Incontri con il pensiero sociologico
 9788815126221, 8815126228

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Gianfranco Poggi Giuseppe Sciortino

Incontri con il pensiero sociologico

il Mulino

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Scritto senza preoccupazioni accademiche e con linguaggio piano, questo libro si propone di avvicinare il lettore alle idee di alcuni pensatori trascelti fra quanti hanno offerto contributi profondi e originali alla riflessione sulla società moderna. Da Marx a Durkheim, da Weber a Simmel, da G.H. Mead a Parsons, fino a Goffman e Garfinkel: ad ogni autore è dedicato un ritratto interpretativo, vale a dire una discussione selettiva ma sistematica. Non la ricostruzione puntuale delle rispettive teorie, né una rassegna pedante delle critiche di altri studiosi, bensì la risposta più significativa che ciascuno di essi ha dato a una questione centrale: i caratteri distintivi dell’essere umano e dei suoi rapporti sociali, le potenzialità e le vulnerabilità che l’assistono o l’ostacolano nelle relazioni con gli altri.

Gianfranco Poggi ha insegnato nelle Università di Edimburgo, Trento e della Virginia, oltre che nell’Istituto universitario europeo di Firenze. Tra le sue pubblicazioni più recenti con il Mulino segnaliamo «Émile Durkheim» (2003) e «Incontro con Max Weber» (2004). Giuseppe Sciortino insegna Sociologia del mutamento nell’Università di Trento. Per il Mulino ha pubblicato, tra l’altro, «Gb immigrati in Italia» (2004) e ha curato diversi volumi della serie «Stranieri in Italia», in collaborazione con A. Colombo.

€ 11,50 Cover design: Miguel Sai & C.

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ISBN 978-88-15-12622-1

Società editrice il Mulino 9 7 8 8815 126221

ISBN

978-88-15-12622-1

Copyright © 2008 by Società editrice il Mulino, Bologna.

INDICE

Prefazione

p.

7

I.

Karl Marx

13

IL

Émile Durkheim

35

III.

Max Weber

61

IV.

Georg Simmel

85

V.

George Herbert Mead

107

VI.

Talcott Parsons

125

VII. Erving Goffman

145

V ili. Harold Garfinkel

163

PREFAZIONE

Questo libro si propone di avvicinare il lettore alle idee di un ristretto numero di autori che hanno dato con­ tributi profondi e originali (non soltanto diversi, ma addi­ rittura contrastanti e per lo più controversi) alla teoria so­ ciale moderna. Chiamiamo così un complesso di riflessioni scientificamente orientate, e quindi per quanto possibile empiricamente fondate, sulla natura dell’esperienza sociale in generale e sulle particolarità della società e della cultura moderne, che si è venuto formando tra la prima metà del­ l’Ottocento e il secolo successivo. Abbiamo scelto di presentare soltanto alcuni autori e dedicare a ciascuno quello che chiameremmo un «meda­ glione interpretativo». In questa espressione «medaglione» suggerisce che gli autori vengono discussi ciascuno in un capitolo diverso, senza esaminare sistematicamente i rap­ porti intellettuali tra loro e tra le rispettive opere. «Inter­ pretativo», per suo conto, indica che la discussione di cia­ scun autore è altamente selettiva: considera solo alcuni dei temi da lui trattati e segnala solo quelli che ci sembrano gli elementi salienti del suo discorso. In altre parole, non ci proponiamo di ricapitolare e discutere nel suo insieme il pensiero degli autori, di trattarlo sistematicamente, e meno che mai di rintracciare le fonti a cui ha attinto o i com­ menti e le critiche fatte in proposito da altri studiosi. Ci interessa invece identificare le posizioni che i vari autori hanno assunto su problematiche di teoria sociale tuttora aperte - posizioni che (a noi sembra, ma in questa sede non proveremo a dimostrarlo) continuano a ispirare, non sempre consapevolmente, molti dei dibattiti che hanno tuttora luogo entro la teoria sociale. Inoltre, ciascun me­ daglione prende le mosse dalla risposta più significativa che ogni autore ha dato, in maniera più o meno espressa 7

e consapevole, a una questione centrale, quella che chia­ miamo la sua «antropologia filosofica», ovvero Fimmagine dell’essere umano, delle potenzialità e - diciamo così «vulnerabilità» che lo caratterizzano e che assistono o osta­ colano gli individui nel costruire e gestire i loro rapporti reciproci. Perché inoltrarsi in queste problematiche facendo rife­ rimento a singoli autori invece che, poniamo, a particolari concetti, a diverse opzioni metodologiche, a specifici con­ tributi di ricerca? Secondo alcuni critici, il fatto che molti dibattiti sociologici contemporanei ruotino intorno o si ricolleghino al legato teoretico dei cosiddetti «classici», o di altri autori che hanno pubblicato i loro contributi più significativi almeno alcuni decenni fa, è un segno o forse addirittura una causa dell’immaturità scientifica della di­ sciplina sociologica, della sua insicurezza intellettuale, della sua incapacità di progredire attraverso autonomi pro­ getti di ricerca, lasciandosi alle spalle una volta per tutte quei contributi o riferendosi a essi al più occasionalmente e marginalmente. Questi critici ricordano che per contro le scienze «mature», a cominciare da quelle naturali, di­ menticano i propri fondatori, o quanto meno non conside­ rano la ricostruzione e meno che mai la venerazione delle loro opere come una componente necessaria e significativa della loro attività. Funzionano, si dice, cumulativamente: ciascuna operazione di ricerca si fonda sui risultati validi e rilevanti di quelle immediatamente precedenti, dando per scontato che queste a loro volta abbiano «metabolizzato» quelli delle ricerche ancora precedenti, e così via. Anche alcune discipline sociali sono molto vicine a questo mo­ dello: chi tra gli attuali economisti ritiene di dovere leg­ gere con attenzione Adam Smith? Ora, è innegabile e salutare che anche le attività di ricerca dei sociologi contemporanei abbiano una dimen­ sione cumulativa piuttosto marcata. Chi confronti ad esempio le ricerche sulla mobilità sociale condotte negli anni Cinquanta del secolo scorso con quelle dell’ultimo decennio, non potrà non constatare che queste rappresen­ tano un progresso irreversibile, che assegna alle ricerche precedenti un significato al più, per così dire, antiquario. Lo stesso vale per molti altri filoni di ricerca, dal compor­ 8

tamento elettorale agli studi sulla famiglia, dalle ricerche sui fenomeni migratori a quelle sulla devianza e sulla cri­ minalità. Eppure, a noi sembra del tutto giustificato che la sociologia continui a coltivare un rapporto privilegiato con un certo numero di autori abbastanza remoti nel tempo, riproponga un confronto più o meno diretto o mediato col loro pensiero, lo consideri fondamentale per la formazione delle nuove generazioni di ricercatori. E questo per due ragioni fondamentali. In primo luogo perché esiste una dimensione non cu­ mulativa nel discorso sociologico, che lo impegna a ri­ flettere quanto meno occasionalmente sui suoi stessi pre­ supposti, sulle sue giustificazioni intellettuali e morali, e quindi a riprendere le trattazioni di questi temi rico­ nosciute da tempo come le più significative. In secondo luogo perché la rivisitazione di autori canonici costituisce per i lettori contemporanei un’occasione ineguagliabile per confrontarsi con menti straordinarie, con opere tuttora ca­ paci di fungere da esempi e modelli, di stimolare e ispirare l’immaginazione sociologica. Queste opere rivelano inoltre la futilità del settarismo disciplinare, dell’insistenza con cui alcuni sociologi si sforzano di tracciare rigidi confini in­ torno a quello che considerano un discorso propriamente ed esclusivamente sociologico. Tra gli autori che discu­ tiamo, quelli (la grande maggioranza) interessati a fondare e a fare progredire la disciplina sociologica, a tracciare intorno a essa confini netti e adeguati, sono anche dispo­ sti a valicare quei confini se questo risulta necessario per comprendere meglio il problema con cui di volta in volta si confrontano. D ’altra parte questo libro, come si è accennato, non cerca di ricostruire l’intera biografia intellettuale degli au­ tori che consideriamo, non intraprende un’esegesi ravvi­ cinata e sofisticata di singole opere, non intende identifi­ care una volta per tutte «quello che è vivo e quello che è morto» nel loro lascito intellettuale. Pensiamo, infatti, che nell’attuale riflessione sociologica vi siano talora un eccesso di esegesi e una tendenza troppo marcata a considerare ri­ levante tutto quello che questi autori hanno prodotto. A noi sembra, invece, che nelle loro opere non sia difficile riscontrare anche argomenti insostenibili, esercizi intellet­ 9

tuali futili e un buon numero di vicoli ciechi. In tali opere abbiamo cercato di identificare quelle che ci appaiono suggestioni tuttora valide, problematiche tuttora meritevoli di essere recuperate e sottoposte a ulteriore riflessione. Se siamo riusciti in questo intento, spetterà poi ai lettori inol­ trarsi direttamente e senza mediazioni nei testi degli autori che qui presentiamo, la maggior parte dei quali è fortuna­ tamente disponibile, in traduzioni più o meno riuscite, an­ che in italiano. Perché abbiamo scelto questi autori e non altri? I primi quattro (Marx, Weber, Durkheim e Simmel) sono da tempo quasi universalmente riconosciuti come appar­ tenenti a pieno diritto al «canone» della teoria sociale moderna. Ci associamo a questa preferenza, con qualche rammarico per l’esclusione di Pareto, l’unico autore ita­ liano cui a suo tempo qualcuno ha attribuito la stessa sta­ tura degli altri quattro. La scelta di Parsons è ugualmente scontata: si tratta di un autore che per alcuni decenni ha avuto una centralità straordinaria nel dibattito sociologico e che è stato negli ultimi anni (criticamente) riscoperto e discusso in molte occasioni. Abbiamo inoltre ritenuto che una posizione quasi simile meriti George Herbert Mead, le cui idee, dopo un certo periodo di eclissi, sono ritornate negli ultimi anni a stimolare molte discussioni non solo tra i sociologi. E forse più opinabile la nostra scelta dei successivi due autori (Garfinkel e Goffman) e soprattutto l’esclusione di altri a loro sostanzialmente contemporanei come Luhmann, Foucault, Bourdieu o Habermas. A noi sembra però che, rispetto a questi ultimi, i prescelti ab­ biano avuto e stiano avendo un più significativo impatto sulla riflessione sociologica contemporanea, in parte sem­ plicemente perché si sono giovati dell’innegabile vantaggio di visibilità e autorevolezza di cui, all’interno della socio­ logia contemporanea, gode chi scrive e pubblica in una grande università nordamericana. (Nel caso di Goffman potremmo aggiungere che la sua opera ci attira anche per ragioni estetiche, il che purtroppo non si può dire per altri autori che abbiamo citato.) Come già detto, dal nostro punto di vista l’esito più fe­ lice della lettura di questo libro sarebbe di indurre i lettori a fare i conti personalmente con le «fonti primarie», vale a

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dire con gli scritti degli autori qui discussi. Nello scrivere i singoli capitoli, abbiamo mirato a una presentazione degli autori sufficiente a mettere il lettore in grado di orientarsi direttamente nei loro scritti. Naturalmente solo i lettori potranno dire se siamo stati all’altezza di questo proposito. In ogni caso, ciascuno dei capitoli che seguono si apre con alcune elementari indicazioni bio-bibliografiche che sugge­ riscono le opere più significative dell’autore in questione. Queste scelte sono inevitabilmente arbitrarie, e tralasciano sicuramente molte altre opere che meriterebbero di essere menzionate. Possiamo soltanto dire che quelle indicate si sono rivelate più stimolanti nel corso della nostra rifles­ sione su questi autori. Nella stesura dei capitoli non abbiamo fatto riferi­ mento alla letteratura secondaria sugli autori trattati, alla loro biografia e, più in generale, non abbiamo cercato di suggerire come si collochino nella più complessiva storia della teoria sociale moderna. Si tratta di una scelta consa­ pevole, ma che non vuole in alcun modo essere una critica di queste forme di riflessione, che svolgono un ruolo com­ plementare a quello da noi scelto nella discussione e nella diffusione della conoscenza di questi autori e, più in gene­ rale, della teoria sociologica. G.P. - G.S. L’impostazione di questo volume è frutto di molte conversazioni tra i due autori; ogni capitolo è stato letto più volte da entrambi e rivisto sulla base di questi dialoghi. Ciò detto, si può segnalare che Gianfranco Poggi ha scritto i primi quattro capitoli e Giuseppe Sciortino gli altri quattro. Nella scrittura di un testo di questo genere, coloro che hanno letto e commentato versioni precedenti dei diversi capi­ toli meritano un sincero ringraziamento per la loro pazienza e il loro contributo: tra questi sentiamo di dovere ricordare Marzio Barbagli, Ivano Bison, Matteo Bortolini, Martina Cvajner, De­ bora Mantovani, Licia Mignardi, Alberto Santambrogio, Stefani Scherer, Marcella Veglio. Siamo inoltre particolarmente grati agli studenti del corso di Teoria sociologica della laurea specialistica in Sociologia e ricerca sociale dell’Università di Trento e agli studenti della scuola di dottorato in Sociologia e ricerca sociale dello stesso ateneo per avere svolto magnificamente il ruolo di cavie nella lettura di versioni precedenti di questo lavoro.

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PER SAPERNE DI PIÙ

...

Forniamo qui di seguito, per il lettore che intenda ap­ profondire la conoscenza di alcuni degli autori affrontati nel volume, l’indicazione di alcune ottime opere di carat­ tere generale, differenziate per tipo di approccio. Prospettiva comparata Raymond Aron, Les Etapes de la pensée sociologique: Mon­ tesquieu, Comte, Marx, Tocqueville, Durkheim, Pareto, Weber, Paris, Gallimard, 1967 (trad. it. Le tappe del pensiero sociologi­ co: Montesquieu, Comte, Marx, Tocqueville, Durkheim, Pareto, Weber, Milano, Mondadori, 1989); Randall Collins, Tour Sociological Traditions: Selected Readings, Oxford, Oxford Universi­ ty Press, 1994 (trad. it. Quattro tradizioni sociologiche. Manuale introduttivo di storia della sociologia, Bologna, Zanichelli, 1996); Lewis A. Coser, Masters o f Sociological Thought, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1971 (trad. it. I maestri del pensiero sociologico, Bologna, Il Mulino, 1983); Anthony Giddens, Capitalism and Modem Social Theory: An Analysis o f thè Writings of Marx, Durkheim and Max Weber, Cambridge, Cambridge Uni­ versity Press, 1971 (trad. it. Capitalismo e teoria sociale: Marx, Durkheim e Max Weber, Milano, Il Saggiatore, 1984).

Biografie intellettuali Tom Burns, Erving Goffman, London, Roudedge, 1991 (trad. it. Erving Goffman, Bologna, Il Mulino, 1997); David Frisby, Georg Simmel, Chichester-London, Ellis Horwood-Tavistock, 1984 (trad. it. Georg Simmel, Bologna, Il Mulino, 1985); David McLellan, Karl Marx: His Life and Thought, London, Macmillan, 1973 (trad. it. Karl Marx, Il Mulino, Bologna, 1998); Marianne Weber, Max Weber. Ein Lebensbild, Tiibingen, Mohr, 1926 (trad. it. Max Weber. Dna biografia, Bologna, Il Mulino, 1995).

Antologie di testi scelti e commentati Georg Simmel, Ventura e sventura della modernità. Antolo­ gia degli scritti sociologici, a cura di Pasquale Alferj e Vincenzo Rutigliano, Torino, Bollati Boringhieri, 2003; Pierpaolo Giglioli e Alessandro Dal Lago (a cura di), Etnornetodologia, Bologna, Il Mulino, 1983; Karl Marx e Friedrich Engels, Opere scelte, a cura di Luciano Gruppi, Roma, Editori Riuniti, 1966; Alberto Izzo (a cura di), Storia del pensiero sociologico, Bologna, Il Mulino, 1973. K jìv

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KARL MARX

Filosofo ed economista tedesco (1818-1883). Trascorre buona parte della sua esistenza come esule politico, in Fran­ cia e soprattutto in Inghilterra. Molto attivo come ideologo e come leader del movimento operaio europeo entro l’Associa­ zione internazionale dei lavoratori (conosciuta anche come Prima Internazionale), si impegna (spesso in stretta collaborazione con Friedrich Engels) in molteplici studi su temi di­ versi, ma soprattutto nella critica dell’economia politica a lui coeva, nell’intento di offrire un fondamento scientifico alla lotta operaia rivoluzionaria contro l’ordine borghese. Questa sua attività teorica ha vasta eco, e a essa si riallaccia in vari paesi una componente primaria di organizzazioni sindacali e di partiti socialisti che viene denominata «marxista», ter­ mine che si applica anche a una ricchissima produzione teo­ rica e sociologica. Quella componente era destinata a trion­ fare nella rivoluzione russa dell’Ottobre 1917, e da allora si sono detti «m arxisti» numerosi movimenti e regimi di na­ tura collettivista in molteplici paesi. (Su Marx e sui pensa­ tori e movimenti marxisti esistono siti italiani assai ricchi di materiali, quali www.bibliotecamarxista.org.) OPERE FONDAMENTALI

1844 1846 1848 1867

Manoscritti economico-filosofici, opera pubblicata postu­ ma nel 1932, trad. it. in Opere filosofiche giovanili, Roma, Editori Riuniti, 1974. L’ideologia tedesca, opera pubblicata postuma nel 1932, trad. it. Roma, Editori Riuniti, 2000. Manifesto del partito comunista, trad. it. Torino, Einaudi, 2005. 11 Capitale. Critica dell’economia politica, trad. it. Roma, Editori Riuniti, 1994.

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L’intero pensiero di Marx, come quello di altri teorici della società, viene elaborato sullo sfondo di una conce­ zione, più o meno esplicita, della natura stessa degli esseri umani - di che cosa li renda diversi da altre forme di vita animale e determini, più o meno direttamente e rigida­ mente, il modo in cui organizzano e gestiscono la loro esi­ stenza sociale. Aristotele, ad esempio, caratterizza l’uomo come «animale politico»; Adam Smith considera centrale alla natura umana la propensione allo scambio. Per suo conto Marx aderisce, sostanzialmente, a una concezione dell’essere umano spesso associata con l’espressione latina homo faber - l’«uomo artefice». In questa concezione, la loro natura distingue gli uo­ mini da altri animali costringendoli, e abilitandoli, a ren­ dere possibile la propria esistenza tramite una forma pe­ culiare di attività vitale che possiamo chiamare produzione. In questa attività, che per gli uomini come per tutti gli altri animali risponde in primo luogo alla necessità di mante­ nere in vita il singolo essere e a permettergli di riprodursi, gli uomini si rapportano al resto della natura valendosi di oggetti che la natura stessa non fornisce loro, ma che de­ vono essi stessi mettere a punto per controllare la natura, difendersi da essa, porla al servizio delle proprie necessità. Gli esseri umani possono manipolare e alterare i dati naturali esistenti e aggiungere a questi i risultati delle pro­ prie attività, facendone le premesse e gli strumenti di at­ tività future diverse (in maggiore o minore misura) da quelle presenti. Lo possono fare perché sono capaci di operazioni soggettive (possono accertare le condizioni esi­ stenti, formulare giudizi e preferenze in merito a queste, orientare il proprio sforzo a condizioni inesistenti ma im­ maginate) a loro volta non strettamente programmate dalla natura, e per questa ragione diverse da un gruppo umano a un altro, da un momento a un altro entro le vicende di un determinato gruppo o della specie umana nel suo in­ sieme. Insomma, la specie umana è capace di creatività, in quanto può modificare i dati della propria esistenza e in tal modo modificare anche se stessa, esprimere e realizzare potenzialità diverse. Marx deriva la propria consapevolezza di queste par­ ticolarità umane dalla tradizione idealistica tedesca e dal 14

pensiero romantico. A differenza di quelle versioni non ne accentua gli aspetti più nobili ed elevati (la costruzione di istituzioni, l’elaborazione di miti, riti, credenze, cono­ scenze, l’espressione estetica), ma quelli che concernono la riproduzione dell’esistenza fisica degli individui e dei gruppi. La creatività degli uomini si presenta innanzitutto come capacità di intervenire sulla natura per estrarne ri­ sorse che permettano loro di nutrirsi, di proteggersi dalle intemperie, di assicurare la crescita di nuove generazioni. Ed è su questo terreno, caratterizzato dal bisogno, che emergono anche le contraddizioni caratteristiche della vita sociale degli uomini, che secondo Marx ne determinano la dinamica storica. Egli sottolinea: • l’importanza fondamentale che hanno nell’esistenza umana i processi relativi alla produzione della vita mate­ riale (importanza troppo spesso disconosciuta, in partico­ lare, dai filosofi); • il ruolo che svolgono in questi processi i mezzi di produzione, che in un determinato momento stabiliscono un ponte, per così dire, tra attività produttive passate e presenti; • la possibilità che i mezzi di produzione cadano sotto il controllo privilegiato di soggetti diversi da quelli impe­ gnati nella produzione, tramite specifiche istituzioni la più significativa delle quali è la proprietà privata; • la natura essenzialmente (anche se non sempre sco­ pertamente) antagonistica del rapporto che si stabilisce tra chi si appropria dei mezzi di produzione e chi può avva­ lersene in ulteriori attività produttive solo entro condizioni imposte da una situazione svantaggiosa. Insomma, per Marx le società storiche sono tutte attra­ versate, più o meno scopertamente, da una scissione fon­ damentale, relativa ai processi di produzione e di distri­ buzione delle risorse, mediati dall’attrezzatura tecnologica che ogni società si dà per controllare e sfruttare la natura. Ma questa attrezzatura può essere a sua volta riprodotta e utilizzata soltanto tramite rapporti sociali, le cui parti cioè sono individui o, meglio, collettività di individui. Marx de­ nomina classi le collettività più importanti, che emergono nel contesto dei processi di produzione e distribuzione, e 15

in quanto tali si confrontano come potenzialmente o at­ tualmente antagonistiche. Perché? Alla fin fine, una classe consuma più di quanto non produca, e può farlo perché l’altra produce più di quanto non consumi. La prima mantiene questa posizione di vantaggio, che naturalmente farebbe comodo all’altra sopprimere od occupare a sua volta, perché con­ trolla i mezzi di produzione e se ne serve per stabilire e gestire con l’altra dei rapporti di sfruttamento. Ogni so­ cietà è quindi caratterizzata dalla diseguaglianza sociale, dall’asimmetria tra le classi per quanto riguarda il diretto coinvolgimento nel processo produttivo degli individui che ne fanno parte, la loro capacità di disporre delle ri­ sorse che il processo utilizza, l’accesso ai beni e ai servizi che ne derivano. Ne consegue un contrasto fondamentale tra l’interesse di una classe a mantenere e accrescere que­ ste diseguaglianze, e l’interesse dell’altra a sopprimerle o a moderarle. Ma nel pensiero marxiano i processi che fanno capo al funzionamento e al mantenimento di una determinata so­ cietà sono gli stessi che a lungo andare presiedono anche al suo mutamento. Le diseguaglianze più importanti strut­ turano la società, permettendo a una minoranza di control­ lare e sfruttare l’attività produttiva della maggioranza; ma al contempo mettono la stessa società sotto tensione, indu­ cendo la maggioranza a cercare di sovvertire un rapporto che sistematicamente la danneggia, perché la esclude dal godimento della ricchezza prodotta dai suoi stessi sforzi. Occorre sottolineare «cercare», perché questo secondo aspetto solo raramente si manifesta in un’effettiva e dram­ matica sovversione dell’esistente. Assai più spesso l’attività della maggioranza è subdola e sorda, e i suoi interessi ri­ mangono sistematicamente subordinati a quelli antitetici della minoranza. Anzi, spesso la maggioranza non è consa­ pevole dei propri interessi e della loro incompatibilità con quelli altrui, o comunque non li persegue effettivamente, non oppone serie resistenze alla propria condizione di in­ feriorità. Come mai?

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1. Il controllo dei processi di produzione In termini generici questo fenomeno si può ricondurre al principio stesso, affermato da Marx contro la tradizione idealistica, del carattere fondamentale dei processi di pro­ duzione della vita materiale rispetto a ogni altro processo. In parole povere, chi controlla la produzione e la distribu­ zione della ricchezza controlla tutto. Non che altri aspetti dell’esperienza sociale, dalla religione all’arte, alla vita familiare, alla politica, al diritto, non siano significativi. Semmai, proprio perché sono significativi, essi non pos­ sono non essere condizionati e in qualche misura deter­ minati appunto dal modo in cui, in ogni società, vengono organizzate e gestite la produzione e la distribuzione della ricchezza. Tali aspetti non possono che rispettare e per quanto possibile assecondare gli interessi della classe che si è impossessata dei mezzi di produzione, e quindi con­ trastare quelli della classe spossessata e sfruttata, o al più permetterne la realizzazione solo se e in quanto è compati­ bile col mantenimento della struttura della società. Prendiamo la religione, ad esempio. Secondo Marx, ogni religione esprime un senso di insoddisfazione e di­ sagio nei confronti dell’esistenza così come il credente la esperisce, un anelito verso un modo più coerente e giusto in cui il mondo potrebbe operare, verso valori che l’espe­ rienza quotidiana nega ed esclude. Ma ogni religione so­ stanzialmente trasfigura queste aspirazioni indirizzandole a un aldilà immaginario, per raggiungere il quale il credente si rassegna, si astiene dal tentare di realizzare quelle aspira­ zioni qui e ora, perché questo richiederebbe la sovversione dei rapporti reali della sua esistenza. Questi, dunque, lo inducono ad avvertire quelle stesse aspirazioni e dar loro qualche espressione, ma al contempo le frustrano. In que­ sto modo la religione si fa complice dell’esistente, anche quando si appella a valori (giustizia, fratellanza, libertà) che la realtà esistente nega alla grande maggioranza degli individui. Nello stesso modo, il diritto di una determinata società costituisce per tutti gli individui che ne fanno parte un punto di riferimento, un insieme di aspettative sanzionate a cui si riferiscono per gestire la propria esistenza, per ri­ 17

durne l’incertezza e il rischio, per orientarsi nell’agire. Ma gli assetti giuridici di ogni società in primo luogo proteg­ gono e realizzano la priorità degli interessi della classe dominante rispetto a quelli della classe dominata. Quel quanto di sicurezza e di prevedibilità che quegli assetti conferiscono all’esistenza della classe dominata non ne nega la condizione sostanziale di subordinazione, anzi la garantisce. Prendiamo, infine, il potere politico. Tutte le sue forme, nel pensiero marxiano, hanno in comune la fun­ zione di concentrare e di mettere a disposizione di un cen­ tro decisionale un insieme di risorse materiali e organizza­ tive per istituire e sanzionare, se necessario con la forza, un ordinamento vincolante dei rapporti sociali, e per eser­ citare o minacciare la violenza organizzata nei confronti di chi viola o contrasta tale ordinamento. Ma questo ordina­ mento, daccapo, ha al suo centro il controllo della classe dominante sulle forze produttive e sui relativi assetti per la produzione e la distribuzione della ricchezza. Quindi lo stesso potere politico, anche laddove le istituzioni propria­ mente politiche sono distinte da quelle relative alla produ­ zione materiale, necessariamente le sancisce e le protegge. Questo discorso potrebbe estendersi alle pratiche este­ tiche di una determinata società, alle sue forme di cono­ scenza, alle istituzioni relative alla vita sessuale e familiare, all’educazione - insomma a tutti i processi sociali e cultu­ rali che non attengono direttamente alla produzione e alla distribuzione delle risorse materiali della società. In alcuni testi, Marx formula questa posizione distinguendo tra la base economica della società e la sua sovrastruttura ideolo­ gica. Le varie componenti di quest’ultima - politiche, giu­ ridiche, estetiche, religiose, ecc. - possono espressamente affermare la superiorità della classe che controlla le risorse materiali e la subordinazione di quella che ne è esclusa, oppure rendere meno intollerabile la posizione di quest’ul­ tima, permettendo a chi ne fa parte di gestire in maniera relativamente prevedibile la propria esistenza, di viverla con riferimento a valori e norme che in qualche misura le attribuiscono un significato. Ma se è così, come si spiega che la storia presenti epi­ sodi di effettiva sovversione, di radicale mutamento, di 18

soppressione più o meno rapida e totale del dominio di una classe sulla società nel suo insieme? A nostro parere, la risposta di Marx a questa domanda si può ricondurre all 'homo faber, a un’espressione fondamentale della costituzionale creatività dell’umana specie - la capacità di progettare modi sempre nuovi di control­ lare e padroneggiare la natura. Le espressioni più imme­ diatamente percepibili di questa capacità riguardano la tecnologia materiale: si pensi al passaggio dal mulino ad acqua alla macchina a vapore, oppure all’adozione delle staffe come finimento della cavalcatura. Ma tipicamente l’adozione e l’utilizzazione di nuove tecniche richiedono rapporti diversi tra coloro che le impiegano; ad esempio, impongono nuovi modi di scegliere, addestrare, retribuire i produttori, dividere e coordinare tra loro le attività pro­ duttive, e così via. L’ipotesi marxiana è che ogni nuova tecnica e ogni nuovo sistema di rapporti costituisca un’espressione più ampia e matura dell’umana creatività, accrescendo la ric­ chezza disponibile nella società. Tali nuove tecniche e nuovi rapporti mettono in forse la «sostenibilità», si di­ rebbe oggi, delle modalità esistenti di produzione e distri­ buzione, poiché concentrano nelle mani di nuovi gruppi dirigenti modi alternativi di produrre ricchezza, facendo apparire inadeguate le istituzioni e le forme culturali esi­ stenti, proprio perché, come abbiamo visto, sono parte integrante di una condizione sociale ormai superata. Ora, inevitabilmente questi sviluppi minacciano le gerarchie so­ ciali costituite, tendono a privare di efficienza e di legitti­ mità la gestione generale del processo sociale da parte della classe dominante. E altrettanto inevitabile che questa reagi­ sca cercando di riaffermare i propri privilegi, opponendosi all’adozione di nuovi processi produttivi e rifiutandosi di riconoscere la legittimità di nuovi gruppi dirigenti. Queste forme di resistenza al cambiamento possono a lungo avere successo, ora giovandosi di strumenti politici di repres­ sione, ora appellandosi a valori e a consuetudini che fanno tuttora presa sugli animi e creano un attaccamento o, quanto meno, una rassegnazione alle condizioni esistenti. È possibile peraltro una svolta massiccia del processo storico, a due condizioni: deve essersi fatto particolarmente 19

