusi e dispersi ai quali avevano accesso e come trasformarli in una ricostruzione storica attendibile? 2 S. Gruzinski, La colonizzazione dell’immaginario. Società indigene e occidentalizzazione nel Messico spagnolo (1989), Einaudi, Torino 1994; A. Russo, The Untranslatable Image: A Mestizo History of the Arts in New Spain, 1500-1600, University of Texas Press, Austin 2014. 3 L’espressione figurava già nel titolo del trattato del frate geronimiano Ramón Pané, che accompagnò Colombo nel secondo viaggio in America (1493). L’originale è perduto. Cfr. R. Pané, Relazione sulle antichità degli indiani, a cura di A. Morino, Sellerio, Palermo 1992.

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Bisognava orientarsi tra narrazioni locali organizzate secondo concezioni cicliche del tempo diverse da quella europea e più volte rimaneggiate allo scopo di fornire versioni gradite al potere, trasmesse in forme grafiche e linguaggi che i missionari potevano facilmente equivocare. Inoltre, i francescani dovettero stabilire criteri di affidabilità delle informazioni raccolte, scegliere i contenuti degni di essere conosciuti e disporli in un discorso che fosse comprensibile ai loro lettori. La scoperta che gli indios avevano avuto una storia, parallela a quella degli egizi, dei greci e dei romani, ma autonoma da essi, era inquietante: raccontarla comportava che si spiegasse come poteva essere esistita una tale molteplicità di passati, come raccordarli fra loro e come mai proprio allora la provvidenza avesse deciso di servirsi degli spagnoli per rivelare al resto del mondo un’umanità nascosta cui la Bibbia non sembrava accennare, offrendole l’opportunità di convertirsi al cristianesimo. Questa prospettiva, inevitabilmente, stimolava le inclinazioni millenaristiche dei francescani. Li indusse a pensare i loro scritti secondo uno schema binario, in cui all’età precolombiana, segnata da false credenze e pratiche cruente ispirate dal demonio (su tutte, i sacrifici umani), seguiva un’età di rigenerazione spirituale, testimoniata dai leggendari successi iniziali dell’opera missionaria, ricostruiti in grande dettaglio. Ma la trattazione del passato delle popolazioni messicane non si ridusse a un elenco di condanne. Al contrario, rispose al tentativo di farne l’oggetto di una ricostruzione storica a tutto tondo, che permettesse di porre le loro antichità in una qualche relazione con il resto dell’umanità. Scrivere la storia degli indios della Nuova Spagna, come Cortés ribattezzò il Messico, significava esprimere la presunta conoscenza del loro passato nel linguaggio della storiografia europea del tempo, e quindi modellarlo secondo un procedimento in cui, però, il riadattamento rischiava di confondersi con l’invenzione. Così la ricerca di una visione della storia del mondo in cui poter includere la lunga epoca preispanica dell’America entrava a far parte della cultura rinascimentale. La composizione di relazioni sulle antichità messicane che consentissero di conoscere meglio l’origine di miti, credenze, rituali e costumi degli indios fu un’impresa condivisa, che rispose a ripetuti stimoli nel corso degli anni trenta del Cinquecento e vide impegnato più di un frate francescano. Il più famoso fu Toribio de Benavente,

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uno dei dodici religiosi sbarcati sul continente americano nel 15244. Alla fine del febbraio 1541 si trovava nel convento di Tehuacán, centro di antica fondazione popoloca, circa 250 chilometri a sudest di Città del Messico, ed è qui che completò una redazione della sua Historia de los indios de la Nueva España, indirizzata al potente Don Antonio Alfonso Pimentel, conte di Benavente, in Spagna. Vi riassumeva i risultati di oltre quindici anni di esperienza missionaria: dall’epoca del suo arrivo frate Toribio aveva visitato numerose località, spingendosi fino in Guatemala e Nicaragua, e aveva assunto vari incarichi tra cui quello di inquisitore e di guardiano di conventi francescani, aveva imparato alcuni idiomi locali, su tutti il nahuatl, la lingua veicolare dell’altopiano del Messico centrale. Il suo zelo apostolico, l’aspetto umile e la generosità sarebbero stati all’origine del nome che gli avrebbero dato gli indios: Motolinía, «colui che è povero». L’ardore per l’evangelizzazione lo aveva persino spinto a prendere parte, tra 1532 e 1533, a un tentativo di estendere l’opera di conversione universale fino in Cina: a tale scopo si era trasferito a Tehuantepec, città zapoteca nel Messico meridionale che si affacciava sull’Oceano Pacifico, dove per sette mesi, con Martín de Valencia e altri francescani, aveva invano atteso i vascelli promessi da Cortés per quell’impresa. Motolinía era dunque un missionario dagli orizzonti globali quando completò l’Historia poi trasmessa, forse nel 1542, al conte di Benavente. Era il risultato di una stesura frettolosa, eseguita con ogni probabilità per incidere nel dibattito sulla schiavitù degli indios esploso in Spagna sull’onda delle denunce del domenicano Bartolomé de las Casas e culminato nelle «Leggi nuove» (1542) con cui l’imperatore Carlo V vietò l’asservimento dei nativi americani. Da sempre a fianco dei coloni e timoroso che potessero rivoltarsi e mettere così a rischio i frutti dell’azione missionaria, Motolinía prese posizione contro Las Casas. La sua Historia doveva chiarire come in Messico fosse ormai in atto, sotto l’impulso francescano, la straordinaria trasformazione di popolazioni idolatre in un gregge mansueto di devoti cristiani. A giungere nelle mani del conte di Benavente fu una riduzione parziale, di cui non sopravvive l’originale, di una cronaca generale cui Moto4 Su Toribio de Benavente e la sua opera rinvio a G. Baudot, Utopia e storia in Messico. I primi cronisti della civiltà messicana, 1520-1569 (1976), Biblioteca Francescana, Milano 1992, pp. 221-243.

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linía lavorava su incarico del suo ordine almeno dal 15365. Anche la versione finale di quest’ultima non ci è giunta, né si hanno certezze che sia andata perduta durante la campagna di confisca e distruzione delle opere sulla conquista del Nuovo Mondo, ordinata dalla corona di Spagna nel 1577, per paura che legittimassero pulsioni autonomiste. Sopravvivono però una serie di materiali di lavoro che permettono di conoscere significative evoluzioni della cronaca dopo il 15416. L’operazione compiuta da Motolinía sul passato precolombiano degli indios si comprende esaminando da vicino l’epistola proemiale dell’Historia. L’argomento era complesso. Sin dalle pagine iniziali l’autore si giustifica per la trattazione assai breve delle «antichità e cose notevoli di questa terra»7. Per esporre la più remota storia messicana bisognava identificare gli abitanti originari delle diverse regioni. Motolinía decise di adottare un criterio genealogico, individuando successive ondate migratorie di popolazioni i cui lignaggi avrebbero lasciato traccia nei nomi di villaggi, città e territori. La scelta di ridurre a tale schema la storia dell’antico Messico non era neutrale, ma rispondeva a una visione della storia del mondo fondata su un modello diffusionista di matrice europea. Era la tecnica del racconto giudicata migliore da Motolinía per consentire ai suoi lettori di accedere all’oscuro e sfuggente passato di quegli indios di cui tanto si dibatteva allora in Spagna: come un alchimista che nel chiuso di un laboratorio convertiva il piombo in oro, provava a far reagire la materia indiana a contatto con elementi che avessero la proprietà di tramutare una sostanza ignota nel prezioso composto della storia. 2. Motolinía e i racconti degli indios Le pagine in cui Motolinía esibisce le sue fonti sono di un’ambiguità rivelatrice. Scrive di aver ricavato le sue notizie dai «libri

5 T. de Motolinía, Historia de los Indios de la Nueva España, a cura di G. Baudot, Castalia, Madrid 1985. 6 Id., Memoriales o Libro de las cosas de la Nueva España y de los naturales de ella, a cura di E. O’Gorman, Universidad Nacional Autónoma de México, Ciudad de México 1971, dove si edita il documento con integrazioni tese a ricostruire la cronaca finale. 7 Id., Historia de los Indios cit., p. 99.

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antichi con simboli e immagini posseduti da questi nativi» difficili da interpretare «per l’assenza di lettere», ma anche dalla «memoria degli uomini», che spesso erano in contrasto, tuttavia. Il modo in cui usa i materiali a sua disposizione risente soprattutto della decisione di presentarli nella forma di genealogie di popolazioni colonizzatrici. Di «cinque» codici pittografici spiega di essersi affidato a uno in particolare, che chiama Xiuhtonalamatl. Vi si serbava il conto degli anni e il calendario dei giorni, nonché il ricordo delle «imprese e storie di vittorie e di guerra, e la successione dei principali signori; le tempeste, i segni del cielo degni di nota e le pestilenze generali; in che tempo e sotto quale signore si verificarono; e tutti i signori che dominarono sulla Nuova Spagna, finché non arrivarono gli spagnoli»8. Come la quasi totalità dei codici composti prima della conquista, quella fonte è oggi perduta. A metà strada fra lo storico e l’antiquario, Motolinía ne desume che l’antico Messico era stato popolato grazie alla successione di «tre maniere di genti»: i chichimeca, gli acolhua (texcocani) e i messicani (mexica). Quanto ai primi, ammette che le notizie sicure sulla loro presenza nella Nuova Spagna non risalivano più indietro nel tempo di 800 anni, «benché si dia per certo che sono molto più antichi». Il problema era che «non sapevano come scrivere, né fare immagini, perché erano gente assai barbara e come selvaggi». Solo gli acolhua avrebbero iniziato «a scrivere e comporre memoriali nei loro simboli». E le più antiche notizie sul loro conto avevano 770 anni. Motolinía descrive poi gli insediamenti e gli avvicendamenti di quelle popolazioni nel Messico centrale e le serie dei loro sovrani fino alla recente caduta di Moteuczoma II9. A questo punto si introduce un’altra versione dei fatti, presentata come «priva di contraddizioni» rispetto alla precedente, benché complichi non poco la tripartizione proposta e derivi da una fonte diversa, ancor meno verificabile: un informatore «assai abile e di buona memoria» di cui si dice solo che apparteneva a quegli indios che «ricordavano e sapevano raccontare e riferire tutto quello su cui

Ivi, pp. 99, 102. Discute questo genere di codici E.H. Boone, Stories in Red and Black: Pictorial Histories of the Aztecs and Mixtecs, University of Texas Press, Austin 2010, pp. 197-237. 9 Motolinía, Historia de los indios cit., pp. 102-107. Correggo in «acolhua» l’originale che recita «quelli di Colhua», facendo però riferimento ai texcocani della provincia di Acolhuacan. 8

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li si interrogava». La storia raccontata dall’anonimo indio si apre con un mito di cui si trovano numerose varianti in successive cronache spagnole e nahuatl della conquista, quello di Chicomoztoc «che nella nostra lingua castigliana», si specifica, «significa sette caverne». Da quel luogo avevano avuto origine gli indios della Nuova Spagna. Loro comune antenato era un «signore» che ebbe «sette figli». In una redazione successiva Motolinía lo identifica con l’anziano Iztac Mixcoatl («bianco serpente di nuvole»), di cui tace la natura divina, per sottolineare invece che dalla sua discendenza «procedono grandi generazioni, quasi come si legge dei figli di Noè». È un rilievo tutt’altro che casuale, e ci torneremo su a breve. I primi sei figli si sparsero nelle regioni dell’America centrale, fondando città e dando principio a nuove popolazioni. Nei tre casi in cui Motolinía ne riporta il nome, si suggerisce un nesso etimologico secondo uno schema ben preciso: «Dal secondo figlio Tenuch vennero i tenochca, che sono i messicani, e perciò Città del Messico si chiama Tenochtitlan»; «Dal quinto figlio Mixtecatl vennero i mixteca. La loro terra si chiama ora Mixtecapan»; «Dall’ultimo figlio discendono gli otomi, così chiamati dal suo nome, Otomitl. È una delle maggiori generazioni della Nuova Spagna». In seguito Motolinía avrebbe aggiunto i nomi degli altri tre figli, chiarendo che dal quarto, «Xicalancatl», ebbero origine gli «xicalanca». E avrebbe precisato che da Otomitl discesero anche i chichimeca, senza curarsi di chiarire come l’ordine di quella cronologia si combinasse con l’incerta cronologia delle tre migrazioni presentate in precedenza10. Vi era anche un settimo figlio, avuto da un’altra moglie. Si chiamava Quetzalcoatl («serpente piumato»), «uomo onesto e temperato», senza moglie e casto. Un indio di nome Chichimecatl gli serrò la parte superiore del braccio («acolli», in nahuatl) con una cinghia di cuoio e per questo fu chiamato anche «Acolhuatl, e da questi si dice che discesero gli acolhua». Motolinía omette la notizia, attestata peraltro solo in cronisti spagnoli, che Moteuczoma II avesse identificato Cortés con Quetzalcoatl, limitandosi a ricordare che «gli indios della Nuova Spagna tennero Quetzalcoatl come uno dei loro dèi principali, lo chiamavano Dio dell’aria, e dappertutto in suo onore

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9-11.

Ivi, pp. 107-109, da confrontare per le varianti con Id., Memoriales cit., pp.

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edificavano templi, erigevano statue e ne dipingevano la figura». Si sofferma quindi su altre opinioni degli indios circa la propria origine. Riporta anche quella più diffusa tra gli acolhua di Texcoco, il più splendido e illustre dei grandi centri culturali del Messico precolombiano, dove Motolinía aveva vissuto poco tempo dopo il suo arrivo, nel 1527: gli abitanti di quella città avrebbero sostenuto che essi e la regione in cui vivevano, l’Acolhuacan, prendevano il loro nome dal valoroso capitano «Acolli, ché così si chiama quell’osso che va dal gomito alla spalla»11. All’improvviso Motolinía abbandona poi i racconti messicani e dedica la chiusa dell’epistola proemiale a discutere le ipotesi sugli indios che circolavano in Europa. Anzitutto, prende le distanze dall’idea di una primigenia colonizzazione della Nuova Spagna da parte degli antichi cartaginesi, avanzata sulla scorta di uno scritto sulle loro navigazioni a lunga distanza, erroneamente attribuito ad Aristotele: «una terra così grande e abitata dappertutto sembra piuttosto aver avuto origine da altre parti estranee», ribatte Motolinía. La sua posizione, ricavata «da alcuni indizi», è che il popolamento del Messico sia derivato «dalla ripartizione e dalla divisione fra i nipoti di Noè». Il tentativo di trovare la chiave del passato più remoto delle popolazioni americane nel racconto biblico conduce Motolinía a respingere le tesi di «alcuni spagnoli» secondo cui, a giudicare dai loro «riti, costumi e cerimonie», i nativi della Nuova Spagna erano della «generazione» dei musulmani o degli ebrei. Quel collegamento era insidioso, considerando il clima di sospetto e persecuzione che circondava i discendenti delle due minoranze religiose nella penisola iberica, dopo la stagione delle espulsioni e delle conversioni forzate di fine Quattrocento. Anche per questo, forse, Motolinía finisce con l’aderire alla «più comune opinione», ossia che fossero «gentili»12. La conclusione che anche gli indios discendessero da Noè, ma non avessero sangue musulmano né ebraico, si combinava alla perfezione con l’obiettivo di reintegrare la storia precolombiana del Messico nella prospettiva provvidenziale della salvezza cristiana, ri11 Id., Historia de los Indios cit., pp. 110-112. Una revisione dell’idea che gli indios credettero che i primi spagnoli fossero divinità in C. Townsend, Burying the White Gods: New Perspectives on the Conquest of Mexico, in «American Historical Review», CVIII (2003), pp. 659-687. 12 Motolinía, Historia de los Indios cit., p. 113.

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pristinando antiche connessioni recise dal tempo. Lo dimostra una stesura più avanzata del capitolo I, in cui si presenta la missione dei dodici francescani guidati da Martín de Valencia. Vi si chiarisce il significato del nome nahuatl «Anahuac», usato dai mexica per indicare l’estensione del loro impero e tradotto da Motolinía come «terra ferma e quasi mondo, non tutto il mondo nel suo insieme, perché gli manca la dizione cem, ma una terra grande, che comunemente siamo soliti chiamare mondo». Questa spiegazione offre lo spunto per collegarsi all’impresa dei religiosi: «dopo aver rivelato quest’altro mondo, nuovo per noi», «il nostro Dio ha ispirato al suo vicario, il sommo pontefice, e lo stesso Francesco al nostro padre generale (...) che inviassero i suddetti religiosi. Il suono della loro voce», si proclama in toni ispirati alle profezie bibliche, «si è sparso e ha risuonato in tutta la rotondità di questo nuovo mondo fino ai suoi ultimi confini, o per la maggior parte di esso». Motolinía prosegue parafrasando un passo del trattato medievale De imagine mundi, attribuito ad Anselmo d’Aosta (ma il vero autore fu Honoré d’Autun), dove si sarebbe letto «che nelle parti di occidente si trova un’isola più grande di Europa e Africa, dove Dio ha diffuso Jafet, e si compie ora più che mai quella profezia o benedizione del patriarca Noè che disse a suo figlio Jafet: Dio diffonda Jafet. Da essa discendono gli spagnoli, ora diffusi non solo nelle tre parti del mondo in fede, dominio, scienze e armi, ma anche quaggiù, in questa grande terra». Il passo, tuttavia, è alterato: l’originale, infatti, si riferisce esplicitamente al mito platonico di Atlantide e non fa cenno a Jafet13. Motolinía, dunque, è tutto meno che un proto-etnografo intento a registrare fedelmente la realtà del Messico nei primi decenni che seguirono alla conquista spagnola. È piuttosto un religioso pronto a modificare persino i testi della teologia cristiana pur di offrire un’interpretazione dei fatti storici che risponda all’obiettivo di esaltare la missione francescana nel Nuovo Mondo. Ancor più complesso e per certi versi intrigante, tuttavia, è il modo in cui trasforma le sue notizie frammentarie sul passato delle popolazioni di Anahuac e ne riscrive le «antichità», continuando a modificare il testo anche dopo il 1541. Perché lo fa? Si deve immaginare un Motolinía così incerto 13 Id., Memoriales cit., pp. 19-20. Il passo parafrasato si trova in H. d’Autun, De imagine mundi, in Opera omnia, a cura di J.-P. Migne, Frères Garnier, Paris 1854, coll. 132-133. Il riferimento biblico inserito da Motolinía è al Libro del Genesi 9, 27.

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di fronte al composito universo di miti, leggende e testimonianze orali degli indios, da riscriverne il passato? Motolinía aveva agito in collaborazione con altri religiosi nella sua opera di reperimento di informazioni e scrittura. Anche il confratello Andrés de Olmos si era messo a raccogliere «in un libro le antichità di questi indios nativi, in special modo di Città del Messico, Texcoco e Tlaxcala», almeno a quanto si legge nell’Historia Eclesiástica Indiana (1611)14. All’autore di quest’ultima, il cronista francescano Jerónimo de Mendieta, si devono le notizie principali sul perduto trattato delle antichità messicane che Olmos avrebbe composto a Tlatelolco, fra 1533 e 1539, nella quiete del collegio francescano per l’educazione dei rampolli della nobiltà indigena15. Motolinía ebbe accesso al trattato di Olmos, ma lo stato attuale delle nostre conoscenze non consente di stabilire un chiaro rapporto di filiazione tra i due autori. Si deve piuttosto immaginare un intenso scambio di informazioni e materiali tra i due, e forse un confronto sulle rispettive interpretazioni. Il Messico degli anni trenta era caratterizzato da un diffuso interesse per il passato degli indios da parte dei missionari che spesso condividevano appunti, quaderni e abbozzi di relazione. Per esempio, poco dopo essere giunto nella Nuova Spagna, durante un incontro avvenuto a Tlaxcala nel 1538, pure segnato da un acceso diverbio sui modi di amministrare il battesimo agli indios, Las Casas ricevette da Motolinía una versione parziale dell’Historia, di cui si sarebbe avvalso nei suoi scritti. Va tenuto conto anche di questo clima per cercare di comprendere perché nell’Historia di Motolinía le origini degli indios, e la loro collocazione nella storia del mondo, siano trattate in modo così sorprendente. Se si prova a ricavarne una lettura d’insieme, emerge un singolare incontro fra elementi tratti dal patrimonio delle tradizioni locali, peraltro già rielaborati dai mexica nei secoli precedenti alla conquista spagnola, e uno schema genealogico di apparente ispirazione biblica (l’analogia è suggerita da Motolinía), arricchito dalla tendenza a spiegare i nomi delle popolazioni di Anahuac a partire da singolari intrecci etimologici. Gli indios sarebbero discesi anch’essi dal patriarca Noè all’indomani del diluvio universale, conferman14 J. de Mendieta, Historia Eclesiástica Indiana, a cura di J. de Domayquia, 4 voll., Salvador Chávez Hayhoe, México 1945, vol. I, p. 81. 15 Baudot, Utopia e storia cit., pp. 156-175.

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do così l’origine comune dell’umanità. Non è chiaro, però, tramite quale dei suoi tre figli. Motolinía, infatti, sembra escludere solo Sem, negando espressamente legami di sangue con ebrei e musulmani. Lascia invece nel dubbio se gli indios della Nuova Spagna traessero origine da Jafet, come gli spagnoli, o da Cam. In ogni caso, insinua che il primo popolamento del Messico derivasse «dalla ripartizione e dalla divisione fra i nipoti di Noè». Tra essi si doveva forse contare il comune antenato di tutti i messicani (poi identificato con Iztac Mixcoatl). Dai suoi figli avevano preso nome molte popolazioni e località. Le antichità della Nuova Spagna sono così spiegate secondo un modello diffusionista che consente di connettere tra loro i molteplici passati del mondo. È difficile supporre che Motolinía abbia elaborato da solo una narrazione così sofisticata, mentre avvolto nel suo umile saio percorreva in lungo e in largo il Messico centrale. Aveva forse frainteso i racconti messicani, secondo un tipico processo di istintiva riduzione dell’ignoto al noto? Neanche questa ipotesi risolve i problemi. Non tiene conto, infatti, della precoce interazione tra i francescani e gli indios, alla quale si devono i primi esempi di opere storiche in lingua nahuatl trascritte in caratteri fonetici per mezzo dell’alfabeto latino, conservati sotto il nome di Annali storici della nazione messicana, o Annali di Tlatelolco16. Si tratta di una miscellanea, le cui sezioni più antiche forse risalgono al 1528. Quegli Annali presentano cronologie e forme del racconto radicalmente diverse da quelle di Motolinía. Anche dove espongono le origini degli indios, a non considerare le differenze dei nomi, non si trovano serie genealogiche sviluppate secondo concatenazioni etimologiche. L’aspetto decisivo è che serie genealogiche di quel tipo non si trovano neanche in un precedente appunto autografo di Motolinía confluito poi nell’epistola proemiale del 1541 e nelle redazioni successive. La stesura di quel promemoria risalirebbe molto indietro nel tempo, forse addirittura tra 1527 e 1528, quando Motolinía era ancora guardiano del convento di Texcoco, nell’Acolhuacan17. L’influenza dell’alta nobiltà locale, con cui il missionario strinse solidi 16 H.J. Prem, U. Dyckerhoff, Los anales de Tlatelolco. Una colección heterogénea, in «Estudios de cultura Nahuatl», XXVII (1997), pp. 181-207. 17 Almeno stando a G. Baudot, Les premières enquêtes ethnographiques américaines. Fray Toribio Motolinía: quelques documents inédits et quelques remarques,

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rapporti, è evidente in quell’appunto, per esempio, dove a proposito dei mexica si riferisce che «tutti concordano nel dire che sono della generazione degli acolhua». Nell’epistola proemiale, invece, quell’opinione, che rifletteva l’orgoglio locale degli abitanti di Texcoco, è attribuita solo ad «alcuni» e il tono polemico del passo è attenuato. Le differenze principali, però, sono ben altre. Anzitutto, nell’appunto più antico persistono elementi d’incertezza verso le informazioni contenute nel codice Xiuhtonalamatl. Motolinía definisce la versione che vi si forniva sulle origini degli indios della Nuova Spagna come «la più comune», ma premette che «su questo differiscono molti simboli, riportando un’opinione contraria». Le tre ondate migratorie di chichimeca, acolhua e mexica, che nel 1541 sono descritte secondo una chiara successione temporale, vi appaiono inoltre in forma più sintetica, tra esitazioni e lacune. Sugli inizi dei chichimeca, scrive Motolinía, «non si hanno memoria né scrittura», mentre gli acolhua «non sanno per certo da dove vennero», ma «dicono che le loro scritture dimostrano che sono giunti in questa terra da settecentotrentatré anni compreso il presente». L’appunto dei tardi anni venti conserva tutta la ruvidezza dell’abbozzo di lavoro, ma soprattutto non vi entra ancora la voce dell’anonimo indio che avrebbe raccontato la storia di Iztac Mixcoatl e dei suoi figli dai nomi tanto simili a quelli delle popolazioni da essi discese, da sembrare ricavati a posteriori da queste ultime e non viceversa, come suggerisce Motolinía. Rileggiamoli: Tenuch, progenitore dei tenochca (ossia, i mexica di lingua nahuatl); Xicalancatl, antenato degli xicalanca (popolazione di origine maya, stabilitasi nella valle di Puebla); Mixtecatl, da cui discendevano i mixteca (indigeni mesoamericani, residenti nella regione costiera meridionale); Otomitl, capostipite degli otomi (popolazione del Messico centrale di lingua non nahuatl). Nel trattato sulle antichità messicane di Olmos non vi era traccia del racconto delle origini degli indios della Nuova Spagna fatto a Motolinía dall’oscuro informatore indio, almeno stando al cronista francescano Mendieta, che lo riporta alla lettera, ma lo attribuisce ai «libri» degli indios «che erano cinque»18. Perché allora Motolinía in «Cahiers du monde hispanique et luso-brésilien», XVII (1971), pp. 7-35. Vi si pubblica l’appunto di Motolinía (pp. 30-32) da cui si cita. 18 Mendieta, Historia cit., vol. I, pp. 159-161.

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scelse di costringere all’interno di un fantasioso modello diffusionista il passato precolombiano degli indios, adottandolo al contempo come forma di racconto e spiegazione della storia del mondo? S’ispirò a un esempio in particolare? La ricorrenza del numero sette (le caverne di Chicomoztoc, i figli di Iztac Mixcoatl) fa pensare alla ripresa di uno schema narrativo delle leggende medievali. Anche l’individuazione di un legame diretto tra l’origine dei nomi delle popolazioni e quello dei loro presunti antenati eponimi sembra rinviare alla formula proposta sin dall’alto medioevo da Isidoro di Siviglia (VI-VII sec.) nelle sue Etimologie, un’opera destinata a grande popolarità. Nel libro XIV, dedicato alla Terra e alle sue parti, Isidoro muove dal capitolo del Libro del Genesi in cui si riepiloga la discendenza di Noè e la sua diffusione nel mondo da cui era rinata l’umanità dopo il diluvio universale, per suggerire un nesso etimologico tra i nomi di alcuni suoi figli e nipoti e quelli delle terre che avrebbero popolato (Canaan da Cam; Assiria da Assur, figlio di Sem; Gothia da Magog, figlio di Jafet)19. La tecnica di Isidoro si combinerebbe bene con l’analogia, insinuata dopo il 1541 da Motolinía, tra il racconto dei figli di Iztac Mixcoatl e quello sulla discendenza dei figli di Noè, ma anche con l’opinione che l’origine degli indios della Nuova Spagna risalisse alla spartizione del mondo fra i nipoti del patriarca. Tuttavia, mentre il ricorso di Isidoro a quel nesso etimologico è episodico e si limita a suggerire un collegamento fra nomi già esistenti, le pagine di Motolinía rivelano un’applicazione sistematica di quel metodo, fino al punto di inventarsi i nomi dei progenitori eponimi delle popolazioni messicane. Che cosa si nasconde, dunque, dietro a quei misteriosi colonizzatori di Anahuac? Rispondere è reso più difficile dal fatto che non conosciamo le letture di Motolinía. Della sua vita prima della partenza per il Nuovo Mondo si sa poco. Fu allievo della scuola francescana di Benavente, prese i voti nella Provincia di Santiago e passò poi a quella di San Gabriele in Estremadura, di recente fondazione e di più stretta osservanza. La sua formazione teologica e letteraria avvenne nei conventi dell’ordine, ma s’ignora la composizione delle bibliote19 Vi insiste P. Lesbre, Mythes d’origine préhispanique et historiographie médiévale (Mexique centrale, XVIe siècle), in Les généalogies imaginaires. Ancêtres, lignages et communautés idéales (XVIe-XXe siècle), a cura di P. Ragon, Publications des Universités de Rouen et du Havre, Mont-Saint-Aignan 2007, pp. 163-189.

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che che ebbe a disposizione. Lo stesso vale per quelle messicane di cui poté servirsi, in particolare quella del convento di Tlaxcala, di cui era guardiano al tempo della stesura della versione dell’Historia inviata al conte di Benavente20. È all’orizzonte culturale dell’epoca in cui Motolinía visse, in ogni caso, che bisogna rivolgersi per scoprire a quale modello di scrittura storica si rifacesse. Dal Messico centrale negli anni successivi alla conquista la ricerca di quel modello ci riporta nell’Europa del Rinascimento. 3. I falsi di Annio da Viterbo È giunto il momento di riconoscere nell’epistola proemiale di Motolinía l’ombra del frate domenicano Giovanni Nanni, meglio noto come Annio da Viterbo, vissuto tra 1437 e 1502. Fu il più geniale falsario del Rinascimento, capace di ingannare per decenni, con le sue genealogie inventate e le sue etimologie incredibili, molti dei più dotti ed eruditi umanisti del Cinquecento21. Inquieto teologo scolastico, insegnò nel convento di Santa Maria in Gradi a Viterbo, sua città natale. Qui coltivò peraltro anche interessi filosofico-naturalistici, ai quali va ricondotta la stesura di un trattato di alchimia in cui si faceva vanto di scrivere «con vocaboli oscuri». Dopo il suo passaggio a Genova (1471), dove alternò l’attività di predicatore con quella di maestro di grammatica, gli interessi per l’alchimia s’intrecciarono con quelli per l’astrologia e l’interpretazione letterale dei passi biblici in chiave millenaristica: si affermò come autore di profezie apocalittiche sul trionfo della cristianità sui turchi che avanzavano allora nel Mediterraneo, ma anche di oroscopi e scritti di magia. Quando fu costretto dal suo ordine a rientrare a Viterbo, nel 1489, Annio era ormai un religioso di successo. Stava inoltre iniziando a sviluppare una nuova attenzione per le antichità e le cronologie, a prima vista affrontate con le armi della filologia umanistica di cui

Un parziale tentativo di superare il problema in N.J. Dyer, Fuentes escritas en la «Historia» de Toribio de Benavente (Motolinía), in Actas del X Congreso de la Asociación Internacional de Hispanistas, a cura di A. Vilanova, 4 voll., Promociones y Publicaciones Universitarias, Barcelona 1992, vol. I, pp. 515-524. 21 R. Fubini, Nanni, Giovanni (Annio da Viterbo), in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1960-, vol. LXXVII, pp. 726-732. 20

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era ben provvisto, data la sua ormai lunga carriera di grammatico. Negli anni seguenti maturò una critica radicale della pretesa superiorità del mondo classico, che lo spinse a polemizzare contro l’ammirazione entusiasta degli umanisti suoi contemporanei per il passato greco e romano. Come gli uomini del Rinascimento, infatti, tendeva a proiettare indietro fino ai tempi più remoti le forme più alte della sapienza, così come l’insediamento dei primi abitatori nelle diverse regioni e la fondazione delle città, dei costumi, delle istituzioni e dei riti. A suo giudizio, però, si poteva dimostrare che tutte precedevano notevolmente l’antichità dei greci e dei romani. Quella di Annio fu una reazione precoce al canone umanistico dominante nel Rinascimento. Rappresentante di quel municipalismo che, sulla scia dell’Italia illustrata (1474) dell’umanista Flavio Biondo, vide a lungo gli eruditi dibattere sulle origini dei centri urbani della penisola, sulla loro geografia, la loro storia e i loro monumenti, Annio contestava soprattutto l’idea che le città italiane fossero state fondate dai troiani, ossia da greci. Andava contro la potenza del mito dello sbarco di Enea e dei suoi familiari sulle coste laziali da cui avrebbero avuto origine Roma e il suo impero. La ricerca di un legame genealogico con quell’evento si alimentava dell’attrazione esercitata dal grande poema epico di Virgilio. Ma alla fama dell’Eneide, come ben comprese Annio, si poteva contrapporre la Bibbia. Il problema era che, un po’ come le tradizioni raccolte da Motolinía sul passato precolombiano di Anahuac, il racconto biblico appariva troppo incerto e frammentario per ricavarne una narrazione unitaria e coerente da contrapporre alle certezze degli umanisti, rinvigorite dai ritrovamenti di testimoni manoscritti delle grandi opere in greco e in latino così frequenti nell’età di Poggio Bracciolini e di Poliziano. La soluzione che Annio escogitò conobbe uno straordinario successo e innumerevoli riprese, offrendo la base per un modello diffusionista di narrazione della storia del mondo che ruotava intorno a migrazioni e colonizzazioni di progenitori eponimi delle varie popolazioni, di cui si potevano dunque ricostruire le genealogie a partire dai nomi. Pratico di cronologia precristiana e preclassica con cui si era confrontato quando scriveva profezie, Annio arrivò alla decisione di contraffare il passato, o meglio di scrivere di suo pugno testi in greco e latino. È difficile esagerare l’importanza dei falsi di Annio per la storiografia del Rinascimento. La principale novità e la ragione della

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loro popolarità consistono nel loro straordinario effetto di verità agli occhi dei contemporanei. Alla maniera degli umanisti che riscoprivano nelle biblioteche dei monasteri codici contenenti copie di testi classiche di cui curavano le prime edizioni critiche, Annio affermava di essersi imbattuto in tutta una serie di scritture considerate perdute di antichi autori greci realmente esistiti, come Archiloco, il caldeo Beroso e l’egizio Manetone, ma anche inventati, come Metastene, nonché dei nobili romani Catone il Vecchio, Fabio Pittore e Properzio. La loro autorità gettava finalmente luce sulla storia più antica dell’umanità – di tutta l’umanità – e permetteva di colmare le lacune del racconto biblico e delle cronologie universali disponibili all’epoca. Il risultato di un’operazione tanto originale confluì in una raccolta in latino debitamente annotata e pubblicata per la prima volta a Roma nel 149822. A quel tempo, Annio aveva ormai abbandonato Viterbo, dove all’inizio degli anni novanta aveva trasformato l’insegnamento di grammatica che i concittadini gli avevano offerto di tenere a loro spese in una cattedra di antichità patrie: aveva infatti costruito il mito etrusco di Viterbo, la prima città a essere fondata in Italia dopo il diluvio universale, ricorrendo non solo a fantasiose epitomi di «autori antichissimi», come uno storico, ma anche a epigrafi in pietra e in marmo, come un antiquario, però solo dopo averle opportunamente contraffatte. Dopo l’ascesa al soglio pontificio di Alessandro VI (1492), esponente della famiglia dei Borgia, la carriera di Annio proseguì a Roma, dove tracciò, fra l’altro, il programma degli affreschi dell’Appartamento Borgia (eseguiti da Pinturicchio) ed ebbe accesso, nel 1499, alla prestigiosa carica di maestro del Sacro Palazzo. La mantenne fino alla morte, sopraggiunta tre anni più tardi, forse per avvelenamento da parte di Cesare Borgia. Proprio dalle frequentazioni degli ambienti di curia Annio ricevette gli stimoli decisivi per la composizione delle Antiquitates, come fu comunemente indicata la sua raccolta soprattutto dopo l’edizione parigina del 1512, che la consacrò come un best seller del Rinascimento europeo. Dalla dimensione civica della sua Viterbo ai fasti della Roma di Alessandro VI, Annio supportò le conclusioni tratte dai suoi autori 22 A. Grafton, Defenders of the Text: The Traditions of Scholarship in an Age of Science, 1450-1800, Harvard University Press, Cambridge (MA)-London 1991, pp. 76-103.

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inventati o contraffatti con prove come targhe, epigrafi e vestigia, tutte alterate ad arte. Simile in tutto a un vero umanista, grande erudito e editore di manoscritti di antiche opere perdute, Annio mise in circolazione falsi con due principali peculiarità formali che si prestavano a una ripresa nella scrittura storica: da un lato, il continuo ricorso a vertiginose catene di mirabolanti genealogie che permettevano di risalire alle origini di ciascun popolo; dall’altro, la tendenza a spiegare nessi e collegamenti inattesi attraverso etimologie di fantasia23. Fu soprattutto l’Historia Chaldaica di Beroso a fornire ad Annio la possibilità di inserire la storia dell’umanità dopo il diluvio universale entro una cornice cronologica coerente, imperniata sulle ramificazioni della progenie di Noè. Il sacerdote caldeo Beroso visse tra il IV e il III secolo a.C. Scrisse una storia dell’antica Babilonia in lingua greca, che si riteneva fondata sulla consultazione diretta di fonti ufficiali, conservate negli archivi pubblici della città (e dunque più attendibili). L’edizione di un esemplare della sua opera, che Annio racconta di aver ricevuto a Genova dalle mani di due monaci originari dell’Armenia (proprio la regione dov’era approdata l’arca di Noè), rese Beroso l’autore grazie al quale colmare le lacune del racconto biblico. La ragione è subito chiara se si legge l’apertura del falso anniano: «Innanzi alla famosa rovina dell’acque, per la quale perì tutto l’universo mondo, passarono molti secoli, i quali furono conservati fedelmente da nostri caldei», attacca Beroso, descrivendo un’età dominata da giganti, inventori delle tecniche e delle arti, ma anche oppressori dell’umanità e sovvertitori dell’ordine divino (erano cannibali e praticavano l’incesto). In quel tempo, «molti predicevano e indovinavano e intagliavano in sassi quelle cose che dovevano venire in perditione e rovina del mondo», ma nessun gigante se ne curava, tranne uno, «più prudente e più venerante gli dii di tutti gli altri buoni in Siria». Si tratta di Noè, così descritto con i tre figli Sem, Jafet e Cam, e le sue mogli: un gigante pio e giusto, ma anche un abile astrologo capace di cogliere i segni del cielo e di iniziare a costruire la sua arca settantotto anni prima del diluvio universale (la parvenza di accuratezza conferisce più attendibilità alle cronologie anniane). 23 W. Stephens, Giants in Those Days: Folklore, Ancient History and Nationalism, University of Nebraska Press, Lincoln 1989; R. Bizzocchi, Genealogie incredibili. Scritti di storia nell’Europa moderna, il Mulino, Bologna 1995.

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Noè attraversa l’immane calamità fino ad approdare in Armenia, «su la cima del Monte Gordieo, dove si dice ch’ancora è qualche parte di essa nave». È solo a partire da allora che si poteva scrivere la storia del mondo, tracciando le genealogie dei nipoti di Noè, anch’essi giganti, che ripopolarono tutta la Terra, mentre il patriarca biblico si stabilì in Italia, cambiando nome in Giano. Ma per abbreviare i «tediosi ragionamenti» degli storici, conclude Beroso, «riferiremo l’origine, i tempi e i re di quei regni solamente che al presente sono tenuti grandi»24. Inizia così un’inedita ricostruzione, suddivisa per regni fondati dai discendenti di Noè con successive ondate di migrazioni, che gli storici del Rinascimento potevano finalmente ricostruire. I falsi di Annio permettevano dunque di concepire una storia unitaria dell’umanità dalle origini fino al presente, fondata sul popolamento del mondo da parte della copiosa discendenza di Noè. Questo modello poteva essere applicato alle antichità di qualsiasi popolazione dimenticata o persino mai citata nella Bibbia, purché si potesse riannodare il filo, tagliato dal passare dei secoli, tra le sue origini e uno dei nipoti di Noè. Per farlo occorreva servirsi delle testimonianze superstiti circa le più remote genealogie, rese evidenti dai nessi etimologici. I falsi di Annio non fanno cenno all’America, della cui recente scoperta il loro artefice pure era a conoscenza. Ma è un fatto che le Antiquitates avrebbero lasciato il segno nelle rappresentazioni del passato precolombiano degli indios e del lungo dibattito intorno alle loro origini cui dettero luogo25. Ritorniamo al contesto della redazione finale della raccolta, l’ambiente della curia del papa valenziano Alessandro VI dove, nel 1493, era rimbalzata con forza la notizia della scoperta di alcune isole nell’Oceano Atlantico, poi identificate con un nuovo continente, allargando d’improvviso i confini del mondo allora conosciuto e scatenando da subito un’accesa controversia diplomatica tra Spagna e Portogallo. La prima edizione delle Antiquitates fu dedicata ai Re

Le Antichità di Beroso Caldeo sacerdote, et d’altri scrittori, cosi Hebrei, come Greci, & Latini, che trattano delle stesse materie, Vinegia, presso Altobello Salicato, 1583, cc. 1r-3v (traduzione di Francesco Sansovino). 25 G. Gliozzi, Adamo e il Nuovo Mondo. La nascita dell’antropologia come ideologia coloniale: dalle genealogie bibliche alle teorie razziali (1500-1700), La Nuova Italia, Firenze 1977. 24

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Cattolici (anche perché i costi di stampa furono coperti dall’oratore spagnolo a Roma, Garcilaso de la Vega). Fu forse per questo che all’ultimo Annio aggiunse una sezione finale sulle antichità della Spagna e sui suoi primi ventiquattro re. Vi si sostiene, naturalmente, che le origini della grandezza spagnola risalissero molto più indietro rispetto alle epoche delle dominazioni romana e visigotica. Con ogni probabilità la fonte di Annio è l’umanista e grammatico Elio Antonio de Nebrija che, come molti altri uomini di cultura spagnoli al tempo di Alessandro VI, risiedeva a Roma e dal 1495 lavorava a un trattato intitolato Antigüedades de España. Il rapporto di Annio con Nebrija fu molto intenso, tanto che sarebbe stato quest’ultimo, nel 1512, a curare la prima edizione delle Antiquitates pubblicata in Spagna. Di sicuro nutrivano entrambi l’ammirazione per un modello comune, lo scrittore greco di origine ebraica Flavio Giuseppe (I sec. d.C.), autore delle Antiquitates Iudaicae, in cui, fra l’altro, Tubal, quinto figlio di Jafet, è indicato come il primo colonizzatore e re della penisola iberica. Quella stessa posizione si trova espressa in Annio e sarebbe stata ripresa dall’umanista Florián de Ocampo, discepolo di Nebrija, nominato cronista regio da Carlo V nel 1539: da quella carica dette veste ufficiale alla teoria anniana circa la discendenza della «nazione spagnola» dal gigante Tubal, nipote di Noè e padre di Ibero, antenato eponimo della penisola iberica26. Era questa la moda storiografica più in voga quando Motolinía inviò l’Historia al conte di Benavente. Ricorse dunque al metodo del Beroso anniano per offrire ai suoi lettori in Spagna un racconto composito delle origini degli indios che suonasse convincente, o quanto meno familiare, e lasciasse intuire la possibilità di includere quel passato nella storia del mondo sulla base di una teoria diffusionista. Quel percorso sarebbe poi culminato nella trasformazione dei figli di Iztac Mixcoatl nei sette giganti della mitologia azteca, attraverso passaggi in parte riconoscibili già in una copia di un codice portati in Europa nel 1566 dal domenicano Pedro de los Ríos che, a suo dire, vi avrebbe solo fatto ricopiare materiali tradizionali cui ebbe accesso27. Alla presenza 26 A. Samson, Florián de Ocampo, Castilian Chronicler and Habsburg Propagandist: Rhetoric, Myth and Genealogy in the Historiography of Early Modern Spain, in «Forum for Modern Language Studies», XLII (2006), pp. 339-354. 27 Religión, costumbres e historia de los antiguos mexicanos. Libro explicativo del llamado Códice Vaticano A (Codex Vatic. Lat. 3787 de la Biblioteca Apostólica

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di giganti nel Messico antico, del resto, accenna già Olmos, ripreso poi dai cronisti francescani Jerónimo de Mendieta e Juan de Torquemada, che nella sua Monarquía Indiana (1615) invoca proprio la testimonianza del «Beroso anniano» come prova che siano esistiti «nel mondo, non in piccolo, ma in abbondante numero»28. Li menziona anche frate Bernardino de Sahagún nell’Historia general de las cosas de la Nueva España, redatta in nahuatl e spagnolo (e censurata nel 1577), in cui sostiene inoltre che i primi abitatori del Messico sarebbero giunti via mare «oltre duemila anni fa» a bordo di sette navi, il cui ricordo era tramandato dal nome Chicomoztoc, «sette caverne»29. La conclusione a questo punto non sarà così sorprendente. La più antica ricostruzione giunta fino a noi della storia precolombiana degli indios da parte di un autore europeo si presenta come fondata su fonti e testimonianze indigene, ma è in realtà il prodotto dell’incontro di quelle tradizioni con il più grande falsario del Rinascimento. La sua attendibilità, dunque, è gravemente compromessa. Al tempo stesso, però, come la pietra filosofale degli alchimisti, il metodo di Annio tramutò una materia informe agli occhi degli europei come il passato dell’antico Messico nell’oro di un racconto che poteva entrare a far parte della storia del mondo, rispondendo alla necessità di inserirlo in un più alto disegno provvidenziale30. Non sappiamo quando Motolinía lesse le Antiquitates: difficile che nelle biblioteche dei primi conventi nel Nuovo Mondo non ve ne fossero copie, né si può escludere che il missionario francescano avesse avuto accesso all’opera prima della sua partenza per l’America, data la precoce popolarità di Beroso in Spagna. Quel che si può affermare con certezza è che, quando Motolinía preparò la stesura dell’Historia per il conte di Benavente, l’incontro fra Annio e l’America non era una totale novità.

Vaticana), a cura di F. Anders, M. Jansen e L. Reyes García, Fundo de Cultura Económica, México 1996, pp. 58, 60. Motolinía accenna all’esistenza di giganti, senza però collegarli ai sette figli di Iztac Mixcoatl in Memoriales cit., p. 388. 28 Mendieta, Historia cit., vol. I, pp. 104-105; J. de Torquemada, Monarquía Indiana, a cura di M. León-Portilla, 7 voll., Universidad Nacional Autónoma de México, Ciudad de México 1975-1983, vol. I, pp. 51-55. 29 B. de Sahagún, Historia general de las cosas de Nueva España, a cura di J.C. Temprano, 2 voll., Historia 16, Madrid 1990, vol. I, pp. 3-4, vol. II, pp. 770-777. 30 N. Temple, Heritage and Forgery: Annio da Viterbo and the Quest for the Authentic, in «Public Archaeology», II (2001), pp. 293-310.

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4. Lettori di Annio tra le due sponde dell’Atlantico Nel 1535 era stata pubblicata a Siviglia, sotto gli auspici di Carlo V, la prima grande cronaca sul Nuovo Mondo, scritta da un autore che era stato più volte in America (ma non in Messico), Gonzalo Fernández de Oviedo. Nel libro II della sua Historia natural y general de las Indias, solleva la questione della conoscenza del Nuovo Mondo da parte degli antichi. Anche Motolinía, che lesse Oviedo, si sofferma sullo stesso punto nell’epistola proemiale, a proposito delle navigazioni dei cartaginesi31. È un modo per interrogarsi sulle antichità degli indios. Oviedo parte proprio dal racconto di quei viaggi attribuito ad Aristotele per congetturare – suscitando poi la reazione contraria di Motolinía – che «l’isola che pone Aristotele potesse essere una di queste che nelle nostre Indie sono, com’è quest’isola Spagnuola o quella della Cuba, o per aventura una parte della terra ferma»32. Oviedo preferisce però affidarsi a un’ipotesi ben più remota: «io tengo che queste Indie siano quelle antiche e famose isole Esperide, così dette da Espero XII re di Spagna»33. In quelle pagine sulle isole Esperidi – «dove si usava l’arte dell’alchimia», avrebbe ricordato un umanista pochi anni dopo34 – fa immancabilmente la sua comparsa Beroso, della cui opera si fornisce un rapido riassunto ai lettori, rinviando anche alla storia dei primi ventiquattro re di Spagna di Annio. Oviedo può così concludere, sulla base del nesso etimologico tra le Esperidi ed Espero, che «senza alcun dubio si dee tenere che in quel tempo queste isole sotto la signoria della Spagna stessero, e sotto un medesimo re, che fu (come Beroso dice) 1658 anni prima che il nostro Salvatore nascesse»35. Il modello diffusionista sotteso ai falsi di Annio permetteva di includere nella storia anche gli indios del Nuovo Mondo («nuovo per noi», avrebbe scritto Motolinía con fugace abbandono di una pro31 Motolinía cita espressamente Oviedo almeno in un passo dell’Historia de los Indios cit., p. 347. 32 Si cita dalla traduzione che ne dà G.B. Ramusio, Navigazioni e viaggi, a cura di M. Milanesi, 6 voll., Einaudi, Torino 1978-1988, vol. V, p. 361. 33 Ivi, p. 362. 34 A. Venegas del Busto, Primera parte de las diferencias de libros que ay en el universo. Aora nuevamente emendada y corregida por el mismo autor, Toledo, en casa de Juan de Ayala, 1546, 60r. L’edizione originale data al 1540. 35 Ramusio, Navigazioni cit., vol. V, p. 365.

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spettiva eurocentrica). Ma in Oviedo restava un’ambiguità. Nel momento stesso in cui si proiettava su uno sfondo propriamente storico il complesso e sfuggente tempo precolombiano dell’America, quel passato era schiacciato sul nuovo rapporto di dominazione imperiale in atto: le origini degli indios erano riportate a una presunta radice spagnola, che giustificava il diritto alla conquista delle loro terre. Il potenziale epistemologico insito nei falsi di Annio scatenò così l’esplosione di un dibattito che influenzò anche la scrittura di storia nel Nuovo Mondo36. La pubblicazione dell’Historia natural y general di Oviedo ebbe larga eco fra i missionari impegnati a ricostruire le antichità degli indios nella Nuova Spagna. Dovette inoltre rappresentare l’impulso decisivo che indusse Motolinía a rifondere gli incerti materiali raccolti sul passato precolombiano di Anahuac seguendo un modello formale che consentisse ai lettori spagnoli di prendere sul serio nomi e vicende che erano loro radicalmente estranei. Chissà se Motolinía e Las Casas ne parlarono in occasione del loro incontro a Tlaxcala nel 1538, quando il primo trasmise al secondo, di ritorno dal Guatemala, una versione della sua Historia, di cui s’ignora tuttavia lo stadio di composizione. Vi si trovava già il segno di Annio? Difficile dirlo. Certo è che delle etimologie inventate da Motolinía non vi è traccia negli scritti di Las Casas. All’impegno in favore dei diritti degli indios e contro la loro riduzione in schiavitù quest’ultimo associava ormai da tempo un lavoro di scrittura storica sul Nuovo Mondo, i suoi abitanti e la conquista spagnola. Aveva iniziato nel 1527, grossomodo nello stesso periodo in cui fu redatto il primo appunto della futura Historia di Motolinía. Allora era priore del convento domenicano di Puerto de la Plata, nell’isola di Santo Domingo. Là avrebbe iniziato a lavorare a una raccolta sulla natura americana, le forme dell’organizzazione sociale e politica degli indios e i loro costumi, destinata a costituire l’Apologética Historia, da subito concepita come un’introduzione al monumentale progetto dell’Historia de las Indias, in cui intendeva ricostruire la storia della conquista spagnola dell’America. Gli impegni missionari lo obbligarono a interrompere la scrittura nel 1534, ma, come mostra anche la 36 J. Cañizares-Esguerra, How to Write the History of the New World: Histories, Epistemologies and Identities in the Eighteenth-Century Atlantic World, Stanford University Press, Stanford 2001, dove si accenna anche ad Annio da Viterbo (pp. 96 e 382).

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richiesta rivolta a Motolinía quattro anni dopo, il suo interesse per la storia del Nuovo Mondo non era venuto meno. Las Casas riprese a comporre le sue opere solo nel 1552, dopo il definitivo ritorno in Spagna (1547) e dopo la celebre disputa di Valladolid (1550-1551) contro l’umanista Juan Ginés de Sepúlveda, sostenitore (come Oviedo) dell’inferiorità degli indios e della naturalità della loro condizione di schiavi. Nei dieci anni successivi, lavorò sia all’Apologética Historia, sia all’Historia de las Indias, facendone due capolavori di erudizione, benché rimasti incompiuti e manoscritti. Consultò, fra l’altro, la ricchissima collezione della biblioteca di Fernando Colombo, figlio di Cristoforo – dove figurava almeno un esemplare delle Antiquitates di Annio, fatto acquistare a Norimberga nel 152137 –, oltre ai manoscritti delle tante opere sull’America trattenuti presso il Consiglio delle Indie, di cui era divenuto nel frattempo membro. Per la parte sulle antichità delle popolazioni messicane, accanto al manoscritto che gli aveva donato Motolinía, poté servirsi anche di un riassunto del perduto trattato di Olmos, di cui era entrato in possesso intorno al 1546, dopo essere tornato nella Nuova Spagna per esercitare la carica di vescovo di Chiapas38. Nell’Apologética Historia Las Casas non affronta lo spinoso nodo dell’origine degli indios. Per quanto riguarda il Messico, in particolare, discute solo le credenze dei suoi antichi abitanti, proponendo continui paragoni con i greci e i romani sul filo del comune paganesimo (ma confermando così la piena razionalità degli indios). La sua ricostruzione delle antichità di tutta l’America spagnola si regge su un rapporto serrato con gli autori classici le cui opere di storia e geografia permettevano di uscire dai confini più familiari dell’Europa e del mondo mediterraneo: Erodoto, Aristotele, Varrone, Diodoro Siculo, Tito Livio, Plinio il Vecchio, Flavio Giuseppe, Dionigi di Alicarnasso, discussi anche attraverso Eusebio e Agostino d’Ippona. Il favore verso gli indios spinge Las Casas a sostenere che abbiano avuto più lume e conoscenza naturale di Dio che i greci e i romani. Arriva anche a lanciarsi in una lunga e appassionata difesa delle Antiquitates di Annio: gli sforzi di Noè per ripopolare il mondo di 37 Lo si ricava dalla nota di possesso autografa di Fernando Colombo sull’edizione impressa a Parigi nel 1515 da Jean Petit e Josse Bade, in Biblioteca Capitular y Colombina, Siviglia, 2-5-1. 38 Baudot, Storia e utopia cit., pp. 134-135.

