Immagini malgrado tutto 9788870789546, 8870789543

A partire da quattro foto strappate all'inferno di Auschwitz, questo libro sviluppa un'originale riflessione s

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Immagini malgrado tutto
 9788870789546, 8870789543

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Titolo originale Images malgré tout © 2003 L a Éditions de Minuit Ouvrage publié avec le concours du M inistère fran^ais charge de la Culture - Centre national du livre Pubblicato con il sostegno del ministero della Cultura francese Traduzione Davide Tarizzo Copertina Studio CReE ISBN 88-7078-954-3 © 2005 Raffaello Cortina Editore M ilano, via Rossini 4 Prima edizione: 2005

INDICE

PARIE PRIMA IMMAGINI MALGRADO TUTTO

1 . Q uattro

pezzi di pellicola strappati all’inferno

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Per sapere, occorre immaginare. Auschwitz, agosto 1944: quattro immagini mal­ grado tutto, m algrado i rischi, m algrado la noatra incapacità di sapere come guardarle o g g i D Sonderkommando al lavoro. Sopravvivenza e sollecitazione a resistere: trasmettere segnali al di fuori. L’immagine fotografica sorge all’incro­ cio tra la scom parsa ormai prossim a del testimone e l’irrappresentabilità della testimonianza: strappare un’immagine a questo reale. Organizzazione dello scatto clandestino. Prima sequenza: dalla camera a gas del crematorio v, imma­ gini delle fòsse di incinerazione. Seconda sequenza: all’aria aperta, nel bosco di Birkenau, immagine di un "convoglio” di donne svestite. Il rullino della pellico­ la, nascosto in un tubetto di dentifricio, giunge nelle mani della Resistenza po­ lacca, per essere spedito "più lontano” .

2. A dispetto di ogni inimmaginabile

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Le fotografie dell’agosto 1944 si indirizzano all’inimmaginabile, per confutar­ lo. Prima epoca dell’inimmaginabile: la "Soluzione finale” come macchina di "disim m aginazione” generalizzata. Fare sparire la psiche delle vittime, la loro lingua, la loro esistenza, i loro resti, gli strumenti della scom parsa e perfino gli archivi, la memoria della scom parsa. L a "ragione nella storia* sempre confuta­ ta da eccezioni singolari: gli archivi della Shoah sono fatti di eccezioni simili. La particolare predisposizione della fotografia a riprodursi e a trasm ettersi malgrado tutto: il divieto assoluto di fotografare i campi coesiste con l’attività di due laboratori fotografici ad Auschwitz. Seconda epoca dell’inimmaginabi­ le: Auschwitz im pensabile? O ccorre ripensare le basi della nostra antropolo­ gia (Hannah Arendt). Auschwitz indicibile? Occorre ripensare le basi della te­ stimonianza (Primo Levi). Auschwitz inimmaginabile? Prestare all’immagine la stessa attenzione che si presta alla parola dei testimoni. L o spazio estetico dell’inimmaginabile disconosce la storia nelle sue concrete singolarità. Come Robert Anteime, G eorges Bataille e M aurice Blanchot non vi hanno rinuncia­ to: il simile e la specie umana.

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INDICE

3. N ell'occhio della

stona

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Per ricordarsi, occorre immaginare. Immagine e testimonianza in Filip Muller: immediatezza della monade e com plessità del montaggio. L’urgenza del presente “fotografico” e la costruzione delle immagini nei Rotoli di Auschwitz. L’immagi­ ne come “istante di verità” (Arendt) e “monade” che sorge là dove il pensiero viene meno (Benjamin). D oppio regime dell’immagine: verità (le quattro foto nell’occhio del ciclone) e oscurità (il fumo, i contorni sfocati, il valore lacunoso del documento). Lo spazio storico dell’inimmaginabile disconosce il doppio regi­ me dell'immagine, le domanda troppo o troppo poco, schiacciandola tra la pura esattezza e il puro simulacro. Le fotografie dell’agosto 1944 rese “presentabili” come icone dell’orrore (ritoccate) o “informative” come semplici documenti (reinquadrate), senza attenzione per la loro fenomenologia. Elementi di questa fenomenologia: la “m assa nera” e la sovraesposizione, in cui nulla i visibile, co­ stituiscono le tracce visive della loro condizione di esistenza e del loro stesso ge­ sto. Le immagini non dicono la verità, ne sono solo un lembo, un vestigio lacuno­ so. La soglia del malgrado tutto tra l’im possibile di diritto e la necessità di fatto. “Era impossibile. Si. Bisogna immaginare.”

4. Sim ile, dissim ile, sopravvissuto

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Per una critica visiva delle immagini della storia: stringere il punto di vista (for­ malmente) e aprirlo (antropologicam ente). Le fotografie dell’agosto 1944 come dramma dell’immagine umana in quanto tale: (’“inseparabile” (Bataille) e il si­ mile in questione. Q uando il boia condanna l’umano al dissim ile (“ manichini”, “colonne di basalto”), la vittima resiste serbando l’immagine malgrado tutto del mondo, di sé, del sogno e dell’umano (Levi: “tenerci dritti”). Serbare pure l’im­ magine dell’arte: inesattezza ma verità della figura dantesca dell’inferno (Lascia­ te ogni speranza...). Il ricorso all’immagine come necessità lacunosa: difetto di informazione e di visibilità, necessità del gesto e dell'apparizione. Le fotografie dell’agosto 1944 come cose sopravvissute: il testimone non è sopravvissuto alle immagini che ha estratto da Auschwitz. Tempo del lam po e tem po della terra, istante e sedimentazione: necessità di un'archeologia visiva. Walter Benjamin davanti all’“immagine autentica del passato” .

PARTE SECONDA MALGRADO TUTTA L'IMMAGINE

5. Im m agine-fatto o immagine-feticcio

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La critica dell’inimmaginabile e il suo ritorno polem ico. 0 pensiero dell’imma­ gine come terreno politico. Le fotografie dell’agosto 1944, sintomo storico e teorico. “Non ci sono immagini della Shoah.” Assolutizzare tutto il reale per contrapporgli Ximmagine tutta, o storicizzare il reale per scrutarne le immagini lacunose? Una controversia sul rapporto tra fatti singolari e tesi universali, im­ magini da pensare e immagini già pensate. L’inimmaginabile come esperienza non è l’inimmaginabile come dogm a. L’immagine non è tutta. Immagini dei campi: mal viste, mal dette. “Ci sono troppe immagini della Shoah.” Ripudiare le immagini non significa criticarle. Tesi deU’immagine-feticcio, esperienza del-

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INDICE

Vimmagine-fatto. Il “contano” fotografico tra immagine e reale. Il feticcio: il tuno, il fermo, lo schermo. Un dibattito filosofico sui poteri dell’immagine: velo o strappo? Il doppio regime dell’immagine. L’immaginario non è riducibile allo spettacolare. Tra il prim ato delle immagini-velo e la necessità delle immaginistrappo: Susan Son tag e l’*epifania negativa” , Ka-Tzetnik e il “rapim ento” foto­ grafico, Jorge Semprun e il momento etico dello sguardo. “Assistere brusca­ mente alla nostra stessa assenza.” 6.

Immagine-archivio o immagine-apparenza

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La “leggibilità” storica delle immagini si accom pagna sem pre a un momento critico. D all’immagine-feticcio all’immagine-prova e all’immagine-archivio: “immagini senza immaginazione". D cineasta e il “perentorio”. L’archivio fal­ sificato confuso con l’archivio verificato. L’ipotesi del “film segreto” e la pole­ mica tra Lanzmann e Semprun. Certezza iperbolica e impensato dell'im m agi­ ne. Ripensare l’archivio: la breccia nella storia interpretata, la grana dell’even­ to. Contro lo scetticism o radicale in storia. Ripensare la prova con l’essere alla prova. Ripensare la testimonianza: né dissidio, né silenzio puro, né parola as­ soluta. Raccontare malgrado tutto d ò che i del tutto im possibile da racconta­ re. La testimonianza dei membri del Sonderkommando oltre la sopravvivenza d d testimoni. I Rotoli di Auschwitz, la m oltiplicazione della testimonianza e il “rullino” fotografico dell’agosto 1944. Ripensare l’immaginazione oltre la con­ trapposizione tra apparenza e verità. Che cos’è un’“immagine senza immagi­ nazione” ? Jean-Paul Sartre o l’immagine come atto. L a quasi-ossetvazione. Porta o finestra? Q “margine di immagine” e l’ordine delle due sequenze: ro­ vesciare le inquadrature. 7.

Immagine-montaggio o immagine-menzogna

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Q uattro immagini, due sequenze, un montaggio. Immaginazione e conoscenza mediante il montaggio: un accesso alle singolarità del tempo. L’immagine non è né nulla, né una, né tutta. Claude Lanzmann e Jean-Luc G odard: montaggio centripeto e montaggio centrifugo. “ Nessuna immagine” dice la Shoah, ma “tutte le immagini” non parlano che di questo. Dalla polarità alla polemica: i due sensi dell’aggettivo “m osaico” . Una sola immagine tutta o un’orgia di im­ magini parziali? Momenti fondatori: memoria e presente in Alain Resnais, ar­ chivio e testimonianza in M arcel O phuls. “Ciò che non si può vedere, occorre m ostrarlo.” U montaggio-racconto di Lanzmann e il montaggio-sintomo di G o ­ dard. Q uando m ostrare non significa falsificare, ma far sorgere una “forma che pensa” e rendere l’immagine dialettica. “Tavola critica": il cinema mostra la sto­ ria, rimontandola. Dachau montato con G oya, Elizabeth Taylor e G iotto. Ange­ lo della resurrezione secondo San Paolo o angelo della storia secondo Walter Benjamin? Una dialettica senza compimento.

8. Immagine sim ile o immagine sem biante

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Due punti di viste affrontati sotto lo sguardo di un terzo. Montare non significa assim ilare, ma far fondere le somiglianze, rendendo im possibili le assimilazioni. Simile non equivale a sem biante, e neppure a identico. Sosia e differenti: l’ebreo e il dittatore secondo Charlie Chaplin. L e iperboli speculative dell’irrappresen-

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INDICE

tabile e deU’inimmaginabile. “Per sapere, occorre immaginarsi.” L’immagine al cuore della questione etica. Hannah Arendt e l’immaginazione come facoltà po­ litica. In che m odo un’immagine può "salvare l’onore” di una storia? Redenzio­ ne non equivale a resurrezione. L'Endlósung e YErlósung: da Kafka e Rosenzweig a Scholem e Benjamin. "L a vera immagine del passato guizza via.” Il m odello del cinema: immagini sfuggenti eppure pregnanti. La redenzione filmi­ ca secondo Siegfried Kracauer. Realismo critico: l’immagine smonta e rimonta i continui spaziali e temporali. Perseo di fronte alla M edusa: l’astuzia dello scu­ do, il coraggio di conoscere e di affrontare malgrado tutto. L’immagine nell’epo­ ca dell’immaginazione lacerata: la crisi della cultura. Aprire con l’immagine del passato il presente del tempo.

Fonti delle illustrazioni

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DI loro, ai tuoi amici e conoscenti, che se non ritorni è perché il sangue ti si è gelato nelle vene vedendo queste terribili scene barbare e il modo in cui sono morti i figli innocenti e indifesi del mio popolo ormai lasciato solo. Dì loro che se il tuo cuore si tramuta in [pie­ tra], il tuo cervello in un freddo meccanismo e il tuo occhio in un sem plice apparecchio fotografi­ co, tu non andrai più da loro. [...] Tieni stretta la mia mano, non tremare [lacuna] perché dovrai vedere cose ancor peggiori. Zalmen Gradow ski, Rotoli d i Auschwitz

Nota bibliografica La prima pane di questo libro, Immagini malgrado tutto, è stata scritta da gen­ naio a giugno del 2000, per essere poi pubblicata a gennaio del 2001 sul catalogo Mémoire des camps. Photographies des camps de concentration et determ ination n av i (1933-1999), a cura di C. Chéroux, M aivai, Paris 2001, pp. 219-241. La se­ conda pane, inedita, è stata oggetto di un seminario tenuto alla Freie Universitat di Berlino, tra maggio e giugno del 2003, al Centro interdisciplinare di scienza deU’an e e di estetica del dipartimento di Filosofìa. Vorrei ringraziare in partico­ lare Erika Fischer-Lichte e Ludger Schwane per la loro calorosa ospitalità, non­ ché il pubblico sempre pronto a intervenire e molto interessato al problema. Ringrazio anche Claude Lanzmann, Jean-Luc G odard e Alain Resnais per avermi autorizzato a riprodurre alcuni fotogrammi dei loro film (e Florence Dauman, C audine Kaufmann e Stéphane Dabrowski per lo sviluppo del fotogramma di Nuit et brotdllard). Clément Chéroux, Pascal Convert, Christian Delage, Henri Herré e Manuela Morgaine mi hanno dato consigli preziosi dopo la lettura del manoscritto: a loro la mia sentita riconoscenza. Infine, un ringraziamento di cuore al professor David Bankier per l’accoglienza offertami in qualità di direttore ddrintem ational Institute for Holocaust Studies di Yad Vashem (Gerusalemme). Tra un testo e l’altro, ho om ologato l’ortografia di certe parole (a cominciare da “Shoah”, che talvolta si scrive così e talvolta si scrive “Shoa” ) e di alcuni nomi propri (ad esem pio quello di Zalmen Lewental).

PARTE PRIMA

IMMAGINI MALGRADO TUTTO

[ ...] anche se molto rigato un sem plice rettangolo di trentadnque millimetri salva l'onore di tutto il reale. Jean-Luc G odard, Histoire(s) du cinéma

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QUATTRO PEZZI DI PELLICOLA STRAPPATI ALL’INFERNO

Per sapere occorre immaginare. D obbiam o provare a im magi­ nare l’inferno di Auschwitz nell’estate del 1944. Non parliam o di inimmaginabile. Non difendiam oci dicendo che immaginare una cosa del genere, in qualsiasi m odo ci proviam o, è un com pito che non possiam o assum erci, che non potrem o mai assum erci - an­ che se in fondo è vero. Poiché comunque dobbiam o provarci, dobbiam o confrontarci con questa cosa difficile da immaginare. È come una risposta da offrire, un debito da saldare nei confronti delle parole e delle immagini che certi deportati hanno strappato alla loro spaventosa esperienza reale. Dunque, non parliam o di inimmaginabile. L e nostre difficoltà non sono nulla al confronto di quelle dei prigionieri che hanno sottratto ai cam pi questi pochi brandelli di cui noi oggi siam o depositari e il cui peso affligge i nostri sguardi, brandelli più preziosi e meno rassicuranti di qual­ siasi opera d ’arte, brandelli strappati a un m ondo che li conside­ rava im possibili. Immagini m algrado tutto allora: m algrado l’in­ ferno di Auschwitz, m algrado i rischi corsi. E noi abbiam o il a>m pito di contem plarle, di renderne conto, di assum erle. Im ­ magini m algrado tutto: m algrado la nostra incapacità di guardarle come m eriterebbero, m algrado il nostro mondo, un mondo rim­ pinzato, e quasi soffocato, da merce immaginaria. ★ Tra i prigionieri di Auschwitz, quelli cui le SS vollero sottrar­ re a ogni costo la possibilità di testimoniare furono senza dub­ bio i membri del Sonderkom m ando, la "squadra speciale” di de15

IMMAGINI MALGRADO TUTTO

tenuti che gestiva a mani nude lo sterminio di m assa. L e SS sa­ pevano bene che una sola parola di un sopravvissuto del Sonderkommando avrebbe reso vani tutti i dinieghi, tutti i ricami successivi sul grande m assacro degli ebrei di Europa.1 “ Aver concepito e organizzato le Squadre è il crimine più dem oniaco del nazionalsocialism o”, scrive Prim o Levi. “Si rimane attoniti davanti a questo parossism o di perfìdia e di odio: dovevano es­ sere gli ebrei a mettere nei forni gli ebrei, si doveva dim ostrare che gli ebrei, sotto-razza, sotto-uomini, si piegano a ogni um ilia­ zione, perfino a distruggere se stessi.”23 H primo Sonderkommando fu creato ad Auschwitz il 4 luglio 1942, mentre si svolgeva la "selezione” per le camere a gas di un convoglio di ebrei slovacchi. Dodici squadre si succedettero a partire da allora: ognuna rimaneva in funzione qualche mese e "la squadra successiva, come iniziazione, bruciava i cadaveri dei predecessori” .’ Parte dell’orrore che dovettero affrontare questi uomini era dovuta al fatto che l’intera loro esistenza doveva re­ stare coperta da un segreto assoluto, fino all’inevitabile morte di tutta la squadra: i membri del Sonderkommando non dovevano avere alcun contatto con gli altri detenuti e ancor meno col “mondo esterno”, neanche con le SS “non iniziate”, cioè ignare del m odo in cui funzionavano davvero le camere a gas e i forni crematori.4 Q uando si ammalavano, questi detenuti avvolti dal 1. E tutti i sofismi di cui, mi sembra, non è il caso di invaghirsi tanto sul piano fi­ losofico. Cfr. J.-F. Lyotard, Il dissidio (1983), tr. it. Feltrinelli, Milano 1985, pp. 19-20 (che analizza cosi l’argomento negazionista: “ [...] per avere la certezza che un locale è una camera a gas, io accetto come testimone solo una vittima di questa stessa came­ ra; ora, secondo il convenuto, non devono esserci se non morte, altrimenti la camera a gas non sarebbe quella che egli pretende sia; insomma, non c’è camera a gas”). 2. P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1991, pp. 37-39. 3. Ibidem, p. 36. 4. F. Muller, Trois arts darts urte ebambre à gaz d‘Auschwitz (1979), tr. fr. Pygma­ lion, Paris 1980, p. 61. Filip Mtiller è un caso rarissimo, è cioè un membro del Sortderkommando scampato a cinque liquidazioni successive. Sul funzionamento delle camere a gas e sul segreto da cui esso era avvolto cfr. G. Wellers, Le camere a gas so­ no esistite (1981), tr. it. Euredit, Torino 1997; E. Kogon, H. Langbein, A. Ruckerl, Les Chambresi gas secret d'État ( 1983), tr. fr. Le Seuil, Paris 1987; J.-C. Pressac, Au­ schwitz: Technique and Operation o f the Gas Chambers, tr. ingl. Beate Klarfeld Foundation, New York 1989; J.-C . Pressac, Les Crématoires d'Auschwitz. La machineriedu meurtre de masse, CNRS Éditions, Paris 1993, p. 35 (“ [...] uccidere col gas, in un luogo chiuso, centinaia di uomini in una volta sola era una cosa senza prece­ denti e il segreto da cui l’operazione era avvolta colpiva ancor di più l'immaginazio-

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QUATTRO PEZZI DI PELLICOLA STRAPPATI ALL’INFERNO

segreto non erano neppure ammessi all’ospedale del campo. Era­ no custoditi neli’asservimento totale e nell’abbrutimento - l’alcol era una delle poche concessioni - del loro lavoro nei crematori. Il loro lavoro? Bisogna pur ricordarlo: m anipolare la morte dei propri simili, uccisi a migliaia. Essere testimoni degli istanti finali. Costretti a mentire fino all’ultimo (un membro del Sonderkommando che aveva voluto inform are le vittime del loro de­ stino fu gettato vivo nel fuoco del crem atorio, coi com pagni che dovettero assistere all’esecuzione).5 Riconoscere parenti e cono­ scenti senza proferire parola. Veder entrare uomini, donne e bam bini nelle camere a gas. Sentire le urla, i colpi, le agonie. At­ tendere. E poi, accogliere d ’un tratto *Tindescrivibile pila um a­ n a” - una "colonna di basalto” fatta di carne, della loro carne, della nostra carne - che si rovesciava all’apertura delle porte. Tirare via i corpi uno a uno, svestirli (prim a quantomeno che i nazisti si inventassero la soluzione del vestiario). Lavare via tut­ to il sangue, tutti gli umori, tutta la m ateria purulenta accum u­ lata. Estrarre i denti d ’oro per il bottino del Reich. Introdurre i corpi nella fornace dei crematori. M antenere questo ritmo disu­ mano. Alimentare il fuoco col carbone. Raccogliere le ceneri umane sotto form a di "m ateria informe, incandescente e bian­ castra che si rovesciava a rivoli [e] raffreddandosi assum eva una tinta grigiastra” ... Frantum are le ossa, ultima resistenza opposta da questi m iseri corpi salla loro distruzione industriale. Ammuc­ chiare e buttare tutto nel fiume vicino, oppure utilizzare il tutto come m ateriale di sterro per la costruzione di ima strada nei pressi del cam po. Camminare su centocinquanta metri quadrati di capigliature umane che quindici detenuti si affannavano a cardare su grandi tavoloni. Ritinteggiare talvolta il vestiario, preparare siepi - udii per la mimetizzazione del cam po - e sca­ vare fosse di incinerazione supplem entari per le esecuzioni straordinarie. Pulire e riparare i forni giganti dei crematori. Ri­ ne dei non-partecipanti, SS e detenuti, cui era stato formalmente vietato di osservar­ ne lo svolgimento”); tr. it. Le macchine dello sterminio, Feltrinelli, Milano 1994; U.D. Adam, “Lcscham bresàgaz” , in L'AUemagne nazie et le génoadejuif: colloque de l’EHESS, Paris, juillet 1982, Gallimard-Le Seuil, Paris 1985, pp. 236-261; F. Piper, “G as Chambers and Crematoria”, in Y. Gutman, M. Berenbaum (a cura di), Ana­ tomy o f the Auschwitz Death Camp, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1994, pp. 157-182. 5. H. Langbein, Uomini ad Auschwitz (1975), tr. it. Mursia, Milano 1984, p. 216.

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IMMAGINI MALGRADO TUTTO

cominciare ogni giorno, sotto lo sguardo m inaccioso delle SS. Sopravvivere così per un tem po indeterminato, ubriachi, lavo­ rando giorno e notte "com e forsennati per finire al più presto”.6 "N on erano più volti umani, ma soltanto sm orfie folli e stra­ volte”, hanno detto i detenuti che hanno potuto vederli.78So ­ pravvivevano com unque, per il tem po che veniva concesso loro, nell’ignominia di questo lavoro. A una detenuta che gli chiese com e poteva sopportare tutto ciò, un membro della squadra ri­ spose: "C erto, anch’io sarei potuto andare sul filo com e hanno fatto alcuni camerati. Ma io voglio sopravvivere [ ...] . Nel no­ stro lavoro, se non si im pazzisce il prim o giorno poi ci si abi­ tua” .®Parole senza peso. Alcuni, che pure credevano di essersi "abituati”, si gettarono com unque tra le fiamme. Se una simile sopravvivenza sfugge a ogni giudizio morale (come ha scritto Prim o Levi)9102e a ogni conflitto tragico (come ha sostenuto G iorgio Agam ben)'0 che significa allora, in condi­ zioni così penose, resistere? Ribellarsi? Era senz’altro un m odo dignitoso di suicidarsi, di anticipare l’eliminazione prom essa. Alla fine del 1942 fallì un prim o tentativo di ribellione. Poi, al grande ammutinamento dell’ottobre del 1944 - almeno il cre­ matorio IV fu incendiato e distrutto - non sopravvisse nessuno dei quattrocentocinquanta rivoltosi, trecento dei quali "soltan ­ to” avrebbero dovuto essere gasati di lì a p o co ." In realtà, a causa dell’eccessiva disperazione, la "spinta a resi­ stere” si era probabilm ente estinta in questi esseri condannati com unque a scom parire, per fissarsi invece sui segnali da lancia­ re al di là delle frontiere del cam po: "Com e inform are il m ondo delle atrocità che si commettevano laggiù, questa restava la no­ stra principale preoccupazione”.'2 Per tale motivo Filip Miiller, 6. F. Muller, op. cit., pp. 104,136, 158-159,169-180; H. Langbein. op. a t., pp. 204-216. 7. H. Langbein,op. a t., p. 207. 8. Ibidem, p. 208. 9. P. Levi, op. a t., p. 44: " [...] credo che nessuno sia autorizzato a giudicarli, non chi ha conosciuto l’esperienza dei Lager, tanto meno chi non l’ha conosciuta”. 10. G . Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone. Bollati Boringhieri, Torino 1998. 11. F. Miiller, op. a't., pp. 209-222.1 documenti sugli effetti della rivolta sono stati raccolti da J.-C . Pressac, Les Crématoires d'Auschwitz, cit., p. 93; P. Levi, Se questoèun uomo, Einaudi, Torino 1989, pp. 132-133. 12. F. Muller, op.dt., p. 118.

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QUATTRO PEZZI DI PELLICOLA STRAPPATI ALL’INFERNO

nell’aprile del 1944, cominciò a raccogliere alcuni documenti una m appa dei crem atori IV e V, una nota sul loro funzionamen­ to, una lista dei nazisti in servizio, un’etichetta di Zyklon B - per trasm etterli a due prigionieri che di lì a poco avrebbero tentato la fuga.13 Un tentativo del genere per la gente del Sonderkommando non aveva alcuna possibilità di riuscita. E d ecco perché alcuni di loro affidarono la propria testimonianza ai segreti della terra: gli scavi effettuati nei pressi dei crem atori di Auschwitz hanno portato alla luce - il più delle volte molti anni dopo la li­ berazione - gli scritti sconvolgenti, e quasi illeggibili, di questi schiavi della m orte.14 Com e m essaggi in una bottiglia, salvo che non sem pre c’erano bottiglie in cui inserirli, tutt’al più delle ga­ melle, e non c’era il mare ad accoglierli, bensì la dura terra.13 Questi testi sono percorsi da due ossessioni complementari. D a un lato, la prossim a e ineluttabile scom parsa del testimone stesso: “Le SS d ripetono spesso che non lasceranno in vita un so­ lo testimone’’. D all’altro, il timore che la testimonianza fosse va­ na, anche qualora fosse riusdta a raggiungere il mondo esterno: non c’era il rischio che fosse giudicata incomprensibile, insensata, inimmaginabile? “Nessuno - confidava Zalmen Lewental sul pez­ zo di carta che si apprestava a seppellire sotto terra - avrebbe po­ tuto immaginare con precisione quello che sarebbe successo.” 16 * È all’incrodo di queste due im possibilità - scom parsa prossi­ ma del testimone, non rappresentabilità della testimonianza che è sorta l’immagine fotografica. Un giorno d ’estate del 1944 i membri del Sonderkommando hanno sentito l’im periosa neces­ sità, quanto mai pericolosa per loro, di scattare qualche fotogra­ fia sul proprio infernale lavoro, foto cap ad di testim oniare l’or­ rore e l’ampiezza del m assacro. Strappare qualche immagine a \i.Ibidem ,pp. 163-166. 14. Cfr. L. Poliakov, Auschwitz, Juillard, Paris 1964, pp. 62-65, 159-171; B. Mark, Des voix dans la nuit. La resistance juive à A uschwitz-Birkenau (1965), tr. fr. Plori, Paris 1982; N. Cohen, “Diaries of the Sonderkommando”, in Y. Gutman, M. Berenbaum (a cura di), op. cit., pp. 522-534. 15. Sulla descrizione fisica dei Rotoli di Auschwitz rovinati dall'umidità e quindi parzialmente illeggibili, cfr. B. Mark, op. cit., pp. 179-190. 16. G tato da H. Langbein, op. cit., p. 11.

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IMMAGINI MALGRADO TUTTO

questo reale. M a anche - dato che un’immagine è fatta per esse­ re guardata da altri - strappare al pensiero um ano in generale il pensiero del “fuori” , un im m aginabile per qualcosa di cui nes­ suno fino ad allora intravedeva la possibilità (ma è già dire trop­ po, poiché tutto (u ben progettato prim a di essere realizzato). È inquietante che un simile desiderio di strappare un’im m agi­ ne sia em erso nel momento più indescrivibile - come lo si defi­ nisce spesso - del m assacro degli ebrei: un momento in cui non c’era più posto, in coloro che assistevano inebetiti a tale orribile spettacolo, né per il pensiero né per l’immaginazione. Tem po, spazio, sguardo, pensiero, pathos - tutto era orm ai offuscato dall’enorme macchinario della violenza prodotta. N ell’estate del 1944 ci fu il “m arem oto” degli ebrei ungheresi: in quattrocentotrentacinquemila furono deportati ad Auschwitz tra il 15 m ag­ gio e 1*8 luglio.17Jean-Claude Pressac (che per scrupolo si astie­ ne di solito da ogni aggettivazione e a fortiori da ogni formula em patica) scrive che fu questo “l’episodio più dem ente di Birkenau” , svoltosi perlopiù nei crem atori n , m e V .1819In una so­ la giornata ventiquattrom ila ebrei ungheresi furono sterminati. Verso la fine dell’estate finirono le scorte di Zyklon B. Di conse­ guenza, gli inetti dei convogli [vale a dire le vittime selezionate all’arrivo per la m orte immediata] furono precipitati direttamente nelle fosse ardenti del crem atorio V e del Bunker 2 ” ,'9 fu­ rono cioè bruciati vivi. Per quanto riguarda i gitani, invece, fu­ rono gasati in m assa a partire dal primo agosto. Com e sempre, i membri del Sonderkommando di stanza ai crematori avevano dovuto preparare tutta l’infrastruttura di quest’incubo. Filip M iiller rammenta di come si provvide “a riempi­ re le fessure delle pareti con terra refrattaria, a rivestire le porte in ghisa con uno strato protettivo di colore nero e a lubrificare i cardini [ ...]. Le grate rovinate vennero sostituite e si verificò dal­ l’alto in basso lo stato dei sei camini, facendo ogni riparazione necessaria. Anche i ventilatori vennero controllati scrupolosa­ mente con l’aiuto degli elettricisti. Infine, vennero ritinteggiate le pareti dei quattro vestiari e delle otto camere a gas. Tutti questi 17. A. Wìeviorka, Exportation et genocide. Entre la mémoire et l’oubli, Plon, Pa­ ris 1995. pp. 255-259. 18. J.-C . Pressac, Les Crématoires d’Auschwitz, cit., p. 90. 19. Ibidem, p. 91.

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QUATTRO PEZZI DI PELLICOLA STRAPPATI ALL’INFERNO

interventi avevano il chiaro scopo di rendere perfettamente ope­ rative le installazioni preposte all’annientamento”.20 M a soprattutto - per ordine delYHauptscharfiihrer O tto Moli, una SS particolarmente temuta e detestata, che si era fatta carico personalmente della liquidazione del Sonderkommando a partire dal 194221 - si erano dovute scavare cinque fosse di incinerazio­ ne all’aria aperta, dietro il crematorio V. Filip M iiller ha raccon­ tato nei dettagli l’allestimento e la gestione tecnica del cantiere da parte di M oli: dall’ideazione dei canaletti di scolo destinati a raccogliere il grasso al lastrone di cemento sul quale gli “operai” avrebbero dovuto polverizzare le ossa m escolate a ceneri umane,22 per non parlare delle siepi udii a schermare e nascon­ dere a ogni sguardo esterno quanto accadeva dentro il campo (figura 1 ). Vale la pena notare che del crematorio V, situato in un boschetto di betulle - donde proviene il nome Birkenau - , non esiste alcuna vista (a parte le distand viste aeree) che non sia of­ fuscata da qualche barriera vegetale23 (figura 2). Strappare un’immagine a questo inferno? Sem brava un'im ­ presa doppiam ente im possibile. Im possibile innanzitutto per di­ fetto, ossia perché i dettagli delle installazioni erano mimetizzati e talvolta sotterranei. E anche perché, a parte le ore di lavoro pas­ sate sotto la stretta sorveglianza delle SS, i membri del Son­ derkommando erano tenuti al segreto in una “cella sotterranea [e] isolata” .24 Im possibile poi per eccesso, poiché la visione di 20. F. Muller, op. cit., p. 169. 21. Ibidem, p. 170. 22. Ibidem, pp. 169-183. 23. Per la documentazione sul crematorio V cfr. J.-C. Pressac, “Étude et realisa­ tion des Krematorien IV et V d ’Auschwitz-Birkenau”, in L’Allemagne ttazie et le gé• nocide juif, d t., pp. 539-584; J.-C. Pressac, Auschwitz: Technique and Operation o f the Gas Chambers, d t., pp. 379-428. Leon Poliakov (op. at., pp. 51-52) aveva già ri­ tato una lettera d d 6 novembre 1943 in cui le SS di Auschwitz ordinavano piante verdi per camuffare i crematori l e □. Q 16 giugno 1944, Oswald Poh! accordava un altro credito per l’“edificazione di una seconda cintura intema, utile a dissimulare i fabbricati a vista d d detenuti” (J.-C. Pressac, Les Crématoires d’Auschwitz, d t., p. 91). Sul camuffamento del “budello” di Treblinka cfr. la testimonianza precisa della SS Franz Suchomd in C. Lanzmann, Shoah, Fayard, Paris 1985, pp. 123-124; tr. it. Shoah, Bompiani, Milano 2000. 24. Testimonianza di Filip Muller in C. Lanzmann, op. d t., p. 81. Continua così: “Eravamo ormai ‘detentori di segreto’, in attesa di morte. Non dovevamo parlare con nessuno, né entrare in contatto coi prigionieri. Neppure con le SS. Tranne quel­ le incaricate Ac3A'Aktion'.

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Figura 1 Anonimo (tedesco), Siepe d i mascheramento del crematorio V d i Auschwitz, 1943-1944. Oswtedm, Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativo n. 860).

questa catena m ostruosa e com plessa sem brava oltrepassare ogni tentativo di documentazione. Filip M iiller scrìve che "paragona­ to a ciò che [O tto M oli] aveva immaginato e com inciato a realiz­ zare, l’inferno di Dante sem brava un gioco da ragazzi”.0 A lle prim e luci d ell’alba dem m o fu oco alle fosse in cui avevam o am m ucchiato circa duem ilacinquecento co rp i; d u e ore d o p o erano irriconoscibili. L e fiam m e incandescenti avvolgevano un’infinità di tronchi carbonizzati e d isseccati. [ ...] C ontrariam ente a quanto ac­ cadeva nei crem atori, in cui il calore poteva essere m antenuto alto con l’aiuto dei ventilatori, nelle fosse, quando il m ateriale um ano aveva orm ai preso fuoco, la com bustione poteva essere alim entata solo d all’aria che circolava tra i corpi. E siccom e alla lunga il cum u­ lo di corpi tendeva ad accartocciarsi se non giungeva aria d all’ester-25 25. F. Miiller, op. a t., p. 181. 22

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Figura 2 Anonimo (tedesco), Il crematorio v d i Auschwitz, 1943-1944. Oswiecim, Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativo n. 20993/508).

no, la squadra di fuochisti di cui facevo parte doveva spargere di continuo olio, metanolo o grasso umano in ebollizione, raccolto nelle cisterne al fondo della fossa. Con lunghe spatole di ferro ricur­ ve all’estremità raccoglievamo dentro dei secchi il grasso bollente, proteggendoci le mani con dei mezzi guanti. Dopo aver rovesciato il grasso nella fossa, in ogni angolo, si alzavano dei getti di fiamme che sibilavano e crepitavano. Le volute di fumo oscuravano l’aria diffondendo un odore d’olio, di grasso, di benzolo e di carne bru­ ciata. La squadra del giorno composta di circa centoquaranta dete­ nuti lavorava nel settore dei crematori IV e v . Circa venticinque por­ tatori di cadaveri erano occupati a evacuare i corpi dalle tre camere a gas del crematorio V e a trascinarli fino alle fosse. [...] Le sentinelle delle SS che stavano nei posti di osservazione al di là del filo spinato, nel settore delle fosse, [...] sembravano piutto­ sto turbate dallo spettacolo dantesco di cui erano testimoni e per molti era difficile sostenere la vista di queste terribili scene che si svolgevano sotto i loro occhi. [...] Certi morti sembravano tornare in vita. Per effetto del calore intenso si torcevano, dando quasi

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l’im pressione di soffrire m ali intollerabili. B raccia e gam be si m uo­ vevano com e in un film al rallentatore, i tronchi si raddrizzavano [ ...] . L’intensità d el fuoco era tale che i cadaveri erano divorati su ogni lato d alle fiam m e. Sulla pelle si form avano delle vesciche, che scoppiavan o una d op o l’altra. Q u asi tutti i corpi ricoperti d i grasso erano co sp arsi di cicatrici nere dovute a bruciature. P er effetto del calore ardente, l’addom e scoppiava in qu asi tutti i m orti, m entre la carne si consum ava con intensi sib ili e crepitìi. [ ...] L’indnerazion e era durata cinque o sei ore. D residuo della com bustione riem piva orm ai solo un terzo della fossa. L a su perfi­ cie, d i una tinta bianco-grigia fosforescen te, era co sp arsa d i innu­ m erevoli teschi um ani. N on appen a la superficie di qu esta m assa d i cenere si era raffredd ata, gettavam o delle assi rivestite d i lam iera nella fossa. A lcuni detenuti scendevano sul fon do e con delle pale buttavano fuori la cenere ancora cald a. E ran o equipaggiati con guanti e berretti di protezione; ciononostante erano sp esso colpiti dalle particelle d i cenere che, alzate d al vento, cadevano senza tre­ gua e provocavano gravi ferite al volto e agli occhi. E cco perché erano m uniti anche d i occhiali di protezione. D op o aver sbarazzato le fo sse di tutti i residui, i resti venivano trasportati d i corsa con cam o le fino al d ep osito delle ceneri e veni­ vano am m assati in m ucchi d ell’altezza di un uom o.26

* Strappare un’immagine a tutto questo, m algrado tutto que­ sto? Sì. Bisognava a ogni costo dare forma a questo inim m agi­ nabile. L e possibilità di evasione o di rivolta erano così ridotte ad Auschwitz che la sem plice em issione d i un’im m agine o di un’inform azione - una m appa, delle cifre, dei nomi - divenne la cosa più urgente, uno degli ultimi gesti d ’umanità. Alcuni dete­ nuti avevano potuto ascoltare la BBC negli uffici che erano stati incaricati di pulire. Altri erano riusciti a lanciare segnali di aiu­ to. "L ’isolam ento dal m ondo esterno faceva parte delle pressio­ ni psicologiche esercitate sui detenuti ”, scrive Hermann Lang26. Ibidem, pp. 183-189. Cfr. pare, tra le tante, la testimonianza di G . Wellers, VÉtoile faune à Vbeute de Vichy. De Drancy à Auschwitz, Fayard, Paris 1973, pp. 286-287. E. Kogon, H. Langbein, A. Riickerl, op. cit., pp. 214-217, precisano che le fosse erano lunghe dodici metri, larghe sei metri e profonde un metro e mezzo. In un ora vi potevano bruciare mille persone. Cfr. anche J.-C. Pressac, “Étude et reali­ sation des Krematorien IV e v ” , cit., pp. 539-384. Va registrata una divergenza tra al­ cune testimonianze dei membri del Sonderkommando e le analisi di Pressac sul per­ ché le fosse fossero state costruite: perché i forni del crematorio V erano difettosi oppure perché non bastavano più.

