In cerca del padre. Storia dell’identità paterna nell’età contemporanea 9788842086581

L'atto di definire il vincolo che lega un uomo alla sua discendenza è stato per secoli materia di diritto. Fino al

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In cerca del padre. Storia dell’identità paterna nell’età contemporanea
 9788842086581

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Storia e Società

© 2009, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2009

Giulia Galeotti

In cerca del padre Storia dell’identità paterna in età contemporanea

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 2009 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8658-1

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a Lilli e a Sara

I guess you think you know this story. You don’t. The real one’s much more gory. The phoney one, the one you know, Was cooked up years and years ago, And made to sound all soft and sappy just to keep the children happy. ROALD DAHL, Cinderella

Introduzione UNA STORIA DI ESISTENZE TRA DIRITTI E PROGRESSI SCIENTIFICI

L’evoluzione della nozione di paternità in Occidente nell’arco temporale che va dalla Rivoluzione francese a oggi è l’oggetto di questo studio. Una vicenda dai molti protagonisti e dalle numerose sfaccettature, risultato di piani complessi che variamente s’intersecano, a volte in anticipo altre in ritardo, alternando momenti di sintonia a stridenti contrapposizioni, l’ultima delle quali è forse solo agli inizi1. La vicenda prende le mosse dall’impostazione romanistica che sino al Novecento, in assenza di indicazioni biologiche, ha cercato di risolvere l’incertezza della paternità affidandone l’individuazione all’ordinamento giuridico, che poggiava sulla volontà implicita o esplicita dell’uomo di essere padre, in uno schema sostanzialmente proprietario. Solo nel corso del XX secolo le analisi ematologiche prima e quelle sul DNA poi sono state in grado di fornire elementi precisi, rendendo possibile superare l’antica presunzione giuridica. Si è trattato tuttavia di un punto d’arrivo ben presto superato, poiché le nuove tecniche di fecondazione assistita, attraverso l’inseminazione eterologa, costringono a ridefinire la nozione di paternità a prescindere dal mero dato biologico. Ciò ha determinato un paradossale ritorno all’antico, riattribuendo al diritto (pur su basi nuove) il compito di individuare il padre. Già questa sintesi mostra le difficoltà di ricostruire un percorso in cui ambivalenze e contraddizioni sono in costante agguato, poiché ogni nuovo tassello risolve un problema ma ne crea di nuovi. E 1 Per l’età moderna, si veda Rachel G. Fuchs, Contested Paternity: Constructing Families in Modern France, Johns Hopkins University Press, Baltimore 2008.

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Introduzione

ciò, se è vero in generale, risulta amplificato nella vicenda della paternità che investe il momento più intimo e fondante delle relazioni umane2. Fortemente radicata sul piano affettivo e domestico, la paternità è un termometro significativo dei mutamenti sociali, in cui si intersecano vissuti personali, disposizioni legali ed evoluzione scientifica in una dialettica elicoidale, fonte di drammi e di progresso. È una storia di esistenze concrete, di uomini che hanno avuto figli, negandoli o amandoli, dimenticandoli o rincorrendoli. Ma è anche la storia di quei bambini, e degli adulti che diventeranno; delle donne che li hanno partoriti e delle relazioni (spesso drammatiche) che hanno avuto con quei padri. Nel ripercorrerla, ci serviremo degli «zelanti servitori» di cui parla Kipling3, attingendo altresì alla letteratura, specchio prezioso del sentire sociale nelle sue evoluzioni ed implicazioni soggettive4. Nella vicenda il piano giuridico è stato sempre presente in tutte le sue sfaccettature. Il ruolo che il diritto ha esercitato si è però trasformato nel tempo, passando dalla funzione di attribuire o di negare la paternità, a quella più modesta di registrarla. E quale debba essere il suo ruolo oggi è questione aperta. Il passaggio non è stato fa2 Claudio Risé, Il mestiere di padre, San Paolo, Cinisello Balsamo 20042; Id., Il padre. L’assente inaccettabile, San Paolo, Cinisello Balsamo 2003. 3 «I keep six honest serving-men / (They taught me all I knew); / Their names are What and Why and When / And How and Where and Who» (vedi Oliver Taplin, Greek Tragedy in Action, Routledge, London-New York 1989, p. 22). 4 Anche vicende ambientate in contesti culturali diversi dalla ricostruzione in esame contribuiscono alla riflessione sul tema, cogliendo i nodi problematici da specifici angoli prospettici (cfr. il numero monografico di «Ritorno al Diritto», dedicato a Diritto e letteratura, luglio 2006). Ad esempio, i rapporti fra diritto e realtà sociale, affascinanti e spesso difficili, sono descritti efficacemente in una pagina della Sposa liberata di Abraham B. Yehoshua. «Ora dicono: basta, non tormentarti. È colpa di un destino di cui solo Dio conosce le ragioni che solo Dio può addolcire. Oh ignavi, oh testardi, a chi spiegherai e chi ti crederà che c’è qualcosa di più forte del destino e di più potente di Dio? È il diritto, da cui si sprigiona la dolce giustizia. E il diritto ti invocava. Rivendicami, ha gridato quando sei uscito dalla sede dell’amministrazione civile infilando con disperazione i moduli illusori nella tasca interna del giubbotto, pattumiera della speranza; salvami dal fango bianco, questa è l’ultima occasione. Perché anche l’ebreo che hai preso sotto la tua protezione e hai scorrazzato di qua e di là nella candida distesa, si è ormai rassegnato a una pietà indifferente, mormorando speranze vane. Fatti valere, Rashed, perché se non ora, quando? Il diritto non pesa, non è complicato. È chiaro e semplice, ed è prerogativa di ogni essere umano. Liberalo dall’ipocrisia dei moduli che mutano colore tra

Una storia di esistenze tra diritti e progressi scientifici

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cile. Il diritto non ha rinunciato di buon grado al suo compito. Né molti padri, reali e concreti, sono riusciti ad accettare e interiorizzare la rivoluzione copernicana di una paternità completamente sfuggita al loro controllo e, quindi, alla loro volontà. Quanto alle conoscenze scientifiche, il dato di partenza, millenni prima dell’età contemporanea, era davvero scoraggiante: «la preistoria non conosceva i padri, anzi si potrebbe forse dire che la storia dell’uomo prenda inizio con la scoperta del padre»5 (estraneità non facilmente accettata, tanto che l’uomo tentò di rimediare ricorrendo, ad esempio, alla pratica della couvade6). Una volta riconosciuto il ruolo maschile, sorse il problema di quale maschio avesse concorso a quale nascita, un problema che ha caratterizzato la storia di tutte le civiltà patriarcali7. Se dunque nel corso del Novecento i progressi scientifici hanno impostato su basi completamente nuove la ricerca del padre, oggi tutto questo sembra essere messo irreparabilmente in crisi dalla fecondazione eterologa. Nella misura in cui scienza e DNA risultano prescindibili, diventa preminente la questione del ruolo, il fatto cioè che l’uomo si comporti come un padre. Peraltro, nemmeno queil governo e l’esercito, tra impiegati stanchi e ufficiali beffardi: ‘Torni domani e porti con sé sua sorella, ma solo se è affetta da grave malattia’. E tu lo sai, nessuna malattia sarà abbastanza grave per loro. Quindi prendimi con te, arabo israeliano: per quanto affermino che tu sia una presenza invisibile, esisti» (Abraham B. Yehoshua, La sposa liberata, Einaudi, Torino 2002, pp. 541-42). Cfr. anche Patrick McCarthy, Language, Politcs, and Writing. Stolentelling in Western Europe, Palgrave-Macmillan, New York 2002. 5 Marco Cavina, Il padre spodestato. L’autorità paterna dall’antichità a oggi, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 5. Gli studi più recenti ritengono che tale acquisizione sia avvenuta nel neolitico (5000-4000 a.C.). Cfr. Jacques Dupuis, Storia della paternità, Tranchida, Milano 1992, pp. 22 sgg.: all’epoca in cui comparve il mito di Osiride, il legame tra fecondazione e gravidanza doveva essere conosciuto; il mito risale al V secolo a.C. e la scoperta della paternità andrà dunque collocata nello stesso periodo. È probabile che in tale evoluzione abbia avuto una certa influenza l’osservazione di quello che avveniva nel mondo animale (David B. Lynn, Il padre. Storia del suo ruolo dai primitivi ad oggi, Armando, Roma 1980, cap. 2). 6 La couvade consisteva nel fatto che alla nascita di un figlio l’uomo fingeva di aver partorito, atteggiandosi come una puerpera e ricevendo gli stessi trattamenti destinati alla madre, con il fine evidente di creare un rapporto d’appartenenza tra il suo corpo e il corpo del nato. Assente l’idea del padre biologico, la paternità si ricostruiva per imitazione del ruolo materno. 7 Se teniamo presenti le diverse regole matrimoniali, vediamo come siano tutte accomunate dal considerare la donna oggetto di scambio tra i gruppi sociali.

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Introduzione

st’enfasi sul ruolo parrebbe una novità, trattandosi (ancora una volta) di un ritorno all’antico8. Le pagine che seguono mettono in luce l’evoluzione sottesa all’implicito interrogativo del titolo: In cerca del padre intende evocare una duplicità di piani, richiamando un nodo esplicito e immediato – chi sia il padre del nato – e uno più nascosto e vitale – cosa faccia di un uomo un padre. Già da queste prime considerazioni emerge tutta la complessità della figura in età contemporanea. Ad esemplificare il quadro, ci può aiutare un passaggio di Patrimonio di Philip Roth. L’autore ascolta una telefonata tra il suo anziano genitore Hermann («non era un padre qualunque, era il padre, con tutto ciò che c’è da odiare in un padre e tutto ciò che c’è da amare») e l’amica Lil. «Sentii che le diceva: ‘Philip è come una madre, per me’. Rimasi sorpreso. Credevo che avrebbe detto ‘come un padre’, ma la sua descrizione era, in realtà, più sottile delle mie banali aspettative, e al tempo stesso molto più flagrante, impassibile e invidiabilmente, spavaldamente schietta»9. Questo passaggio coglie il nocciolo del nostro tema. Se il padre è figura indiscussa da sempre, ne stanno però cambiando qualifiche, ruoli e aggettivi. Se Hermann Roth è il padre, quello che probabilmente (e con una buona dose di ottimismo) sta cambiando nei paesi occidentali, è la descrizione di ciò in cui tale figura si articola e si sostanzia. E così, che un uomo nato nel 1901 descriva le amorevoli cure che il figlio gli va prestando con «Philip è come una madre, per me», e che quel figlio (classe 1933) se ne sorprenda, illustra una parte della vicenda che ci apprestiamo a ripercorrere. Ma un nato di domani come qualificherà queste cure?

8 Nella tradizione ebraica, ad esempio, si è ebrei per linea materna, mentre si diventa culturalmente e socialmente ebrei grazie all’educazione paterna. È il padre, infatti, che nella seconda infanzia spiega al figlio la Parola, i comandamenti e le tradizioni del suo popolo. 9 Philip Roth, Patrimonio. Una storia vera, Einaudi, Torino 2007, pp. 141-42.

IN CERCA DEL PADRE STORIA DELL’IDENTITÀ PATERNA IN ETÀ CONTEMPORANEA

Parte prima IL DIRITTO COSTRUISCE LA PATERNITÀ

1 GLI ANTEFATTI

Il mondo è pieno di bastardi di cui non si sa che lo sono, i quali ereditano le fortune o la miseria di coloro che non li hanno generati. Nessun uomo ha mai saputo se è il padre dei propri figli, nonostante le somiglianze. J. MARÍAS,

Tutte le anime

In caso di nascita da donna nubile, a Roma il padre non esiste. Il principio generale fissato dal diritto, e ascritto allo ius gentium, sancisce partus sequitur ventrem (Gaio I, 76): i nati da unioni non legittime seguono la condizione giuridica della madre. Perché vi sia un padre servono le nozze1. In questo caso, l’uomo è ben più che semplicemente uno dei genitori2: è il princeps et caput familias, è la solida colonna dell’ordine pubblico e privato, il sacerdote, il giudice, il sovrano assoluto, detentore dei più sconfinati po1 Della contrapposizione fra madre-natura e padre-diritto è riprova anche la differenza tra le qualifiche di iustus e di certa: «Iustus era il figlio che il padre aveva concepito, o che si presumeva avesse concepito, da una sposa legittima, durante il tempo del matrimonio. [...] Una madre non doveva essere detta iusta, perché la sua identità di madre non era determinata dall’avvenimento giuridico delle nozze, ma soltanto dalla nascita di un figlio. In cambio, essa era necessariamente certa: la nascita bastava a designarla. La sola qualità giuridica che si potesse esigere da una madre era di essere [...] mater civilis [...]: madre cittadina e madre di cittadino» (Yan Thomas, La divisione dei sessi nel diritto romano, in Georges Duby, Michelle Perrot (a cura di), Storia delle donne in Occidente, vol. I, L’Antichità, a cura di Pauline Schmitt Pantel, Laterza, Roma-Bari 1990, p. 139). 2 I figli legittimi seguono lo status civitatis del padre al momento del concepimento, ne portano il nome, hanno diritti e doveri reciproci in materia di alimenti e successione.

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Parte prima. Il diritto costruisce la paternità

teri sulla persona e sulle proprietà dei figli3, poteri che solo con il tempo verranno progressivamente mitigati. Oltre che assoluta, la patria potestas era illimitata nel tempo, poiché il raggiungimento della maggiore età, come è oggi intesa, non era contemplato4. Poteva così succedere che figli adulti, in possesso ad esempio della capacità politica, dipendessero economicamente dal padre, non avendo un patrimonio proprio. Essendo il matrimonio la condizione indispensabile perché vi fosse un padre, la questione determinante fu quella di stabilire se la prole fosse nata o meno al suo interno. Secondo i giuristi romani, a questo fine era cruciale il momento del concepimento, individuato avvalendosi delle cognizioni fisiologiche dei Greci, e in particolare (come ricordano Ulpiano e Paolo) di Pitagora e Ippocrate. Si stabilisce così che la nascita debba avvenire in un periodo compreso tra i 182 giorni dall’inizio del matrimonio e i 300 dalla sua cessazione. Sebbene si conoscesse la durata ordinaria della gravidanza, era stato notato che potevano esserci parti ritardati, come era possibile che i neonati nascessero settimini già perfetti e vitali: ecco perché per la legittimità della prole viene fissato il criterio della nascita non anteriore a sei mesi dalla celebrazione del matrimonio e non posteriore al decimo mese dal suo scioglimento. È comunque data la possibilità di provare il contrario con qualsiasi mezzo. Se il modello romano permarrà nei secoli, vi fu un istituto che decadde, lasciando però, simbolicamente, un’eco non marginale. Oltre 3 In origine questo potere è davvero assoluto: comprende lo ius vitae ac necis, e cioè il diritto di vita e di morte; exponendi, cioè di esporre il neonato; vendendi, cioè di venderlo come schiavo in territorio straniero; noxae dandi, ossia di cederlo ad altri per liberarsi delle conseguenze di un atto illecito che il figlio abbia commesso. Come ha osservato Marracino, «le stesse azioni concesse al proprietario per rivendicare la cosa furono accordate al padre per rivendicare il figlio. Codesta identità di nomenclatura è prova manifesta dell’identità del concetto giuridico» (Alessandro Marracino, Patria potestà, in Il digesto italiano, vol. XVIII, t. 1, UTET, Torino 1928, p. 740). 4 «Nel diritto romano il padre perde la patria potestà, oltre che in caso di morte del figlio, se diventa schiavo del nemico, se perde la cittadinanza. La patria potestà cessava anche per l’assunzione dei figli ad alcune cariche sacerdotali. [...] Col tempo codeste cariche sacerdotali disparvero; ma rimase il principio che alcune cariche sociali o uffici potessero esimere gli investiti dall’onere della patria potestà. [...] A volte la perdita della patria potestà non era effetto della pena, che importava una diminutio capitis, ma era una pena per sé stessa irrogata al paterfamilias per qualche atto da lui compiuto e che si reputava degno di speciale castigo» (ivi, p. 765).

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alle indispensabili nozze, infatti, le fonti riferiscono della necessità di un atto formale di accettazione del nuovo nato nella famiglia, da parte dell’uomo. Si tratterebbe, cioè, di un’ulteriore condizione richiesta dal diritto romano: perché sia legittimo occorre non solo aver concepito il figlio all’interno del matrimonio, ma riconoscerlo pubblicamente come tale con un’apposita cerimonia. Si tratta del tollere liberum: deposto il figlio ai piedi del marito, quest’ultimo lo sollevava da terra (poiché i figli nascono dalla madre terra) dinanzi a testimoni, manifestando così la volontà di riconoscerlo come proprio, di tenerlo con sé e di allevarlo. Del resto, anche linguisticamente, il termine «genuino» (utilizzato dal Seicento) deriva dal latino genu (ginocchio) perché, come spiegano i vocabolari della lingua italiana, «il padre riconosceva come suo il neonato, sollevandolo da terra e posandolo sulle sue ginocchia»5. Tale atto è motivato da Theodor Mommsen con la circostanza che «nella coscienza del popolo romano era impressa profondamente l’intima persuasione che il fondamento della famiglia e la sua potestas sui figli fossero non tanto un fatto naturale, quanto una formale necessità e un dovere civico»6. Gli studiosi hanno visto in questa cerimonia la manifestazione della sovranità del marito, cui spettava il potere di attribuire o di non attribuire al neonato lo status di legittimità con tutte le conseguenze del caso7. Sebbene non manchi chi attribuisce a questa cerimonia solo una valenza simbolica8, possiamo dedurne che a Roma non si poteva qualificare il figlio come legittimo senza l’espresso assenso del pater familias. 5 Ringrazio il dottor Paolo Granzotto per l’indicazione. Cfr. in particolare il Nuovo Zingarelli, 11ª ed. 6 Theodor Mommsen, Storia di Roma e l’impero di Roma, vol. I, Casini, Roma 1991, p. 65. 7 Si pensi, fra gli altri, a studiosi autorevoli quali Joseph Declareuil, Pierre Tisset, Raymond Monier, Ponnou Delaffon, Edoardo Volterra e Giovanni Gualandi. Questo ha indotto alcuni (ad esempio Volterra) a parlare di una composizione della famiglia ad libitum del padre. Volterra in particolare ritiene che l’espressione tollere liberos, presente non solo in testi letterari ma anche in vari diplomi militari, abbia un preciso significato tecnico-giuridico, data la natura legislativa di tali documenti (Edoardo Volterra, Un’osservazione in tema di «tollere liberos», in Festschrift Fritz Schulz, vol. I, Bohlaus, Weimar 1951, pp. 388-98; Id., Ancora in tema di «tollere liberos», in «Iura», 1952, pp. 216-17; cfr. Giovanni Gualandi, «Tollere liberos» in un passo di Petronio, in «Rivista italiana per le Scienze giuridiche», s. 3, 1953, pp. 414-17). 8 Si pensi, fra gli altri, a Pietro Bonfante, Vincenzo Arangio-Ruiz, Biondo Biondi, Artur Steinwenter, Fabio Lanfranchi e Adolf Berger.

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Per questa ragione, lo storico del diritto Yan Thomas parla di un certo gioco di finzione, precisando che non rientrava in questa struttura che un padre fosse realmente il genitore dei figli nati dalla sua sposa legittima; importava poco perfino che fosse fuori dalla possibilità di procrearli. [...] Il diritto romano progetta freddamente l’operazione con cui il marito di Lady Chatterley si procurò l’erede che era impotente a generare egli stesso. La presunzione di paternità a vantaggio del marito della madre attribuiva all’uomo, in tutti i casi, una discendenza legittima9.

Mutuando parametri attuali, del resto, già nella Roma repubblicana si praticava una specie di fecondazione eterologa, con donatore noto. Poiché sposarsi non dava all’uomo alcuna garanzia di discendenza, ecco che nella pragmatica Urbe si tentò di ottenere questo risultato scambiandosi le donne quando erano già incinte. A partire dagli ultimi anni della repubblica, infatti, il calo delle nascite era diventato un problema estremamente serio per l’élite, e ciò (probabilmente) indusse a concentrarsi su questa soluzione, né eccezionale né riprovata. Ce ne parlano in particolare Seneca (che, con qualche riserva, la considera un servizio tra amici) e Plutarco. Sono molti i casi famosi, come quello di Marzia, oggetto di scambio tra Catone Uticense e Ortensio. Ricordato come marito esemplare, Marco Porcio Catone, conosciuto il grande desiderio del vecchio Ortensio di avere un figlio, e ottenuto l’assenso del suocero, fa sposare sua moglie Marzia, già incinta, con l’amico, permettendogli così di avere l’erede tanto anelato (del resto, a chiusura del cerchio, alla morte di Ortensio Marzia risposerà Catone, portando con sé il nuovo nato e un ricco patrimonio). Va poi ricordata Livia che nel 38 a.C., già sposata con Tiberio Claudio Nerone e madre di Tiberio, viene data in moglie a Ottaviano mentre aspetta Druso. Nell’89 a.C. era già stata la volta di Emilia, che durante la gravidanza viene costretta a divorziare da suo marito e a sposare Pompeo. A obbligarla è Silla, che si è sempre comportato con lei come un padre. Un elemento decisivo, questo: la donna in realtà viene ceduta come nuova moglie non dal marito, ma dal padre. La presenza sulla scena dell’ex coniuge quando la sposa è incinta (Tiberio Claudio Nerone partecipò al matrimonio tra Livia e 9

Thomas, La divisione dei sessi nel diritto romano, cit., pp. 145, 147.

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Ottaviano, come Catone non si era perso quello tra Marzia e Ortensio) acquista solo un significato sociale, per quanto importante. È infatti la riprova del suo consenso, la dimostrazione dell’accordo, la consacrazione dell’alleanza tra le famiglie. Inutile sottolineare la pluralità di interessi che la cessione di una donna incinta andava a soddisfare: la pratica comportava infatti vantaggi per i mariti, per le famiglie coinvolte e per lo Stato, mentre del tutto trascurabile era la volontà della donna, essendo pacifico che altri decidessero e disponessero per lei. Se dunque a Roma la paternità non dipende dalla procreazione, ma piuttosto dal diritto e dalla volontà dell’uomo, questi (suffragato dalla legge) può formalmente rifiutare la prole: «la paternità era un diritto del padre, non un diritto del figlio»10. Come già in Grecia, infatti, a Roma il marito poteva rifiutarsi di allevare il bambino partorito dalla propria consorte, poteva decidere di eliminare i neonati malformati, poteva respingere i figli dalla propria casa ed esporli, appena nati, alla columna lactaria, perché qualcuno li raccogliesse e li allevasse. Di questo potere di rifiuto è probabile che si fosse fatto un uso troppo disinvolto, se nel corso della lunga storia della città vennero emanate norme che, in qualche modo, tentarono di porvi un argine. Dionigi di Alicarnasso, ad esempio, dà notizia di una legge romulea che avrebbe imposto ai cittadini il dovere di educare tutti i figli maschi e le primogenite, vietando l’uccisione dei figli minori di 3 anni, salvo che si fosse trattato di parto incompleto o mostruoso (il che doveva essere accertato da cinque vicini prossimi)11. Sulla stessa linea, molti secoli dopo, e precisamente sotto Adriano, venne emanato un senatoconsulto che confermava il divieto per il padre, in assenza di giusti motivi, di non riconoscere i figli nati durante il matrimonio, purché la nascita non fosse avvenuta prima del sesto mese dalle nozze. Con una legge del 315, invece, Costantino ordinò che, laddove i genitori fossero assolutamente mancanti di mezzi, i figli venissero allevati ed educati a spese del patrimonio personale del principe: è evidente la volontà di contrastare le esposizioni dovute alla miseria. L’imperatore dispose inoltre che in tutti i municipi venissero pubblicati bandi per ricondurre i padri ai doveri di pietà. 10 11

Luigi Zoja, Il gesto di Ettore, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 171. Per coloro che trasgredivano erano previste multe pesantissime.

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La riprova di quanto la figura del padre fosse centrale nella società romana è data dal fatto che il parricidio rimase a lungo il solo delitto di sangue la cui punizione venisse eseguita secondo un complesso rituale. Era la conferma che non esisteva delitto più terribile. La procedura prevedeva che il condannato a morte calzasse un paio di zoccoli di legno, avesse il capo coperto da un cappuccio di pelle di lupo e fosse frustato con verghe di colore rosso sangue. Dopo la fustigazione, il parricida veniva rinchiuso in un sacco di cuoio a tenuta stagna insieme a un cane, un gallo, una vipera e una scimmia. Il sacco veniva quindi buttato in mare, o nel corso d’acqua più vicino12. Gli animali avevano un preciso significato simbolico: il cane era considerato una bestia immonda e vile mentre, secondo la letteratura scientifica antica, i piccoli delle vipere divoravano la madre subito dopo la nascita, e il gallo uccideva le serpi. La scimmia era poi la caricatura bestiale dell’uomo. Inoltre, il cappuccio di pelle di lupo indicava l’esclusione del parricida dalla società umana e civile. Gli zoccoli, separando il reo dal suolo, gli impedivano di contaminare la terra. Le verghe rosso sangue appartenevano alla Cornus sanguinea, una pianta considerata di cattivo augurio. Il sacco di cuoio, infine, proteggeva aria, acqua e terra dal contatto con l’immondo parricida. Accanto al diritto romano, anche il cristianesimo ha svolto un ruolo molto importante nella storia della paternità, concorrendo a definire la figura del padre sotto diversi aspetti. Innanzitutto, in un contesto in cui la paternità era un insieme di poteri e diritti sulla prole, e le divinità, per il loro piacere, prendevano agli uomini quanto avevano di più bello (numerosi gli esempi offerti dalla mitologia), il Dio cristiano è un padre amorevole, che si prende cura dei figli. La novità, da un punto di vista simbolico, è deflagrante; se sommata alla responsabilità nei confronti del figlio, enucleabile anche in termini di doveri, il quadro è realmente rivoluzionario. Dal padre-padrone si passa a un padre affettuoso e misericordioso. Allo stesso tempo, nel cristianesimo assume grande rilievo un nuovo legame con Dio padre: un legame di tipo spirituale, ben più importante di quello carnale13. Si tratta di «un messaggio complesso: ricono12 Questa prassi, chiamata poena cullei (pena del sacco), sarebbe stata introdotta da Tarquinio il Superbo, che la sperimentò per la prima volta con il decemviro Marco Atinio, colpevole di aver divulgato riti civili segreti. 13 «Non chiamate nessuno sulla terra padre vostro, perché c’è un solo vostro

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scimento della famiglia e delle sue funzioni, ma al contempo rottura dei vincoli familiari in nome di valori più alti e contestazione della tradizione patriarcale»14. I figli, infatti, creati da Dio e riscattati dal sangue di Gesù, non appartengono al cristiano: come dice san Paolo, egli li riceve semplicemente «in consegna» (la figura emblematica, sulla quale ritorneremo, è così quella di Giuseppe, padre putativo che accede alla santità allevando un bambino che non ha generato). Del resto, la vera nascita non è tanto quella che si verifica il giorno del parto, quanto piuttosto il battesimo che consacra una forma originale di paternità. Il cristianesimo ha giocato un ruolo importante anche sul versante più propriamente giuridico. Mi riferisco all’influenza che il diritto canonico ha esercitato per lunghissimo tempo sulle legislazioni secolari: il codice morale cristiano, il suo ordine giuridico e sociale avevano infatti piena vigenza anche in ambito laico. Mentre la Chiesa acquistava prestigio ed autorità, il diritto canonico diventò sempre più diritto comune. Proprio alla sua influenza si deve ad esempio il fatto che nessun paese occidentale riconobbe più nel Medioevo lo ius vitae ac necis, che tuttavia rimase ancora nei costumi, come si deduce dalla lotta sostenuta da alcuni concili per sradicarlo15. Se infatti a sentimenti ben più umani rispetto al passato s’ispirarono alcuni imperatori romani a contatto con il diritto ellenico, fu però con il prevalere del cristianesimo che trionfarono i nuovi principi, e la pietas modificò anche i rapporti domestici16. Sempre per influenza del diritto canonico venne introdotto l’obbligo di alimentare la prole, nonché l’istituto della quota legittima nelle successioni. Del resto, tale influenza condizionò il discorso sul matrimonio: ripresa la nozione romana del contratto (per cui è cruciale la libera volontà), la integrò con quella germanica della consumazione. padre, quello dei cieli» (Mt 23,8). Questa nuova verità rappresenta il rifiuto di qualsiasi sistema patriarcale: Dio padre, legato agli uomini da una parentela spirituale, ridimensiona la potenza del pater familias. È la tesi di Jérôme Baschet, Le sein du père. Abraham et la paternité dans l’Occident médiéval, Gallimard, Paris 2000. 14 Marco Cavina, Il padre spodestato. L’autorità paterna dall’antichità a oggi, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 31. 15 «Citiamo per tutti il Concilio di Toledo del 589, durante il quale fu rilevato che l’uso di uccidere i figli appena nati, quando non si potevano alimentare, era molto comune» (Marracino, Patria potestà, cit., pp. 770-71). 16 Già nel VI secolo l’antico ius vitae ac necis è ridotto a un semplice diritto alla correzione, fino a essere abolito insieme all’expositio infantum.

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Fu proprio grazie alla mediazione della Chiesa che si introdussero due principi fondamentali per il tema che a noi interessa: la responsabilità verso i figli a prescindere dalle nozze (il diritto canonico riconobbe per primo all’illegittimo il diritto di ricevere gli alimenti da chi lo aveva messo al mondo) e la possibilità di ricercare la paternità al di fuori del matrimonio, laddove si fosse in presenza di elementi che accertassero, con sufficiente evidenza, il legame tra l’uomo e il nato. Nel tempo, Riforma e – soprattutto – Controriforma giocheranno un ruolo molto importante sul disciplinamento sociale delle famiglie, in particolare responsabilizzando i padri dei ceti popolari che per solito venivano, invece, ignorati (essendo rilevanti solo quelli delle classi alte, giacché a loro si doveva la trasmissione del patrimonio). Lungo tutta l’età moderna, la disciplina giuridica e sociale della paternità è stata dunque il risultato dell’incontro fra il modello romanistico e quello cristiano. Le cose cambieranno, però, dopo la Rivoluzione francese: l’assetto costruito dai giuristi romani troverà, infatti, nuova e forte enfatizzazione nei codici ottocenteschi, a partire innanzitutto da quello napoleonico del 1804, concepito a difesa dell’ordine familiare. Su questa scia, pur con qualche apertura, il primo codice civile unitario italiano del 1865 (il cosiddetto codice Pisanelli, dal nome del ministro proponente) condizionerà tanti padri e tanti figli di età contemporanea, disponendo in base a precise finalità politiche. Su questo fronte, il nuovo codice civile del 1942 non muta l’impianto di fondo e per questo nelle pagine seguenti vi faremo riferimento solo laddove esso preveda una disciplina difforme. Prescindendo dalle inevitabili differenze, il messaggio ereditato dal passato e ancora vivo in età contemporanea è dunque chiaro: padre è solo l’uomo che vuole esserlo, manifestando questa intenzione o implicitamente col matrimonio oppure esplicitandola attraverso un espresso riconoscimento. In assenza di tale volontà, dall’Ottocento in poi non è stato possibile attribuire la qualifica di padre a chi non intendesse riconoscersi tale, principio che si è concretamente tradotto nel divieto di ricerca della paternità. Nelle sole ipotesi in cui ciò poteva avvenire, l’eccezione era dovuta al fatto che l’uomo si fosse macchiato di comportamenti particolarmente gravi: il riconoscimento giudiziale del nato costituiva, perciò, un’autentica punizione. Così, l’unica cosa cui il figlio illegittimo (compreso l’adulterino e

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l’incestuoso) potesse aspirare erano gli alimenti, laddove vi fosse una prova attendibile (come ad esempio uno scritto) che accertasse il legame tra l’uomo (alimentante) e il nato (alimentato). Continua, dunque, a vigere la norma plurisecolare secondo cui mater semper certa est, pater quem nuptiae demonstrant: se ogni nascita ha una madre, perché vi sia un padre serve un matrimonio. Mentre, grazie alla gravidanza e al parto, la maternità è un fatto verificabile, sul versante opposto, mancando qualsiasi riscontro oggettivo, si ha un padre solo nel caso in cui l’uomo sia il marito della puerpera. Se per identificare la madre basta la natura, per l’investitura di padre serve il diritto: è la contrapposizione tra «verità di fatto» della maternità e «verità di diritto» della paternità. Pertanto, laddove le nozze esistano, il marito è sempre padre (salvo disconoscimento) anche qualora biologicamente non lo sia; il non-marito non lo è mai. Il tutto a prescindere dalla effettiva realtà delle cose, dando cioè rilievo a quella che è l’apparenza della situazione. Tale disparità d’impostazione avrà molte conseguenze, anche di ordine culturale. Si pensi alla cristallizzazione dell’opposizione tra maternità-natura e paternità-cultura, con la conseguente visione di una predisposizione naturale femminile rispetto a questo compito, a fronte di un ruolo maschile indotto e costruito. Se a fine Ottocento si scrive che «i padri, anche se istruiti, anche se dotti, non son buoni maestri [...] perché non è questa la loro professione»17, ancora nel 1968 v’è chi proclama, facendo il verso a un celeberrimo incipit, «essere padri è una cosa importantissima, molto più dell’esser madri: le quali madri [...] nascono, mentre padri si diventa»18. Esattamente in quest’ottica, a metà degli anni Sessanta si ritiene necessario dover creare, in qualche modo anche fisicamente, una relazione tra l’uomo e suo figlio: ritengo, per esperienza personale, che il taglio del cordone ombelicale da parte del marito debba essere incoraggiato [...] perché rappresenta un gesto di altissimo valore simbolico, che mette a fuoco nella mente del padre Ernest Legouvé, Padri e figli nel secolo che muore, Barbera, Firenze 1899, p. 111. Bruno Ball, Il mestiere di padre, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 1. «Il peggio è quando la mamma è un’illustre professionista; e se in generale le mamme funzionano abbastanza bene come mamme è forse perché di solito sono ottime casalinghe o modeste professioniste e quasi eccezionalmente famose pediatre, illustri avvocatesse o pianiste di fama internazionale» (ivi, p. 83). 17

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il suo diritto di riprendersi il figlio dopo che si è stabilito il ciclo previsto dalla natura, oltre che i suoi doveri di responsabilità19.

Questo assetto fu dovuto anche a una ragione di stretta contingenza: per secoli, infatti, non vi fu modo di sapere chi fosse l’autore del concepimento e, quindi, il padre del nato (un chiaro esempio è fornito dalla regola del lutto vedovile: già nell’antica Roma, la donna doveva attendere 300 giorni dopo la morte del marito prima di poter convolare a nuove nozze20). Così, di fronte all’«impenetrabile velo»21 steso dalla natura, le soluzioni adottabili erano in sostanza due: o si garantiva la paradossale situazione in cui, a evitare equivoci, vi fosse un solo «portatore di seme» (come scelse di fare la dinastia Ming nella Città proibita22), oppure si accettavano convenzioni che poi sarebbero diventate diritto, riassumibili nella formula «padre è solo chi decida di esserlo». Tale soluzione potrà cambiare solo 19 Ferruccio Miraglia, Introduzione, in George Schaefer, Milton L. Zisowitz, Sarò padre. Guida e precetti per un mestiere difficile, Rizzoli, Milano 1966, cit. da Elena Gianini Belotti, I nuovi padri e le nuove madri, in Sabino Acquaviva et al., Ritratto di famiglia degli anni ’80, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 139. Dice Belotti: «per quanto inconsistente, facilone e precettistico [questo libro] [...] rappresentava un’autentica novità perché, almeno da noi, era il primo che si rivolgesse direttamente ed esclusivamente al padre». 20 Intende ancora evitare la cosiddetta turbatio sanguinis l’art. 89 del codice civile vigente (Divieto temporaneo di nuove nozze): «non può contrarre matrimonio la donna, se non dopo trecento giorni dallo scioglimento, dall’annullamento o dalla cessazione degli effetti civili del precedente matrimonio. Sono esclusi dal divieto i casi in cui lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del precedente matrimonio siano stati pronunciati in base all’art. 3, n. 2, lett. b) ed f), della L. 1º dicembre 1970, n. 898, e nei casi in cui il matrimonio sia stato dichiarato nullo per impotenza, anche soltanto a generare, di uno dei coniugi. Il tribunale con decreto emesso in camera di consiglio, sentito il pubblico ministero, può autorizzare il matrimonio quando è inequivocabilmente escluso lo stato di gravidanza o se risulta da sentenza passata in giudicato che il marito non ha convissuto con la moglie, nei trecento giorni precedenti lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio. [...] Il divieto cessa dal giorno in cui la gravidanza è terminata». 21 Pietro Bonincelli, Sulla presunzione «pater is est quem nuptiae demonstrant», in «Monitore dei Tribunali», 1910, p. 661. 22 Nella Città proibita, oltre all’imperatore, erano ammessi solo gli eunuchi: «Domandai perché la corte non ingaggiasse ragazzi normali. ‘Per garantire che l’Imperatore sia l’unico portatore di seme’ spiegò Grande Sorella Fan. Quel sistema era stato ereditato dalla dinastia Ming nel 1400» (Anchee Min, L’imperatrice Orchidea, Corbaccio, Milano 2004, p. 37).

1. Gli antefatti

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nella seconda metà del Novecento, quando le indicazioni della scienza inizieranno a mettere in discussione il ruolo del diritto, recuperando le oggettive indicazioni naturali: in questa fase, individuare il padre significherà individuare il responsabile biologico del concepimento.

2 PADRE È IL MARITO DELLA MADRE

1. Si rafforza l’antica presunzione: il marito è padre del nato Sopra tutti ringrazio te, padre mio, te, mio primo maestro, mio primo amico, che mi hai dato tanti buoni consigli e insegnato tante cose, mentre lavoravi per me, nascondendomi sempre le tue tristezze, e cercando in tutte le maniere di rendermi lo studio facile e la vita bella. E. DE AMICIS,

Cuore

Nel celeberrimo scontro uscito dalla penna di Diderot fra SaintAlbin e suo padre, al figlio che qualifica i padri come tiranni quest’ultimo ribatte che simili attacchi porteranno «il disordine della società, la confusione del sangue e dei ranghi, la degradazione delle famiglie»1. È proprio questo lo scenario che Napoleone intende scongiurare (del resto, gli stettero così tanto a cuore figura e poteri del padre che partecipò anche alle sedute dei lavori del Consiglio di Stato del novembre-dicembre 1801, dedicate appunto alla formulazione dei futuri articoli del codice in tema2). Rientrare nei ranghi e stringere le fila: saranno queste le parole-chiave del nuovo ordine giuridico. Il restaurato potere paterno, in cui confluisce la tradizione romanistica del pater familias, deve fungere da modello per l’ordine pubblico in generale, tanto che pensiero politico e costruzioni filosofiche dell’epoca esaltano l’analogia tra le due sfere. Coerentemente, tra le prime preoccupazioni dei sovrani reinsediati vi è proprio il recupero dell’orDenis Diderot, Il padre di famiglia, in Id., Teatro, Garzanti, Milano 1982, p. 121. Cfr. P. Antoine Fenet, Recueil complet des travaux préparatoires du Code civil, Paris 1827, tome dixième (ed. anast. Otto Zeller, Osnabrük 1968). 1 2

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dine patriarcale, anche se ciò avvenne adottando concretamente soluzioni difformi3. Le scelte relative a matrimonio, nascita ed equilibri nella famiglia sono ormai diventate questioni pubbliche non più delegabili ad altri, Chiesa inclusa. La commistione di ruoli nella sfera domestica, la confusione gerarchica tra i suoi membri, l’incerta definizione dei nuclei familiari di appartenenza diventano pericoli che potrebbero facilmente condurre alla disgregazione dello Stato nel suo complesso. Alterare l’ordine della famiglia significa sovvertire l’ordine dello Stato. Il passaggio è centrale: la famiglia è la prima cellula dell’assetto statale, comportamenti e ruoli al suo interno vanno osservati nella prescrizione positiva che la legge ne dà. Già a fine Settecento, la Repubblica ligure proclamava che sono le virtù private a garantire quelle pubbliche, «i buoni padri, i buoni mariti, i buoni figli sono i buoni cittadini». Le faceva eco la Costituzione della Repubblica di Bologna – «non è buon Cittadino chi non è buon figlio, buon padre, buon amico, buon sposo» –, mentre una prammatica promulgata a Napoli da Ferdinando IV nel 1771 ribadiva l’importanza del matrimonio come mezzo per propagare l’umana società. Il modello delle relazioni tra uomini e donne è metafora di tutte le altre gerarchie sociali. Il marito è il rappresentante ufficiale della pubblica autorità, il garante dell’esistenza, dell’ordine e del funzionamento della prima cellula dello Stato. Mentre, però, nel XVII secolo era sovrano della famiglia in quanto rappresentante di Dio e sostituto del re, ora egli esercita un’autorità conferitagli dallo Stato. Per questo la sua condotta deve essere vigilata, corretta e, all’occorrenza, «supplita dal potere pubblico o da speciali organismi all’uopo creati»4. In questo senso «la patria potestà presenta un complesso di norme dettate non solo nell’interesse della prole e dei genitori, ma anche in quello dello Stato»5. 3 Pensiamo alla distanza tra codice napoleonico e codice teresiano riguardo alle capacità femminili. A differenza del collega francese, il legislatore austriaco ammise la donna in condizione di parità alla successione familiare, non intese la patria potestà come potere illimitato del marito sulla consorte e non previde l’autorizzazione maritale (Giulia Galeotti, L’autorizzazione maritale nel primo codice civile unitario: un istituto «estraneo» alla tradizione italiana?, in «Dimensioni e Problemi della Ricerca storica», 2005, pp. 151-78). 4 Alessandro Marracino, Patria potestà, in Il digesto italiano, vol. XVIII, t. 1, UTET, Torino 1928, p. 739. 5 Ivi, p. 781.

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Dal canto suo la moglie, che deve essere «madre per i figli, angelo per lo sposo, potenza benefica e moralizzatrice per la società»6, è lo strumento ufficiale per «produrre» cittadini, sicché quando è in gravidanza non sta (solo) adempiendo ai suoi compiti naturali ma svolge una pubblica funzione7. Tutto ciò spiega perché l’ordine familiare vada difeso e rispettato senza permettere crepe o incrinature. Non a caso, il celebre romanzo di Balzac Papà Goriot (1834) si chiude con una terribile profezia: dal suo letto di morte, il protagonista esclama «la patria perirà se i padri sono calpestati. [...] La società, il mondo si reggono sulla paternità, tutto crolla se i figli non amano i padri»8. A ulteriore garanzia di ordine, l’enfasi crescente sulla volontà individuale esige che il rafforzamento della figura paterna passi attraverso il rafforzamento della sua volontà: l’uomo è padre solo laddove manifesti, implicitamente o esplicitamente, la sua intenzione di esserlo. Il seme romanistico viene ripreso dai legislatori ottocenteschi in termini non tanto proprietari quanto volontaristici: non è la procreazione a dar luogo a un rapporto di paternità, ma piuttosto la volontà dell’uomo nei confronti del nato. Cominciando dalla prima ipotesi (il riconoscimento esplicito verrà esaminato nel capitolo 3), si può parlare di manifestazione implicita di volontà in caso di nascita in presenza di nozze, grazie allo stratagemma normativo per cui, contraendo il matrimonio, l’uomo si prericonosce come padre dei figli che nasceranno9. Il padre è tale in virtù del contratto matrimoniale che lo unisce alla donna. 6 Alfredo Frassati, Le donne elettrici in rapporto alla vita sociale ed alle condizioni presenti d’Italia, Roux, Torino 1889, p. 228. 7 Violare questi assetti è inammissibile, e in tal senso (scriverà nel 1884 il pur illuminato giurista Carlo Francesco Gabba) «ripugna alla vera economia della società, al concreto concetto del diritto e della libertà, alla vera missione della legge, il lasciar che le donne si possano dedicare a sociali uffici, incompatibili coi loro uffici domestici [...]. La donna è per la famiglia, e la famiglia per la donna» (Carlo Francesco Gabba, Le donne non avvocate. Considerazioni, Nistri e C., Pisa 1884, p. 25). 8 Honoré de Balzac, Papà Goriot, BUR, Milano 1997, p. 319. Similmente, in Padri e figli (1862) di Turgenev, la contrapposizione è fra due coppie di padri-figli, e il messaggio è chiaro: il figlio Bazarov che non rispetta chi lo mise al mondo è destinato a soccombere, mentre il rispettoso Arkadij avrà una vita felice. 9 È la medesima ratio del caso della legittimazione (istituto presente già a Roma), in cui il figlio naturale riconoscibile (cioè né adulterino né incestuoso) viene legittimato per susseguente matrimonio fra i suoi genitori o per l’intervento della

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Se già chiara e assoluta era stata la formula del codice napoleonico – «l’enfant conçu pendant le mariage a pour père le mari» (art. 312)10 –, altrettanto inequivocabile sarà l’art. 159 del codice Pisanelli (1865): «il marito è padre del figlio concepito durante il matrimonio». Grazie a questa presunzione legale, si passa dall’ambito processuale a quello sostanziale: la presenza delle nozze non è prova della paternità legittima, ma fatto costitutivo della stessa. Dal punto di vista paterno, dunque, non conta la nascita in sé, ma piuttosto il fatto che essa sia avvenuta all’interno di un legittimo matrimonio: sono le nozze, e solo le nozze, a fare di un uomo un padre. In tale assetto, si è comunque sentita la necessità di poggiare la paternità sulla cosiddetta certezza morale. Giuristi, giudici e commentatori spiegano che questa presunzione legale si basa sulla convivenza matrimoniale e sull’obbligo di fedeltà: è dalla coabitazione, cioè, che scaturisce la certezza che l’autore del concepimento sia il marito. Chiaramente, l’onere di correttezza grava tutto sulla donna, il che – fra l’altro – spiega la maggior gravità sancita per secoli in caso di adulterio femminile (il codice penale unitario prevedeva una pena detentiva fino a due anni per la donna adultera, mentre puniva il marito solo in caso di concubinato)11. Trattandosi di coniugi, insomma, esiste «una specie di contrassegno morale»12 a garanzia del fatto che il marito sia padre dei figli partoriti dalla moglie (salvo specifiche e limitate prove che attestino il contrario). Sono dunque i rapporti che intercorrono fra i coniugi e i loro figli – emblematicamente raffigurati dal libro Cuore di Edmondo De Amicis, il romanzo per eccellenza dell’Italia unita – a presupporre in questi ultimi la qualità di figli legittimi13. pubblica autorità. Si tratta dell’unico caso in cui un figlio nato fuori del matrimonio potrà essere in toto parificato al figlio legittimo. 10 In questo senso la giurista francese Marcela Iacub ha concluso che alla luce del codice napoleonico «i bambini non nascono necessariamente dal corpo della madre e del padre, ma, nello specifico, dal loro matrimonio» (Marcela Iacub, L’impero del ventre. Per un’altra storia della maternità, Ombre Corte, Verona 2005, p. 12). 11 Per secoli, fu solo il diritto canonico a porre sullo stesso piano adulterio maschile e femminile. In Italia tale differenza verrà meno solo a fine anni Sessanta, con la sentenza della Corte costituzionale 19 dicembre 1968, n. 126 che dichiarerà incostituzionale tale disuguaglianza. 12 Vittorio Wautrain Cavagnari, Filiazione, in Enciclopedia giuridica italiana, vol. VI, t. 2, Società editrice libraria, Milano 1903, p. 670. 13 Se salta la certezza morale, le cose per l’uomo si fanno davvero complicate.

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Alla dottrina fa eco la giurisprudenza, che parla di «certezza morale della paternità»14. Come spiega eloquentemente la Cassazione di Napoli nel 1887, «quando un individuo si presenti all’ufficiale dello stato civile ed annunzi la nascita di un figlio dalla sua moglie, non è obbligato di palesare che la sua moglie fu da lui esclusivamente odumbrata e non da altri, imperocché dicendo moglie egli accenna a matrimonio»15. La certezza morale, però, viene prudentemente confinata in un preciso arco temporale: la nascita (come già nell’antica Roma), infatti, deve avvenire dopo almeno 180 giorni dalla celebrazione delle nozze e fino a 300 dopo la loro eventuale cessazione. Per avere un padre e un figlio legittimi, cioè, si pretende che il concepimento sia avvenuto durante il matrimonio.

2. «Il piacere dell’onestà»: padri oltre il vero Lei è un gentiluomo. Necessità di cose, di condizioni, la costringono a non agire onestamente. Ma lei non può fare a meno dell’onestà! Tanto vero che, non potendola trovare in ciò che fa, la vuole in me. Devo rapprenderla io la sua onestà – esser cioè l’onesto marito d’una donna, che E donne particolarmente determinate lo sanno bene. Nel romanzo di August Strindberg Il padre (1887) v’è un dialogo emblematico tra Laura e il Capitano. L.: «Perché chi è più vicino al figlio è la madre, da quando si è scoperto che nessuno in realtà può sapere chi è il padre del bambino». C.: «Ma che c’entra questo nel nostro caso?». L.: «Tu non sai se sei il padre di Berta!». C.: «Non lo so!». L.: «No, se non può saperlo nessuno, non lo puoi sapere neppure tu!». C.: «Stai scherzando?». L.: «No, faccio solo uso del tuo insegnamento. E del resto, come fai a sapere che io non ti sono stata infedele?». C.: «Di molte cose ti credo capace, ma non di questo, e poi non me lo diresti, se fosse vero». L.: «Supponi che io sia decisa a sopportare tutto, di essere ripudiata, disprezzata, tutto pur di tenermi mia figlia e di avere autorità su di lei, e che ora io fossi sincera dicendoti: Berta è mia figlia, ma non tua! Supponi...». C.: «Finiscila!». L.: «Supponi solo questo: allora il tuo potere sarebbe finito!». C.: «Prima dovresti dimostrare che il padre non sono io!». L.: «Non sarebbe poi tanto difficile» (August Strindberg, Il padre, Guida, Napoli 1985, pp. 31-34). 14 Cassazione Torino, 29 maggio 1906, in «Monitore dei Tribunali», 1907, p. 891. 15 Cassazione Napoli, 15 dicembre 1887, in «Il Foro italiano», 1888, I, cc. 10461047. Fu solo con il R.D. 24 marzo 1923, n. 601 che si soppressero le corti di cassazione civili che esistevano ancora a Torino, Napoli, Firenze e Palermo, rendendo unica, con sede a Roma, la Cassazione.

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non può essere sua moglie; l’onesto padre d’un nascituro che non può essere suo figlio. L. PIRANDELLO,

Il piacere dell’onestà

La soluzione giuridica per cui padre è il marito della madre può finire per prescindere, all’atto pratico, dalla realtà delle cose. Ciò è stato rafforzato da un importante cambiamento verificatosi a livello di applicazione giurisprudenziale. Mentre, infatti, rimane il termine dei 300 giorni successivi alla fine delle nozze (sottintendendo un concepimento avvenuto quando l’uomo e la donna erano ancora sposati), il parametro cronologico che richiedeva un intervallo di 180 giorni tra celebrazione e nascita viene superato (scavalcando il dato normativo che pretende una gravidanza avviata dall’incontro di una coppia sposata). Contro ogni possibilità naturale viene dunque riconosciuto come figlio legittimo chiunque nasca durante il matrimonio, a prescindere da quando sia stato concepito. «Il figlio nato sebbene non concepito durante il matrimonio è ritenuto legittimo», scrive la Cassazione di Torino nel 1881, qualificando come legittima Ida Rosa, nata cinque mesi dopo la celebrazione del matrimonio tra Stefano Gheisa De Vitalis e Emma Merlo16. Questo scudo protettivo messo a punto dal diritto può articolarsi in una molteplicità di evenienze, che includono anche finte paternità, ben raccontate dalla letteratura. Guy de Maupassant, che fu pressoché inarrivabile nel raffigurare vizi e virtù della borghesia del XIX secolo alle prese con le nuove regole imposte dal codice napoleonico, presenta il caso di una paternità legittima inventata a fini economici nella novella Il milione. La trama è semplice: la vecchia zia lascia la sua eredità (1 milione di franchi, appunto) al primo figlio nato dalla nipote e da suo marito, Leopoldo Bonnin (con usufrutto a vita per i genitori). Il testamento però contempla una precisa condizione: se entro tre anni la giovane coppia non avrà figli, il patrimonio andrà ai poveri. Ovviamente, la gravidanza tanto attesa non arriva, il tempo sta per scadere e Leopoldo diventa aggressivo con la moglie: «la punzecchiava con oscure insinuazioni, parlava misteriosamente delle mogli d’impiegati che

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Cassazione Torino, 22 ottobre 1881, in «Il Foro italiano», 1881, c. 709.

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avevano saputo far fare fortuna ai loro mariti»17. Finalmente la donna capisce e rimane incinta: «nacque un bambino [...]. Diventarono ricchi». Poco dopo, al termine di una serata trascorsa con l’amico della coppia Federico Morel, la moglie comunica a Leopoldo di aver pregato il giovane di non farsi più vedere: «si è comportato male con me... Leopoldo [...] aprì le braccia; ella vi si gettò: restarono abbracciati per parecchio tempo, come due bravi sposini molto affettuosi, molto uniti, molto onesti»18. Se però Leopoldo sa o, meglio ancora, ha indotto la moglie all’adulterio, vi sono anche mariti che accettano di essere i padri di figli non loro. È ancora Maupassant che racconta questa possibilità in Storia di una ragazza di campagna in cui, dinanzi a un matrimonio rivelatosi sterile, il marito è entusiasta di accogliere il figlio della moglie, di cui ha ignorato per anni l’esistenza: ‘O via! Andremo a prenderlo questo piccino, dal momento che tra noi due non ne abbiamo’. [...] Si fregava le mani borbottando: ‘volevo adottarne uno, l’ho bell’e trovato, ecco che l’ho trovato. Avevo chiesto un orfanello al parroco [...]. Ah, sì... mi fa proprio piacere; non faccio per dire, ma sono tanto, tanto contento’19.

Una terza ipotesi è quella in cui l’uomo accetti consapevolmente di sposare una donna incinta di un altro. Qui ci viene in aiuto Luigi Pirandello, il narratore della paternità nelle sue forme più bizzarre, costruite o decostruite, deplorevoli o ammirevoli, tutte accomunate dal fatto di non aver nulla in comune con la verità20. In Pensaci, Giacomino! (scritta fra la fine di febbraio e i primi di marzo del 1916), il settantenne professor Agostino Toti, insegnante di storia naturale nel locale ginnasio, decide di sposarsi prima di andare in pensione, onde mettere fine alla sua lunga solitudine e, contemporaneamente, vendicarsi dello Stato. Se, infatti, il magro stipendio non gli ha consentito di mantenere una famiglia, lo Stato sarà ora obbligato a pa17 «Nella vita bisogna sapersi arrangiare, per non essere pigliati in giro dal destino» (Guy de Maupassant, Il milione, in Id., Tutte le novelle, vol. I, Casini, Roma 1956, p. 383). 18 Ivi, p. 384. 19 Id., Storia di una ragazza di campagna, ivi, p. 163. 20 Si è avanzata l’ipotesi che Pirandello ne fosse ossessionato perché credeva di essere figlio illegittimo.

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gare la pensione alla sua giovane moglie. La scelta cade su Lillina, sedicenne figlia del bidello, che è stata sedotta da Giacomino (ex alunno del professore) e ora aspetta un figlio. Il professor Toti soccorre comunque la ragazza che il padre ha cacciato di casa, le nozze si tengono e nasce Ninì. Sul bambino Toti riversa un grande affetto, mentre il padre naturale frequenta liberamente Lillina, che potrà sposare quando sarà vedova21. Infine, vi sono i mariti del tutto ignari di quanto sia realmente accaduto nei loro letti, facilmente gabbati dalle mogli e dai loro presunti amici. È sempre Pirandello a fornirci un esempio in Tutto per bene; Martino Lori capisce di essere stato inventato come padre quando ormai la moglie è morta da tempo: Più di vent’anni c’eran voluti perché comprendesse. E non avrebbe compreso, se quelli [il finto amico e vero padre, la figlia e il marito di questa] con la loro freddezza, con la loro noncuranza sdegnosa non gliel’avessero dimostrato e quasi detto chiaramente. Che fare più, dopo tant’anni? [...] Non glielo avevano lasciato intendere con garbo forse, che oramai non aveva più nessuna parte da rappresentare? Aveva rappresentato la parte del marito, poi quella del padre... e ora basta: ora non c’era più bisogno di lui, poiché essi, tutti e tre, si erano così bene intesi fra loro22.

3. Il cognome paterno: salvezza o perdizione? Non è tuo. Non è di nessuno. È soltanto mio. Nemmeno io, volendo, potrei dire chi è l’uomo ch’era qui con me la notte in cui l’ho concepito. Vedi, non mi vergogno. Mi sono mai vergognata? Io l’ho messo al mon21 Alla prima rappresentazione (il 10 luglio 1916 al Teatro Nazionale di Roma) il pubblico riuscì a superare l’iniziale disagio per l’«immoralità» della vicenda, che già aveva scandalizzato nel 1910 i lettori della novella pubblicata dal «Corriere della Sera». Il giudizio della critica, che assegnò la commedia al genere «grottesco», fu però nel complesso positivo. Lo spettacolo ebbe tre repliche consecutive a Roma e sette a Milano (in sei mesi l’autore ne ricavò più di 2.000 lire). Il testo in dialetto siciliano ebbe il suo protagonista naturale in Angelo Musco, che nel 1936 ne interpretò un adattamento cinematografico di Guglielmo Giannini, diretto da Gennaro Righelli. 22 Luigi Pirandello, Tutto per bene, in Id., Novelle per un anno, vol. I, t. 1, Mondadori, Milano 1985, p. 380.

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do. Ed ora porta il nome di Alfredo. Doveva avere un nome, mi sono convinta che avevano ragione. Mi sbagliavo a credere il contrario. Con tutto il mio diploma di maestra, non pensavo ai dispiaceri cui sarebbe andato incontro, nella vita, senza avere un nome. Il mio non gli sarebbe bastato. Ero ancora esaltata dalla felicità di averlo avuto. Non riflettevo. Ma poi, sono tornata in me. Per questo ho sposato Alfredo. V. PRATOLINI,

Metello

In un contesto in cui il diritto sancisce la paternità, un significato cruciale lo assume il cognome, marchio di garanzia, sigillo della filiazione, che attribuisce un significato concreto alla proposizione per cui i bambini non nascono dai corpi, ma dalle nozze tra i genitori. Il fatto che al nato venga attribuito il cognome del marito è la sanzione dell’ordine sociale e la fondamentale tutela per il bambino. In questo modo, la forma è salva – a volte, anche rischiando il paradosso. Ad esempio, in Elias Portolu (1903) di Grazia Deledda la madre tradisce il marito con il fratello: il figlio avrà così un cognome doppiamente giusto, essendo quello del legittimo marito e quello del padre biologico. Questa automatica attribuzione può avere, però, effetti ambivalenti. Ad esempio, poteva succedere che il marito, già separato dalla moglie, registrasse comunque il figlio, frutto di una relazione successiva, come nato all’interno del matrimonio23. Ma poteva accadere anche il viceversa. Così, nel 1899, Euridice Bussei, sebbene sia legalmente separata da Donato, fa comunque iscrivere all’ufficio di stato civile il neonato Otello come figlio suo e del marito, di cui il bambino diviene erede24. A volte, invece, il suggello del cognome del marito è servito come arma di ricatto, specie in contesti in cui non esisteva il divorzio. Non raramente, infatti, disporre della prole concepita dalla moglie con l’amante ha costituito lo strumento di vendetta per i mariti traditi. Ne è un esempio la storia d’amore che ha appassionato gli ita23 In Francia «M. Ubaldi, che era separato da molti anni dalla moglie e viveva con un’altra donna, aveva voluto che il bambino concepito con quest’ultima fosse riconosciuto come suo figlio legittimo. Egli lo registrò quindi allo stato civile come nato dal suo legittimo matrimonio con Mme Ubaldi, all’insaputa di quest’ultima. Per quanto possa sembrare sorprendente, questo comportamento audace non è affatto isolato» (Iacub, L’impero del ventre, cit., p. 84). 24 Corte d’Appello Firenze, 27 giugno 1911.

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liani nei primi anni Cinquanta, quella tra il grande ciclista Fausto Coppi (sposato e con una figlia) e la famosa Dama Bianca, ovvero Giulia Occhini, giovane moglie di un facoltoso medico e madre di due bambini. Qui interessa in particolare la reazione di Locatelli, il marito, che la denunciò per adulterio, abbandono del tetto coniugale e concubinaggio25. Giulia venne così rinchiusa per qualche giorno nel carcere di Alessandria, e poi obbligata al domicilio coatto ad Ancona (mentre a Coppi ritirarono il passaporto). La vendetta del marito consiste nel volere il figlio che aspetta da Coppi: e così, per potergli dare il cognome del padre, Giulia partorisce il 13 maggio 1955 a Buenos Aires, ma per la legge italiana Angelo Fausto è figlio di Locatelli26. Prescindendo dalla questione dei cognomi rivelatori – quando i figli di Filumena Marturano, protagonista dell’omonima commedia (1946) di De Filippo, si presentano vicendevolmente («Esposito» e «Degli Esposti») il commento del più piccolo sarà eloquente: «facciamo proprio un bel terzetto» –, a fronte di un cognome paterno simbolo di ordine e rispettabilità, l’umiliazione peggiore è di venire bollati con il nome da ragazza della propria madre. La genealogia matrilineare (a parte qualche eccezione) incarna l’incubo di non avere un padre. Ancora una volta, ci viene in aiuto Guy de Maupassant: Quella mattina Simone, il figliolo della Bianchina, era venuto a scuola per la prima volta. Tutti i ragazzi, in famiglia, avevano sentito parlare di Bianchina; per quanto le facessero buon viso in pubblico, fra di loro le madri ne parlavano con una specie di sprezzante compassione, che era penetrata anche nei ragazzi, senza che costoro sapessero bene perché. [...] Avete visto che non ce l’ha, il babbo? Vi fu un gran silenzio. I ragazzi, sbalorditi per quella cosa straordinaria, mostruosa, impossibile; [...] lo guardavano come si guarda un fenomeno, un essere anormale, e sentivano ingrandire in sé stessi il disprezzo che le loro madri nutrivano per Bianchina. 25 Nel marzo 1955 Fausto Coppi e Giulia Occhini furono condannati rispettivamente a due e tre mesi. 26 A Coppi non viene più permesso di vedere la figlia Marina; le spese sono enormi: per il processo, gli avvocati, le due famiglie da mantenere ecc. Coppi (in quelle condizioni era difficile ritrovare la motivazione che occorreva per gareggiare) decise di cercare un po’ di relax in una battuta di caccia in Africa, dove si ammalò di malaria: morì il 2 gennaio 1960.

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Figlio di una ragazza-madre, il piccolo viene deriso dai compagni di scuola. Trovato piangente vicino al fiume da un giovane fabbro nuovo del paese, Simone spiega: «m’hanno picchiato... perché... io... io... non ho... babbo... non ho babbo», per poi chiedergli a bruciapelo «volete essere voi il mio babbo?». L’uomo volse la cosa in ischerzo, e disse ridendo: – Ma certo che voglio.[...] L’indomani, quando il bambino entrò a scuola, fu accolto da una risata cattiva; all’uscita, quando i monelli cercarono di ricominciare, Simone gli tirò addosso, come un sasso, queste parole: – Il mio babbo si chiama Filippo.

Se questo riesce momentaneamente a placare i compagni, un giorno qualcuno gli si rivolge dicendogli «hai detto una bugia, tu non hai un babbo che si chiama Filippo. [...] perché se tu ce l’avessi sarebbe il marito di tua madre». Sarà dunque necessario il matrimonio perché Simone possa davvero guardare a testa alta i compagni: l’indomani, quando la classe era piena e stavano per cominciare le lezioni, il piccolo Simone s’alzò, pallidissimo e con le labbra tremanti: – il mio babbo, disse con voce chiara, è Filippo Rémy, il fabbro, e ha promesso che tirerà le orecchie a tutti quelli che mi faranno del male. Nessuno rise questa volta, perché conoscevano bene Filippo Rémy, il fabbro, un padre del quale chiunque sarebbe stato orgoglioso27.

È il mondo dell’illegittimità, quel mondo nebuloso e incerto che sta oltre il matrimonio, e i cui figli si caratterizzano per essere «senza cognome, senza stato civile, senza congiunti»28. È il caso, vigente ancora il codice Pisanelli, della figlia di Emanuela, una delle ragazze che frequentano il Grimaldi, il collegio in cui si svolge il romanzo Nessuno torna indietro (1938) di Alba de Céspedes. Il problema è 27 Guy de Maupassant, Il babbo di Simone, in Id., Tutte le novelle, vol. I, cit., pp. 171-76. 28 Cesare Facelli, La successione legittima dei figli naturali, Tipografia Elzeviriana, Roma 1881, pp. 1-3. Nel 1947, in Assemblea costituente, Enrico Molè li indicherà come «i figli di nessuno, i figli d’ignoti, i senza classe, i senza famiglia, i senza nome, cui la malvagità o la sventura sottrassero anche la sola ricchezza del povero: la certezza di una madre e la protezione di un padre. Bastardi» (La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. II, Camera dei deputati, Roma 1970, p. 1009).

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che la giovane era rimasta incinta del futuro marito, morto in un incidente aereo. «Come sarebbe potuta nascere senza padre, senza nome?». Emanuela, però, riesce a imporsi al suo anziano padre che vuole convincerla a dare la neonata in adozione. «Per convincerla a non riconoscere la bambina, egli asseriva che oggi – grazie alla mentalità moderna – scevra di vieti pregiudizi sociali – i trovatelli stavano benissimo. Lei gli aveva risposto che il timore di una nipotina illegittima era invece la riprova che tali pregiudizi duravano ancora». La bimba viene così riconosciuta come «di padre ignoto e di Emanuela Adorni»29. In Italia, la stigmatizzazione del disonore è rimasta almeno fino al 1955, quando finalmente l’indicazione «figlio di N.N.» sarà eliminata da atti e documenti (cfr. infra, cap. 8, par. 2). In questo marchio indelebile incorre anche il secondogenito di Ida, in La Storia (1974) di Elsa Morante: Trovati i nomi, la levatrice propose di recarsi lei stessa all’Anagrafe, per la necessaria denuncia; e Iduzza da principio recalcitrava, per il motivo che si può intendere. Ma dopo averci ripensato, trovandosi alla scelta di dover dichiarare il proprio disonore a un ufficiale civile del Comune, oppure a costei, preferì svelarlo a costei, e senza darne spiegazione a voce, su un foglio, che poi dette a lei ripiegato, le scrisse in lettere stampatello, con mano tremante: Giuseppe Felice Angiolino, nato a Roma il 28 agosto 1941, da Ida Ramundo vedova Mancuso e da N.N.30.

Non a caso, il protagonista de La casa in collina (1949) di Cesare Pavese per cercare di capire di chi sia figlio il piccolo Dino (che teme suo) gli domanda se sulla pagella non vi sia il nome del padre. «Dino pensò, guardando avanti. – Dice solo la mamma»31. Nel concetto di padre ignoto v’è una sorta di incarnazione del disinteresse dell’uomo verso il bambino, la totale assenza della volontà di creare con lui un qualsivoglia rapporto. Il passaggio di una novella di Maupassant è, ancora una volta, significativo: «vedi, mio caro, si può dire che non esista uomo che non abbia figli ignoti, [...] che egli, 29 Alba de Céspedes, Nessuno torna indietro, Mondadori, Milano 1938, pp. 71, 160, 170. 30 Elsa Morante, La Storia, Einaudi, Torino 1974, p. 96. 31 Cesare Pavese, La casa in collina, RCS, Milano 2003, p. 49.

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allo stesso modo che questo albero si riproduce, ha fatto inconsciamente»32. La mancanza del cognome paterno è la formalizzazione ufficiale di qualcosa di sbagliato. Sul versante strettamente giuridico, se fino a tutto il Settecento era stata la Chiesa a registrare le fasi salienti della vita del singolo attraverso l’annotazione degli atti sacramentali, fu poi lo Stato ad assumere tale funzione, occupandosi degli atti civilmente rilevanti. Per il codice napoleonico eventi come nascita, matrimonio e morte vanno documentati con un atto dello stato civile in grado, esso solo, di fornire dati certi e autentici sullo status del singolo. È lo Stato l’unico detentore del diritto di documentazione, in virtù dell’interesse pubblico che tali passaggi assumono33. Ciò, però, riuscì ad affermarsi in concreto solo nel lungo periodo. Le innovazioni normative francesi, infatti, furono considerate straniere, e accolte con sospetto e ostilità dalle popolazioni preunitarie, sia per le implicazioni di carattere fiscale, militare e di polizia retrostanti alla raccolta dei dati, sia per l’influenza della Chiesa cattolica, che tentò di scoraggiare la popolazione dall’adempiere alle nuove norme amministrative34. Un problema interessante (che non può essere approfondito in questa sede) è quello del rilievo dato dallo Stato unitario ai certificati redatti dalla Chiesa cattolica. È così degna di nota la vicenda che vede protagonista Brigilda Butteri nata a Bucine il 9 ottobre 1859. Secondo l’Archivio di Stato di Firenze la bambina risultava figlia di genitori ignoti, mentre il certificato del parroco di Levane la dichiarava nata da padre ignoto e da Rosa di Giovanni Pellegrini. Nel decidere della sua filiazione, i giudici unitari ritengono in primo grado che «la dichiarazione di maternità contenuta nel certificato parrocchiale non può riguardarsi come riconoscimento, trattandosi di mera asserzione di chi presentò la bimba al fonte battesimale»35. In secondo grado, invece, si afferma che il certificato Guy de Maupassant, Un figlio, in Id., Tutte le novelle, vol. I, cit., p. 259. «L’intero corpo sociale è interessato alla regolare tenuta e conservazione dei registri dello stato civile, nei quali risiede la prova dello stato delle persone e delle famiglie di cui la società stessa si compone» (Cassazione Torino, 30 dicembre 1886, in «Il Foro italiano», 1887, I, c. 223). 34 Lorenzo Del Panta, Rosella Rettaroli, Introduzione alla demografia storica, Laterza, Roma-Bari 1994. 35 Tribunale Arezzo, 21 maggio 1898, in «Il Foro italiano», 1898, c. 630. 32 33

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battesimale, riferendosi al tempo in cui i parroci funzionavano come ufficiali dello stato civile, costituisce regolare atto di nascita36. La Cassazione confermerà tuttavia le indicazioni del tribunale di primo grado37. In quest’opera di registrazione, l’ordinamento aveva trovato un modo per segnalare pubblicamente l’origine illecita del figlio naturale. Lo spazio bianco nella casella riservata all’indicazione del nome del padre (ed eventualmente della madre) poneva giuridicamente nero su bianco il tratto distintivo che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita38.

4. Un padre-marito esemplare: san Giuseppe Se siete figli di vostra madre, non siete forse anche figli di vostro padre? G. GUARESCHI,

Corrierino delle famiglie

Nel 1964, in occasione della celebrazione del 19 marzo39, Paolo VI ricordò il fondamentale ruolo che san Giuseppe svolse all’interno della Sacra Famiglia come marito di Maria e padre di Gesù: «Diede Corte d’Appello Firenze, 3 febbraio 1899. «L’atto di nascita è sia pure del tempo in cui per gli atti dello stato civile i parroci godevano della pubblica fede, ma in esso la Pellegrini non intervenne altrimenti, e fu indicata come madre della Butteri dalla donna che portò la neonata al fonte battesimale, senza che risulti che ne avesse ricevuto mandato; mentre per i principi generali del diritto probatorio, per la dottrina reputata e per la giurisprudenza anche toscana e anteriore al codice civile, si sa che l’atto di nascita, il quale non contenga la esplicita e personale dichiarazione dei genitori, non solo non prova la filiazione, ma non costituisce neppure principio di prova» (Cassazione Firenze, 4 febbraio 1900, in «Il Foro italiano», 1900, c. 43). 38 Così, la già incontrata Filumena Marturano, marcando con enfasi la necessità che i suoi figli vengano riconosciuti, pone l’accento proprio su questo aspetto: «nun s’hann’ ’a mettere scuorno vicino all’at’uommene: nun s’hann’ ’a sentì avvilite quando vanno pè caccià na carta, nu documento» (Eduardo De Filippo, Filumena Marturano, Einaudi, Torino 1979, p. 23). 39 La data del 19 marzo (che per anni fu vacanza a scuola in Italia) collegata a san Giuseppe la troviamo già «nella Chiesa romana, a partire dal secolo VIII [...]. I padri Servi di Maria nel 1324 decisero in un loro capitolo generale di celebrare san Giuseppe nel giorno 19 marzo, seguiti dai francescani nel 1399. [...] Gregorio XV (1621), dietro richiesta dei re d’Austria e di Spagna, stabilì come festa di precetto il giorno 19 marzo, dedicato a san Giuseppe» (Leonardo Boff, Giuseppe di Nazaret. Uomo giusto, carpentiere, Cittadella, Assisi 2006, pp. 133-34). 36 37

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a Gesù non i natali, ma lo stato civile, la categoria sociale, la condizione economica, l’esperienza professionale, l’ambiente familiare, l’educazione umana». È esattamente l’aspetto che a noi interessa. Di Giuseppe sappiamo molto poco, perché i Vangeli sono parchi di notizie40: falegname della casa di Davide e sposo di Maria41, nei pochi passi in cui è citato come «il padre»42 di Gesù, Giuseppe viene colto mentre svolge le funzioni basilari del suo ruolo. Dà il nome al nato43, presta assistenza alla nascita, educa il bambino, lo introduce nelle tradizioni, lo inizia alla professione di carpentiere-artigiano44. Il punto, però, è che Giuseppe è, e sa benissimo di essere, «padre nel senso matrimoniale»45: è tale solo perché è lo sposo di Maria. È il padre sociale di Gesù. In questo senso, può essere visto come l’emblema della paternità costruita dal diritto («era vero padre in ordine al matrimonio» benché «soltanto putativo in ordine alla generazione corporale» scrive Estio46). È il prototipo di una paternità che non passa solo per il legame biologico, come sottolineava Pio XII nel 1958 ricordandone l’amore e la sollecitudine. Certo, la sua condizione di non-padre biologico per secoli lo ha reso una figura delicata, al punto da essere trascurato. A prima vista infatti san Giuseppe è scomodo e destabilizzante per l’ordine familiare, perciò, sin dai primi secoli del cristianesimo47, veniva rappre«Uno dei punti impressionanti è il manto di silenzio che pesa su san Giuseppe» (ivi, p. 78). 41 Sia nel Vecchio sia nel Nuovo Testamento, la nozione di padre è intesa in senso molto ampio e ricco, andando dai padri della generazione carnale (in senso orizzontale, padre è il capo della famiglia; in senso verticale, è principio di una discendenza e anello di una genealogia) ai padri della generazione spirituale (i patriarchi), dalla paternità del Dio dei padri a Gesù che rivela il Padre, al Padre dei cristiani (Pierre Ternant, Padri e Padre, in Xavier Léon-Dufour, a cura di, Dizionario di teologia biblica, Marietti, Genova 2000, cc. 821-831). 42 Cfr. ad esempio Lc 2,33. 43 Cfr. Mt 1,21, 24. 44 Cfr. Mt 13,55. «Tutto ciò ha più a che fare con un padre impegnato seriamente nella sua missione familiare anziché con un semplice protettore e uno zelante provveditore» (Boff, Giuseppe di Nazaret, cit., p. 33). 45 Boff, Giuseppe di Nazaret, cit., p. 53. 46 Estio, IV Sent., dist. 30, par. 11. 47 Nel cristianesimo antico Giuseppe era percepito come l’ultimo patriarca, anello di unione fra antica e nuova economia: proprio per questo è stato rappresentato spesso lontano dalla scena principale, pensoso, testimone dell’incarnazione di Cristo, ma poi anche in veste di ultimo ebreo, che come copricapo talvolta portava proprio il berretto a tre punte imposto in molte città medievali agli ebrei. 40

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sentato e descritto (si veda l’apocrifo Vangelo di Giacomo) come un uomo molto anziano48. Il culto di san Giuseppe si sviluppa – talora con sfumature mistiche – nel monachesimo, che ne esalta l’umiltà. E se san Bernardo ne valorizza il legame con il figlio, sono però i francescani che, riscoprendo l’umanità di Gesù, danno nuova enfasi alla Sacra Famiglia, e propongono san Giuseppe come esempio da seguire. Solo per passaggi molto lenti, dunque, Giuseppe cessa di essere un personaggio secondario49. Vi sono diverse spie di tale cambiamento. Ad esempio, il fatto che fra i cristiani Giuseppe, come nome di battesimo, si diffonda dalla fine del Quattrocento e, nelle nuove raffigurazioni della Natività, egli sia rappresentato inginocchiato davanti al figlio, esattamente nella stessa posizione della Vergine50. Nel Cinquecento, mentre la sua immagine ringiovanisce e cresce in altezza (pensiamo allo Sposalizio della Vergine di Raffaello o alla Presentazione al tempio di Luca Giordano), il padre di Gesù assume potenza e dignità non solo visivamente: egli viene infatti indicato come padre spirituale del clero (i francescani chiamano i loro superiori non con il nome «abate», che significa padre, ma con «custode», che evoca colui che aveva il compito di custodire Maria e Gesù). È comunque dopo il Concilio di Trento che il suo culto conoscerà una notevole fortuna, in particolare ad opera di santa Teresa d’Avila che gli era molto devota. La divulgazione degli scritti della santa e la formulazione di preghiere a lui indirizzate gli conferirono nuovo spessore. Ancora una volta, è l’arte a comprovare l’ulteriore evoluzione: 48 È del resto stata messa in luce la somiglianza tra Giuseppe e un personaggio tipico delle novelle satiriche, lo sposo anziano tradito dalla giovane moglie e costretto ad allevare un figlio non suo (Paul Payan, Joseph. Une image de la paternité dans l’Occident médiéval, Aubier, Paris 2006). 49 Nell’arte medievale questo vecchio dalla barba bianca non appare mai solo, ma viene sempre colto come parte integrante di episodi dell’infanzia di Gesù (spesso ispirati ai Vangeli apocrifi); pensiamo, ad esempio, alle celebri rappresentazioni di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova. 50 Un ruolo importante l’ha svolto Jean de Gerson (1363-1429), che ha proposto Giuseppe come modello politico di pace e di unione in una fase estremamente critica per il papato. Erano infatti gli anni dello scisma di Occidente, e fu proprio durante un sermone pronunciato al Concilio di Costanza che Gerson indicò come possibile nuovo modello della Chiesa Giuseppe, al contempo padre e guida della famiglia nonché umile servitore di Gesù. Seppure non ascoltata nell’immediato, nel tempo la sua proposta darà i suoi frutti.

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Giuseppe inizia a essere raffigurato anche da solo. Significativo un dipinto di El Greco, San Giuseppe e il Bambino Gesù (1597-99), che li coglie entrambi in piedi: il padre, alto e giovane, appoggia a sé il figlio. Ciò che colpisce è l’immensa fiducia che il bambino rivela verso di lui51. Con la Riforma cattolica, san Giuseppe diventa il modello del padre per eccellenza, in perfetto equilibrio tra amore per il figlio e ricerca del suo bene da un lato, e fedeltà al Padre celeste dall’altro. L’immagine più bella è quella di Giambattista Tiepolo, Adorazione del Bambino (1732): Giuseppe viene colto mentre è intento a cambiare le fasce dell’infante, mentre Maria è assorta nella preghiera. È l’emblema del padre-marito che cura e protegge la sua famiglia, sia nella dimensione pubblica che in quella intima e domestica52. Cfr. Wolfgang Stadler, Padri e figli, Morcelliana, Brescia 1955, p. 8. Dopo gli attacchi della Rivoluzione francese, Giuseppe è ormai un punto di riferimento importante, una figura cui chiedere protezione e aiuto. Pensiamo ad esempio che nel convulso 1848 la santa Teresa Verzieri raccomandava a una superiora di apporre «a tutte le porte l’immagine di san Giuseppe: egli penserà a custodirci» (lettera di Teresa Verzieri a una superiora, 20 marzo 1848, in Lettere di Teresa Eustachio Verzieri, vol. VIII, Pavoni, Brescia 1878, p. 46). Con l’Ottocento, Giuseppe non è più solo un protettore, ma un modello. E viene valorizzato anche come lavoratore in contrapposizione al socialismo dilagante: se nel 1870 Pio IX lo proclama patrono della Chiesa universale, Pio XII proclamerà il 1° maggio la Giornata di san Giuseppe, il Lavoratore. 51 52

3 PADRE È CHI SI CONFESSA TALE

1. Il padre volontario ‘Devo registrare la nascita di mia figlia’ rispose Osto. ‘Figlia di chi?’ chiese l’impiegato sottolineando l’ambiguità della situazione. ‘Mia’ avvampò il maestro. ‘E di chi?’ infierì velenoso il funzionario, che conosceva Ines, sapeva del suo vecchio matrimonio e del fatto che, la legge è legge, i due non avrebbero potuto riconoscere insieme quella loro bambina senza rischiare denunce, processi, condanne, periodi di reclusione, incagli della carriera scolastica... ‘Di donna che non vuole essere nominata’ deglutì Osto, roso dall’umiliazione. [...] ‘La stessa formula di certe attricette quando fanno figli coi mariti degli altri in giro per il mondo, eh?’. [...] ‘Aliquò Grazia, nata il 24 dicembre...’. ‘Perché Grazia?’. ‘Perché nonostante gente come lei o leggi stupide volute da gente come lei, io e la madre l’abbiamo voluta, attesa e accolta come una grazia di Dio’. ‘Nome pesante, per una figlia adulterina’. G.A. STELLA,

Il maestro magro

Se nel matrimonio l’assenso dell’uomo a riconoscersi padre è implicito, sulla scia del modello francese, l’ordinamento italiano ammette anche l’eventualità di una esplicita dichiarazione, quando un celibe voglia riconoscere un figlio. Ciò che serve è un atto volontario e formale che attesti espressamente il riconoscimento della paternità. È il caso del toscano Enrico Landini, celibe, che l’8 luglio 1890 si reca all’ufficio di stato civile di Firenze e denuncia la nascita di Ida, nata da lui e da donna che non intende essere nominata; e che due anni dopo, il 17 settembre 1892, torna nuovamente all’anagrafe per denunciare la nascita di Albertina.