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cui Beroso dà conto «sono del tutto credibili», scrive, replicando così alla dura condanna che il grande umanista spagnolo Juan Luis Vives, discepolo di Erasmo da Rotterdam, aveva riservato ai suoi scritti, equiparandoli a «puri sogni degni dei commentari di Annio da Viterbo»: «tanto valeva dire che sono sogni molte delle cose che la divina Scrittura racconta nel Genesi sulla storia del diluvio universale e di Noè», obietta Las Casas, concludendo che Annio «nelle storie antiche del mondo non è da meno di Luis Vives»39. Nella storia precolombiana dell’America di Las Casas, tuttavia, non vi è spazio per Annio. O meglio, per i suoi falsi, tenuti per veri ma citati solo di passaggio nel resto dell’Apologética Historia. Nonostante il ritorno in Spagna e l’appartenenza allo stesso ordine religioso, Las Casas non sembra aver conosciuto l’impietoso smascheramento di Annio come falsario contenuto nel libro XI della somma teologica di Melchor Cano, severo e autorevole professore all’Università di Salamanca, che fu composto nel 1553 ma pubblicato a stampa solo dieci anni più tardi, con il resto dell’opera40. Nel 1561 fece gli ultimi interventi sull’Historia de las Indias. È nel libro I di quell’opera che finalmente affronta la questione delle origini degli indios. Il bersaglio polemico, naturalmente, è Oviedo: la sua Historia natural y general conservava grande influenza, sebbene nel 1550 fosse stata vietata la pubblicazione del suo secondo volume. Las Casas inizia dagli antichi cartaginesi. Non nega la realtà delle loro navigazioni come invece fa Motolinía, ma a differenza di Oviedo si sforza di tenerle separate dall’America spagnola, ipotizzando che avessero piuttosto toccato il Brasile, «forse ottocento anni e più dalla nascita di Nostro Signore Gesù Cristo, a quanto abbiamo potuto ricavare dalle storie antiche»41. Ammette dunque la possibilità di un popolamento cartaginese di quella parte del Nuovo Mondo che ricadeva però sotto la giurisdizione dell’impero portoghese. Il riferimento alle «storie antiche», intanto, introduce il lettore nell’universo delle Antiquitates di Annio. Ma quando passa alle Esperidi, Las Casas finisce per criticare An-

B. de las Casas, Apologética Historia, a cura di J. Pérez de Tudela Bueso, 2 voll., Biblioteca de Autores Españoles, Madrid 1958, vol. I, pp. 377-379. 40 M. Cano, L’autorità della storia profana, a cura di A. Biondi, Giappichelli, Torino 1973. 41 B. de las Casas, Historia de las Indias, a cura di M.A. Medina, J.A. Barreda e I. Pérez Fernández, 3 voll., Alianza Editorial, Madrid 1994, vol. I, p. 391. 39

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nio con Annio. Usa, cioè, la conoscenza diretta delle Antiquitates per confutare il gioco di etimologie che consente a Oviedo di identificare quelle isole con le Antille, giustificando così i diritti alla conquista della corona spagnola in virtù del legame dinastico con l’antico re Espero. Las Casas non chiama mai Oviedo per nome, lo indica solo come «il primo inventore di questa sottigliezza», ideata per «nociva lusinga dei nostri incliti re che, proprio per la loro natura reale, hanno udito e animo semplicissimi e credono che gli si dica la verità». La sua posizione non lascia adito a equivoci: «che si chiamassero Esperidi dal nome Espero di un qualche antichissimo re di Spagna, arguendone che erano state sotto la sovranità della Spagna», sottolinea Las Casas, «qualunque persona di medio giudizio, se considererà la cosa, non avrà dubbi, credo, che sia priva di ogni ragione». Entra così in un’argomentazione erudita, che fa perno proprio su Annio e sul «trattato che compose sui re di Spagna, dove parlava di questo stesso Espero», nonché sul «trattato che s’intitola di Beroso, libro V delle Antiquitates». Dopo aver sciolto il legame tra Espero e le Esperidi, Las Casas stabilisce infine che le isole di cui parlavano gli antichi sono le Canarie42. Il dibattito sulla conoscenza dell’America da parte degli antichi, inaugurato da Oviedo sulla base di un uso coerente del modello delle genealogie e delle etimologie di Annio, attirò altri interventi oltre all’esplicita reazione di Las Casas. La questione, per esempio, fu ripresa e complicata dal cappellano e segretario di Cortés in Europa, Francisco López de Gómara. Nel 1552 dette alle stampe a Saragozza una Historia general de las Indias, proibita dalla corona già nel 1553, nonostante la posizione di aperto sostegno all’impero, per le polemiche sollevate dal suo ritratto a tinte fosche del Perù negli anni successivi alla conquista43. Nelle pagine finali del primo volume Gómara, che non era mai stato di persona nel Nuovo Mondo, ritorna sul mito di Atlantide, deliberatamente omesso da Motolinía come si è visto, per affermare che «le Indie sono le isola & terra ferma di Platone, & non le Hesperide», «perché le Hesperide sono le isole di Capo Verde». Come Oviedo e al contrario di Motolinía e Las Casas, però, concede che «può esser che Cuba, o Haiti, o alcune altre Ivi, pp. 410-428. Sull’autore, l’opera e le ragioni del divieto cfr. C.A. Roa-de-la Carrera, Histories of Infamy: Francisco López de Gómara and the Ethics of Spanish Imperialism, University Press of Colorado, Boulder 2005. 42 43

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isole delle Indie, siano quelle che trovorono li cartaginesi»44. Poco prima, intanto, dopo aver ricordato proprio l’impegno di Las Casas in difesa degli indios, presenta la sua opinione sulla loro origine, richiamandosi alle genealogie bibliche, ma senza evocare Beroso (pure citato altrove): applica per la prima volta alle popolazioni del Nuovo Mondo l’idea che siano discese da Cam, la cui progenie era stata colpita dalla maledizione di Noè per averlo deriso dopo averlo visto nudo mentre era ubriaco, un argomento che i cronisti portoghesi avevano già impiegato alla metà del Quattrocento per giustificare la schiavitù dei neri africani45. Nel secondo volume dell’Historia, dedicato alla conquista del Messico, Gómara riprende invece le genealogie inventate di Motolinía, nella versione più dettagliata, attribuendole però ai «libri» dei mexica e alla «commune opinione» diffusa tra i loro «huomini savi e dotti». Nomi e ordine di nascita dei figli di Iztac Mixcoatl (espressamente citato) sono identici, ma Gómara spezza il nesso etimologico con le popolazioni di Anahuac sostituendolo con le località: «Tenuch edificò Tenuctitlan, che fu dal principio chiamata dal suo nome Temichea»; Xicalancatl «gionse al mare del Nort e nella costa edificò assai terre, ma le due principali chiamò una Xicalanco, che è nella provincia di Mescalcinco, vicino alla vera croce. L’altra Xicalanco è vicina a Tavasco»; Mixtecatl «trascorse fin’al mare del Sur», erigendovi città, e «tutto quel tratto di terra si chiama Mistecapan»; Otomitl «andò alle montagne che sono d’intorno a Messico» e uno dei centri che fondò era «Otompan». Se Gómara riprende e al tempo stesso altera Motolinía (in una versione successiva a quella inviata al conte di Benavente), non cela però le sue perplessità sugli sforzi di affidarsi agli indios per ricostruirne il passato preispanico: «questo sia detto in summa, sì perché basta per dechiaratione del lignaggio e paese di questi messicani, come per tagliar molti parlari che fanno sopra di questo gli indiani, che si presumono per nobiltà di sangue

44 La Seconda Parte delle Historie Generali dell’India..., Venetia, appresso Giordano Ziletti, 1557, c. 317rv. 45 Ivi, cc. 314v-315r. Il primo a collegare l’origine camitica dei neri africani con la loro riduzione in schiavitù fu Gomes Eanes de Zurara intorno al 1460. Cfr. B. Braude, The Sons of Noah and the Construction of Ethnic and Geographical Identities in the Medieval and Early Modern Periods, in «William and Mary Quarterly», LIV (1997), pp. 103-142.

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e di dottrina delle sue antichità»46. Nonostante ciò, quando tradusse in nahuatl la cronaca di Gómara all’inizio del Seicento, lo storico indio Chimalpáhin, esponente ispanizzato dell’antica nobiltà chalca, non corresse il passo su Iztac Mixcoatl47. E in una delle relazioni che compilò sull’antica storia messicana presenta proprio Iztac Mixcoatl come il mexica alla guida delle sette casate («calpolli») che lasciarono la mitica città di Aztlan (da cui deriva il gentilizio «aztechi»), spesso associata a Chicomoztoc nei racconti sul Messico precolombiano48. 5. Racconti anniani dal Nuovo Mondo alla Cina Dalle Esperidi di Oviedo alle genealogie di Motolinía: fra gli anni trenta e i primi anni sessanta del Cinquecento, i principali storici del Nuovo Mondo si trovarono a discutere, da posizioni diverse, racconti sul passato preispanico di Anahuac che in parte ritornano anche in successivi codici e cronache nahuatl, ma derivano da intrecci etimologici ispirati al metodo delle Antiquitates di Annio da Viterbo. Era una materia difficile da sbrogliare, per la capacità di quel modello espositivo di riadattarsi e trasformarsi di continuo, permettendo l’inclusione di materiali sempre nuovi. Come osserva Gómara, per quanto avessero cercato di conoscere «sin dalle radici le origini dei re messicani», gli spagnoli non avevano potuto «certificare» le «opinioni» raccolte49. Eppure, quei falsi offrirono una delle prime vie per pensare l’antichità degli indios e integrarla nella storia del mondo. Nonostante la potenzialità globale del modello diffusionista di Annio, la sua applicazione alla storia del mondo restò parziale almeno fino alla condanna di Cano (cui ne seguirono molte altre, fra cui quella dell’erudito Joseph Juste Scaliger), limitandosi soprattutto 46 La Terza Parte delle Historie dell’Indie..., Venetia, appresso Giordano Ziletti, 1566, cc. 344v-346r (traduzione di Lucio Mauro, pseudonimo di Giovanni Tarcagnota). 47 Chimalpáhin’s Conquest: A Nahua Historians Rewriting of Francisco López de Gómara’s «La conquista de Mexico», a cura di S. Schroeder, A.J. Cruz, C. Roa-de-laCarrera e D.E. Tavárez, Stanford University Press, Stanford (CA) 2010, p. 443-445. 48 Chimalpáhin Cuauhtlehuanitzin, Primer amoxtli libro. 3a relación de las Différentes histoires originales, a cura di V. Castillo, Universidad Nacional Autónoma de México, Ciudad de México 1997, pp. 3-7. 49 La Terza Parte cit., c. 346r.

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all’Europa e all’America spagnola. Non la si trova usata per quella portoghese, forse anche per i tempi lenti della colonizzazione del Brasile, che non decollò fino alla seconda metà del Cinquecento. In effetti, non si trovano echi di Beroso presso gli storici portoghesi della Terra di Santa Cruz, come si chiamò in una prima fase la regione. Va invece ricondotta al filone del dibattito aperto anche dai falsi anniani la ripresa della tesi di Gómara sull’origine degli indios dell’America spagnola e la sua applicazione ai tupinamba del Brasile da parte dell’ugonotto Jean de Léry, che nel 1557, su mandato di Calvino, aveva varcato l’Oceano Atlantico. Nel 1578, poi, pubblicò l’Histoire d’un voyage faict en la terre du Brésil, in cui racconta le vicende dell’effimera colonia francese della Francia Antartica (15551558), fondata dal cavaliere Nicolas Durand de Villegaignon nell’area dell’odierna Rio de Janeiro. Vi rivendica di essere arrivato alla conclusione di un’origine camitica degli indios in autonomia da Gómara: lo «avevo pensato e scritto», afferma, «più di sedici anni prima di leggere il suo libro, negli appunti che redassi della presente storia»50. Come che sia, nei vent’anni compresi tra il ritorno di Léry in Francia (1558) e l’apparizione della sua Histoire (fonte del celebre saggio sui cannibali di Montaigne), il modello anniano si mondializzò, trovando applicazione anche oltre la storia delle origini dei popoli dell’Europa e dell’America, a patto di reinterpretazioni sempre più audaci. Fu con la storia della Cina che questo processo si verificò per la prima volta, forse non a caso. Alla metà del Cinquecento la terra ancora nota a molti europei come il Catai di Marco Polo, dove Colombo stesso contava di sbarcare nel viaggio che lo portò invece in America, era ritenuta un solo continente con il Nuovo Mondo. Per Las Casas, le Indie occidentali si trovano all’estremità delle Indie orientali, «come potrà vedere chiunque osserverà il globo in cui si raffigura o dipinge tutta la terra», un’opinione confermata dai celebri planisferi realizzati dal cartografo veneziano Giacomo Gastaldi a partire dal 154651. Si ricorderà come lo stesso Motolinía, fra 1532 e 1533, avesse cercato di estendere la sua missione di evangelizzazione 50 Le teorie della razza nell’età moderna, a cura di G. Gliozzi, Loescher, Torino 1986, p. 127. Per approfondimenti cfr. F. Lestringant, Jean de Léry, ou l’invention du sauvage. Essai sur l’Histoire d’un voyage faict en la terre du Brésil, Honoré Champion, Paris 1999. 51 Las Casas, Apologética Historia cit., vol. I, pp. 69-72.

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alla Cina partendo direttamente dal Messico. Non fu comunque da un prolungamento delle discussioni sulla storia del Nuovo Mondo e dei suoi abitanti che la Cina incontrò Annio e le sue false genealogie. Fernão Mendes Pinto si era imbarcato nel 1537 per Goa, allora capitale dell’impero portoghese in Asia, facendo ritorno in Portogallo solo nel 155852. Poco più di dieci anni dopo, nella quiete della sua villa di Almada, sulla riva opposta del Tago di fronte a Lisbona, iniziò un racconto romanzato delle sue avventure orientali, in cui la realtà si mescola di continuo con la finzione letteraria, tra naufragi, catture e riduzioni in schiavitù. Si tratta dell’opera di un uomo senza più illusioni. Descrive in modo originale, e critico, la presenza dei portoghesi nelle Indie orientali, in particolare in Estremo Oriente, che Pinto avrebbe visitato prima e poi insieme a Francesco Saverio e ai gesuiti, alle cui lettere a stampa si dovevano allora le notizie sul Giappone che circolavano in Europa. Al racconto della missione in Giappone Pinto riserva grande attenzione nella sua opera, finita di scrivere nel 1578 e pubblicata postuma, forse interpolata proprio dai gesuiti, con il titolo di Peregrinaçam (1614). Ma è solo quando passa alla Cina che Pinto cede alle tentazioni anniane, incurante della stroncatura delle Antiquitates come «contagiosa malattia» che circolava a stampa in Portogallo dal 1561, a firma del francescano Gaspar Barreiros53. La digressione dal sapore ironico di Pinto sull’origine dei cinesi e del loro impero reagisce forse alla prima descrizione della Cina pubblicata in Europa (1569), redatta proprio da un portoghese, il missionario domenicano Gaspar da Cruz, nella quale si sostiene che «la Cina confina con la parte estrema della Germania» e che, a quanto raccontavano alcuni portoghesi che erano stati loro prigionieri, «i cinesi hanno notizia della Germania»54. È possibile, inoltre, che Pinto abbia letto il trattato di genealogie storiche pubblicato nel 1557 da Wolfgang Laz, cronista imperiale alla corte degli Asburgo a Vienna, ebraista e collezionista di oscure

R. Catz, Fernão Mendes Pinto and His «Peregrinação», in «Hispania», LXXIV (1991), pp. 501-507. 53 G. Marcocci, Contro i falsari. Gaspar Barreiros censore di Annio da Viterbo, in «Rinascimento», L (2010), pp. 343-359. 54 Enformação das cousas da China. Textos do século XVI, a cura di R. D’Intino, INCM, Lisboa 1989, p. 164. 52

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epigrafi antiche55. Una catena di etimologie sul modello anniano vi supporta l’idea di un’origine teutonica di tutte le dinastie e i popoli d’Europa, dopo la crisi innescata dalla caduta dell’impero romano e dalle invasioni barbariche, sulla quale Laz fonda la pretesa della superiore autorità del sacro romano impero. Pinto s’ispira forse a quella tesi quando racconta che «nella prima cronaca degli ottanta re della Cina» – la parodia della storia dei primi ventiquattro re di Spagna di Annio è palese – si riferisce che 639 anni dopo il diluvio nel paese di «Guantipocau», «sulla costa della nostra Germania», viveva il principe Turbão, che da giovane, senza essere sposato, aveva avuto tre figli da una certa Nancá. Il suo straordinario amore per quella donna, tuttavia, irritava profondamente sua madre, la regina vedova. Inizia così una storia di persecuzioni e di fughe che, dopo l’assassinio di Turbão, finisce con la partenza di Nancá e i tre figli a bordo di una nave rubata. Dopo quarantasette giorni di viaggio giunsero nel sito della futura Pechino: «Nancá sbarcò a terra con tutti i suoi e narrano le storie che a cinque giorni dal suo arrivo fece riconoscere come principe di quella gente», vale a dire gli esuli germanici, «il figlio maggiore», che – va da sé – si chiamava «Pechino». Quell’epopea sarebbe stata ricordata in un’iscrizione «scolpita su di uno scudo d’argento appeso alla volta dell’arco che sormonta la porta della città». «Nel modo che ho narrato», prosegue Pinto, «fu dunque fondata questa città e popolato questo impero cinese, dal figlio maggiore di Nancá». I due fratelli minori, Pacão e Nacau, «fondarono in seguito altre due città, a cui imposero i propri nomi», proprio come la loro madre Nancá che, «a quanto dicono le storie, fu la fondatrice della città di Nanchino, la seconda di questa monarchia»56. Dall’America alla Cina passando per Viterbo: nella seconda metà del secolo, tra gli effetti imprevisti dello straordinario successo della storiografia ispirata da Annio, vi fu l’emergere di una possibilità di pensare una storia globale del mondo. Le invenzioni di un falsario italiano del Quattrocento dettero vita a una variante di storiografia rinascimentale che, quasi alla ma55 W. Laz, De gentium aliquot migrationibus, sedibus fixis, reliquijs, linguarumque initijs & immutationibus ac dialectis libri XII, Basileae, per Ioannem Oporinum, 1557. 56 F. Mendes Pinto, Peregrinazione, 1537-1558, a cura di G.C. Rossi, Longanesi, Milano 1970, pp. 213-214.

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niera degli alchimisti, come si è visto, permise di tramutare nell’oro di un racconto storico unitario il piombo dei passati multipli con cui, dall’America alla Cina, gli europei erano entrati in contatto alle origini della mondializzazione iberica. Le basi di quella storiografia erano fragili e non avrebbero retto alla successiva critica erudita, ma prima di allora si diffusero in profondità. Ne offre una conferma per così dire materiale l’abbondanza di riferimenti a pietre misteriose, epigrafi di difficile decifrazione e orme di giganti nelle storie del Rinascimento. Erano un altro lascito delle Antiquitates: davanti all’inattesa varietà dei nuovi mondi e dei loro abitanti, incontrati nell’età dell’esplorazione, le invenzioni di Annio consentivano agli europei di restare convinti della profonda unità della storia del mondo57. 57

A. Nagel, C.S. Wood, Anachronic Renaissance, Zone Books, New York 2010..

III LA CINA, I GOTI E CORTÉS: PENSANDO ALLE SPEZIE DA UN OSPEDALE DI LISBONA 1. Il Rinascimento e gli antichi cinesi Quando si pensa all’età delle esplorazioni, la prima cosa che viene alla mente è la scoperta dell’America. La sua carica di fascino ha portato a considerare soprattutto il Nuovo Mondo al centro della circolazione di uomini, idee e oggetti a livello planetario che caratterizzò la mondializzazione iberica. Ma fu davvero così? O si tratta di un’immagine costruita più tardi? La confortante narrazione di un processo che avrebbe avuto per soli protagonisti gli europei e l’Oceano Atlantico ha dominato a lungo. L’aumento di contatti e scambi fra regioni del pianeta che si verificò allora ebbe, tuttavia, anche altri epicentri come, per esempio, la Cina della dinastia dei Ming, che nonostante la relativa chiusura verso l’esterno esercitò una costante attrazione sugli europei. Se ne coglie il riflesso in una sorprendente storia del mondo pubblicata a Lisbona nel 1563, che si apre con il racconto di una mondializzazione primordiale di cui furono attori i cinesi. Si trattava di un piccolo volume delle dimensioni di un tascabile ma aveva l’ambizione di schiudere i segreti di una storia globale: sin dal titolo esprimeva l’intenzione di occuparsi delle rotte percorse dai mercanti di spezie nei secoli, accanto ai viaggi di scoperta antichi e moderni. Il suo autore era morto pochi anni prima, forse nel 1557. Si tratta di António Galvão, capitano alle isole Molucche, a est dell’odierna Indonesia, dal 1536 al 1539. Chi furono i «primi inventori» delle grandi navigazioni dopo il diluvio universale? È questa la domanda iniziale di quel trattato storico. «Alcuni dicono i greci, altri i fenici, altri ancora vogliono

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che fossero gli egizi, gli indiani non acconsentono», si risponde, allargando così in poche righe gli orizzonti dei suoi lettori europei sull’antichità. Gli «indiani», nome che identificava genericamente gli abitanti del mondo asiatico, assicuravano che «i primi a navigare furono loro, i taibenchi in particolare, che ora chiamiamo cinesi». Galvão non chiarisce l’origine di quel misterioso nome (forse derivato da Tāi-bîn, «grande dinastia Ming» in amoy, la lingua di prestigio nella Cina sudorientale), ma avvalora l’opinione secondo cui «in passato furono signori dell’India fino al Capo di Buona Speranza». Le coste dell’Africa orientale, continua Galvão sulla scorta dei suoi informatori «indiani», furono abitate dai «taibenchi», al pari di Giava, Timor, Celebes, Makassar, le Molucche, Borneo, Mindanao, Luzon, Giappone «e altre isole», nonché «la terraferma di Cocincina, Laos, Siam, Birmania, Pegu, Arakan, fino al Bengala». L’elenco prosegue: gli antichi cinesi, infatti, sarebbero giunti «fino a Nuova Spagna, Perù, Brasile, Antille e tutto il resto, come mostra l’aspetto degli uomini e delle donne, i loro costumi, gli occhi piccoli, i nasi schiacciati e le altre fattezze che vediamo in loro». L’osservazione sui tratti somatici dei popoli americani incontrati dagli iberici precede una considerazione che si applica, in particolare, all’arcipelago delle Molucche: «chiamano ancora oggi molte di queste isole e terre Batochina o Bacochina, che significa Terra della Cina»1. Che storia del mondo è mai questa che prende le mosse dall’idea che l’America sia un’antica colonia cinese? Per rispondere si deve guardare al contesto in cui Galvão compose quel trattato. Occorre tener conto del suo peculiare itinerario di vita, ma anche riannodare i fili cinesi che attraversarono la cultura storica del Rinascimento, riportando così alla luce paesaggi in gran parte rimossi in cui i molteplici passati del mondo s’intrecciarono in modo più equilibrato o originale di quanto generalmente si ammetta. Ancora alla metà del Quattrocento il mercante veneziano Niccolò de’ Conti aveva rilanciato il mito del Catai di Marco Polo contribuendo, fra l’altro, all’erronea credenza che a reggere l’impero cinese fosse sempre la dinastia mongola degli Yuan (1271-1368). Il suo abbandono definitivo, e con 1 A. Galvão, Tratado dos diversos e desvairados caminhos, por nos tempos passados a pimenta e especearia veyo da India ás nossas partes, e assi de todos os descobrimentos antigos e modernos que são feitos até a era de 1550, Lisboa, em casa de Ioam da Barreira, 1563, cc. 1v-2r.

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esso di tante proiezioni ideali sulla società cinese, fu un frutto del Rinascimento maturo, quando si diffusero le indagini di prima mano condotte da missionari, e uscì poi l’Historia de las cosas más notables, ritos y costumbres del gran reino de la China (1585) dell’agostiniano Juan González de Mendoza2. Allora l’interesse per la Cina era ormai intenso. Meta obbligata per chi voleva procurarsi notizie fresche e affidabili era proprio Lisbona, la città di Galvão. Sulla riva opposta del fiume che la bagnava, il Tago, abitava Fernão Mendes Pinto, che conosceva da vicino alcune distanti regioni dell’Asia orientale. Intorno al 1571 Pinto meditava di dedicare l’opera di storia e finzione che stava componendo sui suoi viaggi in quelle terre a Cosimo I de’ Medici, granduca di Toscana. Aveva maturato quell’idea conversando con l’ambasciatore fiorentino Bernardo Neri, che più volte gli aveva manifestato il vivo interesse del granduca per le terre visitate da Pinto, in particolare per «le cose della Cina e delle sue città». Nel suo futuro libro, assicurò quest’ultimo a Neri, vi erano tutte quelle informazioni, fondate «su quanto ho visto, appreso e letto nelle cronache sugli antichi re della Cina e sulla fondazione e principio di questa monarchia». Fra i materiali che l’ambasciatore fiorentino riportò indietro da Lisbona vi fu forse un codice buddista della valle del Mekong trafugato a Pinto, ma non l’opera che quest’ultimo aveva pensato di offrire a Cosimo I, rimasta inedita fino al primo Seicento3. Non sappiamo, fra l’altro, se Neri ebbe una risposta da un umanista portoghese ben più famoso di Pinto, cui si dovette rivolgere in un primo momento. Alla partenza da Firenze, nel 1569, gli era stato infatti raccomandato di ottenere una «copia della cosmografia 2 A. Romano, La prima storia della Cina. Juan Gonzales de Mendoza fra l’impero spagnolo e Roma, in «Quaderni storici», XLVIII (2013), pp. 89-116. Sempre utile il classico studio di D.F. Lach, Asia in the Making of Europe, 3 voll., University of Chicago Press, Chicago 1965-1993, vol. I, pp. 730-821. Cfr. inoltre Western Visions of the Far East in a Transpacific Age, 1522-1657, a cura di C.H. Lee, Ashgate, Farnham 2012. 3 Lettera di Pinto a Neri, Almada, 15 marzo 1571, in Cartas de Fernão Mendes Pinto e outros documentos, a cura di R. Catz, Presença, Lisboa 1983, pp. 114-116. Il furto del codice da parte di un ambasciatore fiorentino è denunciato nel cap. 164 della Peregrinaçam. Sui materiali provenienti da tutto il mondo raccolti dai Medici, in una prospettiva comparata, cfr. J. Keating, L. Markey, «Indian» Objects in Medici and Austrian-Habsburg Inventories, in «Journal of the History of Collections», XXIII (2011), pp. 283-300.

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della Cina» che l’ormai anziano geografo e cronista João de Barros (sarebbe morto l’anno dopo) «dice di haver fatta tradurre di lingua cinese in lingua portugese». A chiederlo era il cosmografo domenicano Egnazio Danti, approdato a Firenze qualche anno prima per disegnare la serie delle magnifiche carte geografiche che ancora decorano la Sala della Guardaroba, ideata da Giorgio Vasari e Miniato Pitti per gli appartamenti di Cosimo I in Palazzo Vecchio. Neri doveva anche scoprire se Barros «havesse carta alcuna di detto paese et provincia della Cina, del Mangi et del Catai» e «haverne copia»: non poteva fare più bel dono al granduca, terminava Danti, «non ci essendo delle sopradette cose notitia alcuna che buona sia»4. La Cina e il desiderio di saperne di più erano dunque un pensiero ricorrente di Cosimo I quando decise di decorare con mappe preziose e aggiornate gli ambienti privati della sua monumentale residenza, rinnovata in stile rinascimentale. Quello fiorentino fu l’esempio più alto di una tendenza a contemplare il mondo con uno sguardo, che si diffuse con rapidità anche altrove in Italia nella seconda metà del Cinquecento. Globi, planisferi e mappamondi nelle segrete stanze del potere rispondevano a un gusto che si nutriva della conoscenza dei nuovi spazi geografici, ma rifletteva anche la proiezione di un’ambizione di possesso che accompagnò i tentativi di alcuni stati di inserirsi nei flussi della mondializzazione iberica. Dal Mediterraneo si guardava con attenzione alle regioni del mondo che gli imperi iberici avevano assoggettato o con cui erano entrati in contatto. Non è un paradosso che la città europea dove le nuove conoscenze sulla Cina si accumulavano fosse la metropoli più a occidente del continente. Proprio in virtù della posizione geografica che la proiettava al centro del mondo atlantico, infatti, Lisbona era diventata la capitale del primo impero europeo d’oltremare. Lo sforzo maggiore dei portoghesi era stato quello di penetrare nell’Oceano Indiano e controllare le principali rotte del commercio marittimo grazie a una trama di possedimenti e piazzeforti costiere. Al tempo dell’incontro fra Neri e Pinto avevano ormai il loro cuore pulsante a Goa, in India occidentale, ma si estendevano fino alla città portuale di Malacca, all’estremità sudoccidentale della penisola malese, e avevano le loro 4 Lettera inviata da Firenze, 28 ottobre 1569, in F. Fiorani, The Marvel of Maps: Art, Cartography and Politics in Renaissance Italy, Yale University Press, New Haven (CT) 2005, p. 300.

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propaggini più remote a Macao, in Cina, e a Nagasaki, in Giappone. Giunti in Asia per aver accesso diretto alla leggendaria abbondanza dei mercati orientali, i portoghesi rividero presto l’ambizione di fondarvi un impero che rinnovasse gli antichi fasti di quello romano. Dovettero piuttosto trovare un compromesso fra violenza e diplomazia per sopravvivere al confronto con i potenti imperi asiatici, dalla Persia dei safavidi ai mughal in India, fino alla Cina dei Ming, senza contare le spedizioni navali organizzate dagli ottomani nell’Oceano Indiano5. Relazioni manoscritte e cronache a stampa che entravano in circolazione da Lisbona erano un fondamentale canale d’informazione per l’Europa su un’esperienza così lontana nello spazio, ma in grado di avere un profondo impatto culturale ed economico. L’ambasciatore Neri fu indirizzato all’umanista Barros perché quest’ultimo era l’autore di una cronaca ufficiale delle imprese portoghesi in Asia, pubblicata dal 1552 in avanti, che attirò subito l’interesse degli ambienti italiani più sensibili alle trasformazioni globali in atto e alle occasioni che se ne potevano trarre. Per le élites delle città della penisola quelle occasioni furono soprattutto di natura commerciale. Accanto alla Firenze dei Medici, fu il caso di un’altra capitale del Rinascimento: Venezia. In un’età di grandi monarchie e imperi, l’antica repubblica marinara non rinunciò alla strategia di egemonia nel Mediterraneo orientale, che nei secoli medievali le aveva consentito, fra l’altro, di gestire la rivendita delle spezie asiatiche in Europa6. Quel ricco traffico aveva subito una battuta d’arresto dopo l’arrivo di Vasco da Gama in India (1498), che permise di distrarre gran parte dei carichi dal tradizionale itinerario terrestre fino in Egitto, per trasportarli a bordo di navi lungo la rotta del Capo di Buona Speranza fino a Lisbona. Perciò, anche se alla metà del Cinquecento Venezia aveva in parte recuperato lo svantaggio derivato dalla fondazione dell’impero portoghese in Asia (1505), Barros era destinato a trovare solleciti lettori in laguna. 5 S. Subrahmanyam, The Portuguese Empire in Asia, 1500-1700: A Political and Economic History (1993), Wiley-Blackwell, Chichester-Malden (MA) 2012. 6 B. Arbel, Venice’s Maritime Empire in the Early Modern Period, in A Companion to Venetian History, 1400-1700, a cura di E.R. Dursteler, Brill, Leiden-Boston 2013, pp. 125-253.

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A colpire, nella ricezione italiana, è l’attenzione all’uso di fonti scritte in lingue orientali. Era il segno del tentativo di individuare le informazioni più attendibili in un’opera percorsa da una trionfalistica retorica imperiale. Raffinato e colto umanista, Barros organizzò la sua cronaca per decadi, come già aveva fatto il milanese Pietro Martire d’Anghiera nel De orbe novo (1511-1525), dedicato alla conquista spagnola dell’America. In realtà Barros s’ispirò forse a Tito Livio. Machiavelli aveva commentato la decade I della sua storia di Roma nei Discorsi (1531) e Barros ne era stato un precoce ed entusiasta lettore7. Ma la predilezione per la cultura classica non gli impedì di cogliere i limiti delle conoscenze europee sullo sconfinato continente asiatico, dove pure non andò mai. Responsabile della Casa da Índia, una sorta di ministero che regolava i commerci orientali da Lisbona, approfittò dei suoi archivi per servirsi di scritture, mappe e documenti provenienti dall’Asia, consultati grazie a traduzioni e interpreti8. Barros apre la sua cronaca presentando la penetrazione dei portoghesi in Asia come una tappa della guerra santa planetaria che da secoli opponeva cristiani e musulmani. Ma la sua prospettiva aggressiva è subito bilanciata dal ricorso che fa a un’opera indicata solo come «Tarigh» (tārīkh, «cronaca») e descritta come «un sommario delle cose che fecero i lor califi nella conquista di quelle parti dell’Oriente». Aveva tra le mani una versione «in lingua persiana», «che con altri volumi della historia et cosmografia persiana da quelle bande havemmo»9. Con molta probabilità si tratta del Rauzat al-Safā’ (Giardino della purezza), l’enciclopedica cronaca di Mir Khwand, storico vissuto nel Quattrocento a Herat, dov’era stato testimone degli ultimi giorni della potenza di Tamerlano, dalla cui dissoluzione gemmarono i grandi imperi dell’Asia centro-meridionale con cui si confrontarono i portoghesi10. Non fu quel riferimento, comunque, a 7 G. Marcocci, Machiavelli, la religione dei romani e l’impero portoghese, in «Storica», 41-42, XIV (2008), pp. 35-68. 8 C.R. Boxer, João de Barros, Portuguese Humanist and Historian of Asia, Concept Publishing, New Delhi 1981. 9 L’Asia del S. Giovanni di Barros, consigliero del Christianissimo Re di Portogallo. De’ fatti de’ Portoghesi nello scoprimento, & conquista de’mari & terre di Oriente, Venetia, appresso Vincenzo Valgrisio, 1561, cc. 1r, 2v e 95v (traduzione di Alfonso de Ulloa). 10 L’identificazione è proposta in S. Subrahmanyam, Intertwined Histories:

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impressionare il bibliotecario veneziano Giovanni Battista Ramusio che, a soli due anni dalla comparsa della prima decade di Barros, ne tradusse e incluse una selezione nella seconda edizione del primo volume delle sue monumentali Navigationi et viaggi (1554). Nell’epistola anteposta a quegli estratti Ramusio sottolinea la promessa di Barros «di mandar in luce un libro di tavole di geografia del paese della China, stampato (come egli dice) in quella provincia e per un chino suo schiavo tradotto»11. Nel capitolo che è all’origine della raccomandazione rivolta da Egnazio Danti a Bernardo Neri nel 1569, Barros ricorda il valore di quella fonte, insieme alla grandezza dell’impero cinese, superiore a tutti quelli asiatici in «popolo, potenza, ricchezza e civilità», nonché con «maggior entrata che tutti li regni e potenzie di Europa»12. Quello che invece Danti allora non sapeva era che nel frattempo Barros era entrato in possesso di «una carta geografica di tutta quella terra, fatta dai cinesi stessi», oltre ad «alcuni loro libri», di cui aveva fatto uso nella terza decade della sua cronaca, pubblicata nel 1563 come il trattato di Galvão, e mai tradotta in italiano13. Non sappiamo se tra quelle fonti vi fosse una cronaca cinese, né se essa abbia contribuito a una scoperta che gli europei del Rinascimento fecero grazie a Barros: non solo i cinesi avevano uno sterminato impero terrestre, ma avevano anche preceduto i portoghesi nel dominio sull’Oceano Indiano, pur operando con «maggior prudenza dei greci, dei cartaginesi e dei romani che per conquistare terre straniere si allontanarono tanto dalla patria che finirono con il perderla»14. Benché i cinesi avessero visitato il sudest asiatico già in precedenza, in quelle parole va riconosciuta l’eco remota delle

«Crónica» and «Tārīkh» in the Sixteenth-Century Indian Ocean World, in «History and Theory», XLIX (2010), pp. 118-145, in part. p. 140. 11 G.B. Ramusio, Navigazioni e viaggi, a cura di M. Milanesi, 6 voll., Einaudi, Torino 1978-1988, vol. II, p. 1043. 12 Ivi, p. 1076. 13 J. de Barros, Decada terceira da Asia... Dos feytos que os Portugueses fizeram no descobrimento & conquista dos mares & terras do Oriente, Lisboa, por Ioam de Barreira, 1563, c. 44v. Per un approfondimento cfr. Z. Biedermann, De regresso ao Quarto Império: a China de João de Barros e o imaginário imperial joanino, in D. João III e o império. Actas do Congresso Internacional, a cura di R. Carneiro e A.T. de Matos, CHAM-CEPCEP, Lisboa 2004, pp. 103-120. 14 Barros, Terceira decada cit., c. 46v.

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spedizioni della flotta imperiale guidata dall’ammiraglio Zheng He, un cortigiano eunuco di origine Hui, la minoranza musulmana in Cina. Dal 1405 in avanti, centinaia di navi immense avevano solcato per sette volte l’Oceano Indiano, costringendo a tributo i maggiori porti dell’Asia meridionale fino a toccare anche le coste orientali dell’Africa. Pur grandiosa, fu solo una breve parentesi, che in parte coincise, peraltro, con il periodo in cui Niccolò de’ Conti viaggiò nell’Oceano Indiano. La dinastia Ming vi pose fine nel 1433 con un editto dell’imperatore Xuande15. Da dove ricavò quelle notizie Barros? Non da una delle rare fonti cinesi che raccontano le spedizioni di Zheng He, mai citato dall’umanista portoghese. Questi, del resto, non specifica mai a quando dati l’espansione cinese nell’Oceano Indiano, e il confronto con greci, cartaginesi e romani lascia supporre che per Barros risalisse forse all’antichità. Era forte la suggestione di quel passato, che suonava come un monito rispetto alle eccessive ambizioni dei portoghesi. Se ne coglievano le tracce dappertutto. Per esempio, nello stato in cui era ridotta Mylapore, sulla costa sudorientale dell’India, quando i portoghesi vi giunsero in cerca delle tracce dell’apostolo Tommaso che si diceva avesse predicato in quella città, «quasi tutta abbattuta a causa delle guerre del tempo dei cinesi, perché era la loro sede principale». O nel nome Ceylon, in uso per lo Sri Lanka: «significa i pericoli o la perdizione dei cinesi», spiega Barros, e serba il ricordo del naufragio di ottanta imbarcazioni cinesi nelle secche dell’isola. Erano tutti segni di un antico dominio sull’Asia meridionale e i suoi arcipelaghi: «oltre ad affermarlo i nativi, ne sono testimoni gli edifici, i nomi e la lingua che vi hanno lasciato, come fecero i romani presso noi ispanici, impedendoci così di negare che ci abbiano conquistati»16. Il tema della lingua compagna dell’impero, su cui Barros aveva già insistito in passato, trovava conferma anche nel caso dei cinesi17.

15 L. Levathes, When China Ruled the Sea: The Treasure Fleet of the Dragon Throne, 1405-1433, Simon & Schuster, New York 1994. 16 Barros, Terceira decada cit., cc. 25v-26v. 17 E. Asensio, La lengua compañera del imperio. Historia de una idea de Nebrija en España y Portugal, in Id., Estudios Portugueses, Fondation Calouste GulbenkianCentre Culturel Portugais, Paris 1974, pp. 1-16, che troppo attenua, tuttavia, l’aggressiva carica imperiale della posizione di Barros.

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L’esempio dato dall’impero cinese, una potenza che fino a poco prima dell’arrivo dei portoghesi riceveva doni dai regni in Siam e Birmania in memoria dell’antica sottomissione, suscita l’ammirazione di Barros. Fu il decreto di un «re prudente» a proibire le navigazioni nell’Oceano indiano. Pur non collocando con precisione nel tempo l’intervento di Xuande, Barros ha dunque qualche notizia di quel provvedimento. E a pochi anni di distanza dalla concessione ufficiale del porto di Macao ai portoghesi (1557), ricorda che vigeva ancora il divieto d’accesso in Cina anche a un solo straniero senza lasciapassare, nonché l’interdizione ai cinesi di navigare, salvo eccezioni in favore dei mercanti di Canton18. Proprio a Canton avevano consumato i loro ultimi giorni, in stato di prigionia, Fernão Pires de Andrade e Tomé Pires, dopo avere guidato una disastrosa missione presso l’imperatore Zhende. Erano sbarcati in Cina nel 1517, ufficialmente per condurre un’ambasceria commerciale alla corte imperiale. L’aggressivo comportamento dei portoghesi, però, irritò presto i cinesi, che contro quegli uomini, chiamati «franchi», mossero persino accuse di cannibalismo. Dopo un fugace abboccamento con Zhende a Nanchino, la delegazione portoghese fu costretta a una lunga e umiliante attesa a Pechino, nella vana speranza di essere ricevuta all’interno della città proibita. Gravi problemi d’instabilità interna e la crescente ostilità verso chi aveva osato conquistare Malacca, il cui sovrano era un fedele tributario dell’impero cinese, contribuirono al fallimento di un’impresa che corse parallela a quella di Cortés in Messico e prese avvio con auspici in parte simili. Negli stessi anni del viaggio di Magellano intorno al globo, quel movimento simultaneo mise spagnoli e portoghesi di fronte a due grandi imperi che erano anche due universi culturali per loro sconosciuti. Le loro opposte reazioni alla comune minaccia proveniente dall’Europa furono un tornante decisivo per la mondializzazione iberica19.

Barros, Terceira decada cit., c. 46rv. S. Gruzinski, L’Aigle et le Dragon. Démesure européenne et mondialisation au XVIe siècle, Fayard, Paris 2012. 18 19

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2. Storie che Galvão sentì alle Molucche Quando Barros scriveva, dunque, i portoghesi avevano ormai compreso che le relazioni con il celeste impero richiedevano cautela e rispetto. I cinesi, del resto, avevano preceduto i portoghesi anche nel traffico di spezie e aromi. Lo avrebbero fatto partendo dalle Molucche, le isole ricchissime di chiodi di garofano, noce moscata e legno di sandalo, al centro di un’aspra contesa tra portoghesi e spagnoli per il loro controllo, risolta a vantaggio dei primi dal trattato di Tordesillas stipulato nel 1529, pochi anni prima che vi arrivasse Galvão come capitano. Solo dai «cantari in forma di ballata», spiega Barros, si potevano ricavare le pur incerte notizie sulle «antichità» dell’arcipelago, che nel Quattrocento, a cominciare dall’isola di Ternate, aveva visto le sue élites convertirsi all’islam, sotto l’influenza del principato di Gresik, sul versante orientale di Giava. Gli abitanti delle Molucche raccontavano di non essere originari di quelle isole, che in un remoto passato erano state visitate da giunche cinesi, malesi e giavanesi. La memoria locale accreditava soprattutto l’ipotesi di un popolamento cinese: «ne resta ancora notizia nel nome della grande isola chiamata Batechina do Moro, lungo la cui costa si trovano le altre». Secondo i locali, scrive Barros, «Bate vuol dire Terra e, seguito da Cina, significa Terra della Cina, e gli aggiungono Moro, nome proprio della terra, per distinguerla dall’altra, chiamata Batechina de Muar». Quelle parole riecheggiano l’apertura della storia di Galvão. Ma, a differenza di quest’ultimo, Barros non evoca la colonizzazione dell’America e termina scrivendo che furono i cinesi a trasformare i chiodi di garofano, usati in precedenza come un medicinale, in un prodotto richiesto su tutte le piazze del mondo20. Dietro quelle pagine c’è sì Galvão, ma non la sua storia del mondo, pubblicata peraltro quattro mesi dopo l’uscita della terza decade di Barros21. Nel redigerla fra 1544 e 1558, quest’ultimo dovette piuttosto servirsi di un trattato storico sulle Molucche in cui Galvão aveva fatto confluire le notizie sulla natura, gli abitanti e i loro costumi, raccolte durante il soggiorno nell’arcipelago22. Ne sopravvive una Barros, Terceira decada cit., c. 135r. Si insiste invece su un possibile accesso di Barros al manoscritto di Galvão in Lach, Asia cit., vol. I, p. 603. 22 Quanto Barros scrisse sulle Molucche si limita, per sua stessa ammissione, 20 21

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versione preliminare composta dopo il ritorno a Lisbona, di cui fece dono a un cosmografo spagnolo nel 1545. Un rapido sguardo conferma la dipendenza di Barros da quel testo. Galvão non nasconde le perplessità sulla possibilità di conoscere il passato delle Molucche dai loro abitanti: «non hanno cronache né storie scritte», scrive, ma solo «memorie in forma di proverbi, cantiche e ballate in versi»23. Dà comunque un certo credito alle tradizioni orali che riferivano di giunche arrivate un tempo sulle isole. Non è chiaro se si trattò di malesi, giavanesi o cinesi, ma i locali propendevano per questi ultimi, «e a quanto pare fu così», glossa Galvão: «si dice che furono signori delle Indie e dei loro arcipelaghi, o per lo meno vi navigarono e commerciarono come si ricava dagli edifici che vi si trovano». Barros riprende quel racconto, così come l’argomento delle diverse isole che, alle Molucche, si chiamavano «Batachina» e che Galvão poi ripete nella sua storia del mondo: «Bata significa terra e pare che furono i cinesi a mettere loro questo nome, Pietra della Cina»24. Si passa quindi a discutere l’ipotesi che a visitare l’arcipelago per primi fossero stati i malesi. Galvão aveva sentito dire, infatti, che i cinesi chiamavano se stessi «taibenchi» (come poi li avrebbe indicati nella sua storia del mondo), mentre il nome «cinesi» era d’origine malese. Come che sia, a iniziare il traffico di chiodi di garofano, acquistati a basso costo, erano stati i «taibenchi». Gli abitanti delle Molucche, però, «non sanno proprio come andò perduta questa navigazione», chiude Galvão, senza far cenno al decreto imperiale cinese, ricordato, come abbiamo visto, da Barros, evidentemente grazie ad altre fonti, comunque vaghe25. Le notizie fornite da Galvão rielaborano frammenti di una memoria orale. A un secolo di distanza dalla fine delle grandi spedizioni cinesi, gli abitanti delle Molucche tendevano a proiettarle in un passato indefinito, comunque anteriore alla penetrazione dell’islam26. a «quel che ne abbiamo ricavato da António Galvão» (Terceira decada cit., c. 133v). 23 A Treatise on the Moluccas (c. 1544). Probably the Preliminary Version of António Galvão’s Lost «História das Molucas», a cura di H. Jacobs, Jesuit Historical Institute, Roma-St. Louis (MO) 1971, p. 84. 24 Ivi, p. 78. 25 Ivi, p. 80. 26 Sull’idea di un mitico passato comune, diffusa tra gli abitanti delle Molucche, e sulla permanenza di una spiccata cultura orale anche dopo l’islamizzazione, cfr.

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A meno di un quarto di secolo dall’arrivo dei primi iberici, i sovrani delle Molucche, un arcipelago pienamente integrato nel grande crocevia commerciale e culturale che ruotava intorno all’isola di Giava, parlavano già le principali lingue iberiche27. Galvão dovette raccogliere le testimonianze locali sull’antico dominio cinese direttamente dalla bocca dei nativi. Gli squarci su un passato misterioso aperti dalle storie che circolavano alle Molucche permisero a Galvão di pensare un’antichità che sfidava i confini convenzionali della storia greca e romana. Fu così che decise di aprire la sua storia del mondo con le spedizioni cinesi, mettendo all’origine dei primi viaggi dell’umanità un grandioso momento di espansione imperiale, avvenuto, in realtà, solo nel primo Quattrocento. Quelle pagine evocative andavano comunque incontro a una domanda crescente di notizie sulla Cina e sulla sua storia. Neppure il domenicano Gaspar da Cruz, autore del primo trattato dedicato a una dettagliata descrizione del celeste impero (1569), seppe resistere. Scrisse che nei «tempi antichi», come mostravano «alcune memorie» in suo possesso, «non solo i cinesi commerciarono con le parti dell’India, ma conquistarono e dominarono anche molte sue terre, per cui Erodoto avrebbe detto che la Scizia arriva fino all’India». I segni di quel passato, lontano almeno di duemila anni (come si desume dal richiamo ad Erodoto), erano evidenti nei tratti somatici di giavanesi, malesi e siamesi, «popoli cinesizzati, cioè con gli occhi piccoli, il naso schiacciato e il volto largo, per la molta mistura che i cinesi ebbero con tutti loro»28. Ma che effetti ebbe la riscoperta di quel passato sulla storia del mondo di Galvão? Come modificava la visione dominante in Europa la scelta disorientante di aprire il racconto con la Cina? E da dove traeva origine? Sicuramente vi incisero le alterne vicende personali di Galvão. Il suo trattato, infatti, è il frutto non solo dell’esperienza alle Molucche, ma anche di una profonda frustrazione. Le poche notizie in nostro possesso riflettono l’immagine di una vita divisa in due

L.Y. Andaya, The World of Maluku: Eastern Indonesia in the Early Modern Period, University of Hawaii Press, Honolulu 1993, pp. 47-81. 27 D. Lombard, Le carrefour javanais. Essai d’histoire globale, 3 voll., Éditions de l’École des Hautes Études en Sciences Sociales, Paris 1990. 28 Enformação das cousas da China. Textos do século XVI, a cura di R. D’Intino, INCM, Lisboa 1989, p. 161.

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parti, con un momento di svolta decisivo seguito al ritorno in Portogallo dalle Molucche, intorno al 154029. Chi era, dunque, Galvão? Per le élites portoghesi era, anzitutto, un figlio illegittimo del cronista regio e consigliere di corte Duarte Galvão, tra i massimi ispiratori della retorica politica di impronta millenarista che al tempo di Vasco da Gama aveva accompagnato la penetrazione portoghese in Asia, interpretandola come una missione voluta da Dio30. António Galvão crebbe in quell’ambiente, in cui l’esaltazione delle conquiste d’oltremare provocava accese tensioni tra le fazioni cortigiane in lotta fra loro per la fisionomia che l’impero doveva assumere. Non si sa come Galvão reagì alla decisione dell’anziano padre quando, nel 1515, questi partì in cerca del Prete Gianni in una spedizione che lo portò a morire alle porte dell’Etiopia, dove si credeva che regnasse il mitico sovrano cristiano. Le circostanze di quella scomparsa dovettero influire sul futuro legame di Galvão con il mondo asiatico, che si fece concreto tra 1522 e 1524, quando servì come soldato nell’Oceano Indiano. Due anni dopo, nel clima segnato dalla disputa fra Spagna e Portogallo intorno alle Molucche, Galvão salpò di nuovo per l’Asia, promosso al comando di una nave. Rientrò già nel 1527, portando con sé le ossa del padre ricevute dal sacerdote Francisco Álvares, reduce da una spedizione in cui aveva finalmente incontrato il vero imperatore etiope, Dawit II. Galvão ottenne la nomina a capitano delle Molucche nel 1532. Le «isole delle spezie», com’erano ormai chiamate, costituirono un punto d’osservazione speciale sull’Asia, alla confluenza tra il variegato mondo dell’Oceano Indiano e le regioni del Pacifico a più stretto contatto con il grande impero cinese. Galvão dovette attendere alcuni anni in India prima di assumere i suoi poteri, servendo intanto la corona in alcune imprese militari. La guerra segnò anche i tre anni trascorsi alle Molucche, dove giunse nel 1536, stabilendosi a Ternate. La sua permanenza fu caratterizzata da una spiccata ingerenza nei conflitti locali e regionali e da una ferma imposizione dell’autorità

S. Subrahmanyam, As quatro partes vistas das Molucas. Breve releitura de António Galvão, in Passeurs, mediadores culturales y agentes de la primera globalización en el mundo ibérico, siglos XVI-XIX, a cura di S. O’Phelan Godoy e C. Salazar-Soler, PUC-IFEA, Lima 2005, pp. 713-730, part. pp. 716-721. 30 J. Aubin, Duarte Galvão, in Le Latin et l’Astrolabe, 3 voll., CNCDP-Centre Culturel Calouste Gulbenkian, Lisboa-Paris 1996-2006, vol. I, pp. 11-48. 29

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portoghese, in anni segnati dal timore di nuove penetrazioni spagnole. Ricorse a violenze e intimidazioni che gli permisero di consolidare il controllo sul commercio dei chiodi di garofano e di indurre la conversione al cristianesimo dei locali. In quell’angolo di mondo così lontano dall’Europa, Galvão, un uomo di armi e di mare, ma non privo di lettere, iniziò a mutare il suo sguardo sul passato. Cercò di conoscere a fondo quelle isole all’apparenza senza storia, sempre più importanti per i commerci globali. A colpirlo fu, lo si è visto, la scoperta di un’età remota, affollata da una varietà di popoli e culture e dominata dai cinesi. Sottratto al filtro delle rappresentazioni europee, il loro impero appariva in tutta la sua inquietante potenza e la sua antichità faceva impallidire la grandezza di greci e romani. Al suo ritorno nel regno, Galvão si aspettava una ricompensa dalla corona per i servizi resi in Asia. Ne aveva estrema necessità perché per mantenersi alle Molucche (e forse per procurarsi la carica) aveva contratto debiti. Alla metà degli anni quaranta sperava ancora, come rivelano gli aperti elogi riservati nel trattato sulle Molucche al monarca Giovanni III, celebrato per aver affrontato grandi «sofferenze» «a causa delle discordie e delle guerre con i più grandi monarchi del mondo, come l’imperatore Carlo di Germania, Francesco re di Francia, il sultano Solimano signore di Turchia, lo shah Tahmasp di Persia, il sultano Babur in India e il gran khan della Cina», come Galvão chiama per errore l’imperatore Ming, mostrando i limiti delle sue effettive conoscenze sul celeste impero31. L’intenzione di compiacere il re di Portogallo emerge anche dall’attenta esposizione delle principali tappe della costruzione dell’impero portoghese, organizzata secondo le spedizioni che si sono succedute nel corso del tempo, un modello poi ripreso anche nella storia del mondo. Vi si leggono inoltre i discorsi che Galvão avrebbe pronunciato alle Molucche, da cui traspare un forte orgoglio imperiale misto alla consapevolezza dei nuovi orizzonti globali del suo tempo. Nel 1537, avrebbe arringato alcuni sovrani locali e i loro reggenti, tutti assoggettati a tributo, per convincerli ad accettare di buon grado il controllo sul traffico dei chiodi di garofano, dicendo loro che «da lì al Portogallo vi erano circa 4000 leghe, che era più della metà della rotondità», ossia del mondo, uno spazio immenso al cui interno Giovanni III «possedeva

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A Treatise on the Moluccas cit., p. 206.