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bein. “Tra gli sforzi fatti per difendersi dal terrorism o psicologi­ co vanno annoverati chiaramente quelli che tendevano a rom pe­ re l’isolam ento. E di anno in anno, a mano a mano che la situa­ zione militare si evolveva, quest’ultimo fattore assunse sem pre più im portanza per i detenuti.”2728D al canto loro, nel 1944, i capi della resistenza polacca chiesero delle foto. E fu così che, secon­ do una testim onianza raccolta da Langbein, un operaio civile riuscì a far avere di nascosto una macchina fotografica ai mem­ bri del Sonderkommando.a N ella macchina, probabilm ente, re­ stava solo un pezzo di pellicola vergine. Per scattare la foto d fu bisogno di tutto un dispositivo di vi­ gilanza collettiva. H tetto del crem atorio V fu intenzionalmente danneggiato, facendo in m odo che alcuni membri della squadra fossero inviati dalle SS a ripararlo. D a lassù D avid Szmulewski poteva osservare e controllare tutto: poteva osservare e control­ lare coloro che avevano per l’appunto il com pito di osservare e controllare il lavoro del Sonderkommando. N ascosto in fondo a un secchio, l’apparecchio fotografico finì nelle mani di un ebreo greco di nome Alex - ancora oggi si ignora il suo cognome posto a un livello inferiore, davanti alle fosse di incinerazione, dove avrebbe dovuto lavorare come tutti gli altri. Terribile paradosso di questa camera oscura', per riuscire a estrarre la macchina dal secchio, a sistemare il visore, ad aw idnarla al viso e a scattare' una prima serie di foto (figure 3-4) il fo­ tografo ha dovuto nascondersi nella camera a gas appena svuota­ ta - e forse non completamente - d d suoi cadaveri. L’uomo resta al riparo, nell’ombra. L’oscurità e la posizione angolata lo proteg­ gono. Poi si fa coraggio, cambia asse e avanza: la seconda inqua­ dratura è più frontale e leggermente più ravvicinata. Più arrisduata quindi M a anche, paradossalm ente, più posata: più netta. Come se la paura fosse sparita per un istante dinanzi alla neces­ 27. H. Langbein, La Resistance dans les camps de concentration nationaux-sodalistes, 1938-1945 (1980), tr. fr. Fayard, Paris 1981, p. 297 (e in generale pp. 297-315). 28. H. Langbein, Uomini ad Auschwitz, à t.,p . 271: “Stanislaw Klodzinski attesta che il lavoratore civile polacco Mordarski, il quale doveva muoversi all’interno del Lagfr per il suo lavoro, era riuscito a introdurre clandestinamente una macchina fo­ tografica. Essa fu portata al Sonderkommando in una gavetta nella quale era stato co­ struito un doppio fondo1’. La ricostruzione di Langbein contiene alcune inesattezze e si può anche ipotizzare che la macchina fotografica fosse stata trafugata al “Kanda* di Auschwitz, il gigantesco deposito degli effetti personali sottratti alle vittime.

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sita di questo compito - strappare un’immagine. Vi scorgiamo, appunto, il lavoro quotidiano degli altri componenti della squa­ dra, che consiste nello strappare ai cadaveri, che giacciono ancora per terra, il loro residuo aspetto umano. I gesti dei vivi sono indi­ ci del peso dei corpi e del com pito da svolgere con decisioni pre-

Figure 3-4 Anonimo (membro del Sonderkommando di Auschwitz), Cremazione di corpi gasati in fosse di incinerazione a ll aria aperta, davanti alla camera a gas del cre­ matorio V di Auschwitz, agosto 1944. Oswiecim, Museo di Stato di AuschwitzBirkenau (negativi n. 277-278). 26

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se sul momento: tirare, trascinare, buttare. Il fumo, dietro, è quel­ lo delle fosse di incinerazione: corpi disposti a quinconce su un metro e mezzo di profondità, crepitio del grasso, odori, la materia umana che si raggrinzisce, tutto d ò di cui parla Filip Muller è fi, sotto quella coltre di fumo che la fotografia ha fissato per sempre.

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Figure 5-6 Anonimo (membro del So n d erk midAuschwitz), Donne verso la camera a gas del crematorio v d i Auschwitz, agosto 1944. Oswiedm, Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativi n. 282-283).

Dietro c’è il boschetto di betulle. H vento soffia a nord, forse a nord-ovest.2930(“Nell’agosto del 1944 ad Auschwitz faceva molto caldo. Un vento torrido, tropicale, sollevava nuvole di polvere da­ gli edifìci sconquassati dai bombardamenti aerei, d asdugava il sudore addosso e d addensava il sangue nelle vene.” )50 29. Cfr. J.-C . Pressac, Auschwitz: Technique and Operation o f the G as Chambers, cit., pp. 422-424, che ha realizzato una minuziosa ricostruzione di queste immagini. Egli precisa che tra i personaggi fotografati c’è anche una SS, voltata di spalle (e que­ sta la dice davvero lunga sui perìcoli corsi). 30. P. Levi, 7 sommersi e i salvati, cit., p. 60.

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D opo aver nascosto la macchina - tra le mani? nel secchio? sotto gli abiti? - T" ignoto fotografo” si arrischia allora a uscire dal'crem atorio. Costeggia il muro. G ira due volte a destra. Si ri­ trova così dall’altra parte dell’edificio, a sud, dopodiché si in­ cammina verso il boschetto di betulle, all’aria aperta. Anche lag­ giù l’inferno continua: un “convoglio” di donne, già svestite, si appresta a entrare nella camera a gas. Sono circondate da SS. Non è davvero possibile tirar fuori la macchina fotografica, né tantomeno scegliere un’inquadratura. L’“ignoto fotografo” scat­ ta due foto alla meno peggio, senza guardare, forse continuando a camminare (figure 5-6). Su una delle immagini - chiaramente priva di ortogonalità, di orientamento “corretto” - si scorge, 29

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n d l’angolo inferiore destro» tutto un gruppo di donne che sem ­ brano cam minare oppure aspettare il loro turno. Altre tre don­ ne» più vicine, si dirigono in senso inverso. L’im magine è sfuo­ cata. Si può com unque riconoscere un m em bro del Sonderkom m ando col suo berretto. Sul bordo a destra si intravede il carni-

Figura 7 Józef Cyrankkwia e Stanislaw Klodzinski, Messaggio iniiriuato tilt resi­ stenza polacca, 4 settembre 1944. Oswiedm, Museo di Stato di Auxhwitz-Biikenau.

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no del crem atorio IV. L’altra immagine è praticam ente astratta: si scorgono appena le cime delle betulle. Col volto rivolto a sud, il fotografo ha la luce negli occhi. L’immagine è rovinata dalla luce abbagliante del sole che passa attraversi i rami. Poi Alex fa ritom o al crematorio, probabilmente dal lato nord. Restituisce velocemente la macchina a David Szmulewski, rimasto tutto il tempo sotto il tetto a spiare gli eventuali movimenti delle SS. L’intera operazione non è durata più di quindici, massimo venti minuti. Szmulewski ripone l’apparecchio fotografico nel secchio.11 Il pezzo di pellicola sarà poi estratto dalla macchina, riportato al campo centrale e infine portato via da Auschwitz in un tubetto di dentifricio da Helena Dantón, impiegata alla mensa delle SS.12 Per­ verrà in seguito, il 4 settembre 1944, alla resistenza polacca di Cra­ covia, accompagnato da una nota scritta da due detenuti politici, Józef Cyrankiewicz e Stanislaw Klodzinski (figura 7): U rgente. Inviate il più rapidam ente possibile due rullini di pellico­ la in m etallo per m acchina fotografica 6x9. Possiam o fare foto. Invia­ m o foto d i Birkenau che m ostrano i detenuti inviati alle cam ere a gas. Una foto rappresenta im o dei roghi all'aria aperta in cui si bruciano i cadaveri, poiché il crem atorio non è grande abbastanza per bruciarli tutti. Davanti al rogo cadaveri che stanno per esservi gettati. U n'altra foto riproduce un luogo nel bosco in cui i detenuti si spogliano, così credono, per farsi una doccia. A ruota saranno inviati nella cam era a gas. Inviate i rullini prim a possibile. Inviate subito le foto a Teli pensiam o d ie foto ingrandite possano essere inviate più lontano.”

31. Cfr. J.-C . Pressac, Auschwitz: Technique and Operation o f the Gas Chambers, cit., p. 424, in cui è citata la testimonianza dello stesso Szmulewski, sopravvissuto dell* squadra. 32. Cfr. H. Langbein, Uomini ad Auschwitz, cit., p. 272. 33. Citato da R. Boguslawska-Swiebocka, T. Ceglowska, KL Auschwitz. Fotogra­ fie dokumentalne, Krajowa Agencja Wydawnicza, Warszawa 1980, p. 18. fl nome in codice “Teli" sta per Teresa Lasocka-Estreicher, membro a Cracovia di un comitato clandestino di aiuto per i prigionieri dei campi di concentramento. Cfr. anche R. Boguslawska-Swiebocka, T. Swiebocka, "Auschwitz in Documentary Photo­ graphs”, in T. Swiebocka (a cura di), Auschwitz. A History in Photographs, tr. ingl. Auschwitz-Birkenau Museum-Ksiazka I Wiedza-Indiana University Press, Oswiedm-Warsaw-Bloomington-Indianapolis 1993, pp. 42-43,172-176, in cui sono pre­ cisati i nomi di altri detenuti che presero pane a questa operazione: Szlomo Dra­ gon, il fratello Josek e Alter Szmul Fajnzylberg (noto nel campo col nome di Stani­ slaw Jankowski). Secondo la testimonianza di Alter Fajnzylberg, la macchina foto­ grafica potrebbe essere stata una Leica (Clément Chéroux mi ha segnalato però die è impossibile, poiché il formato delle immagini è 6x6).

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“Inviate più lontano...” Che cosa significa? Si può avanzare l’i­ potesi che, al di là della resistenza polacca - perfettam ente al cor­ rente del m assacro degli ebrei - , si intendesse inviare queste im­ magini in una zona più occidentale del pensiero, della cultura, della politica, in cui cose del genere potevano ancora essere con­ siderate inimmaginabili. L e quattro foto strappate dai membri del Sonderkommando al crem atorio V di Auschwitz prendono d i mira 1‘inim m aginabile e lo confutano nella maniera più lacerante. Per confutare l’inimmaginabile, parecchi uomini hanno corso il rìschio collettivo di m orire e, peggio ancora, di subire la sorte ri­ servata a gente che faceva tentativi del genere: la tortura - ad esempio, quella abominevole che la SS Wilhelm Boger chiamava per scherzo la “macchina da scrivere” .1 “Inviate più lontano” : le quattro immagini strappate all’infer­ no di Auschwitz sono indirizzate in effetti a due spazi, a due epo­ che distinte dell’inimmaginabile. Ciò che esse confutano, innan­ zitutto, è l’inimmaginabile fomentato dall’organizzazione stessa della “soluzione finale” . Se perfino un resistente ebreo di Londra - che lavorava in circoli ritenuti ben informati - ha dovuto am­ mettere che non poteva immaginarsi all’epoca Auschwitz o Treblinka,2che dire allora del resto del m ondo? Com e ha giustamen1. H. Arendt, “Auschwitz sotto processo* (1966), tr. it. in Responsabilità e giudi­ zio, Einaudi, Torino 2004, p. 196. 2. Cù. R. Aron, Mémoires, Juillard, Paris 1985, p. 176: “U genocidio, che ne sa­ pevamo noi a Londra? AI livello di chiara consapevolezza, la mia idea era la seguen­ te: i campi di concentramento erano crudeli, erano diretti da capi-ciurma selezionati non tra i politici ma tra i delinquenti comuni, con un alto tasso di mortalità; ma le ca-

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te ricordato Hannah Arendt, i nazisti “erano convinti che la mi­ gliore chance di successo di questa im presa risiedesse nel fatte che nessuno all’esterno avrebbe potuto ritenerla vera” .1 Ed è questo terribile fatto, il fatto cioè che le informazioni pervenute venissero respinte “per la loro stessa enorm ità”, che avrebbe poi perseguitato Primo Levi e alimentato tutti i suoi incubi: subire, sopravvivere, raccontare - eppure non essere creduti, poiché il racconto è inimmaginabile.4 Q uasi che un’ingiustizia inestirpabi­ le continuasse a perseguitare i sopravvissuti che pure avevano vo­ cazione alla testimonianza. M olti studiosi hanno analizzato nel dettaglio il meccanismo di disim m aginazione che poteva far dire a una SS: “Forse vi saranne sospetti, discussioni, ricerche di storici, ma non ci saranno certez­ ze, perché noi distruggerem o le prove insieme con voi. E quande anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi soprav­ vivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo m o­ struosi per essere creduti” .5 L a “soluzione finale” , com ’è noto, fu coperta da un segreto assoluto: silenzio, inform azione stroncata/ M a siccom e i dettagli sullo sterm inio avevano com inciato a filtra­ re “fin quasi dall’inizio dei m assacri” ,7 ci volle un discorso per te­ nere il segreto: retorica, menzogna - tutta una strategia di parole che Hannah Arendt definì, nel 1942, “eloquenza del diavolo”.8 L e quattro foto strappate ad Auschwitz dai membri del Sonderkommando furono dunque anche quattro confutazioni strapmere e gas, l’assassinio industriale di esseri umani, no, lo confesso, non me li sonc immaginati, e non riuscendo a immaginarmeli non ne sapevo nulla”; tr. it. Memorie Mondadori, Milano 1984. 3. H. Arendt, "Le tecniche della scienza sociale e lo studio dei campi di concen­ tramento” (1950), tr. it. in L'immagine dell'inferno. Scritti sul totalitarismo. Editor Riuniti, Roma 2001, pp. 117-118. 4. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 3. Cfr. pure il racconto di Moché-le-Bedeau col quale in pratica si apre il libro di É. Wiesel, La nuit, Minuit, Paris 1958, pp 17-18; tr. it. La notte. La Giuntina, Firenze 1992. 5. Testimonianza di Simon Wiesenthal citata da P. Levi, I sommersi e i salvati. cit., p. 3. 6. Cfr. W. Laqueur, Le Terrifiant Secret. La *Solution finale’ et Vinformation étouffée (1980), tr. fr. Gallimard, Paris 1981; tr. it. Il terribile segreto. La Giuntina, Firenze 1983; S. Courtois, A. Rayski (a cura di). Qui savait quoi? L’extermination desjuifs, 1941-1942, La Découverte, Paris 1987, pp. 7-16. 7. W. Laqueur, op. cit., tr. fr. cit., p. 238. 8. H. Arendt, "L’arte oratoria del diavolo” ( 1942), tr. it. in Antisemitismo e iden­ tità ebraica. Edizioni di Comunità, Torino 2002.

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paté a un mondo che i nazisti volevano offuscato: cioè senza paro­ le e senza immagini. O gni analisi dell’universo concentrazionario converge, da lungo tem po, su questo fatto: i campi furono dei la­ boratori, delle macchine sperimentali di una scom parsa generaliz­ zata. Scomparsa della psiche e disintegrazione del legame sociale, come disse quasi subito - nel 1943 - Bruno Bettelheim, appena reduce da diciotto mesi passati a Buchenwald e Dachau: “H cam­ po di concentramento era il laboratorio in cui la G estapo im para­ va a disintegrare la struttura autonoma degli individui e a spezzare la resistenza civile” .9 Nel 1940 Hannah Arendt parlava dei campi come di altrettanti "laboratori in cui si sperimenta una domina­ zione totale [ ...] , un obiettivo che poteva essere attinto solo nelle condizioni estreme di un inferno fabbricato dall’uom o” .10 Inferno concepito anche per la scom parsa della lingua delle vit­ time. "L à dove si fa violenza all’uom o, la si fa anche al linguag­ gio”, scrive Prim o Levi.11 C ’è il silenzio im posto dall’isolam ento stesso. C ’è il gergo del cam po, coi suoi effetti terrificanti.1213C ’è la distorsione perversa della lingua e della cultura tedesca.11 E c’è infine la menzogna, la continua menzogna delle parole pronun­ ciate dai nazisti: pensiam o all’innocenza dell’espressione Schutzstaffel, abbreviata in SS, che significa “protezione” , “ riparo", “sal­ vaguardia” (Schutz). Pensiam o alla neutralità dell’aggettivo sonder - che significa “separato” , “singolare” , “speciale” , oppure “strano”, “bizzarro” - in espressioni come Sonderbehandlung, “trattamento speciale” (in realtà la morte nelle camere a gas), Sonderbau, “edificio speciale” (in realtà il bordello del cam po, ri­ servato ai “privilegiati”), e ovviamente Sonderkommando. Q uan­ do, nel mezzo di questo linguaggio in codice, una SS designa una cosa col suo vero nome - quando ad esem pio l’amministrazione di Auschwitz, in una nota del 2 marzo 1943, lascia passare l’e­ 9. B. Bettelheim, “Comportement individuel et comportement de masse dans les situations extremes” (1943), tr. fr. in Survivre, Laffont, Paris 1989, pp. 70,109; tr. it. “Comportamento individuale e di massa in situazioni estreme”, in Sopravvive­ re, Feltrinelli, Milano 1981. 10. H. Arendt, “Le tecniche della scienza sociale e lo studio dei campi di con­ centramento”, cit., p. 123. 11. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 76. 12. H. Langbein, Uomini ad Auschwitz, cit., pp. 19-27. 13. V. Klemperer, un. La lingua del terzo Reich. Taccuino filosofico ( 1947), tr. it. La Giuntina, Firenze 1998.

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spressione Gaskam m er, “cam era a gas” - bisogna pensare a un autentico lapsus.14 Ciò che le parole intendono offuscare è, certamente, la scom­ parsa degli esseri program m ata da questo vasto “laboratorio” . A s­ sassinare non bastava: poiché i morti non erano mai abbastanza scom parsi per la “soluzione finale” . Ben oltre la privazione di una sepoltura - che per gli antichi era il m assim o oltraggio ai morti - i nazisti si im pegnarono, razionalmente o irrazionalmente, a non “lasciare alcuna traccia”, a fare sparire ogni resto ... U che spiega la demenza déì'A ktion 1005, per esem pio, in cui le SS fecero ster­ rare - dalle loro stesse vittime ovviamente - centinaia di migliaia di cadaveri am m assati in fosse comuni, per farli in seguito brucia­ re e fam e disperdere (o riseppellire) le ceneri nella natura.1’ La fine della “soluzione finale” - in ogni senso della parola “fi­ ne” : la fine ma anche il fine, lo scopo ultimo ma anche Tintem m one brutale con la sconfitta militare dei nazisti - richiedeva in ogni caso un'ulteriore prodezza, la scomparsa degli strum enti della scom­ parsa. Ed è per questo che il crematorio V fu distrutto nel gennaio 1945 dalle SS: ci vollero almeno nove cariche esplosive, di cui una di grande potenza posta nei forni refrattari.16Un modo, ancora una volta, per rendere Auschwitz inimmaginabile. D opo la liberazione, d si poteva recare nei luoghi in cui erano state strappate le quattro immagini di qualche mese prima senza vedere altro che rovine, quasi si trattasse di altrettanti “non-luoghi” 17(figura 8). 14. Cfr.J.-C. Pressac, Auschwitz: Technique and Operation o f the Gas Chambers, dt., p. 446. Duplice lapsus, in effetti, poiché la SS ha scrino Gasshammer con due s. Cfr. an­ che E. Kogon, H. Langbein, A. Rùkerl, Les Chambres à gaz secret d'État, dt., pp. 13-23. 15. Cfr. in particolare L. Poliakov, Auschwitz, dt., pp. 49-52. Cfr. anche, tra i tanti esempi, Y. Arad, “Treblinka”, in F. Bédarida, F. Gervereau (a cura di). La Deportation. Le système concentraiionnaire nazi, BDIC, Nantene 1995, p. 154: “Tra la fine di febbraio e l’inizio del marzo 1943, Heinrich Himmler visitò Treblinka. In seguito alla visita, fu lanciata un’operazione per incinerare il corpo delle vittime. Le fosse comuni furono riaperte e furono recuperati i cadaveri per incinerarli in enormi bracieri (i ’roghi'). Le ossa furono frantumate e interrate poi nelle stesse fosse, assieme alle ceneri. Questa in­ cinerazione d d cadaveri, per far sparire le tracce degli omicidi, proseguì fino al luglio del 1943”. Su questo episodio cfr. la testimonianza, tecnica e intollerabile, della ss Franz Suchomel. raccolta da C. Lanzmann, Shoah, tr. (ir. dt., pp. 64-70, dove si precisa che il Sonderkommando di Treblinka veniva cambiato - cioè assassinato - ogni giorno. 16. J.-C . Pressac, Auschwitz: Technique and Operation o f the Gas Chambers, d t., pp. 390-391. 17. Ciò rende tanto più prezioso l’approccio strettamente archeologico dei lavori condotti da Jean-Q aude Pressac, cui rende omaggio P. Vidal-Naquet, "Sur une in-

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Figura 8 Anonimo (russo), R ovine d el crem atorio v d i A uschw itz, 1945*1946. Oswiedm, Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativo n. 908).

Filip M iiller ha d’altronde precisato che, fino al momento del­ la sua distruzione, il crematorio V continuò a “incinerare i cada­ veri dei detenuti morti nel cam po principale”, mentre il gasaggio degli ebrei era stato già interrotto. In seguito, i membri del Sonderkommando avevano dovuto “bruciare sotto stretta sorveglian­ za [...] tutti i docum enti sui detenuti: dossier, verbali di decesso, atti di im putazione e altri documenti del genere” .1* Insom ma, as­ sieme agli strumenti della scom parsa bisognava anche fa r scompa­ rire g /i iv h cra, la memoria della scom parsa. Un m odo, per l’enne­ sima volta, di renderla inimmaginabile. Esiste una perfetta coerenza tra il discorso di G oebbels, ana­ lizzato nel 1942 da Hannah Arendt seguendo il leitmotiv del “Non si reciterà nessun kaddish” 19- ossia vi stermineremo senza lasciare tracce né ricordi - e la distruzione sistem atica degli architcrprétation du grand massacre: Arno Mayer et la 'solution finale’” (1990), in Les Ju ifs, la mémoire et le present, 0, La Découverte, Paris 1991, pp. 262-266. Sulla que­ stione del luogo “rovinato” e del suo uso (anche archeologico) nel film Shoah, cfr. G. Didi-Huberman, “Le lieu malgré tout” (1995), in Phasm es. E ssais su r Vappari­ tion, Minuit, Paris 1998, pp. 228-242. 18. F. Muller, Trois ans dans une chambre i gpz d'A uschw itz, d t., pp. 225,227. 19. H. Arendt, “Non si reciterà nessun kaddish” (1942), tr. it. in A ntisem itism o e identità ebraica, Edizioni di Comunità, Torino 2002.

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vi della distruzione da parte delle SS alla fine della guerra. “L’o­ blio dello sterminio fa parte dello sterm inio” , in effetti.301 nazisti hanno creduto senza dubbio di rendere invisibili gli ebrei, ren­ dendo invisibile la loro distruzione. Si sono talmente dati da fare per raggiungere questo scopo che m olti, perfino tra le vittime, ci hanno creduto, e molti ancora oggi ci credono.2021 Ma “la ragione nella storia” subisce sem pre la confutazione - per quanto minori­ taria, per quanto dispersa, per quanto inconscia o disperata essa sia - di alcuni fatti singolari chediventano allora la cosa più pre­ ziosa per la memoria: il suo potenziale immaginabile. G li archivi della Shoah definiscono certo un territorio incom pleto e fram ­ mentario - ma questo territorio comunque esiste.2223 *

O ra, da questo punto di vista, la fotografia m anifesta un’attitu­ dine particolare - come illustrano esem pi più o meno noti” - a contraddire ogni volontà di scom parsa. È talmente facile scattare una foto. E lo si può fare per le ragioni più diverse, buone o catti­ ve, pubbliche o private, palesi o celate, per violenza o per prote­ sta contro la violenza ecc. Un sem plice pezzo di pellicola - tanto 20. J.-L. Godard, Histoirefs) du ànim a, Gallimard-Gaumont, Paris 1998,1, p. 109. 21. Cfr. la testimonianza disperata dello storico ebreo Itzhak Schipper, poco pri­ ma della sua deportazione a Majdanek: ‘ La storia è scritta, in generale, dai vincitori. Tutto ciò che noi sappiamo dei popoli assassinati è d ò che i loro assassini ce ne vo­ gliono dire. Se i nostri nemid ottengono la vittoria, se sono loro a scrivere la storia di questa guerra [...] possono anche deddere di cancellare completamente dalla me­ moria del mondo, come se non fossimo mai esistiti" (citato da R. E n d , Dans la langue depersonne. Poéste yiddish de l'anéantissement, Le Seuil, Paris 1993, p. 23). Cfr. anche le tesi di S. Felman, “À l'Ige du témoignage: Shoah de G aude Lanzmann", tr. ht. m Au sujet de Sbadì, le film de Claude Lanzmann, Belin, Paris 1990,pp. 55-145. 22. Ed è su questa base che è stato possibile ricostruire minuziosamente il mec­ canismo di sterminio nell’opera capitale di R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa (1985), tr. it. Einaudi, Torino 1995. Cfr. più di recente J. Frcdj (a cura di), Les Archives de la Shoah, CDJC-L’Harmattan, Paris 1998. 23. G r. l’importante bibliografia di U. Wrocklage, Fotografie und Holocaust. Annotierte Bibliographic, Fritz Bauer Instimi, Frankfurt 1998. Tra i prindpali studi, cfr. R. Boguslawska-Swiebocka, T. Ceglowska, KL Auschwitz. Fotografie dokumentalne, d t.; T. Swiebocka (a cura di), Auschwitz. A History in Photographs, d t.; S. Milton, ‘ Images of the Holocaust", in Holocaust and Cenoàde Studies, 1,1986, n. 1, pp. 27-61; n. 2, pp. 193-216; D. Hoffmann, ‘ Fotografiene Lager. Ùberlegungen zu einer Fotogeschichte deutscher Konzentrationslager", in Fotogeschichte, n. 54, 1994, pp. 3-20. Segnaliamo il caso eccezionale delT‘ album d’Auschwitz": P. Hell-

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piccolo da poterlo nascondere in un tubetto di dentifricio - può dar luogo a un numero infinito di sviluppi e di ingrandimenti d ’ogni formato. L a fotografia è legata mani e piedi all’immagine e al­ la memoria: ne possiede l’eminente potenza epidem ica £ per questo fu così difficile sradicarla ad Auschwitz, almeno quanto fu difficile sradicare la memoria dai corpi dei prigionieri. La "ragione nella storia” ? È il segreto di stato posto sullo ster­ minio di m assa. È l’interdizione assoluta di fotografare le esazioni - pure gigantesche - degli Einsatzgruppen nel 1941.” Sono le scritte nei dintorni dei campi: “Fotografieren verboten! Vietato l’ingresso! Si verrà sparati [sic] senza preavviso! Vietato fotogra­ fare!” .26 È la circolare di R udolf H òss, il comandante di Au­ schwitz, in data 2 febbraio 1943: "Segnalo una volta ancora che è vietato scattare foto nei dintorni del cam po. Punirò severamente coloro che non rispettano quest’ordine” .27 Ma vietare significava arrestare un’epidem ia di immagini che era già cominciata e non poteva più ferm arsi: la sua espansione era sovrana come quella di un desiderio inconscio. Astuzia del­ l’immagine contro ragione nella storia: ovunque circolavano del­ le foto - queste im m agini m algrado tutto - per le migliori e le peg­ giori ragioni. A cominciare dalle terribili inquadrature dei m assa­ cri commessi dagli Einsatzgruppen, immagini realizzate perlopiù dagli stessi assassini.2* R udolf H òss non aveva esitato dal canto proprio - e m algrado la sua stessa circolare - a offrire al ministro della giustizia, O tto Thierack, un album di fotografie scattate nel

.2A

man, L'Album d'Auschwitz. D ’après un album découvert par Lili Meier, survivante du camp de concentration (1981), tr. fr. Le Seuil, Paris 1983. 24. Cfr. G . Didi-Hubennan, Mémorandum de la peste. Lefléau d'imaginer, Chri­ stian Bourgois, Paris 1983. 23. Cfr. R. Hilberg, op. d i., pp. 335,402. Hilberg cita diverse fonti, tra cui una lettera del 12 novembre 1941 in cui Heydrich in persona “vietò ai suoi uomini di fa­ re fotografie. Per le riprese ufficiali, le pellicole dovevano venire inviate al RSHA iv-A1, non sviluppate e inoltrate come segreti del Reich (Gebeime Reicbssacbe). Heyd­ rich ordinava anche ai capi della Poliria d’ordine di ricercare tutte le fotografie che fossero in circolazione nelle loro zone*. 26. Iscrizione su un cartello di avvertimento situato nei dintorni del campo di Natzweiler. 27. Citato da R. Boguslawska-Swiebocka, T. Ceglowska, KL Auschwitz Fotogra­ fie dokumentalne, cit., p. 17. 28. Cfr. la recente mostra Verbrechen der Webrmacbt. Dimensionen des Vemichtungskrieges 1941-1944, Hamburger Edition, Hamburg 2002.

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cam po di Auschwitz.29301 D a un lato, quest’uso della fotografia sconfinava (privatamente) nella pornografia del m assacro. D al­ l’altro, l’amministrazione nazista era talmente ossessionata dall’a­ bitudine di registrare tutto - era un punto d ’orgoglio, una specie di narcisism o burocratico - che tendeva a fotografare tutto quan­ to si faceva nel cam po, benché lo sterminio degli ebrei nelle ca­ mere a gas restasse un "segreto di stato”. A d Auschwitz entrarono in funzione due laboratori di foto­ grafia, nientemeno. È stupefacente in un luogo del genere. M a b i­ sogna aspettarsi di tutto da una capitale come lo fu Auschwitz, la capitale della morte e della scom parsa di milioni di esseri umani. N el prim o laboratorio, alle dirette dipendenze del "servizio di ri­ conoscim ento” (Erkennungsdienst), dai dieci ai dodici prigionie­ ri lavoravano in permanenza sotto la direzione delle SS Bernhardt W alter ed Ernst Hofm ann, e sem bra che lì l’attività fosse piutto­ sto intensa - si trattava essenzialmente di ritratti segnaletici di de­ tenuti politici. L e foto di esecuzioni, di torture e di corpi arrostiti furono scattate e sviluppate direttamente dalle SS. Q secondo la­ boratorio, più piccolo, era quello dell’"U fficio delle costruzioni” {Zentralbauleitung): aperto dalla fine del 1941 all’inizio del 1942, fu diretto dalla SS Dietrich Kamann, che mise su un intero archi­ vio fotografico sulle installazioni del cam po.10 N é va dim enticata, naturalmente, tutta l’iconografia "m edica” sui m ostruosi esperi­ menti condotti da Jo se f M engele e com pari su donne, uomini e bam bini di Auschwitz.11 Quando, verso la fine della guerra, i nazisti bruciarono in massa tutti i loro archivi, i prigionieri d ie li servivano come schiavi appro­ fittarono della confusione generale per salvare - sottrarre, nascon­ dere, disperdere - quante più immagini possibile. Circa quarantamila cliché restano oggi di questa documentazione su Auschwitz, 29. Cfr. R. Hilberg, op. cit., p. 1030. 30. Cfr. R. Boguslawska-Swiebocka, T. Swiebocka, “Auschwitz in Documentary Photographs”, cit., pp. 35-42; l). Wrocklage, “Architektur zur ‘Vemichtung durch Arbeit’. Das Album der Bauleitung d. Waffen-SS u. Polizei K.L. Auschwitz”, in Fotogeschichte, n. 54,1994, pp. 31-43. Questo archivio della Bauleitung costituisce la fonte principale dei lavori di J.-C . Pressac, Auschwitz: Technique and Operation o f the Gas Chambers, cit.; Le macchine dello sterminio, cit. Occorre precisare che, dei circa quarantamila cliché pervenutici, trentanovemila sono foto segnaletiche. 31. Cfr. R.J. Lifton, I medici nazisti. La psicologia del genocidio ( 1986), tr. it. Riz­ zoli, Milano 2003.

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che pure si è cercato di distruggere sistematicamente, il che la dice lunga sul numero probabilmente enorme di fotografìe che riempi­ vano i cassetti nel momento in cui il campo era ancora in funzione.” ★

Basta aver posato una volta lo sguardo su questo resto di im­ magini, su questo erratico corpus di im m agini m algrado tutto, per capire che non è più possibile parlare di Auschwitz nei termini assoluti - in genere ben intenzionati e apparentem ente filosofici, ma in realtà pigri” - dell’ “indicibile” e dell’“inim m aginabile” . Le quattro foto scattate nell'agosto del 1944 dai membri del Sonderkommando guardano all’inimmaginabile di cui si parla spesso ancora oggi non appena si cita la Shoah - seconda epoca dell’i­ nimmaginabile - e lo confutano tragicamente. Si è detto che Au­ schwitz è im pensabile. M a Hannah Arendt ha giustam ente insisti­ to sul fatto che là dove il pensiero fallisce, proprio là il pensiero deve insistere e persistere, tentando magari vie diverse. A u­ schwitz scardina ogni pensiero giuridico esistente, ogni nozione di colpa e di giustizia? Allora bisogna ripensare daccapo la scien­ za politica e il diritto.” Auschwitz scardina ogni pensiero politico 324 32. Cfr. R. Boguslawska-Swiebocka, T. Ceglowska, KL Auschwitz Fotografie dokumentalne, d t., p. 18, in cui è citata la testimonianza di Bronislaw Jureczek: ’‘Quasi all’ultimo momento, d ordinarono di bruciare nella stufa in ceramica del la­ boratorio tutti i negativi e tutte le foto sviluppate che si trovavano ntU’Erkennungsdienst. G mettemmo all’inizio tutu la catta fotografica e le fotografie ancora immer­ se nell’acqua, e poi una sfilza di negativi e positivi. Il fatto che ne avessimo una tale quantità impedì al fumo di uscire. Quando accendemmo, eravamo convinti che solo una parte delle fotografie e d à negativi, quella più vicino allo sportello della stufa, sarebbe bruciata, e poi per mancanza d’aria il fuoco si sarebbe spento. [...] Non so­ lo, ma di proposito, col pretesto della fretta, dispersi una parte di questo materiale nelle diverse stanze del laboratorio. Sapevo che con una evacuazione così rapida nes­ suno avrebbe avuto il tempo di portare via tutto e qualcosa si sarebbe conservato”. 33. Cfr. A. Wieviorka, Deportation etgénocide, d t., p. 165: “In storia, la nozione di indicibile sembra denunciare più che altro pigrizia. Essa ha esonerato lo storico dal suo compito, che è appunto quello di leggere le testimonianze d à deportati, di interrogarsi su quesu fonte capitale della storia della deportazione, importante an­ che per i suoi silenzi” - e da parte mia aggiungerà: per le sue immagini. 34. H. Arendt, “L’immagine dell’inferno” (1946), tr. it. in L'immagine dell'infer­ no. Scritti sul totalitarismo, d t., p. 103; H. Arendt, “Auschwitz sotto processo”, d t., pp. 201-216. Queste riflessioni sono state riprese poi da G. Agamben, “Che cos’è un cam po?*, in Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, pp. 35-41.