vistoso il divario tra la situazione esistente e le nuove po­ tenzialità aperte dalle innovazioni produttive; e i gruppi che si identificano con quelle potenzialità devono essere in grado di sfidare efficacemente e sopraffare coloro che si oppongono ai loro interessi e imporne la realizzazione. Inoltre, ogni svolta comporta, più o meno direttamente, l’elaborazione di nuovi assetti istituzionali e nuove pro­ spettive culturali che rimpiazzino quelli esistenti in campi diversi come (daccapo) la religione, il diritto, la configura­ zione del potere politico, l’arte, la scienza, la famiglia. È per questo che gli snodi storici fondamentali sono necessariamente episodici e comportano, Marx insiste, vere e proprie rivoluzioni. Corrispondono a cambiamenti epocali nel rapporto tra specie umana e natura, liberano forze produttive precedentemente ignorate, richiedono la formazione e il successo di nuovi gruppi capaci di pilotare quei cambiamenti e di costituirsi, attuandoli, come nuova classe dominante. Tali gruppi sono sempre stati motivati e orientati nel loro agire dal proprio particolare interesse e hanno sempre messo in atto nuove forme di divisione sociale e di sfrut­ tamento. Malgrado questo, agli occhi di Marx quei cam­ biamenti hanno successivamente dispiegato nuove e più ampie potenzialità, affermato e fatto valere bisogni e ca­ pacità propri dell’essere umano in quanto tale, trasceso i condizionamenti e le limitazioni della situazione esistente. Peraltro, per costituire progresso, ogni mutamento massic­ cio deve presupporre quella situazione, negarne la validità e la legittimità, abolirla, ma al contempo realizzare le sue promesse. E da chiarire che, tra un momento e l’altro di questi episodi rari e intensi di cambiamento, la storia non si ar­ resta. Innovazioni minori vengono spesso introdotte, la classe dominata resiste in vario modo al proprio sfrutta­ mento senza riuscire a farlo cessare (o, al contrario, subi­ sce peggioramenti nella propria condizione). Inoltre ven­ gono elaborati nuovi contenuti e nuove forme nelle sfere della religione, dell’arte, della scienza, del diritto. In parti­ colare, le unità politiche vedono avvicendarsi dinastie, in­ traprendono guerre, acquistano o perdono territori, modi­ ficano le proprie istituzioni fiscali, militari, giudiziarie, am­ 20

ministrative. Le popolazioni crescono o diminuiscono. La loro composizione sociale si fa molto più varia di quanto non risulti dalla semplice contrapposizione tra classe do­ minante e classe dominata, e questa varietà si rivela in molteplici e mutevoli allineamenti, in frequenti mutazioni del modo in cui gli individui si identificano e si rappor­ tano gli uni con gli altri. Marx è consapevole di tutte queste manifestazioni della storicità umana e ne riconosce il significato; ma af­ ferma risolutamente la priorità della scansione che innova­ zioni relative alle strutture e ai processi produttivi imparti­ scono all’esperienza storica, facendone un tutto coerente, segnato dal progresso - anche se un progresso sospinto dall’antagonismo, dall’affermazione degli interessi di una classe a danno di un’altra. Nel suo insieme l’esperienza umana, una volta uscita dalla sua fase più primitiva, mostra il successivo affer­ marsi di tre modi di produzione in cui viene diversamente condotto lo sfruttamento, in quanto il sovrappiù di pro­ duzione reso possibile dalla tecnica e dalla divisione del lavoro viene sottratto a chi lo produce e messo a dispo­ sizione dei non produttori. Nel modo «antico» di produ­ zione questo avviene principalmente in forza del fatto che i produttori sono degli schiavi, vale a dire esseri umani appartenenti ad altri, che li comprano e vendono come se fossero strumenti materiali, e quindi controllano comple­ tamente i prodotti delle loro attività. Nel modo «feudale» i produttori (tipicamente, i servi della gleba) sono politi­ camente sottomessi ai non produttori, signori che impon­ gono loro di prestare lavoro coatto e di mettere a propria disposizione una parte del prodotto del lavoro che svol­ gono autonomamente. Nel modo «capitalistico-borghese» i rapporti tra produttori e non produttori si configurano come contrattuali, perché i primi vendono ai secondi la propria forza lavoro a prezzo di mercato; ma lo fanno in una condizione di oggettiva inferiorità, in cui la proprietà privata dei mezzi di produzione permette ai non produt­ tori di controllarne l’impiego, e questo li mette in grado di praticare una forma relativamente occulta di sfruttamento. La narrazione marxiana della storia dell’umanità è bru­ talmente riduttiva, e la si può giustificare soltanto consi­ 21

derandola come al più una visione sintetica della vicenda dell’Occidente, della progressione verso la modernità oc­ cidentale. In effetti, nel testo in cui più chiaramente la enuncia, Marx aggiunge un accenno a un modo di produ­ zione «asiatico», del quale peraltro in quella sede dice as­ sai poco, ma che per così dire apre un esiguo spiraglio sul resto dell’esperienza storica. 2. L’analisi del modo di produzione capitalistico Sostanzialmente, la teoria sociale marxiana è orientata a descrivere e a spiegare gli aspetti caratteristici, storica­ mente unici, della condizione moderna affermatasi per la prima volta in Europa con l’avvento del capitalismo, in particolare nella sua più recente fase industriale, che Marx ha modo di osservare e criticare dappresso. Questo si deve al fatto che concepisce la sua intera, imponente pro­ duzione di studioso come uno strumento intellettuale della rivoluzione socialista, che avrebbe sconfitto il sistema ca­ pitalistico e posto in essere per la prima volta nella storia una società non scissa'. Qui la vicenda di progressivo con­ trollo della specie umana sulla natura e il dispiegamento delle potenzialità produttive avrebbero cessato di proce­ dere in base allo sfruttamento e all’antagonismo di classe. Secondo Marx, solo a quel punto sarebbe terminata la preistoria degli uomini e sarebbe cominciata la loro storia. Marx dedica la maggior parte dei suoi immani sforzi intellettuali (per lo più motivati dall’aspirazione a capeg­ giare o quanto meno orientare teoricamente le lotte della classe operaia contro la società capitalista) a individuare e a criticare i meccanismi specificamente capitalistici di produzione e distribuzione della ricchezza. Questo sforzo prende forma soprattutto come «critica dell’economia po­ litica», ovvero critica delle conoscenze relative a quegli stessi fenomeni generalmente accettati dai contemporanei di Marx. A Marx preme soprattutto dimostrare, contro quelle conoscenze, che anche se il rapporto di lavoro caratteri­ stico del sistema capitalistico si presenta come uno scam­ bio contrattuale di forza lavoro per salario, e quindi come 22

un rapporto volontario e paritetico tra lavoratore e capita­ lista, esso in realtà comporta una soggezione del primo al secondo, comparabile (anche se non uguale) a quella esi­ stente a suo tempo tra schiavo e padrone o tra servo e si­ gnore feudale, e in quanto tale pone in essere un processo di sfruttamento. Peraltro questa dimostrazione è altamente complessa, e Marx si è affaticato a svolgerla così frequente­ mente e diffusamente, in trattazioni innumerevoli e di di­ versa natura - tra cui alcune lasciate incomplete e inedite - da far sospettare che nutrisse egli stesso dei dubbi sulla sua validità scientifica. In ogni caso non sembra opportuno o necessario, per diverse ragioni, cercare di render conto in questa sede degli argomenti marxiani in proposito. In primo luogo essi appartengono, in sostanza, alla storia del pensiero economico piuttosto che di quello sociologico. In secondo luogo vengono condotti a partire da presupposti di natura filosofica e in uno stile d’analisi proprio di una fase superata della storia dello stesso pensiero economico. In terzo luogo vi è ragione di pensare che alla fin fine que­ gli argomenti non siano intrinsecamente validi e accettabili. Qui di seguito, comunque, anche se come si è visto nel pensiero di Marx il modo di produzione capitalistico ap­ partiene all’essenza stessa della società moderna (o addi­ rittura la determina), si cerca di riassumere una sua conce­ zione più propriamente sociologica della società moderna, piuttosto che di quel modo di produzione. L’originalità storica della società moderna si rivela so­ prattutto nel carattere delle due classi protagoniste della sua esistenza, quella borghese e quella operaia. La prima è caratterizzata dal fatto di essere composta da individui che sono direttamente impegnati nell’attività produttiva, anche se non come produttori, ma come proprietari di capitale. La proprietà che essi possiedono e gestiscono, a differenza del patrimonio delle classi possidenti nelle so­ cietà pre-moderne, si configura come un insieme di ri­ sorse produttive che si mantiene e si accresce tramite atti­ vità gestite a proprio titolo dai proprietari stessi in qualità di imprenditori, orientate al mercato e intese a generare profitto. «A un primo sguardo la ricchezza borghese appare come una enorme raccolta di merci»1. Costituiscono merci 23

non soltanto gli oggetti che il sistema produce e pone sul mercato, ma anche quelli messi insieme dal proprietario per impegnarli nella produzione. Infine, costituisce merce anche la forza lavoro a cui fa capo la stessa attività pro­ duttiva. Per questa ragione l’intero sistema presuppone l’esistenza del denaro e la sua dinamica si può ricondurre a una particolare configurazione del rapporto tra merce (M) e denaro (D). In altri sistemi, D interviene meramente per mediare il rapporto tra una merce M I che un soggetto ha e una M2 che non ha, e che acquisisce dopo aver ven­ duto M I. Nel sistema capitalistico, peraltro, si parte da una somma D I che viene spesa per acquisire una merce M, ma al fine di arrivare a ima somma D2. Ma dato che il denaro (a differenza delle merci) non presenta differenze qualitative, questa sequenza D1-M-D2 ha un senso esclu­ sivamente se approda a D+, ovvero a più denaro al punto di arrivo che a quello di partenza. Non solo: D-M-D+ è caratterizzato dalla tendenza a ripetersi, a diventare un momento di una progressione potenzialmente infinita, il che non si può dire di M1-D-M2. Infine, ci si può chiedere quale sia la merce che per­ mette il passaggio da un dato D a D+. Secondo Marx, questa merce non può essere che la forza lavoro. Questo è un passaggio in un discorso economico che qui prefe­ riamo lasciare da parte; ma in sede sociologica possiamo chiederci entro quali condizioni i capitalisti proprietari di D trovino sul mercato, appunto, della forza lavoro da impegnare sotto il proprio controllo nel processo produt­ tivo, facendola interagire con mezzi di produzione acqui­ siti a loro volta sul mercato. La risposta è semplice: questo è possibile se e in quanto i proprietari della forza lavoro sono soltanto proprietari di forza lavoro e le risorse pro­ duttive d’importanza strategica nel sistema economico sono tutte saldamente in mano dei capitalisti sotto forma di denaro ma soprattutto di risorse produttive. Questa condizione, a sua volta, presuppone un pro­ cesso di accumulazione di quelle risorse nel quale l’innova­ zione svolge un ruolo centrale, la messa a punto di tecni­ che materiali e organizzative che, per così dire, svalutano le forme di ricchezza e le fonti di sostentamento tradizio­ nali. In particolare, le origini del capitalismo vedono la 24

crescente importanza di risorse monetarie investite in atti­ vità commerciali o artigianali rispetto a quelle fondiarie, e modi nuovi di gestire i possedimenti terrieri tramite la loro commercializzazione. Questa spesso richiede la soppres­ sione di antiche pratiche tradizionali di uso della terra da parte degli abitanti di villaggi, che li costringe, una volta privati dei loro mezzi di sussistenza, a vendere la propria forza lavoro. A loro volta le nuove risorse produttive subiscono molteplici innovazioni nella loro struttura materiale (ad esempio, il passaggio da strumenti artigianali a macchine sempre più potenti), nel modo in cui ne viene gestito l’impiego (ad esempio, il passaggio dal lavoro a domicilio alla grande fabbrica, o l’adozione di tecniche sempre più avanzate di calcolo dei costi e dei ricavi), nella natura delle merci prodotte (da beni di consumo a macchine utensili) e nelle modalità della loro distribuzione (dalla fiera di villaggio al grande emporio, dalla produzione per il mer­ cato locale a quella per il mercato mondiale). In sostanza, il nuovo modo di produzione capitalistico si associa alle nuove modalità di rapporto uomo/natura costituite dall’in­ dustria, che a sua volta trova la sua rappresentazione più imponente nella grande fabbrica. E in questo modo che si dispiega la dinamica del ci­ clo D-M-D+, attraverso un processo incessante di «distru­ zione creativa». Attivato dalla competizione e orientato al profitto, il processo mette continuamente in forse modalità acquisite di produzione, di attività lavorativa, di consumo, ma al contempo ne genera di nuove ed è accompagnato da un enorme accrescimento e da una diversificazione della ricchezza della società, delle possibilità di godimento e di esperienza aperte agli individui. A questo si aggiunge un massiccio mutamento in molteplici aspetti della vita sociale e della cultura. Ceti tradizionalmente privilegiati, ad esempio quelli nobiliari o le corporazioni cittadine che producono su base artigianale beni progressivamente soppiantati da quelli a produzione industriale, perdono la loro posizione di van­ taggio nella gerarchia sociale. Un processo accelerato di urbanizzazione sottrae una parte crescente della loro po­ polazione alle campagne. Queste erano precedentemente 25

sede della forma dominante di attività produttiva, ma ora divengono il sito di pratiche e credenze tradizionali, in una situazione in cui la tradizione perde rapidamente di prestigio. Ciò si deve alla crescente centralità culturale di forme nuove di sapere, a loro volta prodotte soprattutto nelle città e fondate sull’alfabetizzazione di massa, sulla diffusione della stampa, sulla costruzione di nuove istitu­ zioni per l’educazione e la ricerca. Tutto questo a sua volta ingenera modi nuovi, secolari, di comprendere la realtà e di programmare e valutare i comportamenti sociali che pregiudicano la credibilità del sapere religioso e il presti­ gio culturale delle istituzioni ecclesiastiche. Per loro conto, le strutture politiche e amministrative subiscono significative modifiche costituzionali. I processi politici si aprono alla rappresentanza e alla partecipazione di strati sempre più ampi della popolazione, orientano le loro azioni agli interessi e ai valori di nuovi gruppi diri­ genti, registrano gli orientamenti dell’opinione pubblica e le relative controversie, producono nuove regole del vivere civile, gestiscono una realtà sociale sempre più complessa e mutevole, da cui nascono bisogni e opportunità senza precedenti. Infine, le società occidentali interagiscono le une con le altre sempre più apertamente, soprattutto tramite l’am­ pliamento dei mercati, il traffico incessante di beni, capi­ tali, conoscenze, individui. E questi processi si estendono in qualche misura al resto del mondo, sia tramite la for­ mazione di imperi coloniali, sia sotto l’impulso irresistibile del progresso industriale, che lentamente modifica il volto stesso del pianeta, tramite nuove vie di comunicazione e nuove modalità di trasporto, dando dimensioni continen­ tali ad alcune unità politiche, spostando i confini tra al­ tre. Questo processo trasmette progressivamente al resto del mondo i modelli e i valori della moderna cultura oc­ cidentale, rendendoli sempre più secolari, individualistici, utilitaristici. Marx pone a credito della nuova classe dominante, la borghesia, tutti questi mutamenti, in cui a suo giudizio si affermano e si sviluppano potenzialità umane sempre più ampie, diverse e autentiche. Peraltro, anche se la borghe­ sia sta così liberando forze produttive immani, capaci di 26

tornare a beneficio dell’intera società - anzi, dell’uma­ nità stessa - lo fa in vista dei propri interessi di classe. Di conseguenza le sue conquiste possono dare un apporto soltanto limitato e a volte contraddittorio a un’auten­ tica emancipazione, che abbracci l’intera società e, a suo tempo, tramite l’inevitabile espansione della tecnica e della cultura occidentali, l’intera specie umana. Ad esempio, le innovazioni costituzionali in corso in Occidente attribuiscono ai cittadini in quanto tali op­ portunità di partecipazione e di mobilitazione politica, ma queste non incidono in modo decisivo sulle disugua­ glianze economiche e sulla condizione di subordinazione in cui esse pongono la maggioranza della popolazione. I sistemi giuridici si fanno sempre più complessi e si fon­ dano su procedimenti di natura razionale, ma asseriscono e difendono la centralità di istituti come la proprietà pri­ vata, il contratto, l’impresa, il mercato, rispetto ai quali la società rimane scissa in due parti disuguali con interessi contrastanti. La cultura moderna, di cui la scienza e quindi le co­ noscenze verificabili e suscettibili di applicazioni pratiche sono una componente essenziale, libera la mentalità collet­ tiva dagli abbagli e dalle illusioni caratteristici del pensiero religioso, ma spesso li rimpiazza con nuovi abbagli e illu­ sioni relativi a realtà mondane come lo stato, la nazione, il denaro, il mercato. Nella mentalità che si afferma ci sono molta grettezza, molto egoismo, e sempre meno posto per sentimenti di solidarietà e generosità, per atteggiamenti disinteressati, per valori estetici. La stessa vita familiare fa sempre più posto a considerazioni economiche, che la privano di ricchezza emotiva. L’individuo tipico della so­ cietà moderna è un essere sotto tensione, continuamente tormentato dalla pressione del bisogno o dall’ambizione di sempre nuovi guadagni. Insomma, anche se agli occhi di Marx la moderna società borghese rappresenta un progresso innegabile ri­ spetto alle società storiche che l’hanno preceduta, molti suoi aspetti si prestano a forti critiche o addirittura a con­ danne. Questo si deve, essenzialmente, alla natura stessa del modo di produzione su cui si fonda, che comporta una forma di sfruttamento storicamente innovativa, ma 27

inesorabile e sostanzialmente disumana. In definitiva, se­ condo Marx, anche se in apparenza ogni momento della giornata lavorativa dell’operaio è retribuito da una parte proporzionata del salario che ha contrattato col datore di lavoro, come ricorda Robert Tucker, il lavoratore salariato ha il permesso di lavorare per la propria sussistenza, vale a dire ha il permesso di vivere, solo se per una certa parte del tempo lavora per il capitalista gratis1. Oppure, secondo Jon Elster, il significato di sfruttamento può essere reso, semplificando un poco le cose, come segue: i lavoratori sono sfruttati se lavorano più ore di quante non siano le ore di lavoro incorporate nei beni che consumano3. Come già detto, c’è ragione di dubitare che siano validi i molteplici, diversi e complessi argomenti di natura eco­ nomica che Marx produce per provare appunto lo sfrut­ tamento capitalistico. In questa sede, di nuovo, quel che interessa sono i suoi argomenti, complementari a quelli, di natura invece sociologica. In tutti i paesi in cui si af­ fermano il modo di produzione capitalistico e il dominio della borghesia, la classe operaia lotta per organizzarsi, mi­ gliorare le condizioni della propria esistenza, contrastare la presa della borghesia sulla società nel suo insieme, e ta­ lora cerca di sovvertire l’intero ordine esistente attraverso azioni collettive di tipo sindacale o politico. Motivato da una profonda avversione nei confronti de­ gli assetti sociali e politici che il dominio della classe bor­ ghese impone e da un’animosa adesione al progetto di una loro radicale sovversione, Marx si associa vigorosamente nei suoi scritti con le lotte operaie, cerca di guidarle teo­ ricamente, di argomentarne le ragioni e di influenzarne lo svolgimento. Questo compito intellettuale ha due fasi fondamen­ tali. Nella prima, rappresentata soprattutto da scritti che risalgono al soggiorno del giovane Marx a Parigi, concerne quella che potremmo chiamare la dimensione soggettiva della condizione operaia in regime capitalistico. Marx, cioè, si chiede che cosa tipicamente esperisca l’operaio in quanto tale, in quanto individuo costretto a mettere la propria forza lavoro a disposizione di chi gli paghi un sala­ rio e lo faccia a lavorare a una macchina, in una fabbrica. 28

Per caratterizzare questa situazione molto concreta e sempre più diffusa, Marx usa soprattutto l’espressione alienazione, che riprende dal linguaggio filosofico hege­ liano. In sostanza, nella fabbrica capitalista da un lato la capacità umana di creare e di produrre si manifesta sem­ pre più apertamente, dall’altro gli operai esperiscono in maniera particolarmente acuta lo spossessamento delle proprie forze e dei propri prodotti. Più concretamente, l’operaio si sente alienato rispetto all’oggetto che pro­ duce, alla propria attività, a se stesso, ad altri individui con cui collabora. Marx si interroga sulle ragioni di tale molteplice alienazione e argomenta che la sofferenza che essa comporta per l’operaio deve essere imputata all’altrui godimento; che la sua esperienza di venir spossessato pre­ suppone che qualcun altro lo spossessi perché è in grado di farlo e ne trae vantaggio. Nella seconda fase Marx si impegna in una geniale ed elaborata ricostruzione storica e sociologica della forma­ zione della classe operaia - il risvolto, per così dire, della formazione della classe borghese. A quest’ultima peraltro Marx presta poca attenzione, perché in sostanza la bor­ ghesia gli appare soltanto come l’agente collettivo del capi­ tale, che in quanto tale pilota processi di innovazione pro­ duttiva e di gestione delle risorse economiche di cui altri fanno le spese. Sono invece proprio questi altri ad attrarre l’attenzione di Marx, per varie ragioni. Innanzitutto per la solidarietà morale che le loro sofferenze suscitano in lui; poi perché il Marx «economista» ritiene che nel corso in­ tero della storia siano alla fin fine le fatiche dei produttori diretti - gli sfruttati, quelli che consumano molto meno di quanto non producano - a sopportare il peso dell’intero processo di generazione della ricchezza, generando «va­ lore»; infine perché in base allo stesso ragionamento sa­ ranno gli interessi della classe subalterna a promuovere il prossimo, decisivo passo avanti della società e della specie, l’inizio della vera storia dell’umanità. La ricostruzione delle vicende che hanno condotto, come si è detto, alla formazione della classe operaia, in particolare di quella inglese (a partire dall’espulsione di una parte della popolazione tramite le cosiddette «recin­ zioni» di terreni precedentemente destinati a usi comuni 29

da parte del villaggio), comprende una descrizione accu­ rata delle condizioni opprimenti e mortificanti in cui il proletariato è stato costretto a vivere e a operare nel corso della prima industrializzazione e soprattutto entro il na­ scente sistema di fabbrica. In questo contesto le riflessioni sostanzialmente filo­ sofiche sull’alienazione operaia del giovane Marx lasciano il posto, soprattutto nel Capitale, a un discorso empirica­ mente fondato sull’uso e sull’abuso di manodopera femmi­ nile e minorile, sull’introduzione nelle fabbriche di mac­ chinari sempre più efficienti, sulla resistenza del padronato ai tentativi di accorciare la giornata lavorativa, e a una ricognizione degli effetti che queste pratiche imprenditoriali hanno sulla condizione operaia. Marx non è certamente il primo a rilevare alcuni di questi fenomeni - tra gli altri, erano stati documentati da Engels in uno scritto giovanile, e la «questione sociale» connessa con quei fenomeni era stata da tempo sollevata da molteplici studiosi e critici, da punti di vista assai diversi - ma l’ampiezza e la profondità del suo discorso in proposito restano ineguagliate. A sua volta quel discorso fa da sfondo a un ulteriore argomento sociologico, già adombrato nel Manifesto. Marx non soltanto rileva e condanna la situazione del pro­ letariato industriale, ma osserva e giustifica le proteste e le resistenze che essa ispira nel proletariato stesso, prospetta e cerca di promuovere una lotta di classe consapevole ed efficace, in cui un nuovo soggetto collettivo, la classe ope­ raia (organizzata in sindacati e partiti), contrasti i disegni della borghesia e prepari la rivoluzione socialista. In tale contesto, da un lato Marx esamina magistralmente le ra­ gioni per cui il processo capitalistico, suo malgrado, rende inevitabili questi sviluppi, dall’altro si batte instancabil­ mente per proporre la propria visione strategica e tattica della lotta di classe e imporla al movimento operaio inter­ nazionale, criticando, in maniera talora capziosa e faziosa, proposte alternative. Qui è d’interesse soltanto il primo tema. Marx sostiene che le pratiche della borghesia intese all’accumulazione del capitale tramite il profitto hanno l’effetto non voluto di raggruppare in aggregati urbani e in unità produttive sempre più vaste un numero crescente di lavoratori. Que­ 30

sti vengono sottratti alla presa delle loro diverse comu­ nità di origine, sia locali sia di mestiere, rendendo sempre meno significative tali appartenenze. Nelle loro nuove condizioni i lavoratori diventano sempre più capaci di co­ municare, si fanno consapevoli della loro comune appar­ tenenza di classe, riconoscono di avere interessi opposti a quelli dei loro datori di lavoro, lottano per organizzarsi (affrontando notevoli sacrifici e spesso subendo sconfitte), cercano e creano occasioni e temi di mobilitazione e di azione collettiva. Questi processi sono favoriti involontariamente da ulteriori aspetti della strategia capitalistica, che secondo Marx rendono sempre più visibile, nonché moralmente e politicamente meno accettabile, il divario tra le condizioni economiche e sociali dell’esistenza delle due classi, fanno diventare sempre più dispotico il controllo del datore di lavoro sulle operazioni produttive, costringono i lavoratori a crescenti privazioni e li espongono a forti rischi, com­ preso quello della disoccupazione. 3.

Idinsostenibilità del capitalismo

Il tema finale del pensiero marxiano sulla condizione capitalistica concerne la sua insostenibilità, la sua tendenza all’autodistruzione, l’inevitabilità della rivoluzione socia­ lista. Marx lo svolge partendo da due posizioni diverse e non facili da conciliare, ciascuna delle quali di volta in volta diviene centrale e mette in subordine l’altra. Da un lato accentua gli aspetti cosiddetti «soggettivi» della pro­ spettiva rivoluzionaria, in base alle considerazioni appena ricordate sulla crescente maturità e capacità organizzativa della classe operaia. Si attende che la lotta di classe acqui­ sti sempre più un aspetto politico e che, invece di cercare puramente un miglioramento delle condizioni immediate della classe operaia, sfidi l’intero ordine sociale borghese e affidi all’elemento di punta della classe, costituito come partito, il compito storico di porre in essere un rinnova­ mento totale della società: compito che probabilmente, come in ogni precedente rivoluzione, comporterà anche il ricorso alla violenza collettiva. 31

Dall’altro lato c’è un discorso che si potrebbe chiamare «oggettivo», secondo cui le contraddizioni interne del si­ stema capitalistico lo rendono incapace di proseguire la propria missione storica - promuovere e gestire un pieno dispiegamento delle forze produttive, un continuo accre­ scimento della ricchezza. La contraddizione fondamentale è che il processo capitalistico coinvolge tutte le risorse so­ ciali, tra cui quelle costituite dalla scienza e dalla tecnica, avanzando in maniera anarchica e spesso distruttiva, in base a contrasti e antagonismi tra interessi privati che si esprimono nella competizione tra le imprese, e non si la­ sciano subordinare a un processo comprensivo e cosciente di previsione, di decisione, di controllo. Questa contraddizione si manifesta in varie maniere. In particolare, le economie capitalistiche subiscono crisi cicli­ che, in cui la ricchezza viene distrutta invece che prodotta, c’è un sovrappiù di merci rispetto alla capacità d’acquisto delle masse e si manifesta la disoccupazione. La competi­ zione tra imprese è, come si è detto, il motore del processo economico, ma spesso limita e nega se stessa dando luogo alla formazione di unità produttive sempre meno nume­ rose, più grandi, e capaci di politiche di carattere mono­ polistico. Inoltre - e qui l’argomento si fa assai complicato e controverso, rifacendosi a considerazioni economiche che una volta di più lasceremo da parte in questa sede, anche perché sono probabilmente insostenibili sul piano di merito - le pratiche capitalistiche intese ad accrescere il profitto nel breve termine, aumentando il capitale fisso delle imprese, tendono nel medio-lungo termine a ridurre il tasso di profitto. Tutte queste tendenze sono esaminate da Marx nel­ l’ambito di un tema che ricorre soprattutto nei suoi scritti più tardi - il tema del cosiddetto Zusammenbruch, l’inelu­ dibile collasso finale (più o meno imminente) dell’intero sistema capitalistico. Marx considera (a torto) inevitabile questo fenomeno di natura oggettiva, la cui entità rende in un certo senso superfluo affaticarsi praticamente o teorica­ mente intorno al tema che abbiamo chiamato «soggettivo», la messa a punto di modalità più efficaci di lotta di classe. Eppure i due temi si ritrovano uno accanto all’altro nel­ l’opera di Marx, che sembra non riconoscerne il contrasto. 32

Questo peraltro era destinato a manifestarsi ripetutamente, con effetti a volte gravi, entro la vicenda storica dei movi­ menti e dei partiti operai d’ispirazione marxista. Si può infine rilevare la stessa scarsa attenzione di Marx per un altro tema, la natura della società cui avrebbe dato luogo lo Zusammenbruch del sistema capitalistico e/o la sua sovversione da parte del movimento rivoluzio­ nario della classe operaia. Questo tema è in linea di prin­ cipio suscettibile di riflessione sociologica, ma Marx non intende impegnarsi, come avevano fatto altri pensatori della tradizione socialista, in una riflessione utopistica su un futuro che ritiene tanto auspicabile quanto inevitabile, ma di cui considera ozioso (o rischioso) cercare di deli­ neare il profilo istituzionale. Certamente nella società nata dalla rivoluzione il rapporto fondamentale - quello tra la specie umana e il resto della natura - avrebbe cessato di dipendere dalla lotta fra interessi contrastanti (sia quelli tra le classi sia quelli tra componenti diverse della classe borghese) e sarebbe stato gestito in maniera consapevole e unitaria. Questo, come abbiamo accennato, avrebbe per­ messo il pieno dispiegamento delle infinite potenzialità umane, mettendole per la prima volta al servizio dell’intera collettività invece che di questa o di quella parte di essa. Marx intravede come culmine di questo sviluppo una condizione futura sulla quale non si dilunga, ma di cui dà due immagini abbastanza diverse nella prima e nell’ultima fase della sua vicenda di intellettuale rivoluzionario. Nel 1846, nell’opera (lasciata inedita) L’ideologia tedesca, Marx ed Engels prospettano una condizione in cui è stata so­ stanzialmente abolita la divisione del lavoro, in quanto nessuno ha esclusivamente una sfera di attività ma ciascuno può svilupparsi in qualunque settore scelga, la società regola la pro­ duzione generale e mi permette di fare oggi una cosa e domani un’altra, di andare a caccia la mattina, pescare nel pomeriggio, allevare il bestiame la sera, esercitare la critica dopo cena, esatta­ mente come mi accomoda, senza mai divenire cacciatore, pesca­ tore, allevatore, o critico4.