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tante terre molto migliori da cui poteva trarre profitto con minor costo e pericolo»; l’unica ragione della presenza portoghese erano le spezie, «non voleva da loro altro favore se non quello. E che accettassero la circolazione delle monete del re di Portogallo con le sue insegne nelle loro terre, giacché si dichiaravano suoi vassalli»32. Bersaglio di questa richiesta erano i cinesi e la loro valuta. La forza delle armi sosteneva un preciso disegno di penetrazione finanziaria. Una ventina d’anni dopo quelle parole, Galvão si spense a Lisbona, nel grande ospedale regio di Todos-os-Santos, con ogni probabilità nel padiglione dove si rifugiavano ogni notte i senzatetto della città, ai quali venivano offerti un letto e un po’ d’acqua. Morì come un «cortigiano povero e abbandonato»: avvolto in un semplice lenzuolo, della sua sepoltura si fece carico la confraternita di corte, forse in omaggio al padre, le cui idee in ogni caso non trovavano più ascolto presso la corona. Il ricordo di quel trapasso fu trasmesso ai posteri da un altro reduce dell’India, Francisco de Sousa Tavares, antico capitano di Cannanore, che curò poi l’edizione della storia del mondo di Galvão. Nella dedica al duca di Aveiro, Dom João de Lancastre, Tavares ritorna con la memoria ai giorni gloriosi delle battaglie combattute da Galvão alle Molucche, sforzandosi di accreditarne l’immagine di «vero portoghese», diffusa anche dalle prime cronache dell’impero portoghese in Asia, pubblicate in quegli anni. Tutto strideva con la sua fine in Portogallo, dove «non trovò altro favore o onore che quello dei poveri miserabili, ossia l’ospedale»33. Tradito e afflitto dai debiti, Galvão aveva dedicato i suoi ultimi anni di vita alla scrittura storica. Nominato esecutore testamentario, Tavares trovò fra le sue carte anche una redazione avanzata, in «nove o dieci libri», della storia delle Molucche, che trasmise all’umanista Damião de Góis, allora impegnato nella stesura di una delicata cronaca regia. Quella consegna fu l’atto finale di un legame tra quest’ultimo e Galvão che fu intenso, a giudicare anche dal lungo elogio riservato nella sua storia del mondo a Góis, celebrato «accanto agli altri esploratori e navigatori», pur non avendo mai lasciato il Vecchio Mondo: era un uomo di cultura che «vide e percorse la maggior parte dell’Europa, di sua libera volontà», «segnale di nobi-

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Ivi, pp. 270-272. Galvão, Tratado cit., cc. Aijv e Aiijv.

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le pensiero»34. La solidarietà tra i due doveva risentire anche della comune esperienza di vittime di un clima politico e culturale mutato rispetto a quando avevano lasciato il regno. L’età di un Rinascimento portoghese vivace e originale, che traeva linfa dagli intensi scambi con i nuovi mondi, si era bruscamente interrotta con l’ascesa a corte di un blocco di teologi scolastici che aveva presto portato all’introduzione dell’Inquisizione (1536) e della censura (1540). Tra le prime opere a essere proibite vi era stato proprio un trattato di Góis sulla fede cristiana degli etiopi, pubblicato all’estero nel 1540, in cui si rilanciava l’idea, cara a Duarte Galvão, che i successi portoghesi avvicinassero l’ultimo millennio35. Le difficoltà incontrate da António Galvão dopo il suo ritorno in Portogallo aiutano a capire perché nella sua storia del mondo, che pure si concentra sui viaggi degli uomini e la circolazione delle merci, in primo luogo le spezie, lo spazio riservato alle esplorazioni portoghesi sia meno del previsto. Soprattutto, non vi ricorrono i tratti tipici della retorica ufficiale che insisteva sul primato nelle navigazioni oceaniche lusitane, tanto da configurare una posizione velatamente anti-imperiale di Galvão. Per quanto Tavares si affanni nella dedica al duca di Aveiro a riaffermare la superiorità dei portoghesi sugli antichi, il contenuto del trattato lo contraddice apertamente. Tralasciando l’esaltazione dell’impero portoghese, il piccolo volume di Galvão ridimensiona lo sguardo eurocentrico, lasciando intuire ai suoi lettori tutta la pluralità della mondializzazione in atto e il complesso intreccio di passati su cui poggiava. Fu l’esempio più alto di storia globale scritta nell’Europa del Rinascimento. Una «storia generale»: così la rubricò a inizio Seicento un coetaneo di Diogo do Couto, il cronista imperiale che rilanciò il progetto delle decadi di Barros direttamente da Goa, dove fondò il primo archivio pubblico e organizzò un laboratorio di traduttori e interpreti per meglio consultare le fonti scritte nelle lingue orientali36.

Ivi, cc. 59v-60r. G. Marcocci, A consciência de um império: Portugal e o seu mundo, sécs. XV-XVII, Imprensa da Universidade de Coimbra, Coimbra 2012, pp. 189-203, 210-212. 36 R.M. Loureiro, A biblioteca de Diogo do Couto, Instituto Cultural de Macau, Macau 1998, pp. 83-84. 34 35

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3. Ramusio e le navigazioni degli antichi Osserviamo più da vicino il trattato di Galvão. Nonostante lo stupefacente inizio sugli antichi viaggi cinesi, non aderisce a una visione diffusionista, imperniata sull’individuazione di un filo genealogico unitario che leghi i popoli: in altre parole, non ha l’ossessione delle origini. Il superamento degli schemi tradizionali delle storie universali scritte in Europa ancora fino al primo Cinquecento, che si aprivano invariabilmente con la creazione del mondo e fornivano indicazioni sulle sue età basandosi sulle tracce fornite dall’Antico Testamento e dai padri della Chiesa, emerge sin dalle prime righe. Galvão ironizza sui tanti tentativi di fissare una cronologia generale e sull’impossibilità di farne la base per una storia globale della mobilità: «mi sono trovato così confuso», scrive, «che ho deciso di desistere da questo proposito, perché gli ebrei dicono che dalla creazione del mondo al diluvio passarono 1656 anni, i Settanta interpreti 2242 e sant’Agostino 2260 e oltre». Si limita così a proclamare che, dopo il diluvio, le «scoperte principali e a più lunga distanza furono fatte per mare, soprattutto ai nostri tempi». Segue il racconto dei viaggi dei «taibenchi», giunti nell’antichità fino in America, ma forse anche fino alle coste settentrionali della Germania dove, stando allo scrittore latino Cornelio Nepote, «alcuni indiani», ossia asiatici, si sarebbero spinti a bordo di «una nave con merci della loro terra» che, aggiunge Galvão, «doveva venire dalla Cina»37. Anche i cinesi naturalmente discendevano da Noè, ma Galvão non accenna mai ai figli del patriarca biblico, né ai loro posteri. La presa di distanza da Annio da Viterbo e da «quelli che si sono compiaciuti delle antichità» si fa subito esplicita, con la dissociazione dal mito dell’antico monarca spagnolo Espero e da Gonzalo Fernández de Oviedo, che nelle «cronache delle Antille» scrisse che queste ultime «erano già state scoperte e dal nome di questo re si chiamavano Esperidi». Ma come, si obietta, se «a quel tempo e ancora per molti anni si navigò più lungo le coste che attraverso il mare oceano, non esisteva l’altezza, né la bussola, e la gente di mare non poteva essere tanto esperta»?38 Il trattato di Galvão si presenta, dunque, come

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Galvão, Tratado cit., cc. 1r-2v. Ivi, c. 3rv.

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un’opera empirica, che riconnette fra loro notizie relative alla mobilità quale vettore primario dei processi storici. Di fatto, cerca le premesse del presente, un’età di esplorazioni e scoperte, di riapertura e creazione di rotte terrestri e navali attraverso cui condurre commerci a grande distanza, ma anche governare vasti imperi retti da sovrani che ambivano a essere signori del mondo. Galvão concede così uno spazio tutt’altro che irrilevante a eventi non europei, seguendo però un diverso criterio di selezione nelle due parti dell’opera, la prima dedicata alle scoperte antiche e la seconda a quelle moderne, incentrata sui viaggi e le conquiste di portoghesi e spagnoli. Risolto fin dall’inizio il problema di un’integrazione dell’America nelle rotte marittime degli antichi sostenendo l’ipotesi di una colonizzazione cinese, la narrazione si snoda attraverso una varietà di navigazioni a lunga distanza che, accanto a quelle dei greci e dei romani, includono anche le spedizioni marittime organizzate da egizi, fenici, persiani e cartaginesi. Si ricordano anche gli itinerari terrestri che andavano dagli antichi regni dell’Asia centrale di Sogdiana e Battriana fino alle coste dell’Oceano Indiano. A poco a poco si disegna una fitta trama intorno al globo, che confligge con l’immagine promossa dalla cultura iberica del tempo, in particolare da quella portoghese, che insisteva sull’idea che l’età delle grandi scoperte, e con essa la spartizione del mondo, si fosse ormai esaurita (con buona pace delle corone escluse) e che a inaugurarla fossero stati i portoghesi. Come scrisse il cosmografo regio Pedro Nunes nel 1537, questi ultimi avevano ormai reso «il mare così piano che non vi è oggi chi osi dire di aver ritrovato un’isola, delle secche o anche solo uno scoglio che non sia stato scoperto dalle nostre navigazioni»39. Quel tema si collegava al primato sugli antichi greci e romani, cantato fra gli altri da Barros. Nella prima decade ricorda che la corona portoghese «prima di alcuno passò in Africa, et ciò che vi prendé il difese et conservò fin’hoggi, eccettuato quel che lasciò, perché non gli conveniva, et prima di alcuno passò in Asia, dove ha fatte quelle prodezze che in questa nostra opera si contengono»40. Da dove traeva ispirazione Galvão per accantonare la prospettiva imperiale di Barros? Per capirlo bisogna spostarsi nella città 39 Pedro Nunes, Obras, 6 voll., Imprensa Nacional, Lisboa 1940-1960, vol. I, pp. 175-176. 40 Barros, L’Asia cit., c. 173r.

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da cui, qualche anno dopo, sarebbe passata la strada che portò un cosmografo al servizio del granduca di Toscana a chiedere al suo ambasciatore a Lisbona di rivolgersi proprio a Barros per saperne di più sulla Cina: Venezia. Qui fu pubblicato nel 1550 il primo dei tre volumi delle Navigationi et viaggi di Ramusio, una collezione di scritti di storia e descrizione del mondo antico e moderno, organizzata per continenti, con un effetto finale di grande armonia, anche grazie alla traduzione dei testi redatti originariamente in lingue diverse dall’italiano. In quella monumentale raccolta, la prima che rendeva davvero conto della coscienza di un nuovo rapporto con il mondo inteso nella sua pluralità e unità, si coglie la precocità e l’audacia con cui la cultura veneziana reagì all’allargamento di prospettive non solo geografiche, ma anche commerciali e politiche, innescato dalla mondializzazione iberica41. Le Navigationi hanno un debito verso la raccolta organizzata dall’umanista Johann Huttich e apparsa a Basilea con il titolo di Novus Orbis (1532). Contiene in traduzione latina una serie di testi recenti non soltanto sull’America, con l’esplicita intenzione di provare la loro superiorità sulle opere di geografia antica, ancora dominanti nella cultura umanistica. Vi si trovano scritti che anche Ramusio avrebbe tradotto, ma senza un disegno d’insieme comparabile e soprattutto senza gli autori antichi, che sono invece compresi nelle Navigationi. Se il Novus Orbis risente in profondità, com’è evidente sin dalla scelta del titolo, della scoperta dell’America, Ramusio apre invece il primo volume della sua raccolta esaltando il «costume degli antichi, continovato insino ai tempi nostri». L’importanza delle conoscenze e dei viaggi degli antichi è suggerita a più riprese. Non vi era nulla da recidere, anzi. Si trattava di correggere i possibili errori tramite opportuni aggiornamenti, grazie alle opere degli «scrittori de’ nostri tempi» e la «descrizion delle carte marine portoghesi»42. Ramusio, del resto, era tutt’altro che un erudito intento a vedere il mondo con gli occhi degli altri mentre se ne stava seduto alla sua scrivania. Al contrario, accompagnò l’attività di umanista e geografo con quella al servizio della Repubblica. Segretario del Consiglio 41 M. Donattini, Giovanni Battista Ramusio e le sue «Navigationi»: appunti per una biografia, in «Critica storica», XVII (1980), pp. 55-100. 42 Ramusio, Navigazioni cit., vol. I, pp. 3-5.

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dei Dieci, alto organo del governo veneziano, svolse delicate missioni che gli consentirono, fra l’altro, di conoscere alcuni grandi protagonisti del suo tempo e di stringere rapporti con esploratori e uomini di cultura. Di particolare importanza fu il legame con il patrizio Pietro Bembo, tra i massimi umanisti italiani, storico di Venezia attento ai nuovi mondi, divenuto poi cardinale: negli anni trenta affidò a Ramusio la cura della Biblioteca Nicena (la futura Marciana), permettendogli così di collezionare numerosi testi, relazioni e scritti di storia e geografia provenienti da tutto il mondo. Nulla di veramente sorprendente, visto che a Venezia quegli interessi erano parte vitale delle strategie politiche e commerciali della Repubblica, spesso in chiave anti-iberica. In ogni caso, questo non impedì a Ramusio di coltivare una relazione privilegiata con il cronista spagnolo Oviedo, segno di un pragmatismo in grado di intrecciare l’amore per lo studio con interessi commerciali di natura privata. Oltre a tradurne gli scritti, infatti, nel 1537 mise su con Oviedo stesso una società per investire nell’importazione di «liquori et zuchari» da Santo Domingo. L’ambizioso progetto delle Navigationi ruota intorno alla nozione di «scoperta» che allora univa in sé un complesso significato geografico e politico, in cui il piano della conoscenza intersecava le teorie sul diritto di conquista. Come immaginare una storia delle scoperte nell’Europa del Rinascimento? E come porsi in rapporto alla mondializzazione e ai tanti passati che stavano entrando in contatto fra loro? Non era questione di stilare cronologie parallele dei viaggi di esplorazione. La scelta di considerare la mobilità degli uomini e delle merci al cuore di una storia in equilibrio, capace di andare oltre gli ambiti geografici e culturali più familiari ai lettori europei, impose di abbandonare una visione ridotta alla storia delle conquiste. Si volle piuttosto fare delle scoperte una chiave per interpretare il rapporto fra storia e mondo nella lunga durata, in una molteplicità di significati e di punti di vista che non si prestassero a legittimare la celebrazione di un particolare impero. Questa prospettiva dovette subito attirare Galvão quando ebbe per le mani il primo sontuoso volume delle Navigationi, che poté procurarsi solo grazie alla generosità di qualche amico, forse Damião de Góis. Quest’ultimo aveva conosciuto Ramusio alla metà degli anni trenta, quando aveva soggiornato a Padova facendosi apprezzare come aggiornato informatore sulle imprese dei porto-

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ghesi dagli umanisti veneti, Bembo su tutti43. I due erano rimasti in buoni rapporti, benché fossero su posizioni opposte circa la legittimità del monopolio portoghese sul commercio delle spezie. Così, mentre in Portogallo uscivano a stampa le prime cronache della penetrazione in Asia, composte da Fernão Lopes de Castanheda (1551) e Barros (1552), Galvão nelle Navigationi leggeva scritti che dell’impero portoghese davano un’immagine ben diversa. È il caso della descrizione dell’Africa di Hasan al-Wazzan al-Gharnati alFasi, raffinato diplomatico del sultano di Fez più noto come Leone Africano, nome che assunse dopo la sua cattura in mare da parte di corsari spagnoli che ne fecero dono a papa Leone X44. Galvão si servì di quel capolavoro del Rinascimento mediterraneo, capace di porsi all’incrocio tra cultura araba ed europea, ma anche del trattato sull’Etiopia di Francisco Álvares, un’opera pubblicata mutila in Portogallo (1540), di cui Ramusio fornì ai lettori una nuova e più completa edizione collazionando diversi manoscritti reperiti anche con l’aiuto di Góis45. Galvão, in ogni caso, fu colpito soprattutto da un breve testo uscito dalla penna di Ramusio, che tocca l’aspetto centrale della sua esperienza alle Molucche: le spezie. Il Discorso... sopra varii viaggi per li quali sono state condotte fino a’ tempi nostri le spezierie e altri nuovi che se ne potriano usare guarda a quei traffici sul lungo periodo senza rinunciare a fornire un aggiornato quadro geopolitico del presente, fortemente polemico verso i portoghesi. Ramusio si fa portavoce delle élites veneziane favorevoli a un rilancio dell’espansionismo commerciale della Repubblica anche oltre i confini del mondo mediterraneo46. Ma il Discorso è anzitutto un saggio di storia, che poggia sulla 43 Identifica Ramusio come una delle fonti di Galvão, ma senza comprendere il suo decisivo contributo alla storia del mondo di quest’ultimo, R.M. Loureiro, António Galvão e os seus tratados histórico-geográficos, in D. João III e o império cit., pp. 85-102. Su Góis in Veneto cfr. E. Feist Hirsch, The Friendship of the «Reform» Cardinals in Italy with Damião de Góis, in Proceedings of the American Philosophical Society, XCVII (1953), pp. 173-183. 44 N. Zemon Davis, La doppia vita di Leone l’Africano (2006), Laterza, RomaBari 2008. 45 A.A. Banha de Andrade, Francisco Álvares êxito europeu da «Verdadeira Informação» sobre a Etiópia, in Presença de Portugal no Mundo. Actas do colóquio, Junta da Investigação Científica do Ultramar, Lisboa 1982, pp. 285-339. 46 M. Donattini, Ombre imperiali. Le «Navigationi et viaggi» di G.B. Ramusio e l’immagine di Venezia, in Per Adriano Prosperi, vol. II, L’Europa divisa e i nuovi

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rielaborazione del tema della decadenza seguita alla caduta dell’impero romano, una fortunata idea dell’umanista Flavio Biondo alla base dell’invenzione rinascimentale del medioevo. Ramusio aggiunge che la lunga crisi dell’età di mezzo minò anche le navigazioni a grande distanza, consentendo così ai portoghesi di vantarsi poi di aver percorso per primi la via marittima per l’Asia, benché non fosse vero. Era un radicale cambio di prospettiva. Ramusio vi insiste da subito: «la gran mutazione e alterazione che fece in tutto l’impero romano la venuta de’ goti e altri barbari in Italia» portò all’estinzione non solo di «tutte l’arti» e «tutte le scienzie», ma addirittura di «tutti i traffichi e mercanzie che in diverse parti del mondo si facevano». Furono «le tenebre d’una oscura notte, sì che alcun non ardiva di partirsi del suo paese natio e andar altrove», mentre «avanti la venuta di detti barbari, quando fioriva l’imperio romano, in tutte l’Indie orientali per mare sicuramente si poteva navigare». La conclusione è una stoccata alla corona di Portogallo che sulla spedizione di Vasco da Gama fondava il suo diritto esclusivo di navigazione e commercio in Asia meridionale: al tempo dei romani «era così frequentato e celebre questo viaggio e conosciuto come egli è al presente per la navigazion dei portoghesi»47. L’ascesa dei goti in Europa, dunque, fu all’origine di una frattura profonda che alterò anche la storia dei rapporti fra i continenti. La prima parte del Discorso è dedicata a sostenere questa tesi sulla scorta di fonti classiche. Si arriva così al presente, con l’affare delle spezie gestito dai portoghesi che «da cinquanta anni in qua hanno preso la via del ponente», «padroni di tutti i mari, sì che alcuno non può navigar senza loro licenza». Ramusio sottolinea l’integrazione fra i traffici verso l’Europa e la rivendita delle loro eccedenze sulle piazze asiatiche, ricordando che a volte i capitani portoghesi «n’hanno voluto mandar insino a’ paesi della detta China e n’hanno guadagnato come se l’avessero condotte in Portogallo»48. Bisognava dunque farsi promotori di un’apertura della via di terra attraverso la Moscovia, proposta già avanzata nei primi scritti di polemica contro il controllo portoghese del commercio delle spezie. mondi, a cura di M. Donattini, G. Marcocci e S. Pastore, Edizioni della Normale, Pisa 2011, pp. 33-44. 47 Ramusio, Navigazioni cit., vol. II, p. 967. 48 Ivi, p. 978.

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4. Il mondo in movimento di Galvão Dai goti alla Moscovia, passando per i profitti che i portoghesi facevano in Asia, percorrendo tuttavia su rotte marittime già battute dai romani nell’antichità: erano «le grandissime revoluzioni e varietà de’ viaggi che hanno fatto nello spazio di 1500 anni dette spezie», ricostruite da Ramusio informandosi «dalli libri antichi e moderni e da persone statevi ai tempi nostri»49. Anche Galvão vi era stato, perciò comprese subito il valore del Discorso, che gli permetteva di ridurre il mondo a un’immagine storica secondo un modello in cui il recupero delle conoscenze accumulate alle Molucche si salda al ridimensionamento delle pretese di grandezza portoghesi. Il debito verso Ramusio emerge sin dal titolo completo del trattato di Galvão, che riprende l’insistenza sui «diversi e stravaganti cammini per i quali nei tempi passati il pepe e le spezie sono giunti dall’India alle nostre parti», con più enfasi, però, sulle «scoperte antiche e moderne avvenute fino al 1550». A differenza di Ramusio, Galvão ha l’ambizione di scrivere un racconto dei viaggi di commercio e di scoperta che abbracci davvero il pianeta fino ad allargarsi, in potenza, ai movimenti di ogni popolo e cultura. Ma quel modello di storia del mondo dipende dalla visione che anima il Discorso sulle spezie. Ne deriva una spiccata attenzione alle fonti classiche, ma anche il sorprendente disinteresse per guerre e conquiste, nonché per l’evangelizzazione, un argomento centrale per la giustificazione degli imperi iberici. Fondamentale, tuttavia, è la ripresa della cesura attribuita ai goti. «Mentre i romani signoreggiavano la miglior parte del mondo», si legge nel trattato di Galvão, «si fecero molte e notevoli scoperte, ma vennero poi i goti, i mori e altri barbari e distrussero tutto». La rappresentazione di quel che ne seguì è ancor più drammatica che in Ramusio: «in quelle età tutto il mondo ardeva, per cui si dice che stette per quattrocento anni così spento e oscuro che nessun popolo osava andare da una parte all’altra per mare, né per terra»; «tutto fu così scosso e trasformato che nulla rimase com’era, le monarchie, i regni, le signorie, le religioni, le leggi, le arti, le scienze, le navigazioni e le scritture che si avevano al loro riguardo, tutto

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Ivi, pp. 978-979.

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fu bruciato e consumato», si spiega, «perché i goti erano così avidi della gloria mondana, che vollero far iniziare con loro un altro nuovo mondo cancellando la memoria del passato». Accanto a vandali, unni, franchi e longobardi, agli ariani e agli arabi riuniti sotto la guida di Muhammad, i goti erano il simbolo di un «nuovo mondo», senza storia50. Il riscatto ebbe origine dagli stimoli che da sempre alimentavano la storia del mondo, ponendo fine a un’età di desolazione: «Quelli che vennero dopo si resero conto di quella grave perdita, del profitto che il commercio e la comunicazione tra i popoli permettevano, e di come senza di essi non potevano vendere le proprie merci, né avere quelle degli altri»; perciò, «risolsero di cercare un modo per non perdere tutto e per far sì che le merci di levante tornassero a ponente, com’era abitudine»51. «Il commercio e la comunicazione tra i popoli»: quella coppia riassume l’essenza della storia per Galvão, accanto al rifiuto che le scoperte si diano una volta per sempre. Quest’idea si fonda su un’intuizione che rivela come la capacità di pensare il mondo nella sua globalità permettesse di formulare sorprendenti ipotesi persino sul piano della storia naturale. Anche la Terra ha una storia: «non si può negare che il tempo e le acque abbiano consumato o allontanato le une dalle altre molte terre, isole, capi, istmi, calette e insenature in Europa come in Africa, Asia e Nuova Spagna, Perù e altre che sono scoperte e stanno nascoste per la continua differenza tra l’umidità dell’acqua e la secchezza della terra». A dimostrarlo sta il celebre caso delle «grandi isole e terre chiamate Atlantidi, molto più grandi dell’Africa e dell’Europa». Agisce qui una riflessione sulle antiche mappe del geografo greco Claudio Tolemeo. Il confronto con le conoscenze cartografiche più aggiornate spinge a sostenere che «poteva certo essere che nei tempi passati le terre di Malacca e della Cina terminassero oltre la linea equatoriale, come le dipinge Tolomeo». Del resto, quell’area del pianeta, dove erano attivi molti vulcani, Galvão la conosceva così bene da ricordare che alcuni locali «ancora oggi ritengono che l’isola di Sumatra fosse unita a quella di Giava attraverso il canale di Sunda». Molte altre isole erano state un tempo parte di Giava, come «appare a chi le osserva da fuori, perché

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Galvão, Tratado cit., cc. 12v-13r. Ivi, c. 13r.

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ancora ci sono in queste parti isole così vicine le une con le altre, che tutto sembra una cosa sola, e chi vi passa in mezzo può toccare con la mano i rami degli alberi sull’una e sull’altra costa». «Non è molto tempo», prosegue Galvão, «che a est delle isole Banda se ne agglomerarono molte». La chiusa è arguta: «non si deve dare troppo credito a quello che hanno lasciato scritto Tolomeo e altri antichi e anch’io li lascio per tornare al mio proposito»52. Quel che Galvão si propone è di presentare le trasformazioni introdotte nella storia del mondo dalla costante mobilità di uomini e mercanzie. Dopo la calata dei goti, i primi a riaprire la via tra l’Asia e l’Europa erano stati i mercanti. Avevano trovato un cammino che, attraversando grandi fiumi e il Mar Caspio, andava dall’India fino alla città di Caffa, sul Mar Nero, allora in mano ai genovesi. In seguito, era entrato in uso un altro itinerario, fino a Trebisonda. Interrotto anche questo a causa delle guerre, l’«industria umana» aveva trovato un altro percorso ancora che dal sudest asiatico, passando per il Golfo del Bengala, il Fiume Gange e le città di Agra e Kabul, arrivava fino a Samarcanda, divenuta un grande centro in cui s’incontravano uomini e prodotti dalla Cina all’Anatolia. Intanto, erano ripresi anche i viaggi nell’Oceano Indiano, che dallo Stretto di Hormuz, risalendo il Fiume Eufrate e il Tigri, permettevano ad articoli pregiati, aromi e spezie di raggiungere Bassora e da lì, via terra, Aleppo, Damasco e Beirut, dov’erano poi acquistati dalle galere veneziane che in cambio vi sbarcavano pellegrini cristiani diretti in Palestina53. Di solito Galvão non data con precisione gli eventi. Ma quando lo fa, come nel caso dell’approdo a Lubecca di una canoa di nativi americani al tempo di Federico Barbarossa, riferito anche da Francisco López de Gómara nella sua cronaca della conquista spagnola del Nuovo Mondo (1552), commette sbagli grossolani, forse dovuti però a refusi o errori di lettura del manoscritto originale da parte dello stampatore54. Riconosciuto al sultano mamelucco d’Egitto e di Siria il merito di aver riavviato il traffico delle spezie e delle altre merci asiatiche attraverso il Mar Rosso, «com’era costume in principio», Ivi, cc. 3v-5r. Ivi, cc. 13r-14r. 54 Ivi, c. 14v, da confrontare con il cap. 10 del primo volume dell’Historia general de las Indias di Gómara. 52 53

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Galvão ripercorre le prime navigazioni atlantiche durante il Trecento, fino alla presa di Ceuta, in Marocco, da parte dei portoghesi, di cui si fornisce la data errata, oscillando fra il 1411 e il 1416 (l’anno corretto è il 1415)55. Ancor più singolare è che, pur raccontandone poi in dettaglio le esplorazioni, secondo l’andamento annalistico già seguito nel trattato sulle Molucche, Galvão confini quei viaggi quattrocenteschi fra le scoperte antiche. Il vero spartiacque è l’impresa di Colombo, cui Galvão rende omaggio già nella prima parte dell’opera, osservando che se anche gli antichi cartaginesi erano arrivati in America, come sosteneva Oviedo, Colombo «ce ne ha dato più vera conoscenza»56. La scelta di aprire la seconda parte della storia del mondo, dedicata alle scoperte moderne, con il viaggio che aveva sottratto alla corona portoghese il controllo sulle navigazioni atlantiche, peraltro su iniziativa di un esploratore che non era stato ascoltato da quest’ultima prima di passare al servizio della Castiglia, suona come una fredda ironia. Tanto più se si considera che le coeve cronache imperiali portoghesi, quando non ne omettono addirittura il nome, sminuiscono l’attendibilità di Colombo descrivendolo come «huomo troppo cianciere, et glorioso in mostrare le sue virtù et ingegno, et più borioso et pieno d’imaginationi (...) che verace et certo in quel che diceva»57. Galvão riporta anche la diceria secondo cui nel 1447 alcuni portoghesi si sarebbero imbattuti in un’isola, che per «alcuni» era alle Antille, abitata da loro discendenti fuggiti dalla penisola iberica al tempo dell’invasione araba. Non si schiera al riguardo, ma commenta con sarcasmo che quel di cui non sapevano dar conto era che si trattava dell’America58. Era l’incontro fra il Nuovo Mondo e i tre continenti del Vecchio, infatti, a costituire il perno della mondializzazione iberica, che Galvão aveva osservato dalle Molucche. Ora che si trovava chiuso in un ospedale di Lisbona, i protagonisti di quel grandioso processo storico gli apparivano gli spagnoli. Così, se la storia delle scoperte moderne si riduce a un intreccio di spedizioni portoghesi e spagnoGalvão, Tratado cit., c. 15v. Ivi, c. 7r. 57 L’Asia del S. Giovanni di Barros cit., c. 56r. Evita invece ogni riferimento Fernão Lopes de Castanheda. 58 Galvão, Tratado cit., cc. 19v-20r. 55 56

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le, private quasi del loro significato politico fino a confondersi in un’indistinta iberizzazione della «rotondità», come Galvão chiama il mondo, questo non toglie che all’impero spagnolo sia riservato molto più spazio che a quello portoghese. Le sue pagine esprimono una piena coscienza della circolarità degli eventi che stavano trasformando la superficie sferica del pianeta, prestando grande attenzione alle condizioni politiche, sociali e culturali delle regioni del mondo raggiunte dagli iberici, dalle Antille al Siam e gli arcipelaghi del sudest asiatico, dal Messico e il Perù alle isole Filippine. È una rappresentazione senza precedenti nella letteratura iberica, attraversata dalla rivalità imperiale fra Spagna e Portogallo: anziché proporre una sequela di conquiste armi alla mano, il trattato di Galvão rispecchia il caleidoscopio della storia millenaria della mondializzazione, costellato da una miriade di movimenti in una pluralità di direzioni in cui corone e imperi tendono a dissolversi, a vantaggio dell’immagine di uno smisurato allargamento degli spazi condivisi, direttamente o indirettamente, da un numero crescente di uomini e merci. La centralità dei portoghesi ne esce drasticamente ridimensionata. Si dedicano appena poche righe al viaggio di Gama e non si accenna alle proteste per la circumnavigazione del globo di Magellano, vista come una minaccia ai diritti portoghesi sulle Molucche. Galvão dà spazio anche alle spedizioni di esploratori al servizio di altre corone europee, come l’Inghilterra e la Francia. Ma il vero eroe dei tempi moderni, nella sua storia del mondo, è Hernán Cortés, il condottiero che era penetrato in Messico con un’operazione non autorizzata dalla corona spagnola. Se ne ricostruisce l’impresa andando anche oltre la caduta di Moteuczoma II e dell’impero azteco, raccontando quanto accadde quando Cortés, «vittorioso e pacifico», proseguì l’avanzata nel Messico centrale, gettando le basi del futuro impero spagnolo sulla terraferma americana. Galvão insiste sul fatto che Cortés era «desideroso» anzitutto di fondare città e porti sulla costa meridionale che si affacciava sull’Oceano Pacifico, convinto che «da lì avrebbe ottenuto gli aromi delle Molucche e di Banda e le spezie di Giava con meno fatica e pericolo». Di nuovo, le spezie emergono come lo stimolo all’apertura delle nuove rotte della mondializzazione, tanto che, tracciando un bilancio di quell’esperienza americana conclusa nel 1539, Galvão misura il successo delle esplorazioni promosse da Cortés fino a raggiungere il vertice settentrio-

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nale della baia di Sebastián Vizcaíno, nella bassa California, dal fatto che avevano ridotto le distanze dalla Cina59. Ancora una volta vi è dietro la lettura di un libro recente, la cronaca di Gómara, in particolare della seconda parte, dedicata quasi per intero a Cortés e al Messico. Soprattutto dalla prima, invece, e solo in misura minore dalla cronaca della conquista del Perù (1553) di Pedro de Cieza de León, dipendono le pagine sulla spedizione guidata dai fratelli Pizarro, che portò al crollo del grande impero inca, e la notevole descrizione della natura e delle popolazioni delle Ande. La sintonia con Gómara, del resto, risente del fatto che anch’egli, come Ramusio, sostiene che gli antichi romani abbiano preceduto i portoghesi nei viaggi nell’Oceano Indiano. Il trattato di Galvão si chiude sulla dimensione fisica del mondo, sulla «rotondità», mettendo a confronto le misurazioni che ne davano antichi e moderni, ma soprattutto facendo notare che «è tutta scoperta e navigata da est a ovest, come seguendo la direzione del sole, ma dal sud al nord vi è molta differenza»: restano ancora migliaia di leghe da esplorare60. Le scoperte non sono finite. La storia del mondo come storia di mobilità di uomini e merci non si è ancora esaurita. 5. Altri libri, altre scoperte: La Popelinière e Hakluyt La proposta di Galvão non conobbe riprese in Portogallo, né in Spagna. Rischiava di offuscare l’immagine di un dominio globale che doveva apparire giusto e incontrastato, soprattutto dopo l’unione dinastica (1580), quando entrambi gli imperi iberici si ritrovarono uniti sotto la corona degli Asburgo di Spagna. Tuttavia, negli anni seguenti il piccolo volume che Galvão aveva scritto avvalendosi delle più recenti opere apparse sul mercato dei libri, da d’Anghiera a Oviedo, Ramusio, Barros, Gómara e Cieza de León, alimentò singolari operazioni in Francia e in Inghilterra. La circolazione europea delle opere spagnole e portoghesi sui nuovi mondi non si limitò agli eruditi desiderosi di aggiornare le loro conoscenze storiche e geografiche. Al contrario, rivela tutto il debi-

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Le informazioni su Cortés si trovano frammiste a molte altre, ivi, cc. 42r-69v. Ivi, cc. 79v-80.

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to che, nonostante rivalità e diversità di lingue, le culture imperiali in formazione nell’Europa settentrionale dal tardo Cinquecento in avanti ebbero verso la letteratura iberica. Un ruolo speciale lo rivestirono le traduzioni di cronache come quelle usate già da Galvão come fonti. Ma non mancarono mediatori che dalla loro approfondita frequentazione degli scritti spagnoli e portoghesi seppero ricavare l’ispirazione per originali elaborazioni. Fu il caso di un ugonotto esponente della piccola nobiltà francese, Henri Lancelot Voisin, signore di La Popelinière. Passato dalle guerre di religione allo studio del passato, cui avrebbe dedicato anche un famoso trattato sul metodo storico, L’histoire des histoires (1599), La Popelinière sembra aver risentito della proposta di Galvão quando compose l’opera intitolata Les Trois Mondes (1582), che aveva per oggetto il globo nella sua fisicità e nella sua storia, ritratte attraverso i viaggi di scoperta nei secoli. Se attinse abbondantemente ai cronisti iberici, ma anche alle Navigationi di Ramusio, fu al modello della storia del mondo di Galvão che dovette reagire quando decise di fornire un racconto delle navigazioni e dei commerci antichi e moderni. Quel filo riannodava il Vecchio Mondo dei tre continenti già noti ai greci e ai romani con il Nuovo Mondo americano e un terzo mondo, ancora ignoto ma vastissimo: «ci sono altrettante se non più terre da scoprire di quelle nuovamente scoperte»61. A differenza di Galvão, però, la storia di La Popelinière, che non aveva mai lasciato l’Europa, non si apre al punto di accogliere al suo interno un’antichità davvero globale. Tratta di egizi, assiri, fenici, persiani, cartaginesi, greci e romani, ma non di cinesi, diffondendosi comunque in dotte discussioni delle fonti e offrendo così una rara sintesi delle domande che la mondializzazione poneva al passato classico riscoperto dal Rinascimento. Insoddisfatto per le risposte fornite dagli storici antichi, nega la tesi, cara a Ramusio e Galvão, che gli antichi, tranne forse i greci, abbiano affrontato il mare aperto e che già le navi romane solcassero l’Oceano Indiano. Questa presa di distanza dipende dal fatto che La Popelinière vede una continuità fra l’esaltazione dei meriti degli esploratori iberici,

61 Les Trois Mondes de La Popelinière, a cura di A.-M. Beaulieu, Droz, Genève 1997, p. 69.

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e prima di loro di quelli «italiani» (genovesi, veneziani e fiorentini), e il rilancio di un’espansione francese dopo la fallimentare esperienza della Francia Antartica in Brasile62. In quegli anni sia l’Histoire d’un voyage faict en la terre du Brésil (1578) di Jean de Léry, sia il saggio sui cannibali di Montaigne (1580) spingevano a tornare a rifletterci su. Perciò, mentre addita ai «francesi troppo fiacchi sotto il velo dei piaceri mondani» l’esempio del coraggio dei navigatori al servizio delle corone di Portogallo e Spagna, di cui racconta le imprese in modo intrecciato, benché secondo un ordine diverso da quello di Galvão, La Popelinière denuncia la spartizione del globo effettuata dagli iberici in virtù delle bolle papali quattrocentesche, cui non riconosce legittimità. Sostiene, infatti, l’esistenza del solo diritto per scoperta. La parte di «circonferenza» che battezza «mondo ignoto» attende i francesi63. La Popelinière provò a passare dalle parole ai fatti e nel 1589 s’imbarcò per una spedizione diretta in Brasile, che però non riuscì. Lo stesso anno, all’indomani della vittoria sulla temutissima flotta spagnola fermata sulla Manica (1588), vedeva la luce a Londra una raccolta delle principali navigazioni degli esploratori inglesi, curata dal sacerdote anglicano Richard Hakluyt sul modello di Ramusio, poi rivista e riedita tra 1598 e 160064. I testi classici non vi trovano spazio, ma nella prefazione si legge l’ipotesi che gli antichi cinesi, «mossi dalla fama e dall’autorità dell’impero romano, abbiano inviato ambasciatori a Roma, a chiedere amicizia»65. Quel progetto editoriale mirava a sostenere le prime rivendicazioni espansionistiche inglesi, che presero corpo al tempo della regina Elisabetta I, culminando nella circumnavigazione del globo da parte di Francis Drake (1577-1580) e nelle ripetute spedizioni verso l’America meridionale e settentrionale, che portarono, fra l’altro, alla fondazione

62 A. Delmas, L’écriture de l’histoire et la compétition européenne outre-mer au tournant du XVIIe siècle, in «L’Atelier du Centre de recherches historiques», VII (2011), http://acrh.revues.org/3632. 63 Les Trois Mondes cit., p. 70. 64 Poco convincente il ritratto di Ramusio come puro umanista in M. Small, A World Seen through Another’s Eyes: Hakluyt, Ramusio, and the Narratives of the «Navigationi et Viaggi», in Richard Hakluyt and Travel Writing in Early Modern Europe, a cura di D. Carey e C. Jowitt, Ashgate, Farnham 2012, pp. 45-55. 65 R. Hakluyt, I viaggi inglesi, 1494-1600, a cura di F. Marenco, 2 voll., Longanesi, Milano 1966, vol. I, p. 123.

III. La Cina, i goti e Cortés

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di un’effimera colonia, ribattezzata Virginia66. L’interesse per le possibilità aperte dalla nozione di scoperta elaborata nei Trois Mondes è confermato dal fatto che La Popelinière è l’unico francese a essere citato nella raccolta di Hakluyt, nella dedica a Francis Walsingham, segretario di stato, dove se ne riportano le critiche rivolte agli inglesi per lo scarso impegno nelle navigazioni di lungo corso67. Hakluyt si sarebbe forse procurato nel 1583 i diritti per pubblicare in inglese Les Trois Mondes68. Ma a vedere la luce a Londra, nel 1601, sotto i suoi auspici fu invece il trattato di Galvão. La dimensione politica dell’edizione è confermata dalla scelta del dedicatario, Sir Robert Cecil, segretario di stato dal 1599, di cui Hakluyt era cappellano. Questi annota a margine del testo le molte fonti che riesce a identificare, confermando così la piena padronanza dei materiali usati da Galvão. Ma la traduzione non sarebbe sua, bensì di «un mercante onesto e di buoni sentimenti». Hakluyt, che pure si lamenta, forse con troppa durezza, della qualità di quella versione, scrive a Cecil di possederlo da dodici anni e di aver fatto cercare a lungo, anche a Lisbona, una copia dell’originale di Galvão, ma invano. La sua storia del mondo, così insidiosa per la legittimità degli imperi iberici, era diventata introvabile. Anche questo dovette indurre Hakluyt a mettere di nuovo in circolazione quel testo, in risposta alla richiesta che aveva ricevuto di «ridurre in una breve sintesi» il contenuto della raccolta dei viaggi inglesi, per renderla più accessibile «agli uomini di grande azione e servizio». Dunque, l’edizione del «breve trattato» di Galvão, che Hakluyt conosceva attraverso i cenni biografici forniti nella cronaca di Castanheda e in quella sulle missioni dei gesuiti in Asia di Giampietro Maffei (1588), si legava idealmente alla sua più celebre impresa editoriale. Hakluyt osserva che quell’opera, «benché di piccole dimensioni contiene una materia così rara e di tanto profitto quale non 66 D. Armitage, The Ideological Origins of the British Empire, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2000, pp. 64-81. Cfr. inoltre D.H. Sacks, Richard Hakluyt’s Navigations in Time: History, Epic, and Empire, in «Modern Language Quarterly», LXVII (2006), pp. 31-62; P.C. Mancall, Hakluyt’s Promise: An Elizabethan’s Obsession for an English America, Yale University Press, New Haven (CT) 2007. 67 Hakluyt, I viaggi inglesi cit., vol. I, p. 120. 68 The Original Writings and Correspondence of the Two Richard Hakluyts, a cura di E.G.R. Taylor, Hakluyt Society, London 1935, p. 241.

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saprei cercare altrove dentro limiti così circoscritti e ristretti». A Cecil suggerisce di seguirne il racconto tenendo sotto gli occhi una «carta marittima o una mappa del mondo», perché gli avrebbe rivelato in modo ordinato «chi furono i primi scopritori, conquistatori e piantatori in ogni luogo, così come la natura e le risorse del suolo, insieme alla forza, la qualità e la condizioni degli abitanti», tanto in Oriente quanto in Occidente. Certo, ammette Hakluyt, in quella storia millenaria Cecil avrebbe trovato solo pochi cenni alla «nostra nazione», ma questo perché Galvão scrisse a metà Cinquecento, quando gli inglesi viaggiavano ancora poco sui mari del mondo. Non solo, aggiunge calcando la mano sul rilancio delle navigazioni dopo anni di violente tensioni interne al regno, le esplorazioni inglesi non erano ancora giunte a «maturità», essendosi limitate «per lo più a luoghi già scoperti da altri», ma «quando perverranno a maggior perfezione e saranno di maggior profitto agli esploratori, allora saranno più adatte a essere ridotte in brevi epitomi, da parte mia o di qualcun altro provvisto di onesto zelo verso l’onore del nostro paese»69. Pur rispettando la visione della storia del trattato di Galvão, al punto di tradurne il titolo come «le scoperte del mondo», dove il plurale segnala un processo ancora in corso, Hakluyt ne tradisce dunque l’impostazione fino a fare dell’opera di un cattolico portoghese la base di future celebrazioni del nascente impero inglese, fondato sulla fede protestante e un fiero spirito anti-iberico. L’immagine di un mondo plasmato dalla circolazione di uomini e merci, che Galvão aveva lasciato intravedere scrivendo da un ospedale di Lisbona, era destinata a scontrarsi con un’età di imperi e aggressive potenze emergenti in competizione tra loro, che non raccolse la sua singolare intuizione rinascimentale della ricca polifonia di passati su cui poggiava la mondializzazione. 69 A. Galvão, The Discoveries of the World from the First Originall unto the Yeere of Our Lord 1555... Corrected, quoted, and now published in English by Richard Hakluyt..., Londini, Impensis G. Bishop, 1601, c. A2r-A4r.

IV DALLA BAVIERA ALLE ANDE: LE PERIPEZIE DI UN «BEST SELLER» DEL CINQUECENTO 1. Guaman Poma e il mondo visto dal Perù L’antico sogno medievale di una monarchia universale tornò di grande attualità nell’età dell’unione iberica (1580-1640), quando i possedimenti d’oltremare di Portogallo e Spagna formavano un impero composito sotto lo scettro di Filippo II d’Asburgo e dei suoi successori. Fu allora ricorrente vagheggiare un mondo finalmente in pace e interamente cristiano, retto dalla corona di Spagna1. In quell’immagine si rifugiarono anche sudditi di viceregni che guardavano con ostilità al dominio spagnolo. Fu il caso del filosofo e frate domenicano Tommaso Campanella. Alla vigilia di una fallimentare rivolta anti-spagnola che tentò di innescare in Calabria nel 1599, redasse una prima stesura della Monarchia di Spagna, che traccia il profilo ideale di un re che, in accordo con il papa e la Chiesa, congreghi tutti i popoli sotto la fede cristiana in un regime di armonia e benessere2. Quell’aspirazione era costruita per opposizione rispetto al concreto esercizio di un potere avvertito come ingiusto e violento che, dopo averne smascherato la congiura, costrinse Campanella a trascorrere quasi trent’anni in carcere a Napoli, dove si finse pazzo per evitare la condanna a morte. Intanto, all’altro capo del mondo ma sempre sotto l’autorità della corona di Spagna, una proposta in 1 F. Bosbach, Monarchia Universalis (1988), Vita e Pensiero, Milano 1998, pp. 77-104. 2 T. Campanella, La monarchia di Spagna. Prima stesura giovanile, a cura di G. Ernst, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 1989.

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parte simile avrebbe ispirato la singolare cronaca scritta da un indio quechua, che si diceva di nobili origini e, come Campanella, aveva allora guai con la giustizia. Don Felipe Guaman Poma de Ayala aveva intrapreso una serie di azioni legali per riaffermare il diritto suo e di suoi familiari su alcune terre della valle di Chupas, presso la città di Huamanga (l’odierna Ayacucho), sul versante orientale delle Ande peruviane centro-meridionali. Ma nel 1600 gli indios chachapoya provenienti dal nord, ai quali gli spagnoli avevano affidato quelle terre per lavorarle, riuscirono a metterlo sott’accusa come impostore e fu condannato alla pena di duecento frustate, alla confisca dei beni e a due anni di esilio da Huamanga. In passato, Guaman Poma aveva servito come interprete in ispezioni ecclesiastiche tese a estirpare le antiche credenze delle popolazioni andine, ma aveva anche fatto da testimone in procedimenti giudiziari relativi proprio alla ripartizione delle terre nell’area di Huamanga. Grazie alle carte dei processi in cui fu coinvolto, il periodo che va dal 1594 al 1600 è il meno oscuro della sua vita. Nato circa mezzo secolo prima, era stato educato alla fede cattolica e alla lingua castigliana sin dall’infanzia. Sosteneva di discendere da una stirpe di guerrieri e possidenti fondiari e vantava legami di sangue con due dinastie regali, gli yarovilca di Huánunco (per parte di padre) e i loro successori, gli inca (dal lato di sua madre, Juana Chuquitanta, figlia di Túpac Yupanqui, decimo sovrano inca). Lontano da Huamanga, Guaman Poma peregrinò attraverso un viceregno ormai pacificato, ma dove i nativi, pur decimati da guerre, soprusi e malattie, non avevano dimenticato del tutto il loro passato, recente e remoto. Le loro versioni divergenti sull’epoca preispanica, conservate da memorie orali e quipu (cordicelle annodate usate per registrare informazioni sotto forma di numeri), avevano già trovato voce nella stratificata tradizione di cronache spagnole sulla conquista del Perù3. Alle origini delle popolazioni assoggettate, ai loro culti, all’universo delle pratiche culturali e dei costumi, all’organizzazione sociale e politica, specie sotto l’impero inca (1438-1533), avrebbe prestato ancora una speciale attenzione il mestizo Garcilaso de la Vega el Inca nella prima parte dei Comentarios reales de los Incas, pub-

3 I. Yaya, The Two Faces of Inca History: Dualism in the Narratives and Cosmology of Ancient Cuzco, Brill, Leiden-Boston 2012.

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blicata a Lisbona nel 1609. Ma la ricognizione condotta da Guaman Poma, a integrazione dei racconti ascoltati dalla bocca di suo padre Martín Guaman Mallqui de Ayala (le parti spagnole del suo nome derivavano dalla fedeltà dimostrata alla corona di Spagna al tempo della rivolta di Gonzalo Pizarro, tra 1544 e 1548), dette l’impulso decisivo a un progetto in radicale contrasto con i cronisti anteriori. Non si trattava più di elogiare il governo degli inca, interpretando la loro profonda ristrutturazione del mondo andino come un processo utile al nuovo ordine spagnolo. Piuttosto Guaman Poma intendeva svelare il passato di coloro che da millenni abitavano il Perù, rivendicandone la piena dignità storica accanto alle altre popolazioni del mondo. Voleva farne la base di un disegno teso al ripristino di una monarchia autoctona, benché pur sempre sotto il re di Spagna, signore delle quattro parti del mondo4. Era questo il delicato obiettivo sotteso al manoscritto di quasi mille e duecento carte che Guaman Poma inviò nel 1615 al re Filippo III, pronto per la stampa. Il titolo, El primer nueva corónica y buen gobierno, descrive le due parti in cui è divisa l’opera, scritta in un incerto castigliano: la prima parte, in cui si ripercorre la storia del Perù dalle origini fino alla caduta degli inca, si pone come un nuovo genere di cronaca, segnando una decisa svolta rispetto ai precedenti spagnoli; la seconda è dedicata al sistema di amministrazione avviato con il secondo viceré del Perù, Don Antonio de Mendoza (1551-1552), un «buon governo» che si auspicava culminasse in un nuovo ordinamento politico, più rispettoso dei diritti degli indios e soprattutto capace di sventare il pericolo maggiore per la loro sopravvivenza: l’avanzata del gruppo sociale dei mestizos5. Questo timore può apparire un paradosso. La Nueva corónica, infatti, è un prodotto ibrido: «grazie ai quipos e alle memorie e relazioni sugli antichi indios di saggi e sagge molto anziani, testimoni di vista», raccolte in castigliano e negli idiomi locali (anzitutto, in quechua e aymara), rievoca lo scomparso mondo andino da cui l’autore discendeva, collocandolo sullo stesso piano del mondo nuovo

4 S. Gruzinski, Les quatre parties du monde. Histoire d’une mondialisation, La Martinière, Paris 2004, p. 199. 5 R. Adorno, Guaman Poma: Writing and Resistance in Colonial Peru, University of Texas Press, Austin 20002.

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creato dagli spagnoli6. Guaman Poma, del resto, sentiva di appartenere a pieno titolo anche a quest’ultimo, ne condivideva la lingua e soprattutto la fede cattolica. Perciò, da un lato negava che i fratelli Pizarro avessero compiuto un vero atto di «conquista», con tutti i diritti che ne derivavano, perché gli spagnoli erano stati accolti pacificamente e gli inca furono abbattuti da un intervento divino e non certo dalla loro forza militare. Ma, dall’altro, riconosceva la sovranità universale della corona di Spagna, auspicando anzi che Filippo III si facesse garante della restaurazione di un monarca indio in Perù, che doveva essere suo figlio, erede delle ultime due dinastie precolombiane, ormai estinte. È l’impianto nostalgico di questa posizione a spiegare l’avversione per i mestizos, che incarnavano il definitivo superamento dell’antico universo andino. Guaman Poma aggiornava così un’ipotesi formulata oltre mezzo secolo prima dal domenicano Bartolomé de las Casas, che aveva indicato nel ritorno di un inca alla guida del Perù la via per rimediare a ingiustizie e violenze degli spagnoli7. Quella possibilità era tramontata con la decapitazione dell’ultimo discendente legittimo dei sovrani inca, Túpac Amaru (1572), eseguita nell’antica capitale di Cuzco, ponendo fine al regno ribelle di Vilcabamba, attorno a cui si erano coagulate le speranze degli indios che ancora si opponevano al potere spagnolo. La proposta avanzata quattro decenni dopo da Guaman Poma, un anziano nobile non inca, esprimeva la visione dolente di un vinto che accettava in parte la sconfitta: in fondo, chiedeva solo una maggiore inclusione degli indios nel governo delle loro terre dopo aver subito un duro castigo per aver reclamato il rispetto di antichi diritti di proprietà. Era comunque abbastanza perché il suo manoscritto fosse accolto dal silenzio in Spagna. Come altri testi che, dalla seconda parte della Chronica del Peru di Pedro Cieza de León in poi, davano troppo spazio al passato precolombiano e ai costumi degli indios, la Nueva corónica non fu

El primer nueva corónica i buen gobierno, conpuesto por Don Phelipe Guaman Poma de Aiala, señor i príncipe, in Det Kongelige Bibliotek, Copenhagen, GKS 2232, 4°, p. 8. La traduzione tenta di restituire le incertezze ortografiche e grammaticali del castigliano di Guaman Poma. 7 R. Adorno, The Polemics of Possession in Spanish American Narrative, Yale University Press, New Haven (CT) 2007, pp. 21-60. 6

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pubblicata. Cadde in oblio fino al suo clamoroso ritrovamento, ai primi del Novecento, nella Biblioteca reale di Danimarca8. L’opera si concentra anzitutto sul Perù, ma si proietta su uno sfondo planetario, seppure dai contorni sfocati. Era una conseguenza inevitabile dell’atto di resistenza che essa supportava, in un’età in cui le potenze nordeuropee sfidavano ormai gli imperi iberici sui mari del mondo: per rifiutare l’autorità diretta degli spagnoli come faceva Guaman Poma non bastava contrapporre le ragioni dei nativi alle giustificazioni della conquista; era necessaria una rilettura globale della storia in grado di connettere una molteplicità di passati, arrivando a tenere insieme i diritti degli indios con la sovranità universale della corona di Spagna. La Nueva corónica è corredata da centinaia di illustrazioni eseguite da Guaman Poma stesso. La sua capacità di fondere forme e materiali di diverse origini, rielaborandoli all’interno di un orizzonte mondiale, trova una rappresentazione plastica nella mappa di Tahuantinsuyo, le «quattro regioni» in cui era diviso l’impero inca: Chinchaysuyo, Antisuyo, Collasuyo e Contisuyo. Gli schemi delle coordinate spaziali andine si adattano ai contorni tipici di un planisfero europeo, che però ha al centro Cuzco e incorpora al contempo le insegne dell’impero spagnolo e del papato9. Eterogenea è anche la scrittura di Guaman Poma che mescola vari generi letterari, dalla cronaca storica alle genealogie dei sovrani, passando per l’omiletica, fino a uno stile secco che riproduce il registro di una relazione di visita in cui si censiscono cariche, uffici e proprietà. Non priva di errori di cronologia e di incongruenze agli occhi di un lettore europeo, la Nueva corónica si apre con il racconto delle cinque età del mondo, dalla creazione all’incarnazione di Cristo, avanzando la tesi che gli indios discendano da Noè e siano giunti in America dopo il diluvio. Nel singolare sforzo di armonizzare il tempo delle storie universali europee con quello del mondo andino, si stabilisce un parallelo con la nascita di Gesù, avvenuta quando il secondo inca, Cinche Roca, aveva ottant’anni. Segue l’elenco degli antichi re della Persia e dell’Egitto, presentati in confuse liste che 8 Solo la prima delle quattro parti della cronaca di Cieza de León fu pubblicata. Cfr. F. Cantù, Pedro Cieza de León e il «Descubrimiento y conquista del Peru», Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma 1979. 9 N. Wachtel, La visione dei vinti. Gli indios del Perù di fronte alla conquista spagnola (1971), Einaudi, Torino 1977, pp. 247-268.