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esistente, o ogni antropologia? Allora bisogna ripensare e rifon­ dare le scienze umane nel loro com plesso.” In tutto questo, il ruolo dello storico è ovviamente capitale. Non può e non deve “ammettere che ci si sbarazzi del problem a posto dal genocidio degli ebrei confinandolo nell’im pensabile. [Il genocidio] è stato pensato e dunque era qualcosa di pensabi­ le”.3536 In tal senso vanno rilette anche le critiche rivolte da Primo Levi alle speculazioni sull’“ incom unicabilità” della testim onian­ za concentrazionaria.37 L’esistenza stessa e la possibilità di una te­ stimonianza simile - la sua enunciazione m algrado tutto - confu­ tano seccam ente quest’idea, l’idea che Auschwitz sia indicibile. Semmai, è a lavorare nello scavo vuoto della parola che la testi­ monianza ci invita e obbliga: lavoro duro, dato che si tratta di una descrizione della m orte al lavoro, con le urla inarticolate e i silen­ zi che tutto ciò com porta.38 Parlare di Auschwitz in termini di in­ dicibile non significa avvicinarsi ad Auschwitz, al contrario signi­ fica allontanare Auschwitz in una regione che G iorgio Agamben ha giustam ente descritto come adorazione mistica, ossia come ri­ petizione inconsapevole dello stesso arcanum nazista.39 O ra, con l’immagine bisogna fare, con grande rigore teorico, 35. H. Arendt. "L’immagine dell’inferno", cit., p. 103; H. Arendt, “Le tecniche della scienza sociale e lo studio dei campi di concentramento”, cit., pp. 113,131. 36. P. Vidal-Naquet, "Preface", in G . Decrop, Dei camps au genocide: la politique de l’impensable, Presses Universitaires, Grenoble 1995, p. 7. 37. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., pp. 68-82. Sulle critiche - esagerate - di Levi all’"oscurità” di Paul Celan, cfr. E. Traverso, L’Histoire décbirée. Essai sur Au­ schwitz et les intellectuels, Cerf, Paris 1997, p. 153; C. Mouchard, “Tei’? ‘Maintenant’? Témoignages et oeuvres”, in C. Mouchard, A. Wieviorka (a cura di). La Shoah. Témoignages, savoirs, oeuvres, Presses Universitaires de Vincennes-Cercil, Saint-Denis 1999, pp. 225-260; E Carasso, "Primo Levi, le parti pris de la darté” , in C. Mouchard. A. Wieviorka (a cura di), op. cit., pp. 271 -281. 38. Sulla testimonianza cfr. A. Wieviorka, Deportation et genocide, cit., pp. 161166; A. Wieviorka, L'era del testimone ( 1998), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1999. 39. Cfr. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., pp. 29-30,146: “Ma per­ ché indicibile? Perché conferire allo sterminio il prestigio della mistica? [...] Dire che Auschwitz è ‘indicibile* o ‘incomprensibile’ equivale a euphèmein, ad adorarlo in silenzio, come si fa con un dio [...]. Per questo, coloro che rivendicano oggi l'indicibilità di Auschwitz dovrebbero essere più cauti nelle loro affermazioni. Se essi inten­ dono dire che Auschwitz fu un evento unico, di fronte al quale il testimone deve in qualche modo sottoporre ogni sua parola alla prova di un’im possibilità di dire, allora essi hanno ragione. Ma se, coniugando unicità e indicibilità, fanno di Auschwitz una realtà assolutamente separata dal linguaggio [...] allora essi ripetono inconsapevol­ mente il gesto dei nazisti, sono segretamente solidali con Yarcanum im perir.

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ciò che già facciam o, senza dubbio più facilmente (Foucault ci ha aiutati in questo), col linguaggio. Infatti, in ogni produzione testi­ moniale, in ogni atto di memoria i due - linguaggio e immagine sono assolutam ente solidali e si soccorrono a vicenda: un’imma­ gine sorge spesso là dove mancano le parole, e una parola sorge spesso là dove sem bra mancare l'immaginazione. La "verità” di Auschwitz, se questa espressione ha un senso, non è né più né meno inim m aginabile di quanto sia indicibile.40 Se l’orrore dei campi sfida l’immaginazione, tanto più preziosa e necessaria sarà allora ogni im m agine strappata a una simile esperienza! Se il ter­ rore dei campi ha funzionato come un meccanismo di scom parsa generalizzata, tanto più preziosa e necessaria sarà allora ogni ap­ parizione - per quanto frammentaria, per quanto difficile da guardare e interpretare - in cui si renda visibile una sola rotella di questo m eccanism o!41 Il discorso dell’inimmaginabile conosce due regimi differenti e strettamente simmetrici. Uno è quello di un estetism o che tende a misconoscere la storia nelle sue concrete singolarità. L’altro è quello di uno storicism o che tende a misconoscere l’immagine nel­ le sue specificità formali. G li esempi abbondano. Va notato so ­ prattutto, in proposito, che certe importanti opere d ’arte hanno suscitato nei commentatori abusive generalizzazioni suU’“invisibi­ 40. Qui sta, a mio avviso, il vero limite delle pur pregevoli riflessioni di G . Agamben, Quel che resta di Auschwitz, d t., pp. 8,49: “Questa verità è [...] inimma­ ginabile [...]. La Gorgona e colui che l’ha vista, il musulmano e colui che testimonia per lui, sono un unico sguardo, un’unica impossibilità di vedere”. Parlare così signi­ fica, tra le tante cose, ignorare tutta la produzione fotografica di Éric Schwab: ebreo, catturato dai tedeschi, evaso dopo sei settimane di internamento, Schwab nel 194? seguì l’avanzata dell’eserdto americano, scoprendo (tra gli altri) i campi di Buchenwald e Dachau. Non sapeva ancora quale fosse stato il destino delia madre, deportata a Theresienstadt. In queste condizioni realizzò delle immagini - chiara­ mente enfatiche, di sicuro indimenticabili - dei “musulmani”, questi cadaveri vi­ venti che egli in effetti riuscì a guardare, scorgendovi senz’altro il destino proprio e dei suoi. Devo queste informazioni su Schwab, e altre ancora, al mirabile lavoro preparatorio di Clément Chéroux per la mostra Mémoire des camps. Photographies des camps de concentration et determ ination nazis (1933-1999), Marval, Paris 2001. E d tengo a ringraziarlo calorosamente. 41. Così scrive Serge Klarsfeld a proposito Album d‘'Auschwitz: “Di que­ st’album ritrovato da una vecchia deportata ho detto [ai responsabili del memoriale Yad Vashem], quando nel 1980 l’ho donato loro: 'Un giorno, sarà come i Mano­ scritti del Mar Morto, perché sono le uniche foto autentiche di ebrd che giungono in un campo di concentramento’” (S. Klarsfeld, *À la recherche du témoignage authentique”, in La Shoah. Témoignages, savoirs, ceuvres, cit., p. 50).

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lità del genocidio” . C osì, ad esem pio, le scelte formali di Shoah, il film di G au d e Lanzmann, sono servite da alibi per tutto un d i­ scorso - sia morale sia estetico - sulTirrappresentabile, l’infigurabile, l’invisibile e l’inim m agm abile.. *2 Q ueste scelte formali van­ no tuttavia considerate nella loro specificità, e dunque nella loro relatività: non esprim ono alcuna regola. Pur rinunciando a utiliz­ zare qualsiasi “docum ento d ’epoca” , il film Shoah non perm ette di formulare alcun giudizio perentorio sullo statuto degli archivi fo­ tografici in generale.4* Piuttosto, il film propone una trama im­ pressionante - di una decina d ’ore - di im m agini visive e sonore, di volti, di parole e di luoghi filmati, il tutto pervaso da scelte for­ mali e da un impegno estrem o sulla questione del figurabile.** D al canto proprio, il D ackau-Projekt di Jochen G erz e il suo invisibile M onumento contro il razzism o, a Sarrebriick, hanno scatenato a loro volta numerosi dibattiti sulla Shoah: “La Shoah fu e resta senza immagine” , scrive G erard W ajcman; è addirittura una cosa “senza traccia visibile e inim m aginabile”; “l’oggetto in­ visibile e im pensabile per eccellenza” ; la “produzione di un Ir­ rappresentabile” ; un “disastro assoluto e assolutam ente privo di sguardo” ; una “distruzione senza rovine”; “ al di là dell’im magi­ nazione e al di qua della m em oria”; una “cosa senza sguardo” dunque - affinché si im ponesse a noi “l’assenza di ogni immagine delle camere a gas” .424345 L e due m isere foto scattate attraverso la 42. Cfr. in particolare G . Koch, “Transformations esthédques dans la representa­ tion de l’inimaginable” (1986), tr. fr. in Au sujet de ShoaH le film de Claude Lanzmann, d t.( pp. 157-166 ("[...] rifiuta ogni rappresentazione concreta per imma­ gini [...] e con l’assenza di immagini offre una rappresentazione dell’inimmaginabi­ le’ ); I. Ansar, Screening the Holocaust. Cinema's Images o f the Unimaginable, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1988; S. Fdman, “À l’lge du témoignage’ , dt., pp. 55-145. Cfr., inversamente, la reazione di Annc-Lise Stem, sopravvissuta d d cam pi “ [...] posso capire forse Sboshana Felman quando parla di ‘frantumazione dell’atto stesso di testimonianza oculare’ o quando presenta la sua tesi sull’Olocausto come ‘evento senza testimone, evento il cui progetto storico è l’obliterazione stessa d d propri testimoni’. Al tempo stesso, tuttavia, la cosa mi rivolta e mi rifiuto di com­ prenderla’ (A.-L. Stem, “Sois déportée... et témoigne! Psychanalyser, témoigner double-bind?", in La Shoah. Témoignages, savotrs, oeuvres, dt., p. 21). 43. Mi sembra inutile riprendere qui le fila del dibattito mal posto tra Claude Lanzmann e Jorge Semprun (cfr. Le Monde des déboli, mai 2000, pp. 11-15) sull’esi­ stenza e l’utilità di un ipotetico film d’archivio sulle camere a gas. 44. Cfr. G . Didi-Huberman, “ Le Lieu malgré tout", cit., pp. 228-242. 45. G . Wajcman, L'Objet du siècle, Verdier, Paris 1998, pp. 21,23.236,239,244, 247-248 e passim.

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porta di una camera a gas, nel crem atorio V di Auschwitz, nell’a­ gosto del 1944, non bastano a confutare questa elegante estetica negativa? E in che m odo un simile atto d ’im m agine può essere in­ terpretato e decodificato da un pensiero che mediti, pure con giustizia, su ll’esercizio dell’arte? uC ’è un limite oltre il quale l’e­ sercizio di un’arte, qualunque essa sia, diventa un insulto o una disgrazia” , ha scritto M aurice Blanchot.46 ★

È davvero significativo che Blanchot, pensatore per antonom a­ sia della negatività senza respiro - senza tregua, senza sintesi - , non abbia m ai parlato di Auschwitz rifacendosi all’autorità asso­ luta dell’inimmaginabile o dell’invisibile. N ei cam pi, egli ha scrit­ to invece, “l’invisibile si è reso visibile per sem pre” .47489M a come pensare questo paradosso? G eorges Bataille può forse darci una mano, lui che non ha avuto paura di replicare al silenzio fatto ca­ lare da Sartre sul problem a delle camere a gas nelle R iflessioni sulla questione ebraica.** O ra, Bataille - pensatore per antonom a­ sia dell’informe - presenta innanzitutto Auschwitz in termini d i... sim ile: Nel fatto di essere un uomo c’è generalmente qualcosa di pesan­ te, di scoraggiante, che è necessario sormontare. Ma questo peso e questa ripugnanza non sono mai stati tanto pesanti quanto ad Au­ schwitz. Come voi e me, i responsabili di Auschwitz avevano delle narici, una bocca, una voce, una ragione umana, potevano accop­ piarsi ed avere figli: come le Piramidi o l’Acropoli, Auschwitz è il fat­ to, il segno dell’uomo. L’immagine dell’uomo è inseparabile ormai da una camera a gas.. .**

Parlare qui di im m agine dell’uomo significa fare di Auschwitz, ormai, un problem a fondamentale per l’antropologia: Auschwitz è inseparabile da noi, scrive giustam ente Bataille. 11 problem a non 46. M. Blanchot, L’Écriture du désastre, Gallimard, Paris 1980, p. 132; tr. it. La scrittura del disastro, SE, Milano 1990. 47. Ibidem, p. 129. 48. G. Bataille, "Sam e” (1947), in CEuvres completes, Xl, Gallimard, Paris 1988, pp. 226-228. Sul contesto di questo dibattito cfr. E. Traverso, op. cit., pp. 214-213. 49. G. Bataille, "Sartre”, cit., p. 226.

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è quello di confondere le vittime coi carnefici, ovviamente. Ma ciò che conta è il fatto antropologico - il fatto della specie um ana, come avrebbe scritto Robert Anteime quello stesso anno*0 - il fat­ to che un sim ile abbia torturato, sfigurato e ucciso un proprio si­ mile: “ [ ...] noi non siam o soltanto le vittime possibili dei carnefi­ ci: i carnefici sono i nostri sim ili” .5051 E Bataille - pensatore per an­ tonom asia dell’im possibile - aveva com preso bene che bisognava parlare dei cam pi come del possibile stesso, il “possibile di A u­ schwitz” .5253D ire questo non significa banalizzare l’orrore. Signifi­ ca al contrario prendere sul serio l’esperienza concentrazionaria così come la descrive Hermann Langbein: Tutti i parametri di riferimento della vita normale perdono di va­ lidità in un campo di sterminio. Auschwitz era camere a gas, selezio­ ni, processioni di esseri umani che andavano alla morte come mario­ nette [...]. H muro nero e la traccia di sangue sulla strada del Lager che stava a indicare il percorso delTautocairo su cui venivano tra­ sportati al crematorio i cadaveri dei fucilati: l’anonimato della morte che non consentiva neppure la nobiltà del martino; e le conniventi sbornie dei prigionieri con i loro guardiani. [...] Ad Auschwitz la gente che moriva di fame era una visione quotidiana come quella dei kapòben pasciuti [...] Non cera nulla ad Auschwitz che non fosse immaginabile, nessun estremo che fosse inaudito. Tutto era possibi­ le, letteralmente tutto.”

Se il pensiero di Bataille rimane prossim o a questa terribile possibilità um ana, è perché riesce a enunciare, sin da subito, il le­ game indissolubile tra l’immagine (la produzione del simile) e l’aggressività (la distruzione del sim ile).54 In un racconto scrìtto in piena guerra, Bataille aveva immaginato un m ondo crudele in cui, diceva, “la morte stessa partecipava alla festa” .55 Attraverso i 50. R. Anteime, La specie umana (1947), tr. it. Einaudi, Torino 1997. 51. G . Bataille, “Réflexions sur le bourreau et la vittim e* (1947), in (Euvres completes, XI, Gallimard, Paris 1988, p. 266. 52. Ibidem, p. 267. 53. H. Langbein, Uomini ad Auschwitz, cit., pp. 98-99. 54. Cfr. G. Didi-Huberman, La Ressemblance informe, ou le gai savoir visuel selon Georges Bataille, Macula, Paris 1995. Il legame tra ('immaginario e l’aggressività è stato teorizzato - in maniera abbastanza batailliana - da J. Lacan, “L'aggressività in psicoanalisi" (1948), tr. it. in Scritti, Einaudi, Torino 1974, pp. 95-118. 55. G . Bataille, Madame Edwarda (1941), in (Euvres completes, in, Gallimard, Paris 1971, p. 22; tr. it. Madame Edwarda, ES, Milano 2004.

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A DISPETTO DI OGNI INIMMAGINABILE

racconti dei sopravvissuti di Auschwitz accediam o a un reale di una crudeltà infinitamente peggiore, in cui diventa possibile che la festa stessa partecipi alla morte'. Alla fine di febbraio [1944], mentre di sera andavo al lavoro con la squadra notturna, vidi nel vestiario del crematorio v centinaia di cadaveri che dovevano essere carbonizzati. Nella camera del capo del commando, che comunicava attraverso una porta col locale di incinerazione, si festeggiava la promozione di Johann Gorges al gra­ do di Unterscbarfuhrer. [...] I coperti erano disposti sulla lunga ta­ vola della camera del capo del commando, accompagnati da una no­ tevole quantità di vettovaglie provenienti dai paesi occupati: conser­ ve, salsicce, formaggi, olive, sardine. Vodka polacca e tante sigarette completavano il festino. Una dozzina di superiori SS erano arrivati al crematorio per festeggiare con Gorges. Le bevande e il buon cibo non tardarono a fare il loro effetto. Uno di loro, che si era portato dietro la fisarmonica, si mise ad accompagnare i convitati che chie­ devano di cantare. [...] Risate, canti e sbraitìi coprivano il frastuono della camera di incinerazione, ma dalla stanza in cui eravamo pote­ vamo sentire le vibrazioni e i sibili dei ventilatori, le grida dei kapò e lo stridore degli attizzatoi nelle fornaci.’* 65

56. F. Muller, Trots am dans urte chambre à gaz d‘Auschwitz, cit., pp. 133-134.

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3 NELL’OCCHIO DELLA STORIA

Per ricordare occorre immaginare. Filip Miiller, nelle sue “me­ morie”, lascia dunque avvenire l’immagine e ci abbandona alla sua violenta coercizione. Una coercizione duplice, fatta di sem plicità e complessità. Semplicità di una monade, in m odo tale che l’immagi­ ne sopraggiunge nel testo - e si impone alla lettura - immediata­ mente, come un tutto da cui non possiam o togliere alcun elemen­ to, per quanto minimo. Com plessità di un montaggio: è il contra­ sto lacerante, nella stessa e unica esperienza, di due piani che tutto contrappone. I corpi satolli e pieni contro i corpi bruciati e ridotti in cenere; la gozzoviglia dei carnefici contro il lavoro infernale de­ gli schiavi, intenti a “smuovere”, come si diceva allora, i loro simili ormai morti; i canti e il suono della fisarmonica contro il sibilo lu­ gubre dei ventilatori del crem atorio... Ciò è talmente \m immagi­ ne che David Olère, altro sopravvissuto del Sonderkommando di Auschwitz, disegnerà poi questa scena con precisione, nel 1947, per meglio ricordarsela e per permettere a noi tutti - a noi che non l’abbiamo vista di persona - di rappresentarcela.1 Senza dubbio, possiam o parlare di questa immagine in termini 1. D disegno di David Olère è riprodotto in J.-C. Pressac, Auschwitz: Techni­ que and Operation o f the Gas Chambers, d t., p. 2 5 9 .1 cadaveri (in secondo piano) sono quelli di un convoglio di ebrei francesi; sulla tavola delle SS (in primo piano) è visibile il “bottino": sigarette Gauloises e vino Bordeaux. Su David Olère cfr. S. Klarsfeld, David Olère, 1902-1985: un peintre au Sonderkommando à Auschwitz, Beate Klarsfeld Foundation, New York 1989. Sui disegni d d campi cfr. soprattut­ to J.P. Czamecki, Last Traces. The Lost Art o f Auschwitz, Atheneum, New York 1989; D. Schulmann, “D ’écrire l’indidble à dessiner rirreprésentable”, in J.-P. Ameline (cura di), Face à Tbistoire, 1933-1996. Vaniste moderne devant l'événemeni historique, Centre Georges Pompidou-Flammarion, Paris 1996, pp. 154-157.

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di après-coup. M a a patto di precisare che \'après-coup si può for­ mare nell’immediato, che può far parte integrante dell’insorgere stesso dell’immagine. All’istante, esso trasform a la m onade tem ­ porale dell’evento in un com plesso m o n ta lo d i tem pi. Com e se l’après-coup fosse qui sim ultaneo al coup. Ecco perché, nell’ur­ genza di testim oniare su un presente al quale il testimone sa be­ nissim o che non sopravviverà, nelle pieghe stesse dell’evento, sorgono - m algrado tutto - le immagini. Penso ad esem pio ai Ro­ to li d i Auschwitz seppelliti dai membri del Sonderkommando po­ co prim a della loro liquidazione: penso a Zalmen Gradow ski e al suo tenace lirism o ("V edi la visione sim bolica: una terra bianca e una coperta nera form ata dalla m assa umana che avanza su que­ sto suolo im m acolato” ).234Penso a Leib Langfus che scarabocchia la sua testim onianza com e una sequenza di piani visivi e sonori brevemente descritti e restituiti come tali, senza alcun commen­ to, senza alcun "pensiero” : il vecchio rabbino che si spoglia e pe­ netra nella camera a gas senza sm ettere un istante di cantare; gli ebrei ungheresi che vogliono brindare “Alla v ita!” coi membri del Sonderkommando in lacrime; la SS Forst che si piazza davanti alla porta della camera a gas per toccare il sesso di ogni giovane donna che en tra.. .* Dinanzi a questi racconti, così come dinanzi alle quattro foto dell’agosto 1944, si perde la convinzione che l’immagine sorga là dove il pensiero - la “riflessione” , per dire ancora meglio - sem ­ bra im possibile o quantomeno sospeso: stupefatto, stupito. Pro­ prio là, semmai, la memoria è necessaria. W alter Benjamin lo ha giustam ente scritto, poco prim a di suicidarsi, nel 1940: Supponiamo improvvisamente bloccato il movimento del pensie­ r o - s i produrrà allora in una costellazione sovraccarica di tensioni una sorta di shock di ritorno; una scossa che consentirà all'immagine [...] di organizzarsi all’improvviso, di costituirsi come m onade.. .*

Hannah Arendt lo avrebbe poi ribadito a m odo suo, proprio nel momento in cui si svolgeva il processo di Auschwitz:

2. Citato da B. Mark, Des voix dans la nuit, cit., p. 204. 3. Ibidem, pp. 245-251. 4. W. Benjamin, Sul concetto di storia (1940), tr. it. Einaudi, Torino 1997, p. 69.

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Invece delia verità, semmai, il lettore potrà trovare qui dei mo­ menti di verità. E solo questi momenti possono permetterci di arti­ colare questo caos di male e di depravazione. Sono momenti che sorgono inaspettatamente, come oasi nel deserto. Sono aneddoti, che nella loro brevità dicono tutto.’ *

Ecco cosa sono esattam ente le quattro immagini prese dai membri del Sonderkom m ando: "m om enti di verità” . Poca roba dunque: solam ente quattro istanti dell’agosto 1944. M a è qualco­ sa di inestim abile, perché è quasi "tutto ciò di cui noi disponiam o [visivamente] su questo caos di orrore”. E noi, davanti a questo? Zalmen Gradow ski ha scritto che per sostenere la "visione” delle cose che racconta, l’ipotetico lettore dovrà fare come ha fatto lui: "prendere congedo” da tutto. D ai suoi padri, dai suoi punti di ri­ ferimento, dal suo m ondo, dal suo pensiero. "D opo aver visto queste immagini crudeli, non vorrai più vivere in un m ondo in cui si possono perpetrare azioni così ignobili. Prendi congedo dai tuoi vecchi e dalle tue conoscenze, poiché sicuramente, dopo aver visto le azioni abominevoli di un popolo cosiddetto coltiva­ to, vorrai cancellare il tuo nome dalla fam iglia um ana.” O ra, per poter sostenere l’immaginazione di queste immagini, egli dice, bisogna che "il tuo cuore si trasform i in pietra [...] e il tuo occhio in macchina fotografica” .56 Le quattro immagini strappate al reale di Auschwitz manife­ stano bene questa condizione paradossale: im m ediatezza della monade (sono delle istantanee, sono i "dati im m ediati” e im per­ sonali di un certo stato d ’orrore fissato dalla luce) e com plessità del m ontaggio intrinseco (per l’inquadratura c’è stato bisogno probabilmente di un piano collettivo, di una “previsione” ,7e ogni 5. H. Arendt, “Auschwitz sotto processo” ( 1966), tr. it. in Responsabilità e giu­ dizio, Einaudi, Torino 2004, p. 216. Dopo seguono alcune immagini concrete di orrore e di assurdità. Il testo poi si conclude con le seguenti parole: “Questo acca­ de quando gli uomini decidono di mettere il mondo sottosopra”. 6. Citato da B. Mark, op. cit., p. 194. 7. Cfr. M. Frizot, “Faire face, faire signe. La photographie, sa part d'histoire”, in Face à l ’bistoire, cit., p. 50: “Il concetto di fotografìa di evento o di fotografia di storia va costantemente rielaborato alla luce della storia stessa, imprevedibile. [...] [Ma] l’immagine fotografica è un’immagine in qualche modo pre-vista”.

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sequenza costituisce a m odo suo una risposta ai vincoli della visi­ bilità: strappare l’immagine nascondendosi nella cam era a gas, strappare l’immagine nascondendo la macchina fotografica tra le mani e in mezzo agli abiti). Verità (indubitabilm ente, dinanzi a tutto questo, siam o com e nell’occhio stesso del ciclone) e oscurità (il fumo nasconde la struttura delle fosse, il movimento del foto­ grafo rende sfuocato e incom prensibile quanto accade nel bosco di betulle). O ra, è proprio questo - questo doppio regim e di ogni imma­ gine - che disturba spesso lo storico e lo distoglie da un "m ate­ riale” simile. Annette W ieviorka ha parlato giustam ente, in pro­ posito, di una diffidenza suscitata negli storici dalle testim o­ nianze, scrìtte e orali, dei sopravvissuti: le testimonianze sono per definizione soggettive e condannate all’inesattezza.8 E sse in­ trattengono con la verità di cui rendono testimonianza un rap­ porto framm entario e lacunoso, ma sono in fondo tutto ciò di cui noi disponiam o per capire e immaginare la vita concentrazionaria dall’interno.9 E noi dobbiam o alle quattro foto dell’a­ gosto 1944 un riconoscim ento equivalente, benché gli storici abbiano qualche difficoltà ad am m etterlo.101 Perché questa difficoltà? Perché spesso dom andiam o troppo o troppo poco all’immagine. Se le dom andiam o troppo - cioè “tutta la verità” - sarem o ben presto delusi: le immagini non sono che lembi strappati, pezzi di pellicola. E sse sono dunque inade­ guate-. ciò che noi vediam o (quattro immagini fisse e silenziose, un numero lim itato di cadaveri, di membri del Sonderkom m ando, di donne in cammino verso la morte) è davvero poco rispetto a ciò che noi sappiam o (milioni di morti, il frastuono dei forni, il calore delle braci, le vittime “strem ate dalla disperazione”)." Q ueste immagini sono addirittura, in qualche m odo, inesatte-. 8. Cfr. A. Wieviorka, L’era del testimone, cit., p. 15. Cfr. anche M. Poliak, N. Heinich, “Le témoignage”, in Actes de la recherche en sciences sodales, n. 62-63, 1986, pp. 3-29; M. Pollak, “La gestion de l’indicible", in Actes de la recherche en sciences sodales, n. 62-63,1986, pp. 30-53. 9. Cfr. P. Levi, 1 sommersi e i salvati, cit., pp. 7-8. 10. Cfr. A. Wieviorka, Deportation et génodde, cit., pp. 161-166; A. Wie­ viorka, L’era del testimone, cit., pp. 110,127, che non riflette sulla fotografia come forma di testimonianza. 11. L’espressione è di Filip Muller, citata da C. Lanzmann, Shoah, tr. fr. cit., p. 179.

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quantomeno a esse manca quell’esattezza che ci consentirebbe di identificare qualcuno, di com prendere la disposizione dei cada­ veri nelle fosse, oppure di vedere come le donne erano spinte dal­ le SS nelle camere a gas. Altrim enti, dom andiam o troppo poco alle immagini: rele­ gandole subito nella sfera del sim ulacro - cosa difficile, a dire il vero, nel caso in questione - le estrom ettiam o dal cam po stori­ co. Relegandole subito nella sfera del documento - cosa assai più facile e corrente - ne cancelliam o la fenom enologia, la specifi­ cità, la sostanza stessa. In ogni caso, il risultato sarà lo stesso: lo storico ne trae la sensazione che “il sistem a concentrazionario non si illu stra" \ che “le immagini, di qualunque natura esse sia­ no, non possono raccontare ciò che è accaduto” ;1213e infine che l’universo concentrazionario sem plicem ente non si può “m o­ strare” , poiché “non esiste alcuna ‘verità’ dell’immagine, né del­ l’immagine fotografica, film ica, né di quella dipinta o scolpi­ ta”.u Ecco com e lo storicism o riesce a fabbricarsi il proprio inimmaginabile. Ed ecco come si spiega - in parte almeno - la disattenzione da cui le quattro immagini dell’agosto 1944, che pure sono note e spesso riprodotte, sono state circondate. Sono saltate fuori so­ lo al momento della liberazione, quando vennero presentate co­ me le “sole” foto esistenti che dim ostrassero lo sterminio degli ebrei, fi giudice Jan Sehn, istruttore in Polonia del processo di Norim berga, le addebitò a D avid Szmulewski. E già queste due affermazioni sono false: esistono altre fotografie (e altre ancora magari salteranno fuori un giorno); Szmulewski ha am messo lui stesso di essere restato sul tetto della camera a gas mentre Alex scattava le foto.14 Q uanto a Hermann Langbein, dopo aver riu12. F. Bédarida, L. Gervereau, “Avant-propos", in La Déportation, cit., p. 8. 13. L. Gcrvereau. “Représenter l’univers concentrationnaire”, in La Déporta­ tion, cit., p. 244; L. G crvereau, “De l’irreprésentable. La déportation”, in Les Images qui mentent. Histoire du visual au XX siècle, Le Seuil, Paris 2000, pp. 203219. Cfr. anche A. Liss, Trespassing Through Shadows. Memory, Photography, and the Holocaust, University of Minnesota Press, Minneapolis-London 1998. La que­ stione è stata sviscerata meglio da S. Friedlander (a cura di), Probing the Limits o f Representation. Nazism and the *Final Solution”, Harvard University Press, Cambridge-London 1992. 14. Cfr. J.-C . Pressac, Auschwitz: Technique and Operation o f the Gas Cham­ bers, cit., pp. 422-424.

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Figura 9 Dettaglio della figura 5. Tratto da Auschwitz. A H istory in Photographs, a cura di T. Swiebocka, Oswiecim-Warsaw-Bloomington-lndianapolis, 1993, p. 173.

nito le due testimonianze in una, dirà che le foto furono scattate "dal tetto di un crem atorio” ,1” il che significa semplicemente non aver neppure dato un’occhiata a queste foto. ★ C i sono due m odi di "prestare disattenzione” , per così dire, a immagini del genere: la prima consiste nel renderle ipertrofiche, nel volerci veder tutto. Consiste, in altre parole, nel fam e altret­ tante icone dell’orrore. Per far questo, bisognava che i cliché ori­ ginali fossero resi presentabili. E a tal fine non ci si pensò due vol­ te a trasform arli completamente. C osì, la prim a fotografia della 15 15. H. Langbcin, Uom ini ad Auschw itz, rit., p. 271.

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Figure 10-11 Dettaglio e ritocco della figura 5. Tratto da Mémotre ra di C. Chéroux, Parigi, 2001, p. 91.

camps, a cu­

sequenza esterna (figura 5) ha subito tutta una serie di ritocchi: l’angolo inferiore destro è stato ingrandito; poi ortogonalizzato, in modo tale da rendere più normale un’inquadratura che non lo era affatto; e infine è stato ritagliato e isolato dal resto (ridotto a scarto) (figura 9). Ancora peggio, i corpi e i volti delle due donne in primo piano sono stati ritoccati, un volto lo si è inventato, e i seni sono stati addirittura ringiovaniti16 (figure 10-11)... Q uesta sofisticazione aberrante - non so chi ne sia l’autore e quali furono le sue intenzioni - rivela una volontà folle di volto a ciò che nell’immagine è solo movimento, scom piglio, evento. £ come stupirsi che davanti a una simile icona un sopravvissuto si sia illu­ so di riconoscere la dam a che lo ossessionava?17 L’altro m odo di “prestare disattenzione” consiste invece nel ri­ durre e asciugare l’inunagine. Consiste, in altre parole, nel veder­ vi solo un documento dell’orrore. Per quanto strano possa sem ­ brare in un contesto - la disciplina storica - che di solito rispetta il suo m ateriale di indagine, le quattro fotografie del mando sono state spesso trasform ate allo scopo di risultare più

16. Cfr. C. Chéxoux, Mémotre des camps, cit., pp. 86-91. 17. A. Brycht, Excursion: Auschwitz-Birkenau,Gallimard, Pa commentato da J.-C . Pressac, Auschwitz: Technique and Operation o f the Gas Chambers, cit., pp. 423-424.

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Figura 12 Dettaglio della figura 4. Tratto da Auschwitz. A H istory in Photographs, a cura di T. Swiebocka, Oswiedm-Wareaw-Bloomington-Indianapolts. 1993, p. 174.

inform ative di quanto lo fossero originariam ente. È un altro m o­ do di renderle “presentabili” e di “ restituire loro un volto” ... Si nota, ad esem pio, che le immagini della prim a sequenza (figure 34) vengono regolarmente reinquadrate18 (figura 12). C ’è senz’al­ tro, in questa operazione, una - buona e inconscia - volontà di 18. Cfr. soprattutto R. Boguslawska-Swiebocka, T. Ceglowska, KL Auschw itz Fotografie dokum entalne, cit., pp. 184-183 (foto reinquadrate); T. Swiebocka (a cura di), Auschw itz. A H istory in Photographs, cit., pp. 172-173 (foto reinquadra­ te); M. Berenbaum, The W orld M ust Know. The H istory o f the H olocaust as Told in the U nited States H olocaust M em orial , Little, Brown and Company,

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avvicinarsi isolando "quanto c’è da vedere” , purificando la so­ stanza dell’immagine del suo peso non docum entario. Ma, reinquadrando queste fotografie, si effettua una m anipo­ lazione al tem po stesso form ale, storica, etica e ontologica. La m assa nera che circonda la visione dei cadaveri e delle fosse, que­ sta m assa in cui nulla è visibile restituisce, in realtà, un segno visivo altrettanto prezioso della rimanente superficie im pressionata. Questa m assa in cui nulla è visibile è lo spazio della cam era a gas: la camera oscura in cui è stato necessario ritirarsi per porre in luce il lavoro del Sonderkom m ando, fuori, al di sopra delle fosse di in­ cinerazione. Q uesta m assa nera ci restituisce dunque la situazio­ ne stessa, lo spazio di possibilità, la condizione di esistenza delle fotografie. Sopprim ere una "zona d’om bra” (la m assa visiva) a beneficio di una lum inosa "inform azione” (l’attestazione visibile) equivale inoltre ad afferm are che Alex aveva potuto tranquilla­ mente scattare le sue foto all’aria aperta. Significa disprezzare il rischio da lui corso e la sua astuzia di resistente. Reinquadrando queste immagini, senza dubbio si è pensato di preservare il docu­ mento (il risultato visibile, l’informazione distinta).19 M a se ne è soppressa la fenomenologia, tutto ciò che faceva di queste imma­ gini un evento (un processo, un lavoro, un corpo a corpo). Poiché questa m assa nera non è altro che il segno dello statuto ultimo secondo il quale bisogna guardare e comprendere queste immagini: lo statuto di evento visivo. Parlare qui di gioco di ombre e luci non è una fantasia da storico dell’arte "form alista”: significa invece nominare l’elemento portante di queste immagini. Esso ap­ pare cerne soglia paradossale tra un interno (la camera della morte che protegge, in quel momento, la vita del fotografo) e un esterno (l’ignobile incinerazione delle vittime appena gasate). Esso offre l’equivalente dell’enunciazione nella parola di un testimone: inter­ ruzioni, silenzi, tono affaticato. Q uando si dice dell’ultima fotoBoston-Toronto-London 1993, p. 137 (foto reinquadrata), p. 150 (foto non rein­ quadrata); F. Bédarida, L. Gervereau (a cura di), La Deportation, cit., pp. 59, 61 (foto reinquadrate); Y. Arad (a cura di), The Pictorial History o f the Holocaust, Yad Vashem, Jerusalem 1990, pp. 290-291 (due foto reinquadrate). 19. Se persino J.-C . Pressac {Auschwitz: Technique and Operation o f the Cos Chambers, a t., p. 422) reinquadra i cliché con un formato rettangolare che tradi­ sce il formato originale 6x6, significa che il negativo è scomparso: ciò che si trova nel museo di Auschwitz deve essere una fotografia già sviluppata, i cui bordi sono stati ridotti oppure strappati (figure 3-4).