In un suo tardo scritto del 1875, Marx caratterizza la società comunista nel suo stadio più alto con lo slogan

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«da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!»5. Tralasciando le obiezioni sociologiche a cui si presta ciascuna immagine, è evidente il deficit di riflessione su come la società futura avrebbe potuto eser­ citare una gestione consapevole e collettiva dell’intero processo sociale, e in particolare sul ruolo che avrebbero svolto in quella gestione la politica, vale a dire la forza or­ ganizzata, e il diritto. Anche in questo caso, quel deficit di riflessione, e le carenze dei pochi scritti marxiani intesi a colmarlo, hanno avuto vistosi (e disastrosi) effetti pratici sulla condotta di varie parti del movimento operaio inter­ nazionale. Ma esula dal compito del presente capitolo di­ scutere di questi e altri esiti pratici del pensiero marxiano, di cui si è invece cercato di presentare gli aspetti teorici più significativi. NOTE AL CAPITOLO PRIMO

1 Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Roma, Editori Riu­ niti, 19693, p. 9. 2 Robert C. Tucker (a cura di), The Marx-Engels Reader, New York, Norton, 1978, p. 535. 3 Jon Elster (a cura di), Karl Marx: A Reader, Cambridge, Cam­ bridge University Press, 1986, p. 121. 4 David McLellan (a cura di), Selected Writings of Karl Marx, Oxford, Oxford University Press, 1977, p. 185. 5 Ibidem, p. 616.

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ÉM ILE DURKHEIM

Studioso francese (1858-1917). Nato in una fam iglia di religione ebraica, dopo lunghi studi di filosofia dedica la sua esistenza ad affermare Vautonomia scientifica della sociolo­ gia, a porne le basi metodologiche e concettuali, e a favo­ rirne l’inserimento nel sistema universitario francese attra­ verso un’intensa attività di leader accademico. Uomo di forti sentimenti repubblicani, aspira a ricavare dai risultati della ricerca sociologica indicazioni per riforme pubbliche che pon­ gano rimedio a quelle che gli appaiono come debolezze strut­ turali della società contemporanea. Il lettore interessato al dibattito sulle sue idee nel nostro paese può utilmente con­ sultare il sito web della rete italiana di sociologia durkheimiana (www.durkheimitaly. com). .

1893 1895 1897 1912

OPERE FONDAMENTALI

ha divisione del lavoro sociale, trad. it. Milano, Edizioni di Comunità, 1999. Le regole del metodo sociologico, trad. it. Milano, Edizio­ ni di Comunità, 1996. 11 suicidio. Studio di sociologia, trad. it. Torino, Utet, 1998. Le forme elementari della vita religiosa, trad. it. Roma, Meltemi, 2005.

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Anche nel pensiero di Durkheim si può cogliere quella che chiameremmo (come nel caso di Marx) una «antropo­ logia filosofica», cioè una concezione delle qualità che dif­ ferenziano l’essere umano da altre forme di vita. Tali diffe­ renze fanno emergere la superiorità della specie umana ri­ spetto ad altre specie animali, ma anche tensioni e dilemmi costitutivi dell’essere umano che si manifestano in maniera diversa nel corso dell’esperienza storica. Durkheim ha espresso chiaramente la propria im­ magine dell’uomo, pur senza farne un tema ricorrente della propria opera, parlando del «dualismo della natura umana» e dell’essere umano come homo duplex. Che cosa vuol dire? Come le altre specie animali, la specie umana esiste soltanto entro e attraverso singoli esseri. Ma nella soggettività di ciascuno di questi coesistono due compo­ nenti. Oltre a un elemento direttamente radicato nel suo apparato corporeo, sensoriale, necessariamente impegnato in attività intese innanzitutto a soddisfare i bisogni natu­ rali nell’itinerario dalla nascita alla morte, ciascun indivi­ duo possiede una componente diversa, fatta di aspettative, aspirazioni, conoscenze, giudizi, valori, modalità di rela­ zione con altri individui, codici di comportamento, senti­ menti di appartenenza e solidarietà rispetto a certi gruppi e di distanza o ostilità rispetto ad altri. Si possono individuare nel pensiero di Durkheim quattro principi relativi a questo «dualismo della natura umana». Vediamoli in ordine: • la seconda componente è intrinsecamente sociale, cioè deve la sua esistenza e il suo contenuto al fatto che, più di qualsiasi altro animale, ogni essere umano è neces­ sariamente coinvolto in rapporti coi propri simili, e da questi rapporti deriva gran parte dei contenuti della pro­ pria mente; • per la stessa ragione quei contenuti sono inevitabil­ mente storici, variano cioè nel tempo e nello spazio; • essi non sono semplicemente giustapposti all’appa­ rato corporeo dell’individuo, ma spetta a loro - pur te­ nendo conto delle pulsioni, degli istinti, delle modalità di comportamento che derivano da quell’apparato (di per sé privo di un limite) - affermare la propria superiorità su tali elementi, imporsi a essi, controllarli, orientarli, indiriz­ 36

zarli alla soddisfazione di bisogni non strettamente relativi alla sopravvivenza e al benessere fisico immediato dell’in­ dividuo; • questa superiorità della seconda componente sulla prima, per quanto giustificata e necessaria, è intrinseca­ mente problematica. Essa, cioè, non si esprime a sua volta tramite processi meramente naturali, non dà luogo a spon­ tanee tendenze di comportamento. Deve invece, per così dire, formare «a propria immagine e somiglianza» quelle tendenze (appunto spontanee) che derivano immediata­ mente dalla prima componente, ovvero negare loro espres­ sione e reprimerle. Ma quella stessa componente, radicata nella dimensione corporea dell’individuo, si oppone e resi­ ste a entrambe queste forme (positiva e negativa) di disciplinamento da parte della seconda componente. Il rapporto tra le due componenti, quindi, è irriduci­ bilmente contingente, perché non è detto quale delle due, in ogni determinato caso, riesca ad affermare la propria superiorità sull’altra. E che non vuole affatto dire che sia indifferente quale delle due prevalga. Anzi è di grande momento se la prima componente si sottrae ai vincoli che le vorrebbe imporre la seconda, oppure al contrario questa riesce a imporli. Per Durkheim, chiaramente, è necessario che sia appunto la seconda componente ad aver la me­ glio sulla prima, anche se non occorre che questo succeda sempre e ovunque. E necessario perché, anche se l’uomo è un essere intrinsecamente sociale, la sua socialità può af­ fermarsi e mantenersi soltanto se (quanto meno) gli indivi­ dui nella loro grande maggioranza, e nella maggior parte delle circostanze, orientano il proprio comportamento ad aspettative sorrette da codici, criteri, sentimenti che con­ dividono gli uni con gli altri, e che inducono ciascuno a tener conto dell’esistenza degli altri, a prestare attenzione ai loro bisogni. E questi altri non devono rappresentarsi, a un determinato individuo, soltanto come singoli esseri con cui è costretto a convivere, ma come esseri a cui si sente accomunato da appartenenze salienti, durature, impegna­ tive, tali da indurlo, se e quando necessario, ad anteporre gli interessi condivisi con gli altri al proprio interesse individuale.

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1. Maniere di agire, di pensare e di sentire Anche se Durkheim di rado evoca espressamente que­ sta tematica dell 'homo duplex e del problematico rapporto tra le sue due componenti, a essa si allacciano molti mo­ menti del suo pensiero. Vediamo di seguito come l’affron­ tano le sue opere principali, cominciando dalla seconda, Le regole del metodo sociologico (1895). Qui Durkheim sostiene l’autonomia della sociologia come disciplina di­ stinta - in particolare - dalla filosofia e dalla psicologia, assegnandole come obiettivo un ambito di realtà distinto da tutti gli altri: i fatti sociali. I fatti sociali (o quanto meno i più significativi tra essi) consistono a loro volta in quelle «maniere d’agire, di pen­ sare e di sentire» che una società fa proprie e rende vinco­ lanti per gli individui che ne fanno parte, assicurando così il coordinamento tra le loro attività, e la loro disposizione a perseguire fini comuni. Ma l’esistenza delle «maniere» in questione, e la loro capacità di incidere effettivamente sui pensieri e sulle attività degli individui, non sono fatti na­ turali, non poggiano su meccanismi di natura psicofisica; dipendono invece dal fatto che la società conferisce loro uno status privilegiato, facendole diventare suoi elementi caratterizzanti. Essa, piuttosto che invitare semplicemente gli individui a pensare e agire in un determinato modo, aggiunge a quell’invito una «sanzione». Cioè, più o meno esplicitamente minaccia di punire chi agisca, pensi o senta diversamente, ovvero promette di ricompensare chi invece agisca o pensi in conformità. Per contro, la conseguenza positiva o negativa di un certo comportamento che derivi automaticamente dalla natura stessa di questo - si pensi alla scossa che colpisce chi maneggi incautamente un circuito elettrico - non co­ stituisce una vera e propria sanzione, e la relativa norma di comportamento (disattivare il circuito prima di toccare i fili) non rientra nell’ambito dei fatti sociali come li intende Durkheim. Quella norma è una regola tecnica; per D u­ rkheim il fatto sociale tipico è invece una regola morale, che a propria volta ha il suo prototipo nella norma giuri­ dica. Si pensi alla norma che vieta di uccidere: la minaccia di punire chi violi quel divieto è artificialmente collegata

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dalla società con tale comportamento, e la sua attuazione dipende da processi sociali, non naturali. Ma alla norma giuridica si affiancano, nella gestione dei comportamenti, moltissime altre aspettative sanzionate. Possono costituire sanzione negativa, oltre alla punizione formalmente pro­ clamata ed eseguita, moltissime altre forme di riprovazione sociale - dal pettegolezzo al «togliere il saluto», all’esclu­ sione da determinate cerehie sociali. Altrettanto varie pos­ sono essere le sanzioni positive che premiano il comporta­ mento conforme alle norme sociali. È comunque a modi sanzionati, pubblicamente validi, di agire e di pensare che spetta il compito di disciplinare la condotta e il pensiero degli individui, impedendo loro di essere dettati esclusivamente da esperienze, preferenze, interessi propri di ciascun individuo come essere privato, che in quanto tali fanno parte della componente pre-sociale dell’homo duplex. Per contro, la decisione circa i modi di agire e di pensare da promuovere e rendere vinco­ lanti con la promessa o la minaccia della sanzione è intrin­ secamente sociale, e in quanto tale storicamente variabile. In molti casi non è facile ricostruire i processi collettivi che hanno determinato tale decisione, individuare gli in­ teressi collettivi che essa è intesa a promuovere, una volta che si sia cristallizzata in un costume, una legge, un modo diffuso e scontato di definire la realtà, e abbia dato luogo a un durevole flusso di pratiche quotidiane. Ma Durkheim - che nel trio «maniere di agire, di pensare e di sentire» generalmente privilegia le prime due componenti - vede una stretta correlazione tra le maniere di agire e di pensare fatte proprie (sanzionandole) da una determinata società e da alcune sue caratteristiche che chiama morfologiche: le dimensioni del suo territorio, il numero degli individui che la compongono (quindi la sua densità demografica), la na­ tura delle sue risorse naturali e del relativo strumentario produttivo, la misura in cui si scompone in parti distinte e che si differenziano (dando luogo, ad esempio, a occu­ pazioni diverse), la frequenza e la regolarità con cui esse intrattengono rapporti di scambio reciproci. In questo modo Durkheim, pure affermando ripetutamente che la società è una realtà intrinsecamente mentale (in quanto ha i suoi elementi costitutivi, come sappiamo, 39

in maniere di agire e di pensare), si affaccia su un aspetto diverso della sua natura, di carattere essenzialmente mate­ riale, che di quelle maniere in un certo senso costituisce un sostrato, ma a propria volta ne è influenzato. Ad esem­ pio, le pratiche sociali relative allo scambio di prodotti dif­ ferenziati tra parti diverse entro la stessa società, che sono da essa variamente disciplinate, a lungo andare incidono su aspetti materiali dell’insediamento della popolazione sul territorio, come il suo sistema viario. Peraltro Durkheim non teorizza diffusamente gli as­ setti materiali della società, accontentandosi per lo più di mettere a confronto due tipi morfologici - sostanzial­ mente, società semplici (o primitive) e società complesse (o avanzate) - e sussumendo entro ciascuno, quanto meno in prima approssimazione, una gamma vastissima di espe­ rienze storiche assai diverse. Questo è un limite, in par­ ticolare per chi voglia considerare Durkheim un teorico della modernità, che è uno sviluppo storico assai tardo e peculiare di alcune società complesse. E su un altro piano (quello relativo, invece, a norme, valori, prospettive intel­ lettuali, sentimenti collettivi) che - come vedremo - egli dà un contributo cospicuo alla comprensione e alla critica della società moderna. La prima grande opera di Durkheim, La divisione del lavoro sociale (1893), sviluppa questa dualità - società semplici/complesse - avendo per tema un fondamentale fenomeno sociale che ha riscontri anche nell’evoluzione biologica. Nel corso di questa, da un lato hanno origine specie sempre più numerose e diverse, dall’altro le specie emergenti sono generalmente più complesse di quelle pre­ esistenti. A loro volta, le società sviluppate e avanzate sono più differenziate delle società primitive; ad esempio, vi si distinguono spazi che albergano attività diverse - come città e campagne - e gli individui stessi che occupano que­ gli spazi a loro volta si specializzano in attività, svolgono pratiche, utilizzano conoscenze e tecniche diverse. Insomma, differenziazione e crescente complessità sono linee di tendenza fondamentali sia in natura sia nella so­ cietà. A cosa si devono tali tendenze nel caso della società? La soluzione che Durkheim propone a questo problema si contrappone a un’altra che chiameremmo utilitaristica. 40

Quest’ultima appartiene alla tradizione liberale del pen­ siero sociale, che teorizza e celebra la componente espres­ samente economica della modernizzazione, la sempre cre­ scente importanza e dinamicità dei rapporti di mercato. Nella concezione utilitaristica, questo sviluppo - della cui realtà e importanza Durkheim non dubita - risulta spontaneamente dagli sforzi che i singoli individui fanno per accrescere il proprio interesse privato. In particolare, per entrare in più vantaggiosi rapporti di scambio reci­ proci, essi specializzano le proprie attività e differenziano i propri prodotti. Il perseguimento dell’interesse individuale serve da motore all’evoluzione sociale, e fa emergere so­ cietà differenziate e complesse. Durkheim obietta che l’individuo così come lo inten­ dono gli utilitaristi - un essere umano autonomo rispetto agli altri e che, per massimizzare il proprio vantaggio in competizione con loro, specializza e differenzia le proprie attività - non era presente nelle società primitive. Qui gli individui esistevano soltanto come entità fisiopsichiche, distinte le une dalle altre precipuamente dalle rispettive identità corporee. Ma le «rappresentazioni» - cioè le im­ magini che risiedevano e operavano nella mente degli in­ dividui e ne orientavano l’agire e il pensiero - erano in grandissima parte di natura collettiva. Erano, cioè, condi­ vise da tutti i membri della collettività, venivano concepite come giuste e corrette, quindi come fortemente obbliganti, e inducevano tutti gli individui a svolgere sostanzialmente le stesse attività, a pensare allo stesso modo, a gestire in comune le stesse pratiche. Queste erano prevalentemente determinate da costumi tradizionali che le rappresentazioni collettive proteggevano, condannando e punendo modalità di pensiero e d ’azione diverse e innovative. Una società così costituita era tenuta insieme - resa «solidale», nel linguaggio di Durkheim - meccanicamente, riducendo al minimo l’incidenza di rappresentazioni - im­ magini dell’ideale e del reale, direttive dell’agire - proprie del singolo individuo. A loro volta, le unità locali di cui si componeva ciascuna società si presentavano come seg­ menti di un complesso indifferenziato. Si rassomigliavano moltissimo, ed essendo autosufficienti non si scambiavano prodotti diversi, ma al più le loro popolazioni si raduna­ 41

vano periodicamente in occasioni rituali, per rinnovare e rafforzare la presa delle rappresentazioni collettive sull’in­ tera società. In questo contesto, potenzialmente stabile, la divisione del lavoro non poteva essere occasionata dalla competi­ zione tra singoli individui, ciascuno intento ad accrescere il proprio benessere, ma soltanto da mutamenti sponta­ neamente occorsi nel contesto stesso. In particolare, un marcato accrescimento demografico poteva mettere sotto pressione l’ambiente naturale e a lungo andare compro­ mettere l’equilibrio tra le necessità della popolazione e le risorse ambientali che la tradizione conosceva e di cui ge­ stiva l’uso. Ne conseguiva un inasprimento della lotta per l’esistenza, con tre esiti tipici: l’uscita di scena della società come entità collettiva, ormai dilaniata dai contrasti o pri­ vata della sua base di sussistenza; il ritorno della popola­ zione a livelli compatibili con l’equilibrio tradizionale; l’av­ vio di un processo di divisione del lavoro. In quest’ultimo caso, parti diverse della società iden­ tificavano e mettevano a frutto pratiche e strumenti inno­ vativi, risorse ambientali precedentemente non utilizzate (passando, ad esempio, da un uso estensivo a un uso in­ tensivo del territorio), si specializzavano in attività diverse e davano così luogo a rapporti di scambio tra i prodotti delle varie altre parti. Lo stesso processo aveva luogo an­ che entro singole parti della società. In una determinata località, ad esempio, vari segmenti della popolazione met­ tevano a punto nuove attività produttive, generando una crescente molteplicità di posizioni sociali differenziate, oc­ cupazioni e mestieri. Tutto questo diminuisce la rilevanza e il prestigio del patrimonio tradizionale di conoscenze, tecniche, valori ampiamente condivisi, la loro incidenza sulla condotta e sulle aspirazioni degli individui, e mette in forse la solida­ rietà meccanica che in precedenza faceva di ogni società un tutto. Ma le subentra, secondo Durkheim, una diversa solidarietà organica, risultante - per via della crescente dif­ ferenziazione tra parti della società e tra gli stessi individui - dalla loro accentuata interdipendenza, cioè da crescenti rapporti di scambio o di reciproco servizio. In questa nuova situazione, le rappresentazioni che orientano l’agire 42

delle parti sociali e degli individui sono, a loro volta, sem­ pre più differenziate e mutevoli. Questo rende plausibile, di primo acchito, l’immagine utilitaristica di individui intraprendenti, competitivi, orien­ tati ciascuno al proprio interesse, legati gli uni agli altri solo da molteplici, diversi, non duraturi rapporti contrat­ tuali, cioè volontariamente negoziati, intesi a servire scopi specifici. Ma la plausibilità di questa immagine è un pro­ dotto - peraltro un prodotto tardo, caratteristico soprat­ tutto delle società moderne, industriali - della divisione del lavoro, non un suo presupposto, come suggerisce la vi­ sione utilitaristica. Quest’ultima è in errore anche perché non tiene conto che gli individui possono entrare in rap­ porti contrattuali solo se un’autorità pubblica predispone schemi generali di contratto, ne disciplina le forme tipiche, conferisce agli individui determinate facoltà giuridiche, garantisce con le sue sanzioni giudiziarie l’esecuzione di contratti debitamente negoziati. Per questa ragione (e al­ tre) Durkheim critica la tesi liberale secondo cui lo stato, nella società moderna, dovrebbe ridurre drasticamente la propria presenza, e affidare al puro mercato la gestione di quasi tutti gli affari sociali. Per tornare al nostro punto di partenza, secondo Durkheim con l’avanzare della divisione del lavoro la com­ ponente espressamente mentale e propriamente umana dell’homo duplex si sviluppa in due sensi. Da un lato si arricchisce, perché la mente di ciascun individuo può at­ tingere i propri contenuti da un complesso sempre più vasto, differenziato e mutevole (immagini, prospettive, co­ noscenze, valori). In tal modo, questa componente diviene più significativa dell’altra, strettamente legata all’animalità, alle necessità corporee. D ’altro lato nella mente di ciascun individuo cambia il rapporto tra i contenuti (sempre meno numerosi) che con­ divide con tutti i membri della stessa società e quelli ri­ sultanti o dalle specifiche appartenenze (ad esempio, dalla sua occupazione) o dalla sua stessa individualità, in quanto prodotti dalla sua biografia, espressioni della sua autono­ mia e di una ricerca sempre più assidua dei propri esclu­ sivi interessi. Per questa ragione, le società con una più avanzata divisione del lavoro (quelle industriali moderne 43

che misura indispensabile per la sopravvivenza e il buon funzionamento della società stessa: • deve insegnare agli individui a riconoscere la loro di­ pendenza dalla società, indurli a derivarne le direttive del loro agire, inculcare in loro la disposizione a sacrificare gli interessi privati a quelli collettivi; • ma deve anche esortarli ad acquisire una certa mi­ sura di distacco rispetto alla società, a identificare e perse­ guire interessi loro propri, sotto la propria responsabilità, in base a valutazioni e preferenze proprie. Gli individui devono in altre parole essere in qualche misura autonomi, cioè auto-regolanti; • infine, una società può mettersi in grado di affron­ tare circostanze fortemente mutevoli, superare congiunture impreviste, giovarsi di opportunità senza precedenti, solo se permette agli individui, entro certi limiti, di sperimen­ tare nuovi pensieri e nuove azioni, avventurandosi al di là delle conoscenze e delle pratiche consolidate, esprimendo e perseguendo preferenze non sanzionate socialmente. Chiaramente, tra questi tre orientamenti c’è tensione e contrasto; ma Durkheim ha un senso forte della comples­ sità dei fenomeni sociali, che impone a ogni società di fare posto a tutti questi orientamenti. Egli suggerisce, peral­ tro, che le società differiscono (anche) in quanto ciascuna pone l’accento su questo o quell’orientamento, mettendo relativamente in subordine gli altri. Inoltre, lo stesso di­ scorso può valere per i gruppi e le categorie in cui si ar­ ticola una società complessa: ciascun gruppo o categoria può indurre gli individui che vi appartengono a rispettare, nel proprio comportamento, una priorità diversa tra que­ gli orientamenti. Infine, è anche pensabile che una società o un gruppo incontri, nel corso delle sue esperienze col­ lettive, circostanze diverse (si pensi allo scoppio di una guerra) che rendono temporaneamente salienti orienta­ menti diversi.

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2. Le rappresentazioni sociali Un altro aspetto della complessità dei fenomeni sociali che merita considerazione è al centro del terzo grande li­ bro di Durkheim, Il suicidio (1897). Come abbiamo visto, i fatti sociali per eccellenza, le «maniere di agire, di pen­ sare e di sentire» sanzionate, sono di natura mentale, con­ sistono in «rappresentazioni» intese a indirizzare e discipli­ nare il comportamento degli individui, rendendo possibile la loro ordinata cooperazione. Ma possono svolgere questo compito soltanto tramite una mediazione soggettiva; spetta agli individui, cioè, accogliere tali rappresentazioni, e de­ cidere se farle prevalere su altre di natura privata. Queste ultime fanno parte, per così dire, del loro mobilio mentale, ma non sono a loro volta socialmente sanzionate, e appar­ tengono, invece, all’altra componente delVhomo duplex. Questo «far prevalere» è un’operazione appunto sog­ gettiva e quindi inevitabilmente contingente. Durkheim si interroga, nel Suicidio, sulle condizioni sociali entro le quali essa non si verifica, in quanto un numero consistente di individui diviene, diremmo oggi, «deviarne». Essi vol­ tano cioè le spalle a una particolare rappresentazione so­ cialmente sanzionata: in questo caso la norma, presente con forza nella grandissima maggioranza delle società e dei gruppi a noi noti, che vieta agli individui di darsi la morte. In linea di massima, gli individui prendono la decisione di suicidarsi quando si trovano in preda a una «melanco­ nia» particolarmente profonda, uno sconforto acutamente penoso; questa loro condizione a sua volta può essere generata da situazioni molteplici: una prolungata e acuta sofferenza fisica, una delusione amorosa cocente, una di­ sastrosa perdita di status sociale o di risorse economiche. Circostanze del genere si verificano nell’esistenza di mol­ tissimi individui entro le società e i gruppi più diversi, ma soltanto in una minoranza dei casi inducono al suicidio. Il suicidio indaga sulle condizioni del contesto sociale in cui si verifica appunto questo evento per così dire minoritario. La risposta è assai elaborata sia nell’analisi dei dati stati­ stici sul fenomeno, sia nella loro interpretazione teorica, e 47

questi due piani del discorso di Durkheim si intersecano in maniera esemplare. Come si è detto, ogni società deve far fronte a requi­ siti molteplici e contrastanti, e deriva la propria «costitu­ zione morale» dall’ordine che pone tra essi. L’importanza attribuita a un determinato requisito può indurre alcuni individui a ignorarne altri. Inoltre, può avere conseguenze «devianti» non solo la mancata considerazione dei requi­ siti, diciamo così, «sfavoriti», ma anche l’accentuazione ec­ cessiva di quello favorito. Durkheim svolge questo ragionamento con riferimento non soltanto a diverse società europee, ma anche ai gruppi 0 categorie sociali, la cui costituzione morale presenta ugualmente delle differenze. Queste differenze si rivelano, secondo Durkheim, nei cospicui scarti tra i rispettivi tassi di suicidio. Ad esempio, la propensione al suicidio è, in tutti i paesi, notevolmente più alta tra i protestanti che tra 1 cattolici, tra celibi che tra coniugati, tra coniugati senza figli che tra coniugati con figli. Queste e altre «generaliz­ zazioni empiriche» (l’espressione non è di Durkheim) si lasciano sussumere entro una sola «generalizzazione ana­ litica» {idem), secondo la quale il tasso di suicidio varia inversamente rispetto alla coesione sociale di categorie o gruppi. La coesione sociale, a sua volta, è tanto minore quanto più una determinata costituzione morale pone l’accento sul secondo requisito, autorizzando l’individuo a orien­ tare il proprio sentire e il proprio agire prima di tutto su se stesso, sulle proprie esigenze e preferenze invece che su quelle del gruppo o della società. Inevitabilmente, in tal caso, i suoi legami con altri individui si fanno meno fre­ quenti, stretti e significativi, vincolano e impegnano meno i suoi sentimenti e le sue attività; in questo modo, offrono minor sostegno a un individuo che i casi della vita abbiano esposto all’acuto disagio di cui si è detto, e di conseguenza lo lasciano fortemente «a rischio» di fronte alla tentazione del suicidio. Durkheim caratterizza come egoistico il suici­ dio che ne risulta. Paradossalmente, però, tassi di suicidio relativamente alti si possono riscontrare anche in contesti sociali in cui c’è invece una forte insistenza sul primo requisito, cioè 48

sulla disposizione dell’individuo a sacrificare le proprie esi­ genze e preferenze a quelle del gruppo o della società. Di conseguenza l’individuo ha un senso molto attenuato del­ l’importanza di sé, può sentirsi insignificante, considerarsi una quantità négligeable\ a sua volta questo sentimento non può aiutarlo ad affrontare e superare una situazione che lo renda acutamente «melanconico» e gli suggerisca di uccidersi. Le società primitive possono costituire un con­ testo siffatto e secondo Durkheim in alcune di esse risulta relativamente alta l’incidenza del tipo di suicidio in que­ stione, che egli chiama altruistico. Questo, tuttavia, può manifestarsi anche entro la so­ cietà moderna, in gruppi che, contraddicendo la tendenza generale della società stessa, inducono i propri membri ad anteporre l’interesse del gruppo a quello privato. Ciò può condurli a pensare che la loro stessa sopravvivenza non conti più di tanto, quando il gruppo richiede che essa venga sacrificata ai propri interessi, o quando l’individuo fa i conti con una situazione fortemente «stressante». In particolare, l’incidenza relativamente alta, secondo le sta­ tistiche, del suicidio tra i militari di professione comprova questa ipotesi, soprattutto perché il tasso di suicidio ri­ sulta più alto per gli ufficiali superiori che per quelli di rango meno elevato, o per questi ultimi rispetto ai sot­ tufficiali o ai soldati semplici. Questo smentisce un’inter­ pretazione «utilitaristica» del fenomeno: non ha maggiore probabilità di suicidarsi, tra i militari, chi voglia sottrarsi a un’esistenza più disagiata, ma chi sia stato sottoposto a una più prolungata e pressante socializzazione alle norme e ai valori della professione militare, e ne abbia ricavato un senso della «dispensabilità» della propria sopravvivenza individuale. Infine, Durkheim chiama anomico il suicidio caratteri­ stico di società che, come quella moderna, accentuano il terzo requisito, cioè autorizzano o inducono gli individui ad avventurarsi in situazioni in cui non esistono regole e criteri di giudizio che convalidino e conferiscano un signi­ ficato pubblico alla loro esistenza e alle loro attività. Una situazione siffatta ha i suoi meriti, perché premia la capa­ cità di innovazione degli individui; ma al contempo tende, per così dire, a scolorire la loro esistenza. Ciò li mette a 49