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continuano poi con gli imperatori romani e i loro successori, i sacri romani imperatori, fino all’arrivo degli spagnoli nel Nuovo Mondo. Lo stesso accade con l’elenco dei papi fino al presente. Sul modello delle età del mondo, Guaman Poma espone quindi la storia delle quattro generazioni del Perù preincaico (Vari Viracocha Runa, Vari Runa, Purun Runa e Auca Runa), chiudendo il cerchio con la precisazione che i discendenti di Noè giunti in America erano «spagnoli», e prosegue infine con l’età dei dodici sovrani inca, fornendo precise notazioni, fra l’altro, su leggi, fisco, calendari, culti, sepolture, festività e sistema di governo. La giustapposizione di materiali della tradizione europea con quelli attribuiti al passato andino produce un effetto senza precedenti. Dalla Primera parte de la chronica del Peru (1553) di Cieza de León in avanti, i cronisti anteriori avevano al più suggerito un confronto fra gli inca e gli antichi romani10. Guaman Poma, invece, mira a fondere insieme le storie del Nuovo e del Vecchio Mondo, mettendole sullo stesso piano. Quell’operazione rispondeva al percorso intellettuale di un indio quechua che aveva familiarizzato con la storia dell’antichità classica e le principali fonti della letteratura cristiana ed europea, e tentava di integrarle nel passato andino da una prospettiva autoctona11. L’arrivo degli spagnoli è descritto con grande attenzione, raccontando le inaudite violenze, gli abusi e le guerre civili che accompagnarono la creazione di una società coloniale. In ogni caso, il recupero del passato andino non è tanto in tensione con il nuovo ordine imperiale degli spagnoli, cui non si riconosce piena legittimità, quanto con la condanna delle credenze e dei culti degli indios, che Guaman Poma bolla come «idolatria». Così, il risultato più importante della spedizione dei fratelli Pizarro e Diego de Almagro, avidi solo di oro e argento, consisterebbe nell’aver consolidato la fede cattolica nel mondo andino. Consolidato e non portato, perché essa era già 10 L. Millones Figueroa, Pedro Cieza de León y su Crónica de Indias. La entrada de los incas en la historia universal, IFEA-Fondo Editorial de la Pontificia Universidad del Perú, Lima 2001. Sugli esiti più generali dell’associazione con gli antichi romani cfr. S. MacCormack, On the Wings of Time: Rome, the Incas, Spain and Peru, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2007. 11 Indigenous Intellectuals: Knowlegde, Power, and Colonial Culture in Mexico and the Andes, a cura di G. Ramos e Y. Yannakakis, Duke University Press, Durham (NC) 2014. Cfr. in part. il saggio di K. Burns.

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implicita nei primi indios che credevano in un dio creatore, uno e trino, e conducevano vite irreprensibili sul piano morale; era poi divenuta esplicita ai tempi della predicazione dell’apostolo Bartolomeo in America, di cui si accredita la leggenda, togliendo così alle giustificazioni spagnole anche l’argomento dell’evangelizzazione. 2. Böhm e la varietà dei costumi del mondo Sbrogliare i fili che s’intrecciano nella visione della storia del mondo di Guaman Poma non è semplice. Lo è forse ancor meno ricostruire con precisione le sue letture e le fonti dirette della Nueva corónica, benché si possano identificare riprese puntuali, per esempio, dalla cronaca sulla conquista del Perù (1555) di Agustín de Zarate. Nella parte finale dell’opera, tuttavia, spicca un capitolo dedicato ai «primi saggi storici delle coronache pasate». La tentazione da evitare è di leggerlo come un riepilogo dei testi di cui Guaman Poma realmente si servì. Fra gli autori citati figurano il gesuita José de Acosta, Juan Ochoa de la Sal, il domenicano Domingo de Santo Tomás, il francescano Luis Jerónimo de Oré, il naturalista Miguel Cabello Valboa e il frate mercedario Martín de Murúa. I loro scritti erano riferimenti quasi obbligati nel Perù d’inizio Seicento, anche se Guaman Poma non risparmia loro critiche e con alcuni ebbe anche contatti personali. Ma ne lesse davvero i testi? La questione si pone soprattutto per l’opera che menziona per prima, dandole così un rilievo speciale. «Ha fatto la coronaca di questo regno delle Indie», scrive in apertura del capitolo Guaman Poma nel suo peculiare impasto linguistico, «un conbentio doctisimo chiamato Yndiario, Juan Boemo o Bantiotonio. Le ha fatte comparando i templi, i riti, re e siti di tutte le loro terre», prosegue, «con quelli degli indios naturali di questo nuovo orbe, come le riassumono il capitano Gonzalo Pizarro de Obedo y Valdés, alcalde della fortezza dell’isola Española di Santo Domingo, Agustín de Sárate e Diego Fernandes, coronisti di questo detto regno»12. Il passo colpisce, non solo per le scorrettezze ortografiche che si sommano a errori involontari dall’effetto comico, come la confusione tra il nome del cronista Gonzalo Fernández de Oviedo

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El primer nueva corónica cit., p. 1088.

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e quello del conquistatore Gonzalo Pizarro. A stupire è soprattutto la citazione del compendio – questo il significato dell’oscuro vocabolo «conbentio» – di «Juan Boemo», vale a dire l’umanista tedesco Hans Böhm (Johannes Boemus). Nato verso il 1485 ad Aub, nella bassa Franconia, Böhm aveva compiuto studi di teologia per poi entrare nell’ordine teutonico, una struttura monastico-militare fondata al tempo della terza crociata (1189-1192), che in passato aveva costruito un vasto dominio territoriale nell’Europa orientale. Da qui derivava l’appellativo «aubano teutonico», generalmente associato a Böhm e storpiato da Guaman Poma in «Bantiotonio»13. Di chi si trattava? Che opera era il suo «Yndiario»? E perché dargli tanto risalto nella Nueva corónica? Rispondere a quest’ultima domanda significa sottrarre Guaman Poma al suo isolamento di autore indigeno ed esplorare il modo in cui intese collocare la sua opera nel contesto del più ampio dibattito sulla natura e la storia degli indios del Perù. Böhm non è un nome familiare nella bibliografia degli scritti sull’America spagnola. Trovarlo per primo fra i precedenti elencati da Guaman Poma conferma quanto siano vasti e complessi gli intrecci delle storie del mondo scritte nel Rinascimento e invita a non fissare arbitrarie linee di confine tra la produzione letteraria coloniale e quella europea, trasformando la distanza geografica o, peggio ancora, le differenze di lingua o di genere in ostacoli alla libera circolazione di un’opera. Vedere citato Böhm nella Nueva corónica resta comunque qualcosa di sorprendente. Tanto più che il richiamo iniziale a «Bantiotonio» introduce un passo di straordinaria importanza, in cui si riepilogano i principali testimoni oculari dal cui racconto orale dipendeva la ricostruzione fornita da Guaman Poma dell’impero inca e della sua caduta. Come spiegare questa scelta? Poeta latino apprezzato nei circoli umanistici bavaresi, Böhm era un cappellano della casa dell’ordine teutonico a Ulm quando, negli anni dello scoppio della Riforma luterana, si accinse a comporre un trattato in latino destinato a imporsi come un best seller del Cinquecento europeo. La prima edizione degli Omnium gentium mores, leges et ritus, un elegante volume in folio, apparve ad Augsburg nel 1520. Vedeva così la luce, nel cuore della Baviera, un’originale enci13 H. Kugler, Boemus (Böhm, Bohemus), Johannes, Aubanus, in Deutscher Humanismus 1480-1520. Verfasserlexikon, a cura di F.J. Worstbrock, 3 voll., Walter de Gruyter, Berlin-New York 2005-2012, vol. I, pp. 209-217.

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clopedia di costumi, istituzioni e riti dei popoli dell’Africa, dell’Asia e dell’Europa (ma non dell’America), fondata in prevalenza su autori classici e umanistici. Nel giro di un secolo conobbe quasi cinquanta edizioni fra ristampe, traduzioni, adattamenti e plagi nelle maggiori lingue europee. L’accenno di Guaman Poma a una comparazione fra «i templi, i riti, re e siti di tutte le loro terre» sembra rinviare in modo inequivocabile a una di queste edizioni, ma non si ha notizia di un’opera dal titolo «Yndiario» uscita sotto il nome di Böhm. A quale testo si riferisce, dunque, Guaman Poma? Per scoprirlo dobbiamo ripercorrere l’itinerario che condusse il trattato di Böhm dalla Baviera attraverso l’Oceano Atlantico fino a raggiungere le Ande. Era un libro speciale. Passando per le mani di tipografi, traduttori e lettori si trasformò in un modello per pensare il mondo attraverso la comparazione morale, ossia dei mores, dei costumi, fino a trovare eco persino nella Nueva corónica. In realtà, gli Omnium gentium mores passarono quasi inavvertiti fino al loro rilancio grazie a una ristampa lionese nel 1535, anno della morte del loro autore. Subito ripubblicato a Friburgo in Brisgovia (1536) e ad Anversa (1537), il trattato di Böhm entrò a far parte della biblioteca ideale di ogni buon umanista negli stessi anni in cui le opere sui nuovi mondi non europei conoscevano una prima impennata sul mercato dei libri. Alla fine del 1539 uscì a Parigi la prima traduzione, in lingua francese, curata da Michel Fezandat, lo stampatore di Rabelais. Quell’iniziativa avrebbe ispirato William Watreman, il traduttore della prima versione parziale in inglese, che vide la luce a Londra sedici anni più tardi14. A Venezia, intanto, era apparso sin dal 1542, presso Michele Tramezzino, il volgarizzamento italiano eseguito da Lucio Fauno, pseudonimo sotto cui si celava l’umanista Giovanni Tarcagnota, il quale celebra l’opera come «un mare di bellissimi et utilissimi essempi» e invita i lettori ad approfittare dell’opportunità di edificazione personale che quel libro offre loro: «i costumi e l’usanze di tante genti, e che furon già e che sono hora al mondo, non sono altro che tanti specchi, dove noi ci dobbiamo attigliare l’animo

14 R. Raiswell, Medieval Geography in the Age of Exploration: «The Fardle of Factions» in Its English Context, in Renaissance Medievalism, a cura di K. Eisenbichler, Centre for Reformation and Renaissance Studies, Toronto 2009, pp. 249-285.

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et il corpo, ornandoci dei belli e buoni e spreggiando e buttando via come malvaggi e rei i cattivi»15. Fauno allude alla dimensione temporale e all’orizzonte planetario degli Omnium gentium mores, toccando così due aspetti decisivi per il loro rapporto con il genere delle storie del mondo rinascimentali. Ma pone soprattutto l’accento sulla dimensione morale insita nella comparazione dei costumi al centro di quell’opera. In anni drammatici per la frattura che si stava consumando all’interno della cristianità europea, la questione investiva direttamente il nodo della religione. Ma nella presentazione di Fauno, il trattato di Böhm è un libro di varia storia e geografia, in cui i «bellissimi et utilissimi essempi» rappresentati dai costumi, le istituzioni e i riti del mondo, sono descritti all’interno di uno schema privo di immediate connotazioni etiche, in cui i lettori sono invitati a formarsi un giudizio fra quelli da accogliere e quelli da scartare16. In tal senso, gli Omnium gentium mores segnarono una svolta anzitutto per l’ampiezza di notizie che fornivano sulle religioni del mondo. Quell’opera s’inseriva così nel filone di una crescente attenzione per il paganesimo – interno ed esterno all’Europa – da parte di una cultura rinascimentale posta di fronte alla riscoperta dell’antico, allo studio di tradizioni e leggende, all’indagine delle radici storiche di una lingua, ma anche a credenze e rituali di popolazioni di terre d’oltremare prima di allora ignote, che con inedito afflato missionario si voleva convertire alla fede in Cristo17. Se proprio il cristianesimo, con la sua pretesa di superiorità e la sua pulsione all’universalismo, costituì nel Rinascimento uno dei maggiori ostacoli rispetto alla possibilità di comporre una narrazione storica capace di andare oltre l’interesse per il mondo di riferi-

15 H. Böhm, Gli costumi, le leggi, et l’usanze di tutte le genti, raccolte qui insieme da molti illustri scrittori..., Venetia, per Michele Tramezzino, 1542, c. iiijrv. 16 Quest’aspetto sfugge a A. Grafton (con A. Shelford e N. Siraisi), Ancient Texts: The Power of Tradition and the Schock of Discovery, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1992, pp. 99-101, che liquida Böhm come «uno studioso poco riflessivo», autore di un trattato troppo compilativo e contraddittorio. 17 A. Momigliano, Historiography of Religion: Western Views, in Id., On Pagans, Jews and Christians, Wesleyan University Press, Middletown (CT) 1987, p. 22. Definisce Böhm una «pietra miliare nei primi tempi del moderno studio della religione», per assenza di «arroganza» e «pura curiosità intellettuale», G.G. Stroumsa, A New Science: The Discovery of Religion in the Age of Reason, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2010, pp. 1-2.

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mento del suo autore, non fu questo il caso di Böhm. Il cappellano di Ulm nutriva una fede in apparenza sincera che negli ultimi anni della sua vita lo portò a riconoscersi nella dottrina di Lutero. Al cuore del suo trattato sui costumi, però, si trova una visione della religione che non si esaurisce nell’abituale condanna di ogni culto o credenza non cristiana. Calati nel loro contesto storico, gli Omnium gentium mores non vanno visti come precursori della moderna antropologia, ma non riducono neppure la difformità delle espressioni culturali a un processo di corruzione dell’umanità che discende dal peccato18. Quest’aspetto, unito all’abbandono dello sguardo esotizzante sull’insolito proprio delle cosmografie medievali (da cui pure si riprendevano ancora miti e leggende, in parte di origine classica), ne fece l’esempio di un approccio comparativo che contribuì alla scrittura di storie del mondo nell’Europa del Rinascimento e oltre. Divisa in tre parti, ciascuna dedicata ai popoli e alle regioni di un continente, la novità del libro di Böhm non risiedeva tanto nei materiali di cui si serviva, in gran parte noti ai suoi lettori, ma nell’effetto prodotto dalla loro raccolta in un solo volume e dal modo in cui erano presentati. La partizione dell’opera e la trattazione interna a ciascun capitolo, dove a una breve descrizione storica e geografica di un territorio segue una rassegna dei costumi, delle istituzioni e dei riti dei suoi abitanti, rappresentò un modello destinato a grande fortuna tra Cinque e Seicento. Eppure, la dipendenza da autori classici o che avevano comunque scritto prima della scoperta dell’America rendeva, a prima vista, gli Omnium gentium mores superati prima ancora della loro pubblicazione, schiacciandoli su un tempo senza profondità in un’epoca di grandiose trasformazioni storiche come il Cinquecento. Come spiegare, dunque, il loro successo alla luce di questo apparente paradosso? E come immaginare che uno scritto con tali caratteristiche abbia contribuito alla stesura di storie del mondo? Il silenzio sul Nuovo Mondo e sulle altre regioni raggiunte dai viaggi di esplorazione, tutt’altro che eccezionale all’epoca, non va certo

Le due interpretazioni sono sostenute, rispettivamente, da M.T. Hodgen, Early Anthropology in the Sixteenth and Seventeenth Centuries, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1964, pp. 135-143, e J.-P. Rubiés, New Worlds and Renaissance Ethnology (1993), in Id., Travellers and Cosmographers: Studies in the History of Early Modern Travel and Ethnology, Ashgate, Aldershot-Burlington (VT) 2007, vol. II, pp. 173-174. 18

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attribuito ad ignoranza. Anzi, nella dedica a Sigmund Grimm, stampatore della prima edizione, Böhm rivendica con orgoglio l’appartenenza del suo trattato a un catalogo editoriale ricco di scritti sui tempi moderni, fra i quali cita la traduzione tedesca dell’Itinerario in cui il bolognese Ludovico di Varthema raccontava le sue recenti esperienze di viaggio e soggiorno in Asia meridionale. Ma quel testo Böhm non lo usa mai nella sua opera, neppure nel pur notevole capitolo sull’India. È un indizio rivelatore: entrambi trattano di popolazioni distanti nello spazio ma, a differenza di Varthema, Böhm le mette a confronto con gli europei, congelandole tuttavia in una dimensione atemporale. Al cappellano di Ulm, infatti, non interessa l’attualità dei contenuti, ma la possibilità di comparare. Del resto, solo sottraendosi alla prospettiva storica segnata dal presente avrebbe potuto liberarsi dalla centralità che doveva necessariamente assumervi la fede cristiana, verso il cui trionfo la storia progrediva. Böhm svaluta così, senza mai apertamente negarlo, quel primato del cristianesimo che rischiava di minare alla radice la sua trattazione dei costumi dei popoli del mondo19. L’atteggiamento di Böhm è molto meno audace ma forse non così diverso da quello di un autore a lui coevo, che pure non accenna mai all’America, e le cui opere, proprio grazie a una peculiare visione della religione, contribuirono anch’esse allo sviluppo di uno sguardo comparativo nella tradizione degli scritti di antiquaria e sugli abitanti dei nuovi mondi non europei20. Pubblicati solo nel 1531, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio di Machiavelli furono composti grossomodo negli stessi anni degli Omnium gentium mores. Contengono un celebre confronto fra il cristianesimo, liquidato come una fede contemplativa che volge gli animi degli uomini alle cose ultramondane, e la religione dei romani, esaltata perché incita alla gloria terrena, favorendo la coesione civica e il compimento di azioni valorose in guerra (II, 2). Su quella scorta Machiavelli suggerisce 19 Sviluppo le decisive intuizioni di K.A. Vogel, Cultural Variety in a Renaissance Perspective: Johannes Boemus on «The Manners, Laws and Customs of All People» (1520), in Shifting Cultures: Interaction and Discourse in the Expansion of Europe, a cura di H. Bugge e J.-P. Rubiés, Lit, Münster 1995, pp. 17-34. 20 Cfr. C. Ginzburg, Machiavelli e gli antiquari, in Per Adriano Prosperi, vol. II, L’Europa divisa e i nuovi mondi, a cura di M. Donattini, G. Marcocci e S. Pastore, Edizioni della Normale, Pisa 2011, pp. 3-8; L. Biasiori, Comparaison comme estrangement. Machiavel, les modernes, les sauvages, in «Essais. Revue interdisciplinaire d’humanités», hors série (2013), pp. 151-169.

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una sostanziale continuità fra gli antichi romani e i moderni turchi (I, 19 e 30). Si poteva così ricavarne che anche questi ultimi erano superiori ai cristiani, una conclusione scandalosa che suscitò prontamente le repliche di umanisti iberici come Juan Ginés de Sepúlveda (1535) e Jerónimo Osório (1542)21. Intorno al 1520, dunque, nel cuore del Rinascimento, si registrava da Firenze a Ulm una tendenza embrionale alla comparazione dei costumi dei popoli che derivava da un abbandono del senso di superiorità della fede cristiana e degli europei che la esportavano nel mondo. 3. I filosofi antichi e gli etiopi Seppure non isolata, la posizione di Böhm era tuttavia rara. Nel suo trattato l’elemento della varietà dei «costumi» e delle «arti buone» è introdotto sin dalla dedica, mentre nel prologo si entra subito nella materia, dopo aver elencato gli autori classici e umanistici (Marco Antonio Sabellico su tutti), le cui descrizioni erano finalmente compendiate ad uso dei lettori: «ho fatto un fascio tanto de gli costumi et usanze antiche come de le moderne, e così de le bone come de le cattive», scrive Böhm, «aciò che postiti inanzi, come in uno specchio, tutti questi essempi, ne l’ordinare de la vita tua havessi possuto imitare i buoni e fuggire i cattivi». All’immagine dello specchio dei costumi, ripresa anche da Lucio Fauno nell’edizione italiana, segue un lungo e suggestivo riassunto della storia umana fino al presente, «perché conoschi tu, lettor mio, e vedi quanto bene hoggi e felicemente si viva e quanto rozzamente si vivesse già dai primi huomini insino al diluvio universale e molti secoli dopo». Infatti, spiega Böhm, «andavano alhora le genti, a guisa di bestie disperse per la terra, senza sapere che cosa si fussero danari, ne mercantie, solamente cambiavano l’un con l’altro le cose necessarie a la vita, compensando l’un servitio con l’altro; anzi era tra loro ogni cosa comune». Era stato il principio di utilità, con l’andare del tempo, a spingere gli uomini a migliorare le loro capacità tecniche, «spoglian-

21 A. Prosperi, La religione, il potere, le élites. Incontri italo-spagnoli nell’età della Controriforma, in «Annuario dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea», XXIX-XXX (1977-1978), pp. 499-529.

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dosi loro istessi della loro barbara e fiera natura». Così, «cominciarono ad abstenersi da l’uccidere l’un l’altro, dal mangiare le carni humane, da le rapine e dal giugnersi carnalmente e senza differentia alcuna nel publico con le madri e con le figlie istesse e da l’altre simili sporche e nefande cose». Di chiara ispirazione classica, queste pagine ricordano da vicino le prime descrizioni dei nativi americani che circolavano allora in Europa. In ogni caso, sono tutto meno che una lettura in chiave religiosa della storia. È vero che, d’improvviso, nel prologo si evoca la venuta del «figliuolo di Iddio», seguita poi dall’entrata in scena del «maladetto Maumetto», arrivando a riconoscere l’opera di Satana dietro la «diversità di costumi» e la «superstitione maligna d’adorare molti iddij». Ma è solo una breve parentesi. Böhm, infatti, riprende a lodare la varietà dei popoli, fino alla conclusione del prologo, che dissolve ogni ombra di giudizio moralistico o religioso: «essendo di tanto piacere e di tanta utilità il conoscere diverse nationi e varij costumi», si argomenta in una velata allusione alle esplorazioni del tempo, «piacciati lettor soavissimo leggere e conoscere in questo libro i piu celebri e notabili costumi di tutti gli huomini e li luochi medesimamente dove habitano più famosi, il che farai tu forse (come spero) con non manco piacere e prontezza», e s’insinua come in una guida sensoriale alla lettura, «che s’io ti menasse per mano e ti facesse vedere con gli occhi paese per paese e ti mostrasse col dito tutte l’usanze antiche e nove di tutti gli huomini»22. Gli Omnium gentium mores offrono dunque un viaggio attraverso lo spazio e il tempo. In ogni caso, il loro ordine non è cronologico ma geografico. Solo in apparenza, però, esso si rifà alla visione del mondo tolemaica: deriva, infatti, da una sorprendente spiegazione di tipo storico. Il primo libro, dedicato all’Africa, si apre con due capitoli di carattere generale, che riguardano un tema biblico per eccellenza, «l’origine de l’huomo». Curiosamente, però, l’«openione theologica et vera» non s’impone affatto sull’«openione falsa ch’hebbero i gentili». Il racconto della creazione fino al diluvio universale, con cui inizia il primo capitolo, prosegue riproducendo lo schema delle false genealogie di Annio da Viterbo, con tanto di aperta citazione di Beroso, e presenta la separazione e disseminazione dei

22

Böhm, Gli costumi, le leggi, et l’usanze di tutte le genti cit., cc. [v]v-Aijv.

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popoli generati dalla stirpe di noachica: errori, diversità di lingue e rozzi costumi si sarebbero diffusi non per opera di Satana, come sostenuto nel breve inciso del prologo, ma a causa della progenie di Cam, che dopo aver disonorato Noè fuggì in Arabia, dove «non lasciò a suoi successori modo di sacrificare e di adorare Iddio, per non haverlo prima appreso et imparato dal padre»23. Interpretata la varietà culturale come decadenza derivata dall’ignoranza dei riti religiosi, Böhm non le fa seguire la descrizione dei costumi dei popoli del mondo, ma inserisce un secondo capitolo, in cui riporta le idee degli «antichi philosophi» sui primordi dell’umanità, esponendovi la teoria della generazione spontanea, basata sul principio della distinzione fra secco e umido: la vita si sarebbe creata da una materia calda e pregna di umori, accumulatasi dove la temperatura più elevata faceva salire verso l’alto le parti leggere e condensare in basso quelle gravi. Vi riprende, quindi, l’antropologia utilitarista del prologo per concludere che gli uomini, «mediante la necessità, ch’è maestra del vivere, conobbero l’uso di tutte le cose, tanto più che v’hebbero per l’aiuto i compagni, le mani, il parlare e l’eccellentia de l’ingegno»24. A una rapida adesione formale alla morale cristiana si contrappone dunque una visione della storia umana fondata sulle leggi di natura e su un pragmatismo dettato dal bisogno. Tale visione si trova alla base degli Omnium gentium mores. Lo conferma il rapporto dell’opera con il secondo capitolo, dove si precisa che gli «antichi philosophi» sostennero anche «che i primi huomini furono gli etiopi», «essendo la terra de l’Etiopia più che tutte l’altre vicina al Sole»25. Questa teoria giustifica l’intero ordine del trattato che, infatti, prosegue con il continente in cui, stando all’«openione falsa ch’hebbero i gentili», l’umanità ebbe origine: l’Africa. E il primo popolo descritto nell’opera sono proprio gli etiopi, avvalorando così ulteriormente la posizione degli «antichi philosophi»: «Si crede che questi fussero i primi di tutti gli huomini e che essi siano i veri habitatori di quel paese, senza haver

Ivi, cc. 3r-4v. Ivi, cc. 4v-6r. Un capitolo «strano» per il contrasto tra la qualifica «openione falsa» nel titolo e il mancato sforzo di «dimostrarne la falsità con argomenti razionali», secondo G. Gliozzi, Adamo e il Nuovo Mondo. La nascita dell’antropologia come ideologia coloniale dalle genealogie bibliche alle teorie razziali (1500-1700), La Nuova Italia, Firenze 1977, pp. 321-323. 25 Böhm, Gli costumi, le leggi, et l’usanze di tutte le genti cit., c. 6r. 23 24

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mai servito a niuno, per essere stati sempre ne la lor prima libertà». Dopo aver citato diversi autori classici, Böhm arriva a descrivere gli etiopi di «hoggi» sulla scia dell’umanista Sabellico. Da quest’ultimo riprende anche il ritratto del Prete Gianni, il mitico sovrano cristiano identificato con il «re de gli etiopi»26. Ma non era il presente a interessare Böhm. Il suo contributo più importante riguardava piuttosto le più remote origini. La teoria dei «primi huomini» nasceva dalla lettura incrociata di due autori classici e di un umanista italiano: la presenza degli etiopi in una spiegazione dell’origine della vita si trova già in Diodoro Siculo e soprattutto in Plinio il Vecchio, ma l’idea che si trattasse del popolo primigenio fu lanciata da Raffaele Maffei, autore (mai citato per nome da Böhm) di una delle ultime vecchie storie universali umanistiche, pubblicata agli inizi del Cinquecento27. L’eccezionale centralità attribuita all’Africa nella storia del mondo, tanto da farne il punto di partenza di una rassegna dei costumi di tutti i popoli, riflette il credito dato a una visione materialista dell’origine degli uomini che nulla ha a che fare con il racconto biblico della creazione. L’ambigua trattazione del cristianesimo negli Omnium gentium mores emerge con particolare evidenza nei due capitoli finali del secondo libro, dedicato all’Asia. Vi si descrivono, nell’ordine, i costumi dei turchi e quelli dei cristiani. Nel primo caso, Böhm presenta con distacco e rispetto le leggi e le istituzioni dei musulmani, dando prova di un apprezzamento della pluralità culturale tanto più sorprendente se si pensa che a scrivere è il membro di un ordine che affondava le sue radici nello spirito delle crociate. La sua apertura si ferma solo, com’era forse inevitabile, di fronte agli aspetti dottrinari dell’islam e alla sua espansione planetaria, estesa ormai alla «maggior parte de l’Europa e quasi tutta l’Africa e l’Asia maumettana»28. Questo non dissolve, tuttavia, la sensazione che le concessioni di Böhm alla «vera fede di Giesù Christo» siano poco più di un velo teso a dissimulare l’approccio di fondo dell’opera.

26 Ivi, cc. 7v-11r. Per le sue riprese cfr. M.A. Sabellico, Secunda pars Enneadum... ab inclinatione Romani Imperii usque ad annum 1504, Venetiis, per magistrum Bernardinum Vercellensem, 1504, cc. 170v-171r. 27 Cfr. G. Plinio Secondo, Naturalis Historia, 2, 80; Diodoro Siculo, Bibliotheca Historica, 3, 2, 1; R. Maffei, Commentariorum urbanorum libri, Romae, per Ioannem Besicken Alemanum, 1506, c. 167r. 28 Böhm, Gli costumi, le leggi, et l’usanze di tutte le genti cit., cc. 67r-74v.

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Il capitolo sui «christiani» sembra confermarlo. Era a dir poco sconcertante trattarli come un popolo fra gli altri, relegandoli peraltro in una posizione marginale, in fondo al catalogo dei costumi asiatici. Eppure, in coerenza con l’ordine espositivo adottato, Böhm riduce il cristianesimo a religione delle «contrade della Giudea» e dei suoi abitanti. Le sue pagine sembrano risentire della geografia delle fonti classiche sui cristiani, ma quel capitolo non è costruito sulla loro scorta. Si risolve piuttosto nell’asciutta narrazione della vita, morte e resurrezione di Cristo, seguita da una rassegna per argomenti delle principali tappe della storia della Chiesa come istituzione, della sua gerarchia, i suoi riti, le liturgie e gli articoli di fede, nonché le differenze di usi tra la Chiesa primitiva e quella moderna. L’assenza di afflati devoti è spia del tentativo di sottrarre la religione cristiana al suo carattere trascendente e universale per coglierne piuttosto la dimensione terrena29. Se quest’originale impostazione fu la condizione per una comparazione relativamente aperta fra i costumi dei popoli del mondo, fu a questi ultimi, e non alla trattazione del cristianesimo, che guardò la lunga schiera di ammiratori di Böhm, fino a Guaman Poma. Questi si sarebbe trovato a disagio a vedere tanto ridimensionato lo spazio accordato ai cristiani, ma avrebbe certo condiviso la conclusione del trattato, almeno nella sua versione originale. Vi si elogia la diversità culturale come un prodotto della «terra», senza alcun riferimento a Satana o a condanne religiose di costumi corrotti: «non ci dobbiamo meravigliare se hanno gli huomini havuto fra se non solo varia la via nel vivere, ma la natura ancho et i costumi, poi che i paesi stessi hanno avuto questa varietà», spiega Böhm con un parallelo che la dice lunga sull’originalità del suo sguardo, «perche si vede assai chiaro che una terra produce gli huomini bianchi, un’altra non così bianchi et alcuna foschi, alcuna del tutto bruciati o simili a molti fiori, come gli produce l’Assiria». La frase finale riassume il messaggio degli Omnium gentium mores: «questo fu il bellissimo ordine del grande Iddio, che come tutte l’altre cose, così nascessero ancho gli huomini di varia natura e di diverso animo e volto, e che si dovesse medesimamente ciascuno de la sua sorte datali restare contento»30.

29 30

Ivi, cc. 74v-88r. Ivi, c. 186r.

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Rassegna di abiti, istituzioni e riti senza eguali per assortimento di notizie e assenza di una gerarchia morale soverchiante, il trattato di Böhm non è comunque un «Yndiario», neppure accenna al Nuovo Mondo, e soprattutto non ha l’aspetto di una «coronaca». Poteva comunque essere ricondotto all’ambito delle «storie»: così fece nel 1611 Edward Aston, traduttore della prima edizione integrale in inglese, nel presentarla ai lettori, ricordandoci così quanto i confini del genere storiografico fossero mobili e incerti nel Rinascimento e quanto la tradizione di Erodoto ne fosse ancora parte integrante31. Tuttavia, proprio intorno alla complessa relazione degli Omnium gentium mores con lo scorrere del tempo ruotò un’accesa controversia, che alla metà del Cinquecento oppose due umanisti legati entrambi al magistero di Erasmo. 4. Lettori europei di Böhm Negli anni trenta, il raffinato portoghese Damião de Góis, vissuto a lungo tra Anversa e Lovanio, si appassionò alla vicenda dell’Etiopia, con cui la corona di Portogallo aveva allacciato contatti allo scopo di consolidare il suo impero nell’Oceano Indiano. Colpito dalla dura condanna del cristianesimo etiope da parte di teologi lusitani che ne avevano bollato dogmi e liturgie come eretici, ne difese l’ortodossia e sostenne l’esigenza di valorizzare la sostanza della loro fede in un trattato pubblicato a Lovanio nel 1540 con un titolo che si richiamava a quello di Böhm: Fides, religio moresque Aethiopum. Vi incluse anche la traduzione in latino di un memoriale scritto di suo pugno dall’arciprete etiope Saga za-Ab, costretto in stato di prigionia alla corte di Portogallo. La Fides incappò subito nelle maglie della censura portoghese, ma circolò liberamente nell’Europa centro-settentrionale32. Fra i suoi lettori vi fu, naturalmente, il matematico ed ebraista tedesco Sebastian Münster, luterano e professore all’Università di Basilea. Sempre nel 1540 quest’ultimo aveva dato 31 Id., The Manners, Lawes and Customes of All Nations, London, printed by George Eld, 1611, p. 3. 32 G. Marcocci, Prism of Empire: The Shifting Image of Ethiopia in Renaissance Portugal (1500-1570), in Portuguese Humanism and the Republic of Letters, a cura di M. Berbara e K.A.E. Enenkel, Brill, Leiden-Boston 2012, pp. 447-465.

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alle stampe la sua Geographia universalis, vetus et nova, una delle numerose riscritture rinascimentali di Tolomeo. Nella sezione sulla Spagna recupera l’ostile descrizione messa in circolazione in un’edizione lionese di Tolomeo del 1535, curata dal medico anti-trinitario di origine aragonese Miguel Servet. Fra i primi a reagire a quell’attacco vi fu Góis, che replicò a Münster con il trattatello Hispania (1542), invitandolo a scrivere solo dei costumi dei popoli che conosceva per esperienza diretta. Fu allora che il loro scontro s’intrecciò con la ricezione degli Omnium gentium mores e della Fides33. Dà uno speciale rilievo alla questione la celebre Cosmographia universalis di Münster, uscita in tedesco nel 1544 e nella definitiva edizione latina nel 1550. All’ispirazione del trattato di Böhm essa deve la struttura interna dei capitoli, ma anche «il tanto piacer nella cognizion delle terre, delle genti et delli costumi di quelle» che aveva spinto il suo autore a racchiudere «in questo libro» quanto il lettore avrebbe visto se solo avesse potuto viaggiare. Münster annovera Böhm tra coloro «che scrisser molte cose dallor non vedute, le quali hebber pur da huomini degni di fede». Su questo punto, però, non lo segue fino in fondo. Non ne condivide l’attenzione riservata agli autori classici. Mette così insieme Böhm e Góis, che aveva rinfacciato a Münster di scrivere di cose di cui non aveva esperienza diretta, in una sola critica che ruota intorno al fatto che «mutansi tutto di le città, le lettere, i costumi, i modi del viver degli huomini, et non son piu la Germania, et la Gallia quale Cesare ne le descrive». La presa d’atto che i costumi mutano nel tempo, come «le terre et forse anche la natura del terreno», fece della Cosmographia uno spartiacque per gli Omnium gentium mores, perché rese evidente che l’opera aveva necessità di essere aggiornata, facendo i conti con la sensibilità storica e le nuove conoscenze geografiche. Così, dopo aver lanciato i suoi strali su Góis, reo di aver taciuto le sue fonti nel trattato sui «costumi dell’indiani che dimorano sotto ’l Preo Ianni, nella regione de quali», commenta caustico Münster, «mai non fu, ne mai piu v’andra», questi conclude con un invito alla cautela. La descrizione della varietà dei costumi nello spazio e nel tempo è un esercizio di grande importanza ma è facile ingannarsi, specie riguardo all’anti-

33 M. McLean, The «Cosmographia» of Sebastian Münster: Describing the World in Reformation, Ashgate, Aldershot 2007, pp. 178-180.

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chità. Chi lo pratica, dunque, deve appoggiarsi «in sulla coniettura» e mai affermare qualcosa per certo «se non ove la verita appalesa manifestamente se stessa»34. Dopo quel dibattito, che gettò le basi per colmare la distanza che ancora separava il trattato di Böhm dalla letteratura storica e geografica sulle esplorazioni e i nuovi mondi colonizzati dagli imperi iberici, si verificò una graduale svolta nella ricezione degli Omnium gentium mores. Una traccia ci conduce a Voltaggio, piccola località sull’Appennino ligure dove aveva trovato rifugio Joseph ha-Kohen dopo il bando dalla città di Genova dei medici ebrei (1550). Discendente di sefarditi fuggiti dalla Spagna dopo il decreto di espulsione del 1492, fu un esponente di spicco del Rinascimento ebraico in Italia, famoso per la sua attività di storico. Nel 1554 pubblicò una storia universale incentrata sul conflitto tra cristiani e musulmani a cavallo tra l’Europa e l’Asia35. Quindi, nel 1558 ultimò una prima stesura di una cronaca annalistica in cui si racconta la storia degli ebrei come secolare successione di sofferenze fino alla cacciata dalla penisola iberica36. La peculiare posizione sulla religione cristiana di Böhm contribuì forse ad attirare l’attenzione di ha-Kohen verso il suo trattato. Ma la scelta di farne un riadattamento in ebraico intitolato Sefer maṣiv gebulot ’amim (Colui che stabilisce i confini delle nazioni), concluso nel 1555, risentì anzitutto di un interesse per la storia e la geografia dei nuovi mondi, forse non estraneo a tensioni messianiche37. Nella prefazione ha-Kohen dichiara la sua intenzione «di far conoscere ai discendenti del nostro popolo», tramite quell’opera, «cose che fino ad oggi non hanno udito, perché possano sapere qualcosa delle 34 S. Münster, Sei libri della Cosmografia Universale, Basilea, a spese di Henrigo Pietro Basiliense, 1558, cc. non numerate. 35 M. Jacobs, Joseph ha-Kohen, Paolo Giovio, and Sixteenth-Century Historiography, in Cultural Intermediaries: Jewish Intellectuals in Early Modern Italy, a cura di D.B. Ruderman e G. Veltri, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2004, pp. 67-85. 36 Per un inquadramento nel contesto della storiografia sefardita dopo la cacciata degli ebrei dalla Spagna cfr. Y.H. Yerushalmi, Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica (1982), Pratiche, Parma 1983, pp. 67-88. 37 N.J. Efron, Knowledge of Newly Discovered Lands among Jewish Communities of Europe (from 1492 to the Thirty Years’ War), in The Jews and the Expansion of Europe to the West, 1400-1800, a cura di P. Bernardini e N. Fiering, Berghahn Books, New York 2001, pp. 47-72.

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opere compiute da Dio quando si trovavano tra le nazioni». A quella traduzione, più simile a una riscrittura con integrazioni (fra l’altro, di un capitolo sulle isole del Mediterraneo), ha-Kohen aggiunse due anni dopo una versione in ebraico dell’Historia general de las Indias (1552) di Francisco López de Gómara (riuscì a procurarsi un’edizione dalla Spagna, nonostante il divieto di circolazione che colpiva la cronaca). Di quella futura iniziativa si colgono alcuni segnali già nelle pagine finali della traduzione di Böhm, dove si trovano notizie sulla scoperta dell’America e sulle successive conquiste di terre che Colombo non vide, «come tutti i paesi del Perù, dove si trova l’oro». L’aperta denuncia dell’avidità degli spagnoli si accompagna a una polemica descrizione dell’assoggettamento degli indios («mossero guerra contro quei popoli e li sottoposero a tributo») e ancor più dell’attività missionaria che portava a convertire degli «idolatri» dall’«oscurità alla nube e nebbia» del cristianesimo38. Già oltre mezzo secolo prima della Nueva corónica, dunque, gli Omnium gentium mores si prestavano a sostenere posizioni critiche verso l’impero spagnolo, nonostante la radicale differenza di prospettive tra l’ebreo sefardita ha-Kohen e l’indio quechua Guaman Poma. Da Voltaggio a Cadice, dovette intuire quel rischio anche Francisco de Támara, un maestro di retorica e grammatica con buoni contatti nell’Europa settentrionale. Quando si accinse a tradurre in castigliano gli Omnium gentium mores nel 1554, aveva già pubblicato volgarizzamenti di Erasmo (1549), Polidoro Vergilio (1550) e Johann Carion (1553), tutti autori che, per diverse ragioni, erano ormai sospetti all’Inquisizione spagnola39. Forse per guadagnarsi una patente di ortodossia Támara optò per un radicale ribaltamento del messaggio del trattato di Böhm, allineandone i contenuti alla retorica ufficiale della corona di Spagna. El libro de las costumbres de todas las gentes de mundo uscì nel 1556 ad Anversa per i tipi di Nutius, editore delle precedenti traduzioni di Támara. Si tratta di una riscrittura così estrema che persino il nome di Böhm vi è taciuto.

Esistono quattro manoscritti dell’opera, in cui alla traduzione di Böhm segue sempre quella di Gómara. Estratti della versione conservata alla Columbia University (New York) sono pubblicati in R.S. Weinberg, Yosef b. Yehoshua ha-Kohen ve-sifro «Ma iv gebulot ’amim», in «Sinai», LXXII (1973), pp. 333-364. 39 V. Pineda, El arte de traducir en el Renacimiento (la obra de Francisco de Támara), in «Criticón», LXXIII (1998), pp. 23-35. 38

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Il cambio di toni è netto sin dal «proemio» che sostituisce il prologo dell’originale, con cui tuttavia intrattiene un dialogo sottotraccia. Támara vi esprime un duro giudizio negativo sulla «tanta diversità di popoli così differenti, non solo nel colore e nelle sembianze, negli abiti e negli ornamenti, ma anche nei costumi e la maniera di vivere, i riti, le cerimonie, le leggi, gli statuti, gli ordinamenti, le sette e le loro forme di amministrazione e di governo». Aderendo a lessico e ossessioni della Spagna della Controriforma, lamenta lo scarso numero di coloro che nel mondo hanno «civiltà e ordine di vita ragionevole», per sottolineare poi «quanti meno siano coloro che seguono il vero cammino della salvezza, e quanto sia pieno il mondo di barbari infedeli, malvagi idolatri e uomini perversi». La varietà culturale e una comparazione dei costumi presentata con distacco e rispetto diventano così il bersaglio di Támara. Egli oppone loro il primato del cristianesimo come solo criterio per orientarsi sul piano morale e con esso la celebrazione della Spagna imperiale che, ai suoi occhi, incarna i valori più alti a cui un popolo possa pervenire. Ringrazia perciò la provvidenza per aver voluto «che fossimo del suo gregge e branco, facendoci cristiani e non infedeli; politici e non barbari; spagnoli e non mori, né turchi, sudici idolatri»40. Il rovesciamento della scala di valori si accompagna a un sovvertimento della struttura interna dell’originale. Se Támara conserva i due capitoli iniziali del primo libro con le opinioni sull’origine degli uomini, non dà alcun credito ai «gentili» (divenuti «infedeli» nella versione castigliana). In base a un ragionamento che non lascia spazio a dubbi, gli spagnoli diventano il primo popolo a essere descritto: iniziare dagli etiopi, come in Böhm, avrebbe significato, infatti, «seguire questi filosofi»; così, «per non far sembrare che accreditiamo le loro false opinioni», e considerato che «al primo posto in tutto il mondo quanto al modo di vivere, l’ordine e la ragione si trova ora la regione dell’Europa, e al suo interno la nostra Spagna è la parte più eccellente», conclude Támara, «ci è parso giusto seguire questo ordine e partire da essa». Nel capitolo consacrato alla Spagna si insiste sul fatto che vi si trovano riuniti insieme «tutti i buoni costumi distribuiti nel mondo e qualsiasi buona amministrazione e civiltà che

40 El libro de las costumbres de todas las gentes de mundo y de las Indias, Anvers, en casa de Martin Nucio, 1556, cc. 2v-5v.

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si dirà esservi nelle diverse parti del mondo», tanto «che è la regione nel mondo più felice e beata e in cui fiorisce e risplende in modo speciale il culto divino e l’onore di Dio è rispettato e la sua santa fede è più viva e senza macchia»41. Támara forse lesse Münster. In ogni caso, la trasformazione del trattato di Böhm dalla più aperta enciclopedia di costumi del Rinascimento a una serrata difesa della cattolica Spagna poggia sull’introduzione di un’attenzione alla cronologia assente nell’originale. Támara non si limitò a tradurre, correggere e riscrivere gli Omnium gentium mores; li attualizzò grazie a un costante confronto fra il passato e il presente, tracciando la via alle iniziative in parte analoghe di Francesco Sansovino nella Selva di varia lettione (1560) e François de Belleforest nell’Histoire universelle du monde (1570)42. Al mutato rapporto con la storia si collega anche l’altra grande novità del Libro de las costumbres: l’aggiunta di una Suma y breve relacion de todas las Indias in fondo al terzo e ultimo libro, dedicato ora all’Africa (mentre il primo è riservato all’Europa e il secondo sempre all’Asia, con un nuovo ordine interno, però, che eloquentemente vede il capitolo sui cristiani come primo anziché come ultimo). «Avendo parlato finora in quest’opera dei costumi di tutte le genti di cui si ha notizia e di cui gli autori hanno scritto dall’antichità fino al nostro tempo, mi sarebbe parso fuori di ragione», spiega Támara, «se non avessi scritto anche qualcosa sulle Indie e le terre recentemente trovate e scoperte dai nostri spagnoli, dal momento che per parlarne non mancano autori né testimoni che lo abbiano visto e vi siano stati». Si avverte in quelle parole la cultura dell’umanista avvezzo a leggere libri su scoperte e conquiste, ma anche lo sguardo privilegiato sulla mondializzazione iberica offerto dai porti dell’Andalusia, con il loro via vai di uomini, navi e merci in viaggio attraverso gli oceani: 41 Ivi, cc. 10rv e 19r. Rilevava una volontà di compiacere nel capitolo sulla Spagna già M. Bataillon, Érasme et l’Espagne, a cura di C. Amiel, 3 voll., Droz, Genève 1991, vol. I, p. 683. 42 Su Sansovino cfr. P. Cherchi, Polimatia di riuso. Mezzo secolo di plagio (15391589), Bulzoni, Roma 1998, pp. 222-223; per Belleforest e le accuse di plagio che gli furono rivolte cfr. J. Ceard, La nature et les prodiges. L’insolite au XVIe siècle, Droz, Genève 1996, pp. 279-282. Inoltre, una traduzione inglese del riadattamento di Támara, limitata ai primi due libri, uscì a Londra nel 1580 con il titolo A Discoverie of the Countries of Tartaria, Scithia and Cataia.

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«si dirà di tutte le Indie e terre che sono state trovate, scoperte e conquistate dalla gente di Spagna in tutto il Mare del Sud, del Nord e di Levante, cominciando dalle isole Canarie e da Santo Domingo, che fu l’inizio e l’ingresso di questa conquista», anticipa Támara, come passeggiando «per le province e regioni di Yucatan e della Nuova Spagna, con la conquista di Messico, e poi per la Castiglia d’Oro e la terra aurea del Perù e lo stretto di Magellano fino alle isole Molucche e lungo tutta la navigazione che fanno i portoghesi fino ad arrivare alla fine di tutto quello che si sa e che è scoperto su tutta la rotondità della terra»43. Ma l’allargamento degli spazi non corrisponde un diverso giudizio morale. Al centro resta la provvidenza che ha affidato all’impero spagnolo la conquista dell’America e dei suoi abitanti, gli indios, bollati come «barbari», benché si riconosca loro una graduale evoluzione dopo l’arrivo degli spagnoli. Del resto, tra le fonti di Támara si trovano i cronisti regi, in primo luogo Oviedo (ma forse non Cieza de Leon e Gómara, pure ristampati proprio da Nutius, ad Anversa, fra 1553 e 1554), e trapela il favore verso lo sfruttamento della manodopera indigena nel Nuovo Mondo. La Suma y breve relacion de todas las Indias contiene, infine, una lunga sezione sui portoghesi in Asia, in cui affiorano segni d’ammirazione, in particolare per la Cina e il Giappone. Il filo conduttore, tuttavia, è sempre quello della condanna della varietà culturale del mondo non cristiano, liquidato come una «Babilonia»44. 5. L’enigma dell’«Yndiario» di Guaman Poma Dalla Baviera scossa dai primi fermenti della Riforma luterana ai primi successi nelle grandi capitali umanistiche dell’Europa del Rinascimento (Lione, Friburgo, Anversa, Lovanio, Basilea), passando per Parigi, Venezia e Londra, dove uscirono le prime traduzioni in francese, italiano e inglese, fino all’oscuro lavoro di riscrittura in ebraico compiuto a Voltaggio da Joseph ha-Kohen, 43 El libro de las costumbres cit., c. 249v. Il titolo completo della sezione sulle Indie è Suma y breve relacion de todas las Indias y tierras nuevamente descubiertas por gente de España, assi por la parte de Poniente como de Levante, y de las costumbres y maneras de vivir de los Indios y moradores dellas. 44 Ivi, c. 349v.

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gli Omnium gentium mores confermavano la loro straordinaria malleabilità, saldandosi finalmente alla tradizione delle storie che accoglievano notizie e materiali provenienti dai nuovi mondi con cui gli europei erano recentemente entrati in contatto. La fiera intransigenza cattolica di Támara non avrebbe posto problemi a Guaman Poma. Considerate anche le restrizioni alla circolazione di opere a stampa nel Nuovo Mondo, l’ipotesi che il trattato di Böhm fosse letto in Perù nella riscrittura in castigliano di Támara, arricchita da una sezione sulle Indie, sembra la più ovvia. Eppure, l’«Yndiario» di «Bantiotonio» non è il Libro de las costumbres, per ragioni di natura formale – Guaman Poma cita il nome di Böhm, omesso nell’edizione spagnola –, ma soprattutto per questioni di contenuto – difficile conciliare la rivendicazione di una monarchia autoctona portata avanti nella Nueva corónica con l’esaltazione delle conquiste imperiali iberiche espressa nella Suma y breve relación de todas las Indias. Dunque, che versione usò Guaman Poma? Per rispondere si deve cercare ancora nella lunga serie di metamorfosi degli Omnium gentium mores, con un occhio però al contesto dei dibattiti peruviani sull’origine e il passato preispanico degli indios. Se il Libro de las costumbres fu l’unica edizione spagnola del trattato di Böhm, occorre anzitutto uscire dalle angustie di tradizioni letterarie modellate sulla centralità identitaria della lingua e accettare l’idea che gli Omnium gentium mores circolassero nell’America spagnola in una lingua diversa dal castigliano. Poiché nel capitolo sulle «coronache pasate» della Nueva corónica si evoca in modo esplicito la comparazione con i costumi degli «indios naturali di questo nuovo orbe», l’unica soluzione è che Guaman Poma faccia riferimento, consapevolmente o meno, all’edizione italiana del trattato di Böhm pubblicata a Venezia nel 1558 da Girolamo Giglio, che compose e aggiunse alla traduzione di Lucio Fauno un quarto libro sul Nuovo Mondo45. Si tratta di un compendio che si limita all’America, il «nuovo orbe» di Guaman Poma. In minima parte tiene conto anche della Suma y breve relación de todas las Indias, ma dipende soprattutto dal volgarizzamento italiano della cronaca di Gómara, eseguito dallo 45 H. Böhm, Gli costumi, le leggi et l’usanze di tutte le genti... aggiuntovi di nuovo gli costumi et l’usanze dell’Indie occidentali, overo Mondo Nuovo, da P. Gironimo Giglio, Venetia, appresso P. Gironimo Giglio, 1558.

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scrittore basco Agustín de Cravaliz e pubblicato a Roma tra 1555 e 1556. La genesi dell’edizione di Giglio rinvia al tentativo di rendere il libro competitivo sul mercato veneziano, segnato dalla recente comparsa del terzo volume delle Navigationi et viaggi (1556) di Ramusio, tutto dedicato al Nuovo Mondo ma uscito già vecchio per la mancata inclusione proprio di Gómara46. Il quarto libro di Giglio si prestava molto più della Suma di Támara a essere letto in America. Sottrae, infatti, gli indios a una netta condanna morale e religiosa, associando piuttosto alla descrizione dei loro costumi e della loro organizzazione sociale uno spiccato interesse per i dati fisici, i contorni delle coste e i nomi di luogo. Che almeno in Perù a circolare fosse l’edizione italiana di Giglio e non quella spagnola di Támara lo conferma non Guaman Poma, ma l’autore del passo che egli in realtà sta citando quando evoca il nome di Böhm. La cosa non deve sorprendere. Davvero un indio quechua all’inizio del Seicento, per quanto educato alle lettere castigliane, poteva affrontare un testo di centinaia di pagine in italiano, dandone un’interpretazione d’insieme che permettesse di rivendicare la pari dignità storica degli indios accanto agli altri popoli del mondo? Il passo su Böhm nella Nueva corónica è tratto, in realtà, da un altro autore. E questo ci rivela un aspetto decisivo del modo di lavorare di Guaman Poma: a contare per lui, più della lettura diretta di una fonte, è il significato che le si associa nella magra letteratura cui ebbe davvero accesso. È lo stesso Guaman Poma a metterci sulla strada giusta, indicando tra «i primi savi storici delle coronache pasate» il francescano Luis Jerónimo de Oré. Di qualche anno più giovane di Guaman Poma, Oré era un creolo, ossia un discendente di spagnoli nato in Perù, figlio di uno dei primi coloni di Huamanga. Cresciuto a contatto con gli indios al servizio della sua famiglia, Oré parlava le lingue quechua e aymara e servì spesso come interprete dopo essere entrato in convento. Divenne uno dei più importanti missionari nel 46 M. Donattini, Spazio e modernità. Libri, carte e isolari nell’età delle scoperte, Clueb, Bologna 2000, pp. 161-162. Di Giglio uscì, probabilmente postuma, una Nuova seconda selva di varia lettione (1565), in cui rielaborò una parte dei materiali del quarto libro aggiunto a Böhm, già plagiato da Sansovino nel 1560. Cfr. Cherchi, Polimatia di riuso cit., pp. 224-231; L.L. Westwater, «La nuova seconda selva» of Girolamo Giglio: A Case of «Riscrittura» in Mid-Sixteenth Century Venice, in Ricerche sulle selve rinascimentali, a cura di P. Cherchi, Angelo Longo, Ravenna 1999, pp. 43-81.