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grafia (figura 6) che essa è semplicemente “senza utilità”20 - stori­ ca, beninteso - si dimentica tutto ciò di cui fenomenologicamente essa testimonia a proposito del fotografo: l’im possibilità di inqua­ drare, il rischio corso, l’urgenza, la corsa forse, la goffaggine, l’ac­ cecamento di fronte al sole, il fiato corto. Q uesta immagine è, for­ malmente, senza respiro: pura “enunciazione” , puro gesto, puro atto fotografico senza obiettivo (senza orientamento, senza alto né basso) che ci dà accesso alla condizione di urgenza nella quale fu­ rono strappati questi quattro lembi di reale all’inferno di Au­ schwitz. E anche questa urgenza fa parte della storia. ★ È poco eppure è molto. L a quattro foto dell’agosto 1944 non dicono “tutta la verità” , ovviamente (bisogna essere davvero inge­ nui per aspettarsi questo da cose, parole o immagini): minuscoli prelievi da una realtà così com plessa, brevi istanti di un conti­ nuum che è durato cinque anni, non uno di meno. M a esse sono per noi - per il nostro sguardo oggi - la verità stessa, o quantom e­ no le vestigia, uno straccio di verità: ciò che resta visivamente di Auschwitz. L e riflessioni di G iorgio Agamben sulla testim onian­ za possono, in tal senso, chiarire il loro statuto: anche queste im­ magini hanno luogo nel “non-luogo dell’articolazione” ; anch’es­ se traggono la loro potenza dall’" impotenza di dire” e da un pro­ cesso di “desoggettivazione” ; anch’esse m anifestano una scissio­ ne fondam entale in cui la “parte essenziale” non è in fondo altro che lacuna?1Agamben scrive che il “ resto di Auschwitz” va pen­ sato com e un lim ite: “ [ ...] né i morti né i sopravvissuti, né i som ­ mersi né i salvati, ma ciò che resta fra di essi” .2223 Il piccolo pezzo di pellicola, coi suoi quattro fotogram mi, è un limite di questo tipo. Soglia ultrasottile tra l'im possibile in linea di principio - “nessuno può rappresentarsi ciò che è accaduto qui”21 20. J.-C . Pressac, ibidem, p. 422. 21. G . Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cii., pp. 9,31-36,127-160. 22. Ibidem, p. 153. 23. Simon Srebnik (sopravvissuto di Chdmno), citato da C. Lanzmann, Shoah, tr. fr. cit., p. 18. Cfr, anche, tra le tante espressioni di questa impossibilità, R. Antei­ me, L'Espèce humaine, dt., p. 9; J. Améry, Par-delà le crime et le chàtiment. Essai pour surmonter l'insurmontable (1977), tr. fr. Actes Sud, Arles 1995, pp. 68-79;

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NELL’OCCHIO DELLA STORIA

- e il possibile, anzi il necessario di fatto: noi disponiam o, grazie a queste immagini, di una rappresentazione m algrado tutto che, oramai, si im pone com e la rappresentazione per eccellenza, la rappresentazione necessaria di un momento dell'agosto 1944 al crematorio V di Auschwitz. Soglia visiva destinata al doppio regi­ me della testimonianza, come leggiam o in Zalmen Lewental, ad esempio, quando dice di scrivere il “racconto della verità [pur sa­ pendo che] non si tratta di tutta la verità. L a verità è assai più tra­ gica, più atroce” .24 Im possibile ma necessaria, dunque possibile m algrado tutto (cioè nonostante le lacune). Agli ebrei del ghetto di Varsavia sulla soglia dello sterminio sem brava im possibile rendere pensabile e immaginabile ciò che stavano subendo: “Siam o oltre le parole, a questo punto”, scriveva Abraham Lewin. Eppure - m algrado tutto - egli scrive. Scrive perfino che “ attorno a lui” tutti scrivono perché, “spogliati di tutto, non restano [agli ebrei condannati] che le parole” .25 Allo stesso m odo Filip M iiller: La morte col gas durava dai dieci ai quindici minuti. Q momento più terribile era l’apertura della camera a gas, una visione insostenibile: la gente, schiacciata come del basalto, blocchi compatti di pietra. Come crollavano fuori delle camere a gas! Più volte l’ho visto. Ed era la cosa più dura. A questo non d si abituava. Era impossibile. Sì. Bisogna immaginare [...].“

Insostenibile e im possibile, sì. M a “bisogna immaginare” , chiede alla fine Filip Mùller. Im m aginare m algrado tutto, il che esige da parte nostra una difficile etica dell'im magine: né l’invisi­ bile per eccellenza (pigrizia dell’esteta), né l’icona dell’orrore (piM. Blanchot, L'Écriture du désastre, cit., p. 131; E. Wiesel, “Preface”, in B. Mark, Des voix dans la nuit, cit., p . IV. 24. G tato da B. Mark, Des voix dans la nuit, cit., p. 309. 25. Citato da A. Wieviorka, Déportation et genocide, cit., pp. 163-165. 26. Citato da C. Lanzmann, Shoah, tr. fr. cit., p. 139.

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grizia del credente), né il sem plice docum ento (pigrizia dello stu­ dioso). Una sem plice immagine: inadeguata ma necessaria, ine* satta eppure vera. Vera di una paradossale verità, certo. D irei ad­ dirittura che l’immagine è qui l’occhio della storia: tenace voca­ zione a rendere visibile. M a essa è anche n ell’occhio della storia: in una zona ben localizzata, in una fase di sospensione visiva, così com e si dice dell’occhio del ciclone (rammentiamo che in questa zona centrale della tem pesta, in cui può regnare una calma piatta, “vi possono essere com unque nuvole che ne rendono ardua l’in­ terpretazione”).27 D alla penom bra della cam era a gas, Alex ha m esso bene in lu­ ce il centro nevralgico di Auschwitz, ossia la distruzione, senza resto, delle popolazioni ebraiche d ’Europa. Allo stesso tem po, l’immagine si è form ata grazie a un gesto di ritrazione: per qual­ che minuto, un membro del Sonderkommando non ha effettuato l’ignobile lavoro che le SS gli avevano ordinato di svolgere. N a­ scondendosi per vedere, l’uomo ha così sospeso l’attività di cui si apprestava - occasione unica - a form are una iconografia. L’im­ magine è stata possibile perché una zona di calm a, relativa pur­ troppo, è stata costruita per questo atto di sguardo.

27. La Grande Encyclopédie, Larousse, Paris 1973, p. 3592.

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G uardare oggi queste immagini secondo la loro fenomenolo­ gia - pur piena di lacune - significa dom andare allo storico un la­ voro di critica visiva al quale, credo, non è troppo abituato.1Q ue­ sto lavoro esige un doppio ritmo, una doppia dimensione. O c­ corre restringere il punto d i vista sulle immagini, non omettere nulla di quella che è la sostanza dell'im m agine, fo ss’anche solo per interrogarsi sulla funzione form ale di una zona in cui "non si vede nulla” , come si dice a torto davanti a qualcosa che sem bra privo di valore informativo, un riquadro d ’om bra per esem pio. E simmetricamente bisogna allargare il punto d i vista fino a restitui­ re alle immagini l’elemento antropologico che le mette in gioco. Se si presta attenzione alla lezione di G eorges Bataille in effetti - Auschwitz come questione posta all *inseparabile, al sim ile, aU’wimmagine dell’uom o” in generale - si scopre che al di qua o al di là.del loro ovvio senso politico, le quattro foto di Alex ci imma­ pongono a confronto con la vertigine, con il dramma gine umana in quanto tale. G uardiam ole di nuovo: in queste foto il dissimile è sullo stesso piano del simile, la morte è sullo stesso piano della vita.2 Si rimane colpiti, nella prim a serie (figure 3-4), 1. Questa era la domanda sollevata dalla mostra Mémoire dei campi. E in proposi* to cfe già la ricerca inedita di L About» Lei Photograpkiei du camp de concentration de Mauthauien. Approches pour une étude iconograpbùjue dei campi de concentration, Univershé Paris vn-Denis Diderot» 1997 (sotto la direzione di P. Vidal-Naquet). 2. Cosi si esprime R. Anteime, LEspèce humaine, cit.» p. 22: “La mone era qui sullo stesso piano della vita, ma in ogni secondo. D camino del crematorio fumava a fianco di quello della cucina. Prima che arrivassimo, ossa di morti erano finite nella zuppa dei vivi, e Toro della bocca dei moni si scambiava già da lungo tempo col pane dei vivi” .

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dalla coesistenza di gesti così "um ani", così quotidiani, così "n o ­ stri”, come quelli dei membri del Sonderkommando - mani sulle anche di chi si ferma un istante a riflettere, sforzo e torsione di co­ loro che sono già al “lavoro” - col tappeto pressoché uniforme form ato dai corpi che giacciono per terra, quasi che la loro ridu­ zione, la loro distruzione fosse già iniziata (pur essendo morti so ­ lo da qualche minuto, probabilm ente). D alla visione fuggitiva delle donne in attesa di essere gasate (fi­ gura 5) si trae retrospettivam ente un’im pressione analoga: tutto il fumo che si percepisce - e che le donne hanno senz’altro visto so ­ pra il tetto delTedificio in cui stanno per entrare - sem bra già in­ vadere e destinare il loro aspetto umano. È un destino che esse conoscono o non vogliono conoscere, che forse intravedono, che in ogni caso sentono.* È un destino che il fotografo conosce molto bene. Per lui, ancor prima di scattare la foto - e così oggi, retro­ spettivamente, per il nostro sguardo - , il grigiore offuscato di questa immagine è come la cenere che questi esseri in movimento presto diverranno. N oi ci troviamo qui nel cuore di quello che è il senso antropologico di Auschwitz. N egare l’umano nella vittim a significa con­ dannare l’umano alla dissom iglianza: "m usulm ani” pelle e ossa, mucchi di cadaveri disarticolati, am m assi di ceneri umane usati come m ateriale di sterro... Subire Auschwitz, a tutti i livelli di questa esperienza senza fine, equivaleva a subire un destino che Prim o Levi ha definito sem plicem ente "dem olizione di un uo­ m o”.345E , in questo processo, lo sguardo giocava un ruolo capita­ le: l’uomo “dem olito” era anzitutto l’uom o reso apatico nei con­ fronti del m ondo e di se stesso, reso cioè incapace di em patia ("quando piove, si vorrebbe poter piangere”), incapace persino di disperazione ("non sono più abbastanza vivo per saperm i so p ­ prim ere”):’ Pane del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ec­ co perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo. [...] Se io sapessi spie-

3. P. Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 25: “ (...] di qui non si esce che per il ca­ mino (cosa vorrà dire? Lo impareremo bene più tardi)”. 4. Ibidem, p. 23. Cfr. anche pp. 2 4 ,110-111 e passim. 5. Ìbidem, pp. 117,127.

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gare a fondo la natura di quello sguardo [il semplice sguardo della SS posato sul prigioniero] avrei anche spiegato l’essenza della grande follia della terza Germania.6

Q uest’esperienza è al dì là della paura.7 Al di là della m orte in quanto rappresentazione accessibile.8 E ssa colpisce l’uom o nel suo stesso essere: ne distrugge perfino il tem po.9 Condanna l’in­ tera esistenza umana alla condizione di “m anichino” che la m or­ te trasform erà alla fine in un “ignobile tum ulto di m embra irrigi­ dite”: in una “cosa” com e scrive ancora Prim o Levi.10 Una cosa dissim ile. In questa situazione, gli uomini - i simili, gli amici stretti - non riescono più a riconoscersi.11 E questo, scrive M au­ rice Blanchot, a causa del potere terrificante di quegli altri sim ili che sono i nemici: [...] quando l’oppressione e il tenore fanno cadere l’uomo quasi al di fuori di sé, quando egli perde ogni prospettiva, ogni punto di ri­ ferimento e ogni differenza e cade preda di un tempo senza termine sopportato come un perpetuo presente indifferente, allora, nel mo­ mento in cui diventa ignoto ed estraneo, ossia diventa il destino di se stesso, la sua ultima speranza consiste nel rendersi conto che chi lo colpisce non sono gli elementi ma gli uomini, e nel dare il nome di un uomo a tutto d ò che lo colpisce. - L’“ antropomorfismo” sarebbe dunque l’ultima eco della verità, quando nulla più è vero.12

N ell’occhio del ciclone troviamo dunque anche la questione dell’antropom orfism o. Ciò che le SS volevano distruggere ad Au­ schwitz non era solo la vita, ma anche - al di là o al di qua, prima o dopo della morte - la forma stessa dell’umano e con essa la sua immagine. In un contesto del genere, l’atto di resistenza consiste­ 6. Ibidem, pp. 95,152. 7. Ibidem, p. 114: “ [...] oltre che non esserci tempo, non c’è neppure posto per aver paura”. 8. Cfr. J. Améry, Par-delà le crime et le cbitiment, cit., pp. 43-44: “Dappertutto gli uomini morivano, ma la figura della Morte era scomparsa”. 9. Cfr. É. Wiesel, La Nuit, d t , pp. 61,63,85; B. Bettelheim, “La schizophrenic en tant que réaction à des situations extremes” (1956), tt ft in Survivre, dt., pp. 143-157. 10. P. Levi, Se questo è uh uomo, d t , pp. 152-153. Sui “manichini” cfr. C. Delbo, Auschwitz et après, l. Aucurt de nous ne reviendra, Minuit, Paris 1970, pp. 28-33,142. 11. Cfr. R. Anteime, L'Espèce bumaine, d t., pp. 178-180: “Ho guardato colui che un tempo era K. [...] Non riconoscevo nulla”. 12. M. Blanchot, L’infinito intrattenimento (1969), tr. it. Einaudi, Torino 1977, p. 177.

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va allora nel serbare questa im m agine m algrado tutto, anche se ri­ dotta alla sua più sem plice espressione "paleontologica” , ad esem pio la stazione eretta: "U na facoltà ci è rim asta D ob­ biam o camminare diritti, senza strascicare gli zoccoli, non già in om aggio alla disciplina prussiana, ma per restare in vita, per non com inciare a m orire”.13145 ★ Serbare l’immagine m algrado tutto: serbare l’im m agine del mondo esterno e, per far questo, strappare all'inferno un’attività di conoscenza, quasi una sorta di curiosità. Conservare lo spirito di osservazione, prendere appunti, in segreto, o tentare di mem o­ rizzare il m aggior numero di cose possibile. "Sapere e far sapere è un m odo di restare um ani” , scrive Tzvetan Todorov a proposito dei R otoli d i A uschw itz.1* Serbare pure l'im m agine d i sé, cioè “sal­ vaguardare il proprio io” nel senso psichico e sociale del term ine.15 Serbare infine l'im m agine del sogno: benché i cam pi siano un’autentica macchina per "stritolare le anim e” 16 - o forse proprio per questo - il terrore è sospeso nella m isura in cui le SS accettano di concedere ai detenuti un minimo vitale di sonno. In quel momento, scrive Prim o Levi, "dietro alle palpebre appena chiuse erom pono i sogni con violenza” .17 Perfino l'im m agine dell’arte i detenuti avrebbero voluto pre­ servare m algrado tutto, com e per strappare all’inferno qualche lem bo di spirito, di cultura, di sopravvivenza. L a parola "infer­ no” , sia detto en passan t, fa parte anch’essa di questa sfera: la im ­ pieghiam o spontaneam ente per parlare di Auschwitz, sebbene sia profondam ente im propria e inadeguata. Auschwitz non fu un 13. P. Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 36. 14. T. Todorov, Face à 1‘extreme. Le Seuil, Paris 1991, p. 108; tr. it. D i fronte al­ l’estremo, Garzanti, Milano 1992. 15. Cfr. B. Bettelheim, "Comportement individue! et comportement de masse dans les situations extremes", cit., p. 84; M. Pollale, L‘Experience concentrattonnei re. Essai sur le maintien de l’identité sociale, Métailié, Paris 1990. 16. E. Kogon, L’Etat SS. Le système des camps de concentration allemands { 1946), tr. fr. Lajeune Parque, Paris 1947 (1993,)> pp. 399-400. 17. P. Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 62. Cfr. J. Cayrol, "Les rtves concentradonnaires", in Les Temps modemes, m, 1948, n. 36, pp. 520-535: “ [...] i sogni diven­ tavano uno strumento di salvezza, una sorta di 'resistenza* del mondo reale” (p. 520).

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inferno, nel senso che nessuno passando lì avrebbe sperim entato una “resurrezione” — pur terribile. Auschwitz fu semplicemente la morte più ignobile. E , soprattutto, nessuno era là per ascoltare il “giudizio” finale sulle proprie colpe: si entrava innocenti e in­ nocenti si veniva torturati e m assacrati. Se l’inferno è una finzione giuridica inventata dalla fede religiosa, Auschwitz fu una realtà anti-giuridica inventata da un delirio politico-razziale. Ciononostante, per quanto inesatta, l’immagine dell’inferno fa parte della verità di Auschwitz. Non soltanto la parola è stata impiegata dagli analisti più attenti del fenomeno concentrazionario,18 ma è stata anche utilizzata a più e più riprese nelle testim o­ nianze delle vittime. I salvati hanno detto quasi tutti di aver fatto ritorno da una specie di inferno.19 E gli stessi “som m ersi” hanno fatto ricorso a questa immagine, dalle m olteplici sfum ature cul­ turali, giungendo addirittura a citare o a rammentare D ante, co­ me nei R otoli d i Auschwitz: Lewental ha parlato di questo “infer­ no” come di un “quadro [ ...] insostenibile alla vista” .2021Gradowski ha utilizzato di continuo nel suo m anoscritto espressioni rica­ vate più o meno direttam ente dalla D ivina C om m edia}1 Su un muro del Blocco 11 di Auschwitz, nella cella 8, un prigioniero polacco in attesa di fucilazione ha inciso - con le proprie mani, nella propria lingua - la celebre iscrizione dantesca: Lasciate ogni speranza voi ch’entrate}2 In tal senso, l’Inferno di D ante, questo gioiello dell’immagina­ rio occidentale, appartiene anch’esso al reale di Auschwitz: inciso sulle pareti* innestato nella mente di molti. E sso riemerge pun­ 18. Cfr. in particolare F. Neumann, Bebemot. The Structure and Practice o f Na­ tional Socialism, Oxford University Press, Oxford-New York 1942; H. Arendt, “L’immagine detTinfemo”, d t., pp. 97-109; H. Arendt, “Le tecniche della srìenza sociale e lo studio d d campi di concentramento”, d t., p. 123; E. Traverso, L'Histoiredécbirée, cit., pp. 71-99,219-223. 19. Cfr. in particolare E. Kogon, L’Etat SS, cit., pp. 49-30; P. Levi, Se questo è un uomo, d t., p. 19; É. Wìesel, La Nuit, d t., p. 59; C. Delbo, Auschwitz etaprès, II. Une connaissance inutile, Minuit, Paris 1970, pp. 33-34; F. Muller, Trois ans dans une chambre à gaz d'Auschwitz, d t., pp. 25,263-243; M. Buber-Neumann, Déportée à Ravenshrikk. Prisonnière de Statine et d’tìitler, Il (1985), tr. fr. Le Seuil, Paris 1995, pp. 7-19; V. Pozner, Descente aux enfers. Récits de déportés et de SS d'Auschwitz, Juillard, Paris 1980. 20. Citato da B. Mark, Des voix dans la nuit, d t., pp. 266-267,302-304. 21. Ibidem, pp. 191-240. 22. D graffito è riprodotto in J.P. Czarnecki, Last Traces, cit., p. 95.

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tualmente nella testim onianza di Primo Levi, quasi a significare l’urgenza stessa e la vita serbata, "così umano e necessario e pure inaspettato anacronism o” .2* Così come riemerge per mano dei carnefici: quando, insonni o affaticati dall’orrore da loro stessi predisposto, certi responsabili nazisti si sono lasciati trascinare, anch’essi, dalla m etafora dantesca.2324* Che significato ha questa fastidiosa unanimità? Significa forse che il ricorso all’immagine è inadeguato, lacunoso, sem pre difet­ toso? Certo che sì. M a bisogna allora tornare a dire che Au­ schwitz è inim m aginabile? Certo che no. Bisogna semmai dire il contrario: bisogna dire che Auschwitz è solo im m aginabile, che siam o costretti all’immagine e che per questo dobbiam o tentare di svolgerne una critica interna, appunto allo scopo di sbrogliare questo intrigo, questa necessità lacunosa. Se vogliam o sapere qualcosa dell’interno del cam po, bisogna che prim a o poi paghia­ mo un tributo al potere delle immagini. E bisogna che tentiamo di com prendere la loro necessità proprio a partire dalla loro vo­ cazione a restare sem pre in difetto.2* * G uardiam o daccapo le quattro foto strappate all’inferno dell’a­ gosto 1944. L a prim a serie (figure 3-4) non si caratterizza forse per un difetto di informazione? Om bra tutt’intom o, coltre di alberi, fumo: l’ampiezza del m assacro, il dettaglio delle installazioni e il lavoro stesso del Sonderkommando sono assai poco "docum enta­ ti” . Allo stesso tem po, ci troviamo dinanzi a queste immagini co­ me dinanzi alla necessità sconvolgente del gesto di un sopraw issu23. P. Levi, Se questo è un uomo, d t., p. 103 (cfr. anche pp. 23,79-90,98-103); P. Levi, I sommersi e i salvati, d t., pp. 112-113. 24. "L’Inferno di Dante qui era divenuto realti” (il comandante Irmfried Eberl a proposito di Treblinka), "In confronto a quello che si vede qui l’Inferno dantesco mi sembra quasi una commedia. [...] Auschwitz [è] anta mundT (il dott. Johann Paul Kremer). G tad da L. Poliakov, Auschwitz, d t., pp. 40-41; H. Langbein, Uomi­ ni ad Auschwitz, d t., p. 337. 23. Cfr. P Levi, Se questo è un uomo, d t., pp. 116, 140, dove viene sviluppata una riflessione di questo tipo sulla vaniti e la necessiti d d "segni” ad Auschwitz: "Oggi io penso che, se non altro per il fatto che un Auschwitz è esistito, nessuno do­ vrebbe ai giorni nostri parlare di Provvidenza: ma è certo che in quell’ora il ricordo d d salvamenti biblici nelle avversiti estreme passò come un vento per tutti gli ani­ mi” (p. 140). 66

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to (sopravvìssuto temporaneo, dato che sarà m assacrato dalle SS solo qualche settimana dopo): è Xautoritratto tragico del “com ­ mando speciale” che noi d troviamo sotto gli occhi. G uardiam o adesso la seconda serie (figure 5-6): non è caratterizzata anch’essa, forse più della prim a, da un difetto di visibilità? Allo stesso tempo, d troviamo dinanzi a queste immagini come dinanzi alla necessità sconvolgente di un gesto di em patia, o di un certo agire della som i­ glianza: movimento del fotografo - e immagine “m ossa” - che ac­ compagna il movimento delle donne, urgenza della fotografia che accompagna l’urgenza degli ultimi istanti di vita.2627 Strappare quattro immagini all’inferno del presente significa­ va, in quel giorno d ’agosto del 1944, strappare alla distruzione quattro lem bi di sopravvivenza. D i sopravvivenza, intendo, e non di sopravvissuti, poiché nessuno di coloro che stavano dietro o davanti la macchina fotografica è sopravvissuto agli eventi di cui queste immagini d offrono una testimonianza - solo David Szmulewski e la SS, forse. Sono dunque esse, le immagini, a restare: sono loro le sopravvissute. M a da quale tem po provengono? D al tempo di un lam po: hanno catturato qualche istante, qualche ge­ sto umano. O ra, è possibile constatare che, in entram be le serie, quasi tutti i volti sono inclinati verso il basso, come se fossero concentrati, a prescindere da precise espressioni drammatiche, sul lavoro della morte. Verso il basso: poiché la terra è il loro de­ stino. Non solo gli umani se ne andranno in fum o - Todesfuge0 ma le loro ceneri verranno macinate, seppellite, inghiottite dalla terra. M entre, intorno ai crem atori, i membri del Sonderkommando mescoleranno a esse le cose sopravvissute: cose del corpo (ca­ pelli, denti), cose sacre (filatteri), cose-immagini (fotografie), co­ se scritte (i R otoli d i Auschwitz:): L’ho scritto nel periodo in cui facevo parte del Sonderkommando. [...] H o voluto lasdarlo, con tanti altri appunti, come ricordo per il futuro mondo di pace, affinché si sappia quanto è accaduto qui. L’ho seppellito sotto le ceneri, pensando che fosse il luogo più sicuro, in cui certamente si verrà a scavare per ritrovare le tracce di milioni di 26. Sull’urgenza e la rapidità nella scrittura delle testimonianze, cfr. soprattutto C. Mouchard, “‘l a ’? ’Maintenant'?”, d t., pp. 245-249. Molti racconti concentrazionari si aprono in effetti con questo tema dell’urgenza. Cfr. P. Levi, Se questo è un uomo, d t., p. 9; R. Anteime, LEspèce bumaine, d t., p. 9. 27. P. Celan, “Fuga di morte” (1945).

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uomini scomparsi. Solo che ultimamente hanno cominciato a sop­ prìmere un po' dappertutto le tracce di cenere. È stato ordinato di macinarla finemente e di trasportarla alla Vistola, perché le acque se la portino via. [...] D mio quaderno di appunti e gli altri manoscritti si trovavano nelle fosse sature di sangue, che contenevano ossa e pezzi di carne non sempre carbonizzati. Lo si capiva dall’odore. Ri­ cercatore, scava dappertutto, in ogni porzione di terra. Alcuni docu­ menti, tra cui i miei e quelli di altri, sono sotterrati laggiù e gettano una luce cruda su quanto è accaduto qui. Siamo noi, gli operai del Sonderkommando, che li abbiamo disseminati su tutto il terreno, nella misura del possibile, affinché il mondo vi trovasse la traccia palpabile di milioni di assassinati. Quanto a noi, abbiamo già perso la speranza di vivere fino alla liberazione.21

Tem po del lam po, tem po della terra. Istante e sedim entazione. Strappati al presente, sotterrati per lungo tempo: tale è il ritmo anadiomene - dell'immagine. L e quattro foto dell’agosto 1944 furono strappate a un immenso inferno e poi nascoste in un sem ­ plice tubetto di dentifricio. Strappate al perimetro del cam po e poi seppellite da qualche parte tra i documenti della resistenza polacca. Scoperte solo alla liberazione. Ri-seppellite sotto le po­ sticce inquadrature e i ritocchi di storici benintenzionati. Il loro com pito, quello di costituire altrettante confutazioni - dell’im­ presa nazista di disimmaginazione del m assacro - , resta un com ­ pito tragico, poiché esse arrivano troppo tardi.282930D all’agosto del 1944 fino alla fine delle ostilità gli aerei americani non lasciarono un attimo di tregua alle officine di Auschwitz m-Monowitz, ma lasciarono invece che i crematori continuassero il loro intenso la­ voro di sterminio “non m ilitare”.w ★ 28. Z. Gradowski, citato da B. Mark, Des voix dans la nuit, cit., pp. 241-242. Nella sua introduzione Ber Mark segnala quest'altro fatto atroce: dopo la guerra "intere bande di saccheggiatori si avventarono sul campo abbandonato, frugando dappertut­ to, cercando soldi, oro, oggetti di valore, illusi dalla leggenda secondo la quale gli ebrei si erano portati dietro dei tesori. Scavando attorno ai crematori, trovarono i ma­ noscritti, oggetti senza valore per loro, che dunque distrussero o gettarono" (p. 180). 29. Molte altre non arrivarono mai: "Sfortunatamente, la maggior parte delle fo­ tografie spedite oltre il filo spinato si persero, e solo alcune ci sono giunte" (R. Boguslawska-Swiebocka, T Ceglowska, KL Auschwitz. Fotografie dokumentalne, cit.). 30. Cfr. D.S. Wyman, L Abandon des Jui/s. Les Américains et la solution finale (1984), tr. fr. Fiamma non, Paris 1987, pp. 373-397. 68

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Immagini inutili, allora? Niente affatto. E sse sono infinitamen­ te preziose oggi. E d esigenti oltretutto, poiché esigono da parte nostra lo sforzo di fare gli archeologi. D obbiam o ancora scavare, infatti, nella loro fragile tem poralità. “L a vera immagine del passa­ to appare come un lam po. Immagine che sorge solo per eclissarsi nell’istante seguente, per sempre. L a verità immobile che aspetta solo lo studioso non corrisponde affatto a questo concetto di ve­ rità in storia, che ha a che fare piuttosto col verso di Dante: è un’altra immagine unica, insostituibile, del passato che svanisce in ogni presente che non ha saputo riconoscersi in essa.”3132 Nulle pan trace de vìe, ditcs-vous, pah, la belle affaire, imagination pas morte, si, bon, imagi­ nation morte imaginez.”

(2000-2001)

31. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 63. 32. S. Beckett, Tétes-Mortes, Minuit, Paris 1972, p. 31.

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PARTE SECONDA

MALGRADO TUTTA L’IMMAGINE

Il problema è d ie si è giunti all’immagi­ ne con Videa di sintesi. [...] L’immagine non è una cosa, bend un atto. Jean-Paul Sartie, L’immaginazione

5 IMMAGINE-FATTO O IMMAGINE-FETICCIO

D ato che deduceva dallo studio di un caso specifico una revo­ ca in questione più generale del doppio regime - storico ed esteti­ co - dell’inimmaginabile, il testo che si è appena letto si prestava naturalmente a discussione. M a se gli storici non hanno avuto troppo da ridire sulXarcheologia visiva che veniva lì proposta, semplicemente perché la disciplina storica, oggi, riconosce essa stessa il suo notevole ritardo nel cam po delle immagini ed è ben intenzionata a colm arlo,1la revoca in questione òdK inim m agina­ bile estetico - negatività sublim e, assoluta, che sfocia in una con­ testazione radicale dell’immagine e dovrebbe riuscire per taluni a rendere conto della radicalità stessa della Shoah - ha scatenato invece una violenta reazione polem ica, di cui si può trovare trac­ cia in due lunghi articoli pubblicati su Les Temps m odem es di marzo-maggio 2001 e firmati rispettivamente da G erard Wajcman e da Elisabeth Pagnoux.2 Qual è il punto del contendere? Per dare un’idea degli argo­ menti svolti e del tono assunto dai miei critici non potrò fare a me­ no di basarmi sui loro testi, che contengono una vera e propria escalation di accuse nei miei confronti. Il "rischio di sovrainterpretazione” , secondo G érard Wajcman, è solo il difetto più trascura1. Cfr. ad esempio il recente numero spedale "Image et histoire* della rivista Vingtième Siècle, n. 72, 2001, a cura di L. Bertrand-Dorléac, C. Del age, A. Gunthert. Sui problemi teoria posti dal ruolo delle immagini in storiografìa, anche nella scuola delleAnnales, cfr. G . Didi-Huberman, Devant le temps. Histoire de l'art et anaebronisme des images, Minuit, Paris 2000, pp. 9-55. 2. G. Wajcman, “De la croyance photographique” , in Les Temps modemes, LVl, 2001, n. 613, pp. 47-83; É. Pagnoux, "Reporter photographe à Auschwitz”, in Les Temps modemes, LVl, 2001, n. 613, pp. 84-108.

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bile della mia analisi. Assai più gravi sono "gli errori di pensiero” , il "ragionamento fatale” e ia "logica funesta” che confinano vuoi con la "fesseria” vuoi con la "menzogna rassicurante”.' Per lanciare uno "slogan” del genere contro l’inimmaginabile della Shoah, io non avrei fatto che "negare tutto in blocco, le tesi e i fatti”: la mia sarebbe l’opera di un "avventuriero del pensiero”. Tutta questa "prom ozione dell’immaginazione” non sarebbe altro che un "ap ­ pello aU’allucinazione” , una "macchina di fantasmi” che "spinge a una identificazione per forza di cose ingannevole”.345In veste di psi­ cologo, Wajcman ci tiene a sottolineare poi "l’esaltazione un p o ’ in­ fantile” di un’argomentazione che "crede di distruggere un tabù”: D idi-H uberm an sem bra com e trascinato, assorbito, travolto da una sorta di oblio di tutto, soprattutto dell’essenziale [ ...] . È com e se fosse preso da un sonno ipnotico che non gli consente più di riflettere se non in termini di immagine, di simile. E si resta stupiti di fronte al valore, al potere quasi divino conferito all’immagine deU’uom o.1

In qualità di professionista - in qualità cioè di psicoanalista cli­ nico - G érard Wajcman precisa meglio ciò che intende per "oblio di tutto” : la "regressione di questo discorso” , egli sostiene, ha qualcosa di perverso. È una "feticizzazione religiosa” dell’im ­ magine, "una sorta di diniego alla luce del giorno, quasi esibito, se non inconscio, quantom eno scervellato” ... D i qui l’idea che [’attenzione prestata alle quattro foto dell’agosto 1944 si appa­ renti al "diniego feticista” mediante il quale un soggetto perverso "espone e adora, com e altrettante reliquie del fallo mancante, scarpe, calze o m utandine”.6 Ma non basta. L a perversione sessuale - una m alattia dell’ani­ mo - si rivela in questo caso ancor più grave, poiché P“incanto m agico” del feticista si abbina anche alla perversità, cioè a un’au­ tentica ciarlataneria del pensiero, a un "gioco di prestigio” intel­ lettuale. N ell’esercizio di “gran volteggio sofistico” su Auschwitz si celerebbe un “inganno sulla m erce” , una “pubblicità menzo­ gnera” sulle immagini dei campi di sterm inio nazisti.7 3. G. Wajcman, “Delacroyance photographique”, cit., pp. 51-53,70,80. 4. Ìbidem, pp. 49-51,70. 5. Ibidem, p. 75. 6. Ibidem, pp. 50,81,83. 7. Ìbidem, pp. 54,65-66.

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E questa perversità fondam entale Wajcman la definisce “pen­ siero intrìso di cristianesim o” , “china verso la cristianizzazione” . L a “passione dell’immagine” è infatti, a suo avviso, “intimamente cristiana” : essa “infiltra e im piastra tutto ciò che dalle nostre parti concerne le immagini” . Q ueste “litanie”, questo “piagnucolio virtuoso” davanti alla quattro fotografie scattate dai membri del Sonderkommando, il “tono profetico” della loro descrizione, tut­ to ciò non fa che esprim ere “un’elevazione dell’immagine a reli­ quia” tipica della religione cristiana.89E d ò spiega forse perché Wajcman a un certo punto mi voglia im porre tutta una serie di orpelli agiografia: Georges Didi-Huberman, sopra Tannatura di San Giorgio, sem­ bra indossare la pelle di montone di un San Giovanni col dito punta­ to, e sopra ancora l'abito smesso di un San Paolo che annuncia al mondo la venuta delTlmmagine.’

È già abbastanza, senza dubbio, ma non basta. O ccorre anche insistere sul pericolo sodale, etico e politico di questa “fede nelle immagini” , di questo “Annundo dell’Im m agine” . G érard W ajc­ man diagnostica nella mia analisi delle quattro foto dell’agosto 1944 - e nel mio “rifiuto aggressivo, bisogna pur dirlo, dell’idea che d sarebbe lì qualcosa di irrappresentabile” - una “incorona­ zione del pensiero unico” , una “giustificazione quasi insperata dell’amore generale per Timmagine” così diffuso nel mondo m o­ derno. E d ecco allora l’attenzione visiva ridotta a un “ideale tele­ visivo” : dopo aver “ riscoperto le virtù d d bei ricordi degli album fotografici, [...] G eorges Didi-Huberm an si com piace nel lusin­ gare le nostre inclinazioni più rudimentali, [...] così da soddisfa­ re la vòglia di non vedere nulla, di chiudere semplicemente gli oc­ chi” .10 Culto generalizzato dell’immagine da una parte, capacità annullata di aprire gli occhi dall’altra. Il risultato, al di là di una “funesta confusione” , è un perìcolo politico e m orale quanto mai dannoso: “una leggerezza davvero colpevole, funesta” , “ un pensiero piuttosto inquietante” , “un controsenso totale e realmente pericoloso” , che nasconde “un 8. Ibidem, pp. 51,55,57,63-64,70,72,83. 9. Ibidem, pp. 60-61. 10. Ibidem, pp. 58,60,64,72,75-76.

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fondo inquietante di accecam ento [di una] gravità evidente” ." Un pensiero dell’immagine è un pensiero del simile: W ajcman ne deduce che si tratta per questo di un pensiero che assim ila tutto. Dinanzi alla situazione analizzata - quella del Sonderkom m ando di Auschwitz - egli vedrebbe affiorare l’“ idea abietta” che, in no­ me dell’immagine, assim ila il carnefice alla vittima e confina con la generale cristianizzazione, ossia con l’antisem itismo e il rove­ sciam ento dei ruoli nell’attuale conflitto israelo-palestinese: In questo walzer dei possibili in cui ciascuno è il simile dell’altro, era fatale che si giungesse all’idea abietta dello scambio infinito c re­ ciproco dei moli tra il carnefice e la vittima. [...] In tutto questo c’è qualcosa di insopportabile, anche se si tratta solo di un errore, di una menzogna, di un’illusione - di un errore di pensiero, di una facile menzogna e di illusione alienante. [...] Non ci vedo necessariamente l’espressione di un antisemitismo rampante, quanto piuttosto l’effet­ to di un’inclinazione quasi irresistibile, che si registra anche tra gli ebrei confessi, a “cristianizzare” il dibattito sulle immagini in genera­ le. [...] Si tratta senza dubbio della stessa pulsione che spinge a de­ nunciare [...] uno Stato di Israele che si comporta “peggio dei nazi­ sti” coi palestinesi, i quali sarebbero i veri ebrei del nostro tem po."

Élisabeth Pagnoux aggiunge a queste accuse altre venticinque pagine dello stesso tenore. Esagera ancor di più sull’inganno che a questo punto diventa un “duplice inganno” - e fustiga “l’ac­ canimento nel costruire il niente” correndo il rischio di “confon­ dere tutto [...] per consolidare un vuoto”. Insiste inoltre sulla “p i­ roetta intellettuale” , il “gioco di prestigio” e il “flusso narrativo che confonde i tempi, im pone un senso, inventa un contenuto [e] si accanisce a colmare il niente, anziché affrontarlo” ." Colmare il niente: il tentativo di ricostruzione storica delle quat­ tro foto dell’agosto 1944 è dotato infatti solo, agli occhi di E lisa­ beth Pagnoux, di un’“apparenza di scientificità” ispirata al lavo­ ro docum entario di Jean-Claude Pressac, con “vertici di vacuità tecnicizzante” . U suo carattere ipotetico è “senza fine” e si limita dunque a “circolare senza fine nella vanità della congettura [e a]123 11. Ibidem, pp. 50,53.67,72,81. 12. Ibidem, pp. 62-63,70. L’ultima affermazione è ripetuta a p. 74: ‘ Questa as­ senza di pensiero [... ] è la stessa che oggi fa dei palestinesi gli ebrei del nostro tem­ po e degù israeliani i nuovi nazisti*. 13. E. Pagnoux, “Reporter photographe à Auschwitz”, cit., pp. 87,90,103,106.