repentaglio se, una volta di più, le circostanze li inducono a una forte «melanconia». A questo punto, se si guardano dentro o attorno, gli individui rischiano di non trovare nulla di intrinsecamente valido e significativo che giustifi­ chi e guidi la loro esistenza. Di qui, in particolare, l’ele­ vato tasso di suicidio che le statistiche rivelano per i ma­ schi divorziati. Il divorzio li «anomizza» perché li sottrae ai limiti che il matrimonio aveva loro imposto; ma quei limiti costituivano anche dei criteri morali con cui orien­ tarsi, e in assenza di questi criteri i divorziati possono non trovare più, in quello che sono e che hanno, un significato capace di giustificare lo sforzo richiesto per affrontare la crisi e superarla. Secondo i dati statistici sul fenomeno del suicidio rac­ colti e analizzati da Durkheim, le società moderne mo­ strano un’incidenza particolarmente alta (e crescente!) di suicidio egoistico e di suicidio anomico, dovuti quindi rispettivamente a deficit di coesione e di «normazione» sociale. Gli individui si sono disancorati da appartenenze forti, i loro legami reciproci si sono fatti più deboli, meno permanenti e impegnativi. In questa condizione sono meno disposti a, o capaci di, orientare le proprie azioni e i pro­ pri giudizi in base a criteri che conferiscano un autentico significato alla loro ricerca incessante di nuove esperienze. Questa condizione rivela i suoi rischi appunto nell’aumento dei suicidi e in altri aspetti di quella che la generazione di Durkheim chiamava la questione sociale, caratterizzata fra l’altro dall’incremento dei divorzi e più generalmente dal­ l’allentamento dei legami familiari e intergenerazionali. Questo non induce Durkheim a condannare l’attuale situazione sociale, in cui rientrano anche fenomeni che trovano il suo assenso morale, come l’affermarsi dei diritti individuali e della democrazia, i progressi verso l’egua­ glianza, le modalità più umane della repressione penale, il crescente prestigio della scienza. Inoltre, tale situazione trova le sue cause nel continuo avanzare della divisione del lavoro, quindi nella crescente complessità della società mo­ derna, nella sua intrinseca disponibilità al mutamento e al progresso. A ogni buon conto, questa è la visione dei ca­ ratteri e delle tendenze della modernità propria del primo Durkheim, secondo cui gli aspetti negativi della condi­ 50

zione contemporanea sono dovuti in larga misura al fatto che la modernità non ha ancora realizzato tutte le sue pro­ messe, prima tra queste la costruzione della nuova solida­ rietà organica. In opere successive, tuttavia, si avverte secondo molti interpreti una crescente perplessità e inquietudine, che si esprime positivamente nella proposta degli assetti corpo­ rativi di cui si è detto. Sostanzialmente, Durkheim si va rendendo conto che la società moderna concede sempre più spazio ai processi della sfera economica, che si collo­ cano in maniera sempre più vistosa e prepotente al centro della vita sociale. Questi processi autorizzano e fomentano l’allentamento dei legami sociali, corrodono il rispetto per l’autorità e la tradizione, incitano gli individui all’egoismo (specialmente a una incontentabile avidità di gratificazioni materiali) e li mettono in competizione gli uni con gli al­ tri. Inoltre - per via del loro legame con la tecnica e la scienza - i processi economici svalutano le conoscenze e i valori tradizionali, destabilizzano l’esistenza quotidiana, la espongono a esperienze e prospettive sempre nuove. Per tornare alla tematica delYhomo duplex, si potrebbe dire che nella mente degli individui contemporanei i con­ tenuti propriamente sociali (collettivi, pubblici, morali) diventano sempre meno salienti, trovano sempre più dif­ ficile sovrapporsi a quelli privati, domarli e controllarli. In altre parole, si fanno sempre più presenti e significative modalità dell’agire dettate da regole tecniche invece che da norme morali. La consapevolezza di questa situazione induce in Durkheim quello che chiameremmo un senso di pathos. Questo a un certo punto si indirizza non più soltanto alla società moderna, ma addirittura alla natura stessa di ogni società. In che senso? Più sopra abbiamo segnalato tre requisiti che in qual­ che modo devono realizzarsi nel rapporto tra società e in­ dividuo. Nel pensiero di Durkheim, questo è un rapporto marcatamente asimmetrico: quei requisiti devono realiz­ zarsi nel modo in cui la società si rivolge all’individuo, lo ammaestra, lo ammonisce, lo disciplina. La stessa asimme­ tria si rivela in molti passi in cui Durkheim contrappone la maestà, la potenza, la superiorità della società al carico di bisogni, dipendenza, inferiorità, debolezza, inaffidabi­ 51

lità, impazienza, immaturità dell’individuo. Questo con­ fronto è inquietante, visto che l’obbedienza dell’individuo ai dettami della società dipende da processi di carattere soggettivo e quindi contingente. In questo senso la soprav­ vivenza stessa della società è affidata alla volontà - si po­ trebbe dire «alla buona volontà» - degli individui. Il passo che segue lo dice esplicitamente: «Si lasci che l’idea di so­ cietà si estingua negli spiriti individuali, che le credenze, le tradizioni, le aspirazioni della collettività cessino di essere sentite e condivise dai singoli, e la società morirà»1. Ciò si deve alla natura stessa della norma, che abbiamo suggerito di considerare il concetto centrale del pensiero di Durkheim. Che la norma si realizzi nell’azione può es­ sere, nella migliore delle ipotesi, altamente probabile, mai certo. La norma stessa non è una rilevazione empirica dei comportamenti a cui si indirizza, ma un programma; non una predizione scientifica, ma una richiesta. D ’accordo, non è una richiesta velleitaria: la norma è tale in quanto sanzionata, cioè può motivare la conformità promettendo di ricompensarla o minacciando punizioni per la devianza. Ma Durkheim considera la sanzione non l’aspetto centrale, costitutivo della norma stessa, bensì piuttosto un sintomo della sua natura di norma, un segnale del carattere social­ mente privilegiato che la società attribuisce a una certa modalità dell’agire. In ogni caso, una situazione in cui l’individuo aderisca alla norma calcolando l’entità e la probabilità dei vantaggi e degli svantaggi rispettivamente della conformità e della devianza appare a Durkheim inficiata dall’utilitarismo, e in quanto tale instabile e inaffidabile. È necessario, invece, che l’agire individuale sia orientato da un senso persistente e cogente dell’autorità morale della norma, della doverosità dell’obbedienza ai suoi comandi. Solo tale senso può attivare nell’individuo una conformità volonterosa, dispo­ nibile, fargli trascendere e se necessario sacrificare i pro­ pri interessi rispetto a quelli, più alti e nobili, del gruppo o della società. Insomma, la superiorità della componente espressamente sociale dell 'homo duplex su quella strettamente individuale deve essere motivata dal riconoscimento dell’intrinseca validità della norma, dal prestigio affatto particolare che essa possiede ai suoi occhi. 52

Ma si può veramente dire che la norma possiede quel prestigio? Non le è invece conferito proprio dai giudizi, dalle valutazioni, dalle preferenze degli individui stessi? E che conto si può fare sulla possibilità che tali giudizi, valutazioni, preferenze - specie entro società complesse, altamente differenziate - effettivamente convergano nell’attribuire prestigio alle norme? A nostro modo di vedere, Durkheim risponde a queste domande soprattutto nella sua originale teoria sociologica della religione, proposta in più testi ma elaborata nella maniera più compiuta nella sua ultima grande opera, Le forme elementari della vita re­ ligiosa (1912). 3. Lanalisi sociologica della religione Qui Durkheim analizza principalmente una particolare forma di religione, il totemismo delle popolazioni aborigene dell’Australia. Lo fa tuttavia dopo aver definito in termini generali un fenomeno universale, quello religioso, in base alla distinzione tra sacro e profano. Secondo Durkheim, l’aspetto caratteristico del fenomeno religioso è che esso presup­ pone sempre una divisione delTuniverso conosciuto e conosci­ bile in due generi che comprendono tutto ciò che esiste, ma che si escludono radicalmente. Le cose sacre sono quelle protette e isolate dalle interdizioni; le cose profane, invece, sono quelle a cui si riferiscono queste interdizioni e che devono restare a di­ stanza dalle prime. Le credenze religiose sono rappresentazioni che esprimono la natura delle cose sacre e i rapporti che esse hanno tra loro e con le cose profane. Infine, i riti sono regole di condotta che prescrivono il modo in cui l’uomo deve compor­ tarsi con le cose sacre2.

In sostanza, sono sacri gli aspetti del reale (idee, og­ getti, pratiche, luoghi, occasioni, persone) concepiti come distinti dagli aspetti ordinari (ovvero profani) in quanto i primi sono spiccatamente potenti e pericolosi. Gli indivi­ dui possono avvicinarli solo in un atteggiamento di timore, rispetto, cautela, quale si addice a chi voglia evocare e tra­ smettere significati simbolici, ad esempio attraverso azioni rituali. Sono profani tutti gli altri aspetti del reale, che de­ 53

vono essere tenuti a distanza dagli aspetti sacri. Gli indivi­ dui possono considerare principalmente le loro caratteri­ stiche oggettive e utilizzarli al servizio dei propri interessi privati. Visto che culture differenti considerano rispettivamente sacri o profani eventi, cose, processi assai diversi, Durkheim si chiede a che cosa si debba il fatto che, come si è detto, la distinzione sacro/profano è universale, sia nel senso che ogni cultura la conosce, sia nel senso che essa divide l’in­ tera realtà in due parti contrapposte. Qui rientra in gioco un elemento che non si lascia ricondurre né alle maniere di agire né a quelle di pensare generalmente accentuate da Durkheim: i sentimenti collettivi. Secondo Durkheim, deve esserci un’esperienza - universale, appunto - che in­ genera negli individui un complesso di potenti sentimenti di timore, rispetto, cautela, sottomissione, fiducia. Questi sentimenti, che a loro volta rendono sacro ogni aspetto del reale in cui vengono investiti, sono riconducibili all’espe­ rienza primaria del confronto tra gli individui e la società. In sostanza, suggerisce Durkheim, se chiamiamo «D io» una realtà intrinsecamente superiore, rispetto alla quale gli uomini si sentono inferiori e dipendenti, dobbiamo con­ cludere che Dio non è altro che una rappresentazione sim­ bolica della società stessa. Se questo è vero, la religione cessa di apparire, come nella tradizione illuministica, un complesso di credenze fuorviami, ingannevoli, allucinato­ rie, e di pratiche immature, aberranti, prive di senso e di efficacia. «Noi possiamo infatti dire che il fedele non s’in­ ganna quando crede all’esistenza di una potenza morale da cui dipende e da cui riceve il meglio di se stesso: questa potenza esiste, ed è la società»3. La religione, in altre parole, rappresenta, evoca e ce­ lebra, nei suoi miti e nei suoi riti, un ordine di realtà tra­ scendente, rispetto al quale gli individui non possono che sentirsi deboli, bisognosi, insignificanti, e al quale dunque chiedono - facendo propri quei miti e riti - di proteggerli, guidarli, ispirarli, affratellarli, accomunarli. Questo ordine di realtà, che sta chiaramente in un rapporto asimmetrico con gli individui, è appunto la società. Essa, a sua volta, è necessariamente generata dagli individui. Questi da un lato appartengono alla società, dall’altro la costituiscono. 54

Come? Attivando la componente superiore, collettiva, dell'homo duplex. In sostanza, il rapporto tra quelle che ab­ biamo chiamato le due componenti dell’individuo è esso stesso un esempio del rapporto tra sacro e profano. In che modo incide questa originale (e controversa) concezione della religione sul pathos derivante dalla na­ tura intrinsecamente contingente del rapporto tra norme e comportamento? La risposta di Durkheim è complessa. In primo luogo insiste sulla natura intrinsecamente col­ lettiva, sociale, della religione stessa. Anche se alcune po­ stulano un rapporto diretto tra un individuo e la deità, tutte le religioni nascono dall’esperienza sociale ed entro l’esperienza sociale, e i loro effetti principali ricadono nell’ambito di tale esperienza. Durkheim lo afferma nella definizione stessa della religione: «un sistema solidale di credenze e pratiche relative a cose sacre, cioè separate, in­ terdette, le quali uniscono in un’unica comunità morale, chiamata Chiesa, tutti quelli che vi aderiscono»4. I miti sono per loro essenza credenze condivise; i riti sono parimenti pratiche condivise; l’esperienza religiosa ha sempre una dimensione di appartenenza e di comunanza. In secondo luogo secondo Durkheim la religione è l’istituzione sociale primordiale, da cui hanno origine tutte le altre: il diritto, l’arte, la scienza, la proprietà, lo stato, la famiglia. Altrimenti detto: il mito è il prototipo di ogni conoscenza collettiva, il rito il prototipo di ogni attività collettiva. Perché? Perché soltanto attraverso la sacralizza­ zione certi modi di concepire e trattare la realtà vengono fissati e resi condividibili, stabilizzati e generalizzati, così da trascendere singole situazioni, singoli individui, singole generazioni. Ciò avviene sottraendo quei modi alle volontà e ai giudizi privati e momentanei degli individui. Lo stesso vale per le varie istituzioni di cui si è detto, ciascuna rela­ tiva a un diverso ambito di esperienza sociale, quando esse emergono dal processo di differenziazione. In terzo luogo è proprio della religione attivare negli individui sentimenti di appartenenza sociale e identifica­ zione collettiva, che a loro volta esprimono e rafforzano la componente superiore dell 'homo duplex, ne affermano la preminenza rispetto all’altra componente, conferiscono au­ torevolezza ai comandi che la società, il gruppo, indirizza 55

agli individui. E questo effetto, daccapo, può prodursi non soltanto nel contesto dell’esperienza religiosa ma anche in altri, ciascuno per così dire presidiato da un’istituzione differenziata. Fin qui, peraltro, l’argomento non elimina il pathos durkheimiano. La sacertà può rendere più autorevole la norma, ma sono gli individui a investire di sacertà la norma. Il prestigio di cui l’esperienza religiosa riveste le istituzioni dipende dalla continua volontà di appartenenza e fedeltà degli individui all’istituzione religiosa. L’identifi­ cazione stessa di Dio con la società non mette questa del tutto al riparo dalla contingenza relativa alla decisione del­ l’individuo di conformarsi o non conformarsi, obbedire o non obbedire. Tuttavia si può forse interpretare il pensiero di Durkheim sulla religione in modo da ricavarne una rispo­ sta più convincente al suo stesso pathos. Nell’analisi che egli ne fa, le esperienze rituali degli aborigeni attivano pe­ riodicamente sentimenti collettivi di tali intensità e cora­ lità - «stati forti di coscienza», esperiti in momenti di «ef­ fervescenza collettiva», scrive Durkheim - da azzerare il senso di distanza, differenza, diffidenza che normalmente ciascun individuo ha rispetto agli altri. Grazie al senso for­ tissimo di identità collettiva che il rito produce, ciascun partecipante si sente non più (soltanto) un destinatario dei comandamenti del gruppo, ma una loro fonte-, non un «fruitore» dei riti e miti del gruppo, ma un loro co-autore. Più generalmente, il rituale religioso è, per Durkheim, lo spazio e il tempo par excellence di una particolarissima alchimia che induce gli individui uti singuli a esperire se stessi (e gli individui che si trovano accanto) uti universi. Voci molteplici e dissonanti parlano all’unisono. Gli indi­ vidui si spogliano delle loro identità trite e mondane per assumere un’identità fortemente condivisa con tutti gli al­ tri partecipanti, carica di esperienze e significati esaltanti. Diventa così possibile che la componente più alta, collettiva, di ciascun homo duplex si esprima e si realizzi nella produzione e nell’applicazione di norme, evitando che queste vengano percepite dalla componente più bassa, strettamente individuale, come un vincolo arbitrario e 56

frustrante, comunque aumentando la probabilità che le norme evochino un’adesione volontaria, spontanea. Insomma, per Durkheim la religione è un insieme di strutture e processi che insegnano e aiutano gli individui ad auto-trascendersi, proiettandoli in un ambito di espe­ rienza dove è tematizzato ed esaltato il meglio di ciascuno, dove essi diventano capaci (insieme!) di produrre e ripro­ durre sia immagini del reale (che si depositano e codifi­ cano in maniere di pensare, il cui prototipo è il mito), sia programmi di comportamento (che si rappresentano come maniere di agire, il cui prototipo è il rito). Le forme elementari della vita religiosa è un’opera ispi­ rata, fervida nella sua esaltazione della grandezza della società. Sostiene, come si è detto, che Dio è la società, e la religione una rappresentazione simbolica della priorità del sociale sull’individuale indispensabile per l’esistenza della società stessa, priorità che tutte le credenze mitiche e le pratiche rituali, malgrado la loro diversità empirica, servono ad affermare e mantenere. Ma proprio per questo Forme pone un problema: che dire allora di una società, come quella moderna, in cui la secolarizzazione sembre­ rebbe aver indebolito, privatizzato, marginalizzato l’espe­ rienza religiosa, e in cui sono così largamente presenti (per dirla nel vocabolario del Suicidio) egoismo e anomia, feno­ meni entrambi ostili o quanto meno indifferenti alla reli­ gione stessa? In vari scritti, oltre che in Forme, Durkheim propone per questo problema ima soluzione che, per dirla banal­ mente, consiste nel «battezzare» l’egoismo stesso. Ciò viene visto come un’espressione immatura e in un certo senso fuorviarne di un fenomeno moderno che avrebbe invece, almeno potenzialmente, un’autentica valenza re­ ligiosa: l’attribuzione di supremo valore morale, e quindi di sacralità, alla persona umana. Gli uomini moderni sono egoisti se e in quanto riconoscono questo valore esclusi­ vamente a se stessi. Ma istituzioni tipicamente moderne come i diritti inerenti alla persona, la cittadinanza, la de­ mocrazia richiedono a ciascun individuo di riconoscere lo stesso valore anche agli altri, alla loro libertà, alla loro ri­ cerca di autoaffermazione. 57

La consapevolezza di questa richiesta, trasmessa alla generalità degli individui dalle istituzioni (a cominciare da / quelle educative, molto care a Durkheim), può far con­ vergere sentimenti forti e diffusi di rispetto e dedizione sull’idea stessa di persona umana. Come Durkheim stesso scrive, la comunione degli spiriti [nella società moderna] non può più fondarsi su riti o pregiudizi definiti, in quanto riti e pregiudizi sono travolti dal corso delle cose; in seguito a ciò non resta più nulla che gli uomini possano amare e onorare in comune, se non l’uomo stesso. Ecco come l’uomo è divenuto un dio per l’uomo e perchè non può più, senza mentire a se stesso, costruirsi altri dei. E come ciascuno di noi incarna una parte dell’umanità, ogni coscienza individuale ha in sé qualcosa di divino, e si trova così caratterizzata da una specificità che la rende sacra e inviolabile per gli altri5.

La persona diverrebbe così l’oggetto sacro per eccel­ lenza, quindi il fulcro di una religiosità espressamente moderna, nella quale « l’uomo è, contemporaneamente, il fedele e il Dio»6. Una religione diversa naturalmente da quelle tradizionali, ma equivalente a esse dal punto di vista funzionale. Quanto alle tendenze anomiche della società contemporanea, come si è visto, Durkheim pensava che potessero essere moderate e sconfitte da riforme di carat­ tere corporativo. Insomma, per dirla in termini correnti, Durkheim era, sotto certi punti di vista, un «riformista», in quanto rite­ neva possibili e necessarie modifiche sia della cultura sia della struttura della società in cui viveva. Non è chiaro peraltro quanto le ritenesse, oltre che possibili e necessa­ rie, probabili. In ogni caso la loro stessa natura suggerisce che la condizione sociale dei suoi tempi destasse in lui vive preoccupazioni quanto a quella che oggi chiameremmo la sua sostenibilità.

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N O T E AL CAPITO LO SECO N D O

1 Émile Durkheim, L es Form es élém entaires de la vie religieuse (1912), Paris, Puf, 1960, p. 496 (trad. it. L e form e elem entari della vita religiosa, Roma, Meltemi, 2005, p. 409). 2 Ibidem , p. 56 (trad. it. p. 91). 3 Ibidem , p. 322 (trad. it. p. 283). 4 Ibidem , p. 65 (trad. it. p. 97). 5 Id., U Individualism e et les intellectuels (1898), in L a Science social et i'action, Paris, Puf, 1970, p. 272 (trad. it. Idindividualism o e gli intel­ lettuali, in L a scienza sociale e l’azione, Milano, Il Saggiatore, 1996, p. 291). 6 Ibidem , p. 265 (trad. it. p. 284).

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M AX W EBER

Studioso tedesco (1864-1920). D i origine alto-borghese, si forma come storico dell’economia antica e medievale e come giurista, conducendo ricerche sulle condizioni sociali dell’economia fondiaria nella Prussia contemporanea, la cui risonanza gli vale una cattedra di economia politica prima a Friburgo, poi a Heidelberg e a Monaco. Concepisce la socio­ logia come disciplina impegnata a elaborare espressamente strumenti concettuali ricavati dalla, ma anche destinati alla ricerca storica e a discutere i rapporti tra sfere diverse del­ l’esistenza sociale (economia, religione, politica, etica, di­ ritto). Ha forti interessi politici, che si esprimono sia in studi scientifici sia nella partecipazione al dibattito pubblico dell’epoca. Hi lì'

: OPERE FONDAMENTALI

1903-1904 Letica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. it. Milano, Rizzoli, 2006. 1920-1921 Sociologia della religione, trad. it. Milano, Edizioni di Comunità, 2002. 1921 Scritti politici, trad. it. Roma, Seam, 1998. 1922 11 metodo delle scienze storico-sociali, trad. it. Torino, Einaudi, 2003. 1922 Econotnia e società, trad. it. Roma, Donzelli, 2003-2006.

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Dal punto di vista dell’«antropologia filosofica», po­ tremmo dire che Max Weber considera l’uomo un essere interpretativo, che può gestire la propria esistenza, la pro­ pria presenza nel mondo, soltanto attribuendo significati alla realtà naturale e sociale in cui si trova collocato. La mente umana non può cogliere quella realtà nella sua pie­ nezza, poiché essa è troppo molteplice e variabile, troppo carica di aspetti, opportunità, pericoli, occasioni di frain­ tendimento, smarrimento, auto-illusione. Interpretare la realtà, quindi, vuol dire in primo luogo selezionare deter­ minati suoi elementi tralasciandone altri, in secondo luogo valutare gli elementi selezionati alla luce di determinati cri­ teri di giudizio. Entrambe le attività sono di natura mentale e quindi inevitabilmente soggettiva, e servono innanzitutto, per così dire, a posizionare ciascun individuo nella realtà, evitando che questa lo soverchi, lo confonda, lo renda incapace di agire e di pensare (e quindi di sopravvivere). La sogget­ tività dei processi di interpretazione comporta peraltro che essi siano essenzialmente arbitrari, nel senso che non è possibile fornire una prova inequivocabile della loro validità. Ma per lo più i soggetti non si rendono conto di que­ sta arbitrarietà, la consapevolezza della quale potrebbe rendere problematiche quelle selezioni e valutazioni, pri­ vandole della capacità di orientare coerentemente e du­ revolmente il pensiero e l’azione. Per evitare questo è ne­ cessario (o quanto meno utile) che gli individui abbiano la sensazione di orientarsi in base a significati che leggono nella realtà, anche se sono essi stessi a iscrivere sulla realtà quei significati. In buona parte ciò risulta dal semplice fatto che, per quanto soggettive, le interpretazioni della realtà sono nor­ malmente oggetto di comunicazioni tra soggetti che le ren­ dono intersoggettive. In altre parole, esse possono essere (e normalmente sono) condivise tra più soggetti, e in modo tale da orientarne e co-ordinarne l’agire e il pensare, ren­ dendoli capaci di visioni, giudizi e attività collettivi. Inoltre, in quanto trasmesse non soltanto tra soggetti, per così dire, coetanei, ma anche tra soggetti che appar­ tengano a generazioni diverse, le interpretazioni possono 62

resistere all’usura del tempo, mantenere la propria conti­ nuità, strutturare durevolmente l’agire e il pensare indivi­ duali e collettivi. Insomma, proprio perché l’uomo è un essere inter­ pretativo, è possibile per ciascun individuo collocare sé stesso e i propri simili entro una realtà comune, percepita come carica di senso, e in quanto tale solida e coerente. E in definitiva a interpretazioni fatte proprie da gruppi (e in qualche modo, per assicurarne la condivisione, sanzionate tramite ricompense e punizioni) che sono riconducibili fe­ nomeni sociali di grande portata come i costumi, le con­ venzioni, le regole, le leggi, le istituzioni che caratterizzano i gruppi stessi, conferiscono loro un’identità collettiva, che trasmettono e in qualche modo impongono agli individui. Come abbiamo accennato, tuttavia, questi fenomeni cer­ cano in vario modo di nascondere o di sopprimere la loro intrinseca arbitrarietà, affermando di dovere il proprio contenuto e di derivare la propria validità dalla natura stessa delle cose, dal volere di esseri trascendenti, dallo «spirito del popolo», dalle «leggi della storia». In ogni caso la soggettività, e l’intrinseca arbitrarietà che le fa da corollario, delle interpretazioni date alla realtà da determinati individui (o determinati gruppi) inevitabil­ mente le rendono diverse, e spesso fortemente divergenti, rispetto a quelle fatte proprie da altri individui (o gruppi), a tal punto da generare forti contrasti. Proprio perché, in maniera più o meno diretta, le interpretazioni da un lato conferiscono significato all’esperienza individuale, dal­ l’altro strutturano la co-esistenza di molteplici individui, questi non sono disposti a lasciarne il contenuto al caso, ma spesso si mobilitano per affermare le proprie inter­ pretazioni e magari imporle agli altri, o quanto meno per impedire che siano quelle altrui a strutturare la propria esistenza. In questo senso le diverse interpretazioni configurano degli interessi, cioè delle preferenze potenzialmente in­ compatibili, fatte proprie da gruppi che agiscono in pre­ senza gli uni degli altri. Di che natura siano tali interessi, e quindi quale sia la posta dei relativi contrasti sociali e culturali, è una domanda a cui Weber risponde in termini di «interessi materiali e ideali»; risposta che non formula 63

priorità costanti e generali tra classi di interessi, ma rimane aperta alla possibilità che in situazioni diverse si costitui­ scano tra esse rapporti diversi. I. I tipi ideali Questa apertura, questa disponibilità ad abbracciare concettualmente configurazioni contrastanti, lasciando che sia l’indagine empirica a individuare quella che meglio co­ glie e rappresenta una determinata situazione concreta, è caratteristica del pensiero sociologico di Weber, che dà il meglio di sé nell’elaborazione di tipologie, ovvero insiemi di soluzioni possibili per un determinato problema ricor­ rente nell’esperienza storica. Per analizzare concettualmente l’enorme varietà di tale esperienza - è questo il principale compito scientifico che Weber assegna alla sociologia - è necessario che le solu­ zioni elaborate dallo studioso con riferimento a un deter­ minato problema non siano troppo numerose, e che siano formulate in maniera rigorosa ma astratta, quindi relati­ vamente indifferente ai dettagli delle molteplici e infinita­ mente varie condizioni storiche a cui si possono riferire. Per questo Weber chiama tipi ideali i concetti che com­ pongono le sue tipologie, e non cessa di ricordare al let­ tore che nessuno di essi si applica nella sua interezza alle realtà storiche concrete. Quanto ai problemi a cui di volta in volta le tipologie si riferiscono, basta darne due esempi per cogliere l’am­ piezza dell’orizzonte entro cui si muove il pensiero weberiano. Può trattarsi del seguente problema, di natura cul­ turale: nel contesto di una religione che concepisca la di­ vinità come onnisciente, onnipotente e benevola, in quali modi si può giustificare il fatto che molto spesso chi è giusto e devoto soffre, e chi è empio e ingiusto gode? (Si tratta del cosiddetto «problema del male», al centro della tematica teologica chiamata teodicea.) O del seguente pro­ blema, di natura assai diversa: in quali modi un ente poli­ tico può procurarsi le risorse economiche di cui abbisogna per svolgere i propri compiti? Per ciascun problema, We­ ber elabora concettualmente alcune soluzioni di massima 64

fortemente distinte l’una dalle altre, che nel loro insieme coprono l’intero ambito delle soluzioni concrete e storica­ mente date. Nel primo caso, ad esempio, una teodicea può ispirarsi alla visione manichea secondo cui anche un dio benevolo, onnisciente e onnipotente deve, per così dire, fare i conti con un «principe del male» che contrasta le sue prefe­ renze; oppure teorizzare che una stessa anima umana può incarnarsi più volte, e in ciascuna esistenza esperire le con­ dizioni che si è meritata in un’esistenza precedente. Riguardo al secondo esempio, la raggiera di soluzioni concettualizzate da Weber va da un ente politico che si approvvigiona tramite il bottino ricavato da occasionali operazioni di ruberia e pirateria, a quello che impone un tributo a popolazioni assoggettate, a quello che «estrae» dal sistema economico proventi più o meno regolari tra­ mite una tassazione diretta o indiretta. Ci si può meglio rendere conto della portata dell’as­ siduo lavorio di elaborazione concettuale rappresentato dalle tipologie weberiane se si tengono presenti i seguenti pregi. In primo luogo Weber conduce quel lavorio su ambiti dell’esistenza diversi, ma tutti di grande importanza storica e, si potrebbe dire, di forte significato esistenziale: il di­ ritto, l’economia, la religione, la politica, la scienza, l’espe­ rienza estetica. In ciascun ambito, l’elaborazione concet­ tuale si basa su vastissime conoscenze storiche, acquisite da Weber talora di prima mano, in base ai risultati delle proprie ricerche specialistiche, talora (naturalmente più di frequente) di seconda mano, giovandosi dei risultati di ricerche altrui. Ad esempio, Weber lavora, per così dire, in proprio quando discute le concezioni religiose e morali delle confessioni protestanti in base alle fonti primarie, ma si serve di letteratura secondaria (oltre che di fonti tra­ dotte) quando discute delle religioni orientali. In secondo luogo, come ciascuna tipologia contiene vari tipi ideali, così alcuni di questi si prestano a ulteriori elaborazioni in sotto-tipi e questi in sotto-sotto-tipi, i quali a ciascun livello introducono specificazioni che ravvici­ nano i relativi concetti ai dettagli della realtà storica. Ad esempio, in un importante saggio su La città Weber prima 65

differenzia la città occidentale da quella orientale, poi en­ tro il primo tipo distingue la città occidentale antica da quelle tardo-medievale e moderna, ed entro il secondo tipo quella cinese da quella indiana. In terzo luogo in molti passi della sua opera più impor­ tante, Economia e società, Weber pone le tipologie relative a un ambito in relazione con quelle relative a un altro. In particolare, egli sottolinea che i processi tipici dell’econo­ mia moderna, centrati sull’impresa e sul mercato, possono avere luogo solo in presenza di determinati assetti politici, fiscali e giuridici, e che lo sviluppo iniziale dell’economia moderna è stato reso possibile anche dalla presenza di par­ ticolari, e storicamente unici, atteggiamenti morali, a loro volta ispirati da determinate credenze religiose. In altre parole, Weber specifica i vincoli di affinità e compatibilità che esistono tra i fenomeni propri di un ambito e quelli propri degli altri, o viceversa gli effetti bloccanti o inibi­ tori dovuti all’inesistenza, in molte circostanze, di vincoli siffatti. Nell’analisi weberiana i richiami a processi di natura soggettiva si alternano alla disamina di strutture e assetti collettivi che in un certo senso pregiudicano quei processi, rendendo altamente probabile che i soggetti pensino e agiscano in un modo invece che nell’altro. Ma in linea di principio Weber riconduce le soluzioni di (letteralmente) tutti i problemi sociali e culturali a un’alternativa tra quat­ tro modi fondamentali, nettamente diversi, di orientare qualunque condotta umana, in qualsiasi ambito dell’esi­ stenza, in tutti i contesti storici. Il soggetto può infatti de­ terminarsi all’azione (o all’inazione): • tradizionalmente, cioè privilegiando le modalità sug­ gerite dalla sua memoria (non necessariamente corretta) del passato, in base all’assunto che quanto è sempre stato merita di essere ripetuto, di costituire il modello per l’agire presente; • emotivamente, cioè agendo come gli impongono di fare gli impulsi irriflessi suscitati in lui da sensazioni e sentimenti; • razionalmente, cioè scegliendo più o meno consape­ volmente, tra i mezzi a sua disposizione nelle circostanze date, quelli più atti a conseguire i propri fini. 66