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mondo andino del tardo Cinquecento, predicando tra gli indios collagua, in un territorio compreso fra Cuzco e Arequipa. Con Guaman Poma condivise, fra l’altro, l’ammirazione per il mistico domenicano Luis de Granada, i cui scritti ispirarono a Oré la composizione di un popolare catechismo trilingue, il Symbolo catholico indiano (1598)47. Era l’opera di un uomo che avvertiva un forte legame con la terra in cui era nato e un profondo legame per il passato dei suoi abitanti originari. La lesse con attenzione Guaman Poma, che fu inevitabilmente attratto da un denso capitolo sulle origini e le «condizioni particolari» degli indios del Perù. Si apre con un plagio delle righe iniziali del prologo degli Omnium gentium mores, espunto da Támara ma non da Giglio, in cui si evoca l’oggetto del trattato («i costumi, i riti, le leggi, il sito dei luoghi, dove vivono tutte le nazioni del mondo») e se ne elencano le fonti classiche (Erodoto, Diodoro Siculo, Beroso, Strabone, Solino, Pompeo Trogo, Tolomeo, Plinio il Vecchio, Tacito, Dionigi di Alicarnasso, Pomponio Mela, Giulio Cesare e Flavio Giuseppe) e moderne (Vincent de Beauvais, Enea Silvio Piccolomini e Marco Antonio Sabellico, Johannes Nauclerus, Ambrogio Calepio e Niccolò Perotti). A questa lista Oré aggiunge due cronisti spagnoli del suo tempo, Gonçalo de Illescas e Juan de Pineda. Infine, in un gioco d’inganni teso a far credere ai lettori che il brano anteriore sia davvero suo, specifica che, almeno degli scrittori più antichi, «fece un compendio dottissimo, chiamato Indiario, Ioan Boemo, Aubano Teutonico». Qui inizia il passo ripreso alla lettera da Guaman Poma, con tutte le distorsioni di chi non padroneggia appieno una lingua e cita di seconda mano, senza aver visto l’originale. Oré riporta senza errori di grafia i nomi degli autori che Böhm avrebbe compendiato nel suo «Indiario», forse il titolo con cui era nota in Perù l’edizione di Giglio. Aggiunge poi che i cronisti spagnoli Gonzalo Fernández de Oviedo, Agustín de Zarate e Diego Fernández de Palencia sono «tacciati di mancanza di verifica in alcune cose che scrivono, di cui

N.D. Cook, Viviendo en las márgenes del imperio: Luis Jerónimo de Oré y la exploración del Otro, in «Historica», XXXII (2008), pp. 11-38. Una presentazione del Symbolo in E. García Ahumada, La catequesis renovadora de fray Luis Jerónimo de Oré (1554-1630), in X Simposio Internacional de Teología de la Universidad de Navarra, Servicio de Publicaciones de la Universidad de Navarra, Pamplona 1990, pp. 925-945. 47

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ora ci sono testimoni di vista e, da ultimo, il padre Ioseph de Acosta nei libri De natura novi orbis e De procuranda Indorum salute»48. Se il riferimento al gesuita Acosta può apparire scontato, poiché entrambe le sue opere, poi date alle stampe in Spagna nel 1588, furono redatte a Lima e vi abbondano i riferimenti agli indios del Perù, la presenza del suo nome accanto a quello di Böhm configura una speciale sensibilità di Oré per la comparazione dei costumi. Tuttavia, se Böhm e Acosta fecero entrambi ricorso a quel metodo contribuendo in modo decisivo alla sua diffusione, nelle pagine di Oré sono contrapposti l’uno all’altro. Citare il nome di Acosta in un capitolo sugli indios del Perù era sufficiente a evocare la tripartizione delle popolazioni non cristiane del mondo che aveva proposto nel prologo del De procuranda Indorum salute. Stabilendo una corrispondenza tra grado di cultura e organizzazione sociale da un lato e predisposizione ad accogliere il Vangelo dall’altro, aveva suddiviso i «barbari» non europei in tre classi49. Gli indios del Perù erano inseriti nella seconda classe, con alcune altre popolazioni americane, e non nella prima, accanto a cinesi, giapponesi e la maggior parte degli asiatici: la ragione era che, pur abitando in città e usando i quipu, non avevano un sistema politico avanzato e non usavano la scrittura. Oré, però, non era convinto da quella gerarchia. Così, invocando il «parere di uomini dotti» e ricordando di aver più volte compiuto egli stesso quella «comparazione», replica ad Acosta con una «sentenza come quella che scrivo ora in favore degli indios, che sembrerà così nuova a chi non è esperto di storie»: «dopo le nobili nazioni d’Europa, ossia gli spagnoli, i francesi, gli italiani, i fiamminghi e i tedeschi e altre che con il battesimo ricevettero l’ordine politico del vivere», scrive, «dopo i greci e alcune nazioni africane, posso dire che la nazione degli indios peruviani, di quelli di Cile, Tucuman, Paraguay, del nuovo regno di Granada, e del Messico, è una delle più nobili, onorate e pure che vi sono in tutto l’universo mondo». Questa critica alla tripartizione di Acosta poggia proprio su Böhm. Lo mostra un lungo catalogo di popoli del mondo, ripro48 L.J. de Oré, Symbolo catholico indiano, Lima, por Antonio Ricardo, 1598, c. 37rv. 49 A. Pagden, La caduta dell’uomo naturale. L’indiano d’America e le origini dell’etnologia comparata (1982), Einaudi, Torino 1989, pp. 190-255.

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dotto subito dopo da Oré secondo l’esatto ordine dei capitoli della versione originale degli Omnium gentium mores, stravolto da Támara ma rispettato da Giglio: «chi ne avrà letto i costumi e la vita», commenta, «vedrà che vi sono molti popoli assai superiori agli indios in intelletto, civiltà, mondezza dei costumi, osservanza delle leggi, colore e statura dei corpi e in altre cose», ma anche «altrettante nazioni che sono uguali e buone come la nazione degli indios, e altre che essa eccede e supera tanto e più di quanto facciano gli spagnoli rispetto agli indios»; queste ultime, glossa con parole eloquenti, «si sarebbero fregiate di aver avuto come principi e re gli inca legislatori di questo regno, che per loro e il loro disordine, la loro rusticità e assenza di civiltà sarebbero stati come Solone per gli ateniesi». Un passo straordinario, che rivela come l’espressione «indios peruviani» usata poche righe sopra vada intesa solo in rapporto all’età incaica. Oré, infatti, si getta poi in considerazioni sulla difficoltà di trovare notizie affidabili sui tempi più remoti rivolgendosi alla memoria indigena e ai quipu, riassumendo infine quattro «favole» diffuse «in diverse province», cui riconosce un lontano fondamento di verità, andato tuttavia perso con il trascorrere del tempo50. Guaman Poma dovette nutrire qualche perplessità circa l’ammirazione di Oré esclusivamente per gli inca, ma questo non gli impedì di cogliere le possibilità aperte dalla comparazione dei costumi di Böhm per la Nueva corónica. Per quanto derivato da altro autore, infatti, il riferimento all’«Yndiario» di «Bantiotonio» gli permette non solo di respingere la tripartizione di Acosta che in fondo giustificava la conquista del Perù da una prospettiva missionaria, ma soprattutto di restituire piena legittimità ai racconti orali degli indios su cui si appoggia per offrire una versione alternativa del passato non solo recente ma anche remoto del Perù. Il punto decisivo, infatti, è che i nativi delle Ande esprimono da sempre una cultura degna di essere posta sullo stesso piano di quella degli altri popoli e questo è garanzia che le storie sulle età preincaiche raccolte dalla bocca di indios che inca non erano sono vere. Guaman Poma piega l’immagine di Böhm ricavata da Oré a questi obiettivi. Perciò, lo cita alla lettera fino alle critiche rivolte ai

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Oré, Symbolo cit., cc. 37v-38r.

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cronisti spagnoli, ma poi, anziché proseguire con il passo su Acosta, elenca direttamente i «testimoni di vista» che permettono di correggere le notizie compendiate da «Bantiotonio». Quei «signori, principi e principali le cui vite durarono più di duecento anni di tempo» sono le fonti più autorevoli della Nueva corónica e, in nome del diritto alla varietà culturale sancito da Böhm, vengono ad essere considerate al pari delle opere scritte dagli autori spagnoli. Il primo informatore ricordato, naturalmente, è «Don Martín de Ayala», che «mangiò con Topa Ynga Ypanqui, Guyana Capac Ynga, Tupa Cuci Guascar Ynga». Metterne in evidenza la familiarità con gli ultimi imperatori inca mira a mostrare a Filippo III la totale attendibilità delle testimonianze storiche degli indios non inca, nel frattempo divenuti suoi sudditi. Anzitutto, suo padre che «morì in tempo di cristiano, servendo molti anni Sua Maestà in tutte le battaglie come signore e principe. E poi servì Dio nella sua santa casa dell’ospedale trent’anni. E terminò la sua vita molto vecchio con cento e cinquanta anni di età, testimone di vista della storia». Identica qualifica è attribuita ad altri sette anziani indios di età compresa fra i duecento e i settant’anni, tutti a capo delle rispettive comunità51. Il ricordo degli uomini «che mangiarono con gli inga» significativamente precede l’enumerazione degli autori spagnoli e delle loro opere scritte, che si apre con Acosta. Dal cuore delle Ande, grazie alla proiezione indietro nel tempo del modello comparativo di Böhm, si levava così una voce in favore di tutti gli indios del Perù, del loro passato, anche quello preincaico, e della loro capacità di raccontarne la storia. Così, il capitolo sulle «coronache pasate» si chiude proprio con l’orgogliosa rivendicazione del passato andino, benedetto dalla fede in Cristo: «noi indios siamo cristiani per la redimzione di Gesucristo e di sua madre benedetta Santa Maria, patrona di questo regno, e per gli apostoli di Gesucristo, San Bartolomeo e Santiago maggiore, e per la santa croce di Gesucristo, che arrivarono in questo regno prima degli spagnoli». Guaman Poma torna quindi a citare alla lettera Oré, ripartendo proprio dal passo in cui questi prende le distanze da Acosta. Ne altera però il finale, scrivendo che la «sentenza» che ricava dalla «comparazione» tra gli indios e gli altri popoli del mondo è «in favore e servizio di Dio e di Sua Maestà e bene dei

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El primer nueva corónica cit., pp. 1088-1089.

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poveri indios e per l’aumento e la conservazione loro e degli antiquisimi indios infedeli dalle acque del diluvio e moltiplicazione di Noè, dal primo indio che Dio piantò in questo mondo nuovo delle Indie». Come a ricordare l’intreccio unico di passati e di culture su cui si reggeva la sua storia del mondo, Guaman Poma ricapitola quindi, in castigliano, le vicende delle cinque generazioni degli indios, dall’età dei Vari Viracocha Runa fino all’ultimo inca, continuando poi, ora in lingua quechua, con un elenco commentato dei sovrani spagnoli e dei loro rappresentanti in Perù, in cui Francisco Pizarro e Diego de Almagro, al pari di giudici, presidenti e viceré che si erano succeduti sotto Carlo V, Filippo II e Filippo III, sono presentati come semplici inviati e ambasciatori della corona, come a ribadire l’idea che non vi era stata alcuna conquista militare. Da quella visionaria rilettura storica si passa infine a una confessione personale, intima e dolorosa, dell’estrema «fatica» compiuta da Guaman Poma per completare la Nueva corónica. Imperniata sul parallelo tra indios e spagnoli legittimato dalla possibilità di comparare i costumi diversi e dal rispetto della varietà culturale alla base del trattato di un umanista e cappellano di Ulm, citato in un’edizione italiana accresciuta che pure Guaman Poma non lesse mai, la sua originale cronaca era il frutto di un lungo e drammatico confronto con le culture andine prive di una tradizione scritta. Per raccogliere informazioni e redigerla erano stati necessari viaggi impervi, in condizioni di estrema povertà, a volte senza neppure «un grano di mais» da mangiare, altre volte sfuggendo agli «assalitori». «Questa fatica si dà a Dio e a Sua Maestà per il rimedio e serbizio nel mondo a Dio»: gli spiragli aperti dalla comparazione nel Rinascimento potevano trasformare una storia del mondo nella rivendicazione di giustizia e dignità da parte di un vinto52. Ma quella speranza rimase sepolta sotto la polvere che si sarebbe accumulata per secoli sulle carte del manoscritto cui Guaman Poma l’aveva affidata. 52

Ivi, pp. 1090-1091.

V STORIE DI SUCCESSO: POLIGRAFI VENEZIANI AL SERVIZIO DEL GRANDE PUBBLICO

1. Libri da vendere: le Historie del mondo di Tarcagnota Ricucire fra loro i passati di popolazioni e culture che per la prima volta entravano in contatto, o avevano rapporti stabili, ma spesso tutt’altro che pacifici, fu un’esigenza diffusa nell’età delle esplorazioni. Forme del racconto già elaborate nell’Europa del Rinascimento furono riprese per adattarvi frammenti di informazioni e materiali delle più varie origini. S’inaugurò così una tradizione di storie del mondo che non si limitavano ad aggiungere brevi sezioni alle vecchie storie universali medievali e umanistiche, caratterizzate da una netta distinzione fra la parabola della storia greco-romana e giudaico-cristiana da un lato e il resto del mondo dall’altro. Dal Messico al Perù passando per Lisbona e le isole Molucche, emersero nuovi modi di scrivere la storia, frutto di singolari incontri fra i modelli sottesi a opere o trattati recenti, come le Antiquitates di Annio da Viterbo, le Navigationi et viaggi di Ramusio o gli Omnium gentium mores di Hans Böhm, e le esigenze poste da specifici contesti o condizioni di vita in cui si trovarono a scrivere gli autori ai quali proprio quelle opere o quei trattati permisero di pensare il mondo come un oggetto unitario e di raccontarne la storia. Un modello diffusionista che poggiava su genealogie inventate rese possibile al francescano Motolinía immaginare le antichità dell’America precolombiana secondo lo schema impiegato per le epoche precedenti all’età dei greci e dei romani. La visione della storia uma-

V. Storie di successo

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na come mobilità costante di uomini e merci consentì al portoghese Galvão di ribaltare la prospettiva degli imperi iberici, facendone gli ultimi di una lunga sequela di poteri che avevano già colonizzato il mondo prima di loro, dall’antica Cina in avanti. L’idea che tutte le tradizioni culturali avessero una dignità e potessero essere messe su un unico piano per essere poi comparate fu recuperata in direzioni opposte: dal ribaltamento dell’umanista spagnolo Támara, per riaffermare che al centro della storia vi erano il cristianesimo e gli spagnoli che contribuivano alla sua propagazione nel mondo, alla riappropriazione dell’indio Guaman Poma, per rivendicare con orgoglio la grandezza del passato andino cancellato da violenti conquistatori che pretendevano di agire proprio in nome della fede in Cristo. Dietro a una storia del mondo potevano celarsi diversi obiettivi: rendere decifrabili ai lettori europei tracce e memorie di società ormai scomparse; ridefinire l’immagine degli equilibri mondiali sul lungo periodo, con uno sforzo in cui si confondevano esperienze e delusioni individuali, o sofferenze inflitte a popolazioni sconfitte e assoggettate a nuovi dominatori. Prima che, tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, il conflitto religioso consolidasse le frontiere erette tra cattolici e protestanti, mentre le potenze imperiali europee in competizione sottoponevano le scritture storiche a controlli sempre più severi, per trasformarle in un’arma al loro servizio, le storie del mondo rivelarono tutta la loro creatività. Accanto ai tentativi più sperimentali di Motolinía, Galvão o Guaman Poma emerse un’altra variante, in apparenza meno complessa e preoccupata dal problema di connettere fra loro passati distinti e distanti per millenni. Il successo delle storie del mondo scritte per il grande pubblico nell’Europa del Rinascimento dimostra come l’interesse per questa nuova letteratura, in cui si rifletteva una percezione dei cambiamenti introdotti dalla mondializzazione iberica, fosse tutt’altro che circoscritto. Così, se molti dei suoi esempi più originali restarono allo stadio di manoscritti o furono stampati in edizioni di poco pregio e diffusione limitata, vi fu invece un tipo di storie del mondo più divulgativo che affollò il mercato dei libri di maggior consumo nella seconda metà del Cinquecento. Quei volumi in lingua volgare furono spesso progettati a tavolino nelle botteghe di tipografi impegnati a comporre cataloghi capaci di incontrare i gusti in continua evoluzione di lettori abituati a una circolazione di notizie sempre più intensa, che favoriva l’allargamento

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di orizzonti spaziali del loro tempo, con tutto il carico di meraviglia e inquietudine che recava con sé1. A chi entrava in una libreria di una grande città europea poteva capitare allora di imbattersi in una vasta offerta di queste storie del mondo di autori oggi per lo più dimenticati, scritte compilando informazioni di seconda mano, estratte generalmente da volgarizzamenti di opere greche e latine, da vecchie storie universali, da cronache di città o di monarchie, ma anche da relazioni di viaggio e resoconti di vario genere, freschi di stampa quando non addirittura inediti. In un primo momento quelle opere, più o meno riuscite, si misurarono con l’intera durata della storia umana, ma la fame di novità dei lettori le spinse a inseguire sempre più il presente, trasformandosi in rapide sistemazioni degli eventi principali avvenuti nel mondo negli anni precedenti alla pubblicazione. Se è difficile considerarle ricostruzioni meditate e attendibili, la celerità con cui erano messe sul mercato le rese un prodotto che, accanto alle notizie propagate da «avvisi» e fogli volanti e alle conversazioni scambiate in piazza o nei retrobottega, contribuì alla nascita di una forma pur embrionale di opinione pubblica che si registrava allora nei maggiori centri urbani2. Non sorprende che un prodotto così legato al mercato dei libri, ma anche alle novità e alla possibilità di raccontarle e commentarle, abbia visto la luce a Venezia, uno dei grandi centri dell’editoria europea del tempo e un luogo di raccolta di voci e informazioni, posto all’incrocio fra il bacino mediterraneo, il mondo germanico e la penisola balcanica. Il coinvolgimento dei suoi mercanti nei traffici a lunga distanza e il fatto che, al contempo, la città non fosse soggetta a un potere con possedimenti imperiali oltre oceano, ma guidasse una repubblica marittima ormai priva di risorse sufficienti per proiettarsi oltre l’Adriatico e il Mediterraneo orientale, agevolavano la circolazione e pubblicazione di scritture, mappe e notizie sui nuovi mondi3. 1 A. Pettegree, L’invenzione delle notizie. Come il mondo arrivò a conoscersi (2014), Einaudi, Torino 2015. 2 M. Infelise, Prima dei giornali. Alle origini della pubblica informazione (secoli XVI e XVII), Laterza, Roma-Bari 2002. 3 Gli studi si concentrano soprattutto sull’America. Cfr. F. Ambrosini, Paesi e mari ignoti. America e colonialismo europeo nella cultura veneziana (secoli XVIXVII), Deputazione di storia patria per le Venezie, Venezia 1982; e i due volumi a cura di A. Caracciolo Aricò, L’impatto della scoperta dell’America nella cultura veneziana, Bulzoni, Roma 1990, e Il letterato tra miti e realtà del Nuovo Mondo: Venezia, il mondo iberico e l’Italia, Bulzoni, Roma 1994.

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A inaugurare un nuovo filone di opere storiche furono le Historie del mondo pubblicate nel 1562 a Venezia da Michele Tramezzino. Ideatore e autore delle prime due parti di questo monumentale compendio in più volumi fu Giovanni Tarcagnota. Figlio di greci della Morea emigrati a Gaeta per sfuggire all’avanzata dell’impero ottomano, Tarcagnota era nipote di un famoso poeta, Michele Marullo. Il composito profilo di Tarcagnota, un umanista con la passione per le antichità e un attivo traduttore, è reso ancor più intrigante dal suo ricorso frequente a pseudonimi di fantasia, come Lucio Fauno e Lucio Mauro, ma anche al nome del grande architetto rinascimentale Andrea Palladio4. La figura di Tarcagnota incarna l’intreccio di interessi per l’antiquaria, la storiografia e i paesi remoti che distinse alcuni dei più affermati stampatori veneziani. La scelta delle botteghe con cui collaborò dipese dagli incontri e dai conflitti che lo accompagnarono durante la sua vita. Per i tipi dei fratelli Tramezzino, che erano attivi anche a Roma e, alla metà del Cinquecento, esibivano un ricco catalogo in cui abbondavano le edizioni di opere letterarie, storiche e giuridiche, Tarcagnota pubblicò tutti i suoi primi lavori: fra gli altri, il fortunatissimo trattato di topografia Delle antichità di Roma (1548), e prima ancora i volgarizzamenti dei maggiori scritti di Flavio Biondo, dall’Italia illustrata (1542) alle Historie (1543), del trattato sui costumi dei popoli del mondo di Böhm (1542), ma anche di scritti di Plutarco, Svetonio, Galeno e Marsilio Ficino5. In seguito, passò a pubblicare i suoi volumi presso Giordano Ziletti: in particolare, le traduzioni dal castigliano della Selva di varia lettione di Pedro Mexía (1556) e soprattutto della seconda parte dell’Historia general de las Indias di Francisco López de Gómara (1566): quest’ultima uscì come «terza parte» di una serie, perché si affiancò, nel catalogo di Ziletti, a due precedenti volumi (1557) corrispondenti alla prima parte delle cronache, rispettivamente, di Pedro Cieza de León e dello stesso Gómara (peraltro, ne circolavano già altri volgarizzamenti ed edizioni, apparsi tra Roma e Venezia dalla metà degli anni cinquanta in avanti)6.

4 Seguo qui e oltre G. Tallini, Nuove coordinate biografiche per Giovanni Tarcagnota da Gaeta (1508-1566), in «Italianistica», XLII (2013), pp. 105-125. 5 Id., Tradizione familiare e politiche editoriali nella produzione a stampa dei Tramezino editori a Venezia (1536-1592), in «Studi Veneziani», LX (2010), pp. 53-78. 6 Agustín de Cravaliz eseguì l’unica traduzione esistente di Cieza de León e il

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Tarcagnota interruppe i rapporti con i Tramezzino nella seconda metà degli anni quaranta, forse a causa di contrasti e rivalità interne ai collaboratori della stamperia. Si chiuse così un sodalizio recente ma intenso, che risaliva al 1542, quando Tarcagnota si era stabilito a Venezia, entrando subito a far parte del gruppo di letterati che frequentavano la bottega dei Tramezzino e intervenivano a vario titolo nella loro impresa editoriale, da Paolo Manuzio, figlio del celebre Aldo, al dragomanno Michele Membré, fino a Onofrio Panvino, Antonio Massa, Bartolomeo Dionigi da Fano, Mambrino Roseo da Fabriano, Donato Giannotti e Francesco Venturi. Grazie a quel canale Tarcagnota aveva avuto accesso alle accademie veneziane e, in particolare, alle riunioni serali in casa di Domenico Venier: si ascoltavano componimenti musicali e letterari e vi prendevano parte, fra gli altri, Pietro Aretino, Pietro Bembo, Ludovico Dolce e il pittore Tiziano Vecellio. Il passaggio di Tarcagnota a Venezia era stato mediato dai suoi precedenti rapporti con i circoli di letterati, architetti e antiquari che, negli anni del pontificato di Paolo III (1535-1549), si riunivano a Roma intorno ai rampolli della famiglia Farnese, alla quale i Tramezzino erano legati. Era stato Galeazzo Florimonte a introdurre in quegli ambienti Tarcagnota, entrato al suo servizio ventenne, nel 1538, quando il futuro vescovo di Aquino era ancora in contatto, tramite Marcantonio Flaminio, con l’ambiente ereticale dei riformatori napoletani segnato dal magistero spirituale di Juan de Valdés7. Tarcagnota avrebbe lasciato Venezia già nel 1548, tornando a stabilirsi a Roma, dove riprese a frequentare i circoli farnesiani e, in particolare, l’Accademia Vitruviana. Nei primi anni cinquanta si muoveva tra Roma, la natia Gaeta e Napoli. Qui risiedeva quando

primo volgarizzamento completo di Gómara, usciti a Roma tra 1555 e 1556 per i tipi dei fratelli Dorici. Non è dimostrabile l’attribuzione a Lucio Mauro della versione della prima parte della cronaca di Gómara pubblicata nel 1557 da Andrea Arrivabene e subito ristampata da Ziletti, sostenuta invece da D. Ferro, Traduzioni di opere spagnole sulla scoperta dell’America nell’editoria veneziana del Cinquecento, in L’impatto della scoperta americana cit., p. 100. Per un quadro delle fonti di informazione sul Nuovo Mondo nell’Italia del tempo cfr. R. Romeo, Le scoperte americane nella coscienza italiana del Cinquecento (1954), Laterza, Roma-Bari 19893, pp. 65-74. 7 Sulla figura di Florimonte cfr. la voce che gli dedica F. Pignatti in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1960-, vol. XLVIII, pp. 354-356. Per un quadro generale cfr. M. Firpo, Juan de Valdés e la Riforma nell’Italia del Cinquecento, Laterza, Roma-Bari 2016.

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uscirono le sue Historie del mondo. Si era, infatti, legato al segretario di stato del viceregno Juan de Soto, cui va probabilmente ricondotto l’impegno nei volgarizzamenti di Mexía e Gómara. Il profilo di un letterato prolifico e versatile come Tarcagnota fu tutt’altro che inconsueto nel Rinascimento. Fu anzi un esponente tipico del mondo variegato e affascinante dei poligrafi, come si è soliti indicare gli autori di opere in volgare costruite in larga misura sul riuso, la riscrittura o la riduzione di passi e testi altrui, e destinate a soddisfare la domanda non della ristretta élite dei lettori eruditi, ma del pubblico più esteso dei ceti agiati rappresentati da ufficiali, uomini di legge, medici, speziali, mercanti, che leggevano per diletto, per desiderio d’informazione o per edificazione personale. Le continue ristampe e nuove edizioni aggiornate dei volumi prodotti dai poligrafi attestano la grande popolarità di questa letteratura dagli argomenti più svariati, che non mancò di annoverare originali sillogi in grado di condensare una pluralità di messaggi e significati. Fu il caso dell’Alcorano di Macometto, pubblicato a Venezia da Andrea Arrivabene nel 1547, il quale, oltre a contenere il primo volgarizzamento del Corano, eseguito su una precedente versione latina da Giovanni Battista Castrodardo, espresse le aspirazioni di un’alleanza tra la Francia e l’impero ottomano in chiave anti-asburgica diffuse in ambienti veneziani percorsi da fermenti ereticali8. Professionisti della scrittura, tra i maggiori poligrafi attivi a Venezia alla metà del Cinquecento intorno ai principali tipografi figurano nomi come Anton Francesco Doni, Niccolò Franco, Ortensio Lando, oltre ai già ricordati Aretino e Dolce. I loro scritti permettono di esplorare aspetti sfuggenti della sensibilità dell’epoca, individuando precise modalità di produzione e di fruizione della letteratura di consumo9. I libri di storia, variamente intesa, occuparono un posto di primo 8 P.M. Tommasino, L’Alcorano di Macometto. Storia di un libro del Cinquecento europeo, il Mulino, Bologna 2013. 9 P. Grendler, Critics of the Italian World, 1530-1560: Anton Francesco Doni, Nicolò Franco & Ortensio Lando, The University of Wisconsin Press, MadisonLondon 1969; A. Quondam, La letteratura in tipografia, in Letteratura italiana, a cura di A. Asor Rosa, 17 voll., Einaudi, Torino 1982-2000, vol. II, pp. 555-686; C. Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel Cinquecento, Bulzoni, Roma 1988; P. Procaccioli, Nota introduttiva (alla sezione «I poligrafi»), in Dissonanze concordi. Temi, questioni e personaggi intorno ad Anton Francesco Doni, a cura di G. Rizzarelli, il Mulino, Bologna 2013, pp. 217-227.

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piano in questa letteratura10. Così, in un clima segnato dall’uscita della raccolta di Ramusio e dai volgarizzamenti di numerose cronache e opere di storia e geografia sui mondi non europei, fu da una vivace bottega tipografica veneziana, attenta alle evoluzioni delle correnti letterarie e agli orientamenti del mercato editoriale, che uscì la nuova proposta rappresentata dalle storie del mondo. L’iniziativa di Michele Tramezzino s’inserì nel contesto di forte sperimentalismo che accompagnò altri tentativi coevi. Fu il caso dei tre volumi delle Lettere di principi, pubblicati da Ziletti fra 1562 e 1577, che segnarono la trasformazione di un epistolario in un’opera di storia capace di andare oltre i confini dell’Europa. Curatore del primo volume fu il poligrafo Girolamo Ruscelli, che già in passato aveva aggiornato raccolte simili con materiale geografico inedito11. La selezione delle lettere in base all’argomento non mirava più a proporre modelli di buona prosa epistolare, bensì, come spiega lo stesso Ruscelli, a offrire documenti utili per «scriver d’historie di questi tempi»12. La raccolta delle Lettere di principi copre il periodo che va dalla seconda metà del Quattrocento alla metà del Cinquecento. Presta attenzione soprattutto alla storia recente della penisola italiana, segnata da guerre e invasioni. Ma come la Storia d’Italia di Francesco Guicciardini, la cui prima edizione era appena uscita nel 1561, dirige lo sguardo anche ai grandi cambiamenti avvenuti in quel periodo nei rapporti tra l’Europa e il mondo, che avevano pur sempre una «qualche connessità con le cose italiane»13. In particolare, il volume curato da Ruscelli dà spazio in prevalenza a fonti relative alle potenze islamiche che incidevano sugli equilibri politici mediterranei, come gli stati nordafricani, l’impero ottomano e quello safavide in Persia, ma non mancano lettere sull’America, come quella, famosa, inviata dal cronista spagnolo Gonzalo Fernández de Oviedo a Bembo, ormai cardinale, nel 1543, peraltro già inclusa da Giovanni Battista

10 P. Cherchi, Polimatia di riuso. Mezzo secolo di plagio (1539-1589), Bulzoni, Roma 1998, pp. 186-188. 11 L. Braida, Libri di lettere. Le raccolte epistolari del Cinquecento tra inquietudini religiose e «buon volgare», Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 155-158. 12 Ead., Ruscelli e le «Lettere di principi»: da libro di lettere a libro di storia, in Girolamo Ruscelli. Dall’accademia alla corte alla tipografia, a cura di P. Marini e P. Procaccioli, 2 voll., Vecchiarelli, Manziana (Roma) 2012, vol. II, pp. 605-634. 13 F. Guicciardini, Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, 3 voll., Einaudi, Torino 1971, vol. I, p. 589.

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Ramusio nel terzo volume delle Navigationi et viaggi (1556). L’operazione editoriale di Ruscelli risentiva dell’attrazione per la centralità che sempre più stava acquistando la corrispondenza come forma di comunicazione. Lo conferma un avvertimento dello stampatore Ziletti che richiama l’attenzione dei lettori sul «modo che tengono» gli autori delle lettere «a scriversi fra loro». Vi si esprime la convinzione che proprio le lettere fossero ormai una fonte privilegiata «per la cognition delle historie che si trovan in esso, molto per aventura, più vere et più chiare che non sono nel Giovio, nel Guicciardino et in altri molti scrittori de tempi nostri»14. Le parole finali avevano l’obiettivo di rendere più appetibile il volume, secondo una strategia mirata a contendere una fetta di mercato alle più recenti opere storiche. Vedremo come proprio le Historiae sui temporis (1550-1552) dell’umanista Paolo Giovio, subito tradotte in italiano da Ludovico Domenichi (1551-1553), nonché oggetto di numerose ristampe, abbiano costituito un probabile stimolo all’impresa avviata da Tarcagnota. Le Historie del mondo, come detto, uscirono dai torchi di Michele Tramezzino nel 1562, lo stesso anno del volume delle Lettere curato da Ruscelli, che peraltro aveva da poco annotato proprio un’edizione veneziana (1560) del volgarizzamento di Giovio. 2. Il mondo di Giovio tra storie e curiosità La pubblicazione delle Historie del mondo fu l’ultimo atto della collaborazione fra Tarcagnota e i fratelli Tramezzino. Fu un successo editoriale che fece la fortuna della stamperia nei difficili anni a venire. In ogni caso, il progetto originario risaliva indietro nel tempo ed era stato probabilmente discusso in dettaglio nel circuito della bottega tipografica. L’idea doveva essere stata subito quella di compilare una vasta sintesi storica, capace di liberare i lettori «dalla lunga e tediosa fatica e lunghezza di tempo, per le quali sariano stati sforzati di passare, quando li fosse stato necessario leggere i molti libri d’historie da tanti e tanti scrittori diffusamente composti»15. La forma 14 L’avvertimento di Ziletti si legge nella ristampa del 1564 del primo volume delle Lettere di principi. Cfr. Braida, Ruscelli cit., p. 624. 15 Così si esprime lo stampatore Giorgio Varisco presentando la nuova edizione dell’opera nel 1610.

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definitiva dell’opera risentì delle circostanze in cui fu composta, ma specie per le parti riguardanti le epoche più recenti va considerata anche la possibile influenza dei nuovi titoli che uscivano a ritmo continuo durante gli anni cinquanta. Nel 1554 Metello Tarcagnota scrisse una lettera a Cosimo I de’ Medici, duca di Firenze, per ricordargli che suo padre Giovanni, allora a Gaeta, «aveva preso a scrivere una historia nella lingua nostra di tutte le cose che fu del mondo e la dedica, anzi la scrive, a vostro signore illustrissimo». Oltre che per informarlo che la prima parte era «già in Vinegia alla stampa», si rivolgeva al duca soprattutto per invocare un sostegno economico, necessario per proseguire la seconda parte, cui suo padre stava «ponendo hor mano»16. Forse quell’aiuto non arrivò. In ogni caso, fra le ragioni del lungo tempo trascorso fra quella lettera e l’effettiva pubblicazione delle Historie del mondo vi furono sicuramente le difficoltà attraversate in quegli anni da Tarcagnota. In seguito avrebbe obiettato ai suoi detrattori che si lamentavano della brevità della seconda parte dell’opera che se «sapessero le cagioni che hanno questa seconda parte affrettata e come fare altramente non si ha potuto, forse che loda anzi che biasimo me ne darebbono»17. A quanto pare, dunque, vi fu un’interruzione nella scrittura. Dovette seguire poi un’accelerazione finale, forse dietro pressione dello stampatore. Mettere insieme il denaro per un’impresa simile non era facile, anche se tra i finanziatori vi fu con ogni probabilità Cosimo I, dedicatario dell’opera. Ansioso di trarre il massimo profitto dal suo investimento, nel frattempo Michele Tramezzino affidò la stesura di una terza parte che arrivasse fino al presente e rendesse così aggiornate, e più appetibili, le Historie del mondo a Mambrino Roseo, un altro poligrafo che da tempo collaborava con la sua bottega, anzitutto come volgarizzatore di romanzi cavallereschi spagnoli. Alla fine uscirono in una pregevole edizione in quarto, accompagnate da una sfilza di privilegi di stampa emessi dal papa, dall’imperatore, dal re di Francia, dal doge di Venezia e, naturalmente, dal duca di Firenze, che descrivono l’opera come una «storia universale 16 La lettera si può leggere integralmente in Tallini, Nuove coordinate biografiche cit., pp. 121-122. 17 G. Tarcagnota, Delle historie del mondo. Lequali con tutta quella particolarità, che bisogna, contengono quanto dal principio del mondo fino a tempi nostri è successo..., Venetia, per Michele Tramezzino, 1562, pt. II, c. 511r.

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dal principio del mondo fino a oggi». L’espressione non deve ingannare. Le Historie del mondo rivendicano la propria novità sin dal titolo e non possono essere ridotte a un semplice rilancio del vecchio modello delle storie universali com’era stato praticato fino a Marco Antonio Sabellico e Raffaele Maffei, due umanisti vissuti a cavallo tra Quattro e Cinquecento. Come loro, anche Tarcagnota era un umanista e un conoscitore delle lingue classiche, ma la novità dei suoi volumi non si esaurisce nella sola scelta di scrivere in volgare. Lo chiarisce, anzi, da subito, rivolgendosi al duca di Firenze: nessuno aveva ancora proposto un modello di storia simile al suo, «fuori che alcuni pochi moderni nella lingua latina»18. L’accenno finale di questa orgogliosa rivendicazione, forse concordata con Tramezzino e certo aggiunta poco prima della stampa, sembra alludere alle già citate Historiae di Giovio, dedicate anch’esse a Cosimo I. Con quell’opera di successo, che copriva gli anni 14941547, le Historie del mondo entravano in concorrenza, soprattutto per la scelta di arrivare fino al presente grazie all’«aggiunta» di Roseo. Attratto dai tempi più antichi, non è detto che Tarcagnota abbia condiviso fino in fondo quell’iniziativa. Del resto, in una produzione letteraria spesso poco attenta alla paternità dei testi come quella dei poligrafi, il frontespizio della terza parte non lascia dubbi sul fatto che l’unico responsabile fosse Roseo. Che cos’era, dunque, che avrebbe potuto spingere Tarcagnota a considerare Giovio un modello? Non certo l’invenzione della storia contemporanea, cui quest’ultimo aveva dato un contributo decisivo. Era piuttosto l’allargamento degli orizzonti geografici delle Historiae, che andavano oltre la penisola italiana, per abbracciare tutta l’Europa e il Mediterraneo, spingendosi fino alle regioni occupate allora dall’impero turco e da quello persiano. Al loro esempio non poteva non guardare chi si fosse messo a scrivere una storia del mondo in Italia poco oltre la metà del Cinquecento19. Eppure, proprio sul metro della proiezione spaziale del racconto storico, più che su quello del diverso arco cronologico considerato,

Ivi, cc. aiijr e 1v, rispettivamente. È questa «la vera e maggiore novità» delle Historiae, secondo F. Chabod, Scritti sul Rinascimento, Einaudi, Torino 1967, p. 266, che rileva come nelle pagine di Giovio su «popoli ed eventi sino a lui trascurati o, almeno, tenuti in second’ordine», «s’avverte un soffio diverso che giunge da lidi lontani e sinora rimasti sostanzialmente estranei alle preoccupazioni dei nostri scrittori». 18 19

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si misura lo scarto fra Tarcagnota e Giovio. Lungi dall’essere uno «storico del mondo», infatti, quest’ultimo si limita a integrare in modo organico nel panorama europeo delle Historiae solo quella parte delle terre islamiche con cui più spesso gli europei interagivano. Fu una novità importante, certo, ma configura il rapporto tra Giovio e le storie del mondo rinascimentali come un incontro mancato20. Tanto più che le Historiae si aprono con un proclama della centralità della guerra proprio in nome della sua recente mondializzazione. Dopo la calata dell’esercito francese di Carlo VIII nel 1494, che aveva posto fine alla pace di cui aveva goduto per mezzo secolo la penisola italiana, scrive Giovio nella prima pagina della sua opera, la guerra «in spatio di pochi anni travagliò non pure tutta l’Europa, ma le lontane parti ancora dell’Asia et dell’Africa, volgendo sottosopra in ogni luogo o ruinando gli imperi delle chiarissime nazioni». Era una così «fatal pestilenza» che, quasi fosse il solo motore della storia, attraversò «ciò che è bagnato dal mare oceano et ci scoperse i popoli che prima erano incogniti, a quali né il valor romano, né alcune lettere de gli antichi erano arrivate». È un passo di grande efficacia, che intreccia in poche righe diversi piani e continenti in riferimento a un fenomeno globale come la guerra. Giovio può così concludere che, nei «cinquanta anni» di cui trattano le Historiae, «Marte et Fortuna pare che non habbiano lasciato libera parte alcuna del mondo afflitto da tante ruine, perciò che ciascuna remotissima provincia dal Levante al Ponente insino ancora a poco dianzi favolosi antipodi, tocca dalla guerra, si bagnò del suo proprio e dell’altrui sangue»21. Quell’immagine tragica riflette lo sguardo dolente di un grande umanista che, al servizio dei Medici tra Firenze e Roma, aveva vissuto in prima persona le guerre d’Italia, prima di passare sotto la protezione dei Farnese negli anni trenta, quando forse il giovane Tarcagnota poté incontrarlo. Tuttavia, le Historiae di Giovio seguono poi un filo narrativo che non abbandona mai l’Europa, il Mediterraneo e il Medio Oriente, se non per digressioni che restano sempre

T.C. Price Zimmermann, Paolo Giovio. Uno storico e la crisi italiana del XVI secolo (1995), Polyhistor, Lecco 2012, pp. 50-52. Al contrario, s’insiste sull’etichetta di «world historian» per Giovio in E. Cochrane, Historians and Historiography in the Italian Renaissance, University of Chicago Press, Chicago 1981, p. 377. 21 P. Giovio, Historie del suo tempo..., per Lorenzo Torrentino, Fiorenza 15511553, pt. I, pp. 1-2 (traduzione di Ludovico Domenichi). 20

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circoscritte, anche quando affrontano eventi che ebbero un forte impatto, come, ad esempio, la «pazza navigatione» grazie alla quale i portoghesi «ottennero l’imperio del Mare Indiano»22. Quegli inserti di lunghezza variabile mostrano come Giovio avesse una profonda conoscenza dei grandiosi processi su scala globale che avevano segnato l’epoca di cui si occupa, che gli derivava soprattutto dagli anni trascorsi in curia, dove affluivano notizie e materiali da tutto il mondo. Tuttavia, non si spinge a trasporli sul piano della storia, a inglobarli nel racconto dei principali eventi del suo tempo. Li tratta piuttosto come «curiosità», tanto che spesso è l’incontro in apparenza casuale con un oggetto insolito e bizzarro ad aprire una finestra inaspettata nelle Historiae sulle regioni più lontane dall’Europa. Nell’unico caso in cui Giovio parla della Cina, in un breve passaggio inserito in pagine che affrontano lo scontro fra turchi e persiani all’inizio del Cinquecento, menziona i racconti dei «mercatanti portughesi» sul Catai e la città di Canton, per poi affermare che l’imperatore cinese «è signore d’infiniti popoli per terra et per mare, et è fornito di così gran dovitia di tutte le cose (percioché e’ mantiene innumerabile essercito) che i re d’Europa messi insieme non gli possono esser pari». Al centro della narrazione, comunque, si trova un «volume» offerto in dono dal re Emanuele I di Portogallo a papa Leone X, con «historie et cerimonie di cose sacre, i cui lunghissimi fogli si piegano in quadro dalla parte di dentro». La consultazione di quel codice non indusse Giovio a usarlo come fonte (magari tramite un interprete). Nelle Historiae lo considera solo come un oggetto che gli permette, al più, di contribuire alla diffusione del mito rinascimentale di un’origine cinese della stampa in Europa: «di qui facilmente io credo che gli essempi di quella arte, prima che i portughesi passassero nell’India, siano arrivati a noi per mezzo de’ tartari et moscoviti»23. Lo stesso accade anche nel più lungo brano dedicato al Nuovo Mondo. Un processo eccezionale come la scoperta e conquista dell’America non è parte integrante del racconto storico di Giovio. Forma una digressione innescata da un cenno all’importanza delle miniere d’oro del Perù per le guerre in Europa, ma imperniata, di nuovo, sull’improvviso incontro con una rarità, di cui si dà conto

22 23

Ivi, p. 424. Ivi, p. 585.

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nelle pagine conclusive del libro XXXIV, composto verso la fine degli anni trenta. Contiene la storia dei delicati avvenimenti occorsi nel 1535, segnati dalla presa di Algeri (fu perciò sottoposto alla preventiva censura di Carlo V in persona)24. Gli indios del Messico, vi si legge, «imparano le nostre lettere, havendo poste da parte le figure hierogliphice, con le quali solevano scrivere historie et con diverse pitture far memoria de i re loro». Viene portato ad esempio «un volume di queste historie fatto di fogli tutti interi, ma piegati indentro et coperto d’un cuoio indanaiato», che fu regalato a Giovio dal segretario imperiale Francisco de los Cobos25. Come nel caso del «volume» cinese, anche qui un prezioso codice messicano è trattato alla stregua di una mera curiosità. Le notevoli pagine sull’America, in cui Giovio tocca in rapida successione il viaggio di Colombo, la conquista di Cortés (con la Cina sullo sfondo), le imprese di Vasco Núñez de Balboa, Diego de Almagro e i fratelli Pizzarro, e infine la circumnavigazione del globo di Magellano, dipendono solo da cronache e resoconti europei, anche quando mettono a confronto le credenze escatologiche dei nativi messicani con «la disciplina et superstitione de druidi, i quali a tempi antichissimi erano in grande auttorità in Francia et parimente in Inghilterra»26. Quello di Giovio resta un brillante excursus su una materia esotica, che aumentava il valore delle sue Historiae agli occhi dei lettori. Lo stesso si può dire per la ricercata sezione sull’Etiopia: in questo caso Giovio può contare anche su una rara versione manoscritta dei «commentari» del portoghese Francisco Álvares, la prima descrizione diretta di un europeo che raccontava addirittura di aver visitato di persona il leggendario Prete Gianni27. Che i riferimenti al Nuovo Mondo, e per estensione alle altre regioni più distanti dall’Europa, siano solo digressioni eccentriche rispetto alla narrazione generale lo confermano proprio le righe finali del libro XXXIV, quello in cui si cita il codice messicano avuto in dono da 24 T.C. Price Zimmermann, The Publication of Paolo Giovio’s «Histories»: Charles V and the Revision of Book XXXIV, in «La bibliofilia», LXXIV (1972), pp. 49-90. 25 Giovio, Historie del suo tempo cit., pt. II, p. 553. 26 Ivi, p. 552. 27 Ivi, pt. I, pp. 802-815. Cfr. S. Tedeschi, Paolo Giovio e la conoscenza dell’Etiopia nel Rinascimento, in Paolo Giovio. Il Rinascimento e la memoria, Società storica comense, Como 1985, pp. 93-116.

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Giovio. Si sente, infatti, in dovere di giustificarsi per aver ricordato i protagonisti della penetrazione europea in America, riconoscendo che l’hanno fatto «uscir di proposito» rispetto alla «testura dell’historia». Giovio, dunque, tende a isolare le vicende storiche africane, asiatiche e americane, anche quando vi è un intervento diretto degli europei. La stessa visione è sottesa anche al museo che allestì nella sua sontuosa villa sul Lago di Como. Quella collezione contribuì alla genesi del significato corrente attribuito alla parola «museo». L’idea di riempire una villa con ritratti di uomini illustri su tela o su medaglioni di bronzo e aprirla al pubblico segnò una nuova tappa nella storia della cultura europea del Rinascimento. Realizzato fra 1537 e 1543, non fu un progetto distinto dalla redazione delle Historiae, corse anzi in parallelo alla stesura degli ultimi dieci libri dell’opera28. La complementarietà dell’attività di storico e collezionista di museo in Giovio era ricordata dalla lapide che accoglieva i visitatori nella villa di Como. Emerge anche dagli Elogia, una doppia raccolta di brevi biografie dei personaggi ritratti nel museo, i cui volumi furono pubblicati nel 1546 e nel 1551. Se tutti gli uomini dotti e la maggior parte dei condottieri militari presenti nella galleria erano europei, la collezione includeva comunque Tamerlano, il principe Vasili III di Moscovia, shah Isma‘il e shah Tahmasp di Persia, l’imperatore Dawit II di Etiopia, molti sultani mamelucchi e ottomani, tre corsari turchi e uno sceriffo marocchino. Le loro figure rinviano alle regioni del mondo di cui effettivamente trattano le Historiae, tanto che si può essere tentati di guardare agli Elogia come a una trasposizione della stessa materia in forma di biografie. Del resto, è proprio Giovio a collegare la sua selezione di condottieri militari, «dalla cui strenua decisione, e dalla cui mano risoluta, scaturirono imprese degne di memoria storica», al desiderio dei lettori di storie di conoscere «le forme e i volti» dei protagonisti che vi erano ricordati29. Non stupisce, dunque, che il museo non comprenda ritratti di imperatori cinesi, aztechi o inca. La collezione di Giovio merita un posto di rilievo nella storia della curiosità30. Per sua ammissione, impiegò molti anni per riunire ritratti di uomini illustri degni di fede «quasi da ogni parte del mondo, con Zimmermann, Paolo Giovio cit., pp. 204-207. P. Giovio, Elogi degli uomini illustri, a cura di F. Miconzio, Einaudi, Torino 2006, p. 761. 30 Per un’introduzione a questo ambito di studi cfr. Curiosity and Wonder from 28 29

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una curiosità quasi folle, nonché dispendiosa». Inoltre, il museo conteneva anche oggetti bizzarri e rarità. Si può cogliere, di nuovo, un nesso con l’opera storica di Giovio, come mostra l’esempio di un protagonista ancora del libro XXXIV delle Historiae. Come si racconta nelle pagine degli Elogia sulla vita di Cortés, fu il condottiero spagnolo in persona a inviare a Giovio il proprio ritratto dopo aver preso parte alla disastrosa spedizione di Carlo V contro Algeri (1541). Lo raffigurava «con una spada dorata in vita, una collana d’oro al collo e una preziosa pelle addosso»31. Chissà se aveva vicino anche il codice messicano donato da Cobos a Giovio. Di sicuro, nel 1542 quest’ultimo domandò con insistenza al nunzio papale in Spagna, Giovanni Poggio, «una qualche cosa bizarra de idolo de Temistitan [Tenochtitlan]» da mettere accanto al ritratto di Cortés. Quella richiesta lascia in qualche modo intuire l’ambiente che doveva circondarlo32. 3. Patrizi, Tarcagnota e l’«ampia historia» Nel Rinascimento scrittura storia e collezionismo museale potevano intrecciarsi in un viluppo che non sempre permette di distinguere agevolmente le diverse componenti. La sovrapposizione di curiosità storiche e materiali antiquari, per esempio, caratterizza anche una parte della «collana historica» lanciata a Venezia negli anni sessanta dallo stampatore Gabriele Giolito de’ Ferrari e affidata a Tommaso Porcacchi33. La curiosità fu uno stimolo importante per accumulare conoscenze sui nuovi mondi, ma ridurre le regioni non europee, gli oggetti che provenivano da esse e gli eventi che vi avevano avuto luogo a quella sola dimensione frustrava la possibilità di pensare e scrivere storie del mondo. Risiede qui il limite delle Historiae di Giovio, nonostante la loro apertura sulla guerra come fenomeno globale e le pagine sull’Oceano Indiano, l’Etiopia, la Cina e l’America. Il punto non era la quantità di informazioni su

the Renaissance to the Enlightenment, a cura di R.J.W. Evans e A. Marr, Ashgate, Aldershot 2006. 31 Ivi, pp. 924. 32 P. Giovio, Lettere, a cura di G.G. Ferrero, 2 voll., Istituto poligrafico dello Stato-Libreria dello Stato, Roma 1956-1958, vol. I, p. 280. 33 Cherchi, Polimatia di riuso cit., pp. 188-190.

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quelle o altre terre remote presenti in un libro di storia, né tanto meno il numero di pagine che si concedeva loro. Il superamento delle vecchie storie universali medievali e umanistiche dipese, infatti, dal modo in cui si poneva in relazione la tradizionale narrazione della storia europea con le altre parti del pianeta, con la molteplicità dei loro passati: integrarle in una prospettiva storica unitaria comportava nuove scelte sul piano della struttura interna e della forma del racconto adottate in un’opera. Questa svolta morfologica si coglie nelle Historie del mondo di Tarcagnota. Rispetto alle Historiae di Giovio, la narrazione vi si allarga fino a coprire la storia dell’umanità dalle sue origini. Più ancora del diverso arco temporale, però, la novità del modello di Tarcagnota e dei suoi continuatori è costituita dal diverso trattamento riservato ad Africa, America e Asia, che non sono più oggetto di digressioni dettate da mera curiosità. Certo, dalle Historiae derivano tante informazioni sui fatti della prima metà del Cinquecento e soprattutto la centralità attribuita alla storia europea e mediterranea, estesa fino ad abbracciare le terre soggette all’impero turco e a quello persiano. Ma le altre regioni del globo, pur non acquistando una presenza più significativa dal punto di vista meramente quantitativo, nelle Historie del mondo sono incorporate a pieno titolo nel racconto storico, che procede anno dopo anno, secondo un impianto tradizionale. È la tecnica della simultaneità a permetterlo: così, se la loro inclusione avviene sempre in corrispondenza dei primi contatti con gli europei, la storia di queste interazioni e la descrizione delle condizioni politiche, sociali e culturali in cui si dispiegarono non rappresenta più un excursus come in Giovio, ma s’inserisce nel fluire temporale degli eventi compendiati, intrecciandosi con la storia europea. A questo risultato si arriva mediante serie di giustapposizioni sincroniche: il racconto procede per connessioni attraverso lo spazio, grazie a locuzioni avverbiali che esprimono coincidenza nel tempo e permettono un accumulo ininterrotto di fatti. Tarcagnota e i suoi continuatori rivelano una conoscenza selettiva ma aggiornata della letteratura storica e geografica sui nuovi mondi. E sempre a differenza di Giovio, non mancano notizie presentate come se fossero tratte direttamente da fonti e materiali prodotti da popolazioni non europee, con un effetto, per quanto illusorio, di apertura e inclusione. È il caso di una presunta profezia cinese riportata in corrispondenza del 1558, in rapporto alla missione dei gesuiti nel

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celeste impero e all’insediamento dei portoghesi a Macao: «Trovano ne i lor libri antichi senza saper però da chi siano scritti», si legge, «che in un anno di otto (non dechiarandosi di ottanta o ottocento) esso re della China ha da perdere il reame e che glie l’hanno da torre huomini bianchi e con barbe lunghe, e per ciò tengono le città molto ben fortificate»34. La credenza chiaramente è inventata e attribuita ai cinesi per legittimare la penetrazione portoghese, ma il riferimento al presunto contenuto di codici cinesi trasforma quello che per Giovio è solo un oggetto bizzarro in una fonte, evocata per offrire ai lettori una ricostruzione all’apparenza più complessa e sfaccettata. A leggere oggi le migliaia di pagine delle Historie del mondo, zeppe di nomi, date e fatti storici, ci si annoia molto. Ma non era così per i lettori del Rinascimento, quando le copie dell’opera andavano letteralmente a ruba. Tarcagnota antepone anche una breve riflessione intorno al suo modello, intervenendo in un’aspra contesa sulla «verità storica». Obiettivo polemico delle parole che aprono la prima parte delle Historie del mondo sembra essere la severa critica contro le «historie universali», mossa dall’umanista neoplatonico Francesco Patrizi nel sesto dialogo del suo trattato Della historia, pubblicato a Venezia da Andrea Arrivabene nel 1560. Vi si formula un netto rifiuto verso ogni tentativo di scrivere «generali historie», contrapposte alla «particolare, o di una attione sola, o di alquante di una natione». Quelle storie sollevano, infatti, «molte et gravi difficultà», specie se trattano dei tempi più remoti, per «il poco numero degli scrittori ch’hebbero que’ secoli, et il modo dello scriver loro conciso et brieve, et la diversità delle nationi, lequali et fecero le cose di memoria degne et si dierono a scrivere et le proprio et l’altrui». Ma la questione investe ogni epoca: vista la «grandissima» difficoltà per un autore «in raccorre historia pur d’una natione sola, che farà adunque in quella di molte giunte in uno? Per certo ella è fatica che eccede ogni pensiero»35.