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rifiutarsi di tradursi in [...] interpretazione” . Allo stesso tem po, l’analisi visiva può essere definita pure una iper-interpretazione (quella che W ajcman chiama una “sovrainterpretazione” ) poiché si tratta solo di “ricostruzione, finzione, creazione” , che a sua vol­ ta - ennesimo rovesciamento di prospettiva - rivela un autentico “accanimento nel distruggere lo sguardo” . L’attenzione per la storia, poi, si ribalta in un “annullamento della mem oria” e in un “ostacolo all’avvento del passato” .14156 Annullare la memoria: alla vacuità interpretativa si sovrappo­ ne nuovamente l’infamia politica e morale. L’analisi delle fotogra­ fie di Auschwitz sarebbe “totalmente fuori luogo” , “nefasta e propizia solo alla riformulazione di discorsi deleteri” - antisem i­ tismo o negazionismo. Per essere più precisi, il m etodo di questa analisi, dai meccanismi difettosi, discredita la parola dei testim o­ ni, per non fare altro che negarla alla fine: “sufficienza di un pre­ sente che cerca di soppiantare le testim onianze” :‘, Georges Didi-Hubennan assume la posizione del testimone [...], usurpa lo statuto di testimone. Se la fonte è perduta, la parola è negata. [...] Guardare la foto e credersi in essa. La distanza, ancora una volta, è negata. Rendersi testimoni di questa scena, oltre a essere una semplice invenzione (perché il passato non può essere rianima­ to), significa distoreere la realtà di Auschwitz, che fu un evento sen­ za testimoni. Significa colmare il silenzio. [...] All'estremo della confusione, Georges Didi-Huberman, qualche riga prima della fine del suo articolo, dà il colpo di grazia ai testimoni e alla parola dichia­ rando: “sono loro le sopravvissute".*6

Il diniego dei testimoni, ossia la perversità morale, com pleta così l’opera di diniego della realtà, ossia la perversione feticista. Élisabeth Pagnoux scorge infatti anche lei nell’attenzione visiva prestata alle quattro foto del Sonderkommando una forma di “voyeurismo” e di “godim ento dell’orrore” , un “discorso fuori luogo” , un fantasm a perverso “pieno di ossessioni” , una “finzio­ ne” del passato m escolata - va a sapere perché - col “presente umanitario” .17 E d estendendo l’anatema al catalogo della m ostra 14. Ibidem, pp. 93-94,98,102-105. 15. Ibidem, pp. 91,93,103. 16. Ibidem, pp. 105-108. 17. Ibidem, pp. 94,102,106-107.

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in cui il mio saggio era stato pubblicato Élisabeth Pagnoux riba­ disce ulteriormente la sua condanna morale, deprecando l’atten­ zione rivolta alla storia della fotografia dei campi: [...] siamo ai limiti dello scoop, cosi come siamo ai limiti dello scoramento. [...] siamo scandalizzati. Di che novità dovrebbe trat­ tarsi? Che dovrebbe aggiungere una foto in più? Sappiamo assai di più di quanto possano dire le foto una ad una... E d’altronde, che cosa significa sapere? Siamo scandalizzati perché è davvero chiaro che la presunta novità del contenuto e dello sguardo è intrisa di ar­ roganza, di presunzione, per non dire di manipolazione. [...] Au­ schwitz, un oggetto fotogenico? [...] Siamo scandalizzati. Delle donne camminano verso la camera a gas. Salvo essere tra coloro che esultano dinanzi all’orrore, sarebbe già un motivo sufficiente per non recarsi alla mostra. Per chi custodisce la memoria del crimine l’idea di guardarne ancora un’immagine - l’idea di guardare ancora queste immagini che del resto erano perfettamente note - è insop­ portabile e una foto non aggiunge nulla a quanto già sappiamo. [...] Sulla negazione della distanza che separa l’oggi e lo ieri si edifica una menzogna davvero ignominiosa, che ostacola oltretutto ogni auten­ tico processo di trasmissione. Una duplice menzogna, una confusio­ ne che pervade tutta questa impresa perversa: non possiamo entrare dentro una camera a gas. [...] Non si riassume Auschwitz, non si fedrizza, non si museifica, per metterci la parola fine." *

Bisogna davvero rispondere? Si può discutere sulla base di una lettura del genere? Si deve obiettare a un attacco che sfigura gli argomenti e preferisce andarci pesante sul piano personale (ad esem pio, come fa W ajcman, cercando di impormi d ’autorità un quadro clinico di feticista e uno statuto morale di rinnegato, di ebreo “cristianizzato”, oppure, come fa Pagnoux, reclam ando, senza svolgerla, un’inchiesta sulle origini del mio discorso, a tal punto le sem bra “piovuto dal nulla” )? 189 Di sicuro, posso discute­ re con qualcuno che dichiara “discutibile” la mia analisi, ma po s­ so farlo se il contraddittore fa della mia persona l’incarnazione stessa dell’errore o, peggio, dell’infamia m orale? Basta, ad esem pio, ritorcere a G érard Wajcman che io non for18. Ibidem, pp. 84-85,89-90,95. 19. Ibidem, pp. 91,105. v

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mulo affatto l’“idea abietta” di cui egli parla - “lo scam bio infini­ to e reciproco tra la vittima e il carnefice” - , ma semmai l’idea contraria? Basta rispondere a Élisabeth Pagnoux che la sua accu­ sa di “arroganza” teorica sarebbe forse meno azzardata se, arm a­ ta della sua dom anda dirimente - “ E d’altronde, che cosa signifi­ ca sapere?” - , si fosse degnata di aprire i libri che ho dedicato a questo problem a in riferimento al cam po visivo, visto che lei, per quanto ne so, non ha nemmeno abbozzato una risposta? Per quanto mi riguarda, davanti alle quattro foto di Auschwitz, ho semplicemente tentato d i vedere per sapere m eglio. E che si può rispondere a coloro che vedono m ale ogni tentativo del genere? C ’è comunque molto da dire, al di là di una semplice replica duale e del rischio concomitante e allettante di rinviare le accuse al mittente. Teniamo a mente quell’immagine di G oya in cui due lot­ tatori irsuti si sfiancano l’un l’altro a colpi di bastone, senza accor­ gersi che sprofondano assieme nelle sabbie mobili. Quel che vo­ glio dire è che bisognerebbe interrogarsi sui luoghi comuni e le trappole sotterranee di una simile controversia, così mobile, così sbieca, così insidiosa proprio perché sbieca. L a sua violenza - no­ tiamolo - attinge, nei suoi aspetti più offensivi e talvolta indegni, alla retorica delle dispute politiche, mentre in questione ci sono immagini e storia di sessantanni fa: indice sicuro che il pensiero delle im m agini, oggi, appartiene in larga misura al campo politico Q uesta violenza polem ica, tuttavia, è dovuta innanzitutto al suo stesso oggetto: come se alle immagini fotografiche del terrore nazista non potessero rispondere che sguardi tesi - per empatia o, viceversa, per rigetto - , interpretazioni inquiete fino alla vio­ lenza, fino alla crisi del discorso stesso. Se ho scelto di analizzare le quattro foto dell’agosto 1944, è proprio perché esse costitui­ scono, nel corpus conosciuto dei docum enti visivi dell’epoca, un caso estrem o, una singolarità che turba: un sintom o storico ido­ neo a rovesciare, e dunque a riconfigurare, il rapporto che lo sto-20 20. Lo avevo gii verificato dieci anni fa in occasione di un’altra polemica sullo statuto dell’arte contemporanea: cfr. G. Didi-Huberman, “D ’un ressentiment en mal d’esthétique", in Les Cabiers du Musée national d’Art moderne, n. 43,1993, pp. 102-118 (edizione ampliata con un "Post-scriptum du ressentiment i la Kunstpolitik’ , in Lignei, n. 22, juin 1994, pp. 21-62). Cfr. anche, per una formulazione filoso­ fica di questo problema, J. Rancière, Le Partage du sensible. Esthétique et politique, La Fabrique, Paris 2000.

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rico delle immagini intrattiene di solito coi suoi oggetti di indagi­ ne. In tal senso vi è allora anche, in questo caso estrem o, qualcosa che mette in questione il nostro vedere e il nostro sapere: un sin ­ tomo teorico che, come la querelle stessa pone in evidenza, ci agi­ ta insiem e - sullo sfondo della nostra comune storia.21 G erard Wajcman pensa che questa singolarità - visiva, fotogra­ fica - non ci insegni nulla che già non sappiam o e, peggio ancora, che essa induca lo spettatore alla captazione, all’errore, al fanta­ sma, all’illusione, alla credenza, al voyeurismo, al feticism o... In­ somnia, all’widea abietta”. Ecco perché Wajcman ha bisogno, con le foto di Auschwitz sotto gli occhi, di ripetere ad alta voce ciò che in molti avevano già afferm ato tem po addietro: "N on ci sono im­ magini della Shoah”. Così comincia, o forse ricomincia, il suo te­ sto polem ico.2223M a analizziamo meglio come stanno i fatti. W ajc­ man non dice una ma più cose - talvolta a sua insaputa - a partire da una sola frase chiave. N el giro di qualche pagina, possiam o leg­ gere: "N on ci sono immagini della Shoah”. Poi al singolare: "N on c’è immagine della Shoah” . Poi in maniera ellittica: “Non c’è im­ m agine” . E infine metafìsicamente: “Non c’è ”.25 L a prim a afferm azione dovrebbe denotare un fatto preciso (an­ che se rivedibile, ammette Wajcman) che concerne il sapere stori­ co: "N on si ha notizia, sino a oggi, di foto o di filmati che m ostri­ no la distruzione degli ebrei nelle camere a g a s”.24 Q uesta sareb­ be la versione fattuale dell’inimmaginabile, di cui lo stesso W ajc­ man sem bra dubitare in altre versioni della stessa ipotesi.” Se la controversia vertesse solo sulla fattualità, potrem m o chiuderla lì: semplicemente non ci siam o intesi sull’im m aginato d ell’im m agi­ 21. Questa disputa è stata già, del resto, resa oggetto di un’analisi sociologica: cfr. J. Walter, “Mémoire des camps: une exposition photographique exposce” , in I. Dragan (a cura di), Redefinition des territoires de la communication, Tritonic, Bucarest 2002, pp. 367-383; J. Walter, "Un témoignage photographique sur la Shoah: des violences en retour?”, in P. Lardellier (a cura di), Violences mediatiques. Contenus, dispositifs, effets, L’Harmattan, Paris 2003, pp. 133-155. 22. G. Wajcman, “De la croyance photographique”, cit., p. 47. 23. Ibidem, pp. 47-49,54 ("il fatto accertato, il fatto reale, assolutamente al di la di ogni volontà, di ogni coscienza e di ogni inconscio, che non c e immagine [...], fatto reale che non c’è”). 24. Ibidem, p. 47. 25. G. Wajcman, " ‘Saint Paul* Godard contre ‘Motse’ Lanzmann”, in LInfini, n. 65,1999, p. 122: "Chiaramente, non mi metto a discutere se esistano o meno im­ magini delle camere a gas. Non ne so nulla”. V

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ne, vale a dire sull’estensione della parola "Sh oah ”. Wajcman in­ tende parlare dell’operazione e del momento assolutam ente spe­ cifico del gasaggio degli ebrei, di cui non esistono in effetti docu­ menti fotografici. D al canto mio, considero invece la "distruzione degli ebrei d ’E uropa” , in linea con Raul H ilberg, come un feno­ meno storico assai più largo, com plesso, ramificato, multiforme. Ci sono state, nella storia del nazismo, un’infinità di tecniche per portare a termine la sinistra "Soluzione finale” , oscillanti tra il m ale radicale e la banalità più sconcertante. In tal senso, si è auto­ rizzati a dire che d sono davvero - e in numero cospicuo - imma­ gini della Shoah. Chiaramente, non ho mai sostenuto che le quat­ tro foto dell’agosto 1944 m ostrassero il gasaggio vero e proprio. Ma esse m ostrano com unque due momenti essenziali del "tratta­ mento speciale” (Sonderbehandlung), con le vittime condotte nu­ de verso la camera a gas, mentre altre vittime, già gasate, brucia­ no nelle fosse di incinerazione esterne al crem atorio V di Birkenau (figure 3-6). A G érard Wajcman occorrevano alcuni errori sto ria per fon­ dare la sua prim a afferm azione (fattuale, storica) trasform andola in verità universale. “Non c’è immagine della Shoah” , egli scrive, perché "i nazisti si sono preoccupati di non lasciare traccia alcu­ na e hanno vietato con rigore ogni im m agine” ; ma noi sappiam o che in realtà questo divieto fu aggirato dai nazisti stessi e in via ec­ cezionale - nel caso in questione - dai membri del Sonderkommando. Wajcman offre poi una seconda ragione: "poiché non c’e­ ra luce nelle camere a gas” ; ma d ò è semplicemente falso.*6 Infi­ ne: “poiché a cinquantanni di distanza si sarebbe già trovato qualche cosa”;2 627 ma questo qualcosa sono appunto i quattro lem­ bi fotografia noti sin dal 1945. Q ui, Wajcman ha già abbandonato l’ordine dei fatti puri e semplici: un ordine "rivedibile” non è abbastanza ai suoi occhi. 26. Ibidem, p. 122. Cfr. a contrario le testimonianze raccolte per esempio in E. Klee, W. Dressen, V. Riess, Poureux “c'était le bon temps". La vie ordinaire des bourreaux nazis (1988), tr. fr. Plon, Paris 1990, p. 216; tr. it. *Bei tempi": lo sterminio de­ gli ebrei raccontato da chi l'ha subito e da chi stava a guardare. La Giuntina, Firenze 19%. Cfr. anche i disegni di David Olère, in D. Oler, A. Oler, Witness. Images o f Auschwitz, West Wind Press, Richland Hills 1998, pp. 25-27, in cui il raggio della plafoniera è intenso tanto all’entrata nella camera a gas quanto al momento della gassificazione. 27. G. Wajcman, “ Saint Paul’ Godard contre ‘Mo'ise’ Lanzmann”, cit., p. 122.

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Non d vuole “un fatto, ma una tesi, che non sia esatta, ma vera, che sia assoluta e non rivedibile” .28 Che significa allora la tesi "N on c'è immagine della Shoah” ? Due cose. D a una parte, una trivialità di buon senso, un'evidenza filosofica nota sin dall'alba dei tem pi, ossia che "non tutto il reale è solubile nel visibile” , che "l'im m agine è impotente a trasmettere tutto il reale” .2903M a chi ha mai detto il contrario? Se la controversia riguardasse solo questa verità, potremmo chiuderla lì: semplicemente non ci siam o intesi sull 'im m aginante dell'im m agine, d o è sull’estensione delle parole “im m agine” e “reale” . Si tratta di una doppia operazione intellettuale: Wajcman assolutizza il reale, "tutto il reale” , per meglio rivendicarne i diritti; e poi assolutizza l'im m agine com e un’"imm agine tutta” , per m e­ glio revocarla in questione. D a un lato, egli dim entica così la le­ zione di Bataille e di Lacan, secondo il quale il reale, essendo "im ­ possibile”, esiste solo m anifestandosi sotto form a di pezzi, di lembi, di oggetti parziali. D all’altro, finge di ignorare che io stesso ho tentato di riflettere sulla natura essenzialmente lacunosa delle immagini. Pur non esitando a utilizzare la mia critica del visibile nei suoi recenti commenti a D ucham p e M alévitch/0 quando si parla di Shoah mi accusa invece di nutrire una fiducia - una "fe­ d e” - allucinatoria nel visibile. Com e non scorgere un venticello di disonestà in tutto questo? £ come non scorgervi anche una grande ingenuità? Wajcman crede che un atto filosofico si misuri dalla sua "radicalità” o "a s­ solutezza”. D i conseguenza, egli assolutizza e radicalizza tutto, infarcendo le sue frasi di segnali così retorici e insistenti da risul­ tare alla fine inconsistenti: “necessario” , “integrale” , “solo”, “unico” , “tutto”, “assolutam ente” , “non rivedibile” , “lo so ” , “è tutto” ecc. Ad alcune immagini particolari Wajcman vuole con­ trapporre il tutto indifferenziato di un “solo oggetto [ ...] , vero 28. G. Wajcman, “De la croyance photographique”, cit., p. 47. 29. Ibidem, pp. 47,63 (corsivo mio). 30. G. Wajcman, LO bjet du siècle, Verdier, Paris 1998, pp. 92-133 (“Rien ì voir”) che si può mettere a confronto con Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, Minuit, Paris 1992, pp. 53-85 (“La dialectique du visuel, ou le jeu de lcvidement0); oppure pp. 171-187 (“La ressemblance moderne’* comme “déchirement de la res* semblance0) che si possono mettere a confronto con La Ressemblance informe, ou le gai savoir visuel selon Georges Bataille, Macula, Paris 1995, pp. 7-30 (“Comment déchire-t-on la ressemblance?0).

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oggetto, oggetto reale [ ...] , unico oggetto. Irriducibile. Il solo og­ getto che non si possa distruggere né dimenticare. L’O ggetto as­ soluto [ ....] , im pensabile [ ...] , senza nome e senza immagine” ... che egli battezza, con un gioco di parole quantomeno discutibile, “O .A .S.” vale a dire: “ O ggetto-Arte-Shoah” .51 O ra, è proprio a questo punto, per un’entità del genere, che l’inimmaginabile di­ venta im prescindibile. È per questa entità che l’inimmaginabile si assolutizza, senza più eccezioni, finendo per estendere la sua ti­ rannia aU’“irrappresentabile”, all’“infigurabile” , all’“in visibile” o all’“im possibile”.” Ma allora, sulla Shoah, ci possono solo essere giudizi di inesistenza oppure di totalità? Eccoci nel cuore della controversia. Tutto sta nell’espressione m algrado tutto che accom pagna, nel mio titolo, la parola im m agi­ ni’. non si tratta di immagini di tutto (della Shoah intesa come un assoluto), ma di im m agini m algrado tutto. Il che significa: strap­ pate, correndo rischi inauditi, a un reale che esse non avevano certo il tem po di esplorare - di qui l’inanità del titolo di Élisabeth Pagnoux: “Reporter fotografo ad Auschwitz” - ma di cui esse riuscirono in qualche minuto a catturare in maniera lacunosa e sfuggente qualche aspetto. W ajcman, invece, rifiuta in linea di principio di situare questo m algrado tutto nella storicità della re­ sistenza ebraica ad Auschwitz, decisa a emettere qualche segnale visivo sulla macchina assassina in cui si sapeva ormai perduta. Là dove l’espressione m algrado tutto tentava di dire l’atto produttivo di queste stesse immagini - un atto di resistenza ad Auschwitz nel 1944 - Wajcman preferisce prenderla per una sem plice opinione sull’immagine in generale - un gesto di arroganza teorica a Parigi nel 2001: “M algrado tutto cosa? M algrado il fatto che la Shoah sia inimmaginabile, m algrado tutto e m algrado tutti” .” Q uesto malgrado tutto si riduce così subito alla form ula stilistica di uno “slogan” , di un “incantesimo m agico” o di una “soluzione m ira­ colo” delle aporie della Shoah intesa come concetto filosofico dell’età postm oderna.54 Q uesto rifiuto di comprendere il punto di partenza si spiega, chiaramente, col rifiuto di ammettere il punto di arrivo. Parlando 3124 31. G . Wajcman, L’Objet du siècle, cit., pp. 25,237-238. 32. G. Wajcman, “De la croyance photographique”, cit., pp. 47-48. 33. G. Wajcman, p. 48. 34. G. Wajcman, pp. 49,54.

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di due “epoche dell’inimmaginabile” , ho voluto prendere in esa­ me, uno dopo l’altro, due contro-esempi che si stagliano contro entrambi questi esempi: anzitutto, il malgrado tutto della storia stessa, che denota la resistenza politica, eroica, di quanti riuscirono a scattare le quattro fotografie di Birkenau in pieno funzionam en­ to; e poi, il m algrado tutto del pensiero che ne interroga la memo­ ria, quella che scorge nel fatto storico singolare un’eccezione teori­ ca in grado di modificare l’opinione preesistente sull’“inimmaginabile”. Se G érard Wajcman propone la sua verità come “tesi non rivedibile” , dim ostrando tra l’altro una bella indifferenza per l'e­ sattezza dei fatti - dato che dichiara di “non saperne nulla” , ma che poco importa in ogni caso” - , d ò significa che egli vuole d is­ sodare a ogni costo la storia dal concetto. E d è disposto a buttare al vento le singolarità della prima per salvare solo la generalità del secondo. Non vede alcuna soluzione di continuità, alcuna trasm is­ sione possibile, tra il tentativo dei prigionieri di Auschwitz di estrarre delle im m agini per dare a vedere qualche cosa della m ac­ china dello sterminio, e il tentativo storico, com piuto parecchi an­ ni dopo, di estrarre da queste im m agini qualche cosa da offrire alla nostra comprensione, mai completa, della Shoah. Il nodo della controversia sta dunque in una valutazione diver­ sa dei rapporti tra la storia e la teoria (questione che spesso rie­ merge n d dibattiti sullo statuto epistem ico delle immagini), così come sta in una valutazione diversa dei rapporti tra il singolare e l’universale. E perfino nelle sue conseguenze etiche ed estetiche questa querelle non cessa in fondo di riproporre la questione dei rapporti tra il fatto singolare e la tesi universale. Per W ajcman, le quattro foto dell’agosto 1944 sono m agari un fatto storico, ma non possono com unque derogare alla verità generale di un 'im ­ m agine già pensata: solo che l’immagine, per lui, non è che ingan­ no, disconoscim ento, captazione, alienazione, menzogna. E si­ gnificativo che Wajcman non abbia voluto criticare l’articolazio­ ne interna della mia analisi delle quattro immagini di Auschwitz: se l’avesse fatto, avrebbe dovuto proporre un’interpretazione dif­ ferente o divergente, un’analisi visiva o evenemenziale alternati­ va. M entre egli si limita in effetti a contestare quest’analisi nel suo principio stesso, non solo, ma a contestare ogni sguardo rivolto a 35. G. Wajcman, “‘Saint Paul’ Godard contre 'Moitse’ Lanzmann", cit., p. 122.

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tali immagini. D i m odo che, alla fine, egli le annulla com e fatti storici: “Il punto è che non c’era nulla da vedere” nella Shoah, leggiam o in fa tti* Io sono partito da un presupposto differente e, senza dubbio, ancor più pessim ista: c’era da vedere, eccome. C ’era da vedere, da sentire, da capire, da dedurre da quanto si vede e da quanto non si vede (i treni che arrivavano pieni e che ripartivano vuoti, senza interruzione). Q che però, per lungo tem po, è rim asto cu­ riosamente escluso dalla sfera del sapere. Si vedevano, m algrado ogni censura, dei segmenti della “Soluzione finale” : ma non lo si voleva sapere. O ra, così com e la radicalità del crimine nazista d obbliga a ripensare il diritto e l’antropologia (sulla sd a di quanto ha m ostrato Hannah Arendt); e così come l’enormità di questa storia ci obbliga a ripensare il racconto, la memoria e la scrittura in generale (sulla scia di quanto hanno m ostrato Primo Levi e Paul Celan, ciascuno a m odo suo); allo stesso m odo l’“inimmaginabile” di Auschwitz d obbliga, non a eliminare, bensì a ripensa­ re l’im m agine quando un’immagine di Auschwitz, per quanto la­ cunosa essa sia, d cade all’improvviso sotto gli occhi. L e quattro foto scattate nell’agosto 1944 dal Sonderkommando del crem ato­ rio V sono l’eccezione che d im pone di ripensare la regola, il fatto che ci im pone di ripensare la teoria. L'im m agine risolta dalla propria regola o dalla propria “tesi non rivedibile” doveva fare spazio, nella mia mente, a una que­ stione nuova e irrisolta: questione che rivela tutta la posta in gio­ co teorica di una im m agine ripensata interminabilmente. Non è ingiusto e perfino crudele, in nome di un concetto autoritario, contestare il progetto - magari utopico - dei membri del Son­ derkommando di Auschwitz? Se il rischio che hanno corso è indi­ ce della loro speranza in questa trasm issione delle immagini, non dobbiam o prendere sul serio questa stessa trasm issione, prestan­ do la m assim a attenzione alle immagini in questione, non come se si trattasse per forza di un inganno, ma come se si trattasse di que­ gli “istanti di verità” di cui Arendt e Benjamin hanno sottolineato l’importanza? I m id due critici, a quanto pare, sono stati a tal punto offesi dalla mia obiezione alla “tesi dell’inim m aginabile” che hanno ri­ 36. G. Wajcman, UObjet du siècle, cit-, p. 239.

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fiutato dì com prenderla e accettarla per ciò che essa è. N on ho contestato l’inimmaginabile con la stessa assolutezza con la quale loro hanno contestato il mio argomento. Entram bi confondono criticare con rigettare, rimanendo bloccati nella pseudo-radicalità del tutto o niente. Il mio tentativo - sapere qualcosa di specifico a partire' da talune immagini - muoveva esplicitam ente dall’idea che "im m aginare d ò comunque [...] noi non lo possiam o, non lo potrem o mai fare fino in fondo” . Non ho dunque mai rigettato l'inim m aginabile come esperienza. "Inim m aginabile” è stata an­ che una parola necessaria ai testimoni che si sforzavano di rac­ contare, come pure a quanti si sforzavano di ascoltarli. Q uando Zalmen Lewental inizia il suo racconto del peggio, previene il let­ tore che nessuno può immaginarsi una simile esperienza: ecco perché la racconta m algrado tutto, finché la nostra anima sia defi­ nitivamente abitata dalle immagini - precise ma parziali, sovrane ma lacunari - che egli ha scelto di trasm etterci/7 "Inim m aginabile” è una parola tragica: concerne il dolore in­ trinseco dell’evento e la difficoltà concom itante di trasm etterlo. W ajcman, facendo seguito ad altri, ne fa una "tesi non rivedibi­ le” : la parola oramai segnala lo statuto ontologico, la "purezza” dell’evento. Evento “puro da im m agini” , poiché “non c’era nulla da vedere” . È proprio a questo inimmaginabile, inim m agina­ bile come dogm a, che era rivolta la mia obiezione. P redsiam o m e­ glio il punto, poiché non è stato afferrato bene: la critica verte sul pretesto colto al volo da Wajcman per parlare sem pre in termini di regola assoluta - che si tratti di immagini in generale, di storia in generale, di Shoah in generale o di arte in generale... Davanti a questa infatuazione teorica e a questa certezza tanto grande da sdegnare perfino l’argomentazione - "è una tesi [ ...] assoluta e non rivedibile” - ho rammentato qualche fatto storico al quale Wajcman non aveva mai prestato attenzione: qualche eccezione m algrado tutto che ha un valore critico nei confronti delTinimma-37 37. Z. Lewental, citato da H. Langbein, Uomini ad Auschwitz, cit., p. 11. Dopo l'edizione di B. Mark (Des voix dans la nuit. La resistance juive à Auschwitz-Birkenau, Plon, Paris 1982) si dispone ormai di una traduzione francese più completa dei Rotoli di Auschwitz a cura di P. Mesnard, C. Saletti, in un fascicolo speciale (intito­ lato “Des voix sous les cendres. Manuscrits des Sonderkommandos d’Auschwitz") della Revue d’histoire de la Shoah. Le monde ju ifyn. 171,2001. È a quest’ultima edi­ zione che farò riferimento d*ora innanzi. \

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ginabile im posto come regola assoluta. E bisogna adesso intende­ re questo m algrado tutto come un un’obiezione al tutto, come un fascio di argomenti e di fatti m algrado il tutto dell’inimmaginabile eretto a dogm a. * Su questo punto, G erard Wajcman ha ben ragione di sentirsi direttam ente chiamato in causa. L’inimmaginabile della Shoah si­ gnifica per lui: non im m aginare nulla. N on soltanto, a suo parere, "non c’era nulla da vedere” : il che è falso (rileggiamo ancora una volta le descrizioni dèi membri del Sonderkommando) e in ogni caso non arresta affatto il movimento dell’immaginazione. Ma per di più immaginare risulterebbe "im possibile” , "assolutam en­ te escluso per ogni volontà, ogni coscienza e ogni inconscio” : il che suona davvero strano, detto da uno psicoanalista.3' Non sa­ rebbe più giusto constatare fino a che punto la Shoah investa da cima a fondo il nostro mondo immaginario e sim bolico, i nostri sogni e le nostre angosce, il nostro inconscio in generale? E fino a che punto, spesso, d sia possibile solo immaginare, il che non vuol dire ovviamente inaridire la verità di quello che si immagi­ na? Wajcman non ha mai sentito sorgere in lu i le im m agini del ter­ ribile ascoltando i testimoni, i parenti, i libri di storia, le liste in cui com paiono i nostri nomi, o scoprendo i prim i grandi incubi, le prime immagini animate in N uit et brouillardt le ricostruzioni archeologiche di Raul H ilberg, gli album di Yad Vashem, le testi­ monianze vissute nelle immagini, n d volti e nelle parole del film Shoah? L’esistenza stessa e la forma delle testimonianze contraddicono con forza il dogm a deU’inimmaginabile. È proprio in quanto espe­ rienza tragica che l’inimmaginabile richiama il suo contrario, l’at­ to di immaginare m algrado tutto. È perché i nazisti volevano ren­ dere inimmaginabile il loro crimine che i membri del Sonderkom­ mando di Auschwitz hanno d ed so di scattare m algrado tutto que­ ste quattro foto dello sterminio. È perché la parola d d testimoni sfida la nostra capadtà di immaginare quello che d racconta che noi dobbiam o tentare m algrado tutto di farlo, per cercare appunto di capire meglio la parola testimoniale. Se produrre un’immagine fu un atto di potenza affermativa, di resistenza politica da parte d d fotografi clandestini di Birkenau, rifiutare qualsiasi immagine si ri­ 38. G. Wajcman, “De la croyancc photographique”, cit., p. 54.

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vela oggi un atto di pura impotenza, un sintomo di resistenza p si­ chica di fronte al terribile che da queste foto ci guarda. Un tratto caratteristico di questa “resistenza all’im m agine” è che in essa si riproducono spontaneamente le form e tradizionali dell’iconoclastia politica: rifiuto in blocco, retorica della censura morale; volontà di distruggere gli “idoli”, ripetizione collerica delle stesse im possibilità di principio. O ra, noi sappiam o bene che l’iconoclasta odia tanto le immagini solo perché presta loro, in fondo, un potere assai m aggiore di quello che si im m agina per­ fino l’iconofilo più convinto: è la stessa storia che si ripete, dalle dispute bizantine e dai Padri della Chiesa fino alle più recenti “guerre dell’immagine” che accom pagnano attentati, m assacri e conflitti arm ati.39 C osì, quando G erard Wajcman riassum e la sua tesi sull’inimmaginabile dichiarando: “Non tutto il reale è solubi­ le nel visibile” ,40 suppone implicitamente che la tesi opposta - da lui attribuitam i - reciti: “Tutto il reale è solubile nel visibile” . Egli crede dunque che l’immagine, per il suo avversario fantasm atico, risolva il reale, o ne costituisca in un certo senso l’integrale. Se l’i­ nimmaginabile corrisponde per lui a non im m aginare n ulla, l’im ­ magine corrisponderà facilmente a im m aginare tutto. Ma perché creare una chimera concettuale, solo per destituirla subito di ogni fondam ento? Colui che, con questa violenza, solleva dei fan­ tasmi non prova forse così di essere il prim o a esserne realmente ossessionato? In una prospettiva fantom atica com e questa, che ignora ogni sfum atura teorica - e a conti fatti trascura pure ogni osservazione sensibile - l’immagine, sul piano concettuale, può essere solo un’im m agine tutta. Il che perm ette poi di disfarsene più facil­ mente, in nome di “tutto il reale” . E d è proprio contro questo presupposto che ho avanzato la mia obiezione teorica imma­ gine-lacuna, considerando legittima la ricerca archeologica sul ruolo delle vestigia visive nella storia, di cui le quattro foto del 39. Sull’uso e il problema delle immagini nel mondo bizantino, cfr. in particola­ re H. Belting, Il culto delle immagini. Storia deWicona dall*età imperiale al tardo Me­ dioevo (1990), tr. it. Carocci, Roma 2001. Su Tertulliano e il suo odio contradditto­ rio del visibile, cfr. G. Didi-Huberman, "La couleur de chair, ou le paradoxe de Tertullien", in Nouvelle Revue de Psychanalyse, n. 35,1987, pp. 9-49. Sulla soprav­ vivenza di questi problemi teologico-politici negli attuali dibattiti cfr. in particolare M.J. Mondzain, L Image peut-elle tuer?, Bayard, Paris 2002. 40. G. Wajcman, “De la croyance photographique” , cit., p. 47. \

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1944 offrono un esem pio particolarm ente eclatante. L’immagine è fatta d i tutto: altro m odo per segnalare la sua natura di am alga­ ma, di scoria, di cose visibili mischiate a cose confuse, di cose in­ gannevoli m ischiate a cose rivelatrici, di form e visive mischiate a un pensiero in atto. L’immagine dunque non è né tutto (come te­ me segretam ente W ajcman) né niente (com ’egli afferm a perento­ riamente). Se l’immagine fosse “tutta” , bisognerebbe senz’altro concludere che non d sono immagini della Shoah. M a è proprio perché l'im m agine non è tutta che risulta legittim o constatare quanto segue: d sono immagini della Shoah che, pur non dicen­ do tutto - e tantomeno “il tutto” - della Shoah, sono comunque degne di essere guardate e interrogate come fatti pred si e come testimonianze di questa tragica storia. * È su questo valore storico dell’immagine che ci si è interrogati, sotto la supervisione di uno storico della fotografia, Clément Chéroux, quando si è progettata la m ostra allestita poi nel gen­ naio del 2001 col titolo M ém oire des cam py*1oltre alla mia analisi - che chiudeva il volume pubblicato in quell’occasione - è stata la mostra stessa a “scandalizzare” Élisabeth Pagnoux. G ià solo il fatto di andarci equivaleva per ld a fare atto, non solo di voyeuri­ smo, m a peggio ancora di spietato sadism o: “Salvo essere tra co­ loro che esultano dinanzi all’orrore, sarebbe già un motivo per non recarsi alla m ostra” .4142 L e m ostre di fotografie sui cam pi nazi­ sti non sono m ai mancate tuttavia da cinquantanni a questa par­ te: basti ricordare, in Francia, il lavoro pedagogico costante del Centre de docum entation ju iv e contem poraine, i cui pannelli foto­ grafici hanno circolato dappertutto senza sollevare, a quanto mi risulta, proteste morali dello stesso tipo. Paradossalm ente, quindi, la controversia è dovuta non tanto al fatto di esporre immagini simili - lo si è fatto sovente, con imma­ gini perlopiù già note - , quanto al fatto che lo stesso medium foto­ grafico è stato m esso in discussione da questa iconografia così 41. C. Chéroux (a cura di), Mémoire des camps. Photographies des camps de con­ centration et d‘extermination nazis (1933-1999), Marval, Paris 2001. 42. É. Pagnoux, “Reporter photographe à Auschwitz”, cit., p. 89.