Ma qui Weber distingue ulteriormente tra: • una razionalità valoriale, che privilegia certi fini e li sottrae alla scelta, e • una razionalità strumentale, a tutto campo, disposta a mettere in discussione non soltanto i mezzi dell’agire ma i suoi stessi fini. Come si vede, si tratta in ciascun caso di processi sog­ gettivi, in conformità con l’antropologia filosofica che ab­ biamo attribuito a Weber. Però, come si è già accennato, non si presuppone che ciascun individuo eserciti effetti­ vamente in ogni situazione una scelta tra queste modalità d’interpretazione e di orientamento. Normalmente, in ogni determinato aspetto dell’esistenza, l’individuo adotta (o si adatta a) scelte che il gruppo gli propone e gli impone come scontate, appropriate, obbligatorie. In altre parole, convinzioni diffuse, definizioni della realtà condivise, va­ lori accettati come unicamente validi, istituzioni iscritte, per così dire, nel contesto dell’esistenza collettiva fanno dei comportamenti individuali, nella grandissima maggio­ ranza dei casi, un fatto di routine, una pratica raramente eludibile o contestata. Vediamo due esempi. In vari testi in cui discute di fenomeni politici, Weber si interroga sulla «legittimità» del dominio, che si ha quando (e nella misura in cui) i comandi dei dominanti evocano da parte dei dominati un’obbedienza motivata non da considerazioni di mera convenienza, ma da un senso di doverosità, di sentita ob­ bligazione morale a ubbidire. Rifacendosi alla suddetta tipologia di tutti gli orientamenti ad agire (peraltro omet­ tendo, in questo caso, la differenza tra la razionalità valo­ riale e quella strumentale), Weber sostiene che quel senso di doverosità può essere motivato: • tradizionalmente, in quanto l’attuale comando non fa che riprodurre nel presente quelli emessi da tempo immemorabile; • carismaticamente, in quanto il dominante ha dato prova di possedere qualità straordinarie, che attivano nei dominati forti sentimenti di devozione, dipendenza, ammirazione; • razionalmente, in quanto i comandi emessi dai do­ minanti specificano nelle circostanze attuali il significato 67

prescrittivo di regole e principi di carattere generale, va­ lidi a loro volta in quanto prodotti sulla base di procedure pubbliche. Anche se Weber «tipologizza» la legittimità con rife­ rimento a processi soggettivi, il fenomeno poggia ugual­ mente su realtà pubbliche, oggettive, pratiche. Sia gli aspetti simbolici e discorsivi, sia quelli materiali di un de­ terminato sistema politico pre-selezionano, per così dire, la percezione dei comandi da parte dei soggetti e la loro reazione a essi, rendendo plausibile, in una determinata si­ tuazione, solo un modo specifico di riconoscere (o negare) la doverosità dell’obbedienza. Prendiamo un secondo esempio, tratto anch’esso dalla sfera politica (d’importanza primaria per Weber dal punto di vista sia intellettuale sia esistenziale). L’istituzione po­ litica primaria della modernità è lo stato: un insieme tal­ mente significativo, imponente, visibile di assetti, di pra­ tiche, di risorse, che molti degli studiosi contemporanei di Weber lo pensavano e teorizzavano come un’entità a sé stante, superiore agli individui, come un protagonista auto­ nomo dell’esperienza storica. Weber sottolinea invece che lo stato stesso, come ogni realtà collettiva, esiste solo se e in quanto innumerevoli soggetti (dai legislatori ai giudici, ai funzionari pubblici di ogni genere, ai contribuenti) con­ corrono nell’orientare sistematicamente in un certo modo le rispettive attività politicamente rilevanti. Però ammette che almeno in alcuni soggetti (e qui probabilmente pensa soprattutto ai funzionari di grado più elevato) questo orientamento espressamente statuale è motivato anche da quello che si chiama comunemente il senso dello stato, os­ sia dalla convinzione che lo stato è una realtà che sovrasta gli individui e persegue interessi propri, ai quali i funzio­ nari stessi sono tenuti a subordinare i loro interessi privati. 2. Lo studio scientifico del significato Tornando alla concezione weberiana da cui siamo partiti - l’uomo è un essere interpretativo, che si colloca e si orienta nella realtà in base ad attribuzioni di signifi­ cato - possiamo interrogarci su alcune sue conseguenze 68

metodologiche. La più importante è implicita in quanto già detto: lo studioso dei fatti umani deve non soltanto de­ scrivere i fatti in questione ma anche comprenderli, riferirsi ai processi soggettivi che presiedono alle attività degli in­ dividui, e che ne fanno delle azioni piuttosto che dei meri comportamenti. Anzi, in sede sociologica si deve tener presente che i soggetti connettono le loro interpretazioni della realtà anche ai significati in base ai quali agiscono altri soggetti che ne fanno parte, e questi significati a loro volta riguar­ dano la presenza stessa dei primi soggetti. In altre parole, l’azione individuale si fa sociale se e in quanto un soggetto interpreta, più o meno espressamente e consapevolmente, l’attività di altri soggetti, e viceversa (è curioso che We­ ber non abbia mai espressamente discusso il fenomeno della comunicazione, necessariamente coinvolto in questi processi). Ma questa posizione, che connette il pensiero di We­ ber con una tradizione fortemente presente nell’ambiente intellettuale tedesco dei suoi tempi, la cosiddetta «tradi­ zione ermeneutica», solleva un serio problema metodolo­ gico. Anche lo studioso dei fatti sociali è a sua volta impe­ gnato in un lavoro interpretativo, e anche le sue interpre­ tazioni fanno capo a significati attribuiti alla realtà, e sono inevitabilmente soggettive. Quelle interpretazioni possono, per così dire, «stingere» sui significati che lo studioso im­ puta ai soggetti che studia, e questo a sua volta può com­ promettere l’obiettività dei risultati delle sue indagini. Per servirci di due espressioni usate all’inizio di que­ sto capitolo, potremmo dire che Weber è preoccupato non tanto dalla minaccia all’obiettività implicita nella selezione dei temi di cui lo studioso intende occuparsi, quanto da quella relativa alla sua valutazione. Ma anche in quest’ul­ tima sede, afferma Weber, lo studioso può e deve, per quanto possibile, escludere dal proprio discorso i giudizi di valore e limitarsi a giudizi di fatto. Se ci riesce, i risultati della sua ricerca possono trovare l’assenso anche di stu­ diosi che non condividono le sue posizioni morali, le sue preferenze politiche. Con questa tesi, Weber si colloca tra due posizioni estreme presenti nel cosiddetto Methodenstreit - un’acca69

nita e prolungata disputa accademica in merito alle strate­ gie di ricerca delle scienze umane (storico-sociali, culturali) da una parte e di quelle naturali dall’altra -, dissociandosi sia da chi ne assolutizza le differenze, sia da chi ne assolutizza le somiglianze. Weber, dunque, sottolinea enfaticamente la compo­ nente soggettiva degli accadimenti umani, ma nega che il riferimento a essa nelle ricerche sui fatti storico-sociali escluda necessariamente l’obiettività dei loro risultati. Egli occupa una posizione intermedia anche per quanto ri­ guarda altri aspetti della disputa, in particolare sostenendo che le scienze umane, come quelle naturali, non possono fare a meno di concetti generali, ma che questi devono es­ sere (come si è visto) «ideal-tipici», e che la sociologia, in particolare, deve dedicarsi espressamente all’elaborazione di questi ultimi. Quei concetti, inoltre, devono costituire non tanto il prodotto finale della ricerca sociologica, quanto uno strumento inteso da un lato a far risaltare le particolarità storiche degli accadimenti umani, dall’altro a mettere in evidenza la frequenza con cui si presentano certe configu­ razioni (ad esempio, certi modi di connettere il centro di un sistema di dominio politico con sua la periferia) e certe regolarità nelle loro attività (per rimanere allo stesso esem­ pio, la tendenza della periferia ad adottare «strategie d’in­ dipendenza» rispetto al centro). Weber ritiene inoltre che l’obiettivo di comprendere quegli accadimenti non escluda quello di spiegarli, anche se la spiegazione normalmente non può riferirsi a «leggi» di portata del tutto generale. Ciò conferma come il pensiero sociologico weberiano sia «aperto», rifiutandosi di affermare esclusivamente la validità di una determinata posizione, la priorità di un determinato insieme di fattori, nella causazione dei fatti storici. Esso, in particolare, si distanzia espressamente da posizioni generali sia idealistiche sia materialistiche, ma in varie occasioni riconosce e conferma l’apporto che po­ sizioni di entrambi i tipi possono dare alla comprensione di fenomeni sociali molteplici, diversi e talora di grande portata. In uno scritto tardo, ad esempio, Weber afferma che II manifesto del partito comunista è un’opera di grande valore scientifico, ma procede a segnalarne i limiti e gli 70

errori, e in altre sedi sostiene che il legato intellettuale di Marx rimane illuminante purché lo si consideri come un insieme di ipotesi, non di dogmi validi nei confronti di qualunque tema. Si confronti, ad esempio, una frase d’apertura del Ma­ nifesto («La storia di ogni società finora esistita è storia della lotta di classe») con una con cui si apre invece uno scritto di Weber («“Classi” , “ceti” e “partiti” sono feno­ meni della distribuzione del potere entro una comunità»). Possiamo anzitutto osservare che Weber fino a un certo punto è d’accordo con Marx. Per entrambi la disegua­ glianza sociale non ha rilievo soltanto per descrivere una società, ma ha a che fare, in tutte le sue forme, con la que­ stione del potere, cioè con rapporti che strutturano una so­ cietà nel suo insieme e tendono a generare conflitti, i quali a loro volta possono cambiare le strutture sociali stesse. Malgrado ciò, Weber ha delle diseguaglianze una visione assai più ricca di quella marxiana. Sostanzialmente, Weber differisce da Marx nel proporre quella che viene spesso chiamata una visione pluri-dimensionale invece che monodimensionale della diseguaglianza sociale. Affianca alle classi, cioè ai raggruppamenti che si costituiscono sulle di­ seguaglianze relative alla gestione e alla distribuzione delle risorse economiche, altri due tipi di raggruppamento: i ceti, che si costituiscono sulle diseguaglianze relative a una risorsa assai diversa, l’onore sociale; i partiti, che si costi­ tuiscono sulle diseguaglianze relative a una risorsa altret­ tanto diversa, il controllo delle strutture e delle pratiche connesse alla violenza organizzata. Inoltre, anche se Weber ritiene che i rapporti fra tali raggruppamenti siano spesso conflittuali, non considera ineluttabile questa tendenza. Soprattutto non vede nel conflitto tra i vari raggruppamenti il solo «motore della storia» come fa Marx. Sviluppi storici consistenti possono essere dovuti a fenomeni di carattere puramente culturale, in particolare l’emergere di credenze e valori innovativi, o di potenzialità tecniche che non si rapportano direttamente alla distribuzione delle risorse sociali. La tripartizione weberiana dei raggruppamenti generati dalla diseguaglianza sociale mette in evidenza l’esistenza di tre forme diverse di potere: 71

• quello economico, rispetto al quale si differenziano e si confrontano le classi; • quello politico, rispetto al quale si differenziano e si confrontano i partiti; • quello ideologico, rispetto al quale si differenziano e si confrontano i ceti. Ciò permette di identificare un tipo di conflitto sto­ ricamente assai significativo, ma non teorizzato da Marx: non il conflitto tra raggruppamenti dello stesso genere in merito a una determinata forma di potere, ma il conflitto tra le forme stesse del potere, ciascuna delle quali fa capo a risorse diverse e incide su aspetti diversi della società. Secondo Weber, le società differiscono le une dalle al­ tre anche perché in esse hanno una priorità diversa forme di potere diverse. Di conseguenza nel corso dell’esperienza storica raggruppamenti diversi assumono il ruolo di pro­ tagonisti della dinamica sociale, operando nel nome di in­ teressi diversi, con strategie diverse. Weber concorda con l’idea marxiana che nella società moderna le classi e i loro rapporti siano dominanti, mentre risultano recessivi i ceti e i loro rapporti, ma rispetto a Marx accorda molta più importanza ai partiti, cioè ai portatori di interessi specifi­ camente politici. Più in generale Weber afferma la rilevanza e l’auto­ nomia dei fenomeni politici molto più che nel pensiero marxiano (e marxista), in cui la politica appare sostanzial­ mente come un «epifenomeno» di processi fondamentali che hanno luogo nella sfera dell’economia. La stessa dif­ ferenza vale, ancora più chiaramente, per i fenomeni reli­ giosi. A questi Marx non presta molta attenzione, consi­ derando la religione essenzialmente come una forma di «falsa coscienza», per di più destinata a perdere di peso, nel contesto della moderna società borghese, rispetto a forme diverse, secolarizzate. Weber invece dedica alla re­ ligione un’intera serie di saggi sociologici - pubblicati a partire dal 1904 su una rivista scientifica, e raccolti in tre grossi volumi immediatamente prima della sua morte - e un’intera sezione di Economia e società. Si può anzi dire che la sua reputazione come teorico della società poggia tuttora su quei saggi, il primo dei quali, luetica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-1905), è considerato da 72

molti come il suo scritto più significativo (ed è certamente il più originale e controverso). Prima di presentare una breve sintesi di quel saggio, osserviamo che anche l’importanza attribuita da Weber al fenomeno religioso rispecchia la sua concezione dell’uomo come essere interpretativo. E in primo luogo la religione che permette all’individuo di collocarsi nel cosmo, di at­ tribuire un significato alla sua stessa esistenza (e morte), di dare un senso morale, non soltanto di fatto, alla compre­ senza di sé e dei suoi simili. Tuttavia - e questo è un fon­ damentale assunto weberiano, daccapo radicato nella sua antropologia filosofica - religioni diverse svolgono questo compito in misura e soprattutto in modi diversi; secondo Weber, anzi, radicalmente diversi. (Durkheim non condi­ vide tale assunto, e anche per questo la sua interpretazione sociologica della religione non ha molto in comune con quella weberiana.) A sua volta, questa diversità ha ricadute consistenti e significative in molteplici altri ambiti di espe­ rienza, tra cui uno che di primo acchito si direbbe spic­ catamente mondano, e quindi particolarmente remoto da quello religioso: l’ambito dei processi sociali che Marx pri­ vilegia, quelli relativi alla produzione e distribuzione della ricchezza. Weber condivide con Marx l’idea che l’organizzazione storicamente variabile di questi processi, e degli interessi di gruppo che ne derivano, possa significativamente in­ fluenzare e condizionare vari aspetti dell’esperienza re­ ligiosa. Egli ritiene ad esempio che ciascuna delle grandi religioni mondiali abbia ricavato parte del proprio conte­ nuto teologico e delle proprie strutture organizzative dalla natura degli interessi anche economici dei gruppi sociali che ne erano stati i rispettivi portatori storici originari: i bramini per quanto riguarda l’induismo, i guerrieri arabi intenti alla conquista e al bottino per quanto riguarda l’islamismo, i monaci mendicanti per quanto riguarda il buddismo. Era invece estranea alla visione marxiana la questione inversa: gli effetti che concezioni e pratiche religiose pos­ sono a loro volta esercitare sui modi in cui società diverse hanno organizzato la produzione e distribuzione della ricchezza. Semplificando le cose, potremmo dire che per 73

Marx, nei rapporti con l’economia, la religione costituisce una variabile dipendente, cioè deriva le proprie configura­ zioni essenzialmente dal modo in cui in una determinata società si svolgono i processi economici. Al contrario, al centro della sociologia weberiana della religione sta pro­ prio il ruolo di variabile indipendente che essa può svol­ gere in quel rapporto, cioè la sua incidenza causale su processi e strutture relative alla produzione e alla distribu­ zione della ricchezza. E Weber intende provare questa tesi soprattutto in riferimento a una vicenda storica cui anche Marx attribuisce la massima importanza: l’emergere e ra f­ fermarsi del capitalismo moderno. 3. La genesi del mondo moderno Weber non si trova in disaccordo con Marx per quanto riguarda molte caratteristiche peculiari, storica­ mente uniche, del capitalismo moderno: in particolare il ruolo centrale che svolgono nei processi produttivi l’im­ presa privata, il mercato, l’accumulazione, il profitto, la concorrenza, l’innovazione dei prodotti e dei modi di pro­ duzione, il rapporto d’impiego tra datore di lavoro e ma­ nodopera. (Weber ritiene, come Marx, che tale rapporto comporti una massiccia diseguaglianza tra le parti, ma non concede che questa a sua volta comporti necessariamente sfruttamento.) C ’è un notevole accordo tra i due anche sulla genesi del capitalismo, cioè su molte delle condizioni che hanno reso possibile la formazione di questo sistema storicamente unico, condizioni di natura sia strettamente economica (tra cui l’esclusione dei gruppi subalterni dalle risorse collettive che in precedenza ne rendevano possibile la sopravvivenza), sia istituzionale (le strutture politiche, giuridiche, amministrative indispensabili per la formazione delle imprese e la loro attività di mercato). Infine, Marx e Weber convengono che la genesi del capitalismo moderno ha avuto come protagonista attivo un gruppo sociale relativamente ampio, una componente del ceto borghese che si è ribellata agli assetti corporativi tradizionali, impegnandosi in pratiche commerciali e pro­ duttive di tipo nuovo. A proposito di questo gruppo, però, 74

Weber si pone un quesito che a Marx non interessava, e nel rispondere attribuisce a fenomeni di natura religiosa un ruolo causale che a Marx non era possibile riconoscere. Il quesito, una volta di più, riflette l’interesse che rive­ stono per Weber - in base alla sua antropologia filosofica i processi soggettivi che presiedono all’agire di individui e gruppi. A suo modo di vedere, soltanto ispirando il proprio operare quotidiano a uno spirito nuovo la nascente borghe­ sia imprenditoriale si era potuta avvalere delle condizioni materiali e istituzionali presenti nella prima modernità e porre in opera nuove strutture e nuovi processi economici. Quello spirito motivava i singoli imprenditori a una ricerca assidua e intensa di occasioni di guadagno, generava in loro una disponibilità senza precedenti ad accumulare, rischiare, investire e reinvestire, prendere iniziative, cercare nuovi prodotti e nuovi mercati, adottare pratiche commerciali e produttive (e imporle ai propri dipendenti) sempre aperte al miglioramento e all’innovazione. Per riprendere la gene­ rale classificazione weberiana degli orientamenti all’agire, la nuova borghesia imprenditoriale aveva respinto quello tradizionale e quello emotivo per adottare quello razionale, che richiedeva (in questo caso) una continua revisione dei mezzi dell’agire economico alla luce della loro capacità di massimizzare il fine del profitto e dell’accumulazione. Questo criterio - reso disponibile dall’esistenza, nel­ l’ambiente storico in cui nacque il capitalismo, anche da tecniche contabili come la «partita doppia» - non era as­ similabile alla mera avidità, l’esecrabile fame dell’oro, che da tempo immemorabile era praticata dagli uomini e criti­ cata come immorale dai saggi. La differenza stava nel fatto che un nuovo spirito, quello del capitalismo, ingiungeva agli imprenditori la ricerca del profitto come un dovere, ne faceva l’oggetto di una dedizione obiettiva, sistematica, instancabile, rispetto alla quale la ricerca del godimento immediato (ad esempio nuove esperienze di consumo o un maggiore agio dell’esistenza) rappresentava una tentazione da evitare e respingere. In sostanza, l’imprenditore deve continuamente impie­ gare e accrescere le proprie risorse: da quelle strettamente personali, come le energie individuali, a quelle più obiet­ tive e disincarnate, come il denaro proprio o preso in pre­ 75

stito per avviare l’impresa, oppure l’azienda come insieme materiale di macchinari, scorte, manufatti. Questo compito deve dominare la sua esistenza e costituisce un fine in sé, perseguendo .il quale l’imprenditore può dare prova di au­ tentiche qualità morali: dedizione, solerzia, industria, pun­ tualità, inventiva, adattabilità, affidabilità nei rapporti in­ terpersonali, instancabilità, responsabilità. La posta dell’at­ tività di imprenditore, insomma, è la dimostrazione della sua qualità di persona. Ma come aveva potuto formarsi questo spirito, ed es­ sere adottato da un numero considerevole di individui, nell’ambiente storico della prima modernità, in cui la re­ ligione tradizionale considerava moralmente disdicevole, o quanto meno sospetta, una dedizione così pressante al fine tutto mondano dell’acquisizione e del profitto? Weber conviene con molti studiosi che rimuovere quella remora religiosa era stato uno dei compiti storici svolti (intenzio­ nalmente o meno) dalla grandissima innovazione religiosa rappresentata dalla Riforma protestante, ma nega che in questa vicenda avesse svolto un ruolo decisivo il pensiero di Lutero. Questi aveva, sì, investito di significato reli­ gioso e morale l’occupazione degli individui (il loro Beruf), ma l’aveva intesa ancora in maniera tradizionale, come lo scrupoloso adempimento dei particolari doveri assegnati ai molteplici ranghi di un ordinamento corporativo, l’osser­ vanza delle loro stabili regole di comportamento commer­ ciale e produttivo, sostanzialmente intese a evitare l’inno­ vazione e la concorrenza, e a mantenere la solidarietà fra tutti coloro che occupavano un determinato rango. La particolare intensità e dinamicità del Beruf impren­ ditoriale, sostiene Weber, aveva le sue radici religiose nel ben diverso messaggio di un altro grande riformatore, Cal­ vino. Secondo il dogma calvinista della predestinazione, un imperscrutabile decreto divino determina una volta per tutte, per ciascun individuo, la sua destinazione alla sal­ vezza o alla dannazione ultraterrena. Chi, secondo Weber, sottoscrive questa credenza (il dogma della predestina­ zione) ne deriva inevitabilmente un’assillante ansia circa il proprio destino di eletto o dannato, che non gli è dato né conoscere né modificare (non c’è posto per i sacramenti o altre mediazioni rituali nella teologia calvinista). Ciò può 76

indurlo a condurre la propria esistenza in una maniera così impegnata in un agire mondano instancabilmente ra­ zionale da costituire per lui, sul piano puramente psico­ logico, una specie di prova della propria futura salvezza. La matrice religiosa dello spirito del capitalismo è proprio questo ascetis?no mondano, che potenzialmente fa di ogni credente uno strumento della maggior gloria di Dio. L’argomentazione weberiana è complessa, tortuosa e sotto vari punti di vista discutibile. La controversia imme­ diatamente suscitata dalla prima pubblicazione del saggio sull’etica protestante indusse Weber a molteplici ulteriori interventi sul tema, nei quali non mancò mai di riaffermare la tesi - in aperto contrasto con il pensiero marxiano - se­ condo cui un aspetto teologico di un evento espressamente religioso, come la Riforma, aveva dato un indispensabile contributo alla formazione dello spirito del capitalismo. Inoltre, nella vasta serie di saggi che fece seguito a Letica protestante, Weber cercò di fornire una prova a contrario di quella tesi, argomentando che anche in circo­ stanze storiche (come quella rappresentata dall’impero ci­ nese) in cui vari fattori materiali e istituzionali avrebbero potuto permettere al capitalismo moderno di emergere, le concezioni religiose avevano reso impossibili fenomeni equivalenti all’ascetismo mondano, quindi allo spirito del capitalismo, quindi alla formazione di gruppi imprendito­ riali che potessero considerare l’accumulazione e il profitto come fini moralmente validi. Naturalmente questo non aveva impedito che in se­ guito in alcuni paesi orientali le strutture commerciali e produttive locali e tradizionali venissero spiazzate e sov­ vertite dall’imperiosa dinamica del capitalismo: ma Letica protestante concerne la genesi del capitalismo moderno, non la sua successiva espansione. In effetti, una volta affer­ matosi nel suo originario sito storico, l’Europa della prima modernità, il capitalismo stesso aveva potuto affrancarsi sia dal proprio spirito (è il funzionamento stesso del sistema capitalistico che automaticamente induce i suoi «opera­ tori», per restare nel gioco concorrenziale, ad adottare condotte razionali, innovative), sia dalle credenze e dalle pratiche religiose che secondo Weber, come si è visto, ave­ vano svolto un ruolo indispensabile in quella genesi. Per 77

citare una sua frase lapidaria: «Il puritano voleva essere un uomo che si identificava con la propria occupazione; noi non possiamo non farlo». Nell’ambito della sua sociologia della religione (anzi delle religioni) Weber affronta una questione fondamen­ tale: che cosa distingue la vicenda dell’Occidente da quella delle altre grandi civiltà? La sua risposta vede la partico­ larità storica dell’Occidente nella maniera e nella misura in cui esso ha sistematicamente promosso, nei campi più diversi, la messa a punto e l’adozione di modalità razionali dell’agire individuale e collettivo. Per secoli, a partire dal­ l’antica Grecia, la cultura e le istituzioni occidentali hanno privilegiato la ricerca di modi espressamente e consape­ volmente razionali (cioè intesi a ottimizzare il rapporto tra i mezzi e i fini dell’azione) di generare e trasmettere conoscenze, praticare le arti, produrre ricchezza, sfruttare le risorse naturali, fare la guerra, dirimere le controver­ sie, costruire e gestire assetti istituzionali. In tali modi si è grandemente accresciuto il dominio degli uomini sia sul­ l’ambiente naturale sia su quello storico-sociale. E questo che ha permesso all’Occidente, a partire da una certa fase della sua storia, di imporre la propria supe­ riorità su altre civiltà e culture, e di costringere altre parti del mondo, in misura maggiore o minore, ad adottare modi originariamente occidentali di interpretare e gestire i più diversi aspetti dell’esistenza. Paradossalmente, quindi, la particolarità dell’Occidente è di essere servito come luogo di sperimentazione di idee e istituzioni che si sono successivamente imposte universalmente per via della loro efficacia pratica {non della loro superiorità morale). 4. Il potere politico Nello svolgere questa tesi, Weber affianca alla tema­ tica economica, privilegiata (un po’ paradossalmente) nello studio delle religioni, quella politica. L’Occidente è anche il locus originario di due grandi esperienze relative alla for­ mazione e alla gestione del potere politico (quello che, se­ condo Weber, ruota intorno alla violenza organizzata): la città (classica e medievale) e lo stato moderno. La seconda