34 M. Roseo, Delle historie del mondo... Parte terza, aggiunta alla notabile historia di M. Giouanni Tarchagnota, Venetia, Michele Tramezzino, 1562, c. 335v. 35 F. Patrizi, Della historia diece dialoghi... ne’ quali si ragiona di tutte le cose appartenenti all’historia, & allo scriverla, & all’osservarla, Venetia, appresso Andrea Arrivabene, 1560, c. 31r e 32r. Per un inquadramento cfr. A. Grafton, What Was History? The Art of History in Early Modern Europe, Cambridge University Press, Cambridge-New York 2007, pp. 126-142.

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Quelle perplessità minacciavano di sottrarre ogni credibilità alle Historie del mondo ancora prima che vedessero la luce. Tarcagnota oppose alla puntigliosità pedante di Patrizi la sferzante ironia di un’immagine di sapore aristotelico: «quella differenza pare che sia fra lo leggere le historie particolari da diversi historici scritte e quella che le comprenda ampiamente tutte, secondo l’ordine delle cose avenute e de’ tempi», scrive, «che sarebbe se ci fossero mostre prima un per uno in disparte le membra di uno animale da noi avanti non conosciuto e ne fosse poi tutto l’animale intiero rappresentato». La metafora è spiegata così da Tarcagnota: «come (s’io non mi inganno) questa intiera e perfetta notitia ci farebbe di quella tronca e confusa delle membra ridere e confessare di esserci ingannati, così questa commune et ampia historia di altro modo che le particulari non fanno, contenti e sodisfatti ci lascia». La gerarchia che ne deriva risponde a una precisa visione della scrittura storica: l’«ampia storia» «ci fa maggiore piacere sentire quando poi quelle, che sono quasi membra di lei, leggiamo»36. «Piacere» non significa però disimpegno. Tarcagnota esprime l’auspicio che la sua opera sia «nella sua testura tale che a guisa di oro da dotta mano forbito ne potesse anche insieme dilettare et accenderne alle attioni virtuose»37. Più avanti precisa che, «col leggere le historie delle cose passate», «s’impara e quasi a un certo modo con le attioni altrui si sperimenta il vario modo di vivere che col lungo uso si suole, e col ritrovarsi anche spesso ingannato, apprendere». Tarcagnota sembra qui riecheggiare quanto aveva scritto due decenni prima, sotto lo pseudonimo di Lucio Fauno, presentando il trattato di Böhm sui costumi dei popoli del mondo, tanto da arrivare a sostenere che «non è altro la historia che un specchio, nel quale le cose passate ne si rappresentano, che ci possono fare accorti di questo che noi abbracciare o fuggire dobbiamo»38. Tarcagnota, comunque, sembra prendere subito le distanze dallo schema dell’opera di Böhm, derivato dalla teoria materialista che individuava l’origine degli uomini in Etiopia: «Dissero ancho che il primo huomo fusse fatto di terra, ma s’ingannarono»39. In effet36 37 38 39

Tarcagnota, Delle historie del mondo cit., pt. I, c. 1v. Dedica a Cosimo I de’ Medici, Napoli, 1 gennaio 1562, ivi, c. non numerata. Ivi, c. 1r. Ivi, c. 2r.

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ti, quello che si legge nelle Historie del mondo è un racconto della creazione ortodosso, ma che curiosamente, in un’epoca di sospetti e proibizioni, non si allinea alla versione contenuta nella Bibbia autorizzata, la Vulgata. Dopo il diluvio universale, Tarcagnota rincorre le genealogie dei figli di Noè sviluppando catene etimologiche: «Sem, dal quale Abraam e poi il Salvator nostro discese, duo anni doppo il diluvio generò Arphasath. (...) Di Arphasat», prosegue, «nacque Sale con molti altri figliuoli; e di Sale, che vogliono che edificasse Hierusalem, che egli del suo nome chiamò, nacque Heber, dal quale dicono che gli hebrei togliessero il nome». Si passa quindi a Jafet, «che era l’altro figliuolo di Noe e che è da alcuni chiamato Iano», da cui «nacquero sette figliuoli, da i quali una lunga prosapia discese; e da ogni un di loro vogliono, che havessero e l’origini e ’l nome molte nationi del mondo, come i galati, gli scithi, i paphlagoni, i ioni, i cappadoci, i thraci, et altri simili. Di Cham poi maledetto dal padre suo», si conclude, «nacquero quattro figliuoli, de’ quali fu Chus il primo, onde ebbero i popoli chusei nella Etiopia origine», mentre il quarto fu «Canaan», «dal quale discesero i cananei, et undici suoi figliuoli la Cananea habitarono; e diedero ciascuno ad una particolare provincia il nome, Sidone a popoli di Sidonia, Etheo a gli ethei, Hiebuseo a gli hebusei, Amorreo a gli amorrei», e così via40. La tecnica ricorda quella del falsario Annio da Viterbo, ma in realtà la fonte è la Bible Historiale, una versione medievale francese che circolava ancora impressa nel Rinascimento. Mescolava la Vulgata con estratti dell’Historia scholastica del teologo francese Pierre le Manguer (XII secolo), più noto come Petrus Comestor, che a sua volta s’ispirava a Flavio Giuseppe41. Dopo questo notevole inizio, la prima parte delle Historie del mondo continua fino alla nascita di Cristo, senza mai far cenno a regioni esterne all’ecumene conosciuta dai greci e dai romani. Solo nella seconda parte, che va fino al 1513, Tarcagnota introduce prima l’Africa centro-occidentale e poi l’America, di seguito ai loro primi contatti con gli europei. Così, dopo circa duemila pagine di storia del mondo che trattano solo dell’Europa e del Mediterraneo cristiaIvi, c. 4rv. G. Lobrichon, The Story of a Success: The Bible historiale in French (1295ca. 1500), in Form and Function in the Late Medieval Bible, a cura di E. Poleg e L. Light, Brill, Boston-Leiden 2013, pp. 307-331. 40 41

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no e musulmano, giunto al 1455 Tarcagnota conclude il ricordo del pontificato di Niccolò V, morto quell’anno, e scrive: «In questi tempi le caravelle di portoghesi costeggiando le riviere dell’Aphrica fuori dello Stretto [di Gibilterra] del continuo discoprivano nuove contrade». Procede quindi a una breve ma brillante ricostruzione della penetrazione portoghese lungo le coste atlantiche del continente africano, rielaborando in modo piuttosto originale il resoconto del testimone diretto Alvise da Ca’ da Mosto, un mercante veneziano i cui scritti erano stati inclusi da Ramusio nelle Navigationi. Descrive con attenzione anche il fenomeno della tratta degli schiavi («empierono in brieve la Spagna di negri»), senza commentare. Approfitta anzi per inserire una rapida disamina delle varietà di africani e del colore della loro pelle, «secondo che il Sole o dritto o torto gli guarda». Come propria fonte indica i «portoghesi che in casa lor propria veduti gli hanno» e «piena relatione data ne hanno», ma tutto il passo, in realtà, è ripreso da Giovio42. A differenza che in quest’ultimo, però, la pagina di Tarcagnota non costituisce una digressione: è parte integrante del racconto, cui si connette grazie alla simultaneità nel tempo. Avviene altrettanto con la scoperta dell’America, integrata nella narrazione in virtù della coincidenza cronologica con la conquista di Granada: «Mentre che anchora l’assedio di Granata durava», scrive Tarcagnota, «mandarono Fernando et Isabella, che per ogni via deliberavano di accrescere i regni loro e la religione christiana, Christophoro Colombo, che offerto vi si era, a cercare nuove terre nel mare di Ponente». L’immagine partecipa alla costruzione del mito dell’esploratore visionario, «d’immortale gloria degno», rafforzata dall’omissione dell’erronea convinzione di Colombo di poter giungere direttamente sulle coste orientali dell’Asia per via di occidente. Ma è tutto il brano seguente su Colombo a colpire, rivelando, fra l’altro, una possibile conoscenza diretta della prima parte della cronaca di Gómara e un’eco del discorso introduttivo di Ramusio al terzo volume delle Navigationi: Tarcagnota non approfitta per fare una divagazione generale sull’America come Giovio, ma si attiene a una prospettiva storica, limitandosi a raccontare i primi due viaggi di Colombo e a fornire una breve descrizione delle isole che toccò.

42 Tarcagnota, Delle historie del mondo cit., pt. II, c. 476rv. Cfr. inoltre Giovio, Historie cit., pt. I, pp. 800-801.

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Si salta quindi a tutt’altro episodio, collegato al precedente solo per sincronia: «Ora il decembre del medesimo anno, che fu presa Granata e che Colombo navigò a discoprire queste Indie, in Barzellona un contadino catalano per mera pazzia accostandosi al Re Catholico, con un ferro che egli havea sotto, gli diede una ferita nel collo che fu così pericolosa che mancò poco a morirne»43. Nonostante errori e carenze evidenti, le Historie del mondo arrivano a poco a poco a estendersi oltre l’Europa, il bacino mediterraneo e le sue propaggini orientali. Nelle prime due parti, redatte da Tarcagnota, resta comunque forte il debito, per ammissione dello stesso autore, verso la letteratura classica: «non niego già di havere havuto un certo giudicio e mira allo stile historico che serbarono gli antichi nella loro lingua»44. Il peso del retaggio umanistico impedisce così alla sua storia del mondo di emanciparsi fino in fondo dalle tradizionali storie universali: rispetto ai tentativi più sperimentali scritti altrove e in altre forme in quei decenni, infatti, il criterio della simultaneità consente finalmente una piena integrazione della storia recente dei continenti raggiunti dagli europei, ma la sua applicazione da parte di Tarcagnota lascia ancora fuori il loro passato precoloniale. 4. La moda del mondo: storie, «novelle», abiti Le Historie del mondo uscirono subito con l’aggiunta di una terza parte composta, lo si è visto, da Mambrino Roseo, un poligrafo che, come Tarcagnota, era entrato in rapporti con i fratelli Tramezzino grazie alla frequentazione dei circoli farnesiani a Roma, dopo aver servito a lungo i Baglioni, signori di Perugia. Fra gli anni cinquanta e sessanta, poi, si legò a potenti famiglie della nobiltà romana. Roseo riprende il modulo narrativo imperniato sulle connessioni tra fatti storici simultanei, grazie a espressioni come «quasi in questo tempo o poco innanzi», ma la rincorsa di un tempo sempre più schiacciato sul presente rende il suo stile più colloquiale, giornalistico avant la 43 Tarcagnota, Delle historie del mondo cit., pt. II, cc. 517v-518v. Cfr. inoltre G.B. Ramusio, Navigazioni e viaggi, a cura di M. Milanesi, 6 voll., Einaudi, Torino 1978-1988, vol. V, pp. 13-16. 44 Tarcagnota, Delle historie del mondo cit., II, c. 511r.

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lettre, verrebbe da dire dando quasi ragione a Patrizi quando ammonisce circa il rischio, nelle «generali historie», di un’eccessiva dipendenza dai fatti «quali si contano de novelle per le piazze»45. A questo va aggiunta la rapidità di consultazione di un’estrema varietà di fonti, comprese le lettere dei missionari gesuiti in Asia, che iniziarono a essere pubblicate anche in Italia dal 1551, fra gli altri proprio da Michele Tramezzino46. Quelle raccolte divennero presto un prodotto di consumo, con l’attivo impegno della bottega tipografica veneziana, confondendosi con la letteratura degli avvisi da cui ripresero anche il titolo. È per la lettura affrettata di una di queste raccolte che Roseo commette una delle sue sviste più clamorose, confondendo Brasile e Giappone, quando scrive che nel 1550 i gesuiti avevano collegi, fra l’altro, «in Bungo città regia nell’India orientale del Brasil, in Paritininga, in San Vincente, nel Salvatore, nella Baia, nello Spirito Santo, in Parnabucco, et in Porto Sicuro, isole tutte nell’Indie orientali»47. L’urgenza del poligrafo pressato dalla necessità di completare nuove parti dell’opera da mandare sotto il torchio, indovinando gli interessi cangianti di lettori sempre più attirati dai vasti orizzonti della letteratura sui nuovi mondi, si fonde qui con una sensibilità in via di adattamento al mutato clima della Controriforma. Del resto, gli stessi Tramezzino avrebbero modificato il loro catalogo negli anni a seguire, segnati da un declino della loro produzione, dedicando sempre più attenzione a titoli di argomento teologico o comunque genericamente religioso. È forse per questo motivo che, quando Roseo include un riferimento a una regione del mondo distante dall’Europa e dal Mediterraneo, lo fa generalmente affidandosi alle lettere dei gesuiti. La terza parte delle Historie del mondo, del resto, è dedicata al cardinale Cristoforo Madruzzo, principe vescovo di Trento, dove si stava celebrando la terza e ultima fase del concilio. Infine, è significativa anche la chiusa del volume di Roseo, in cui si evoca l’auspicio Patrizi, Della historia cit., c. 31v. Le prime furono le Lettere del padre maestro Francesco et del padre Gasparro et altri della Compagnia di Giesù scritte dalla India ai fratelli del Collegio di Giesù de Coimbra. Tradotte di lingua spagniuola. Ricevute nel 1551. 47 Roseo, Delle historie del mondo cit., c. 125v. Le informazioni sono raccolte con molta probabilità dai Diversi avisi particolari dall’Indie di Portogallo ricevuti dall’anno 1551 sino al 1558 dalli reverendi padri della Compagnia di Giesu... Tradotti nuovamente dalla lingua spagnuola nella italiana, stampati a Venezia da Michele Tramezzino nel 1558. 45 46

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che Pio IV, appena eletto, potesse essere il tanto atteso papa angelico destinato a restituire l’unità alla cristianità afflitta da lotte intestine. L’enfasi sull’espansione globale della fede cattolica pregiudicava la possibilità di scrivere una storia del mondo equilibrata e realmente capace di intrecciare fra loro la molteplicità di passati di cui si componeva. Le vendite dell’opera di Tarcagnota e Roseo, però, non ne furono danneggiate, anzi. Nuovi aggiornamenti continuarono a essere aggiunti da Roseo e poi da Bartolomeo Dionigi, rendendo sempre attuali le nuove edizioni e ristampe messe in circolazione dai Tramezzino, la cui bottega attraversò, comunque, una penosa crisi prima di chiudere i battenti nel 1592, e da altri importanti tipografi veneziani come i Giunta e Varisco. Ancora nel 1617 le Historie del mondo erano un prodotto richiesto sul mercato. Resistettero così alla concorrenza di altri scritti solo in parte simili, dimostrando insieme la lungimiranza dell’intuizione avuta da Tarcagnota e Michele Tramezzino alla metà del Cinquecento e il suo effetto trainante. Per stare al passo con i tempi, persino le Historiae di Giovio furono prolungate in latino fino al presente da Natale Conti (1581), con inserti su Perù, Etiopia e Giappone, e poi tradotte da Carlo Saraceni (1589). Quel redditizio settore editoriale si stava facendo sempre più affollato, anche perché le stamperie veneziane pubblicavano a ritmo continuo opere in volgare che, in realtà, erano poco più di un ritorno alla vecchia tradizione delle storie universali, come provano i loro stessi titoli: dalle Historie universali (1570) del domenicano milanese Gaspare Bugati, che andavano dalla creazione del mondo al 1559, al Sopplimento delle croniche universali del mondo (1575), volgarizzamento attualizzato della cronaca tardo-quattrocentesca di Giacomo Filippo Foresti eseguito da Francesco Sansovino, fino al Sommario ovvero età del mondo cronologiche (1581) di Girolamo Bardi, o al Compendio historico universale di tutte le cose notabili (1594) di Giovanni Nicolò Doglioni48. Non si trattò di una tendenza solamente italiana. Sempre in lingua volgare, usciva a Parigi, nel 1575, l’opera dell’umanista francese Loys Le Roy intitolata De la vicissitude ou varieté des choses en l’universe. Fondata sulla compilazione di altri storici, tra i quali figura Giovio, l’opera si allarga anche ai nuovi mondi, pur mantenendo

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Cochrane, Historians cit, p. 378.

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un’attenzione privilegiata al continente europeo, al bacino mediterraneo e ai territori soggetti a ottomani e safavidi. Connette tra loro vicende della storia antica e recente, pur concedendo molto più spazio alla prima che alla seconda e alla comparazione tra gli imperi antichi, in linea con quanto raccomandato da Jean Bodin nel suo trattato sul metodo storico (1566)49. Opere come quella di Le Roy o di Tarcagnota e Roseo contribuirono a plasmare un nuovo gusto per gli scritti che erano in grado di abbracciare insieme l’ampiezza degli orizzonti geografici e la profondità dei passati multipli dell’età della mondializzazione iberica. Il mondo andava sempre più di moda. Quest’ultima parola descrive forse meglio di altre la trasformazione in atto, che non si limitava ai libri di storia. Nel panorama editoriale veneziano, il successo delle Historie del mondo aiuta a comprendere anche la vicenda di un’opera come la rassegna De gli habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo, che il pittore Cesare Vecellio, figlio di un cugino del pittore Tiziano, pubblicò nel 1590 presso Damiano Zenaro. Debitore di una preesistente tradizione rinascimentale europea, il volume contiene un prezioso catalogo di xilografie con ritratti di uomini e donne di diverse epoche e località abbigliati secondo il loro uso, accompagnato da una didascalia in italiano. Quel catalogo di moda rinascimentale conobbe un successo tale che, un po’ come accadeva allora alle storie del mondo, otto anni più tardi ne uscì una seconda edizione aggiornata per i tipi di Sessa. Un eloquente mutamento nel titolo pone l’accento sull’inclusione di un maggior numero di modelli non europei, americani in particolare, enfatizzando così la completezza di una raccolta di abiti non più «di diverse parti del mondo», ma «di tutto il mondo». A questa scelta si dovette attribuire anche una maggiore potenzialità commerciale, tanto da aggiungere una traduzione in latino delle didascalie di Vecellio per favorire la circolazione dell’opera all’estero50. 49 Uno studio aggiornato si può trovare nella recente edizione critica del volgarizzamento italiano, che uscì in prima edizione a Venezia nel 1585: L. Le Roy, De la vicissitude ou variété des choses en l’univers. La traduzione italiana di Ettore Cato, a cura di E. Severini, Classiques Garnier, Paris 2014. Su Bodin e gli imperi del passato, cfr. l’introduzione a J. Bodin, Methodus ad facilem historiarum cognitionem, a cura di S. Miglietti, Edizioni della Normale, Pisa 2013, pp. 15-16. 50 J. Guérin dalle Mese, L’occhio di Cesare Vecellio. Abiti e costumi esotici nel ’500, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1998; G. Calvi, Gender and the Body, in Finding Europe: Discourses on Margins, Communities, Images, ca. 13th-18th Centuries, a

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5. Campana difende le storie del mondo All’epoca, sui tavoli dei librai dov’erano esposti i volumi in vendita più ricercati, a fianco delle Historie del mondo di Tarcagnota e Roseo, si potevano incontrare tomi che recavano lo stesso titolo, ma erano frutto del lavoro di un altro infaticabile poligrafo, Cesare Campana. Si trattava di un modesto nobiluomo dell’Aquila, attivo come maestro di grammatica e precettore in area veneta, specialmente a Vicenza, dove fu membro della locale Accademia Olimpica. Comunque, univa all’adesione allo spirito della Controriforma una tendenza filospagnola che aveva maturato forse in gioventù, quando viveva ancora nel viceregno di Napoli, ma che era rara nella Repubblica di Venezia, politicamente e culturalmente ostile alla monarchia cattolica51. Tra le varie opere storiche che scrisse figurano più volumi intitolati Historie del mondo, apparsi per i tipi di Giorgio Angiolieri a Venezia, nei quali è manifesto il debito nei confronti del modello di scrittura offerto da Tarcagnota e da Roseo. Alle pagine redatte dal primo s’ispirano, in particolare, i due volumi di una storia del mondo antico dalla fondazione di Roma in avanti che Campana dette alle stampe nel 1591. Lasciò quindi interrotta l’opera per concentrarsi su epoche molto più recenti, lavorando a un’altra compilazione che gli garantì ampia fama. Nella prima edizione (1596), le nuove Historie del mondo di Campana coprono il periodo 1580-1596 e sviluppano la tendenza di Roseo a scrivere quasi in tempo reale, trasformando con l’inchiostro il presente in passato grazie alla capacità di servirsi di testimonianze fresche, come istruzioni, lettere private e racconti a voce, ma anche di fondere rapidamente in un racconto unitario le notizie sparse sulle terre più lontane e quanto vi accadeva, raccolte grazie ad avvisi e relazioni manoscritte. Gli oltre mille e quattrocento esemplari dell’opera – una tiratura elevata per l’epoca – andarono esauriti nel giro di pochi mesi52. Angiolieri si affrettò a ristampare il libro già nel 1597, ma per

cura di A. Molho e D. Ramada Curto, Berghahn Books, New York-Oxford 2007, pp. 94-106. 51 G. Benzoni, Campana, Cesare, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1960-, vol. XVII, pp. 331-334. 52 La cifra si ricava dalla dedica al duca di Urbino, Francesco Maria Secondo Della Rovere, Venezia, 30 agosto 1597, in C. Campana, Delle historie del mondo...,

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sfruttare al massimo le attese del pubblico lo presentò come il secondo volume di una ricostruzione che ora partiva dal 1570 e che vide poi la luce nel 1599, bruciando così la concorrenza di un’edizione torinese apparsa nel 1598. Lo stesso anno lo stampatore Lucantonio Giunta, per correre ai ripari contro quella novità, dava alla luce un’edizione delle Historie del mondo di Tarcagnota con le aggiunte di Roseo e Dionigi fino al 1582, «seguitata ultimamente sino a tempi nostri dal signor Cesare Campana». In una breve lettera che accompagna la prima ristampa dell’opera di Campana, «quasi del terzo aggrandita, oltre che riformata et corretta con molta diligenza dal suo autore», Angiolieri spiega ai lettori che «sperava di dar fuori, con questo volume, l’altro che precede dello stesso autore, poi che tuttavia si va stampando», ma essendo «sollecitato da diverse parti a mandar a librari questo che l’anno passato fu stampato, essendo egli tutto giorno richiesto da molti, ho giudicato esser conveniente ch’io soddisfaccia al desiderio universale»53. L’opera vendette ed ebbe almeno altre tre edizioni nel primo decennio del Seicento. Osservate da vicino, le migliaia di pagine dei due volumi di Campana appaiono meno torrenziali di quelle di Roseo e Dionigi e presentano una precisa struttura in cui a ogni anno corrisponde un libro. Una speciale attenzione è rivolta alla storia politica e militare. Naturalmente, il punto d’osservazione delle Historie del mondo di Campana resta quello di un europeo. È facile immaginare che, se fossero finite in mano a un lettore non europeo, questi avrebbe faticato non poco a seguire il filo del racconto. In ogni caso, forse riflettendo anche una mutata percezione delle connessioni globali alla fine del Cinquecento, Campana fornisce molte più notizie dei suoi predecessori sugli scenari non europei54. Così, accanto a una trattazione approfondita degli eventi collegati all’impero turco e a quello persiano, nella ricostruzione del quarto di secolo che va dal 1570 al 1596 Campana inserisce vari riferimenti all’America, soprattutto sulle tracce delle spedizioni dell’inglese Francis Drake, e all’Africa, accennando fra l’altro a conflitti interni e 2 voll., Venetia, appresso Giorgio Angelieri et compagni, 1597-1599, vol. II, p. non numerata. 53 Lo stampatore a chi legge, ivi, p. non numerata. 54 Lo sostiene anche D.F. Lach, Asia in the Making of Europe, 3 voll., University of Chicago Press, Chicago 1965-1993, vol. II/2, pp. 232-234.

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moti religiosi. Ma è soprattutto l’Asia a essere oggetto di un’attenzione privilegiata, che sembra risentire di un’accresciuta domanda dei lettori in questa direzione, stimolata anche dalle raccolte di lettere dei gesuiti. È sicuramente così per l’episodio della rivolta di Cuncolim, a Salcette, lungo la costa occidentale dell’India, che sfociò nell’omicidio di cinque padri gesuiti (1583), cui segue un quadro della regione, il racconto di come «l’hebbe il re di Portogallo, dopo una lunga guerra, dal re d’Idalgan» (storpiatura di Adil Khan, titolo usato dai sultani di Bijapur al tempo della penetrazione portoghese), e un resoconto dell’azione missionaria nell’area55. In altri casi si coglie persino la ripresa dello stile degli avvisi che confluivano a Venezia da ogni parte d’Europa. È così in corrispondenza dell’anno 1573, dove la missione dei gesuiti in Giappone, cui Campana è particolarmente attento, viene introdotta come segue: «Fu fama in questi giorni essere arrivate lettere in Ispagna, l’ultimo di Novembre, mandate dal Giapone da’ padri gesuiti (de’ quali alcuni con Francesco Xavero, fin dell’anno 1548, erano penetrati in quei remotissimi paesi) come facevan quivi gran progresso le cose della christiana fede». Segue un’attenta descrizione dell’arcipelago, con i suoi abitanti, i loro costumi e le loro credenze, ma anche degli equilibri politici e militari, presentati sulla scorta di «diverse lettere de’ padri gesuiti»56. È una sorta d’introduzione generale al Giappone, che permette di riferirsi altrove alle sue vicende senza dover presentare ogni volta la loro cornice, riassumendone i fatti come se fosse una parte di mondo ormai familiare ai lettori. Così accade anche nel dettagliato resoconto dell’ambasceria di quattro nobili giapponesi convertiti, giunti a Roma nel 1585 per incontrare papa Gregorio XIII. Campana le riserva la lunga sezione che apre il libro VI del secondo volume, dove prova anche a restituire le prime reazioni allo sbarco in Italia di quella singolare delegazione: «fu di tanto contento e maraviglia insieme a tutti gli italiani che parevano in essi et nelle loro attioni rivolti gli occhi et i pensieri di ciascuno, mentre si giva ripensando come da parti rimotissime dal nostro clima e da’ paesi poco dianzi conosciuti», si commenta, «re potentissimi mandassero a rendere obedienza e sottoporsi al vicario di Christo»57. 55 56 57

Campana, Delle historie del mondo cit., vol. II, p. 115. Ivi, vol. I, pp. 273-276. Ivi, vol. II, p. 154.

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Campana non si serve più delle lettere dei gesuiti nel caso della Cina, ma di un «libro dato alle stampe» dai loro rivali agostiniani, che vi si recavano in missione dalle Filippine e miravano anche ad accreditarsi come gli informatori più affidabili. Con molta probabilità, va riconosciuta in quella fonte una delle varie edizioni dell’Historia della China di padre Juan González de Mendoza pubblicate in Italia dopo l’uscita del suo volgarizzamento nel 1586. Prima di allora, scrive Campana, «il paese della China, che dicono anche Cina», era «incognito per la maggior parte a Tolomeo et a gli altri antichi, et a portoghesi anche, et a’ castigliani, ritrovatori quasi di nuovi mondi», ma «che a pena poterono conoscerne le coste maritime e vederne di fuori qualche città di riviera». Campana celebra il primato dei cinesi nell’arte militare, perché «non è di picciola consideratione l’affermar essi, con vive ragioni, che molte centinaia di anni appò quelle genti fu prima l’uso dell’artiglierie che appresso noi». E fa altrettanto con la stampa, «che tra noi fu inventata solo del 1440 da Giovanni Guittemberga e posta in opra in Magonza primieramente, dove nella China, per memoria di libri, si ha che centinaia di anni prima si usasse», ricordando peraltro la congettura di alcuni, fra cui Giovio, «che confinando quella provincia con la Tartaria, quindi sia penetrata tal’inventione a’ tedeschi». Campana prosegue con informazioni sull’ordinamento politico dell’impero cinese, le usanze degli abitanti, la geografia del territorio, le città. Non manca di soffermarsi sulle infinite merci che vi si trovavano. A incuriosirlo di più sono i «vasi di porcellana, mistura nobilissima e pretiosa», perché, a suo dire, avrebbe impedito a chi l’usava di «poter esser ascosamente avvelenato», andando in pezzi al solo contatto con pozioni nocive. Quella credenza induce Campana a fornire una fantasiosa descrizione della porcellana, che sarebbe stata fatta di «guscie di lumache marine, di ovi, et altre materie incognite a noi, ma di gran virtù, che polverizate, e fattane pasta, viene per lo spatio di molti anni conservata sotto terra»58. Queste pagine compendiano le conoscenze correnti in area veneta alla fine del Cinquecento. La loro importanza risiede anche nel contributo alla sedimentazione di immagini diffuse di remote regioni, uno dei piaceri che evidentemente i lettori ricavavano dalle Historie del mondo di Campana. La sua scrittura rapida, che

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Ivi, vol. I, pp. 498-500.

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pretendeva di raccontare la recente storia della mondializzazione in atto restando comodamente seduti allo scrittoio, attirò critiche anche severe, almeno stando al notevole Discorso intorno allo scrivere historie, che indirizzò a Giovanni Carlo Scaramelli, segretario del Senato e della Repubblica di Venezia, inserito in apertura del secondo volume nell’edizione del 1597. Quella replica di Campana ai suoi detrattori conferma come nell’ambiente dei poligrafi veneziani si fosse sviluppata una precoce riflessione intorno alla scrittura di storie del mondo, che solleva questioni non banali. Se ne colgono i segnali già in Tarcagnota, nella sua difesa dell’«ampia historia» forse in risposta a Patrizi, ma anche negli argomenti con cui, nelle pagine conclusive della seconda parte delle sue Historie del mondo, ribatte a quanti andavano facendo «a un certo modo anotomia» della sua opera: in particolare, polemizza contro l’attendibilità dei testimoni diretti dei fatti storici, «poi che non si può in un fatto stesso, non dico avenuto in una battaglia cento miglia lontano, ma in una stessa città, da quelli medesimi che vi si sono ritrovati presenti una stessa relationi haverne»; inoltre, rivendica il suo diritto di «fare la scelta» degli autori «giudiciosi» da seguire poiché, sulle «cose passate già di gran tempo», «è più certa fede quella che ce ne possono fare le scritture che ciò che per udita altri riferire ne volesse»59. Il Discorso intorno allo scrivere historie è molto più ricco e sviluppato60. L’oggetto del contendere è sempre la «verità historica». Campana apre con una professione d’imparzialità come principale garanzia per un’opera pubblicata «mentre ancor vivono migliaia d’huomini, che possono ripigliarmene francamente». Si para subito dall’attacco di chi lo accusava di scrivere per il mercato (come «persona privata») e soprattutto senza esperienza diretta «nell’attioni o civili o militari ch’a trattar s’hanno», illustrando l’ampiezza delle sue «historie universali del mondo», che peraltro annuncia di voler presto completare dando alle stampe una trattazione del periodo che va dall’antichità al 1570, rimasto scoperto nei suoi volumi (ma non lo fece). Anche a voler ricostruire appena «una guerra mossa da fedeli Tarcagnota, Delle historie del mondo cit., vol. II, c. 501v. Si legge in Campana, Delle historie del mondo cit., vol. II, cc. a1r-a10r, da cui sono tratte tutte le citazioni che seguono. Vi accenna appena Cochrane, Historians and Historiography cit., pp. 365-366. 59 60

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al Turco», spiega, affidarsi a «chi non solo fosse intendentissimo de’ governi de’ popoli e dell’arte del guerreggiare, ma insieme ch’esso di veduta affermasse quanto scriveva», è «bella cosa a dire, ma da alcuni impossibile ad effettuarsi, da altri difficilissima». Lo stesso vale per chi pretende di «penetrar ne’ secreti de’ prencipi», forse un omaggio alla benevolenza con cui Venezia tollerava i successi editoriali del filospagnolo Campana, che infatti più avanti riconosce il «gran privilegio» di vivere «sotto una repubblica libera». Allo storico, dunque, spetta «raccontar solo quel tanto che communemente si reputa vero», procedendo con «convenevol diligenza nel ricercare e saper la natura delle genti, la qualità de’ paesi, la proprietà de’ siti e somiglianti chiarezze e ornamenti». Così, informandosi tanto dai «libri» quanto «da persone che di veduta possono testimoniare», diviene possibile «a persona di qualche studio e diligenza», «ben ch’ella veduto co’ proprij occhi non l’habbia, descriver non pur i successi notabili, ma le cagioni et i consigli di essi, e ciò con modo e maniera tale, che o con lode o senza biasimo almeno ne riduca a fine tal narratione, che meriti nome d’historia». Ridurre a racconto storico il mondo e i suoi passati restava un’operazione complessa, specie in un’epoca che aveva visto la conoscenza empirica imporre una nuova immagine del globo, a scapito dell’autorità degli antichi. Perciò, Campana sente il bisogno di approfondire la critica ai resoconti dei testimoni diretti o dei protagonisti dei fatti narrati, spesso inaffidabili o in contraddizione tra loro, respingendo gli argomenti di teorici come il teologo domenicano Melchor Cano, che «prudentemente» aveva scritto «che lo storico deve narrar le cose che o esso ha vedute o udite da chi vi fu presente»: «molto picciola et breve storia sarebbe», obietta Campana, «se quello solamente narrasse ch’esso fatto ha o co’ proprij occhi veduto», «né chi scrive storia ha da dire ogni particolare», ma «può bastargli di narrar quello che si giudica di giovamento a’ posteri, che per altro non ha da servire cotal racconto». Del resto, puntualizza, «sono stati scrittori che meglio han trattato delle attioni avvenute ne gli altrui paesi e lontanissime dalla memoria che chi quindi nativo le scrisse e si trovò presente». Perciò, al primato della «storia visiva» oppone il giudizio dell’«historiografo», che non può «fingersi altro vero che quanto esso reputa vero», mettendo sullo stesso piano l’esperienza diretta o mediata delle cose («perché le ha vedute o perché tali gliele rappresenta chi di vista l’afferma»), le scritture («perché

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le cava da libri, da marmi et altre memorie di probabil fede») e l’«opinion commune» («perché una fama universale e costante per sì fatte le predica»). Il Discorso intorno allo scrivere historie sviluppò per la prima volta una riflessione compiuta intorno a un tipo di opere che incontrava ormai un grande successo di pubblico alla fine del Cinquecento. Conferiva così un fondamento teorico all’attività di poligrafi veneziani come Tarcagnota, Roseo e Dionigi, che nei decenni anteriori si erano sforzati di trasformare le vecchie storie universali in qualcosa di nuovo. Se il mondo e l’intreccio dei suoi passati potevano essere conosciuti attraverso la lettura, anche per scriverne non era necessario aver viaggiato attraverso continenti e oceani o sapere le lingue delle popolazioni di cui si scriveva: «sommi», conclude Campana, «confidato nelle discorse ragioni, posto a scrivere l’attioni intervenute in diverse parti del mondo, se ben’io non posso apportar lor fede di veduta, fuori che di pochissime». La mondializzazione poteva essere racchiusa in un libro anche da un suo modesto spettatore.

VI TRA GESUITI E IMPERI D’OLTREMARE: STORIE DEL MONDO AL TRAMONTO

1. Maffei e la storia missionaria Se durante il Cinquecento la scoperta che anche altre popolazioni del mondo avevano un passato stimolò reazioni inattese tra alcuni storici, quella tensione creativa si affievolì con il passaggio al nuovo secolo. Non perché l’interesse fosse scemato, anzi. A rendere la scrittura di storie del mondo un esercizio sempre più delicato fu proprio l’aumentata consapevolezza del rilievo che gli orizzonti globali stavano assumendo per i poteri europei. Quel genere di opere divenne allora oggetto di una produzione ufficiale, che si affiancò alle tante edizioni per il grande pubblico lanciate dalle stamperie veneziane. Non era più tempo di reclamare la piena dignità del passato precolombiano dell’America, o di rievocare le epoche in cui le rotte dell’Oceano Indiano erano state dominate da grandiose flotte cinesi. La materia sconfinata e proteiforme della storia del mondo andò allora incontro a un processo di selezione, che rimise prepotentemente al centro l’Europa e il primato della religione cristiana, piegando il racconto all’esigenza di celebrare un particolare impero, o un ordine missionario, a scapito di altri. Si riaffacciavano tendenze già presenti nella storiografia medievale e rinascimentale, all’origine di un duplice vizio di fondo nelle storie cosiddette universali scritte in Europa nei secoli successivi: da un lato, la corrispondenza tra la difforme attenzione riservata alle varie parti del pianeta e la posizione attribuita alle relative culture all’interno di una gerarchia con al vertice l’Europa; dall’altro,

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la connotazione marcatamente politica, spesso accompagnata dal tentativo di legittimare attraverso la storia un determinato ordine del mondo, nel presente o nel futuro1. Le eredità di quest’ultimo atteggiamento sono ancora evidenti in alcune sintesi proposte dagli odierni assertori di un’intrinseca eccezionalità della parabola storica dell’Occidente2. Alla fine del Cinquecento quella posizione significava, anzitutto, esaltare la monarchia cattolica che riuniva nelle mani del re Filippo II d’Asburgo i due grandi imperi di Portogallo e Spagna, ritraendola come il culmine verso cui convergevano i tanti passati del mondo. Galeoni carichi di uomini e merci univano direttamente l’Asia all’America e solenni processioni religiose scandivano la vita nelle città iberiche d’oltremare, ma non mancavano tensioni ad oscurare dall’interno lo splendore di quella mondializzazione. Un esempio lampante furono le rivalità che dividevano gli ordini missionari e opponevano, fra l’altro, i gesuiti ai francescani in America centrale e meridionale e agli agostiniani e ai domenicani in Asia meridionale e orientale, dove particolare intensità assunse la gara per l’evangelizzazione della Cina. Si profilava, inoltre, all’orizzonte l’ombra minacciosa dei futuri imperi nordeuropei che in pochi decenni posero fine al sogno di un pianeta iberico e cattolico. Scrivere la storia del mondo dalla prospettiva di una potenza rivale del Portogallo e della Spagna comportava la ricerca di un racconto alternativo. Proprio il pericolo che, oltre a contrastare il potere transoceanico degli Asburgo, la diffusione delle flotte olandesi e inglesi sui mari del mondo esportasse fuori dall’Europa lo scontro fra cattolici e protestanti causava preoccupazioni comuni negli ambienti compenetrati fra loro della monarchia cattolica e dei suoi ufficiali, da un lato, e delle gerarchie ecclesiastiche e dei missionari, dall’altro. L’alleanza tra safavidi e inglesi, che nel 1622 portò alla cacciata dei portoghesi da Hormuz, all’imboccatura del Golfo Persico, avrebbe rivelato fino a che punto la saldatura tra i diversi nemici delle potenze iberiche potesse spingersi. Ma la gravità della nuova situazione che si andava configurando si manifestò in tutta la sua drammaticità già alla metà del 1588, quando una grande flotta 1 Ne ripercorre la tradizione P. Rossi, Il senso della storia. Dal settecento al Duemila, il Mulino, Bologna 2012. 2 Un esempio su tutti: N. Ferguson, Occidente. Ascesa e crisi di una civiltà (2011), Mondadori, Milano 2012.

VI. Tra gesuiti e imperi d’oltremare

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spagnola che era entrata nel canale della Manica per invadere l’Inghilterra subì un’inaspettata battuta d’arresto, incrinando per sempre il mito dell’invincibilità sui mari degli imperi iberici. Trovavano così conferma i timori con cui si era guardato alle imprese compiute negli anni precedenti proprio dal vice-ammiraglio della squadra navale inglese, Sir Francis Drake: su incarico della regina Elisabetta I, aveva attaccato a più riprese i possedimenti spagnoli in America, incrociando, fra l’altro, il primo tentativo di fondare una colonia inglese nel Nuovo Mondo, la Virginia, promosso da Walter Raleigh. Colpito, il composito impero iberico di portoghesi e spagnoli rimase comunque a lungo il volto principale della potenza europea nel mondo. Sempre nel 1588 vedevano la luce le Istorie delle Indie orientali del gesuita Giampietro Maffei. Bergamasco di nobili origini, da giovane aveva raggiunto a Roma lo zio Basilio, quando questi era stato nominato custode della Biblioteca Vaticana, tra i più ricchi depositi di informazioni sul mondo nell’Europa del tempo. Più tardi attese con cura alla sua storia, servendosi soprattutto delle lettere dei gesuiti e di altri documenti consultati in archivio a Lisbona e Coimbra. Era giunto in Portogallo nel 1579, su invito dell’ultimo re della dinastia degli Avis, l’anziano cardinale Enrico, che morì l’anno dopo senza eredi, aprendo la via all’annessione del regno da parte di Filippo II3. Le Istorie di Maffei uscirono in latino a Firenze, ma furono presto tradotte in italiano e conobbero molte ristampe. Sopravvalutarne l’importanza è difficile, anche se non erano una storia del mondo, ma di una delle due Indie, un nome evocativo che abbracciava le terre non europee, con la rilevante eccezione dell’Africa e della penisola araba: il suo impiego duraturo – si pensi all’Histoire des deux Indes (1770) dell’abbé Raynal – testimonia l’unità che due continenti così diversi come l’America e l’Asia conservarono a lungo agli occhi degli europei. Quella di Maffei era la prima storia delle Indie orientali a essere pubblicata nell’età delle esplorazioni. Ma a dispetto del titolo non recupera la storia millenaria dell’Asia. Si risolve, invece, in una trattazione informata e piana, tutta incentrata sulla presenza europea dallo sbarco di Vasco da Gama fino alla morte del re Giovanni III

3 Un profilo in S. Andretta, Maffei, Giampietro, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1960-, vol. LVII, pp. 232-234.

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di Portogallo (1557). Grande spazio è dato ai successi attribuiti ai missionari gesuiti, giunti in India nel 1542 al seguito di padre Francesco Saverio. Se le precedenti cronache si arrestano invariabilmente alla morte del re Emanuele I (1521), Maffei ne prosegue il racconto, intrecciando le gesta dei portoghesi con l’azione dei gesuiti fino quasi a confondere i due piani. Ottiene così l’effetto di un amalgama fra impero e missione, di cui la Compagnia di Gesù emerge quale unica vera interprete. Si rispondeva così alle aspettative di una fase ormai matura della costruzione del mondo iberico: gli esperimenti, che avevano reagito sul terreno della storia alla complessità e varietà delle popolazioni e delle culture non europee, con i loro passati che non si lasciavano facilmente racchiudere in schemi prestabiliti, dovevano cedere spazio a una rassicurante dimostrazione della superiorità dei «cristiani» sui «barbari», che giustificasse la proiezione planetaria dei gesuiti e le conquiste degli imperi che spianavano loro il cammino. Maffei progettò le sue Istorie perché confermassero l’armonia fra monarchia e gerarchie ecclesiastiche nel mondo portoghese, ma la crisi dinastica del 1580, di cui fu testimone diretto, lo costrinse a correggere il tiro: la dedica fu rivolta a Filippo II, elogiato come il sovrano sotto la cui protezione era inevitabile porre un’«esposizione sincera e accurata delle esplorazioni oceaniche compiute dalle devote e felici armate dei suoi antenati, dell’incontro con popoli di cui non si era mai udito parlare, e della propagazione fino alle terre più remote della retta fede in Dio e dell’impero»4. Maffei si sforzava di attenuare le tensioni che ancora circondavano l’ascesa sul trono di Portogallo del re di Spagna, tanto da ricordarne i legami di sangue con i portoghesi che avevano inaugurato le conquiste d’oltremare. Certo, restava l’imbarazzo per uno scritto che era nato proprio per riparare a uno squilibrio nella conoscenza europea della storia degli imperi iberici. Lo si avverte nell’insistenza con cui le imprese di spagnoli e portoghesi, «ricercando terre fin a quel tempo non conosciute e più incogniti mari, così verso levante come verso ponente», sono descritte come un unico movimento voluto dalla provvidenza divina, salvo poi chiarire che se «honore e titoli a ragione s’attribuiscono

4 G. Maffei, Historiarum Indicarum libri XVI, Florentiae, apud Philippum Iunctam, 1588, c. non numerata. La dedica a Filippo II manca nell’edizione italiana.

VI. Tra gesuiti e imperi d’oltremare

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parte a portoghesi, parte a granatini e castigliani», «quelle cose che da granatini e da castigliani sono state gloriosamente fatte nelle parti occidentali saranno opera d’altri scrittori»5. La storia di Maffei si impose come un modello di scrittura da contrapporre a quelle narrazioni che ribaltavano la retorica del trionfo congiunto della corona asburgica e della fede cattolica nel mondo. Così accadde già nel 1590, con la pubblicazione a Francoforte sul Meno della monumentale raccolta di scritti di viaggio nelle Indie occidentali e orientali avviata dal protestante Théodore de Bry, e resa celebre da magnifiche incisioni6. Quell’impresa editoriale, che prevedeva distinte versioni in latino e tedesco, fu continuata fino al 1634 dai figli di De Bry. Come nelle Navigationi et viaggi di Giovanni Battista Ramusio, vi si alternano indifferentemente scritti di contenuto storico o geografico. I primi sontuosi volumi accolsero autori che avevano polemizzato contro la crudeltà e l’arbitrio di portoghesi e spagnoli, contribuendo alla nascita di una leggenda nera del loro imperialismo. È il caso di Girolamo Benzoni, la cui Historia del Mondo Nuovo era apparsa per la prima volta a Venezia nel 15657. Soprattutto la collezione dei De Bry rilanciò la letteratura prodotta negli anni precedenti da esploratori nordeuropei come Hans Staden, marinaio tedesco divenuto protestante dopo aver trascorso circa due anni prigioniero dei tupinamba in Brasile (1552-1554), o il già citato ugonotto francese Jean de Léry8. De Bry mirava a garantire un fondamento storico a progetti e tentativi coloniali condotti contro gli iberici. Una parte del suo disegno

5 Id., Le Istorie delle Indie Orientali, Fiorenza, per Filippo Giunti, 1589, p. 3 (traduzione di Francesco Serdonati). 6 M. van Groesen, The Representations of the Overseas World in the De Bry Collection of Voyages (1590-1634), Brill, Leiden-Boston 2008, cui si rinvia anche per le informazioni discusse qui di seguito. 7 Su Benzoni i lavori sono sorprendentemente pochi. Un profilo in A. Codazzi, Benzoni, Gerolamo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1960-, vol. VIII, pp. 732-733; cfr. inoltre R. Romeo, Le scoperte americane nella coscienza italiana del Cinquecento (1954), Laterza, Roma-Bari 19893, pp. 89-92. Sulla leggenda nera cfr. W. Reinhard, “Eine so barbarische und grausame Nation wie diese”: Die Konstruktion der Alterität Spaniens durch die Leyenda Negra und ihr Nutzen für allerhand Identitäten, in Geschichtsbilder und Gründungsmythen, a cura di H.-J. Gehrke, Ergon, Würzburg 2001, pp. 159-177. 8 E.M. Duffy, A.C. Metcalf, The Return of Hans Staden: A Go-Between in the Atlantic World, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2012.

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fu ideata mentre si trovava a Londra nella seconda metà degli anni ottanta. Ne discusse anche con Richard Hakluyt, impegnato allora in un’operazione in parte simile alla sua, a sostegno delle spedizioni inglesi. Si capisce così perché, dopo la morte di De Bry (1598), i suoi figli inclusero nei volumi pubblicati subito dopo gli scritti dei navigatori inglesi Raleigh e Drake e di Jan Huygen van Linschoten. L’ultimo era un olandese che aveva vissuto per qualche anno a Goa, la capitale dell’impero portoghese in Asia, al servizio del locale arcivescovo. Nel 1596 dette alle stampe un resoconto delle rotte e dei territori che aveva percorso, in corrispondenza con l’avvio delle incursioni olandesi nel sudest asiatico che posero fine al monopolio portoghese sul traffico delle spezie e di altre merci verso l’Europa9. La versione latina edita dai De Bry conserva i brani in cui Linschoten descrive, in termini non sempre negativi, l’operato dei gesuiti – benché in un passo, poi espurgato dalle inquisizioni iberiche nel primo Seicento, attribuisca loro l’insuccesso delle conversioni in Asia10. Lo spazio concesso ai missionari rivela il peso che le ragioni di mercato mantenevano nella selezione delle opere incluse nella collezione: i De Bry non volevano alienarsi la clientela cattolica e tentavano di attenuare la natura partigiana di un grande progetto editoriale a sostegno dell’esplorazione oceanica delle potenze protestanti nordeuropee. Si spiega così perché ne restò fuori la Brevísima relación de la destrucción de las Indias (1552) di Bartolomé de las Casas, mentre nel 1602 fu data alle stampe una traduzione latina dell’Historia natural y moral de las Indias del gesuita spagnolo José de Acosta, di cui si omise però il nome. Già tradotto in olandese proprio da Linschoten, quel testo appariva un autore meno controverso, perché riprendeva in forma smorzata gli argomenti polemici della Brevísima relación, peraltro già ampiamente diffusa nel Nord Europa, dove rappresentava una delle armi più efficaci in mano ai detrattori degli imperi iberici11.

9 E. van den Boogaart, Civil and Corrupt Asia: Image and Text in the Itinerario and the Icones of Jan Huygen van Linschoten, The University of Chicago Press, Chicago-London 2003. 10 «E queste sono le principali ragioni per cui tra gli indiani nessuno diviene cristiano». Il passo fu colpito da censura sia nell’indice dei libri proibiti spagnolo del 1612, sia in quello portoghese del 1624. 11 Sulle traduzioni della Brevísima relación di Las Casas, cfr. R. Chartier, La mano dell’autore, la mente dello stampatore. Cultura e scrittura nell’Europa moderna

VI. Tra gesuiti e imperi d’oltremare

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2. Acosta tra natura e cultura L’opera di Acosta vide la luce per la prima volta a Siviglia nel 1590. Il privilegio di stampa concesso dal re Filippo II la protesse dai sospetti che nel regno circondavano gli scritti sul Nuovo Mondo, in linea di principio soggetti all’approvazione preventiva del Consiglio delle Indie dal 157112. A differenza di Maffei, che non aveva mai lasciato l’Europa, Acosta aveva alle spalle una lunga esperienza missionaria. Aveva vissuto a contatto con gli indios del Perù e del Messico, prima di rientrare, nel 1587, in Spagna, dove concluse l’Historia. Vi offrì ai suoi lettori una trattazione sistematica della vegetazione, degli animali e delle risorse minerali delle Indie occidentali ma anche delle cerimonie e delle usanze dei loro abitanti prima della conquista. In tal senso la sua è una «historia naturale e morale», ossia dei mores, dei costumi. Acosta rivela una profonda consapevolezza delle discussioni affidate a una letteratura storica e geografica sul Nuovo Mondo, che ormai non è «più novo, ma vecchio essendone stato scritto & detto molte cose»13. A tratti, anzi, l’Historia finisce per assomigliare a una dotta compilazione, in cui le principali questioni sollevate fino ad allora da altri autori sono compendiate e discusse da Acosta che, pur senza rinnegare la sua formazione di teologo scolastico, tende ad affidarsi alla sua esperienza personale dell’America. In ogni caso, resta dipendente dalle informazioni raccolte da esperti studiosi locali del passato precolombiano. Per il Perù si tratta anzitutto dell’ufficiale spagnolo Juan Polo de Ondegardo, antiquario e autore di relazioni sulle tradizioni andine. Come Acosta, aveva collaborato all’inchiesta generale sugli indios promossa dal viceré Francisco Álvarez de Toledo negli anni intorno alla decapitazione (2014), Carocci, Roma 2015, pp. 104-106. Su Acosta e l’elaborazione della leggenda nera della conquista spagnola, con particolare riferimento al contesto inglese, cfr. G. Murry, “Tears of the Indians” or Superficial Conversion? José de Acosta, the Black Legend, and Spanish Evangelization in the New World, in «Catholic Historical Review», XCIX (2013), pp. 29-51. 12 Sul controllo degli scritti sul Nuovo Mondo cfr. R. Kagan, Clio & the Crown: The Politics of History in Medieval and Early Modern Spain, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2009, pp. 151-162. 13 J. de Acosta, Historia naturale e morale delle Indie, Venetia, presso Bernardo Basa, 1596, c. †† 2v (traduzione di Giovanni Paolo Gallucci).

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dell’ultimo discendente degli inca, Túpac Amaru (1572), e tesa a togliere ogni fondamento di legittimità all’antico impero abbattuto dai fratelli Pizarro14. In Messico, invece, fu decisivo l’ausilio del gesuita mestizo Juan de Tovar e di un codice finemente illustrato, rimasto a lungo manoscritto, in cui avrebbe riunito i risultati delle sue indagini sulle origini dei nativi dell’America centrale, i loro riti, le credenze e i calendari15. Acosta non celò a Tovar i suoi dubbi sull’attendibilità di quella fonte: come avevano potuto gli indios conservare così a lungo tante informazioni senza l’uso della scrittura?16 L’Historia si colloca in una fase avanzata della produzione di materiali sul passato precolombiano del Nuovo Mondo, rispetto alla quale Acosta intese procedere a una selezione per segnare un significativo passo in avanti: «delle cose nove & strane che ci sono scoperte in quelle parti & de i fatti & successi delli spagnuoli, i quali le hanno conquistata & popolata», avevano già reso conto altri, perciò si sarebbe occupato delle «cagioni & ragioni di tali novitadi & strane cose naturali», insieme all’«historia de i medesimi indiani antichi & naturali habitatori del Mondo nuovo»17. La proposta di una conoscenza affidabile perché critica ed empirica giovò all’immagine di Acosta come autore moderno, contribuendo al successo dell’opera anche nel Nord Europa18. Quest’ultimo fu agevolato anche dal fatto che l’Historia non insiste sull’esaltazione dell’impero spagnolo, «che di questo vi sono molti libri», e ancor meno sull’immagine di un intreccio indissolubile tra conquista e conversione, come fa invece Maffei19. La conversione, in ogni caso, resta l’obiettivo anche in Acosta. A questo doveva servire lo studio dei costumi degli indios e del loro passato. L’avvento degli spagnoli è inserito appieno nel disegno

14 Pensamiento colonial crítico. Textos y actos de Polo Ondegardo, a cura di G. Lamana Ferrario, CBC-IFEA, Cuzco-Lima 2012. 15 J.H. Parry, Juan de Tovar and the History of the Indians, in «Proceedings of the American Philosophical Society», CXXI (1977), pp. 316-319. 16 E.H. Boone, Stories in Red and Black: Pictorial Histories of the Aztecs and Mixtecs, University of Texas Press, Austin 2000, pp. 28-29, dove si riporta anche la replica di Tovar. 17 Acosta, Historia cit., c. †† 2r. 18 A. Grafton, José de Acosta: Renaissance Historiography and New World Humanity, in The Renaissance World, a cura di J.J. Martins, Routledge, New York 2007, pp. 166-188. 19 Acosta, Historia cit., c. 97v.