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Nel caso in cui quest’atto volontario manchi, nessun uomo può essere disturbato in quanto padre di un figlio nato fuori del matrimonio: «la paternità non si ricerca. Essa o si confessa volontariamente ed automaticamente, e si ha la filiazione naturale secondo l’art. 181; altrimenti questa legalmente non esiste, perché si urta di botto nel divieto» di ricerca della paternità1. Come spiega senza mezzi termini la Corte d’Appello di Napoli nel 1887, «la legge ha fissato il suo sistema: alla filiazione naturale non lascia aperta che una sola via per apparire nel mondo, un atto formale di riconoscimento del genitore»2. Per essere valido, questo atto necessita di tre condizioni: chi riconosce deve essere celibe, deve avere la capacità di generare e deve trovarsi nel pieno delle sue facoltà mentali nel momento in cui dichiara di essere padre del nato. L’attestazione può essere inserita nell’atto di nascita (come nel caso di Landini), oppure può avvenire (successivamente o anteriormente al parto) con atto apposito. A questo proposito v’è però una differenza tra i due codici unitari: mentre il Pisanelli parla semplicemente di «atto autentico» (art. 181), il testo del 1942 prevede una formula più ampia e ben più chiara («il riconoscimento del figlio naturale è fatto [...] con un’apposita dichiarazione [...] davanti a un ufficiale dello stato civile o davanti al giudice tutelare, o in un atto pubblico o in un testamento, qualunque sia la forma di questo»: art. 254). Ebbene, vigente il primo codice civile unitario, si era posta la questione di cosa dovesse intendersi con la formula «atto autentico». A differenza della dottrina (che fu alquanto intransigente), la giurisprudenza dell’epoca tese ad essere molto flessibile sulla forma del riconoscimento, allargandone il più possibile il significato, «spinta da un sentimento di pietà e da esigenze sociali»3. Tanto per fare un esempio, si discusse molto (vista la frequenza con cui tale eventualità si verificava) se il riconoscimento potesse essere fatto per testa-

1 Ernesto Gargiulo, Nota a Corte d’Appello di Napoli 11 marzo 1887, in «Il Foro italiano», 1887, I, c. 705. 2 Corte d’Appello Napoli, 11 marzo 1887, ivi, c. 703. Il codice Pisanelli è esplicito nell’affermare che al di fuori del matrimonio si può parlare di padre, dando al nato il cognome dell’uomo, solo laddove costui lo abbia volontariamente riconosciuto. 3 Antonio Cicu, La filiazione, Vita e Pensiero, Milano 1927, p. 187.

3. Padre è chi si confessa tale

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mento olografo: ebbene, con qualche eccezione4, l’orientamento maggioritario fu favorevole a tale possibilità5. Così, a fine Ottocento i giudici di Potenza riconoscono che Grazia Maria Spagnuolo è figlia naturale di Federico Mennuni, avendo egli scritto nel suo testamento: dalla detta mia roba, si dovrà togliere ducati 500 che lascio alla mia figlia Grazia Spagnuolo (figlia naturale) e questa somma le si dovrà dare quando giunge all’età da marito [...]. I miei nipoti, ossia gli eredi istituiti, oppure mio fratello, dovrà pensare a fare educare questa detta mia figlia. [...] Non facendo ciò che io ho detto, tanto mia figlia, quanto la madre, Anna Maria Spagnuolo, avranno diritto di entrare in porzione della mia roba6.

È interessante il caso sottoposto al Tribunale di Milano qualche anno più tardi. Alberto Weill-Schott, morto nel 1901, dichiara nel suo testamento che Leo Prampolini (nato a Gorizia il 22 dicembre 1884 dalla fu Teresa Prampolini) è suo figlio naturale e, contestualmente, lo istituisce erede. Il tutore di Leo, l’avvocato Giovanni Facheris, si rivolge quindi all’ufficiale di stato civile del Comune di Milano perché trascriva il testamento e lo annoti in margine al suo atto di nascita. Da fine conoscitore del diritto (e delle sue dispute) l’ufficiale, però, si rifiuta, stante la discrepanza fra dottrina e giurisprudenza nel valutare se il testamento olografo rientri nella formula «atto autentico» richiesta dal codice per il riconoscimento. Facheris, per tutta risposta, si rivolge al tribunale e vince la causa: i giudici, infatti, affermeranno che essendo il testamento olografo atto autentico «è valido il riconoscimento di un figlio naturale fatto per mezzo del medesimo»7. Analogamente si pronunciano negli anni Trenta i giudici di Milano; il conte Canderari scrive nel suo testamento: 4 Si espressero per la negativa, fra gli altri, Corte d’Appello Catanzaro, 29 marzo 1892; Tribunale Trapani, 16 marzo 1909; Corte d’Appello Palermo, 21 giugno 1909; 4 febbraio 1910. 5 Vigente il codice Pisanelli, l’opinione prevalente fu invece compatta nel negare che il riconoscimento potesse avvenire in testamento segreto. Tuttavia non mancano sentenze che lo ammisero: Corte d’Appello Bologna, 26 luglio 1897; Cassazione Roma, 14 aprile 1898. 6 Corte d’Appello Potenza, 11 febbraio 1898, in «Il Foro italiano», 1898, cc. 522-523 (la sentenza venne confermata da Cassazione Napoli, 27 febbraio 1899). 7 Tribunale Milano, 18 agosto 1902, in «Monitore dei Tribunali», 1902, pp. 9596.

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Parte prima. Il diritto costruisce la paternità

ebbi un figlio che ha nome Luigi Westphal dalla signorina Frieda Westphal abitante in Berlino, via Sophir Charlotten 57-58. A favore di detto figlio ho concluso un’assicurazione di marchi 30.000 con la Società di assicurazione New York sede di Berlino da pagarsi al detto Luigi Westphal alla mia morte, prego avvertire la Società in caso di mia morte8.

La confessione del padre resa in assenza di nozze trasforma lo stato del nato: da figlio illegittimo diviene figlio naturale riconosciuto. Naturale, ovviamente, e nulla più: il riconoscimento volontario non crea, infatti, un padre legittimo né, specularmente, un figlio legittimo. Le conseguenze del riconoscimento si articolano innanzitutto nel diritto di assumere il cognome del padre, senza però porre il figlio riconosciuto (è opportuno ribadirlo) nella stessa posizione del figlio legittimo. A differenza di quest’ultimo, infatti, egli non è collocato all’interno di una famiglia, poiché il riconoscimento implica un rapporto esclusivamente con il genitore che lo effettuò. In altri termini, i figli legittimi sono gli unici a essere parte della famiglia, ad assumerne i titoli, a ereditare anche dagli ascendenti e dagli altri parenti (laddove questi non abbiano congiunti più prossimi), ad aver diritto a essere mantenuti, oltre che dai genitori, da ascendenti, fratelli e sorelle. I figli illegittimi, invece, laddove vengano riconosciuti9, non entrano a far parte della famiglia del genitore, non succedono ai parenti di questo, né hanno diritto agli alimenti dagli ascendenti, e solo in parte ereditano il patrimonio di chi li riconobbe. Pur avendo effetti nei confronti dei due soggetti coinvolti dall’attestazione, il riconoscimento non richiede il beneplacito del figlio (che può essere riconosciuto suo malgrado, salvo impugnazione). Né è richiesto l’assenso dell’altro genitore naturale. Anzi, la dichiarazione non può contenere indicazioni relative a quest’ultimo, e qualora le contenga (come nel caso del testamento olografo del Mennuni precedentemente menzionato) esse non possono comunque venire trascritte nei registri dello stato civile. Può succedere che il genitore naturale, celibe al momento della nascita del figlio, decida di riconoscerlo dopo essersi sposato con una terza persona. In questo caso, il legislatore richiede espressaCorte d’Appello Milano, 12 maggio 1931, in «Il Foro italiano», 1931, I, c. 1304. La legge stabilisce che possano essere riconosciuti solo i figli naturali propriamente detti, coloro cioè che non siano né adulterini né incestuosi. 8 9

3. Padre è chi si confessa tale

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mente che il nato venga introdotto nella casa coniugale con l’assenso del coniuge (salvo che questi avesse già prestato il suo consenso al riconoscimento)10. Se fin qui le regole previste dai due codici civili unitari sono sostanzialmente analoghe, esiste però tra loro una differenza importante. Nel codice Pisanelli del 1865, essendo la patria potestà considerata un istituto esclusivo della famiglia legittima, nel caso di figlio naturale riconosciuto era prevista solo la cosiddetta funzione protettiva (l’art. 184 parla di «tutela legale»), che segna un’ulteriore differenza tra legittimità e illegittimità. Tale discrasia viene invece abbandonata nel 1942, giacché il nuovo codice parla esplicitamente di patria potestà anche in assenza di matrimonio: «il genitore che ha riconosciuto il figlio naturale ha rispetto a lui i diritti derivanti dalla patria potestà, tranne l’usufrutto legale» (art. 260, comma 1). Il quadro generale è chiaro: in un assetto che costruisce la paternità sulla volontà dell’uomo, il riconoscimento spontaneo è qualcosa cui l’ordinamento guarda con favore11. Il legislatore italiano, infatti, se vieta la ricerca della paternità, «però volle rendere agevole al genitore naturale di manifestarsi, limitandosi ad esigere la dichiarazione libera della paternità in qualsiasi maniera espressa»12. Se va rispettata la scelta del padre di «tenersi celato sotto la fitta caligine che circonda l’origine umana», la legge però «in nome della giustizia e dell’umanità» incoraggia i padri a «smettere la maschera che aggiunge colpa a colpa»13. Lo Stato, che nutre una forte preoccupazione per la stabilità della famiglia (chiaramente incrinata dalla inaspettata comparsa di un

Cfr. art. 183 del codice Pisanelli e art. 259 del codice del 1942. Ovviamente non mancò chi criticò il riconoscimento volontario, sostenendo che l’uomo che si fosse nei fatti comportato da padre rivelava verso il figlio un attaccamento maggiore, rispetto a quanto possa attestare un atto formale di riconoscimento (che «è opera di un momento, di una confessione istantanea, che può essere il frutto della sorpresa o d’incalzanti premure», mentre il possesso di stato «è un riconoscimento continuo, perseverante tutt’i giorni, in tutti gli istanti, offrendo così al più alto punto tutte le garentie possibili della libertà e della sincerità»: Alexandre Duranton, Corso di diritto civile secondo il Codice francese, Domenico Capasso Libraio-Tipografo Editore, Napoli, 1841, vol. 1, p. 178). 12 Corte d’Appello Napoli, 19 novembre 1888, in «Il Foro italiano», 1889, c. 236. 13 Ibid. 10 11

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figlio illegittimo14), non solleva obiezioni laddove l’uomo voglia proclamarsi spontaneamente padre: l’assunto implicito è che in questo caso è il singolo che valuta nel concreto i pro e i contro della sua scelta, assumendosene le conseguenze15. Conseguenze, com’è evidente, anche di un legame non vero. Con il suo atto formale, infatti, l’uomo dichiara di essere certo che il figlio è effettivamente suo. Come ancora si commenta nel 1963, questo riconoscimento «da parte di un uomo contiene un elemento fideistico [...]. L’atto della fecondazione da parte dell’autore è assunto nel suo essere probabile anziché nel suo essere certo»16. Non mancano, del resto, i casi – anche celebri – di uomini che, in piena consapevolezza, riconoscono come propri figli che in realtà non lo sono. È il caso, ad esempio, del figlio della modella e poi pittrice francese Suzanne Valadon (1867-1938): Miguel Utrillo, un pittore e critico d’arte catalano, che più tardi diverrà un grande amico di Picasso [...] è solo un amante passeggero che, con un gesto generoso, dà il suo nome al piccolo Maurice. Quando avviene il riconoscimento Maurice ha già 8 anni. Nel certificato di nascita Suzanne si dichiara sarta, che le pare una professione più rispettabile di quella di modella17.

2. Anche in assenza di nozze i figli sono proprietà del padre Una volta chiesi a Ede come aveva reagito suo padre scoprendo che era incinta, e lei si fermò di colpo, irrigidendosi come se l’avessi picchiata. Non «Nel piccolo Stato come nella Nazione bisogna nascere per fruire dei diritti, ed in quello non si nasce propriamente che all’ombra del matrimonio il quale ne è la vera base» (Corte d’Appello Milano, 29 marzo 1887, in «Monitore dei Tribunali», 1887, p. 362). 15 Ovviamente l’uomo doveva inequivocabilmente dimostrare la sua volontà di riconoscere il nato. Si pensi che ancora negli anni Quaranta i giudici non ritenevano valido il riconoscimento compiuto nell’atto del battesimo cattolico (Cassazione, 5 agosto 1943, n. 2028), mentre a fine anni Sessanta venne del pari esclusa la validità di quello fatto in un atto di matrimonio canonico trascritto (Corte d’Appello Milano, 3 maggio 1969). 16 Tribunale Venezia, 12 febbraio 1963, in «Giustizia civile», 1963, p. 1460. 17 Giuseppe Ardolino, Le impressioniste, Stampa Alternativa, Viterbo 2005, p. 130. 14

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ne parlo mai, rispose. Ma non diede spiegazioni. Avevo dieci anni. Forse è per questo. In qualche modo c’entrava l’impertinenza di un ragazzino cui era venuto in mente che un marmocchio di 10 anni e una vecchia signora di 54 potessero parlare della nascita di un figlio illegittimo. T. FINDLEY,

La figlia del pianista

Quando il figlio nasceva al di fuori della famiglia, anche se veniva riconosciuto da entrambi i genitori, con i quali manteneva comunque legami singoli, il padre e la madre non erano mai posti sullo stesso piano. Una norma presente in entrambi i codici civili unitari, infatti, prevedeva che laddove i genitori naturali avessero riconosciuto la prole in tempi diversi, prevalesse sempre e comunque il riconoscimento paterno. Nella pratica, questo significava non solo un cambiamento di cognome se il padre effettuava il riconoscimento in un secondo momento, ma anche la perdita per la madre di qualsiasi diritto sul figlio. Le conseguenze erano davvero devastanti, e tantissime donne, sia prive di mezzi che forti e autonome, dovettero subire la violenza di questa norma. Aule di tribunali, autobiografie e letteratura sono ricchissime di madri che, dopo aver preso la coraggiosa decisione di tenere i figli, e dopo aver sofferto e faticato per crescerli, se li vedono sottrarre dall’uomo, improvvisamente colto da un repentino e impellente sentimento paterno. Spesso si tratta di giovani domestiche che, messe in strada dalla padrona appena al corrente della gravidanza e dell’identità del suo autore, vengono poi private dei figli a distanza di anni, quando l’uomo si deve arrendere allo spettro di un matrimonio sterile (per molti versi, una situazione speculare a quella incontrata nel capitolo precedente). Luciana Coen Cardone, che per decenni ha lavorato presso il Centro illegittimi dell’assistenza materna in via dello Scalone a Roma (ente che nel 1930 fu assorbito dall’Opera nazionale maternità e infanzia), in un interessante volume ha raccontato la sua esperienza in quella che definisce «la più brutta maternità» della capitale. Fra le altre, vi troviamo la storia di Dora, una montanara di poverissima famiglia abruzzese che negli anni Trenta, ancora bambina, viene mandata a Roma per lavorare. Qui viene assunta come cameriera da gente ricca e «molto per bene», due coniugi maturi con un figlio unico. Ben presto il giovane si invaghisce di lei, e così «fu la solita sto-

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ria del cosiddetto amore [...], la solita triste storia»; Dora rimane incinta e quando, ingenua e fiduciosa, si confida con la padrona viene licenziata in tronco: «Le fu regalata una piccola somma e l’assicurazione che la sua confessione sincera non era stata creduta. Le fu ingiunto di guardarsi bene dal raccontare in giro le sue bugie che avevano tutta l’aria di un ricatto, se non voleva guai peggiori»18. Scartata l’eventualità di ritornare al paese d’origine, la ragazza fa di tutto per tenere il bambino con sé: uscita dall’albergo di maternità, in cui rimane fino al termine dell’allattamento, riesce con grande impegno a trovare un lavoro (fa le pulizie in un’azienda) e si trasferisce con il piccolo in una stanza in subaffitto. Le cose procedono per il meglio: sia Dora che suo figlio sono felici, e molto legati tra loro19. Passano così alcuni anni, finché una domenica pomeriggio, mentre sta passeggiando con il figlio, si avvicina un’auto. È l’ex amante: Il signorino (non lo nominava mai come il padre della sua creatura) l’aveva chiamata, le aveva chiesto (e per fortuna Dora non aveva fatto caso all’offesa implicita) se quello era il suo bambino. [...] Gli aveva detto di sì, che era quel bambino, e chi altri poteva essere? Lui aveva detto che, davvero, gli assomigliava e che aveva una fotografia di quando era piccolo e sembrava proprio la fotografia di quel bambino. Forse in quel momento egli aveva avuto il risveglio di un amore paterno tardivo. Era uomo e avvocato, e pensò ai propri diritti, non al nuovo colpo che avrebbe inferto alla donna che era stata già, per sua colpa, offesa e mortificata.

È Dora a raccontare la vicenda alla Coen, eccitata e raggiante: «è sposato, ma non ha figli. Dice che la moglie non li può fare [...] che fortuna». Coen Cardone cerca di spiegarle che, in realtà, la situazione è molto preoccupante: la legge può toglierle il figlio. Ma Dora 18 Luciana Coen Cardone, Gli illegittimi, Gielle, Roma 1957, p. 7. Questa triste situazione accomuna vari contesti culturali: Billie Holiday (1915-1959), ad esempio, nella sua autobiografia racconta che «la mamma lavorava come cameriera da una famiglia di bianchi, e quando i padroni si accorsero che era incinta la buttarono fuori su due piedi» (Billie Holiday, La signora canta il blues, Feltrinelli, Milano 2002, p. 5). 19 «La donna presso cui vivevano mi raccontò [...] che la sera il piccino aspettava la madre seduto su una seggiola dietro la porta di casa, ci si metteva da solo, ed aspettava così, non appena cominciava a farsi buio» (Coen Cardone, Gli illegittimi, cit., p. 72).

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non stette nemmeno ad ascoltarmi fino in fondo. Si alzò sdegnata. Come poteva esistere una cosa simile? Come poteva credere lei, che ci fosse una legge che, pur facendo il bene di suo figlio, avrebbe tolto a lei, la madre, a lei che lo aveva partorito ed allattato, che l’aveva allevato con tutti i riguardi fin ora, il suo bambino?

Eppure le cose andranno esattamente così: dopo qualche mese, infatti, Dora torna sola e Coen stenta addirittura a riconoscerla. Davanti ha una donna distrutta: L’occhio smarrito, la bocca sdentata spalancata, urlava e si dava terribili pugni sulla testa e sul petto. Non mi riuscì di farla smettere, non mi riuscì di calmarla nemmeno un poco. [...] Fummo costretti a chiamare un’ambulanza. La portarono via ancora urlante ed immobilizzata in un’improvvisata camicia di forza20.

Questa vicenda, e la norma del codice civile che la rese possibile, dimostrano come la paternità sia un rapporto che, a prescindere dal suo verificarsi in costanza o in assenza di matrimonio, prevale sempre e comunque sulla relazione materna. Qui il legislatore rivela forse una delle sue facce peggiori perché l’autorità paterna fagocita i rapporti, gli interessi e i sentimenti della madre. È l’ennesima conferma di come il diritto prevalga sulla natura; di come la donna sia ancora considerata solo la custode del seme maschile (se già nell’antica Grecia era diffusa l’idea che la donna fosse mero contenitore – pensiamo alle Eumenidi di Eschilo –, ancora a metà Ottocento Proudhon considera la madre un ricettacolo di germi che l’uomo produce, come la terra per il grano). E dimostrano anche come una costruzione giuridica, una volta impostata, segua una sua coerenza interna, fino alle estreme conseguenze. Anche Maria Montessori ha vissuto, sia pure con alcune varianti, la violenza del padre di suo figlio. Il 31 marzo 1898 Maria partorisce Mario. Il padre del neonato è un suo collega, Giuseppe Montesano, che ella non sposerà mai21. Il parto avviene di nascosto. Ivi, pp. 72-74. Qualcuno ha sostenuto che ciò non avverrà per la netta opposizione della madre di Maria, «non tanto a causa dell’origine ebraica di Montesano come è stato ipotizzato, quanto perché non voleva assolutamente che la figlia buttasse al vento la posizione conquistata, davvero rara per una donna del suo tempo» (Grazia Ho20 21

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Accettando che Mario restasse separato da lei per non portare noia agli adulti, Maria dovette rendersi conto che era come tutti: anche lei abbandonava un bambino debolissimo, anche lei era egoista, e si conformava alle convenzioni. E per di più, si era lasciata convincere ad abbracciare una segretezza che contrastava fortemente con la trasparenza della scienza in cui continuava a credere [...]. Doveva non solo nascondere l’esistenza di Mario, ma era anche costretta a celare la sua gravidanza e la sua maternità, fingendo di essere ancora vergine22.

Il neonato viene affidato a una famiglia di Vicovaro in Sabina, presso la quale rimarrà per i successivi quattordici anni (senza sapere chi siano i suoi veri genitori). Montessori ogni tanto va, in assoluto segreto, a visitarlo: la sofferenza per lei è enorme. È distrutta come madre e come pedagogista: Maria, infatti, sa benissimo quanto siano decisivi gli anni dell’infanzia per la crescita fisica e psicologica dei bambini. A rendere ancor più complesso il rapporto tra Maria e suo figlio v’è il fatto che il bambino è stato formalmente riconosciuto come suo da Montesano, il che significa che è solo lui ad avere il diritto di prendere le decisioni che lo riguardano. Maria ha quindi bisogno dell’autorizzazione dell’uomo quando nel 1913, alla morte di sua madre, prende Mario con sé, presentandolo ora come suo nipote, ora come figlio adottivo (solo nel testamento ammetterà che è suo figlio, cosa che tutti avevano già capito23). Anche questa vicenda dimostra dunque che è sempre il padre che conta: il padre legittimo esattamente come il padre naturale. Con l’aggravante che quest’ultimo può impunemente, con facilità estrema, reclamare quando vuole i suoi diritti, in barba al figlio e, sonegger Fresco, Maria Montessori, una storia attuale, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli-Roma 2007, p. 39). 22 Marjan Schwegman, Maria Montessori, il Mulino, Bologna 1999, p. 58. 23 Ivi, passim; Valeria P. Babini, Luisa Lama, Una «donna nuova». Il femminismo scientifico di Maria Montessori, Franco Angeli, Milano 2000. Il ragazzo, intendendo sottolineare il suo rapporto con la madre, si firmerà sempre Mario M. Montessori. Un decreto del Presidente della Repubblica lo autorizzò nel 1950 a usare il doppio cognome («Giuliana Sorge mi disse nel 1984 che era stata lei, su richiesta della Montessori, a rivolgersi per questo a De Nicola, che conosceva: è facile immaginare che fosse il risultato di una lunga pratica burocratica, intrapresa per regolare la situazione. In ogni caso, Mario e i suoi figli manterranno il cognome Montessori»: Honegger Fresco, Maria Montessori, cit., pp. 40-41).

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prattutto, alla madre. Come notava lucidamente Anna Maria Mozzoni nel 1877, nella famiglia «l’uomo investito di tutte le capacità e di tutti i diritti non ha doveri, se non in quanto ha l’onestà di riconoscere, dacché il marito li può declinare con l’assenza, il padre naturale col divieto di ricerca della paternità»24. Insieme a molte tristi vicende, Coen Cardone riporta però anche la storia di una donna, Annamaria, che oltre a essere bellissima (di mestiere fa l’indossatrice) è anche scaltra, e riesce perciò a vendicare tante altre. Durante la relazione decennale con un uomo, la ragazza abortisce più volte, finché il medico si rifiuta: un nuovo aborto potrebbe esserle fatale. L’amante la prega e la minaccia, ma Annamaria decide di tenere la bambina, ritrovandosi così sola: l’uomo le chiude tutte le porte, e non risponderà mai neppure alle tantissime lettere che Paola (la figlia) gli scriverà25. Anni dopo, però, la donna viene contattata da un avvocato: il padre di sua figlia ha deciso di riconoscerla purché Annamaria scompaia e rinunci per sempre a vederla. La donna, che sa benissimo come il diritto sia contro di lei, «ascoltò con simulata benevolenza il discorso fattole così dall’alto e poi chiese se l’avvocato parlava per incarico del signor tale. E disse un nome inventato e che non aveva nulla a che fare con quello dell’uomo». Fa quindi presente all’avvocato che il suo cliente sa benissimo di non essere il vero padre di Paola, cosa che ha sempre negato davanti a tanti testimoni. Non capisco come ora, dopo tanti anni, gli sia saltato in mente di fare un simile inganno allo stato civile, a me, alla mia figliola e a un legale serio come lei. [...] Annamaria non si lasciò commuovere, né si lasciò corrompere dalle offerte sempre più generose che le vennero fatte. Un giorno mi disse: ‘quello sciocco ha scelto da sé la sua condanna quando ha distrutto le prove della sua paternità, rimandandomi tutte quelle disgraziate lettere [...]. Dal momento che ha voluto cancellare per anni dalla sua 24 Anna Maria Mozzoni, Del voto politico delle donne, in «La Donna», 30 marzo 1877. 25 «A 7 anni, quando la bambina fa la prima comunione, Annamaria manda all’uomo la foto con scritto ‘Paola prega per il suo caro papà’. Solo a questa ebbe risposta: le giunge una grande scatola che conteneva tutte quelle povere lettere [...] che non erano state lette perché erano tutt’ora intatte, neanche aperte. Meno l’ultima. Questa riportava l’immagine della sua bambina e, sotto la dedica, la mano dell’uomo aveva tracciato un’offesa triviale aggiungendovi te e tua madre. Da quel momento Annamaria smise di scrivere» (Coen Cardone, Gli illegittimi, cit., p. 78).

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vita sua figlia e me, preferisco che mia figlia porti solo il mio nome. Io l’ho partorita, io l’ho allevata tanto faticosamente, l’ho sempre amata’26.

Sono stati davvero frequenti questi ricatti da parte dei padri naturali. Facendo leva sul sentimento materno, tentano di convincere le madri a lasciare loro i figli che, vivendo con un cognome legittimo e in un contesto economicamente solido, avranno sicuramente un avvenire migliore. È il caso dell’ingegner Attilio Bolla, padre naturale di Attilia, nata a Como il 5 marzo 1871 e iscritta nei registri dello stato civile come figlia di padre ignoto e di donna nubile. L’uomo tempesta la donna di lettere: Tu ami l’Attilia non è vero? E se veramente l’ami devi cercare il suo bene. Io ti ho fatto delle proposte sul suo avvenire, quelle proposte io le mantengo ancora. Non dirmi di no, prima pensaci bene, rifletti che la sua posizione continuando così è falsa, è falsa, come lo fu fino ad oggi la nostra, che venendo grande dovrà rimpiangere la sua sorte, che la società in questi affari è alquanto ingiusta e punisce nei figli gli errori dei genitori, che l’Attilia quantunque innocente dovrà subirne le conseguenze e conosciute le lacrimevoli fasi della sua esistenza potrebbe rimproverare la madre della sua caparbia ed ostinatezza. Comprendo benissimo quale immenso sacrificio io ti chieggio, ma tu lo farai per tua figlia, e la madre non deve essere perplessa a dare anche la vita per fare la felicità della figlia. Dal canto mio io ho già pensato alle conseguenze ed agli impegni che vado incontro, ho giurato di non vivere per me, ma per gli altri, e questa è la migliore occasione per mettere in pratica il mio giuro, tanto più che ho la fortuna di accoppiare alla fede le affezioni del cuore. L’Attilia in mia mano crescerà onesta e stimata ed avrà una posizione sociale perché io, te lo prometto, farò di tutto per farle una discreta posizione27. 26 Ivi, p. 79. La storia finisce anche meglio: «la coraggiosa Annamaria ebbe la soddisfazione di trovare anche il rimedio alla deficienza esistente nell’atto di nascita di sua figlia. [...] Una compagna di lavoro, morta tra le sue braccia in seguito ad un incidente stradale, le aveva raccomandato, con le ultime parole, un cugino ricoverato da tempo in sanatorio. Annamaria, fedele alla promessa, si era recata spesso a trovare e a confortare il pover’uomo [...]. Un giorno, aggravandosi, l’aveva mandata a chiamare e le aveva proposto di sposarla e di legittimare la giovane Paola» (ivi, pp. 79-80). 27 Corte d’Appello Milano, 26 aprile 1892, in «Monitore dei Tribunali», 1892, p. 554. In un’altra si legge: «Se non ti faccio mia compagna, se non ti stendo le braccia per involarti ad una equivoca posizione egli è che la fatalità ti ha perseguitata. Dammi l’Attilia ché profonderò in lei quell’immenso affetto che il destino ha im-

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Fra i poteri che spettano agli uomini, il legislatore unitario previde anche la possibilità del disconoscimento di paternità. Come commenterà una sentenza nel 1925, «è di alto interesse pubblico che siano scoperte e perseguite le frodi attinenti allo stato di filiazione. Fra queste frodi una delle più gravi e pericolose è certamente il riconoscimento non veridico»28. Del resto, «se è impossibile provare che il figlio abbia avuto per padre una determinata persona, non è difficile invece in molti casi fornire la prova che tale persona non ha potuto essere l’autore del concepimento»29. Trattandosi di ipotesi delicate per le loro conseguenze, la legge pone però una serie di regole precise. Molto duro era stato, ad esempio, Napoleone, che aveva circoscritto tale possibilità a rigide limitazioni onde scongiurare i rischi di disordine sociale cui il disconoscimento avrebbe potuto facilmente condurre. Così l’art. 316 del codice civile francese dava al marito strettissimi termini temporali per esercitare l’azione: chi non agiva tempestivamente, infatti, ammetteva implicitamente – secondo le parole di Honoré Duveyrier, uno dei redattori – di «non aver ricevuto alcuna offesa, o averla perdonata; e in ogni caso la legge, come la ragione, preferisce il perdono alla vendetta [sic!]»30. Il codice Pisanelli fu un po’ più liberale. L’art. 161, infatti, vietava il disconoscimento nelle seguenti ipotesi: laddove il marito fosse stato a conoscenza della gravidanza prima del matrimonio (l’uomo, conoscendo la situazione, avrebbe tacitamente riconosciuto il figlio come proprio); quando risultasse dall’atto di nascita che il marito assistette a quell’atto, personalmente o per mezzo di altra persona da lui espressamente autorizzata (anche in questo caso si tratterebbe di accettazione tacita); infine quando il parto fosse stato dichiarato non vitale (qui sarebbe mancato il diritto di disconoscere mancando la persona contro cui far valere il diritto). Il codice del 1942, invece, restrinse le fila e diede al marito la facoltà di disconoscere in soli due casi: quando fosse stato consapevole della gravidanza prima del mapedito che ponessi in te. Questa è l’unica cosa che io possa fare che ti possa dare piacere» (ibid.). 28 Tribunale Viterbo, 12 marzo 1925, in «Il Foro italiano», 1925, c. 574. 29 Vittorio Wautrain Cavagnari, Filiazione, in Enciclopedia giuridica italiana, vol. VI, t. 2, Società editrice libraria, Milano 1903, pp. 670-71. 30 Marcela Iacub, L’impero del ventre. Per un’altra storia della maternità, Ombre Corte, Verona 2005, p. 30.

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trimonio e quando risultasse dall’atto di nascita che il marito aveva fatto la dichiarazione personalmente o per procura. In entrambi i testi, però, la logica sottostante è simile: allorché il legislatore indica le ipotesi in cui il padre non può avviare l’azione di disconoscimento, elenca una serie di casi in cui l’uomo ha, in qualche modo, consapevolmente avallato quel riconoscimento non veritiero31. Insomma, come la paternità può essere attestata ricorrendo al diritto, così, sempre ricorrendo al diritto, essa può essere cancellata, o meglio decostruita («una rosa è una rosa anche se ne mutassimo il nome, ma un padre senza l’appellativo di padre è solo un vuoto suono»32). È esattamente il caso di Dino, protagonista del romanzo di Lia Levi L’albergo della magnolia. Padre legittimo di Michele, nell’Italia fascista viene costretto a rinunciare alla sua qualifica (sul piano giuridico e, quindi, all’atto pratico) perché ebreo. Sposato con Sonia quando le unioni miste erano ancora lecite, Dino vede attribuito suo figlio al cugino della madre, che è, come lei, cristiano. Fu una sera verso la fine dell’anno che Sonia mi parlò. Alzando su di me lo sguardo angosciato che ormai le era diventato consueto, mi disse piano che il prossimo autunno Michele sarebbe dovuto andare a scuola e [...] che a scuola si sarebbe presentato con un cognome segnato sulla lista dei cognomi ebraici. Anche se battezzato, sui documenti sarebbe risultato di ‘razza ebraica’ per via del padre. Insomma, Michele sarebbe stato classificato come ‘misto’. Un ‘meticcio’ secondo una rivista appena uscita. [...] «Non so cosa potrebbe accadere un giorno a nostro figlio!» finì Sonia in lacrime. «Cosa posso farci io!» le gridai esasperato, «anche se mi togliessi di mezzo, scappando chissà dove, o magari ammazzandomi, il cognome e il ‘misto’ resterebbero lo stesso!».

È a questo punto che la donna rivela il suo progetto: «si potrebbe fare in modo invece di cancellare la paternità» mi disse Sonia a voce bassissima. La guardai fisso. Questa non era una frase uscita così, nella foga dell’esasperazione, no, qui c’era un’idea precisa. Ma che dietro 31 Ovviamente, giacché i bambini non nascono dai corpi dei loro genitori, ma dalle loro nozze, dinanzi a un disconoscimento di paternità andato a buon fine cade anche il legame con la donna, che non è più madre del nato. 32 Lia Levi, L’albergo della magnolia, Edizioni e/o, Roma 2001, p. 199.

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ci potesse essere addirittura un piano attentamente studiato, beh, quello non potevo proprio immaginarmelo. «E come si fa a cancellare una paternità? Dimmelo un po’» buttai lì, tanto per prendere tempo. «Pasticciando con i documenti, organizzando qualche falsificazione, naturalmente con l’accordo di persone che ci possono aiutare». «Spiegati meglio» le dissi, questa volta con forza. E Sonia mi spiegò. [...] Un disconoscimento di paternità, ecco di cosa si trattava. Sì, con una solida argomentazione alle spalle. Per esempio l’impotentia generandi, l’impossibilità di generare. «Mio padre ha già dei contatti con i medici e gli avvocati giusti. È solo questione di soldi». Suo padre... ma allora era vero. Quella gente aveva preparato un piano, anzi, il piano. Erano stati lì riuniti a complottare attorno a un tavolo per chissà quanti giorni, per cambiare a piacimento le linee dei destini altrui. [...] «Così io potrei non essere più il padre di Michele, e Michele diventerebbe libero, un ariano al cento per cento, e figlio di chissà chi... vero?» mormorai, e Sonia assentì. «E... e il nostro matrimonio?». «Beh...» Sonia si torceva spasmodicamente le mani, «con una motivazione come quella, la Sacra Rota potrà annullarlo... ma è solo una formalità. Tra noi e dentro di noi non cambierà niente. Riusciremo a vederci e ad amarci come prima» [...]. Il piano, loro avevano messo a punto il piano, e Sonia ne era la portavoce. La portatrice sana. [...] Il piano non si esauriva con la sua semplice enunciazione. Le cose erano molto complicate e s’infilavano una dietro l’altra a formare una catena che in nessun punto poteva più venire spezzata. Incontri, visite, documenti, spostamenti e il resto... tutto doveva risolversi per completare il piano. Quando questo fosse stato davvero completato, io sapevo benissimo che a un certo momento mi sarei dovuto allontanare [...]. Lasciavo mio figlio. Lui era mio figlio, ma io non ero più suo padre33.

Non mancano casi di paternità decostruite e ricostruite un po’ a piacimento. A volte è la donna stessa ad agire. È il caso della giovane bolognese Novella Tosi, che incontriamo in tribunale nella causa in cui si discute della paternità di suo figlio Ermanno, conteso da due uomini, Libero Serra e Giuseppe De Vincenzi34. La vicenda dimoIvi, pp. 162-65, 199. Novella Tosi non sembra aver paura di ciò che si possa dire di lei, ma segue il suo cuore non volendo rinunciare a nulla, nemmeno a suo figlio. Da un certo punto in poi in letteratura compaiono giovani donne che hanno il coraggio di seguire il loro cuore e, soprattutto, la loro inclinazione, ma per solito è proprio la prole a dover essere necessariamente sacrificata. Su tutte si pensi alla Nora di Casa di bambola di Ibsen. «– Abbandonare il tuo focolare, tuo marito, i tuoi figli! [...] è rivoltante! Così tradisci i tuoi più sacri doveri? – Che cosa intendi per i miei più sacri 33 34

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stra chiaramente come la realtà possa essere addirittura più ricca e sfaccettata della letteratura. La Tosi conosce il Serra nel 1928, all’epoca già impegnato con una ragazza che, in pieno accordo con le rispettive famiglie, avrebbe dovuto sposare. Conosciuta Novella, però, Libero abbandona la fidanzata, e dichiara alla sua famiglia (ovviamente contraria) che vuole sposarla. La scelta di concepire un figlio diventa quindi una precisa strategia per convincere i genitori. Ermanno nasce il 23 gennaio 1929, e la decisione comune è di omettere il riconoscimento paterno in modo da poter usufruire del sussidio di maternità. Il fatto è che Libero non ha ancora trovato un lavoro, il che impedisce anche la celebrazione del tanto sospirato matrimonio. La nascita del nipote, però, convince i riottosi (e benestanti) nonni ad aiutare la coppia, alla quale donano un appartamentino ammobiliato dove i due vanno a vivere con il bambino. Ormai avviate le pratiche per le nozze, avviene il colpo di scena: nel caffè gestito dai genitori del Serra, Novella conosce Giuseppe De Vincenti, di cui diviene l’amante nel 1931. Travolta dalla nuova passione, la Tosi abbandona la casa portando con sé il piccolo Ermanno, e di lì a poco sposa Giuseppe, riuscendo a convincerlo a riconoscere il bambino: Libero reagisce riconoscendolo a sua volta. Un caso ingarbugliato si pone dunque dinanzi ai giudici. Scartato il criterio cronologico del riconoscimento dei due uomini35, e posto che nessun valore viene dato alle parole della madre, sia in primo sia in secondo grado i giudici daranno ragione a Libero36. Anche se il matrimonio costruisce la paternità, un limite comunque esiste. Se dunque il diritto dà la possibilità di disconoscere un figlio, già nell’Ottocento iniziò a profilarsi, quantomeno sul piano affettivo e

doveri? – E debbo dirtelo? Non son forse i doveri verso tuo marito e i tuoi bimbi? – Ho altri doveri che sono altrettanto sacri [...]. I doveri verso me stessa» (Henrik Ibsen, Casa di bambola, Einaudi, Torino 1963, p. 86). Celebre è l’eco che queste parole produssero in Sibilla Aleramo che nella sua autobiografia racconta proprio di aver avuto chiara consapevolezza di essere «gioco e diletto» per l’uomo vedendo in scena nel 1901 la storia di Nora, «povera bambola di sangue e di nervi» (Sibilla Aleramo, Una donna, Feltrinelli, Milano 1950, p. 151). 35 «Nella disputa non può influire in alcun modo l’anteriorità, [...] chi ha riconosciuto prima non ha alcun diritto di preferenza verso l’altro giacché la sua diligenza non dimostra in alcun modo che egli sia il vero padre» (Corte d’Appello Bologna, 21 maggio 1934, in «Il Foro italiano», 1934, c. 470). 36 Ibid.

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sociale, l’ipotesi inversa: quella, cioè, di un figlio che rifiuta il proprio padre. È la comparsa della figura del padre indegno. Proprio nel XIX secolo cade l’antico postulato della bontà naturale del padre. Se non è certo una novità l’uomo che picchia il figlio, finora però nessuno (e meno che mai il legislatore) aveva pensato che le sue azioni fossero passibili di condanna, giacché si riteneva innata la facoltà paterna di giudicare e punire. Ora invece il padre è oggetto di valutazione e sorveglianza da parte dello Stato; si interrogano vicini, conoscenti e colleghi per controllarne abitudini e moralità. E questo migliora le condizioni di mogli e figli. Celeberrima è la tesi di Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, il suo ultimo capolavoro (1879-80); non è il figlio che ha il dovere del rispetto filiale, è il padre che deve esserne degno: Portare amore a un padre, che non giustifichi codesto amore, è un controsenso. Non è possibile crear l’amore dal nulla [...]. ‘Padri, non esacerbate i vostri figli’ scrive [...] l’apostolo. [...] Sì, ottemperiamo noi per primi al comandamento di Cristo, e solo allora ci potremo permettere di esigere altrettanto dai nostri figliuoli. Altrimenti noi non siam padri, ma nemici dei figli nostri, ed essi non sono figli nostri, ma nostri nemici, e noi stessi ce li siam fatti nemici! [...] Dico apertamente: colui che genera, non è ancora padre; padre è colui che genera e se ne rende degno37.

In Sartre, invece, è proprio l’assenza del padre a dare al figlio un valore e un prestigio particolare: «Un buon padre non esiste; è la norma; non si accusino gli uomini bensì il legame di paternità che è marcio. Fare figli, non c’è cosa migliore; averne, che cosa iniqua!». Non averli diventa così un decisivo elemento di forza: se fosse vissuto, mio padre si sarebbe steso lungo sopra di me e m’avrebbe schiacciato. Per fortuna è morto prematuramente [...]. Ho lasciato dietro di me un giovane morto che non ebbe il tempo d’essere mio padre [...]. La mia fortuna fu di appartenere ad un morto: un morto che aveva versato poche gocce di sperma che costituiscono il prezzo corrente di un bambino; ero un feudo del sole38. 37 Fëdor Mihajlovicˇ Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, Torino 1996, p. 974. 38 Jean-Paul Sartre, Le parole, Net, Milano 2002, pp. 17-18. Il libro uscì nel 1964, lo stesso anno in cui Sartre rifiutò il premio Nobel per la letteratura.

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3. La confessione di Benito Mussolini Non c’è problema che interessi l’Italia che il fascismo non abbia affrontato e risolto. ANONIMO,

Diario scolastico, 1934-35

Il Duce e, più in generale, la politica del regime insistettero molto sull’esaltazione della figura paterna. «Se un uomo non sente la gioia e l’orgoglio di essere ‘continuato’ come individuo, come famiglia, come popolo; se un uomo non sente per contro la tristezza e la onta di morire come individuo, come famiglia, come popolo, niente possono le leggi» – scrive Mussolini39. Noto per le sue doti di seduttore40, padre di cinque figli legittimi e (pare) di almeno lo stesso numero di illegittimi41, a uno solo di questi, però, Mussolini fece l’errore di dare il suo cognome. Un errore di valutazione che, se fu a lungo un incubo per il Duce, lo fu ancor più per Benito Albino e per sua madre Ida Irene Dalser: la necessità di cancellare quella paternità, infatti, costò loro letteralmente la vita. Ingiustamente internati in manicomio, vi moriranno entrambi a distanza di cinque anni l’una dall’altro. A fine Ottocento Ida Irene Dalser, nata nel 1880 a Sopramonte (un paesino vicino Trento), si reca prima a Milano, dove consegue un diploma di massaggiatrice all’Ospedale Maggiore, e poi a Parigi per un secondo diploma alla Scuola di ortopedia e massaggi, perfezionandosi presso il professor Archambaud. È il febbraio 1913 quando Ida torna a Milano, dove apre il Salone orientale di igiene e 39 Benito Mussolini, Prefazione, in Richard Korherr, Regresso delle nascite. Morte dei popoli, Unione Editoriale d’Italia, Roma anno XV [1937], p. 22. 40 Cfr. ad esempio l’articolo che «Il Mattino» pubblica in prima pagina il 7 aprile 1946 a firma di Ercole Boratto, autista di Mussolini, dal titolo Una nidiata di gentildonne. In esso si racconta della relazione con Claretta Petacci, circondata da un gran numero di altre frequentazioni: «nonostante l’impetuosa passione suscitata da Claretta, Mussolini non fu insensibile alle grazie di altre donne: era evidentemente infedele per natura». 41 Sette ne conta Francesco Messina, Mussolini latin lover, Associazione culturale Carmelo Parisi, Fiumedinisi 1998. Presunti illegittimi continuano a spuntare qua e là. Si vedano da ultimo le dichiarazioni di Cladìa Apriotti (classe 1931), che sostiene di essere la figlia segreta del Duce e della principessa romana Sveva Colonna (dal 2000, da quando cioè l’ordinanza del Tribunale civile di Roma ha fissato la data per la prosecuzione del processo, sulla vicenda è sceso un velo).

3. Padre è chi si confessa tale

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bellezza Mademoiselle Ida. Sebbene gli affari vadano a gonfie vele, in cerca di pubblicità la donna si reca dal direttore dell’«Avanti!»: sarà amore a prima vista. Ida non esita a sacrificare tutta se stessa per Mussolini, che all’epoca non se la passava molto bene: passo dopo passo la donna arriva a vendere il salone per far fronte alle necessità economiche dell’amato. Pur tra difficoltà concrete, il ménage tra i due procede felice42. Intanto scoppia la guerra e il 31 agosto Mussolini, richiamato con la classe 1883, viene assegnato all’XI Bersaglieri, 5a Compagnia: parte sapendo che Ida aspetta un bambino da lui. Il parto avviene dopo poco: l’11 novembre 1915 nasce Benito Albino (di lì a poco un documento del sindaco di Milano «attesta che la famiglia del militare Mussolini Benito è composta dalla moglie Ida Dalser e da figli numero uno»43). Ida gli scrive quindi la buona notizia, ma non riceve alcuna risposta. In dicembre le arriva invece un telegramma dal direttore dell’ospedale di Treviglio, il dottor Bezzola, che le comunica che il bersagliere Mussolini è lì ricoverato «per ittero catarrale». Ida si reca precipitosamente da lui il 18 dicembre: il giorno prima, Mussolini ha contratto matrimonio civile con Rachele Guidi44. Ida Dalser ovviamente lo ignora. Continuando nel suo doppio ménage, l’11 gennaio 1916 Mussolini è nello studio dell’avvocato Guido Gatti, dinanzi al notaio Vittorio Buffoli. In presenza dei testi Carlo Olivini di Brescia e Irma Marcosanti di Viareggio, il futuro Duce sottoscrive una dichiarazione con la quale riconosce, «per ogni conseguente fatto di legge», che il bimbo «chiamato attualmente Benito Dalser, nato a Milano all’Istituto della maternità l’11 novembre 1915», è suo figlio45. Per nulla responsabilizzato da quanto ha dichiarato, Mussolini non si interessa a Benito e, soprattutto, non contribuisce al suo mantenimento. Così il 19 maggio 1916, «su richiesta della signora Dalser 42 Secondo alcuni la coppia si sarebbe addirittura sposata, con le trascrizioni in curia e all’anagrafe di Sopramonte cancellate nel 1925, in pieno regime. 43 Citato da Alfredo Pieroni, Il figlio segreto del Duce, Garzanti, Milano 2006, p. 30. Per Mussolini non è il primo figlio: Edda aveva all’epoca già 5 anni. 44 Il matrimonio religioso avverrà dieci anni dopo, il 29 dicembre 1925. 45 «Dichiaro inoltre che al momento della nascita non avevo nessun vincolo matrimoniale con alcuna donna e che la madre signora Ida Irene Dalser non ha con me nessun rapporto di affinità o parentela, sicché nessun ostacolo esiste al riconoscimento di tale mio figlio» (citato da Pieroni, Il figlio segreto del Duce, cit., p. 33).

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Ida Irene domiciliata in Milano, via S. Maria Valle n. 7 presso l’avvocato Bortolo Federici», il Tribunale di Milano lo cita perché ottemperi ai suoi impegni. Ida contestualmente chiede che i giudici le accordino la tutela sul figlio, che invece (come sappiamo) la legge attribuiva automaticamente al padre. Federici, avvocato della donna, racconterà di aver accettato di rappresentare Ida Dalser perché profondamente colpito dall’estrema povertà in cui ella si trovava. Proprio per questo fa aggiungere in calce all’istanza la precisazione che «la causa di cui al presente atto presenta la massima urgenza date le miserrime condizioni dell’istante, la quale domanda gli alimenti indispensabili al proprio bambino» – non dimentichiamo che la donna era cittadina austriaca, e non poteva raggiungere la famiglia a Sopramonte. Il tribunale però, oltre a decidere su altri aspetti46, nega a Ida Dalser la tutela legale: «né la vita separata, né altre nozze, né una vita intensa e agitata potevano negare al padre la preferenza alla tutela del figlio» (aggiungendo però che, data la tenera età del bambino, questi doveva comunque restare con la madre). Mussolini viene tuttavia condannato a versarle 200 lire mensili (cosa che comincerà a fare solo molto tardi, e disordinatamente), più gli arretrati47. Successivamente però, e precisamente nel 1920, è Riccardo Paicher, marito della sorella di Ida, ad assumere la tutela del nipotino. Egli riesce a trovare un accordo anche di tipo economico con il fratello di Mussolini. E così il 19 gennaio 1925, con rogito del notaio Bortolotti di Trento, viene assegnato «un capitale di 130.000 lire in consolidato 5 per cento a favore del minore Benito Mussolini. Di46 «Nel frattempo la causa che l’avvocato Federici aveva intentato a Mussolini per seduzione, e per strappargli il mantenimento del figlio che ne era nato, andò in discussione il 31 luglio 1916. La sentenza [...] non riconobbe i termini della seduzione [...]. Il giudice concluse che, per quanto sorpresa nella buona fede e privata dei beni e della sua attività, la Dalser doveva aver riportato da Parigi e dalla sua professione una esperienza di vita troppo vasta per restare vittima di ‘una coazione morale’ e dichiararsi sedotta. In quanto alla promessa di matrimonio, essa non poteva essere considerata causa determinante della seduzione» (ivi, pp. 36-37). 47 «Un primo protesto per mancato pagamento venne notificato ben due anni dopo, il 22 luglio 1918. Passarono altri tre anni»: nel 1921 un ufficiale giudiziario si recò alla Camera, ma il deputato Mussolini non c’era. «Nel 1919 la partita della Dalser con Mussolini era definitivamente chiusa, anche se non proprio tutti i rapporti erano stati interrotti. Nel 1920, ad esempio, durante un suo viaggio a Napoli, lei lo incontrò e riuscì a convincerlo a battezzare il piccolo» (ivi, p. 37).

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sponibile alla maggiore età»48. Sembra che le cose si siano risolte per tutti nel migliore dei modi. Invece, il peggio deve ancora venire. Né Ida né Benitino hanno infatti intenzione di rifarsi una vita, o anche solo di tacere una vicenda che, man mano che Mussolini acquista potere e autorità, fomenta la loro rabbia. Il regime non trova quindi altra soluzione che schiacciarli entrambi. Nel 1926, dopo esser stata mandata in confino a Caserta, Ida Dalser viene internata in manicomio, prima vicino a Trento, a Pergine (è arrestata nella notte tra il 19 e il 20 giugno), e poi a Venezia, dove morirà undici anni dopo senza aver potuto rivedere suo figlio. La donna viene effettivamente trattata come una detenuta: basti pensare che non può nemmeno ricevere le visite dei familiari. L’unica attività alla quale si dedica è la frenetica scrittura di lettere i cui destinatari sono, oltre ai suoi cari, le autorità fasciste, Pio XI e lo stesso Duce («ma non senti di essere padre? di un bellissimo e intelligente figliolo, che è il tuo ritratto vivente. Non l’ami?»49). In tutte domanda pietà per sé e per suo figlio. Stremata e provata, nel dicembre 1937 muore a soli 57 anni. Piegata la madre, si deve piegare il figlio. I passi sono graduali. Benitino va innanzitutto allontanato dalla sua famiglia, ma le vie legali falliscono miseramente giacché Paicher si rifiuta di firmare un documento con il quale avrebbe dovuto rinunciare alla tutela del «minore Dalser, figlio di ignoti»: i genitori sono ben noti, la tutela gli è stata affidata personalmente dal Duce e, per esonerarlo dall’incarico, devono dimostrare la sua incapacità e indegnità. Ai fascisti rimane solo il rapimento: esponenti della questura si recano dunque con il cavalier Bernardi a casa Paicher a Trento, dove narcotizzano il bambino e lo portano via. Benitino non farà mai più ritorno a casa. Passato ufficialmente sotto la tutela di Bernardi, il bambino viene rinchiuso prima nel ricovero dei derelitti di Sant’Ilario (a Rovereto), poi nell’elegante collegio di Moncalieri, in Piemonte. Esistono però ancora due problemi: l’enorme somiglianza tra il ragazzo e suo padre e l’inequivocabile cognome50. Così, mentre il faIvi, p. 51. Paicher assunse la tutela del bambino con l’obbligo di utilizzare la rendita del capitale per la sua educazione. 49 Ivi, p. 75. 50 Nell’anno scolastico 1924-25 si parla dell’alunno Benito Albino Mussolini «figlio di Benito Pres. del Cons. dei Min. e di Ida Dalser» (ivi, p. 94). 48

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Parte prima. Il diritto costruisce la paternità

migerato console della milizia Tullio Tamburini preleva in casa Dalser non solo i documenti compromettenti ma anche tutte le foto, il «Foglio Annunzi legali» della Regia Prefettura di Trento nel luglio 1932 comunica un importante cambiamento di cognome: con decreto in data 14.7.1932, il Ministero della Giustizia ha autorizzato la pubblicazione della domanda con cui si chiede che Benito Albino Mussolini [...] possa cambiare il cognome in quello di Bernardi51. Si invitano gli eventuali interessati a notificare la loro opposizione a norma dell’art. 122 Ordinamento Stato Civile (R.D. 15.11.1865, n. 2602).

Nemmeno queste misure però riescono a tranquillizzare Mussolini: Benitino, infatti, parla continuamente a tutti del vero padre. I suoi tutori decidono quindi di mandarlo in marina e nell’ottobre 1934 lo fanno imbarcare sul Conte Rosso, destinazione Shanghai. Visto il fallimento anche di questa soluzione, il ragazzo viene rimpatriato e immediatamente ricoverato in ospedale psichiatrico. Nel 1935 fa quindi il suo ingresso nel manicomio milanese di Mombello, formalmente su sua espressa domanda in base all’art. 53 del regolamento approvato con R.D. 16 agosto 1909, n. 615 (l’atto è comunque illegale perché Benito Albino è ancora minorenne, mentre il decreto richiede come condizione indispensabile la maggiore età). Uscirà da lì nel 1942, cadavere, a soli 27 anni. 51

Il cognome era quello del tutore cui era stato affidato con la forza.

4 LA PATERNITÀ COME PUNIZIONE

1. Il divieto di ricerca della paternità: nessuno è padre se non vuole esserlo C’era una parola per questo: illegittimo. Stefan l’aveva già sentita, ma non l’aveva mai collegata alla sua situazione [...]. Ma forse la parola era tutta sbagliata. E se si conosceva il proprio padre? Si era illegittimi in questo caso? [...] Sua madre e suo padre avevano fatto la cosa che lo rendeva quella parola. E suo padre l’aveva fatto con la madre di Oliver. Ma Oliver non era quella parola. [...] Andò di corsa alla biblioteca della scuola, dove chiese il vocabolario. Un pollice contro la linguetta di pelle con la lettera I e J, sfogliò le pagine all’indietro, esaminando le parole... illecito... illegale... Eccola lì: illegittimo. Nato fuori dal vincolo matrimoniale... illegale... scorretto... contro la legge. Sentì il battito del cuore scandire il ritmo della parola. Il-le-git-ti-mo, e fu come essere intrappolato dentro un tamburo mentre un batterista invisibile percuoteva la pelle del tamburo – il-le-git-ti-mo, il-le-git-ti-mo – giù di nuovo e di nuovo ancora, più forte, più veloce. Chiuse di scatto il vocabolario e mentre lo riponeva dietro una fila con altri libri per evitare che si aprisse di nuovo su quella pagina, gli venne in mente che suo padre aveva fatto una scelta. U. HEGI,

La visione di Emma Blau

La logica conseguenza del principio per cui padre è solo colui che decida di esserlo è la proibizione della ricerca della paternità. Mancando l’assenso dell’uomo tutto è illegittimità. Lo Stato pretende ordine e certezza in una materia in cui ancora mancano riferimenti oggettivi: occorre, perciò, una regola che garantisca la tenuta del sistema. Fautore di questa proibizione fu Napoleone, fermamente deciso a cancellare i diritti degli illegittimi riconosciuti dalla Rivoluzio-

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Parte prima. Il diritto costruisce la paternità

ne francese1: l’ordinamento non ha alcun interesse a che i bastardi vengano riconosciuti, fu la sua celebre esclamazione2. Il codice del 1804 fu, dunque, molto netto: «la recherche de la paternité est interdite», con la sola eccezione del ratto (il rapimento perpetrato con violenza, minaccia o inganno, a fine di libidine o di matrimonio). Non mancarono le critiche, di fatto inutili, per un divieto così assoluto, tra le quali è importante ricordare quella contenuta in una lettera di Alexandre Dumas, indirizzata nel 1883 al deputato Gustave Rivet: per i romanzieri, che hanno trovato nelle disgrazie delle ragazze sedotte una miniera di situazioni drammatiche, era un dovere preciso prendere posizione, denunciando l’assurdità del diritto e le ingiustizie che ne derivavano3. Solo nel 1912 verrà ammessa una seconda deroga, laddove vi sia stato un notorio concubinato durante la gravidanza. Passando all’Italia nel corso dell’Ottocento, prima dell’Unità, la penisola visse situazioni alquanto differenti. Se infatti vi fu chi seguì il testo francese4, meno restrittiva risultò la soluzione del codice civile per gli Stati del re di Sardegna (1837), che ammetteva le indagini in presenza di dichiarazione scritta del padre, possesso di stato, ratto e stupro violento. La ricerca era peraltro ammessa nel Lombardo-Veneto, dove vigeva il codice civile universale austriaco del 1811 (cfr. infra, cap. 5, par. 3), e nello Stato pontificio che la prevedeva anche solo ricorrendo alla prova testimoniale non avvalorata da uno scritto. 1 Il 12 brumaio dell’anno II (2 novembre 1793) viene deciso che i figli illegittimi ricevano il nome del padre e, in alcuni casi, ne ereditino il patrimonio. 2 La frase, commentata già all’epoca, verrà ricordata anche da Enrico Molè alla Costituente nel 1947 come «l’oltraggio sanguinoso che tagliava la faccia come una staffilata, riaffermava contro questi infelici il bando della società, e fu pronunciato dal dittatore per allontanare il fantasma minaccioso di una persecuzione giudiziale dai placidi sonni del borghese del primo impero, ben pensante, egoista, libertino e immorale» (in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, vol. II, Camera dei deputati, Roma 1970, p. 1007). Di Bonaparte si ricordano altre massime: «la moglie è fatta per suo marito; e il marito è fatto per la patria, per la famiglia e per la gloria»; «la virtù delle donne fu posta in dubbio sin dal cominciar del mondo e lo sarà sempre» (Napoleone, Aforismi, massime e pensieri, a cura di Francesco Perfetti, Newton Compton, Roma 1993, pp. 47, 88). 3 Alexandre Dumas, La recherche de la paternité. Lettre à M. Rivet, Calmann Lévy, Paris 1883. 4 A parte l’ovvio riferimento al codice civile del Regno d’Italia (1806) che riproduceva letteralmente il testo francese, anche altri codici, come ad esempio il napoletano e il parmense, lo seguirono in toto.

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Non sorprende dunque come, in vista dell’emanazione del primo codice civile unitario, le discussioni risultassero piuttosto accese5. La stessa commissione incaricata di redigere la norma osservò che il divieto di ricerca introduceva una deroga ad un alto principio di naturale giustizia, quello che ciascuno risponda del fatto proprio, dove non vi sono ragioni né d’ordine morale, né d’ordine giuridico per far ricadere tutta la responsabilità sulla donna [...], e tanto meno di riversare il danno della colpa comune sui figlioli innocenti6.

Prevalsero tuttavia le posizioni più conservatrici, cosicché l’art. 189 del codice Pisanelli proibì la ricerca, con le due eccezioni del ratto e dello stupro violento (cfr. infra, par. 2). Questa soluzione, influenzata dal codice francese, differiva rispetto alla tradizione italiana (molte critiche all’art. 189 si incentrarono proprio sul suo essere spurio7). Nei secoli precedenti, sulla scia del diritto canonico8, anche il diritto comune ammetteva infatti la ricerca in 5 Vi fu chi mise in evidenza l’eccessivo rigore della legislazione napoleonica, richiamandosi alla necessità di tutelare la prole innocente. Si propose di ammettere le indagini anche in presenza di un riconoscimento scritto del presunto padre, con formule che in sostanza riprendevano le disposizioni albertine. Se il sistema francese «volle reagire contro l’eccesso dello abuso e delle turpitudini delle pratiche anteriori, cadde nell’eccesso contrario. Si argomentò di evitare un male, e si prepararono alla società mali peggiori» (Ugo Sorani, Della ricerca della paternità, Tipografia Bonducciana di A. Meozzi, Firenze 1892, p. 9). 6 Atti parlamentari, Camera dei deputati, legislatura XVIII, sessione 1892-94, Documenti, disegni di legge e relazioni, relazione della commissione, p. 10. 7 «Inspirato in gran parte ai principi e ai criteri del codice Napoleone, il nostro codice civile, che pure per certi rispetti così arditamente e così felicemente si allontanò dal suo esemplare, non seppe nella materia delle indagini sulla paternità liberarsi affatto dalle paure esagerate, dai pregiudizi vieti e dai sofismi dei legislatori di Francia [...]. Quasiché una serie di felici rivoluzioni non avesse cambiato niente nelle condizioni del nostro popolo; quasiché dopo un lungo esercizio della libertà la compilazione d’una legge nuova, per molti rispetti inspirata a idee più larghe e più umanitarie, non dovesse rendere fra noi incompatibili certi ordinamenti inconsultamente restrittivi» (Sorani, Della ricerca della paternità, cit., p. 9). Con l’aggravante che le istanze alla base della dura proibizione d’oltralpe non sussistevano in Italia, dove «non si avevano a lamentare gli abusi che avvenivano in Francia nelle dichiarazioni giudiziali di paternità» (Rodolfo Bonzanigo, Studio sulla condizione giuridica dei figli illegittimi, Tipografia Salvioni, Bellinzona 1891, p. 71). 8 Già secondo il diritto attico, l’azione per il riconoscimento poteva essere avviata presentando istanza all’arconte. Dalle fonti si deduce però che, abitualmente, si ricorreva ad atto stragiudiziale, deferendo al supposto padre il giuramento sulla

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una serie precisa di ipotesi (coniecturae) capaci di dimostrare il legame fra il nato e il presunto padre – preventivamente, però, andava acclarata l’arcta custodia ventris, e cioè che durante la gravidanza la donna non avesse avuto altre relazioni. Le ipotesi prevedevano che il figlio fosse nato in casa del supposto padre o in un’abitazione in cui egli avesse un accesso quasi esclusivo (praesumptio ex nativitate); che fosse stato mantenuto e allevato dall’uomo come si fa con un vero figlio (praesumptio ex tractatu); che il legame biologico tra l’uomo e il nato fosse di dominio pubblico (praesumptio ex fama); che vi fosse un atto pubblico o un giudizio dal quale risultasse il riconoscimento, eventualità che chiaramente non costituiva una semplice presunzione, ma una prova piena (praesumptio ex nominatione)9. Pur con qualche variante, tale impostazione permase fino a tutto il Settecento. Com’è evidente, considerando i limitati strumenti che si avevano all’epoca, la previsione era decisamente ampia, determinando un assetto che nell’Ottocento verrà giudicato una pericolosa fonte di instabilità. Le conseguenze del divieto di ricerca della paternità imposto dal legislatore unitario furono rilevanti, proprio perché impedivano il riconoscimento a fronte di situazioni inequivocabili, e che tali erano state considerate fino a poco prima. Alcune vicende possono esemplarmente illustrare il mutamento che si produsse. Il 14 dicembre 1859 viene battezzato nella basilica di San Giovanni Battista a Firenze Rinaldo Enea Giulio Persiani, un bimbo nato il giorno prima da genitori sconosciuti. Ormai cresciuto, nel luglio 1878 egli si rivolge agli eredi del marchese Giulio Manciforte (morto tre anni prima), domandando una parte di eredità essendone il figlio naturale. Dinanzi paternità. Poteva avvenire che il padre cui fosse deferito il giuramento deferisse alla madre del supposto figlio la dichiarazione della paternità. Contro la dichiarazione della madre non erano consentiti rimedi: il padre, che l’aveva provocata, doveva accettarla come assoluta verità e sottostare alle conseguenze. Se invece la madre si rifiutava di prestare il giuramento, il supposto padre era liberato dal sospetto di paternità (Ugo Enrico Paoli, Paternità (ricerca della – diritto greco), in Nuovo digesto italiano, vol. IX, UTET, Torino 1939, pp. 526-27). 9 Se la praesumptio ex nativitate andava però unita ad altri elementi (come il fatto che vi fossero state relazioni amorose tra lui e la madre del nato), per quella ex tractatu occorreva dimostrare che non si fosse solo in presenza di benevolenza o carità. In caso di fama, infine, essa andava comunque congiunta a circostanze che la rendessero effettivamente attendibile (Angelo Vincenti, La ricerca della paternità e i gruppi sanguigni nel diritto civile e canonico, Carlo Cya, Firenze 1955, pp. 16-19).

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ai giudici romani, il Persiani così ricostruisce i fatti: nel 1858 il marchese aveva conosciuto a Firenze la giovane Erminia Grillini (prima ballerina di rango distinto), stringendo con lei «rapporti tanto intimi da renderla incinta». I due trascorsero la gravidanza in Ancona (dove l’uomo la fece scritturare dal teatro delle Muse per la stagione), e fu solo in prossimità del parto che Erminia tornò a Firenze, dove il marchese la affidò alle cure dell’ostetrica Carlotta Lori-Giusti. Il Manciforte continuò quindi a provvedere alle necessità di madre e figlio (pagò la levatrice e il baliatico, mantenne il piccolo fino al 1865 a Fiesole e poi lo trasferì in Ancona affidandolo a Luigia Scellini, alla quale versò regolarmente una retta di 50 lire al mese). I fatti vennero dimostrati sia ricorrendo alle deposizioni dei testimoni sia presentando una serie di lettere scritte dal marchese alla Lori-Giusti, dalle quali emersero chiaramente le sue premure verso Erminia e il bimbo nonché la volontà di ricompensare l’ostetrica per il suo impegno. Le prove addotte convinsero i giudici romani: se però, a Italia unita, il tribunale accertò la paternità del marchese, fu solo in riferimento alla normativa pontificia vigente all’epoca dei fatti10. Di lì a poco, anche Gustavo Guidi (nato il 19 aprile 1825 dalla defunta Maria Domenica) si vedrà riconosciuto dai giudici toscani figlio naturale del defunto Gioacchino Sbrana, sulla base di elementi che il codice unitario non avrebbe mai ammesso. In questo caso la prova della paternità fu una sentenza della Ruota criminale di Firenze del 10 agosto 1825, in cui il presunto padre veniva condannato in quanto autore confesso di stupro semplice con gravidanza ai danni della donna11. A questo si aggiunse il fatto che Gustavo venisse indicato come figlio di Maria Guidi e Gioacchino Sbrana nei registri parrocchiali delle chiese pisane della Santissima Concezione e di Sant’Apollonia, nel suo passaporto, nell’atto di matrimonio tra lui e Concetta Monelli e nel registro cittadino. I testimoni attestarono quindi l’onestà di Maria, la sua unica gravidanza e il fatto che Gustavo fosse comunemente ritenuto figlio dello Sbrana12. Tribunale Roma, 24 gennaio 1879, in «Monitore dei Tribunali», 1880, p. 203. È opportuno segnalare la differenza tra stupro semplice e stupro violento: il primo è qualunque rapporto sessuale tra due persone al di fuori del matrimonio, mentre il secondo è la violenza carnale – in cui cioè manca il consenso della vittima, essendo la congiunzione carnale stata imposta con la violenza o la minaccia. 12 Rispettivamente Tribunale Pisa, 12 agosto 1879; Corte d’Appello Lucca, 1° aprile 1880; Cassazione Firenze, 26 ottobre 1880. 10 11

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Questa brusca innovazione legislativa venne presentata come un’alta guarentigia sociale, come un mezzo per impedire a femmine spudorate di far ricadere a loro piacimento una paternità su uomini irreprensibili, ed evitare che i figli di donne di bassa estrazione potessero godere dei vantaggi derivanti dall’essere stati procreati con soggetti socialmente superiori. È, dunque, anche paura della contaminazione sociale, specie nella forma avvertita come la più pericolosa, quella delle relazioni tra padroni e serve. Il legislatore avrebbe dunque proscritto queste ricerche per rispetto «al denso velo che ricopre il concepimento dell’uomo, e che la natura, le sociali convenienze ed il rispetto alla moralità pubblica vietano di sollevare». Esplicito è anche il richiamo «al riposo delle famiglie e all’onore dei cittadini, ch’è di supremo sociale interesse non siano turbati e scossi»13. Ancora a metà degli anni Venti, si ribadisce che si tratta di disposizioni d’ordine pubblico: tali indagini, «che sono d’esito, per loro natura, molto incerto», sono «occasione di turbamento grave, ispirate sovente da sentimenti di vendetta e da basse speculazioni»14. Con questa ossessiva difesa dell’ordine («l’Ottocento parve segnare l’orrore degli illegittimi», commenterà lo storico e giurista Arturo Carlo Jemolo15) si intendeva tutelare la famiglia, il patrimonio e la rispettabilità. In termini sociali, avere un figlio illegittimo poteva danneggiare anche la posizione dell’uomo16. 13 Corte d’Appello Napoli, 19 novembre 1888, in «Il Foro italiano», 1889, c. 236. Come si osserva nel 1909, «la conoscenza dei dati sulla legittimità o illegittimità dei nati ha importanza morale: dal numero degli illegittimi taluni trovano argomento per giudicare più o meno immorale una popolazione» (Napoleone Colajanni, Manuale di demografia, Pierro Editore, Napoli 19092, p. 227). 14 Tribunale Torino, 13 maggio 1924, in «Monitore dei Tribunali», 1924, p. 946. 15 Arturo Carlo Jemolo, La famiglia e il diritto, Jovene, Napoli 1949, citato da Carlo Cardia, Il diritto di famiglia in Italia, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 180. 16 Nel romanzo Madre e figlia di Francesca Sanvitale, ambientato negli anni Quaranta, questo aspetto emerge chiaramente. «La vita privata è una congerie di fatti, sentimenti, impulsi, che passa attraverso il filtro che regola le leggi dell’esercito, della carriera militare [...]. Inchinandosi al sovrano, ci si inchina in ugual modo e senza fatica alcuna al codice morale e formale che dallo Stato è fissato. Se il Maggiore convivesse con una donna che non è la moglie il suo onore sarebbe tinto di ombre equivoche. Se riconoscesse pubblicamente una figlia illegittima, diventerebbe indegno rappresentante dell’onore del Re» (Francesca Sanvitale, Madre e figlia, Einaudi, Torino 1980, p. 50).

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D’altra parte, era totale il disinteresse per le situazioni estremamente dolorose che venivano a crearsi per il figlio (ma anche per la madre e per altri ancora). Grazie all’impegno del regista Paolo Benvenuti è stata svelata la vera storia di Antonio, figlio segreto di Giacomo Puccini. Fino ad oggi si sapeva che il 23 gennaio 1909 Doria Manfredi, giovane cameriera di casa Puccini, colta in flagrante adulterio con il marito dalla moglie Elvira, per la vergogna si era suicidata in modo atroce (inghiottendo pastiglie di sublimato corrosivo che la straziarono per cinque giorni). L’autopsia rivela però che la ragazza è vergine: i Manfredi vanno in tribunale, la signora Puccini è condannata a cinque mesi e cinque giorni di carcere, che però non sconta giacché, ricevuta la ricca somma di 12.000 lire, la famiglia della ragazza ritira le accuse. Solo ora si è saputo che in realtà Puccini ebbe una relazione con la cugina di Doria, Giulia Manfredi, alla quale rimase legato ancora per molti anni. Nel 1923 nacque un bambino che venne dato a balia a Pisa e mantenuto per un anno con il pagamento della salata retta di 1.000 lire al mese. I pagamenti però si interruppero bruscamente nel 1924, quando Puccini morì17. Tuttavia, in sede di applicazione della normativa i tribunali espressero sovente riserve rispetto a una disciplina che finiva per avallare «le ingloriose fughe dei genitori di fronte alla responsabilità di diritto naturale»18. Come scrive la Cassazione di Palermo nel 1910, «in questa materia è da adottare un’interpretazione estensiva della legge, perché la proibizione della ricerca della paternità forma una limitazione dei diritti naturali»19. Entrando nel merito della questione, i giudici auspicano l’introduzione di importanti distinguo onde evitare di parificare illegittimità che non sono collocabili sul medesimo piano. Ad esempio, è utile ricordare come fino al 1929 in Italia fra gli illegittimi vi fossero anche i nati all’interno di un matrimonio religioso, non essendo questo riconosciuto dallo Stato italiano (ma bollare questi figli come illegittimi urtava decisa-

17 Giuseppina Manin, L’amante segreta (un giallo italiano), in «Corriere della Sera», 28 agosto 2007, p. 41. 18 Tribunale Napoli, 31 agosto 1906, in «Monitore dei Tribunali», 1906, p. 95. 19 Cassazione Palermo, 12 maggio 1910, in «Il Foro italiano», 1910, c. 837. Una benevolenza che ritroveremo anche in sede di condanna dell’uomo a pagare gli alimenti per l’illegittimo.

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mente contro l’opinione sociale che invece considerava lecite simili unioni)20. Anche durante il fascismo i giudici dimostrano questa larghezza interpretativa. Una sentenza del 1929 afferma che «il principio dell’art. 189, il quale rappresenta il massimo trionfo di quell’individualismo su cui s’impernia la legislazione dell’Ottocento, è oggi in aperto contrasto con lo spirito dello Stato fascista, solenne assertore della supremazia dei diritti dell’organismo nazionale in confronto dei diritti dell’individuo», concludendo che «la giurisprudenza ha, sia pure in limitata misura, tentato di temperare in via indiretta la rigidezza dell’enunciato principio»21.

2. Le eccezioni al divieto: la paternità come punizione Non voglio figli in giro. [...] Sono sempre stato contrario, è una questione di principio. Nessuno ha il diritto di mettere al mondo una creatura che nasce già bollata, in condizioni d’inferiorità. E poi chi si assume la responsabilità di una famiglia non deve aver figli fuori di casa. I figli si fanno con la moglie, per questo uno si sposa. E la moglie è fatta per ingravidare, partorire e allevare i figli; mentre l’amante è destinata ai piaceri della vita; se deve occuparsi di un bambino diventa uguale all’altra, che differenza c’è. J. AMADO,

Teresa Batista stanca di guerra

Secondo l’espresso volere di Napoleone, la formulazione originaria del codice francese non prevedeva alcuna eccezione al divieto di ricerca della paternità. Si ammetteva solo la possibilità di un’azione per danni da esercitare contro il presunto padre, laddove il concepimento fosse il risultato di un ratto22. Solo in un momento successivo, ac20 Così Nicola Pagano, figlio di Giovanni Pagano e Anna Mansi, è figlio illegittimo giacché i genitori, sposatisi in chiesa il 27 settembre 1920, non ne richiesero la trascrizione. Così anche in Francia: Flora Tristan (1803-1844) «sapeva di essere una figlia illegittima, perché il matrimonio dei suoi genitori, celebrato da quel pretuncolo francese a Bilbao, non valeva di fronte alla legge civile» (Mario Vargas Llosa, Il paradiso è altrove, Einaudi, Torino 2003, p. 38). 21 Tribunale Grosseto, 7 agosto 1929, in «Lo Stato civile italiano», 1929, p. 391. 22 L’art. 14 del progetto di legge presentato al Consiglio di Stato francese il 5 novembre 1801 prevedeva che «il rapitore che rifiuterà di riconoscere il figlio, la

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cogliendo la proposta del Consiglio di Stato, il testo finale previde l’eccezione al divieto in caso di ratto23. Venne però valutata pericolosa la proposta di rendere comunque automatica la dichiarazione di paternità in sua presenza. La giurisprudenza francese fu sollecita e rigorosa nell’applicare la norma, a differenza di quanto avverrà in Italia. Il codice Pisanelli al ratto aggiunse lo stupro violento24. Come accennato, sorprendentemente i giudici diedero di queste due ipotesi un’ampia lettura. Considerata la mentalità dell’epoca nient’affatto benevola verso l’illegittimità, ciò non era per nulla scontato. Ad esempio, a fronte di incontri sessuali che la donna descriveva come stupro violento e che l’uomo presentava invece come tipici di una femmina dalla dubbia moralità, colpisce l’attenzione delle corti intente a indagare il vero stato delle cose25. Del resto, una pronuncia della Cassazione del 1928 escludeva che le situazioni di ratto o stupro violento dovessero presentare tutti gli elementi richiesti dal codice penale, in quanto in sede civile interessa solo che si sia in presenza di «un fatto di coartazione, che ponga la donna nel potere esclusivo del rapitore o dello stupratore»26. Né si richiedeva un previo accertamento penale perché «le due azioni sono diverse per nacui nascita fa coincidere l’epoca del concepimento con quella della durata del ratto, potrà essere condannato ai danni in profitto di questo figlio, senza che costui possa prendere il nome del rapitore, né acquistare sui di lui beni i diritti dei figli naturali». 23 Pur avendo potuto adoperare la parola rapt, il legislatore francese decise di usare «enlèvement» che, racchiudendo il concetto del rapimento violento e della detenzione, richiama la durevole e forzata coabitazione tra oppressore e oppressa. Scelta non certo casuale: ciò di cui ci si preoccupa non è tanto l’adesione più o meno libera che la donna abbia dato al suo «enlèvement», quanto piuttosto a quale regime si sia trovata sottoposta per mano del rapitore. Ciò che infatti rende la paternità certa è che al ratto sia seguito un sequestro, non cioè una retentio qualsiasi, ma un possesso esclusivo e durevole. 24 Come evidenziò il guardasigilli Pisanelli nella sua relazione (1863), «venne fatta al progetto l’aggiunzione, siccome quello [lo stupro violento] costituiva un fatto non solo pubblico e criminoso, ma direttamente connesso al concepimento. Havvi qui una presunzione di paternità, se non maggiore, almeno eguale a quella che si riscontra nel caso di ratto». 25 Quanto agli atteggiamenti dei tribunali ecclesiastici verso queste fattispecie, cfr. Margherita Pelaja, Scandali. Sessualità e violenza nella Roma dell’Ottocento, Biblink, Roma 2001; Ead., Il cambiamento dei comportamenti sessuali, in Anna Bravo, Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia, Storia sociale delle donne nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 179-204. 26 Cassazione, 20 gennaio 1928, in «Giurisprudenza italiana», 1928, I, c. 258.

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tura, pel loro svolgimento, e per gli effetti giuridici che da esse promanano»27. E, ancora, i giudici intesero in modo piuttosto ampio la nozione di tempo del concepimento28. È interessante la vicenda che nel 1865 ha per protagonista Teofilo D’Annunzio, che si invaghisce, non ricambiato, di una giovane contadina, Letizia D’Angelo. Volendola a tutti i costi, mette a punto un piano: con l’aiuto di una domestica, riesce a convincere la ragazza a pernottare in una sua casa di campagna e, nella notte che coincide con quella del concepimento (13 agosto), si infila nel suo letto e la violenta. La sentenza lo riconoscerà padre del nato, ma se l’atteggiamento dei giudici fosse stato rigoroso, l’uomo non avrebbe avuto difficoltà a scagionarsi, giacché Letizia non fu condotta nella casa contro la sua volontà ma rispondendo ad un espresso invito29. Sempre ampliando la portata letterale del codice, i giudici dichiarano l’uomo colpevole qualora la ragazza sia minorenne, come nel caso di Margherita Fracasso che è consenziente alle avances di Paolo Muzzi: ratto può essere anche quello compiuto con la semplice seduzione. Imperocché la seduzione consiste in un’attività morale del seduttore, la quale si esplica con artifizi, blandizie, promessa di matrimonio per superare la resistenza di una onestà mal difesa da giovanile inesperienza o da femminile debolezza30.