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è di gran lunga l’esperienza più significativa, in quanto è appunto lo stato che, affermatosi inizialmente in Occi­ dente, si è successivamente imposto nel resto del mondo come suprema istituzione politica. Naturalmente, nel trat­ tare lo stato, Weber lo inserisce in un’ampia tipologia de­ gli enti politici, da cui risalta appunto la natura peculiare delle sue strutture e dei processi cui presiede. A partire dalla prima modernità, in Europa occiden­ tale, alcuni centri di potere politico sono riusciti a impos­ sessarsi del monopolio della violenza legittima entro terri­ tori vasti, da un lato debellando la competizione e la resi­ stenza di altri centri, dall’altro affermando la propria auto­ nomia nei confronti della Chiesa e dell’Impero. Acquisita così la propria sovranità (interna ed esterna, come si suole dire), ogni stato - con tempi e modalità diversi da caso a caso - si è dedicato a gestirla in maniera sempre più ra­ zionale, tramite un apparato politico, militare, amministra­ tivo espressamente costruito e sempre più centralizzato. E 10 ha affidato a un personale burocratico, cioè a insiemi di individui professionalmente impegnati a condurre le proprie attività alla luce di saperi sempre più approfon­ diti e diversi. Anche in questo caso Weber, nell’affrontare 11 tema (che costituisce uno dei suoi contributi più signifi­ cativi e originali alla teoria sociale moderna), inserisce la burocrazia in una vasta tipologia dei modi in cui un cen­ tro politico può articolarsi e differenziarsi per rendere le proprie attività continuative, sistematiche, efficienti, e per integrare quelle espressamente politiche con altre propria­ mente amministrative. Nel caso di un’amministrazione burocratica il perso­ nale agisce entro strutture progettate secondo un modello più o meno piramidale, che si articola variamente dall’alto al basso, dal centro alla periferia, ma al contempo conduce gli affari politici e amministrativi in maniera il più possi­ bile coordinata e unitaria, orientata a interessi di carattere espressamente politico: la sicurezza e la potenza di cia­ scuno stato nei suoi rapporti con gli altri, la salvaguardia dell’ordine pubblico e dei rapporti di potere sociale nella società domestica. E la sua dedizione a questi interessi (insieme ad altri aspetti come il frequente ricorso al sapere giuridico) che 79

conferisce allo stato una legittimità di tipo razionale. Lo stato è costituito e funziona sempre più come una mac­ china. Persegue interessi di natura generale e secolare, in misura crescente attraverso processi pubblici: la legisla­ zione, il reclutamento del personale burocratico per con­ corso, il suo avanzamento lungo linee di carriera gerarchi­ che, il divieto di perseguire interessi privati nelle attività ufficiali, il passaggio di risorse dal sistema economico a quello politico-amministrativo tramite tassazione, e così via. Nel corso del suo sviluppo, lo stato acquisisce nuove caratteristiche, daccapo originariamente occidentali: si dà una costituzione; proclama di riconoscere la propria base costituente e il depositario originario della propria sovra­ nità in un’entità sociale e culturale assai vasta, la nazione; coinvolge nelle proprie attività militari una porzione sem­ pre più ampia della popolazione; permette la formazione di una sfera pubblica e di una rappresentanza politica, e tramite questa riceve input relativi alle proprie politiche; assegna gli uffici politici più alti a un partito che, in con­ correnza con gli altri, consegue una maggioranza dei suf­ fragi, ma deve esporsi alle critiche dell’opposizione e met­ tere periodicamente in forse la sua posizione di vantaggio; conferisce ai cittadini diritti di vario genere e contenuto; si impegna nella gestione di affari sempre più vari e nella regolamentazione di attività sociali molteplici, tramite ul­ teriori ramificazioni del proprio apparato, che operano in base a saperi sempre più differenziati e scientificamente fondati. Questi processi, peraltro, non sempre producono ef­ fetti positivi: interferiscono in maggiore o minore misura, nel nome di una razionalità politica e amministrativa, con la razionalità economica propria del mercato; appesantiscono la macchina statale, rendendone più costoso e meno efficiente il funzionamento; rendono meno rilevanti e de­ cisivi, nella formazione ed esecuzione delle politiche pub­ bliche, interessi espressamente politici, soppiantati dagli interessi dei vari corpi burocratici. Questi appaiono meno disposti all’innovazione e impegnati nella ricerca dell’ef­ ficienza e della razionalità, e più attaccati ai propri privi­ legi, di quanto previsto dal progetto originario. I funzio­ nari amministrativi non sono sempre solerti ed efficaci nel 80

perseguimento dei fini assegnati loro dal personale poli­ tico. Domina nel loro operare una mentalità «burocratica» nel senso comune della parola. I funzionari, cioè, troppo spesso agiscono tardivamente, lentamente, usano la loro conoscenza professionale della legislazione, dei regola­ menti, delle condizioni di fatto su cui dovrebbe incidere la loro attività, per accrescere la propria discrezionalità, pro­ teggendola da organi politici e giurisdizionali che dovreb­ bero invece limitarla e controllarla. Questi fenomeni, a giudizio di Weber, non sono tali da negare la superiorità intrinseca della forma statuale di gestione del dominio politico, ma lo preoccupano. Moda­ lità burocratiche di amministrazione vanno imponendosi, nel mondo moderno, ben al di là della stessa sfera poli­ tica: nell’organizzazione di imprese, università, ospedali, chiese, sindacati, partiti, mezzi di comunicazione, gruppi sociali diversi. Sempre più il panorama della società mo­ derna è caratterizzato dalla presenza dominante di entità organizzate e gestite burocraticamente, al fine di massi­ mizzare la razionalità, la prevedibilità, l’efficienza del loro funzionamento. Secondo Weber, paradossalmente, i fenomeni in que­ stione, pur avendo avuto origine in Europa, mettono a repentaglio altre preziose particolarità dell’esperienza eu­ ropea, prima fra tutte lo spazio riservato all’autonomia, all’iniziativa, alla responsabilità dell’individuo dalle istitu­ zioni religiose, economiche e politiche occidentali. È anche in vista di ciò che Weber, pur consapevole delle profonde ragioni sociali e culturali che spiegano la crescita dei movi­ menti socialisti, guarda con preoccupazione alla possibilità che essi possano effettivamente collettivizzare le aziende industriali e pianificarne le attività. Riforme di questo ge­ nere negherebbero a quel che resta dell’individualismo occidentale uno dei pochi terreni in cui esso può tuttora affermarsi (per quanto ormai a fatica, vista la crescente managerializzazione delle grandi aziende industriali): il mercato, che sistematicamente registra e premia la capacità degli individui di rischiare, innovare, competere. Qualcosa del genere sta succedendo anche nell’ambito politico. Nel mondo contemporaneo la possibilità che si affermino autentici statisti, autentici professionisti della 81

politica, capaci di progetti di grande respiro, è affidata, a giudizio di Weber, al funzionamento del sistema della rappresentanza, alla pluralità dei partiti, alla loro compe­ tizione nella sfera pubblica, al sostegno che ricevono dal­ l’opinione pubblica. Ma due fenomeni contrastano tale possibilità. In primo luogo anche chi abbia raggiunto i vertici del potere politico, come si è visto, può essere osta­ colato dagli apparati burocratici dello stato. I funzionari, che dovrebbero dedicare la loro professionalità al perse­ guimento degli obiettivi deliberati sotto la propria respon­ sabilità dalla dirigenza politica, e porre al servizio di quegli obiettivi le loro competenze tecniche, spesso se ne servono invece per difendere i propri interessi di casta, il proprio attaccamento al precedente, alla routine, allo status quo. In secondo luogo i partiti dovrebbero servire a sele­ zionare la dirigenza governativa, prima tramite la concor­ renza tra le diverse componenti di ogni singolo partito, poi competendo l’uno con l’altro per acquisire il consenso dell’elettorato, formare la maggioranza parlamentare e l’esecutivo. Ma i partiti sono sempre più controllati a loro volta da apparati di natura burocratica, più interessati al buon funzionamento delle rispettive macchine organizza­ tive e al mantenimento delle proprie posizioni, che all’ef­ fettiva realizzazione di grandi scelte. In questo quadro, reso ancora più preoccupante dal pessimistico giudizio di Weber sugli assetti politici della Germania guglielmina prima e di quella weimariana poi, si spiega forse il tono drammatico ma sostanzialmente vellei­ tario con cui egli auspica l’emergere e l’affermarsi di uno statista dotato di carisma, cioè di una fortissima vocazione espressamente politica e di un ascendente fondato sulle sue doti strettamente personali, sulla capacità di ispirare lealtà, fiducia e dedizione nei suoi seguaci. Solo una per­ sonalità di questo genere può neutralizzare la sorda resi­ stenza che apparati burocratici sia statali sia di partito op­ pongono al personale espressamente politico. In sostanza, Weber guarda con notevole inquietudine alla società moderna. Innanzitutto la tendenza in essa do­ minante (e originariamente espressa dalla civiltà occiden­ tale) alla razionalizzazione di tutti i processi sociali ineso­ rabilmente marginalizza e sacrifica modi diversi di conce­

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pire la realtà e orientarsi in essa; in particolare, come si è visto, modi che fanno appello alla tradizione o alle emo­ zioni. In altre parole, la particolare forma di razionalità ca­ ratteristica dell’Occidente, orientata al controllo degli uo­ mini sulla realtà naturale e sociale, mette in ombra forme alternative, come quella caratteristica della cultura classica cinese, che raccomandava agli individui di tenersi in sinto­ nia con la realtà stessa, di ascoltarne e rispettarne i naturali ritmi e armonie. La modernità lascia tuttora un certo spazio all’indivi­ dualismo, e per la stessa ragione riduce la presa dei legami sociali, l’appello alla fiducia interpersonale, alla solidarietà. In particolare, sia il mercato (che può tuttora premiare at­ teggiamenti e condotte di tipo individualistico), sia le orga­ nizzazioni formali inducono a trattare gli altri come mezzi o come ostacoli nel perseguimento dei propri fini perso­ nali. La tendenza alla gestione burocratica delle attività collettive, per suo conto, minaccia di limitare gli orizzonti conoscitivi e le aspirazioni dei singoli, rendendo ciascuno una minuscola, insignificante, anonima rotellina entro in­ granaggi sempre più vasti e schiaccianti. Si noti che gli aspetti negativi di questa visione della modernità si giustappongono in Weber a un’esplicita con­ sapevolezza dei suoi meriti: lo spazio lasciato all’autono­ mia individuale, la razionalizzazione dei processi sociali, l’incoraggiamento alla scienza. Una volta di più, il suo giu­ dizio complessivo sulla grande vicenda storica moderna si rivela spiccatamente «aperto»: aperto alla molteplicità (e contraddittorietà) dei valori cui può appellarsi il giudizio storico, aperto all’inesorabile contingenza degli sviluppi possibili nel futuro.

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G EO RG SIMMEL

Studioso tedesco di filosofia (1858-1918). La sua produ­ zione investe (in buona parte tramite molteplici saggi) una vasta tematica intellettuale, entro la quale si colloca anche la sociologia, la cui missione scientifica Simmel caratterizza in maniera originale coinè lo studio dei fenomeni storico-sociali sotto il profilo delle forme che assume, nel perseguimento degli interessi più diversi, l’interazione tra soggetti indivi­ duali o collettivi. La sua carriera accademica è lenta perché osteggiata da studiosi più affermati, ma ciò è compensato dal successo che ottiene come pubblicista. Ha spiccati inte­ ressi estetici e una particolare attenzione per la dimensione espressiva dei propri scritti (come delle proprie lezioni). OPERE FONDAMENTALI

1900 1908

Filosofia del denaro, trad. it. Torino, Utet, 1984. Sociologia, trad. it. Milano, Edizioni di Comunità, 1989.

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Possiamo caratterizzare l’immagine degli esseri umani sottesa al pensiero sociologico di Georg Simmel serven­ doci di una frase in cui Kant attribuisce all’essere umano una ungesellige Geselligkeit, una insocievole socievolezza, espressione che trova echi molteplici in Simmel. Nel suo pensiero, gli individui intrecciano sempre relazioni sociali, si trovano sempre in qualche modo e misura coinvolti gli uni con gli altri. Nel farlo, tuttavia, ciascun individuo man­ tiene sempre nei confronti dell’altro una certa distanza, una certa riserva, cerca sempre di acquisire e conservare un quantum di autonomia e indipendenza, una capa­ cità superiore a quella della controparte di determinare il contenuto, la durata, i limiti, l’andamento della relazione. Per quanto forti siano in un soggetto il bisogno dell’altro e l’attaccamento all’altro, questi aspetti sono sempre con­ trobilanciati da un’aspirazione all’autosufficienza, dal de­ siderio di controllare l’altro o quanto meno di ridurre la sua influenza sulla relazione. Ne dipende, per ciascuno, nientedimeno che la possibilità stessa di sentirsi indivi­ duo e comportarsi come tale. Questa possibilità potrebbe essere compromessa da un eccesso di identificazione con l’altro (più precisamente, con un gruppo cui un soggetto appartiene insieme ad altri), di assoggettamento da parte del gruppo. Questa posizione da un lato riflette il senso acuto e persistente che l’intera produzione intellettuale di Simmel (in cui la componente filosofica prevale su quella sociolo­ gica, quanto meno dal punto di vista quantitativo) dimo­ stra per la complessità, l’ambivalenza, la contraddittorietà che pervadono la realtà in tutti i suoi aspetti; dall’altro si esprime, in particolare nei suoi scritti sociologici, nella ten­ denza ad accentuare i contrasti, le tensioni presenti nella realtà sociale, e lo induce a sottolinearne i paradossi. Vediamo alcuni esempi: • Simmel enuncia il tema di un importante excursus su Lo straniero avvertendo che questi non è «il viandante che oggi viene e domani va», bensì «colui che oggi viene e do­ mani rimane»; • suggerisce che il fenomeno della moda è caratteriz­ zato sia dall’aspirazione dell’individuo a differenziarsi da altri «mettendosi alla moda», sia dal fatto che proprio 86

questo lo induce a conformarsi alle preferenze di altri che considera appunto «alla moda»; • Simmel definisce lo scambio - che considera come il comportamento economico per eccellenza (Marx, come abbiamo visto, attribuisce questo ruolo alla produzione) riferendosi non tanto alla volontà dell’individuo di acquisire qualcosa che non ha (in questo si può assimilare lo scam­ bio alla rapina o all’accattonaggio), quanto alla sua dispo­ sizione a rinunziare a qualcosa che ha, anche se, beninteso, nell’intento di derivarne qualche vantaggio; • infine, nella seconda frase del paragrafo di apertura del saggio II contrasto, Simmel caratterizza come parados­ sale «la domanda se la lotta [tra individui o gruppi] sia una forma di associazione»1, e risponde poi positivamente. L’attenzione particolare di Simmel per gli aspetti po­ tenzialmente conflittuali delle relazioni sociali, per la Ungeselligkeit che costantemente accompagna e contrasta la naturale Geselligkeit degli esseri umani, e la sua preferenza per formulazioni (diciamo) «controintuitive» hanno il van­ taggio di conferire una particolare vivacità al suo discorso sociologico, grazie anche a esempi molteplici e talora sor­ prendenti, tratti dai contesti più diversi. Ma la riflessione va ben oltre, e ricomprende gli aspetti suddetti entro una tematica più ampia, relativa a come si costituiscono, sono gestite, si modificano, vengono meno le relazioni sociali, sia quelle che fanno capo a individui, sia quelle che coinvolgono invece gruppi anche vasti o altre entità collettive, come ad esempio interi stati nazio­ nali. L’intuizione fondamentale di Simmel è che le rela­ zioni comportano sempre un «effetto reciproco» (Wechselwirkung)-, quindi la medesima ungesellige Geselligkeit in qualche misura orienta e motiva entrambe le parti di ogni relazione. Ma questo, paradossalmente, non sempre desta­ bilizza la relazione, la svuota e la mette in crisi; può invece indurre le parti a rinegoziarne i termini, ad accentuarne le componenti condivise e capaci di generare mutua soddi­ sfazione, privilegiandole rispetto a quelle conflittuali. Riprendiamo da Simmel un esempio spicciolo. Se due persone si recano insieme a visitare una pinacoteca, è pos­ sibile, anche se c’è tra loro un buon rapporto, che alcune delle loro preferenze estetiche vadano a quadri, autori o 87

temi pittorici spiccatamente diversi. Ciò tuttavia non com­ porta necessariamente che esse si isolino l’una dall’altra nel percorrere le sale della pinacoteca e non possano con­ dividere le loro reazioni estetiche all’esperienza. Se della pinacoteca fanno parte anche quadri, autori o temi a cui entrambe le persone rispondono positivamente, esse pos­ sono godersi insieme l’esperienza, concentrando la loro at­ tenzione su questi aspetti - condivisi - degli stimoli estetici che ricevono. Ma, continuando con l’esempio in questione, può su­ bentrare una seria complicazione. Il felice esito che ab­ biamo prospettato è possibile se la persona A privilegia nel suo apprezzamento estetico gli aspetti x e y, e la persona B gli aspetti y e z. Qui basta, per generare e mantenere una sintonia tra le due parti, che A metta tra parentesi la pro­ pria preferenza per x, e B la propria preferenza per z, e che entrambi perseguano e si comunichino, invece, la sod­ disfazione estetica che ricavano da y. Ma supponiamo che alla visita partecipi, oltre ad A e B, anche C, e che anche quest’ultimo condivida con A e B qualche preferenza, che però nel caso di A sia x, nel caso di B sia z. Questo, os­ serva Simmel, rende impossibile l’unificazione delle rea­ zioni emotive fra le tre persone in questione.1 1. Forma e contenuto Abbiamo evidenziato, qui sopra, le espressioni «due» e «tre» perché aqut està el busillis. La differenza tra le situa­ zioni, per quanto riguarda la probabilità, anzi la possibi­ lità stessa, di una condivisione dell’esperienza tra le parti, deriva dal mero numero. Ora, questa è una proprietà me­ ramente formale della relazione. Formale, anzitutto, nel senso che qualcosa di simile può verificarsi in situazioni concrete assai diverse, in cui più parti provino a coordi­ nare le proprie attività; situazioni che coinvolgono non singole persone ma gruppi magari vasti o addirittura stati nazionali, che riguardano esperienze non di natura estetica ma spiccatamente materiale (economica, militare, ecc.); si­ tuazioni che comportano relazioni non occasionali ma du­ revoli, collocate in contesti storici assai diversi. Formale, 88

inoltre, nel senso che quanto succede (o non succede) nelle relazioni per via del numero delle parti coinvolte non riguarda direttamente gli interessi che esse perseguono nell’awiare e gestire la relazione, e che (nel vocabolario di Simmel) costituiscono il contenuto della relazione stessa. A, B e C non vanno in pinacoteca per essere in tre, ma - Simmel insiste - il semplice fatto di trovarsi nella pina­ coteca in tre, invece che in due (o in quattro, o cinque, o così via) ammette o esclude certe esperienze condivise, incide in qualche misura (positivamente o negativamente) sulTappagamento degli stessi interessi che li hanno con­ dotti a visitare la pinacoteca. La distinzione tra contenuto e forma delle relazioni so­ ciali è importante per Simmel, che se ne avvale per giu­ stificare l’esistenza stessa della sociologia come disciplina autonoma rispetto a molte altre discipline assai più salda­ mente insediate nel contesto accademico tedesco del suo tempo. Anche il diritto e l’economia, ad esempio, studiano eventi e strutture sociali, ed esaminano le relazioni tra in­ dividui o entità collettive proprie del rispettivo ambito; ma le qualificano, classificano, interpretano con riferimento al loro contenuto, cioè agli interessi cui sono orientate, ai bi­ sogni sociali che soddisfano e ai relativi contrasti. Anche la sociologia esamina (tra le altre) relazioni giuridiche ed economiche, ma prendendo in considerazione le forme di­ verse che esse inevitabilmente assumono. Queste possono apparire irrilevanti dal punto di vista strettamente giuri­ dico o economico, ma possono incidere sulla dinamica e sull’esito delle relazioni stesse, ad esempio rendendo più o meno probabile l’insorgere di contrasti. Pensiamo di nuovo al numero delle parti coinvolte in una relazione, cominciando da una relazione a due: una diade, come la chiama Simmel. Come ogni relazione, la diade (che si tratti di una coppia di amici, di due imprese coinvolte in una joint venture o di due stati alleati) ha una complessa dinamica risultante àA f ungesellige Geselligkeit. Perché la diade duri, cioè, deve trovare un equilibrio tra il riconoscimento che ciascuna parte deve agli interessi del­ l’altra e il suo interesse a non lasciarsi privare della pro­ pria autonomia, a non sacrificare troppo di sé, a orientare in misura soddisfacente le attività comuni. Ma la diade, in 89

quanto tale, ha delle particolarità: ad esempio, la sua «inti­ mità», termine che in Simmel designa la tendenza a diven­ tare contenitore e veicolo di emozioni, interessi, intenti che le parti normalmente lasciano fuori da altre relazioni. Ma soprattutto la diade è costitutivamente «fragile», perché la sua continuità e la sua sopravvivenza dipendono total­ mente dal fatto che entrambe le parti abbiano la capacità e la volontà di rimanere nella relazione. (A loro volta, l’inti­ mità e la fragilità della diade la rendono spesso oggetto di speciali attenzioni e ansie da parte dei soggetti coinvolti, che investono in essa aspettative e sentimenti particolar­ mente intensi. Di qui la subitaneità e la radicalità con cui rapporti di coppia, una volta «deteriorati», possono dar luogo a ostilità particolarmente animose.) Immaginiamo, a questo punto, che (magari per tempe­ rare la propria «fragilità») una diade si apra a un nuovo partecipante, o che comunque si costituisca invece una triade. Qui nuovamente si rivela l’ambivalenza delì ’ungesellige Geselligkeit. Da un lato il rapporto originario può risultarne rafforzato, in quanto al legame diretto tra A e B si aggiunge quello indiretto generato dal legame di cia­ scuno con C; l’arrivo di un figlio, ad esempio, può arric­ chire il rapporto di coppia tra i genitori. Ma può anche darsi che questo venga, prima o poi, indebolito e minato da sentimenti di gelosia. Più in generale, in ogni triade YUngeselligkeit può manifestarsi nell’aspirazione di cia­ scuna parte a stabilire una certa superiorità, ad affermare una certa autonomia entro il rapporto servendosi del «terzo» come alleato, cercandone i favori, evitando che si allei invece con l’altra parte, o addirittura prospettando­ gli una secessione da cui nasca una nuova diade, lasciando l’altra parte nelle peste o assegnandole una posizione su­ bordinata. Ma, osserva Simmel, in linea di principio cia­ scun componente della diade può comportarsi a sua volta da terzo, e adottare varie strategie che gli permettano, in quanto terzo, di accrescere a sua volta la propria autono­ mia e il proprio controllo. Simmel specifica i possibili comportamenti del terzo rispetto agli altri due componenti della triade nell’ipotesi che tra essi esista, o si formi, un contrasto. Il terzo com­ ponente può farsi carico di arrestare o moderare il contra­ 90

sto fungendo da mediatore (costituendo un trait d’union tra i due contendenti, facendo conoscere e valutare a ciascuno le lamentele, le richieste, le intenzioni dell’altro e negoziando un accomodamento) o da arbitro (essendo investito dai contendenti della responsabilità di dirimere autoritativamente il contrasto con una propria decisione), ma può anche diventare un tertius gaudens (avvantaggian­ dosi dei contrasti tra gli altri due componenti, ad esempio se questi disperdono in tali contrasti le proprie risorse ed energie, mentre il terzo conserva o aumenta le proprie). Anzi, è possibile che a questo fine il terzo adotti la stra­ tegia del divide et impera, vale a dire crei di proposito (sia pure nascostamente) dei contrasti tra gli altri due com­ ponenti che appunto indeboliscano entrambi, o quanto meno impediscano loro di sfidarlo, ciascuno per proprio conto o congiuntamente. Simmel offre numerosi esempi di tali configurazioni, anche in questo caso traendoli da esperienze sociali a di­ versi livelli, da quello interpersonale (come nel caso di cui si è detto, l’arrivo di un figlio entro una coppia coniugale) a quello dei rapporti tra componenti di uno stesso sistema (la monarchia inglese, ad esempio, fu rafforzata dal logora­ mento reciproco dei grandi casati aristocratici nella guerra delle Due Rose) a quello dei giochi di potere tra stati so­ vrani. Come si accennava sopra, il fatto che la dinamica della triade in quanto tale si manifesti in situazioni così diverse quanto al loro contenuto permette a Simmel di in­ dicare quanto sia significativo sottolineare invece la fon?za delle relazioni in questione. Non possiamo qui riprendere i molteplici argomenti sviluppati da Simmel in favore della sua concezione della sociologia come indagine sugli aspetti form ali dei rap­ porti sociali. Basti richiamare una sola metafora in cui egli esprime chiaramente tale concezione: la sociologia dovrebbe costituire la geometria degli accadimenti sto­ rico-sociali. Le proprietà geometriche del triangolo sono le stesse per i triangoli più diversi, astraendo dal fatto che si tratti concretamente di una fetta di pizza o di un vasto possedimento fondiario; e questo vale per tutte le figure geometriche. Simmel prospetta quindi per la sociologia il compito di identificare e classificare le varie forme che 91

possono assumere i rapporti e i raggruppamenti sociali, indicando le proprietà costitutive e le tendenze di svi­ luppo di ciascuna forma. Elenca vari fenomeni sociali che si presentano sistematicamente, in maniera più o meno scoperta e consapevole, nei contesti sociali più diversi per dimensioni, durata, circostanze storiche: dominio, subordi­ nazione, coesione, divisione del lavoro, scambio, difesa e offesa comuni, comunità religiosa, formazione di partiti, e molti altri. E suggerisce che ciascuno di questi fenomeni abbia una logica propria, presenti uniformità di sviluppo, nel proprio svolgimento metta i partecipanti a confronto con alternative costanti, che è compito della sociologia in­ vestigare e teorizzare. Per suo conto Simmel non affronta quel compito in maniera sistematica (cercheranno di farlo sociologi tede­ schi della generazione successiva come Vierkandt o von Wiese), ma preferisce dimostrarne la possibilità e la rile­ vanza in vari saggi. Due di questi (divenuti in seguito ca­ pitoli della sua Soziologié) sono particolarmente degni di nota - quello già richiamato su La determinatezza quantita­ tiva del gruppo, che ha sempre attirato molta attenzione, e quello invece meno noto su l ’intersezione delle cerehie so­ ciali, di cui diremo più brevemente. Questo secondo saggio, come il titolo stesso suggeri­ sce, utilizza la metafora della geometria come tema della sociologia per analizzare un fenomeno a cui Simmel è in­ teressato ripetutamente e intensamente, considerandolo un aspetto centrale della società e della cultura moderne: la crescente autonomia dell’individuo. Simmel non ritiene che tale fenomeno comporti una vera e propria separa­ tezza e indipendenza dell’individuo rispetto alla società, un’effettiva atomizzazione di quest’ultima. Anche nella so­ cietà moderna la socievolezza rimane costitutiva dell’essere umano; ma questa vi subisce, per così dire, una particolare torsione, che produce momenti e dimensioni nuove e si­ gnificative deH’m-socievolezza. Nel corso del processo di modernizzazione, l’individuo non cessa di appartenere a gruppi, di costituire nelle pro­ prie relazioni cerehie sociali e di muoversi in esse. Quello che cambia, nella modernità, è il modo in cui tali cerehie si posizionano ciascuna rispetto alle altre entro il più am­

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pio spazio sociale. Detto sommariamente: nelle società pre­ moderne, e soprattutto in quelle più remote, l’individuo si trova inserito in una serie di cerehie concentriche. Vale a dire, uno stesso dato fondamentale (tipicamente, la na­ scita) determina l’appartenenza non solo alla famiglia, al più ampio gruppo parentale, al vicinato, ma anche alle cer­ ehie in cui un individuo si troverà a praticare la religione, acquisire un’istruzione, svolgere un’occupazione, trascor­ rere il tempo libero, perseguire interessi politici, insomma rapportarsi alla società più ampia. La socievolezza ha dun­ que espressioni diverse, ma queste vengono esperite, di volta in volta, insieme ad associati diciamo «prevedibili» se non «costanti», e questo rende l’individuo continuamente e coerentemente osservabile, facilmente premiabile o puni­ bile a seconda di come si comporti. Nella società moderna, invece, le appartenenze, senza perdere significato, non si dispongono in maniera coerente e prevedibile, ma si accavallano, si sovrappongono, si at­ traversano casualmente. In questo senso, le cerehie sociali si intersecano, e potenzialmente ogni punto di intersezione tra le varie cerehie è occupato da un individuo diverso, in quanto ciascuno ha un pacchetto di appartenenze che gli è proprio ed esclusivo. Questo perché nella modernità è sempre più concesso al soggetto di scegliere le proprie ap­ partenenze nel passare dalla sfera dei rapporti familiari a quelle della religione, del lavoro, della politica, del tempo libero, dell’esperienza estetica. E dunque sempre più pro­ babile che il soggetto si accosti a, e si integri in, gruppi costituiti di volta in volta da individui diversi; che la po­ sizione gerarchica occupata in un gruppo non sia dettata da quella occupata in un altro. Ciò rende ciascun gruppo relativamente «opaco» rispetto agli altri, impedendo che il soggetto si trovi costantemente esposto all’osservazione degli stessi associati. Ne deriva una certa anonimità, che a sua volta alimenta il senso di autonomia. Tale fenomeno, come si è accennato, è di grande inte­ resse per Simmel, che lo valuta positivamente, per quanto consapevole dei suoi limiti e dei suoi rischi. Qui egli si di­ stanzia da un atteggiamento assai comune tra gli intellet­ tuali e gli studiosi della realtà storico-sociale della Germa­ nia guglielmina: il cosiddetto «pessimismo culturale». Que­ 93

sto rilevava e lamentava aspetti della modernità considerati negativi, quali l’atomizzazione, l’individualismo, il rifiuto della tradizione, il materialismo, il relativismo culturale, l’infatuazione per il progresso. Simmel non dissente com­ pletamente da queste posizioni. La sua tesi di uno «spirito oggettivo» (conoscenze, pratiche organizzative, istituzioni politiche ed economiche) che avanza a un passo insosteni­ bile per la «cultura soggettiva» (la capacità dell’individuo di comprendere, assimilare, valutare questi fenomeni), ad esempio, è una variante della contrapposizione tra Zivilisation (cattivo!) e Kultur (buono!), assai frequente tra i rap­ presentanti del pessimismo culturale. Ma nel complesso Simmel sostiene che la società moderna lascia uno spazio crescente alla realizzazione, all’innevamento di potenzialità intrinseche alla natura umana quali, appunto, l’autonomia individuale, la capacità di sottrarsi alla presa di apparte­ nenze pressanti e soffocanti, di mettere in dubbio la va­ lidità delle conoscenze e delle norme prevalenti. In so­ stanza, nella modernità si afferma nettamente (per quanto in maniera parziale, discontinua, contrastata e non priva di contraddizioni) un valore centrale: la libertà individuale. A questo tema Simmel dedica, oltre a cenni più o meno oc­ casionali in vari altri scritti, un intero, ampio capitolo della Filosofia del denaro. 2. La filosofia del denaro Quest’opera, malgrado il titolo, costituisce un’esem­ plare trattazione sociologica del denaro, considerato (socio­ logicamente, appunto) come istituzione (nel vocabolario simmeliano, derivato da Hegel, come aspetto dello «spi­ rito oggettivo»). Il denaro, in altre parole, è un’espressione fondamentale (che si presenta ripetutamente nella storia, in modi e misure assai diversi a seconda di tempi e luoghi) della capacità dei gruppi sociali di produrre oggetti mate­ riali e ideali (in particolare, sistemi di idee e di regole) me­ diante i quali gestire aspetti diversi del loro rapporto con la natura e con altri gruppi sociali. L’aspetto centrale, nel caso del denaro, è lo scambio, cioè (come si è già detto) il fenomeno intorno a cui ruota l’intera sfera economica. 94