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della salvezza universale, in cui rientra pure l’attenzione alla natura del Nuovo Mondo, il cielo e il clima, la flora e la fauna, ma anche i metalli, come l’argento delle miniere di Potosí20. Tutta quella meraviglia non colpì i fratelli De Bry, le cui illustrazioni all’opera di Acosta si limitano agli indios21. Natura e cultura: da allora i due piani si sarebbero a lungo incrociati nella riflessione sull’America, e non solo. Acosta perfezionò quel modello di descrizione non narrativa, chiamata comunque «historia», con la mente all’opera dei missionari tra uomini che, come già messo in chiaro in un trattato sulla salvezza degli indios uscito nel 1588, erano e restavano «barbari» come tutti i non cristiani: pur con gradi diversi tra loro, non avevano le stesse capacità intellettuali, né tantomeno la dignità storica degli europei. L’America rappresentò un’opportunità per la fede cristiana e al contempo una sfida senza precedenti, ma chi erano davvero i suoi abitanti? E da dove provenivano? Acosta non può non chiederselo, «perché dall’una parte habbiamo di certo che sono molti secoli che sono huomini in queste parti & per l’altra non possiamo negare quello che la divina scrittura chiaramente insegna, che tutti gli huomini sono derivati da un primo huomo»22. Era un punto spinoso, che tuttavia i racconti poco convincenti degli indios non bastavano a risolvere. Una speculazione razionale induceva a ritenere come ipotesi più probabile che fossero giunti dall’Asia attraverso un passaggio terrestre, dato che gli antichi non erano in grado di navigare attraverso gli oceani. Così Acosta intervenne nella disputa sulle incerte origini degli indios, ancora molto accesa per tutto il Seicento23. Il possibile passato asiatico degli indios rende meno astratte le comparazioni che Acosta istituisce nella seconda parte dell’opera, l’«historia morale». È il caso, anzitutto, della religione. Gli

20 S. Ditchfield, What Did Natural History Have to Do with Salvation? José de Acosta SJ (1540-1600) in the Americas, in God’s Bounty? The Churches and the Natural World, a cura di P. Clarke, T. Claydon, Ecclesiastical History Society-Boydell Press, Woodbridge-Rochester 2010, pp. 144-168. 21 F. del Pino Díaz, Texto y dibujo. La «Historia indiana» del jesuita Acosta y sus versiones alemanas con dibujos, in «Jahrbuch für Geschichte Lateinamerikas», XLII (2005), pp. 1-31. 22 Acosta, Historia cit., c. 14v. 23 G. Gliozzi, Adamo e il Nuovo Mondo. La nascita dell’antropologia come ideologia coloniale: dalle genealogie bibliche alle teorie razziali (1500-1700), La Nuova Italia, Firenze 1977, pp. 371-381.

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indios praticavano un’idolatria d’ispirazione diabolica, di cui però «horamai erano stanchi» prima dell’arrivo degli spagnoli, perché «non potevano soffrire le crudeltadi de i suoi dei». Acosta suggerisce continui confronti tra i loro riti e quelli di cristiani, ebrei, musulmani e antichi pagani, nonché di alcune popolazioni asiatiche, su cui lo informavano le lettere dei confratelli missionari in Cina, Giappone e India24. Lo stesso avviene per le manifestazioni culturali. Un nodo fondamentale è quello dell’assenza della scrittura. Sin dalle prime pagine dell’opera Acosta si domanda «come si habbian saputo i successi & fatti antichi indiani, non havendo essi scrittura come habbiam noi altri», «perché non è picciol parte delle cose loro haver potuto & saputo conservar le sue antiquitadi senza usar overo servare alcune lettere»25. La risposta passa di nuovo per una comparazione, stavolta fra i quipu, le cordicelle usate dai quechua in Perù per conservare informazioni, e le «lettere» dei cinesi, su cui aveva notizie fresche dai gesuiti Michele Ruggieri e Matteo Ricci26. L’Historia si concentra sull’America, ma è permeata da paragoni con il resto del mondo non europeo. Era una conseguenza prevedibile della percezione che Acosta per primo aveva della sua epoca, in cui era frequente incontrare «huomini c’hanno fatto il viaggio di Lisbona a Goa & da Siviglia al Messico & a Panama & in quest’altro Mare del Sur [l’Oceano Pacifico] fino alla China & fino allo stretto di Mallaganes» con «tanta facilitade» come un agricoltore andava dal suo borgo al paese. I confronti su scala globale si infittiscono nella «historia morale», che segue la «historia naturale», secondo un avvicinamento per cerchi concentrici che rappresenta un singolare esperimento di trattato totale sul Nuovo Mondo al momento dell’arrivo degli spagnoli. In fondo, quella di Acosta è una storia quasi atemporale, se si esclude la genealogia degli imperatori inca e aztechi, che si trova nell’ultimo libro, tutto dedicato alla «natione

24 Acosta, Historia cit., c. 115rv. Su Acosta e lo sviluppo dello studio delle religioni cfr. G.G. Stroumsa, A New Sciences: The Discovery of Religion in the Age of Reason, Harvard University Press, Cambridge (MA)-London 2010, p. 17. 25 Acosta, Historia cit., c. [†† 3]v. 26 A.C. Hosne, Assessing Indigenous Forms of Writing: José de Acosta’s View of Andean Quipus in Contrast with Chinese “Letters”, in «Journal of Jesuit Studies», I (2014), pp. 177-191.

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messicana», poiché «si è conservata la memoria de i suoi principi & successione & guerre & altre cose degne di sapersi»27. Quella raccolta di materiali presentati come originali, che Acosta ordina secondo uno stile espositivo europeo, si chiude emblematicamente con la caduta di Moteuczoma II, la conquista di Cortés e i miracoli e le conversioni che ne erano seguiti. Insieme al fatto che erano entrambe scritte da un gesuita, fu l’obiettivo religioso dell’Historia di Acosta a farla percepire come un complemento delle Istorie di Maffei, da cui pure si distingue nettamente. In un panorama editoriale sempre più affollato e attraversato da una guerra di immagini e interpretazioni, andarono a collocarsi l’una accanto all’altra, sugli scaffali di un’ideale biblioteca cattolica, come se fossero un’unica storia delle Indie. Si costruiva così l’immagine di un mondo dominato dall’onnipresenza della Compagnia di Gesù28. Al tempo stesso, si delineava una divaricazione nel modo di guardare all’Asia e all’America, che si impose nella cultura europea con effetti di lungo periodo sulla definizione dei campi del sapere29. I gesuiti contribuirono a ridisegnare i confini e i caratteri del genere delle storie del mondo alla fine del Cinquecento, grazie a una preoccupazione di tipo nuovo per il tema della religione: il racconto storico doveva adeguarsi alle cautele di una cultura cattolica ormai avvezza alla censura, senza lasciare ombre sulla piena legittimità e inevitabilità della propagazione della fede cristiana. Di questo faceva parte anche la celebrazione dei poteri politici che sostenevano gli sforzi missionari. Uomini come Maffei e Acosta lo sapevano bene. Eppure, dalla penna di un gesuita non uscì mai una vera storia del mondo. La cosa sorprende, data la mole di conoscenze su remote popolazioni e società che i padri della Compagnia di Gesù facevano affluire in Europa e circolare attraverso gli imperi iberici. Tanto più che il secondo Cinquecento vide un deciso rilancio della storia sacra e, al suo interno, di quella ecclesiastica. Dagli anni sessanta l’oratoAcosta, Historia cit., cc. 16r e 97r. L. Clossey, Salvation and Globalization in the Early Jesuit Missions, Cambridge University Press, New York 2008. 29 Il riferimento è ai lavori ormai classici di A. Pagden, La caduta dell’uomo naturale. L’indiano d’America e le origini dell’etnologia comparata (1982), Einaudi, Torino 1989; A. Gerbi, La disputa sul Nuovo Mondo. Storia di una polemica (17501900), a cura di S. Gerbi, Adelphi, Milano 20003; S. Landucci, I filosofi e i selvaggi, Einaudi, Torino 20142. 27 28

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riano Cesare Baronio lavorava a una storia universale della Chiesa, in risposta alle accuse di corruzione e tradimento del mandato apostolico sferrate dalla storiografia protestante. Tra il 1588 e il 1607 dette alle stampe dodici volumi dei suoi Annales ecclesiastici, spingendo il racconto fino ai primi secoli del basso medioevo30. Quel monumento di erudizione, reso solido dalla consultazione di diplomi papali e altri documenti ufficiali, conobbe un notevole successo in Europa. Pur appartenendo alla stessa generazione di Maffei e Acosta, però, a Baronio la nuova proiezione globale del cattolicesimo non interessava. In questo era un genuino interprete dello spirito con cui le gerarchie romane avevano rinunciato, come conferma l’assenza di dibattiti in materia al concilio di Trento, a svolgere un ruolo attivo nell’evangelizzazione fuori dall’Europa, delegandone la gestione alle corone di Portogallo e Spagna, per concentrarsi sullo scontro con la Riforma31. Per capire perché nessun gesuita scrisse una storia del mondo si deve piuttosto guardare a un contemporaneo di Baronio, legato come lui alla famiglia cardinalizia dei Borromeo. 3. La geopolitica del mondo: l’ex gesuita Botero e l’avventuriero Sherley Giovanni Botero si era rivolto al cardinale Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, quando aveva abbandonato la Compagnia di Gesù (1580), dopo che gli era stata più volte negata la professione dei voti solenni. Passato al servizio di Borromeo, figura ascetica che incarnava lo spirito più austero della Controriforma, Botero ne condivise per un tratto il progetto di riorganizzazione della vita religiosa nell’arcidiocesi di Milano32. 30 Nunc alia tempora, alii mores. Storici e storia in età postridentina, a cura di M. Firpo, Olschki, Firenze 2005; Sacred History: Uses of the Christian Past in the Renaissance World, a cura di K. Van Liere, S. Ditchfield e H. Louthan, Oxford University Press, Oxford 2012. 31 Sulle ragioni del silenzio di Trento cfr. A. Prosperi, Il concilio di Trento. Una introduzione storica, Einaudi, Torino 2001, pp. 152-153; J.W. O’ Malley, Trento e dintorni. Per una nuova definizione del cattolicesimo nell’età moderna (2000), Bulzoni, Roma 2004, pp. 93-94. 32 Per un profilo della figura di Botero resta ancora insuperato F. Chabod, Scritti sul Rinascimento, Einaudi, Torino 1967, pp. 269-458.

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Fu in quel frangente che pubblicò l’opera di meditazione ascetica Del dispregio del mondo (1584), un titolo curioso per chi solo pochi anni prima sognava di partire missionario per le Indie. Lo scritto si apre sui quattro significati della parola «mondo»: in primo luogo, «tutta questa machina, che noi veggiamo, creata di niente da Dio signor nostro», ossia l’universo; poi, «il luogo dove habitiamo», ossia la terra; quindi, «gl’huomini mondani che d’altro non si curano che di questo secolo»; e infine, «le cose terrene e nel mondo contenute»33. Il buon cristiano poteva elevarsi spiritualmente disdegnando, in particolare, il secondo e il quarto aspetto. La vita, però, riservò tutt’altra via a Botero: anziché disprezzare il mondo, lo contemplò attraverso gli scritti di geografia e storia accumulati sulla scrivania, nonché le relazioni diplomatiche ricevute da ogni parte, per poi illustrarne le caratteristiche principali in un’opera destinata a grande popolarità. Quando il primo volume delle sue Relationi universali uscì a Roma nel 1591, con l’appoggio del cardinale Federico Borromeo, nipote di Carlo, Botero era ormai un autore di spicco della cultura cattolica. Riflettendo sulle grandi questioni politiche dell’Europa del tempo e muovendosi tra Milano, Parigi e Roma, aveva scritto e dato alle stampe trattati di grandissimo successo come Della ragion di stato (1589). La vicenda editoriale delle Relationi universali è complessa, per le aggiunte e le correzioni che il suo autore continuò ad apportare alle sue quattro parti fino al 161134. Ma una cosa è certa: non erano una storia del mondo, né come tale furono concepite. Nelle biblioteche del tempo non trovarono posto fra i libri di storia, ma fra quelli di geografia. Del resto, Botero non aveva certo problemi con lo spazio, come mostra l’allargamento sistematico della sua trattazione a tutte le regioni del mondo, ma ricomporre la sfuggente molteplicità dei loro passati era ben altra questione: dalle tante trasformazioni avvenute nei secoli sarebbe emerso il fondo di violenza e cancellazione su cui poggiava la diffusione globale del cristianesimo. Botero voleva

33 G. Botero, Del dispregio del mondo libri cinque... et due prediche appartenenti all’istessa materia, Milano, appresso Francesco & Simon Tini fratelli, 1584, p. 1. 34 Si dispone ora di un’edizione moderna condotta sulla versione pubblicata a Venezia da Alessandro de’ Vecchi nel 1618: G. Botero, Le relazioni universali, a cura di B.A. Raviola, Aragno, Torino 2015.

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l’esatto opposto35. Il suo obiettivo era descrivere lo «stato nel quale si trova hoggi la religione christiana per il mondo»36. Prestava così un prezioso servizio a una Chiesa intenta a contare il numero dei suoi fedeli, mentre si misurava con le altre religioni in una competizione per le anime divenuta ormai planetaria37. Il risultato è una compilazione di seconda mano, che deve molto al passato di gesuita di Botero, a partire dal largo impiego degli scritti dei padri della Compagnia. Principale fonte per l’America spagnola, per esempio, è Acosta, mentre per il Brasile Maffei, fra i pochi allora ad aver trattato di quella parte dell’impero portoghese in un’opera a stampa accessibile in Italia, le Istorie delle Indie orientali da cui Botero dipende molto anche per l’Asia38. Le Relationi universali riprendono molti testi di storia, benché non sempre i più aggiornati. Ne derivarono un’ambiguità e un’incoerenza di fondo, dovute alla difficoltà di tenere insieme una materia vastissima a partire da autori tanto diversi tra loro, talora copiati di peso. L’approdo fu una sorta di geopolitica delle religioni, più utile e rassicurante di una storia del mondo. Del resto, la posta in palio era il primato della Chiesa e delle potenze cattoliche che, entrato in crisi per la Riforma protestante in Europa, rischiava ora di perdere ogni credibile pretesa di universalità39. Botero offrì ai suoi lettori una ricca introduzione allo «stato» presente del mondo, non un’esposizione dei complessi cambiamenti che lo avevano reso qual era. Da qui discende la matrice fortemente apologetica di una raccolta di informazioni, che nelle prime due parti riguarda geografia e ordinamenti politici. Allo spettacolo del globo J.M. Headley, Geography and Empire in the Late Renaissance: Botero’s Assignment, Western Universalism, and the Civilizing Process, in «Renaissance Studies», LIII (2000), pp. 1119-1155. 36 Epistola dedicatoria al cardinale Carlo di Lorena, in G. Botero, Delle relationi universali. Prima parte, Roma, appresso Georgio Ferrari, 1591, c. 2v. 37 Lo ha ricordato A. Prosperi, Lo stato della religione tra l’Italia e il mondo: variazioni cinquecentesche sul tema, in «Studi storici», LVI (2015), pp. 29-48, mettendo a confronto Botero e l’inglese Edwin Sandys, autore di una Relation of the State of Religion (1605). 38 A. Albònico, Il mondo americano di Giovanni Botero. Con una selezione dalle “Epistolae” e dalle “Relationi Universali”, Bulzoni, Roma 1990, pp. 94-95, 113-118; Chabod, Scritti cit., pp. 396-404, 417-424. 39 R. Descendre, L’état du monde. Giovanni Botero entre raison d’État et géopolitique, Droz, Genève 2009. 35

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si accede dall’Europa, con la cattolicissima Spagna, per poi passare agli altri continenti, rispecchiando un significato dell’aggettivo «universale», che rinvia all’esistenza di un centro di irradiazione, secondo un’accezione che si è mantenuta per secoli. Perciò, non serviva che un approfondimento storico ricordasse quanto era plurale il mondo nel passato, salvandone dall’oblio la varietà di costumi e credenze, e quanto invece era recente, salvo rare eccezioni, la diffusione del cristianesimo in Africa, America e Asia. Così, nel proemio della terza parte, Botero arriva a polemizzare con gli «istorici moderni», perché invece degli «avvenimenti prosperi o contrari della nostra santa fede» trattano solo di «affari di stato o imprese di guerra atte a pascer la curiosità più che a regolar l’affetto». Eppure, «se mai gli scrittori ebbero occasione d’impiegar l’opera loro di dar conto de’ successi della religione cristiana, l’hanno a tempi nostri grandissima»40. In quest’ottica, che suona anche come una rivendicazione della novità della propria opera, si passano in rassegna le religioni in Europa, Africa e Asia, con qualche concessione a una prospettiva cronologica all’interno di ciascun capitolo, e poi, nella quarta parte, i culti degli indios del Nuovo Mondo e la loro conversione. Le Relationi universali si fondano sulla staticità. Questo aiuta a capire perché non occupino un posto di rilievo nella bibliografia ragionata per scrivere la storia di tutte le popolazioni del mondo pubblicata dal gesuita Antonio Possevino nel 1597, quando una prima versione di tutte e quattro le parti dell’opera di Botero era già uscita a stampa. Possevino vi proseguì l’impresa militante di segnalare le letture più adatte ai cattolici avviata quattro anni prima con la Bibliotheca selecta41. Che lo sforzo si rivolgesse in modo approfondito alla storia è solo una conferma del suo rilievo, con tutti i pericoli che ne derivavano. Si trattava di soppesare, come su una bilancia, «gli historici greci, latini & altri», per indicare «come convenga leggerli», insegnando a distinguere tra «veritieri, o supposti sotto nomi di scrittori antichi, quali non veri o dannosi». La condanna del falsario Annio da Viterbo è resa più grave dal fatto di essere associato a Botero, Le relazioni cit., p. 823. A. Biondi, La “Bibliotheca selecta” di Antonio Possevino. Un progetto di egemonia culturale, in La “ratio studiorum”. Modelli culturali e pratiche educative dei gesuiti tra Cinque e Seicento, a cura di G.P. Brizzi, Bulzoni, Roma 1981, pp. 43-75. 40 41

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Machiavelli, Lutero e Calvino. Del resto, a preoccupare Possevino erano anzitutto gli storici protestanti. Ma osservate speciali erano anche le recenti opere di storia del mondo, segno di un interesse per i nuovi orizzonti globali della cultura del tempo. Di storici e storia, ammette lo stampatore Giovanni Battista Ciotti, si erano già occupati in molti, ma non era a conoscenza di un testo, come quello di Possevino, che «riunisse insieme le cautele e le altre cose grazie a cui poter sfogliare senza timore gli storici più sicuri e veritieri»42. Tanti storici avevano trattato «le navigationi di Christoforo Colombo, del Magellano, de’ castigliani & de portughesi», e più in generale delle diverse parti dell’Africa, dell’Asia e dell’America. Possevino approva, a seconda dei casi, Giovanni Leone Africano, i francesi André Thevet e Pierre Belon, gli italiani Lorenzo Gambara, Giovanni Tommaso Minadoi e Pietro Bizzarri (un eretico), i portoghesi Francisco Álvares, João de Barros, Fernão Lopes de Castanheda, Damião de Góis e Jerónimo Osório, gli spagnoli Francisco López de Gómara, Pedro Cieza de León e Agustín de Zarate, oltre, naturalmente, ai gesuiti Acosta e Maffei, quest’ultimo oggetto di un lungo elogio43. Un bosco molto rigoglioso da sfrondare era quello degli autori «che hanno abbracciato gli eventi del nostro tempo con una storia quasi universale»: nel novero degli scrittori raccomandati che avevano fatto uso del latino figurano papa Pio II, costantemente richiamato da Possevino, insieme a Hans Böhm, tra le voci più autorevoli su molte regioni europee e di altri continenti, e Paolo Giovio; tra quanti avevano scritto «nella lingua italiana» spicca, invece, Giovanni Tarcagnota, autore gradito alle gerarchie cattoliche, tanto che lo avrebbe ricordato oltre due secoli dopo anche Alessandro Manzoni, immaginando i suoi volumi nella biblioteca di Don Ferrante, accanto a quelli di altri storici del mondo la cui lettura impegnava il tempo di un erudito milanese intorno al 1630: «il Dolce, il Bugatti, 42 A. Possevino, Apparatus ad omnium gentium historiam..., Venetiis, apud Io. Bapt. Ciottum, 1597, c. A2v. Il passo non si trova nell’edizione in italiano pubblicata l’anno seguente. 43 L’elenco dei nomi è tratto dallo spoglio dell’intera opera. Si cita da Id., Apparato all’Historia di tutte le Nationi..., Venetia, presso Gio. Battista Ciotti, 1598, c. 3r; l’elogio a Maffei è alle cc. 136rv. Bizzarri, ricordato per la Rerum Persicarum historia (1583), compose anche una storia del mondo, di cui passò il manoscritto a Giusto Lipsio nel 1581 con la speranza, delusa, che lo aiutasse a trovare un editore.

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il Campana, il Guazzo, i più riputati in somma»44. Non li ricorda Possevino, che invece menziona il Compendio historico universale (1594) di Giovanni Nicolò Doglioni e le «Relationi brievi di quasi tutte le provincie & nationi» di Botero45. Il riferimento a quest’ultimo non confonda. Possevino mette subito in chiaro il carattere strumentale dell’inclusione delle Relationi universali: in Botero si potevano trovare solo notizie utili alla conoscenza storica del mondo, «adatte a tutto questo sforzo», al pari degli altri geografi ricordati a tal fine da Possevino, che addirittura riserva una sezione finale alla descrizione di città46. Vi ricorda i nomi degli storici di quelle più importanti ed elenca quelle oggetto delle magnifiche mappe della raccolta delle città del mondo, edita dal 1572 sotto la guida di Georg Braun, canonico della cattedrale di Colonia. Del resto, la genesi delle Relationi universali non si comprende senza tener conto che i lettori europei si stavano abituando allora all’illusione di poter toccare con la mano i vari continenti semplicemente sfogliando un libro: era l’effetto del successo dei «teatri del mondo», sontuosi volumi illustrati da carte geografiche di grande accuratezza, come quello dato alle stampe dal fiammingo Abraham Ortels (Ortelius) nel 1570, su stimolo di Gerard de Cremer (Mercator), anch’egli fiammingo ma rifugiato in Germania perché protestante; nel 1595 pubblicò un’opera simile e altrettanto celebre, che per la prima volta usava la parola «atlante» nel titolo47. A un confronto più serrato con la storia Botero arriva comunque nella quinta parte delle Relationi universali, che rimaneggiò fino al 1611 ma rimase inedita fino al 1895. Vi descrive le «alterationi» avvenute nel mondo nell’ultimo quarto del Cinquecento. Dimostra così, per via indiretta, che lo «stato» presentato nelle quattro parti precedenti non era poi immutabile. Ma pur aprendosi finalmente alla storia, l’attenzione di Botero resta concentrata sul presente politico e religioso, come conferma il bilancio del «numero de i christiani e

44 A. Manzoni, I Promessi Sposi, in Opere, a cura di L. Caretti, Mursia, Milano 1974, p. 325. 45 Possevino, Apparato cit., cc. 21v-22r. 46 Id., Apparatus cit., c. 20r. Il giudizio sulle Relationi universali si trova solo nell’edizione latina. 47 N. Broc, La geografia del Rinascimento. Cosmografi, cartografi, viaggiatori, 1460-1620 (1989), Panini, Modena 1996, pp. 160-164.

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delle altre nationi, quanto spetta alla relligione, per l’universo» posto in chiusura proprio della quinta parte, in cui si constata come «la più parte de gli huomini resti nelle tenebre dell’infedeltà sepolta»48. Non agisce in Botero un interesse per il passato in sé: è «molto più commendabile», osserva, «l’illustrare i tempi presenti che i passati, perché i successi dell’età nostra hanno assai più del dilettevole, per la loro novità, che quei de i tempi passati, tante volte scritti e in diverse lingue espressi». Solo la «sperienza delle cose moderne» consente di agire con la necessaria consapevolezza, dato che «molto più sicuro sarà il giuditio fondato su quel che tu vedi e che tocchi»49. Il racconto di Botero tiene fede alle promesse solo nelle sezioni sulle parti di Europa a lui più familiari. Quando affronta le altre regioni, specie se esterne all’Europa, la trattazione si fa più debole e incerta. È fondata su una conoscenza superficiale e affrettata, e a volte si narrano eventi risalenti a epoche molto anteriori agli ultimi trent’anni, come nel caso dell’Etiopia. Non si dispone di notizie sulla Cina, «dove non è avvenuta alteratione di stato che si sappia», ma si riporta comunque una relazione generale avuta da alcuni «gentilhuomini portoghesi», per «non lasciar la più nobil parte d’Asia sotto silentio»50. In un mondo di imperi in precario equilibrio e nuove potenze globali in ascesa, procurarsi notizie affidabili non era agevole. Botero lo ricorda a proposito dei suoi rapporti con «gl’imbasciatori del re di Persia venuti parte in Italia, parte in Spagna», con i quali «più di una volta» era stato in contatto «per mezo d’amici». Alle pagine inedite delle Relationi universali Botero affida un giudizio non proprio lusinghiero su due avventurieri inglesi che fecero molto parlare di sé nell’Europa del primo Seicento, i fratelli Anthony e Robert Sherley. Sul finire del Cinquecento, il primo dei due aveva guidato un viaggio di razzia ai Caraibi e contro le isole di Capo Verde. Il suo resoconto fu poi incluso da Richard Hakluyt nella seconda edizione della sua raccolta (1598-1600). Intanto, insieme al fratello, Anthony raggiunse la corte safavide in Persia, con lo scopo dichiarato di promuovere i commerci con l’Inghilterra e stimolare una ripresa delle ostilità contro l’impero ottomano. Entrati nelle grazie di shah Abbas I, i 48 C. Gioda, La vita e le opere di Giovanni Botero, 3 voll., Hoepli, Milano 18941895, vol. III, p. 325. 49 Ivi, pp. 36-37. 50 Ivi, p. 232.

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fratelli Sherley fecero separatamente ritorno in Europa in veste di suoi rappresentanti diplomatici, indossando abiti di foggia orientale e attirando su di sé attenzioni, commenti e diffidenza nelle città e nelle corti in cui risiedevano. Ebbero sorti alterne, ma molti li presero sul serio, come Botero che, «per intendere il vero delle cose di Persia e delle sue circostanze», fece recapitare a Robert a Milano e ad Anthony a Madrid «nota delle domande che voleva che lor si facessero». Ma «di molte cose ch’essi risposero» tenne «per vere» solo «quelle nelle quali erano tra se conformi», senza nascondere che, «per la poca noticia che di quei stati non che delle cose occorrenti mostravano, poco alla mia espettatione corrisposero»51. Trapela qui l’immagine di due impostori, che conferma la descrizione di Anthony Sherley come «huomo di nessuna religione», sempre pronto a cambiare l’acqua del proprio mulino «secondo la materia per macinare», che ne dette nel 1608 il suo segretario, Giovanni Tommaso Pagliarini, al momento di troncare i loro rapporti. La delusione di Botero verso i fratelli Sherley rafforza l’impressione di una profonda differenza, nonostante una somiglianza di superficie, tra le Relationi universali, compilate a sostegno del trionfo nel mondo della fede cattolica, e il più esile Peso político de todo el mundo, finito di scrivere nel 1622 da Anthony Sherley, che si era stabilito definitivamente in Spagna52. Quel trattato di geopolitica, dedicato al conte-duca di Olivares, ambiva a offrire al ministro spagnolo, allora in ascesa come favorito del nuovo re Filippo IV, una sintesi della geopolitica globale per fronteggiare le sfide poste a un impero planetario da un presente in continua trasformazione. Restò manoscritto, ma conobbe una discreta circolazione, confermando così una tendenza più generale nella comunicazione culturale della Spagna del tempo53. Dopo aver invitato Olivares ad «aprire la mano e saggiare con essa il peso di 51 Ivi, pp. 37-38. Nel 1613, comunque, Anthony Sherley pubblicò una relazione dei suoi viaggi in Persia in lingua inglese, su cui cfr. J. Schleck, K. Sahin, Courtly Connections: Anthony Sherley’s «Relation of His Travels into Persia» (1613) in a Global Context, in «Renaissance Quarterly», LXIX (2016), pp. 80-115. 52 Vi insiste già S. Subrahmanyam, Three Ways to Be Alien: Travails & Encounters in the Early Modern World, Brandeis University Press, Waltham (MA) 2011, p. 127, che rilegge l’itinerario biografico globale di Sherley alle pp. 79-132. 53 F. Bouza Alvares, Corre manuscrito. Una historia cultural del Siglo de Oro, Marcial Pons, Spagna 2001.

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tutto il mondo, e nel pesarlo osservare la sostanza di questa monarchia», Sherley passa in rassegna la situazione politica delle maggiori potenze del tempo54. Non vi è in lui alcun afflato religioso e il papa è ritratto come «un principe molto limitato», a differenza che in Botero55. Un confronto realistico tra potenze europee e non europee lo porta invece a descrivere la Cina come «un grandissimo impero esteso su grandissime distanze e con tanta abbondanza di tutto quello che serve» da poter «con mano liberalissima ripartirlo fra tutto il mondo». Né si manca di sottolineare come «anticamente l’impero dei cinesi si dispiegava su tutta l’India orientale fino al Madagascar», fino quando non si erano stancati «dello spreco di tesori e del consumo di uomini per difendere e proteggere una tale estensione»56. Ma alla Cina del primo Seicento mancava una milizia come quella che rendeva la monarchia cattolica e l’impero turco «le due maggiori potenze che oggi vi siano nel mondo». Erano come il sole e la luna, ma la prima doveva «disporre tutto per non avere un’eclissi con la luna in opposizione, perché ne seguono molte conseguenze brutte, pericolose e dannose»57. Uomo dalla lealtà politica mobile che aveva iniziato la sua carriera di mediatore diplomatico cercando un accordo commerciale tra l’Inghilterra e la Persia in chiave anti-ottomana, nel Peso político Sherley appoggia l’idea di una grande pace tra la Spagna e la Turchia. La proposta ritorna anche nelle pagine finali, dove si presenta un elenco delle principali località sulle coste dell’Oceano Pacifico e sul versante americano del mondo atlantico, in cui inglesi e olandesi avrebbero potuto insediarsi, minacciando la potenza imperiale iberica. Se Botero non fu il modello di Sherley, lo sarebbe stato invece della Relazione delle quattro parti del mondo (1631), scritta per «riparare la smarrita fede, e per rinvigorire la languente, e per ristorare le infinite perdite» da Francesco Ingoli, segretario della congregazione «de Propaganda Fide», fondata nel 1622 per restituire alla curia 54 A. Sherley, Peso de todo el mundo (1622). Discurso sobre el aumento de esta monarquía (1625), a cura di Á. Allora, M.Á. de Bunes e J.A. Martínez Torres, Polifemo, Madrid 2010, p. 87. 55 Ivi, p. 101. Su Botero e la giurisdizione universale del pontefice insiste il saggio d’apertura del volume Papato e politica internazionale nella prima età moderna, a cura di M.A. Visceglia, Viella, Roma 2013, pp. 18-19. 56 Sherley, Peso de todo el mundo cit., pp. 181-182. 57 Ivi, p. 154.

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il governo dell’evangelizzazione, a fronte dell’operato autonomo dei patronati delle corone iberiche e dell’avanzata delle potenze protestanti nel mondo58. Sherley aveva suggerito una prospettiva opposta a Olivares, ma proprio come in Botero la storia non ha alcun peso nel suo testo, salvo richiami occasionali al passato per illuminare aspetti del presente con lo sguardo rivolto al futuro. 4. Ascesa e caduta di Herrera, cronista del re Il successo editoriale, intanto, aveva arriso alle Relationi universali. Rispondevano alla vana speranza di poter arrestare la fluidità di un’epoca, di cui fu un simbolo certamente estremo un uomo come Anthony Sherley, che conobbe più volte il carcere e fornì persino il soggetto, insieme ai fratelli Robert e Thomas, a una pièce teatrale andata in scena alle porte di Londra nel 1607. Proprio in Inghilterra e in Spagna, i due poli europei delle trame politiche di cui Sherley si ritrovò al centro, uscirono all’inizio del Seicento riduzioni e traduzioni dell’opera di Botero59. In quella apparsa a Valladolid nel 1603, con dedica al duca di Lerma, favorito del re Filippo III, l’editore ricorda come le Relationi universali fossero un «tesoro» ricco di preziose informazioni soprattutto per «coloro che trattano di materie di stato e guerra», ossia l’esatto opposto di quanto Botero auspica in apertura della terza parte delle Relationi universali, dove polemizza con gli «historici moderni». Il traduttore Diego de Aguiar nell’epistola al lettore interpreta Botero come un complemento alla «conoscenza della storia», «messaggera dell’antichità e parte principale della scienza politica», senza cui non potevano agire rettamente «coloro che hanno l’impero del mondo»60. Non erano parole dette a caso. Negli stessi anni lo scontro che si consumava fra le corone di

58 F. Ingoli, Relazione delle quattro parti del mondo, a cura di F. Tosi, Urbaniana University Press, Roma 1999, p. 12. 59 La riduzione inglese uscì anonima, forse per non fare pubblicità a un autore cattolico: The Worlde or An historical description of the most famous kingdomes and common-wales therein, London, by Edm. Bollifant for John Iaggard, 1601. 60 G. Botero, Relaciones universales del mundo... Primera y Segunda Parte..., Valladolid, por los herderos de Diego Fernandez de Cordova, 1603, cc. non numerate.

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Spagna e d’Inghilterra favorì il tentativo di usare la storia del mondo non più come un mezzo per ridare voce ai passati multipli del globo, ma come un’arma ufficiale al servizio del potere. Era la prima volta. Le conseguenze per chi prestò la sua penna a quello scopo furono serie, come mostrano le storie connesse di Antonio de Herrera y Tordesillas e Sir Walter Raleigh. Alla metà del 1608 erano entrambi in stato di arresto, il primo nella sua casa a Madrid e il secondo in un’ala del vasto complesso della Torre di Londra conosciuta come Bloody Tower e usata come prigione per personaggi di alto rango. Tutti e due erano vittime di intrighi e dell’accusa di aver cospirato contro la corona. Ma se Raleigh era stato condannato nel 1603 per aver ordito un presunto complotto contro il nuovo re Giacomo I, la cui salita al trono segnò una forte discontinuità rispetto agli equilibri della corte elisabettiana, la caduta di Herrera era recente. Fu travolto dall’incarceramento del suo protettore, Don Francisco de Mendoza, ammiraglio di Aragona, accusato di aver tramato per rovesciare il potente duca di Lerma. Già da qualche tempo, il favorito del re lavorava per ostacolare Herrera, la figura dominante nel panorama della storiografia spagnola di inizio Seicento, dopo aver assunto, una dopo l’altra, le cariche di cronista maggiore delle Indie (1596), cronista del re (1598) e segretario regio (1605). Nella sua attività di cronista Herrera si attenne strettamente alla lezione di Botero che nella Ragion di stato, di cui peraltro curò la traduzione spagnola apparsa nel 1593, ricorda il contributo dell’«istoria» alle «scienze atte ad affinar la prudenza» del principe e come attraverso di essa si possa abbracciare «tutta la vita del mondo». Non valeva solo per i sovrani europei: «per non allegar essempi nostrani», scrive Botero, «Maomette II re de’ turchi, che fu il primo che sia stato detto Gran Turco, aveva continuamente qualche antica istoria nelle mani» e «Selim I si dilettò grandemente di leggere i fatti di Alessandro Magno e di Giulio Cesare, li fece voltare in lingua turchesca»61. Il compito che attendeva Herrera non era facile. Pochi anni dopo aver concluso la traduzione di Botero, si ritrovò a scrivere la cronaca di Filippo II, il più potente monarca europeo del tempo, proprio nella forma di una storia del mondo.

61 Id., Della ragion di stato, a cura di P. Benedittini e R. Descendre, Einaudi, Torino 2016, p. 55.

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Ai detrattori che da ogni dove si scagliavano contro Filippo II, minacciando che la sua storia finisse per essere scritta solo dai suoi critici non si poteva replicare con una biografia tradizionale. Bisognava volgere la geografia dei nemici del re a suo vantaggio con un rovesciamento di prospettiva che lo facesse emergere come il vero signore del mondo. Così, la scrittura della cronaca di un sovrano spagnolo alla fine del Cinquecento s’intrecciò con le proiezioni ormai globali della monarchia cattolica. Quando iniziò a comporre la sua opera, Herrera si servì anche di una traccia scritta dal suo predecessore, Esteban de Garibay y Zamalloa, che già pensava di muoversi in quella direzione62. Le prime due parti dell’Historia general del mundo uscirono a Madrid nel 1601. L’opera si apre con il 1554, quando sposando la regina d’Inghilterra, Maria Tudor, Filippo assunse il titolo di re per la prima volta, ma la vera narrazione inizia dal 1559, con l’avvio del governo diretto in Spagna. Morto nel 1598, Filippo II non si trova al centro dell’Historia, che si concentra piuttosto sull’intreccio delle principali vicende politiche e militari della seconda metà del Cinquecento, selezionate secondo l’importanza che avevano nella prospettiva di un potere europeo che pretendeva di dominare il mondo. L’opera può così essere vista come uno spaccato degli eventi che alla corte di Spagna si voleva che il grande pubblico ricordasse del lungo regno di Filippo II. Herrera ammette più volte i limiti stilistici di una giustapposizione di fatti storici che si ripete identica, «distinguendo i libri in anni, con ciascun libro che contiene quello che è accaduto in un anno»63. Vi sono oscillazioni in avanti e soprattutto all’indietro per meglio illuminare un episodio o un fenomeno, ma la narrazione non procede per simultaneità e connessioni. Sotto il peso della storiografia ufficiale le storie del mondo perdevano la loro spinta. Resta in Herrera un gusto per la complessità e per la polifonia delle cause storiche, ma l’ordine geografico che segue si apre sempre con l’Europa. Particolare rilievo hanno, naturalmente, grandi momenti della storia iberica recente, come la battaglia di Lepanto (1571), l’unione tra Portogallo e Spagna (1580) o il clamoroso Kagan, Clio & the Crown cit., p. 134. A. de Herrera y Tordesillas, Segunda parte de la historia general del mundo..., Madrid, por Pedro Madrigal, 1601, c. non numerata. 62 63

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insuccesso della flotta spagnola nella Manica (1588), ma anche gli interventi per contrastare le spedizioni inglesi di età elisabettiana o le prime navigazioni olandesi nelle Indie orientali nel tardo Cinquecento. Ricorrono spesso i riferimenti al vasto mondo iberico, all’Africa settentrionale, alla Turchia e alla Persia, in quest’ultimo caso sulla base di un’opera storica (1587) del medico ferrarese Giovanni Tommaso Minadoi, vissuto a più riprese ad Aleppo, di cui proprio Herrera tradusse l’edizione spagnola (1598). Minadoi figura tra le fonti di Herrera in una tavola degli «autori che si sono seguiti in questa storia, oltre a molte scritture e documenti autentici». La si incontra in apertura delle prime due parti dell’Historia general del mundo, e fra le opere indicate spiccano, per prime, le Relationi universali e accanto ad esse, oltre a una serie di titoli su specifiche regioni, alcune delle più diffuse storie del mondo del tempo: quelle di Cesare Campana, la prosecuzione di Giovio da parte di Natale Conti, la sezione finale delle Historie del mondo di Tarcagnota e Mambrino Roseo, il Compendio historico universale di Doglioni. Quegli autori italiani avevano contribuito, nella seconda metà del Cinquecento, a consolidare una tradizione cui Herrera rivendica di appartenere nella dedica che apre la seconda edizione della seconda parte, uscita nel 1606. Vi ribadisce di essere mosso anzitutto dalla «gloria» della sua «nazione» e sottolinea orgoglioso di essere «il primo spagnolo che ha scritto una storia generale del mondo». Vi lavorava almeno dal 1593 e aveva atteso tanto prima di pubblicarla per evitare effetti indesiderati. In ogni caso, «essendo questa nazione dominante, era giusto che avesse cognizione delle materie esterne, delle qualità e dei costumi delle altre nazioni». Come se l’opera non fosse nata per celebrare Filippo II, Herrera si giustifica anche per essersi concentrato sulla storia contemporanea, «poiché si ha più gusto nel sapere quanto ha fatto chi conosciamo e abbiamo sentito nominare che non chi non abbiamo mai visto ed è vissuto molto tempo prima di noi»64. Lo schiacciamento sul presente delle storie del mondo si accompagna alla loro sempre più spiccata connotazione politica, ancora più forte nel caso della terza parte, la quale si apre con il racconto

64 Id., Segunda parte de la Historia General del Mundo, Valladolid, por Iuan Godinez de Millis, 1606, c. non numerata.

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della grande spedizione atlantica di Drake del 1585-1586, che colpì la Galizia e l’arcipelago di Capo Verde, per poi abbattersi sull’America centrale tra molti saccheggi e la temporanea cattura di Cartagena de Indias. Il volume, sul cui frontespizio campeggia il titolo di «cronista maggiore di Sua Maestà delle Indie e suo cronista di Castiglia», era stato pubblicato nel 1612, dopo essere stato scritto lontano da Madrid. Herrera gli affidava le speranze di rilanciare il suo prestigio professionale dopo l’arresto del 1608, cui avevano fatto seguito la condanna e l’allontanamento dalla corte. In apertura, assicura di aver seguito solo «le relazioni, lettere e documenti dei viceré e governatori dei regni e stati di questa felicissima monarchia e degli ambasciatori e ministri di sua maestà, e dei suoi segretari di stato», nonché «dei maggiori e più antichi capitani di diverse nazioni, sudditi del re nostro signore»65. Si avverte qui il tentativo di sottrarsi all’accusa di aver manipolato la verità storica o gettato ombra su figure importanti come il duca di Lerma, bersaglio di velate critiche nella seconda parte dell’Historia general del mundo, che dovevano solo aver accelerato la caduta in disgrazia di Herrera66. Nelle tre parti dell’opera non manca un respiro globale, che si coglie nelle pagine sul Giappone, le Filippine, la penisola araba, l’Etiopia, le isole del Pacifico meridionale o lo Stretto di Magellano. Ma sono tutte notizie riprese da testi di europei, comprese la Moscovia (1586) di Antonio Possevino e la relazione manoscritta del missionario agostiniano Martín de Rada, su cui era in larga parte fondata l’Historia de las cosas más notables, ritos y costumbres del gran reino de la China (1585) del confratello Juan González de Mendoza. Herrera fa professione di «neutralità», ma ritrae generalmente inglesi e olandesi come eretici, profanatori e persecutori di cattolici, né manca di contrapporre gli abiti delle popolazioni non europee ai «nostri», come nel caso dei giapponesi, «perché se in Europa per cortesia si tolgono il cappello, da loro le scarpe, ed entrare in casa di una persona onorata con le scarpe è scortesia», si legge in un passo che ricorda il notevole trattato sulla differenza e il contrasto di costumi tra europei e giapponesi, composto nel 1585 dal gesuita portoghese

65 Id., Tercera parte de la Historia general del Mundo, Madrid, por Alonso Martin de Balboa, 1612, c. non numerata. 66 Kagan, Clio & the Crown cit., p. 187.

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Luís Frois ma rimasto allora manoscritto67. Se le storie del mondo erano state un terreno di sperimentazione e inclusione di materiali non europei, uno strumento di riscoperta della polifonia dei passati che poteva prestarsi a letture ambigue, l’obiettivo di Herrera era esaltare la monarchia cattolica e il suo impero globale. Del resto, Herrera era stato invitato ad attenersi a quella linea sin da quando aveva ricevuto l’incarico di scrivere una cronaca ufficiale sull’America spagnola, una materia sempre più incandescente in anni di costruzione della sua leggenda nera. La composizione della sua monumentale Historia general de los hechos de los castellanos en la islas i tierra firme del mar océano (1601-1615) aiuta a capire forma e contenuti dell’Historia general del mundo, compresa la limitata attenzione al Nuovo Mondo. La stesura e pubblicazione delle due opere corse parallela. Herrera obbedì al mandato regio di rilanciare l’immagine dell’impero spagnolo, liberandolo dalle accuse di violenza e ingiustizia. Tacere dei costumi e dell’organizzazione sociale degli indios prima dell’arrivo degli spagnoli vi avrebbe contribuito, ma vi riuscì solo in parte. Herrera non seppe resistere fino in fondo alla tentazione di consultare le opere conservate inedite presso il Consiglio delle Indie, alle quali il ruolo di cronista maggiore dava libero accesso. Le descrizioni custodite dai codici dei francescani Toribio de Motolinía e Bernardino de Sahagún, dai trattati manoscritti di Las Casas o dalle parti della cronaca sul Perù di Pedro Cieza de León cui era stata negata la pubblicazione, erano ricchissime. Svelavano l’universo delle antichità americane, con le credenze e le cerimonie locali che gli spagnoli avevano tentato di estirpare. Herrera recuperò una parte di quelle informazioni, mentre dava una veste uniforme ai racconti che si leggevano nelle cronache autorizzate. La sua storia del Nuovo Mondo, che va dal 1492 al 1554, si sviluppa per decadi. Vi si ammettono episodi di crudeltà e abusi brutali, ma la loro portata è circoscritta. Ne esce un’immagine positiva

67 L’originale è in portoghese. Un’introduzione in L. Frois, Européens & Japonais. Traité sur les contradictions & différences des mœurs (1585), a cura di X. de Castro, pref. C. de Lévi-Strauss, Chandeigne, Paris 1998; The First European Description of Japan, 1585: A Critical English-Language Edition of “Striking Contrasts in the Customs of Europe and Japan” by Luis Frois, S.J., a cura di R.K. Danford, R.D. Gill e D.T. Reff, Routledge, London-New York 2014. La citazione nel testo è tratta da Herrera y Tordesillas, Tercera parte cit., p. 245.

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dell’amministrazione spagnola, corroborata dall’impiego di termini come «pacificare» e «popolare» al posto di «conquistare», in linea con il decreto regio (1573) che vietava l’uso della parola «conquista» e dei suoi derivati68. Così, le decadi di Herrera conobbero una rapida circolazione anche in Messico e Perù. Quando ne terminò la pubblicazione, il loro autore era rientrato a corte da un anno, nel 1614, su intercessione di Don Diego Sarmiento de Acuña, conte di Gondomar. Era lo stesso che nel 1607 aveva suggerito al duca di Lerma di nominare un «cronista generale», poi individuato in Pedro de Valencia, aprendo così una crisi che aveva portato Herrera a una disperazione tale da bruciare parte delle sue carte con note e appunti69. 5. Raleigh e la fine delle storie del mondo Dal maggio 1613 Sarmiento de Acuña era diventato ambasciatore spagnolo alla corte d’Inghilterra. L’anno dopo vide la luce a Londra il primo volume della History of the World di Sir Walter Raleigh, l’antico favorito di Elisabetta, promotore della fondazione della colonia Virginia (1585) e protagonista di una spedizione in Guyana in cerca del mitico El Dorado (1594), un’ossessione che non lo abbandonò e fu all’origine della sua tragica fine. L’aria era cambiata con l’avvento di Giacomo I. Dal 1603 Raleigh si trovava chiuso all’interno della Torre di Londra, dopo che la sua condanna a morte per tradimento era stata commutata nella prigionia. Alternando esperimenti di alchimia condotti in un pollaio all’aperto con la scrittura in una cella di pochi metri quadri, riscaldata da un camino, compose la sua storia circondato da mappe e una biblioteca di oltre cinquecento volumi, che erano il suo principale contatto con il mondo. Aveva libri in inglese, latino, italiano, francese e spagnolo. Sugli scaffali, accanto a opere recenti di geografia e cosmologia, trovavano posto i primi volumi della raccolta dei De Bry, il trattato sulla Cina dell’agostiniano González de Mendoza, scritti del portoghese Damião de Góis e dello 68 Kagan, Clio & the Crown cit., p. 170; una discussione approfondita dell’opera alle pp. 171-185. Cfr. anche Antonio de Herrera y Tordesillas ¿Historia global, historia universal, historia general?, a cura di L. Benat-Tachot, in «e-Spania», XVIII (2014), http://e-spania.revues.org/23650. 69 Kagan, Clio & the Crown cit., pp. 194-195.

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spagnolo Francisco López de Gómara, oltre naturalmente alla storia naturale e morale di Acosta70. Il risultato fu una storia del mondo del tutto diversa dalle precedenti per erudizione e trattazione sistematica71. Capitolo dopo capitolo, Raleigh pretende di risolvere con grande acribia tutti i dubbi sui principali eventi dalla creazione in avanti. L’ordine segue una cronologia verificata con ogni diligenza, nel quadro di uno sforzo più generale di dimostrare la guida della provvidenza divina negli affari umani. Il primo volume della History of the World fu completato nel 1611. Esibisce un’incisione nel frontespizio, che esprime la visione della storia del mondo di un inglese del tardo Rinascimento: al centro domina una potente immagine di donna, la Storia «maestra di vita», mentre affiancata da due figure femminili, l’Esperienza e la Verità, solleva un globo terrestre, conteso sotto l’occhio divino da altre due giovani donne, la Fama Buona e la Fama Cattiva, riscattandolo dalla Morte e dall’Oblio, che schiaccia con i piedi. È poi una concezione organicistica del mondo, che «ebbe una vita e un inizio», a emergere dalla lunga prefazione, in cui si celebra la storia che «ci ha resi consapevoli dei nostri antenati morti e ci ha restituito dalla profondità e oscurità della terra la loro memoria e fama»72. Suddiviso in cinque libri e corredato di splendide mappe, il primo volume della History of the World si concentra sulle quattro monarchie universali dell’antichità, quella degli assiri, dei caldei, dei persiani e dei romani fino alla battaglia di Pidna (168 a.C.), che segnò il tracollo del regno della Macedonia, trasformatosi un secolo e mezzo prima, sotto Alessandro Magno, in un grande impero. Anche se non arriva al presente e si limita allo spazio europeo e mediterraneo, quella di Raleigh resta una storia del mondo scritta da un protestante inglese che aveva coltivato a lungo il sogno di un impero d’oltremare per la sua corona. I segni si colgono già nel primo libro dell’opera, che ripercorre il racconto biblico, in un tentativo di storicizzarne 70 W. Oakeshott, Sir Walter Ralegh’s Library, in «The Library», s. V, XXIII (1968), pp. 285-327. Sugli interessi alchemici di Raleigh e la loro influenza sulla sua scrittura storica cfr. P.M. Rattansi, Alchemy and Natural Magic in Raleigh’s «History of the World», in «Ambix», XIII (1966), pp. 122-138. 71 N. Popper, Walter Ralegh’s History of the World and the Historical Culture of the Late Renaissance, The Chicago University Press, Chicago-London 2012. 72 W. Raleigh, The History of the World in Five Bookes, London, printed for Walter Burre, 1614, c. A2v.

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criticamente il contenuto e chiarire la moderna posizione dei luoghi che vi si citano, in linea con gli studi di geografia sacra allora molto in voga. Raleigh possedeva una copia della Bibbia poliglotta (1572) dell’ebraista spagnolo Benito Arias Montano e ne discusse le conclusioni circa l’esatta localizzazione di Ophir, la regione da dove si diceva che il re Salomone ricevesse navi cariche di oro. Identificarla con il Perù, come faceva Arias Montano, era una «fantasia» dovuta a un fraintendimento che risaliva all’arrivo dei primi spagnoli, osserva Raleigh, «come diversi spagnoli nelle Indie mi hanno assicurato, e lo conferma anche Acosta il gesuita nella sua storia naturale e morale delle Indie». Ophir doveva piuttosto corrispondere «alle Molucche»73. Era quanto aveva scritto il portoghese Gaspar Barreiros in un volume pubblicato nel 1561, che comprendeva anche la prima confutazione di Annio da Viterbo uscita a stampa nella penisola iberica. Lo stesso Raleigh attacca a più riprese la «falsità» di Annio, bollandolo come un «inventore di favole»74. A tratti, le dotte disquisizioni, che oggi rendono piuttosto indigesta la lettura dell’History of the World, sono interrotte da improvvise aperture sugli orizzonti globali del tempo di Raleigh. Spesso il bersaglio è l’impero spagnolo, come quando si discute degli animali a bordo dell’arca di Noè e si ricordano «quei cani divenuti selvatici a Hispaniola, da cui gli spagnoli erano soliti far divorare gli indios nudi», una cruda immagine tratta, in realtà, da Acosta75. In un altro caso si muove da un passo biblico sull’eccessiva frammentazione del potere per attaccare gli spagnoli in America, «che competono tra loro e sprezzano la grandezza gli uni degli altri», intravedendo una possibilità per gli inglesi: «al giorno d’oggi sono soggetti a invasione, tanto che (con l’eccezione della Nuova Spagna e del Perù, perché sono inaccessibili agli stranieri) con poca forza si cacceranno da tutto il resto»76. Non manca neppure un cenno polemico al viaggio di Vasco da Gama. Gli antichi fenici già circumnavigavano l’Africa

73 Ivi, p. 175. Su Arias Montano e Ophir cfr. J. Romm, Biblical History and the Americas: The Legend of Solomon’s Ophir, 1492-1591, in The Jews and the Expansion of Europe to the West, 1450-1800, a cura di P. Bernardini e N. Fiering, Berghahn Books, New York 2001, pp. 27-46. 74 Raleigh, The History cit., p. 237. 75 Ivi, p. 111. 76 Ivi, p. 172.

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lungo una rotta «che in seguito fu dimenticata» e che Gama aveva solo riscoperto, come peraltro aveva sostenuto poco prima anche Hugo Grotius nel libello Mare liberum (1609) in cui negò il monopolio delle rotte verso l’Asia da parte dei portoghesi in virtù del loro presunto diritto per scoperta77. Altre volte la trattazione di Raleigh è interrotta dal ricordo di casi eccezionali. Parlando della longevità dei patriarchi biblici, per esempio, divaga su un indiano di trecento anni che era stato presentato al generale dell’esercito turco, Süleyman, nel 1570. Più singolari ancora sono le considerazioni, scaturite dal fatto che l’arca di Noè fosse approdata in Armenia, circa la superiorità delle «popolazioni orientali». Le «nazioni del sol levante furono le più antiche», infatti, come dimostrava l’«uso della stampa e dell’artiglieria». Raleigh riprende così il mito rinascimentale di una loro importazione in Europa dalla Cina, i cui abitanti «ebbero le lettere molto prima degli egizi o dei fenici, e anche l’arte della stampa quando i greci non avevano conoscenze civili o lettere fra loro». Di quella grandezza «sia i portoghesi sia gli spagnoli sono stati testimoni», conclude Raleigh, non senza osservare che «i cinesi considerano tutte le altre nazioni selvagge rispetto a loro stessi». Eppure, quella grandezza orientale, confermata dall’«antichità, la magnificenza, la civiltà, le ricchezze, gli edifici sontuosi e la politezza nel governo» del Giappone, paradossalmente non trova posto nella narrazione dell’History of the World78. Anche a fronte dell’estrema erudizione della sua opera, un monumento della conoscenza rinascimentale sottratto a qualsiasi confronto con i passati multipli del mondo non europeo, un uomo come Raleigh non riesce a pensare all’antichità prescindendo dalle reazioni ai nuovi orizzonti globali della sua età. Molti gli avrebbero detto che «avrei potuto essere più gradevole al lettore, se avessi scritto la storia dei miei propri tempi» ma, obietta, «chiunque scriva una storia moderna seguendo troppo da presso i talloni della verità, si romperà felicemente i denti. Non vi è maestra o guida che abbia guidato i suoi seguaci e servi in più grandi miserie». «A me basta (visto lo stato in cui mi trovo)», conclude, «scrivere dei tempi più 77 Ivi, p. 632. Sulla polemica di Grotius cfr. A. Pagden, Commerce and Conquest: Hugo Grotius and Serafim de Freitas on the Freedom of the Seas, in «Mare Liberum», XX (2000), pp. 33-55. 78 Raleigh, The History cit., pp. 115-116.