Inoltre, risulta di fatto irrilevante la durata della detenzione: così nel 1913 Filomena Ferruzzi viene riconosciuta figlia naturale del barone Angelo Formica che, invaghitosi perdutamente di Teresa, una bellissima fanciulla diciassettenne di Civigliano, l’aveva rapita dalla casa paterna per condurla prima nel suo castello di Albereto e poi a Stigliano (la madre della vittima muore di dolore per l’onta, Cassazione Roma, 2 aprile 1888, in «Il Foro italiano», 1888, I, p. 471. Se in base al codice le indagini sono ammesse laddove il tempo del ratto coincida con quello del concepimento, la giurisprudenza dominante non intende però tale coincidenza in maniera letterale giacché essa non deve necessariamente riferirsi al momento in cui il ratto ebbe luogo, essendo sufficiente che l’assoggettamento al potere del rapitore perduri all’epoca del concepimento. 29 Corte d’Appello Aquila, 16 giugno 1908, in «Giurisprudenza italiana», 1909, I, II, cc. 30-43; Cassazione Roma, 14 gennaio 1911, in «Il Foro italiano», 1911, I, cc. 275-279. 30 Cassazione Roma, 28 giugno 1920, ivi, 1920, cc. 874-875. 27 28

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mentre i fratelli si lanciano inutilmente alla ricerca del rapitore). Ebbene, se anche non si riesce a dimostrare la data del concepimento, la domanda di Filomena viene accolta31. Ai fini della storia della paternità, è però interessante approfondire soprattutto le ragioni che, in presenza di ratto o di stupro violento, indussero il legislatore a derogare al principio generale della paternità volontaria. Convenzionalmente ci si appella a ragioni di certezza e di scandalo. Nel primo caso, non offrendo la natura indicazioni, il legislatore avrebbe scelto di ammettere la ricerca in presenza di «quei fatti delittuosi [...] [che] rendono certa la prova dell’accoppiamento»32. Ciò, a nostro avviso, non fu però decisivo. Se si fosse trattato solo di certezza, non si comprende perché la presenza di uno scritto in cui l’uomo si dichiara esplicitamente padre del nato non dovrebbe egualmente valere per riconoscerne in aula la paternità. Che cosa può essere infatti più certo e più eloquente del «souvenir de ton père» che il Filippani verga, alla fine dell’Ottocento, sul retro della foto per la sua (non accertata) figlia naturale? Enrica Bartolini si rivolge ai giudici perché condannino l’uomo a pagare gli alimenti per sua figlia Elisabetta. Il tribunale, però, rigetta la domanda perché, trattandosi di dedica siglata con le sole iniziali, vi sarebbero dubbi rilevanti sull’identità delle persone coinvolte. Tali osservazioni verranno tuttavia definite in secondo grado «troppo ingenue»: se è un principio «savio e prudente che le iniziali non sono sufficienti ad identificare una persona, quando però le iniziali sono dietro una fotografia e le parti in causa siano d’accordo sull’identità della persona raffigurata, le iniziali allora diventano eloquenti come una firma completa»33. Anche qui, solo alimenti, non certo riconoscimento. E che dire ancora della frase usata da Francesco Benassati (non riconosciuto come padre) che scrive «ve lo dice il vostro babbo»? Siamo negli anni Venti. Maria Teresa Marzoli cita in giudizio il cavalier Benassati affinché versi gli alimenti alle tre figlie Francesca, Isora e Giuliana, adducendo come prova le sue tante lettere. Le espressioni ricorrenti «care bimbe», «carissime mie bimbe», «ve lo dice il vostro babbo», così come il fatto che la firma fosse sempre Tribunale Napoli, 2 agosto 1913; Corte d’Appello Napoli, 25 maggio 1917. Tribunale Catanzaro, 22 febbraio 1916, in «Monitore dei Tribunali», 1916, p. 613. 33 Corte d’Appello Roma, 7 luglio 1893, ivi, 1894, p. 571. 31 32

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preceduta da «tuo e vostro affezionatissimo babbetto», verranno valutate come decisive dai giudici, che imporranno all’uomo di pagare34. Alla luce del codice Pisanelli, infatti, ciò dà luogo solo agli alimenti, non certo al riconoscimento della paternità. Se davvero il legislatore fosse stato mosso dall’istanza di certezza, un valore decisivo avrebbe dovuto averlo anche il fatto che l’uomo si fosse in concreto comportato come padre del nato, dando cioè rilevanza a un comprovato possesso di stato. Molto critico verso l’indifferenza ottocentesca su questo punto fu il giurista francese Charles Demolombe, secondo cui «il possesso di stato è vero riconoscimento». Le sue critiche al codice napoleonico sono perfettamente mutuabili per il Pisanelli. Quanto al profilo dello scandalo (l’altra motivazione addotta per spiegare le due eccezioni al divieto), si argomenta che, mentre la ricerca sarebbe proibita per evitare l’enorme scandalo di indagare e ricostruire vicende scabrose, in caso di ratto o di stupro violento tale esigenza non sussisterebbe più, giacché lo scandalo esiste nei fatti. Anche qui, però, v’è qualcosa di poco convincente. Individuare in aula un padre significa dare al figlio il cognome di quell’uomo. Ciò che dunque l’ordinamento autorizza con le indagini è la formale attestazione che Tizio sia il figlio naturale di Caio, il che è (forse) la più grave forma di turbamento sociale. Davvero possiamo credere che lo Stato autorizzi la produzione di tali conseguenze solo perché, in caso di ratto o di stupro violento, lo scandalo c’era già? D’altro canto, per l’individuazione del padre a seguito di concepimenti delittuosi, non appare nemmeno sostenibile l’appello a principi generali di giustizia giacché molte altre ipotesi vi rientrerebbero. A noi pare che vi sia un’altra decisiva motivazione: in presenza di ratto o di stupro violento, l’attribuzione della paternità all’uomo costituisce una sorta di pena rispetto a un comportamento che l’ordinamento considera particolarmente grave. Al di là delle tante declamazioni di principio – di cui qui, più che altrove, la giurisprudenza abbonda – il padre ex art. 189 non è sancito a tutela del figlio (o della madre), ma perché si rende necessario punire (in sede civilistica) determinati comportamenti35. Già Napoleone, del resto, aveva sotCassazione, 22 gennaio 1926, in «Il Foro italiano», 1926, c. 965. «In questi due casi [indicati dall’art. 189] la colpa è tutta dalla parte del padre; la donna è vittima degli inganni di lui o della propria buona fede. Si tratta di 34 35

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tolineato la necessità di punire il colpevole, anche se auspicando una pena meramente pecuniaria. L’ordinamento, dunque, non attribuisce all’uomo il figlio perché è giusto che ciascuno assuma le conseguenze delle sue azioni, ma in quanto si è reso colpevole di un delitto. Ciò spiega perché solo in questo caso sia ravvisabile un diverso atteggiamento nei confronti della donna. Normalmente, in presenza di una nascita illegittima la vera colpevole è sempre la madre, perché ha tentato l’uomo o perché non gli ha resistito, e comunque perché è la scaltra seduttrice priva di morale che si approfitta di uomini e situazioni. Quando invece diventa madre contro la sua volontà, le viene garantita la benevolenza della legge. Se si arriva all’assoluzione della donna, significa che l’uomo ha fatto davvero qualcosa di grave. Molto chiare sono le parole del giurista Giovanni Brunetti: quando siamo in presenza di una copula extramatrimoniale, sorge normalmente la presunzione di un contegno immorale della donna [...]. Ma immoralità vuol dire volontarietà. Ora, se si prova che la volontà della donna è stata assoggettata, sopraffatta dalla volontà antigiuridica del maschio [...] è verisimile che l’autore del delitto sia pure autore della gravidanza36.

Si tratta di una lettura confermata dal fatto che laddove la vittima avesse poi cambiato idea, divenendo consenziente, era opinione pacifica che il delitto risultasse sanato37. uomini senza pudore e senza coscienza, spesso così avanzati in età come progrediti nel vizio, che corrompono ingenue e inesperte fanciulle adescandole con l’autorità del nome e della posizione, abusando di rapporti di superiorità economica e domestica» (Vincenti, La ricerca della paternità, cit., p. 30). 36 Giovanni Brunetti, L’azione di paternità e l’azione di alimenti del figlio naturale nel progetto di riforma del primo libro del codice civile, in «Giurisprudenza italiana», 1931, IV, c. 236 (Brunetti era stato chiamato a far parte della Commissione per la riforma del codice civile). Sotto la vigenza del codice del 1942, questo aspetto viene rimarcato: «sotto il profilo morale è per lo meno ingiusto tacciare la donna di immoralità pel fatto di aver avuto questo bambino da una illegale unione. Sarebbe egualmente ingiusto mettere a benefizio dell’uomo e a carico della donna la situazione di un’inferiorità morale e sociale di costei (di essere cioè madre naturale) per desumere una ragione di allontanamento del bambino» (Tribunale Napoli, 10 febbraio 1949, in «Monitore dei Tribunali», 1949, p. 76). 37 In contesti in cui la verginità della donna costituiva un autentico capitale, succedeva spesso che i familiari sperassero che il violentatore poi la sposasse. È il caso

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La giurisprudenza è concorde nel ritenere che se la donna, dopo essere stata rapita e «aver perso violentemente il proprio onore», decide spontaneamente di rimanere presso il suo sequestratore «per le blandizie o per la speranza di un matrimonio», il divieto di ricerca torna nella sua piena vigenza. È evidente infatti che «un’ex rapita che per tornaconto continua a convivere col rapitore non è più una donna in istato di ratto»38: qui «alla coercizione [...] succede la volontarietà della permanenza, al sospetto la fiducia [...], e al ratto il concubinato»39. Se viene meno un comportamento da punire, la paternità non può più essere imposta! Quest’argomento spiega la scelta delle corti di dare un significato decisivo al comportamento della madre della vittima, o dei suoi familiari: se chi dovrebbe essere garante dell’onore acconsente al rapporto tra vittima e carnefice, è evidente che non c’è più vittima e, quindi, non c’è più nessuna paternità da attribuire.

3. La lunga battaglia per l’abolizione del divieto Il caso pietoso di quel bersagliere che dai campi di battaglia mestamente invocava i genitori ignoti ha suscitato in molti commozione profonda, ed ha richiamato un po’ d’attenzione su un problema ormai antico, che è rimasto insoluto. [...] Strano destino quello che ha pesato su questa riforma! Tutti l’hanno sempre invocata, ma nessuno è riuscito ad attuarla. Non c’è stato candidato politico che tenesse ad apparire uomo di vedute moderne ed innovatrici, che non l’abbia inclusa nel suo prodella piccola Marianna Ucrìa (raccontato in un romanzo di Dacia Maraini), violentata da uno zio che sarà poi costretta a sposare. Similmente in una delle vicende narrate da Vargas Llosa: la piccola Sarita, una bambina, viene violentata dal maggiorenne Tello, e il caso finisce in tribunale dove testimoniano i genitori della vittima la cui unica preoccupazione appare quella che il giudice obblighi il signor Tello a sposare la loro figlia. «La coppia, a quanto pareva, sembrava più interessata a sposare la giovane che a punire l’abuso, fatto che menzionavano appena e solo quando vi erano costretti, e perdevano molto tempo a enumerare le virtù di Sarita, come se l’avessero messa in vendita» (Mario Vargas Llosa, La zia Julia e lo scribacchino, Einaudi, Torino 1999, p. 109). 38 Cassazione Palermo, 12 maggio 1910, cit., cc. 839-840. 39 Corte d’Appello Napoli, 11 marzo 1887, in «Il Foro italiano», 1887, I, c. 708. Del resto, non si tratta di una soluzione nuova nell’ordinamento dell’epoca: non dimentichiamo l’effetto sanante del matrimonio celebrato dopo uno stupro.

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gramma. E quanti Ministeri non hanno pomposamente annunciato il fermo proposito di risolverla? P. CITI,

Intorno alla ricerca della paternità

Con l’entrata in vigore del codice Pisanelli prese avvio una campagna contro l’assetto deciso dal legislatore che coinvolse uomini e donne, cattoliche, socialiste ed emancipazioniste in genere40, giuristi e politici, società scientifiche e comitati appositamente costituiti. Seppur vi fu qualche voce tanto audace da chiedere l’abrogazione totale del divieto, i più si adoperarono per riformare la disciplina in nome di «ragioni morali, giuridiche e sociali»41. Tra i pochi che chiesero che la ricerca della paternità venisse «ammessa come regola [...] e non soltanto in via di rara eccezione»42 vi fu40 L’abrogazione del divieto di ricerca della paternità era stata domandata già nel 1791 da Olympe de Gouges. Nella sua celebre Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, all’art. XI si legge: «la libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi della donna poiché questa libertà assicura la legittimità dei padri verso i figli. Ogni cittadina può dunque dire liberamente io sono la madre di un figlio vostro, senza che un pregiudizio barbaro la forzi a nascondere la verità; salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi stabiliti dalla Legge». È interessante che il diritto di rivelare ai figli l’identità del padre sia rivendicato all’interno del diritto della libertà di pensiero e di opinione. Aggiunge Olympe de Gouges nel postambolo: «vorrei una legge che fosse a vantaggio delle vedove e delle signorine tradite dalle false promesse di un uomo al quale si fossero legate; vorrei che questa legge forzasse un incostante a mantenere i suoi impegni o a un’indennità proporzionata al suo patrimonio». In Italia il tema funse da denominatore comune per un movimento tutt’altro che omogeneo. Non tutte, ad esempio, concordavano con quanto Ada Negri invocava nel suo racconto Il figlio (1911), e cioè che venisse riconosciuto a una giovane nubile quel che era permesso al maschio: avere figli senza nozze e senza scandali. 41 Carlo Rebuttati, Piccolo contributo di studio per la riforma del diritto civile, in «Lo Stato civile italiano», 1924, p. 66. Questo atteggiamento cauto è in primo luogo dovuto al timore che la difesa della donna possa essere letta come difesa della licenza e della libertà sessuale. 42 Giovan Battista Cosimo Moraglia, La filiazione naturale, in «Lo Stato civile italiano», 1915, 24, p. 373. Moraglia inseriva l’argomento in una riforma più ampia: «per virtù dei nostri valorosi soldati i confini della Patria si vanno ogni giorno più allontanando da questi termini ingiusti, che ci erano stati imposti dalla prepotenza degli stranieri e conservati da una politica ignava od imbelle, per raggiungere quelli che natura ci diede. Ci sembra pertanto giusto che al valore delle armi faccia riscontro nell’interno del Paese la virtù degli studiosi e soprattutto dei legislatori col preparare nuovi orizzonti alla più grande Italia anche nel campo del diritto».

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rono alcune donne. Tra queste anche chi, con grande sofferenza, aveva vissuto il problema sulla propria pelle. È il caso di Anna Maria Mozzoni che, nel suo volume La donna in faccia al progetto del nuovo Codice civile italiano (1865)43, denunciò con forza la contraddizione della legge che, mentre accordava al padre un’enorme autorità sulla prole legittima, sanzionava invece la sua assoluta irresponsabilità verso quella naturale. Nata nel 1837 a Rescaldina e con una figlia forse adottiva, ma molto più probabilmente naturale, Mozzoni sperimentò concretamente il passo indietro compiuto dalla legislazione unitaria rispetto a quella austriaca precedentemente in vigore44. Meno nota è la vicenda di un’altra emancipazionista la cui vita fu segnata dalla nascita di un figlio illegittimo, Regina Terruzzi, anche lei milanese. Nata nel 1862 in condizioni modestissime, dopo aver abbandonato gli studi di ostetricia divenne maestra. Prima socialista e poi fascista (condannata la violenza degli squadristi, si allontanò dalla militanza attiva45), nel 1895 ebbe un figlio, Paolo, nato dalla relazione con un celebre chirurgo di Napoli, il professor Ferdinando Gangitano. Per questo, sul lavoro, venne sottoposta a provvedimenti disciplinari in base alla legge Casati, mentre – più in generale – la sua attività di insegnante si caratterizzò per gli scontri con le autorità scolastiche, che disapprovavano i metodi pedagogici volti a valorizzare le capacità espressive dei bambini (pensiamo a quanto potesse scandalizzare, all’epoca, una strenua campagna a favore delle classi miste). Tutto questo, però, non la scoraggiò: Regina condusse 43 Il volume fu definito da Carlo Francesco Gabba, Della condizione giuridica delle donne, Unione tipografico-editrice, Torino 1880, p. 347, l’opera che condensa «tutti i capi d’accusa contro le presenti leggi intorno ai diritti della donna». 44 Il giureconsulto e politico Pasquale Stanislao Mancini (1817-1888) fu molto critico verso il codice Pisanelli, nel confronto con quello austriaco, per le soluzioni adottate rispetto al femminile: «arrossisco pensando alla ingiusta ricompensa che con questo nuovo codice italiano noi porteremmo alle generose madri e spose lombarde, che tanto premurosamente operarono, educando ed incitando la gioventù a forti opere, pel trionfo della nazionale indipendenza, quasi costringendo a rimpiangere come più liberale la legislazione dello straniero dominatore» (cfr. Giulia Galeotti, L’autorizzazione maritale nel primo codice civile unitario: un istituto «estraneo» alla tradizione italiana?, in «Dimensioni e Problemi della Ricerca storica», 2005, pp. 160 sgg.). 45 Coraggioso fu l’impegno di Regina Terruzzi nella raccolta di aiuti per gli orfani dei comunisti torinesi trucidati nel Natale di sangue del 1922. Nel 1933 Mussolini, che conosceva le sue doti di organizzatrice, le affidò il compito di fondare le Massaie rurali.

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infatti una lunga battaglia, sia contro il suo ex amante che per una riforma della legge in materia di illegittimi46, ottenendo qualche risultato almeno sul piano personale. Vide, infatti, Gangitano condannato a pagare gli alimenti per Paolo (ma non ottenne l’aumento della cifra a seguito della punizione subita in base alla legge Casati), e nell’agosto 1913 riuscì a vedere suo figlio legittimato per decreto reale (il codice prevedeva infatti questa modalità di legittimazione, oltre a quella per susseguente matrimonio fra i genitori). Domandando gli alimenti, Regina esibisce in giudizio nove lettere che Gangitano scrisse di suo pugno a un’amica della donna, che invano tentò un ravvicinamento fra i due ex amanti. Consapevole del rischio che corre nello scrivere del bimbo, l’uomo è molto attento a non definirsi padre nelle lettere, né indica mai Paolo come suo figlio. Ciò però non basta a cambiare l’intrinseca portata delle cose, osservano i giudici: costui infatti manifesta d’esserne il padre con espressioni così trasparenti ed univoche che chi legge lo vede e se ne convince immediatamente come d’una verità intuitiva. [...] Credeva che l’evitare le parole padre e figlio bastasse a scansarlo dal pericolo di costituire con quelle lettere il documento necessario per la sua responsabilità legale. [...] Invano la sua difesa tenta di menomare il valore delle risultanze degli scritti adducendo che le espressioni amorevoli e d’interessamento, le cure e gli aiuti dati o promessi per un fanciullo non sono manifestazioni sicure della paternità, potendo essere unicamente ispirate da bontà d’animo o da ragioni di convenienza.

Ma «v’è ben altro che bontà d’animo nelle lettere del Gangitano. Nessuno che abbia un briciolo di cervello scriverebbe per bontà d’animo o per convenienza quel che egli scriveva». L’uomo del resto appare nel pieno delle sue facoltà mentali nonché in grado per status sociale e istruzione di comprendere le implicazioni della sua condotta. I passaggi più eloquenti delle lettere47 dimostrano che «tutto 46 Per gli appelli vari a favore della prole illegittima che Regina Terruzzi inviò a Mussolini cfr. Victoria de Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio, Venezia 1993, p. 99. 47 «Non intendo piangere per le conseguenze di un amore non voluto, ma Paolo è in cima a tutti i miei pensieri; io per pensare a Paolo non ho bisogno di vederlo, egli è il mio primo pensiero dominante»; «se ho un centesimo da mettere da parte lo fo per Paolo, e voglio sperare d’aver vita per costituirgli qualche cosa che gli

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questo soltanto un padre, solo chi profondamente si sente tale, lo può dichiarare: è evidente!»48. L’abrogazione del divieto di ricerca della paternità fu richiesta anche da signore borghesi «regolari», come Ada Sacchi, convinta che la protezione dell’infanzia dovesse necessariamente passare per la libera indagine sull’identità paterna. La riforma è impellente, e «non deve essere necessario un cataclisma come quello della Sicilia e della Calabria per riconoscere alle donne il diritto, e il dovere della Patria». Ada Sacchi si immagina la giovinetta-tipo che «stenta a trovare occupazione. È stata sedotta da uno sfaccendato; ha voluto tenere, nutrire, allevare il bimbo che ha dato alla luce; e l’altro se l’è cavata senza aiutarla, senza curarsene, come non fosse affar suo»49. Molto interessante è la battaglia condotta dai coniugi Lollini, e cioè da Elisa Agnini e da suo marito, l’avvocato e parlamentare socialista Vittorio Lollini. Entrambi molto attivi sul piano sociale, chiesero l’abrogazione del divieto di ricerca della paternità e si impegnarono contro le discriminazioni che subivano gli illegittimi. Elisa, ad esempio, riuscì a ottenere dall’amico Bissolati, ministro dell’Assistenza militare, che sussidi e pensioni venissero estesi anche alle madri illegittime laddove il figlio fosse morto in guerra50. In un articolo sul giornale socialista «Uguaglianza», Agnini riferisce dei diversi progetti presentati in Parlamento per riformare la ricerca della paternità, tra cui anche quello estremamente innovativo e audace di Vittorio. Fondato sul principio della responsabilità («la quale deve possa far raggiungere uno stato da non aver ulteriori bisogni» (Tribunale Napoli, 15 marzo 1911, in «Monitore dei Tribunali», 1911, p. 373). 48 Ivi, p. 372. 49 «Ora la prova vivente della sua debolezza le ostacola un mezzo onorevole di guadagno. ‘Ma vi dovrebbe essere la ricerca della paternità!’ – voi obbietterete. E la tutela dei figli illegittimi? Sempre allo stato di progetto, di studio; non si finisce mai di studiarli questi argomenti scottanti, che denunziano il vizio e l’egoismo maschile» (Ada Sacchi Simonetta, Il voto non è solo questione politica, 1923, citato da Giulia Galeotti, Storia del voto alle donne in Italia, Biblink, Roma 2006, p. 110). 50 È molto sfaccettata la figura di Elisa, battagliera emancipazionista impegnata a favore dell’illegittimità, ma nel contempo attenta a chi frequentasse la loro casa e le loro quattro figlie femmine: «Molto amici e spesso ospiti, erano i Labriola; anche Turati frequentò la loro casa, ma [...] la Kuliscioff: ‘Mammà era scandalizzata, fumava il sigaro!’. La sua vita era un po’ troppo fuori schema per essere ben accetta anche in una casa di moderni liberi pensatori» (Silvia Mori, Il mio nonno aveva un gatto, Tufani, Ferrara 2007, pp. 59-60).

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essere l’anima della nuova morale sociale»51), richiedeva la libera ricerca finanche per i figli adulterini e incestuosi. Autentico azzardo per l’epoca, il progetto venne respinto. Questo articolo ci introduce nelle aule parlamentari, dove effettivamente il tema venne più volte discusso, seppur senza esito. Fra le proposte più estremiste (che non riuscirono nemmeno ad arrivare in aula) vi furono quelle redatte dal deputato Salvatore Morelli, rispettivamente nel 1874 e nel 1879, che intendevano sostituire la proibizione con la formula «l’uomo che genera è responsabile del fatto proprio. Le indagini sulla paternità e la maternità saranno accolte con le norme della procedura ordinaria». Nel maggio 1891 fu la volta di Emanuele Gianturco che, volendo trovare «un rimedio alla sventura, non un’arma in mano all’avidità di sgualdrine ricattatrici», chiese che le indagini fossero ammesse, oltre che in casi di ratto e di stupro violento, in quello di seduzione preceduta da promessa di matrimonio, o facilitata da abuso di autorità o di fiducia (a condizione però che la donna avesse serbato condotta illibata fino al tempo della seduzione e che vi fosse possesso di stato). Discussa l’anno dopo, il 21 gennaio 1892, la risposta dell’aula fu un escamotage giuridico: su una materia così importante solo il governo aveva l’iniziativa, non i singoli deputati. Anche la proposta di Ugo Sorani (1901) comprendeva numerose eccezioni al divieto: ratto, stupro, violenza e seduzione quando esistano prove precostituite nascenti dal fatto, dal detto o dallo scritto del padre presunto, da sentenza definitiva civile o penale (pronunziata anche fra parti diverse), quando si possa [...] stabilire la costante coabitazione fra madre naturale e il presunto padre, quando esista un possesso di stato, quando la filiazione risulti da matrimonio religioso non susseguito da matrimonio civile, o da matrimonio dichiarato nullo52.

Nell’ambito di un progetto che mirava a un’ampia riforma del diritto di famiglia (si prevedeva ad esempio il divorzio), Giuseppe Zanardelli (da cui prese nome il primo codice penale unitario del 1889) elaborò nel 1903, poco prima delle sue dimissioni, una proposta di legge tesa a rispondere «ai gravi problemi sociali posti dal gran nu-

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Ivi, p. 58. Sorani, Della ricerca della paternità, cit., p. 30.

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mero di unioni irregolari od illegittime». L’elenco di eccezioni costituisce un prezioso spaccato della situazione sociale dell’epoca: unioni sanzionate solo dinanzi al parroco, unione civile con una persona e religiosa con un’altra, separazioni legali o di fatto seguite da stabili convivenze more uxorio, matrimoni e divorzi all’estero, seduzioni con promesse di matrimonio mantenute solo dinanzi al parroco, o matrimoni civili celebrati solo come impegno al futuro matrimonio religioso.

Nel 1906 fu quindi la volta della Commissione per la riforma del diritto privato, il cui progetto era molto ambizioso: estendere il concetto di stato familiare al figlio naturale, riconoscendo un rapporto non solo con il padre, ma anche con gli ascendenti e con i collaterali di primo grado. In entrambi i casi, però, si trattò di proposte talmente ampie da suscitare – per reazione – una forte ostilità. Più in generale, fino all’avvento del fascismo, furono molte le iniziative che si succedettero, in particolare di area cattolica e socialista53. Tutte si rifacevano ai cambiamenti sociali in corso e alla necessità di risolvere situazioni che andavano sempre più diffondendosi. Molte si richiamavano alle tradizioni della nostra penisola prima dell’avvento di Napoleone, come fece ad esempio nel 1910 il noto giurista Vittorio Scialoja54. È interessante questo dato: gli uomini che si dedicano alla questione sono figure importanti, sia in ambito politico che giuridico. Fuori dal Parlamento, la riforma della disciplina fu innanzitutto domandata da molte associazioni muliebri, come la Lega per la tutela degli interessi femminili55, l’Associazione per la donna e il Con-

53 Fra le altre ricordiamo tre proposte di Filippo Meda, rispettivamente del 1914, 1919 e 1920 (che verranno riprese in Assemblea costituente), e due di Cesare Nava del 1914 e 1920. 54 Nel proporre un aumento delle eccezioni al divieto di ricerca (oltre che nei due casi previsti, chiedeva libertà di indagini in presenza di seduzione che poteva essere «preceduta da promessa di matrimonio, o compiuta con artifizii o raggiri, ovvero facilitata da abuso di autorità o di fiducia, o di relazioni domestiche, quando il tempo della seduzione risponda a quello del concepimento»; convivenza more uxorio; dichiarazione scritta) Scialoja invoca espressamente «un ritorno alle nostre tradizioni giuridiche» (Vittorio Scialoja, Disposizioni relative ai figli naturali. Disegno di legge presentato al Senato del Regno il 22 febbraio 1910 dal ministro di grazia e giustizia e dei culti, Roma 1910, p. 15). 55 La Lega per la tutela degli interessi femminili venne fondata nell’aprile 1893 da diverse donne, tra cui Regina Terruzzi e Adele Nulli. Quest’ultima diede vita al

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siglio nazionale delle donne italiane (CNDI)56. Una socia della federazione toscana del CNDI, Clara Jalla, scrisse un interessante opuscolo intitolato Come può la donna aiutare nella lotta contro l’immoralità. Fra l’altro, accennava alla «via crucis» di quante venivano sedotte e poi abbandonate sul punto di diventare madri; essendo per loro impossibile partorire in casa, perché la famiglia si opponeva quasi sempre (e restare senza famiglia voleva anche dire restare senza casa), l’unica soluzione era il ricovero in ospedale: L’ospedale si sa è una scuola; ivi il malato rappresenta anzi tutto il materiale vivente di studio necessario per la pratica giornaliera e per gli esperimenti scientifici. Ma allorché questo materiale vivente è rappresentato da una giovanetta, spesso quasi una bambina che un primo fallo d’amore e d’inesperienza non ha spogliata ancora dei suoi istintivi pudori, si può comprendere facilmente quale martirio rappresenti per lei il doversi prestare alle investigazioni di molti e giovanili sguardi maschili57.

Per la richiesta di abrogazione del divieto previsto dall’art. 189 si crearono dunque comitati e iniziative ad hoc. Ad esempio, nel 1896 a Milano sorse un Comitato centrale di propaganda per la riforma dell’articolo, cui si affiancavano i comitati delle diverse città italiane. Respinta ogni collocazione politica, si domandava di ammettere le indagini anche sulla base di uno scritto proveniente dal presunto padre, in presenza di possesso di stato, di concubinato (qualunque ne fosse stata l’origine) e seduzione (con o senza promessa di matrimonio). Il presidente del comitato era il medico e senatore Malachia De Cristofo-

Circolo Maria Gaetana Agnesi, la cui attività si concentrò sulla richiesta di abrogazione del divieto di ricerca della paternità. 56 Federazione di associazioni, di matrice borghese, il CNDI fu fondato nel 1903, anche grazie alla volontà del Consiglio internazionale delle donne di estendersi in Italia. Puntò in particolare sull’elevazione culturale femminile. La strategia era di creare strettissimi collegamenti fra le molte rivendicazioni. Così, ad esempio, il problema degli esposti veniva collegato a quello della prostituzione e della doppia morale applicata all’uomo e alla donna. 57 Clara Jalla, Come può la donna aiutare nella lotta contro l’immoralità, Stab. Tip. Aldino, Firenze 1910, p. 5. Nello scritto, Jalla affronta anche un’altra questione concreta per le madri illegittime, e cioè il problema della norma civilistica che imponeva di effettuare la denuncia dell’avvenuta nascita entro cinque giorni dal parto, termine chiaramente troppo breve per le donne sole.

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ris58, mentre fra le più attive partecipanti vi fu Paolina Schiff, che girò a lungo la penisola tenendo conferenze e riuscendo a pubblicare su «Lo Stato civile italiano» (importante rivista giuridica che, nei primi anni del Novecento, avanzò molte proposte in materia di filiazione illegittima59) un articolo dal titolo Per la ricerca della paternità (fu un evento eccezionale: «facciamo un’eccezione alla regola, riproducendo una conferenza, opera di una donna [...] per l’importanza dell’argomento, oggi di viva attualità» – scrive il giornale60). Il divieto di ricerca fu discusso in diversi congressi, non solo femminili, che si svolsero in quegli anni nella penisola. Ad esempio, in occasione del III Congresso giuridico italiano tenutosi a Firenze nel 1891, Enrico Cimbali sostenne la necessità di due riforme urgenti: il divorzio e la ricerca della paternità (da introdurre in presenza di uno scritto, di un complesso di circostanze che dimostrasse i rapporti fra il presunto padre e la madre al tempo del concepimento, seduzione, concubinato more uxorio e matrimonio religioso)61. Ne parlò quindi Adelaide Coari, durante la relazione che tenne a Milano al convegno organizzato dalle donne cattoliche (con l’adesione del CNDI, di al-

58 Malachia De Cristoforis, autore, fra l’altro, di un’opera intitolata Le malattie della donna. Trattato clinico (Dumolard, Milano 1881), contribuì alla fondazione, nel 1887, dell’opera pia Guardia ostetrica che diede alla città di Milano un servizio efficiente e un presidio sicuro per le urgenze specialistiche. Dal 1890 al 1897 De Cristoforis diresse il «Giornale per le Levatrici». 59 «Questa nostra rivista, strenua propugnatrice dell’istituto giuridico de la ricerca della paternità, sarà lieta sempre di mantenere nelle sue colonne viva la lotta per la vittoria di un principio che ci sembra altamente umano e civile» (Moraglia, La filiazione naturale, cit., p. 373). 60 La viva attualità era dovuta anche al fatto che poco prima Cesare Fani, presentando alla Camera una relazione sulle riforme del diritto di famiglia, vi aveva inserito le linee per la trasformazione dell’art. 189 in una norma più rispondente alla «nuova coscienza giuridica di un popolo civile». Cfr. Giulia Galeotti, Movimenti delle donne e ricerca della paternità tra Ottocento e primo Novecento, in Paola Magnarelli (a cura di), Donne tra Otto e Novecento. Progetti culturali, emancipazione e partecipazione politica, EUM, Macerata 2007, pp. 139-57. 61 Partecipò al congresso anche l’avvocato M.A. Salom con l’intervento Se e quali riforme sieno da introdursi nel codice civile relativamente alla ricerca della paternità e alla condizione giuridica dei figli illegittimi: proponeva la formula «le indagini sulla paternità sono ammesse, tranne nei casi che sia vietato il riconoscimento, che consti notoriamente della mala vita della madre nel periodo tra il sesto e il decimo mese anteriore alla nascita» (citato in Giuseppe Leoni, Filiazione, in Il digesto italiano, vol. XI, t. 2, UTET, Torino 1926, p. 288).

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cune socialiste e dell’Unione femminile62) nell’aprile del 1907. Nell’illustrare il suo Programma minimo femminista, tra le rivendicazioni in campo legislativo Coari menzionò espressamente la ricerca della paternità – e il risultato finale dei lavori fu una piattaforma d’intesa piuttosto avanzata che la prevedeva liberamente. Il tema venne affrontato anche dal I Congresso nazionale delle donne italiane, svoltosi a Roma nell’aprile 1908; come commenterà la principessa Maria Cristina Giustiniani Bandini, questo congresso che molti preannunziavano come una parata di mondane intellettuali eleganti, meravigliò invece di più per l’ordine e la serietà delle discussioni, che si risolvettero quasi sempre in ordini del giorno privi di fronzoli e che miravano direttamente al conseguimento di uno scopo pratico e immediato63.

I lavori si articolarono in sei sezioni che intendevano affrontare gli aspetti principali della vita femminile (educazione e istruzione, condizione morale e giuridica della donna, assistenza e previdenza, igiene, arte e letteratura femminile, emigrazione). Fu la sezione dedicata alla condizione morale e giuridica della donna a occuparsi con attenzione del nostro tema64. Così, grazie in particolare all’impegno – oltre che di Paolina Schiff – di Teresa Labriola65, si approvò un ordine 62 L’Unione femminile nasce a Milano nel 1898-99 per iniziativa di Ersilia Bronzini Majno, Ada Negri, Jole Bersellini Bellini, Nina Rignano Sullam, Edvige Vonwiller Gessner, Adele Riva, Antonietta Pisa Rizzi, Rebecca Calderini e altre (e anche di alcuni uomini, tra cui Luigi Majno e Giuseppe Mentessi). L’associazione, distinta dai partiti, si proponeva di difendere le lavoratrici (operaie, maestre, impiegate, insegnanti di scuola media), affermare il valore sociale della maternità, favorire l’istruzione femminile, ottenere il diritto di voto, combattere la prostituzione e costituire strutture di assistenza e formazione per donne di ogni età. Essa si caratterizzava inoltre per l’essere aperta agli uomini, nella certezza che la donna e l’uomo costituissero per la società due forze non eguali ma equivalenti. 63 Citato da Elisa Venuti, L’impegno di Maria Cristina Giustiniani Bandini nella Commissione europea sulla Tratta delle Donne e dei Fanciulli, tesi di laurea, Università di Roma «La Sapienza», a.a. 2002-2003, p. 6. Numerose furono al congresso le presenze di parlamentari e uomini politici. Fra questi il senatore Antonio Fogazzaro e l’ex presidente del Consiglio Sidney Sonnino, partecipante assiduo alle sedute della sezione giuridico-morale. 64 Era diffusa la convinzione che il ritardo italiano nel migliorare la condizione femminile non fosse dovuto solo a questioni di mentalità, ma anche a chiari ostacoli normativi. 65 Teresa Labriola sosteneva l’abrogazione del divieto in nome dell’antica opi-

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del giorno per appoggiare la riforma dell’art. 189 nella futura sessione parlamentare (anche se, una volta di più, tutto si risolse in nulla). Se le proposte non mancarono, è però interessante ricordare che, al di là delle formule di condanna più o meno esplicite (il giurista Carlo Francesco Gabba definiva «ingiusto, inumano e immorale» il divieto66), le motivazioni che fondavano la richiesta di cambiamenti furono alquanto varie. Vi fu chi si appellò al principio per cui ciascuno è chiamato a rispondere del proprio comportamento. Il giurista e politico Pietro Bertolini, che pure non aspirava all’abolizione del divieto tout court67, si richiamava esplicitamente alla «obbligazione naturale che incombe a chi ha procreato un figlio di provvedere alla sua esistenza», che non può «lasciarsi nell’arbitrio del genitore di non adempiere»68. Nel rimarcare come ciò dovesse essere garantito non solo a tutela della prole, ma anche della donna e dell’ordinamento nel suo complesso, Bertolini era stato di poco preceduto da Heinrich Ahrens, secondo cui il divieto era una «violazione flagrante di un principio di giustizia rispetto alla madre così come verso il figlio, imperocché essa libera il padre dall’obbligazione naturale di provvedere alla sussistenza ed alla educazione del suo figliuolo ed all’alimentazione della madre»69. nione che i «figli dell’amore» siano particolarmente dotati. Riteneva quindi che lo Stato dovesse liberare la famiglia da un «eccesso di arbitrarietà» e promuovere qualità nuove e «più razionali» per potenziare il capitale umano della stirpe italiana (Teresa Labriola, Contributo agli studi sulla ricerca della paternità, in Maria Laetitia Riccio, a cura di, La donna e la famiglia nella legislazione fascista, Edizioni de La Toga, Napoli 1933, pp. 59-66). 66 Carlo Francesco Gabba, La dichiarazione della paternità e l’articolo 189 del Codice civile italiano, in «Annuario delle Scienze giuridiche, sociali e politiche», 1881, p. 178. 67 «Ora, se niuno può negare siffatto rapporto naturale di dovere e di diritto, la difficoltà di assodarlo nei singoli casi od il timore di conseguenze clamorose per altri non autorizzano certo il legislatore a sopprimerlo, ma soltanto a disciplinarlo ed a circondarlo di temperamenti e di cautele» (Pietro Bertolini, Gli esposti, in «Nuova Antologia», 1893, p. 669). 68 Ibid. 69 Anche Heinrich Ahrens prevede però delle limitazioni a un’eventuale libera ricerca della paternità: «la legge può prendere qualche misura che impedisca delle speculazioni svergognate, prescrivendo per esempio, giusta una legge inglese del 1834, che la madre non abbia mai nulla della somma a cui il padre può essere condannato; ma il principio dev’essere rispettato» (Heinrich Ahrens, Corso di diritto naturale o di filosofia del diritto completato nelle materie più importanti da alcuni schizzi storici e politici, vol. I, Giuseppe Marghieri, Napoli 1872, p. 292).

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Ahrens smontava, quindi, sia la giustificazione per la quale il divieto impedirebbe gli scandali sia quella secondo cui esso fungerebbe da monito portando le donne a essere più «timorate». La necessità di rendere l’uomo responsabile per il figlio che ha messo al mondo venne ribadita in epoca fascista. La base per così dire ideologica di tale necessità si ravvisa nel fatto che «lo Stato fascista [...] dà la massima preferenza [...] al matrimonio civilmente e religiosamente regolato» e nel concetto delle responsabilità sociali e individuali, riaffermate in tutti i campi. Ciò comporta che «la seduzione di qualsiasi donna, in special modo se onesta, non deve essere un puro divertimento, ma deve essere un grave pegno il cui eventuale frutto lega l’uomo alla femmina ed a fortiori lo lega al figlio». Quanto alle proposte concrete, ne vengono individuate quattro: «incrementare l’assistenza dell’infanzia illegittima; modificare l’istituto giuridico dell’adozione; ammettere l’obbligatorietà della denuncia della maternità; ammettere la ricerca della paternità», naturalmente «circondata di tutte le necessarie garanzie, onde non sia imputata ad un uomo la paternità di cui non è convinto»70. Nell’Italia unita, la maggior parte delle posizioni ribadiva l’opportunità di allargare le eccezioni al divieto a quelle che erano le ipotesi previste dall’art. 193 in materia di alimenti (e cioè in presenza di dichiarazione scritta dell’uomo, laddove il rapporto di filiazione risultasse indirettamente da sentenza civile o penale, o da un matrimonio dichiarato nullo; cfr. infra, cap. 5, par. 2)71. Dalle altre proposte avanzate emergono ulteriori considerazioni: ad esempio, la sottolineatura per cui «dell’articolo 189 hanno sofferto solo le classi operaie» giacché le sedotte «non sono mai le figlie di un abbiente, ma sono reclutate nelle file del proletariato delle in-

Oscar Ronza, Infanzia illegittima, s.e., Novara 1936, pp. 87-88. Sulle pagine dell’Enciclopedia giuridica (1903) si scorge una critica alla soluzione codicistica: «non può disconoscersi che il divieto è ancora troppo assoluto, [...] ond’è che da parecchi si reclama una riforma nel senso almeno che siano ammesse le indagini nei casi previsti dall’art. 193» (Vittorio Wautrain Cavagnari, Filiazione, in Enciclopedia giuridica italiana, vol. VI, t. 2, Società editrice libraria, Milano 1903, p. 686). Similmente l’incipit contenuto nel Digesto italiano (1926): «contro l’articolo 189 si sono pronunciati i più illustri civilisti italiani; filosofi e letterati ne hanno chiesto l’abrogazione o la riforma. Qui devonsi esporre le norme relative all’enunciato principio che è purtroppo ancora legge dello Stato» (Leoni, Filiazione, cit., p. 276). 70 71

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dustrie e delle città»72. E se ci si chiede «perché supporre a priori che la donna, lungi dall’essere una vittima, sia il carnefice?»73, ecco che l’opportunità di rivedere il divieto si inserisce nella necessità che emerge, sia pure timidamente, di migliorare le condizioni delle donne nella vita quotidiana74. Si spinge molto in là Francesco Filomusi Guelfi quando scrive: «è tempo che dal codice italiano scompaia l’art. 189 che viola il principio di uguaglianza fra l’uomo e la donna»75. Infine, a chiusura del cerchio, Vittorio Scialoja sottolinea un altro aspetto: la legislazione è impostata in modo tale che l’onere del sostentamento dell’illegittimo finisce per ricadere il più delle volte sulle finanze dello Stato76.

4. Un esempio di padre punito: Luigi Rebagliati e il banchetto alla Rosa Fiorita Lucia dall’alto della sua rupe non aveva scorto due occhi umani che da un’ora lacrimavano di stanchezza, avventando faville assetate agli occhi suoi, alle sue spalle, al suo colmo seno, e credé emesso dalla sua ca72 Giuseppe Salvioli, I difetti sociali del Codice civile in relazione alle classi non abbienti ed operaie, Tip. dello Statuto, Palermo 1890, p. 28. 73 Federico Criscuolo, La donna nella storia del diritto privato italiano, Carini, Caronna & Macoclin, Palermo 1885, p. 90. La conclusione del discorso suona paradossale: «completando in tal modo la legislazione civile, si potrà ottenere che anche per l’avvenire la donna italiana accetti di svolgere l’attività del suo spirito nella sola cerchia della famiglia, e sappia dalla coscienza stessa della sua eguaglianza giuridica trarre l’energia per resistere ad esempi forestieri di una sua più o meno larga partecipazione alla vita politica» (ivi, p. 92). 74 Scrive nel 1880 Gabba: «come all’estero (specie in Francia ed Inghilterra) ormai anche fra noi i diritti delle donne forniscono uno dei più frequenti subbietti di conversazione e di disputa fra le persone educate» (Gabba, Della condizione giuridica delle donne, cit., p. 22). È del resto indubbio che il clima montante a favore della riforma fosse imputabile anche alla constatazione che Stati tradizionalmente contrari alla ricerca, come Paesi Bassi, Belgio, Svizzera e addirittura Francia, avessero rivisto la propria legislazione in materia. 75 Francesco Filomusi Guelfi, Sulla ricerca della paternità, in «La Rassegna nazionale», 1909, citato da Raffaele Mascetti, Ratto e paternità secondo il vigente diritto italiano, Società Editrice del Libro Italiano, Roma 1941, p. 30. 76 «Quando l’uno o l’altra o ambedue riversano sullo Stato l’onere del mantenimento, abbandonando il nato o consegnandolo ad un brefotrofio, il pubblico erario è costretto a sopportare rilevanti spese per rendere meno funeste le conseguenze dell’egoismo o del mal costume dei genitori» (Scialoja, Disposizioni, cit., p. 6).

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pretta il belato che il ruvido Tonio scaltramente aveva imitato, ed era corsa... ed era corsa, povera Lucia! Lieta e sicura, come l’usignolo innocente corre gorgheggiando nella bocca del rospo che digiuno la guarda. R. FUCINI,

Le veglie di Neri

Una vicenda realmente accaduta rivela chiaramente aperture e limiti giurisprudenziali nell’applicazione delle norme del codice civile che ci interessano. Siamo a Savona, è il gennaio 1908 quando il giovane Luigi Rebagliati si invaghisce di Maria Perrier. Inizia quindi a corteggiarla «pubblicamente e con assiduità», dimostrando verso di lei «viva simpatia ed amore». Le sue intenzioni paiono davvero serie, e non tarda ad arrivare la richiesta di matrimonio. Alle nozze, del resto, non vi sono ostacoli di sorta, essendo i due giovani liberi e di famiglie socialmente omogenee. Il corteggiamento prosegue dunque alla luce del sole e l’apice viene raggiunto nell’agosto 1911, quando Luigi organizza una gita a Carcare, località in cui sua madre si trova in villeggiatura: le vuole infatti presentare ufficialmente la fidanzata, durante il banchetto appositamente predisposto all’albergo Rosa Fiorita. Il pranzo, al quale sono invitati anche altri parenti e gli amici più stretti, procede secondo i migliori auspici: Luigi e Maria sono seduti accanto, e più volte il giovane brinda ad alta voce al loro avvenire. Tutto ciò viene poi ribadito alla fanciulla nell’intimità, dopo il pranzo. «Presami in disparte, mi rinnovò ed accentuò le usate e più ardenti proteste di amore e di fedeltà» – racconterà Maria. Luigi però, dovendosi allontanare qualche giorno da Savona, convoca la fidanzata per l’indomani nella casa paterna: oltre che salutarla, vuole anche parlarle del loro futuro. Così, in completa e legittima buona fede, nel pomeriggio del 22 agosto la ragazza si presenta a casa Rebagliati. Dapprincipio Luigi l’accoglie rispettosamente, ma poco dopo inizia ad accarezzarla e a baciarla, fino ad arrivare a immobilizzarla brutalmente. E se anche non riesce a violentarla, sfogherà «le sue voglie su di lei». Maria, inizialmente impietrita dallo stupore, reagisce violentemente: gli urla in faccia il suo odio e lascia precipitosamente la casa. I tentativi dell’uomo di calmarla (scusandosi per il gesto inconsulto e rinnovando le promesse di matrimonio) sono del tutto inutili, e tali rimarranno anche nei giorni successivi.

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Dopo poco, a Maria si interrompono le mestruazioni. La ragazza, sorpresissima, si rivolge a un medico il quale constata che, malgrado la sua verginità, è incinta77. Quando Luigi lo viene a sapere, prima si mostra felice e commosso («si disse pronto a fare il proprio dovere, e promise che si sarebbe recato il giorno dopo dalla madre della Perrier»), ma subito dopo compie un passo inequivocabile: si sposa con un’altra. A questo punto lo scandalo è davvero completo, a Savona non si parla d’altro. Ci sono tutti gli ingredienti per un ricco romanzo d’appendice. Disperata, Maria decide di trasferirsi a Milano con il bimbo appena nato, nel tentativo di sfuggire ai commenti della gente. E, tutto sommato, riesce in qualche modo a ricomporre la sua vita: trova un lavoro che le permette di mantenere se stessa e suo figlio (non tutte le donne avrebbero avuto la forza di ricostruirsi una vita con un figlio illegittimo nell’Italia dei primi del Novecento). La rabbia nei confronti dell’ex fidanzato, però, comprensibilmente non scema, e così Maria decide di rivolgersi ai giudici perché riconoscano Luigi padre naturale del bambino, condannandolo anche a risarcirle i danni. In tribunale, com’è immaginabile, lo scontro è acceso. Il Rebagliati, che ora ha dalla sua il vantaggio di presentarsi come un marito esemplare, tenta di offrire una differente versione dei fatti. Così, ad esempio, nega di aver mai fatto promesse di matrimonio e descrive l’incontro a Carcare come un appuntamento goliardico, un non impegnativo «ritiro tra amici» senza l’intervento di alcun parente. Dulcis in fundo, arriva a negare di essere stato a Savona il giorno del concepimento. E se in primo grado viene creduto dai giudici di Savona, la Corte d’Appello di Genova ribalta la sentenza. Così, ad armi pari, le parti si trovano in Cassazione. Sono molti gli aspetti interessanti di questa vicenda. Innanzitutto, giacché il presupposto dello stupro violento è la congiunzione 77 Le gravidanze di donne ancora vergini non sono infrequenti. Luciana Coen Cardone racconta: «le scene che mi davano vero disgusto erano quelle che succedevano in sala da parto, quando la madre nubile era vergine. Con i loro commenti salaci, medici e levatrici pretendevano di dare a quelle giovani sciagurate insegnamenti tardivi e osceni, mentre con terribili sofferenze fisiche, con i rimorsi e i rimpianti che non avrebbero mai mancato di agitarle, esse erano punite di un atto che non avevano neanche compiuto in tutta la sua naturale, poetica grandezza» (Luciana Coen Cardone, Gli illegittimi, Gielle, Roma 1957, p. 36). Cfr. anche quanto sosteneva Clara Jalla nel 1910: Jalla, Come può la donna aiutare nella lotta contro l’immoralità, cit.

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carnale, si tratta di vedere se nel caso concreto ne ricorrano effettivamente gli estremi. Il tribunale di primo grado annotava, oltre al fatto che la ragazza si fosse spontaneamente recata in casa del Rebagliati, stando sola con lui fra carezze e baci, che ella non ebbe «scompigliate né vesti e né pettinatura, neppure le mutandine furono rotte o strappate, e dovettero impedire la congiunzione carnale tantoché la ragazza uscì dal convegno in stato di perfetta verginità fisica quale conservò fino al giorno del parto»78. In secondo grado, invece, la valutazione è più circostanziata e attenta: Avuto riguardo alle circostanze speciali del fatto, dove una signorina per bene, molto imprudentemente sia pure, ma fiduciosa e piena di speranze si reca in casa del giovane ch’essa amava e che essa sperava che un giorno l’avrebbe fatta sua, dal quale (non è più possibile dubitarne) aveva avute ripetute prove di simpatia speciale e di speciale attaccamento, e ne esce disonorata, non è il caso di ricercare quella aggressione materiale e brutale che anima colui che assale la prima donna che incontra nella campagna deserta e vuole ad ogni costo possederla. Qui basta che sia provato come al congiungimento sia mancato il consenso della vittima [requisito ampiamente soddisfatto nel caso in esame]79.

Data la peculiarità della fattispecie, entrambe le parti domandano il parere dei medici onde chiarire se si possa tecnicamente parlare di stupro essendo mancata la congiunzione carnale, e avendo la Perrier conservato la sua verginità. Ovviamente i medici contattati non concordano nella loro analisi. Secondo il professor Clivio, convocato dal Rebagliati, seppure sia ammissibile la possibilità di una fecondazione in seguito a contatto periferico, va però decisamente escluso che nella fattispecie la fecondazione di Maria sia avvenuta nel modo in cui lei l’ha narrata. Di avviso opposto la testimonianza del professor Castellani, medico della donna, il quale narra delle iniziali cure avviate contro l’anemia, dapprincipio ritenuta la causa delle cessate mestruazioni. Ricorda quindi la sorpresa e la disperazione della donna quando le annunciò la gravidanza: a questo punto Maria, scoppiata in un pianto disperato, gli avrebbe raccontato tutto fra 78 Citata da Cassazione Torino, 11 agosto 1916, in «Monitore dei Tribunali», 1916, p. 24. 79 Ivi, p. 25.

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i singhiozzi. Addirittura il medico riferisce dell’intromissione di un fratello dell’uomo, che si era recato al suo studio per avere notizie sul reale stato della donna. Si tratterà di un elemento nient’affatto marginale: essendo avvenuta poco dopo il fatto, quando la cosa poteva essere conosciuta soltanto dalla ragazza, dalla sua famiglia e da chi l’aveva commessa, i giudici daranno grande peso a tale visita. La vicenda si concluderà positivamente, rendendo la misura dell’apertura giurisprudenziale di cui si diceva. Luigi verrà riconosciuto padre del nato e sarà condannato, oltre agli alimenti, a risarcire Maria per il danno subito80. Anche sotto la vigenza del codice civile del 1942 la verginità della vittima non osta a un accertamento di violenza carnale ai fini dell’attribuzione di paternità. Ne è un esempio la vicenda che coinvolge il diciannovenne R. e la ventunenne G. Nei diversi gradi di giudizio la difesa tenta di far passare il ragazzo come un giovane incosciente affetto da ipereccitazione amorosa, uno stato che sarebbe comprovato, oltre che dalle deliranti lettere scritte alla ragazza («tu sarai mia moglie e nostro figlio avrà un padre [sic!]»), dal fatto che non si avvide dell’assoluta anomalia di una gravidanza provocata da un coito incompleto, semplicemente esterno. I giudici di merito rigettano però queste argomentazioni, fra l’altro definendo semplicistico il ragionamento dell’uomo81. «La fecondazione provocata da coito ad limina non è poi così rara ed eccezionale, tanto più che non 80 Circa la valutazione economica del danno subito dalla donna, il Rebagliati viene condannato al pagamento di 50.000 lire, con gli interessi. Come scrive la Cassazione, «la corte ha dovuto nell’estimazione del danno esercitare una potestà di arbitramento, non essendo concepibile in questa fattispecie una determinazione numerica positiva. Ma del suo arbitramento ha dato sufficiente giustificazione, considerando la condizione sociale della vittima, ed il fatto che essa fu costretta ad abbandonare con la propria famiglia la città dove viveva onorata e rispettata e dove dai parenti, ivi pure stabiliti, poteva avere quegli aiuti materiali e morali di cui poteva aver bisogno. Considerò la sentenza l’avvenire spezzato della Perrier, l’aggravio che le viene dal dover provvedere al figliuolo, e stimò di compensare, con quell’assegno, i danni materiali ed in parte morali della vittima perché questi non sono mai per intero risarcibili. [...] Ma poiché la corte del merito dichiarò che non tutti i danni morali sono risarcibili è lecito indurre che essa considerò i danni morali in quanto risarcibili; in quanto cioè essi avevano una ripercussione, ben facile e credibile in questa fattispecie, alla condizione economica e patrimoniale della Perrier» (Cassazione Torino, 11 agosto 1916, in «Monitore dei Tribunali», 1916, p. 26). 81 Corte d’Appello Torino, 5 giugno 1962.

4. La paternità come punizione

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si tratta di un rapporto isolato ed occasionale, ma di una serie di convegni amorosi in concomitanza dei quali sopraggiunse la gravidanza»82. Quest’ampia lettura giurisprudenziale delle eccezioni al divieto di ricerca della paternità perdura, dunque, dopo l’emanazione del codice del 1942, anzi ora le cose sono più facili per le corti. Se infatti il legislatore ha ancora vietato la ricerca in via generale («la paternità naturale non può essere giudizialmente dichiarata» stabilisce l’art. 269), v’è stato però un aumento notevole nel numero delle eccezioni. Le indagini sono infatti ammesse anche laddove la madre e il presunto padre avessero notoriamente convissuto come coniugi al tempo del concepimento, in presenza di possesso di stato o quando la paternità risultasse indirettamente da sentenza o da non equivoca dichiarazione scritta dell’uomo. Contestualmente, però, il legislatore del 1942, costretto ad allargare le maglie della proibizione per i cambiamenti sociali e le pressioni del vasto movimento di riforma, introduce una previsione che mira a restituire un certo potere di controllo alle corti: l’art. 274, infatti, stabilisce che l’azione possa essere esercitata «solo quando concorrono indizi tali da farla apparire giustificata». Fortunatamente di questa norma – dichiarata incostituzionale dalla Consulta solo con sentenza 10 febbraio 2006, n. 50 – non è stato fatto un uso a tutela dell’uomo.

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Cassazione, 29 luglio 1963, n. 2122, in «Il Foro italiano», 1963, c. 347.

5 IL NON-PADRE CHE ALIMENTA IL NON-FIGLIO

1. Gli alimenti per il figlio illegittimo Di Lucia, Virginia sapeva che un uomo l’aveva messa incinta e poi le aveva confessato di essere già sposato: aveva continuato a mantenerli, lei e il bambino, fino a quando era scoppiata la guerra in Abissinia, e c’era morto. V. PRATOLINI,

Un eroe del nostro tempo

Fu il diritto canonico a introdurre il principio secondo cui a ogni figlio illegittimo, compreso l’adulterino e l’incestuoso, spettasse il diritto a essere alimentato dal padre, essendo un dovere preciso quello di provvedere a chi si fosse messo al mondo, a prescindere dalla sua origine1. In età contemporanea, è stato il codice napoleonico a statuire, con un’importante e lapidaria formula, che ai figli illegittimi «la loi n’accorde que des aliments» (art. 762, par. 2). In altri termini, seppur proibisse la ricerca della paternità, l’ordinamento non negava però che il nato potesse veder riconosciuto il diritto a essere alimentato da chi l’aveva messo al mondo, a condizione, ovviamente, che tale legame venisse dimostrato. Anche il codice Pisanelli decise di imputare al responsabile del concepimento il mantenimento del nato: si riconosceva, infatti, che potevano esistere circostanze da cui la filiazione emergeva in modo talmente certo da obbligare l’uomo a provvedervi. Così, quello scrit1 Già la decretale Cum haberet di Clemente III (1187-91) prevedeva quest’obbligo, che si estendeva anche al presbitero imponendogli di alimentare i figli con i frutti del beneficio ecclesiastico, laddove non disponesse di altri mezzi.

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to in cui egli stesso si dichiarava padre, se non era ritenuto sufficiente a fare di un bastardo un figlio legittimo, fu però considerato capace di imporre all’uomo almeno l’obbligo alimentare. Le altre ipotesi erano quelle in cui il rapporto di filiazione risultasse indirettamente da sentenza civile o penale, o da matrimonio dichiarato nullo2. Insomma, come si commentò all’epoca, nell’art. 193 «il diritto alimentario della prole nefasta trova finalmente una completa, logica ed ordinata sanzione»3. Questa norma, per solito trascurata nelle ricostruzioni storiche, è invece preziosa. Non solo per l’applicazione delle corti, che fungono da raccordo (non sempre facile) tra norma giuridica ed evoluzione sociale, ma anche perché mostra l’infondatezza del luogo comune secondo cui il diritto avrebbe favorito sempre e comunque gli uomini in fuga dalle loro responsabilità, rimanendo del tutto sordo alle richieste dei bastardi. Seppure in modo contorto, il legislatore ha dunque riconosciuto e disciplinato l’obbligazione naturale di colui che rimane un non-padre nei confronti di colui che rimane un nonfiglio. In realtà, sia il codice napoleonico sia il Pisanelli stabilirono esplicitamente quest’obbligo solo nel caso di figli adulterini o incestuosi4. Gli alimenti, in altri termini, non erano genericamente previsti per tutti gli illegittimi, ma solo per quelli che, a causa della gravità della loro origine, non potevano essere riconosciuti né volontariamente né giudizialmente. Erano i nati ex damnato coitu – adulterio e incesto –, per i quali era rigorosamente vietato il riconoscimento, «per non infliggere sulla loro fronte una macchia ignominiosa che sarebbe peggiore della oscurità dei loro natali»5. Invece, forzando il dato letterale, la giuriMentre il progetto ministeriale non lo prevedeva, fu solo grazie all’intervento della Commissione del Senato che si aggiunse anche il caso di una filiazione risultante da esplicita dichiarazione per iscritto dei genitori, come previsto dal codice albertino del 1837. 3 Severino Braccio, Nota a Corte d’Appello Casale 23.11.1891, in «Il Foro italiano», 1891, c. 100. Sebbene l’art. 193 contempli sia la paternità che la maternità, la stragrande maggioranza delle cause riguarda i padri illegittimi. 4 I codici preunitari, invece, avevano normative diverse. Se alcuni prevedevano gli alimenti per i figli illegittimi tout court (come il parmense o il codice albertino), altri (esempio il codice delle Due Sicilie) li contemplavano espressamente per la prole non riconoscibile. 5 Cesare Facelli, La successione legittima dei figli naturali, Tipografia Elzeviriana, Roma 1881, p. 22. 2

5. Il non-padre che alimenta il non-figlio

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sprudenza italiana (come già quella francese) lesse separatamente i due commi dell’art. 1936: se, infatti, una lettura congiunta avrebbe significato alimenti solo per adulterini e incestuosi7, quella separata comportò l’estensione della previsione a tutta la prole naturale. Questa lettura si spiega con diverse ragioni. Ai motivi umanitari, alle difficoltà economiche statali (per cui, laddove vi sia qualcuno che possa pagare, è meglio che lo faccia il singolo, piuttosto che l’ordinamento), si aggiungeva anche una motivazione razionale: qualora gli alimenti fossero spettati solo ad adulterini e incestuosi, si sarebbe determinata l’assurda situazione di accordare loro un trattamento preferenziale rispetto ai figli naturali non riconosciuti, ma riconoscibili8. Potremmo dunque dire che, mentre nel matrimonio conta la forma, al di fuori di esso riacquista significato il vincolo biologico («respingere assolutamente il figlio naturale a fronte dei legittimi sarebbe un oltraggio ai vincoli del sangue»9). Tutto questo, però, a patto 6 Stabilisce l’art. 193 che «nei casi in cui il riconoscimento è vietato, il figlio non è mai ammesso a fare indagini né sulla paternità né sulla maternità. / Tuttavia il figlio naturale avrà sempre azione per ottenere gli alimenti 1. se la paternità o maternità risulti indirettamente da sentenza civile o penale; 2. se la paternità o maternità dipenda da un matrimonio dichiarato nullo; 3. se la paternità o maternità risulti da esplicita dichiarazione per iscritto dei genitori». 7 Alcuni tentarono di approfittare del dato letterale del codice per sottrarsi alle proprie responsabilità. Il 10 luglio 1905 Maria Antonietta Bertrand partorisce Giulio Filippo, che riconosce come suo con atto del 30 agosto 1908. Subito dopo, però, cita in giudizio Piero Raffaele Gambero, chiedendone la condanna al pagamento degli alimenti nella somma di 500 lire mensili. A fondamento della sua domanda, esibisce una lettera dell’uomo (datata 10 agosto 1905) in cui egli le scrive di non avere più i mezzi per mantenerla, facendole quindi un autentico ricatto: «riguardo al piccino [...], stai pure tranquilla che non gli mancherà mai nulla. Certo che giunto ad una età da poter essere tolto da balia, tu dovrai rinunziare completamente alla sua educazione se vorrai che sia riconosciuto. Naturalmente potrai vederlo quando vorrai. Per il momento ho incaricato persona di mia fiducia di far pervenire il primo di ogni mese lire 30 alla balia». In aula, l’uomo (che non contesta l’autenticità della missiva) si oppone alla domanda della donna sulla base del fatto che l’art. 193 si riferisce solo alla prole adulterina e incestuosa, lettura restrittiva che però non viene accolta in nessuno dei tre gradi di giudizio (Cassazione Roma, 25 luglio 1910, in «Il Foro italiano», 1910, c. 1454). 8 Dando una lettura restrittiva alla norma, «chi non accuserebbe il legislatore di contraddizione stridente, flagrante, evidente e non gli darebbe la taccia d’inumano? [...] I figli riconoscibili che non sono stati riconosciuti in quei modi che la legge detta, dovrebbero [...] morir di fame. E poteva mai questo essere il pensiero del legislatore?» (Corte d’Appello Catania, 27 febbraio 1903, ivi, 1903, c. 940). 9 Facelli, La successione legittima, cit., pp. 1-3.

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che sia fatta salva la famiglia. Occupandosi di alimenti, infatti, giurisprudenza e riflessione giuridica compiono una scissione netta, ribadendo costantemente la diversità di piani, e quindi di conseguenze, tra azione di riconoscimento, volta ad attribuire un nuovo status al nato, e azione alimentare, che invece vale solo come «titolo creditorio»10. Il punto sta qui: dovendo evitare ogni indagine sull’identità paterna, in materia di alimenti non si ragiona più in termini di filiazione, ma in quelli di mero sostegno economico. Il dovere alimentare non implica alcun riconoscimento, come le sentenze ribadiscono sistematicamente. La qualifica di figlio-creditore non determina altri effetti se non quelli di natura strettamente pecuniaria. Contestualmente, infatti, la qualifica di padre-debitore è accompagnata dalla garanzia che, contro la sua volontà, non gli verrà attribuito nessun nato. I tribunali precisano che l’ammontare non deve essere né troppo basso («il sentimento di umanità spingerebbe ad essere larghi di conforto verso gli innocenti colpiti tanto duramente dalla sventura fin dalla nascita»), né troppo alto (giacché con il «favorire troppo la sorte degli esposti, si darebbe incremento al fenomeno doloroso ed immorale della procreazione illegittima»11). Se diritto agli alimenti non significa diritto all’eredità, ma semplicemente a una somma commisurata alle sostanze del genitore, ciò viene letto anche come compenso per la mancata possibilità di succedere. Se infatti il legislatore «volle che in ogni caso il figlio non riconosciuto conseguisse gli alimenti», questo avviene come «compenso del diniego che gli fece di prender parte alla famiglia ed alla successione»12. Quello che colpisce, è l’assoluta evidenza delle situazioni portate in aula. È il caso di Giacinto Bevilacqua, un uomo violento che non esita a scaricare la sua rabbia su Concetta Riccio, la convivente, e sui loro due figli. Le violenze si ripropongono di continuo, finché il figlio minore, Antonio, uccide il padre. Al termine del processo per omicidio, l’altro figlio, Bernardo, si rivolge ai giudici civili, chiedendo ed ottenendo che i legittimi eredi dell’uomo siano obbligati a pagargli gli alimenti13. Cassazione Firenze, 4 marzo 1897, in «Il Foro italiano», 1897, c. 603. Amilcare Cicotero, Gli illegittimi. Aspetti sociali, giuridici, assistenziali del problema dei figli illegittimi, UTET, Torino 1951, pp. 965-66. 12 Tribunale Oneglia, 24 novembre 1891, in «Monitore dei Tribunali», 1891, pp. 433-35. 13 Cassazione, 7 ottobre 1924. 10 11

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I casi più ricorrenti sono quelli in cui la paternità risulta da un’esplicita dichiarazione scritta dell’uomo, in particolare dalle lettere indirizzate alla madre naturale del bambino. L’apertura dei giudici nell’accordare gli alimenti si deduce dalla rilevanza probatoria che viene data anche a lettere non assolutamente esplicite. È il caso della corrispondenza che nel 1914 obbligherà il siciliano Vagliasindi a mantenere Luigi Bentivoglio. Nelle numerose lettere, infatti, il bambino è indicato con l’iniziale L seguita «da puntini di reticenza»; si parla di ripetuti invii di denaro da parte dell’uomo onde pagare la balia che se ne occupa, ed emerge il rimprovero del Vagliasindi alla madre di Luigino per le troppe inutili spese, invece di quelle effettivamente necessarie al bambino, come l’acquisto di un paio di scarpe nuove. Se anche in una lettera l’uomo scrive di non poter tenere il piccolo in casa propria (dando per scontata la causa di tale ospitalità), in un’altra manifesta la chiara intenzione di voler versare «una sommetta» affinché Luigi possa «farsi una posizioncella e guadagnarsi onestamente da vivere». Ebbene, sulla base di questi elementi i giudici ravvisano «la cura e l’interessamento che solo un padre può avere nei confronti del figlio»14. Non vi sono, però, solo lettere: la gamma di dichiarazioni scritte accettate in giudizio è davvero ampia. Alla base di tante condanne al mantenimento, troviamo così la richiesta scritta che l’uomo rivolge al parroco perché suo figlio venga battezzato15; la firma apposta sul14 Cassazione Palermo, 19 novembre 1914, in «Il Foro italiano», 1914, c. 122. La strategia difensiva del Vagliasindi, nell’ammettere la relazione con la Bentivoglio, si era basata sul fatto che vi sarebbe stato l’equivoco: le espressioni da lui usate non si sarebbero riferite a Luigi, ma a un bimbo poi morto. Tuttavia, affermano i giudici, così facendo l’uomo s’è contraddetto da solo: «quando ammise la relazione carnale con la Bentivoglio e la conseguente nascita di un figlio, sostenendo poi che le espressioni delle lettere si riferivano ad altro figlio poi morto, egli implicitamente ammise pure per lo meno che quelle espressioni, confessato effetto della sua paternità, ben potevano rivelarla». 15 Maddalena Travaglio vuole che il Borsetto sia condannato a pagare gli alimenti per il figlio Cesare sulla base della richiesta di battesimo alla parrocchia del Carmine di Torino, da lui scritta e firmata nell’ottobre 1883. I giudici accoglieranno la sua domanda. L’aspetto particolare di questa vicenda è che la lite si svolge tra due donne, entrambe illegittimamente legate al Borsetto. Costui, morto a Bogliano (Genova) nel 1889, nel suo testamento olografo (settembre 1887) aveva istituito erede universale la figlia naturale Augusta (nata a Catania nel 1876 da Paolina Gedda), da lui riconosciuta nel 1879 dinanzi al notaio Francesco Boscarini. Con citazione del 12 giugno 1879, quindi, Maddalena Travaglio sostiene di aver convissu-

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la pagella scolastica16; l’interrogatorio di un processo o, comunque, il verbale che l’imputato abbia sottoscritto17. Determinanti possono risultare anche le cambiali firmate dall’uomo18 o le dichiarazioni contenute nel testamento19. I giudici forniscono, dunque, un’autentica catalogazione di fatti eloquenti, essendo rari gli scritti come quello che poté addurre Giuseppina Berra dinanzi alla Corte d’Appello di Torino nel 1889 («io sottoscritto Bona Ernesto dichiaro di avere avuto relazione con Giuseppina Berra a partire dal gennaio 1888 in poi, e riconosco che la medesima si trova incinta per opera mia»20). I tribunali, infatti, non ebbero remore a cogliere l’effettivo significato di quanto amanti passionali (la scusante invocata) mettevano nero su bianco. Tutto ciò acto per quindici anni con il Borsetto, da cui ebbe il figlio, e per questo cita in giudizio Paolina Gedda, domandando che al figlio Cesare spettino a titolo di legittima i due dodicesimi dell’eredità. 16 Negli anni Trenta il Ricci, padre della piccola Ernestina Sossich, viene condannato a versarle gli alimenti in virtù della firma da lui apposta sulla pagella scolastica della bambina. Spiegano infatti i giudici che in questo caso l’uomo, firmando sotto la dizione «firma del padre o di chi ne fa le veci», ha tacitamente confermato ciò che nella pagella v’era scritto, e cioè che Ernesta fosse figlia sua e di Paolina Sossich (Cassazione, 21 dicembre 1932, in «Il Foro italiano», 1933, c. 579). 17 Vincenzo Nicolosi, imputato per l’omicidio di Agata Ciacamidaro, nel corso del processo penale dichiara di aver avuto con la vittima (moglie del Pelleriti) rapporti carnali dai quali era nata Vincenzina: verrà quindi condannato in sede civile a pagare gli alimenti alla bambina (Cassazione, 18 novembre 1931, ivi, 1932, I, c. 167). 18 Negli anni Trenta la Mundo domanda agli eredi di Giovanni Migliaccio il pagamento di una somma sulla base di cambiali rilasciatele dall’uomo per denaro «da lei mutuatogli»; la controparte obietta non solo l’inesistenza del credito, ma anche l’appropriazione abusiva delle cambiali da parte della donna. Sulla base degli scritti dell’uomo, i giudici ravvisano tra i due una lunga convivenza durante la quale era nato un figlio, che il Migliaccio aveva intenzione di legittimare sposando la Mundo (Cassazione, 26 febbraio 1934, ivi, 1934, c. 560). 19 Emilio Tragge è citato per ben due volte dal padre, Francesco Emilio Magrini, nel suo testamento. L’uomo si era sposato nel 1885 con Erinna Ruspini (ebbero un figlio legittimo di nome Enrico), finendo poi per separarsene consensualmente dieci anni dopo. Nel testamento, dispone di lasciare parte del suo patrimonio a Anna Tragge («mia buona amica, che ebbe per me le più amorose cure durante la mia malattia»), stabilendo altresì un legato «in favore del figlio che ebbimo insieme nato il 1 settembre 1895». Più avanti, nel dare indicazioni su come gestire in futuro l’azienda, il Magrini aggiunge «facendone un po’ di parte a mio figlio Enrico ed un po’ all’altro mio figlio Emilio» (Tribunale Milano, 1° maggio 1896, in «Monitore dei Tribunali», 1896, p. 418). 20 Corte d’Appello Torino, 28 dicembre 1889, in «Il Foro italiano», 1890, c. 683.

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comuna giudici molto diversi tra loro per provenienza geografica, momento storico, formazione culturale e tradizione giuridica21. E quando i documenti presentati in aula risultano carenti, i giudici tengono conto dei comportamenti capaci di integrarne significato e intenti. Nel 1914, la Cassazione di Palermo indica espressamente il metodo da seguire in questo tipo di valutazioni: non solo si può, ma si deve tenere conto – oltre che del significato letterale della dichiarazione scritta – di tutti gli altri fatti emersi in aula, utili per chiarire la portata effettiva della medesima22. Tra i comportamenti rilevanti troviamo, ad esempio, il fatto che l’uomo abbia deciso il nome di battesimo del bambino, scegliendolo per solito tra quelli già presenti nel suo ramo familiare (i rari casi di intervento materno sono sempre espressamente giustificati). Così, nel condannare il Palazzeschi a pagare gli alimenti a Ettore Giacomo Andreazza, il tribunale di Torino nel 1902 valuta decisivo il fatto che l’uomo volle dare al bambino il nome di Ettore «che era quello del defunto padre suo»23. 21 Il passaggio al fascismo, al di là di qualche accenno riportato, non è avvertibile, anche se non mancò il tentativo del regime di controllare e indirizzare le decisioni dei giudici (ricordiamo l’organizzazione gerarchica degli uffici, l’alta sorveglianza esercitata dal ministro di Grazia e Giustizia, il potere dei vertici degli uffici di assegnare i processi, con decisione insindacabile, ai giudici che dessero il maggior affidamento di fedeltà al regime o anche solo di conformismo). 22 Cassazione Palermo, 19 novembre 1914, ivi, 1914, c. 121. 23 Giovanna ha 23 anni quando si conoscono e, dopo una lunga relazione (è trentaseienne quando partorisce), dalla nascita del bimbo il comportamento dell’uomo inizia a cambiare. I rapporti fra gli amanti vanno sempre più deteriorandosi man mano che il bimbo cresce, e aumentano le esigenze economiche per il suo mantenimento. Quando le sovvenzioni cessano completamente, la donna si rivolge dapprima ai superiori del suo ex amante (perché gli ricordino i suoi doveri, e le sue promesse di matrimonio) e poi ai giudici: il bimbo ha ormai 8 anni quando i due si ritrovano in tribunale. In linea con la tipica prudenza maschile, nelle lettere che l’Andreazza presenta in aula il convenuto non definisce mai espressamente Ettore Giacomo come suo figlio («tu dici che io non ti parlo del bambino, e tu cosa mi hai detto in proposito? Nulla: solo questa volta mi dici che mi assomiglia, ma che cosa fa, dove lo tieni, che ne so io? Nulla. Lo allatti o lo fai allattare?»). Vengono portate in aula come prove anche le lettere che egli scrisse alla madre della ragazza («signora Teresa, non illudiamoci, la cosa è grave, si tratta di due esseri che ci sono, che ci devono essere estremamente cari e, nello stato in cui sono, stanno male»). Saranno dunque elementi indiretti a rivelarsi decisivi ai fini della sentenza, come il fatto che egli prema per mandare Ettore Giacomo in orfanotrofio («quanto al bambino, io, data la nostra situazione, sono sempre dell’avviso che per l’immediato è meglio mandarlo [all’ospizio per i trovatelli], riservandosi a suo tempo di ripren-

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Un altro comportamento ritenuto eloquente è che l’uomo abbia spontaneamente (prima d’essere chiamato in causa) versato denaro per il figlio, pur senza dichiarare apertamente che la somma era elargita in virtù del rapporto di filiazione. Credono poco nella filantropia i giudici italiani: pagare per qualcuno a cui non si è formalmente legati nasconde qualcosa. I soldi giocano un ruolo anche quando, seppur richiesti, non vengono elargiti. Così nella lite tra la Fernandez e il Marino: ai fini della condanna dell’uomo a provvedere agli alimenti del bambino, risulterà infatti decisiva una lettera in cui egli aveva scritto alla donna del suo grande dispiacere per non poterle inviare «pel momento delle sovvenzioni», trovandosi in difficoltà economiche a causa di sfortunate speculazioni in Albania (siamo nel febbraio del 1935), aggravate dal fatto che egli vi aveva contratto la malaria24. Tra le molteplici ipotesi di comportamenti eloquenti addotti dinanzi alle corti unitarie, ve n’è uno particolarmente interessante, e cioè il ruolo oltremodo indicativo che ha giocato l’eventualità, variamente chiamata in causa, dell’aborto. Il quadro è, insomma, ben definito: laddove vi sia un elemento di raccordo tra l’uomo ed il nato, il Regno d’Italia ha voluto inchiodare il genitore alle sue responsabilità economiche. Nel sanzionare i deprecabili comportamenti di quanti concepiscono fuori del matrimonio, le corti sottolineano, in termini meta-giuridici, di voler evitare che le colpe dei genitori ricadano sulla prole innocente. La sostanza giuridica in effetti sottolinea che l’azione alimentare accordata al figlio risponde a un intento di tipo risarcitorio, teso a indennizzare la vittima delle conseguenze negative di una colpa non sua: molte sentenze parlano «dell’obbligo del padre di provvedere ai bisogni dei disgraziati di cui ha cagionata la nascita»25. Potremmo dederlo, poiché tu non puoi credere quante difficoltà si presentino e quanti fastidi di meno si avrebbero»: Tribunale Torino, 6 dicembre 1902, in «Monitore dei Tribunali», 1902, p. 586). 24 Ciò, unito alla promessa che l’avrebbe aiutata non appena gli fosse stato possibile, alla mancanza di obiezioni dinanzi alle richieste pecuniarie di lei e al fatto che la lettera in esame risaliva al tempo in cui la relazione tra i due era già finita, porta alla conclusione che l’ex amante «si sentiva in obbligo di manifestare l’espressione della sua paterna benevolenza» (Tribunale Perugia, 30 ottobre 1936, in «Il Foro umbro», 1936, pp. 170-71). 25 Corte d’Appello Napoli, 15 marzo 1911, in «Monitore dei Tribunali», 1911, p. 373.

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finirlo un danno da nascita: gli alimenti spettano al figlio in virtù del suo essere vittima del comportamento altrui, «d’una colpa a cui egli già portava il triste tributo d’una esistenza grama ed irregolare»26. Che nel 1881 si parli del bastardo come titolare di un diritto27, che il legislatore lo ponga in condizione di pretendere («deve pure avere i mezzi per costringere il genitore riluttante a compiere il dovere suo»28) costringendo il genitore a pagare, è sicuramente degno di nota29. L’intento risarcitorio può dunque concorrere a spiegare l’ampia applicazione della previsione alimentare da parte della giurisprudenza maggioritaria. Non che si vogliano mandare in giro illegittimi ad attentare alle tasche degli onesti cittadini, ma nella misura in cui v’è un elemento documentale che colleghi con sufficiente certezza un figlio ad un genitore, si vuole che quest’ultimo paghi30. Alla messa a punto di tale assetto, concorre anche l’ammontare dei costi che inevitabilmente ricadono sull’assistenza pubblica: un risvolto economico, del resto, presente già prima della Rivoluzione francese. Ad esempio, molte bolle papali emanate fra Quattrocento e Cinquecento minacciavano di scomunica quelle madri e quei padri che, pur disponendo dei mezzi per allevare i propri figli, li abbandonassero affidandoli ad enti assistenziali. Tale aspetto diviene ben più rilevante nel XIX secolo, quando le esigenze dell’erario si fanno più pressanti. Se lo Stato, interessato alla forza numerica della popolazione, si preoccupa dell’illegittimo, ciò avviene solo laddove sia inevitabile, non essendovi un uomo che possa pagare. Così, quando a metà Ottocento si intensificarono anche in Italia gli sforzi per limitare il numero di illegittimi gravanti sulle amministrazioni pubbliche, furono molti i riformatori che proposero, sul modello teFacelli, La successione legittima, cit., p. 105. «Or bene, quello che è un dovere per il padre è un diritto per il figlio. E poi il sangue e la natura debbono avere anche il loro riflesso sul legislatore» (ivi, pp. 104-105). 28 Cassazione Torino, 20 luglio 1881, in «Il Foro italiano», 1881, I, c. 644. 29 La non colpevolezza del nato, sebbene non sia sufficiente a farlo riconoscere come figlio, viene tutelata in termini di sostentamento alimentare. È proprio l’atteggiamento di considerare gli illegittimi non colpevoli che finisce per giustificarli quando compiono fatti intrinsecamente gravi. Ad esempio, il parricidio compiuto da un figlio illegittimo a volte non viene considerato tale perché il rapporto tra vittima e carnefice si configura all’esterno del rapporto di filiazione. 30 Corte d’Appello Firenze, 11 gennaio 1913, in «Il Foro italiano», 1913, I, c. 179. 26 27

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desco, di rendere obbligatoria l’indagine della maternità, onde scaricare gli oneri sulla donna31. D’altra parte, si decise che qualora i genitori si presentassero agli istituti per ritirare i propri figli, ciò avvenisse previo rimborso delle spese sostenute per mantenerli. A conclusione di questa analisi, vale la pena sottolineare il valore riconosciuto all’insieme degli atteggiamenti «affettuosi» assunti dall’uomo verso il nato. L’enfasi sui profili proprietari è ormai lontana, e siamo in presenza di un’evoluzione sociale: l’idea è che l’uomo può manifestare un interesse per un bimbo solo se sa che è carne della sua carne. È infatti mai possibile, si chiederà la Cassazione nel 1941, che l’uomo possa «provare simili tenerezze per il figlio procreato dalla donna amata con altro uomo, proprio mentre era con lui fidanzata?»32. Tutte le condanne verso «il genitore disumano»33 mostrano che si sta aprendo la strada verso nuovi atteggiamenti che porteranno alla parificazione dei diritti tra figli legittimi e naturali.

2. L’uomo non è padre, ma debitore del nato La mamma mi ha lasciata uscire dal suo corpo, pensa Emily, ma il papà non mi ha ancora partorito dalla sua testa. E. HASLER,

La donna dalle ali di cera

Le preoccupazioni del legislatore unitario furono dunque due: da un lato si volle tutelare «ordine morale, tranquillità della famiglia [...] e sistema successorio»34, dall’altro, nella consapevolezza dei riLa pratica era già stata introdotta decenni prima in molti brefotrofi italiani, in anticipo rispetto all’emanazione della legge del 1923, che sancì l’obbligatorietà della dichiarazione di maternità negli atti di nascita. 32 Cassazione, 4 giugno 1941, n. 1651, ivi, 1941, c. 945. Similmente Cassazione, 3 maggio 1924, ivi, 1924, c. 393. 33 Corte d’Appello Napoli, 11 marzo 1887, ivi, 1887, I, cc. 700-705. Nel 1898 la Corte d’Appello di Perugia affermava: «se la voce della coscienza parlò al Cesare Aiò finché provvide al sostentamento di colei cui dette vita abusando dell’amore di una inesperta donzella, ora che sembra che a tale voce abbia chiuso l’orecchio, dovrà intervenire la legge perché gli rammenti i suoi elementari doveri, e gliene imponga l’adempimento» (Corte d’Appello Perugia, 31 dicembre 1898, in «Monitore dei Tribunali», 1898, pp. 694-95). 34 Cassazione Roma, 19 gennaio 1914, in «Il Foro italiano», 1914, c. 34. 31

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schi a cui tale rigore conduceva («fanciulli abbandonati alla miseria e al delitto, e sperduti nei tristi brefotrofi»35), si intese «assicurare i mezzi di sussistenza a quelli infelici»36. Stando al codice, Tizio è chiamato a versare gli alimenti per Caio in virtù del rapporto di paternità che li lega, senza però poter essere riconosciuto come padre. Viceversa, Caio è creditore di Tizio essendone il figlio ai fini alimentari, in base però ad un legame giuridicamente inesistente. Essendo cioè Tizio tenuto a provvedere ai bisogni di sussistenza di Caio in virtù di un rapporto di genitorialità che non esiste per l’ordinamento, siamo in presenza di un pagamento senza titolo: una situazione che sfiora la figura retorica della preterizione. Stando così le cose, l’accertamento della filiazione vale solo come «titolo creditorio»37. Ricorrendo all’azione ex art. 193 infatti, la prole non domanda al genitore di essere riconosciuta, ma semplicemente di «essere indennizzata dal danno prodotto»38. Nei 110 anni di applicazione, le corti non denunceranno mai espressamente questa antinomia fra proposizioni contraddittorie, separatamente giustificabili con argomenti di analoga forza. E se qualche obiezione viene avanzata, nell’applicare le norme i giudici ribadiranno costantemente la diversità di piani, e quindi di conseguenze, tra azione di riconoscimento e azione alimentare. Sono le varie conseguenze a cui le due azioni conducono a spiegare la differenza dei piani sui quali esse si muovono. La distanza fra i due ambiti è talmente definita che le sentenze invitano a non essere pavidi in proposito. Quando la filiazione è certa, «non è il caso di farsi scudo del divieto d’indagine sulla paternità, [...] perché sarebbe illogico ed inumano»: largo quindi al diritto agli alimenti «verso il quale [il legislatore] non poteva non mostrarsi indul35 Tribunale Napoli, 2 agosto 1915, in «Monitore dei Tribunali», 1915, p. 1017. «Dove sono nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire ‘ecco cos’ero prima di nascere’. Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Ponticello, da Neive o perché no da Cravanzana» (Cesare Pavese, La casa in collina, RCS, Milano 2003, p. 4). 36 Braccio, Nota a Corte d’Appello Casale 23.11.1891, cit., c. 101. 37 Cassazione Firenze, 4 marzo 1897, in «Il Foro italiano», 1897, c. 603. 38 Cassazione Napoli, 14 novembre 1916, in «Giurisprudenza italiana», 1917, I, c. 726.