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spaventosa. Q uesta è la “novità” che ha scioccato i due censori. È come se ci si scandalizzasse che un linguista osi prendere in esa­ me le testimonianze scritte sulla Shoah. Ciononostante, questo genere di iniziativa corrisponde a una certa evoluzione attuale della storiografia sui cam pi di concentramento e di sterm inio na­ zisti.4’ N el suo recente libro sulla questione delle “fon ti”, Raul H ilberg ha insistito sul problem a cruciale dei materiali docum en­ tari, e in particolare dei “materiali visivi”, parlando sia della ri­ corrente difficoltà nel “decifrare ciò che si vede” in una fotogra­ fia, sia della necessità di accostarsi a un tipo di docum enti di cui “le parole restituirebbero male la ricchezza di contenuto” .434445 Era dunque abbastanza ovvio che gli storici del nazism o si confrontassero con alcuni esperti di fotografia nel progettare questa m ostra.4’ G li uni e gli altri hanno riflettuto assiem e sullo statuto particolare della documentazione visiva relativa ai cam pi, partendo da due constatazioni principali: da una parte, le imma­ gini esistenti - circa un milione e mezzo di cliché dissem inati in vari archivi - sono im m agini sopravvissute che costituiscono, m al­ grado il numero già abbondante, un’infima parte della docum en­ tazione che fu in gran parte realizzata, e poi sistem aticam ente di­ strutta all’arrivo degli alleati, dai nazisti stessi; dall’altra, queste immagini sopravvissute sono in genere im m agini m al viste, e mal viste perché m al dette: descritte m ale, didascalizzate male, classi­ ficate male, riprodotte male, utilizzate male dagli storiografi della Shoah. Che la fotografia di Rovno in Ucraina - donne e bam bini del ghetto di M izocz condotti all’esecuzione - sia ancora utilizza­ ta come docum ento sull’entrata delle cam ere a gas di Treblinka, o che i fotogram mi del bulldozer che spinge i corpi in una fossa di Bergen-Belsen siano ancora associati allo sterm inio degli ebrei col Zyklon B, ecco i fatti per cui è necessaria “un’autentica archeolo­ gia dei docum enti fotografici” , come quella proposta da Clément 43. Cfr. J. Fredj (a cura di), Les Archives de la Shoah, CDJC-L'Harmattan, Paris 1998; D. Michman, Die Historiographic der Shoah aus jùdischer Sicht, Dólling und Galitz, Hamburg 2002. 44. R. Hilberg, Holocauste: les sources de l'histoire (2001), tr. fr. Gallimard, Paris 2001, pp. 18*19. In seguito, Hilberg affronta con pertinenza - ma senza scendere troppo nei dettagli - il problema dell’inquadratura e della ‘‘composizione” (pp. 5556), consacrando anche un capitolo al problema dello “stile” (pp. 77-141 ). 45. Dsen About, Christian Delage, Amo Gisinger, da una parte, Piene Bonhomme, Clément Chéroux, Katharina Menzd, dall’altra. \

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Chéroux - archeologia che potrà realizzarsi solo “analizzando le condizioni di realizzazione di questi documenti, studiando il loro contenuto e interrogandosi sulla loro utilizzazione” .46 Programma impegnativo. O ccorre, ad esempio, avere accesso al retro delle immagini - cosa che le recenti campagne di informatiz­ zazione trascurano spesso di fare - per cogliere il minimo indizio, la minima iscrizione in grado di situare meglio l’immagine e di me­ glio identificare, per quanto possibile, l’autore della fotografia: la questione del punto di vista (di solito nazista, com’è facile intuire) in questo caso è capitale. L a mostra M émoire des camps e il suo ca­ talogo, preciso e dettagliato, offrivano un modello tipologico per un lavoro del genere, tutto ancora da compiere. E attraverso di es­ so si capiva come la fotografia dei campi fosse al tempo stesso rigo­ rosamente vietata e sistematicamente strumentalizzata dall’ammi­ nistrazione concentrazionaria;47 come i nazisti aggirassero essi stes­ si la censura e producessero “immagini da am atore” che esulavano dal quadro ufficiale;48 e come, infine, certi prigionieri riuscissero a realizzare anch’essi - dal loro punto di vista, ma a loro rischio e pe­ ricolo - queste im m agini m algrado tutto, di cui le quattro foto del­ l’agosto 1944 offrono senza alcun dubbio l’esempio-limite.49 Se la parte della mostra dedicata al periodo della liberazione ap­ pariva più completa delle altre, è perché la produzione di immagini all’apertura dei campi conobbe una fioritura senza precedenti. Ed anche perché la storiografia di quel periodo ha già abbondante­ mente riflettuto sul ruolo essenziale delle immagini. Nel 1945, quando gli stati maggiori alleati iniziano ad accumulare le testimo­ nianze fotografiche dei crimini di guerra per poter mettere in diffi­ coltà gli imputati del processo di Norim berga, comincia davvero una nuova epoca della prova visiva.50 M a comincia pure allora una 46. P. Bonhomme, C. Chéroux, “Introduzione”, in C Chéroux (a cura di). Mémoire des camps, dt., p. 10; C. Chéroux, “Du bon usage des images”, in Mémoire des camps, d t, p. 16. 4 7 .1. About, “La photographie au service du système concentrationnaire national-sodaliste (1933-1945)”, in C. Chéroux (acura di), op. à i., pp. 29-53. 48. C. Chéroux, “Pratiques amateurs”, in Mémoire des camps, dt., pp. 74-77. 49. C. Chéroux, “Photographies dandestines de Rudolf Cisar à Dachau* e “Photographies de la Résistance polonaise à Auschwitz", in Mémoire des camps, dt.,pp. 78-83. 50. C. Delage, “L’image photographique dans le procès de Nuremberg”, in C. Chéroux (a cura di), op. à i., pp. 172-173. Cfr. i lavori di C. Brink, Ikonen der Vemicbt-

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nuova epoca della prova d i resistenza visiva: un’epoca di ‘‘pedago­ gia dell’orrore”, che i governi alleati decidono di avviare e in cui giornali e cinegiornali del mondo intero si buttano subito a capofit­ to.31 D a quel momento, le immagini fotografiche divengono, nel bene e nel male, parte integrante della memoria dei cam pi.32 Ora,' di tutta questa memoria fotografica - e cinem atografica, come vedrem o in seguito - Élisabeth Pagnoux e G érard Wajcman vogliono vedere solo il peggio. E , fino a un certo punto, li si può capire: il peggio dom ina, il main stream porta in auge il peg­ gio. Un ragazzino del ghetto di Varsavia, con le braccia alzate, o s­ sessionava i nostri incubi infantili;33 mentre oggi la sua immagine ricom pare nella pubblicità di un gruppo rock.34 M a Élisabeth Paimg. Óffcntlicher Gebrauch von Fotografie» aus nationalsozialistiscben Konzentrationslagem nodi 1945, Akademie Verlag, Berlin 1998, pp. 101-142; S. Lindeperg, Clio de 5 à 7. Les actualités filmées de la Liberation: archives du fu tur, CNRS, Paris 2000, pp. 211-266, dov’è tradono anche l’articolo di L. Douglas, “Le film comme témoin”, pp. 238-255. 51. C. Chéroux, “L’*épiphanie negative’: production, diffusion et répection des photographies de la liberation des camps", in Mémoire des camps, cit., pp. 103-127; C. Chéroux, “ 1945: les seuils de l’horreur", in Art Press, fuori serie, mai 2001 (“Representer rhorreur”), pp. 34-39. Cfr. i lavori di S. Callegari, M. Guittard, C. Richez, “Le document photographique: une histoire à reconstruire", in M.-A. Matard-Bonucci, E. Lynch (a cura di), La Liberation des camps et le retour des déportés. Lhistoi­ re en souffrance, Éditions Complexe, Bruxelles 1995, pp. 101-105; M.-A. MatardBonucci, “La pédagogie de l’horreur”, in M.-A. Matard-Bonucd, E. Lynch (a cura di), op. cit., pp. 61-73; C. Brink, Ikonen der Vemichtung, cit., pp. 23-99; S. Linde­ perg, Clio d e 5 à 7 , cit., pp. 67-111,155-209. 52. La terza parte della mostra, intitolata “D tempo della memoria (19451999)”, lasciava curiosamente da parte le ripercussioni sociali della fotografia dei campi, per dedicarsi invece a un’indagine estetica assai più discutibile. Questa parte è stata criticata soprattuno da M.B. Servin, “Au sujet de l’exposition Mémoire des camps", in Revue d‘histoire de la Shoah. Le mondejuif, n. 72,2001, pp. 340-342, e da C. Baron, “À propos d’une exposition (suite)", in Revue d'histoire de la Shoah. Le mondejuif, n. 72,2001, p. 342. Sarebbe forse bastato esporre i collage di Wladyslaw Sttzeminski o VAtlas di Gerhard Richter, di cui si parla brevemente nell’articolo di A. Gisinger, “La photographic: de la mémoire communicative à la mémoire cultureUe”, in C. Chéroux (a cura di), op. cit., pp. 179-200. Per uno studio sistematico del ruolo dell’immagine fotografica nella memoria tedesca della Shoah, cfr. H. Knoch, Die Tot als Bild. Fotografien des Holocaust in der deutschen Erinnerungskultur, Hamburger Edition, Hamburg 2001. 53. Cfr. in particolare A. Bergala, Nul mieux que Godard, Cahiers du cinema, Paris 1999, pp. 202-203; G. Walter, La Reparation, Flohics, Paris 2003. 54. Cfr. P. Mesnard, Consciences de la Shoah. Critique du discours et des represen­ tations, Kimé, Paris 2000, p. 35. Si tratta di una campagna pubblicitaria nella me­ tropolitana di Paris, del gennaio 1997, destinata a promuovere la tournée del grup­ po rock francese Trust. \

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gnoux e G erard Wajcman confondono ogni cosa: in prim o luogo, quando se la prendono con la menzogna dello “scoop” o con la sconvenienza di una “rivelazione [ ...] sulla Shoah” , attribuendo agli organizzatori della m ostra M ém oire des camps l’intenzione di compiere un annuncio che solo i giornali hanno avuto l’idea di com piere.55 L’altro elemento di confusione è ancor più grave, poiché per­ vade da cima a fondo la concezione che Wajcman e Pagnoux si fanno dell’immagine in quanto tale: nessuna delle foto esposte in M émoire des cam ps è davvero adeguata al proprio oggetto, la Shoah. È forse la prova che “non c’è immagine della Shoah” ? Lo stesso ragionamento è stato ripreso da Jacqu es M andelbaum in un articolo dal titolo eloquente: “L a Shoah e le immagini che ci mancano” . Bisogna ammettere, egli sostiene, che “parlando della Shoah sono proprio le immagini che m ancano” . E a chi gli voles­ se contrapporre i tanti - e sconvolgenti - cliché riuniti nella m o­ stra M émoire des cam ps, egli risponderebbe: “Tutte le immagini note che trattano di questo crimine sono, se non false, quantom e­ no inappropriate” .5657Più radicali ancora, W ajcman e Pagnoux la­ sciano intendere che, essendo le immagini della Shoah inappro­ priate al loro oggetto, esse sono necessariam ente false e perfino falsarle. Ecco perché “non c’è immagine della Shoah” . L e imma­ gini mancano perché le immagini m entonoT Si tratta di una confusione teorica: si confonde un valore d ’esi­ stenza o uno statuto ontologico con un valore d'uso. Statuto onto­ logico? Sì, le immagini sono “inappropriate”. L e immagini non sono “tutta la verità” - non sono la adaequatio rei et intellectus della form ula tradizionale - e sono pertanto “inadeguate” al pro­ prio oggetto. Ecco un’afferm azione incontestabile, la cui genera­ lità è talmente vasta, però, da fondare solo un principio di incer­ tezza gnoseologica. L’inadeguatezza non è forse tipica di tutto ciò che utilizziamo per percepire e descrivere il m ondo? I segni del 55. G. Wajcman, “De la croyance photographique”, cit., pp. 64-65; É. Pagnoux, "Reporter photograpbe à Auschwitz", cit.» pp. 84-85 (dove le citazioni sono tratte non dal catalogo stesso ma dal settimanale Télérama). 56. J. Mandelbaum, "La Shoah et ces images qui nous manquent” , in Le Monde, 25 janvier2001,p. 17. 57. Questi due argomenti messi assieme sono, beninteso, la delizia dei negazionisti: ecco perché Robert Faurisson ha recensito con gioia Tarticolo di Jacques Mandelbaum sul sito Aaargh il 25 gennaio 2001.

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linguaggio non forse altrettanto “inadeguati” , anche se in m anie­ ra diversa? Non sappiam o da tem po che la parola “ rosa” sarà sem pre "l’assente da ogni m azzo” ? È facile cogliere allora l’aber­ razione di un argom ento che vuole gettare nella spazzatura ogni parola e ogni immagine col pretesto che non sono tutte, che non dicono "tutta la verità”. Ancora una volta, W ajcman avrebbe do­ vuto andarsi a rileggere Lacan - il fam oso “sem i-dire”58 - prim a di credersi autorizzato a maledire un’intera classe di oggetti, con la scusa che non dicono tutto. Q uanto al valore d ’uso, i due polem isti si mettono nei guai da soli, sostenendo in pratica di voler sacrificare il linguaggio intero sull’altare di una sola menzogna. Com e se, nonostante la m irìade di menzogne proferite di continuo, la parola non restasse com un­ que quanto di più prezioso noi tutti abbiam o. E come se la stessa cosa non valesse per le immagini: sì, le immagini mentono. Ma non tutte, non su tutto e non in tutte le occasioni. Q uando G e­ rard Wajcman fa notare che "siam o oggi in presenza di una buli­ mia di im m agini”5960e di menzogne, non fa altro che ripetere una triste banalità con la quale tutti ci dobbiam o confrontare (e che io stesso evocavo parlando di un "m ondo sazio e quasi soffocato di merce im m aginaria” ). È vero che il terribile di oggi - la guerra, i m assacri di civili, i carnai - è diventato esso stesso una merce, e ciò per immagini interposte. Q uando Wajcman scrìve che "non ci sono immagini della Shoah” , egli deplora allora tacitam ente l’assenza di immagini vere - d i im m agini tutte - deplorando a gran voce la profusione d i im m agini false - immagini non tutte della Shoah. Immagini false: sin dagli anni Cinquanta Roland Barthes ha criticato, nelle "foto-shock” , il loro m odo di “sovracostruire quasi sem pre l’orrore” , che rende queste immagini "false [e im m obiliz­ zate in] uno stato intermedio tra il fatto letterale e il fatto m aggio­ rato” .80 In seguito, i sociologi dei m edia hanno analizzato le di­ verse procedure di m anipolazione delle immagini, utili a indurre 58. Cfr. J. Lacan, Il seminario. XX. Ancora (1972-1973), tr. it. Einaudi, Torino 1983, p. 91: “ [...] tuna la verità è ciò che non può dirsi. È quel che può dirsi alla so­ la condizione di non spingerla fino in fondo, di limitarsi a semi-dirla”. 39. G. Wajcman, “De la croyance photographique*. cit., p. 38. 60. R. Barthes, Mythologies, Le Seuil, Paris 1957, pp. 105-107; tr. it. M iti d’oggi, Einaudi, Torino 1994. V

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questa o queh’altra credenza.61Barbie Zelizer, nella sua opera sul­ la fotografia nei cam pi, ha utilizzato un’espressione ricorrente nel mondo giornalistico: “covering atrocity” , come se “coprire l’atro­ cità” consistesse tanto nel descriverla quanto nell’occultarla.62 M a dalla copertura giornalistica al culto m ediatico, dalla costitu­ zione legittim a di un’iconografia alla produzione abusiva di icone sociali, spesso non c’è che un passo.6* Pierre Vidal-Naquet ha no­ tato giustam ente che il negazionismo ha conosciuto il suo m assi­ mo splendore “solo dopo la diffusione in larga scala [della serie televisiva] O locausto, cioè dopo la spettacolarizzazione del geno­ cidio e la sua trasform azione in puro linguaggio e puro oggetto di consum o di m assa” .64 Perfino la testimonianza audiovisiva dei so­ pravvissuti - cui Claude Lanzmann ha conferito titoli di nobiltà col film Shoah - conosce oggi una fase di industrializzazione.6* Che fare allora? Si può cominciare a dubitare delle im m agini, ossia a reclamare uno sguardo più esigente, uno sguardo critico che cerchi soprattutto di non lasciarsi corrom pere dall’“illusione referenziale” . Q uesta è stata la posizione difesa da Clément Chéroux e Ilsen A bout.66 Solo che ogni critica conseguente desidera serbare l’esistenza del suo oggetto. Si critica solo ciò di cui ci si in­ 61. Cfr. L. Gervereau, Les Images qui mentent. tìistoire du visuelau XX siècle, Le Seuil, Paris 2000 (soprattutto pp. 203-219); L. Gervereau, Un siede de manipula­ tions par l’image, Somogy, Paris 2000 (soprattutto pp. 124-131). 62. B. Zelizer, Remembering to Forget. Holocaust Memory Through &e Camera’s Eye, Univcnity of Chicago Press, Chicago-London 1998, pp. 86-140. Cfr. anche G.H. Hartman, The Longest Shadow. In the Aftermath o f the Holocaust, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 19%; A. Liss, Trespassing Through Shadows. Me­ mory, Photography, and the Holocaust, University of Minnesota Press, MinneapolisLondon 1998. 63. È quanto illustra bene l’opera di Y. Doosry (a cura di), Representations o f Auschwitz. SO Years o f Photographs, Paintings, and Graphics, Auschwitz-Birkenau State Museum, Oswiedm 1993. 64. P. Vidal-Naquet, Les Assassins de la mémoire. *Un Eichmann de papierF et autres essais sur le rétnsionnisme, La Découverte, Paris 1991, p. 133. 65. Cfr. J. Walter, “Les archives de l’histoire audiovisuelle des survivants de la Shoah. Entre institution et industrie, une mémoire mosai'que en devenir', in J.-P. Bertin-Maghit, B. Fleury-Viiatte (a cura di), Les Institutions de l’image, Editions de l’EHESS, Paris 2001, pp. 187-200. Per una riflessione di ampio respiro su questa pro­ blematica cfr. il periodico Cahier International - Études sur le témoignage audiovisuel des victimes des crimes et genocides nazis, Edition du Centre d ’Études et de Do­ cumentation-Fondation Auschwitz, Bruxelles 19%-2002. 6 6 .1. About, C. Chéroux, “L’histoire par la photographie” , in Études photograpbiques, n. 10,2001, pp. 9-33.

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teressa: criticare non significa rigettare, e rigettare non significa criticare. Eppure, è proprio a un ripudio delle im m agini - che consiste nel non dubitare affatto che esse siano sem pre “ false” che si dedica G érard Wajcman. Non facendo, d ’altronde, che se­ guire così un altro main stream : lo scetticism o radicale del discor­ so postm oderno sulla storia (ci ritornerò) e sull’imm agine, anche fotografica.67 C ’è stato senza dubbio un tempo in cui si è abusato del criterio di “indizialità” e dell’“è stato” barthesiano: ogni volta che si guardava una foto si parlava subito di ontologia, diverten­ dosi m agari con le im passe formali di questo mezzo. M a optare ipso facto per il punto di vista diametralmente opposto significa solo sostituire il niente al tutto. Significa solo perdere di vista la potenza fotografica stessa e il punto - problem atico chiaramente - in cui l’im m agine tocca il reale. Lungi dall’interrogarsi su tutto ciò, G érard W ajcman si limita invece a declam are i suoi lunghi sermoni iconoclasti, in cui tutto si confonde per essere poi butta­ to via: foto d ’archivio e volgarità hollywoodiane, scienza storica e “ideale televisivo” , il tutto im pregnato di “un certo spirito del cristianesim o”: Amiamo le immagini [...]. È una passione umana divorante che anima la nostra epoca. [È] questa, ho timore, una delle molle essen­ ziali che hanno scatenato una simile adesione pubblica alla mostra Images des camps [i/c]. Dare un luogo e un’occasione a [...] delle immagini per fare da sfogo [...] e per consolare magari, diventando un visibile ostensorio del nostro amore per le immagini. [...] Come dimenticare, nel vasto commercio di immagini dei campi cui abbiamo assistito in questi ultimi tempi, che il successo mondiale e i pubblici riconoscimenti dei film di Spielberg e Benigni si basano sul sentimento comune, potente e incancellabile, che si possa e si debba rappresentare la Shoah [...], [che] si possa dunque andare a vedere in tutta tranquillità La vita è bella portandoci anche i figli, da­ to che si tratta di una buona azione condita per di più di un sano di­ vertimento. [...] L’idea che tutto il visibile sia virtualmente visibile [rie], che si possa e si debba mostrare tutto e vedere tutto [...] è un credo della nostra epoca (un credo non senza legami col fantasma di una scienza del reale che sarebbe interamente penetrabile e non sen­ za legami con un certo spirito del cristianesimo, polarità queste che, lungi dal respingersi l’un l’altra, si annodano assieme nell’ideale tele­ 67. È questa la posizione difesa di recente da Y. Michaud, “Critique de la crédulite. La logique de la relation entre l'image et la réalité", in Étudesphotographiques, n. 12,2002,pp. H I- 125. \

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visivo - è la televisione infatti il luogo in cui si congiungono la pas­ sione cristiana dell’immagine e la fede scientifica nella trasparenza reale del mondo, ottenuta grazie ai mezzi della tecnica).4*

Amalgami, più che argomenti: in meno di tre pagine, un pro­ blema di conoscenza (analizzare le quattro foto realizzate dalla re­ sistenza ebraica ad Auschwitz) viene rovesciato in un problem a di m ostra (come se l'im presa di Clément Chéroux fosse assim ila­ bile a una qualsiasi altra esposizione di fotografie), che a sua volta viene rovesciato in un problem a di divertim ento (“il successo m ondiale dei film di Spielberg e Benigni"), che a sua volta viene rovesciato in un problem a di abbrutim ento (“la televisione”). La verve polem ica fa dimenticare così a Wajcman che, parlando di immagini fotografiche realizzate dai membri di un Sonderkommando votato alla morte e di immagini cinem atografiche realizza­ te dai membri dell’équipe di Spielberg o di Benigni, non è delle stesse immagini che stiam o parlando. Se l’inimagine non è tutta, l'immagine non è nemmeno sem pre la stessa: è questo che W ajc­ man sem bra voler ignorare a tutti i costi, coi suoi fantasm i su un “consenso” dell'im m agine che avrebbe, in tutti i casi, l’unico va­ lore - ossia l’unico difetto - di costituire una menzogna. ★ D i qui il tema del feticism o generalizzato, questo potere perver­ so delle immagini sulle nostre coscienze e sui nostri inconsci. Élisa­ beth Pagnoux costruisce il motivo con una collana apotropaica di parole come “perversità”, “finzione” - da cui deriva, come noto, anche la parola “feticcio"6869- , “voyeurismo” e “godimento dell’or­ rore” . “L a foto non rimpiazzerà mai lo sguardo”,70 sembra la sua grande scoperta. £ questa scoperta è sfruttata per vietarci le quat­ tro fpto dell’agosto 1944. Poiché guardarle sarebbe una finzione (“accanimento nel costruire il niente”) e cioè una menzogna (“pos­ siamo entrare nelle camere a gas”: allusione esplicita alla nauseante scena delle docce della U sta d i Schindler). Sarebbe come andare troppo vicino, con uno sguardo “ossessionato dall’interno” e pro­ 68. G. Wajcman, "De la croyance photographique” , cit., pp. 58-60. 69. É. Pagnoux, “Reporter photographe à Auschwitz” , dt., p. 94. 70. Ibidem, p. 91.

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cedendo alla "negazione della distanza”. Ma sarebbe anche come andare troppo lontano (“ci si allontana da Auschwitz” ), come vede­ re troppo, fino al “voyeurismo”. E sarebbe allora come non vedere nulla, “accanendosi a distruggere lo sguardo”.71 Perché tutti questi rovesciamenti? Perché la semplice attività di “guardare le foto” serve solo, secondo Pagnoux, a “far tacere i testim oni” e addirittu­ ra a perpetuare sadicamente l’opera di morte dei nazisti: Una foto della camera a gas trasmette l’orrore allo stesso modo in cui lo perpetua. [...] Perpetuarsi, cioè annientare, continuare ad an­ nientare. [...] Per chi conserva il ricordo del crimine, l’idea di guar­ darne ancora un’immagine [...] è insopportabile e una foto non in­ segna nulla che già non sapessimo.7237

Q uesta concezione è dom inata interamente, com ’è chiaro, ol­ tre che dal m oralism o, da un antagonism o tra vedere e sapere (mentre uno storico delle immagini cerca, com ’è non meno chia­ ro, di mettere in luce i loro punti di contatto). Le immagini, se­ condo Pagnoux e W ajcman, non ci insegnano nulla, peggio ci at­ tirano in quella menzogna generalizzata che è la fede. 11 “fetici­ sta” è allora colui che crede di apprendere qualcosa da ciò che ve­ de in una fotografia: egli sacrifica alle false divinità, agli idoli (sen­ so tradizionale del concetto di feticcio) o alla merce spettacolare del capitalism o generalizzato (senso m arxista, o situazionista, del feticism o). A questa autentica diabolizzazione dell’immagine Wajcman tenta di offrire una cauzione psicoanalitica, connetten­ do d ’ufficio il paradigm a religioso della fede col paradigm a psico­ patologico della perversione sessuale: C ’è [...] qualcosa in queste quattro immagini che ha a che fare con l’ostensione della sindone di Auschwitz. [... ] La verità è rivelata dall’immagine, attestata dall’immagine, perché queste immagini sa­ rebbero quanto ci resta di visibile su Auschwitz. [Questa operazione obbedisce a] una feticizzazione religiosa [...] di cui Freud ha smon­ tato il meccanismo [...] feticista, quello che si impegna a ricoprire l’assenza, la mancanza a vedere di tutte quelle cose che egli esporrà e adorerà come altrettante reliquie del fallo mancante.” 71. Ibidem, pp. 87,90,94,102-103. 72. Ibidem, pp. 89,92-93. 73. G. Wajcman, “De la croyance photographique", cit., pp. 81-83.

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Al dì là della questione del vedere e del sapere si pone dunque, in queste righe, la questione dell’im m agine e della verità. L a mia analisi delle quattro foto di Auschwitz supponeva in effetti che entrasse in gioco un certo rapporto - lacunoso, “a lem bi” , prezio­ so quanto fragile, evidente quanto difficile da analizzare - tra Pimmagine e la verità. H o prim a guardato queste immagini come im m agini-fatti. Cioè come un tentativo di rappresentazione visiva condotto dai membri del Sonderkommando immersi in questo mondo infernale in cui si sapevano condannati, e al tem po stesso come un gesto concreto, politico, clandestino, come l’atto di scat­ tare quattro foto dello sterminio dall’interno del cam po, per tra­ smetterle all’esterno, attraverso la resistenza polacca. In questa prospettiva, i cliché dell’agosto 1944 sono im m agini della Shoah in atto - anche se estremamente parziali, come sono in genere le immagini - e al tem po stesso un fatto di resistenza storica com po­ sto di immagini. Per W ajcman, al contrario, queste quattro foto non sono che im m agini feticci. Il suo giudizio muove da due "tesi non rivedibi­ li”: in primo luogo, ogni verità si basa su una mancanza, un’assen­ za, una negatività non dialettizzabile (tesi di ispirazione lacaniana); in secondo luogo, "ogni immagine è una sorta di denegazio­ ne dell’assenza” , ossia: "N essuna immagine può m ostrare l’assen­ za”, poiché “l’immagine è sem pre afferm ativa” .74 Conclusione: ogni immagine si rivela un "sostituto attraente” della mancanza, cioè un suo feticcio. U ragionamento si chiude così in fretta su questa redibitoria im m agine tutta che, in un contesto più nobile l’“opera d ’arte” , di cui Wajcman pretende, senza scherzare, di aver trovato la “definizione”7’ - , il ragionatore è obbligato a do­ mandarsi se non esistano m algrado tutto immagini di un altro ge­ nere: “O pere visive che si rifiutano a noi e ci ignorano. Q uadri per i quali ogni sguardo sarebbe come un’effrazione” .76Certo che sì. Ma allora perché non proporre a G érard Wajcman quest’altro 74. G. Wajcman, L’Ob/et du siede, cit., pp. 207,243. 75. G. Wajcman, Collection, svivi de VAlliance, Nous, Caen 1999, pp. 63-64: “Per definizione, Io spazio dell’arte è l’universale e la sua unità, è l’opera singolare. [...] Si chiama dunque opera d’arte un oggetto assolutamente singolare, insostitui­ bile e irriproducibile [...]. L’opera come d ò che non assomiglia a niente e non rap­ presenta niente. Essa presenta, e si presenta. H modo d’essere nel mondo di que­ st’oggetto è la presenza”. 76. Ibidem, p. 46.

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genere di eccezione: immagini che noi abbiam o la tendenza a ri­ fiutare ma che tuttavia non ci ignorano e perfino supplicano uno sguardo da parte nostra? Non è forse questo il caso delle foto di Birkenau, i cui autori hanno fatto di tutto per attirare la nostra at­ tenzione, affinché noi potessim o com prendere visivam ente qual­ cosa di quanto stava accadendo laggiù? Wajcman però si spinge troppo oltre con la sua logica della terra bruciata. E non può certo fare marcia indietro. C iò che è bendisposto a concedere a taluni “quadri” , di preferenza astratti, non lo concede com unque alla fotografia, a tutta la fotografia. E con la stessa serietà con la quale ci fornisce “la” definizione dell’opera d'arte, si crede autorizzato a giudicare “la” fotografia in generale come “specialm ente orientata al feticism o” , cosa in virtù della quale essa va espulsa, semplicemente, dal dom inio dell’arte: [...] al di là di queste fotografie, è la fotografia come disciplina che sembra rivelarsi qui. Non soltanto si ha la sensazione che la foto­ grafia susciti in misura spedale il feticismo, ma che d sia qualcosa come un feticismo fotografico fondamentale (e l’estrema frenesia che anima il mercato della fotografia ne sarebbe un sintomo indubi­ tabile). Aggiungo che questa logica feticista della fotografia non sol­ tanto ai miei occhi rende difficile considerare la fotografia come un’arte, ma sembra addirittura portarla in una direzione contraria a quella dell’opera d’arte.77

In queste righe non c’è solo traccia di un disconoscim ento. G érard W ajcman deve ben aver visto una o due opere di Brassai*, di Man Ray, di Kertesz. Il suo giudizio è così aberrante, nella sua radicalità, da sem brare dovuto non a ignoranza ma a un diniego, per l’appunto. Recidendo ogni possibile legam e tra la verità e la fotografia, Wajcman non fa che occultare il potere stesso - altri direbbero: l’irruzione, la specificità - di quest’ultima nella storia delle tecniche di rappresentazione visiva: parlo del suo carattere di registrazione, di quella fam osa indizialità di cui i postm odernisti hanno avuto torto a stufarsi così in fretta.78 Non c’è affatto bi77. G. Wajcman, “De la croyance photographique”, cu., p. 82. 78. È questo un tema che, a causa di riferimenti troppo esclusivi a R. Barthes (La Camera chiara. Nota sulla fotografia [1980], tr. it. Einaudi, Torino 1980) e R. Krauss (Teoria e storia della fotografia [ 1978-1985], tr. it. Bruno Mondadori, Milano 1996), s\è visto poi escluso troppo repentinamente dal dibattito.

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sogno di una particolare em patia con Barthes per sapere che m algrado tutto - d o è m algrado i loro lim iti form ali, la loro grana, la loro relativa oscurità, la loro inquadratura parziale - le quattro immagini del Sonderkom m ando non costituiscono un “sostituto attraente” dello sterm inio degli ebrei nelle camere a gas, ma sem ­ mai un punto di contatto possibile, reso praticabile dal mezzo fo­ tografico, tra Ximmagine e il reale di Birkenau nell’agosto 1944. Certo, è sem pre possibile feticizzare un’immagine. M a que­ sto valore d'uso, una volta ancora, non dice nulla dell’immagine stessa, e in particolare del suo valore d i verità. Q uando il perver­ so sessuale scam bia una scarpa per un sostituto del pene m ater­ no, la scarpa non per questo cessa di essere una scarpa, trasfor­ m andosi per tutti in un’illusione fallica. È solo ragionando per rovesciam enti continui dell’uso (possibile) in verità (necessaria) che W ajcman giunge alla sue aberranti conclusioni. D ’altronde, egli non soltanto opera un diniego della realtà della fo to grafia, ma anche un diniego della realtà del feticcio - il che in fondo è ancor più sorprendente. Citando a suo sostegno la fam osa for­ mula introdotta da O ctave M annoni per definire il diniego per­ verso - “L o so bene, e p p u re ...”79 - egli ne rovescia punto per punto la struttura teorica, che è poi un m odo di pervertirla. Per M annoni, com e per Freud, la costituzione feticista è originata da un’esperienza della realtà che contraddice una teoria imma­ ginaria (quella del fallo m aterno). Il diniego interviene allora co­ me un tentativo di serbare la teoria m algrado tutto (“lo so bene che non ha un fallo, eppure io adoro la sua scarpa, di m odo che la m ia fede reggerà ancora grazie alle virtù di quest’oggetto... ” ). Nella controversia che ci oppone, in questo caso frontalm ente, Wajcman affianca la teoria im m aginaria alle “immagini m algra­ do tutto” e l’esperienza della realtà alla propria “tesi non rivedi­ bile” . Io penso viceversa che la sua “tesi non rivedibile” sia una teoria im m aginaria, im a fede di partenza nell’inim m aginabile della Shoah, contraddetta dall’esperienza singolare delle quat­ tro “immagini m algrado tutto” . E bisogna chiedersi se, in un d i­ battito del genere, la nostra conoscenza progredirà grazie alla smentita di fatti singolari in nom e di una tesi generale o grazie 79. O. Mannoni, Clefs pour l’imaginaire, ou l’autre scène, Le Seuil, Paris 1969, pp. 9-33.

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alla sm entita della tesi generale sulla base di fatti precisi e degni di considerazione.80 M a torniamo al feticcio, sorta di ante-fatto. Quali ne sono le ca­ ratteristiche? Wajcman non lo precisa e si limita ad agitarne la tri­ viale panoplia - “scarpe, calze e mutandine”81823- com e se la cosa andasse da sé. Sarebbe stato necessario tuttavia, a rigor di m etodo, chiarirne le caratteristiche, per poi ricercarle e individuarle nella mia analisi delle quattro immagini in questione. Puntualizziamo meglio: Freud, forgiando il concetto di feticcio, intendeva dire che esso form a un 'im m agine totalitaria, in virtù della congiunzio­ ne che in esso si effettua tra il “sostituto” (Ersatz) e lo “scherm o” (Deche).92 Ecco perché, contrariamente a quanto afferm a W ajc­ man, la nozione di feticcio e quella di reliquia non sono affatto equivalenti.0 Se i “lem bi” fotografici di Birkenau sono davvero delle im m agini e dei resti dell'esperienza vissuta dai membri del Sonderkommando, essi non per questo sono i “sostituti attraenti” e totalitari di una feticizzazione. Per quanto mi riguarda, mi rifa­ cevo all’idea assai più m odesta di una “necessità lacunosa” . In secondo luogo, Pimmagine-feticcio è un ferm o im m agine. Q uesta caratteristica fondam entale è stata più e più volte sottoli­ neata da Jacques Lacan: “Il desiderio perverso si fa supporto di un oggetto inanim ato” , egli proclam ava già nel prim o sem ina­ rio.84 E tre anni dopo, affrontando La relazione d ’oggetto, precisa­ va ulteriormente la sua idea del diniego della realtà come ferm o sguardo, se così possiam o dire: “Infatti, ciò che sta al principio 80. Si tratta di un celebre dictum del metodo sperimentale, che si deve a Claude Bernard: “Quando il fatto che si incontra è in contrapposizione con la teoria domi­ nante, bisogna accettare il fatto e abbandonare la teoria, anche se quest’ultima, so­ stenuta da grandi nomi, è generalmente accettata”. Secondo Octave Marinoni que­ sto principio è all’origine anche della psicoanalisi freudiana: “Non era tanto per co­ stituire la psicoanalisi, quanto per togliere degli ostacoli. [Freud] ha visto come Charcot mettesse da parte le teorie (“le teorie, va bene, ma bisogna pur esistere”) per conversare con le isteriche, senza andare a cercare il loro segreto nei laboratori di istologia” (O. Marinoni, Qi n'empècke pas d'exister, Le Seuil, Paris 1982, p. 33). 81. G. Wajcman, “ De la croyance photographique”, cit., p. 81. 82. S. Freud, Tre saggi sulla teoria sessuale ( 1905), tr. it. in Opere, Bollati Boringhieri, Torino 1989, voi 4, p. 468 (nota del 1920). 83. È quanto ha dimostrato tempo addietro P. Fédida, “La relique et le travail du deuil”, in Nouvelle Revue depsychanalyse, n. 2,1970, pp. 249-254. 84. J. Lacan, Il seminario l. G li scritti tecnici di Freud ( 1953-1954), tr. it. Einaudi, T Per quanto mi riguarda non facevo tuttavia che rammentare, contro il platonism o triviale dell’immagine-illusione, la posizione aristotelica classica, sperim enta­ le e non idealistica, secondo la quale “poiché non c’è nulla, a quanto pare, che esista separatam ente a parte le grandezze sensibili, è nelle forme sensibili che gli intelligibili esistono [...]. E d ecco perché [...] l’esercizio stesso dell’intelletto deve essere accom pagnato da ima immagine” .82834 D a dove, allora, Lanzmann trae la strana idea di un im m agine senza immaginazione, quasi che l’immagine dovesse contenere - e non potesse farlo in questo caso - l’immaginazione che la suscita o da cui essa è suscitata? Com e può un oggetto possedere una volta per tutte le caratteristiche dello sguardo che si getta su di esso e della com prensione che se ne può trarre? L’immagine d ’archi­ vio che tengo fra le mani è solo un oggetto, è solo una copia fo­ tografica indecifrabile e insignificante finché non stabilisco 82. G . Wajcman, "D e la croyance photographique”, d t., p. 82 (corsivo mio). 83. ìbidem, pp. 49,72. 84. Aristotele, De anima, m, 8 ,432a. Aristotele, Della memoria e della remini­ scenza, 449b-450a: "È impossibile pensare senza immagine [...]. La memoria, an­ che quella degli intelligibili, non esiste senza immagine”.