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antichi». Del resto, «perché non si potrebbe dire che parlando del passato mi riferisco al presente e incolpo i vizi di quelli che sono ancora vivi»? Se qualcuno si riconoscerà nelle macchie delle «tigri dei tempi antichi», si difende Raleigh, «accuserà se stesso a ragione e me a torto»79. Parole profetiche: infatti, se la History of the World fu un buon successo editoriale, non contribuì, tuttavia, a migliorare la situazione di Raleigh agli occhi di Giacomo I, che restò anzi irritato dalla lunga prefazione in cui si criticavano i tiranni nella storia, cogliendovi un’allusione alla sua persona80. Non è chiaro fino a che punto l’History of the World volesse essere anche una risposta a quella di Herrera, da cui si distingueva in tutto. Certo è che la Historia general del mundo ebbe un ruolo inatteso nel tragico destino di Raleigh. Nel marzo 1616 riuscì a ottenere una sospensione della pena, raccontando a Giacomo I, allora a corto di denaro, che avrebbe guidato una spedizione sul Fiume Orinoco, in Guyana, alla ricerca di El Dorado che, a suo dire, si trovava in una regione su cui nessuno esercitava giurisdizione, visto che neppure gli spagnoli l’avevano esplorata. Appresa la notizia di quel tentativo, vissuto come una provocazione in Spagna dov’era acuta la preoccupazione per l’insediamento inglese creato nel 1607 a Jamestown, in Virginia, l’ambasciatore spagnolo, che era ancora Sarmiento de Acuña, informò Giacomo I che Raleigh mentiva. In realtà, gli spagnoli avevano insediamenti nell’area e non v’era traccia d’oro. Per provare come l’anziano esploratore inglese, ormai più che sessantenne, ne fosse bene a conoscenza l’ambasciatore si servì di una prova inattesa, che dimostra fino a che punto la materia delle storie del mondo fosse divenuta delicata: le pagine della terza parte della storia di Herrera, in cui si raccontava del viaggio fatto vent’anni prima da Raleigh in Guyana e di come vi si fosse imbattuto in sudditi della corona di Spagna, che lo avevano informato che la storia dell’oro di cui aveva sentito parlare non era che una «favola». Alla fine Raleigh si mise comunque in viaggio, con l’ordine di non recare danno alcuno agli spagnoli, né appropriarsi indebitamente di oro81. Intanto, in Spagna le voci di quella spedizione spingevano il Ivi, c. E4r. A.R. Beer, Sir Walter Ralegh and His Readers in the Seventeenth Century: Speaking to the People, Macmillan Press, Basingstoke 1997. 81 Kagan, Clio & the Crown cit., pp. 1-3. 79 80

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Indios, cinesi, falsari

Consiglio di stato a consultare Anthony Sherley sulle eventuali informazioni in suo possesso. Pronto come sempre a cogliere l’occasione che gli si offriva, non solo presentò un piano d’azione per contrastare Raleigh ma si dichiarò disposto a perdere la vita pur di portarlo a compimento. Stavolta, però, non trovò ascolto82. I fili delle vite di quegli uomini che avevano contribuito a rendere il mondo più globale si andavano intrecciando, ma alla fine fu Raleigh a restare preso nella rete. Non trovò l’oro in America e non riacquistò la libertà in patria. Al ritorno dal suo viaggio, in cui persero la vita molti uomini dell’equipaggio fra cui il suo unico figlio, fu di nuovo arrestato. Poco tempo dopo, Giacomo I restituì vigore alla condanna a morte di quindici anni prima. Raleigh avrebbe lasciato la sua storia del mondo ferma al primo volume. La sentenza fu eseguita per decapitazione in una piazza all’esterno del palazzo di Westminster. Era il 29 ottobre 1618. 82

Subrahmanyam, Three Ways to Be Alien cit., p. 115.

CONCLUSIONI Che cosa accomunò un frate domenicano divenuto celebre come falsario, un cappellano di Ulm autore di un trattato sui costumi del mondo in cui non si accenna all’America, un uomo di stato e bibliotecario veneziano che raccolse opere di geografia e storia e relazioni di viaggio da tutto il mondo mentre commerciava con le Antille, e un umanista che raccontò le storie del suo tempo e creò un museo con i ritratti di alcuni dei suoi protagonisti? Annio da Viterbo, Hans Böhm, Giovanni Battista Ramusio e Paolo Giovio offrirono tutti un modello di scrittura che permise ad altri di scrivere storie del mondo nel Rinascimento. Senza la lettura delle loro opere, composte tra Italia e Germania, né il missionario francescano Toribio de Benavente, detto Motolinía, né il capitano portoghese António Galvão, né l’indio quechua Don Felipe Guaman Poma de Ayala, né il poligrafo italiano di origini greche Giovanni Tarcagnota e i suoi continuatori, avrebbero saputo organizzare la loro materia, tanto ricca e sfuggente, in racconti capaci di riannodare i passati multipli del mondo. Pur con limiti e inesattezze, ciascuna di quelle storie, imbevute dell’esperienza di vita dei loro autori, ruotava intorno a una precisa visione degli uomini nel tempo, che poteva rispondere a un principio diffusionista, all’idea di una mobilità infinita di uomini e merci, alla comparazione tra culture poste sullo stesso piano al pari della loro storia, o alla simultaneità fra gli eventi storici accaduti in località diverse. Quelle opere circolarono attraverso lingue e culture imperiali rivelando così fino a che punto furono espressione di una diffusa esigenza di ripensare la storia del mondo. Anche se non dettero origine a un genere, né a vere e proprie tradizioni, offrono tuttavia uno spaccato degli orizzonti globali della cultura rinascimentale. Rispetto a questo scenario di grande vivacità intellettuale, la morte sul patibolo di Sir Walter Raleigh, nel 1618, ha il sapore di un finale ad effetto. La stagione delle storie del mondo scritte nel Rina-

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Conclusioni

scimento forse si chiuse davvero allora. In ogni caso, ha poco senso pretendere di tracciare partizioni nette. Il rapporto con il mondo era profondamente cambiato dai tempi di Motolinía e di Galvão, ma non per questo la storia aveva perso la sua attrattiva. Certo, sistemazioni come le Relationi universali di Giovanni Botero avevano il loro peso e stavano a indicare che la conoscenza utile del mondo passava per una geopolitica del presente e non per il recupero della polifonia del passato in un racconto storico unitario. Questo non significa, però, che le opere stampate tra Cinque e Seicento cessarono di essere lette da un giorno all’altro, né che si smise di sentire l’esigenza di scrivere storie del mondo. Per esempio, al tempo della prima rivoluzione inglese, durante il breve interregno repubblicano che precedette il protettorato di Lord Oliver Cromwell, la History of the World di Raleigh fu completata, seppur malamente, da un suo detrattore, il controversista scozzese Alexander Ross, ex cappellano del re Carlo I e primo volgarizzatore del Corano in inglese: dopo aver pubblicato un compendio essenziale del volume originale di Raleigh (1650), preceduto da un libro di critiche in cui ne annotava i principali errori (1648), nel 1652 Ross dette alle stampe un secondo volume con la continuazione di quella storia fino al 16401. Nel frattempo, mentre i vasti orizzonti di un mondo globalizzato si rispecchiavano anche nelle opere d’arte, come mostrano gli interni o le vedute di Delft dipinte dal pittore olandese Jan Vermeer, dove abbondano riferimenti alle connessioni tra le Province Unite, la Cina e l’America create dal commercio di oggetti e prodotti, la conoscenza del mondo nella sua globalità continuava a diffondersi, favorendo la scrittura di nuove storie2. Un caso di particolare interesse fu quello Ilyas ibn al-Qassis Hanna al-Mawsili, un prete cristiano orientale di Mosul, 1 A. Ross, Some Animadversions and Observations upon Sr. Walter Raleigh’s Historie of the World Wherein His Mistakes Are Noted and Som Doubtful Passages Cleered, London, printed by William Du-Gard for Richard Royston, 1648; Id., The Marrow of Historie, or An Epitome of All Historical Passages from the Creation to the End of the Last Macedonian War, First Sent Out at Large by Sir Walter Raleigh, London, printed by W. Du-gard for John Stephenson, 1650; Id., The History of the World: The Second Part in Six Books, Being a Continuation of Famous History of Sir Walter Raleigh, Knight, London, printed for John Saywell, 1652. 2 T. Brook, Il cappello di Vermeer. Il Seicento e la nascita del mondo globalizzato (2008), Einaudi, Torino 2015.

Conclusioni

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che intorno al 1680 prese a lavorare alla prima storia dell’America in lingua araba. Non lo faceva dal chiuso di una biblioteca, tuttavia, ma da Magdalena del Mar, un piccolo villaggio costiero vicino a Lima, in Perù, dov’era giunto dopo aver lasciato Bagdad e aver viaggiato a lungo attraverso l’Europa fino ad attraversare l’Oceano Atlantico. Ilyas ibn Hanna era un esempio, certamente eccezionale, della possibile vastità della circolazione degli uomini del tempo: pur concentrandosi sul Nuovo Mondo e sul Perù, grazie alle cronache spagnole che usò come fonti senza limitarsi comunque a riassumerle e tradurle in arabo, la sua opera si apre con un capitolo sulla Cina e riserva ampio spazio all’età degli inca. Gli orizzonti geografici della cultura di origine di Ilyas ibn Hanna si erano allargati a materiali che gli avrebbero consentito di scrivere una storia del mondo, che tuttavia non arrivò mai a scrivere3. La spinta a confrontarsi con il passato del mondo nella sua pluralità e unità a partire da una molteplicità di materiali e informazioni ricavate all’esterno del proprio contesto di riferimento era venuta meno. Perciò, le storie universali scritte in Europa nell’età dei Lumi non possono essere interpretate come una ripresa di quelle rinascimentali. Se è indubbio, come si è cercato di mostrare anche in questo libro, che l’impatto del mondo segnò la cultura europea nell’età delle esplorazioni molto più di quanto sia consueto ammettere, le storie del mondo confermano tutta la difficoltà di ipotizzare linee di continuità che permettano di individuare eredità dirette della creatività del Rinascimento globale nelle manifestazioni culturali dei secoli successivi4. Questo aspetto ci porta a un’ultima considerazione: se gli storici globali di oggi più attenti a ricostruire in dettaglio le connessioni tra luoghi e culture nel passato non devono certo pretendere di trovare i loro precursori negli storici del mondo del Cinquecento e del primo Seicento, da quei lontani tentativi possono comunque ricavare, forse, qualche elemento di fiducia in più rispetto all’importanza delle domande che si pongono.

J.-P. A. Ghobrial, Stories Never Told: The First Arabic History of the New World, in «Osmanlı Araştımaları/The Journal of Ottoman Studies», XL (2012), pp. 259-282. 4 È questo il limite principale dell’importante proposta di J.-P. Rubiés, Travel Writing and Humanistic Culture: A Blunted Impact?, in «Journal of Early Modern History», X (2006), pp. 131-168. 3

INDICI

INDICE DEI NOMI* Abbas I, shah di Persia, 14, 176 Abu al-Hasan, 14 e n, 15 Abu-Lughod, J., 6n Abulafia, D., 21n Acosta, José de, X, 103, 124, 126, 164-170, 172, 174, 186-187 Adamson, G., 31n Adorno, R., 99n, 100n Agostino d’Ippona, santo, 56, 81 Aguiar, Diego de, 179 Ajmar-Wollheim, M., 31n Akbar, Jalal al-Din Muhammad, imperatore mughal, 15 Alam, M., 15n Albònico, A., 172n Alessandro VI (Roderic Llançol de Borja), papa, 49, 51 Alessandro Magno, imperatore macedone, 17-18, 180, 186 Allora, Á., 178n Almagro, Diego de, 102, 140 Álvares, Francisco, 77, 85, 140, 174 Álvarez de Toledo, Francisco, 165 Ambrosini, F., 130n Amiel, C., 119n Andaya, L.Y., 76n Anders, F., 53n Andrade, A.A. Banha de, 85n Andrade, Fernão Pires de, 73 Andretta, S., 161n Angiolieri, Giorgio, 152 Anselmo d’Aosta, santo, 42 e n Antunes, C., 8n Arbel, B., 18n, 69n Archiloco, 49 Aretino, Pietro, 132-133

Arias Montano, Benito, 187 e n Aristotele, 41, 54, 56 Armitage, D., 7n, 95n Arrivabene, Andrea, 132n, 133, 144 Asburgo, dinastia, 17-18, 62, 92, 160 Asensio, E., 72n Asor Rosa, A., 133n Aston, Edward, 114 Aubin, J., 77n Avity, Pierre d’, 27 e n, 28 Babur, Zahir ud-Din Muhammad, imperatore mughal, 78 Bade, Josse, 56 Baglioni, famiglia, 148 Bang, P.F., 14n Bardi, Girolamo, 150 Baronio, Cesare, 170 Barreda, J.A., 57n Barreiros, Gaspar, 62, 187 Barros, João de, 68-75, 82-83, 85, 92, 174 Bartolomeo, apostolo, santo, 103, 126 Bataillon, M., 119n Baudot, G., 37n, 38n, 43n, 44n, 56 Beaulieu, A.-M., 93n Beer, A.R., 189n Belleforest, François de, 119 e n Belon, Pierre, 174 Bembo, Pietro, 84-85, 132, 134 Bénat-Tachot, Louise, XIII, 185n Benavente, Toribio de, detto Motolinía, IX, 36-48, 53-60, 128-129, 184, 191-192 Benedittini, P., 180 Bentley, J.H., 13n, 22n Benzoni, G., 152n Benzoni, Girolamo, 163 e n

* Non sono stati indicizzati i nomi biblici, mitologici e di personaggi letterari.

198 Berbara, M., 114n Berg, M., 9n Bernand, C., 30n Bernardini, P., 116n, 187n Beroso, 49-50, 52-54, 57-59, 61, 110, 123 Biasiori, Lucio, XIII, 108n Biedermann, Z., 71n Bin Wong, R., 6n Biondi, A., 57n, 173n Biondo, Flavio, 48, 86, 131 Bizzarri, Pietro, 174 e n Bizzocchi, R., 50n Blair, A., 12n Bleichmar, D., 29n Bloch, E., 5n Bloch, Marc, 5 e n Bodin, Jean, 20, 151 e n Böhm, Hans (Johannes Boemus), X, 103119, 121 e n, 122-126, 128, 131, 145, 174, 191 Boone, E.H., 39n, 166n Borgia, famiglia, 49 Borgia, Cesare, 49 Borromeo, famiglia, 170 Borromeo, Carlo, santo, 170-171 Borromeo, Federico, 171 Bosbach, F., 97n Bossuet, Jacques-Bénigne, 24 Botero, Giovanni, X, 27, 170-173, 175180, 192 Bouza Álvarez, Fernando, XIII, 177n Boxer, C.R., 70n Bracciolini, Poggio, 48 Bracken, S., 29n Braida, Lodovica, XIII, 134n, 135n Braude, B., 59n Braudel, F., 6n Braun, Georg, 175 Brizzi, G.P., 173n Broc, N., 175n Brook, T., 9n, 192n Bugati, Gaspare, 150, 174 Bugge, H., 108n Bunes, M.Á. de, 178n Burke, P., 24n, 26n Burns, Kathryn, XIII, 102n Cabello Valboa, Miguel, 103 Ca’ da Mosto, Alvise da, 147 Calepio, Ambrogio, 123 Calvi, G., 151n

Indice dei nomi Calvino, Giovanni (Jean Calvin), 61, 174 Campana, Cesare, X, 152-158, 175 Campanella, Tommaso, 97-98 Cañizares-Esguerra, J., 55n Cano, Melchor, 57 e n, 60, 157 Cantù, F., 101n Caracciolo Aricò, A., 130n Cardinal, R., 29 Cardona, G.R., 18n Carey, D., 94n Carion, Johann, 117 Carlo I Stuart, re d’Inghilterra e di Scozia, 192 Carlo V d’Asburgo, sacro romano imperatore e re di Spagna, 37, 52, 54, 78, 140, 142 Carlo VIII di Valois, re di Francia, 138 Carneiro, R., 71n Casale, G., 14n, 17n Castanheda, Fernão Lopes de, 85, 90n, 95, 174 Castillo, V., 60n Castro, X. de, 184n Castrodardo, Giovanni Battista, 133 Catone il Vecchio, Marco Porcio, 49 Catz, R., 62n 67n Ceard, J., 119n Cecil, Robert, 95-96 Cesare, Gaio Giulio, 115, 123, 180 Chabod, F., 137n, 170n, 172n Chakrabarty, D., 10n Chartier, R., 164n Cherchi, P., 119n, 122n, 134n, 142n Chimalpáhin Cuauhtlehuanitzin, Domingo Francisco de San Antón Muñón, 60 Chinche Roca, imperatore inca, 101 Christian, D., 7n Cieza de León, Pedro, 92, 100, 101n, 102, 120, 131 e n, 174, 184 Ciotti, Giovanni Battista, 174 Cıpa, H.E., 17n Clarke, P., 167n Claydon, T., 167n Clossey, L., 169n Cobos, Francisco de los, 140, 142 Cochrane, E., 138n, 150n, 156n Codazzi, A., 163n Colley, L., 9n Colombo, Cristoforo, 7, 16, 23, 31, 34, 35n, 56, 90, 117, 140, 147-148, 174

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Indice dei nomi Colombo, Fernando, 56 e n Conrad, S., 12n Conti, Natale, 150, 182 Conti, Niccolò de’, 66, 72 Cook, Harold, XIII Cook, N.D., 123n Cornelio Nepote, 81 Cortés, Hernán, 29, 33-34, 36-37, 58, 73, 91-92, 140, 142, 169 Cosimo I de’ Medici, duca di Firenze e poi granduca di Toscana, 67-68, 83, 136-137, 145n Couto, Diogo do, 80 Cravaliz, Agustín de, 122, 131n Cremer, Gerard de (Mercator), 175 Cromwell, Oliver, 192 Cruz, A.J., 60n Cruz, Gaspar da, 62, 76 Curtin, Ph.D., 8n Curto, D. Ramada, 152n Danford, R.K., 184 D’Anghiera, Pietro Martire, 70, 92 Danti, Egnazio, 68, 71 Dario, re dei persiani, 18 Darwin, J., 6n Dawit II, imperatore etiope, 77, 141 De Bry, fratelli, 163-164, 167, 185 De Bry, Théodore, 163-164, 185 Della Rovere, Francesco Maria Secondo, 152n Delmas, A., 94 Descendre, R., 172n, 180n De Vito, Christian G., XIII Di Donato, R., 31n Di Filippo Bareggi, C., 133n Di Fiore, L., 5n D’Intino, R., 62n, 76n Diodoro Siculo, 56, 112 e n, 123 Dionigi, Bartolomeo, 132, 150, 153, 158 Dionigi di Alicarnasso, 56, 123 Ditchfield, S., 167n, 170n Doglioni, Giovanni Nicolò, 150, 175, 182 Dolce, Ludovico, 132-133, 174 Domayquia, J. De, 43n Domenichi, Ludovico, 135 Donattini, M., 83n, 85n, 86n, 108n, 122n Doni, Francesco, 133 Dorici, fratelli, 132 Drake, Francis, 94, 153, 161, 164, 183 Duffy, E.M., 163n

Dursteler, E.R., 69n Dyckerhoff, U., 44n Dyer, N.J., 47n Efron, N.J., 116n Eisenbichler, K., 105n Eisenstadt, S.N., 7n Elisabetta I Tudor, regina d’Inghilterra, 94, 161, 185 Elliott, J.H., 22n, 23n, 24n, 25n Elsner, J., 29n Emanuele I di Avis, re di Portogallo, 139, 162 Emiralioğlu, P., 16n Enenkel, K.A.E., 114n Enrico di Avis, re di Portogallo, 161 Erasmo da Rotterdam, Desiderio, 57, 114, 117 Ernst, G., 97n Erodoto, 32, 56, 76, 114, 123 Eusebio di Cesarea, 56 Evans, R.J.W., 142n Fabio Pittore, Quinto, 49 Falkenhausen, L. von, 30n Farnese, famiglia, 132, 138 Fauno, Lucio, vedi Tarcagnota, Giovanni Federico I Hohenstaufen, detto il Barbarossa, sacro romano imperatore, 89 Feist Hirsch, E., 85n Ferdinando II di Trastámara, re di Aragona, 51-52, 147-148 Ferguson, N., 160n Fernández de Oviedo, Gonzalo, 54-58, 60, 81, 84, 90, 92, 103, 120, 123, 134 Fernández de Palencia, Diego, 103, 123 Ferreira, Roquinaldo, XIII Ferrero, G.G., 142n Ferro, D., 132 Fetvacı, E., 17n Fezandat, Michel, 105 Ficino, Marsilio, 131 Fiering, N., 116n, 187n Filippo II d’Asburgo, re di Spagna e di Portogallo, 15, 97, 127, 160-162, 164, 180-182 Filippo III d’Asburgo, re di Spagna e di Portogallo, 99-100, 126-127, 179 Filippo IV, d’Asburgo, re di Spagna e di Portogallo, 177

200 Fiorani, F., 68n Firpo, M., 132n, 170n Flaminio, Marcantonio, 132 Flavio Giuseppe, 52, 56, 123, 146 Fleischer, C.H., 16n Flores, Jorge, XIII Florimonte, Galeazzo, 132 e n Fontana, P., 4n Foresti, Giacomo Filippo, 23, 150 Forti, Carla, XIII Francesco I di Valois, re di Francia, 78 Francesco d’Assisi, santo, 42 Francesco Saverio, santo, 62, 154, 162 Franco, Niccolò, 133 Frank, A.G., 6n Frois, Luís, 184 e n Fubini, R., 47 Fuess, A., 18n Fukuyama, E., 4n Gaillemin, Bérénice, XIII Gáldy, A.M., 29n Galeno, 131 Galvão, António, IX, 65-67, 71, 74-82, 8485, 87-96, 129, 191-192 Galvão, Duarte, 77, 80 Gama, Vasco da, 31, 69, 77, 86, 91, 161, 187-188 Gambara, Lorenzo, 174 García Ahumada, E., 123n Garibay y Zamalloa, Esteban de, 181 Gehrke, H.-J., 163n Gerbi, A., 169n Gerbi, S., 169n Ghobrial, J.-P. A., 193n Giacomo I Stuart, re d’Inghilterra e di Scozia, 180, 185, 189-190 Giannotti, Donato, 132 Giglio, Girolamo, 121-123, 125 Gill, R.D., 184n Ginzburg, C., 20n, 26n, 108n Gioda, C, 176n Giolito de’ Ferrari, Gabriele, 142 Giovanni III di Avis, re di Portogallo, 78, 161 Giovio, Paolo, 25-26, 135, 137-144, 147 e n, 150, 155, 174, 182, 191 Giunta, Lucantonio, 153 Gliozzi, Giuliano, VII-VIII, 22n, 51n, 61n, 111n, 167n

Indice dei nomi Góis, Damião de, 79-80, 84-85, 114-115, 174, 185 Goldstone, J., 7n Gómez de Sandoval y Rojas, Francisco, 179-180, 183, 185 González de Mendoza, Juan, 67, 155, 183, 185 Goodrich, T.D., 16n Goody, J., 31n Grafton, A., 20n, 22n, 49n, 106n, 144n, 166n Granada, Luis de, 123 Gregorio XIII (Ugo Boncompagni), papa, 154 Grendler, P., 133n Grimm, Sigmund, 108 Grotius, Hugo, 188 e n Gruzinski, Serge, XIII, 8n, 16n, 30n, 35n, 73n, 99n Guaman Mallqui de Ayala, Martín, 99, 126 Guaman Poma de Ayala, Felipe, X, 98105, 113, 117, 121-123, 125-127, 129, 191 Guazzo, Marco, 175 Guérin delle Mese, J., 151n Guicciardini, Francesco, 134-135 Guldi, J., 7n Gutenberg, Johann, 155 Guzmán y Pimentel, Gaspar de, 177-179 Hajji Ahmed, 18-19 Hakluyt, Richard, 94-96, 164, 176 Halevi, L., 8n Hasan al-Wazzan al-Gharnati al-Fasi, 85, 174 Headley, J.M., 22n, 172n Herrera y Tordesillas, Antonio de, X-XI, 180-185 Heyberger, B., 18n Hodgen, M.T., 107n Honoré d’Autun, 42 e n Hosne, A.C., 168n Huayna Cápac, imperatore inca, 126 Huttich, Johann, 83 Illescas, Gonçalo de, 123 Ilyas ibn al-Qassis Hanna al-Mawsili, 192-193 Infelise, M., 130n

Indice dei nomi Inglebert, H., 11n Ingoli, Francesco, 178, 179n Isabella I di Trastámara, regina di Castiglia, 51-52, 147 Isidoro di Siviglia, 46 Isma‘il I, shah di Persia, 141 Jacobs, H., 75n Jacobs, J., 7n Jacobs, M., 116 Jahangir, Nur-ud-Din Muhammad, imperatore mughal, 14-15 Jansen, M., 53 Joseph ha-Kohen, 116-117, 120 Jowitt, C., 94n Juana Chuquitanta, 98 Kagan, R., 165n, 181n, 183n, 185n, 189n Keating, J., 67n Kołodziejczyk, D., 14n Krümmel, A., 23n Kugler, H., 104n Kupperman, K.O., 24n Lach, D., 21n, 67n, 74n, 155n La Créquinière, monsieur de, 26n Lamana Ferrario, G., 166n Lancastre, João de, 79-80 Lando, Ortensio, 133 Landucci, S., 169n La Popelinière, Henri Lancelot Voisin, 93-95 Las Casas, Bartolomé de, IX, 37, 43, 5559, 61 e n, 100, 164 e n, 184 Laz, Wolfgang, 62, 63n Lee, C.H., 67n Le Manguer, Pierre (Petrus Comestor), 146 Leone X (Giovanni de’ Medici), papa, 85, 139 Leone Africano, Giovanni, vedi Hasan alWazzan al-Gharnati al-Fasi León-Portilla, M., 53n Lerma, duca di, vedi Gómez de Sandoval y Rojas, Francisco Le Roy, Loys, 150-151 Léry, Jean de, 61 e n, 94, 163 Lesbre, P., 46n Levathes, L., 72n Lévi-Strauss, C., 184n

201 Light, L., 146n Lima, Luís Filipe Silvério, XIII Lipsio, Giusto, 174n Lobrichon, G., 146n Lombard, D., 76n López de Gómara, Francisco, 58-61, 89 e n, 92, 117 e n, 120-122, 131, 132n, 133, 147, 174, 186 López de Legazpi, Miguel de, 16 Lorena, Carlo di, 172 Louis, F., 30n Loureiro, R.M., 80n, 85n Louthan, H., 170n Löwenklau, Johannes, 25-26 Lutero, Martino (Martin Luther), 107, 174 MacCormack, S., 102n Machiavelli, Niccolò, 70, 108, 174 Madruzzo, Cristoforo, 149 Maffei, Basilio, 161 Maffei, Giampietro, X, 95, 161-163, 166, 169-170, 172, 174 e n Maffei, Raffaele, 112, 137 Magellano, Ferdinando (Fernão de Magalhães), 34, 73, 91, 140, 174 Mancall, P.C., 29n, 95n Manetone, 49 Manning, P., 5n Manuzio, Aldo, 132 Manuzio, Paolo, 132 Manzoni, Alessandro, 174, 175n Maometto II, vedi Mehmet II Marcocci, G., 8n, 13n, 62n, 70n, 80n, 86n, 108n, 114n Marenco, F., 94n Maria I Tudor, regina d’Inghilterra, 181 Marini, Paolo, XIII, 134n Markey, L., 67n Marr, A., 142n Martínez, H., 16n Martínez Torres, J.A., 178n Martins, J.J., 166n Marullo, Michele, 131 Massa, Antonio, 132 Matos, A.T. de, 71n Mauro, Lucio, vedi Tarcagnota, Giovanni McLean, M., 115n McNeill, W.H., 6n Medici, famiglia, 67n, 69, 138 Mehmet II, imperatore ottomano, 180

202 Membré, Michele, 18 e n, 132 Mendieta, Jerónimo de, 43 e n, 45 e n, 53 en Mendoza, Antonio de, 99 Mendoza, Francisco de, 180 Meriggi, M., 5n Metcalf, A.C., 163n Mexía, Pedro, 131, 133 Miconzio, F., 141n Miglietti, S., 151n Migne, J.-P., 42n Milanesi, M., 54n, 71n Miller, Peter N., XIII, 29n, 30n Millones Figeroa, L., 102n Minadoi, Giovanni Tommaso, 174, 182 Ming, dinastia, 13, 65-66, 69, 78 Minuti, Rolando, XIII Mir Khwand, 25, 70 Molá, L., 31n Molho, A., 152n Molino, Paola, XIII Momigliano, A., 29n, 31n, 106n Montaigne, Michel Eyquem de, 61, 94 Morino, A., 35n Moteuczoma II, imperatore azteco, 33, 39-40, 91, 169 Motolinía, vedi Benavente, Toribio de Muldoon, James, XIII Münster, Sebastian, 114-115, 116n, 119 Murray, T., 30n Murry, G., 165n Murúa, Martín de, 103 Mustafa Ali, 16-17 Nagel, A., 64n Narayana Rao, V., 10n Nauclerus, Johannes, 123 Nebrija, Elio Antonio, 52 Neri, Bernardo, 67 e n, 69, 71, 83 Niccoli, Ottavia, XIII Niccolò V (Tomaso Parentucelli), papa, 147 Nunes, Pedro, 82 e n Núñez de Balboa, Vasco, 140 Nutius, Martin, 120 Oakeshott, W., 186n O’Brien, P., 11n Ocampo, Florián de, 52 Ochoa de la Sal, Juan, 103

Indice dei nomi O’Gorman, E., 38n Olivares, conte-duca di, vedi Guzmán y Pimentel, Gaspar de Olmos, André de, 43, 45, 53, 56 O’Malley, J.W., 170n O’Phelan Godoy, S., 77n Oré, Luís Jerónimo de, 103, 122-126 Ortels (Ortelius), Abraham, 175 Osório, Jerónimo de, 109, 174 Pagden, A., 21n, 124n, 169n, 188n Pagliarini, Giovanni Tommaso, 177 Palladio, Andrea, vedi Tarcagnota, Giovanni Palombelli, Cecilia, XIII Pané, Ramón, 35n Panvino, Onofrio, 132 Paolo III (Alessandro Farnese), papa, 132 Parker, C.H., 14n Parry, J.H., 166n Parthasarathi, P., 6n Pasha, Ibrahim, 17 Pastore, Alessandro, XIII Pastore, S., 86n, 108n Patrizi, Francesco, 20, 144-145, 149 e n, 156 Pavese, C., 5n Pérez de Tudela Bueso, J., 57n Pérez Fernández, I., 57n Perotti, Niccolò, 123 Petit, Jean, 56n Petrus Comestor, vedi Le Manguer, Pierre Pettegree, A., 130n Picart, Jean, 28 Piccolomini, Enea Silvio, vedi Pio II Pignatti, F., 132n Pimentel, Antonio Alfonso, 37, 47, 5253, 59 Pineda, Juan de, 123 Pineda, V., 117 Pino Díaz, F. del, 167n Pinto, Fernão Mendes, 62-63, 67 e n Pinturicchio, 49 Pio II (Enea Silvio Piccolomini), papa, 123, 174 Pio IV (Giovan Angelo Medici), papa, 150 Pires, Tomé, 73 Piri Reis, 16 e n

Indice dei nomi Pitti, Miniato, 68 Pizarro, Francisco, 92, 100, 102, 127, 140, 166 Pizarro, Gonzalo, 92, 99-100, 102, 104, 140, 166 Platone, 58 Plinio il Vecchio (Gaio Plinio Secondo), 32, 112 e n, 123 Plutarco, 131 Poggio, Giovanni, 142 Poleg, E., 146n Polibio, 13 Poliziano, Angelo (Agnolo Ambrogini), 48 Polo, Marco, 61, 66 Polo de Ondegardo, Juan, 165 Pomata, G., 20n Pomeranz, K., 6n Pompeo Trogo, Gneo, 123 Pomponio Mela, 123 Popper, N., 186n Porcacchi, Tommaso, 142 Porter, D., 7n Possevino, Antonio, 173-175, 183 Prem, H.J., 44n Procaccioli, Paolo, XIII, 133n, 134n Properzio, Sesto Aurelio, 49 Prosperi, Adriano, XIII, 34n, 109n, 170n, 172n Quondam, A., 133n Rabelais, François, 105 Rada, Martín de, 183 Ragon, P., 46n Raiswell, R., 105n Raleigh, Walter, XI, 161, 164, 180, 185192 Ramos, G., 102n Ramusio, Giovanni Battista, IX, 54n, 71 e n, 83-87, 92-94, 122, 128, 135, 147, 148n, 163, 191 Ranchin, François, 27n Rattansi, P.M., 186n Raviola, B.A., 171n Raynal, Guillaume-Thomas François, 161 Reff, D.T., 184n Reinhard, W., 163n Reyes García, L., 53n

203 Ricci, Matteo, 168 Riello, G., 31n Ríos, Pedro de los, 52 Rizzarelli, G., 133n Roa-de-la-Carrera, C.A., 58n, 60n Robortello, Francesco, 20 e n Rojas da Silva, Felipe, XIII Romano, Antonella, XIII, 67n Romeo, Rosario, VII-VIII, 132n, 163n Romm, J., 187n Roseo, Mambrino, 132, 136-137, 144n, 148-153, 158, 182 Ross, Alexander, 192 e n Rossi, G.C., 63n Rossi, P., 160n Rubiés, J.-P., 107n, 108n, 193n Ruderman, D.B., 116n Ruggieri, Michele, 168 Ruscelli, Girolamo, 134-135 Russo, A., 29n, 35n Sabellico, Marco Antonio, 109, 112 e n, 123, 137 Sachsenmaier, D., 9n Sacks, D.H., 95n Safier, Neil, XIII Saga za-Ab, 114 Sahagún, Bernardino de, 53 e n, 184 Sahin, K., 177n Said, E.W., 9n Salazar-Soler, C., 77n Sallmann, J.-M., 6n Samson, A., 52n Sandys, Edwin, 172n Sansovino, Francesco, 51n, 119 e n, 122n, 150 Santo Tomás, Domingo de, 103 Saraceni, Carlo, 150 Sarmiento de Acuña, Diego de, 185, 189 Scaliger, Joseph Juste, 20, 60 Scaramelli, Giovanni Carlo, 156 Schaub, Jean-Frédéric, XIII, 9n Schleck, J., 177n Schnapp, A., 30n Schroeder, S., 60n Schwartz, Stuart B., XIII, 21n Seidel Menchi, S., 134n Selim I, imperatore ottomano, 180 Sepúlveda, Juan Ginés de, 56, 109 Servet, Miguel, 115 Severini, E., 151n

204 Shelford, A., 22n, 106n Shelton, A.A., 29n Sherley, Anthony, X, 176-179, 190 Sherley, Robert, 176-177, 179 Sherley, Thomas, 179 Shulman, D., 10n Sima Qian, 13 Siraisi, N.G., 20n, 22n, 106n Small, M., 94n Solino, Gaio Giulio, 123 Somervell, D.C., 5n Sonnius, Claude, 27 Soto, Juan de, 133 Staden, Hans, 163 Stearns, P.N., 8n Stephens, W., 50n Strabone, 123 Streusand, D.E., 13n Stroumsa, G.G., 106n, 168n Subrahmanyam, Sanjay, XIII, 8n, 10n, 13n, 15n, 19n, 69n, 70n, 77n, 177n, 190n Süleyman, generale, 188 Süleyman il Magnifico, imperatore ottomano, 17-18, 78 Svetonio, 131 Tacito, Publio Cornelio, 123 Tahir Muhammad Sabzwari, 15 Tahmasp I, shah di Persia, 78, 141 Tallini, G., 131n, 136n Támara, Francisco de, 117-123, 125, 129 Tamerlano, imperatore, 6 e n, 13, 70, 141 Tarcagnota, Giovanni, X, 59, 60n, 105106, 109, 121, 131-133, 135-138, 143148, 150-152, 156 e n, 158, 174, 182, 191 Tarcagnota, Metello, 136 Tavares, Francisco de Sousa, 79-80 Tavárez, D.E., 60n Taylor, E.G.R., 95n Teasley, S., 31n Tedeschi, S., 140n Teixeira, Pedro, 25-26 Temple, N., 53n Temprano, J.C., 53n Thevet, André, 174 Tito Livio, 70 Tolomeo, Claudio, 88-89, 115, 123, 155 Tommasino, P.M., 133n Torquemada, Juan de, 53 e n

Indice dei nomi Tortarolo, E., 3n Tosi, F., 179n Tovar, Juan de, 166 e n Townsend, C., 41 Toynbee, A.J., 5n Tramezzino, fratelli, 132, 135, 137, 148150 Tramezzino, Michele, 105, 131-132, 134137, 149-150 Trivellato, F., 8n Túpac Amaru, 100, 166 Túpac Cuci Hualpa Huascar, imperatore inca, 126 Túpac Yupanqui, imperatore inca, 98, 126 Turpin, A., 29n Ulloa, Alfonso de, 70n Valdés, Juan de, 132 Valencia, Martín de, 33-34, 37, 41 Valencia, Pedro de, 185 Van den Boogaart, E., 164n Van Deusen, Nancy, XIII Van Groesen, M., 163n Van Ittersum, M., 7n Van Liere, K., 170n Van Linschoten, Jan Huygen, 164 Varisco, Giorgio, 135n Varrone,Marco Terenzio, 56 Varthema, Ludovico di, 108 Vasari, Giorgio, 68 Vasili III, principe di Moscovia, 141 Vecchi, Alessandro de’, 171n Vecellio, Cesare, 151 Vecellio, Tiziano, 132, 151 Vega, Garcilaso de la, 52 Vega, Garcilaso de la, detto El Inca, 98 Veltri, G., 116n Vendrix, P., 18n Venegas del Busto, A., 54n Venier, Domenico, 132 Venturi, Francesco, 132 Vergilio, Polidoro, 117 Vermeer, Jan, 192 Vilanova, A. 47n Villegaignon, Nicolas Durand de, 61 Vincent de Beauvais, 123 Virgilio (Publio Virgilio Marone), 48 Visceglia, Maria Antonietta, XIII, 178n

205

Indice dei nomi Viterbo, Annio da (Giovanni Nanni), IX, 47-53, 55-58, 60, 62-64, 81, 110, 128, 146, 173, 187, 191 Vives, Juan Luis, 57 Vizcaíno, Sebastián, 92 Vogel, K.A., 108n Voltaire (François-Marie Arouet), 4 e n, 24, 26

Worstbrock, F.J., 104n

Wachtel, N., 9n, 101n Wallerstein, I., 6n Walsingham, Francis, 95 Watreman, William, 105 Westwater, L.L., 122n White, H., 3n Wiesner-Hanks, M.E., 13n Wood, C.S., 64n Woolf, D., 11n

Zarate, Agustín de, 103, 123, 174 Zemon Davis, N., 85n Zenaro, Damiano, 151 Zhende, imperatore cinese, 73 Zheng He, 12, 15, 73 Ziletti, Giordano, 131, 132n, 134-135 Zimmermann, T.C. Price, 138n, 140n, 141n Zurara, Gomes Eanes de, 59

Yannakakis, Y., 102n Yaya, I., 29n, 98n Yerushalmi, Y.H., 116n Yuan, dinastia, 66 Xuande, imperatore cinese, 72-73

INDICE DEI LUOGHI* Aceh, 15 Acolhuacan, 41, 44 Adriatico, mare, 130 Africa, 7, 18, 27-28, 42, 82, 88, 105, 110112, 119, 138, 143, 147, 153, 161, 173174, 187 Africa centro-occidentale, 146 Africa occidentale, 31 Africa orientale, 13, 66, 72 Africa settentrionale, 182 Agra, 89 Aleppo, 89, 182 Algeri, 140, 142 Almada, 62, 67n America, V-VI, VIII-XI, 8, 15-16, 20-22, 2428, 34, 35n, 36, 51, 53-56, 61, 63- 65, 70, 74, 81-83, 90, 101-105, 117, 120122, 128-129, 130n, 134, 140, 142-143, 147, 153, 159-161, 167-169, 172-174, 184, 187, 190-193 America centrale, 40, 160, 166, 183 America meridionale, 16, 94, 108, 160 Anahuac, 42-43, 46, 48, 59-60 Anatolia, 18, 89 Andalusia, 119 Ande, 92, 98, 105, 125-126 Antille, 58, 66, 81, 90-91, 191 Antisuyo, 101 Anversa, 25, 105, 114, 117, 120 Appennino ligure, 116 Aquino, 132 Arabia, 111 Aragona, 180 Arakan, 66 Arequipa, 123

Armenia, 50-51, 188 Asia, X, 6, 8, 14, 16, 18-19, 21, 25, 27-28, 62, 69-70, 77, 82, 85-89, 95, 105, 112, 116, 119-120, 138, 143, 147, 149, 154, 160-161, 164, 167, 169, 172-174, 176 Asia centro-meridionale, 70 Asia meridionale, 13, 25, 31, 72, 86, 160 Asia orientale, 67, 160 Assiria, 46, 113 Atlantico, oceano, 13, 15, 34, 51, 61, 65, 105, 193 Aub, 104 Augsburg, 104 Ayacucho, 98 Aztlan, 60 Babilonia, 50 Banda, isole, 89, 91 Barcellona, 148 Basilea, 83, 114, 120 Bassora, 89 Battriana, 82 Baviera, 105, 120 Beirut, 89 Benavente, 46 Bengala, 66 Bengala, golfo del, 89 Bijapur, 154 Birmania, 66, 73 Borneo, isola del, 66 Brasile, 57, 61, 66, 94, 149, 163, 172 Cadice, 117 Caffa, 89 Calabria, 97

* Non sono stati indicizzati i luoghi biblici, letterari e mitologici; sono invece registrati i nomi geografici oggi caduti in disuso impiegati nel libro.

208 California, 92 Canarie, isole, 58, 120 Canton, 73, 139 Capo di Buona Speranza, 66, 69 Capo Verde, isole di, 58, 176, 183 Caraibi, 16, 176 Cartagena de Indias, 183 Caspio, mare, 89 Castiglia, 90, 183 Castiglia d’Oro, 120 Catai, 61, 66, 68, 139 Celebes, 66 Ceuta, 90 Ceylon, vedi Sri Lanka Chiapas, 56 Chinchaysuyo, 101 Cholula, 33 Chupas, valle di, 98 Cile, 124 Cina, VI, 7, 9, 11, 13, 24-25, 31, 37, 61-69, 71-76, 78, 81, 83, 86, 88-89, 92, 120, 129, 139-140, 142, 144, 155, 160, 168, 176, 178, 185, 188, 192-193 Cina sudorientale, 66 Cipro, 18 Città del Messico, 16n, 33, 37, 40, 43 Cocincina, 66 Coimbra, 161 Collasuyo, 101 Colonia, 175 Como, 141 Como, Lago di, 141 Contisuyo, 101 Cuba, isola di, 54, 58 Cuncolim, 154 Cuzco, 100-101, 123 Damasco, 89 Danimarca, 101 Delft, 192 Delhi, 14 Egitto, 14, 69, 89, 101 Espírito Santo, 149 Estremadura, 33 Estremo Oriente, 62 Etiopia, 77, 85, 111, 140-142, 145-146, 150, 176, 183 Eufrate, fiume, 89 Europa, VI, X, 4-7, 10-11, 15, 18-20, 22,

Indice dei luoghi 24-29, 31-32, 34, 41-42, 47, 52, 56, 58, 61-63, 69, 73, 76, 78-81, 84, 86, 88-89, 93, 105, 107, 110, 116, 118-119, 124, 128, 134, 137-140, 146, 148-149, 154, 159, 161, 164-165, 170-171, 173, 176177, 181, 183, 188, 193 Europa orientale, 14 Europa settentrionale, 93, 117, 164, 166 Fez, 85 Fiesole, XIII Filippine, isole, 16, 91, 155, 183 Firenze, 67-69, 109, 138, 161 Francia, IX, 18, 61, 78, 92, 133, 136, 140 Francia Antartica, 61, 91, 94, 163 Francoforte sul Meno, 163 Franconia, 104 Friburgo in Brisgovia, 105, 120 Gaeta, 131-132, 136 Galizia, 183 Gallia, 115 Gallipoli (Gelibolu), 16 Gange, fiume, 89 Genova, 47, 50, 116n Germania, 62-63, 78, 115, 175, 191 Gerusalemme, 146 Giappone, 25, 62, 66, 69, 120, 149-150, 154, 168, 183, 188 Giava, isola di, 66, 74, 76, 88, 91 Gibilterra, stretto di, 147 Giudea, 113 Goa, 15, 62, 68, 80, 164, 167 Gothia, 46 Granada, 147, 148 Gresik, 74 Guatemala, 37, 55 Guyana, 189 Haiti, isola di, vedi Hispaniola Herat, 70 Hispaniola, isola di, 54-55, 58, 84, 103, 120, 187 Hormuz, stretto di, 89, 160 Huamanga, 98, 122 Huánunco, 98 India, 69, 76-79, 87, 108, 139, 162, 168 India meridionale, 10n India occidentale, 154

209

Indice dei luoghi India settentrionale, 15 India sudorientale, 72 Indiano, oceano, IX, 7, 13-16, 68-69, 7173, 77, 82, 89, 92-93, 114, 139, 142, 159 Indie occidentali, X, 54, 59, 119-120, 127, 148, 161, 163, 183, 187 Indie orientali, X, 62, 75, 86, 119, 120, 149, 161, 163, 178, 182 Indonesia, 65 Inghilterra, VI, IX, 91-92, 140, 161, 176, 178-181, 185 Istanbul, 16-17 Italia, 49, 86, 137, 149, 176, 191 Iztapalapa, 33 Jamestown, 189 Kabul, 89 Karaman, 18 Laos, 66 L’Aquila, 152 Lepanto, 181 Lima, 124, 193 Lione, 120 Lisbona, 62, 65, 67-70, 75, 79, 83, 90, 9596, 99, 128, 161, 167 Londra, 94-95, 105, 119n, 120, 164, 179180, 185 Lovanio, 114, 120 Lubecca, 89 Luzon, 66 Macao, 69, 73, 144 Macedonia, 186 Madagascar, isola del, 178 Madrid, 177, 180, 183 Magdalena del Mar, 193 Magellano, stretto di, 120, 168, 183 Magonza, 155 Makassar, 66 Malacca, 15, 68, 73, 88 Mangi, 68 Manica, canale della, 94, 161, 182 Marocco, 15, 90 Medio Oriente, 138 Mediterraneo, isole del, 117 Mediterraneo, mare, 14, 31, 47, 68-69, 130, 137-138, 146, 149 Mekong, valle del, 67

Messico, VI, IX, 16, 29-30, 33, 36-39, 4144, 53, 56, 59-60, 62, 73, 91, 124, 128, 140, 165-166, 168, 185 Messico centrale, 33, 37, 39, 44-45, 47, 91 Messico meridionale, 37 Milano, 169, 171, 177 Mindanao, 66 Mixtecapan, 40, 59 Molucche, isole, VI, 65-66, 74-79, 85, 87, 90-91, 120, 128, 187 Montpellier, 27n Morea, 131 Moscovia, 86-87, 141 Mosul, 192 Mylapore, 72 Nagasaki, 69 Nanchino, 63, 73 Napoli, 97, 132, 152 Nero, mare, 89 New York, 117n Nicaragua, 37 Nord Europa, vedi Europa settentrionale Norimberga, 56 Nuova Granada, 124 Nuova Spagna, 36, 39-41, 43-46, 55-56, 66, 88, 120, 187 Nuovo Mondo, VIII-IX, 15-16, 20-24, 2628, 34, 38, 42, 46, 53-56, 58-62, 89-90, 93, 102, 107, 114, 120-122, 132n, 139140, 161, 165-168, 173, 184, 193 Occidente, 4-6, 9, 11, 21, 96 Oriente, 70, 96 Orinoco, fiume, 189 Otompan, 59 Oxford, 9 Pacifico, oceano, 37, 77, 91, 168, 178, 183 Padova, 84 Palestina, 89 Panama, 168 Paraguay, 124 Parigi, XIII, 105, 120, 150, 171 Pechino, 63, 73 Pegu, 66 Penisola araba, 161, 183 Penisola balcanica, 130 Penisola iberica, 41, 52, 90, 116, 134, 187 Penisola italiana, 48, 69, 137-138

210 Penisola malese, 68 Persia, 14, 25, 78, 101, 134, 141, 176-178, 182 Persico, golfo, 160 Perù, VI, X, 9, 16, 18, 58, 66, 91-92, 98104, 117, 120-124, 126, 128, 139, 150, 165, 168, 184-185, 187, 193 Perugia, 148 Pidna, 186 Piratininga, 149 Portogallo, IX, 8, 15, 51, 62, 77-80, 85-86, 91-92, 94, 97, 114, 139, 154, 160-162, 170, 181 Porto Seguro, 149 Potosí, 167 Providence, VIII, XI, 30n Province Unite, 192 Puebla, valle di, 45 Puerto de la Plata, 55 Rio de Janeiro, 61 Roma, XIII, 48-49, 52, 70, 122, 131-132, 138, 148, 152, 154, 161, 171 Rosso, mare, 89 Salamanca, 57 Salcette, 154 Salvador da Bahia, 149 Samarcanda, 89 Sanlúcar de Barrameda, 24 Sant’Elena, isola di, 15 Santo Domingo, isola di, vedi Hispaniola São Vicente, 149 Saragozza, 58 Scizia, 76 Siam, 66, 73, 91 Siria, 14, 31, 50, 89 Siviglia, 54, 165 Sogdiana, 82 Spagna, VI, 8, 18, 34, 38, 51-54, 56, 58, 63, 77, 91-92, 94, 97, 99-101, 115-119, 124, 147, 154, 160, 162, 170, 173, 176181, 189 Sri Lanka, 15, 72

Indice dei luoghi Stati Uniti, VIII Sumatra, isola di, 88 Sunda, canale di, 88 Tago, fiume, 62, 67 Tartaria, 155 Tahuantinsuyo, 101 Tehuacán, 37 Tehuantepec, 37 Tenochtitlan, 33, 40, 59, 142 Ternate, isola di, 74, 77 Terra di Santa Cruz, vedi Brasile Texcoco, 33, 40, 43-45 Tigri, fiume, 89 Tlacopan, 33 Tlatelolco, 43 Tlaxcala, 33, 43, 47, 55 Tordesillas, 74 Toscana, 67 Trebisonda, 89 Trento, 149, 170 Tucuman, 124 Turchia, 16, 78, 178, 182 Ulm, 104, 107-109, 127, 191 Valladolid, 56, 179 Vecchio Mondo, X, 21-23, 79, 90, 93, 102 Venezia, 17-19, 69, 83-84, 105, 120-121, 131-133, 136, 142, 144, 151n, 152, 154, 156-157, 163 Vicenza, 152 Vienna, 62 Vilcabamba, 100 Virginia, 95, 161, 185, 189 Viterbo, 47, 49, 63 Voltaggio, 116-117, 120 Xicalanco, 59 Yucatan, 120

INDICE DEL VOLUME

Premessa Ringraziamenti I.

Storici di un mondo che cambia: oggi e nel Rinascimento

V XIII

3

1. La storia nell’età della globalizzazione, p. 3 - 2. Mughal e ottomani scrivono la storia del mondo, p. 10 - 3. Tentativi rinascimentali: il mondo oltre l’America, p. 19 - 4. Fare la storia del mondo: un ritorno indietro?, p. 24 - 5. La riscoperta di un Rinascimento globale, p. 27

II. Le alchimie della storia: un falsario sbarca in America

33

1. Un francescano nella Nuova Spagna, p. 33 - 2. Motolinía e i racconti degli indios, p. 38 - 3. I falsi di Annio da Viterbo, p. 47 - 4. Lettori di Annio tra le due sponde dell’Atlantico, p. 54 - 5. Racconti anniani dal Nuovo Mondo alla Cina, p. 60

III. La Cina, i goti e Cortés: pensando alle spezie da un ospedale di Lisbona

65

1. Il Rinascimento e gli antichi cinesi, p.  65 - 2. Storie che Galvão sentì alle Molucche, p. 74 - 3. Ramusio e le navigazioni degli antichi, p. 81 - 4. Il mondo in movimento di Galvão, p. 87 - 5. Altri libri, altre scoperte: La Popelinière e Hakluyt, p. 92

IV. Dalla Baviera alle Ande: le peripezie di un «best seller» del Cinquecento 1. Guaman Poma e il mondo visto dal Perù, p. 97 - 2. Böhm e la varietà dei costumi del mondo, p. 103 - 3. I filosofi antichi e gli etiopi, p. 109 - 4. Lettori europei di Böhm, p. 114 - 5. L’enigma dell’«Yndiario» di Guaman Poma, p. 120

97

212

V.

Indice del volume

Storie di successo: poligrafi veneziani al servizio del grande pubblico

128

1. Libri da vendere: le Historie del mondo di Tarcagnota, p. 128 - 2. Il mondo di Giovio tra storie e curiosità, p. 135 - 3. Patrizi, Tarcagnota e l’«ampia historia», p. 142 - 4. La moda del mondo: storie, «novelle», abiti, p. 148 - 5. Campana difende le storie del mondo, p. 152

VI. Tra gesuiti e imperi d’oltremare: storie del mondo al tramonto

159

1. Maffei e la storia missionaria, p. 159 - 2. Acosta tra natura e cultura, p. 165 - 3. La geopolitica del mondo: l’ex gesuita Botero e l’avventuriero Sherley, p. 170 - 4. Ascesa e caduta di Herrera, cronista del re, p. 179 - 5. Raleigh e la fine delle storie del mondo, p. 185

Conclusioni

191

Indice dei nomi

197

Indice dei luoghi

207

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