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gente»39. L’importante è collocare la paternità su un piano meramente fattuale, smettendo di ragionare in termini di filiazione e ponendosi invece in un’ottica di semplice mantenimento economico. Così «non si aprono indagini sulla paternità se non per quel tanto solo cui si prestò in qualche modo la stessa coscienza paterna»40. «Quel tanto solo» è il sottilissimo filo che regge la precaria distinzione tra i due piani. Si tratta di un concetto pregno di valenza giuridica: «ciò che la legge vuole è il fatto materiale di una dichiarazione esplicita, ciò che non vuole e che vieta in modo assoluto sono le indagini, le ricerche, le discussioni sulle circostanze speciali e personali delle cose dichiarate»41. Una prova indiretta di come nell’ottica del tempo l’art. 189 (divieto di ricerca della paternità) abbia una finalità diversa rispetto all’art. 193 (azione alimentare) è data dalla possibilità di esercitare cumulativamente le due azioni. Qui davvero la contraddittorietà è evidente: scrive la Corte d’Appello di Catania nel 1896 che «quando si ha riguardo all’obbietto e alla finalità di coteste due azioni, la insussistenza della censura apparrà manifesta»42. Chiaramente, è in sede di valutazione delle prove che giustificano gli alimenti che si mette veramente a repentaglio la distinzione tra i due piani. Quando infatti si deve valutare se vi siano i presupposti dell’azione alimentare, che altro sta compiendo la corte, se non un’indagine per accertare che si tratti effettivamente del padre? Divaricando i piani dunque, i giudici pongono l’obbligazione alimentare in uno stretto piano di giustizia correttiva, piano che (come detto) prescinde in toto dal rapporto di filiazione. Ciò è reso possibile dal fatto che la filiazione, così come viene teorizzata nell’Ottocento (e quindi disciplinata nei codici), è per definizione solo quella che avviene all’interno del matrimonio. Il resto è devianza, è illegittimità, è «infelice prole che deriva da impura sorgente»43. Cassazione, 7 ottobre 1924, in «Monitore dei Tribunali», 1924, p. 48. Corte d’Appello Firenze, 3 marzo 1906, in «Il Foro italiano», 1906, cc. 628629, corsivo mio. 41 Tribunale Torino, 29 aprile 1891, in «Monitore dei Tribunali», 1891, pp. 912-13. 42 Mentre per l’art. 189 «l’obbietto dell’azione è quello della ricerca della paternità, [...] per l’art. 193 obbietto esclusivo è quello degli alimenti ex pietate, appunto perché non sono ammesse le indagini» (Corte d’Appello Catania, 26 febbraio 1896, in «Il Foro italiano», 1896, c. 807). 43 Cassazione Torino, 11 marzo 1907, ivi, 1907, cc. 769-770. 39 40

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Del resto, il fatto che gli alimenti condannino il padre per il concepimento illegittimo di cui fu autore, si spiega alla luce della mentalità diffusa, secondo cui ogni uomo sa perfettamente che un rapporto sessuale con una donna che non è la propria moglie può avere delle conseguenze. Prevedendo gli alimenti in capo al figlio, il codice sceglie indirettamente di scoraggiare il comportamento della parte più forte della relazione, condannando il soggetto che, a ben vedere, è il solo dei due ad essere in grado di poter evitare il danno perché è più forte44. Un altro aspetto emerso dall’analisi delle sentenze è il loro costante richiamo al piano della natura che i giudici invocano sia quando vietano la ricerca, sia quando accordano gli alimenti. Da un lato, infatti, è la natura «che ha involto nel segreto e nel mistero impenetrabile l’opera della paternità» (sancendo l’obbligo di non scoprire il padre)45; dall’altro, però, si ripete costantemente che il dovere di alimentare il proprio figlio è un onere imposto innanzitutto dalla legge naturale. Forzando un po’ le cose, potremmo arrivare a dire che è la natura il deus ex machina che permette di non avvertire alcuna antinomia nella disciplina codicistica. Ma in realtà, questo ricorrere al piano naturale aggrava, invece di spiegare, l’antinomia tra i due piani. Questo doppio piano previsto dal legislatore venne però contestato da una parte della dottrina. Appare strano – nota Plinio Citi – che quando un individuo è riconosciuto, per sentenza di magistrato, figlio naturale di una determinata persona, non possa da lei pretendere se non gli alimenti, mentre sarebbe logico ed umano che dovesse godere dei benefici tutti derivanti dal riconoscimento legale46.

E se formalmente le sentenze non parrebbero contenere critiche espresse al doppio piano sancito dal codice, talora una certa critica è 44 Estremamente lineare nel fissare questo rapporto causa-effetto tra concepimento illegittimo e alimenti era stato il codice civile austriaco: secondo il par. 166, «chi illegittimamente procrea un figlio, contrae pel solo fatto della procreazione verso il procreato il dovere naturale di provvedere coi necessari mezzi alla continuazione della di lui esistenza». 45 Corte d’Appello Napoli, 11 marzo 1887, ivi, 1887, I, c. 701. 46 Plinio Citi, Intorno alla ricerca della paternità, in «Lo Stato civile italiano», 24, 1915, p. 371.

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invece ravvisabile. Una prima traccia la riscontriamo nei costanti confronti tra la soluzione italiana e quella di altri ordinamenti, confronti che parrebbero richiamare e sottintendere qualcosa di più della semplice varietà normativa pre-unitaria. Se non tutte le espressioni sono esplicite come quella dei giudici napoletani nel 1906 («le legislazioni più illuminate vanno ormai smettendo l’irrazionale rigore verso la prole naturale, che una secolare superstizione e un falso concetto di malintesa moralità [...] hanno resa infelicissima»47), implicitamente delle riserve sono comunque ravvisabili48. Le corti del resto vanno sempre più sottolineando come il divieto finisca per avallare comportamenti irresponsabili49. Lungo questa direzione, i giudici iniziano quindi a prefigurare la possibilità di tracciare importanti distinguo all’interno della categoria. Bisogna evitare di parificare tra loro tutte le possibili forme di illegittimità giacché «non sempre la donna è una sedotta, né tutte le filiazioni naturali presentano alcunché di disonorevole per i genitori e per la prole»50. Che vi sia una netta cesura tra divieto di ricerca e fondamento della previsione alimentare, lo rivelano anche i frequenti inviti ad una flessibilità interpretativa nella concessione degli alimenti51. Le corti sono state decisamente benevole nella individuazione di molti elementi concreti; nel definire a quali figli illegittimi si applicasse la previsione alimentare; cosa dovesse intendersi per alimenti52; se fosTribunale Napoli, 31 agosto 1906, in «Monitore dei Tribunali», 1906, p. 95. Corte d’Appello Catania, 26 marzo 1881, in «Il Foro italiano», 1881, c. 32. 49 «Le legislazioni inglese, austriaca, tedesca, le leggi svizzere [...], la grande maggioranza delle leggi nord-americane non offrono ai fuggenti quell’ausilio che i legislatori francesi, e quelli che li seguirono, hanno loro prestato» (Tribunale Napoli, 31 agosto 1906, cit., c. 95). 50 Corte d’Appello Brescia, 14 dicembre 1908, in «Giurisprudenza italiana», 1909, c. 243. 51 «Lo spirito di equità si è andato sempre più sostituendo allo stretto diritto, e rifugge dal chiudere gli occhi sulla eloquente realtà per esagerato ossequio alla forma, e l’ideale giuridico dei nuovi tempi è sempre più propenso alla ricerca della paternità» (Cassazione Palermo, 10 febbraio 1910, in «Il Foro italiano», 1910, c. 561). Del resto, e sono anche i giudici a sostenerlo, se non si abbandona una lettura ristretta sarà necessaria un’autentica riforma della materia, «una nuova legge che dia ogni maggiore considerazione a quei poveri figli la cui sola colpa è di essere nati». 52 Il principio di fondo è che «in un fanciullo, in un giovanetto l’educazione e l’istruzione sono tra i principali bisogni della vita: senza di esse si alimenta in lui soltanto l’animale facendolo crescere per la soggezione e la miseria» (Corte d’Appello Napoli, 15 marzo 1911, in «Monitore dei Tribunali», 1911, p. 373). Del resto, 47 48

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se o meno necessario lo stato di bisogno del figlio53; come ne andasse determinato il quantum. Si tratta di valutazioni complesse e molto accurate. I giudici, insomma, hanno espresso come potevano le loro opposizioni. Del resto, quando e dove potevano manifestarsi contestazioni strettamente di merito? Non certo in sede di domanda o di richiesta di riconoscimento di paternità (richiesta comunque irricevibile, stante il divieto esplicito in proposito, tranne che nelle poche fattispecie previste). Tanto meno potevano manifestarsi in sede di azione alimentare, perché l’esito sarebbe stato controproducente (tanto è vero che il divieto di ricerca viene chiamato in causa solo dai tribunali più conservatori, per rafforzare il diniego degli alimenti stessi, il solo caso in cui i due piani si incontrano). L’unica forma di contestazione possibile non poteva che manifestarsi con una più benevola ed aperta applicazione interpretativa, accettando le due azioni parallele, nel senso letterale di due istituti giuridici destinati a non incontrarsi mai.

3. La «common law» e il codice austriaco: paternità di mero sostentamento ‘Mio buon padrone! Che cosa dobbiamo fare?’. Il signor Allworthy le ordinò allora di prendersi cura del piccino per quella notte; il giorno senel caso in cui l’alimentando fosse una ragazza, v’era chi sosteneva che il genitore dovesse occuparsi anche della sua futura dote: «Mi parrebbe giusto che la legge sancisse a carico de’ genitori l’obbligo di dotare le figlie quando a norma dell’art. 193 ad esse siano dovuti gli alimenti» e questo perché il codice dice che il genitore deve provvedere anche al collocamento del figlio e a quanto sia a lui necessario per il proprio sostentamento (Carlo Rebuttati, Cenno di alcune questioni in materia di filiazione e di adozione, in «Lo Stato civile italiano», 1924, 5-6, p. 33). 53 Si tratta di un aspetto molto interessante (anche perché si lega al modo in cui il diritto alimentare va teoricamente configurato). Posto che la disposizione generale in tema è l’art. 143 c.c. («gli alimenti debbono essere assegnati in proporzione del bisogno di chi li domanda e delle sostanze di chi deve somministrarli»), tutto sta nel capire se questa norma si applichi anche ai figli naturali o, invece, riguardi solo i rapporti all’interno del matrimonio. Poiché è implicito nell’idea di fondo che nel concetto stesso di alimenti v’è insito quello di bisogno, il filone interpretativo maggioritario sostenne che «anche per gli alimenti dovuti in base agli articoli 193 e 752 c.c. sono da applicarsi i criteri del bisogno di chi li domanda, e delle sostanze di chi deve somministrarli» (Corte d’Appello Milano, 20 febbraio 1884, in «Il Foro italiano», 1884, c. 408).

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guente avrebbe cercato una balia. ‘Sì signore’, diss’ella; ‘ma spero che Sua Signoria ordinerà anche che s’arresti quella sgualdrina della madre [...]; e sarei proprio contenta che la mandassero a Bridewell e la frustassero bene. [...] Più d’un uomo onesto ha avuto la sfortuna di passare come padre di figli da lui non generati; e se Sua Signoria s’occupasse del bambino, la gente lo crederebbe tanto più facilmente; e poi, perché dovrebbe sobbarcarsi il peso d’un neonato a cui deve provvedere la parrocchia? [...] Per creature simili, è forse meglio morire in stato d’innocenza che crescere per seguire le orme della madre’. H. FIELDING,

Tom Jones

Al perenne nomadismo della servitù si aggiungeva poi il continuo andirivieni di lavandaie, stiratrici e sartine, ragazzine dei sobborghi [...] che esercitavano una pericolosa influenza sugli irrequieti figli maschi adolescenti. Del resto, in molte famiglie borghesi si contava sul fatto che le contadinelle al servizio della casa aiutassero i rampolli a superare i difficili anni della pubertà. [...] Se poi la domestica rimaneva incinta del signorino, si provvedeva al suo licenziamento, dopodiché toccava al nonno sostituirsi cavallerescamente al suo cucciolo gagliardo per versare alla ragazza [...] 2 o 3 fiorini di alimenti al mese. S. MÁRAI,

Confessioni di un borghese

Pur lontani per tanti aspetti, il sistema di common law e quello austriaco presentavano un denominatore comune: in entrambi gli ordinamenti era possibile ricercare il padre. Se il distacco parrebbe netto rispetto al modello francese e italiano, le conseguenze lo erano molto meno. In common law e in base alla legislazione austriaca si determinava, infatti, ex lege una paternità meramente alimentare: il figlio veniva riconosciuto titolare degli alimenti, non però del cognome paterno. In base all’art. 192 del codice Pisanelli, invece, quando, in presenza di ratto o di stupro violento, la sentenza veniva pronunciata, gli effetti che ne derivavano erano quelli del riconoscimento volontario. Questo significava che il figlio, oltre ad aver diritto al mantenimento e all’eredità, assumeva il cognome del padre, ciò che non avveniva in common law né nel diritto austriaco. Partendo da Oltre Manica, anche nel Regno Unito sussisteva la presunzione per cui, in caso di nascita all’interno del matrimonio, il nato è figlio del marito della madre (è la cosiddetta marital paternity presumption; come di consueto, l’uomo poteva sconfessare questa

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conclusione solo dimostrando la sua impotenza o la sua assenza al tempo del concepimento). Quanto al figlio illegittimo (filius nullius o filius populi), è possibile individuare quattro fasi, tutte accomunate dalla possibilità di indagare giudizialmente la paternità. Prima delle leggi elisabettiane contro la povertà, in teoria non era prevista la responsabilità di alcun soggetto per il sostentamento del nato fuori del matrimonio. La prassi, però, riteneva scontato che fosse allevato da colei che lo aveva generato, anche per il fatto pratico della sua facile individuazione. Inoltre, se la discendenza familiare si trasmetteva solo per via maschile, attribuire gli illegittimi alle donne non avrebbe in alcun modo minacciato l’ordine familiare54. Con l’Act del 1576 «for Setting the Poor on Work» il dovere di occuparsi dell’illegittimo viene, invece, espressamente previsto tanto per il padre che per la madre. Si trattava della cosiddetta bastardy action, volta ad esonerare l’assistenza pubblica dall’onere di mantenere «i bastardi che sono ora lasciati alle cure della parrocchia in cui sono nati, con grande onere per la medesima [...] e con esempio nefasto e incitamento per la vita dissoluta». In base ad essa, i genitori naturali potevano essere obbligati a pagare settimanalmente una somma di denaro (o altre forme di sostentamento), individuata di volta in volta come «adatta e conveniente». Laddove non avessero pagato, costoro potevano essere condannati alla prigione, senza possibilità di ottenere la libertà su cauzione. Questa azione per il riconoscimento non era di natura civile, ma penale. Solo in un secondo momento diverrà un’azione civile55. La parificazione tra madre e padre dell’illegittimo nasceva dall’esigenza di punire entrambi per la loro deplorevole condotta, sollevando le parrocchie da quest’onere, a vantaggio degli altri poveri e, soprattutto, degli anziani56. 54 Cfr. in questo senso David Kingsley, Illegitimacy and the Social Structure, in «The American Journal of Sociology», 1939-40, p. 224; Martha T. Zingo, Kevin E. Early, Nameless Persons: Legal Discrimination against Non-Marital Children in the United States, Praeger, Westport (Conn.) 1994, p. 17. 55 Ancora negli anni Settanta, si nutriranno seri dubbi sulla sua qualifica civilistica o penalistica (Paternity Suit, in West’s Encyclopedia of American Law, vol. VIII, West, St. Paul, Minn., 1998, p. 44). Vi furono comunque strascichi importanti: in molti Stati americani l’azione può ancora venire esercitata dalle autorità di assistenza pubblica (Carmel Shalev, Nascere per contratto, Giuffrè, Milano 1992, pp. 36 sgg.). 56 Il presunto padre era obbligato a scegliere tra risarcire la parrocchia, andare in prigione o sposare la donna.

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L’aspetto economico del fenomeno era talmente dominante che sotto il regno di Giorgio II (1727-1760) fu stabilito che le corti potessero, su semplice giuramento della donna incinta, fare arrestare il supposto padre, e tenerlo imprigionato fin tanto che egli non avesse offerto serie garanzie d’indennizzare la parrocchia, fatta salva la prova della sua innocenza. Ciò fu però oggetto di critiche serrate. Si contestava, infatti, la facilità con cui si punivano degli innocenti per il solo fatto di essere stati «additati» come padri dalle donne: il buon nome di un onesto cittadino e le sue sostanze venivano così sacrificati alla preoccupazione economica dei contribuenti locali57. Tali critiche non rimarranno prive di effetto, preparando il terreno ad un peggioramento, e sancendo lo stereotipo per cui la colpevole della nascita illegittima era solo la donna. Questo doppio standard di moralità58 porterà, nella terza fase, al Poor Law Amendment Act (1834), che rese solo le madri economicamente responsabili della prole illegittima. L’innovazione, che interrompeva una tradizione paritaria di quasi tre secoli, intendeva arginare due ordini di problemi: porre un freno agli scandali e agli abusi provocati dalla troppo facile individuazione del padre, e costituire un deterrente contro il crescente numero degli illegittimi, avvertito come una seria minaccia. Sotto l’influenza dell’economista Thomas Malthus59, infatti, le teorie economiche dell’epoca individuavano nell’aumento demografico dei po57 È interessante la stampa Il giuramento di William Hogarth (1697-1764), che raffigura un uomo dinanzi al giudice circondato da due donne. Egli, vestito di nero, ha le mani alzate in segno di resa: l’espressione sconsolata ed affranta del volto completa il quadro. Alla sua sinistra, una donna di una certa età, la moglie, sta chiaramente inveendo contro la giovane visibilmente incinta, che invece si trova alla destra dell’uomo: con la mano sulla Bibbia, costei sta giurando che il figlio che porta in grembo è dell’uomo lì presente. La didascalia sottolinea ironicamente il falso giuramento che movimenta tutta la scena. 58 John Walters, editore di «The Times», lanciò una serrata campagna di critica verso la legge, incentrata proprio sul fatto che essa instaurava un doppio standard di valutazione a seconda dei sessi (Lisa Forman Cody, The Politics of Illegitimacy in an Age of Reform, in «Journal of Women’s History», 2000, 11, 4, p. 131). 59 Nel 1798 Thomas R. Malthus (1766-1834) diede alle stampe il Saggio sul principio di popolazione nei suoi effetti sul miglioramento futuro della società (inizialmente uscito anonimo a Londra e poi ripubblicato con il nome dell’autore in cinque edizioni successive – 1803-26), in cui pronosticava il collasso del sistema socioeconomico a causa della smisurata crescita della popolazione alla quale non avrebbe corrisposto un proporzionale aumento dei mezzi di sussistenza.

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veri e nei provvedimenti di welfare (in particolare in favore degli illegittimi), un insostenibile aggravio per le finanze dello Stato. La legge stabilì dunque che ogni figlio illegittimo rimanesse a carico della madre fino all’età di 16 anni o, nel caso di impossibilità, che ella entrasse in una casa di lavoro (le famose work houses). Si decise inoltre che la sola testimonianza della madre non fosse più sufficiente, occorrendo altre prove per attribuire la paternità. Visto però il fallimento di questa legge, che aggravava il peso sociale del mantenimento degli illegittimi non essendo le donne in grado di farvi fronte, il nuovo Bastardy Act (1845) stabilì che, laddove le madri non avessero mezzi propri e fossero in grado di dimostrare la paternità60, i giudici potessero condannare l’uomo a provvedervi (nel 1914 verrà istituito un apposito ufficiale-esattore per costringere il padre a pagare)61. Fino al 1883, le madri nubili, pur tenute al sostentamento della prole, non avevano però alcun diritto di madre. Nel 1841 i giudici americani stabiliscono che la madre di Ann Lloyd, nata fuori del matrimonio, non può domandarne la custodia, giacché in nulla «differisce la madre illegittima da un estraneo»62. Fu nel 1883 che, per la prima volta, si riconobbe alla madre naturale, priva di referente maschile, il diritto di agire in giudizio a nome della sua prole. Dietro questa rivoluzionaria pronuncia vi fu la vicenda di Rose Carey. Nel 1875, all’età di 14 anni, Rose viene cacciata di casa dal padre perché incinta (del tutto irrilevante il fatto che fosse stata sedotta da un maggiorenne). Nata la figlia nel maggio dell’anno seguente, Rose l’affida ai coniugi Nash e, avendo nel frattempo trovato un lavoro, riesce a versare con regolarità quanto pattuito. Quando però Rose (divenuta l’amante di un uomo facoltoso) chiede ai Nash la restituzione della bambina, la coppia rifiuta. Rivelatisi inutili i tentativi di accordo, Rose si 60 La sez. 14 dell’Illegitimacy Act del 7 maggio 1937 esigeva che al tempo del concepimento venisse acclarata l’assenza di relazioni della donna con altri uomini. 61 Tale somma era quantificabile fino a mezza corona a settimana (essa aumenterà a 5 scellini nel 1872, a 1 sterlina nel 1925, a 30 scellini nel 1952 e poi, nel 1960, a 50); «it should be emphasized that today fifty shillings a week is the most that can be legally demanded from the father; but in fact the average amount fixed by the magistrates is much smaller» (Diana Dewar, Orphans of the Living: A Study of Bastardy, Hutchinson, London 1968, p. 22). L’azione doveva essere avviata prima che il bambino compisse un anno, tranne nel caso in cui l’uomo fosse andato all’estero o l’azione venisse avviata dal ministro della Sicurezza sociale o dalle autorità locali. 62 Ivi, p. 31.

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rivolge ai giudici, che però respingono la sua richiesta, sulla base del fatto che, trattandosi di un filius nullius in quanto figlia illegittima, la madre naturale non può accampare su di lei alcun diritto. Ovviamente depose a sfavore di Rose il fatto di essere una mantenuta e di vivere nel peccato, in evidente contrasto con la nozione di madre (Rose aveva comunque dichiarato che intendeva far vivere la figlia in casa della sorella, sposata ad un uomo di chiesa). In corte d’appello il verdetto fu ribaltato: che non vi sia alcuna relazione giuridicamente rilevante tra madre illegittima e figlio non toglie che tra i due esista una relazione naturale. Il diritto non può far prevalere estranei su chi è legato da un vincolo che, anche se non legittimo, è comunque di sangue. La posizione della madre naturale nei confronti dei suoi figli si definisce più esplicitamente nel successivo caso Barnardo vs. McHugh del 1891. La cattolica Margaret Roddy visse per vent’anni con un certo Mr. Jones, dal quale ebbe un figlio, John James Roddy, battezzato con rito cattolico nel 1882 e poi, due anni dopo, ribattezzato con quello protestante. I tre vissero insieme fino al 1886, quando la madre sposò un certo Mr. McHugh. Non è chiaro che cosa fu del figlio sinché, due anni dopo, fu trovato in strada e raccolto da una donna che lo condusse in uno dei ricoveri per l’infanzia abbandonata del dottor Barnardo. Il bambino venne però accettato stabilmente nell’istituto solo dopo aver ottenuto l’assenso della madre naturale a tenerlo lì fino al compimento dei 21 anni. L’accordo prevedeva anche il diritto della donna di vedere suo figlio, ma ogni volta che ella si presentava all’istituto, riceveva secchi rifiuti. Esasperata, la Roddy decise di avviare le pratiche necessarie per riottenere la custodia del bambino. Alla tesi dei legali di Barnardo secondo cui, essendo l’illegittimo un filius nullius, non sarebbe esistito un diritto di custodia in chi lo mise al mondo, fu opposto l’argomento che, se dominus della famiglia era l’uomo, al di fuori di essa il legame, e quindi l’autorità, era della donna. Nell’affermare il principio secondo cui la madre naturale ha sulla prole gli stessi diritti e gli stessi poteri che il padre detiene su quella legittima, la corte si basò proprio su quella Poor Law (1834) che tanto aveva penalizzato le donne: in quel dovere legale di provvedere al mantenimento dell’illegittimo rientrava anche il dovere di custodia. In base a questa sentenza, le madri illegittime erano responsabili della loro prole, oltre che sul piano economico, anche su quello legale. La common law ha quindi conosciuto una nuova fase nel

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trattamento dell’illegittimità quando ha parificato i rapporti genitoriali e di filiazione a prescindere dalla loro origine63. La soluzione adottata nell’Impero asburgico è per molti versi simile a quella della common law. Al di là dell’interesse teorico, vale la pena di soffermarsi su questi assetti in virtù dell’influenza che essi ebbero nel Lombardo-Veneto, in cui vigeva il codice civile universale austriaco del 181164. Un caso concreto darà (ancora una volta) la misura della distanza con quanto avverrà vigente poi il codice Pisanelli. Il 20 dicembre 1817 nasce Carlotta Brambilla. Pur senza averla riconosciuta, il conte Attendolo Bolognini, oltre a sostenerne le spese di baliatico, si reca a visitarla presso la nutrice a cui fornisce ripetutamente del denaro. Svezzata la piccola, il Bolognini l’affida ai coniugi Ubicini, sborsando «pei primi di lei bisogni milanesi» 10.000 lire. Crescendo, Carlotta rivela una grande passione per il canto, e il padre l’asseconda, regalandole (tra l’altro) un viaggio-studio a Parigi. A più persone intanto il conte confessa di essere padre della Brambilla, rimarcando (oltre alla grande somiglianza) che se ella fosse stata un maschio, sarebbe divenuto il principale erede dei suoi beni e dei suoi titoli. Ad unificazione ormai completata, Carlotta si rivolge ai giudici unitari e la corte la riconoscerà figlia dell’uomo, poiché i fatti si erano verificati sotto la vigenza della legge austriaca. Diverso sarebbe stato l’esito se la giovane fosse nata vigente il codice Pisanelli. Nel codice austriaco, complessivamente più favorevole alla donna, il legislatore non fa alcuna distinzione tra gli illegittimi (naturali propriamente detti, incestuosi e adulterini), dichiarando espressa63 Nel Regno Unito la legittimazione della prole (che da noi avveniva a seguito del matrimonio tra i genitori o per decreto reale) poteva prodursi solo per atto del Parlamento: la legittimazione per subsequens matrimonium era dunque proibita, essendo considerata una forma di incentivo al vizio. Bisognerà attendere i Legitimacy Acts del 1926 e del 1959 perché l’illegittimo possa essere legittimato dal successivo matrimonio fra i genitori. 64 L’Allgemeines Bürgerliches Gesetzbuch (ABGB) viene attivato nel Regno lombardo-veneto nel 1816. Nel preambolo, l’imperatore austriaco Francesco I scrive: «affinché i cittadini siano pienamente tranquilli e sicuri nell’esercizio dei loro diritti privati, le leggi civili non solo devono basarsi sui principi della giustizia, ma devono essere anche determinate in conformità alle particolari relazioni degli abitanti dello stato, pubblicate in lingua ad essi intelligibile e riunite ordinatamente insieme» (Domenico Corradini Broussard, Garantismo e statualismo, Giuffrè, Milano 1971, p. 77).

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mente che l’illegittimità non può essere fonte di discriminazione («l’illegittimità dei natali non pregiudica all’estimazione civile della prole, né alla sua sussistenza o al miglioramento della sua sorte»: par. 162). Sono quindi lecite le indagini sulla paternità, basate semplicemente sulla confessione stragiudiziale (come nel caso di Carlotta Brambilla) o sulla prova della relazione con la madre al tempo del concepimento. L’iscrizione del nome del padre fatta sui registri delle nascite sulla sola dichiarazione della madre, tuttavia, non costituiva un valido riconoscimento, essendo comunque necessario l’assenso formale del padre, confermato da testimonianze65. Più esplicitamente, il codice civile tedesco (Bürgerliches Gesetzbuch – BGB), entrato in vigore in Germania il 1° gennaio 1900, prevedrà che è padre naturale colui che «ha coabitato colla madre durante il periodo del concepimento, anche se durante questo tempo ha coabitato con un altro. Una coabitazione rimane però fuori di considerazione, se per le circostanze è apertamente impossibile che la madre abbia concepito da questa coabitazione». La madre, dunque, deve solo provare la coabitazione, e il convenuto non può difendersi con l’exceptio plurium, se non prova l’assoluta impossibilità che dalla coabitazione sia derivato il concepimento. Anche alla base di questa libera ricerca della paternità v’è l’idea che ciò risponda all’interesse pubblico per ragioni economiche, facendo diminuire il numero degli esposti e degli illegittimi gravanti sulle finanze dello Stato. Ancora oggi in Austria il diritto di promuovere l’azione legale spetta al figlio, al padre (laddove il suo riconoscimento non sia stato dichiarato valido) e al procuratore della Repubblica nell’interesse pubblico, nonché in quello del figlio e dei suoi discendenti. Il fatto di aver accordato al giudice un’autonoma iniziativa in questo ambito evidenzia la particolare finalità che l’azione soddisfa (par. 730)66. Come per la common law, anche in questa normativa il figlio riconosciuto ex lege non ha diritto al cognome del padre. L’azione per l’accertamento della paternità è rilevante solo per il profilo patrimo65 «L’iscrizione del nome del padre nei libri dei battesimi e delle nascite, fatta eseguire dalla madre, fa piena prova nel solo caso che essa sia seguita, giusto il prescritto dalla legge, coll’assenso del padre, e questo assenso sia confermato dalla testimonianza del curato e del padrino, che debbono anche dichiarare di ben conoscere personalmente il padre» (ABGB, par. 164). 66 In Germania, la legge di riforma del diritto di famiglia del 16 dicembre 1997 ha abolito la discriminazione giuridica tra figli naturali e figli legittimi.

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niale: più un’azione di alimenti, che una vera indagine di paternità. A conferma di questo impianto alimentare, v’è il fatto che gran parte delle liti venissero risolte mediante transazioni approvate dalle Autorità pupillari. Questa soluzione è invece inammissibile nell’ordinamento italiano dove la ricerca, nei pochi casi in cui è ammessa, riguarda lo stato giuridico delle persone, che non è mai negoziabile. Così il Tribunale di Mantova e la Corte d’Appello di Brescia nella seconda metà dell’Ottocento sono unanimi nel ritenere invalido l’accordo intercorso tra Salomone Pollemi e Elena Biacchi riguardo al figlio naturale di questa. Nel 1860 la donna era entrata in casa del Pollemi come nutrice della figlia, restandovi poi come domestica. Rimasta incinta, il 13 febbraio 1862 la donna partorisce un bimbo nell’ospedale civico di Mantova, che, con il nome di Carlo Fortunato Gallini, viene registrato fra gli esposti sotto il n. 443. L’11 giugno 1867 però la donna, ora moglie di Giuseppe Neri (sposato nel 1864), riprende il figlio dal brefotrofio. Riconosciutolo quindi con l’assenso del marito (giugno 1867), il 26 successivo Elena cita il Pollemi affinché venga dichiarato padre naturale di Carlo, e ne provveda al mantenimento e all’educazione in proporzione delle sue sostanze. Anche se il Pollemi nega tutto, con il consenso della donna, le versa (tramite il suo procuratore) la somma di 500 lire «allo scopo dichiarato nelle premesse dell’atto di evitare ulteriori molestie per l’attribuitagli paternità, ch’egli del resto asseverantemente nega». Ma si tratta di un diritto inalienabile, di cui la Biacchi non poteva disporre67. Un altro caso interessante si verifica qualche anno dopo. L’8 ottobre 1839 a Milano, Pietro Spelta, tutore dell’infante Paola, figlia naturale, promuove l’azione contro Paolo Arioli, affinché se ne riconosca la paternità. Il tribunale fa dipendere l’esito della lite dal giuramento che l’Arioli dovrà rendere. Sennonché il 4 aprile 1846, giorno in cui l’uomo doveva prestare il giuramento, si addiviene fra le parti a «un progetto di convenzione»: 3.200 lire austriache in cambio della rinuncia al giuramento. Morto l’Arioli il 16 gennaio 1870, è la stessa Paola che cita in giudizio l’erede Pietro Casnati, che però «Non potrà mai ammettersi sia lecito a taluno di precludersi per sempre l’adito di ricercare il proprio genitore, e meno poi che mai che tale esorbitante facoltà competesse ad un tutore il cui obbligo era di avere cura della persona del minore» (Corte d’Appello Brescia, 22 dicembre 1876, in «Monitore dei Tribunali», 1877, p. 325). 67

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verrà assolto tanto in primo grado (21 dicembre 1872) quanto in secondo (27 marzo 1876): anche se il precedente accordo pecuniario è inammissibile alla luce del codice Pisanelli, il fatto che sia stipulato in vigenza del codice austriaco (che lo considerava lecito) preclude a Paola ogni pretesa in merito. Si può dunque concludere che questi ordinamenti furono meno aperti verso l’illegittimità di quanto spesso sostenuto. Si trattò, infatti, di un’apertura limitata, se per il codice austriaco finanche il riconoscimento volontario produceva effetti meramente alimentari, senza attribuire al figlio il nome del genitore. Inoltre, v’era una differenza importante a seconda che il figlio naturale venisse legittimato per subsequens matrimonium o mediante un rescritto imperiale: quest’ultima legittimazione, a differenza dell’altra, non dava al figlio naturale la pienezza dei diritti legittimi, se non quando avesse avuto luogo su istanza del padre e con il consenso della sua famiglia.

4. I non-padri condannati a pagare: le lettere criptate del Rossi-Cagnaroni – Sei incinta davvero? Che seccatura... [...] Non può nascere e basta. [...] Ci sono medici che vivono di questo... [...] Se si lasciassero nascere tutti i bambini, non ci sarebbe più posto al mondo. Conosco un medico specializzato. Due o tre giorni in ospedale e sei libera. Naturalmente pago io... [...] – Taci! Se pensi che possa farlo, che ammazzerei mio figlio, non mi conosci affatto. J. AMADO,

Agonia della notte

Come accennato, tra le ipotesi di comportamenti eloquenti addotti innanzi alle corti italiane vi fu anche il ruolo giocato dall’eventualità dell’aborto, variamente chiamato in causa. Che fosse stato l’uomo a spingere inutilmente la donna a praticarlo, o avesse tentato con impegno di convincerla a non sottoporvisi (salvo poi abbandonare madre e figlio al loro destino), l’importante era che l’uomo vi avesse fatto riferimento: i giudici valutano come decisivo già il solo fatto che l’ex amante abbia condotto la donna presso una levatrice per abortire68. 68

Tribunale Roma, 18 febbraio 1926.

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Secondo i giudici unitari si tratta di una prova schiacciante, per quanto indiretta, del coinvolgimento nel concepimento: solo chi è il responsabile di una gravidanza può infatti avere interesse a che questa sia interrotta o, viceversa, sia portata avanti sino al suo esito naturale. Inoltre, in contesti in cui i rapporti tra i sessi erano contrassegnati da pudore e riservatezza, parlare di questioni così delicate con qualcuno che non fosse né il coniuge né un parente, veniva interpretato come espressione di un rapporto intimo e confidenziale. Ovviamente, in società in cui l’aborto è una pratica diffusa, ma giuridicamente illecita e moralmente condannata69, tra l’ipotesi di un aborto voluto oppure avversato dall’uomo corre una sostanziale differenza: nel primo caso, si induce la donna a compiere un atto illecito, nel secondo, invece, si riesce a dissuaderla dal commettere un reato. In sede di alimenti, però, contrariamente a ciò che avverrà vigente il codice civile del 1942, ai giudici non interessa attribuire colpe o riconoscere meriti. Ciò che preme loro è solo di individuare un legame tra l’uomo e la successiva nascita. Una vicenda esemplare del primo caso si svolge a Roma durante la Grande Guerra, quando la Segreti e il Rossi-Cagnaroni hanno una relazione che dura fino alla partenza di quest’ultimo per il fronte, nel maggio 1917. A poco più di un mese dal loro ultimo incontro, la ragazza avanza il primo dubbio su una sua gravidanza, pur sperando fortemente che si tratti di un falso allarme (nella lettera, datata 19 giugno, se anche ricorda che «le cose eransi fatte con molta cautela», aggiunge «ma mi rammarico per l’ultimo giorno... Ricordi?»). Agli inizi di luglio, il dubbio diviene certezza. Avvertito il giovane, anch’egli è preso da una grande inquietudine («non posso fare a meno di scriverti per dirti tutta la mia preoccupazione per ciò che mi dici») e, secondo uno schema ricorrente, avanza il dubbio che lo stato della sua amante possa anche non essere «il prodotto delle sue intimità». Fatto sta che il Rossi-Cagnaroni sembra aver trovato nell’aborto il mezzo per liberare entrambi «dall’assillante pensiero [...] con l’aiuto di un bravo sanitario». Ovviamente la soluzione preoccupa. «Pur essendo cose da nulla (se bene ci si pensi) e cose che accadono sovente, in ogni modo mi agita e mi impensierisce non tanto il fatto in sé stesso – scrive alla ragazza – perché affidata la causa 69

Cfr. Giulia Galeotti, Storia dell’aborto, il Mulino, Bologna 2003, pp. 82 sgg.

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e l’affare ad un buon avvocato si è sicuri, senza tema, di riuscire nell’intento», quanto piuttosto «le noie e le seccature che il disbrigo della pratica porta. In ogni modo per il 20 c’è poco e mi auguro che l’affare prenda una buona piega ed abbia una soluzione per tutti». Il linguaggio, seppur criptato, è però molto chiaro: Vai dalla nota persona, onde ti possa curar bene, e porgile i miei saluti, dicendo che io attendo una sua lettera di conforto e di aiuto. Oltre quello che certe cose è meglio dirle a voce, anzi in questo senso pregalo, dicendogli che ci rimettiamo completamente a lui. A te certo le parole non mancano.

V’è anche un accenno alla bagnarola che ti serve senza risultato [...]. Animo bimba mia, coraggio e vedrai che la cosa non sarà così brutta e dolorosa come tu pensi [...] Sento tutta la responsabilità dell’atto, e perché la sento, cerco di evitare conseguenze che potrebbero, date le attuali circostanze, rendere me e te persone che si sono abbandonate a leggerezze ed a piaceri prima che legalmente se ne avesse il diritto.

Questa volta Adriana risponde subito furibonda, e lo accusa di pensare solo «ad eliminare con mezzi illeciti le inevitabili conseguenze del [suo] operato, senza alcun senso di responsabilità, lasciando[la] sola alle prese con la [sua] triste maternità, causata da un momento di ebbrezza dei sensi». La risposta dell’uomo è semplicemente raggelante: «voglio sperare e mi auguro che tu abbia scritto quelle poche e affrettate righe in un momento di sconforto e di esaltazione che compatisco e scuso. Se tu hai una coscienza l’ho anch’io, non dico superiore, ma uguale alla tua», ripetendo di sentire «tuttavia la responsabilità dell’atto, con quel che segue». Fatto sta che il 14 febbraio 1918 Adriana dà alla luce a Roma Marcella. Trasferitasi nelle Marche, la bambina sta per compiere dieci anni quando la donna si rivolge alla giustizia affinché il suo ex amante provveda al mantenimento della piccola. Per sottrarsi all’onere, l’uomo tenta di dimostrare la vita immorale che la donna avrebbe condotto, onde rendere incerto il reale autore del concepimento. Sia i giudici del tribunale di Macerata che quelli della Corte d’Appello di Ancona, però, sono inflessibili: non solo «le colpe attribui-

5. Il non-padre che alimenta il non-figlio

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te alla Segreti sarebbero state commesse fuori del periodo di gestazione (maggio 1917-febbraio 1918)», ma le lettere «contengono promesse di matrimonio, il che apertamente contraddice all’accusa che ora le fa di [...] aver trescato con altri». Un peso decisivo per accertare il coinvolgimento del Rossi-Cagnaroni nel concepimento di Marcella è tuttavia attribuito ai ripetuti riferimenti che egli fa all’aborto: non è «altrimenti supponibile la preoccupazione che l’assalì alla notizia [della gravidanza], e tanto meno il disperato espediente dell’aborto consigliato alla donna». Non importa quindi che il Rossi-Cagnaroni non parli mai di figlia, e che non sia esplicito circa i suoi rapporti con la bambina o verso l’amante: quello che conta è che le lettere restituiscono, a tutti gli effetti, l’immagine di un uomo che si comporta da responsabile del concepimento. È un chiaro esempio di come i giudici procedano ad una ricostruzione degli eventi che contestualizza lo scritto, superandone la portata letterale70. Del resto, quando il Rossi-Cagnaroni viene a sapere che Adriana non si sottoporrà all’aborto reagisce violentemente. Nella lettera della rottura definitiva (datata 22 dicembre 1917, poco prima del parto dunque), egli le scrive di sentire la prosecuzione della gravidanza come una violazione della sua dignità. «Sono tanto rattristato da tutto, dai fatti come si sono svolti, e specie da come tu hai condotto le cose, senza alcun rispetto per la mia dignità, che hai voluto scientemente calpestare, che non mi sento proprio più la volontà di parlare con te». Ecco dunque spiegato l’arcano della sua improvvisa scomparsa dalla vita di madre e figlia: l’essere stato irrimediabilmente offeso nell’onore. Ma Adriana, oltre ad avere piena consapevolezza che l’uomo vuole l’aborto solo per lavarsi le maQuando l’uomo scrive «sento tuttavia la responsabilità dell’atto, con quel che segue», la responsabilità dell’atto di cui parla – commentano i giudici – «non è altro che la responsabilità della gravidanza di Adriana Segreti, che egli vuole allontanare con i mezzi abortivi per evitare le conseguenze di un figlio che potrebbe raffigurare essa e lui di fronte al mondo persone che si sono inconsideratamente abbandonate a leggerezze e a piaceri sessuali prima di essere legalmente unite in matrimonio, che solo avrebbe dato loro diritto al congiungimento carnale con tutte le conseguenze fisiologiche legalmente riconosciute. Ogni altra interpretazione a queste parole va contro il contenuto letterale e ideologico delle parole, e allora la espressione del proprio pensiero come manifestazione dell’intima coscienza di essere padre della creatura che pulsava nelle viscere di Adriana Segreti e che divenne Marcella Segreti, non può essere più chiara ed esplicita» (Corte d’Appello Ancona, 13 giugno 1925, in «Monitore dei Tribunali», 1925, p. 702). 70

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ni della faccenda, risulta ben conscia del tradimento subito e dei propri diritti. Nel condannare l’uomo a provvedere al mantenimento della bambina, la corte ne rimarca pesantemente il comportamento. Nella fattispecie il biasimo verte anche sul fatto che, spingendola all’aborto, egli utilizza un linguaggio «letterario» (così lo definiscono i giudici) che rivela «l’intima ripugnanza dell’illecito espediente che doveva sollevarlo dalle noie di una paternità non desiderata»71. Pur di evitare la nascita, cioè, l’uomo non esita a spingere per una soluzione che egli stesso disapprova nel profondo. Un esempio del secondo caso – quello in cui l’uomo tenta di far desistere la donna dall’intento – è la vicenda che porta alla nascita a Milano di Carla, il 3 agosto 1918. È la madre Angela Viazzoli che domanda la condanna del suo amante, l’Arienti, al pagamento degli alimenti per la figlia. Oltre a richiamare il fatto che l’uomo le aveva dato del denaro per il suo mantenimento, Angela produce in aula una lettera del gennaio 1918, scritta dal fronte (anche questa volta, dunque, l’uomo è in guerra quando apprende la notizia della gravidanza). Si tratta della risposta all’intenzione di Angela di abortire, a cui ella è pronta ad assoggettarsi, sempre che l’amante acconsenta. Ebbene, risponde lui, nella tua lettera mi accenni a disturbi riferibili ad un eventuale stato di gravidanza. Ormai sei una donna matura, libera dei tuoi atti e capace di comprendere ed affrontare certe situazioni. Dai tuoi rapporti era logico e prevedibile che potessero derivarne conseguenze siffatte e ben naturali, le potevi prevedere, anzi implicitamente accettare. Il mio consiglio adunque è di seguire la via maestra, la via onesta, quello che il sentimento materno insegna. Siamo intesi? Ogni mezzo, ogni manovra illecita sono da me condannati. Nella tua eventuale situazione molte e molte altre donne si sono trovate in questa guerra. Alla fine non sei nella miseria; sarà per te dolce missione allevare un figlio.

C’è di tutto: la responsabilità per il fatto proprio (principio che, però, evidentemente, l’Arienti non ritiene applicabile a se stesso); il richiamo al sentimento materno, evocato nel perfetto equilibrio tra aspetti positivi e la relativa fatica ed abnegazione; la collocazione del 71

Ivi, p. 701.

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fatto in un contesto sociale in cui l’assenza di nozze non verrebbe più (sostiene!) necessariamente stigmatizzato. La predica si conclude quindi con «ti raccomando fin d’ora di non cominciare a sollevare frastuoni, beghe, fare scenate, che ogni tuo atto non potrebbe destare commiserazione in nessuno, né destare recriminazioni in riguardo di chicchessia». Ovviamente, nonostante queste belle parole, l’uomo si volatilizzerà a nascita avvenuta. I giudici, però, sono attenti al vero stato delle cose. Messa in luce e condannata la scelta deliberata dell’uomo di evitare formule o espressioni rischiose («trapela evidentissimo lo studio posto dall’Arienti di evitare ogni parola che potesse comunque comprometterlo come autore della gravidanza»), la conclusione è inevitabile: se egli non si fosse riconosciuto come padre, non avrebbe chiesto alla donna di astenersi da ogni pratica abortiva [...]. Tanto meno avrebbe concluso con le raccomandazioni di non sollevare frastuoni, di non fare beghe e scenate che ad altri evidentemente non potevano riferirsi se non a se stesso. Tranne adunque se fosse adoperato l’appellativo di figlio, cosa che la legge non richiede, non potrebbe sussistere più esplicita dichiarazione72.

Con il codice del 1942 la chiamata in causa dell’aborto da parte dell’uomo gioca in materia di paternità illegittima un ruolo ancora più importante. Se infatti l’averne parlato, vigente il Pisanelli, vale solo a fini alimentari, ora invece ha conseguenze anche in sede di riconoscimento giudiziale della paternità: un passaggio importantissimo. Così all’indomani della II guerra mondiale, i giudici accertano la paternità di P. (nata il 13 novembre 1947), figlia di G.M.C. («ragazza di integri costumi») e del C. che, deflorata la ragazza il 18 febbraio 1947, tenta inutilmente di convincerla ad interrompere la gravidanza. Questa volta le conseguenze per l’uomo hanno una portata ben maggiore: «l’istigazione all’aborto più volte ed insistentemente effettuata stava a dimostrare l’implicito riconoscimento della propria paternità naturale ed il desiderio di sottrarsi alle conseguenti responsabilità»73. Si tratta di elementi talmente «univoci e decisivi» che i giudici ritengono del tutto inutile il ricorso all’analisi dei gruppi sanguigni, da poco introdotta. 72 73

Tribunale Milano, 9 maggio 1927, ivi, 1927, p. 746. Cassazione, 28 settembre 1957, n. 3537, in «Giustizia civile», 1957, I, p. 2080.

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Parte prima. Il diritto costruisce la paternità

Ancora, l’aborto viene evocato nel caso di una paternità risultante da sentenza nel 1960. Ben sapendo infatti che la gravidanza della M. dipendeva dai rapporti sessuali intercorsi tra loro, l’uomo «intendeva liberarsi mediante l’aborto dalle continue insistenze della donna affinché egli si riconoscesse padre del figlio ch’essa avrebbe partorito»74. Del resto, in un caso che precede di poco la riforma del diritto di famiglia, i giudici affermano che la paternità può risultare anche da una semplice sentenza istruttoria che, nel prosciogliere l’imputato dal reato contestatogli, rimette gli atti al pubblico ministero perché proceda d’ufficio per un reato diverso. Così la paternità del Bianconi, invocata dalla Giovannini, madre naturale della bambina, viene riconosciuta perché l’uomo le aveva praticato una iniezione abortiva, evidentemente fallita75. Oltre al passaggio dagli alimenti alla dichiarazione della paternità naturale, v’è un’altra non secondaria differenza che si produce tra la vigenza del codice Pisanelli e quella del codice del 1942. Finché si tratta di individuare solo il debitore del figlio illegittimo, infatti, per i giudici è rilevante il fatto che l’uomo abbia discusso l’eventualità dell’aborto, a prescindere dal suo essere favorevole o contrario all’intervento. Laddove invece l’oggetto del contendere sia la definizione di un rapporto di paternità, anche se solo naturale, le corti richiedono un grado di responsabilità in più: la menzione dell’aborto è accettata come prova solo nel caso in cui l’uomo abbia spinto per interrompere la gravidanza. 74 75

Cassazione, 1° agosto 1960, n. 2261, ivi, 1960, I, p. 1733. Cassazione, 6 settembre 1973, n. 2403.

Parte seconda LA NATURA RIVELA IL PADRE

6 LA SCIENZA COMPARE SULLA SCENA

1. Scienza e padri sulla battigia L’annuncio inatteso, di quel caso impreveduto, gettò i due amici in preda a una profonda costernazione. Un figlio! Uno di loro due era stato, certamente; chi de’ due, né l’uno né l’altro, né la stessa Melina potevano sapere. [...] Nessuno de’ due amici s’arrischiò a domandare dapprima alla donna: tu chi credi? per timore che l’altro potesse sospettare ch’egli intendesse con ciò di sottrarsi alla responsabilità [...]; né Melina tentò minimamente d’indurre l’uno o l’altro a credere che il padre fosse lui. Ella era nelle mani di tutti e due [...]. Uno era stato; ma chi de’ due ella non solo non poteva dire, ma non voleva nemmeno supporre. [...] Se ciascuno dei due avesse potuto esser sicuro che il figlio era suo, non avrebbe esitato ad assumersene il peso e la responsabilità, persuadendo l’altro a ritrarsi. Ma chi poteva dare all’uno o all’altro questa certezza? L. PIRANDELLO,

O di uno o di nessuno

Tito Morena e Carlino Sanni sono i protagonisti della novella di Pirandello O di uno o di nessuno. Vinto entrambi un concorso a Roma al ministero della Guerra, i due amici decidono di chiamare Melina dalla nativa Padova, onde provvedere «al bisogno indispensabile d’una donna». Il ménage scorre tranquillo per un paio d’anni («andavano a trovarla, ora l’uno ora l’altro, così come s’erano accordati, senza invidia e senza gelosia»), finché la ragazza rimane incinta. L’evento incrina irreparabilmente il perfetto equilibrio non tanto per il fatto in sé, quanto piuttosto per l’impossibilità di individuare chi sia il padre del nascituro. Si rompe l’amicizia, e nessuno

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Parte seconda. La natura rivela il padre

andrà più a trovare Melina che – ridotta pelle ed ossa – morirà di parto. Tito e Carlino si sentono al contempo attirati e respinti dal neonato. Quando questi viene affidato ad una balia di Alatri, a turno, vanno a trovarlo una volta al mese: ciascuno dei due pensava, che quel batuffolo di carne lì poteva anche non esser suo ma [...] al pensiero che l’altro andava lì, con lo stesso suo diritto, a togliersi in braccio il bambino e a baciarlo, e a carezzarlo per un’intera giornata, e a crederlo suo, ciascuno de’ due sentiva artigliarsi le dita, si dibatteva sotto la morsa d’una indicibile tortura.

Con lo stesso margine di probabilità, entrambi possono esserne il padre. In questo caso non è applicabile nemmeno il giudizio di Salomone, che si era trovato in condizioni molto più facili, perché si trattava allora di due madri, e una delle due poteva essere certa che il figlio era suo. Qua l’uno e l’altro, non potendo aver questa certezza ed essendo animati da un odio reciproco così feroce, avrebbero lasciato spaccare a metà il ragazzo per prendersene mezzo per uno.

La soluzione sarà l’adozione: considerarono che la loro condizione e quella di Nillì sarebbe divenuta con gli anni sempre più difficile e triste; considerarono che quel colonnello e sua moglie erano due ottime persone; che la moglie era molto ricca e perciò per Nillì quell’adozione sarebbe stata una fortuna; domandarono a Nillì, se aveva piacere [...]; e Nillì [...] disse di sì, ma a patto che i due zii venissero a visitarlo spesso, ma insieme, sempre insieme, in casa dei genitori adottivi. E così Carlino Sanni e Tito Morena, ora che il figlio non poteva più essere né dell’uno né dell’altro, ritornarono a poco a poco di nuovo amici come prima1.

Il nocciolo, dunque, sta nella incertezza della paternità laddove essa avvenga al di fuori dei rigidi confini segnati dal diritto, che sembra l’unico a poter dire una parola definitiva in materia. Del resto, man mano che la scienza si evolve raggiungendo importanti tra1 Luigi Pirandello, O di uno o di nessuno, in Id., Novelle per un anno, vol. I, t. 1, Mondadori, Milano 1985, pp. 609-11.

6. La scienza compare sulla scena

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guardi in altri campi, questo senso di impotenza va sempre più rafforzandosi. Ai giudici che a fine Ottocento ripetono sconsolati che «la natura ha sottratto all’occhio dell’uomo il fenomeno del concepimento, a svelare il quale non son valse né potranno valere giammai le investigazioni della scienza»2, fa eco l’altrettanto scoraggiata dottrina: «la scienza non è paranco riuscita, e forse non riuscirà giammai, a togliere il velo che copre il mistero della generazione, non essendovi alcun contrassegno apparente da cui si possa desumere chi sia l’autore del concepimento»3. Invece, quasi in sordina – e malgrado le diffidenze –, il ricorso alla biologia comincia a risolvere il mistero e nel giro di un secolo si giungerà ad un grado di certezza pressoché assoluto. L’interazione tra scienza e diritto è, però, ambito tutt’altro che semplice, anche perché quest’ultimo ha sempre dimostrato molta cautela nell’accogliere le scoperte scientifiche. Il problema, in particolare, è quello di stabilire quando la prova offerta dalla scienza presenti il grado di certezza necessario a definirla tale4. Per illustrarne il percorso, possiamo seguire quello compiuto dalla giurisprudenza americana, che per quasi settant’anni si è avvalsa del criterio individuato nel 1923 con la decisione Frye vs. United States. Nella sentenza, che riguardava una versione primitiva della macchina della verità, si definì la nozione di general acceptance: la scoperta scientifica ha rilevanza giuridica laddove il paradigma da cui muove abbia ottenuto il generale riconoscimento della comunità scientifica di riferimento5. 2 Corte d’Appello Perugia, 4 febbraio 1886, in «Giurisprudenza italiana», 1886, I, c. 247. È questa la vera ragione di una legislazione così difforme rispetto alla ricerca della maternità, «la cui scaturigine è dalla natura» (ibid.). 3 Vittorio Wautrain Cavagnari, Filiazione, in Enciclopedia giuridica italiana, vol. VI, t. 2, Società editrice libraria, Milano 1903, p. 670. 4 Alla base di questo travagliato rapporto v’è, indubbiamente, la diversità metodologica delle rispettive discipline. Alla nozione di certezza centrale per il diritto, pur con le opportune articolazioni (Letizia Gianformaggio, Certezza del diritto, in Digesto delle discipline privatistiche. Sezione civile, vol. II, UTET, Torino 1988, pp. 274-78), si contrappone il carattere popperiano della scienza, in cui indagini successive confermano le ipotesi di partenza quando non le sconfessano (Thomas S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1989). 5 «È difficile dire quando un principio o una scoperta scientifica passano dallo stadio della sperimentazione a quello della dimostrazione. Tuttavia bisogna pur riconoscere, in qualche punto di questa zona grigia, la forza probante di un principio. Mentre le corti saranno ben disposte verso la possibilità di ammettere una testimonianza peritale che poggia su un principio o una scoperta scientifica noti, i da-

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Questo approccio è stato però rivisto nel 1993 con il caso Daubert vs. Merrell Dow Pharmaceuticals, Inc., avente ad oggetto il preparato farmaceutico Bendectin6. In base alla sentenza, è il giudice – e non più lo scienziato – ad assumere il ruolo di garante nello stabilire quale scoperta possa essere ammessa in tribunale. Dopo una previa valutazione tesa a chiarire se la scoperta sia giuridicamente necessaria a risolvere il caso concreto, il giudice deve stabilire se essa sia sufficientemente accettata in ambito scientifico da poter essere accolta in aula. Che tale soluzione sia stata molto criticata (in particolare perché pretende che i giudici si pronuncino su aspetti al di là delle loro competenze7) non ha impedito alla Corte Suprema di ampliare ulteriormente il loro ruolo di garanti nel 1999, nel caso Kumho Tire vs. Carmichael 8. Dunque con il Novecento si avvia una nuova fase nella storia della paternità, e molti scienziati si dimostrano perfettamente consapevoli dei radicali mutamenti verso cui si stava andando. Nel 1946, ad esempio, l’ematologo Folco Domenici (allievo preferito di Leone Lattes)9 scrive: «poiché l’interesse personale interferisce fortemente ti su cui si basa la deduzione devono aver raggiunto un tale grado di consenso da essere generalmente accettati nello specifico campo scientifico» (Frye vs. United States, 293 F. 1013, 1014, DCC Cir. 1923). 6 Utilizzato contro le nausee dei primi mesi di gravidanza, il farmaco, estremamente diffuso (si calcola che a fine anni Settanta lo utilizzassero nel mondo 33 milioni di donne), era accusato di causare malformazioni nel feto. Lo scandalo scoppiò nel 1972 quando il dottor William McBride denunciò la nascita a Sydney di tre bambini privi di arti, indicando nel Bendectin il responsabile della malformazione. Poco dopo, in febbraio, a Milano nacque una bambina con un braccio focomelico, e anche in questo caso i medici imputarono l’accaduto al preparato della Merrell Dow. Essendosi la psicosi gradualmente diffusa pressoché ovunque, la ditta farmaceutica decise di ritirare il prodotto dal mercato, adducendo come motivazione l’impossibilità di sostenere i costi delle cause in corso. Furono dunque i genitori di Jason Daubert e Eric Schuller, entrambi nati privi di arti, ad avviare il processo che avrebbe portato alla storica sentenza del 1993. 7 Jennifer Mnookin, Science and Law, in Kermit L. Hall (a cura di), The Oxford Companion to American Law, Oxford University Press, New York 2002, pp. 715-16. 8 Nella sentenza Kumho Tire vs. Carmichael, la Corte Suprema ha affermato che il ruolo di guardiani che i giudici debbono assolvere si estende a tutti i tipi di indicazioni che provengono da esperti, siano esse di natura scientifica o tecnica. 9 Domenici, nato a San Gimignano il 21 ottobre 1907, ottenne la laurea in medicina a Pavia nel 1932, e il diploma di specialista nelle malattie del sangue nel 1935. Allievo di Leone Lattes, lo sostituì nell’insegnamento a Pavia quando il maestro venne allontanato dalla cattedra per motivi razziali. Morì a Pisa il 20 giugno 1970.

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con l’interesse pubblico in tema di ricerca della paternità, è evidente che questi accertamenti debbono venire effettuati col controllo dell’Autorità Giudiziaria», nella convinzione che solo il magistrato sia in grado di apprezzare se sussistano le ragioni che possono giustificare l’indagine e che solo a lui spetta di decidere una prova le cui conseguenze sono a priori incalcolabili. Che se da un lato, attraverso la conferma di un rapporto di genitura il vincolo non può che rafforzarsi, dall’altro un’esclusione di tale rapporto oltre che decidere di tutta la vita dell’innocente, può esporre la donna a pericoli gravissimi, non escluso quello di essere vittima di sanguinosa vendetta10.

È molto interessante come la maggiore preoccupazione per le conseguenze sociali riguardi soprattutto i figli che potrebbero essere disconosciuti. Se dunque si intende formalmente tutelare il minore (onde evitare «indagini capaci di pregiudicargli gravemente l’avvenire»), la donna (per il rischio di esporla «a pericoli gravissimi») e la famiglia legittima («qualunque sia la verità sierologica, l’unione della famiglia è un ordine superiore che non può né deve esser messo a repentaglio se non con una serie di garanzie»11), è però indubbia l’implicita protezione dell’uomo: se proprio bisogna capitolare dinanzi a una scienza che può sovvertire l’ordine tradizionale, ciò avvenga almeno rispettando quanto più possibile l’interesse maschile.

2. Le rassomiglianze fisiche negli accertamenti di paternità Ma ecco delle tracce, un secondo indizio... sì, tracce di piedi, e simili, eguali alle mie... Sì, due coppie ci sono, qui, di orme di piedi... di lui, di lui, e di uno che l’accompagna! Le impronte del tallone e di tutta la pianta, misurate, combaciano in tutto con le mie orme. ESCHILO,

Coefore

10 Folco Domenici, Gruppi sanguigni e ricerca della paternità, Gentile, Milano 1946, pp. 145-46. 11 Ibid.

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Il primo criterio offerto dalla scienza in virtù del quale poter risalire all’identità paterna fu quello delle rassomiglianze fisiche. Il dato, però, era presente da tempo nel sentire sociale. Già nelle Coefore di Eschilo, la scoperta di orme simili alle proprie sul tumulo paterno sarà una delle prove su cui Elettra si baserà per riconoscere, dopo anni, il fratello Oreste (anche oggi nelle culture dell’Italia meridionale la forma delle mani e dei piedi, più che la rassomiglianza dei tratti del volto, continua ad indicare l’appartenenza di un singolo ad una data famiglia). Del resto, Luciana Coen Cardone (nel testo già citato) racconta che dopo la II guerra mondiale un soldato americano di colore tornò a Roma per cercare la prostituta da cui aveva avuto un figlio. Lo trovò nell’istituto della maternità dello Scalone, ma la neonata è bianchissima e l’uomo inizialmente la rifiuta. Cambia però idea quando la madre gli mostra che «le mani paffute della sua bambina avevano intorno alle unghie una lunetta color prugna che rivelava in maniera discreta ma inequivocabile la sua ascendenza». Il risultato fu che «la donna e la sua bambina quasi del tutto bianca partirono con uno dei primi piroscafi delle spose di guerra», verso gli Stati Uniti. L’antica tentazione di cercare le somiglianze dei bambini con i loro genitori è ancora oggi diffusa12, assumendo però a volte nuove vesti13. Liza Mundy, nel suo Everything Conceivable (2007), sostiene

12 Oltre a questi casi, la tentazione di ravvisare tratti del genitore nel figlio può sfiorare il ridicolo, quando l’assenza di legami biologici sia dovuta – ad esempio – a un tradimento. Il romanzo di D’Annunzio L’innocente (1892) narra la storia di un reciproco adulterio; la moglie, però, rimane incinta e il marito non riesce a convivere con la presenza di questa prova tangibile del tradimento, arrivando a uccidere il bambino: «ripensavo alla triste voglia di ridere che m’era venuta una volta sentendo dire d’un bimbo (che io sapevo sicuramente adulterino) alla presenza dei legittimi coniugi: – Tutto suo padre! – E la somiglianza era straordinaria, per quella misteriosa legge che i fisiologi chiamano eredità d’influenza. Per quella legge il figlio talvolta non somiglia né al padre, né alla madre, ma somiglia all’uomo che ha avuto con la madre un contatto anteriore alla fecondazione. Una donna maritata in seconde nozze, tre anni dopo la morte del primo marito, genera figli che hanno tutti i lineamenti del marito defunto e non somigliano in nulla a colui che li ha procreati» (Gabriele D’Annunzio, L’innocente, Mondadori, Milano 1996, p. 195). 13 La questione sembra tuttora oggetto di analisi scientifica, se un articolo dell’«Economist» di alcuni anni fa riportava i dati di una ricerca secondo cui la somiglianza fisica con il padre sarebbe maggiore nei primi anni di vita, quasi a stimola-

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che la questione sta assumendo una valenza importante in sede di ricorso alla fecondazione assistita da parte delle coppie omosessuali: nella scelta del donatore (o della donatrice), si dà grande rilievo al fatto che questi assomigli al partner non legato biologicamente alla futura prole. Si intende, cioè, colmare lo iato di consanguineità con il futuro nato attraverso la rassomiglianza fisica14. Del resto, è anche vero che dei tratti fisici precipui, come una voglia o una screziatura particolare dell’iride, possono essere spie assolutamente eloquenti15. Anticipando una recente pubblicità, in cui un giovane dagli intensissimi occhi blu parte da un paesino dove ha avuto decisamente successo, a giudicare dalle inconfondibili iridi che lascia nella locale scuola elementare, il pratoliniano Bob (sfortunato protagonista de Le ragazze di Sanfrediano) nella Firenze del secondo dopoguerra sogna di avere un bimbo che gli somigli in ogni vicolo del quartiere. Al di là del sentire sociale, dunque, il primo aiuto che la scienza poté fornire all’individuazione del presunto padre fu il metodo delle rassomiglianze fisiche, basato su perizie medico-antropologiche di vario tipo16.

re la protezione paterna. Del resto, nel suo Nature via Nurture: Genes, Experience and What Makes us Humans (2003) Matt Ridley scrive che i bambini assumono le caratteristiche comportamentali (maniera di sorridere, camminare, muoversi) di quelli che percepiscono come genitori fin da piccolissimi. 14 La questione delle somiglianze reali può essere una grande fonte di sofferenza perché i lineamenti del figlio rimandano a quelli del genitore che, invece, si vuole dimenticare – come nei casi in cui la gravidanza sia il risultato di uno stupro. Tale situazione ricorre in contesti anche molto diversi tra loro. Cfr. il racconto di Pirandello L’altro figlio (in Id., Novelle per un anno, vol. II, t. 1, Mondadori, Milano 1987, p. 53) e il romanzo di Elif Shafak La bastarda di Istanbul (Rizzoli, Milano 2007, p. 165). 15 «Stranamente, Surik, il bambino biondo e silenzioso che era stato adottato, sembrava possedere tutte le caratteristiche dei Sinopli: benché i suoi capelli sottili e ricci non avessero neanche una sfumatura del rosso di famiglia, aveva il visetto chiaro e aguzzo cosparso di lentiggini e soprattutto [...] il mignolo corto che arrivava appena ad un terzo dell’anulare» (Ljudmila E. Ulickaja, Medea, Einaudi, Torino 2000, p. 210). 16 Racconta, ancora, Coen Cardone che una donna bruttissima, non giovane e con già due figli illegittimi si presenta alla maternità dello Scalone di nuovo incinta. A differenza degli altri due, però, questa volta nascerà un bimbo bellissimo, «un faccino rotondo bianco e roseo, [...] due occhi celesti luminosi, [...] riccioloni fitti fitti di un bel rosso acceso» (Luciana Coen Cardone, Gli illegittimi, Gielle, Roma 1957, p. 60). Ebbene, «in uno dei pomeriggi destinati alle pratiche matrimoniali,

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Già Paolo Zacchia (considerato il padre della medicina legale17), nelle sue celeberrime Quaestiones medico-legales (1621), incentrate sugli aspetti medici del diritto canonico e civile, ricordava l’autorità di Ippocrate, Galeno e Aristotele a sostegno dell’efficacia di questa prova18. Zacchia precisava che essa andava comunque congiunta ad altri, pur minimi, riscontri19. Nella pratica, è dalla seconda metà dell’Ottocento che inizia ad avere un certo credito l’esame eredo-biologico dei tratti somatici come il profilo del naso, la dentatura, le misure delle vertebre e così via20. Non si trattava ovviamente di prove ritenute decisive di per sé, non ultimo perché presentavano una serie di inconvenienti tutt’altro un giorno fu introdotto nel mio ufficio un ragazzo tanto giovane da farmi pensare che fosse il figlio di qualche assistita... al primo sguardo il suo volto innocente e i suoi capelli rossi mi fecero pensare a qualcuno che già conoscevo. Gli chiesi cosa volesse. ‘Voglio sposare la donna con la quale ho un figlio’. [...] Tornò, puntuale, accompagnando [...] la nostra brutta assistita. Solo allora mi resi conto della sua assomiglianza col bellissimo bambino di questa. Non si poteva, pur desiderandolo, negare che fosse il padre». Aveva appena compiuto 18 anni: «questa non è questione di età, ma di onestà. [...] È mio dovere, non posso abbandonare mio figlio e la madre di mio figlio per i meschini preconcetti di una società cui aderiscono anche persone che, come lei, dovrebbero saper qual è la vera morale» (ivi, p. 61). 17 La medicina legale ha origini remote. Appena si comincia a parlare di gravità di iniuria determinabile attraverso una misura medica si stabilisce infatti un principio medico-legale, il che (non volendo risalire ulteriormente) è già contenuto nella Legge delle XII tavole, anche se è poi con il Cinquecento che il pensiero medico-legale comincia a delinearsi come disciplina autonoma. La materia, del resto, «novera tra i suoi compiti quello di rappresentare al Legislatore lo sforzo e i progressi delle scienze biologiche, cercando così di migliorare la norma codificata» (Pasquale Murino, Paternità (ricerche biologiche sulla), in Il digesto italiano, vol. IX, UTET, Torino 1939, p. 566). Come ricordano gli stessi giudici, si tratta di una disciplina «che per i suoi legami e le sue interferenze con quelle giuridiche non può essere estranea al patrimonio culturale del giudice» (Cassazione, 17 marzo 1931, in «Giurisprudenza italiana», 1931, c. 682). 18 In particolare Aristotele, contestando Platone a proposito della comunione delle donne e dei figli, faceva notare che la rassomiglianza avrebbe comunque rivelato chi fosse il padre effettivo. 19 Cfr. Paolo Zacchia, Quaestiones medico-legales, sumptibus Andreae Brugiotti, Romae 1621, libro I, titolo V. 20 Come si evidenziava nel 1887 «la rassomiglianza può essere benissimo, nessuno lo nega, figlia del capriccio, né la legge della eredità fisica e morale è così costante da offrire sempre ed in ogni caso un indizio serio e positivo per la constatazione di un rapporto di parentela. Basta però la dimostrazione di una certa probabilità che due persone che si suppongono parenti fra loro offrano segni caratteristici della loro parentela perché la perizia, diretta a porre in essere questa prova,

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che trascurabili (come ad esempio il fatto di chiamare in causa caratteri rilevabili solo a sviluppo corporeo avvenuto e di non permettere contestazioni immediate). Ma nella misura in cui fossero presenti altri elementi di giudizio, era opinione comune che la perizia antropologica potesse fornire una rilevante indicazione aggiuntiva21. Una delle prime sentenze dell’Italia unita in cui una delle parti tenta, anche se vanamente, di risolvere un’attribuzione di filiazione richiamandosi alla scienza nella forma della somiglianza fisica è del 1883. Silvio Giuncata, che si rivolge al giudice per essere dichiarato figlio naturale di Luigi Lucchesi, chiede l’ammissione della perizia medico-antropologica onde provare che tra lui e il presunto padre «eravi così perfetta rassomiglianza nella conformazione del corpo e nei lineamenti del volto, da costituire riscontro urgentissimo dei rapporti fra loro di parentela e di filiazione naturale»22. Ammessa la richiesta, in primo grado il Giuncata vedrà accolta la sua domanda, con una decisione che sarà però ribaltata in appello23. Al di là dell’esito processuale, è importante comunque registrare il timido ingresso delle indicazioni scientifiche in tema, e il dibattito che ne segue. Nel criticare la decisione dei giudici lucchesi, infatti, non si contesta tanto il merito della conclusione, quanto piuttosto la rapidità con cui essi liquidano la faccenda. La scienza ha fatto in questi ultimi tempi rapidi e meravigliosi progressi. Infatti, ai dì nostri, per gli studii immensi del Darwin, dello Spencer, dell’Haeckel e di molti altri, la scienza sperimentale si è messa sulla

debba ammettersi» (P. Casini, Nota a Corte d’appello Lucca 28 febbraio 1887, in «Il Foro italiano», 1887, c. 298). 21 Il nascente interesse per i dati antropomorfi avrà influenza anche in altri campi del diritto. Ad esempio, in Francia dal 1882 si utilizzò il rilevamento antropometrico per l’identificazione dei criminali. Pochi anni dopo, si giungerà alle impronte digitali. 22 Tribunale Pisa, 5 aprile 1886, ivi, c. 299. La perizia non è il solo elemento di prova addotto dall’attore, ma viene a sommarsi agli altri fattori chiamati in causa. 23 Scrivono infatti i magistrati lucchesi che «la giurisprudenza ha sempre inteso nell’ammetterlo di riferirsi alla rassomiglianza tra padre e figlio come ad un fatto cadente sotto i sensi di ognuno, e del quale possano attestare i testimoni, e non mai alle ragioni intime del fatto stesso e per cui facci d’uopo ricorrere alle ardue indagini della scienza sperimentale e degli studi antropologici» (Corte d’Appello Lucca, 28 febbraio 1887, ivi, c. 301).

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diritta via delle scoperte, e il problema della trasmissione ereditaria fisica e morale, uscendo da quella specie di misticismo che lo sottraeva alle indagini positive, ha assunto il carattere proprio delle grandi dottrine. L’eredità fisica e morale, che si riguardava come un argomento fra i più astrusi ed inesplicabili, è considerata oggidì come una vera legge biologica, in virtù della quale tutti gli esseri dotati di vita tendono a riprodursi nei loro discendenti24.

Alla rassomiglianza fisica il Novecento unisce altri criteri, tutti riconducibili al cruciale aspetto della ereditarietà25. Tra questi, vi era innanzitutto l’analisi delle impronte digitali, «di grande utilità per la ricerca della paternità»26; quindi l’analisi dei caratteri patologici che si ritengono trasmissibili per ereditarietà (malformazioni e variazioni morfologiche della colonna vertebrale); l’esame dei tratti dermatoglifi27; il cosiddetto test del sapore (che consiste nella capacità di percepire il sapore amaro di una sostanza chimica, feniltiocarbamide – PTC28). Casini, Nota a Corte d’appello, cit., pp. 296-97. Secondo Lattes, «si è sempre saputo esistere la trasmissibilità ereditaria di fogge corporee, di atteggiamenti funzionali, di disposizioni psichiche ed anzi si riteneva che la trasmissione dei caratteri fosse la regola [...] tanto che fu considerato come sospetto che il figlio non rassomigliasse al padre; e lo stesso Ippocrate dovette difendere una donna per aver messo alla luce un figlio dissimile al padre, primo esempio forse di perizia medico-legale in tema di ereditarietà» (Leone Lattes, Aspetti biologici della ricerca della paternità, Università degli Studi, Modena 1927). 26 Domenici, Gruppi sanguigni e ricerca della paternità, cit., pp. 142-43. 27 «La superficie volare delle mani e la pianta dei piedi presentano originali caratteristiche anatomiche: prive di peli e ghiandole sebacee, sono corrugate per la presenza di solchi e creste interposte. Tali solchi o dermatoglifi si formano tra il terzo ed il settimo mese della vita intrauterina. Si è ritenuto che la presenza nel figlio di figure non presenti nella madre ma presenti nel padre presunto fosse una prova del rapporto di genitura» (Dalila Ranalletta, La prova della paternità mediante il calcolo biostatistico, Giuffrè, Milano 1989, p. 38). Dopo diversi anni, si è scoperto che in realtà si tratta di circostanze contingenti non legate all’ereditarietà. 28 Anche questo è stato un metodo poi abbandonato perché troppo labile, in quanto si basa unicamente sulle risposte positive o negative che il soggetto fornisce all’esaminatore. Del resto, come si noterà nei primi anni Cinquanta, «l’entusiasmo per la ricerca, per le applicazioni delle leggi sull’eredità dei gruppi sanguigni fin dal loro sorgere ed i notevoli risultati ottenuti spiegano, ma non giustificano l’abbandono di altri indirizzi» (Giorgio Benassi, Introduzione allo studio dei gruppi sanguigni. Con particolare riguardo alle applicazioni giudiziarie, Istituto Editoriale Medico, Bologna 1953, p. 80). 24 25

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Se nel corso del tempo la scienza farà importanti passi in avanti per stabilire il rapporto di filiazione, è però vero che il ricorso alla somiglianza fisica resiste ancora oggi. È infatti rimasta celebre l’esclamazione del giudice francese chiamato a pronunciarsi a fine anni Ottanta su una presunta paternità naturale di Yves Montand: di fronte alla giovane che sosteneva di essere figlia dell’attore, il magistrato esclamò «signorina, la sua faccia è una sentenza» (ma la scienza, come vedremo, lo smentirà clamorosamente). La somiglianza verrà chiamata in causa in un recente processo che ha avuto una grande eco internazionale. Mi riferisco alla vicenda della nigeriana Safiya Hussaini, condannata alla lapidazione per aver concepito un figlio al di fuori delle nozze: c’era anche un’altra eventualità, molto più temibile di un matrimonio forzato: Yacubu avrebbe anche potuto smentire tutto, negare ogni rapporto con me. La prova contraria era il mio ventre gonfio, ma su quel ventre non c’era il nome di Yacubu. Lui poteva uscirne pulito, dandomi della bugiarda29.

Dopo aver inizialmente ammesso di aver avuto rapporti con la donna, assicurando che si sarebbe preso cura di madre e figlio e l’avrebbe sposata, l’amante finisce per ritrattare tutto: Secondo la sua nuova versione dei fatti, non mi aveva mai conosciuta, [...] mentre io mi ero inventata tutto per incastrarlo e trovare un marito [...]. Il giudice a quel punto si rivolse di nuovo a Yacubu richiamando la sua attenzione, quindi, alzatosi in piedi, rivolto al pubblico disse: ‘non vi sembra che questa bambina sia la copia del padre, Yacubu, presente qui in aula?’. La speranza mi scaldò il cuore. [...] Dopo qualche minuto, lo chiamò per nome e gli chiese di guardare la bambina, poi tornò a formulare la domanda ‘confermi la deposizione che ho appena letto?’30.

Ovviamente, l’uomo la confermerà.

29 Safiya Hussaini Tungar Tudu (con Raffaele Masto), Io, Safiya, Sperling & Kupfer, Milano 2003, p. 110. 30 Ivi, pp. 114-15, 122-23.

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3. Padri esemplari tra scienza e non-scienza: Charlie Chaplin Il padre non conta niente! [...] Se ne può fare benissimo a meno, del padre! È un’invenzione moderna! Un’ipotesi di lavoro! Presa da una tragedia antica! Puro teatro! Solo un istinto che si è montato la testa! Una macchinetta mangiasoldi analitica! Una risorsa letteraria. È qualcosa di molto sopravvalutato, il padre! Un’equazione fra tante... un groviglio di incognite... trascurabile! Trascurabile! Ho forse un padre io? D. PENNAC,

Ultime notizie dalla famiglia

Man mano la scienza offrirà elementi sempre più probanti per risalire all’identità paterna, lungo un percorso che passerà poi per le analisi ematologiche, fino ad arrivare, come vedremo, al DNA. Un percorso, però, tutt’altro che facile: negli ordinamenti occidentali il diritto sarà a lungo ritroso a recepire tali novità. Il profondo scetticismo verso i ritrovati della scienza emerge chiaramente dalla vicenda processuale relativa ad una celebre attribuzione di paternità: negli Stati Uniti, il regista ed attore Charlie Chaplin si vede giudizialmente ascritta la paternità della piccola Carol Ann, nonostante le analisi ematologiche abbiano tassativamente escluso la compatibilità tra i loro gruppi sanguigni. Nei primi anni Quaranta, Chaplin conosce a Los Angeles Joan Barry, una bella ed espansiva ventiduenne31 che, ad ascoltare i suoi detrattori, deve insistere non poco affinché il già famoso attore-regista le ceda32. Quello che però è certo è che poco dopo Chaplin la pone sotto contratto con il suo studio33. La relazione professionale Nata a Detroit il 24 maggio 1919 con il nome Mary Louise, la futura Joan Barry non conobbe mai suo padre, Jim Gribble, un reduce traumatizzato della I guerra mondiale, che si suicidò poco prima della nascita della figlia. La madre sposò quindi un certo Barry e si trasferì a New York. 32 La ricostruzione dei fatti da parte di Chaplin e dei suoi legali vuole infatti Joan Barry sanguisuga dell’uomo, incolpevole vittima travolta dagli eventi. Nella sua autobiografia, però, egli scrive: «la signorina Barry era un bel donnone di 22 anni, ben fatta, con un paio di immensi cupoloni attaccati al busto e resi seducenti da un abito estivo dalla scollatura straordinariamente profonda che, durante il viaggio di ritorno, stuzzicarono la mia libidinosa curiosità» (Charles S. Chaplin, La mia vita, Rizzoli, Milano 1993, p. 496). 33 Il contratto tra la Barry e il Chaplin Studio aveva durata annuale, e prevedeva un compenso settimanale di 250 dollari, l’iscrizione alla scuola di recitazione di 31

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correrà dunque parallela a quella sentimentale, caratterizzata da un tristissimo schema: gravidanza della donna e diktat di Chaplin per farla abortire. I due si frequentano da non molto quando la Barry si accorge di essere incinta. La sua speranza è che Chaplin la sposi. Egli però le fa chiaramente capire di essere di tutt’altro avviso: le offre i necessari 800 dollari per andare a New York ad abortire34 (si ricordi che all’epoca la pratica era illegale). Dopo solo tre mesi, la giovane è però nuovamente incinta35, e il secondo aborto (anche questo lungamente rinviato) costituirà per lei un trauma maggiore del precedente, scatenandole un’aggressività disperata e molesta. La terza gravidanza, infine, si manifesta quando il rapporto sentimentale e professionale tra i due è ormai terminato. Formalmente per mutuo accordo, il contratto viene rescisso il 22 maggio 1942 con un mese e qualche giorno di anticipo. Chaplin si impegnò in quest’occasione a sanare i 5.000 dollari di debiti della ragazza, e a pagare il biglietto di ritorno per lei e la madre a New York (viaggio che però avvenne solo in ottobre). Nel giugno 1943, dopo aver inutilmente tentato di contattare Chaplin per informarlo delle sue condizioni, Joan comunica alla stampa di essere in attesa di un figlio dall’attore. «Poche ore dopo i Max Reinhardt, sedute dal dentista e così via, insomma il tipico accordo di chi intende investire in una nuova promessa (come Chaplin conferma nella sua autobiografia). 34 Joan effettivamente partì per New York, ma non si sottopose all’intervento, facendo infuriare l’attore quando lo seppe. La giovane avrebbe infatti voluto tenere il bambino, ma le insistenze e le minacce di lui la fecero capitolare. L’offerta di Chaplin, perfettamente consapevole di avere il coltello dalla parte del manico, è inaccettabile: Joan può tenere il bambino e lui pagherà per il suo mantenimento, a patto però che lei rinunci al contratto. Il giorno dopo Joan Barry va davvero ad abortire a San Francisco. È interessante notare come nella sua autobiografia Chaplin non accenni a nessun aborto della Barry, raccontando il viaggio a New York in tutt’altra chiave: «Scoprii che da parecchie settimane nessuno la vedeva alla scuola di Reinhardt. Quando la misi di fronte alle sue responsabilità, mi annunciò all’improvviso che non voleva fare l’attrice, e che se avessi pagato a lei e a sua madre il biglietto di ritorno a New York, oltre a un benservito di 5.000 dollari, avrebbe stracciato il contratto. Al punto in cui erano le cose aderii di buon grado alle sue richieste. Le pagai i biglietti e i 5.000 dollari, e fui ben lieto di levarmela dai piedi» (Chaplin, La mia vita, cit., p. 498). 35 Il precedente aborto non impedì alla relazione tra i due di proseguire. Joan racconterà di essersi recata dal ginecologo per la prescrizione del diaframma, che però Chaplin le proibiva di usare durante i loro rapporti.