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una qualche relazione - immaginativa e speculativa - tra ciò che ci vedo e ciò che so per altra via. Si sarebbe tentati di credere che nell’opera di Jean-Paul Sar­ tre - di cui Lanzmann era un conoscente stretto - si possa ritro­ vare una giustificazione di questi concetti di immagine e di im­ maginazione! Ma, in realtà, è possibile verificare l’esatto contra­ rio. Ben lungi dal richiamarsi all’inimmaginabile, Sartre insisteva semmai sul ruolo dell’immagine nel pensiero e nel sapere, che non possono disfarsi del proprio necessario passaggio attraverso la vista dell’oggetto'. Sempre pronto a sprofondare nella materialità dell’immagine, il pensiero sfugge via riversandosi subito in un’altra immagine, e così via. [...] È assurdo che un’immagine possa nuocere o frenare il pen­ siero, a meno di non intendere con ciò che il pensiero nuoce a se stesso, si perde da solo in meandri e svolte, t —] H pensiero assume la forma di immagine quando vuol essere intuitivo, quando vuol fondare le proprie affermazioni sulla vista dell’oggetto.*’

Tutta la rivalutazione sartriana dell’immaginazione, come noto, si basa sull’ipotesi che l’oggetto non sia nell’immagine e l’immagine non sia un oggetto sminuito, una "cosa da m eno” .858687 Q uando Élisabeth Pagnoux e G erard Wajcman sostengono che guardare un’immagine di Auschwitz equivale a credersi in essa, essi confondono ciò che Sartre si premura invece di distingue­ re: l’im maginazione (involversi nell’immagine) non può essere ridotta a una fa lsa percezione (ingannarsi sul reale). Perché? Perché, se l’oggetto non è »e//'im m agine (come Wajcman crede che io creda), l’oggetto è preso di mira d all’immagine (idea che Sartre sviluppa a partire dalla nozione di intenzionalità).’7 A f­ fermare, contro la tesi dell’inimmaginabile, che ci sono imma­ gini della Shoah non significa pretendere che "tutto il reale sia solubile nel visibile” e che tutto il crimine nazista si trovi in quattro immagini fotografiche. Significa scoprire, più sempli85. J.-P. Sartre, L’Imaginaire. Psychologie phénoménologique de 1’imagination (1940), Gallimard, Paris 1980, pp. 229,235; tr. it. Immagine e coscienza. Psicologia fenomenologica dell'immaginazione, Einaudi, Torino 19801. 86. J.-P. Sartre, L’Imagination (1936), PUF, Paris 1981, p. 5; tr. it. Immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, Bompiani, Milano 2004. 87. J.-P. Sartre, L'imagination, cit., pp. 139-159. 144

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cernente, che noi possiam o passare attraverso queste quattro immagini per prendere di mira con maggiore precisione quella che fu la realtà di Auschwitz nell’agosto 1944. E d è appunto con questa intenzione che i membri del Sonderkommando cor­ sero tanti rìschi per trasmetterci una simile possibilità di imma­ ginazione. Parlare di un’immagine-senza immaginazione significa divi­ dere, letteralmente, l’immagine dalla sua attività, dalla sua dina­ mica. È ovvio che, nella m assa enorme di cose visibili che ci cir­ condano, non tutte meritano da parte nostra che ci si attardi a decifrare la loro specifica dinamica. M a, per l’appunto, non è questo il caso delle quattro immagini di Birkenau. Rifiutare di accordare a esse la nostra immaginazione storica equivale a re­ spingerle nella zona insignificante delle immagini di fantasia, delle "cose da m eno” . Se ‘Tim m agine è un atto e non una cosa” , come Jean-Paul Sartre ha detto giustamente,'* è allora come at­ to e non come “ cosa da meno” - che contiene semplicemente delle informazioni - che bisogna guardare queste quattro im­ magini. E di qui deriva la necessità di dispiegarne, il più possi­ bile, la fenomenologia. Non si tratta però di una fenomenologia della percezione in senso stretto, bensì - come afferma Sartre - di una fenomenolo­ gia della quasi-osservazione del mondo.*9 G uardare l’immagine credendo di percepire direttamente gli oggetti della realtà che vi si rappresentano - e che addirittura, nel caso fotografico, vi sono registrati - significherebbe ad esempio provare ad aggira­ re la coltre di fumo nella prima serie di foto, per “andare a vede­ re quel che sta là dietro” (figure 3-4). Cosa certo assurda e im­ possibile: non è così che bisogna guardare un’immagine. Men­ tre lo studio del punto di vista, della grana dell’immagine, delle tracce di movimento, tutto questo può essere sfruttato per arti­ colare Vosservazione dell’immagine con la quasi-osservazione degli eventi che essa rappresenta. Q uesta quasi-osservazione, lacunosa e fragile, diviene poi a sua volta interpretazione, o “let­ tura” nel senso di Benjamin, quando sono raccolti tutti gli ele-89 88. Ibidem, p. 162. 89. J.-P. Sartre, L’Imaginaire, d t., pp. 20-28 (“Le phénontiène de quasi-observation"), 231-235 (“Image et perception”).

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menti di conoscenza - documenti scrìtti, testimonianze dell’e­ poca, altre fonti visive - suscettibili di essere ricomposti daW'im­ maginazione storica in una sorta di montaggio o di puzzle che assume il valore, per usare le parole di Freud, di una "costruzio­ ne nell’analisi” . Definendo “voyeuristico” , “feticistico” o “allucinatoti©” il mio tentativo, i miei crìtici vogliono forse dare a intendere che queste quattro foto documentano un'altra realtà rispetto a quella di cui parlo io? All’idea che “queste foto [figure 3-4] siano prese dal didentro di una camera a gas” , Claude Lanzmann contrappo­ ne un dubbio radicale: “Nulla permette di affermarlo. Nessuno lo sa” .90 Élisabeth Pagnoux aggiunge senza esporsi troppo: “Una foto dall’interno. È assolutamente certo? Pongo solo la doman­ d a”.91 E G erard Wajcman precisa: Ma l’immagine di che? Nelle quattro fotografìe, Georges DidiHuberman dà subito un’estrema importanza al riquadro nero creato dal muro in controluce attorno alla finestra attraverso la quale le foto furono scattate. [...] Questa massa nera diventa “l’at­ testazione visibile” del luogo da cui le foto furono scattate, il lato nord della camera a gas del crematorio v, secondo Georges DidiHuberman, [...] un’ipotesi sulla quale conviene serbare qualche dubbio dato che nulla ci assicura che si tratti veramente della ca­ mera a gas.9293

Serbiamo pure “qualche dubbio” : guardiamoci bene dall’es­ sere perentori. Ma guardiamo anche le due foto di questa se­ quenza (figure 3-4) che ci mostrano incontestabilmente le fosse di incinerazione scavate nella primavera del 1944 in concomi­ tanza con lo sterminio intensivo degli ebrei ungheresi. Queste fosse, di cui parlano tutti i testimoni, sono visibili anche nelle fo­ tografie aeree scattate dagli aviatori americani nel giugno 1944.9> Se la loro localizzazione è ben attestata, le due foto del Son90. C. Lanzmann, “La question n’est pas celle du document”, cit., p. 29. A ciò egli aggiunge, in perfetta malafede, che io avrei avuto “l’intenzione oscura di farci credere che disponiamo di foto su d ò che accadeva all’interno di una camera a gas durante l’operazione di gassificazione” (corsivo mio). 91. É. Pagnoux, “Reporter photographe à Auschwitz", d t., p. 90. 92. G . Wajcman, “De la croyance photographique”, d t., p. 79. 93. Cfr. in particolare J. Fredj (a cura di), Auschwitz, camp de concentration et d‘extermination. Centre de Documentation juive contemporaine, Paris 2001, p. 70.

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derkommando possono essere state scattate solo, logicamente, dal lato nord del crematorio V. E là dove Wajcman vede una fine­ stra (per scansare a tutti i costi l’ipotesi che queste foto siano sta­ te scattate da una camera a gas) io vedevo e continuo tuttora a vedere - cercando di combinare assieme i punti di vista delle due immagini - una porta. Come decidere allora, sulla base dei quasi-osservazione soli cliché, ossia di una È a questo punto che la perizia "archeologica” delle ricostru­ zioni di Jean-CIaude Pressac mi sembra offrire la soluzione più verosimile proposta sino a oggi, basata tra l’altro sulla testimo­ nianza di uno dei pochi sopravvissuti di tutta l’operazione - as­ sieme ad Alter Foincilber e Szlomo Dragon - , la testimonianza cioè di David Szmulewski: le foto sarebbero state scattate pro­ prio da dietro la porta, nella seconda camera a gas del cremato­ rio V (figura 13). Pressac si è spinto fino al punto di realizzare una fotografia "sperimentale” destinata a ritrovare, nelle attuali

Figura 13 Schema ricostruttivo dei posti occupati dai membri del do per realizzare i due cliché delle fosse di incinerazione nell’agosto 1944. Tratto da J.-C. Pressac, Auschwitz: Technique and Operation o f the G as Chambers, New York, 1989, p. 422.

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Sonderkomdi Auschwi A u sch a gosto 1944. Osw Stato di Auschwitz-Birkenau (negativi n. 282-283). Tratto da Mémoire des camps, a Figure 14-15 Anonimo (membro d d

verso la camera a gas del crematorio V di

cura di C. Chéroux, Parigi, 2001, p. 88.

rovine del crematorio V, il punto di vista esatto da cui furono realizzate le immagini dell’agosto 1944.94 Non diremo, beninte­ so, che la sua è ima tesi “non rivedibile” (e d ’altronde, tra poco, la sottoporremo a revisione). M a per invalidarla bisognerebbe trovarne un’altra che sia puntellata ancor più solidamente sui fatti storici, sulle testimonianze, nonché sulla configurazione dei luoghi e delle immagini. Sfogliando semplicemente il catalogo dell’esposizione Mémoire des ,cam p s G erard Wajcman avrebbe potuto accorgersi del fatto che le due sequenze dell’agosto 1944 sono state “ feticizzate” così poco - senza farne la risposta definitiva del visibile alla mancanza - da diventare oggetto, in effetti, di due letture differenti, basate su due diversi approcci delle lacune visive ine­ renti a questo “pezzo di pellicola” . Durante le sue ricerche al museo di Auschwitz, Clément Ché­ roux, studiando il documento “originale” - cioè le quattro im­ magini-contatto di cui si è perso il negativo - , ha notato sul bor-

94. J.-C . Pressac, Auschwitz: Technique and Operation ofthe Gas Chambers, dt., pp. 422-424. Per una descrizione predsa del crematorio V, cfr. le testimonianze di S. Dragon, A. Foincilber, H. Tauber, “ Procès-verbaux" ( 1945), tr. fr. in Revue re de la Shoah. Le mondejuif,n . 171,2001, pp. 174-179,200. Queste testimonianze sono utilizzate da J.-C. Pressac, “ Étude et realisation des Krematorien IV et v d ’Auschwitz-Birkenau", in L'Allemagnenave et le genocidejuif: colloque de l ris,juillet 1982, Gallimard-Le Seuil, Paris 1985, pp. 539-584.

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Figure 16-17 Anonimo (membro del Sonderkommando di Auschwitz), Cremazione di corpi gasati in fosse di incinerazione all'aria aperta, davanti alla camera a gas del crematorio v d i Auschwitz, agosto 1944. Oswiecim, Museo di Stato di AuschwitzBirkenau (negativi n. 277*278). Tratto da Mémoire des camps, a cura di C. Chéroux, Parigi, 2001, p. 89.

do di uno dei cliché (figura 3) un resto , se così pos­ siamo dire. Ora, questo “resto” è facilmente riconoscibile: vi si può vedere lo stesso tronco d ’albero e lo stesso fogliame dell’al­ tro cliché (figura 5). Clément Chéroux ne ha dedotto che l’ordi­ ne delle due sequenze va pertanto rovesciato: Alex avrebbe fat­ to prima le due inquadrature esterne, tra gli alberi, e poi avreb­ be raggiunto il lato nord della camera a gas per scattarvi le due foto delle fosse di incinerazione (figure 14-17).95 Per quanto mi riguarda, invece, ho preferito mantenere la cronologia suggerita da Pressac a partire dalla testimonianza di David Szmulewski. M a non si possono sollevare obiezioni sul “bordo dell’immagi­ ne”: mantenere la cronologia della testimonianza presuppone così che le immagini-contatto del museo di Auschwitz siano sta­ te sviluppate col negativo rovesciato - disattenzione tecnica dav­ vero banale, tanto più che sulle pellicole di questo formato non 95. C. Chéroux, "Photographies de la Résistance polonaise è Auschwitz” , cit., pp. 86-89.

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Figure 18*19 Anonimo (membro del Sonderkommando di Auschwitz), Cremazione di corpi gasati in fosse di incinerazione all*aria aperta, davanti alia camera a gas del crematorio V di Auschwitz, agosto 1944. Oswiecim, Museo di Stato di AuschwitzBirkenau (negativi n. 277-278, rovesciati).

c’è nessuna iscrizione che permetta di distinguere il dritto e il rovescio del negativo. Se così fosse, bisognerebbe - allo scopo di conservare sempre la cronologia di Pressac - rovesciare le pro­ spettive che ci mostrano gli esemplari custoditi ad Auschwitz96 (figure 18-21). Come si sarà capito, la questione resta comunque aperta. Il margine d ’immagine su cui si interroga Clément Chéroux non è forse emblematico di quel margine d'indeterminazione con cui ogni ricerca degna di questo nome si confronta necessariamente nel suo studio delle vestigia della Non si può risolvere la questione proiettando tutta la storia in un assoluto inimmagina­ bile. Né la si può risolvere riducendo l’archivio a “un’immagine da meno” o a un’“immagine senza immaginazione”. Un’immagi­ ne senza immaginazione è semplicemente un’immagine su cui non si è passato abbastanza tempo a lavorare. Poiché l’immagina­ zione è lavoro, è quel tempo di lavoro delle immagini che agiscono 96.

E rifare - in senso inverso - la verifica topografica effettuata da J.-C. Pressac, , rii., p. 422.

Auschwitz: Technique and Operation ofthe Gas

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IMMAGINE*ARCHIVIO O IMMAGINE-APPARENZA

Figure 20-21 Anonimo (membro del Sonderkodi Auschwi te verso la camera a gas del crematorio V d i Auschwitz, agosto 1944. Oswiedm, Mu­ seo di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativi n. 282-283, rovesciati).

senza posa le ime sulle altre per collisione o per fusione, per frat­ tura o per m etamorfosi... H tutto agendo sulla nostra attività di sapere e di pensiero. Per sapere, bisogna dunque davvero imma­ ginare: la tavola d i lavoro speculativa si accompagna sempre a una tavola di montaggio immaginativa.

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M a perché un montaggio? Innanzitutto, perché il semplice "lembo di pellicola” realizzato a Birkenau dai membri del Sortderkommando presentava, non una, ma ben quattro immagini spez­ zate da una discontinuità temporale: due sequenze formate da due fotogrammi, che mostrano due momenti distinti del medesimo pro­ cesso di sterminio. E poi, perché la “leggibilità” di queste immagini - dunque il loro eventuale ruolo in una conoscenza del processo in questione - si può elaborare solo mettendo in rilievo la loro risonan­ za o dissonanza con altre fonti, altre immagini o altre testimonianze. Il valore di conoscenza non può essere intrinseco a una sola imma­ gine, cosi come rimmaginazione non consiste nelTinvolversi passi­ vamente in una sola immagine. Si tratta, semmai, di mettere in mo­ vimento il molteplice, di non isolare nulla, di mettere in luce gli iati e le analogie, le indeterminazioni e sovradeterminazioni all’opera. L’immaginazione non è un abbandono ai miraggi di un solo ri­ flesso, come troppo spesso si crede, ma è viceversa costruzione e montaggio di forme plurali che vengono messe in corrispondenza: ecco perché, lungi dall’essere un privilegio dell’artista o una pura faccenda soggettivistica, l’immaginazione fa patte integrante della conoscenza nel suo movimento più fecondo, benché - o perché più arrischiato. Il suo valore euristico è incomparabile: lo si verifi­ ca da Baudelaire in avanti - Baudelaire che definiva l’immagina­ zione come la “facoltà scientìfica” di percepire “i rapporti intimi e segreti tra le cose, le corrispondenze e le analogie”1 - fino allo 1. C. Baudelaire, "N otes nouveUes sur Edgar Poe" {1857), in CEuvres complètes, n, a cura di C. Pichois, Gallimard, Paris 1876, p. 329; tr. it. Edgar Allan Poe, Passi­ gli, Firenze 2001.

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strutturalismo di Lévi-Strauss.23Warburg e il suo adante Mnemo­ syne, Walter Benjamin e il suo libro dei Passaggi, Georges Bataille e la sua rivista Documenti hanno rivelato, tra i tanti esempi che si potrebbero fare, la fecondità di una simile conoscenza tramite il montaggio: conoscenza delicata - come tutto ciò che concerne le immagini - , piena al tempo stesso di trappole e di tesori. Essa esi­ ge tatto a ogni istante. Non autorizza né che si metta in quarantena ogni immagine, né che si metta tutto sullo stesso piano, come si nota in un recente Album visivo della Shoah che riduce la sequen­ za dell’agosto 1944 a una sola immagine reinquadrata e poi inseri­ ta in un guazzabuglio di modellini fotografati, di mappe, di rico­ struzioni "virtuali” e di manipolazioni grafiche in cui il documen­ to finisce semplicemente per essere sfigurato, disprezzato, diviso dalla sua fenomenologia nel momento stesso in cui si pretende di dare una rappresentazione sintetica dell’evento.1 Il montaggio è valido solo quando non si affretta troppo a con­ cludere o a richiudere: quando aiuta e complica la nostra appren­ sione della storia, non quando schematizza abusivamente. Quan­ do ci dà accesso alle singolarità del tempo e, dunque, alla sua es­ senziale molteplicità. Gérard Wajcman cerca al contrario di sus­ sumere la molteplicità in una totalità ma, essendo ciò impossibile - per forza: è questo infatti il campo per eccellenza delle “ non-to talità” - , egli rigetta poi le singolarità in qualcosa come una nul­ lità: se "non tutto il reale è solubile nel visibile” , allora a suo pare­ re unon ci sono immagini della Shoah” . A questa brutalità con­ cettuale occorre replicare che l’immagine non è nulla, non è una, non è tutta, proprio perché essa offre singolarità multiple sempre suscettibili di differenze o di "differanze” . In altre parole, biso­ gna concepire, al di là del modello del grafico o cinematografico, un’idea di montaggio che stia al campo delle immagini come la differenziazione significante sta al campo del linguaggio nella concezione saussuriana.4 2. Cfr. G. Didi-Huberman, Ninfa moderna. Essai sur le drapé tombé, Gallimard, Paris 2002, pp. 127-141; tr. it. Ninfa moderna. Saggio sul drappeggio caduto, il Sag­ giatore, Milano 2004. 3. A. Jarach (a cura di), Album visivo della Shoah. Destinazione Auschwitz. Ri­ corda che questo è stato, Proedi, Milano 2002, p. 31. Ringrazio Ilsen About d'avermi fatto conoscere quest'opera. 4. Cfr. J. Derrida, La scrittura e la differenza (1967), tr. it. Einaudi, Torino 1971.

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L'immagine non è nulla, e non è affatto una prova di "radica­ lità” il volere sradicare le immagini da ogni conoscenza storica, col pretesto che esse non sarebbero mai adeguate. L a radicalità è affare di radici, di impurità, di rizomi, di infiltrazioni sotterranee, di prolungamenti inattesi, di biforcazioni. Gerard Wajcman ha talmente paura di essere ipnotizzato dall’immagine (forma estre­ ma dell’assenso) da preferire estrometterla in blocco dal campo del suo pensiero (forma banale di risentimento e di diniego). Ma noi non siamo obbligati a scegliere in questa forma binaria. Tra il “si sa tutto” e il "non c’è ” si apre un ampio spettro di possibilità. Facciamo un esempio: Wajcman rimprovera alle immagini del Sonderkommando di mostrare dei carnai - che egli associa abusi­ vamente, dato che le condizioni in cui furono scattate le foto non sono proprio paragonabili, ai carnai fotografati spesso nel 1945 dai reporter occidentali - mentre un’"immagine della Shoah” sa­ rebbe a suo avviso "al di là del carnaio” , registrerebbe una "scom parsa al di là del visibile” : Poiché vi è un al di là del carnaio [...], un grado di disintegrazio­ ne superiore, di scomparsa al di là del visibile. Poiché i corpi furono gasati e poi bruciati [...]. Ogni corpo, ogni resto, ogni traccia, ogni oggetto, ogni nome, ogni ricordo e persino ogni strumento di can­ cellazione è stato cancellato, estromesso dal visibile ed estromesso pure dalla memoria. Mostrare l’unicità della Shoah, la specificità del crimine delle ca­ mere a gas? Mostrare questa cancellazione, questa cancellazione rea­ le, ecco il compito che dovrebbe assolvere l’inunagine in un caso co­ me questo. È questo il reale stesso delle immagini della Shoah, un reale al di là dei volti tumefatti, al di là dei corpi lacerati, al di là dei carnai. Ciò che resta da mostrare è il fumo in cui corpi salgono in cie­ lo - e r a questo ad Auschwitz l’unico modo di salire in cielo. G ò che resta da mostrare è la polvere [...]. Queste sarebbero immagini vere.’

Per scrivere parole del genere, Gérard Wajcman ha dovuto in effetti negare ogni assenso alle immagini di Birkenau, tanto da non volerle neppure guardare. Quel che egli domanda alle "im ­ magini vere” - per concludere che a suo avviso tali immagini non esistono - è forse di far vedere la polvere e il fumo cui i corpi ve­ nivano ridotti? Ma è proprio questo che il membro del Son-5 5. G. Wajcman, “De la croyance photographique”, rit., pp. 76-77.

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derkommando ha fotografato nel 1944. E le sue foto lo mostrano assai meglio di quanto possa dim e Wajcman con la sua vaga idea di “cancellazione” : poiché esse mostrano tanto i corpi quanto il fumo. Mostrano come il fumo provenga dal carnaio, invece di co­ stituirne il puro “al di là” , “estromesso dal visibile” . M ostrano la cancellazione come processo concreto, atroce, manipolato, lavora­ to da uomini in cam e e ossa, il che ci impedirà per sempre di far­ ne una fantasia “poetica” o “assoluta” . Siamo ben lontani, qui, dalla “cancellazione” pigra - astratta, non dialettica - di cui si ac­ contenta Wajcman quando parla delle “immagini che non m o­ strano nulla” della Shoah.6 Limm agine non è una, tuttavia. In ciascun luogo in cui si è venu­ to a trovare, il fotografo di Birkenau ha voluto premere due volte il pulsante dello scatto - requisito minimo affinché la sua testimo­ nianza potesse rendere conto, da due punti di vista almeno, del tempo che stava osservando. I rischi che stava correndo, l’urgenza e i vincoli tecnici furono le uniche buone ragioni per cui egli non scattò altre foto del processo di sterminio. Al contrario, il fantasma dell 'immagine una si basa sul fantasma delVistante assoluto: cosa confermata nella storia della fotografia dalla nozione stessa di istantanea,7 e cosa confermata ulteriormente dalla memoria della Shoah che fa sognare a Claude Lanzmann un “film segreto” sul “momento assoluto”, sulla morte per asfissia di tremila ebrei rin­ chiusi in una camera a gas. Ciò detto, pur essendo singolari, non per questo le immagini sono uniche, né tantomeno assolute. Non esiste un’immagine “una”, così come non esiste una paro­ la, una frase, una pagina “ unica” che possa dire il tutto di un reale qualsiasi. Rammentiamo la parabola hassidica nella quale Menahem-Mendel de Kotzk scrive ogni sera la sua “verità tutta” su una sola pagina: l’indomani mattina, rileggendola, piange tanto sul proprio fallimento da cancellare l’inchiostro; ma la sera poi ri­ comincia in maniera ogni volta diversa, scrivendo sulla stessa pa­ gina, notte dopo notte, un gigantesco libro multiplo in forma di palinsesto.8 Rammentiamo anche Freud, quando fa dell’“isola­ 6. Ibidem, p. 77. 7. Cfr. D. Bernard, A. Gunthert, L'Instant révé: Albert Londe, Jacqueline Chambon, Nimes 1993. 8. Cfr. la versione leggermente diversa di É. Wiescl, Celebration hatsidique. Le Seuil, Paris 1976, p. 236; tr. it. Celebrazione hassidica, Spirali, Milano 1983.

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mento” (lsolierung) un equivalente patologico della rimozione.9 Col maneggiare i due eccessi del nulla e delVunico, Gérard Wajcman vorrebbe ridurre la nozione di immagine a una parola d’ordi­ ne, cioè a una parola immobilizzata tra lo zero e l’uno: scolastica pronta a legiferare sull’ipotesi e sull’inesistenza di un’“immagine tutta”, piuttosto che riflettere su “quelle immagini” di Auschwitz che ci restano, concretamente. Se si volesse trovare una ragione seria per il paragone iperboli­ co che G erard Wajcman stabilisce tra Claude Lanzmann e M o­ se,10questa ragione sarebbe senza dubbio la Legge che tende a ri­ durre le immagini così come l’Unico tende a ridurre la molteplidtà delle singolarità lacunari: “L e dieci leggi sono leggi solo se ri­ ferite all’Unità” , scrive Maurice Blanchot. “Che nessuno insidi l’Uno. [...] Tuttavia nella legge stessa sopravvive una clausola che conserva un ricordo dell’esteriorità della scrittura, là dove si dice non farai immagini” , poiché fare immagini significherebbe ovviamente insidiare l’Uno.11 Ecco perché l’immagine non è tutta. Percependo dei “resti” di vita e di visibilità, di umanità, cioè di banalità - nelle quattro immagini di Auschwitz, Gérard Wajcman le proclama nulle e ineffettuali. Se ne sarebbe curato se fossero state “pure” , se fosse­ ro state “tutte” nei confronti della morte in quanto tale. Ma la morte (quella grande, assoluta) è irrappresentabile, è al di là di ogni immagine dei morti (i piccoli, i relativi, i poveri morti am­ mucchiati in una fossa di incinerazione). Wajcman, avendo cerca­ to l’immagine tutta, unica e integrale, della Shoah e non avendo trovato che immagini non-tutte, finisce per ripudiare tutte le im­ magini. E qui sta il suo errore dialettico. Non bisogna forse scen­ dere a patti con le impurità, con le lacune dell’immagine, così co­ me si scende a patti - o si cerca di sbrogliarsela - coi silenzi della parola? Uno psicoanalista dovrebbe essere d ’accordo con que­ sto. Quando Lacan scrive che “la donna non è tutta” , non vuole certo dire che dalle donne non c’è nulla da aspettarsi.12 9. Cfr. S. Freud, Inibizione, sintomo, angoscia (1926), tr. it. in Opere, cit., voi. 10, pp. 268-271. 10. G . Wajcman, “‘Saint Paul’ Godard contro ‘Mo'ise’ Lanzmann”, cit., pp. 121127. 11. M. Blanchot, L'infinito intrattenimento, cit., p. 575. 12. J . Lacan, Il seminario XX. Ancora, tr. it. Einaudi, Torino 1983, p. 8.

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E d è proprio nelle vesti di lacaniano che, altrove, Gérard Wajcman domandava all’arte di “mostrare l’assenza” . Solo che si ingannava anche in quel caso, deducendone il “nulla a vedere” o l’invisibilità, in contrapposizione brutale al “ tutto-a-vedere delle immagini” .11 Le immagini non ci danno mai un tutto a vedere\ semmai, riescono a mostrare l’assenza sullo sfondo del non-tutto a vedere che esse ripropongono di continuo. Non è vietando di immaginare la Shoah che si mostrerà meglio l’assenza dei morti. Come si fa a essere freudiani e a volere limitare - seguendo l’im­ perativo alienante del double bind - il movimento delle associa­ zioni sulla Shoah, ossia il movimento dei montaggi immaginari e simbolici coi quali noi investiamo interminabilmente questa tra­ gica storia?1314 È tanto vano voler stoppare l’immaginazione o de­ cretare che “non ci sarà un’immagine a venire” , quanto isolare quattro fotografie separandole dalla loro economia simbolica (le immagini infatti non esistono come tali ma solo in quanto sono già sempre immerse nel linguaggio: non per nulla i cliché di Birkenau erano accompagnati da un testo [figura 7]) e dal loro rapporto col reale (le immagini vanno sempre comprese a partire dall’atto stesso che le ha rese possibili). Ogni atto d ’immagine viene strappato all’impossibile descri­ zione di un reale. G li artisti, in particolare, rifiutano di piegarsi all’irrappresentabile di cui conoscono - al pari di chiunque abbia affrontato la distruzione dell’uomo da parte dell’uomo - l’espe­ rienza svuotante. Ragion per cui essi fanno delle serie, dei mon­ taggi malgrado tutto: sanno infatti anche che Ì disastri possono moltiplicarsi all’infinito. Callot, Goya o Picasso - ma pure Mirò, Faultier, Strzeminski o Gerhard Richter - hanno triturato l’irrappresentabile in tutti i sensi, affinché da esso scaturisse qualcosa di diverso dal silenzio puro. Nelle loro opere il mondo storico di­ venta assillo, ovvero cataclisma dell’immaginazione, proliferazio­ ne delle figure - delle somiglianze e delle dissomiglianze - attor­ no a uno stesso turbine del tempo. 13. G . Wajcman, LO bjet du siècle, rit., pp. 156,167. All’opposto di questa con­ cezione triviale dell’assenza cfr. l’opera (di vent’anni prima) di P. Fédida, L Absence, Gallimard, Paris 1978. 14. Cfr. M. Schneider, Le Trauma et la filiation paradoxale, d t. pp. 83-84: “L’universo di cui il trauma rende necessaria la costruzione può essere paragonato alla creazione di un dittico (...], montaggio di due tavole antagoniste”.

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Ci sono almeno due modi, nel cinema d ’oggi, di mettere all’o­ pera questo assillo in riferimento alla distruzione degli ebrei d’Europa: Claude Lanzmann ha creato, in Shoah, un tipo di mon­ taggio che fa ritornare i volti, le testimonianze, i paesaggi stessi verso un centro mai raggiunto: montaggio centripeto, elogio del­ la lentezza. È una sorta di basso continuo che scava il tempo delle nove ore e mezza di durata del suo film. Jean-Luc G odard ha creato invece, in H istoire(s) du cinéma, un tipo di montaggio che fa turbinare i documenti, le citazioni, gli estratti di altri film verso un’estensione mai coperta: montaggio centrifugo, elogio della ve­ locità. È una sorta di grande fuga che dissemina il tempo delle quattro ore e mezza di durata del suo film. Si tratta di due esteti­ che differenti, di due diversi tipi di montaggio: ma anche di due diverse etiche del rapporto creato, in questi film, tra immagine e storia. Sono due pensieri, due scritture diverse, come si capisce bene anche dalla pubblicazione in volume dei due film, riconfi­ gurati come due lunghissimi poemi.1’ Una polarità si è così formata, benché essa esaurisca solo in parte le possibili risposte cinematografiche - e ci saranno sempre imprevedibili “immagini a venire” , Gérard Wajcman non se ne abbia a male - al problema della Shoah. Per uno sguardo distante o semplicemente sereno, questa polarità funziona come un luogo di complementarità: ogni forma richiama in maniera naturale l’al­ tra. G odard e Lanzmann pensano entrambi che la Shoah esiga da parte nostra un ripensamento complessivo del nostro rapporto con l’immagine, e hanno senz’altro ragione a pensarlo. Lanz­ mann pensa tuttavia che nessuna immagine sia capace di “dire” questa storia ed ecco perché filma senza posa la parola dei testi­ moni. Mentre G odard pensa che tutte le immagini ormai ci “par­ lino” solo di questo (dire che “ne parlano” non significa però dire die “lo dicono”) ed ecco perché rivisita senza posa tutta la nostra cultura visiva sullo sfondo di tale questione. Vista da vicino, questa polarità ha finito purtroppo per assu­ mere la forma di una polemica. Ed è fallito così un progetto di film che doveva trascinare G odard e Lanzmann in un “ confron­ ta. C. Lanzmann, Shoah, cit.; J.-L . Godard, Histoire(s) du cinema, dt.

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to ” cinematografico sulla Shoah (non a caso la questione del montaggio è stata tra i motivi di questo fallimento).16In seguito, il tutto ha dato vita a una serie prolungata di interventi caustici e provocatori - lato Lanzmann - ancora una volta per interposta persona e con ragionamenti scomposti. Così, Libby Saxton ha contrapposto a un’improbabile "teologia del montaggio” di G o ­ dard (non si capisce bene quale dio sarebbe riverito in H istoire(s) du àn im a) una altrettanto improbabile "assenza di immagine iconica” in Lanzmann (non si capisce bene perché i volti di Shoah dovrebbero sfuggire allo statuto di "immagini iconiche” ).17 Per quanto riguarda invece Gérard Wajcman, questi ne ha fatto una questione politica, immaginando Lanzmann solo contro tutti, senza esitare a mettere Spielberg, Benigni, Claude Zidi, i negazionisti e G odard nello stesso sacco. Non solo, ma ha anche trasfor­ mato il dibattito in un confronto religioso in cui Jean-Luc G o ­ dard si è visto rifilare gli orpelli di San Paolo, di San Giovanni {Jean) e, ovviamente, di San Luca (Lue).1* Capisco meglio adesso perché in passato - dopo aver citato G odard in esergo al mio sag­ gio —mi fossero stati rifilati poi gli orpelli di San Paolo, di San Giovanni e, ovviamente, di San Giorgio (Georges).19 La polarità estetica finisce così per esprimersi - via luetica del­ lo sguardo” - in termini quasi teologici. D a un lato, le immagini composite di Jean-Luc G odard: rumorose, multiple, barocche. Quindi artificiali. Assomigliano alla famosa "statua composita” che sognava Nabucodonosor. Sono immagini idolatriche e irrive­ renti. Non esitano a mescolare l’archivio storico - onnipresente e il repertorio artistico mondiale. M ostrano molto, montano tutto con tutto. Donde il sospetto che mentano su tutto. Sul fronte op­ posto, l’immagine una di Claude Lanzmann: un’immagine che si pone invece “ dal lato di ciò che non si può guardare [...], il Nul­ la” della pura verità.20 Raul Hilberg ha scritto di Shoah che si tratta di un film “mosai­ 16. Cfr. S. Lindeperg, Clio d e 5 à 7 , cit., pp. 266-269. 17. L. Saxton, “Anamnesis Godard/Lanzmann”, tr. fr. in Trofie, n. 47,2003, pp. 48-66. 18. G. Wajcman, “‘Saint Paul’ Godard contre ‘M oise’ Lanzmann", cit., pp. 121127. 19. G. Wajcman, “De la croyance photographique”, cit., pp. 60-61. 20. G. Wajcman, “‘Saint Paul’ Godard contre ‘Moise’ Lanzmann”, cit., p. 127.

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co”.21 Come interpretare questa definizione? L o stesso Hilberg considera il gran numero di testimoni e di luoghi, nel film di Lanzmann, sotto il profilo del montaggio e della molteplicità.22 Gerard Wajcman contrappone a tutto d ò un punto di vista ripie­ gato sull’Uno, sulla Legge e sull’analogia biblica: in tal senso, ‘‘mosaico” non fa più riferimento al complesso opus mosaicum degli artisti romani - decorazione a “collage” che ornava le grotte in cui potevano abitare le Muse - , ma alla severa Legge di Mosè, che esecra e punisce ogni forma di idolatria.23 Bisognerebbe allora scorgere in Histoire(s) du cinéma di G odard un 'orgia di immagini composite, animate dal soffio idolatrico delle Muse, e in Shoah di Lanzmann una sola immagine., una Tavola della Legge cinemato­ grafica, che fa di tutte le altre, soprattutto di quelle di G odard, al­ trettanti vitelli d’oro. Shoah “si distingue radicalmente da tutto dò che è stato fatto prima” , e non d vuol molto a vedere come na­ sce qui una nuova religione (monotdsmo dell’immagine-tutta) di­ versa da ogni altra (politeismo delle immagini nulle); “Shoah resi­ ste a tutto” , così come resiste una fede; Shoah “dice la verità senza aggiungere nulla” , così come il miglior testo di legge.24 Lo stesso Lanzmann non esita a compiere questa rivendicazione: Shoah vieta molte cose. Shoah priva la gente di molte cose. Shoah è un film arido e puro. [...} Il mio film è un “monumento” [...]. Shoah non è fatto per comunicare delle informazioni, ma insegna tutto.23 D cerchio si chiude quando il film Shoah - montaggio di imma­ gini realizzate a partire da interviste coi sopravvissuti della Shoah 21. R. Hilberg, La Politique de la mémoire (1994), tr. ft Gallimard, Paris 1996, p. 182. 22. La versione inglese è più chiara, su questo punto, della traduzione: “Lanz­ mann even found most of his interviewees in small places, and these people and lo­ calities are shown in a nine-and-half hour mosaic” (R. Hilberg, The Politics o f Me­ mory. The Journey o f a Holocaust Historian, Ivan D. Ree, Chicago 1994, p. 191). 23. Cfr. M. Halbertal, A. Margalh, Idolatry, tr. ingl. Harvard University Press, Cambridge-London 1992, pp. 37-66. 24. J.-F. Forges, '‘ Shoah: histoire et mémoire”, in Les Temps modemes, LV, 2000, n. 608, pp. 30,35,40. Vincent Lowy osserva giustamente che, poiché Shoah assomi­ glia - pure per Lanzmann - a una cerimonia funebre, lo si poteva filmare una volta sola (V. Lowy, LHistoire infUmable. Les camps determ ination nazis à l’écran, L’Harmattan, Paris 2001, p. 80). 25. C. Lanzmann, “Holocauste, la representation impossible”, cit., p. VII; C. Lanzmann, “Le monument contre Tarchive?”, cit., pp. 275-276.