'N ello scambio, ancora una volta, si ripresenta Yungesellige Geselligkeit. Come Adam Smith rileva nelle prime pagine della Ricchezza delle nazioni, attraverso gli scambi individui diversi (il macellaio, il birraio, il fornaio) mettono a nostra disposizione beni e servizi che soddisfano i nostri bisogni; ma nel farlo non sono motivati da benevolenza nei nostri riguardi, bensì dall’intento di soddisfare a loro volta i propri bisogni. Ora, le relazioni di scambio sono rese in­ finitamente più agevoli, efficienti, flessibili, calcolabili nelle loro conseguenze quando, trascendendo il puro rapporto di baratto, diventano tipicamente di compravendita. Qui le relazioni di scambio vengono mediate appunto dal denaro, vale a dire da un oggetto di valore certo, stabile, pubbli­ camente riconosciuto e garantito, che commisura (espres­ sione da prendere letteralmente) l’aspetto vendita/rinunzia con l’aspetto compera/acquisizione, quali ne siano i sog­ getti, gli oggetti, i tempi, i luoghi, le modalità. Oltre che la natura stessa del denaro e questa sua fun­ zione primaria nei processi economici, l’intera Filosofia del denaro analizza le premesse e le conseguenze sociali, poli­ tiche, culturali dell’esistenza del denaro e del modo in cui esso si configura entro diverse situazioni storiche. Il quarto capitolo discute espressamente e diffusamente il rapporto che l’economia monetaria, nella forma particolarmente avanzata ed elaborata che essa prende nella società mo­ derna, ha con la libertà dell’individuo. Questa, come si è detto, non è considerata da Simmel una condizione di to­ tale isolamento e autosufficienza. Consiste, invece, in una particolare configurazione delle relazioni sociali, grazie alla quale esse presuppongono, e a loro volta generano, un rapporto dell’individuo con la realtà sociale che potremmo chiamare dis-impegno: tipicamente, l’individuo moderno non si lascia coinvolgere in relazioni particolarmente as­ sorbenti e coinvolgenti, mantiene una certa distanza (con­ creta o metaforica) tra sé e gli altri, li considera e tratta con loro in maniera oggettiva, con riferimento alle loro qualità astratte. Vediamo alcuni modi in cui il denaro permette o addi­ rittura richiede, o quanto meno facilita, questo particolare rapporto dell’individuo con la realtà. Innanzitutto, rispetto ad altre risorse come la proprietà terriera o determinate 95

qualifiche e capacità di mestiere, il possesso di denaro non «stinge», per così dire, sulla persona, non ne determina strettamente i movimenti e gli atteggiamenti. Detto altri­ menti, il denaro attua appunto, per l’individuo, un rap­ porto dis-impegnato tra il suo avere (Haben) e il suo essere CSein), disincaglia chi lo possiede da determinazioni ingom­ branti e costrittive. Simmel trova un riscontro di questa generalizzazione nella prolungata vicenda storica attraverso cui, nell’Europa della prima modernità, i signori fondiari cessarono di esigere dai propri «rustici» prestazioni in na­ tura e lavoro (la consegna di certe quantità di specifiche derrate, un certo numero di giornate di lavoro obbligatorio e non retribuito) e le convertirono in prestazioni moneta­ rie. In tal modo i dipendenti si trovarono liberi di decidere per proprio conto che cosa coltivare o allevare al fine di acquisire sul mercato le quantità di denaro che dovevano versare al signore a titolo di rendita, censo o affitto. Un effetto comparabile dello spostamento del baricen­ tro dell’economia moderna dalla ricchezza immobiliare a quella mobile è stato recentemente messo in risalto da Albert Hirschman. La prima forma di ricchezza, proprio in quanto immobiliare, è intrinsecamente esposta a es­ sere espropriata, sottratta da un sovrano che, ad esempio, metta al bando il proprietario, reso dunque tendenzial­ mente più vulnerabile, e quindi più arrendevole, dalla mi­ naccia di tale sopruso. La ricchezza mobile - di cui quella monetaria è il prototipo - protegge invece il proprietario da tale minaccia, e per questo il suo progressivo affermarsi può essere considerato un aspetto della moderna costituzionalizzazione dei rapporti politici e della formazione di regimi liberali. Inoltre, secondo Simmel, il denaro in quanto oggetto astratto, la cui funzione risiede interamente nel commisu­ rare, come si è detto, le cose più diverse invece che nel soddisfare direttamente bisogni concreti, si lascia posse­ dere totalmente, si piega senza riserva a chi lo possiede, quindi esprime compiutamente, nell’atto di spenderlo o conservarlo, le intenzioni, le preferenze, gli interessi eco­ nomici del soggetto. Come scrive Simmel,

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si potrebbe costruire una scala di oggetti in base alla misura in cui la volontà può impadronirsi di essi, chiedendoci a partire da quale punto essi le divengono impenetrabili e in quale misura dunque possono veramente essere «posseduti». Il denaro rap­ presenterebbe il gradino estremo di tale scala. In esso quel lato inattingibile, che gli oggetti riservano per così dire a se stessi e che non si piega nemmeno al possesso senza limiti, è compietamente sparito. Manca completamente al denaro quella struttura propria in base alla quale gli altri oggetti, qualificati in modo de­ terminato, si negano alla nostra volontà anche se li possediamo in senso giuridico. Obbedisce facilmente e indifferentemente a qualsiasi forma e a qualsiasi fine che la volontà possa imprimer­ gli [...]. Il denaro si piega a ogni direttiva. Sempre indifferente a qualunque oggetto, a qualunque misura di distribuzione, a qual­ siasi tempo del dare e del conservare. Esso concede così all’Io il modo più deciso e più completo di dispiegarsi in un oggetto2.

L’effetto di «dis-impegno», e quindi di liberazione, che il denaro ha per l’individuo moderno si deve anche allo strettissimo rapporto del denaro col mercato. Simmel scrive a questo proposito che il sentimento soggettivo di libertà poggia sul fatto che chi vive in un’economia avanzata dipende da un numero sempre cre­ scente di persone. Ma il significato di queste per il soggetto è puramente oggettivo, in quanto ogni individuo si coinvolge con altri esclusivamente come portatori di funzioni, proprietari di ca­ pitali, mediatori di bisogni [...]. Da quanti «fornitori» dipende l’uomo nell’economia monetaria! Ma egli è incomparabilmente più indipendente da ogni singolo fornitore determinato e attua facilmente, e quando vuole, i suoi scambi con lui3.

Insomma, quanto più ampia è la rete delle dipendenze dell’individuo, tanto più essa lo dis-impegna rispetto a cia­ scuna particolare dipendenza, e tanto meno lo assoggetta al volere di altri componenti della rete. Anche in questo modo la natura espressamente monetaria della moderna economia di mercato comporta l’affermazione della libertà individuale (ammesso che l’individuo in questione pos­ segga denaro, s’intende; Simmel forse non tiene abbastanza conto del detto biblico homo sine pecunia imago mortis). Inoltre, il denaro è per eccellenza lo strumento e la misura delle scelte dell’individuo, dei suoi comportamenti 97

elettivi, si potrebbe dire. Questo perché, tra l’altro, in li­ nea di principio esso è infinitamente divisibile, e le quan­ tità più o meno grandi di una somma che il proprietario destina agli acquisti o agli impieghi più vari rispecchiano precisamente la posizione relativa che egli attribuisce a cia­ scuno di essi nell’ordine delle proprie preferenze. Ancora: il denaro può rappresentare, trasportare e trasmettere in maniera assai compendiosa una quantità anche enorme di valore economico. Questo vale se si confrontano tutti i tipi di denaro con i beni materiali ai quali fanno riferi­ mento; ma vale anche per la cartamoneta se confrontata con il denaro metallico, e ancora di più per altri strumenti monetari, tra cui quelli noti a Simmel, come la cambiale o il titolo azionario o obbligazionario, o quelli successivi, come la carta di credito o il «denaro elettronico» dei no­ stri giorni, veicolato dai computer e dai satelliti. In questa successione di veicoli monetari sempre più veloci e smaterializzati si rivela sempre più chiaramente la natura intrinsecamente «simbolica» del denaro stesso. In tutte le sue forme il denaro vale non tanto per la sua so­ stanza materiale, la sua diretta attinenza ai bisogni, quanto per la sua capacità di rappresentare, ordinare e confron­ tare dal punto di vista quantitativo un’infinita varietà di beni e servizi, facilitandone lo scambio, la produzione, l’accumulazione. Simmel segnala che, per svolgere in modo efficiente e affidabile questa sua funzione, il denaro deve rispondere a due requisiti. In primo luogo deve costituire una misura certa e stabile dei valori economici; solo a questa condi­ zione può operare come «motore immobile» del processo economico. In secondo luogo deve fare affidamento sulla fiducia che tutti gli accordano, accettandolo come veicolo e misura dei valori economici: «Deve esserci la fiducia che il denaro, che ora si accetta, possa venire speso in seguito con lo stesso valore»4. Si potrebbe dire che, essendo vissuto in una fase della storia economica europea che non conosceva fenomeni di forte inflazione, Simmel non abbia intravisto il rapporto tra questi due requisiti. È però consapevole che essi, a loro volta, presuppongono una garanzia pubblica, giuridica del valore del denaro, quindi della sua «accettabilità generale» 98

come mezzo di pagamento, e che questa garanzia, nel con­ testo della modernità, non può provenire che dallo stato. Il passo della Filosofia del denaro da cui abbiamo ri­ preso la breve citazione precedente prosegue con una pro­ posizione di carattere del tutto generale: La società si disintegrerebbe in assenza di fiducia tra gli uo­ mini - sono pochissimi i rapporti che si fondano realmente su ciò che uno sa in maniera verificabile dell’altro, pochissimi dure­ rebbero oltre un certo tempo, se la fiducia non fosse così forte o talora anche più forte di verifiche logiche e anche oculari5.

È pensabile che questa frase ricordi al lettore quella ripresa nel precedente capitolo su Durkheim da Le forme elementari della vita religiosa. Rileggiamola: «Si lasci che l’idea di società si estingua negli spiriti individuali, che le credenze, le tradizioni, le aspirazioni della collettività ces­ sino di essere sentite e condivise dai singoli, e la società morirà». Fino a che punto è giusto assimilare l’una all’altra queste due citazioni? Alcune concordanze sono ovvie. Ma ci sono anche dif­ ferenze che vale la pena osservare, perché segnalano diver­ genze sostanziali tra i due autori. (Si noti che Durkheim e Simmel non erano semplicemente contemporanei, ma ciascuno sapeva della produzione sociologica dell’altro.) Innanzitutto c’è una notevole differenza tra le due espres­ sione linguistiche, «morire» in Durkheim e «disintegrarsi» in Simmel. La prima suggerisce una concezione della so­ cietà come entità organica, capace appunto di vivere e mo­ rire; la seconda, semmai, ci fa pensare alla società come a una costruzione, magari un edificio. C’è inoltre una differenza della stessa natura tra «la collettività» di Durkheim e «gli uomini» di Simmel. La prima esprime una concezione, come si suole dire, distica dell’oggetto della sociologia, la seconda una concezione invece individualistica. Sul piano metodologico, inoltre, ci vengono suggerite rispettivamente quella che si potrebbe chiamare una visione catascopica (dall’alto in basso) del processo sociale, e una prospettiva invece anascopica, dal basso in alto. Coerentemente con questo, le proposizioni affermano che la persistenza nel tempo della società di­ 99

pende da due condizioni assai diverse: in Durkheim, che la collettività continui a fare proprio, a identificarsi con un insieme unitario di idee e norme; in Simmel, che gli indi­ vidui continuino a intrecciare relazioni sostenute, per così dire, dall’affidamento che gli uni fanno sul comportamento degli altri. Un passo della Filosofia del denaro che precede di po­ che pagine quello appena citato esprime chiaramente la concezione simmeliana della società, in cui le differenze accennate trovano espressione: Lo scambio dei prodotti del lavoro o di ciò che si possiede [...] è senza dubbio una delle forme più pure e più primitive di socializzazione umana, ma non nel senso che la «società» esista già in forma perfetta e quindi si addivenga allo scambio all’in­ terno di essa; al contrario, lo scambio stesso è una delle funzioni che creano dalla semplice vicinanza degli individui un legame interno - appunto, la società. La società non è infatti un’unità assoluta che deve preesistere, affinché i singoli rapporti dei suoi membri [...] si possano formare col suo sostegno e nella sua cornice. La società non è che la sintesi o il termine generale per indicare l’insieme di questi rapporti di interazione particolari6.

Il rapporto di dis-impegno - ma potremmo dire di distacco, distanza - dell’individuo moderno rispetto alle sue controparti nelle relazioni sociali, anzi rispetto al complesso delle relazioni stesse, ha un correlato più am­ pio. Il medesimo rapporto si rivela nel contrasto sempre più chiaro, nella modernità, tra l’insieme delle esperienze soggettive, da una parte, e l’oggettività sempre più chia­ ramente riconosciuta alla realtà, dall’altra. Come scrive lo stesso Simmel, il mondo spirituale dell’antichità classica si differenzia dall’età moderna principalmente per il fatto che quest’ultima ha da un lato portato alla forma più profonda e radicale il concetto del­ l’Io - processo che è culminato nella grande rilevanza, ignota all’antichità, che ha assunto il problema della libertà -, dall’al­ tro alla autonomia e alla forza del concetto di oggetto, quale è espresso nella concezione della inviolabilità delle leggi naturali7.

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Ma non si tratta, qui, di una divergenza puramente intellettuale. Nel corso della modernizzazione il contrasto in questione ha preso forma anche in dimensioni concrete dell’esistenza quotidiana: Da un lato la legalità della natura, l’ordinamento oggettivo delle cose, la necessità oggettiva del divenire si presenta in modo sempre più chiaro ed esatto; dall’altro l’accentuazione dell’indi­ vidualità indipendente, della libertà personale, dell’«essere-persé» [Yùrsichsein] nei confronti di tutte le forze esterne e naturali diventa sempre più forte e decisa8.

Simmel attribuisce vari tratti caratteristici della menta­ lità moderna alla posizione centrale che occupano in essa la sfera economica e in particolare il meccanismo mone­ tario. Innanzitutto l’intellettualizzazione dell’esistenza, che si accorda con (ed è in qualche misura imposta da) il fatto che il denaro è per sua natura una realtà strumentale, in quanto il suo possesso e il suo uso non sono immediata­ mente fonte di gratificazioni concrete, ma piuttosto per­ mettono l’accesso a esse. Come tale il denaro esige in chi lo possiede una disposizione a considerare e comparare suoi usi alternativi, e a immetterlo in lunghe catene di rap­ porti tra fini e mezzi. Inoltre «la crescita delle facoltà intel­ lettuali e lo sviluppo della capacità di astrazione caratteriz­ zano l’epoca in cui il denaro diventa sempre più simbolo e sempre più indifferente al proprio valore intrinseco»9. Infine si può associare al denaro la tendenza moderna ad accentuare gli aspetti quantitativi della realtà, la dispo­ sizione a calcolare, a «tener conto» nel senso originario dell’espressione. Questa tendenza si rivela tra l’altro nel­ l’accento posto su misure minute e precise: Mi sembra che questa essenza dell’età moderna, fatta di mi­ sure, di pesi, di conti esatti [...] abbia uno stretto collegamento causale con l’economia monetaria. Il denaro induce di per sé la necessità di continue operazioni matematiche nella vita quoti­ diana [...]. Data l’essenza calcolatrice del denaro, nel rapporto degli elementi della vita si è affermata una precisione, una cer­ tezza nella determinazione delle uguaglianze e delle disugua­ glianze, un’inequivocabilità negli accordi e nelle intese pari a

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quella che, su un piano esteriore, risulta dalla diffusione univer­ sale degli orologi da tasca10.

Secondo Simmel questo accento sulla quantità trova conferma in molteplici aspetti delle istituzioni moderne, ad esempio nel ricorso a maggioranze per raggiungere de­ cisioni contrastate, o nel principio utilitaristico della «mag­ giore felicità del più grande numero». 3. La tragedia della cultura Un ulteriore aspetto della modernità in cui si rispec­ chia la particolare mobilità del denaro, la rapidità con cui esso può spostare e trasmettere valori economici, è l’acce­ lerazione dei tempi dell’esistenza contemporanea, in cui vengono frequentemente richieste decisioni rapide e la loro pronta esecuzione, e individui e gruppi devono te­ nersi disponibili per veloci movimenti nello spazio. Infine, la centralità dell’esperienza economica e del denaro si rivela nella tempra materialistica e utilitaristica della società moderna. Nel segnalare questo aspetto Sim­ mel introduce una nota critica nella sua valutazione de­ gli sviluppi sociali e culturali propri della modernità. Ad esempio: «L a totale inesorabilità del denaro si rispecchia nel tipo di cultura sociale che esso determina»11; oppure: è proprio delle transazioni monetarie che ne risulti «una barriera interna tra gli uomini, che tuttavia è la sola a ren­ dere possibile la moderna forma di vita»12. Se, come si è detto sopra, Simmel non condivide il «pessimismo culturale» di molti studiosi e osservatori suoi contemporanei (tra cui alcuni sociologi), possiamo vedere in questi ultimi giudizi un’altra espressione della sua par­ ticolare sensibilità per le complessità e le ambivalenze di tutte le situazioni storico-sociali. Proprio per questo, al­ l’idea che tendenze e potenzialità dell’umana specie tro­ vino espressione più piena e aperta nella modernità che in epoche precedenti, si accompagna un’inquietudine che, secondo alcuni commentatori, si fa più acuta negli scritti più tardi, filosofici e sociologici, di Simmel. La modernità accentua il pericolo che gli individui e i gruppi non si rico­ 102

noscano nelle realtà stesse che creano e in cui si muovono; che smarriscano la capacità di controllarle, di metterle e tenerle al proprio servizio. Per dirla con il vocabolario he­ geliano e marxiano: secondo Simmel nella società moderna il fenomeno dell 'alienazione è particolarmente presente e pressante. Questa inquietudine si manifesta in maniera partico­ larmente intensa nel titolo di uno scritto tardo di Simmel: Il concetto e la tragedia della cultura. Ma già uno scritto precedente e molto famoso, un contributo fondamentale alla sociologia urbana, La grande città e la vita mentale (1904), senza ricorrere all’immagine inquietante della tra­ gedia, vede nella metropoli contemporanea (che Simmel conosceva e ammirava nella sua incarnazione più recente e vistosa, la Berlino fin de siècle) sia una grande conquista delle modernità, sia una dimostrazione lampante delle con­ traddizioni e dei pericoli che le sono propri. Riassumiamo alcuni passi di questo argomento. Una metropoli è tale laddove un massiccio insedia­ mento urbano diventa la sede privilegiata di una grande e crescente varietà di gruppi sociali, forme culturali, strut­ ture architettoniche, risorse tecnologiche. In quanto tale, la metropoli offre a chi ci vive molteplici e sempre mutevoli occasioni di sperimentare nuove e diverse espressioni dell’esistenza quotidiana, della socialità, della creatività intellettuale, del divertimento, del gusto estetico, del sa­ pere e della varietà di opinioni. E il luogo per eccellenza della sperimentazione, della sfida a modalità tradizionali, convenzionali, consolidate di vivere, muoversi, giudicare e valutare se stessi, i propri simili, la società, le autorità co­ stituite e le loro politiche. Per la stessa ragione, tuttavia, chi vive nella metropoli è inevitabilmente esposto al rischio di venire eccessivamente eccitato e tentato da tutti questi stimoli, sovraccaricato dalla necessità di tenersi informato, formarsi un’opinione, compiere scelte, prendere posizioni, fare i conti con tanta gente, tante cose, novità, opportunità, occasioni, tentazioni. Lo soccorrono, nel tenere a bada questo rischio, alcune tecniche e pratiche proprie dello stesso ambiente metropolitano: i moderni mezzi d’infor­ mazione (principalmente, ai tempi di Simmel, i quotidiani), luoghi (come i grandi magazzini) dove può confrontarsi 103

agevolmente con molteplici merci offerte per soddisfare i più diversi bisogni, mezzi di trasporto che assicurano ra­ pida mobilità e quindi facile accesso a parti diverse della metropoli stessa, e così via. L’individuo può inoltre giovarsi delle strutture tipiche della socialità urbana: cerehie sociali molteplici che, come si è visto, sono reciprocamente opache e proteggono dal­ l’osservazione assidua e invadente degli altri; relazioni inte­ rindividuali che garantiscono un massimo di dis-impegno, essendo di natura contrattuale, vale a dire poste in essere per iniziativa dell’individuo stesso, che può riferirle a bi­ sogni e contingenze differenziati e mutevoli, calcolarne i costi, deciderne le modalità e i tempi; posture e atteggia­ menti che permettono agli individui di tenersi in disparte, proteggere la propria riservatezza negli spazi pubblici, per affollati che siano; infine il denaro stesso, per le caratteri­ stiche già indicate. Ma il ricorso sistematico a queste strutture e modalità dell’esistenza non può evitare, in molti casi, che l’indivi­ duo si senta schiacciato e oppresso dalla sproporzione tra la pienezza oggettiva del progresso tecnico, delle occasioni di comodità, piacere, curiosità proprie della grande città contemporanea da una parte, e dall’altra le proprie esi­ genze di riconoscimento personale, intensità emotiva dei rapporti, assimilazione e non soltanto «assaggio» di nuove esperienze. Le relazioni tipiche di cui si è detto gli servono a tenersi dis-impegnato, ma hanno per lo più una com­ ponente di diffidenza, di antagonismo, che rende sempre meno facile, per l’individuo, suscitare fiducia negli altri e a sua volta investirla in loro. Più in generale, chi vive nella metropoli è spesso co­ stretto a un atteggiamento che Simmel chiama blasé. Im­ para cioè a ridurre le proprie reazioni agli stimoli, a ri­ fiutare di dichiararsi e sentirsi particolarmente divertito, eccitato, coinvolto, sorpreso da ciò che accade intorno a lui. Ma a sua volta tale atteggiamento scolorisce la sua percezione della realtà, alimenta un senso di indifferenza verso la sua ricchezza di particolari e mutazioni, e a lungo andare lo rende incapace di attribuire valore alle proprie stesse esperienze, di viverle intensamente, autenticamente. 104

Simmel caratterizza questo fenomeno mettendo in con­ trasto l'atrofia della cultura individuale con Yipertrofia della cultura oggettiva tipiche della grande città. Ma il contra­ sto trova eco in una visione più generale della modernità stessa o addirittura dell’esperienza sociale in quanto tale. Questa visione, si è detto, costituisce una variante della tesi secondo cui l’essere umano è condannato a esperire l’alienazione, cioè a muoversi in un mondo di cui è autore, ma di cui non si percepisce ed esperisce come tale, e nel quale si sente smarrito. Infine, proprio nell’analisi simmeliana del denaro è possibile rintracciare un ulteriore, inconfondibile feno­ meno di alienazione. In quanto oggetto astratto, incapace di soddisfare immediatamente bisogni concreti ma partico­ larmente atto a mediare il loro appagamento, il denaro si presenta come lo strumento per eccellenza. Tuttavia, para­ dossalmente, il denaro tende invece a diventare per l’indi­ viduo, e in particolare per l’individuo moderno, un fine a se stesso, che in quanto tale stimola un desiderio insazia­ bile e una ricerca instancabile.

NOTE AL CAPITOLO QUARTO

1 Georg Simmel, Kontrast, in Soziologie. Untersuchungen ùber die Pormeli der Vergesellschaftung, Leipzig, Duncker & Humblot, 1908; trad. it. Il contrasto , in Sociologia, Milano, Edizioni di Comunità, 1989, p. 213. 2 ld., Philosophie des Geldes (1900), Berlin, Duncker & Humblot, 1977, pp. 348-349; trad. it. Filosofia del denaro, Torino, Utet, 1984, pp. 465-466. 3 Ibidem , pp. 313-314 (trad. it. pp. 428-429). 4 Ibidem , p. 164 (trad. it. p. 263). 5 Ibidem , pp. 164-165 (trad. it. pp. 263-264). 6 Ibidem , p. 160 (trad. it. p. 258). 7 Ibidem , p. 9 (trad. it. p. 100). 8 Ibidem , p. 320 (trad. it. p. 435). 9 Ibidem , p. 128 (trad. it. p. 226). 10 Ibidem , pp. 499-500 (trad. it. pp. 628-629). 11 Ibidem , p. 376 (trad. it. p. 494). 12 Ibidem , p. 542 (trad. it. p. 672).

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GEO RG E HERBERT MEAD

Filosofo statunitense (1863-1931). Pubblicamente im­ pegnato nella promozione di politiche progressiste in campo educativo e municipale, e figura di spicco del pragmati­ smo, dedica ampia parte della propria attività di insegnante (presso l’Università di Chicago) alla psicologia sociale, in­ fluenzando la formazione anche di molti studenti di socio­ logia. Mead prende le mosse dall’enfasi sperimentale del comportamentismo psicologico, cui dà un’interpretazione spiccatamente «mentalista», caratteristica dell’orientamento successivamente chiamato «interazionismo simbolico». OPERE FONDAMENTALI

1932 1934

La filosofia del presente, trad. it. Napoli, Guida, 1986. Mente, Sé e società. Dal punto di vista di uno psicologo comportamentista, trad. it. Firenze, Giunti-Barbera, 1972.