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giornali inneggiavano di titoli. Mi avevano messo alla berlina, diffamato, spellato vivo»36. È l’inizio di quella che Chaplin nella sua autobiografia definirà una «storia paurosa e singolare». È l’apertura della vicenda che il procuratore di Los Angeles Eugene L. Trope definirà «una pietra miliare del fallimento della giustizia»37. Saranno due i procedimenti giudiziari che coinvolgeranno Chaplin. Il primo lo vedrà imputato il 10 febbraio 1944 per la violazione del Mann Act, una legge del 1910 contro la prostituzione. In base ad essa, infatti, era illegale far viaggiare una donna tra gli Stati dell’Unione giacché ciò sottintendeva scopi immorali. Nello specifico, l’accusa riguardava il viaggio del 5 ottobre 1942 da Los Angeles a New York, che Chaplin aveva pagato alla Barry dopo la rescissione del contratto. In aula egli negò ogni intento immorale nell’acquisto dei biglietti, come pure (posizione che manterrà fino all’ultimo) ogni intimità con la donna dopo il maggio 1942. La giuria impiegò circa tre ore e quattro successive votazioni per giungere alla decisione unanime di non colpevolezza. Il secondo procedimento, invece, aveva a oggetto l’accertamento della paternità di Carol Ann, nata nella notte del 2 ottobre 1943. L’azione per il riconoscimento di paternità era stata avviata dalla madre di Joan, Gertrude, in qualità di curatrice del nascituro, nello stesso giorno in cui la figlia informava la stampa della sua gravidanza38. In casi come questo, in cui la donna affermava e l’uomo negava, la legge californiana accordava il beneficio del dubbio alla prima e così la sola indicazione della donna che quell’uomo era il padre del nato, lo obbligava a provvedere al mantenimento di madre e figlio fino all’inizio del processo. Si rese dunque necessario un accordo economico tra le parti39, in occasione del quale la Barry accettò di sottoporre se stessa e la neonata ai test ematici, impegnandosi a che, laddove Ivi, p. 506. Iniziano così quelli che i biografi dell’attore indicano come ventiquattro mesi di incubo: David Robinson, Chaplin: His Life and Art, McGraw-Hill, New York 1985, p. 520; Kenneth S. Lynn, Charlie Chaplin and His Times, Simon & Schuster, New York 1997. 38 Veniva chiesto anche il risarcimento dei danni, valutati in 10.000 dollari per le spese di gravidanza, 2.500 dollari al mese e 5.000 di spese processuali. 39 Chaplin accettò di pagare 2.500 dollari in contanti e 100 a settimana per Joan, 500 nel mese prima della nascita, 1.000 dollari alla nascita e altri 500 al mese per i successivi quattro mesi. 36 37

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almeno due medici avessero escluso la paternità di Chaplin, l’azione sarebbe stata abbandonata. Nel febbraio 1944, dunque, campioni di sangue vennero prelevati dalla Barry, dalla piccola Carol Ann e da Chaplin, che scrive nella sua autobiografia: «più tardi mi telefonò l’avvocato, con voce vibrante: ‘Charlie, sei a posto! L’esame del sangue prova che tu non puoi essere il padre!’»40. I risultati infatti erano inequivocabili: l’attore non poteva essere il padre della bambina, giacché dall’unione tra il sangue 0 (Chaplin) e A (Barry) non può nascere un bimbo con sangue B (Carol Ann). La notizia suscitò grande clamore, e la vicenda sembrava conclusa. Ma i risultati di questi test non erano all’epoca previsti dalla legge californiana nei procedimenti per l’accertamento della paternità. Nessuna anomalia giuridica dunque, quando il giudice Stanley Mosk, pur essendo a conoscenza degli esiti delle analisi, instaurò il processo per il dicembre 194441. L’accordo sottoscritto in caso di risultato negativo delle analisi fu presto superato: la tutela della piccola fu tolta alla nonna e assegnata direttamente alla corte. L’apertura avvenne il 13 di quel mese. Chaplin non era affatto preoccupato: i risultati del test assicuravano un esito positivo. Davanti a una giuria di sette donne e cinque uomini, la Barry e Chaplin ribadirono le proprie posizioni. Gli avvocati dell’attore-regista misero in piazza i più intimi particolari della vita della donna per screditarla. L’accusa non fu da meno. Nell’arringa finale il procuratore Joseph Scott, invitando la giuria a confrontare le fattezze dell’attore con la piccola Carol Ann ormai di 14 mesi, che se ne stava in braccio alla madre, lanciò un appello accorato: «nessuno è stato in grado di fermare Chaplin nella sua condotta lasciva in tutti questi anni – tranne voi. Mogli e madri di tutto il paese vi guardano sperando di vedervi bloccarlo in questa condotta. Dormirete bene dopo aver dato un nome a questa bambina». Dopo 4 ore e 40 minuti di camera di consiglio, la giuria non riuscì a raggiungere un verdetto (7 voti contro 5 per l’assoluzione). Fu dunque necessario instaurare un giudizio di seconda istanza, che durò dal 4 al 17 aprile 1944 dinanzi a una giuria di undici donne e un uomo. Questa volta una decisione vi fu: Chaplin, La mia vita, cit., p. 510. Solo nel 1953 la California introdusse una legge per vietare la prosecuzione di giudizi per la paternità laddove i test avessero escluso la paternità dell’accusato. 40 41

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la sentenza statuì che Carol Ann era figlia naturale di Chaplin, che ne dovesse portare il cognome e ricevere settimanalmente 75 dollari (da incrementare all’aumento dei suoi bisogni) fino all’età di 21 anni42. È vero che all’epoca solo dieci Stati, tra cui non v’era la California, ammettevano il test del sangue per escludere la paternità, ma è anche vero che le analisi del sangue furono completamente ignorate. Come risultato di una serrata campagna che lo additò quale pericoloso corruttore della moralità, la giuria si pronunciò per la condanna: pur non essendo biologicamente il padre della bambina, avrebbe potuto esserlo moralmente, e questo bastò per attribuirgli la paternità di Carol Ann43. La vicenda ebbe eco anche in Italia. Fra gli altri commenti, «La Domenica del Popolo» dedica quasi una pagina intera a Charlot tra mogli e fidanzate: l’articolo di Italo Dragossi è estremamente critico verso il «volubile» Chaplin che ha al suo attivo cinque mogli e tre lunghi fidanzamenti44. Sette foto, dalla prima fidanzata Edna Purviance a Joan Barry con in braccio la figlia, completano eloquentemente il ritratto. Non si trattò però, come scrisse Dragossi, di «un processo trascurabile dal punto di vista giuridico, [...] ma importantissimo per la fama goduta dal suo protagonista, il signor Charles Spencer Chaplin, vale a dire Charlot». Fu, invece, una delle ultime cause in cui la scienza capitolò dinanzi al diritto e al sentire sociale, una tappa, ben presto superata, della vicenda che stiamo analizzando.

42 Un anno dopo Joan Barry si sposò ed ebbe altri due figli, prima di separarsi. Nel 1953 venne trovata in stato confusionale a Torrance (California), quindi ricoverata all’ospedale di Patton. 43 Cfr. Sheila Jasanoff, La scienza davanti ai giudici, Giuffrè, Milano 2001, p. 27. Chaplin nella sua autobiografia, dopo aver dedicato pagine e pagine alla descrizione del primo processo, liquidò il secondo in poche righe: «Poi tornò a profilarsi lo spettro della causa per il riconoscimento di paternità che io credevo definitivamente allontanato dall’esito dell’esame del sangue. [...] Nel primo processo i giurati non si misero d’accordo, con profonda delusione del mio avvocato che credeva di aver vinto la causa. Ma nel secondo, nonostante l’esame del sangue, che da allora per la legge dello stato californiano fa prova definitiva in ogni causa per l’accertamento della paternità, il verdetto mi fu contrario» (ivi, p. 518). 44 «Chi conosce la volubilità di Charlot in fatto di donne è indotto a dar ragione a Joan Barry; essa non costituisce la prima avventura amorosa del celebre attore e non sarà certo l’ultima» (Italo Dragossi, Charlot tra mogli e fidanzate, in «La Domenica del Popolo», I, 1945, 7, p. 6).

7 TIMIDI BARLUMI DI SANGUE

1. Il sangue alla sbarra Eravamo corse a vedere Alida Valli in Ore 9 lezione di chimica e alla bambina era tanto piaciuto. Qualche sera dopo me la sono vista riversa sul letto con accanto le sue forbici-giocattolo rosse. Mi sono spaventata, ma poi ho capito. Stava recitando a modo suo la scena della trasfusione che nel film salva la collegiale in pericolo. L. LEVI,

L’amore mio non può

Il sangue da sempre ha affascinato l’umanità, in una storia che intreccia aspetti scientifici, sociali, religiosi e giuridici1. Al fondo di tale interesse vi era l’equazione tra sangue e vita, nella convinzione che in esso risiedesse l’energia primaria dell’individuo. Il sangue è così entrato nel linguaggio quotidiano come sinonimo di stirpe, di appartenenza a una determinata famiglia, razza o nazionalità. Se per secoli le sue proprietà sono rimaste ignote, con il progresso delle scoperte scientifiche ne sono stati gradualmente rivelati le caratteristiche e i meccanismi. Il secolo XVII è stato decisivo. Nel 1628, infatti, l’inglese William Harvey ne ha descritto la circolazione, dimostrando per primo che il sangue scorre per tutto il corpo in una sola direzione, partendo dal cuore e percorrendo le arterie per tornare quindi al cuore tramite le vene. Pochi decenni dopo, nel 1667, il francese Jean-Baptiste Denis ha praticato la prima trasfusione nell’uomo con sangue animale. Dopo due interventi eseguiti con 1 Cfr. Douglas Starr, Blood: An Epic History of Medicine and Commerce, Knopf, New York 1998.

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successo2, la morte del terzo paziente (benché avvenuta per altri motivi3) determinò in Francia nel 1675 la proibizione delle trasfusioni. Il divieto venne poi sancito in Inghilterra, Germania e Italia, anche perché la pratica veniva avvertita come una minaccia alla nozione stessa di persona. Solo a partire dagli anni Venti dell’Ottocento si cominciò a praticare trasfusioni con sangue umano. Il ricorso alle indagini ematologiche come strumento di prova si rese possibile, all’inizio del Novecento, con l’individuazione dei gruppi sanguigni ad opera del giovane biologo dell’Università di Vienna Karl Landsteiner. Dopo la scoperta di fine Ottocento che le leggi di Mendel erano applicabili anche al sangue umano, egli si accorse che il sangue reagiva agglutinandosi secondo uno schema costante che permetteva di individuare tre gruppi, poi descritti nel 1901 nella quadripartizione A, B, 0, AB. Landsteiner fu da subito consapevole dell’importanza della scoperta tanto in ambito clinico (permetteva tra2 Il 15 giugno 1667 Jean-Baptiste Denis (1640-1704) eseguì una trasfusione di sangue in un ragazzo che, afflitto da una febbre ostinata per oltre 2 mesi, aveva perso quasi del tutto la memoria ed era in preda a un terribile sopore. Dopo che gli furono trasfuse 3 once di sangue di agnello (prelevato da un’arteria messa in comunicazione con i suoi sistemi vascolari tramite una semplice cannula rigida d’argento), il malato – nel racconto di Denis – apparve stare molto meglio (ritenendosi a quel tempo che i vasi sanguigni fossero dei tubi inflessibili, incapaci di restringersi o dilatarsi, prima o durante la trasfusione si praticava un salasso al paziente per far posto al nuovo sangue). Il successo della trasfusione incoraggiò Denis a fare un secondo esperimento con un uomo sano e robusto di circa 45 anni che, in cambio di una somma modesta di denaro (così precisa Denis), si offrì di sottoporsi all’intervento. Fu di nuovo un successo, anche se qualcuno racconta che non si poté impedire all’uomo di vestirsi con la pelle dell’agnello dal quale aveva ricevuto il sangue, spia di una preoccupazione importante. 3 Probabilmente per mettere fine alle tante dispute, Denis accettò di eseguire la trasfusione in un pazzo, un certo Maunoir, scegliendo questa volta di trasfondere sangue di vitello, che avrebbe dovuto avere un effetto calmante sul paziente. Dopo la prima trasfusione, il braccio dell’uomo divenne caldo, il polso frequente, la fronte sudata, l’urina scura. Egli lamentava inoltre dolore ai reni e allo stomaco: è, probabilmente, la prima descrizione dei sintomi di una reazione trasfusionale emolitica. Alla terza trasfusione, il paziente morì. In realtà ciò non avvenne a causa della trasfusione, ma perché la moglie del pazzo (comprata dai medici della facoltà di Parigi) aveva avvelenato il marito con l’arsenico, per poi (sempre su loro istigazione) denunciare Denis per omicidio. Anche se la corte di Châtelet ammise l’incolpabilità del chirurgo, assolvendolo, un decreto del 17 aprile 1668 proibì negli stati di Francia le trasfusioni non espressamente autorizzate dalla facoltà medica di Parigi, condizione che equivaleva a proibirla senza eccezione. Di lì a poco la proibizione venne sancita formalmente dal Parlamento.

7. Timidi barlumi di sangue

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sfusioni sicure) che medico-legale, risultando utile per le indagini di polizia e nella ricerca della paternità. La comunità scientifica, invece, inizialmente rifiutò i suoi risultati. Solo dopo il trasferimento di Landsteiner negli Stati Uniti, nel 1922, la scoperta otterrà il credito che meritava, e il suo autore nel 1930, ormai cittadino americano, vincerà il premio Nobel per la medicina. Gli studi si svilupperanno presto anche in Italia, dove nel 1923 Leone Lattes pubblicò un libro destinato ad avere successo, L’individualità del sangue4. La monografia, che trattava sistematicamente una materia ancora in fieri, venne tradotta in tedesco (1925), francese (1929) e inglese (1932), rendendo famoso il suo autore a livello internazionale5. L’individuazione dei gruppi sanguigni rappresentò dunque uno snodo cruciale: la paternità si avviava a diventare scientificamente individuabile. L’impatto della scoperta fu notevole, se già negli anni Cinquanta il giurista Angelo Vincenti esprimeva la sua nostalgia per «la quiete profonda di quei tempi, in cui l’ignoranza rendeva più mansueti i diseredati ed il mistero che avvolgeva certe questioni giustificava la noncuranza dei governanti»6. Un oblio che, forse, ancora oggi si rimpiange!

Dopo la prima edizione del 1923, il volume venne ripubblicato in una versione aggiornata solo nel 1934, presso i Fratelli Treves di Milano, nella collana «Monografie e Trattati di Biologia e di Medicina» diretta dal professor Carlo Foà. Nel frattempo vi erano state nuove edizioni all’estero (per cui quella del 1934 è la seconda italiana, e la quinta in assoluto). L’edizione tedesca, curata da J. Sprinter nel 1925, contribuì «non poco a stimolare l’interesse dei numerosissimi ricercatori che negli anni successivi aumentarono grandemente la mole delle pubblicazioni delle quali io tenni conto nelle edizioni successive» (Leone Lattes, L’individualità del sangue. Nella biologia, nella clinica e nella medicina legale, Treves, Milano 19342, p. V). Nel 1932 vi fu l’edizione inglese, da cui la seconda italiana deriva. 5 Torinese di nascita (1887) Lattes, dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale come ufficiale medico addetto ai servizi di osservazione neuropsichiatrica, nel 1938 fu costretto a lasciare la città a causa delle leggi razziali. Fuggito in Argentina, tornerà in Italia solo a Liberazione avvenuta, dove morì nel 1954. Scienziato prolifico e dagli interessi estesi (in giovane età si era occupato di morfologia cerebrale nei normali e nei delinquenti, nonché di mancinismo in relazione alle asimmetrie funzionali del cervello), Lattes, che all’epoca della pubblicazione dell’Individualità del sangue insegnava all’Università di Messina, era considerato uno dei massimi esperti di medicina legale. 6 Angelo Vincenti, La ricerca della paternità e i gruppi sanguigni nel diritto civile e canonico, Carlo Cya, Firenze 1955, p. 2. 4

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Uno dei primi paesi ad avvalersi della prova ematologica fu la Germania, dove a fine anni Venti erano numerosi i processi per il riconoscimento di paternità7. I giudici ricorrevano agli ematologi anche in uno stadio iniziale del processo, segno della rilevanza che veniva riconosciuta a questo metodo. Già nel 1930 la Corte Suprema tedesca in due sentenze (rispettivamente del 4 aprile e 22 settembre) affermerà che è possibile escludere la paternità fondandosi unicamente sulla prova del sangue. Se anche è vero che il contesto tedesco era più favorevole alla individuazione della paternità (non vigendo il divieto), la Germania anticipa notevolmente ciò che in Italia avverrà solo anni dopo. Questo orientamento si diffuse presto in altri paesi europei, come Austria, Scandinavia e Unione Sovietica, dove alla fine del 1926 una circolare ufficiale (revocando un precedente divieto) ammise tale modalità nel novero delle prove. In Belgio, ci si avvalse per la prima volta di queste indagini nel dicembre 1930, durante un processo a un uomo accusato di essere padre di un bambino partorito da una sedicenne. Sebbene le analisi del sangue non fossero state ritenute in grado di fornire assoluta certezza, integrate da altri elementi portarono alla condanna dell’uomo a tre anni di prigione. Quanto all’Italia, intorno agli anni Venti la maggioranza degli scienziati aveva ancora un atteggiamento prudente, sostanzialmente in linea con la cautela dei tribunali. L’idea condivisa era infatti che il loro valore potesse essere solo residuale. Ben presto, però, le posizioni si divaricarono. E così, se alla fine degli anni Trenta la dottrina sosteneva che si sarebbe dovuto parlare non di ricerca della paternità, ma di ricerca di esclusione della paternità, gli scienziati erano invece dell’avviso che le analisi ematologiche fossero in grado di costituire una prova in positivo. Gli elementi di contestazione saranno soprattutto due: da un lato si denunciava il formalismo e l’eccessiva ritrosia del giudice anche solo a contestualizzare gli elementi a disposizione, onde attribuire risultanze positive alle prove biologiche8; dall’altro si accusava di pretendere, in tema di paternità, una certezza assoluta, e co5.000 nel 1929, di cui circa la metà nella sola Berlino; 1.500 in Austria, con «il numero di casi [che] va continuamente crescendo di mese in mese ed è probabile che crescerà ancor più in un prossimo futuro» (Lattes, L’individualità del sangue, cit., p. 225). 8 «Con l’individuazione di sempre più numerosi sottogruppi sanguigni», infat7

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munque maggiore di quanto avveniva in altri ambiti. Se ancora nel 1954 l’illustre medico legale Tiziano G. Formaggio sottolineava che poche acquisizioni biologiche presentavano la solidità delle conoscenze sui gruppi sanguigni e che pochi giudizi umani potevano essere formulati con altrettanta certezza9, Guido Camarda aggiungeva che era eccessivo pretendere dal dato biologico una certezza matematica, di fronte alla relatività di ogni giudizio umano. Non solo, ma rimproverava ai giudici di dare «valore di prova sicura alle deposizioni testimoniali e alle prove indiziarie e indirette» e di restare invece «perplessi e dubbiosi» quando il biologo esprimeva un giudizio la cui probabilità era «di 1 su 40.000!»10. Singolarità del nostro paese, inizialmente una posizione favorevole alle indicazioni ematiche venne sollecitata dall’alto. A partire dalla fine degli anni Venti infatti, l’atteggiamento fortemente dubbioso rispetto a questa prova appariva antipatriottico. Da un lato, tutto ciò che, senza minacciare la famiglia, aiutava a risolvere il problema dell’illegittimità veniva letto alla luce dello «spirito dei tempi nuovi che esalta l’espansione demografica e vuol potenziare al massimo la protezione della maternità e dell’infanzia». D’altro canto, entrava in gioco l’orgoglio per l’«alto valore» del contributo italiano allo studio dei gruppi sanguigni e allo sviluppo delle conoscenze sul complesso problema della trasmissione ereditaria. I nomi dei professori Lattes, Schiff, Cuboni, Mino, Dogliotti andavano infatti acquistando «larga e meritata notorietà anche all’estero fra quelli dei maggiori studiosi dell’argomento»11. Forti di questo orgoglio, gli scienziati non esitarono a criticare apertamente i giudici pavidi che ancora dubitavano. In particolare, ti, «la prova in questione, in alcuni casi, può avere un ruolo decisivo, oltre che per l’esclusione anche per l’accertamento della paternità. Si pensi all’ipotesi in cui, sulla base di prove d’altra natura, si è pervenuti alla conclusione che soltanto due possono essere i padri possibili. A questo punto, se l’esame delle caratteristiche gruppali di uno dei due indiziati porta alla esclusione della sua paternità, un esito di possibilità dell’indagine gruppologica sull’altro, equivarrà all’accertamento sicuro della paternità» (Guido Camarda, Rapporto di filiazione e prova ematologica, Scuola tipografica salesiana, Palermo 1964, pp. 6-7). 9 Tiziano G. Formaggio, Annullamento del matrimonio per impotenza e legittimità della prole, in «Rivista di Diritto matrimoniale», 1954, pp. 208-209. 10 Camarda, Rapporto di filiazione, cit., p. 14. 11 Mario Tedeschi, La prova del sangue nelle controversie sulla paternità, in «Giurisprudenza italiana», 1931, I, c. 685.

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ebbe vasta risonanza la relazione del professor Carlo Foà dell’Università di Milano al congresso della Società italiana per il progresso delle scienze svoltosi a Bolzano nel settembre 193012. Nel suo intervento, dal titolo Aspetti biologici del problema demografico, egli criticò apertamente la scelta di affidare al magistrato un giudizio che sarebbe stato meglio demandare a un perito coscienzioso e competente13. Questa ritrosia venne registrata non solo a livello di giurisprudenza: la si coglieva e la si criticava anche nelle indicazioni del legislatore, cosicché man mano che la scienza forniva risultati più certi, il generale divieto di ricerca della paternità veniva sempre più contestato. La critica investirà anche il codice civile del 1942, perché la sua lettura «dà l’impressione che la fiducia del Legislatore Italiano nella prova biologica sia tuttora relativa»14. Inutilmente, dunque, gli esperti sostenevano l’importanza eccezionale della prova del sangue «che nessuna altra prova può sostituire, quando essa è diretta a chiarire la ben nota exceptio plurium concubentium. Se la coabitazione con vari uomini durante il tempo del concepimento è provata, la paternità può essere dimostrata soltanto mediante prove biologiche»15. Un elemento interessante sul piano del sentire comune è fornito da un’osservazione di Lattes, che ammonisce circa gli effetti di tali ritrovati sui comportamenti sociali:

12 La prima riunione della società si era svolta a Pisa nell’autunno 1839 (celebri i versi di Giusti: «Di sì nobile congresso / Si rallegra con sé stesso / Tutto l’uman genere»). Sebbene l’ostilità dei vari governi ostacolasse l’attività della società, il succedersi dei congressi creò comunque una solidarietà fra gli studiosi che anticipò, per certi versi, quella politica. Nel 1875, a Palermo, si decise di consentire anche alle donne di entrare nella società. 13 Cfr. Carlo Foà, Aspetti biologici del problema demografico, in Lucio Silla (a cura di), Atti della Società italiana per il progresso delle scienze. XIX Riunione: Bolzano-Trento, 7-15 settembre 1930, SISP, Roma 1931, p. 42. 14 Interessante la spiegazione: «ispirandosi al giusto principio che la santità della famiglia dev’essere garantita contro ogni attentato. [...] il problema degli illegittimi è ancora di estrema gravità». Il grave è che «anche tra i medici questo genere di ricerche sono sovente guardate con una certa malcelata diffidenza», nonostante che «il Biologo [abbia] la sicura coscienza di poter assai sovente fare recise affermazioni attendibili per la Giustizia e spesso perfettamente risolutive» (Folco Domenici, Gruppi sanguigni e ricerca della paternità, Gentile, Milano 1946, pp. 17-18). 15 Lattes, L’individualità del sangue, cit., p. 223.

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il fatto solo che il pubblico sappia che tale indagine esista, e può condurre ad un risultato decisivo [...], dovrebbe senza dubbio valere a introdurre, nelle rivendicazioni di filiazione e nelle colpevoli relazioni adulterine, una maggior prudenza, un maggior senso di responsabilità famigliare e sociale16.

In una prima fase, dunque, i tribunali italiani accettano le analisi ematologiche solo in negativo, per escludere un rapporto di filiazione17. E così sarà frequente il loro utilizzo nei disconoscimenti di paternità. Un caso degli anni Trenta è particolarmente significativo per il diverso modo in cui i giudici di merito e la Cassazione valutano la richiesta di ammettere come prova le indagini ematologiche. Nel rivolgersi al tribunale perché accerti che la piccola Iolanda Schanfeld non è sua figlia, il Troiani indica gli elementi che suffragherebbero l’azione: i caratteri somatici ed «etnici» dissimili tra lui e la bambina, la diversità dei loro gruppi sanguigni e il fatto che Iolanda sia affetta da paralisi infantile, considerata allora una patologia ereditaria. La corte di merito respinge tutte le obiezioni18, e rigetta la richiesta dell’uomo di effettuare le analisi sul sangue, con la motivazione che i procedimenti sono ancora imperfetti e i risultati non certi. Proprio e solo su quest’ultimo punto la Cassazione si dissocerà dall’analisi dei giudici di merito: «non sembra invero giustificata questa diffidenza verso il nuovo metodo diagnostico dell’identità individuale» che ormai (specialmente per merito della giovane scuola modenese di medicina legale) ha raggiunto «un notevole grado di perfezione». E così, oltre alla «geniale teorica del Landsteiner», la sentenza cita «i Id., Aspetti biologici della ricerca della paternità, Università degli Studi, Modena 1927, p. 45. 17 Così, ad esempio, nel 1931 la Cassazione afferma che «gli studi e le ricerche eseguiti in questi ultimi tempi» non dimostrano elementi sicuri per l’affermazione di un dato rapporto di filiazione attraverso i gruppi sanguigni, ma hanno indiscutibile valore probatorio solo per escluderlo «quando il gruppo sanguigno del figlio non si armonizza, secondo un determinato schema, con quello di un supposto genitore» (Cassazione, 13 febbraio 1931, in «Il Foro italiano», 1931, c. 83). 18 I giudici valutarono come priva di fondamento la diversità di caratteri etnici tra il presunto padre e la figlia, così come la presenza in Iolanda di una malattia ereditaria non riscontrabile nei genitori, in virtù del fatto che (secondo la corte) l’atavismo non segue la tradizione del primo ascendente, ma è saltuaria sia nel risalire ai progenitori come ai collaterali. 16

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pazienti ed accorti perfezionamenti dovuti al Lattes, allo Schiff e al Cuboni». Non manca quindi il richiamo ai «numerosi tribunali stranieri» che «anche recentemente [...] hanno riconosciuto l’attendibilità scientifica di questo metodo diagnostico e l’utilità delle sue applicazioni nel campo giuridico»19. Insomma, concludono i giudici, se anche i gruppi sanguigni non offrono ancora elementi sicuri per confermare un rapporto di filiazione, possono però decisamente escluderlo quando il gruppo sanguigno del figlio non è compatibile con quello del presunto genitore. Entusiaste furono le reazioni a questa pronuncia, «vivamente attesa negli ambienti medico-legali», giacché la corte si era addentrata «con rigore di dottrina in uno dei problemi biologici della maggiore attualità e della più alta importanza nelle sue conseguenze sociali»20.

2. Ultimi tentativi di difendere il padre Il parto era andato bene, nessuna complicazione per la madre e il neonato. Era filato tutto liscio, solo quel grido [...] emesso come un gigantesco vagito dalla bocca del bambino l’aveva lasciata perplessa; [...] Angela provava a cercare nella sua lunga memoria di levatrice qualche altro caso analogo. Ma non gliene venne in mente nessuno [...]. Quello era un figlio illegittimo però, il primo della sua carriera, il primo su cui l’avevano pregata di mantenere il più assoluto riserbo. Non doveva nemmeno dichiararne la nascita: forse quel grido veniva proprio dalla sua esistenza negata. [...] Un figlio illegittimo, una donna non maritata. Storia grossa e delicata, commentò Libero. Un bell’attacco alla morale borghese [...]. Le rivoluzioni cominciano anche così. [...] Qualcuno ha partorito e non sappiamo chi. [...] Non sappiamo chi sia la madre, chi sia il figlio e tantomeno il padre. [...] Bella sorveglianza. Se tanto mi dà tanto potrebbe esserci in atto una controrivoluzione del Capitale con tanto di liste e nomi di camerati da far spavento e noi lo verremmo a sapere una volta dentro. N. ORENGO,

La curva del Latte

La fase in cui il sangue servì solo per escludere la paternità fu tutt’altro che breve, estendendosi fino a tutti gli anni Settanta. An19 20

Cassazione, 17 marzo 1931, in «Giurisprudenza italiana», 1931, I, c. 691. Tedeschi, La prova del sangue, cit., c. 681.

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che la realtà sociale, peraltro, manifestò un forte scetticismo, dovendo fare i conti con la pericolosa evidenza a cui le analisi ematologiche conducevano. Persino quando si raggiunsero elevati livelli di certezza – grazie alla scoperta nel 1940 del sistema Rh (sempre ad opera di Landsteiner, questa volta in collaborazione con Alexander S. Wiener) e poi del sistema HLA (human leukocyte antigens, usato per valutare la compatibilità nei trapianti)21 – molto lenta fu la ricezione da parte dei tribunali. Si verificò così un tentativo di relegare queste analisi, per quanto possibile, in secondo piano, ammettendole solo laddove rappresentassero l’unico elemento di prova in base al quale poter decidere nel caso concreto22, «l’extrema ratio [...] dopo l’espletamento di ogni altro mezzo istruttorio»23. Ancora a metà degli anni Sessanta, si stabiliva di ricorrervi «solamente quando non sia possibile attingere aliunde decisivi mezzi di convincimento»24. Qualche voce critica si levò dalla dottrina. Ribaltando il ragionamento, si sostenne che l’esame dei gruppi sanguigni doveva essere considerato prova indispensabile nell’accertamento della paternità giacché costituiva «allo stato attuale della scienza l’unica prova sicura»25. L’atteggiamento iperprudente emerge anche sotto un altro profilo. Nel ribadire che l’esame del sangue debba costituire un mezzo di prova residuale, ci si basa sul grave danno che esso arrecherebbe a chi vi si sottopone, trattandosi di indagini sul proprio corpo26. Anche se è chiaramente eccessivo parlare di danno per il prelievo di poche gocce di sangue27, la tesi viene accolta dalla giurisprudenza dominante. Lo scetticismo verso le analisi non investe più il grado di Nei decenni successivi verranno utilizzati anche test statistici di probabilità. Così, ad esempio, la Cassazione: «rettamente il giudice di merito nega l’ammissione dell’esame dei gruppi sanguigni invocato dal preteso padre per escludere la propria paternità, qualora questa risulti invece provata dalla violenza carnale consumata nel tempo del concepimento» (Cassazione, 30 maggio 1951, n. 1375, in «Il Foro italiano», 1951, I, c. 1182; «Raccolta completa della Giurisprudenza della Cassazione civile», 1951, III, p. 49 con nota di Brunetti). 23 Cassazione, 28 settembre 1957, n. 3537, in «Giustizia civile», 1957, p. 2080. 24 Corte d’Appello Trieste, 13 gennaio 1964, ivi, 1964, I, p. 683. 25 Gastone Cottino, Ricerca della paternità, prova contraria del presunto padre ed esame dei gruppi sanguigni, in «Il Foro padano», 1949, I, p. 651. 26 Cassazione, 20 febbraio 1958, n. 527, in «Giustizia civile», 1958, p. 636. 27 Cfr. Camarda, Rapporto di filiazione, cit., p. 13. 21 22

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incertezza che esse presentano28, quanto piuttosto la loro presunta invasività. In realtà questo atteggiamento è motivato dal timore delle conseguenze che tali analisi possono produrre. Si converge nel ribadire che sono ammesse solo ed esclusivamente laddove «appaiano indispensabili per conoscere i fatti della causa»29 (a parte il riferimento all’art. 118 c.p.c.30), e ciò risulta davvero una delle ultime difese possibili per i poveri padri. Il requisito della indispensabilità appare, cioè, la richiesta di un sistema che intende scoraggiare il ricorso ad un mezzo di prova particolarmente minaccioso e delicato31. Dottrina e giurisprudenza concordano, tuttavia, sulla possibilità di disporre anche d’ufficio l’indagine ematologica32. Se nessuno ravvisa alcun contrasto con il principio dell’inviolabilità della libertà personale garantito dall’art. 13 Cost., il dato importante è che il tribunale, prima di disporre l’analisi, ne valuti implicazioni e rischi (nonché il rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 118 c.p.c.). Del resto, non va dimenticato che essa si trovi utilizzata non solo in caso di nascita in assenza di nozze, ma anche per contestare una presunta nascita legittima all’interno della famiglia33. 28 La convinzione (poi sconfessata) è che «la prova ematologica non potrà mai essere considerata, anche per l’estrema [...] difficoltà dell’indagine relativa, come un mezzo ordinario di prova rispetto al quale debba valere soltanto il criterio della astratta concludenza» (Cassazione, 20 febbraio 1958, n. 527, cit., p. 636). 29 Ibid. I giudici plaudono al ragionamento della corte d’appello che «ha espresso l’avviso che dalle dichiarazioni scritte dell’E. risultasse nel modo più chiaro che costui, oltre a confessarsi autore della gravidanza della L. aveva espresso il proposito di riconoscere il nascituro, mostrandosi preoccupato di esso e della madre. Manifestando così la propria certezza sulla prova della paternità fornita da quelle lettere, la sentenza denunziata ha implicitamente ritenuto che nell’esercizio del potere discrezionale attribuito dalla legge al giudice del merito l’indagine tecnica, la quale avrebbe dovuto dissipare eventuali dubbi sul valore degli scritti, fosse del tutto superflua» (ibid.). 30 «Il giudice può ordinare alle parti e ai terzi di consentire sulla loro persona o sulle cose di loro possesso le ispezioni che appaiono indispensabili per conoscere i fatti della causa, purché ciò possa compiersi senza grave danno per la parte o per il terzo, e senza costringerli a violare uno dei segreti previsti negli artt. 351 e 352 del codice di procedura penale» (art. 118, comma 1, c.p.c.). 31 Cfr. in questo senso Cassazione, 30 maggio 1951, n. 1375, cit. 32 Cfr. Cottino, Ricerca della paternità, cit.; Corte d’Appello Napoli, 12 gennaio 1957, n. 10, in «Il Foro napoletano», 1957, p. 51. 33 Le analisi ematologiche, cioè, vengono chiamate in causa anche per escludere un rapporto di filiazione fondato sulle dichiarazioni dei testimoni, in mancanza di atto di nascita del figlio, di possesso di stato o quando il figlio fu iscritto sotto

7. Timidi barlumi di sangue

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In breve, l’evidenza di questa nuova inconfutabile prova è percepita come qualcosa di talmente minaccioso che il diritto deve necessariamente assumere una posizione guardinga. Quell’apertura giurisprudenziale che avevamo registrato nella parte precedente del nostro lavoro, sembra ormai essersi smarrita.

3. Padri di sangue: Claudio Villa e i suoi «fratelli» Dopo tutto, non vi sono figli illegittimi, ma solo genitori illegittimi. A. BURGESS

La nascita al di fuori del matrimonio e la paternità illegittima sono al centro di un gran numero di romanzi, racconti e testi teatrali di ogni epoca e paese34. Ne sono prova i due recenti bestseller dello scrittore afgano Khaled Hosseini: Mi vergogno delle menzogne che per tanti anni ti abbiamo raccontato. Avevi ragione a essere infuriato. Avevi il diritto di sapere. Anche Hassan. Il fatto che la Kabul in cui vivevamo allora fosse uno strano mondo dove l’apparenza era più importante della verità non assolve nessuno dai suoi peccati [...]. Tuo padre era un uomo diviso, fra te e Hassan. Vi amava entrambi, ma non poteva amare. [...] Così ti ha fatto diventare un capro espiatorio: Amir, la metà socialmente legittima, la metà cui sarebbe-

falsi nomi o come nato da genitori ignoti, ovvero in caso di contestazione di legittimità basata sulla supposizione di parto o sostituzione di neonato. In simili circostanze, «è ammessa la prova testimoniale nei limiti e secondo le regole dell’art. 241 c.c. che stabilisce che i testi possono essere ammessi quando vi sia un principio di prova per iscritto ovvero in presenza di indizi abbastanza gravi. Orbene, l’esame delle caratteristiche gruppali del figlio e di coloro che si afferma non esser i genitori potrà costituire quell’indizio» (Camarda, Rapporto di filiazione, cit., p. 7). 34 Prescindendo da quelli che abbiamo incontrato finora, pensiamo a La certosa di Parma (1838) del francese Stendhal, La lettera scarlatta (1850) dello statunitense Nathaniel Hawthorne, Un delitto (1935) del francese Georges Bernanos, Jezabel (1936) della franco-russa Irène Némirovsky, Le braci (1942) dell’ungherese Sándor Márai, Le regole della casa del sidro (1985) dell’americano John Irving, Per amore di una donna (1994) dell’israeliano Meir Shalev, o ai racconti Figlio di nessuno (1932) dell’inglese Richard Aldington o Soffi di vento sul Vietnam (2004) del vietnamita Nguyêñ Huy Thiê.p. Si tratta, com’è evidente, di una grande varietà culturale e temporale.

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ro andate le ricchezze che aveva ereditato con i privilegi che ne derivavano, compresa l’impunità dal peccato, in te vedeva se stesso35; Non conosceva il significato della parola harami, bastardo. E non era abbastanza grande per rendersi conto dell’ingiustizia, per capire che la colpa era di chi aveva messo al mondo l’harami, non dell’harami stesso, il cui solo peccato era di essere nato. [...] Crescendo, Mariam aveva capito. Era il modo in cui Nana proferiva la parola – sputandogliela in faccia – che l’offendeva nel profondo. [...] un harami era qualcosa di indesiderato: lei, Mariam, era una figlia illegittima che mai avrebbe potuto rivendicare di diritto le cose che gli altri possedevano, come l’amore, la famiglia, la casa, l’essere accettata36.

Si tratta di un fenomeno diffuso nelle sue innumerevoli articolazioni, come confermano tante biografie, da Leonardo da Vinci a Alessandro Manzoni; da Peppa la Cannoniera (al secolo Giuseppa Calcagno), eroina del nostro Risorgimento («frutto degli illeciti amori di un tal Antonino Mazzeo, sensale di agrumi»37), ai fratelli De Filippo (Eduardo, Peppino e Titina nacquero dalla relazione di Luisa De Filippo con Eduardo Scarpetta, celebre attore e autore di commedie; erano definiti «figli del bottone» in quanto la madre era la sarta della compagnia teatrale38); e ancora, Anna Magnani, la scrittrice Dolores 35 Khaled Hosseini, Il cacciatore di aquiloni, Piemme, Casale Monferrato 2004, pp. 318-19. 36 Id., Mille splendidi soli, Piemme, Casale Monferrato 2007. Si veda anche: «Asya scoprì il significato di quella parola [...] poco prima del suo nono compleanno, quando a scuola un bambino la chiamò bastarda. A dieci anni, invece, scoprì che al contrario delle sue compagne di scuola, lei non aveva in casa alcun modello di riferimento maschile. Le sarebbero occorsi altri tre anni per comprenderne i possibili effetti a lungo termine sulla sua personalità. In occasione del quattordicesimo, quindicesimo, sedicesimo compleanno, scoprì [...] nuove verità sulla sua vita: le altre famiglie non erano come la sua e certe riuscivano a essere persino normali; nella sua ascendenza c’erano troppe donne e troppi segreti che circondavano l’assenza di uomini» (Elif Shafak, La bastarda di Istanbul, Rizzoli, Milano 2007, pp. 76-77). 37 Giovanna Fiume, Giuseppa Calcagno (Peppa la Cannoniera), in Eugenia Roccella, Lucetta Scaraffia (a cura di), Italiane, vol. I, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma 2004, p. 25. 38 Si racconta che i due fratelli ebbero un rapporto difficile con il padre, che erano costretti a chiamare zio, a differenza di Titina che invece era la prediletta. Eduardo De Filippo ricorderà: «Mi ci volle del tempo per capire le circostanze della mia nascita perché a quei tempi i bambini non avevano la sveltezza e la strafot-

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Prato e l’uomo politico turkmeno Saparmurad Niyazov39. Se Foscolo fu padre illegittimo, già Petrarca aveva avuto prima Giovanni e poi Francesca da due donne diverse, in seguito legittimati per l’intervento del Papa. Sembra un paradosso il fatto che Rousseau fu padre di cinque figli illegittimi che, malgrado tutte le sue teorizzazioni, affidò ai terribili istituti di allora per l’infanzia abbandonata; e che Maupassant ebbe tre figli naturali (due femmine e un maschio) da Joséphine Litzelmann, che non volle mai sposare per l’opposizione di sua madre40. Del resto, perfino la vita di De Amicis sul versante privato fu tutt’altro che idilliaca. Il romanziere inizialmente si sposò clandestinamente in chiesa con Teresa, in un’epoca in cui le nozze religiose erano inesistenti per lo Stato. Quando nacquero i loro due figli, entrambi vennero registrati come di De Amicis e di «donna non nominata». Dopo oltre cinque anni di tale situazione (Edmondo, fra l’altro, continua a vivere con la madre), Teresa riuscì a imporgli il matrimonio civile. La vita in comune si rivelò però un inferno, fatta di maltrattamenti e tradimenti. Inoltre, De Amicis ebbe un misterioso terzo figlio, concepito fuori del matrimonio41. Ancor oggi una nascita illegittima può rimbalzare sulle pagine dei giornali, come nella favola reale di fine 2005, quando si è saputo che Amedeo di Savoia, legittimamente tenza di quelli d’oggi e quando a undici anni seppi che ero ‘figlio di padre ignoto’ per me fu un grosso choc». Quanto a Titina, «più che lo status di figlia d’arte, a formare la sua personalità è quello di figlia bastarda» (Tjuna Notarbartolo, Titina De Filippo, in Eugenia Roccella, Lucetta Scaraffia, a cura di, Italiane, vol. II, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma 2004, p. 57). 39 L’ex presidente del Turkmenistan, Saparmurad Niyazov, nasce nel 1940 nei pressi della capitale As¸gabat. Cresciuto in un orfanotrofio, viene poi mandato a studiare al Politecnico di Leningrado. Nel 1962 entra nel partito comunista, e nel 1985 viene scelto da Gorbacˇëv come segretario del Partito comunista del Turkmenistan. Al potere dal 1990, ha proceduto alla progressiva messa al bando di tutti i partiti. Nel 1999 si è fatto proclamare dal Parlamento presidente a vita, e si fa chiamare Türkmenbas¸ı, capo e padre di tutti i turkmeni. Il suo celebre motto è «Halk [popolo], Watam [nazione], Türkmenbas¸ı [lui stesso, essendo questo il nome con cui va chiamato]». Dal 1997 al 2001 ha scritto il Rukhnama (Libro dell’anima) con il quale ha consegnato al popolo la propria interpretazione della storia, della cultura e della spiritualità turkmene e ne rende obbligatoria la lettura per tutti i cittadini del paese. Nella capitale si è fatto erigere un colossale monumento. 40 Léon Deffoux, À propos des enfants de Guy de Maupassant, in «Mercure de France», 1° gennaio 1927, pp. 249-51. 41 Cfr. la ricostruzione di Luciano Tamburini nel numero di «Studi piemontesi» del settembre 2007.

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sposato, aspettava un figlio da Kyara van Ellinkhuizen, duchessina di origini olandesi, di professione regista. Ovviamente si è in presenza di un’ampia gamma di situazioni, da uomini che semplicemente scompaiono, a uomini ostinati che negano la paternità al di là di ogni evidenza, per arrivare a coloro che passano tutta la vita perfettamente divisi tra due famiglie, la legittima e l’illegittima, come François Mitterrand. Una paternità di cui ha molto parlato la cronaca italiana è stata quella del cantante Claudio Villa. Dalla sua lunga relazione con la ballerina Noemi Garofalo, nascono Claudio nel 1960 e sei anni più tardi Manuela. Qualche tempo dopo però, Villa sposa Patrizia Baldi, dalla quale ha due figlie legittime, Andreina Celeste e Aurora. Non appena Manuela, che fin da bambina rivela grandi doti canore, diventa maggiorenne, avvia una causa per vedersi riconosciuta figlia naturale del cantante. La causa si protrarrà per quasi vent’anni, proseguendo ben oltre la morte di Villa, avvenuta nel febbraio del 1987. La sentenza definitiva viene pronunciata solo nel 2004. In essa i giudici, respingendo la contestazione avanzata dalla vedova e dalle figlie legittime dell’uomo, riconoscono la paternità di Manuela, permettendole di aggiungere al cognome della madre il vero cognome del padre (Pica) e di usare quello d’arte. La sentenza della Cassazione si basa sulle analisi del sangue, sulle lettere che Villa scrisse alla Garofalo e sul fatto che egli per anni avesse versato del denaro per mantenere Claudio e Manuela: un complesso di fattori che uniscono le prove scientifiche a quelli che, tradizionalmente, erano gli elementi di prova atti a dimostrare la partecipazione dell’uomo al concepimento.

8 1975: LA SCIENZA ENTRA NEL DIRITTO DI FAMIGLIA

1. La paternità in Costituzione: le premesse di un cambiamento Le dissi che ero pronto a riconoscere il bambino ma non a sposarla. Carmela non voleva un nome e qualche soldo ma un uomo e un marito. Mi mandò al diavolo. [...] La rincontrai molti anni dopo. Avevo una bancarella di pelletteria e giravo per i mercati della zona. Si avvicinò un ragazzo che voleva regalare una borsa alla madre. Gli dissi di non guardare quelle sul banco, che erano per i turisti svizzeri, e lo invitai nel retro dove avevo la merce più bella. [...] Quando il ragazzo si allontanò mi ritrovai di fronte Carmela. [...] Capii subito che avevo venduto una borsa a mio figlio. M. CARLOTTO,

La terra della mia anima

All’indomani della seconda guerra mondiale, con l’elaborazione della Carta costituzionale del 1948, si posero le basi che avrebbero condotto ad elaborare una nuova nozione giuridica di paternità. Fu la I Sottocommissione (delle tre in cui si articolò la Commissione dei 75 cui venne affidato il compito di redigere il progetto di Costituzione), quella incaricata di disciplinare i diritti e i doveri dei cittadini1, a discutere sull’opportunità di equiparare formalmente tutta la prole, superando la distinzione tra figli legittimi e naturali. Le posizioni furono divergenti. La più avanzata proponeva di affermare espressamente in Costituzione il principio secondo cui le

1 La I Sottocommissione era composta di 18 membri, tra cui, oltre a Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, Aldo Moro e Palmiro Togliatti, c’erano Nilde Iotti e Angela Gotelli (in sostituzione del dimissionario Carmelo Aristia).

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conseguenze degli errori dei genitori non devono ricadere sulla prole, parificando i figli a tutti gli effetti2. Un’altra proposta limitava invece tale uguaglianza al lato economico, presentandola come la soluzione che avrebbe permesso di riformare la disciplina senza minacciare «il nucleo domestico legittimo»3. Criticate da alcuni perché troppo liberali, attaccate da altri perché troppo limitate, tali proposte si risolsero in nulla. La I Sottocommissione, infatti, ritenendo necessario mantenere le differenze per salvaguardare la famiglia, non sanzionò alcuna equiparazione. Ovviamente, al fondo vi era un grande e irrisolto problema: affermare in via generale l’uguaglianza tra tutta la prole avrebbe comportato ammettere liberamente la ricerca della paternità. Un’apertura a cui molti non erano ancora pronti. La discussione si spostò quindi nell’adunanza plenaria della Commissione dei 75, che affrontò il tema con più coraggio. Alla domanda del comunista Umberto Terracini «se l’integrità della famiglia esiga che certe creature [...] debbano essere moralmente e civilmente uccise» fu data risposta negativa. Come affermò Meuccio Ruini nella presentazione del testo all’Assemblea costituente, si ritenne che la tutela della famiglia non impedisse il riconoscimento dei diritti dei figli naturali come «diritti della personalità umana»4. Rimaneva però incerto il modo in cui coniugare queste due esigenze. La proposta che sollevò maggiori reazioni fu quella, alquanto cruda, suggerita da Umberto Nobile, indipendente del PCI: «la legge prevederà la ricerca della paternità fissandone le norme. I genitori sono tenuti al riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio 2 Roberto Lucifero, in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. II, Camera dei deputati, Roma 1970, p. 90. 3 Ottavio Mastrojanni, ivi, p. 960. Se a noi oggi questa proposta sembra indubbiamente retriva, si trattava invece di un passaggio importante rispetto a quanto aveva fin lì caratterizzato il dibattito. Tradizionalmente, infatti, l’illegittimità veniva stigmatizzata perché minacciava l’ordine familiare dal punto di vista sia simbolico sia economico. Ora invece Mastrojanni, forzato dai nuovi tempi, apre le porte a una scissione tra i due aspetti. Se rimane fermo il divieto di «convivenza dei figli naturali nell’ambito della famiglia legittima», l’apertura riconosce che i figli naturali «hanno diritto ad avere un uguale trattamento materiale». Il dato rilevante è che siffatta parificazione viene accordata pur nella consapevolezza che ciò può concretamente danneggiare la prole regolare. «La giustificazione» di questa apertura all’illegittimità risiede nel fatto «che tra gli uni e gli altri, come figli di uno stesso genitore, esiste sempre, sia pure non completo, un vincolo di sangue» (ibid.). 4 Relazione del Presidente della Commissione al Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (6 febbraio 1947), ivi, p. LXXIX.

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con le limitazioni e le norme che la legge prevederà»5. Ma essendosi democristiani e sinistre associati nell’opporsi all’inserzione in Costituzione della libera ricerca della paternità6, la proposta cadde. Passò, invece, quella di Palmiro Togliatti: «i genitori hanno verso i figli nati fuori del matrimonio gli stessi doveri che verso quelli nati nel matrimonio. La legge garantisce ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico che escluda inferiorità civili e sociali»7. La vittoria, certo non di poco conto, fu però transitoria: solo momentaneamente il principio di eguaglianza ebbe la meglio sulla difesa della famiglia. In aula, infatti, un atteggiamento generale più cauto si concretizzò, con relativa facilità (occorre precisare), nella formula conservatrice che diventerà l’art. 30: È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità.

È utile richiamare brevemente il dibattito costituente che porterà all’approvazione di questi quattro commi nell’aprile 1947, in quanto fornisce uno spaccato (anche sociologico) di come formazioni culturali, provenienze geografiche e impostazioni ideologiche differenti si siano articolate tra retaggi del passato e direzioni future. Emerge innanzitutto la preoccupazione per il dato quantitativo del fenomeno: le nascite illegittime vengono percepite da tutti come una realtà in pericoloso aumento8. Quanto alle possibili spiegazioni, 5 Nobile insistette molto nello spiegare che la sua proposta si rifaceva a una tradizione che in tanti paesi aveva dato ottima prova di sé e, soprattutto, era assolutamente in linea con «le premesse contenute nella Costituzione» (in La Costituzione della Repubblica, cit., p. 113). 6 Togliatti si associò alle dichiarazioni di voto di Lucifero: «si tratta di un problema molto complesso e l’esperimento, tentato in alcuni paesi europei, fra cui l’Austria, ha avuto risultati molto dubbi. Può costituire materia di discussione in sede di elaborazione legislativa, ma non essere adottato come principio costituzionale» (Palmiro Togliatti, ivi, p. 976). 7 Ivi, p. 114. 8 «La soluzione del problema dei diritti dei figli illegittimi interessa un numero

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se molti chiamano tradizionalmente in causa la crisi della famiglia (come Nobile), vi è anche chi lo riconduce al momento storico appena vissuto, imputando l’illegittimità alla «lontananza dei coniugi per le prigionie, le deportazioni nei campi di concentramento e le guerre combattute in paesi lontani»9. Nonostante le acquisizioni scientifiche entrate ormai nel discorso sulla paternità, nel dibattito emerge ancora l’incubo dell’incertezza sulla identità paterna, un problema che riguarda anche i nati all’interno del matrimonio. L’intervento di Enrico Molè (Democrazia del Lavoro), ad esempio, riecheggia toni ottocenteschi: l’ordine gerarchico familiare va mantenuto perché i padri sono certi grazie alla legge, grazie alla «coabitazione continua» con la madre, grazie ai controlli sulla donna, cosicché il matrimonio è «l’istituto fondamentale della ricerca della paternità». Del resto, per Molè «ci sono alcuni poteri del marito che sono esclusivi suoi propri» (dare il nome, determinare il domicilio, imporre la coabitazione della moglie) e che «costituiscono le colonne d’Ercole dinnanzi alle quali deve arrestarsi ogni rivendicazione di parità femminile [...]. La promiscuità dei cognomi o l’assunzione del cognome della donna, con l’indipendenza e pluralità dei domicili», non solo «segnerebbero la disgregazione della famiglia», ma porterebbero anche alla fine della «continuità e sicurezza delle geniture». Poiché è sulla «forzata unità del nome» e sull’obbligo della convivenza tra i coniugi «che riposa la certezza della paternità, [...] se noi non fissiamo quest’obbligo del nome e della coabitazione, noi togliamo di mezzo la legittima presunzione della paternità». Oggi può sorprendere che ancora nel 1947 si parli di «campo misterioso della natura», «in cui l’amore è cieco, la determinazione dell’amplesso fecondo è impossibile, e il padre è sempre putativo». Non manca chi lancia previsioni apocalittiche: abolire la categoria dell’illegittimità è necessario per rigenerare la società. Il fenomeno, che ha travolto l’antica Roma, minaccia il futuro dell’Italia, perdi cittadini non così infimo come si vorrebbe far credere», anzi proprio «un gran numero di cittadini» (Nadia Gallico Spano, ivi, p. 944); Umberto Nobile parla di 40.000 bambini che nascono ogni anno in Italia fuori del matrimonio (ivi, p. 113), mentre Fausto Gullo puntualizza dove il fenomeno si presenti più acuto: a Ferrara gli illegittimi costituiscono il 12 per cento dei nati, e nella provincia di Roma l’8 per cento (ivi, p. 998). 9 Nadia Gallico Spano, ivi, p. 945.

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ché la risposta «alla condanna sociale del bastardo» è «la violenta insurrezione dei bastardi contro la società»10. Il senso di insicurezza è chiaramente esasperato dal momento contingente: il paese sta uscendo da un conflitto che ne ha segnato la storia e i rapporti umani. Dalle parole dei diversi oratori, emerge l’elenco dei diritti di cui i figli illegittimi sono privati: il diritto al nome, ad una sana educazione, e a non dover subire le conseguenze negative dei comportamenti altrui. Soprattutto, però, è di fatto loro negato il «diritto elementare alla vita» – «cos’è questa tutela della famiglia legittima che profonda le sue radici in un mucchio di morti?»11. Se finora la questione è stata impostata in termini di pietà e compassione, per il comunista Fausto Gullo ciò va completato attuando quel «diritto di eguaglianza che è già stato sancito dall’articolo 3»12. Il richiamo a questa norma – pari dignità e rimozione degli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana – è importante: se altri vi avevano già fatto riferimento, è però solo Nadia Gallico Spano che ne fa l’argomento centrale e fondante del suo intervento. Notevoli dichiarazioni di principio si intersecano con posizioni ancora di stampo tradizionale. È vero che gli illegittimi hanno il diritto «di veder cadere gli ostacoli che si frappongono al loro ingresso nella vita sociale e nella vita civile», ma si resta dell’avviso che sia Enrico Molè continua: «i diseredati e i reietti, quando sopravvivono alla miseria, si vendicano della società che li ha condannati, degradano nel delitto e finiscono nella estrema abiezione umana, diventando i negatori della legge, i gregari del delitto, i ribelli della società» – se non mancano le eccezioni, «per uno che si salva e sale eroicamente, quanti non affondano, naufraghi della vita, quanti non si perdono, ribelli della legge, aggressori della società» (Enrico Molè, ivi, pp. 10071008). 11 «Anche se non valessero le norme giuridiche, valgano la pietà e la compassione perché in noi sia vivo il dovere preciso di tutelare la vita di tutti i nostri figli. Quando noi pensiamo, trincerandoci dietro la famiglia, di contestare ai figli nati fuori del matrimonio il conseguimento dei loro diritti, non è male che, invece di volgere il nostro sguardo soltanto ai nati legittimi, volgiamo un po’ la nostra attenzione ai figli illegittimi che muoiono (Vivi applausi all’estrema sinistra)» (Fausto Gullo, ivi, p. 997). 12 Nadia Gallico Spano, ivi, p. 946. L’art. 3 Cost. recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. / È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». 10

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«impossibile materialmente, impossibile giuridicamente, creare per tutti i figli una situazione giuridica identica»13. La famiglia, quindi, continua a essere lo scoglio contro il quale si infrange ogni cambiamento: introdurre l’illegittimo nel contesto domestico significherebbe, prima ancora che accettarlo giuridicamente o economicamente, «farlo sedere allo stesso desco e [farlo abitare] nella stessa casa»14, un passo che ancora non si riesce a compiere. Diversi onorevoli propongono di eliminare la formula che agli illegittimi «è riconosciuta una condizione giuridica che esclude inferiorità morali e sociali», sostituendola con «la legge assicura ai figli illegittimi ogni tutela giuridica e sociale compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima»15. È Mario Zotta a spiegare come l’emendamento sia mosso dalla volontà di recepire l’istanza emersa in aula di migliorare la condizione degli illegittimi, senza però spingersi fino ad affermare la parità di diritti fra tutta la prole, giacché ciò «urta contro la coscienza etica e giuridica del popolo italiano»16. Malgrado l’opposizione di Umberto Tupini, presidente della I Sottocommissione (anche lui democristiano), l’emendamento passa. È questa dunque l’origine del punto più critico dell’art. 30 Cost. che parla, equivocamente, di «compatibilità» fra la tutela giuridica e sociale per i figli nati fuori del matrimonio e i diritti dei membri della famiglia legittima17. Gli oppositori a questa difesa oltranzista della famiglia (per quanto pochi, vi furono) si avvalsero di argomentazioni opposte. Vi fu chi

Camillo Corsanego, ivi, p. 1152. «Nessuno può imporre alla moglie legittima, ai figli legittimi una vicinanza [...] che sarebbe fonte di discordie, di avversioni, di lotte, di cattiverie, di disgregazione, di male per tutti» (Mario Cevolotto, ivi, p. 991). 15 Mario Zotta, Francesco Maria Dominedò, Antonio Gabrieli, Camillo Orlando, Florestano Di Fausto, Matteo Rescigno, Emanuele Guerrieri, Edmondo Caccuri e Lodovico Montini. 16 Mario Zotta, ivi, p. 1189. 17 Quegli stessi onorevoli proposero anche di sostituire la dizione «nati fuori del matrimonio» (di cui al comma 3) con «illegittimi», adducendo come motivazione un’esigenza di «chiarezza». Questa volta però – fortunatamente – la proposta viene respinta. Anche se sarà solo con la riforma del diritto di famiglia del 1975 che tale terminologia discriminatoria uscirà dal nostro ordinamento giuridico (cfr. par. 2), il fatto che essa non abbia trovato posto nell’art. 30 della Carta fondamentale segna un importante passaggio di civiltà. 13 14

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sostenne che l’uguaglianza tra la prole avrebbe aiutato la famiglia invece che minacciarla18, e chi argomentò che quanti avevano fieramente avversato la concezione fascista che poneva lo Stato al di sopra degli individui, non potevano ora desiderare che quel posto venisse occupato dal nucleo domestico19. Quel riferimento alla «compatibilità» dei diritti implica una convergenza dei costituenti sulla necessità di riformare l’art. 269 c.c. (che vietava le indagini giudiziali sulla paternità), nella consapevolezza che «l’adozione di mezzi più idonei per la ricerca»20 rappresenti un passo fondamentale. Nel concreto, però, si decide tatticamente di lasciare al legislatore ordinario la scelta della modalità con cui tutelare gli illegittimi21, perdendo l’occasione per fissare un importante principio. Così, tra passi avanti e incertezze, alle 3.30 del mattino nasce infine l’art. 30 Cost.

18 L’argomento di Fausto Gullo sottolinea l’incentivo a un comportamento più responsabile dei maschi: «quando noi avremo suscitato nell’animo di ogni uomo la convinzione precisa che creando un figlio illegittimo egli crea a se stesso gli stessi obblighi, gli stessi doveri, gli stessi carichi che ha di fronte al legittimo, non solo le statistiche presenteranno dei numeri meno spaventosi, ma ognuno procederà con maggiore senso di responsabilità» (ivi, p. 999). 19 In breve, nella scelta fra «la salvezza dell’istituto familiare e la salvezza morale e civile degli individui viventi», è «necessario decidere per questi ultimi» (Umberto Terracini, ivi, p. 113). 20 Nella discussione, il costituente Gaetano Sardiello si appella anche alla cronaca del momento: «non è molto, la gente di una contrada nobilissima d’Italia è stata commossa, sconvolta nell’anima da un terribile fatto di sangue: due vite stroncate con la violenza, e l’uccisore che gridava davanti al giudice ‘ero in bisogno; ho ucciso i congiunti ed eredi fortunati del mio padre ricchissimo che mi aveva misconosciuto ed obliato: vi do la prova della filiazione, ho persino nel sangue le tare del suo sangue; ascoltatemi’. Si sentì rispondere dal giudice: ‘non posso, perché la legge lo vieta’. L’episodio si richiuse su due tombe ed un ergastolo!» (Gaetano Sardiello, in La Costituzione della Repubblica, cit., p. 1067). 21 Il fronte è assolutamente trasversale: Mario Zotta, Nadia Gallico Spano («è evidente che dobbiamo lasciare al legislatore il modo di risolvere praticamente la questione della parità dei diritti dei figli illegittimi», ivi, p. 948), Giambattista Bosco Lucarelli («bisognerà che lo determini la legge. La legislazione sugli esposti e sugli illegittimi va rivista», ivi, p. 977), Pietro Mancini («concretizzi queste provvidenze», ivi, p. 993), Amerigo Crispo («non è materia costituzionale, ma materia propria del Codice civile», ivi, p. 931). Già in sottocommissione, del resto, Giuseppe Grassi aveva detto che la questione andava demandata al legislatore ordinario; similmente Aldo Moro: solo un principio generale, poi il problema al legislatore.

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2. Cinque lustri di attesa per la legge 19 maggio 1975, n. 151 Angela Prati era pacifista, vegetariana, indipendente e costantemente impegnata contro qualcosa. Marianna era nata dall’incontro con un compagno d’università durante le assemblee per il diciotto politico. Il termine della gravidanza era coinciso con l’inizio della presa di coscienza femminista, cosicché Angela aveva piantato il compagno impedendogli di riconoscere la bambina. I primi ricordi di Marianna erano affollati di voci e di volti di donne. E il suo approccio col mondo era avvenuto dall’alto di uno zaino [...]. D’un tratto le voci sparirono e il mondo si restrinse [...] con un brusco cambio di scena. La seconda infanzia era coincisa con una nuova presa di coscienza di sua madre: scesa dalle barricate, Angela si era messa a insegnare [...]. Pochi mesi dopo, grazie a un prestito dei genitori e alla cessione del quinto dello stipendio, si era comprata un vecchio rudere [...]. Angela si era comportata con la figlia come se l’avesse generata da sola e lei ricordava ancora lo stupore e il disagio di quando, all’asilo, una bambina le aveva chiesto dove fosse il suo papà. Papà era una parola sconosciuta e un concetto inafferrabile. M. VENTURI,

La moglie addosso

Nell’aprile 1949 viene presentata la prima proposta di riforma in materia di illegittimità ad opera della socialdemocratica Bianca Bianchi. Il progetto, che includeva vari aspetti della questione, mirava in particolare ad allargare le eccezioni al divieto di ricerca della paternità previste dal codice civile22. Sebbene non si chiedesse piena libertà di ricerca, né si ambisse a parificare filiazione legittima e illegittima23, la proposta sollevò ugualmente opposizioni e critiche24. Tra queste, vi 22 Le nuove eccezioni richieste erano seduzione preceduta da promessa scritta di matrimonio e seduzione ottenuta con artifici e raggiri o ricorrendo ad abuso di autorità o di relazioni domestiche. Per il resto, si mirava a introdurre una migliore organizzazione dei servizi assistenziali in favore della prole, legittima o illegittima che fosse, affidandone il compito alle federazioni provinciali dell’Opera nazionale maternità e infanzia (soppressa nel 1975, con passaggio delle funzioni a Stato, Regioni ed enti locali). 23 «Nell’ampia relazione che accompagna il suo disegno di legge l’on. Bianchi si è rifatta non solo alle legislazioni degli Stati moderni ma pur alle norme del diritto canonico o meglio all’unico articolo, il 1144, che stabiliva la ‘gravissima obbligazione’ per i genitori di educare la prole, dal punto di vista religioso e morale e fisico, senza distinzione fra quella legittima e illegittima» (Massimo Dursi, Bastardi si diventa, Capitol, Bologna 1963, p. 81). 24 Fra gli altri progetti di legge che miravano ad allargare le ipotesi di eccezione

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fu il duro intervento di Giovanni Spadolini apparso sulle pagine del «Messaggero» il 23 maggio 1950. L’articolo partiva dalla domanda se fosse possibile «creare una famiglia sulla base di un riconoscimento giuridico o di un’attribuzione giudiziaria», invece che sulla effettiva volontà dei soggetti coinvolti: sarà «veramente un padre colui che invocherà prove e testimonianze e alibi per dimostrare la sua ‘innocenza’, la sua ‘non-responsabilità’, la sua ‘non-paternità’?»25. Se i nobili principi ispiratori sono «di lottare contro il male attraverso le prescrizioni legislative, di distruggere il peccato con l’aiuto del codice, di restaurare la morale con l’intervento del magistrato, di attuare la redenzione coi fogli dello stato civile»26, l’errore è di nutrire una «fede illimitata nel diritto, come correttivo alle insufficienze umane, come rimedio alle malvagità sociali». Se un uomo cioè è tanto egoista da non voler essere padre, il diritto non può certo forzarne la natura27. Qualche mese dopo, fu la volta della proposta di legge del deputato Silvio Paolucci, mirante ad aggiungere all’art. 235 c.c. (che regolava il disconoscimento di paternità) una nuova ipotesi, quella in cui il figlio risultasse di razza diversa da quella del marito della madre. La proposta si collegava al problema dei cosiddetti mulattini, cioè dei bambini nati da madre bianca e da padre di colore, emerso dopo la seconda guerra mondiale28. Sono le vicende richiamate da al divieto di ricerca ricordiamo quelli di Reale del 1967, La Malfa del 1968, Falcucci e Iotti-Spagnoli entrambi del 1969. Le nuove fattispecie erano i casi di seduzione con promessa di matrimonio, o con inganno o abuso al tempo del concepimento. 25 Utilizzando un’argomentazione cara all’epoca, Spadolini si domanda quindi se si possa essere «sicuri che la prole sarà allevata meglio da due genitori divisi e implacabilmente ostili fra loro, che non da un ente di pubblica assistenza, da un qualunque brefotrofio» (Giovanni Spadolini, Gli illegittimi, in «Il Messaggero», 23 maggio 1950, p. 3). 26 Ibid. Colpisce l’assenza di richiami ai principi costituzionali. 27 Del resto, «non è un mistero per nessuno che una parte dei figli illegittimi nascono da donne che hanno contemporaneamente più d’una relazione; e come sarà possibile accertare, in quei casi, l’autentica paternità? Il sistema dei ‘mezzi di legge’ nella ricerca della paternità, delle famose ‘testimonianze’ non sarà forse fonte di infiniti ricatti? [...] Per porre un freno al dilagare degli illegittimi, a questa piaga sociale che affligge forse come non mai il mondo moderno, si stabiliscano pure tutte le sanzioni per i responsabili, si allarghino pure tutte le remore dell’assistenza, si distruggano pure tutte le odiose distinzioni delle carriere e dei concorsi, ma non si pensi di imporre ex lege una famiglia, che rappresenterebbe un assurdo insieme etico e giuridico» (ibid.). 28 Vi era chi lo definiva «pietoso strascico della guerra [...] nati in seguito alla

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Tammurriata nera, la celebre canzone scritta nel 1945 da Edoardo Nicolardi, all’epoca dirigente di un ospedale di Napoli, ispirata a un fatto realmente accaduto: alla maternità del nosocomio una ragazza partenopea aveva partorito un bambino di colore. È proprio questo ciò che commenta il protagonista-spettatore di questo fatto «strano», nel vivace botta e risposta con la gente del vicolo29. Proprio nel 1949, del resto, aveva suscitato grande scandalo la decisione dei giudici di Firenze di rigettare la domanda di un padre toscano che aveva chiesto di disconoscere il figlio di colore30: Ma ti pare possibile, questa storia di Firenze? Ti pare possibile che un pretore firmi una sentenza (una sentenza, dico!) per sancire che il padre di un bambino nero ereditato dal passaggio dei marine sia il marito della madre, un fante tornato solo qualche mese fa dalla prigionia in Russia? Nero è! Nero carbonella! Concepito e nato e cresciuto mentre quello che il pretore ha sentenziato come suo padre era disperso in Russia31.

Stando alle statistiche, nel decennio 1948-57, fra gli oltre 300.000 neonati abbandonati un buon terzo erano appunto i mulattini. Anche la loro distribuzione geografica lungo la penisola sembrava confermarne l’origine32. Si trattava di un fenomeno che all’epoca suscitava grandi reazioni33, e molte iniziative. Così, ad esempio, don Carpresenza in Italia di truppe di colore» (Leonardo Spagnoli, La sorte dei «figli dell’amore». Inchiesta sulle nascite illegittime in Italia, s.e., Roma 1960, p. 9). 29 Il problema non era nuovo nelle aule di giustizia. Ad esempio nel 1938 si svolse un processo per procurato aborto che vide alla sbarra la nubile che vi si era sottoposta e l’infermiera che lo aveva praticato. Mentre la corte fu severa con quest’ultima («bisogna stroncare questa forma di attività che a scopo di lucro è così esiziale alla integrità della stirpe e agli interessi vitali della nazione che sono legati alla potenza demografica»), della madre si dice che «merita grande pietà per un particolare intimo venuto in luce in udienza, e cioè che avendo avuto rapporti con un negro, autista della delegazione di Cuba, maggiore sarebbe stato il suo disonore se il prodotto del concepimento fosse venuto alla luce». Sarà per questa ragione che verrà concessa a entrambe l’attenuante di aver agito per salvare l’onore (Silvia Bonanni, «... visto il particolare momento storico della Nazione». Processi per procurato aborto a Roma negli anni Trenta, tesi di laurea, Università di Roma «La Sapienza», a.a. 2001-2002, p. 197). 30 Corte d’Appello Firenze, 15 luglio 1949. 31 Gian Antonio Stella, Il maestro magro, Rizzoli, Milano 2005, p. 109. 32 Cfr. Spagnoli, La sorte dei «figli dell’amore», cit., p. 9. 33 Come accennato, la questione era emersa già in Assemblea costituente. Nel suo intervento del 21 aprile 1947, il repubblicano Aldo Spallicci lanciò un appello:

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lo Gnocchi nel 1948 diede vita alla Federazione Pro Infanzia Mutilata, nata per dare cura, assistenza, formazione e integrazione agli orfani di guerra, ai mutilatini, ai mulattini, «tutte vittime innocenti della barbarie umana». Sono diverse le testimonianze in prima persona di questi mulattini, come quella di Felice Scotti: la mia è la storia di tanti altri ragazzini come me, venuti al mondo subito dopo la fine della guerra. Devo tutto a un sacerdote che mi accolse, che mi fece da padre e che mi regalò una famiglia. Erano anni difficili, e solo una persona ‘santa’ come lo era don Carlo poteva prendere a cuore le sorti di noi mulattini. [...] In quegli anni le Forze alleate non si ritirarono subito dalle basi militari allestite nel nostro Paese.

Ebbene, nella base di Manfredonia, in Puglia, il 21 ottobre 1947 venne alla luce un maschio mulatto: Fu denunciata al comune di Manfredonia la nascita di un bimbo a cui fu posto il nome di Felice Conintro, cognome inesistente, evidente anagramma della parola incontro. [...] Fui subito alla Casa provinciale di maternità e infanzia [...]. La Casa di Foggia aveva una colonia a Bagnoli Irpino, in provincia di Avellino. Rimasi in questi due istituti fino al 28 giugno 1952, raggiunta ormai un’età che non richiedeva assistenza continua, venni trasferito a Sabaudia. Fu in quelle settimane che incontrai don Carlo. [...] Mi aspettava un traumatico trasferimento negli Stati Uniti, dove non conoscevo nessuno. Avrei dovuto cambiare Paese, lingua, usanze... A cinque anni. Fu don Gnocchi che mi volle con sé, insieme a tanti altri mulattini nella mia stessa situazione. [...] Fui così accolto al Centro S. Ma«dovremmo noi restare indifferenti [...] a quegli incroci tra razza bianca e razza nera, che hanno tanto preoccupato la nazione inglese? Lungi da noi il pensiero di razza inferiore o razza superiore. [...] Questi incroci tra razze che hanno scarsa affinità non sono fatti per migliorare il nostro tipo umano. I mulatti sono scarsamente resistenti al logorio ambientale dei nostri climi e molto vulnerabili dal dente delle malattie. [...] Su queste creature noi ci curviamo con la stessa trepidazione con cui ci curviamo sopra tutte le culle, come davanti a un punto interrogativo del mistero della vita. E pensiamo, col rossore sul volto, che questo colore italo-nero [sic!] nelle guance di questi bimbi rappresenta il senso di abiezione della patria; e questo senso di tristezza lo sentiamo tutti quanti nel cuore, come senso angoscioso di responsabilità per tutti. Ad un dato momento questa ondata di corruzione è passata sul nostro paese, perché, oltre alle violenze delle truppe saccheggiatrici, liberatrici, ossessionate dal sensualismo, c’è stata anche la prostituzione e la corruzione. Noi ci volgiamo a questi illegittimi collo stesso sguardo con cui guardiamo tutti gli altri nostri bambini» (Aldo Spallicci, in La Costituzione della Repubblica, cit., pp. 1095-96).

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ria alla Rotonda di Inverigo. Trascorsi alcuni periodi di vacanza presso una famiglia [...] e nel 1955, grazie soprattutto all’interessamento dello stesso don Gnocchi, portarono a termine le pratiche per l’adozione34.

Se, dunque, non mancarono (più in generale) le proposte di legge in tema di illegittimità, l’unico – ma importante – passo avanti fu l’eliminazione nel 1955 del marchio N.N. in documenti ed estratti dello stato civile per quanti nascevano fuori del matrimonio. In un panorama che avrebbe richiesto riforme molto più ampie, si tratta di ben poco, anche se nel merito fu una conquista civile ragguardevole. Conseguirla non fu affatto facile: risulta quasi incredibile l’indifferenza parlamentare, con argomentazioni generali esposte a un’aula pressoché deserta. La prima proposta per cancellare tale dizione viene presentata nel luglio 1950 sempre da Bianca Bianchi (la n. 1422); il 15 marzo 1951 è la volta della democristiana Maria Pia Dal Canton, con la proposta n. 1901 che chiede di sopprimere nei certificati di stato civile ogni indicazione di maternità o paternità. L’obiettivo verrà raggiunto, però, solo qualche anno più tardi, con la legge 31 ottobre 1955, n. 106435. Più in generale, in materia di paternità, subito dopo il gennaio 1948 giurisprudenza e dottrina concordarono nel ritenere che le norme del codice civile fossero compatibili con la Costituzione, nella convinzione che essa non avesse introdotto rilevanti novità in tema36, essendosi limitata a costituzionalizzare quanto già esisteva nella legisla34 Felice Scotti, Felicetto e la foto ingiallita: «don Carlo è nel mio cuore», in «Missione Uomo», 4, 2002, p. 14. Vedi anche Sergio Didonè (a cura di), Grazie, papà don Carlo. L’opera di Don Gnocchi nelle testimonianze e nei ricordi dei suoi «figli», Effatà Editrice, Cantalupa 2007. 35 In base alla legge 1064/1955 l’indicazione della paternità e della maternità va omessa dagli estratti, dalle pubblicazioni di matrimonio esposte al pubblico e dai certificati relativi agli atti di nascita, di matrimonio, di cittadinanza, dallo stato di famiglia, nonché da tutti gli atti di riconoscimento – la sola eccezione sono i casi in cui essa avvenga in relazione «all’esercizio di doveri o diritti derivanti dallo stato di legittimità o di filiazione» (Mario Stella Richter, Adulterini e incestuosi (figli), in Enciclopedia del diritto, vol. I, Giuffrè, Milano 1958, p. 620). 36 Antonio Amorth, La Costituzione italiana. Commento sistematico, Giuffrè, Milano 1948; Vincenzo Del Giudice, Sulla riforma degli istituti familiari, in «Jus», 1950, p. 293; Cesare Grassetti, I principi costituzionali relativi al diritto familiare, in Piero Calamandrei, Alessandro Levi (a cura di), Commentario sistematico alla Costituzione italiana, vol. I, Barbera, Firenze 1950; Giuseppe Azzariti, Dichiarazioni costituzionali e riforme legislative in tema di filiazione illegittima, in «Rivista trime-

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zione ordinaria37. Come si osservò, il diritto di famiglia rimaneva pur sempre un «campo nel quale i costumi sono più forti del diritto»38. Per decenni ancora, dunque, il clima rimarrà immutato, come dimostra la vicenda di Maria Gabriella Recchione. Il 16 gennaio 1957 la donna citava dinanzi alla Corte dei conti il ministro del Tesoro, accusandolo di averle ingiustamente negato la pensione che le spettava in quanto orfana di Angela Recchione, deceduta a causa della guerra. Il problema però era che Maria Gabriella era figlia adulterina della donna, e se ciò a suo avviso non era affatto di impedimento per l’applicazione della legge 10 agosto 1950, n. 648 (relativa alle pensioni di guerra), lo era invece per il Tesoro. Nell’impasse, fu sollevata l’eccezione di costituzionalità della legislazione pensionistica di guerra (che espressamente escludeva i figli adulterini39) rispetto agli artt. 3 (principio di uguaglianza); 30, comma 3 (che parifica la filiazione); 38 (che accorda il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale a ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere). Per quanto attiene al nostro tema, la Consulta ritenne conformi alla Costituzione le norme che escludevano gli adulterini dal diritto alla pensione perché mosse dall’intento di tutelare la famiglia legittima40. Il problema di fondo era che l’art. 30 Cost. veniva letto come norma puramente programmatica, come una mera petizione di principio, incapace di ricevere immediata applicazione. Non solo, l’ultimo comma («la legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità») veniva inteso come semplice rinvio alla legge ordinaria, constrale di Diritto e Procedura civile», 1952, p. 827; Gioacchino Scaduto, Famiglia legittima, filiazione naturale e adozione nelle prospettive di riforma, in «Jus», 1965, p. 98. 37 Azzariti, Dichiarazioni costituzionali e riforme legislative in tema di filiazione illegittima, cit.; Rosario Nicolò, La filiazione illegittima nel quadro dell’art. 30 Cost., in «Democrazia e Diritto», 1960, pp. 3 sgg. Secondo la Cassazione non solo la Costituzione non ha inteso derogare all’ordinamento giuridico vigente, ma anzi «si è espressamente richiamata ad esso» (Cassazione, 21 ottobre 1961, n. 2284, in «Il Foro italiano», 1962, I, c. 55). 38 Grassetti, I principi costituzionali relativi al diritto familiare, cit., p. 285. 39 Si trattava precisamente degli artt. 62, comma 3; 64 legge 648/1950. 40 «Non è dubbio – scrivono i supremi giudici – che la condizione dei figli adulterini e degli incestuosi, secondo le disposizioni vigenti che riflettono la comune coscienza sociale, non è equiparabile a quella degli altri figli naturali» (Corte costituzionale, 6 luglio 1966, n. 92, in «Giurisprudenza costituzionale, 1966, p. 979).

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tenente cioè solo un’autorizzazione e non, invece, un preciso obbligo per il legislatore ordinario. Nella lettura dell’epoca, dunque, si riteneva che il divieto di ricerca della paternità fosse tranquillamente compatibile con i principi costituzionali. Fu solo dalla seconda metà degli anni Sessanta che cominciò ad essere chiaro che, in realtà, le disposizioni del codice civile presentavano qualche problema di concordanza costituzionale. Già nel maggio 1959 la Cassazione aveva affermato che chiunque, purché celibe, poteva dare il proprio nome al figlio avuto da una donna coniugata la quale non volesse essere nominata, senza per questo violare la legge per alterazione di stato civile. Fu l’avvio di un importante mutamento giurisprudenziale. Ad esempio, nel 1963 la Corte costituzionale parlò della «esigenza di un orientamento legislativo a favore della filiazione illegittima inteso ad eliminare posizioni giuridiche e sociali deteriori, compatibilmente con i diritti dei membri della famiglia legittima»41. E nel 1974 la Cassazione finalmente scrisse che se si guarda alla prospettiva storica dei problemi di trattamento dei figli naturali, è facile constatare che la ratio dell’art. 269 urta contro le direttive generali dell’art. 30, esigendo perciò le modificazioni di disciplina che la riforma del diritto di famiglia sembra destinata ad operare42.

I tempi erano finalmente maturi per un serio avvio della riforma del diritto di famiglia43. L’iter parlamentare che portò alla legge 151/1975 fu lungo e complesso, tra manifestazioni di piazza e pubblici dibattiti. Il lavoro in aula si inceppava continuamente di fronte agli articoli più scottanti, come quelli sulla piena parità tra i coniugi, sulla nuova regolamentazione in materia di separazione o sui diritti dei figli nati fuori del matrimonio. Dapprima furono presentate proposte concernenti singoli aspetti (ad esempio, i rapporti patrimoniali tra coniugi e la filiazione naturale), successivamente disegni di legge di maggior respiro. L’unico di iniziativa governativa fu quello del 41 Corte costituzionale, 16 febbraio 1963, n. 7, in «Il Foro italiano», 1963, I, c. 471. 42 Cassazione, 1° febbraio 1974, n. 256, ivi, 1974, c. 438. 43 Il primo progetto di riforma del diritto di famiglia compare nel 1967 (Iotti). Inoltre viene promulgata la legge 5 giugno 1967, n. 431 (cui è subentrata la legge 4 maggio 1983, n. 184) sull’adozione speciale dei minori.

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gennaio 1967 («Modificazioni delle norme del codice civile concernenti il diritto di famiglia e le successioni») che però decadde per la fine della legislatura. In quella successiva, furono presentati disegni di legge a testo unificato, approvato in commissione in sede legislativa, con numerosi emendamenti e modifiche, nella seduta del 1° dicembre 197144. Fatto sta che solo il 5 marzo 1975 il presidente del Senato trasmetterà alla Camera il nuovo testo della riforma del diritto di famiglia. Esso fu definitivamente approvato il 22 aprile e la legge entrerà in vigore il 20 settembre 1975. Se anche la redazione della legge avvenne in Parlamento per mano prevalentemente maschile45, risultò però decisivo il contributo dato, durante il dibattito antecedente, dal tenace impegno dell’UDI 44 Tale procedura è stata criticata (Adriano De Cupis, Studi e questioni di diritto civile, Giuffrè, Milano 1974, p. 268) perché su una legge di siffatta importanza si evitò la discussione in aula. «Reale ed altri: Modificazioni delle norme del codice civile concernenti il diritto di famiglia e le successioni» (Camera dei deputati, V legislatura, atto n. 503); «Ruffini e Martini Maria Eletta: Riforma del diritto di famiglia» (Camera dei deputati, V legislatura, atto n. 703); «Brizioli: Abrogazione degli articoli 559, 560, 561, 562 e 563 del codice penale riguardanti i reati di adulterio e concubinato» (Camera dei deputati, V legislatura, atto n. 793); «Darida: Abrogazione dell’articolo 544 del codice penale» (Camera dei deputati, V legislatura, atto n. 1174); «Iotti ed altri: Modificazioni delle norme del codice civile concernenti il diritto di famiglia e le successioni» (Camera dei deputati, V legislatura, atto n. 1378); «Guidi e altri: Abrogazione delle norme del codice penale concernenti ogni ipotesi di adulterio, i reati di concubinato, omicidio e lesioni a causa di onore, e la causa speciale di estinzione dei delitti contro la libertà sessuale, attraverso il matrimonio» (Camera dei deputati, V legislatura, atto n. 1821). Quasi contemporaneamente venivano presentati in Senato i seguenti disegni di legge: «Falcucci: Riforma del diritto di famiglia» (Senato della Repubblica, V legislatura, atto n. 754); «Gatti Caporaso e altri: Disposizioni sullo stato delle persone e l’ordinamento della famiglia» (Senato della Repubblica, V legislatura, atto n. 1151). Il comitato ristretto della Camera predispose un testo unificato sulla base delle varie proposte citate, anche in Senato. Nel corso della successiva discussione venne presentata una proposta di legge a iniziativa dell’onorevole Fortuna e altri («Riforma del diritto di famiglia» – Camera dei deputati, V legislatura, atto n. 3488). 45 Risultò molto importante il contributo di personalità come Pietro Nenni, che inutilmente aveva proposto la riforma del diritto di famiglia ai tempi del primo centro-sinistra. Proprio a Nenni (allora vicepresidente del Consiglio dei ministri) era stata indirizzata la lettera che nel 1966 «Il Giorno» pubblicò in prima pagina: in essa l’attrice Sandra Milo denunciava lo scandalo di non poter (come migliaia di altri cittadini italiani) riconoscere la figlia nata fuori dal suo matrimonio (Carla Rodotà, Stefano Rodotà, Il diritto di famiglia, in Sabino Acquaviva et al., Ritratto di famiglia degli anni ’80, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 193).

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(Unione donne italiane), del CIF (Centro italiano femminile) e, più in generale, del femminismo. In 240 articoli, la legge elimina finalmente la concezione patriarcale e gerarchica degli equilibri familiari e parentali (anche se non copre alcuni punti cruciali, come lo scandalo del delitto d’onore, per cui si renderanno necessari ulteriori interventi). Viene infatti definitivamente sancita l’eguaglianza in famiglia tra la donna e l’uomo; si stabilisce che la donna aggiunga al proprio cognome quello del marito, che l’indirizzo della vita familiare e la residenza della famiglia siano decisi consensualmente, che il matrimonio con uno straniero non comporti la perdita della cittadinanza italiana, che i coniugi esercitino insieme la potestà sui figli, con eventuale intervento del giudice per superare i contrasti, senza che però questi possa decidere al posto loro. Il giudice, dal canto suo, può affidare la decisione al coniuge che riterrà più adatto allo scopo: nello spirito della riforma, infatti, lo Stato non può normalmente imporre proprie decisioni, ma deve aiutare la famiglia a governarsi nel rispetto dell’eguaglianza e della piena dignità di ciascuno. Alla parità tra i coniugi si ispira anche il diritto patrimoniale, come l’art. 324 che attribuisce l’usufrutto legale sui beni del figlio minorenne a entrambi i genitori (e non più solo al padre), e gli articoli che regolano la comunione dei beni come sistema ordinario46. Quanto agli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione, essi possono essere compiuti solo congiuntamente dai coniugi, mentre in caso di mancato accordo decide il giudice nell’interesse della famiglia. La riforma dà alla filiazione naturale la stessa dignità di quella legittima, cancellando il termine «illegittimo» (e tutti i suoi derivati) e fissando la parità tra tutti i figli rispetto ai genitori (art. 261 c.c.) e ai successori (artt. 468; 536, comma 3; 537, comma 3, c.c.). La riforma, inoltre, stabilisce la libera ricerca della paternità, parificandola così, per la prima volta, con quella della maternità: in base alla nuova formula dell’art. 269, comma 1, c.c. «la paternità e la maternità naturale possono essere giudizialmente dichiarate nei casi in cui il riconoscimento è ammesso», vale a dire con l’esclusione dei figli incestuosi di genitori che fossero a conoscenza del legame incestuoso. 46 I beni comuni possono essere amministrati da ciascuno dei due coniugi, e ognuno di essi può rappresentare in giudizio la comunione (mentre l’altro, se non è d’accordo, può opporsi).

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Con questa legge, insomma, ha avuto piena applicazione l’incondizionato dovere-diritto di ogni genitore a un rapporto complessivo con il figlio, affermato dall’art. 30 Cost. (non un diritto sui figli, ma per i figli e funzionale al loro benessere). Dal 1975, dunque, si è padre a prescindere dalla presenza o meno di un matrimonio con la madre del proprio figlio47. La riforma del diritto di famiglia ha introdotto un altro aspetto estremamente importante. Essa ha richiamato espressamente le analisi genetiche ed ematologiche in materia di individuazione di paternità. L’art. 235 c.c. che regola l’azione di disconoscimento stabilisce, infatti, che «il marito è ammesso a provare che il figlio presenta caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili», mentre l’art. 269, comma 2, ammette qualsiasi prova onde dimostrare la filiazione («la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo»). Si noti come questo riferimento alle analisi «genetiche», nella sua ampia accezione, viene di fatto a precedere quella che ne sarà l’effettiva messa a punto. In concreto, tuttavia, nonostante il chiaro dato normativo ci vorrà ancora del tempo perché le analisi ematiche trovino effettiva applicazione negli accertamenti di paternità. Sorde alle indicazioni del legislatore, le corti hanno infatti continuato a ritenere la prova del sangue un rimedio eccezionale, non esperibile in prima istanza, atto semplicemente ad escludere una paternità e non invece ad attestarla: così ancora si esprime la Cassazione nel gennaio 198048. Parte della dottrina, del resto, concorda con questa lettura49. Le modifiche introdotte al codice civile dalla legge 151/1975 non hanno invece toccato un momento procedurale controverso previsto dall’art. 274. Chi intenda avviare l’azione di ricerca della paternità, in47 Probabilmente oggi non susciterebbe più la profonda ilarità che destò nel 1947 la frase di Molè in Assemblea costituente: «i figli, di fronte a chi li generò, sono tutti uguali; illegittimi, legittimi, naturali, artificiali» (Enrico Molè, in La Costituzione della Repubblica, cit., p. 1005). 48 Cassazione, 2 marzo 1976; 17 ottobre 1977; 14 gennaio 1980. 49 «Le indagini ematologiche e genetiche sono accettate con valore di prova, da ammettere in via normale quando il problema riguarda il disconoscimento di paternità; in caso invece di dichiarazione [...] la prova ematologica viene indicata come non necessaria, se il giudice è in grado di fondare il proprio convincimento su altre risultanze» (Alberto Bestetti, Francesco De Ferrari, Giorgio Assali, Le caratteristiche gruppoematiche nell’indagine sulla paternità, Biotest, Trezzano sul Naviglio 1981, p. 56).

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fatti, deve necessariamente ottenere in via preliminare un decreto con cui il tribunale valuti la fondatezza dell’azione, accertando cioè che sussista il fumus boni iuris e che lo svolgimento del processo risponda all’interesse del minore50. Si tratta di una previsione normativa a lungo criticata, e di cui è stata più volte sollevata la costituzionalità. Dopo anni di dibattiti, però, finalmente è arrivata la sentenza 50/2006, con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 274, rendendo così inutile la fase preliminare. Si è trattato di un’ottima decisione: se anche la giurisprudenza era ormai orientata a concedere l’autorizzazione in ogni caso (salvo motivi di diritto), lasciare comunque sulla carta la possibilità per un tribunale di valutare ex ante la fondatezza dell’azione, costituiva un potente strumento lasciato alla discrezionalità del singolo giudice (era inoltre un doppione dell’azione di accertamento, capace di allungare i tempi di un giudizio teso a risolvere l’incertezza sullo status personale). 3. Il rifiuto delle analisi come confessione: l’autogol di Maradona La presentatrice televisiva specializzata in figli naturali e sorprendenti passa in rivista le svariate opinioni che si è meritata la scoperta dell’esistenza di Ariel Borges. La sua voce fuori campo rimane dietro il viso di Maradona mentre introduce la sfilza di manifestazioni: ‘svariate reazioni nazionali e universali sulla possibilità che Jorge Luis Borges abbia potuto lasciare un figlio naturale’. [...] ‘L’amore fa miracoli’, dice Maradona. ‘Nulla mi sorprende a proposito della fecondità degli argentini’, indica Menem. M. VÁZQUEZ MONTALBÁN,

Quintetto di Buenos Aires

50 L’art. 274 c.c. statuisce che «L’azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità è ammessa solo quando concorrono specifiche circostanze tali da farla apparire giustificata. / Sull’ammissibilità il tribunale decide in camera di consiglio con decreto motivato, su ricorso [...] di chi intende promuovere l’azione, sentiti il pubblico ministero e le parti e assunte le informazioni del caso. Contro il decreto si può proporre reclamo con ricorso alla corte d’appello, che pronuncia anche essa in camera di consiglio. / L’inchiesta sommaria compiuta dal tribunale ha luogo senza alcuna pubblicità e deve essere mantenuta segreta. Al termine dell’inchiesta gli atti e i documenti della stessa sono depositati in cancelleria ed il cancelliere deve darne avviso alle parti le quali, entro quindici giorni dalla comunicazione di detto avviso, hanno facoltà di esaminarli e di depositare memorie illustrative». Questa formula, in parte difforme rispetto a quella originaria del codice del 1942, è però il risultato (più che della riforma del diritto di famiglia) delle sostituzioni apportate con l’art. 21 legge 23 novembre 1971, n. 1047.

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Il 29 agosto 2005, nel corso di una puntata della sua trasmissione La notte del 10 in onda sulla televisione argentina, Diego Armando Maradona ha letto questa dichiarazione: Devo puntualizzare alcune cose riguardo al figlio che ho in Italia e devo farlo per rispetto nei confronti delle mie figlie. Comunque accettare non significa riconoscere, e sto pagando con i soldi i miei errori del passato. [...] Un giudice può obbligarmi a pagare gli alimenti, ma non a dirmi chi devo amare.

Le sue parole si riferivano chiaramente, pur senza citarlo, a Diego Armando Junior, nato vent’anni prima a Napoli da una relazione che il campione ebbe con Cristiana Sinagra, quando era signore incontrastato sotto il Vesuvio51. In Italia Diego Junior è furibondo e decide di monetizzare l’abbandono: intraprenderò un’azione legale per danni morali e mancato sostentamento, visto che di affetto e di sentimenti con un uomo piccolo e senza cuore non si può parlare. [...] Ora basta con le cattiverie gratuite. Ho sempre dimostrato affetto e disponibilità a stargli vicino. Con queste sue dichiarazioni danneggia se stesso. Mi auguro che non venga preso come esempio di vita, una vita senza valori cristiani e morali. Che esempio dà alle mie sorelle?52

Per anni Maradona si era rifiutato di riconoscere il ragazzo, che era riuscito a parlare con il padre naturale solo una volta nel 2003, entrando di nascosto nel campo da golf di Fiuggi dove l’ex campione stava giocando una partita. Solo a seguito di una decisione del tribunale, chiamato in causa dalla madre del ragazzo, egli ne è stato dichiarato padre naturale. Nell’emettere la sentenza, la corte ha valutato come decisivo il fatto che Maradona si fosse sempre rifiutato di sottoporsi alle analisi biologiche. 51 Si tratta di un punto delicato nella vita di Maradona: nel film del 2007 che ne ripercorre la vita dall’infanzia, Maradona. La mano di Dio, Marco Risi non parla di questo figlio, notizia che invece è stata molto seguita dalla cronaca e dalla stampa scandalistica. 52 Maradona «rinnega» ancora Diego jr. «Un errore che pago con i soldi», in «la Repubblica», 30 agosto 2005.

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Questa vicenda, che da ultimo pare aver assunto una piega più umana53, non costituisce certo un unicum: la ritrosia verso le analisi è evidentemente diffusa tra i grandi campioni del calcio, giacché (tanto per fare un altro esempio) anche Paulo Roberto Falcão si è rifiutato di sottoporsi al test del DNA su richiesta di Flavia Frontoni. E anche in questo frangente i giudici hanno dato ragione alla donna stabilendo che Giuseppe è figlio dell’ex campione giallorosso. Ebbene, questi casi sollevano una questione molto importante, emersa da quando le analisi scientifiche hanno permesso di chiarire l’identità paterna: cosa fare laddove l’uomo si rifiuti di sottoporsi agli esami ematologici o genetici? Posto che, come già notava la Cassazione nel 1931, la legge non prevede alcun modo per obbligare il soggetto a prestare «la propria persona all’operazione chirurgica della prova»54, si tratta di capire come debba valutarsi l’eventuale diniego (in Gran Bretagna i due tentativi per introdurre analisi del sangue obbligatorie fallirono en53 Se Maradona fino a poco fa era ancora molto duro con suo figlio, recentemente gli ha chiesto scusa, dopo due anni di battaglie legali con l’accusa di mancato versamento degli alimenti dal compimento del diciottesimo anno in avanti, e di diffamazione a mezzo TV. La riconciliazione al Tribunale di Napoli è avvenuta nel novembre 2007: Maradona non c’era, ma c’era un suo scritto, una nota inviata tramite i legali di Milano Hugo Pruzzo e Giuseppe De Naro Papa. Il campione ha scritto che le parole dette in TV sono state solo un fraintendimento («quando ho detto quelle cose in Argentina non volevo offendere nessuno, se le mie parole sono state percepite come offese è accaduto contro la mia volontà»). Ha anche accettato il risarcimento, ha versato gli arretrati, mettendo a disposizione del figlio quanto dovuto sino al compimento dei 25 anni. «Un modo – ha detto Maradona – per dimostrargli la mia vicinanza». Le scuse di suo padre erano anni che Diego Armando Junior le aspettava: «Ora le cose sono cambiate. Certo, sono contento, non me l’aspettavo più. Ma mio padre non ha comunque, nella mia vita, il posto che qualche anno fa speravo avesse. Se l’ho perdonato? Verso di lui ho provato più rabbia che rancore. La rabbia che prova un figlio che in determinati momenti della sua vita non ha un padre accanto a sé». La lettera che Maradona ha affidato ai suoi avvocati il ragazzo non vuole definirla un regalo: «è una cosa normale fatta da chi si è reso conto di aver sbagliato. Da tre, quattro anni, ho capito chi sono davvero le persone che mi vogliono bene». Una vicenda chiusa anche per la Sinagra che dice: «non abbiamo mai voluto speculare su questa vicenda. Diego ha semplicemente ricevuto quanto gli spettava, e cioè gli alimenti arretrati. Noi volevamo solo un rapporto pacifico, un rapporto normale tra un figlio e un padre. Niente di più» (Maradona chiede scusa a Diego junior. Sì al risarcimento per gli alimenti non pagati, in «la Repubblica», 27 novembre 2007). 54 Cassazione, 17 marzo 1931, in «Giurisprudenza italiana», 1931, c. 691.

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trambi55). Ebbene, la giurisprudenza italiana ha sempre sostenuto che, dal mancato consenso non motivato, si possano trarre decisivi argomenti di prova56. Infatti, se anche il giudice non ha potere di imporre coattivamente il prelievo, è però vero che la sottrazione di qualche goccia di sangue venoso non rappresenta certo un grave danno per la parte, per cui tutte le conseguenze del caso possono essere tratte dal rifiuto non opportunamente motivato57. La posizione è condivisa dalla dottrina maggioritaria, anche se non mancano rare voci contrarie58. Del resto, dal rifiuto ingiustificato dell’espletamento della prova ematologica (che a causa del progresso scientifico ha assunto valore di piena prova) il giudice può legittimamente ritenere raggiunta anche la prova per il disconoscimento della paternità59. La scelta di dare rilievo determinante al rifiuto di sottoporsi alle analisi è condivisa da molti ordinamenti (per la Francia: cfr. infra, cap. 10, par. 3), ma non da tutti. Secondo la giurisprudenza tedesca, ad esempio, poiché nessuno può essere obbligato a sottoporsi a questo tipo di analisi, non si può trarre alcuna conclusione dal fatto che la parte la rifiuti.

55 Cfr. Diana Dewar, Orphans of the Living: A Study of Bastardy, Hutchinson, London 1968, p. 62. 56 Per tutte vedi Cassazione, 30 maggio 1951, n. 1375, in «Il Foro italiano», 1951, I, c. 1182 – purché la persona che si rifiuta di sottoporvisi sia una delle parti del processo. Già nel 1931, del resto, la Cassazione affermava che il rifiuto di un soggetto di sottoporsi alle analisi non vale come elemento per dedurne una filiazione laddove il soggetto sia estraneo alla controversia, svolgendovi solo il ruolo di terzo (Cassazione, 17 marzo 1931, cit., c. 691). 57 «È valutabile, come elemento indiziario di convincimento, non solo il rifiuto della parte di sottoporsi alla disposta prova genetica ed ematologica (il quale è assimilabile al rifiuto di ottemperare all’ordine di ispezione corporale di cui all’art. 118, 2° comma c.p.c.) ma anche la sistematica opposizione avverso l’istanza di ammissione di detta prova, riconducibile nell’ambito del comportamento processuale di cui all’art. 116, 2° c.p.c.» (Cassazione, 21 maggio 1985, n. 3094, in «Il Foro italiano», 1985, c. 456). 58 Secondo alcuni non si tratterebbe in alcun modo di un comportamento eloquente, essendo possibile che il rifiuto sia determinato da ragioni estrinseche all’oggetto della controversia (ad esempio perché il soggetto è affetto da lue: cfr. artt. 116, comma 2; 118, comma 2, c.p.c.). 59 Cassazione, 12 novembre 1984, n. 5687.

9 LA RIVOLUZIONE DEL DNA: PADRI BIOLOGICI SENZA LIMITI

1. Il padre dopo la riforma del diritto di famiglia – Pronto – Ascolta, mamma è vicino a te? devi dire a mamma c’è qualcuno che... – Chi sei il signore dell’altra volta? Vado a chiamarla ma sta facendo il bagno non so se può venire [...] Ma tu hai fatto qualche cosa alla mia mamma? quando chiami tu mi dice sempre digli che non ci sono. – Ma dimmi sai scrivere di già? è bella la tua casa? a scuola come va? – Bene ma dato che la mia mamma lavora è una vicina che mi accompagna a scuola però ho solo una firma sul mio diario gli altri hanno quella del loro papà io no. D. MODUGNO,

Piange il telefono

Proprio nel 1975 uscì Piange il telefono cantata da Domenico Modugno: sintesi canora di luoghi comuni misogini nei confronti dell’illegittimità, il brano sollevò furibonde (e comprensibili) reazioni nel mondo femminile. Il colloquio telefonico tra l’uomo e la sua ignara figlia copre in poche battute l’intero arco di una realtà sociale che fatica ad evolversi: il cantante gorgheggia di un uomo che sente il richiamo del sangue, che si interessa della bambina e di sua madre, facendo di tutto per recuperare un rapporto che l’ex amante rifiuta senza pietà. Anche volendo, sarebbe stato difficile immaginare un contrappasso più appropriato per celebrare la riforma del diritto di famiglia. Le novità introdotte dalla legge 151/1975 sono numerose: chiunque e in qualunque circostanza può riconoscere il figlio (tranne il genitore consapevole del rapporto incestuoso); chiunque e con qua-

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lunque mezzo può chiedere l’accertamento in aula della paternità. Anche l’azione di disconoscimento vede ampliati termini e condizioni: se in passato l’uomo poteva avviarla solo entro un anno dalla nascita del bambino, ora la scadenza è di un anno da quando si scopre la verità. Oltre che dal padre, l’azione può essere promossa dalla madre, dal figlio maggiorenne o da un curatore speciale nominato dal giudice, su istanza del figlio minorenne. Soprattutto, però, con la riforma del 1975 viene abrogata la nozione di illegittimità: paternità e filiazione non hanno più come elemento fondante (in negativo e in positivo) né le nozze, per quanto riguarda il figlio, né, sul versante paterno, la volontà. Come in altri paesi occidentali, infatti, il nuovo schema messo a punto dal legislatore riconosce come base effettiva l’elemento naturale e fisico della nascita. Il dato interessante è che la legge, in un contesto ancora scettico verso l’efficacia della scienza, abbia introdotto, accanto alla previsione dell’analisi del sangue, il riferimento agli esami genetici. Se il richiamo alle caratteristiche genetiche è generale, è però significativo il fatto che la riforma abbia inserito tale apertura. Si è così passati dal sostanziale rifiuto del dato scientifico al suo accoglimento con conseguenze che produrranno presto effetti importanti1. Ma nonostante la Costituzione, nonostante la scienza e nonostante la riforma del 1975, occorreranno ancora cinque anni per un effettivo cambiamento. La vera svolta per i padri italiani (e per l’Italia) avverrà, infatti, solo il 22 dicembre 1980 con la sentenza n. 6400 della Cassazione: per la prima volta, si riconosce che le analisi scientifiche possono condurre ad accertare in positivo la paternità, non più solo ad escluderla. Questa storica decisione annullava il pronunciamento di merito che, in linea con la tradizionale tutela della posizione maschile, non aveva accolto la richiesta di acquisizione delle prove scientifiche, respingendo così la domanda di dichiarazione di paternità avanzata dalla donna. Secondo i giudici, infatti, in generale tali rimedi erano rilevanti solo per escludere la paternità e, nel caso particolare, non era comunque possibile avvalersene non essendo stata preliminarmente pro1 In Francia la legge del 15 luglio 1955 aveva espressamente ammesso la prova del sangue nell’accertamento della paternità.

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vata una vera convivenza more uxorio al momento del concepimento. Di converso, la Cassazione affermerà che pur non essendo da sole sufficienti a fornire la certezza, le prove genetiche sono indubbiamente utili a corroborare gli elementi extra scientifici previamente acquisiti attraverso prove testimoniali o documentali nel procedimento selettivo del soggetto responsabile, in ordine alla conseguente formazione del convincimento definitivo.

Un’impostazione subito seguita dalle corti2. Tale pronunciamento non solo tiene conto dei progressi scientifici (già compiuti e che seguiranno), ma interpreta finalmente in modo corretto il richiamo dell’art. 269 c.c. a una prova che «può essere data con ogni mezzo» nella misura in cui coglie l’autentica esigenza di ricercare la verità naturale della filiazione. Le prove biologiche acquistano dunque dignità probatoria pari a quella di tutti gli altri elementi di giudizio, guadagnando il ruolo che meritano nelle controversie relative alla paternità3. Il che, ad esempio, significa che la loro ammissibilità non può essere condizionata dall’impossibilità di giungere altrimenti ad un convincimento4. 2 Cfr., per gli anni seguenti, Corte d’Appello Lecce, 26 febbraio 1983; Cassazione, 12 gennaio 1984, n. 247; 30 gennaio 1985, n. 576; Corte d’Appello Cagliari, 11 maggio 1985; Corte d’Appello Bologna, 18 febbraio 1986; Cassazione, 2 febbraio 1989, n. 654. 3 Se dopo il 1980 la prova della paternità può davvero essere data con ogni mezzo, l’ultimo comma dell’art. 269 impediva al giudice la possibilità di fondare il suo convincimento sulla sola dichiarazione della madre e sulla sola esistenza di rapporti tra lei e il presunto padre all’epoca del concepimento. La giurisprudenza è però concorde nel ritenere che tali circostanze, se suffragate da altri elementi anche presuntivi, possano essere assunti come mezzi di prova della paternità naturale dal giudice di merito a sostegno del proprio convincimento (Cassazione, 22 novembre 1980, n. 2217; 22 novembre 1991, n. 12574). Tra queste circostanze ritenute integrative, vi sono molte di quelle prove che abbiamo incontrato fin dall’Ottocento, e cioè la dimostrazione che la donna non ebbe altri rapporti nel periodo del concepimento (Cassazione, 19 aprile 1982, n. 2408); l’affetto dimostrato dal presunto padre verso il minore; il protrarsi di una convivenza more uxorio di tale intensa donazione reciproca da escludere l’interferenza di altre persone (Cassazione, 21 aprile 1983, n. 2736); la dichiarazione scritta dell’uomo (Cassazione, 17 aprile 1982, n. 2342); il comportamento processuale del convenuto consistente nella mancata e ingiustificata presentazione davanti al consulente incaricato delle indagini ematologiche (Cassazione, 2 dicembre 1985, n. 6015). 4 La decisione suscitò grande consenso anche in dottrina. Cfr. Alfio Finocchia-

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Qualche anno dopo, è sempre la Cassazione a specificare come nel disporre gli accertamenti tecnico scientifici, il giudice non è tenuto ad ammettere l’espletamento di tutte le indagini che la scienza medica indica come possibili, fino a che non sia raggiunto il risultato della certezza assoluta, potendo essere coperto un certo margine di incertezza da elementi di convincimento che il giudice tragga legittimamente aliunde5.

Il mutamento d’ottica assunto dalla riforma lo si ritrova anche in un altro punto cruciale: laddove il riconoscimento sia effettuato da entrambi i genitori, l’esercizio della potestà sul figlio spetta ad entrambi se conviventi, oppure a quello con cui il figlio vive, o – in assenza di convivenza – a chi lo ha riconosciuto per primo (art. 317-bis, comma 2). La priorità temporale del riconoscimento (oltre a dar luogo alla esclusiva potestà genitoriale) comporta l’assunzione del cognome, mentre, nel caso di riconoscimento congiunto, prevale quello del padre (art. 262). Infine, se il riconoscimento paterno (volontario o giudiziale) è successivo a quello materno, il figlio naturale può sostituire il proprio cognome con quello paterno, o aggiungerlo a quello materno (art. 262, comma 2). In quest’ultimo caso, se il figlio è minorenne occorre l’autorizzazione del tribunale che dovrà valutare il suo interesse ad ampliare la sfera dei rapporti affettivi, conducendo ad una più completa definizione della identità personale, familiare e sociale6. Il legislatore ha anche previsto che laddove uno dei due genitori abbia già effettuato il riconoscimento del figlio ultra sedicenne, ne occorra il previo consenso affinché l’altro possa fare lo stesso, né il primo vi si può opporre laddove «il riconoscimento risponda all’interesse del figlio» (art. 250, comma 4; se si oppone, interviene il tribunale dei minori). La valutazione dell’importanza del secondo riconoscimento è effettuata, per solito, tenendo conto del profilo affettivo e dei consero, Le prove ematologiche e genetiche quale mezzo per dimostrare la paternità, in «Giustizia civile», 1981, I, p. 6; Marco Comporti, Paolo Martini, Il nuovo orientamento della Cassazione sulle prove del sangue e genetiche, in «Il Foro italiano», 1981, I, c. 719; Paolo Benciolini, La svolta della Cassazione nell’ammissione delle prove biologiche per la ricerca della paternità: rilievi medico-legali, in «Rivista di Diritto civile», 1981, II, p. 49. 5 Cassazione, 12 gennaio 1984, n. 247, in «Archivio civile», 1984, p. 628. 6 Tribunale minorenni Trieste, 29 luglio 1985, in «Diritto di Famiglia», 1986, p. 590.

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guenti diritti a istruzione, educazione e mantenimento. Devono esistere gravi motivi e concorrere eventi eccezionali perché il secondo riconoscimento sia incompatibile con l’interesse del figlio, trattandosi del diritto-dovere del genitore al riconoscimento della prole naturale sancito in Costituzione (art. 30, comma 1). Ad esempio la Cassazione, con sentenza 16 giugno 1990, n. 6093, ha riconosciuto la legittimità del rifiuto laddove dal riconoscimento possa derivare un trauma così grave da pregiudicare lo sviluppo psicofisico del minore. Qualche anno dopo, premesso che la mera diversità culturale, etnica e religiosa non può di per sé costituire elemento significativo ai fini dell’esclusione all’acquisizione della doppia genitorialità, i giudici hanno ritenuto che il fanatismo religioso possa impedire l’interesse del minore al secondo riconoscimento, nella misura in cui si tradurrebbe in un’indebita compressione dei suoi diritti di libertà o in un pericolo per la sua crescita, secondo i canoni generalmente riconosciuti dalle società civili7. In coerenza con questa impostazione, se è vero che l’art. 231 afferma che il marito è padre del figlio concepito durante il matrimonio, la giurisprudenza ritiene però che tale presunzione di paternità non operi per il semplice fatto di nascita da donna coniugata, rendendosi necessario che vi sia anche un atto di nascita di figlio legittimo o, in alternativa, il possesso di stato8. Si tenga anche conto che la riforma, mentre ha fatto salvi i termini di 180 giorni dopo le nozze e 300 dal loro termine per la presunzione di concepimento in matrimonio, ha però modificato l’art. 233 che oggi stabilisce che il figlio nato prima dei 180 giorni «è reputato legittimo se uno dei coniugi, od il figlio stesso, non ne disconoscono la paternità». Del resto, «ciascuno dei coniugi e i loro eredi possono provare che il figlio, nato dopo i 300 giorni dall’annullamento, dallo scioglimento o dalla cessazione degli effetti civili del matrimonio, è stato concepito durante il matrimonio» (art. 234, comma 1). 7 Cassazione, 27 ottobre 1999, n. 12077. Quindi, ad esempio, la precedente condotta verso la prole del genitore che vuole riconoscere per secondo può essere valutata solo, eventualmente, in sede di decisione dell’affidamento (Cassazione 1412/1993), mentre va tenuto conto del vantaggioso inserimento del figlio nella famiglia del genitore che l’abbia riconosciuto per primo (Cassazione 8861/1993) o della mancanza di un valido rapporto affettivo tra ricorrente e prole (Cassazione 2463/1994). 8 Cassazione, 27 agosto 1997, n. 8059.

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Un ultimo elemento da ricordare. A seguito della riforma, non possono essere riconosciuti solo i figli incestuosi nati da genitori che al tempo del concepimento fossero a conoscenza del rapporto incestuoso che li legava: è ancora la colpa dei padri che ricade sui figli. Il legislatore del 1975, però, ha modificato l’art. 278 c.c. per cui laddove la nascita dell’incestuoso sia avvenuta a seguito di un episodio di ratto o di violenza carnale, il giudice può ammettere l’indagine (in base all’art. 279 il figlio può comunque domandare gli alimenti laddove la ricerca sia vietata)9. All’obiettivo della riforma di porre la responsabilità etica, giuridica ed economica di entrambi i genitori alla base del rapporto di filiazione, ha corrisposto un nuovo atteggiamento nel sentire sociale. L’innovazione, dunque, non appare mossa solo da un’ottica di giustizia, ma anche dall’idea che il figlio abbia bisogno della figura paterna per crescere bene10. Nel romanzo di Helen Dewitt, ambientato negli anni Ottanta, Sibilla, che lavora come segretaria da un piccolo editore di Londra specializzato in dizionari e saggistica, rimane incinta dopo un party di lavoro. Al figlio Ludo fa vedere I sette samurai di Kurosawa «almeno una volta alla settimana», e gli legge e rilegge l’Odissea, Zanna

Siffatta autorizzazione (come quella relativa al minore e all’incapace) costituisce un’evidente limitazione processuale «e corrisponde, insieme al giudizio preliminare di ammissibilità ex art. 274 c.c., alla previsione costituzionale di uno dei vari limiti alla ricerca della paternità, ai sensi dell’art. 30, comma 4, Cost. A tal proposito si deve evidenziare la perplessità dell’attribuzione di una potestà autorizzativa al giudice, senza la previa determinazione di criteri atti a ridurre la discrezionalità di siffatto potere giudiziario, evidentemente volto a porre un freno agli scandali e ai turbamenti dell’opinione pubblica» (Roberto Thomas, L’accertamento della filiazione naturale, Giuffrè, Milano 2001, p. 100). 10 In alcune osservazioni si coglie il faticoso passaggio a una nuova fase. Così, se la prima parte del discorso è reazionaria – «sentirsi padre significa sentirsi in grado di assumere le basi necessarie di quella sicurezza che la donna e il bambino si attendono dall’uomo che è insieme marito e padre, nel contesto dell’attuale società in cui l’uomo è figura preminente. [...] Il sentimento paterno comporta quindi una tenerezza di carattere tutto particolare, una tenerezza in certo senso controllata poiché la domanda (della moglie e soprattutto del figlio) è domanda di sicurezza e dunque di certezza e dunque di forza» – la conclusione, però, offre uno spiraglio: «il lattante ha bisogno dell’amore incondizionato e della sollecitudine materna; [...] gradualmente il bambino ha altrettanto bisogno dell’amore del padre che deve assisterlo con la sua autorità e i suoi consigli» (Bernard Muldworf, Il mestiere di padre, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 109-10). 9

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Bianca, Marduk, cane delle steppe mongole, Winnie the Pooh: è il suo modo di dargli un riferimento maschile11. Troviamo così espressamente affermata la necessità della vicinanza fisica tra il nato e suo padre: se nel 1945 il noto pediatra americano Benjamin Spock sosteneva che solo il coinvolgimento materno fosse indispensabile nella cura del bambino, lo stesso Spock quarant’anni dopo rivolgerà un severo monito ai padri, invitandoli ad avere cura dei figli, e a dividere in parità con la madre i compiti domestici12. La vicinanza con il padre sostituisce quella che, al contrario, era stata la sua tradizionale assenza anche quando egli era presente perché legittimo o conosciuto13. Si è così affermato, anche a livello sociale e di costume, il principio della responsabilità della procreazione. Da un certo punto in poi (qualcuno sostiene già dalla fine degli anni Cinquanta), il padre ha iniziato ad essere presente in sala parto, e, soprattutto, ha cominciato (sia pure lentamente) a svolgere compiti prima difficilmente immaginabili. Pensiamo agli uomini che cambiano i pannolini nel celebre film di Coline Serrau (1985) Tre uomini e una culla (rifatto poi da Hollywood nel 1987 come Tre scapoli e un bebè). Insomma, per un concorrere di fattori, la paternità sta ormai assumendo un significato intrinseco, a prescindere dal matrimonio e dalla figura materna. Dopo che, a lungo, i concetti di paternità, maternità e Helen Dewitt, L’ultimo samurai, Einaudi, Torino 2002. Negli anni Ottanta un padre racconta di essere stato molto vicino a sua figlia neonata occupandosene: «ora la bambina ha 3 anni, abbiamo voluto un altro figlio che adesso ha dieci mesi. Mi occupo anche di lui, ma a questo punto sono completamente distrutto dalla fatica fisica e mentale. Per la prima volta riesco a capire che razza di pesi abbiamo scaricato sulle spalle delle donne, ma quello che non riesco a capire è come ce l’abbiano fatta. Il sentimento che sperimento più spesso in questo periodo di grande stanchezza, è il desiderio di fuga» (testimonianza di un padre, citata da Elena Gianini Belotti, I nuovi padri e le nuove madri, in Sabino Acquaviva et al., Ritratto di famiglia degli anni ’80, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 156). 13 Scrive Paul Auster che i ricordi più remoti sono «la sua assenza. Nei primi anni della mia vita andava al lavoro la mattina presto, prima che mi svegliassi, per tornare quando mi avevano già messo a letto da un pezzo. [...] Non che sentissi che mi detestava; solo sembrava distratto, incapace di guardare nella mia direzione» (Paul Auster, L’invenzione della solitudine, Anabasi, Milano 1993, p. 23). Nel romanzo postumo Mio padre e io (1968) Joe R. Ackerley racconta che «per tutti gli anni della nostra formazione egli fu quel che si potrebbe definire un padre ‘da fine settimana’, e forse nemmeno quello» (Joe R. Ackerley, Mio padre e io, Adelphi, Milano 1981, p. 75). 11 12

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filiazione nelle nozze sono stati così interdipendenti da non essere suscettibili di definizione autonoma14, il piano sembra ora scindersi. Emerge però un dubbio: è forse un caso che ciò avvenga proprio nel momento in cui la famiglia sembra essere entrata molto in crisi?15

2. Una donna dimenticata sulla via del DNA Ma le vere chimere – ovvero le persone con due sequenze di DNA – erano state scoperte solo di recente. Una donna in attesa di un trapianto di rene aveva fatto sottoporre a dei test i suoi figli come possibili donatori, per poi scoprire che non avevano il suo DNA. Le era stato detto che i bambini non erano figli suoi e le avevano chiesto di provare di averli effettivamente partoriti. Ne era seguita una causa legale. Dopo studi approfonditi, i medici avevano constatato che il suo corpo possedeva due diverse sequenze di DNA. Nelle sue ovaie trovarono ovuli con due tipi di DNA. Le cellule della pelle del suo addome avevano il DNA dei suoi figli. La pelle delle sue spalle, no. Era un mosaico. [...] Di certo, ogni qual volta si presentava un caso di paternità dubbia, il chimerismo doveva essere preso in considerazione. M. CRICHTON,

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La tappa decisiva per giungere ad una paternità definita dalla natura si ebbe con la scoperta del DNA, che nel giro di due genera14 In questo senso colpisce la definizione progressista dell’Enciclopedia giuridica italiana nell’edizione di inizio secolo: «dicesi filiazione il vincolo di parentela che unisce il figlio al padre e alla madre. Il vocabolo filiazione è quindi correlativo dei vocaboli paternità e maternità, che esprimono il vincolo di parentela che unisce i genitori al figlio. In altri termini filiazione significa la qualità di figlio, come paternità e maternità significano la qualità di padre e di madre» (Vittorio Wautrain Cavagnari, Filiazione, in Enciclopedia giuridica italiana, vol. VI, t. 2, Società editrice libraria, Milano 1903, p. 669). Questa formula colpisce giacché nel definire la prole omette ogni riferimento al matrimonio. 15 Nell’ultimo romanzo di Stefano Zecchi i protagonisti acquistano una statuetta che è l’emblema di un mondo scomparso: «Quella piccola scultura di legno antico raffigurava una famiglia: la madre, probabilmente incinta, il padre, due bambini... ma i loro corpi si confondevano in un curioso intreccio che non rispettava le proporzioni delle singole figure. Era come se lo scultore avesse voluto rappresentare la sua idea di famiglia attraverso la fusione dei corpi, eliminando però le fisionomie delle persone che la componevano» (Stefano Zecchi, Il figlio giusto. Romanzo di una maternità, Mondadori, Milano 2007, p. 31).

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zioni, dai laboratori di pochi specialisti è divenuto una nozione ricorrente nel linguaggio quotidiano. James D. Watson, Francis H.C. Crick e Maurice H.F. Wilkins individuarono nel 1953 la struttura tridimensionale degli acidi nucleici costituiti da lunghe catene molecolari avvolte ad elica16. I risultati delle loro ricerche vennero pubblicati sul numero di «Nature» del 25 aprile di quell’anno, con un articolo dallo storico incipit: «we wish to suggest a structure for the salt of deoxyribose nucleic acid»17. Questa scoperta li porterà nel 1962 a vincere il premio Nobel per la medicina. In realtà alla scoperta aveva contribuito anche una quarta persona, Rosalind Franklin, cristallografa professionista, morta a soli 37 anni il 16 aprile 1958. Nata nel 1920 in una buona famiglia, Rosalind Franklin studiò al Newnham College di Cambridge, iniziando quindi la sua carriera di ricercatrice a Parigi, e continuandola al King’s College di Londra. Fu qui che le sue foto del DNA folgorarono Watson (a cui Wilkins le aveva mostrate a insaputa della donna), giacché in esse riconobbe la raffigurazione della doppia elica. Nel 1952, infatti, utilizzando una macchina da lei modificata, la Franklin aveva ottenuto la foto del DNA nella forma B. Questo fatto, unito all’analisi del suo riscoperto epistolario e alle interviste rilasciate dai protagonisti minori della vicenda, ha indotto molti a ritenere che sia stata proprio lei la vera scopritrice della morfologia a elica del DNA. Dieci anni dopo il decesso della Franklin, Watson pubblicava La doppia elica. Il segreto della vita, tradotto in diciassette lingue, letto da oltre un milione di persone e definito dall’autore «un resoconto personale della scoperta della struttura del DNA»18. Per pubblicarWatson era un brillante studente americano: conseguì il PhD in genetica all’Università dell’Indiana e ricevette una borsa di studio per continuare la sua preparazione in laboratori europei. Dopo aver girato un po’, trovò un posto nel laboratorio di Cambridge. Sperava di capire la struttura del DNA, ma il suo supervisore americano, convinto che fosse un’impresa impossibile, soppresse la borsa di studio. A Cambridge però lo aiutarono a sopravvivere, benché nemmeno la direzione del laboratorio avesse fiducia nel progetto. 17 In esso v’era anche un disegno della molecola fatto da Odile Crick, moglie di Francis. 18 Nell’ottobre del 2007 Watson è tornato agli onori della cronaca mondiale per delle dichiarazioni razziste: «sono pessimista sulle prospettive dell’Africa perché tutte le politiche sociali dell’Occidente sono basate sul fatto che la loro intelligenza sia uguale alla nostra» (Guido Santevecchi, Watson: neri meno intelligenti dei 16

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lo Watson aveva ottenuto un contratto con la Harvard University Press, sennonché, dopo che ne era circolata una prima bozza (tra il 1966 e il 1967), le critiche indussero la casa editrice a rescinderlo. Non era tanto un problema di merito, quanto piuttosto il fatto che nel libro si offendevano inutilmente molte persone, e in particolare colei che non era più in grado di difendersi. Se anche poi Watson eliminò o attenuò alcuni dei passaggi sotto accusa, ugualmente La doppia elica poté essere pubblicata solo da un editore commerciale, Athenaeum. Nel volume, infatti, non solo l’autore minimizza il lavoro scientifico della Franklin, ma la presenta come una donna lunatica, irascibile, inaffidabile e poco femminile19. Di lei si perse rapidamente memoria (per responsabilità dei suoi stessi colleghi che praticamente mai la citarono), con un oblio che continua ancora oggi20. Qualche reazione all’attacco misogino e volgare si ebbe solo in sede di recensione al libro. Tornando al DNA, dapprincipio vi si ricorse in ambito prettamente medico per identificare i caratteri genetici dei disturbi familiari. Fu solo dopo trent’anni dalla sua individuazione che entrerà a pieno titolo in tribunale, grazie al genetista Sir Alec Jeffreys, ricercatore dell’Università di Leicester. Il casus belli avvenne nel 1985 quando un bambino del Ghana, arrivato in Gran Bretagna per raggiungere la madre, rischiava di venire espulso perché privo di passaporto. I suoi legali si rivolsero a Jeffreys domandando se vi fosse un modo per accertare scientificamente il legame tra lui e sua madre: il genetista riuscì nell’impresa, e il bimbo rimase in Inghilterra enbianchi, in «Corriere della Sera», 18 ottobre 2007, p. 29). Dopo qualche giorno sono arrivate le scuse ufficiali. 19 «Di proposito non faceva nulla per mettere in rilievo la sua femminilità. Malgrado i lineamenti un po’ marcati, non mancava di attrattive e avrebbe avuto il suo fascino se si fosse occupata un minimo del suo abbigliamento. Ma se ne guardava bene. Non metteva un filo di rossetto che facesse risaltare i capelli neri e lisci, e a trentun anni vestiva con la fantasia di un’occhialuta liceale» (James D. Watson, La doppia elica, Garzanti, Milano 2004, pp. 54-55). 20 Robert Olby, Storia della doppia elica e nascita della biologia molecolare, Mondadori, Milano 1978, p. 323, parla degli «abbaiamenti» della Franklin. Nel pur interessante testo di Evelyn Fox Keller Il secolo del gene (Garzanti, Milano 2001) non v’è invece alcun accenno alla Franklin. Tra le poche biografie a lei dedicate, cfr. Anne Sayre, Rosalind Franklin and DNA, Norton, New York 1975, o la più recente Brenda Maddox, Rosalind Franklin. La donna che scoprì la struttura del DNA, Mondadori, Milano 2004. Mentre Sayre enfatizza l’aspetto misogino dell’intera vicenda, Maddox vi aggiunge anche un risvolto antisemita.

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trando nella storia. L’anno dopo, la polizia del Leicestershire ricorse all’aiuto di Jeffreys per risolvere il caso dell’omicidio di due ragazze quindicenni, violentate e brutalmente assassinate21. Jeffreys aveva elaborato un nuovo tipo di impronta digitale, l’impronta del DNA «o, con un termine un po’ meno corrivo, il profilo del DNA»22. L’invenzione venne quindi acquistata e brevettata dalle Imperial Chemical Industries, che nel giugno 1987 crearono la Cellmark Diagnostics e il laboratorio di Abingdon per far sì che i test genetici fossero accessibili a chiunque. Il successo di questo tipo di analisi sarà fulminante: già alla fine degli anni Ottanta venivano comunemente utilizzate dalle polizie dei vari paesi, FBI compreso, e dai laboratori privati. Com’è evidente, il loro uso nei casi di interesse criminale è stato rivoluzionario: la nozione di «individualità del sangue» di Leone Lattes assume finalmente pieno significato. Una goccia di sangue, un capello, una traccia di sperma, la saliva su un francobollo, il mozzicone di una sigaretta, il solo contatto con un oggetto, è sufficiente a fornire un elemento eloquente per risalire al codice a barre del soggetto coinvolto23. 21 La polizia, convinta che il responsabile dei delitti fosse uno solo, aveva organizzato una vera e propria caccia all’uomo, arrestando un giovane mentalmente disturbato che affermò di essere l’autore dei fatti. La confessione però non convinse gli inquirenti. Fu a questo punto che si chiese l’aiuto della genetica, con Jeffreys che confrontò tracce di sperma trovate sulle ragazze con quello del reo confesso: le vittime erano state sì uccise dallo stesso uomo, ma costui non era l’accusato (K.F. Kelly, J.J. Rankin, R.C. Wink, Method and Applications of DNA Fingerprinting: A Guide for the Non-Scientist, in «The Criminal Law Review», 1987, pp. 105, 108; Lisa Bouwer Hansen, Stemming the DNA Tide: A Case for Quality Control Guidelines, in «Hamline Law Review», 1992, pp. 211, 213-14). Su richiesta delle autorità, gli oltre 3.500 maschi abitanti in tre villaggi della contea accettarono di sottoporsi volontariamente alla determinazione del profilo del DNA. Sentendosi braccato, il vero omicida convinse un amico a presentarsi a suo nome, ma la sostituzione venne scoperta e il colpevole identificato. La scoperta venne pubblicata da Peter Gill, Alec J. Jeffreys, David J. Werrett, Forensic Application of DNA «Fingerprints», in «Nature», 1985, p. 577 e ripresa dai maggiori giornali: cfr. ad esempio Craig Seton, Life for Sex Killer Who Sent Decoyto Take Genetic Test, in «The Times», 23 gennaio 1988. 22 Gerd Gigerenzer, Quando i numeri ingannano. Imparare a vivere con l’incertezza, Cortina, Milano 2003, p. 189. 23 Negli Stati Uniti il primo grande processo federale che chiamò in causa in modo decisivo le analisi sul DNA fu United States of America vs. Randolph Jakobetz: una donna del Vermont venne rapita e violentata, e la polizia ne individuò l’autore in Jakobetz, un camionista i cui campioni di sangue e sperma furono inviati

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L’esordio giudiziale del DNA ha avuto vasta risonanza nei mezzi di comunicazione di tutto il mondo, divenendo subito popolare presso il grande pubblico, soprattutto per l’univocità delle conclusioni che permette di raggiungere. Di forte impatto, ad esempio, è stato l’utilizzo della scoperta per attestare l’identità di un defunto (come nel caso dello zar Nicola II) o i suoi legami familiari24. Più recentemente, grande eco ha avuto il ricorso al DNA per dimostrare l’innocenza di tanti condannati negli Stati Uniti, molti dei quali destinati alla sedia elettrica. Un utilizzo che si deve in particolare a Barry C. Scheck della Cardozo School of Law e al suo Innocence Project. John Grisham, nel romanzo The Innocent Man (2006), racconta la reale vicenda di Ron Williamson e di Dennis Fritz condannati per un omicidio che non avevano commesso. Il secondo, frequentando la biblioteca giuridica, era al corrente degli ultimi sviluppi e delle sentenze più recenti. All’inizio degli anni Novanta si era cominciato a parlare di test del DNA e lui leggeva tutto quello che trovava sull’argomento. Nel 1993 un episodio del Phil Donahue Show fu dedicato a quattro uomini scagionati dalla prova del DNA. Lo videro in moltissimi, specie in carcere, e fece da catalizzatore per il movimento contro gli errori giudiziari in tutto il paese25.

L’utilizzo del DNA non ha però interessato solo l’ambito penale, ma è stato chiamato in causa anche in sede privatistica. Oltre che neai laboratori dell’FBI di Washington. Durante il processo, un esperto dell’FBI affermò che lo sperma rinvenuto sulla vittima era dell’uomo con un margine di errore di 1 su 300 milioni. Sulla base di questo, e di altre prove, Jakobetz venne condannato a quasi trent’anni di carcere. 24 Con le analisi del DNA affidate al celebre patologo legale Weedn (per incarico del governo russo), si sono identificate le spoglie dello zar Nicola II, così come si è escluso che Anna Anderson fosse, come sosteneva, Anastasia Romanova, sopravvissuta all’esecuzione della notte del 16 luglio 1918 (la vicenda divenne un film, che ebbe per protagonista Ingrid Bergman). Con il tempo, la Anderson si fece coinvolgere in infinite battaglie legali, dividendo il pubblico in sostenitori e detrattori. La fine della vicenda fu segnata dal DNA mitocondriale di Anna che, recuperato da una biopsia effettuata in occasione di un intervento all’intestino nel 1979, dimostrava che ella non poteva essere la figlia dello zar. Sempre grazie al DNA, si è scoperto che i resti conservati nella cripta della cattedrale di Lima in realtà non erano affatto quelli di Francisco Pizarro, come generalmente si credeva. 25 John Grisham, Innocente, Mondadori, Milano 2007, pp. 355-56.

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gli accertamenti di paternità (di cui diremo)26, vi si ricorre laddove si voglia verificare la maternità biologica, innanzitutto quando l’identità della madre non è certa27. L’utilizzo del DNA ha avuto, e sta avendo ancora, effetti molto importanti nella ricerca dei figli dei desaparecidos argentini sottratti alla nascita alle loro madri. In questi casi, il problema è che, essendo scomparsa la generazione di mezzo, si hanno a disposizione solo campioni dei probabili nonni e dei presunti nipoti. Nel 1982, a New York, Chicha Mariani e Estela Carlotto posero la questione, a nome dell’associazione Abuelas de Plaza de Mayo28, al professor Victor B. Penchaszadeh, un medico argentino fuggito nel 1975 da Buenos Aires per scampare agli squadroni della morte, e divenuto poi docente dell’Albert Einstein College of Medicine. Tramite questi, le due donne furono messe in contatto con Eric Stover (direttore dell’American Association for the Advancement of Science) e successivamente con Mary-Claire King, una dottoressa che – con altri – aveva messo a punto un test genetico in base al quale ricostruire il rapporto nonna-nipote avvalendosi del DNA mitocondriale (test definito di abuelismo29). Il presidente argentino 26 Il test di paternità si basa sul principio che ogni individuo eredita il proprio patrimonio genetico dai genitori, il 50 per cento dal padre e il 50 dalla madre, e consiste nel confrontare le caratteristiche genetiche del figlio oggetto di indagine con quelle del presunto padre e della madre. Il padre presunto, per essere considerato padre biologico, dovrà possedere metà del profilo genetico presente nel/nella figlio/a. 27 Rientrano nella casistica gli scambi nella culla, i figli separati dalla nascita, la fecondazione assistita (qualora si debba verificare l’utilizzo della corretta cellula germinale femminile) o il test di consanguineità (per ottenere il ricongiungimento familiare per gli extracomunitari). Il test del DNA può fornire risultati accurati e affidabili anche in assenza del padre biologico. In questo caso è però necessario analizzare un numero di sistemi superiore. 28 L’associazione Abuelas de Plaza de Mayo ha quattro dipartimenti: l’investigativo (ricerca dei nietos desaparecidos), il genetico (accertarne l’identità mediante gli esami del sangue), il giuridico (intraprendere azioni legali), lo psicologico (ci si è accorti infatti della necessità di aiutare i giovani traumatizzati dalla scoperta). Il primo processo si è aperto a Buenos Aires nella primavera 2001: alla sbarra il tenente colonnello dell’esercito Ceferino Landa e la moglie Mercedes Beatriz Moreira. 29 In termini semplici, ogni individuo riceve dai genitori il DNA nucleare, formato dai geni, unità di materiale ereditario presenti nel nucleo della cellula. Una piccola porzione del DNA si trova però in organuli chiamati mitocondri, da cui DNA mitocondriale, con la particolarità che nei mammiferi i mitocondri dell’embrione provengono soltanto dalla cellula uovo (perché dopo la fecondazione i mitocondri dello spermatozoo degenerano). I geni mitocondriali non vengono pertanto trasmessi secondo le leggi mendeliane che regolano la trasmissione dei geni

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Alfonsín creò quindi, presso il ministero della Giustizia e dei Diritti umani, una Banca nazionale di dati genetici onde trovare e identificare i bambini scomparsi30. La formazione nel 1992 del CONADI (Comisión nacional por el derecho a la identidad – che include, fra gli altri, l’associazione Abuelas de Plaza de Mayo) ne ha centralizzato e coordinato la ricerca. La raccolta di informazioni ha condotto all’arresto e all’incriminazione di ex membri della giunta militare, il che ha determinato un’anomalia nel sistema argentino: gli ex militari possono essere perseguiti per aver rapito i bambini, ma non possono essere incriminati per l’uccisione dei desaparecidos. Il romanzo di Elsa Osorio così racconta: Il 3 agosto 1998 Nora Mendillarzu de Ortiz entrò a passo incerto nella sede delle nonne. Non sapeva come affrontare l’argomento. [...] Era lì, spiegò a Delia, perché... aveva ricevuto una strana telefonata da parte dell’uomo che era stato sposato con sua figlia. Mia figlia è sparita durante la dittatura militare. Era incinta, ma suo figlio era nato morto. Lei lo aveva saputo molti anni prima. Suo genero le aveva suggerito di andare a trovare le nonne perché... [...] sembra che lui abbia ricevuto la visita di una ragazza [Luz] a Madrid, dove attualmente vive. [...] [Delia] conosceva benissimo Luz, la ragazza di cui le aveva parlato Carlos. Tartagliava cercando di spiegarle con quanto coraggio, quanta costanza, quanta disperazione Luz avesse cercato le proprie origini. [...] ‘La prassi in queste circostanze è che lei faccia l’analisi di compatibilità istologica, i dati di Luz sono già in laboratorio’. Mentre parlava, Delia cercava qualcosa nel cassetto della scrivania. Sì, eccola lì. Tese a Nora la fotografia. Questa è Luz, con suo figlio, Juan. [...] ‘Luz ha fatto le analisi ma, chiaramente, non c’erano dati sul suo sangue nella Banca delle Informazioni Genetiche’. [...] Nora guardava la fotografia senza emettere un suono. ‘No’, disse alla fine, le sue parole erano quasi impercettibili, soffocate dall’emozione, a Nora non sembrava necessario, gli occhi fissi sulla foto, le bastava quannucleari, ma per via materna. Ciò significa che il figlio di una donna desaparecida ha lo stesso DNA non solo della madre, ma anche della nonna materna, così come degli zii materni o dei suoi eventuali fratelli o sorelle. 30 Il diritto dei bambini alla loro identità è espressamente protetto dall’art. 8 della Convenzione dei diritti del bambino, ratificata dall’Argentina nel 1990: i governi si impegnano a rispettare il diritto del bambino a preservare la sua identità, inclusa la nazionalità, il nome e le relazioni familiari riconosciute dalla legge; quando il bambino è privato da tutti o da alcuni elementi della sua identità, gli Stati devono attivarsi per ricrearla. La convenzione è stata incorporata nel 1994 nella Costituzione argentina.

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to lei le aveva detto, e con il dito toccava il volto di Luz nella foto, e questa fotografia: è Liliana, gli stessi occhi, lo stesso modo di mettersi in posa. Finalmente Nora poté staccarsi dalla foto, guardò Delia e, con la voce più ferma: ‘questa notizia, così inaspettata, mi riempie di gioia. Non mi servono prove. Credo che Luz sia mia nipote. Non ne ho il minimo dubbio. Ma se crede che per lei possa essere importante, non ho nessun problema a fare le analisi’31.

Il ricorso alle analisi del DNA si sta sviluppando anche nelle cause di affidamento dei figli. Onde sottrarre all’ex coniuge la prole, si ricorre alle mappature genetiche per dimostrare la propria (futura) salute e le altrui (future) patologie32. Nell’interessantissimo Next, Michael Crichton ha romanzato la realtà: ‘Voglio che mia moglie si sottoponga a un test genetico. [...] Per esempio, scommetto che mia moglie ha una predisposizione genetica al disturbo bipolare. Di certo si comporta in modo bizzarro. Potrebbe avere il gene dell’Alzheimer’ [...]. [L’avvocato] Barry Sindler si rese conto che quei test genetici potevano diventare la procedura standard per tutti i casi di custodia. [...] ‘Facciamole fare il test per il gene del diabete, il test BRCA per il cancro al seno e tutto il resto [...]. Mia moglie potrebbe anche avere la malattia di Huntington che causa una progressiva degenerazione del sistema nervoso. Suo nonno soffriva di Huntington, perciò ha precedenti in famiglia’. [...] ‘Questo potrebbe renderla inadatta a ottenere l’affidamento dei bambini’. [...] ‘Le vengono in mente altri esami?’. ‘Diamine sì’, sbottò Diehl, ‘questo è solo l’inizio. Voglio che si sottoponga a tutti i test genetici esistenti. Al momento ce ne sono circa milleduecento’. [...] ‘Ma si rende conto che se fa una cosa del genere, sua moglie pretenderà che lei faccia lo stesso?’. ‘Nessun problema’. ‘Ha già fatto i test?’. ‘No. Ma so come falsificare i risultati di laboratorio’. Barry Sindler si appoggiò allo schienale della sedia. Perfetto33.

Elsa Osorio, I vent’anni di Luz, TEA, Milano 2002, p. 355. Nella Carolina del Sud un giudice ordinò di effettuare il test di Huntington su una donna dietro richiesta dell’ex marito allo scopo di toglierle la potestà genitoriale (Berkeley County Department of Social Services vs. David Galley and Kimberly Galley, 92-Dr-08-2699, Moncks Corner, South Carolina, 19 aprile 1994). La donna, non avendo intenzione di essere esaminata e di apprendere eventualmente di possedere una malattia genetica incurabile, decise di sparire. 33 Michael Crichton, Next, Garzanti, Milano 2007, pp. 46-47. 31 32

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Come dimostra questo esempio, se la scoperta del DNA e il suo utilizzo nella pratica giudiziaria hanno avuto enormi effetti positivi, molti sono al contempo i problemi che hanno sollevato. La questione di fondo è riassumibile nel fatto che il bagaglio di indicazioni che essi forniscono può determinare conseguenze estremamente problematiche. Il caso di più immediata evidenza è quello delle assicurazioni mediche: laddove la mappa genomica sia in grado di illuminare con certezza sulle malattie future, è chiaro che rischierebbe di saltare l’intero sistema delle assicurazioni private34.

3. Il DNA in aula: padri senza scampo Perché a suo tempo ha deciso di opporsi con tale virulenza all’esame dei tessuti? Se si fosse accertato che sono il padre biologico, sarebbe stato per me molto più difficile, forse impossibile, vincere la causa contro di Lei. Ancor oggi non mi capacito: temeva forse che si dimostrasse che non sono suo padre? [...] O piuttosto ha preferito perversamente perdere tutto e finire per strada con il bambino, soltanto per insinuare in me un’ombra di dubbio? [...] Ecco qui una nuova proposta da parte del drago in pensione: se mi darà una risposta diretta al perché si è opposta nell’anno 1968 all’esame per accertare la paternità e al perché adesso invece si dichiara favorevole, per parte mia mi impegno a nominare Boaz mio erede. A. OZ,

La scatola nera

Grazie al DNA, la paternità è diventata facilmente accertabile, ed è possibile risolvere tante situazioni un tempo giudicate irrisolvibili, potendo ottenere indicazioni non solo a nascita avvenuta, ma anche prima della medesima, con qualche rischio per l’incolumità del nascituro35. 34 V’è anche il controverso uso delle analisi sul DNA onde controllare i fenomeni migratori, come fece nel 1989 il governo Thatcher. In quest’occasione infatti, si autorizzò l’utilizzo dei test sugli immigranti che domandavano di essere ricongiunti con i loro parenti in Gran Bretagna per accertare l’autenticità del legame (il Canada introdusse questa disciplina nel 1991). Se in teoria i soggetti potevano rifiutare di sottoporsi all’esame, in pratica ciò non succedeva mai: si pensi, tra le altre, alle difficoltà che potevano sorgere in caso di bambini adottati. 35 Si possono utilizzare cellule fetali ottenute con due distinte procedure: il prelievo di villi coriali (PVC o villocentesi) e il prelievo di cellule amniotiche (PCA o

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Queste analisi hanno permesso di raggiungere un nuovo traguardo, in termini pratici e simbolici. Recentemente, i giornali italiani hanno riportato le vicende di due ragazze (alto-atesina l’una, molisana l’altra) che hanno chiesto che una quindicina di uomini si sottoponesse al test del DNA per capire di chi fosse il bimbo che portavano in grembo. In passato, quando non v’era la certezza delle risultanze mediche, già prima di entrare nel merito della questione, tale richiesta non poteva essere nemmeno proposta: la conditio sine qua non di un accertamento di paternità era, infatti, che la donna avesse dimostrato di non aver avuto rapporti con altri uomini, oltre al presunto padre, al tempo del concepimento. Insomma, il fatto che la madre abbia avuto nel medesimo tempo rapporti con più uomini non è più d’impedimento alla possibilità di individuare con precisione chi sia tra loro il responsabile della gravidanza. Se inizialmente vi fu una certa perplessità della nostra giurisprudenza a riconoscere una paternità in questi casi, la certezza dei risultati scientifici ha finito per convincere le corti. Grazie al DNA inoltre, è possibile indagare la paternità in tutti quei casi in cui il rifiuto del prelievo ematico era dovuto a motivazioni religiose, come nel caso dei testimoni di Geova. Anche in termini di concreta operatività, l’analisi del DNA presenta molti vantaggi. Se infatti agli inizi per eseguirla era necessario un prelievo di sangue, oggi basta un cotton fioc: gli esami, infatti, sono sempre più facili, economici ed accessibili. Ci si può addirittura avvalere di un kit fai-da-te composto da tamponi, simili a piccoli spazzolini da denti, da passare sulle gengive del presunto padre e del figlio. Nel kit si trova un codice attraverso il quale, mantenendo l’anonimato, il richiedente verrà identificato. In pochi giorni e al costo di 600 euro36, anche per telefono, posta, e-mail o video on line, dichiarando solo i codici, si avrà il responso relativo alla compatibilità tra i amniocentesi). Il PVC si effettua normalmente attorno alla decima-tredicesima settimana di gestazione, comporta un prelievo di cellule della placenta e per effettuare il test sono anche necessari il prelievo di sangue/tampone buccale della madre e del padre presunto. L’amniocentesi si effettua generalmente dalla quindicesima alla ventiquattresima settimana di gestazione, comporta un prelievo di cellule fetali dal liquido amniotico e per effettuare il test sono anche necessari il prelievo di sangue/tampone buccale della madre e del padre presunto. 36 Il tempo necessario all’esecuzione di un test di paternità, in condizioni standard (due o tre soggetti viventi), è compreso tra i cinque e i sette giorni lavorativi.

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due campioni, con una certezza del 99,999 per cento. Se si stanno aprendo e diffondendo centri ad hoc37, è però soprattutto su internet che si moltiplicano i prelievi fai-da-te, anche in Italia. Negli Stati Uniti la pubblicità lancia slogan come «Who’s daddy?» e «Wanted: my father», mentre fra i paesi dell’Unione Europea è l’Italia a presentare il più alto numero di laboratori specializzati per i test genetici. In Austria, l’occorrente per il fai-da-te si trova nei negozi a 15 euro: i due tamponi vanno poi mandati a un laboratorio di Graz dove, per 500 euro, l’analisi cosiddetta informativa stabilisce solo se i due DNA siano compatibili; per gli accertamenti con valore legale da presentare in tribunale (per cui è necessario il consenso della madre), invece, si paga almeno il doppio. Due elementi sono indispensabili per effettuare un accertamento di paternità che abbia valore legale: il test deve venire eseguito sui soggetti effettivamente dichiarati, e deve esservi il consenso all’esecuzione dell’accertamento (per il prelievo da minori è necessaria l’autorizzazione di colui che ha la patria potestà). Qualora vi sia l’impossibilità di raccogliere contestualmente il materiale biologico delle parti, è possibile effettuare i prelievi in tempi e luoghi diversi, purché non all’insaputa di uno o dell’altro genitore. Al termine dell’analisi viene redatta una dettagliata relazione tecnica (comprensiva di cromatogrammi e analisi statistica dei risultati), che potrà essere utilizzata a fini processuali, in azioni di riconoscimento o di disconoscimento di paternità. Se, nella maggioranza dei casi, il test viene effettuato su tre soggetti (madre, figlio e presunto padre), esso, però, può fornire risultati accurati e affidabili anche in assenza della disponibilità materA Liverpool ha recentemente aperto il primo centro specializzato walk in, Sequence Biotechnologies: seduta stante, senza appuntamento, campioni di sangue, capelli o saliva sono analizzati. Ma insieme ai test per determinare la paternità o la maternità il centro offre anche un servizio di aiuto psicologico pre-test: i gestori del servizio si sono accorti che dai risultati possono derivare conseguenze serie e gravi, per cui si vuole mettere in guardia chi vi ricorre. Ogni anno in Gran Bretagna si eseguono 10.000 test del DNA, numero decuplicato nell’ultimo decennio. Molti test sono commissionati dai tribunali o dalle agenzie governative, come la Child Support Agency che, dal 1995, usa i test come strumento per ottenere una certificazione di paternità biologica onde obbligare quei padri che non vogliono riconoscere i figli almeno a mantenerli. Ma il settore in crescita è quello dei test peace of mind, cioè richiesti in segreto per togliersi ogni dubbio: in un caso su sette l’uomo in effetti risulta non essere il padre. 37

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na: tecnicamente l’accertamento effettuato solamente su padre e figlio è più laborioso, ma i risultati sono gli stessi. Rispetto alle prove ematologiche, le indagini sul DNA garantiscono un risultato non più in termini di probabilità, ma di certezza, presentando una possibilità di errore su un milione. Poiché il calcolo statistico esprime un’approssimazione all’infinito, non si ottiene mai una probabilità del 100 per cento, ma quando supera un certo valore, l’indice di probabilità equivale praticamente a una certezza. Il criterio applicato è analogo a quello usato per le impronte digitali, e deriva dalla considerazione che la probabilità contraria è talmente bassa da non potersi ipotizzare una coincidenza, a parte i casi di popolazioni ristrette e con patrimonio genetico molto condiviso. Certezza non significa però infallibilità, soprattutto perché si tratta di un test che deve essere eseguito con la massima competenza da persone esperte, che utilizzino strumentazioni affidabili. È infatti molto importante che il centro al quale ci si rivolge esegua l’esame seguendo le linee-guida e le direttive che, a vario livello, vengono emanate dalla comunità scientifica nazionale e internazionale. La scoperta e l’utilizzo del DNA può valere anche in caso di disconoscimento di paternità, già diventato più facile dopo la riforma del 1975, come abbiamo visto, in ossequio al principio della ricerca biologica della paternità. Recentemente, tuttavia, si è prodotto in tema un altro cambiamento importante. L’azione per il disconoscimento di paternità del figlio concepito durante il matrimonio (art. 235 c.c.) prevede (oltre alle ipotesi di mancata coabitazione tra i coniugi o impotenza) il caso di adulterio della moglie o del celamento da parte di costei della gravidanza e della nascita. Il codice stabiliva, però, una precisa scansione probatoria: prima andava provato l’adulterio della moglie (una foto, una registrazione ecc.) e poi, a tradimento dimostrato, si poteva autorizzare l’esame medico. Ebbene, nel 2004 la Corte di Cassazione ha sollevato una questione di costituzionalità su tale scansione. Il caso era semplice: Stefano nutre forti dubbi sul fatto di essere il vero padre di Maria, giacché la moglie Anna si comporta in modo strano: compie viaggi che definisce di lavoro e si rifiuta di dirgli il nome dell’ospedale in cui partorisce. L’uomo si rivolge quindi ai giudici perché ne disconoscano la paternità. Stefano, però, non riesce ad ottenere che la Corte d’Appello di Roma ordini l’esame del DNA su Maria, non essendo egli riuscito a dimostrare l’adulterio di Anna. Costei gli

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ha sempre nascosto la sua attività di accompagnatrice per professionisti, giustificando pernottamenti in albergo con generiche spiegazioni di viaggi di lavoro. Del resto, nemmeno l’investigatore privato a cui Stefano si è rivolto riesce ad acquisire la prova inconfutabile del tradimento. La prima sezione della Cassazione ha ritenuto che vi fossero dubbi di costituzionalità su questa norma, e con l’ordinanza 5 giugno 2004, n. 10742 ha rimandato la questione alla Consulta sulla base del fatto che i costumi sessuali sono ormai cambiati. «La diffusione del lavoro femminile porta la donna fuori della casa coniugale, parte del tempo libero e anche periodi di vacanze vengono trascorsi separatamente», il che fa sì che l’adulterio possa essere «occasionale e difficile da dimostrare. È dubbio che possa considerarsi ancora ragionevole la richiesta di una dimostrazione preventiva del tradimento della moglie»38, trattandosi di una norma che risale evidentemente a quando le mogli stavano in casa, con una vita molto più controllata e con meno occasioni di adulterio. Essendo infatti oggi normale che una donna passeggi, vada al bar, al ristorante o viaggi con un uomo che non è il marito, le prove si rivelano sempre più difficili da trovare. La Corte costituzionale ha accolto l’obiezione, e con sentenza 6 luglio 2006, n. 266 ha affermato che non è necessario provare il tradimento per chiedere il test di paternità, stabilendo l’incostituzionalità della norma che subordinava l’esame genetico alla prova dell’adulterio, giacché «le prove tecniche da sole consentono di affermare se il figlio è nato o meno da colui che è considerato il padre legittimo». Occorre ricordare che laddove in un secondo tempo si accerti la non verità di una paternità, l’ex padre non può chiedere il reintegro delle spese sostenute per il bambino, ma solo esigere la condanna della madre al risarcimento del danno esistenziale subito per il legame affettivo basato sulla menzogna. Un ultimo punto: nella metà degli anni Ottanta la giurisprudenza ha stabilito che la totale carenza di incontri intimi giustifica di per sé l’accoglimento della domanda di disconoscimento, senza necessità di ricorrere alle indagini scientifiche39. Ebbene, poiché i test genetici possono dire troppo (in termini, ad esempio, di salute futura dei soggetti coinvolti), è verosimile che la tendenza a evitarli, laddove possibile, incontri sempre più successo. 38 39

Cassazione, 15 ottobre 1994, n. 8420. Cassazione, 13 giugno 1985, n. 3541.

9. La rivoluzione del DNA: padri biologici senza limiti

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4. Padri braccati: Eddie Murphy e la sindrome del giocatore di basket La prima cerimonia fondamentale che contrassegnava la conversione di ogni nuovo adepto – il prelievo del DNA – si accompagnava alla firma di un atto con cui il postulante affidava, dopo la propria morte, tutti i suoi beni alla Chiesa – che si riservava la possibilità di investirli [...]. La cosa appariva tanto meno scioccante dato che l’obiettivo perseguito era l’eliminazione di ogni filiazione naturale. M. HOUELLEBECQ,

La possibilità di un’isola

Il DNA, dunque, ha ben svolto il suo ruolo, intrappolando attori, cantanti, sportivi, politici, artisti, imprenditori ecc. Del resto, in Beautiful, soap opera di successo internazionale, è proprio grazie al DNA che Brooke Logan scopre che la sua figlia maggiore non ha per padre Ridge, ma il suocero Eric Forrester (nello stesso modo, si scoprirà poi che i due non sono padre e figlio). Ma anche la realtà è davvero varia e ricca di sfaccettature. Il DNA ha così rivelato che Vasco Rossi è padre di Lorenzo; che l’ex campione di tennis Boris Becker è padre di Anna, figlia della modella Angela Ermakova40; che il produttore Steve Bing è padre di Damian, figlio di Liz Hurley; che Tonina è figlia di Svetla Bogdanova e Nino Manfredi. Non mancano, tuttavia, i padri che accettano la qualifica senza richiedere prove genetiche: Alberto di Monaco non ha domandato verifiche alle affermazioni della ex hostess Nicole Coste che gli chiedeva di riconoscere il figlio Alexandre. Più recentemente, due vicende hanno ottenuto gli onori della cronaca. La prima in sede internazionale. Il padre della piccola Angel Iris Brown, figlia della Spice Girl Mel B., nata il 3 aprile 2007, è Eddie Murphy: i due avevano avuto una breve relazione finita proprio poche settimane prima del parto. I risultati del test del DNA a cui l’attore si è dovuto sottoporre per ordine del tribunale, hanno posto fine alla lunga disputa con l’ex fidanzata (che inutilmente aveva affermato: «la piccola è al 110% sua»). L’uomo, comunque, si è sempre rifiutato di vederla. Da noi, ma sempre con molta audience, 40 In Germania i test si vendono in farmacia, ma è proibito farli all’insaputa della controparte e del giudice.

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durante la puntata del suo show Tutte donne tranne me, Massimo Ranieri ha abbracciato per la prima volta la figlia Cristiana Calone (il vero cognome del cantante), riconosciuta solo nel 1997, dopo che il tribunale ne aveva accertato la paternità in base all’esame del DNA41. Il test del DNA ha avuto conseguenze anche in politica, costando il posto a David Blunkett, ministro degli Esteri e uomo-chiave del governo Blair. Dopo la conclusione di una relazione di tre anni con Kimberly Quinn, moglie dell’editore miliardario Stephen Quinn, a fine 2004 Blunkett avvia un’azione legale contro la donna per provare di essere il padre dei suoi figli, William di 2 anni e Lorcan non ancora nato. La Quinn ottiene dai giudici di portare a termine la gravidanza prima di sottoporsi ai test, che danno un esito a sorpresa: Blunkett è padre solo di William. Lo scandalo è enorme, Kimberly viene presentata come una donna di dubbia moralità, suo marito come un imbelle, e toni non migliori sono riservati all’ex amante che è costretto a dimettersi in campagna elettorale. Le cose sono andate meglio al presidente peruviano Alan García, che nell’ottobre 2006 convoca una conferenza stampa per dichiarare di avere in realtà sei figli: quattro dalla moglie legittima, che gli è accanto (l’argentina Pilar Nores); uno dal precedente matrimonio; il sesto, di un anno e mezzo, dalla relazione con l’economista Roxana Cheesman: «Federico García Cheesman porta il mio cognome. Gli garantirò l’istruzione e qualunque cosa gli serva in futuro». Spiega che la relazione (dall’aprile 2004 all’ottobre 2005) è coincisa con un periodo di separazione dalla moglie, da cui però è felicemente tornato: una confessione indotta non solo dalla minaccia del DNA, ma anche da un precedente non felice. Nel 2001, infatti, all’inizio del mandato, il suo predecessore Alejandro Toledo aveva smentito con forza le dichiarazioni della madre di una quindicenne, prima di essere costretto, incalzato dai media, a riconoscere la giovane Zaraì (ottobre 2002), con un forte crollo di popolarità. Il fenomeno della paternità extra matrimoniale è diffuso negli Stati Uniti tra i giocatori di basket della Lega nazionale (NBA)42: 41 La ragazza nacque nel 1971 da Franca Sebastiani, quando il cantante aveva 19 anni. La sentenza la riconobbe sua figlia, accordandole, oltre al cognome, 600.000 lire al mese. 42 Tra questi, cfr. Larry Johnson, Larry Bird, Patrick Ewing, Juwan Howard,

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molti dei loro agenti dedicano più tempo alle richieste di riconoscimento di paternità che agli altri affari degli atleti. Ad esempio Shawn Kemp dei Cleveland Cavaliers, a 28 anni, è padre di sette bambini. Soprattutto si pone il problema di come le corti debbano determinare il mantenimento dovuto a questi figli, le cui madri sono spesso indigenti. In molti Stati il mantenimento è calcolato nel 20 per cento delle entrate, finché il figlio non raggiunga i 18 anni (fattori come il tempo trascorso con il figlio e il reddito materno modificano di poco l’entità della percentuale): ma tale quota va rispettata anche per gli atleti o ai loro figli vanno riconosciute solo le strette necessità? Il dibattito è aperto, e chiaramente non coinvolge solo l’aspetto strettamente giuridico43. Le ragioni di questa peculiare sindrome che interessa i giocatori NBA sono state ricondotte a una serie di elementi: road trips (tempo libero e maggiori occasioni d’incontro: gli atleti arrivano dove giocheranno con trentasei ore di anticipo), money (il loro salario medio si aggira attorno ai 2,2 milioni di dollari, ed è il più elevato fra tutti gli sport americani), visibility (le squadre sono composte da dodici giocatori i quali, a differenza di altri, non hanno la faccia coperta da elmetti, cappelli, occhiali da sole), race (l’80 per cento dei giocatori NBA è di colore: il problema delle nascite al di fuori del matrimonio negli Stati Uniti è diffuso soprattutto nella comunità afro-americana). C’è da aggiungere che, una volta accertata la paternità, questi sono i padri più affidabili nei pagamenti, anche per una questione di ritorno pubblicitario44. Shawn Kemp, Jason Kidd, Stephon Marbury, Hakeem Olajuwon, Gary Payton, Scottie Pippen e Isiah Thomas. Altri, pur non essendo finiti in aula, mantengono però figli naturali, come Kanny Anderson, Allen Iverson e Latrell Sprewell (quest’ultimo, prima di compiere i 21 anni, aveva già 3 figli da 3 donne diverse). In generale, se nel 1980 il 18 per cento delle nascite avveniva fuori del matrimonio, nel 1995 la proporzione è aumentata al 32 per cento. 43 Secondo Katherine Kinser, avvocatessa di Dallas specializzata nel diritto di famiglia che ha tra i suoi clienti molti atleti, il mantenimento del bambino deve essere rapportato alle necessità di costui (e non al reddito del padre) per cui è ben difficile sostenere che un bimbo possa aver bisogno di più di $ 1,200/1,500 al mese per vivere. In senso esattamente opposto, Martha Funeman, professoressa di diritto di famiglia alla Columbia Law School, è dell’avviso che le cose sono molto più complicate, e che non si tratta solo di comprare i pannolini, ma di fornire al bambino tutto ciò che possa renderlo un adulto maturo (cfr. Grant Wahl, Jon L. Wertheim, Lester Munson, Don Yaeger, Paternity Ward, in «Sports Illustrated», 5 aprile 1998, p. 62). 44 Ibid.

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Del resto, se non mancano casi in cui gli uomini tentano di sfuggire alle loro responsabilità, vi sono anche casi in cui ne spuntano molti per un solo nato. È la triste vicenda della piccola Danielynn Hope, una delle nuove ereditiere americane. L’8 febbraio 2007 muore ad Hollywood in una stanza di albergo Anna Nicole Smith, trentanovenne ex coniglietta di Playboy, per un cocktail di calmanti e droghe assunto per lenire il dolore della morte per overdose del figlio maggiore Daniel. Per una tragica fatalità, il ragazzo era deceduto il 7 settembre dell’anno prima alle Bahamas nella clinica dove la madre aveva appena partorito Danielynn Hope. La bimba eredita una fortuna enorme (474 milioni di dollari), assegnati alla madre dal giudice in seguito alla morte del miliardario novantenne J. Howard Marshall nel 1995, avvenuta l’anno dopo il matrimonio con Anne Nicole. Ebbene, nei giorni successivi al ritrovamento del cadavere dell’ex modella, sono spuntati tre presunti padri: Howard K. Stern, l’ultimo compagno, legale e manager della defunta; Larry Birkhead, di professione fotografo, e il principe sessantenne Frederick von Anhald, ottavo marito di Zsa Zsa Gabor e (a suo dire) compagno clandestino della Smith per dieci anni. C’è anche chi sostiene che la donna avesse utilizzato il seme congelato dell’ex marito J. Howard Marshall. In attesa che il DNA sveli il mistero, è comunque Stern il padre legale della bimba, il cui cognome è Marshall Stern.