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Le ricerche di George Herbert Mead scaturiscono da alcuni interrogativi filosofici tradizionalmente confinati ne­ gli ambiti antropologico (l’origine della consapevolezza di sé, la differenza tra la specie umana e gli altri animali) ed epistemologico (il rapporto soggetto-oggetto, la possibilità di conoscere la realtà esterna). Nel corso delle sue ricer­ che, affrontando questo tipo di problemi, Mead si è gra­ dualmente convinto che essi potessero ricevere una rispo­ sta soddisfacente soltanto all’interno di una visione degli «individui» umani che ne accentuasse fortemente la natura intrinsecamente sociale. Quasi tutte le successive riflessioni di Mead ruotano intorno a una tesi semplice, ma piuttosto radicale: per essere se stesse, le persone hanno bisogno di essere pienamente socializzate. Gli individui non pre-esistono alla società; i desideri, le capacità e le caratteristiche individuali non sono precedenti o indipendenti dalla vita sociale. Essere immersi in sistemi di relazioni sociali - con­ dividere con altri determinati modi di sentire, pensare, agire - non rappresenta un rischio per la nostra libertà per­ sonale, bensì, al contrario, la condizione del suo esercizio.1 1. La consapevolezza di sé Punto di partenza delle riflessioni di Mead sono la na­ tura e la genesi della consapevolezza di sé. A suo avviso, gli esseri umani si distinguono dagli altri animali principal­ mente per la capacità di osservarsi dall’esterno, di conside­ rarsi non soltanto come soggetti, ma anche come oggetti della propria azione. Gli esseri umani sono in grado di ri­ flettere su se stessi, per poi intervenire su ciò che fanno e persino su ciò che vogliono. Questa capacità - che con­ ferisce alla specie umana notevoli flessibilità e autonomia rispetto all’ambiente naturale - è considerata da Mead come una discontinuità evolutiva paragonabile a quella tra oggetti e organismi. Tale consapevolezza di sé, tuttavia, è un fenomeno in­ costante e relativamente raro: gli umani, dopotutto, tra­ scorrono regolarmente una frazione della loro giornata dor­ mendo. Anche durante la veglia ampia parte dei molteplici processi fisiologici, psichici e sociali avviene al di fuori (e 108

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al di sotto) della nostra sfera di attenzione. Mead sottolinea inoltre che questo è vero anche per quei processi che po­ trebbero essere oggetto di consapevolezza: gran parte della vita umana trascorre in un flusso continuo e non necessa­ riamente avvertito di attività ed eventi conosciuti e dati per scontati, una serie di percezioni e comportamenti sempre coniugati al presente. All’interno di questo flusso, la consa­ pevolezza di sé e l’atteggiamento riflessivo sono poco rile­ vanti, anzi in alcuni casi - si pensi all’attività sportiva o al virtuosismo musicale - risultano persino di ostacolo. Quando e perché, invece, la consapevolezza di sé di­ venta un fenomeno cruciale, tale da definire un piano ra­ dicalmente diverso dell’esperienza? Sin quando l’ambiente calza come un guanto, non siamo consapevoli di agire. Lo diveniamo quando, per qualunque motivo, il flusso del­ l’esperienza viene invece perturbato, quando il legame tra l’agire e l’ambiente non è più scontato. Travolti dall’acqua diveniamo consapevoli del nostro respiro, un’interruzione stradale ci fa pensare a dove vogliamo andare, la difficoltà a entrare in un paio di pantaloni ci comunica che siamo ingrassati e ci fa chiedere se non sia il caso di intrapren­ dere una dieta. Queste perturbazioni attivano processi mentali: ci si focalizza su ciò che sta succedendo, ci si chiede se ciò che si percepisce sia effettivamente ciò che succede, ci si in­ terroga sul significato di ciò che si osserva e sulla possi­ bilità di una sua interpretazione più adeguata. Per Mead, quindi, la consapevolezza non è una proprietà stabile dell’agire, bensì una forma del processo attraverso cui gli esseri umani reagiscono all’imprevisto e gestiscono le per­ turbazioni nel loro rapporto con l’ambiente. Partecipare a tale processo vuol dire trovarsi in condizione di appren­ dere qualcosa, su noi stessi, sugli altri, sulla natura esterna. Ma che cosa determina queste perturbazioni nel flusso della coscienza? Si dice spesso, a questo proposito, che gli individui reagiscono a quello che succede nel loro am­ biente. Gli stimoli esterni attivano un processo che, in modo più o meno diretto o trasparente, conduce a deter­ minate risposte. Mead pensa che questo modo di vedere sia sbagliato. Senza negare l’esistenza di eventi esterni, egli sottolinea che tali eventi diventano «stimoli» a un compor­ 109

tamento solo attraverso un processo di percezione e inter­ pretazione da parte dell’organismo. Nel caso di molti ani­ mali, questo processo interpretativo avviene sulla base di schemi percettivi trasmessi geneticamente, che sono quindi comuni all’intera specie e consentono un’elevata prevedi­ bilità del comportamento. Nel caso degli esseri umani, in­ vece, il processo prevede una maggiore capacità di selezio­ nare e interpretare gli eventi esterni, convertendone alcuni in stimolo all’azione e al tempo stesso ignorandone altri. La componente interpretativa trasmessa geneticamente è relativamente limitata, mentre un ruolo importante è svolto da prospettive particolari e schemi interpretativi ba­ sati sull’apprendimento, quindi altamente variabili. Si prenda ad esempio il caso di chi dice che Gianni ha dato un pugno a Pinotto perché il primo gli aveva pestato un piede. Pur essendo diffuse, queste spiegazioni sono, se­ condo Mead, insoddisfacenti. In alcune situazioni, assorto in quello che stava facendo, Gianni non si sarebbe nem­ meno accorto dell’azione di Pinotto. In altre, convinto dell’involontarietà dell’atto, Gianni avrebbe reagito amiche­ volmente e magari da questa interazione casuale sarebbe nata una grande amicizia. In altre ancora, Gianni avrebbe fatto finta di niente per paura delle ritorsioni di Pinotto. In una società di antico regime, il significato dell’azione di Pinotto (e di Gianni) sarebbe stato molto diverso a se­ conda delle reciproche posizioni di rango. Nel caso degli organismi complessi, in altre parole, non si tratta di individuare semplicemente una specifica relazione tra un determinato evento e una determinata in­ terpretazione. Gli organismi complessi si trovano frequen­ temente a interpretare lo stesso stimolo in termini forte­ mente diversi, talora anche contemporaneamente, come il bambino attratto dalla bellezza della fiamma e allo stesso tempo timoroso di bruciarsi. Quale impulso seguirà quello specifico bambino in quello specifico momento? Quello che gli fa vedere la candela come un pericolo o quello che gliela fa interpretare come un giocattolo? Nessuno può dirlo con esattezza, ed è proprio questa imprevedibilità a marcare e distinguere in modo particolare l’esperienza umana. Se la stessa situazione viene vista dal punto di vista del bambino, inoltre, ci si accorge che questo contrasto fra 110

due interpretazioni produce anch’esso una perturbazione nel flusso dell’esperienza: il bambino, incapace di seguire con fluidità una condotta d’azione, resta bloccato in un conflitto fra tendenze diverse. Questa perturbazione in­ terna produce gli stessi effetti di quelle che hanno origine nell’ambiente esterno: l’organismo è costretto a tematizzare ciò che succede, a riflettere. Per gli esseri umani, esiste un ambiente interno tanto quanto un ambiente esterno. Gli esiti dei processi riflessivi non sono dati in anti­ cipo. Mead rifiuta l’idea che esista un’interpretazione na­ turale o «giusta» di uno stimolo, che vi sia una linea di condotta che ogni essere umano, se solo avesse tutte le informazioni necessarie e le capacità di calcolo adeguate, finirebbe per scegliere. La pluralità dei significati è un dato di fatto: gli oggetti esistono simultaneamente in una molteplicità di prospettive, ognuna delle quali può con­ ferire significati diversi allo stesso oggetto o evento. Nel­ l’universo, secondo Mead, ogni cosa può essere molte cose allo stesso tempo. A differenza delle altre specie animali, gli esseri umani sono consapevoli di tale molteplicità, che rappresenta un’esperienza frequente e diffusa per tutti gli individui. I meccanismi di selezione tra le prospettive in­ terpretative possibili, inoltre, non sono radicati nella co­ stituzione genetica degli umani. Essi vivono quindi in un mondo dove il significato è fluido e dinamico, e dove le perturbazioni nelle condotte d’azione possono implicare un cambiamento nei comportamenti, ma anche un cam­ biamento nei significati loro attribuiti. Alla base di questa straordinaria capacità di intuire la parzialità delle prospettive incorporate nelle proprie per­ cezioni e intervenire attivamente sui propri punti di vista, sui significati attribuiti agli oggetti e sull’interpretazione degli eventi, è l’attitudine umana a distanziarsi da se stessi, oggettivarsi, guardarsi dall’esterno. Gli esseri umani possono osservare il proprio comportamento come se fosse quello di un altro, possono chiedersi se per caso una linea d’azione diversa potrebbe essere migliore di quella intrapresa. Possono, soprattutto, esercitare un’interpre­ tazione selettiva non soltanto verso gli eventi esterni, ma anche verso quelli interni, che hanno origine nel proprio organismo. I li

Il precipitato di queste esperienze ripetute, la capacità di distanziarsi dalle proprie percezioni, di tematizzarle in modo diverso, di cambiare frequentemente la prospettiva da cui si osserva il proprio mondo è ciò che secondo Mead caratterizza la vita mentale. Ne fa parte la capacità di ge­ stire contemporaneamente una pluralità di prospettive, di essere allo stesso tempo coscienti - inseriti nella prospet­ tiva del corso d’azione in cui si è immersi, con un certo grado di controllo su esso - e auto-coscienti, consapevoli cioè che tale prospettiva è solo una tra le altre. Al centro della vita mentale è la partecipazione a un processo riflessivo rappresentato da una dinamica sociale. Riflettere vuol dire estraniarsi da se stessi, assumere la ca­ pacità di guardarsi dal punto di vista di un altro parteci­ pante all’interazione, rispondere alle nostre azioni come se fossero azioni di un altro. La riflessività è un’interazione tra un Sé che opera come soggetto, che mira a una rico­ struzione critica della situazione (Mead lo chiama spesso, ma non sempre, I, cioè «io») e un Sé rilevante in quanto oggetto della riflessione, dato di fatto (Mead lo chiama spesso, ma non sempre, Me, «me»). Non si tratta di due «organi» nel nostro cervello o di due «personaggi» di un dramma immaginario: si tratta piuttosto di due dimen­ sioni funzionali di un processo continuo di gestione e in­ terpretazione delle relazioni col proprio ambiente interno ed esterno. Tale dinamica interna all’individuo contiene gli stessi margini di imprevedibilità che Mead ritrova nel­ l’interazione tra individui distinti: gli esseri umani spesso ammettono di sentirsi sorpresi delle loro stesse reazioni. Quello che conta, a questo proposito, è che la risposta dell’attore alle sue stesse azioni oggettivate, la relazione tra I e Me, non è secondo Mead di natura diversa da quella che lega due individui che interagiscono tra loro. Al con­ trario, come si vedrà, lo sviluppo di queste capacità rifles­ sive interne richiede l’esperienza continua dell’interazione sociale con altri individui: è nell’esperienza del confronto con l’altro che, secondo Mead, gli esseri umani acquisi­ scono la capacità di operare contemporaneamente come I e come Me. La coscienza di sé, il conferimento di significati agli eventi esterni, la capacità di attribuire una determinata ri­ 112

levanza a ciò che accade, di darsi degli obiettivi e perse­ guirli, la possibilità di riflettere sui propri comportamenti rappresentano i processi centrali della vita mentale. Come si è già visto, tali processi non sono regolati da meccani­ smi di tipo genetico o ambientale. E anzi la costituzione organica della specie umana a rendere la vita mentale degli individui piuttosto indeterminata nei suoi contenuti e im­ prevedibile nelle sue dinamiche concrete. 2. Mente, comunicazione, evoluzione Questo, tuttavia, non comporta che tale vita mentale sia meramente idiosincratica o solipsistica, che gli esseri umani vivano all’interno di un proprio mondo privato. Al contrario, Mead insiste in tutta la sua opera sulla necessità di uno stretto coordinamento tra gli individui che parte­ cipano a un ambiente comune. Più esplicitamente, sottolinea che gli individui hanno bisogno di uno stretto coor­ dinamento sociale non solo per gestire l’ambiente esterno, ma anche per mantenere un certo grado di ordine nella propria vita mentale. In termini forse ancora più radicali, Mead sostiene che specie e individuo, mente e gruppo sociale evolvono insieme, si rendono reciprocamente pos­ sibili. Gli esseri umani possono sembrare indipendenti, originali e conflittuali tra loro; ma indipendenza e conflit­ tualità si fondano proprio su capacità che si sono svilup­ pate in base all’interazione con altri, e che per funzionare richiedono il suo proseguimento. Senza la condivisione di questi significati e senza l’accesso alla comunicazione, gli individui non sarebbero più infelici o più poveri: sempli­ cemente non sarebbero. Per sostenere questa posizione, Mead sviluppa due ragionamenti distinti ma convergenti, uno relativo alle particolari forme di coordinamento della specie umana, l’altro relativo ai meccanismi che consen­ tono tale coordinamento delle menti anche in presenza di un ambiente turbolento. Per quanto riguarda la specie, Mead sostiene che l’evo­ luzione biologica deve essere intesa principalmente come evoluzione sociale: le variazioni nella relazione tra una spe­ cie e il suo ambiente non possono essere concepite su base 113

individuale, ma acquistano senso solo su base collettiva. Secondo Mead, esiste una corrispondenza - o quantomeno una compatibilità strutturale - tra le forme di organizza­ zione sociale e le forme di organizzazione del singolo in­ dividuo. Focalizzandosi sulle differenze di organizzazione sociale delle varie specie, si può così procedere a indivi­ duare il tipo di organizzazione degli individui. Alcune specie pervengono a un coordinamento princi­ palmente in negativo, attraverso il ripetersi di esperienze di «prova ed errore» (trial and error). Questa forma di coordinamento richiede organismi estremamente flessibili e strutturalmente poco differenziati, capaci di sostenere ritmi vorticosi di riproduzione. Altre specie, come gli in­ setti, sviluppano forme organizzative straordinariamente sofisticate, basate sull’integrazione di competenze molto differenziate e strettamente complementari. Queste forme richiedono una forte differenziazione organica tra catego­ rie di individui e controlli estremamente rigorosi sulle ri­ spettive possibilità riproduttive. Altre specie ancora si af­ fidano a un coordinamento vincolato geneticamente, attra­ verso il quale tutti gli individui condividono un’unica pro­ spettiva di interpretazione degli stimoli ambientali. Questa forma di organizzazione richiede e consente lo sviluppo degli apparati sensoriali, collegato a forme protoriflessive di elaborazione dell’informazione. A tali forme di comuni­ cazione Mead non riconosce tuttavia la capacità di attivare processi riflessivi, a causa del carattere geneticamente vin­ colato dello scambio tra i partecipanti e della mancanza di una mediazione simbolica. L’esempio menzionato da Mead a questo riguardo è quello della comunicazione tra mam­ miferi, i quali sono in grado di entrare in sequenze di atti orientati reciprocamente, che Mead chiama conversazioni di gesti. Tali sequenze possono essere molto lunghe e com­ plesse, come nel caso di due o più animali che si sfidano per il controllo di una risorsa. Esse, tuttavia, sono regolate da un meccanismo genetico: ognuno dei partecipanti rea­ gisce al gesto precedente, non anticipa quello successivo. In queste sequenze di gesti, inoltre, ogni partecipante non è consapevole della relazione tra i propri gesti e le reazioni altrui, e quindi non è in grado di modificare il proprio comportamento. 114

Nel caso degli esseri umani, invece, l’organizzazione sociale della specie è basata quasi interamente sulla comu­ nicazione, sulla condivisione del significato e sulla capa­ cità di assumere differenti ruoli nella stessa interazione e in sequenze di interazioni diverse. La forma di organizza­ zione della specie umana richiede un apparato sensoriale altamente sofisticato, un sistema nervoso sufficientemente sviluppato da consentire un’elevata capacità di selezio­ nare, interpretare e rielaborare in forma simbolica ciò che accade nell’ambiente. Tali capacità, inoltre, devono essere condivise da tutti i partecipanti all’interazione, richie­ dendo quindi una sostanziale similarità tra le dotazioni organiche dei singoli individui. Il coordinamento degli in­ dividui è pienamente comunicativo. Le capacità riflessive consentono infatti agli esseri umani di divenire consape­ voli che, per ogni gesto, il significato - le reazioni che su­ scita nei partecipanti all’interazione - può essere diverso da quello a esso attribuito da chi lo produce. La consape­ volezza di questo scarto apre le possibilità insite nel fatto che uno stesso gesto può avere più di un significato. Que­ sto fa sì che nelle interazioni umane la sequenza non sia tanto orientata a rispondere al gesto precedente, quanto ad anticipare/stimolare il gesto successivo. In termini evolutivi, queste capacità simboliche non sono cadute dal cielo: sono il lascito di una lunghissima vicenda di comportamento sociale dei primati, tra i quali si danno interazioni sociali altamente elaborate. La specie umana, inoltre, ha come eredità evolutiva una serie di ca­ pacità - il linguaggio, la produzione differenziata di uten­ sili, lo sviluppo di tradizioni, la capacità di vedere la par­ zialità dei propri punti di vista - che possono essere fruite adeguatamente solo in termini collettivi, sociali. L’alto grado di indipendenza dall’ambiente esterno e interno ac­ quisito dalla specie umana attraverso la mediazione sim­ bolica è reso quindi possibile dall’elevata dipendenza reci­ proca tra gli esseri umani. E in questo senso che si com­ prende l’insistenza di Mead sul fatto che un individuo può diventare tale solo appartenendo a una comunità. La tesi della co-evoluzione di capacità individuali e collettive, di comunicazione sociale e riflessività indivi­ duale non viene tuttavia sviluppata da Mead solo in ri­ 115

ferimento ai tempi lunghi della storia della specie. Egli argomenta la stessa tesi anche in relazione all’analisi del­ l’interazione sociale, cercando di identificare i meccanismi che consentono il coordinamento tra una moltitudine di individui e il continuo adattamento dei significati. Come è possibile che individui diversi ed estranei mostrino di condividere determinati modi di pensare e di agire, spesso senza neanche rendersene conto? Quali meccanismi fanno sì che individui che interpretano in modo diverso la pro­ pria situazione finiscano per farlo secondo una prospettiva comune e complementare? Come è possibile che individui con storie e biografie diverse vivano in un mondo di signi­ ficati comuni? Mead sostiene che la risposta a questi interrogativi va rintracciata proprio nella capacità degli uomini di distan­ ziarsi dal flusso dell’esperienza, di osservare le proprie azioni come se fossero altri da se stessi. Questa capacità di distacco rende anche possibile una competenza ge­ neralizzata ad assumere la prospettiva di un altro, a met­ tersi nei panni degli altri partecipanti all’interazione. Tale competenza si trova al centro dei processi riflessivi: è ciò che consente agli individui di comprendere il significato socialmente attribuito alle proprie azioni, grazie alla pos­ sibilità di osservarle dal punto di vista delle persone con le quali si interagisce. E si trova anche al centro dell’inte­ razione sociale degli umani: consentendo di anticipare le reazioni degli altri ai diversi corsi d’azione, essa rende pos­ sibile orientare l’interazione a un futuro almeno parzial­ mente aperto. Alla stessa capacità Mead attribuisce inoltre un ruolo fondamentale nell’apprendimento sociale: è ciò che consente agli individui di apprendere le caratteristiche delle condotte altrui, di importare all’interno della propria vita mentale gli schemi e le competenze esperite nel corso dell’interazione. E attraverso l’esperienza dell’assumere il punto di vista dell’altro che i modelli societari entrano nei processi mentali degli individui. Vediamo meglio quest’ultimo passaggio. Per Mead, es­ sere in grado di osservarsi dal punto di vista di un altro implica una certa equivalenza funzionale tra l’osservazione oggettivata di se stessi e l’osservazione oggettivata di altri partecipanti all’interazione. In altre parole, la dinamica tra 116

I e Me è funzionalmente simile all’interazione sociale tra due o più partecipanti. Quando il flusso dell’esperienza risulta perturbato, e si attivano processi riflessivi, questi si basano su un corpus di esperienze costituito non soltanto da quelle dell’attore, ma anche dall’esperienza delle reazioni di altri sia alle sue azioni precedenti, sia ad azioni simili. Il ricordo delle rea­ zioni di rabbia, disgusto, approvazione, tolleranza, com­ prensione (e così via) non è necessariamente associato a una chiara distinzione tra reazioni personali e reazioni di altri rilevanti. Mead sottolinea che la dinamica di questo processo tende naturalmente a privilegiare le valutazioni e gli atteggiamenti condivisi rispetto a quelli più idiosincratici. Ogniqualvolta le nostre reazioni riflessive coincidono con quelle socialmente più diffuse, infatti, finiscono per ri­ sultarne rafforzate in quanto nutrite da un gran numero di ricordi; quando invece tali reazioni si discostano da quelle socialmente diffuse, trovano maggiori difficoltà a essere ar­ ticolate e accettate. Un secondo motivo che rafforza la stessa dinamica ri­ guarda la tendenza alla generalizzazione, che Mead vede come una dimensione forte della comunicazione in quanto tale. Gli esseri umani provano continuamente a immagi­ nare come la propria azione verrà interpretata e giudicata non soltanto dagli individui in carne e ossa coi quali inte­ ragiscono, ma anche da configurazioni collettive (Che cosa ne penserà la gente? Questo vestito piacerà ai ragazzi?) e da figure astratte (figure religiose, gli antenati, i lavoratori, e così via). In altre parole, dentro gli individui si svolge una conversazione continua tra molti e diversi punti di vi­ sta. In questo dialogo interiore vi sono alcuni oratori che intervengono più spesso di altri o che esprimono opinioni rilevanti per una maggiore varietà di temi. Alcuni di que­ sti partecipanti acquisiscono una certa influenza, qualche volta notevole, finendo per spingere il confronto, e conse­ guentemente le interpretazioni, in una direzione o nell’al­ tra. Queste presenze complesse, abituali e influenti - che Mead chiama istituzioni - costituiscono la struttura della società e, al tempo stesso, strutturano e sostengono il Sé dei partecipanti. 117

La presenza di questi interlocutori generalizzati costi­ tuisce il principale meccanismo di controllo dei compor­ tamenti dell’individuo. Attraverso la loro presenza, nel dialogo interiore è costantemente rappresentato il punto di vista della collettività - delle collettività - alle quali l’in­ dividuo partecipa. In questo modo l’individuo anticipa il giudizio di tali collettività sui propri comportamenti, e in particolare il giudizio che egli stesso darebbe se quei com­ portamenti fossero di altri. La presenza delle istituzioni contribuisce a spiegare come gli esseri umani riescano a conseguire un elevato grado di coordinamento anche in un ambiente turbolento. Tale coordinamento, tuttavia, viene raggiunto anche attra­ verso una rete di scambi comunicativi, senza fare ricorso a un’autorità centrale che definisca un’interpretazione uni­ voca della realtà. Anzi, è proprio il funzionamento di que­ sta rete di scambi comunicativi che consente il mutamento delle istituzioni. Tale rete, però, richiede la disponibilità di individui competenti e socializzati, capaci di utilizzare un ricco patrimonio simbolico. Ma come vengono acquisite queste competenze? Attraverso quali meccanismi si svi­ luppa questa capacità di osservare il mondo dal punto di vista di un altro? E quali meccanismi consentono ai neo­ nati, in assenza di una programmazione genetica, di acqui­ sire le competenze necessarie a coordinarsi con altri? 3. Moralità e comunicazione Qui Mead riprende la distinzione tra le «conversazioni di gesti» del mondo animale e la comunicazione umana. Le conversazioni di gesti sono molto diffuse anche nelle relazioni con i neonati, con la differenza che queste rap­ presentano soltanto l’inizio del processo di apprendimento. Gli esseri umani hanno una maggiore capacità selettiva nei confronti degli eventi nel loro ambiente: l’esperienza del­ l’inserimento nelle sequenze di gesti induce il bambino a riflettere sia sul significato del gesto precedente, sia sulle conseguenze che avrà una risposta piuttosto che un’altra. La concatenazione dei gesti produrrà, in altre parole, la consapevolezza di una relazione e dell’interdipendenza tra 118

i gesti prodotti. Con la crescita ci si sposta a forme di inte­ razioni gestuali più complesse, capaci di legare i propri ge­ sti precedenti alle reazioni di altri. Per fare questo, il bam­ bino dovrà imparare a rispondere ai propri gesti, a colle­ gare al proprio comportamento la memoria delle reazioni di altri a gesti simili. Il passo successivo sarà l’attitudine ad anticipare le azioni di altri a seconda del proprio compor­ tamento, cosa che richiede una capacità quantomeno rudi­ mentale di adottare la prospettiva dell’altro. In modo parallelo, il bambino fa esperienza della cre­ scente generalizzazione dei simboli usati nell’interazione. All’inizio si muove in un mondo piuttosto personale, composto da reazioni istintive a situazioni e persone for­ temente specifiche, dove ogni scarto nella relazione tra persona, situazione e gesto è traumatica. Progressivamente il bambino acquista un maggiore controllo sulle proprie modalità espressive, così come una maggiore capacità di interpretare come simili gesti provenienti da persone di­ verse. Alcuni gesti, a questo punto, vengono intenzional­ mente usati per comunicare, e il bambino impara gradual­ mente che quel gesto suscita reazioni simili in una varietà di partecipanti. I gesti vengono via via usati come simboli. Dato che i «gesti» degli umani comprendono anche il lin­ guaggio, la crescita del bambino coincide con un aumento della necessità (e della capacità) di acquisire il controllo della comunicazione simbolica, di distinguere il significato dei gesti dal loro uso in specifici contesti, di rendere più generale il loro ambito di applicazione. E questo, a sua volta, spinge il bambino a una maggiore riflessività e a una maggiore consapevolezza di sé. Tali processi richiedono lunghi periodi di sperimenta­ zione, che trovano una dimensione cruciale nel compor­ tamento ludico. Qui Mead identifica i principali processi di trasformazione del neonato in un membro competente della comunità. In una prima, lunga fase, il bambino gioca a impersonare persone concrete del proprio ambiente, in­ cludendo se stesso tra gli oggetti su cui questi personaggi agiscono. Impersonando tali figure concrete, e mettendosi in relazione con loro, il bambino sperimenta una gamma di risposte e di reazioni alle proprie azioni. L’esplorazione giocosa {play) segna il passaggio dalle sequenze pre-ordi119

nate delle conversazioni di gesti a una prima rudimentale capacità di assumere la prospettiva di un altro partecipante all’interazione. Questa attività è largamente individuale: la sequenza è costituita da una semplice successione di ruoli - tutti svolti dallo stesso bambino - che può essere inter­ rotta facilmente. In tali esplorazioni, tuttavia, il bambino sviluppa un primo processo di generalizzazione simbolica, dato che identifica come simili reazioni provenienti da fi­ gure diverse. Nel corso della crescita, all’esplorazione giocosa si affianca il gioco strutturato, basato su regole condivise {game). In questi giochi non è sufficiente immedesimarsi in una persona concreta; è necessario identificarsi con un ruolo tra altri. E questo ha senso e significato solo all’in­ terno del complesso dei ruoli e degli obiettivi definiti dalle regole. In altre parole, la partecipazione a un gioco strut­ turato richiede la capacità di osservare se stessi da una molteplicità di punti di vista allo stesso tempo. Tali posi­ zioni non coincidono più con persone concrete, ma con ruoli che hanno in alcuni casi un referente individuale {un portiere, un terzino...), mentre in altri si riferiscono a en­ tità collettive {la squadra). Infine, per giocare in questa si­ tuazione non è sufficiente mettersi nel punto di vista degli altri; è necessario consentire a questi altri punti di vista di influire sul nostro, anche a costo di dare la precedenza a un interesse esterno rispetto al proprio. Se nelle esplora­ zioni giocose il bambino apprende ad assumere il punto di vista di altri partecipanti alle interazioni, nell’esperienza del gioco strutturato acquisisce la capacità di prendere le posizioni di quelli che Mead chiama altri generalizzati, le appartenenze astratte a entità collettive che rappresentano un tipo particolarmente importante di partecipanti al dia­ logo interiore di ogni individuo. Infine, Mead si spinge a distinguere due importanti classi di altri generalizzati: da un lato quelli che si riferi­ scono a concreti gruppi sociali, con i quali il partecipante si identifica in quanto membro di quel gruppo, avente esperienza diretta di quel tipo di relazioni sociali; dall’al­ tro i gruppi definiti funzionalmente, come i debitori delle banche o gli amanti di film western, che costituiscono in­ terlocutori interiori particolarmente ampi e inclusivi. 120

Nel corso del processo di socializzazione, il nuovo nato attraversa quindi differenti fasi, caratterizzate da di­ versi livelli di complessità relazionale e simbolica. Pren­ dendo parte a conversazioni prevalentemente gestuali, il bambino sviluppa, tramite la crescente attitudine ad assu­ mere il punto di vista delle altre figure interazionali, una capacità sia di mediazione simbolica sia di anticipazione. Partecipando a forme di interazione più strutturate, che vedono il coinvolgimento di un numero maggiore di figure interazionali, il bambino acquisisce progressivamente la capacità di assumere il punto di vista di entità collettive e astratte, di tipo organizzato ma anche, successivamente, di tipo funzionale. Nel corso di questo processo, le capacità riflessive del bambino si sviluppano sino a consentirgli di valutare ri­ flessivamente un corso d’azione rispetto a un altro in base alle reazioni attese. Quando questa capacità sarà piena­ mente sviluppata - quando il bambino sarà in grado, al­ meno parzialmente, di agire e contemporaneamente di ve­ dersi dall’esterno, immaginando come la sua azione verrà interpretata e giudicata dagli altri - egli sarà diventato un membro competente di quella società. E tale competenza avrà un risvolto interno: le reazioni del «nuovo arrivato» alle proprie azioni si saranno progressivamente allineate con le reazioni provocate negli altri partecipanti. Le posizioni delineate da Mead possono suscitare qual­ che perplessità. La tesi secondo cui i meccanismi di coor­ dinamento sociale favoriscono sistematicamente il punto di vista più diffuso in una data comunità potrebbe sembrare un’esaltazione del conformismo. Il forte ruolo attribuito al­ l’altro generalizzato potrebbe essere interpretato come un tentativo di attribuire maggior valore morale alle finalità delle organizzazioni e dei gruppi rispetto a quelle degli in­ dividui. Tali perplessità sono tuttavia largamente infondate. È vero che Mead è interessato soprattutto a comprendere il modo in cui i modelli societari entrano a far parte del processo mentale degli individui. Ed è egualmente indub­ bio che egli consideri una forma elevata sia di moralità sia di razionalità la capacità di seguire, nel proprio dialogo in­ teriore, la voce più ampiamente condivisa, quella dell’in­ tera comunità. Queste posizioni devono essere comprese, 121

tuttavia, nel quadro della prospettiva teorica nella quale sono state formulate. In primo luogo occorre ricordare che per Mead gli esseri umani vivono in un ambiente molto turbolento. Le loro abitudini e le loro tradizioni vengono continuamente sfidate da perturbazioni ambientali di vario genere. E molte perturbazioni provengono dai processi riflessivi dei singoli individui, dalle esperienze maturate in catene locali d’interazione. Se è vero che gli attori applicano spesso alla realtà prospettive interpretative, anche di tipo morale, ina­ deguate o ingiuste, è anche vero che tale moralità abitudi­ naria è continuamente sfidata da nuovi problemi, nuovi at­ tori, nuove prospettive interpretative. Mead ritiene che tali perturbazioni attivino processi riflessivi anche in campo sociale. Le perturbazioni sono l’occasione per una nuova tematizzazione, la quale apre la possibilità che nuovi valori abbiano voce e nuovi attori possano contribuire a formu­ lare nuovi criteri morali, più astratti e inclusivi. In questo continuo processo di riformulazione morale, la presenza degli altri generalizzati nei dialoghi interiori gioca un duplice ruolo. Direttamente, essa apre una pro­ spettiva critica sull’ordine sociale empirico: questo è, in­ fatti, sempre in difetto rispetto ai principi che dichiara di professare. La disponibilità di tale riferimento normativo implica quindi la possibilità di formulare un discorso cri­ tico su una determinata comunità che non appaia alieno alla stessa. E ciò vuol dire formulare una critica in grado di partecipare alla comunicazione interna a quella comu­ nità. Indirettamente, la presenza di interlocutori genera­ lizzati nei dialoghi interiori degli individui implica la pos­ sibilità di un processo di generalizzazione che trascenda i confini delle unità sociali empiricamente date. Secondo Mead, infatti, la comunicazione crea solida­ rietà. E tale solidarietà non si ferma ai confini della comu­ nità stessa: esiste una tendenza ad allargare tali confini per includere sempre nuovi interlocutori potenziali nel circuito della comunicazione. Lo stesso vale per i processi di ge­ neralizzazione: l’altro generalizzato più inclusivo coincide con l’insieme di tutti i potenziali partecipanti alla comuni­ cazione. In questo senso, la presenza degli altri generaliz­ zati comporta la costante tendenza a espandere, invece di 122

restringere, i confini della comunicazione e, quindi, della solidarietà. In questi termini, l’accento posto sul ruolo svolto nella strutturazione degli individui storici da qua­ dri normativi condivisi è riconducibile alla convinzione di Mead che i discorsi condivisi, per essere tali, debbano es­ sere continuamente riveduti e modificati.

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TALCOTT PARSONS

Sociologo statunitense (1902-1979). Dopo avere studiato in Inghilterra e in Germania, e utilizzando un’approfondita familiarità con la biologia e l’economia (e, successivamente, con la psicoanalisi), si dedica, insieme con colleghi di varie altre discipline a Harvard, all’elaborazione dello schema teorico «dell’azione» e, al contempo, di una teoria specificamente sociologica (il cosiddetto