10 IL TRIONFO DELLA NATURA: UN BILANCIO PROVVISORIO

1. Il padre oggi: questioni aperte Un giorno m’è arrivata un mattino d’estate / s’è installata in salotto mi ha chiesto di fumare. Vi lascio immaginare com’è andata a finire: / mi son ritrovato un figlio da nutrire. Sono un ragazzo padre, chiedo la carità / io sono un peccatore per questa società. E. JANNACCI,

Ragazzo padre

Nei paesi occidentali, la paternità è oggi ragionevolmente certa in quanto liberamente ricercabile e accertabile scientificamente, in un clima generalmente orientato verso una maggiore responsabilità maschile, anche se non sempre volontaria. Questo, però, non significa che tutti i problemi antichi siano risolti, né che non ne sorgano di nuovi e imprevedibili1. 1 Prima di esaminarli, occorre ricordare come le nuove acquisizioni scientifiche pongano questioni analoghe in contesti culturali e giuridici diversi. È sufficiente menzionare brevemente una vicenda che ha appassionato l’Egitto nel febbraio del 2002. Una giovane stilista dell’alta borghesia del Cairo, Hind El Hennawi, aveva sposato Ahmed El Fishawi, conosciuto sul set di una soap egiziana. Rimasta incinta, la donna si rifiuta di abortire, e per questo il marito l’abbandona e, quando nasce Lina, non la riconosce. La madre decide allora di rivolgersi al tribunale, chiedendo l’esame del DNA. La situazione si presenta subito complicata in quanto il contratto di matrimonio è stato stipulato con modalità urfi, secondo cui le parti firmano semplicemente una dichiarazione alla presenza di alcuni testimoni, senza registrazione, senza dote e senza informarne le rispettive famiglie. Ammessa in Egit-

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Sebbene libera, la ricerca della paternità nei paesi occidentali è soggetta ad una serie di regole, spesso significative per ciò che sottintendono. Ad esempio, come in Italia sino a poco tempo fa, il codice civile spagnolo (modificato dalla legge 31.12.1996) prevede un giudizio preliminare da parte dell’autorità giudiziaria sull’ammissibilità dell’azione, «nel timore di processi scandalosi di filiazione, di false imputazioni di paternità, realizzate con fini non sempre confessabili»2. La legislazione austriaca, come quella inglese, esclude invece che il figlio possa divenire erede quando l’azione di accertamento sia avviata dopo la morte del padre. Se dunque è possibile ottenere il cognome paterno, non si può invece accedere al patrimonio, per scongiurare azioni intentate a meri fini economici. L’attuale assetto italiano parrebbe pressoché perfetto: parificazione della prole a prescindere dall’origine; uguaglianza tra i genitori nei diritti-doveri verso i figli; piena libertà di prova nell’accertamento della paternità incluse le tecniche scientifiche più moderne; un’idilliaca immagine del padre che si occupa dei figli acquisita nel sentire sociale; una generale attenzione alla realtà effettiva delle cose, a fronte di un ormai scarso interesse per gli elementi formali. Coto dal 2000, questa modalità, molto utilizzata dai giovani per motivi economici e per evitare il problema dei rapporti prematrimoniali, è però alquanto rischiosa, specie per le donne. Anche laddove l’uomo non faccia scomparire il contratto, infatti, in base ad esso non può essergli imposto alcun obbligo finanziario verso la moglie o i figli, né durante la relazione, né in caso di divorzio. Nel caso di specie, il ventiquattrenne Ahmed El Fishawi, figlio di due star del cinema locale ed ex conduttore di un popolare programma televisivo per giovani in cui si dispensavano consigli morali e religiosi, nega ogni rapporto con la ragazza. Successivamente ammette la relazione, anche lui durante uno spettacolo televisivo (El-Beit Beitak). Hind El Hennawi consegue una prima vittoria quando ottiene che il caso venga discusso in tribunale, rivendicando alla fine delle udienze l’analisi del DNA, in un paese nelle cui cancellerie giacciono più di 18.000 richieste di accertamenti di paternità e dove il diritto di famiglia, nonostante recenti miglioramenti, resta fortemente penalizzante nei confronti delle donne. La ragazza è stata appoggiata da associazioni femminili egiziane (come il Centre for Egyptian Women’s Legal Assistance). L’opinione pubblica si è divisa e molti hanno auspicato che un pronunciamento a favore della donna potesse fungere da monito, facendo considerare con maggiore attenzione ai giovani le conseguenze del matrimonio urfi. Per il momento, i giudici hanno stabilito, sia pure in assenza di una documentazione idonea, che il matrimonio tra i due vi è stato e che la bambina è figlia dell’uomo. 2 Luis Díez-Picazo, Antonio Gullón, Sistema de derecho civil, 4 voll., Tecnos, Madrid 1975-78, citato da Roberto Thomas, L’accertamento della filiazione naturale, Giuffrè, Milano 2001, p. 205.

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sì, ad esempio, l’art. 240 c.c. stabilisce che la legittimità del figlio di due persone che abbiano pubblicamente vissuto come coniugi e che siano entrambe morte, non può essere contestata per la sola assenza della prova della celebrazione del matrimonio, qualora esista il tradizionale possesso di stato, non contraddetto dall’atto di nascita. A guardar bene, invece, vi sono ancora molti aspetti delicati. Un’ombra della normativa in vigore è costituita dal limite che il codice pone al diritto costituzionalmente garantito dell’uomo al riconoscimento dei figli. Se, infatti, il figlio può essere riconosciuto anche prima della nascita (in base all’art. 254, comma 1), è anche vero che il riconoscimento di un solo genitore «non può contenere indicazioni relative all’altro» (art. 258, comma 2). Ebbene, dalla combinazione di queste due norme discende l’inammissibilità del riconoscimento separato del concepito da parte del padre naturale, giacché sarebbe inevitabilmente violato il diritto della madre a non essere nominata. In questo modo, dunque, viene leso il diritto al riconoscimento del padre (art. 250), ponendolo «in una situazione di disparità sostanziale ingiustificata nei confronti della madre, in spregio dell’art. 3 della Costituzione»3. Qualche interrogativo ha suscitato, allora come oggi, la scelta della legge 22 maggio 1978, n. 194 (che ha legalizzato l’aborto in Italia) di non prevedere in alcun modo la voce del padre del concepito, nemmeno in caso di matrimonio o di convivenza more uxorio. Il suo intervento è previsto solo nel caso di aborto di donna coniugata interdetta per infermità mentale (art. 13): altrimenti, il padre del nascituro può essere sentito solo laddove la donna lo consenta (artt. 5, 21). Questa esclusione aveva sollevato reazioni da subito, con obiezioni che nella maggior parte dei casi rilevavano la violazione dell’art. 29 Cost. Nell’aprile 1988 Giuliano Amato osservava dalle pagine dell’«Espresso» che «l’aborto deciso dalla madre senza neppure informare il marito [...], ignora il valore costituzionale dell’unità familiare»4. La Corte costituzionale, interrogata anche di recente, ha però ribadito che «la norma impugnata è frutto della scelta politicolegislativa [...] di lasciare la donna unica responsabile della decisione d’interrompere la gravidanza». Il punto è estremamente delicato:

3 4

Ivi, p. 17. Cfr. Giulia Galeotti, Storia dell’aborto, il Mulino, Bologna 2003, pp. 120-21.

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pensiamo al caso in cui il padre abbia già effettuato il riconoscimento. Più in generale, il rischio è forse che, se si enfatizza l’aborto come questione esclusivamente femminile, gli uomini continuino a sentirsi estranei a momenti rilevanti come parto e nascita. Come conciliare coinvolgimento ed esclusione, richiamo alla responsabilità ex ante ed esclusione dalla decisione ex post? Un altro punto critico è l’atteggiamento nei confronti della prole incestuosa, rimasta l’unica categoria ad avere un trattamento particolare (la riforma del diritto di famiglia, infatti, ha eliminato le discriminazioni verso gli adulterini, prevedendo che il figlio naturale possa essere riconosciuto dal padre già unito in matrimonio con altra persona all’epoca del concepimento). Quanto agli incestuosi, la legge 151/1975 escludeva ancora la possibilità del riconoscimento qualora un genitore o entrambi fossero consapevoli del legame incestuoso che li univa al tempo del concepimento (è il caso di Gaspare e di sua sorella Rachele, genitori di Tito protagonista del romanzo del 2007 Boccamurata, di Simonetta Agnello Hornby). Questa discriminazione, però, è stata oggetto di una pronuncia della Corte costituzionale nel 2002. Il maggiorenne L.C. agisce per l’accertamento della paternità nei confronti degli eredi del presunto padre. Né il Tribunale né la Corte d’Appello di Roma ammettono l’azione giacché i genitori dell’attore erano fratelli con la consapevolezza di esserlo. Investita della questione, la Cassazione (con ordinanza 4 luglio 2002, n. 9724) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalità degli artt. 278, comma 1; 251, comma 1, c.c. rispetto agli artt. 23; 30, comma 3, Cost., e rimette gli atti alla Consulta. La sentenza (28 novembre 2002, n. 494) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 278, comma 1, del codice civile nella parte in cui esclude la dichiarazione giudiziale della paternità e le relative indagini nei casi in cui, a norma dell’art. 251, comma 1, il riconoscimento dei figli incestuosi è vietato. La decisione intende porsi nell’ottica del figlio, che è il soggetto discriminato dal divieto della ricerca: «La Costituzione non giustifica una concezione della famiglia nemica delle persone e dei loro diritti», scrive la corte, replicando a tutti quegli argomenti che, facendo leva sulla intollerabile violazione delle leggi di natura che si consuma con l’incesto, finiscono per giustificare le discriminazioni contro gli unici soggetti innocenti della vicenda, i figli. Del resto, è facile notare che, nella misura in cui sia la prole ad avviare l’azione, la valutazione sull’opportunità di «alzare il velo»

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sulla sua origine la compie proprio il soggetto su cui ricadono le conseguenze più pesanti. Nella sentenza, però, la corte fa una precisazione importante. Pur riconosciuta l’esperibilità dell’azione per la dichiarazione giudiziale anche per i figli incestuosi di genitori consapevoli, i giudici scrivono che l’art. 269, comma 1, c.c. deve essere interpretato (secondo la sua formulazione letterale) nel senso che la paternità e la maternità naturali possono essere dichiarate nelle ipotesi in cui il riconoscimento è ammesso, ma non nel senso reciproco: cioè anche che il riconoscimento sia effettuabile in tutte le ipotesi in cui vi possa essere la dichiarazione giudiziale.

Ciò significa che il genitore consapevole del rapporto incestuoso al tempo del concepimento non è libero di riconoscere la prole. Le critiche a questa parte della decisione sono state numerose per la mancata estensione della dichiarazione di incostituzionalità, riassumibili nel fatto che il tabù verso gli incestuosi sarebbe stato «colpito ma non abbattuto»5. Un altro punto è da ricondurre al fatto che, se oggi non sono più ammissibili discriminazioni di natura personale e patrimoniale tra la prole, permane, però, l’antico retaggio che distingue, nell’accertamento del rapporto di filiazione, tra nascita all’interno o all’esterno del matrimonio: nel primo caso, infatti, vige ancora il sistema dell’attribuzione automatica della maternità e della paternità, mentre nel secondo è necessario un atto espresso, proveniente dal genitore o dal giudice. Non si tratta di un mero profilo tecnico o procedurale, ma di una disparità che può avere implicazioni non marginali. Come osserva Michele Sesta, tale differenza

5 Cfr. Mario Finocchiaro, Superato l’ultimo pregiudizio ancestrale in contrasto con la sensibilità moderna, in «Guida al Diritto», 2002, 48, p. 50; Massimo Dogliotti, La Corte costituzionale interviene a metà sulla filiazione incestuosa, in «Famiglia e Diritto», 2003, p. 13; Cesare Massimo Bianca, La Corte costituzionale ha rimosso il divieto di indagini sulla paternità e maternità di cui all’art. 278, comma 1, c.c. (ma i figli irriconoscibili rimangono), in «Giurisprudenza costituzionale», 2002, p. 4073. In senso contrario, Walter Virga, Figli incestuosi: categoria realmente superata?, in «Giustizia civile», 2002, p. 891; Andrea Renda, Verso la scomparsa dei figli incestuosi? Riflessione a margine della sentenza n. 494/2002 della Consulta, in «Famiglia e Diritto», 2004, p. 103.

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sottintende una precisa politica del diritto, rimasta invariata nonostante la Costituzione e la riforma del diritto di famiglia. Ancora oggi, l’ordinamento dispone che il titolo di stato del figlio legittimo si formi d’ufficio, mentre lascia agli interessati la formazione del corrispondente titolo di filiazione naturale, sul presupposto che la filiazione naturale sia un affare privato che di per sé non riguarda l’ordinamento, cosicché gli interessati sono automaticamente in facoltà di far emergere o meno il rapporto genitoriale6.

Infine, è ipotizzabile che, a causa delle delicate conseguenze insite nell’enorme quantità di potenziali informazioni che il DNA è in grado di fornire, le cause di paternità in futuro tenderanno, laddove possibile, a privilegiare altri elementi, rispetto ai dati genetici7. Tra questi problemi ancora aperti, v’è però un dato positivo: l’idea che la genitorialità sia costruita sul dato naturale e non sulla forma del legame tra i genitori, e che l’assunzione di responsabilità verso i figli sia il vero motore del discorso, è ben presente nel disegno di legge delega approvato nel marzo 2007, su proposta del ministro Rosi Bindi, che sembra attuare completamente l’art. 30 Cost. Se ora si parla di figli senza aggettivi, tale modifica lessicale viene tradotta in termini sostanziali: anche i figli nati in assenza di matrimonio hanno legami, oltre che con i genitori, con le loro famiglie di provenienza. Avranno cioè zii, cugini e nonni da cui potranno ereditare, e ai quali potranno essere dati in affido in caso di bisogno8. Con il testo di Rosi Bindi cade, inoltre, l’istituto della commutazione, secondo il quale il figlio legittimo poteva estromettere dall’eredità il figlio naturale liquidandone la quota: un altro passo verso una piena integrazione familiare a tutela della nascita del minore. 6 Michele Sesta, Filiazione, in Enciclopedia del diritto. Aggiornamento, vol. IV, Giuffrè, Milano 2000, p. 570. 7 Già non mancano cause in cui si discute di una presunta paternità senza ricorrere alle prove scientifiche. Così ad esempio Cassazione, 21 febbraio 2003, n. 2640 che, concordemente a quanto statuito dal Tribunale di Perugia in primo grado e poi in appello, ha riconosciuto S.F. come figlia naturale di B.B. 8 È così venuta meno la situazione singolare che una lettrice aveva esposto lo scorso anno a Annamaria Bernardini de Pace nella sua rubrica Cause e coppie su «Io Donna». Scriveva Luciana: «sono divorziata e ho una figlia, Chiara. Da due anni convivo con un uomo dal quale ho avuto un bambino, Matteo. I miei fratelli continuano a dire che Chiara è loro nipote. Non così Matteo, perché non è figlio legittimo».

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Per quanto il diritto sembri oggi in grado di disciplinare la realtà nella sua completezza, la vita concreta solleva però sempre nuove questioni. Nei primi anni Novanta, ad esempio, un episodio di cronaca ha infiammato l’opinione pubblica italiana. Il 20 maggio 1986, a Manila, nasce Serena Cruz. Subito abbandonata, viene raccolta su un bidone dei rifiuti: respira a fatica. Un anno e mezzo dopo, Francesco Giubergia, ferroviere di Racconigi, arriva nella città filippina e vede la bimba nell’istituto in cui è stata accolta. Pochi giorni più tardi, l’8 gennaio 1988, l’uomo si reca all’ambasciata italiana dove denuncia come sua figlia la bimba, nata dalla relazione con Marlene Vito Cruz, una diciottenne nubile. Contestualmente, Giubergia consegna quattro documenti: il certificato di nascita di Serena; il proprio riconoscimento di paternità; lo scritto della madre, autenticato dal notaio Sulpicio Benigno, che dichiara di rinunciare alla figlia; un’attestazione della magistratura locale sulla public notary del dottor Benigno. Il 13 gennaio padre e figlia arrivano in Italia. Ad attenderli ci sono la moglie Rossana e il piccolo Nazario, filippino anche lui, adottato regolarmente dalla coppia a 7 mesi. In quel caso, le cose erano state semplici, sia perché – essendo il neonato affetto da una malattia polmonare (brillantemente superata anche grazie all’amore dei genitori adottivi) – molte coppie lo avevano rifiutato, sia perché quattro anni prima non vigeva ancora nelle Filippine la legge introdotta da Cory Aquino, che richiedeva ai futuri genitori il soggiorno nel paese nei 18 mesi precedenti la partenza con i bambini (un costo che i Giubergia, volendo seguire le procedure per adottare legalmente Serena, non avrebbero potuto sostenere). Poco tempo dopo, il Tribunale per i minorenni di Torino viene a conoscenza di quella bimba comparsa improvvisamente, senza che nessuno abbia avviato alcuna pratica di adozione, e il 23 gennaio convoca la coppia. In febbraio, quindi, il Giubergia fa domanda di legittimazione perché Serena venga regolarmente inserita nella sua famiglia legittima (la legittimazione è oggi prevista a seguito del matrimonio tra i genitori, oppure per provvedimento del giudice da concedersi, alle condizioni elencate dall’art. 284, «se corrisponde agli interessi del figlio»). Il tribunale, come prevedibile, dispone per l’analisi del sangue. Il giorno stabilito per la prova, però, il Giubergia non si presenta e da quel momento, tra ricorsi vari, gli eventi precipitano, sino a che Serena viene tolta alla coppia il 17 marzo 1990. Il caso divide l’opinione pubblica, nella atavica contrapposizione tra cuore e diritto.

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È certamente uno di quei casi che i giuristi chiamano difficili – scriverà Norberto Bobbio –, uno di quei casi in cui il conflitto degli interessi, che un giudice è chiamato a risolvere, è reso ancora più aspro dalle ragioni del cuore, alle cui lusinghe si cede più volentieri, e le ragioni della ragione.

E se Bobbio sta dalla parte della legge («sono io il primo a riconoscere che non è facile stabilire quale dei due beni, una famiglia ritrovata per Serena, o il rispetto d’una legge che mira a proteggere non solo Serena ma tanti altri bambini... pesi di più sui due piatti della bilancia»9), sul versante opposto troviamo Natalia Ginzburg, che scriverà un libro dall’eloquente titolo: Serena Cruz o la vera giustizia10. A chi fa presente che i giudici furono costretti a prendere quella decisione risponde Stefano Rodotà: «la legge riservava ai giudici una larghissima possibilità di valutazione autonoma, tanto è vero che in casi analoghi altri giudici hanno deciso in una maniera del tutto diversa»11. Che il Giubergia non fosse il vero padre di Serena era noto a tutti12: il vero problema era la decisione del tribunale di togliere una bambina di pochi anni al nucleo domestico che stava faticosamente tentando di farle superare i traumi e gli incubi dei suoi primi mesi di vita. Il Tribunale per i minorenni di Torino, infatti, non si era limitato a nominare un curatore per impugnare il riconoscimento sospetto (come previsto dalla legge sulle adozioni del 198313), ma aveva ordinato l’allontanamento di Serena dalla famiglia e il contestuale affidamento preadottivo ad altra coppia. Non si tratta, però, della procedura generalmente seguita: la giurisprudenza maggioritaria ritiene, infatti, che in questi casi il tribunale per i minorenni non abbia il potere di sindacare autonomamente la non veridicità del riconoscimento, adottando quindi i conseguenti provvedimenti cautelaNorberto Bobbio, Alzare lo sguardo, in «La Stampa», 1° aprile 1989, p. 2. Natalia Ginzburg, Serena Cruz o la vera giustizia, Einaudi, Torino 1990. 11 Stefano Rodotà, I diritti di Christian, in «l’Unità», 19 aprile 1989. 12 E questo a prescindere dal fatto che la madre naturale, rintracciata dai giornalisti a Manila, negava tutto, in primis di aver mai avuto una bambina o di aver conosciuto Francesco Giubergia. 13 L’art. 74 legge 184/1983 prevede che il tribunale per i minorenni possa concedere anche d’ufficio l’autorizzazione a impugnare il riconoscimento (artt. 263264 c.c.) quando vi siano fondati motivi per ritenere la sussistenza di un falso riconoscimento volto ad aggirare le prescrizioni legali in tema di adozione, da parte di persona coniugata, di un figlio naturale non riconosciuto dall’altro coniuge. 9

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ri. E questo a maggior ragione in una vicenda come quella di Serena, dove la permanenza del bambino presso chi abbia effettuato il falso riconoscimento duri da un notevole lasso di tempo, sicché l’allontanamento comporti grande sofferenza e gravi danni psicologici per il minore. Del resto, anni dopo Serena ha commentato, nell’augurarsi «che una storia come la mia non capiti più a nessun altro bambino»: «se dovesse ripetersi una vicenda del genere, spero che la giustizia non faccia gli stessi sbagli che ha fatto con me. Se papà Giubergia ha sbagliato, avrebbero dovuto prendersela solo con lui. Io e mio fratellino cosa c’entravamo?». Quindici anni più tardi (e dopo tre famiglie diverse, tre cognomi nei registri dell’anagrafe e due nomi di battesimo), Serena ormai maggiorenne è tornata dai Giubergia a Racconigi, ritrovando così anche il fratello. Nuovamente al centro dell’attenzione, la ragazza ha rilasciato delle risposte che offrono molti spunti di riflessione. Alla domanda di come giudichi oggi il fatto che papà Giubergia falsificò la dichiarazione di paternità naturale per portarla in Italia, Serena ha risposto: «alla famiglia Giubergia sarò sempre riconoscente per questo. L’hanno fatto per il mio bene». Quanto invece ai suoi sentimenti verso i Nigro, la sua famiglia adottiva per anni, lasciata per tornare dai Giubergia, la ragazza ha detto: «hanno fatto tantissimo per me, sono stata loro figlia per molti anni, sarò sempre riconoscente. Se non mi avessero voluta, non mi avrebbero tenuta. Non è colpa mia, però, se dentro di me, nel mio cuore, pensavo sempre e solo di ritrovare mio fratello». Quanto al fatto di chi si senta figlia – della madre filippina che l’ha abbandonata, dei Giubergia che l’hanno portata via dall’inferno dell’istituto e della povertà, o dei Nigro che l’hanno adottata –, la risposta è stata: «questa è una domanda che fa male, che mi fa soffrire. Ma voglio rispondere: mi sento comunque figlia della mamma che mi ha fatto. L’ho perdonata e ho sempre avuto il desiderio, che purtroppo non s’è mai avverato, di incontrarla. [...] Mi sento figlia del mondo, senza nazionalità. Mi piace l’Italia, ma vorrei tornare nelle Filippine per conoscere le mie origini»14. Le parole di Serena centrano il problema di che cosa faccia di un uomo e di una donna un genitore («il fatto che la bambina non fosse sua figlia di sangue, come dicevano i giudici, non cambiava nien14

Intervista pubblicata sul sito www.soschild.org.

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te all’impegno che egli prendeva a esserle padre, a crescerla e a far sì che diventasse adulta nella sua casa» – scriveva Natalia Ginzburg15); richiamano il grande nodo dell’ambivalenza tra l’indubbio valore dei legami di amore costruiti nel tempo e il desiderio di conoscere le proprie origini biologiche; evocano il problema di come gestire l’eventuale pluralità di genitori. Non si tratta di elucubrazioni astratte, ma di temi centrali che, presenti da sempre nelle nostre civiltà, stanno assumendo oggi dimensioni nuove e inimmaginabili in virtù delle nuove tecniche messe a punto dalla scienza (come vedremo più avanti).

2. Sui bus del Bronx Jessica e il fratello maggiore Robert avevano lo stesso padre che era morto quando lei aveva tre anni e non l’aveva mai voluta riconoscere [...]. Elaine, la sorella minore di Jessica, aveva un altro padre, che andava a trovare saltuariamente nei fine settimana. Cesar era stato riconosciuto dal padre (aveva il suo nome sul certificato di nascita), che però spacciava e aveva messo al mondo altri figli con altre donne. A.N. LEBLANC,

Una famiglia a caso

In Una famiglia a caso Adrian Nicole LeBlanc racconta le drammatiche vicende di un gruppo di giovani del Bronx, conosciuti assistendo a New York a un processo per droga: spacciatori adolescenti, quindicenni ragazze-madri bisognose di affetto e non sempre in grado di darne, nonne trentenni distrutte dalla droga ma capaci di gesti poetici. Il problema delle ripetute gravidanze tra le giovanissime (molto spesso costrette ad interrompere la scuola) e di padri (poco più che adolescenti) che non si curano della prole è grave negli Stati Uniti, come lo è in Gran Bretagna: Jessica sfruttò fino in fondo l’ambigua situazione in cui si trovava. Disse a Victor che la bambina era sua: si volevano bene, e lui aveva assistito al parto; le diede anche i soldi per i primi pannolini di Little Star, sebbene anche l’altra sua ragazza fosse incinta. Ma Jessica sperava segretamen-

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Ginzburg, Serena Cruz, cit., p. 27.

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te che il padre fosse Puma, e raccontò anche a lui che la bambina fosse sua. Puma viveva con una certa Trinket, che era incinta, e la considerava sua moglie; e in più aveva avuto un altro figlio dalla sorella della ragazza di Victor. [...] In pubblico Puma negava che Little Star era sua. Ma la bambina gli somigliava come una goccia d’acqua: aveva la stessa fronte spaziosa e gli occhi molto distanti screziati di marrone. [...] Jessica bombardava Trinket di telefonate anonime. [...] bisbigliava: ho la figlia di Puma, e poi riattaccava. Incinta di otto mesi, Trinket decise di affrontare Jessica. Non importava di chi fosse il bambino, rivendicare l’amore del padre era una questione tra donne, quando Jessica la chiamò per l’ennesima volta, Trinket chiese di vedere la piccola; [...] Jessica la sollevò in piedi per farla vedere meglio. Presentò anche prove supplementari: alcune foto di Puma con le dediche ‘con amore’ e ‘sei l’unica’ scritte di suo pugno. L’accertamento durò un quarto d’ora scarso. [...] Trinket scoppiò in lacrime una volta di nuovo al sicuro in strada. In privato, Trinket non biasimava Puma per la tresca con Jessica. ‘Jessica era così sensuale’ [...]. Trinket si consolò pensando che forse la promiscuità di Jessica aveva prodotto una bambina con i tratti di tanti ragazzi diversi. Un mese dopo, nel gennaio 1986, Trinket diede a Puma il suo primo figlio maschio. La sua posizione di legittima consorte era assicurata. [...] Dopo la lavanda gastrica, il dottore informò Jessica che era di nuovo incinta: aspettava due gemelli. [...] Willy magari non aveva la folgorante energia di Puma, ma a settembre accettò subito di apporre il suo cognome sui certificati di nascita: Brittany arrivò alle 17.01, con diverse settimane di anticipo e due minuti prima della sua gemella Stephanie. Erano pelle e ossa, con la fronte sporgente, un ciuffo di sottili capelli neri e una vaga traccia dell’espressione da cane bastonato di Willy. A Jessica avevano fatto il taglio cesareo. Adesso Puma era zio, Willy papà, Serena aveva due sorelline e Lourdes era di nuovo nonna16.

Così, nel 2004, sugli autobus che circolavano nel Bronx era possibile vedere la campagna pubblicitaria dell’Office of Temporary and Disability Assistance dello Stato di New York dal polisemantico slogan Fathers Matter: sopra due facce sorridenti di un bambino e di un uomo di colore si leggeva «You Made a Child... Now Make a Difference»17. 16 Adrian Nicole LeBlanc, Una famiglia a caso. Amore, droga e guai nel Bronx, Alet, Padova 2007, pp. 19-23. 17 Nel libro Rituals of Blood: Consequences of Slavery in Two American Centuries (Civitas/CounterPoint, Washington 1998), Orlando Patterson sostiene che il

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Per tutti, comunque, la strada è in salita. Al di là del DNA e malgrado cominci ad affermarsi l’idea che il bambino ha bisogno anche della presenza paterna, infatti, l’atteggiamento più diffuso negli uomini occidentali è ancora il disinteresse: il ruolo di padre è secondario. E questo anche in Italia, malgrado i congedi di paternità introdotti nel 2000 dall’allora ministro per la Solidarietà sociale Livia Turco18. Presentati e letti come un importante strumento di miglioramento sociale, essi vengono in realtà utilizzati sempre meno dai padri italiani, specialmente nel settore privato. Prendiamo il caso della Lombardia, dove i padri lavoratori che ne hanno usufruito dal 2005 al 2006 sono diminuiti del 15 per cento, con una tendenza confermata a livello nazionale. I dati relativi al 2005 dicono, infatti, che alle 117.000 madri italiane che hanno utilizzato i congedi facoltativi hanno corrisposto poco più di 5.000 padri. Il 20 marzo 2007 Beppe Severgnini scriveva sul «Corriere della Sera»: i maschi italiani hanno capito che lavorare in ufficio è più riposante che spupazzarsi il neonato. È meglio mettere la testa in un nuovo progetto o mettere le mani in un pannolino? Dopo un’incertezza iniziale, i connazionali non hanno avuto dubbi (anche perché assurdamente il papà in congedo deve lasciare giù il 70% dello stipendio). Quand’è la prossima riunione? Arriviamo. [...] Il congedo parentale è il sigillo su un nuovo contratto tra uomo e donna. Ma come si fa a mettere il sigillo su un contratto che non c’è? Certo, esistono coppie con due carriere: ma in molti casi hanno rinunciato o rimandato i figli. Ecco spiegato il tasso di natalità italiano, tra i più bassi sul pianeta: siamo al 217˚ posto su 223 Paesi, con 8,89 nascite/anno per mille abitanti (fonte: CIA, «The World Factbook»). Se c’è un figlio, quasi sempre, è la donna a sacrificarsi. Lui fa due lavori (procacciatore di reddito, marito); lei, quattro (procacciatrice di fatto che un gran numero di padri afro-americani si disinteressi completamente ai propri figli si spiega con la schiavitù diffusa in America fino a poco tempo fa, dove i figli venivano tolti ai genitori perché venduti ad altri padroni, per cui i rapporti genitoriali per via maschile praticamente non esistevano. 18 In base alla legge italiana, i padri possono restare a casa con i figli, in alternativa alla compagna, per un massimo di sette mesi. Il periodo di astensione dal lavoro si può frazionare. Entro i 3 anni di vita del bambino è retribuito al 30 per cento, successivamente e fino agli 8 anni è senza retribuzione. Ma nel settore pubblico il primo mese è a stipendio pieno.

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reddito, moglie, mamma, donna di casa). Non rivelo nulla di sensazionale: è la fotografia della nuova classe media italiana. Cos’ha di nuovo, rispetto alla vecchia classe media? Un po’ di soldi in meno e un po’ di simpatica ipocrisia in più. Noi uomini accettiamo di ‘dare una mano’ (notate l’espressione, cauta e fintamente altruista), possibilmente quando c’è da fare bella figura: in presenza di ospiti, suoceri, situazioni eccezionali. È il dovere che ci terrorizza. Perché allora non si tratta di ‘dare una mano’: si tratta di dividersi i compiti. [...] È divertente giocare a fare Tom Selleck in Tre scapoli e un bebè, una volta l’anno; è dura prendersi un congedo e fare il genitore a tempo pieno, accettando abitudini, un po’ di noia, qualche frustrazione e un po’ di provvisoria solitudine.

V’è chi ha proposto di renderli obbligatori per gli uomini, e chi ha lanciato l’idea di un premio in danaro per convincere i padri a restare a casa con i figli. Per Livia Turco è, invece, solo un problema di scarsa informazione (ad esempio, pochi sanno che quando a scegliere i congedi parentali sono entrambi i genitori, di fatto la famiglia ha diritto a un mese di assenza dal lavoro in più). Oltre all’aspetto economico, v’è indubbiamente anche un problema culturale che spiega le notevoli resistenze degli uomini italiani. Del resto, ancora una volta si instaura un circolo particolarmente vizioso: quanto più i padri non concretizzano il loro ruolo, lasciando tutta la «faccenda» nelle mani delle madri, tanto più risulta comprensibile che poi, in caso di rottura della coppia, i giudici tendano ad affidare i figli alle donne. In altri paesi europei è diffuso anche un altro tipo di congedo di paternità, una sorta di congedo-lampo: subito dopo il parto vengono concessi alcuni giorni (il numero varia da paese a paese) di riposo retribuito per stare vicino al neonato e alla madre. Se ne avvalse nel 2000 l’allora premier britannico Tony Blair, alla nascita del quarto figlio Leo (due settimane), come anche il ministro finlandese Kjell Magne Bondevik, quando venne alla luce la sua seconda figlia19. Nel19 I papà francesi non se li vogliono perdere i primi giorni di vita del loro bambino: due su tre se ne stanno a casa a godersi beatamente poppate, pannolini e passeggiate al parco con carrozzina al seguito per quattordici giorni, tre pagati dal datore di lavoro e undici retribuiti all’80 per cento dello stipendio, e comunque per un importo non superiore a 2.500 euro, attraverso un fondo del ministero della Famiglia. È il congedo di paternità voluto nel 2002 dal governo del socialista Jospin. Un successone, secondo un’indagine pubblicata da «Le Monde», anche se resta la

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l’ottobre 2007 ne ha quindi approfittato il quarantunenne ministro degli Esteri inglese David Miliband, a seguito dell’adozione del piccolo Jacob. Ovviamente, per quante modifiche si possano fare in sede giuridica, nella vita quotidiana rimane la difficoltà di relazionarsi con l’illegittimità, gestendo rapporti segreti e legami paralleli o sconosciuti. Nel maggio 2005, rispondendo alla domanda «La sua paura maggiore?», Vivian Lamarque rispondeva «quella degli illegittimi: il mondo tutto a due a due col resto di uno: io»20. Le situazioni sono spesso ambivalenti, e i ricatti all’ordine del giorno, come risulta da uno dei racconti del duro Orfani di padri: ‘Sai Monica, non avrai più un soldo da lui’, le ha spiegato l’avvocato. Sua madre taceva. ‘Ti ha mantenuto finora, anche se nessuno lo poteva costringere...’. Monica ha riso. [...] ‘Ha detto che se lo obbligherai a riconoscerti, per lui non esisterai più. E non sperare di ereditare qualcosa. Avrà già fatto in modo di intestare tutto a suo figlio. Non so che farei al posto tuo, se rinuncerei a una sicurezza... è disposto a intestarti un appartamento a Marzocca. [...] Glielo dica anche lei, signora. Potrà proseguire gli studi... ha senso intestardirsi a volersi chiamare in un modo? Un nome vale un altro [...]. Pensaci Monica’, le ha detto l’avvocato ormai sulla porta. ‘I risultati del test del DNA al giudice non glieli manderemo prima di due settimane’21.

Un fenomeno che continua a riproporsi è quello delle gravidanze parallele di moglie e amante. Si tratta di un classico che incarna la disparità tra pubblico e privato. Piace molto ai papà francesi più giovani il congedo di paternità: lo prende il 75 per cento di chi ha fra 30 e 34 anni. Scende al 60 per cento fra i neopadri di 35-39 anni. Per i gemelli si può arrivare fino a diciotto giorni, più i tre offerti dal datore di lavoro (ma per tutti è necessario usufruirne entro quattro mesi dalla nascita del bambino). 20 Nel romanzo di Piersanti, il maturo Metz prende una decisione importante: «ho speso tanto, eppure ogni anno il saldo del mio conto aumentava. Ne lascerò abbastanza per tutti, non preoccuparti, non ti coinvolgo in un’ingiustizia. [...] Diego avrà quello che gli spetta, come è ovvio [...]. Il pacco più grande è per lui, ci troverai scritto sopra il suo nome. Gli altri due sono uguali, e vanno a due signore... Gli indirizzi sono in un foglio nella tua busta, c’è anche un biglietto per loro [...]. Ci tengo che questi soldi arrivino a destinazione... è una faccenda di figli, anzi di figlie per l’esattezza. Ormai sono grandi e non l’ho mai aiutate» (Claudio Piersanti, Il ritorno a casa di Enrico Metz, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 120-21). 21 Michele Gabbanelli, Orfani di padre, peQuod, Ancona 2007, pp. 115-16.

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contrapposizione tra una paternità legittima ed una illegittima, segnando la profonda frattura tra ciò che è considerato onesto e ciò che non lo è, tra ciò che deve rimanere nascosto e ciò che invece ha diritto alla luce del sole. Sono tantissimi gli scrittori che hanno raccontato questa duplicità. Oltre a Pirandello (nel racconto Tanino e Tanotto), pensiamo anche a La vedova scalza di Salvatore Niffoi, ambientato nella Sardegna degli anni del fascismo: Quando la pancia di Ruffina Taboni in Centini iniziò a gonfiarsi fino a diventare un forno, mi sentii intrappolata come una gatta selvatica che ha messo le zampe nella tagliola. Anche dentro la pancia mia stava crescendo una creatura [...]. L’idea che Micheddu avesse impinzato un’altra mi incuriosiva e mi spaventava fino a farmi sbiancare. [...] L’ultima volta che l’ho vista, alla vigilia della sua partenza, eravamo sole per la strada lungo il viale di Miluddai. Io davo la mano a mio figlio e, per vincere l’imbarazzo, gli ripetevo a voce bassa: ‘Vadia a terra! Guarda dove metti i piedi!’. Lui, mischineddu, ubbidiva e camminava a testa bassa, guardando l’impietrato e contando i passi. Lei spingeva Benito dentro una macchinina nera a pedali, con leggerezza, come se fosse vuota, come se lì dentro ci fosse stata un’ostia, un bamboloccio di pezza, un figlio di nessuno22.

È il solco che attraversa il romanzo di grande successo di Margaret Mazzantini Non ti muovere (2001). Ambientato tra il centro e la periferia di una città che è chiaramente la Roma di oggi, la vicenda è costruita intorno alla contestuale gravidanza della moglie e dell’amante del chirurgo Timoteo, terminata l’una con la nascita di una bimba e l’altra con il decesso della donna per setticemia dopo un aborto clandestino ad opera di una mammana. Il messaggio è sinistro: la paternità legittima porta alla nascita, quella illegittima alla morte23. 22 Salvatore Niffoi, La vedova scalza, Adelphi, Milano 2006, pp. 112, 158. «Dal consolato mi mandano a dire che alla pensione non abbiamo diritto [...] perché in Italia lui era già sposato e l’altra, l’italiana, ha fatto valere i suoi diritti... diritti? Quali diritti? Chi l’ha amato e rispettato per tutti questi anni? [...] No, che non lo sapevo. [...] Sì, qualche volta mi era passato per la testa qualche sospetto, ma mi dicevo che ero stupida, che non poteva essere vero. [...] Rabbia, ecco cosa provo. Ché io mi sono domandata spesso perché si fosse ostinato a negarmi il matrimonio e il nome ai figli. In qualche modo me lo sentivo che la storia era questa» (Laura Pariani, Nicola Lecca, Ghiacciofuoco, Marsilio, Venezia 2007, p. 42). 23 Esito impari in Mille anni che sto qui di Mariolina Venezia. Siamo nel 1861 in

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Un altro grande tema che ha segnato la storia della paternità è quello della sensazione che, per un concorrere di motivi, gli uomini non siano in grado di fare i padri, specie se confrontati con la generazione che li ha preceduti. È il ritornello del padre in crisi («gli uomini, pensa Chantal, si sono ‘papaizzati’. Non sono più dei padri, ma solamente dei papà, ossia dei padri cui manca l’autorità di un padre»24). Pur con qualche variante, l’idea del padre assente, del padre in crisi, della società senza padri destinata a soccombere e sempre in difetto rispetto alle epoche precedenti, ritorna ciclicamente. A fine Ottocento, alla domanda «che hai, sei malato?» un padre risponde: sì, molto malato, malato del male di tutti i padri del tempo nostro, [...] malato del deplorevole spirito che soffia oggi su tutte le famiglie per distruggerle. [...] Un padre è una guida, un padre è un maestro, un padre è un giudice, non è un amico; confondere così tutti i sentimenti, confondendo tutti i gradi, val quanto distruggerli25.

Se negli anni Quaranta del Novecento i toni sono estremamente simili («è con amarezza e con stupore che noi constatiamo quanto in basso sia, in troppi casi, caduta la figura del padre»26), vent’anni doun paesino della Basilicata: «non si era ancora finito di mietere a Calavrès e a Sant’Làzzar’, che già [a Concetta] era cresciuta una bella pancetta rotonda a luna piena che gliela faceva desiderare ancora di più. Nel frattempo cresceva anche la pancia di donna Nina. Avevano appena finito di ventilare quando donna Nina si mise a letto fissa per le nausee. Stavano seminando che ebbe la prima minaccia di aborto e il grano era tutto verde quando entrò in travaglio. Ci stette per tutta una notte e il giorno successivo, ed era notte di nuovo quando diede alla luce un mostro con la testa di pesce, che campò soltanto poche ore, e lei non gli sopravvisse»; da Concetta nasce invece Costanza (Mariolina Venezia, Mille anni che sto qui, Einaudi, Torino 2006, p. 20). 24 Milan Kundera, L’identità, Adelphi, Milano 1997, p. 22. 25 «Capovolgendo la società la Rivoluzione l’ha rinnovata, ma rinnovando la famiglia l’ha distrutta; voglio l’uguaglianza civile, voglio l’uguaglianza politica, voglio l’uguaglianza da per tutto, fuorché nel focolare domestico; qui, qui voglio la gerarchia, voglio che ogni sentimento serbi il suo nome e che la dignità paterna non s’immiserisca in quelle tenerezze che son prescritte da questo solo nome capo famiglia. L’altro giorno leggevo nel Montaigne una frase ben espressiva: ‘così i padri nascondono la loro affezione verso i figli’. Capisci? Nascondono! [...] Quali profonde parole e come siam lontani noi da quel savio riserbo, noi che innanzi tutto vogliamo essere babbi teneri, sensitivi, adorati» (Ernest Legouvé, Padri e figli nel secolo che muore, Barbera, Firenze 1899, pp. 122-24). 26 Luigi Miorandi, Il padre. Pensieri di un italiano, Aldo Martello, Milano 1944, p. 16.

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po il sociologo Alexander Mitscherlich intitola la sua opera più conosciuta Verso una società senza padre (1963): la retorica dell’assenza della figura paterna finisce così per (ri)dominare nella cultura occidentale. Del resto, nel 1966 Pasolini scriveva in uno dei suoi drammi più noti, Affabulazione: «Figlio, tu lo sai cos’è un padre? [...] I padri, sappilo, sono tutti impotenti: qualunque sia la loro espressione e il loro portamento altro non leggi nella loro persona che la coscienza della loro impotenza». Pasolini (che nel maggio 1971 raccontava in un’intervista a Dacia Maraini «tutte le sere aspettavo con terrore l’ora della cena») divide i padri in quattro categorie, tutte negative: quelli che ignorano i figli, quelli che li odiano (le due più diffuse), quelli «che fingono di amarli in modo diverso da quello in cui li amano e coloro che fingono di amarli semplicemente perché non li amano»27. Nella seconda metà del Novecento della crisi della figura paterna viene ritenuta responsabile la società che non gli consentirebbe più di svolgere le sue funzioni: ciò, oltre ad essere causato dalla vita frenetica fuori casa (che non gli permetterebbe, fisicamente e mentalmente, di occuparsi dei figli), sarebbe da imputarsi alla costante critica alla sua autorità, identificata a sproposito con il patriarcato o il maschilismo, condotta dal femminismo e dall’emancipazione femminile in genere28. In questa lettura, le donne avrebbero quindi definitivamente messo i padri al tappeto. Scrive Leo Buscaglia: diversi decenni fa, quando io ero piccolo, era molto più facile definire un padre: egli era il genitore, il sostentatore, colui che imponeva la disciplina, che prendeva le decisioni, il capo simbolico della famiglia. Quando l’auto non funzionava, era lui che la riparava; se il coperchio di un gioPier Paolo Pasolini, Affabulazione, Einaudi, Torino 1992, p. 83. Tutto questo avrebbe determinato il passaggio alla «società della Grande Madre, oggi imperante. Essa si è organizzata (specialmente lo stato sociale) in modo da compiere le funzioni di madre: soddisfare le necessità dei cittadini, prendersi cura della salute, educazione, sicurezza sociale, conservare l’esistente, eliminare i rischi, sottomettere tutto al controllo affinché vi sia fluidità nella società. Questa situazione ha messo in scacco l’identità del padre, che anteriormente svolgeva la funzione del Grande Padre provvidente. Egli si vede ora dislocato e, talvolta disoccupato (sono milioni attualmente in ogni paese), si sente demoralizzato e perfino schernito. L’indebolimento della figura del padre ha destabilizzato la famiglia» (Leonardo Boff, Giuseppe di Nazaret. Uomo giusto, carpentiere, Cittadella, Assisi 2006, pp. 206-207). 27 28

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cattolo si rifiutava ostinatamente di cedere, era lui che si chiamava in aiuto; se c’era uno strano rumore in corridoio, era lui che indagava. Soprattutto, se quel giorno avevi fatto il monello, era lui che si evocava nella fatidica minaccia: ‘aspetta che ritorni tuo padre!’29.

Forse la lettura del passato dovrebbe partire da una chiave diversa. Le nostre società che per secoli hanno costruito il padre sull’incertezza, sulla necessità di controllare le donne per definirlo, dando in finale esclusivamente ai maschi il potere di decidere se essere padri o meno, non sono riuscite davvero a fare i conti con l’oggettività della figura paterna. Se, come notava Donald Barthelme nel Padre morto (1975), «molti padri non desiderano in particolar modo essere padri, la paternità gli è cascata addosso, li ha afferrati incidentalmente o grazie all’abile disegno di qualcun altro, o li ha colpiti per pura goffaggine»30, questa situazione è stata decisamente accentuata dal DNA. Oggi padre è anche chi non vuole esserlo.

3. Il DNA scagiona il padre: Yves Montand ‘E lei dice che è stato Eitan a metterla incinta?’. [...] ‘Sì’. ‘E perché dovremmo crederle?’. ‘Non è stata con nessun altro’. [...] ‘Ora può dire quello che vuole, no? Non c’è nessuno che possa smentirla’. [...] ‘L’assistente sociale ha parlato di un possibile esame del DNA’. Cadde il silenzio e Shulamit pensò al DNA di Eitan che di certo si era già sfaldato nella bara sotto terra. S. LIEBRECHT,

Donne da un catalogo

Ma i padri ad un certo punto hanno reagito e, onde evitare di finire completamente schiacciati dal DNA, hanno iniziato a utilizzarlo a loro favore. Ad esempio, dimostrando che in realtà padri non sono: come l’analisi genetica è infatti preziosa sia per identificare un criminale che per evitare la condanna di un innocente, così il suo esame può – oltre che incastrare l’uomo che vuole fuggire dalle sue responsabilità – anche liberare un innocente da una paternità che non è la sua. 29 30

Leo Buscaglia, Papà, Mondadori, Milano 1990, p. 19. Donald Barthelme, Il padre morto, Einaudi, Torino 1979, p. 124.

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In Gran Bretagna si sta assistendo ad un’autentica rivolta da parte di uomini condannati ingiustamente a provvedere ai nati in quanto loro padri d’ufficio. Denunciati dalle donne con cui avevano avuto una relazione, e poi costretti a riconoscere la prole e a mantenerla per anni, grazie anche all’attività dell’ente pubblico Child Support Agency (CSA – che sta dando la caccia a oltre 150.000 ex mariti o padri naturali latitanti)31, alcuni di questi hanno preteso il test del DNA. Ebbene, uno su sei è risultato innocente: e così ora lo Stato deve rimborsare a 3.000 non-padri (per il periodo 1998-2005) i contributi versati. Un rimborso che non ricade sulle madri, ma sui contribuenti. L’altra particolarità è che l’esame del DNA è economicamente a carico dell’uomo. Non essendo però un test di poca spesa, per superare la difficoltà del costo la CSA ha firmato un accordo con il gruppo Cellmark: chi si sottopone al test, a pratica per accertamento della paternità appena avviata, usufruisce di un forte sconto (circa 340 euro, contro gli ordinari 750). La prova del DNA, l’arma contro uomini latitanti, oggi è diventata simmetricamente l’ossessione di maschi gelosi che non ricercano tanto una filiazione, quanto un tradimento (e con qualche fondamento: nel mondo un bambino su cinque non è il vero figlio dell’uomo indicato come padre). Le conseguenze, però, sono ancora una volta ambivalenti dal momento che questo tipo di ricorso al DNA mette l’interesse dei figli in secondo piano. Se ben conservato, il DNA è stato spesso utilizzato anche per risolvere casi di paternità contestate, relative a persone decedute32. Allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, però, non sembra possibile compiere l’identificazione del DNA sulle ceneri (come sa beLa CSA è stata creata dai conservatori nel 1993 per assicurare che a pagare per il mantenimento dei figli siano entrambi i genitori. L’agenzia, in linea con le statuizioni della common law, favorisce la madre: l’agenzia si basa infatti sui dati forniti dalla madre del bambino (del tipo: quanto guadagna il padre, quanti giorni all’anno vede il figlio e così via) e spetta all’uomo dimostrare l’eventuale errore. 32 In questo caso le possibili strategie operative vanno valutate caso per caso, impiegando i campioni biologici eventualmente disponibili. In certi casi è infatti possibile sottoporre al test i genitori dello scomparso: si tratta di casi complessi la cui fattibilità deve essere esaminata con estrema cautela. In altri casi possono essere sottoposti a test genetico parenti stretti dello scomparso, pur con certe limitazioni, in altri ancora materiale biologico prelevato allo scomparso quando questi era ancora in vita. L’esumazione dei resti, talvolta, rappresenta l’unica possibilità per risolvere il quesito di paternità. 31

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ne Marina di Un posto al sole, che fa immediatamente cremare il neomarito Ranieri onde ereditarne la fortuna, esautorando la buona e bionda figlia illegittima). Nel 1998 i test sul DNA ebbero un momento di gloria a motivo di due uomini famosi, da tempo deceduti, il presidente americano Jefferson e l’attore francese Montand, rivelando una paternità nel primo caso ed escludendola nel secondo. Se infatti il DNA confermò il legame genetico tra Thomas Jefferson e Eston Hemings, il figlio minore della sua celebre schiava di colore Sally Hemings33, esso escluse che Yves Montand fosse il padre di Aurore: quella che inizialmente venne percepita dall’opinione pubblica come una profanazione del corpo del defunto, fu invece poi salutata come un giusto rimedio per smascherare un’impostora. Anne Drossard (nome d’arte Ann Fleurange), ex attrice di origine polacco-irlandese, conobbe Montand sul set di Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre. Secondo la sua versione, i due ebbero una relazione di due anni, da cui nel 1975 sarebbe nata Aurore, finita proprio per il disinteresse dell’uomo verso la bimba. Quando però, nella seconda metà degli anni Ottanta, la Drossard in televisione vede l’attore parlare commosso della meravigliosa emozione di diventare per la prima volta padre (morta la Signoret, l’attore aveva portato allo scoperto la relazione con Carole, divenendo a 67 anni padre di Valentin), la Drossard, indignata, intenta la causa per il riconoscimento di paternità. Anche in aula l’attore continua a negare qualsiasi coinvolgimento, rifiutando categoricamente di sottoporsi ad alcuna analisi scientifica. Ritenuto eloquente il diniego, il tribunale riconosce Aurore come sua figlia nel 1994. Come già accennato, viene fatta presente in aula la grande somiglianza tra Aurore e Montand. La questione non si chiude nemmeno con la morte dell’attore: i familiari, infatti, impugnano la decisione. Così nel 1998, sette anni dopo la sua morte, la Corte d’Appello di Parigi ordina che la salma venga riesumata per un’analisi postuma del DNA. L’opi33 Per la ricostruzione di queste vicende (oggetto dei romanzi storici di Barbara Chase-Riboud), cfr. il recente saggio di Annette Gordon-Reed, The Hemingses of Monticello. An American Family, Norton, New York 2008. Come ha detto Farred Thomas, studente di scuola superiore: solo i bianchi hanno bisogno della prova del DNA, noi lo sapevamo benissimo (Don Terry, DNA Results Confirmed Old News about Jefferson, Blacks Say, in «The New York Times», 10 novembre 1998, p. 18).

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nione pubblica è scandalizzatissima, ma ecco che due mesi più tardi avviene il colpo di scena: l’esame di laboratorio esclude nella maniera più assoluta che Aurore sia figlia dell’attore. L’utilizzo del DNA per l’identificazione del padre defunto è comunque una pratica che incontra più difficoltà di quanto non si possa pensare. Innanzitutto v’è il problema di quali familiari abbiano il diritto di richiederla, potendo facilmente esservi degli interessi contrastanti. Nell’aprile 1997 a Camarillo (California) morì il sessantaseienne William Hike, e la moglie Dorothy scelse di non autorizzare la donazione di organi. Tre giorni dopo il decesso però, una delle figlie dell’uomo, tale Amber Hunt che per anni era stata allontanata dalla famiglia, chiamò l’ospedale chiedendo (con una scusa) che campioni di sangue paterno venissero inviati al laboratorio di Long Beach: compiutovi il test di paternità, la ragazza ebbe la conferma dei suoi sospetti, e cioè che l’uomo era biologicamente suo padre. La moglie, a sua volta, denunciò l’ospedale per aver prelevato i campioni, sostenendo di essere solo lei la detentrice del diritto di disporre del corpo del marito. I giudici però non accolgono la sua domanda, ritenendo che ella non abbia «legally protected privacy interests», e che non avrebbe potuto opporsi al prelievo34. Del resto, è anche vero che quando si tratta di analisi sui cadaveri, riemerge l’antico scetticismo verso la scienza. Ad esempio, nel 2000 il Tribunale per i minorenni dell’Aquila ha rigettato la domanda di accertamento di paternità di persona scomparsa da tredici anni, nonostante il consulente tecnico d’ufficio, il professor Giancarlo Umani Ronchi (studioso di DNA noto a livello europeo), avesse concluso per il 99,94 per cento di probabilità di riuscita35. Hike vs. Long Beach Genetics, caso 175454, 11; Corte Suprema della California, 31 luglio 1998. 35 Secondo la sentenza, infatti, il valore da attribuire all’indagine sul DNA non è assoluto e nei casi dei soggetti deceduti le indagini possono svolgersi su consanguinei ascendenti o discendenti, su reperti di autopsia, previa riesumazione del cadavere o sul cromosoma Y nel solo caso di discendenza maschile. In molti di questi casi, particolare rilievo assume l’analisi statistica che deve essere avviata da persone competenti nella valutazione probabilistica dei caratteri ereditari lungo le linee parentali che si hanno a disposizione. Particolare attenzione va inoltre riposta nella distinzione tra esito della prova e decisione sull’esistenza della realtà biologica che l’analisi intende provare, che si realizza complessivamente nel giudizio del magistrato e può integrarsi con prove di qualsiasi altro genere, pur evidenziandosi che l’esame biologico per il suo carattere di obiettività si presenta in termini di pro34

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In questa cautela verso le analisi del DNA sui defunti, v’è sicuramente anche uno scetticismo di fondo verso la volontà di rivedere le decisioni del de cuius in materia di paternità. È come se, trattandosi di un ambito particolarmente intimo e personale, vi fosse la necessità di rispettare ciò che egli scelse di dire o di non dire. Lo dimostra, in modo chiaramente pretestuoso, la celebre sentenza della Corte Suprema dell’Alabama che nel 1993 si pronunciò nel caso Tierce vs. Ellis. In quell’occasione, infatti, Dennis Tierce venne riconosciuto come figlio legittimo di William Tierce, nonostante il concepimento fosse avvenuto quando l’uomo si trovava a combattere in Europa durante la II guerra mondiale. Sebbene la logica conclusione fosse sotto gli occhi di tutti, i giudici decisero diversamente. Tornato a casa nel dicembre 1945 e trovata sua moglie Irene incinta di sei mesi, William Tierce, facendo leva sull’evidente adulterio della donna, aveva immediatamente avviato le pratiche per il divorzio, ottenuto senza problemi nel febbraio 1942. Quando però, il 4 aprile di quello stesso anno, nacque Dennis, costui venne indicato nel certificato di nascita come figlio di Tierce. L’uomo, intanto, ignorando la questione, si era risposato e aveva avuto cinque figli. Il problema si palesò dopo la sua morte, avvenuta nel 1972: redatta infatti la lista dei legittimi eredi, in virtù dell’errore compiuto quasi mezzo secolo prima, Dennis venne incluso fra questi. A nome anche dei suoi fratelli, Sheila Ellis si rivolse quindi ai giudici affinché, accertato l’errore, il figlio dell’ex moglie del defunto venisse depennato dai legittimi eredi dell’uomo, cosa che in primo grado i giudici fecero. La decisione venne però ribaltata dalla Corte Suprema dell’Alabama, e così Dennis Tierce, l’erede impossibile, ottenne una parte dell’eredità di un uomo che non aveva mai conosciuto, e al quale, soprattutto, non poteva essere in alcun modo legato. La decisione si basava su due elementi che a noi interessano in modo particolare, perché li abbiamo incontrati più volte nella nostra storia della paternità. Da un lato, sulla presunzione contenuta nell’Alabama Uniform Parentage Act (parr. 26-17-1 sgg.) che consideva irrinunciabile e principale. Non è tuttavia possibile ignorare che l’opinione comune favorisce l’espressione del giudizio biologico in termini di certezza. Insomma, la conclusione è che la consulenza tecnica svolta su cadavere scomparso da tempo non può attribuirsi valore assoluto ma relativo, in quanto la medicina non può definirsi una scienza esatta.

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ra padre del nato il marito laddove la nascita sia avvenuta entro 300 giorni dal divorzio (Dennis era nato solo 60 giorni dopo lo stesso). Dall’altro, invece, la corte si rifece alla regola di common law che richiede una soluzione sollecita per le dispute legali: giacché William Tierce non aveva avviato il disconoscimento di paternità in occasione del suo divorzio, questo non poteva essere richiesto a distanza di anni dalla figlia. Come abbiamo visto in chiusura del capitolo 6, la storica comparsa della scienza sulla scena della paternità – con la sua rivoluzionaria pretesa di fare chiarezza in tema – è stata accolta con enorme scetticismo; Chaplin se ne accorse. La vicenda Tierce dimostra come, quasi cinquant’anni dopo, quella ritrosia a privilegiare il dato naturale sia ancora diffusa. Tutto è rimasto uguale dunque? Assolutamente no: come vedremo tra breve, infatti, è l’intero contesto attorno alla nascita – e quindi, inevitabilmente, attorno alla paternità – ad essere completamente mutato. Il dominio della natura sulla paternità parrebbe essere stato davvero breve.

Postilla OGGI IL DIRITTO TORNA A DEFINIRE IL PADRE?

1. Nuove forme di paternità Ora tocca a me venire qua, in questo improbabile castello dello sperma, in cerca di un donatore anonimo. Devo soltanto trovarlo. [...] Mi colpisce un ragazzo. È alto, di origine metà giapponese e metà ebrea. Ebreo come me, la parte giapponese sarebbe una variante simpatica. [...] Ma se l’etnia mista fosse un errore? Un ulteriore svantaggio per questo povero bambino immaginario che crescerebbe già con una madre single? Il mio cuore batte forte, le ovaie, stimolate dal Personal, mi fanno male e il mio stomaco è in subbuglio. Sto facendo una cosa assurda. [...] Quando apro la scheda seguente l’angoscia mi assale. Il quadro medico della famiglia del donatore è terribile come quello della mia, cancri ovunque, e problemi alla vista, emicranie e allergie. Ecco, questo è davvero un problema, pensare all’aspetto eugenetico dove, invece, dovrebbe esserci dell’emozione. [...] Non riesco a immaginare nulla a parte il fatto che sono tutti poco più che ragazzi, studenti universitari che hanno bisogno di soldi per pagarsi gli studi, con madri probabilmente più giovani di me. L. DACKMAN,

Cercando l’amore nella banca dello sperma

In età contemporanea, dunque, la delicata questione della ricerca del padre è stata affidata prima al diritto e poi alla natura. Contestualmente, però, le società hanno affrontato un altro importante problema: cosa fare in presenza di un difetto dell’uomo che impedisca il concepimento? Le possibili soluzioni sollevano profili tutt’altro che marginali in relazione alla definizione e all’individuazione del padre, rendendo necessaria un’analisi che travalichi i nostri confini nazionali. Di fronte a questa esigenza, la scienza ha superato gli antichi stra-

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tagemmi (come quello che, a Roma, prevedeva lo scambio delle mogli incinte) favorendo la fecondità della coppia o fornendo (per così dire) un contributo terzo alla riproduzione. Com’è evidente, le due alternative sono molto diverse. Nel primo caso, infatti, la questione della genitorialità non viene toccata in alcun modo: la medicina e la scienza semplicemente assistono la coppia che, per motivi diversi, non riesce ad avere figli con un normale rapporto sessuale. Si tratta della procreazione assistita, volta a far sì che con l’aiuto della tecnica la coppia diventi fertile. Questo genere di intervento fu valutato positivamente (in quanto non problematico) già dal 1799, quando venne messo a punto il metodo Hunter, che si diffuse gradualmente nel corso dell’Ottocento. In quella data, infatti, il medico inglese riuscì a rendere una donna incinta del marito con l’aiuto di una siringa. Il quadro è invece molto diverso laddove, in presenza di infertilità maschile, l’unica via percorribile sia il ricorso ad un contributo esterno. Tra i nodi che sorgono si pone un grave problema sociale e giuridico: chi nasce mediante questa tecnica è figlio del donatore o è figlio del marito della madre? I tentativi messi a punto dalla scienza sollevarono da subito forti ostilità. Se è lecito ritenere che già nell’Ottocento si sia fatto ricorso a tale procedura, la prima comunicazione ufficiale si è avuta, però, solo nel 1909 con l’articolo Ingravidamento artificiale, comparso sul numero di aprile di Medical World, a firma di Addison David Hard, un medico del Minnesota. In esso l’autore raccontava che 25 anni prima, nel 1884, nell’anfiteatro anatomico della Jefferson Medical School di Filadelfia, aveva assistito all’inseminazione di una donna in anestesia operata dal medico William Pancoast con lo sperma di uno degli studenti presenti. Rimasta incinta, la donna non aveva mai saputo di quel seme terzo, mentre il marito era stato informato ad intervento avvenuto. Che ci siano voluti quasi trent’anni per pubblicare la notizia dimostra le difficoltà che tale tipo di intervento sollevava. Va sottolineato inoltre che il segreto fu gelosamente custodito in primis da colui che formalmente risulterà padre del nato. Si tratta di un atteggiamento che permarrà anche quando, dopo la II guerra mondiale, l’inseminazione tramite donatore inizierà a diffondersi (negli anni Cinquanta i medici raccoglievano con regolarità lo sperma da colleghi, studenti in medicina e da se stessi)1. 1

L’acceleratore sulla fecondazione assistita sarebbe stato indotto dal clima

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Contestualmente, si andava definendo un altro importante cambiamento. Da principio i medici si avvalevano di seme raccolto un attimo prima di utilizzarlo, ma ben presto divenne possibile scindere i due momenti: negli anni Quaranta, infatti, si scoprì accidentalmente che lo sperma, unito al glicerolo, riusciva a sopravvivere al congelamento. Se il seme «fresco» presentava vantaggi pratici e migliori probabilità di successo, il suo congelamento evitava la casualità del donatore, rendendo possibile la selezione. Fu del resto proprio lo sperma congelato a permettere che l’inseminazione eterologa diventasse un autentico affare2. La paura dell’AIDS ha fatto il resto, e il turkey-baster, cioè la fecondazione fai-da-te, di gran moda negli anni Sessanta tra le femministe, fu ben presto abbandonata. Prima degli anni Ottanta, non si eseguivano, né sui donatori né sullo sperma, test per l’epatite, la sifilide, la gonorrea e così via. Ciò era possibile facendo leva sulla necessità, disperata e colpevole, dei clienti: la fecondazione eterologa andava taciuta, soprattutto per salvare l’onore di compagni e mariti. Quando però si diffuse il terrore dell’AIDS, il diritto di conoscere le condizioni di salute del donatore – inizialmente chiesto solo dalle donne omosessuali – fu preteso da tutti. È importante sottolineare la facilità con cui fu da subito possibile eseguire questo tipo di fecondazione (malgrado i medici alimentassero il mito di una procedura complessa gestibile solo da professionisti esperti, onde mantenerne il monopolio). E così negli anni Settanta iniziò a crearsi una situazione di autentica anarchia: giacché occorreva solo un’apparecchiatura minima e qualche serbatoio di azoto liquido, tante banche del seme vennero avviate e dirette da dilettanti. Nella confusione non mancarono speculazioni e scandali. A fine anni Ottanta, ad esempio, scoppiò il caso Sperminator: il dottor Cecil Jacobson del Nord Virginia, uno dei più importanti specialisti postbellico che generò una sorta di dovere morale alla procreazione. Essendo molti uomini tornati dal fronte disturbati fisicamente e psicologicamente, la loro fertilità era spesso in crisi. 2 La successiva svolta in tema di biotecnologie applicate alla procreazione, avviene nel 1978, quando gli inglesi Patrick Steptoe (ginecologo) e Robert Edwards (biologo) fanno incontrare in vitro, cioè in provetta, ovulo e spermatozoo, dando origine alla produzione in serie di embrioni umani che vengono poi trasferiti nell’utero della donna (che può essere la stessa fornitrice degli ovuli o un’altra che presta il suo utero).

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nel campo, venne accusato dalla procura federale di numerose frodi. Tra l’altro emerse che, nonostante l’uomo promettesse alle pazienti di ricorrere a donatori con le caratteristiche richieste, in realtà procedeva alla fecondazione con il proprio liquido seminale, diventando padre di ben 75 figli. Eppure questo particolare comportamento non fu sanzionato: quando nel 1992 l’uomo venne portato in giudizio per 52 capi d’accusa (e condannato a 5 anni di carcere, oltre alla perdita della licenza), le sue paternità fraudolente non furono in alcun modo menzionate. Se oggi la banca del seme più nota a livello mondiale è la danese Cryos (sbarcata dal 2001 negli Stati Uniti, con lo slogan Congratulations! It’s a Viking), tre tra le più importanti (il Repository for Germinal Choice, la Sperm Bank of California e la California Cryobank, attualmente la maggiore negli Stati Uniti) furono fondate in California a fine anni Settanta, grazie alla politica liberale di quello Stato e all’ossessiva cultura del miglioramento fisico ivi imperante3. Interessante è la storia del Repository for Germinal Choice, più nota come la banca del seme dei Nobel, aperta nel 1980. Nei suoi 19 anni di vita, la struttura ha fatto nascere oltre 200 bambini, costituendo «il più radicale esperimento di genetica umana mai ideato nella storia degli Stati Uniti»4. L’idea di favorire la nascita di leader, scienziati e politici che avrebbero contribuito a migliorare la specie, venne a Robert K. Graham, un eccentrico miliardario convinto che l’America fosse a un passo dalla catastrofe genetica. A questo fine, dapprima prese in considerazione l’idea di una banca di militari coraggiosi (ricorrendo ai graduati delle migliori accademie americane), scegliendo poi i gameti degli uomini più intelligenti del mondo, di coloro, cioè, che erano stati insigniti del premio Nobel per le scienze. Graham fu però costretto ad ampliare il suo bacino di fornitori: i premi Nobel, infatti, gli avevano procurato diversi problemi, essendo insufficienti per soddisfare la domanda, troppo anziani (il che 3 La Sperm Bank of California (fondata dalla femminista Barbara Raboy) ha svolto un ruolo cruciale nel trasformare l’industria della fertilità e il nostro sentire comune: è stata lei, infatti, ad aprire le porte alle donne lesbiche. Le reazioni non furono affatto benevole (Liza Mundy, Everything Conceivable: How Assisted Reproduction Is Changing Men, Women, and the World, Knopf, New York 2007, pp. 108-11). 4 David Plotz, La fabbrica dei geni. L’incredibile storia della banca del seme dei Nobel, Lindau, Torino 2006, p. 24.

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aumentava il rischio di anomalie genetiche e diminuiva la loro conta spermatica), troppo intellettuali e per nulla prestanti. Cominciò così a reclutare uomini d’affari fattisi da sé, intelligenti ma anche belli ed atletici5, soprattutto per assecondare le clienti: oltre che intelligente, tutte volevano un donatore alto e di aspetto piacente6. Pur gestita in modo alquanto confuso7, la banca ebbe grande successo. Basti pensare che Graham fu il solo negli Stati Uniti a non pagare i donatori, i quali desideravano partecipare al progetto per non mancare l’appuntamento con la storia. Muovendosi in un’ottica commerciale, «Graham fece quel che nessun altro nell’ambiente aveva [ancora] mai fatto: mise in vendita i suoi uomini»8. Il catalogo del Repository era elettrizzante: garantiva che tutti i donatori erano uomini di notevole successo, bella presenza, ottima salute e assolutamente privi di anomalie genetiche. Grazie alla sua attenzione verso i consumatori, il Repository mise fine alla gerarchia dell’industria della fertilità. Prima del Repository, gli specialisti della fertilità davano ordini, e le donne li eseguivano. Graham estromise i dottori dal processo e si mise a vendere direttamente ai consumatori [...] divenendo suo malgrado un pioniere del femminismo. Le donne rimasero incantate. Una madre dopo l’altra mi dissero di aver scelto il Repository perché era l’unico posto che ti permetteva di scegliere quel che volevi9.

Oggi il catalogo è una necessità imprescindibile per tutte le banche di seme eterologo. Per diventare donatore, va compilato un modulo lunghissimo che richiede età, colore dei capelli, statura, peso, gruppo sanguigno, curriculum scolastico, professione, talento musicale, doti atletiche, hobby; consumo di alcool, tabacco o droga, 5 C’erano poi un paio di professori universitari, un ex prodigio della matematica, un figlio di Nobel e così via. 6 C’è da registrare una differenza importante tra i cataloghi dei donatori di sperma e quelli di donatrici di ovuli: per queste ultime sono previsti autentici book comprensivi anche di fotografie, un apparato non previsto nel caso di donatori uomini. Così, se a volte si riesce a vendere lo sperma di uomini brutti, gli ovuli che trovano mercato sono solo quelli di donne almeno piacevoli. 7 La banca spesso non registrava né il nome della madre né quello del donatore. Né mancarono problemi legali. 8 Plotz, La fabbrica dei geni, cit., p. 238. 9 Ivi, p. 239.

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eventuali tatuaggi, insonnia, medicine assunte, ossa fratturate, se si è mai barattato denaro con sesso o se esistono problemi mentali in famiglia; una lunga lista di malattie e sintomi da barrare, consenso per sottoporsi al test per l’HIV e rinuncia ad ogni diritto sui campioni seminali in favore della banca del seme. Tutto ciò che può essere utile va detto. La Fairfax, ad esempio, ha una linea «dottorati»: con un sovrapprezzo, le madri possono acquistare sperma da donatori che hanno un diploma di dottorato o stanno per prenderlo10. Pratica semplice e non invasiva, senza conseguenze di tipo fisico (a differenza del prelievo degli ovuli), quella del donatore di sperma può facilmente diventare una professione part-time. È il caso di J.H. Jack Armstrong, giovane afro-americano trentenne protagonista del film di Spike Lee Lei mi odia (2004): licenziato e con il conto in banca bloccato, deve inventarsi un lavoro e quando crede di non avere più speranze riceve la proposta della sua ex moglie che gli offre 10.000 dollari per mettere incinta lei e la sua nuova fidanzata. La voce si diffonde e alla porta di Jack si presenta una lunga fila di lesbiche danarose in cerca di maternità (già pellicole italiane avevano affrontato il tema: nel 1973 esce Sesso matto di Dino Risi con Giancarlo Giannini e Laura Antonelli, mentre nel 1984 è la volta del film di Francesco Laudadio Fatto su misura, con Ugo Tognazzi). Per l’acquirente, compresa nel prezzo v’è solo l’informazione di base, articolata in altezza, peso, occupazione, colore di occhi e capelli. Ogni informazione aggiuntiva sul donatore va invece pagata per singole voci: per ascoltare l’intervista audio, avere una sua foto da piccolo, leggerne il profilo psicologico o il resoconto della clinica sulle impressioni registrate, ottenere la consulenza del personale nella scelta del donatore ideale (magari il più somigliante al proprio marito)11. 10 Ovviamente, per la grande quantità di informazioni contenute nel materiale spermatico, il suo mancato utilizzo può ingenerare un grande stato di ansia nel donatore (respinto): «spedii la domanda [...]. Dopo due mesi ero furioso. Come osavano ignorare il mio seme? [...] Poi la rabbia si trasformò in preoccupazione: che la Fairfax sapesse qualcosa sulla mia salute che io ignoravo? [...] All’improvviso mi ritrovai a desiderare disperatamente che mi scegliessero» (ivi, p. 213). 11 Informazioni e servizi sono disponibili anche su internet. Prendendo un centro (olandese) a caso, leggiamo che esso offre la possibilità di eseguire inseminazioni e fecondazioni in vitro con seme di donatore a coppie eterosessuali, coppie lesbiche o donne single. Possono essere utilizzate tre tecniche, l’auto-insemi-

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Gli interrogativi sollevati da queste pratiche sono molteplici. È innanzitutto legittimo, sul piano sociale e giuridico, chiedersi se si possa considerare padre un uomo che, in cambio di denaro, ha concluso il suo contributo alla nascita nel bagno di un centro specializzato. E chiedersi anche se la donna o la coppia che sceglie il donatore stia acquistando cellule umane o, invece, un surrogato di padre. Del resto, al di là delle intenzioni che possono muovere il procedimento, è difficile non leggere sullo sfondo un’autentica compravendita di figli. Nel dicembre 2006 «The Economist» pubblicava un dossier dal titolo Buying Babies, Bit by Bit: An International Guide to Baby-Making. Essendo davvero grande la varietà di tradizioni in materia di famiglia (e aspetti correlati), e, di conseguenza, di legislazioni nazionali, è frequente che vengano assemblati «pezzi» provenienti da diverse zone del mondo: sperma danese, ovuli russi e utero californiano (in affitto). La trasformazione che investe il concetto di paternità è evidente. Se la costante che ha attraversato le fasi precedenti della vicenda, pur nelle loro differenze, è stata quella di una genitorialità accertata dal diritto e ancorata a due corpi umani (per quanto falsa e non effettiva quando il nato era frutto di un adulterio), oggi il binomio corpo-genitore non esiste più.

nazione, l’inseminazione intrauterina (IUI – intrauterine insemination) o la fecondazione in vitro (FIVET – fertilisation in vitro and embryo transfer). Molto dettagliata l’indicazione dei costi: iscrizione annuale 78,80 euro; primo colloquio 34 euro; ciclo di sei auto-inseminazioni 675 euro; IUI senza stimolazione ormonale 275 euro; IUI con stimolazione ormonale 415 euro; FIVET 1.265,66 euro; anestesia per il pickup 90 euro; donazione di seme per l’inseminazione 75 euro – i prezzi includono consulti medici, monitoraggi ecografici e prelievi di sangue; esclusi i costi dei farmaci. Per accedere alle tecniche con donazione di seme è necessario un primo colloquio, durante il quale verrà stabilito se la donna/coppia può accedere al trattamento e decisi i necessari esami preliminari. In base all’età della paziente e alla sua storia clinica verrà scelta la tecnica da utilizzare (la FIVET viene indicata solo se strettamente necessaria, per esempio in caso di occlusione di entrambe le tube o in caso di ripetuto fallimento dei tentativi di inseminazione). La fecondazione eterologa può essere effettuata con seme fornito da un donatore proprio o dal centro (questi sono volontari e non ricevono compenso). In base alla legge olandese del maggio 2002, i centri devono fornire alla Stichting Registratie Donorgegevens (Registro nazionale delle informazioni sulle donazioni) i dati relativi alle donne rimaste incinte con una donazione (nome e cognome, data di nascita, indirizzo).

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2. Il diritto in affanno Il dottore fu molto gentile [...] poi concluse: ‘Valutando i risultati delle analisi e i precedenti tentativi falliti di FIVET, vi consiglio di procedere con la fecondazione eterologa’. Mi sentii gelare il sangue e non ebbi il coraggio di guardare Andrea che sedeva al mio fianco. Avevo sempre sperato, fin dall’inizio, che i problemi di gravidanza dipendessero esclusivamente da me: temevo che Andrea non sarebbe riuscito ad accettare il peso psicologico della sua eventuale infertilità. [...] e ora, se per caso un giorno fossi riuscita ad avere un figlio, non sarebbe stato suo. S. ZECCHI,

Il figlio giusto

Se, dunque, già sul piano sociale si registravano perplessità in merito alla fecondazione eterologa, le cose si complicarono ulteriormente con l’inevitabile intervento del diritto. Districarsene non fu semplice. Gli aspetti più controversi erano legati (e in alcuni casi lo sono ancora) a come qualificare questi figli (se legittimi o illegittimi); se ammettere o meno, nonostante il consenso previo, il successivo disconoscimento di paternità; come trattare i gameti maschili di un cadavere; come gestire il delicato equilibrio tra diritto del donatore all’anonimato e diritto del nato a conoscere le proprie origini. Il primo nodo si presentò nel 1954, quando un tribunale dell’Illinois considerò l’inseminazione con donatore, anche se eseguita con il consenso del coniuge, non solo contraria «alla politica pubblica e alla giusta morale», ma addirittura adulterio: i nati erano, quindi, da considerarsi illegittimi12. Le cose cambiarono dieci anni dopo, quando un altro Stato americano, la Georgia, dichiarò legittimi i figli nati da fecondazione con donatore. Fortemente problematico è il caso (ripropostosi in tutti i paesi occidentali) in cui l’uomo cambi idea dopo aver acconsentito alla fecondazione con seme terzo. Non essendo biologicamente legato al nato, costui ha o non ha il diritto di rifiutare successivamente la qualifica di padre? In Italia, già negli anni Cinquanta si ebbero due casi di disconoscimento a seguito di fecondazione eterologa. Un uomo, dopo aver dato il consenso all’inseminazione di sua moglie, a nascita avvenuta 12 Un film inglese del 1959, A Question of Adultery di Don Chaffey, si chiedeva se l’inseminazione eterologa costituisse un tradimento.

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chiese il disconoscimento del nato. Il Tribunale di Roma, con sentenza del 1956, gli diede ragione sulla base del fatto che «il rapporto biologico costituisce il presupposto indispensabile per l’affermazione di ogni rapporto giuridico di filiazione»13. Il senso della decisione era assolutamente chiaro: ciò che fa un padre è la biologia, mentre l’elemento volontaristico del consenso è del tutto irrilevante14. Le critiche a questa decisione fioccarono. Il giurista Antonio Trabucchi, ad esempio, affermò che se «è certo che la volontà di procreare non è assolutamente necessaria per l’esistenza della paternità sul figlio concepito nel matrimonio, [...] ci si chiede se per avventura non stia per diventare sufficiente in seguito ai nuovi ritrovati scientifici e alle loro pratiche applicazioni»15. Indubbiamente ci si accorse subito che si era dinanzi a una svolta. Un mese prima della sentenza del tribunale romano, a Padova due coniugi si erano separati consensualmente. Sennonché, nella totale assenza di rapporti tra loro, nel maggio 1957 la donna, fecondata con il seme di un donatore, aveva partorito una bambina, legalmente attribuita all’ex marito che, per tutta risposta, aveva denunciato la donna per adulterio. Inizialmente il pretore l’assolse, accogliendone la linea difensiva: essendo rimasta incinta volontariamente a seguito di fecondazione artificiale, non si ravvisava adulterio, non trattandosi di «una relazione libidinosa»16. Tale valutazione fu, invece, respinta dal Tribunale di Padova: i concetti di sessualità e di genitorialità non si escludono, ma si integrano a vicenda e pertanto la fecondazione artificiale rientra nel reato di adulterio. [...] La moglie che si sottopone all’inseminazione artificiale con seme diverso da quello del marito tradisce il diritto esclusivo del marito dello ius in corpus17.

13 Tribunale Roma, 30 aprile 1956, in «Giurisprudenza italiana», 1957, I, cc. 226 sgg. con nota di Antonio Trabucchi, Fecondazione artificiale e legittimità dei figli. 14 È interessante ricordare come lo stretto legame con il dato biologico venga affermato trent’anni prima che il DNA facesse chiarezza in tema. 15 Trabucchi, Fecondazione artificiale, cit., pp. 221-22. 16 Pretura Padova, 7 novembre 1958, in «La Giustizia penale», 1959, II, pp. 101 sgg. 17 Tribunale Padova, 15 febbraio 1959, in «Il Foro italiano», 1959, II, cc. 81 sgg.; «Giurisprudenza italiana», 1959, I, c. 196.

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La consequenzialità era davvero stretta: dopo secoli in cui il padre era tale per sua volontà, perché non utilizzare i nuovi dati scientifici per ribadire lo stesso principio? Tale soluzione risultava però in contrasto con i principi di responsabilità personale che si andavano diffondendo nei paesi occidentali. E così la scelta di impedire all’uomo di rimangiarsi il consenso andava facendosi decisamente strada. Ad esempio, nel 1968 la Corte Suprema della California stabilì che se il marito aveva acconsentito all’eterologa non poteva poi, in un secondo tempo, sottrarsi alle sue responsabilità di padre: tale infatti era in virtù del consenso, a prescindere dal fatto che il nato non avesse il suo patrimonio genetico. Di lì a poco, nel 1973, l’American Bar Association sanzionò ufficialmente il principio secondo cui il marito è giuridicamente il padre nell’Uniform Parentage Act. L’eventualità che l’uomo si rimangiasse il consenso in caso di fecondazione eterologa non doveva apparire peregrina se è vero che in Italia, durante i lavori preparatori della riforma del diritto di famiglia, si discusse espressamente della possibilità di regolamentare il disconoscimento in tale ipotesi, proponendo di aggiungerla expressis verbis nel codice. Così, il disegno di legge Falcucci ammetteva esplicitamente l’azione (art. 62, n. 5), mentre quello di Gatti Caporaso prevedeva la possibilità di ricorrervi solo laddove la nascita da inseminazione artificiale eterologa fosse avvenuta in mancanza del consenso del marito (art. 73, n. 5). È certo, tuttavia, che in Italia il principio della vincolatività del consenso fatica a farsi strada. Ancora nel febbraio 1994 i giudici di Cremona accordavano il disconoscimento di paternità al marito che lo domandava basandosi sulla sua impotenza18. E questo nonostante la moglie avesse dimostrato che la nascita era avvenuta non a seguito di adulterio, ma per fecondazione eterologa, preventivamente decisa d’intesa con il coniuge. Il tribunale accolse la richiesta di lui, sostenendo che mentre il codice non prevedeva questa soluzione, considerava invece essenziale per la paternità il rapporto biologico tra l’uomo ed il nato. Le critiche furono ancor più numerose: moltissimi (compreso il già citato Trabucchi) contestarono una decisio18 Tribunale Cremona, 17 febbraio 1994, in «Giurisprudenza italiana», I, cc. 995 sgg.

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ne che dava ragione all’uomo che aveva mancato all’impegno preso nei confronti del nascituro19. Tutto ciò non impedì alla Corte d’Appello di Brescia di confermare la decisione (sostenendo, tra l’altro, che il giudice non può spingersi troppo in avanti nell’interpretare le norme)20. La sentenza, però, venne finalmente cassata in sede di legittimità21: la Cassazione affermò che nel caso di specie non si poteva applicare la norma sul disconoscimento di paternità giacché essa riguarda esclusivamente il rapporto adulterino della moglie, ipotesi che esula dalla fecondazione eterologa. Nell’escludere ogni estremo di adulterio, i giudici dichiararono che l’elemento fondante la paternità è il consenso che l’uomo ha espresso. Ciò significa che il principio di responsabilità per la procreazione, previsto dall’art. 30 Cost., esige che chiunque abbia tenuto un comportamento tale da portare alla nascita di un figlio ne sia poi responsabile. È dunque inammissibile l’azione di disconoscimento qualora, da comportamenti concludenti, sia desumibile il consenso del padre all’inseminazione artificiale. Del resto, la legge 19 febbraio 2004, n. 40 (che ha disciplinato in Italia la procreazione medicalmente assistita), pur proibendo l’eterologa, stabilisce che, nel caso in cui comunque essa avvenga, il marito convivente che ha accettato la gravidanza non possa discono19 Cfr. Trabucchi, Fecondazione artificiale, cit.; Cesare Massimo Bianca, Diritto civile, vol. II, La famiglia, le successioni, Giuffrè, Milano 1985, p. 284; Gilda Ferrando, Il caso Cremona: autonomia e responsabilità nella procreazione, in «Giurisprudenza italiana», 1994, I, cc. 995 sgg.; Massimo Dogliotti, Ancora sulla inseminazione eterologa e sull’azione di disconoscimento, in «Il Diritto di Famiglia e delle Persone», 1997, p. 783. 20 Corte d’Appello Brescia, 10 maggio 1995, in «Famiglia e Diritto», 1996, pp. 34 sgg.; «Giurisprudenza italiana», 1995, I, c. 48. 21 Cassazione, 16 marzo 1999, n. 2315, in «Corriere giuridico», 1999, pp. 429 sgg.; «Guida al Diritto», 1999, pp. 48 sgg. con osservazioni critiche di Alfio Finocchiaro, La Cassazione non può svolgere una supplenza nelle funzioni riservate al legislatore. Sul medesimo argomento Piero Schlesinger, Inseminazione eterologa: la Cassazione esclude il disconoscimento di paternità, in «Corriere giuridico», 1999, pp. 401-403. La vicenda ha poi trovato una ulteriore eco nel caso del Tribunale di Napoli, 2 aprile 1997, in «Il Diritto di Famiglia e delle Persone», 1997, p. 1279, in cui si è ritenuta non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 235 c.c. – per violazione degli artt. 2-3, 29-31 Cost. – nella parte in cui non sarebbe preclusa l’azione di disconoscimento di paternità al marito che abbia preventivamente prestato il proprio consenso all’inseminazione artificiale eterologa della propria moglie.

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scere il bambino. La legge, al contempo, vieta al donatore di seme di acquisire obblighi e diritti. È altrettanto dibattuto come disciplinare i gameti dell’uomo defunto, nei due aspetti di soldato e di marito. Il collegamento fra sperma e guerra non è nuovo: già a fine Ottocento, Paolo Mantegazza aveva proposto di conservare il seme in una speciale banca onde fecondare le mogli dei soldati al fronte. Più tardi, al tempo della guerra in Vietnam, alcuni giovani americani depositarono il loro seme in banche specializzate per garantirsi la possibilità di una discendenza: se fossero morti, mogli e compagne avrebbero potuto avere un figlio da loro. La prassi è stata quindi ripresa con l’intervento in Afghanistan e la guerra in Iraq, quando al rischio di morte s’è aggiunto il timore che ferite o intossicazioni potessero pregiudicare la fertilità dei soldati. A proposito di un militare caduto in azione, è stata emanata una sentenza rivoluzionaria: nel gennaio 2007, infatti, l’Alta Corte di Israele ha permesso che il liquido seminale del soldato celibe Kevin Cohen, ucciso nel 2002 da un cecchino palestinese mentre era di guardia nella Striscia di Gaza, venisse impiantato in una donna, in assenza di matrimonio e in mancanza dell’assenso del defunto. A due ore dalla morte ne era stato prelevato lo sperma, poi congelato, su richiesta della madre. Sennonché, quando un anno dopo i Cohen chiesero alla banca del seme di utilizzarlo, l’ospedale rifiutò. Ciò diede avvio a una controversia legale, aggravata dal fatto che il giovane non avesse mai espresso formalmente tale desiderio e fosse celibe (la pratica è invece ammessa per le vedove dei soldati). Introducendo un precedente importante (si tratta del primo caso di una persona non sposata il cui seme sia stato recuperato dopo la morte, per di più in assenza di consenso), i giudici hanno permesso che la famiglia procedesse all’inseminazione di una donna di 35 anni (selezionata tra 200 ragazze con esami clinici e test psicologici), stabilendo che il nascituro venisse registrato come figlio del ragazzo morto. Nel caso di coniuge in coma o defunto, vi è chi accetta questa pratica: in Gran Bretagna si è prelevato lo sperma da un uomo in coma profondo per consentire alla moglie di avere un figlio da lui. Così anche i giudici italiani: nel dicembre 1998 il Tribunale di Palermo affrontò il problema di un marito deceduto dopo un primo fallito tentativo di fecondazione assistita, senza aver lasciato una espressa volontà scritta. La vedova, che aveva inutilmente chiesto al centro di proseguire nei successivi impianti (il rifiuto dei medici era stato mo-

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tivato deontologicamente), si rivolse al giudice domandando l’esecuzione del contratto di impianto degli altri ovuli fecondati, e il tribunale ordinò «l’immediato adempimento della prestazione professionale»22. Peraltro molte leggi sono alquanto esplicite in materia. Vietata espressamente in diversi paesi (Germania, Francia, Austria), la paternità post mortem è permessa, a condizione che l’uomo abbia lasciato il suo consenso scritto, in Spagna e in Gran Bretagna dove, però, la legge esclude che la paternità del genitore premorto possa essere riconosciuta (dal 2003, sempre previo consenso, il nome del padre può comparire nell’atto di nascita, ma il nato non acquista diritti, come quello a ereditare). Un punto estremamente controverso è quello dell’anonimato: l’identità del donatore deve restare segreta o va, invece, svelata? In tema si registra un cambiamento di prospettiva. Inizialmente l’anonimato era voluto dai genitori: analogamente a quanto avveniva per l’adozione23, si preferiva fingere che il figlio fosse nato naturalmente dalla coppia, e così il figlio stesso ignorava la realtà. Per un concorrere di ragioni, invece, ora prevale la posizione che intende tutelare il diritto del nato a conoscere le proprie origini (e del cliente, che ha diritto di sapere la medical history di ciò che compra). Ad esempio, negli Stati Uniti sono particolarmente ricercati i cosiddetti yes donors, che accettano di farsi conoscere dalla prole una volta diventata maggiorenne. A favore della conoscenza sono i medici, per una duplice ragione. Da un punto di vista clinico, si considera indispensabile conoscere la reale anamnesi genetica dell’individuo, per curare le malattie o prevedere possibili anomalie nella prole (profilo importante che a volte rischia, però, di degenerare in una sorta di ossessione genetica). Contestualmente, anche molti psicologi invitano, con sempre maggiore convinzione, le coppie che richiedono l’inseminazione eterologa a non mantenere il bambino (e il resto della famiglia) nell’i22 Tribunale Palermo, 29 dicembre 1998, in «Famiglia e Diritto», 1999, pp. 52 sgg. con nota di Massimo Dogliotti, Inseminazione artificiale «post mortem» e intervento del giudice di merito. 23 La pressione sull’opinione pubblica ha condotto a cambiamenti significativi in materia: ormai da qualche decennio l’adozione è passata da un modello chiuso (fondato sulla rottura totale del legame di filiazione, anonimato delle parti implicate e segreto assoluto) ad un modello aperto che, al contrario, favorisce la reciproca conoscenza.

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gnoranza, in modo che il segreto non diventi un’incognita psicologicamente lacerante24. Una spinta ad abbattere l’anonimato viene anche dal diritto, innanzitutto per l’evidente contraddizione con la Convenzione internazionale dell’Aia circa il diritto dei bambini a conoscere la propria origine. La spinta è ulteriormente avallata dal rischio (non improbabile in piccole comunità) di matrimoni tra persone che, senza saperlo, siano consanguinee. D’altro canto, la giurista Carmel Shalev da anni sostiene che «il principio dell’anonimato del donatore rinforza la regola dell’irresponsabilità maschile nella procreazione»25. In concreto si adottano soluzioni molto diverse. La Francia è a favore dell’anonimato (anche per non scoraggiare eventuali donatori), e la legge del 29 luglio 1994 sulla bioetica erige l’anonimato del donatore al rango dei grandi principi di ordine pubblico: il donatore non ha esistenza giuridica, è solo un produttore di gameti, ai registri si può accedere solo per ragioni sanitarie. Altri Stati, invece, tra cui Gran Bretagna, Svezia, Svizzera, Paesi Bassi e Nuova Zelanda, hanno posto fine all’anonimato, creando registri di donatori di seme (e di ovuli) consultabili dagli stessi nati, al raggiungimento della maggiore età. In Gran Bretagna ciò è possibile dall’aprile 2005, ma contemporaneamente il ministro della Sanità, Melanie Johnson, ha sottolineato che i donatori non avranno alcuna responsabilità di tipo legale o economico, e non saranno obbligati ad incontrare i figli – in precedenza, in base all’Human Fertility and Embriology Act (1990), i giovani maggiorenni avevano solo il diritto di conoscere se fossero stati concepiti grazie alla donazione di sperma o ovociti e, in caso affermativo, se fossero in qualche modo imparentati con la persona che intendevano sposare. 24 Per aiutare i genitori a dire al figlio che è nato in provetta, stanno sorgendo associazioni e una specifica letteratura per bambini. Ad esempio, nel 2003 è nata Mammeonline, divenuta poi casa editrice: in libreria si trova Mamma raccontami come sono nato, raccolta di fiabe e filastrocche scritte da genitori della provetta: «sei nato dal freddo / e calore hai portato / a due genitori / che ci hanno provato / per mesi, per anni, / a mostrarti la via / e questa davvero / è una grande magia» (Mammeonline, a cura di, Mamma raccontami come sono nato, Mammeonline, Foggia 2007, p. 12). Una didascalia mostra un semino e un ovetto che si incontrano in un barattolo. Negli Stati Uniti sta avendo successo Janice Grimes, un’infermiera che scrive libri per bambini concepiti con donatore. 25 Carmel Shalev, Nascere per contratto, Giuffrè, Milano 1992, p. 79.

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Interessante è anche la legge olandese del maggio 2002: compiuti i 16 anni di età, il ragazzo può chiedere di conoscere l’identità del donatore, ma costui può opporsi alla richiesta, e la decisione finale spetta al giudice. Solo il nato ha il diritto di conoscere l’identità del donatore, mentre la madre può avere solo informazioni relative alle caratteristiche fisiche, una volta che il bimbo sia nato. In caso di necessità, i dati sanitari possono essere richiesti da medici autorizzati. Mai però il donatore può essere ritenuto il padre del nato, benché ne sia il padre biologico, e non può rivendicarne la paternità. La complessità del tema è aggravata dal fatto che, dati alla mano, risulta con chiarezza che gli uomini, non più protetti dall’anonimato, sono molto più restii a donare. Anche in questo caso è in atto un vero e proprio capovolgimento: in passato erano i genitori a voler tenere nascosta l’origine della prole nel terrore che il genitore biologico volesse reclamarla, mentre oggi è il donatore, mosso nel suo gesto da altruismo o dalla necessità di guadagno (non certo da istinto paterno), a temere di vedersi, magari a distanza di anni, chiamato in causa (come si vedrà nel caso del povero pompiere inglese: cfr. infra, par. 3). Per questo, già oggi si ravvisano forti segnali di crisi. Se nei Paesi Bassi la scorta di donatori si è esaurita da quando l’anonimato è stato abolito, la stessa cosa è avvenuta in Gran Bretagna. E di certo non è d’aiuto la notizia del novembre 2005, quando un quindicenne americano è riuscito a rintracciare il padre-donatore con una tecnica da polizia scientifica, grazie ad un computer, una spesa di 289 dollari e un campione di saliva. Il dibattito è molto acceso proprio negli Stati Uniti: le banche del seme fronteggiano il dilemma tra la necessità di proteggere i donatori, per scongiurarne la scomparsa, e quella di soddisfare la richiesta di trasparenza della clientela. Se si teme che, senza l’anonimato, la qualità e la quantità dei donatori diminuiranno vertiginosamente, è anche vero che i clienti non sono più disposti ad acquistare gameti senza garanzia: «una volta che cominci a pensare allo sperma come a un qualsiasi altro prodotto, cominci anche a trattarlo come un qualsiasi altro prodotto»26. È la legge del mercato: dal momento che le banche del seme sono ormai un autentico affare, con tanto di clien26

Plotz, La fabbrica dei geni, cit., pp. 246-50.

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tela selezionata dal denaro, va da sé che esse devono elevare i loro standard, fornendo un materiale genetico individuabile: nessuno parla più di pazienti e le politiche commerciali sono dettate dal marketing e non dai medici. Resta il fatto che l’esigenza del «donatore noto» sembra ormai inarrestabile. Pensiamo al successo del sito internet americano Donor Sibling Registry, che ha permesso a moltissimi fratellastri e sorellastre eterologhi di ritrovarsi. Creato nel 2000 da Wendy Kramer, nell’ottobre 2006 questo registro aveva più di 7.000 iscritti e aveva permesso di attestare più di 2.500 legami. Se non è la prima volta che si elabora un simile archivio (la Sperm Bank of California aveva un registro dei fratellastri, come delle single mothers by choice), la risonanza e il numero delle persone coinvolte costituiscono un’autentica svolta. La spinta verso il superamento dell’anonimato è infine dovuta anche al mutamento della clientela che chiede di avvalersi di questo tipo di fecondazione. Finché si trattava di coppie eterosessuali con problemi di fertilità, si poteva anche fingere un concepimento naturale; nella misura in cui sono invece coppie omosessuali o donne single ad avere figli in provetta, va da sé che la presenza di una figura terza risulta evidente. Il nuovo pubblico sta dunque, nei fatti, modificando la situazione27. Inizialmente negata e poi silenziosamente tollerata (fatelo, purché non si sappia), la fecondazione eterologa sembrerebbe oggi circondata da una sorta di entusiasmo generale: fatelo e, soprattutto, fatelo sapere.

3. Una vittoria di Pirro? Si sentiva stranamente sollevato. Continuava a ripetere ‘Dio ti ringrazio. Non sono figlio di mio padre, non sono figlio di mio padre’. Ma non disse a suo padre di essere al corrente del segreto. [...] Ciò non avrebbe cambiato le cose e di certo non li avrebbe riavvicinati. Era all’altro padre 27 Non è certo un caso che siano state proprio le lesbiche e le mamme single le pioniere della pratica dei donatori conosciuti, consistente nel reclutare un fornitore di seme tra gli amici – prassi però che si è spesso trasformata in un incubo legale: diversamente dal donatore anonimo, infatti, costui non è automaticamente esente da obblighi paterni, giacché lo Stato lo considera il padre legittimo. Così madri e donatori devono sottoscrivere arzigogolati contratti nel tentativo di eliminare quei diritti.

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che Tom dedicava i suoi pensieri. Tom si scervellava su come chiamarlo, persino come chiamarlo nella sua testa. All’inizio, provò con ‘il mio vero padre’, ma suonava male. ‘Il mio donatore’, troppo cinico. ‘Il mio padre biologico’, troppo ingombrante. ‘Il mio altro padre’, faceva pensare a una complicata diatriba familiare. Tom giocava con se stesso al ‘Chi sono?’ genetico. [...] Me la cavo niente male in matematica e in inglese, e soprattutto in musica. Lo devo a lui? Ma quando capì di non poter rispondere a tutte queste domande, la curiosità di Tom si trasformò in frustrazione. Non conosco una metà di me stesso, pensava, e non la conoscerò mai, se non trovo lui. Tom decise che sarebbe riuscito a rintracciarlo [...] Mio padre – il marito della mamma – non è mio padre. Il mio vero padre – il donatore – non è mio padre perché tutto quel che ha fatto è stato donare sperma, e questo non basta a farne un padre. Perciò nessuno è mio padre. D. PLOTZ,

La fabbrica dei geni

Sembra di essere finiti in un vicolo cieco. Nella ricerca del padre, ci troviamo inesorabilmente catapultati in una terra incognita? Dopo secoli di incertezza sull’identità paterna, le inequivocabili indicazioni scientifiche parrebbero già scadute nella loro funzione, scardinate dalla fecondazione eterologa. La nostra vicenda pareva conclusa, sia pure senza lieto fine, dato che il padre finalmente svelato nella sua realtà biologica non ha mutato la sua tendenza alla fuga. Né, dopo secoli in cui il ruolo si è costruito sulla volontà, al verdetto del laboratorio che afferma l’esistenza della relazione genetica ha corrisposto l’assunzione dell’effettiva responsabilità paterna. Se tale, dunque, sembrava la situazione, la diffusione della provetta con seme terzo ha nuovamente rimescolato le carte. È vero che questa tecnica è oggi proibita in Italia dalla legge 40/2004, ma è indubbio che si tratta di una pratica diffusa, di cui non si può non tener conto. La domanda «chi è il padre?» sembra, dunque, sospesa nel vuoto: padre è colui che fornisce i geni o chi si prende cura del nato? Chi lo alleva, trasmettendogli nome e patrimonio, o chi, invece, gli permette di nascere? L’incertezza che per secoli aveva circondato la figura (prescindendo dalla breve parentesi del DNA) era meno confusa della situazione in cui veniamo a trovarci oggi. Gli elementi in gioco sono davvero tanti e, spesso, sono contraddittori. Va premesso che la questione non riguarda solo la fecondazione in vitro, dato che a seguito di separazioni, divorzi o nuove convi-

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venze si verificano sempre più spesso situazioni di pluralità nelle figure genitoriali. È così abbastanza frequente che un bambino si trovi dinanzi a un padre e a un patrigno, a una madre e a una matrigna, al punto che da più parti si parla di plurigenitorialità. Il fenomeno sta assumendo dimensioni tali che in alcuni paesi il diritto ha già dovuto registrarlo. Sin dalla fine degli anni Ottanta, ad esempio, nel Regno Unito il Children Act (datato 1989, ma diventato esecutivo nel 1991) assegna diritti e doveri legalmente riconosciuti fino al compimento dei 16 anni al genitore «aggiuntivo» che si occupa quotidianamente, da almeno un biennio, di un bimbo (diritti e doveri che però non mettono in discussione quelli dei genitori legali28). In una linea analoga si è espresso il Tribunale di Milano nell’aprile 2007. Chiamati a pronunciarsi sulla morte di un ragazzino figlio di genitori separati, investito il 13 dicembre 2003 da un’auto mentre andava in bicicletta, i giudici hanno stabilito che vi fossero ben due uomini aventi, in qualità di padri, il diritto al risarcimento dei danni morali: il padre biologico e il convivente della madre, con cui il bambino aveva instaurato un solido legame affettivo. Sebbene a quest’ultimo sia andata una cifra irrisoria29, il principio riconosciuto è importante. Si chiede, però, che il convivente non-genitore e il bambino abbiano stretto una solida relazione d’affetto: è per questo che nel caso in questione non è stato previsto un risarcimento per la nuova compagna dell’ex marito. Il Tribunale di Milano ha valutato l’esistenza del legame in base a una serie di elementi: la convivenza biennale, il fatto che tra i due si fosse instaurato un rapporto di amicizia e di complicità, che si facessero compagnia attendendo il ritorno della madre dal lavoro, che preparassero insieme la cena, che condividessero interessi comuni (come lo scooter e il calcio) e che avessero trascorso insieme le vacanze. A guardar bene, si tratta di un ritorno 28 Negli Stati Uniti, avendo sempre più spesso fine anche le seconde unioni con numerosi bambini che vengono a subire un danno materiale dall’allontanamento dell’ultimo patrigno, alcuni giuristi propongono di attribuire a quest’ultimo lo status giuridico di genitore de facto, status che creerebbe per lui degli obblighi proporzionali al periodo in cui ha sopperito materialmente ai bisogni dei bambini in questione. 29 Così accanto alla mamma (200.000 euro), al padre biologico (150.000), alla sorellina di 3 anni (40.000) e ai nonni paterni e materni (40.000 l’uno), anche al convivente della mamma separata (20.000) spetta il risarcimento dei danni non patrimoniali a seguito della morte del quindicenne.

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al passato: l’uomo si è comportato come se fosse stato il padre del ragazzino, assumendo nei suoi confronti atteggiamenti e comportamenti eloquenti. La differenza rispetto alle situazioni dell’Ottocento e del primo Novecento è che in questo caso il ruolo paterno viene concretamente assunto da una persona che tutti sanno non essere il padre biologico del fanciullo30. In caso di fecondazione eterologa, la nozione di paternità diventa molto più complessa. Se indagini sociologiche rivelano come la condivisione dei compiti educativi sia spesso vissuta dai genitori in un clima di concorrenza e di rivalità, dinanzi a una nascita con seme terzo si aggiungono ulteriori elementi di conflitto. Il confronto con ciò che avviene in caso di adozione è eloquente: in questa eventualità, i genitori si trovano sullo stesso piano, essendo entrambi biologicamente estranei al nato, mentre nell’eterologa l’estraneità è solo del padre, giacché la donna ha invece con il figlio, oltre al legame sociale, anche quello genetico. Di qui un nuovo interrogativo: l’eterologa è più prossima all’adozione o alla nascita naturale? Mentre gli status di padre e di patrigno sono chiaramente distinti sia a livello giuridico che sociale31, nell’eterologa tale distinzione è molto più

30 Se il padre non ha voce nell’aborto e non può denunciare alcun danno per una nascita desiderata non avvenuta, è vero però che da qualche anno la giurisprudenza italiana riconosce anche a lui la risarcibilità del danno da cosiddetta nascita indesiderata. Così, con sentenza 20 ottobre 2005, la Cassazione ha ritenuto che in tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto, oltre alla madre, anche al padre spetti il risarcimento dei danni che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento del ginecologo alla sua obbligazione contrattuale. 31 Nel romanzo di Cristina Comencini L’illusione del bene, ponendosi nell’ottica dell’uomo, sembra emergere una maggiore facilità nel creare un rapporto con i figli che la moglie ha avuto con un altro, che con i propri: «I rapporti naturali sono più complicati di quelli acquisiti. Era stato relativamente facile occuparmi dei due figli che avevo ereditato: mi amavano senza i conflitti che riservavano al padre e alla madre. Ci scambiavamo libri, confidenze. [...] Amare così tanto due persone che non mi appartenevano mi faceva sentire vivo e utile. [...] Con la nascita di Roberto ho dovuto fare i conti con me stesso [...]. Quando Patrizia mi aveva detto di essere incinta, prima mi era venuta paura di morire e poi il terrore che succedesse qualcosa al bambino e a lei. [...] Ossessionavo Patrizia con paure insensate. Mi preoccupavo dei soldi, di non guadagnarne abbastanza. Con i due grandi non ci avevo mai pensato. Andavo in continuazione dai medici. In campagna la notte facevo le ronde intorno alla casa per il terrore che entrasse qualcuno a sgozzarci» (Cristina Comencini, L’illusione del bene, Feltrinelli, Milano 2007, pp. 22-23).

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sfumata32. Siamo nuovamente di fronte all’interrogativo se ascoltare la natura o seguire i percorsi costruiti sull’affetto? L’atteggiamento dominante parrebbe quello di lasciare in secondo piano il legame genetico: padre è l’uomo che avvia e porta avanti un progetto serio e consapevole di genitorialità. Che non sia il seme a fare il padre sarebbe confermato dal fatto che, anche senza ricorrere all’ingegneria medica, quasi un terzo dei bambini viene cresciuto da uomini che non ne sono i padri biologici. Ma nelle famiglie che hanno fatto ricorso all’inseminazione eterologa la paternità è spesso vissuta come conflittuale ed ambivalente. Questi padri non sempre rivendicano con chiarezza la loro paternità sociale, atteggiamento spesso aggravato dal modo negativo in cui viene ancora vissuta la sterilità, e sovente sono messi in secondo piano dalle mogli o compagne33. Contestualmente, per quanto alcune madri vedano il donatore come un mero insieme di spermatozoi piuttosto che come un individuo, come qualcosa e non come qualcuno, molte donne ne parlano invece come di una persona, innanzitutto perché si sentono grate (e, in qualche modo, in debito) verso colui che le ha rese madri (a prescindere che si tratti di donne sole, di coppie lesbiche o di madri con un compagno). D’altro canto, è anche vero che i genitori tendono a interrogarsi costantemente sulla eredità fisica e psicologica dei loro figli, il che sfocia in una sorta di necessità di pensare a colui che è geneticamente il padre. E l’atteggiamento è destinato a rafforzarsi a causa dell’esasperazione sempre più accentuata nei paesi occidentali nei confronti del dato biologico. Se il donatore è di fatto (con un termine duro) il «procreatore», nella realtà la tentazione è di chiamarlo padre biologico, vice-padre, secondo padre, tutti La differenza emerge anche a livello di fratelli: se i normali fratellastri hanno un padre noto in comune (magari ancora nella dolorosa contrapposizione tra prole legittima e illegittima), i fratellastri delle banche del seme hanno in comune solo il DNA. 33 La psicanalista Marisa Fiumanò, convinta della necessità di informare il figlio della sua origine («tutto quello che in una famiglia non viene detto trapela ugualmente dagli sguardi e dai silenzi imbarazzati, e blocca la crescita»), richiama l’attenzione su un aspetto molto indicativo: «nell’inseminazione artificiale viene messo da parte il padre, deprivato della sua funzione simbolica perché ridotto a quello spermatozoo che non è riuscito a dare. Succede soprattutto quando è la madre ad arrogarsi il diritto di rivelare, da sola, la verità al bambino, come fosse un ‘prodotto’ solo suo» (M. Gilda Lyghounis, Mio papà è un altro, in «la Repubblica delle Donne», 3 giugno 2006). 32

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termini che, necessariamente, evocano una figura genitoriale, sia pure di secondo piano, quando non concorrenziale. E anche la scelta (piuttosto diffusa negli Stati Uniti) di chiamarlo «zio» rivela la necessità di riconoscergli comunque un ruolo nel contesto familiare. Dopo l’iniziale entusiasmo, oggi la fecondazione con seme eterologo viene vista in modo molto più problematico. Il compagno o il marito della madre continua, ad esempio, a mantenere un atteggiamento poco propenso a rivelare al figlio la sua vera origine, perché teme che questi, sapendolo geneticamente estraneo, possa amarlo di meno, così come è spesso contrario alla ricerca del genitore biologico. Liza Mundy racconta la reazione violenta di un padre americano quando il figlio gli comunica di voler cercare il donatore che gli ha permesso di nascere: la decisione viene infatti letta come un indicatore della sua infelicità34. Mentre nel caso di donazione di ovulo colei che risulterà la futura madre ha comunque un legame fisico con il nato, avendolo portato dentro di sé durante la gravidanza (se, invece, si tratta di utero in affitto v’è la comunanza di geni laddove la donna abbia fornito il suo ovulo), nel caso di paternità eterologa il compagno o marito della madre è del tutto escluso dal processo. La difficoltà per l’uomo di accettare una fecondazione eterologa emerge con chiarezza dal romanzo di Zecchi Il figlio giusto. Ricorda Andrea: era più forte di me, non potevo accettare questa estromissione dalla generazione di chi avrebbe dovuto essere mio figlio. Per cercare di cambiare opinione mi ripetevo: ‘i figli sono di chi li cresce... Si può volere bene a un bambino come se fosse il proprio figlio...’ e altre frasi di altrettanto buon senso. Ma non ce la facevo. Ero ossessionato dai pensieri più semplici e conformisti: il legame di sangue, l’assenza della somiglianza, la mia immagine di padre dimezzato, le conseguenze della verità quando il bambino l’avesse conosciuta o scoperta da sé. Trovavo anche intollerabile che, per diventare genitore, entrasse nel corpo di Francesca il seme di uno sconosciuto35.

Proprio per questo si era soliti mischiare lo sperma del donatore con quello del futuro padre, creando un’illusione puerile, ma simCfr. Mundy, Everything Conceivable, cit., p 103. Stefano Zecchi, Il figlio giusto. Romanzo di una maternità, Mondadori, Milano 2007, pp. 212-13. 34 35

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bolicamente importante. Ovviamente l’avvento del DNA ha tolto ogni senso alla prassi. Il DNA, comunque, inchioda anche il donatore. Al di là dell’aspetto legale del diritto del figlio a conoscere le proprie origini, in passato egli poteva facilmente scomparire, mentre oggi non può più farlo (o lo può fare solo con estrema difficoltà). Inoltre, inizialmente si registrava in lui un diffuso atteggiamento d’indifferenza: tutto finiva con la vendita dello sperma, senza alcuna riflessione sulle conseguenze del gesto. Alla luce di tutto ciò che s’è detto, però, è evidente che, anche solo a livello psicologico, la possibilità di restare del tutto estraneo alla futura nascita è sempre più difficile. Il donatore si sente padre? David Plotz riporta le parole di un donatore particolarmente attento, secondo cui «generare creature in totale anonimato è in qualche modo simile a dipingere quadri che per te sono belli e inestimabili, pur sapendo che una volta finito dovrai darli via e probabilmente non rivederli mai più». Così, «ogni volta che veniva a sapere di una nuova nascita provava un senso d’orgoglio e un senso di perdita: la donazione era per lui un atto di amore altruistico e di dolore»36. E il figlio, dopo averlo individuato, come lo considera? Grazie al Donor Sibling Registry si è scoperto che il donatore 1476 ha permesso la nascita di ventitré ragazze e quindici maschi: che impatto può avere una notizia del genere sull’uomo, sui figli e sulla società in generale? L’atteggiamento dei nati rispetto al donatore appare ambivalente. Uno studio pubblicato nel 2004 su «Human Reproduction» attesta che il 25 per cento dei figli si riferisce a lui definendolo «donatore», un altro 25 lo indica come «padre biologico», mentre un 25 semplicemente come «padre» (un ragazzino lo chiama invece «quel tipo»)37. In assoluto, l’atteggiamento più diffuso nel campione è la curiosità: ben l’82 per cento dei figli vuole sapere della sua vita. Alcuni sentono il bisogno di chiedergli se li avesse mai pensati. Molti credono che conoscere il donatore aumenterebbe il loro senso di identità, mentre il 17 per cento cautamente ritiene che l’eventuale rePlotz, La fabbrica dei geni, cit., p. 204. Joanna E. Scheib, Maura Riordan, Sue Rubin, Adolescents with Open-Identity Sperm Donors. Report from 12-17 Year Old, in «Human Reproduction», 20, 2004, pp. 239-52. 36 37

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lazione con il donatore dipenderà da come sarà come uomo. Si tratta di un altro tassello importante: il figlio dell’eterologa difficilmente riesce a prescindere, quanto meno simbolicamente, dal donatore. Esprimendo una posizione per nulla pacifica, lo psicologo francese Jean-Loup Clément, che da venticinque anni lavora al CECOS (Centre d’étude et de conservation des œufs et du sperme humains), sostiene che una volta appreso il segreto i bambini non mettono quasi mai in dubbio chi sia il loro vero papà, e cioè colui che hanno visto ogni giorno della loro vita (Mon père, c’est mon père è infatti il titolo del suo libro). Leggendo però i racconti dei figli della provetta da lui intervistati, emerge una varietà di posizioni. Se Lionel H. dice «non ho mai dubitato che il nostro vero padre sia colui che ci ha desiderato e cresciuto [...] non sono mica figlio di un montone, io!», dalle parole di Sébastien emerge invece ben altro: disgustoso! Concepito in una provetta, a 98 gradi sotto zero. E per di più, i miei hanno pagato per questo! [...] sono disposto a pagare caro per conoscere il mio vero padre. [...] Sono contrario alla legge francese che protegge l’anonimato del donatore. Un figlio concepito così dovrebbe poter scegliere se conoscerlo o no. [...] Mi manca una parte di me38.

V’è un altro elemento che, sempre ponendosi nell’ottica del nato, non può essere trascurato. Che effetto ha la consapevolezza che spesso il donatore è stato mosso da motivi economici, essendo lucrosa in molti paesi la cessione dei gameti? Questa dimensione commerciale che implicazioni può avere, non solo per il singolo ma a livello sociale? Una cessione del genere determina, infatti, una situazione diversa rispetto all’adozione. Tutta la procedura in provetta non rischia di scivolare pericolosamente verso un vero e proprio commercio tra ricchi e poveri, tra indigenti che vendono gameti e benestanti che (ad alti costi) li scelgono e li acquistano? Gli elementi di complessità sono, insomma, davvero tanti: al di là delle opportunità che offre, la fecondazione eterologa pone seri problemi d’ordine sociale e giuridico. La scienza però, in questo caso almeno, è meno cieca di quanto si potrebbe credere. Ad esempio, nel38 Jean-Loup Clément, Mon père, c’est mon père. L’histoire singulière des enfants conçus par insémination artificielle avec donneur, l’Harmattan, Paris 2006, p. 158.

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la acquisita consapevolezza dei problemi e dei rischi che l’eterologa comporta, è in atto il tentativo di utilizzare quanto più possibile lo sperma del vero padre. Si può raccogliere un singolo spermatozoo dai testicoli, usandolo poi per fecondare un ovulo in vitro, e molto note sono le tecniche di microchirurgia messe a punto da urologi come Sherman J. Silber e Paul J. Turek. Ancora, negli Stati Uniti ha avuto grande successo Stephen Seager, un veterinario irlandese che negli anni Sessanta realizzò una particolare inseminazione nei cani, successivamente trasposta sugli uomini: si tratta dell’elettroeiaculazione, capace di rendere padri anche quanti presentano gravi patologie al midollo spinale. Al contempo però è anche vero che molto difficilmente l’eterologa scomparirà, stante la domanda non solo di coppie lesbiche o di donne sole, ma anche di coppie eterosessuali a fronte dell’aumento dell’infertilità maschile39. Insomma, stando così le cose, nella ricerca del padre abbiamo perso la strada. E questo non per ignoranza, ma perché la natura ci dice troppo. Se fino ad oggi abbiamo equiparato i concetti di concepimento, nascita e filiazione, caratterizzandoli in termini di bilateralità (paterna e materna) e di sangue (considerato la via di trasmissione dei caratteri fisici e morali), negli ultimi decenni, invece, i legami elettivi nella genitorialità vanno occupando un posto sempre più importante. Mai, nella storia, si era avuta una tale altalena tra polo del sangue e polo della socialità. E la domanda di poco fa ritorna: a chi dobbiamo affidarci? Paradossalmente la questione risulta meno complessa in caso di fecondazione eterologa in una coppia omosessuale giacché il donatore non è in concorrenza con uno dei genitori. In questo senso, è interessante il sistema di co-genitorialità che si va diffondendo negli Stati Uniti, dove coppie di gay sono co-genitori con coppie di lesbiche: su scala diversa, si ripropone la bilateralità paterna e materna (che, per molti versi, esiste anche all’interno della coppia omosessuale, dove un partner assume le funzioni tradizionalmente materne, e l’altro quelle paterne). 39 Cfr., ad esempio, i numerosi interventi di Claudio Risé in tema. A dimostrazione di quanto l’infertilità sia diventata un problema serio, v’è il forte sospetto che la diminuzione delle gravidanze delle adolescenti negli Stati Uniti non sia dovuta a una migliore contraccezione, ma all’aumento dell’infertilità.

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Il nocciolo doloroso della fecondazione con seme terzo risiede, dunque, proprio nell’eterologa voluta da eterosessuali. Allo stato attuale, la sola via percorribile parrebbe quella dell’intenzione: per identificare un padre occorre considerare i suoi comportamenti verso il nato. Pertanto, assume nuovamente un ruolo decisivo, sia pure su basi del tutto nuove, la volontà dell’uomo di essere padre, non più nell’ottica proprietaria di un tempo. Due sono così le novità che si producono. La prima è che la paternità diventa un diritto che si conquista facendo ciò che un padre fa. Su questo fanno leva i sostenitori della parentalità omosessuale. In un’intervista di Liza Mundy l’avvocato Will Halm, attivista dei diritti delle famiglie gay, riporta con grande favore l’orientamento dei giudici californiani; per stabilire chi debba essere considerato genitore del nato, non si utilizza la biologia o la sessualità ma la nozione di intent: la sola cosa che conta è che il soggetto intenda essere genitore. La posizione si va sempre più diffondendo – pensiamo allo sforzo della Comunità europea in questo senso. Ovviamente si tratta di un orientamento che suscita critiche: nel 2006 la Commission on Parenthood’s Future ha emanato il documento The Revolution in Parenthood: The Emerging Global Clash between Adult Rights and Children’s Needs, nel quale si denunciano le pressioni per indurre i giudici a dare una definizione psicologica piuttosto che biologica della maternità e della paternità40. L’altra novità è che oggi non v’è più il beneficio del dubbio, essendo chiaro che l’intenzione dell’uomo è completamente scissa dall’avvenuto rapporto fisico con la donna che ha partorito41. La vo40 Commission on Parenthood’s Future, The Revolution in Parenthood: The Emerging Global Clash between Adult Rights and Children’s Needs, Institute for American Values, New York 2006 (http://www.americanvalues.org/pdfs/ parenthood.pdf). 41 L’ordinamento si preoccupa che tale volontà non venga meno, nell’eterologa così come in caso di riconoscimento volontario al di fuori del matrimonio. A tutela della prole, in entrambi i casi l’ordinamento sancisce l’impossibilità di cambiare idea. Arg. ex art. 256, comma 1, c.c. laddove è statuito che il riconoscimento è irrevocabile ed è chiaro che la soluzione normativa prescelta nel caso della fecondazione eterologa appare essere quella più convincente sotto il profilo della cosiddetta responsabilità della scelta in relazione all’indisponibilità dell’acquisizione dello status filiationis. È tuttavia evidente la disomogeneità delle situazioni prese in considerazione tra il legame biologico del padre che esprime la volontà con la sua presenza, e il mero e formale riconoscimento del figlio naturale.

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lontà dell’uomo di essere padre è, dunque, la consapevole e responsabile volontà di esercitarne il compito, cui è connessa l’assunzione nel nato dello status filiationis. Al di là di quanto possa sembrare a prima vista, questo recupero (o ritorno) alla volontà non significa che l’irruzione della scienza sulla scena della paternità sia stata superflua. Grazie al DNA, infatti, la volontà dell’uomo non viene a sostituirsi a una lacuna di informazione nascondendola, ma mira, viceversa, a colmarla sancendone l’esistenza. Non si finge che quell’uomo sia il padre del nato: quell’uomo è padre del nato perché ne assume la funzione e il compito in assenza del legame biologico. Se la legittimità del figlio si fonda sulla scelta consapevole del padre che dà al nato lo status, specularmente il nato tale status può pretenderlo, mentre non può avanzare nessuna pretesa rispetto al donatore di gameti. Per questo ha colpito una recente decisione dei giudici inglesi. Andy Bathie, pompiere di 37 anni, aveva donato per amicizia il seme a una coppia di lesbiche (che non potevano affrontare i costi dell’inseminazione artificiale in clinica). Erano così nati due bambini («mi ero informato sulla mia posizione legale e mi risultava che i genitori sarebbero state loro, non io. Non ho mai fatto il babbo»). Qualche anno dopo, però, le due donne, Sharon e Terri Arnold, divorziarono e il giudice condannò l’uomo a pagare il mantenimento dei bimbi (400 sterline al mese)42. Ma quale volontà poteva qui ravvisarsi? Possibile che, in nome dell’amicizia, la biologia rientri in gioco? (i giudici hanno scritto che egli non sarebbe stato chiamato in causa se fosse stato un donatore anonimo). A ben vedere, a noi sembra che il dato genetico possa essere letto come lo stratagemma salomonico sulla scelta della madre cui affidare il nato (e il suo mantenimento). Questa enfasi – dal sapore antico – sulla volontà la troviamo ribadita anche in un senso assolutamente moderno. Come abbiamo visto, non esiste il reale diritto dell’uomo ad essere padre laddove ciò si scontri con la volontà della madre che aspetta il bambino: da quando la gravidanza si avvia, infatti, costei è la sola ad aver voce in capitolo nella decisione tra abortire o non abortire. Ma che cosa succede se il concepimento non avviene per via naturale, ma in provetta, 42 Il punto è che la legge britannica non tutela gli accordi «fai da te»: l’unico modo per essere totalmente esonerati da qualunque obbligo è donare lo sperma a una clinica.

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dove si produce uno iato temporale tra la fecondazione dell’ovulo e la sua collocazione nel ventre materno? E che situazione si crea laddove l’uomo nell’intervallo tra i due momenti cambi idea?43 Nel novembre 2001 una giovane donna inglese, Natalie Evans, viene sottoposta alla rimozione delle ovaie, a causa di un tumore. Prima però, avendo il desiderio di diventare un giorno madre, la ragazza fa depositare il proprio patrimonio genetico insieme a quello del marito, Howard Johnson, per produrre gli embrioni che, in un secondo momento, si sarebbe fatta impiantare. Un mese dopo l’intervento, tuttavia, la clinica la informa che prima di procedere all’impianto devono passare due anni, un intervallo che – malauguratamente – si rivelerà troppo lungo. Nel maggio 2002, infatti, la coppia si separa, e in luglio la clinica riceve una lettera dell’uomo che domanda la distruzione degli embrioni. Il ritiro del consenso viene quindi fatto conoscere alla ex moglie, la quale tempestivamente (ai primi di settembre) avvia un’azione giudiziale, ottenendo dalla clinica di rimandarne la distruzione fino al pronunciamento della corte. Ebbene, sia in primo sia in secondo grado la sua domanda non viene accolta: i giudici argomentano infatti che, come non si potrebbe forzare la maternità consentendo l’impianto contro la volontà della donna, così non si può obbligare l’uomo a procreare e ad assumere il ruolo di padre laddove non voglia. Esistono, infatti, tanto nella donna quanto nell’uomo il medesimo diritto di veto e la libertà di revocare il proprio consenso all’impianto dell’ovulo fecondato44. Nel marzo 2006 la decisione è stata ribadita anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: l’impianto non può aversi, essendo venuta meno l’effettività del consenso, da intendersi non solo come rifiuto ad un generale progetto di vita, ma anche come ritiro della volontà di giungere a quella specifica nascita. Sebbene la posizione non sia del tutto pacifica nei diversi paesi45, anche i giudici italiani si sono espressi per la necessità dell’effettivo 43 Cfr. Fabiana Cristofari, Autodeterminazione nelle scelte procreative: identità di genere e famiglia, in «Medicina e Morale», 2007, pp. 555-77; Thomas W. Laqueur, Da una generazione all’altra: alla ricerca di nuovi legami nell’era delle tecnologie riproduttive, in Giovanna Fiume (a cura di), Madri. Storia di un ruolo sociale, Marsilio, Venezia 1995, pp. 303-27. 44 La legge inglese del 1990 consente la revoca dell’assenso fin quando l’embrione non venga utilizzato (sulla scia del rapporto Warnock, si assume l’inizio della vita umana il quattordicesimo giorno dopo la fecondazione). 45 Nel 1990, ad esempio, negli Stati Uniti la Corte del Tennessee aveva deciso

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consenso all’impianto, sia da parte della donna che dell’uomo. Così, nel marzo del 2000, si è pronunciato il Tribunale di Bologna: laddove il marito non voglia, non sussiste il diritto della moglie di richiedere l’impianto, atteso che tale impianto contrasta con il diritto ad una paternità non imposta del genitore di sesso maschile, e con il diritto del nascituro a fruire e godere della doppia figura genitoriale, per essere istruito, educato e mantenuto da entrambi i genitori46.

Né pare lecito valutare come determinante il fatto che in questo caso si fosse trattato di seme omologo: non è la proprietà genetica dei gameti a dare all’uomo voce in capitolo, quanto il fatto che il concepimento sia stato avviato a seguito dell’incontro delle volontà dei futuri genitori. Tutto ciò, comunque, in Italia non è attualmente possibile. Abbiamo infatti usato il passato riferendoci al nostro orientamento giurisprudenziale perché oggi l’art. 6 legge 40/2004, a fecondazione avvenuta, non ammette la revoca del consenso per l’impianto. La questione è, evidentemente, molto complessa, ed occorre rimarcare la necessità di una profonda e seria riflessione (che si va facendo sempre più impellente) per comprendere la portata dirompente di queste nuove possibilità offerte dalla scienza e dalla medicina. Andiamo, infatti, mettendo le basi per una forma radicalmente nuova di paternità, e prima ancora di affermare se ciò sia giusto o sbagliato, dobbiamo prendere atto del fatto che ci stiamo incamminando verso panorami difficilmente configurabili. Va da sé che, nella misura in cui si supera il dato biologico e genetico, il discorso sulla paternità indicata dalla natura e rivelata dalla scienza (a prescindere dalla volontà dell’uomo) salta completain senso contrario, facendo prevalere il diritto di una donna all’impianto nel suo utero degli embrioni congelati contro la volontà del marito da cui, nel frattempo, aveva divorziato. Nel 1992, però, la decisione venne ribaltata in appello. 46 Tribunale Bologna, 9 maggio 2000. Durante il matrimonio i coniugi avevano domandato in via congiunta al centro medico di essere sottoposti ad una fecondazione in vitro omologa, mentre la domanda di impianto dell’ovulo già fecondato era stata avanzata dalla donna quando ella era già separata dal marito. Sulla base del rifiuto di costui, però, il centro si era opposto all’intervento.

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mente. Se si ricorre al seme altrui per diventare padre, per rendere il proprio compagno padre o per dare un padre al figlio, è evidente che la volontà diventa il deus ex machina dell’intero processo: è dall’incontro tra la scienza medica e la volontà (sganciata dal risvolto biologico) dei soggetti coinvolti che nasce un bambino. Certo, il risvolto positivo potrebbe essere che l’enfasi sull’intenzione di essere padre recupera un senso di dovere umano contro ogni selfish gene. Non possiamo però non notare la profonda schizofrenia tra la sovraenfasi sulla genetica (per cui siamo i nostri geni) e il fatto di trascurarla completamente in tema di nascita (per cui possiamo non essere i geni di coloro che ci hanno dato il DNA)47. Insomma, siamo davvero davanti ad uno snodo molto delicato: orientarsi tra una paternità biologica o una paternità di decisione e di affetti non è più una questione astratta. E se è vero che viviamo in società in cui la scelta e la volontà acquistano un peso sempre più notevole in termini di vita e di morte, di nascita e di salute, occorre vedere se saremo in grado di assumerne, in termini innanzitutto sociali, le conseguenze. Non mi sono mai piaciute le storie per bambini a più finali, quelle in cui – scegliendo tra le possibilità 1, 2 e 3 – sembrava di avere il potere di costruire la vicenda. Era una finta libertà, con nulla di diverso dagli altri libri, perché anche qui era sempre l’autore a suggerire gli sviluppi. Per tanti versi, questa conclusione sulla ricerca della paternità può suonare proprio come una storia a più finali. Ma già il fatto di prenderne atto sarebbe prova di una nuova maturità. 47 Forse «ci crediamo nel regno della biologia perché la biologia è riuscita a penetrare i misteri della natura, mentre siamo in quello, assoluto, della volontà» (Michelle Gobert, Les incidences juridiques des progrès des sciences biologique et médicale sur le droit des personnes, in Hubert Nyssen, a cura di, Actes du Colloque «Génétique, procréation et droit», Actes Sud, Arles 1985, p. 191, citato da Françoise Héritier, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 187).

INDICI

INDICE DEI NOMI

Ackerley, Joe R., 179n. Acquaviva, Sabino, 14n, 165n, 179n. Adriano, Publio Elio Traiano, imperatore, 9. Agnello Hornby, Simonetta, 200. Agnini, Elisa, 74 e n. Ahrens, Heinrich, 80 e n, 81. Aiò, Cesare, 98n. Alberto II Grimaldi, principe di Monaco, 193. Aldington, Richard, 147n. Aleramo, Sibilla, 50n. Alfonsín, Raúl R., 186. Amado, Jorge, 64, 112. Amato, Giuliano, 199. Amiel, Carole, 216n. Amorth, Antonio, 162n. Anastasia Romanova, granduchessa di Russia, 184n. Anderson, Anna, 184n. Anderson, Kanny, 195n. Andreazza, Ettore Giacomo, 95 e n. Anhald, Frederick von, 196. Antonelli (Antonaz), Laura, 228. Apriotti, Cladìa, 52n. Arangio-Ruiz, Vincenzo, 7n. Ardolino, Giuseppe, 40n. Arioli, Paolo, 111. Aristia, Carmelo, 151n. Aristotele, 128 e n. Arnold, Sharon, 248. Arnold, Terri, 248. Assali, Giorgio, 167n. Auster, Paul, 179n. Azzariti, Giuseppe, 162n, 163n.

Babini, Valeria P., 44n. Baldi, Patrizia, 150. Ball, Bruno, 13n. Balzac, Honoré de, 19 e n. Barry, Joan (Mary Louise), 132 e n, 133 e n, 134-35, 136 e n. Barthelme, Donald, 214 e n. Bartolini, Elisabetta, 67. Bartolini, Enrica, 67. Baschet, Jérôme, 11n. Bathie, Andy, 248. Becker, Anna, 193. Becker, Boris, 193. Benassati, Francesco, 67. Benassi, Giorgio, 130n. Benciolini, Paolo, 176n. Benigno, Sulpicio, 203. Bentivoglio, Luigi, 93 e n. Benvenuti, Paolo, 63. Berger, Adolf, 7n. Bergman, Ingrid, 184n. Bernanos, Georges, 147n. Bernardi, Giulio, 55-56. Bernardini de Pace, Annamaria, 202n. Bernardo di Chiaravalle, santo, 32. Berra, Giuseppina, 94. Bersellini Bellini, Jole, 79n. Bertolini, Pietro, 80 e n. Bertrand, Giulio Filippo, 91n. Bertrand, Maria Antonietta, 91n. Bestetti, Alberto, 167n. Bevilacqua, Antonio, 92. Bevilacqua, Bernardo, 92. Bevilacqua, Giacinto, 92. Biacchi, Elena, 111.

256 Bianca, Cesare Massimo, 201n, 233n. Bianchi, Bianca, 158 e n, 162. Bindi, Rosi (Maria Rosaria), 202. Bing, Steve, 193. Biondi, Biondo, 7n. Bird, Larry, 194n. Birkhead, Larry, 196. Bissolati, Leonida, 74. Blair, Leo, 209. Blair, Tony (Anthony C.L.), 194, 209. Blunkett, David, 194. Boassi, Teresa, 149. Bobbio, Norberto, 204 e n. Boff, Leonardo, 30n, 31n, 213n. Bogdanova, Svetla, 193. Bolla, Attilio, 46. Bolognini, Attendolo, 109. Bona, Ernesto, 94. Bonanni, Silvia, 160n. Bondevik, Kjell Magne, 209. Bonfante, Pietro, 7n. Bonincelli, Pietro, 14n. Bonzanigo, Rodolfo, 59n. Boratto, Ercole, 52n. Borges, Ariel, 168. Borges, Jorge Luis, 168. Borsetto, Augusta, 93n. Boscarini, Francesco, 93n. Bosco Lucarelli, Giambattista, 157n. Bouwer Hansen, Lisa, 183n. Braccio, Severino, 90n, 99n. Brambilla, Carlotta, 109-10. Bravo, Anna, 65n. Brizioli, Antonio, 165n. Bronzini Majno, Ersilia, 79n. Brown, Angel Iris, 193. Brunetti, Giovanni, 69 e n, 145. Buffoli, Vittorio, 53. Burgess, Anthony, 147. Buscaglia, Leo, 213, 214n. Bussei, Donato, 25. Bussei, Euridice, 25. Bussei, Otello, 25. Butteri, Brigilda, 29, 30n.

Indice dei nomi

Caccuri, Edmondo, 156n. Calamandrei, Piero, 162n. Calcagno, Giuseppa, detta Peppa la Cannoniera, 148. Calderini, Rebecca, 79n. Calone, Cristiana, 194. Camarda, Guido, 141 e n, 145n, 147n. Cardia, Carlo, 62n. Carey, Rose, 107-108. Carlotto, Estela, 185. Carlotto, Massimo, 151. Casini, P., 129n, 130n. Casnati, Pietro, 111. Catone Uticense, Marco Porcio, 8-9. Cavina, Marco, IXn, 11n. Cevolotto, Mario, 156n. Chaffey, Don, 230n. Chaplin, Carol Ann, 132, 134-36. Chaplin, Charlie S. (Charlot), 132 e n, 133 e n, 134 e n, 135 e n, 136 e n, 219. Chase-Riboud, Barbara, 216n. Cheesman, Roxana, 194. Ciacamidaro, Agata, 94n. Cicotero, Amilcare, 92n. Cicu, Antonio, 36n. Cimbali, Enrico, 78. Citi, Plinio, 71, 101 e n. Clément, Jean-Loup, 245 e n. Clemente III (Paolo Scolari), papa, 89n. Coari, Adelaide, 78-79. Coen Cardone, Luciana, 41, 42 e n, 43, 45 e n, 84n, 126, 127n. Cohen, coniugi, 234. Cohen, Kevin, 234. Colajanni, Napoleone, 62n. Colonna, Sveva, 52n. Comencini, Cristina, 241n. Comporti, Marco, 176n. Conintro, Felice, 161n. Coppi, Fausto, 26 e n. Coppi, Marina, 26n. Corradini Broussard, Domenico, 109n. Corsanego, Camillo, 156n. Costantino I, imperatore, 9.

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Indice dei nomi

Coste, Alexandre Éric Stéphane, 193. Coste, Nicole, 193. Cottino, Gastone, 145n, 146n. Crichton, Michael, 180, 187 e n. Crick, Francis H.C., 181 e n. Crick, Odile, 181n. Criscuolo, Federico, 82n. Crispo, Amerigo, 157n. Cristofari, Fabiana, 249n. Cruz, Serena, 203-205. Dackman, Linda, 223. Dal Canton, Maria Pia, 162. Dalser, Ida Irene, 52, 53 e n, 54 e n, 55 e n. D’Angelo, Letizia, 66. D’Annunzio, Gabriele, 126n. D’Annunzio, Teofilo, 66. Darida, Clelio, 165n. Darwin, Charles, 129. Daubert, Jason, 124n. De Amicis, Edmondo, 17, 20, 149. de Céspedes, Alba, 27, 28n. Declareuil, Joseph, 7n. De Cristoforis, Malachia, 77, 78 e n. De Cupis, Adriano, 165n. De Ferrari, Francesco, 167n. Deffoux, Léon, 149n. De Filippo, Eduardo, 26, 30n, 148 e n. De Filippo, Luisa, 148. De Filippo, Peppino, 148. De Filippo, Titina, 148 e n, 149n. de Grazia, Victoria, 73n. Delaffon, Ponnou, 7n. Deledda, Grazia, 25. Del Giudice,Vincenzo, 162n. Del Panta, Lorenzo, 29n. Demolombe, Charles, 68. De Naro Papa, Giuseppe, 170n. De Nicola, Enrico, 44n. Denis, Jean-Baptiste, 137, 138n. De Vincenzi, Giuseppe, 49-50. Dewar, Diana, 107n, 171n. Dewitt, Helen, 178, 179n. Diderot, Denis, 17 e n.

Didonè, Sergio, 162n. Díez-Picazo, Luis, 198n. Di Fausto, Florestano, 156n. Dionigi di Alicarnasso, 9. Dogliotti, Massimo, 201n, 233n, 235n. Domenici, Folco, 124 e n, 125n, 130n, 142n. Dominedò, Francesco Maria, 156n. Dossetti, Giuseppe, 151n. Dostoevskij, Fëdor Mihajlovicˇ, 51 e n. Dragossi, Italo, 136 e n. Drossard, Anne, pseud. di Ann Fleurange, 216. Drossard, Aurore, 216. Druso Maggiore (Claudio Nerone Druso Germanico), 8. Duby, Georges, 5n. Dumas, Alexandre, 58 e n. Dupuis, Jacques, IXn. Duranton, Alexandre, 39n. Dursi, Massimo, 158. Duveyrier, Honoré, 47. Early, Kevin E., 105n. Edwards, Robert, 225n. El Fishawi, Ahmed, 197n, 198n. El Fishawi, Lina, 197n. El Hennawi, Hind, 197n, 198n. Ellinkhuizen, Kyara van, 150. Ellis, Sheila, 218. Emilia Scaura, 8. Ermakova, Angela, 193. Eschilo, 43, 125-26. Estio, 31 e n. Evans, Natalie, 249. Ewing, Patrick, 194n. Facelli, Cesare, 27n, 90n, 91n, 97n. Facheris, Giovanni, 37. Falcão, Paulo Roberto, 170. Falcucci, Franca, 159n, 165n, 232. Fani, Cesare, 78n. Farred, Thomas, 216n. Federici, Bortolo, 54 e n. Fenet, P. Antoine, 17n.

258 Ferdinando IV di Borbone, re di Napoli, 18. Ferrando, Gilda, 233n. Ferruzzi, Filomena, 66-67. Fielding, Henry, 104. Filomusi Guelfi, Francesco, 82 e n. Findley, Timothy, 41. Finocchiaro, Alfio, 175n, 176n, 233n. Finocchiaro, Mario, 201n. Fiumanò, Marisa, 242n. Fiume, Giovanna, 148n, 249n. Foà, Carlo, 139n, 142 e n. Fogazzaro, Antonio, 79n. Formaggio, Tiziano G., 141 e n. Forman Cody, Lisa, 106n. Formica, Angelo, 66. Fortuna, Loris, 165n. Foscolo, Ugo, 149. Fox Keller, Evelyn, 182n. Fracasso, Margherita, 66. Francesco I d’Asburgo-Lorena, imperatore, 109n. Franklin, Rosalind, 181, 182 e n. Frassati, Alfredo, 19n. Fritz, Dennis, 184. Frontoni, Flavia, 170. Frontoni, Giuseppe, 170. Fuchs, Rachel G., VIIn. Fucini, Renato, 83. Funeman, Martha, 195n. Gabba, Carlo Francesco, 19n, 72n, 80 e n, 82n. Gabbanelli, Michele, 210n. Gabor, Zsa Zsa, pseud. di Sári Gabor, 196. Gabrieli, Antonio, 156n. Gaio, 5. Galeno, 128. Galeotti, Giulia, 18n, 72n, 74n, 78n, 113n, 199n. Gallico Spano, Nadia, 154n, 155 e n, 157n. Gallini, Carlo Fortunato, 111. Gambero, Piero Raffaele, 91n. Gangitano, Ferdinando, 72-73.

Indice dei nomi

García, Alan, 194. García Cheesman, Federico, 194. Gargiulo, Ernesto, 36n. Garofalo, Claudio, 150. Garofalo, Noemi, 150. Gatti, Guido, 53. Gatti Caporaso, Elena, 165n, 232. Gedda, Paolina, 93n, 94n. Gerson, Jean de, 32n. Gesù, 11, 30, 31 e n, 32 e n. Gheisa De Vitalis, Ida Rosa, 22. Gheisa De Vitalis, Stefano, 22. Gianformaggio, Letizia, 123n. Gianini Belotti, Elena, 14n, 179n. Giannini, Giancarlo, 228. Giannini, Guglielmo, 24n. Gianturco, Emanuele, 75. Gigerenzer, Gerd, 183n. Gill, Peter, 183n. Ginzburg, Natalia, 204 e n, 206 e n. Giordano, Luca, 32. Giorgio II di Hannover, re di Gran Bretagna e Irlanda, 106. Giotto, 32n. Giubergia, famiglia, 205. Giubergia, Francesco, 203, 204 e n, 205. Giubergia, Nazario, 203. Giubergia, Rossana, 203. Giuncata, Silvio, 129. Giuseppe, santo, 11, 30 e n, 31 e n, 32 e n, 33 e n. Giusti, Giuseppe, 142n. Giustiniani Bandini, Maria Cristina, 79. Gnocchi, Carlo, don, 160-62. Gobert, Michelle, 251n. Gorbacˇëv, Michail Sergeevicˇ, 149n. Gordon-Reed, Annette, 216n. Gotelli, Angela, 151n. Gouges, Olympe de, 71n. Graham, Robert K., 226-27. Granzotto, Paolo, 7n. Grassetti, Cesare, 162n, 163n. Grassi, Giuseppe, 157n.

259

Indice dei nomi

Greco, El, Domenikos Theotokópulos, detto, 33. Gregorio XV (Alessandro Ludovisi), papa, 30n. Gribble, Jim, 132n. Grillini, Erminia, 61. Grimes, Janice, 236n. Grisham, John, 184 e n. Gualandi, Giovanni, 7n. Guareschi, Giovanni, 30. Guerrieri, Emanuele, 156n. Guidi, Alberto, 165n. Guidi, Gustavo, 61. Guidi, Maria Domenica, 61. Guidi, Rachele, 53. Gullo, Fausto, 154n, 155 e n, 157n. Gullón, Antonio, 198n. Haeckel, Ernst, 129. Hall, Kermit L., 124n. Halm, Will, 247. Hard, Addison David, 224. Harvey,William, 137. Hasler, Eveline, 98. Hawthorne, Nathaniel, 147n. Hegi, Ursula, 57. Hemings, Eston, 216. Hemings, Sally, 216. Héritier, Françoise, 251n. Hike, Dorothy, 217 e n. Hike, William, 217. Hogarth, William, 106n. Holiday, Billie, pseud. di Eleanora Fagan Gough, 42n. Honegger Fresco, Grazia, 43n, 44n. Hosseini, Khaled, 147, 148n. Houellebecq, Michel, 193. Howard, Juwan, 194n. Hunt, Amber, 217. Hunter, John, 224. Hurley, Damian, 193. Hurley, Elizabeth, 193. Hussaini Tungar Tudu, Safiya, 131 e n. Iacub, Marcela, 20n, 25n, 47n.

Ibsen, Henrik, 49n, 50n. Iotti, Nilde (Leonilde), 151n, 159n, 164n, 165n. Ippocrate, 6, 128, 130n. Irving, John, 147n. Iverson, Allen, 195n. Jacobson, Cecil, 225. Jakobetz, Randolph, 183n, 184n. Jalla, Clara, 77 e n, 84n. Jannacci, Enzo, 197. Jasanoff, Sheila, 136n. Jefferson, Thomas, 216. Jeffreys, Alec J., 182, 183 e n. Jemolo, Arturo Carlo, 62 e n. Johnson, Howard, 249. Johnson, Larry, 194n. Johnson, Melanie, 236. Jospin, Lionel, 209n. Kelly, K.F., 183n. Kemp, Shawn, 195 e n. Kidd, Jason, 195n. King, Mary-Claire, 185. Kingsley, David, 105n. Kinser, Katherine, 195n. Kipling, Joseph R., VIII. Korherr, Richard, 52n. Kramer, Wendy, 238. Kuhn, Thomas S., 123n. Kuliscioff, Anna, 74n. Kundera, Milan, 212n. Kurosawa, Akira, 178. Labriola, famiglia, 74n. Labriola, Teresa, 79 e n, 80n. Lama, Luisa, 44n. La Malfa, Ugo, 159n. Lamarque,Vivian, 210. Landa, Ceferino, 185n. Landini, Albertina, 35. Landini, Enrico, 35-36. Landini, Ida, 35. Landsteiner, Karl, 138-39, 143, 145. Lanfranchi, Fabio, 7n. La Pira, Giorgio, 151n.

260 Laqueur, Thomas W., 249n. Lattes, Leone, 124 e n, 130n, 139 e n, 140n, 141, 142 e n, 144, 183. Laudadio, Francesco, 228. LeBlanc, Adrian Nicole, 206, 207n. Lecca, Nicola, 211n. Lee, Shelton Jackson, detto Spike, 228. Legouvé, Ernest, 13n, 212n. Leonardo da Vinci, 148. Léon-Dufour, Xavier, 31n. Leoni, Giuseppe, 78n, 81n. Levi, Alessandro, 162n. Levi, Lia, 48 e n, 137. Liebrecht, Savyon, 214. Lionel, H., 245. Litzelmann, Joséphine, 149. Livi, Valentin, 216n. Livia Drusilla, 8. Lloyd, Ann, 107. Locatelli, Angelo Fausto, 26. Locatelli, Enrico, 26. Lollini, coniugi, 74. Lollini, Vittorio, 74. Lori-Giusti, Carlotta, 61. Lucchesi, Luigi, 129. Lucifero, Roberto, 152n, 153n. Lyghounis, M. Gilda, 242n. Lynn, David B., IXn. Lynn, Kenneth S., 134n. Maddox, Brenda, 182n. Magnani, Anna, 148. Magnarelli, Paola, 78n. Magrini, Enrico, 94n. Magrini, Francesco Emilio, 94n. Majno, Luigi, 79n. Malthus, Thomas R., 106 e n. Manciforte, Giulio, 60-61. Mancini, Pasquale Stanislao, 72n. Mancini, Pietro, 157n. Manfredi, famiglia, 63. Manfredi, Doria, 63. Manfredi, Giulia, 63. Manfredi, Nino (Saturnino), 193. Manfredi, Tonina, 193.

Indice dei nomi

Manin, Giuseppina, 63n. Mansi, Anna, 64n. Mantegazza, Paolo, 234. Manzoni, Alessandro, 148. Maradona, Diego Armando, 168, 169 e n, 170n. Márai, Sándor, 104, 147n. Maraini, Dacia, 70n, 213. Marbury, Stephon, 195n. Marco Atinio, 10n. Marcosanti, Irma, 53. Maria, madre di Gesù, 30-33. Mariani, Chicha, 185. Marías, Javier, 5. Marracino, Alessandro, 6n, 11n, 18n. Marshall, J. Howard, 196. Marshall Stern, Danielynn Hope, 196. Martini, Maria Eletta, 165n. Martini, Paolo, 176n. Marzoli, Francesca, 67. Marzoli, Giuliana, 67. Marzoli, Isora, 67. Marzoli, Maria Teresa, 67. Mascetti, Raffaele, 82n. Masto, Raffaele, 131n. Mastrojanni, Ottavio, 152n. Maupassant, Guy de, 22, 23 e n, 26, 27n, 28, 29n, 149. Mazzantini, Margaret, 211. Mazzeo, Antonino, 148. McBride, William, 124n. McCarthy, Patrick, IXn. Meda, Filippo, 76n. Mel B. (Melanie Brown), 193. Mendel, Gregor, 138. Menem, Carlos S., 168. Mennuni, Federico, 37-38. Mentessi, Giuseppe, 79n. Merlo, Emma, 22. Messina, Francesco, 52n. Migliaccio, Giovanni, 94n. Miliband, David, 210. Miliband, Jacob, 210. Milo, Sandra, 165n. Min, Anchee, 14n.

Indice dei nomi

Ming, dinastia, 14 e n. Miorandi, Luigi, 212n. Miraglia, Ferruccio, 14n. Mitscherlich, Alexander, 213. Mitterrand, François, 150. Mnookin, Jennifer, 124n. Modugno, Domenico, 173. Molè, Enrico, 27n, 58n, 154, 155n, 167n. Mommsen, Theodor, 7 e n. Monelli, Concetta, 61. Monier, Raymond, 7n. Montaigne, Michel de, 212n. Montand, Yves, pseud. di Ivo Livi, 131, 216. Montesano, Giuseppe, 43 e n, 44. Montessori, Maria, 43 e n, 44 e n. Montessori, Mario M., 43, 44 e n. Montini, Lodovico, 156n. Moraglia, Giovan Battista Cosimo, 71n, 78n. Morante, Elsa, 28 e n. Moreira, Mercedes Beatriz, 185n. Morelli, Salvatore, 75. Mori, Silvia, 74n. Moro, Aldo, 151n, 157n. Mosk, Stanley, 135. Mozzoni, Anna Maria, 45 e n, 72. Muldworf, Bernard, 178n. Mundy, Liza, 126, 226n, 243 e n, 247. Munson, Lester, 195n. Murino, Pasquale, 128n. Murphy, Eddie (Edward R.), 193. Musco, Angelo, 24n. Mussolini, Benito, 52 e n, 53 e n, 54 e n, 55 e n, 56, 72n, 73n. Mussolini, Benito Albino, 52-54, 55 e n, 56. Mussolini, Edda, 53n. Muzzi, Paolo, 66. Napoleone I Bonaparte, imperatore dei Francesi, 17, 47, 57, 58n, 59n, 64, 68, 76. Nash, coniugi, 107.

261 Nava, Cesare, 76n. Negri, Ada, 71n, 79n. Némirovsky, Irène, 147n. Nenni, Pietro, 165n. Neri, Giuseppe, 111. Nerone, Tiberio Claudio, imperatore, 8. Nguyêñ, Huy Thiêp, 147n. Nicola II Romanov, zar di Russia, 184 e n. Nicolardi, Edoardo, 160. Nicolò, Rosario, 163n. Nicolosi, Vincenzo, 94n. Niffoi, Salvatore, 211 e n. Nigro, famiglia, 205. Niyazov, Saparmurad, 149 e n. Nobile, Umberto, 152, 154 e n. Nores, Pilar, 194. Notarbartolo, Tjuna, 149n. Nulli, Adele, 76n. Nyssen, Hubert, 251n. Occhini, Giulia, detta Dama Bianca, 26 e n. Olajuwon, Hakeem, 195n. Olby, Robert, 182n. Olivini, Carlo, 53. Orengo, Nico, 144. Orlando, Camillo, 156n. Ortensio Ortalo, Quinto, 8-9. Osorio, Elsa, 186, 187n. Ottaviano Augusto, Gaio Giulio Cesare, imperatore, 8-9. Oz, Amos, pseud. di Amos Klausner, 188. Pagano, Giovanni, 64n. Pagano, Nicola, 64n. Paicher, Riccardo, 54, 55 e n. Pancoast, William, 224. Paoli, Ugo Enrico, 60n. Paolo, Giulio, 6. Paolo VI (Giovanni Battista Montini), papa, 30. Paolo di Tarso, santo, 11. Paolucci, Silvio, 159.

262 Pariani, Laura, 211n. Pasolini, Pier Paolo, 213 e n. Patrick, Steptoe, 225n. Patterson, Orlando, 207n. Pavese, Cesare, 28 e n, 99n. Payan, Paul, 32n. Payton, Gary, 195n. Pelaja, Margherita, 65n. Pellegrini, Giovanni, 29. Pellegrini, Rosa, 29, 30n. Penchaszadeh, Victor B., 185. Pennac, Daniel, 132. Perfetti, Francesco, 58n. Perrier, Maria, 83-85, 86 e n. Perrot, Michelle, 5n. Persiani, Rinaldo Enea Giulio, 60-61. Pescarolo, Alessandra, 65n. Petacci, Claretta, 52n. Petrarca, Francesca, 149. Petrarca, Francesco, 149. Petrarca, Giovanni, 149. Pica, Andreina Celeste, 150. Pica, Aurora, 150. Picasso, Pablo, 40. Pieroni, Alfredo, 53n. Piersanti, Claudio, 210n. Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti), papa, 33n. Pio XI (Achille Ratti), papa, 55. Pio XII (Eugenio Pacelli), papa, 31, 33n. Pippen, Scottie, 195n. Pirandello, Luigi, 22, 23 e n, 24 e n, 121, 122n, 127n, 211. Pisanelli, Giuseppe, 65n. Pisa Rizzi, Antonietta, 79n. Pitagora, 6. Pizarro, Francisco, 184n. Platone, 128n. Plotz, David, 226n, 227n, 237n, 239, 244 e n. Plutarco, 8. Pollemi, Salomone, 111. Pompeo Magno, Gneo, 8. Prampolini, Leo, 37.

Indice dei nomi

Prampolini, Teresa, 37. Prato, Dolores, 148-49. Pratolini, Vasco, 25, 89. Proudhon, Pierre-Joseph, 43. Pruzzo, Hugo, 170n. Puccini, Antonio, 63. Puccini, Elvira, 63. Puccini, Giacomo, 63. Purviance, Edna, 136. Quinn, Kimberly, 194. Quinn, Lorcan, 194. Quinn, Stephen, 194. Quinn, William, 194. Raboy, Barbara, 226n. Raffaello Sanzio, 32. Ranalletta, Dalila, 130n. Ranieri, Massimo, pseud. di Giovanni Calone, 194. Rankin, J.J., 183n. Reale, Oronzo, 159n, 165n. Rebagliati, famiglia, 83. Rebagliati, Luigi, 83-85, 86 e n. Rebuttati, Carlo, 71n, 103n. Recchione, Angela, 163n. Recchione, Maria Gabriella, 163n. Reinhardt, Max, 133n. Renda, Andrea, 201n. Rescigno, Matteo, 156n. Rettaroli, Rosella, 29n. Riccio, Concetta, 92. Riccio, Maria Laetitia, 80n. Ridley, Matt, 127n. Righelli, Gennaro, 24n. Rignano Sullam, Nina, 79n. Riordan, Maura, 244n. Risé, Claudio, VIIIn, 246n. Risi, Dino, 228. Risi, Marco, 169n. Riva, Adele, 79n. Rivet, Gustave, 58. Robinson, David, 134n. Roccella, Eugenia, 148n, 149n. Roddy, John James, 108. Roddy, Margaret, 108.

263

Indice dei nomi

Rodotà, Carla, 165n. Rodotà, Stefano, 165n, 204 e n. Ronza, Oscar, 81n. Rossi, Lorenzo, 193. Rossi, Vasco, 193. Rossi-Cagnaroni, 113, 115. Roth, Hermann, X. Roth, Philip, X e n. Rousseau, Jean-Jacques, 149. Rubin, Sue, 244n. Ruffini, Attilio, 165n. Ruini, Meuccio, 152. Ruspini, Erinna, 94n. Sacchi Simonetta, Ada, 74 e n. Salom, M.A., 78n. Salvioli, Giuseppe, 82n. Santevecchi, Guido, 181n. Sanvitale, Francesca, 62n. Sardiello, Gaetano, 157n. Sartre, Jean-Paul, 51 e n. Sayre, Anne, 182n. Sbrana, Gioacchino, 61. Scaduto, Gioacchino, 163n. Scaraffia, Lucetta, 65n, 148n, 149n. Scarpetta, Eduardo, 148. Scellini, Luigia, 61. Schaefer, George, 14n. Schanfeld, Iolanda, 143 e n. Scheck, Barry C., 184. Scheib, Joanna E., 244n. Schiff, Paolina, 78-79. Schlesinger, Piero, 233n. Schmitt Pantel, Pauline, 5n. Schuller, Eric, 124n. Schwegman, Marjan, 44n. Scialoja, Vittorio, 76 e n, 82 e n. Scott, Joseph, 135. Scotti, Felice, 161, 162n. Seager, Stephen, 246. Sebastiani, Franca, 194n. Sébastien, G., 245. Segreti, Adriana, 113-14, 115 e n. Segreti, Marcella, 114, 115 e n. Selleck, Tom, 209. Seneca, Lucio Anneo, 8.

Serra, Ermanno, 49-50. Serra, Libero, 49-50. Serrau, Coline, 179. Sesta, Michele, 201, 202n. Seton, Craig, 183n. Severgnini, Beppe, 208. Shafak, Elif, 127n, 148n. Shalev, Carmel, 105n, 236 e n. Shalev, Meir, 147n. Signoret, Simone, pseud. di Simone Kaminker, 216. Silber, Sherman J., 246. Silla, Lucio, 142n. Silla, Lucio Cornelio, 8. Sinagra, Cristiana, 169, 170n. Sinagra, Diego Armando Jr., 169, 170n. Smith, Anna Nicole, 196. Smith, Daniel, 196. Sonnino, Sidney, 79n. Sorani, Ugo, 59n, 75 e n. Sorge, Giuliana, 44n. Sossich, Ernesta, 94n. Sossich, Paolina, 94n. Spadolini, Giovanni, 159 e n. Spagnoli, Leonardo, 160n. Spagnoli, Ugo, 159n. Spagnuolo, Anna Maria, 37. Spagnuolo, Grazia Maria, 37. Spallicci, Aldo, 160n, 161n. Spelta, Pietro, 111. Spencer, Herbert, 129. Spock, Benjamin, 179. Sprewell, Latrell, 195n. Stadler, Wolfgang, 33n. Starr, Douglas, 137n. Steinwenter, Artur, 7n. Stella, Gian Antonio, 35, 160n. Stella Richter, Mario, 162n. Stendhal, pseud. di Marie-Henri Beyle, 147n. Stern, Howard K., 196. Stover, Eric, 185. Strindberg, August, 21n. Tamburini, Luciano, 149n.

264 Tamburini, Tullio, 56. Taplin, Oliver, VIIIn. Tarquinio il Superbo, re di Roma, 10n. Tedeschi, Mario, 141n, 144n. Teresa d’Avila, santa, 32. Teresa Verzieri, santa, 33n. Ternant, Pierre, 31n. Terracini, Umberto, 152, 157n. Terruzzi, Paolo, 72, 73 e n. Terruzzi, Regina, 72 e n, 73 e n, 76n. Terry, Don, 216n. Thomas, Isiah, 195n. Thomas, Roberto, 178n, 198n. Thomas, Yan, 5n, 8 e n. Tiberio Claudio Nerone, pretore, 8. Tiepolo, Giambattista, 33. Tierce, Dennis, 218-19. Tierce, Irene, 218. Tierce, William, 218-19. Tisset, Pierre, 7n. Togliatti, Palmiro, 151n, 153 e n. Tognazzi, Ugo, 228. Toledo, Alejandro, 194. Toledo Orozco, Zaraì, 194. Tosi, Novella, 49 e n, 50. Trabucchi, Antonio, 231 e n, 232, 233n. Tragge, Anna, 94n. Tragge, Emilio, 94n. Travaglio, Cesare, 93n, 94n. Travaglio, Maddalena, 93n. Tristan, Flora, 64n. Trope, Eugene L., 134. Tupini, Umberto, 156. Turati, Filippo, 74n. Turco, Livia, 208-209. Turek, Paul J., 246. Turgenev, Ivan Sergeevicˇ, 19n. Ubicini, coniugi, 109. Ulickaja, Ljudmila E., 127n. Ulpiano, Eneo Domizio, 6. Umani Ronchi, Giancarlo, 217n. Utrillo, Maurice, 40. Utrillo, Miguel, 40.

Indice dei nomi

Valadon, Suzanne, 40. Valli, Alida, pseud. di Alida Maria von Altenburger, 137. Vargas Llosa, Mario, 64n, 70n. Vázquez Montalbán, Manuel, 168. Venezia, Mariolina, 211n, 212n. Venturi, Maria, 158. Venuti, Elisa, 79n. Viazzoli, Angela, 116. Viazzoli, Carla, 116. Villa, Claudio, pseud. di Claudio Pica, 150. Villa, Manuela, pseud. di Manuela Garofalo Pica, 150. Vincenti, Angelo, 60n, 69n, 139 e n. Virga, Walter, 201n. Vito Cruz, Marlene, 203. Volterra, Edoardo, 7n. Vonwiller Gessner, Edvige, 79n. Wahl, Grant, 195n. Walters, John, 106n. Warnock, Mary, 249n. Watson, James D., 181 e n, 182 e n. Wautrain Cavagnari, Vittorio, 20n, 47n, 81n, 123n, 180n. Weill-Schott, Alberto, 37. Werrett, David J., 183n. Wertheim, Jon L., 195n. Westphal, Frieda, 38. Westphal, Luigi, 38. Wiener, Alexander S., 145. Wilkins, Maurice H.F., 181. Williamson, Ron, 184. Wink, R.C., 183n. Yehoshua, Abraham B., VIIIn, IXn. Zacchia, Paolo, 128 e n. Zanardelli, Giuseppe, 75. Zecchi, Stefano, 180n, 230, 243 e n. Zingo, Martha T., 105n. Zisowitz, Milton L., 14n. Zoja, Luigi, 9n. Zotta, Mario, 156 e n, 157n.

INDICE DEL VOLUME

Introduzione Una storia di esistenze tra diritti e progressi scientifici Parte prima

VII

Il diritto costruisce la paternità

1.

Gli antefatti

2.

Padre è il marito della madre

5 17

1. Si rafforza l’antica presunzione: il marito è padre del nato, p. 17 2. «Il piacere dell’onestà»: padri oltre il vero, p. 21 - 3. Il cognome paterno: salvezza o perdizione?, p. 24 - 4. Un padre-marito esemplare: san Giuseppe, p. 30

3.

Padre è chi si confessa tale

35

1. Il padre volontario, p. 35 - 2. Anche in assenza di nozze i figli sono proprietà del padre, p. 40 - 3. La confessione di Benito Mussolini, p. 52

4.

La paternità come punizione

57

1. Il divieto di ricerca della paternità: nessuno è padre se non vuole esserlo, p. 57 - 2. Le eccezioni al divieto: la paternità come punizione, p. 64 - 3. La lunga battaglia per l’abolizione del divieto, p. 70 - 4. Un esempio di padre punito: Luigi Rebagliati e il banchetto alla Rosa Fiorita, p. 82

5.

Il non-padre che alimenta il non-figlio 1. Gli alimenti per il figlio illegittimo, p. 89 - 2. L’uomo non è padre, ma debitore del nato, p. 98 - 3. La «common law» e il codice austriaco: paternità di mero sostentamento, p. 103 - 4. I non-padri condannati a pagare: le lettere criptate del Rossi-Cagnaroni, p. 112

89

266

Indice del volume

Parte seconda La natura rivela il padre 6.

La scienza compare sulla scena

121

1. Scienza e padri sulla battigia, p. 121 - 2. Le rassomiglianze fisiche negli accertamenti di paternità, p. 125 - 3. Padri esemplari tra scienza e non-scienza: Charlie Chaplin, p. 132

7.

Timidi barlumi di sangue

137

1. Il sangue alla sbarra, p. 137 - 2. Ultimi tentativi di difendere il padre, p. 144 - 3. Padri di sangue: Claudio Villa e i suoi «fratelli», p. 147

8.

1975: la scienza entra nel diritto di famiglia

151

1. La paternità in Costituzione: le premesse di un cambiamento, p. 151 - 2. Cinque lustri di attesa per la legge 19 maggio 1975, n. 151, p. 158 - 3. Il rifiuto delle analisi come confessione: l’autogol di Maradona, p. 168

9.

La rivoluzione del DNA: padri biologici senza limiti

173

1. Il padre dopo la riforma del diritto di famiglia, p. 173 - 2. Una donna dimenticata sulla via del DNA, p. 180 - 3. Il DNA in aula: padri senza scampo, p. 188 - 4. Padri braccati: Eddie Murphy e la sindrome del giocatore di basket, p. 193

10.

Il trionfo della natura: un bilancio provvisorio

197

1. Il padre oggi: questioni aperte, p. 197 - 2. Sui bus del Bronx, p. 206 - 3. Il DNA scagiona il padre: Yves Montand, p. 214

Postilla Oggi il diritto torna a definire il padre?

221

1. Nuove forme di paternità, p. 223 - 2. Il diritto in affanno, p. 230 3. Una vittoria di Pirro?, p. 238

Indice dei nomi

255