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si vede investito delle caratteristiche dell’evento di cui in realtà co­ stituisce solo un’interpretazione après coup: aShoah non è un film sull’Olocausto, non è un derivato, non è un prodotto, ma un even­ to originario. Che piaccia o meno, di questo parlerò dopo, il mio film non soltanto fa parte dell’evento della Shoah, ma contribuisce a costituirla come evento” .26 Vediamo qui un regista costruire l’i­ dentificazione del suo film con la realtà che esso documenta (per mezzo della parola dei testimoni) e interpreta (per mezzo del mon­ taggio). H ragionamento di Wajcman si illumina allora ulterior­ mente: “Non c’è immagine della Shoah”, dice egli in sostanza, poi­ ché c’è l’immagine di Shoah, che “insegna tutto”, diventando coe­ stensiva al fenomeno di cui restituisce cosi Vimmagine tutta. È stato certo salutare, dopo la serie americana Olocausto, do­ po la drammaturgia consensuale di Spielberg, dopo i maneggi emozionali di Benigni, rispondere con un’opera di grande rigore storico.27 Ma ciò non significa che Shoah sia un’“opera unica”, che “invalida ogni impresa anteriore”,28 o peggio invalida ogni “immagine a venire”. Facendo di Shoah Vimmagine tutta che manca a ogni altra immagine - quella dell’archivio e quella del ci­ nema, quella del passato e quella del futuro - , non si fa che confondere questo film con la storia (politica) di cui esso tratta, e non si fa che esonerarlo dalla storia (estetica) in cui va comunque inserito. Non va dimenticato, infatti, che Shoah appartiene a pie­ no titolo alla storia del film documentario. A cominciare da Nuit et brouillard: trentanni prima di Lanzmann, Alain Resnais ha costretto ogni spettatore del suo film a confrontarsi col ricordo, così difficile da tollerare, di un evento che era senz’altro meno conosciuto allora di quanto lo sarebbe stato poi negli anni Ottanta. Nuit et brouillard ha subito la censu­ ra in Francia (fu necessario truccare una sequenza in cui si scor­ geva, nel campo di Pithiviers, il képi di un gendarme di Vichy) e in Germania (la cui ambasciata ottenne il ritiro dal festival di 26. C. Lanzmann, “Parler pour les morte”, cit., p. 1$. 27. Sulla polemica tra Lanzmann e Spielberg cfr. in particolare J. Walter, “La Li­ ste de Schindler au miroir de la presse”, in Mots. Les langages du politique, n. 56, 1998, pp. 69-89; V. Lowy, L’Histoire inftlmable, cit., pp. 153-164. Per una critica di Benigni cfr. M. Henochsberg, “Loin d’Auschwitz”, cit., pp. 42-59. 28. P. Sorlin, “La Shoah: une representation impossible?”, in Les Institutions de 1’image, cit., p. 183. V

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Cannes del 1956).29 Ma la sua ricezione nel mondo artistico e in­ tellettuale prefigura esattamente il ruolo svolto da Shoah negli an­ ni Ottanta e Novanta. Ado Kyrou scriveva nel 1956 che si tratta­ va di un “film necessario” e che non riusciva a immaginare “un al­ tro film sullo stesso soggetto”.30 In quel film si sono visti infranti “i limiti di quanto si reputava possibile realizzare”, si è scorta una soluzione magistrale per “trovare le forme adatte alla trasmissio­ ne dell’esperienza intrasmissibile” .31 Come accadrà in seguito con Shoah, il film di Resnais inizia nel­ la pesantezza immobile dei paesaggi vuoti o, peggio ancora, bana­ li: “Anche un paesaggio tranquillo, anche un prato con dei corvi che volano, dei covoni e dell’erba che brucia, anche una strada con delle macchine che passano, dei contadini, delle coppie, an­ che un villaggio di vacanza, con tanto di fiera e di campana, posso­ no portare a un campo di concentramento. [...] Oggi, sulla stessa strada, è giorno e c’è il sole. La percorriamo lentamente, alla ricer­ ca di che cosa? ” .32Shoah d ha sconvolti con quella radura vuota di Chelmno riconosduta da Simon Srebnik, il sopravvissuto.33 Nuit et hrouillard d aveva sconvolti invece coi suo campi vuoti, percor­ si da straordinari “travelling senza soggetto” (figure 22-23): 29. Cfr. in generale R. Raskin, "Nuit et hrouillard’ by Alain Resnais. On the Making, Reception and Functions o f a Major Documentary Film, Aarhus University Press, Aarhus 1987; C. Delage, “Les contraintes d’une experience collective: Nuit et hrouillard\ in C. Delage, V. Guigueno (a cun di), Le Film et l'bistorien, Galli­ mard, Paris 2004. 30. A. Kyrou, "Nuit et hrouillard: le film nécessaire” (1936), in S. Goudet (a cura di) Alain Resnais, Positif-Gallimard, Paris 2002, p. 44. 31. M. O tta, Alain Resnais, Rivages, Paris 1988, p. 67. L’autore ricorda (pp. 2357) l’ampia riflessione di Resnais sulla morte nella storia, in Guernica (1950), Les Statues meurentaussi (1950-1953), Hiroshima mon amour (1959) e Stavisky (1974). 32. J. Cayrol, Nuit et hrouillard (1956), Fayard, Paris 1997, pp. 17,21. Ancora prima del testo di Cayrol, ecco l’inizio della sinopsi scritta dallo stesso Resnais: ” Notte e nebbia. Colore. Un paesaggio neutro, calmo, banale. La camera indietreg­ gia. Ci troviamo all’intemo di un campo di concentramento smantellato e deserto. In panoramica, la camera scopre da lontano l’entrata del campo, affiancata da un posto di osservazione. (Forse si distinguono anche dei turisti vestiti con colori chiari che entrano, seguendo una guida. Ci può essere il sole. Ma in seguito il delo dovrà restare sempre grigio e nuvoloso.) Una serie di panoramiche lentissime muovono ogni volta da un elemento ‘esterno’ per terminare su un elemento ‘interno’ (ideal­ mente, ogni panoramica dovrebbe essere fatta in un campo diverso: Struthof, Mauthausen, Auschwitz-Birkenau, Majdanek)” (A. Resnais, citato da C. Delage, 'Les contraintes d’une expérience collective”, dt.). 33. C. Lanzmann.SfowA, tr. ft. d t., p. 18.

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Figura 22 Alain Resnais,

Nuit

etbrouillard, 1955. Fotogramma

[ ...] la cam era si m uove, con lenti travelling, solo in am bienti vuoti, certo reali e vivi - leggero som m ovim ento dei ciuffi d ’erba m a vuoti d ’essere e di una realtà pressoch é irreale, a forza d i ap p ar­ tenere a un m ondo che è ancor di più quello d i un’im probabile, im ­ possibile sopravvivenza. L a cam era sem bra sp o starsi per nulla, priva del dram m a, dello spettacolo che quei m ovim enti sem brano accom ­ pagnare, m a che son o orm ai solo d i fantasm i invisibili. T utto è vuo­ to, im m obile e silenzioso. D elle foto p otrebbero bastare. M a, per l’appunto, la cam era si m uove, è la sola a m uoversi, è la sola vita, non c ’è nulla da film are, nessuno, c ’è so lo il cinem a, di um ano e vivente c ’è solo il cinem a, di fronte a poche tracce insignificanti, derisorie, ed è qu esto il deserto che la cam era percorre, è su di esso che essa in ­ scrìve la traccia supplem entare, su bito cancellata, di traiettorie già m olto sem plici [ .. .].M

Serge Daney ha ben compreso che quel travelling era agli an­ tipodi del “travelling di K ap ò”, fustigato con violenza d Rivette nel 1961.” Egli ha colto in et brouillard “l’obbligo 345 34. A. Fleischer, L’Art d'Alain Resnais, Centre Georges Pompidou, Paris 1998, p.33. 35. J. Rivette, “De l’abjection", in Cahters du cinema, n. 120,1961, pp. 54-55. V

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Figura 23 Claude Lanzrnann, Sboab, 1985. Fotogram m a dell’inizio del film.

dì non fuggire” dinanzi alla nostra storia, l’ “anti-spettacolo” per antonomasia, l’ingiunzione a comprendere "che la condizione umana e il macello industriale non erano incompatibili, che il peggio si era appena verificato” ; vi ha colto una "sism ografìa” anziché un’iconografìa storica e, per finire, un’autentica "scrittu­ ra del disastro” nel senso di Maurice Blanchot.36Daney aveva ra­ gione: la scommessa di Nuit etbrouillard stava tere la memoria facendo scoppiare una contraddizione tra i do­ cumenti inaggirabili della storia e i segni ripetuti del presente. I documenti della storia sono quelle famose immagini d’archivio inbianco e nero - che lasciarono ammutoliti gli spettatori dell’e­ poca e che Lanzrnann oggi intende ricusare per la loro mancanza di rigore storico. I segni del presente sono dati dallo "sguardo senza soggetto” che Resnais gettava sui paesaggi vuoti dei campi 56. S. Daney, “Resnais et l’‘écriture du désastre’ ” (1983), in Ciné-joum al, 11. 1983-1986, Cahiers du cinema, Paris 1986, pp. 27-30; S. Daney, “Le travelling de tip o ”(1992), in Perseverance. Entretien avec Serge Toubiana, POL, Paris 1994, pp. 13-39. Cfr. più di recente F. Niney, l’Épreuve du E ssai su r le principe de riùlité docum entaire, D e Boeck Université, Bruxelles 2000, pp. 95-100; C. Neyrat, ‘ Horreur/bonheur. m étam orphose” , in A lain R esn ais,à t ., pp. 47-54.

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filmati a colorì. M a sono dati pure dalla volontà di consegnare tutto lo spazio sonoro del film a due sopravvissuti della persecu­ zione nazista: non si tratta di testim onianze in senso stretto, quanto di scritture volutam ente distanziate. U com m ento di Jean Cayrol non racconta la sua esperienza personale dei cam pi, e la m usica di H anns Eisler oltretutto ostacola ogni parafrasi pateti­ ca delle immagini. Una decisione form ale - soprattutto radicale - com porta sem ­ pre una correlativa im passe: quel che si guadagna da una parte, si perde dall’altra. Con le sue scelte relative alla durata e al m ontag­ gio, Resnais riesce a provocare un potente sentimento del presen­ te che finisce per offrirci una rappresentazione sintetica di ciò che poteva essere "un cam po” nella G erm ania tedesca. Col che, però, "i cam pi” non vengono distinti tra loro e la dim ensione dell’anali­ si storica passa in secondo piano (ricordiam o che la distinzione tra cam pi di concentramento e cam pi di sterm inio non era ancora corrente nella storiografia degli anni Cinquanta).’7 L’immagine dei corpi scheletrici viene così a coprire "il m assacro di donne e bambini in buona salute, condotti nelle camere a gas non appena scesi dai convogli”.’* M a non si può rim proverare a un’opera di tradire una prom essa che non ha mai fatto: il film di Resnais non pretendeva affatto di "insegnare tutto” sui cam pi, proponendosi solo, più m odestam ente, di dare accesso a ll’inaccessibile: Di questa realtà dei campi, disprezzata da coloro che la fabbrica­ no, inafferrabile da coloro che la subiscono, invano cerchiamo a no­ stra volta di scoprire i resti [...]. Ecco tutto ciò che ci resta per im­ maginare.1’

"Fingiam o ancora di credere che tutto ciò appartenga a un so­ lo tem po” , aggiungeva coraggiosam ente la voce di N uit et brouil-9387 37. Contro i giudizi severi di Georges Bensoussan (Auschwitz en heritage? D’un hon usage de la mémoire, Mille et Une Nuits, Paris 1998, p. 44) e di Annette Wìeviorka (Déportation et genocide. Entre la mémoire et l’oubti, Plon, Paris 1992, p. 223), Christian Delage ha stabilito, sulla base degli archivi di Anatole Dauman, che il riconoscimento del genocidio degli ebrei - e della sua specificità - era messo ben in evidenza nel progetto di Resnais (cfr. C. Delage, “Les contraintes d ’une expe­ rience collective”, cit.). 38. S. Lindeperg, Clio de S à i , dt.. p. 183. 39. J. Cayrol, Nuit et brouiiiard, dt., pp. 23-24. V

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lard.40 Si trattava, nel parallelism o delle immagini di archivio e dei segni del presente, di disegnare un tempo critico - à ia Brecht propizio, non tanto all’identificazione, quanto alla riflessione po­ litica. Una soluzione più acuta fu trovata quando al parallelism o Marcel O phuls sostituì, in L e Chagrin et la p itié, una sorta di con­ trattem po critico prodotto dallo shock incessante tra le immagini di archivio e le testimonianze al presente. Lanzm ann deve certo a Resnais un particolare m odo di spezzare il racconto storico per meglio consentire - a noi spettatori - di affrontare la storia. M a il suo vero m aestro è M arcel O phuls,41 col suo m odo di condurre sempre l’interlocutore alla testim onianza, cioè all’im possibilità di evitare la faglia decisiva - il segno della Storia - nella storia che racconta. Shoah radicalizza ulteriormente le soluzioni di O phuls con una tappa supplem entare che consiste nel non utilizzare più il contrattem po delle immagini di archivio, a beneficio di una sola dimensione - la parola e i luoghi filmati al presente - che crea da sé, con la sua durata e il suo m ontaggio, le condizioni inesorabili di un’"im possibilità d ’evitare” . Benché Lanzmann non parli molto di M arcel O phuls e sia esa­ geratamente violento nei confronti di Alain Resnais,4243questa filia­ zione m eriterebbe un’analisi più attenta. E ssa m ostra, se ce n’era ancora bisogno, che l’uso dell’archivio non è affatto "passato di moda”45 e che, fra i tanti film dedicati alla Shoah dal 1985 al 1995, il montaggio delle immagini del passato con le testimonianze del 40. Ibidem, p, 43. 41. Cfr. P. Mesnard, “La mémoire dnématographique de la Shoah0, in Parler its camps, penser les génocides, dt., pp. 480*484; P. Mesnard, Consciences de la Shoah, dt., pp. 289-290. 42. “L'altra mattina sono andato nella sala col proiezionista per verificare le con­ dizioni della proiezione; se il suono era abbastanza forte, la qualità della copia ecc. poi sono passato davanti alla cassa, Shoah è previsto per le 14 e vedo alle 12: Nuit et brouillard. Allora mi dico “È strano però0. Vado dal proprietario della sala [...] e gli dico “Cos'è questa faccenda?0. Mi risponde: “Sono obbligato a proiettare un film a mezzogiorno, d sono delle leggi0. E gli replico: “Ma sta scherzando? Sta scherzando vero?0. E lui: “No, il mio programmatore ha pensato che dopo tutto l'trgomento era lo stesso0. Allora gli ho detto: “Bene, se proiettate Nuit et brand­ isti non ci sarà Shoah, ritiro il film0. [...] Penso che il paragone o la contiguità tra due film non abbia senso. Anche se Targomento è lo stesso, Shoah non ha nulla a chevedere con Nuit et brouillartT (C. Lanzmann, dtato da V. Lowy, LH istoire infilmèle, dt.,pp. 85-86). 43. Come crede V. Sànchez-Biosca, “Représenter rirreprésentable. Des abus de il ihétorique0, in Les Institutions de l image, dt., p. 177.

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presente copre un vasto spettro di soluzioni form ali da cui non si può estrapolare alcuna regola form ale.4445Basta non essere troppo ingenui né con gli archivi né col m ontaggio che se ne produce: i primi non ci restituiscono affatto la verità "nuda e cruda” del passato e acquistano esistenza solo sulla base dei problem i che noi ci poniaipo al riguardo; il secondo è appunto ciò che dà una form a a questo insieme di problem i, da cui acquista la sua crucia­ le im portanza - estetica ed epistem ologica.0 ★

“Ci sono sicuramente cose che non si possono vedere. E ciò che non si può vedere, bisogna m ostrarlo.”46Ecco almeno una fra­ se di G érard Wajcman con la quale sono d ’accordo. Purtroppo, però, la conclusione rovina tutto: “Ciò che tutto questo mostra è che non c’è immagine”.47 Per fondare un’affermazione del genere sarebbe occorso, in via molto generale, ridurre al solo linguaggio la forza d i m ostrare; e, in via più circostanziata, decretare che le no­ ve ore e mezza di Shoah non sono immagini (insomma, se Lanzmann avesse voluto affidarsi solo alla parola, non avrebbe fatto un film, ma un libro o una trasm issione alla radio per esem pio). Ciò che Wajcman trascura, in questo caso, è che la nozione stessa di immagine - tanto sul piano storico quanto sul piano an­ tropologico - si confonde appunto col tentativo incessante di mo­ strare ciò che non si può vedere. Non si può “vedere il desiderio” in quanto tale, ma i pittori hanno saputo giocare con l’incarnato per m ostrarlo; non si può “vedere la m otte” , ma gli scultori han­ no saputo m odellare lo spazio come porta di una tom ba che “ci (ri)guarda” ; non si può “vedere la parola” , ma gli artisti hanno sa­ 44. Cfr. P. Mesnard, “La mémoire cinématographique de la Shoah”, cit., pp. 473-490 (che contabilizza 1194 film realizzati tra il 1985 e il 1995); P. Mesnard, Con­ sciences de la Shoah, cit., pp. 294-297 (“L’obstination des archives", in cui si parla soprattutto dei film di A. Jaubert, E. Sivan e R Brauman). Cfr. pure F. MoniceUi, C. Saletti (a cura di), Il racconto della catastrofe. Il cinema di fronte ad Auschwitz, So­ cietà Letteraria-Cierre Edizioni, Verona 1998; W.W. Wende (a cura di), Geschichte im Film. Mediale Inszenierung des Holocaust und kultureUes Gedàchtnis, Metzler, Stuttgart-Weimar 2002. 45. Cfr. F. Niney, L’Épreuve du réelà l’écran, cit., pp. 253-271 (“Les archives"). 46. G. Wajcman, " ‘Saint Paul’ Godard contre ‘Morse’ Lanzmann”, cit., p. 126. 47. Ibidem, p. 125. V

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puto costruire le loro figure com e altrettanti dispositivi enuncia­ tivi; non si può "vedere il tem po” , ma le immagini creano l’ana­ cronismo che ce lo m ostra all’opera; non si può “vedere il luogo” , ma le fiabe topiche inventate dagli artisti ce ne m ostrano bene con mezzi al contem po sensibili e intelligibili - la potenza di “svuotam ento”. L’intera storia delle immagini può dunque essere narrata come uno sforzo, uno sforzo per oltrepassare visivam ente le contrapposizioni triviali tra il visibile e Vinvisibile. “Ciò che non si può vedere, bisogna m ostrarlo” : G érard Wajcman pensa che solo un’eliminazione, una unificazione o una assolutizzazione dell’immagine - l’immagine nulla, l’immagine una o l’immagine tutta - potrebbero soddisfare questo imperativo. Per quanto mi riguarda, io penso invece che solo la m oltiplicazione e la congiunzione delle immagini, sem pre lacunari e relative, apra­ no una via per m ostrare m algrado tutto d ò che non si può vedere. E la prim a, la più sem plice maniera per m ostrare ciò che d sfug­ ge, è appunto quella di m ontare un profilo figurale con più viste o più tem pi dello stesso fenomeno. L a form a elementare - fredda, spaventosa - di questo profilo è possibile osservarla in un brevis­ simo filmato, realizzato da qualche tecnico nazista nel settem bre 1941 a M ogilov (Bielorussia): un piano m ostra uomini nudi, fa­ melici, trasportati su un piccolo carro, di cui poi viene chiusa la porta; il piano seguente descrive semplicemente la traiettoria d d tubi attaccati alla marmitta di un’autom obile; si tratta dunque di un film in cui non si vede ma si m ostra, nel m ontaggio dem entare M e due sequenze, un’esperienza di gasaggio - le cui vittime era­ nosenza dubbio d d minorati - con ossido di carbonio.4* All’altro capo di questo spettro troviamo Shoah, che non dà a vedere ciò che i testimoni hanno vissuto dello sterminio, ma mo­ stra i sopravvissuti stessi, impegnati nella tragica prova della re­ miniscenza. Con un m ontaggio interamente basato sull’economia del racconto, Claude Lanzmann d permette allora di strappare a queste parole - da cui esige egli stesso, parola per parola, la m ag­ giore prensione possibile - un immaginabile. Jean-Luc G odard, in H istoire(s) du ciném a, sceglie invece di m ostrare il cinema in sé 48 48. Queste informazioni provengono dalTImperni War Museum (Londra), in cui il film è proiettato. Secondo Dany Uziel, direttore dell’archivio fotografico di Yad Vashem, il film si svolgerebbe a Minsk e non a Mogilov.

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e la sua reminiscenza di se stesso in un m ontaggio interamente b a­ sato sull'econom ia del sintom o: gli accidenti, gli shock, il precipi­ tare delle immagini le une sulle altre lasciano così sfuggire qual­ cosa che non si vede in questo o quel frammento del film, ma ap­ pare, in maniera differenziale, come la potenza stessa che assilla tutto. O gni immagine “non è un’immagine giusta, è giusto un’im­ m agine” , com e recita una frase celebre di G odard.49501Ma essa per­ mette “di parlar meno e di dire m eglio” , o piuttosto di parlarne meglio senza dovere dirlo.™ G odard, mi sem bra, ha sem pre inserito le sue riflessioni sui poteri e limiti del cinema nella sistole e diastole dell’immagine stessa: la sua natura essenzialmente difettiva si alterna con la sua capacità di diventare, all’improvviso, eccessiva. È una pulsazione - U “doppio regim e” dell’immagine di cui parlavam o prim a - in cui il limite sa trasform arsi in trasgressione, cioè in potere di dare più di quanto ci si aspetta, di sconvolgere lo sguardo, di strappare il velo. Com ’è possibile che un’immagine sia “giusto un’immagi­ ne” , ossia il contrario di un tutto, di una captazione unitaria, di un assoluto qualsiasi? Tutto ciò è possibile perché un’immagine non è mai “una” : Non c’è immagine, non ci sono che immagini. E c’è una certa for­ ma di assemblaggio delle immagini: non appena ce ne sono due, ce ne sono tre. [.. .] E il fondamento del cinema.”

Se G érard Wajcman parla quasi sem pre di immagine al singo­ lare - nulla, una oppure tutta - , se non prende mai in considera­ zione la natura sequenziale delle quattro foto di Auschwitz, è per­ ché l’immagine, ai suoi occhi, è un sem plice “arresto” visibile sul­ le cose. L’immagine non possiede, secondo lui, quella fecondità che Lacan riconosce al significante nei suoi effetti “ catena” . G o ­ dard, al contrario, vede e costruisce l’immagine solo al plurale, cioè nei suoi effetti di montaggio. La grandezza del cinema - ma 49. J.-L. Godard, “Le groupe Dziga Vertov” , in A. Bergala (a cura di), Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, I. 1930-1984, Cahiers du cinema, Paris 1998, p. 348. 50. J.-L. Godard (con Y. Ishaghpour), Archéologie du cinema et mémoire du sie­ de. Dialogue, Farrago, Tours 2000, p. 81. 51. J.-L. Godard, “Jean-Luc Godard rencontre Régis Debray" (1995), in A. Bergala (a cura di), Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, fi. 1984-1998, Cahiers du cinéma, Paris 1998, p. 430.

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pure della pittura, che egli definisce grande “m ontatrice”, sulla scia di Eisenstein - è proprio quella di aver fatto fiorire questa es­ senziale pluralità nel tem po svolto del movimento. Ricordiam o, a mo’ d ’esem pio, la sua celebrazione di Alfred H itchcock: [Hitchcock] ha restituito [...] tutta la sua potenza all’immagine e ai concatenamenti di immagini. [...] Hitchcock faceva parte di una generazione che aveva conosciuto il cinema muto. In Hitchcock, la storia proviene veramente dal film, si sviluppa nel mentre si sviluppa il film, come il motivo si sviluppa nel pinore. [...] Egli ha scoperto il montaggio. La storia del cinema alla quale lavoro sarà proprio la sto­ ria della scoperta di un continente sconosciuto, il montaggio. [...] Quando Eisenstein parla, nei suoi scritti, del Greco, non dice mai “questopittore” ma “questomontatore” [...].”

O ra, l’effetto che H itchcock produce col montaggio è quello di farcire l’im m agine con la paura: "H itchcock era il solo che po­ tesse far tremare mille persone, non dicendo loro, come Hitler, ‘Vi m assacrerò tutti’, ma m ostrando invece, ad esem pio in Notorius, una fila di bottiglie di bordeaux. N essuno è riuscito a farlo, a parte lui. Solo i grandi pittori, com e Tintoretto”.” Con tutto ciò Godard non vuol certo contrapporre la paura politica (colpevo­ le) di H ider alla paura estetica (innocente) di H itchcock, la paura reale di H ider alla paura fittizia di H itchcock. G odard vuol dire inrealtà che la paura, nelle immagini di N otorius, può appartene­ re al registro della finzione, senza per questo appartenere al regi­ stro della falsificazione. E ssa è fittizia - e perfino um orisdea, dato che si spaventa lo spettatore con un’attraente sfilza di buone bot­ tiglie - ma riporta comunque una verità fenom enologica in cui diventa possibile pensare la paura in quanto tale. Il che è possibi­ leperché il m ontaggio intensifica l’im m agine e restituisce all’espe­ rienza visiva una potenza che le nostre certezze o abitudini visibili hanno la tendenza a sedare o a velare. Notiamo, en passant, che G odard non è il solo a difendere questo genere di posizioni. Un cineasta com pletamente diverso come Robert Bresson enuncia idee assai simili quando rifiuta il ‘valore assoluto di un’immagine” ; quando insiste a dire che "non 523 52. J.-L. Godard, “Alfred Hitchcock est mort" (1980), in Jean-Luc Godard par Jian Luc Godard, /. WO-1984, cit., pp. 412-415. 53. Ibidem, p.412.

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c'è tutto” in questo cam po; quando im pone alla rappresentazione una sorta di "fram m entazione [che rende le parti] indipendenti allo scopo di conferire loro una nuova dipendenza” ; quando in­ voca, assiem e all’“onnipotenza dei ritm i”, l’arte del m ontaggio grazie a cui “un’immagine si trasform a al contatto con altre imma­ gini come uri colore al contatto con altri colori”; quando cerca, in profondità, tutto “ciò che accade nelle articolazioni” e osserva il fatto strano “che sia l’unione interna delle immagini che le carica di em ozioni”; quando fa proprio il principio di “accostare le cose che non sono state mai accostate e non sem bravano predisposte a esserlo” ; tutto ciò per “sm ontare e rimontare fino tSiìintensità” t dato che le immagini “si rafforzano trapiantandosi".545 H montaggio conferisce dunque alle immagini lo statuto di enunciazione che le renderà, a seconda del loro valore d’uso, giuste o ingiuste: così come un film d ’azione - questa l’idea che se ne fan­ no Hitchcock, G odard, Bresson e altri - può portare le immagini a un grado di intensità tale da fam e sorgere una verità, allo stesso modo un semplice servizio televisivo può utilizzare le immagini do­ cumentarie per produrre una falsificazione della realtà storica che esse comunque archiviano. Si può capire allora come il montaggio finisca per trovarsi al centro della questione concreta - uso singola­ re, e non verità generale - delle immagini. È tanto ingenuo assim i­ lare montaggio e menzogna, come faceva G eorges Sadoul ad esem­ pio,” quanto restare ciechi di fronte alla presa costruttiva del mon­ taggio sul materiale visivo che esso elabora e interpreta. Non è un caso se i servizi cinem atografici dell’esercito ameri­ cano, nel 1945, si rivolsero a John Ford per chiedergli di riflettere sull’uso - vale a dire sul m ontaggio - delle sequenze filmate da G eorge Stevens all’apertura dei cam pi; e se, parallelam ente, Sid­ ney Bernstein incitò l’amico Alfred H itchcock a riflettere sul montaggio delle sequenze girate nei cam pi, in particolare a Bergen-Belsen, dall’esercito britannico.56 Le reazioni del “maestro 54. R Bresson, Notes sur le cinématographe, Gallimard. Paris 1995, pp. 22,30, 33, 35-36, 52, 56, 69, 93-94, 107; tr. it. Note sul cinematografo, Marsilio, Venezia 2003. 55. G. Sadoul, “Témoignages photographiques et cinématographiques”, in C. Samaran (a cura di), L'Histoire et ses métbodes, Gallimard, Paris 1961, pp. 13921394. 56. Cfr. V. Sànchez-Biosca, “H ierist kein Warum. À propos de la mémoire et de l’image des camps de la mort”, in Protée. Théories et pratiques sémiotiques, XXV,

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della paura” , riferite da più testim oni - tra cui Peter Tanner, il montatore del film di Bernstein - , furono assai significative: non si poteva pensare a un m ontaggio in form a di investigazione, di inchiesta (cosa che H itchcock sapeva fare m olto bene) ma a un montaggio in form a di processo (cosa che egli, "cam m inando ner­ vosamente” , ammise di non saper fare troppo bene, soprattutto con immagini di questo tipo).77 H itchcock però com prese subito che questa form a esigeva un montaggio che non separi nulla: innanzitutto, non bisognava sepa­ rare le vittime dai carnefici, bisognava d o è m ostrare i cadaveri dei prigionieri sotto gli occhi dei responsabili tedeschi, per cui si decise di tagliare il meno possibile le lunghe panoram iche, di sp a­ ventosa lentezza; e poi, non bisognava separare il cam po stesso dai suoi dintorni sociali, che si trattasse di dintorni norm ali, ele­ ganti, rurali o bucolici. Sin dall'inizio, H itchcock e Bernstein ave­ vano capito che rinsostenibilità di questi archivi, in contrasto con tutto il resto - col resto dell’umanità al di là del filo spinato - , po­ teva suscitare il diniego, il rigetto di evidenze troppo pesanti. D’altronde, la negazione del genocidio è inscritta nella differenza stessa che separa il cam po dai suoi dintorni più immediati. M a non è proprio il m ontaggio che, in un film, si fa carico di m ostrare ledifferenze? Ciò che non si può vedere, bisogna dunque davvero montarlo, affinché sia possibile pensare le differenze tra alarne monadi visive - separate, lacunari - , ossia conoscere m algrado tut­ to ciò che resta im possibile da vedere interamente, ciò che resta inaccessibile com e tutto. ft

G odard non dice altro: “Il m ontaggio [...] è ciò che fa vedere".58 È ciò che trasform a il tem po del visibile parzialmente ricordato in costruzione reminiscente, assillo visivo, m usicalità 1997, n. 1, pp. 57-59; S. Lindeperg, Clio de 5 à 7, dt., pp. 251-235; M. Joly, “Le dném* d’archives, preuve de l’histoire?”, in Les Institutions de Vimage, dt., pp. 201212. Cfr. anche C. Drame, “Repiésenter l’irreprésentable: les camps nazis dans les «ctualités franfaiscs de 1945”, in Cinémathique, n. 10,19%, pp. 12-28. 57. Sul ruolo delle immagini cinematografiche al processo di Norimberga, cfr. le mirabili analisi di C. Delage, “L’image comme preuve. L’expérience du procès de Nuremberg”, in VingtièmeSiècle. Revue d'histoire, n. 72,2001, pp. 63-78. 58. J.-L. Godard, “Alfred Hitchcock est mort", cit., p. 415.

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del sapere. In destino: "N el m ontaggio, si incontra il d estin o V ’ C osì, il m ontaggio è elevato al rango di pensiero. E G odard ricor­ da che “U cinema [fu] anzitutto concepito per pensare” , che do­ vrebbe darsi anzitutto come una “forma che pensa” .3940 U m ontag­ gio è l’arte di'produrre questa form a che pensa. E sso procede, fi­ losoficamente, come una dialettica (al pari di Benjamin e Bataille, Jean-Luc G odard non ama citare H egel, se non per traviarlo): il montaggio è l’arte di rendere Vimmagine dialettica. H che va inteso in diversi modi. In prim o luogo, il montaggio rende ogni immagine la terza di due immagini già montate l’una con l’altra. M a, precisa G odard - riferendosi a Eisenstein - , que­ sto processo non assorbe le differenze, al contrario le esalta: non è dunque una sintesi o una “fusione” di immagini, anche nel caso delle sovrim pressioni utilizzate in H istoireis) du ciném a: Jean-Luc Godard. - Le Histoireis) sono cinema, tecnicamente so­ no un manuale, cose semplicissime, tra le quaranta possibilità della regia ne ho utilizzate una o due, soprattutto la sovrimpressione, che mi ha consentito di serbare l’immagine originale del cinema [...]. Youssefhbaghpour. - Il fatto che le due immagini si fondano Tu­ na con l’altra... Jean-Luc Godard. - La base è sempre due, presentare sempre al­ l’inizio due immagini anziché una, è questo che io chiamo l’immagi­ ne, Timmagine fatta di due [...].61 Le cose poi si com plicano ulteriorm ente nella m isura in cui G odard non cessa mai, nel proprio lavoro, di ricorrere a parole da leggere, da vedere o da ascoltare. In tal senso, la dialettica va intesa allora come una collisione m oltiplicata di parole e di imma­ gini: le immagini urtano tra loro affinché sorgano delle parole, le parole urtano tra loro affinché sorgano delle immagini, le imma­ gini e le parole urtano tra loro affinché il pensiero abbia luogo vi­ sivamente. Le innumerevoli citazioni testuali utilizzate nei film di G odard sono appunto inseparabili da questa com plessiva strate­ gia di montaggio: 39. J.-L. Godard, “Le montage, la solitude et la liberté" (1989), in Jean-Luc Go­ dard par Jean-Luc Godard, //. 1984-1998, cit., p. 244. 60. J.-L. Godard, Histoireis) du cinéma, cit., Ili, p. 55. 61. J.-L. Godard (con Y. Ishaghpour), Archeologie du cinéma et mémoire du siicle, cit., pp. 36-27.

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[...] l’immagine che proponete entra nel testo e infine il testo, a un certo punto, emerge dalle immagini, non c’è più un rapporto di semplice illustrazione e d ò vi permette di esercitare la vostra capad tà di pensare e di riflettere e di immaginare, di creare. [...]E c c o ,è un accostamento ed è un'immagine, come ce ne sono tante in Histoire(s) du ànim a. [...] Un giorno mi ha colpito come un’immagine il fatto che fossero due parole ad essere accostate.42

È allora che l’immagine acquista una leggibilità direttamente prodotta dalle scelte di m ontaggio: essa si fonda su un "accosta­ mento degli incom m ensurabili” , ma produce nondimeno un au­ tentico "fraseggio della storia” , come ha ben detto Jacques Ran­ cière.6* L e H istoire(s) godardiane sono forse storia? Certo che no. E a Youssef Ishaghpour, che gli obietta che uno "storico non può perm ettersi di creare delle ‘immagini’, mentre voi potete farlo col m ontaggio”, G odard risponde com e segue: "P er me la Storia è, se vuole, l’opera delle opere, che le ingloba tutte, la Storia è il no­ me di famiglia, con tanto di genitori e di figli, con tanto di lettera­ tura, pittura, filosofia..., la Storia, diciam o, è l’intero insieme. Dunque, se l’opera d ’arte è ben fatta, essa appartiene alla Storia [...]. Mi sem brava insomma che la Storia potesse essere un’opera d ’arte, cosa che è stata ammessa solo da M ichelet” .626364 In Cinéma Ciném a, G odard definiva tavola critica al tem po stesso il suo tavolo di lavoro - cosparso di libri aperti, di appunti scritti, di fotografie - e il tavolo di m ontaggio: non era forse un m odo per ribadire che il cinema m ostra la storia, anche quella che non vede, nella m isura in cui sa m ontarlaP65 Non è forse la cono­ scenza storica del ruolo svolto dall’autore di Vertigo nel film di Bernstein che, ad esem pio, perm ette a G odard di accostare un piano di Norim berga e un piano di H itchcock? 62. Ibidem, pp. 13,82. 63. J. Rancière, "La phrase, l’image, l’histoire* (2002), in Le destin des images, La Fabrique, Paris 2003, p. 72. 64. J.-L. Godard (con Y. Ishaghpour), Archéologie du ànim a et mémoire du sièdf,dt.,pp. 21,24-25. 65. J.-L. Godard, "Le cinema est fait pour penser l’impensable” (1995), in JeanLuc Godard par Jean-Luc Godard, il. 1984-1998, cit., p. 296; J.-L. Godard, 'Histoirt(s) du ànim a: à propos de cinéma et d’histoire” (1996), in Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, II. 1984-1998, cit., p. 402: "[quando] Francois Jacob, il biologo, scrive: 'Lo stesso anno Copernico e V e s a lio e b b e n e , in quel momento non s u fa­ cendo biologia, Jacob, s u facendo cinema. E la storia è appunto questo. È accosumento. È montaggio".

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Oggi, in video, guardo più spesso documenti storici che film. Ma è la stessa cosa, non vedo differenze. Da questo punto di vista, un estratto del processo di Norimberga e una sequenza di Hitchcock raccontano entrambi ciò che siamo stati, sono entrambi cinema. - La storia è fatta allora di accostamenti ? - È ciò'che vediamo, prima di dirlo, accostando due immagini: una giovane donna che sorride in un film sovietico non è esatta­ mente uguale a quella che sorrìde in un film nazista. Mentre lo Chariot di Tempi moderni è esattamente uguale, inizialmente, al­ l’operaio di Ford filmato da Taylor. Fare della storia significa pas­ sare delle ore a guardare queste immagini e poi ad accostarle, fa­ cendo scoccare all’improvviso una scintilla. Tutto ciò produce del­ le costellazioni, con stelle che si accostano e discostano, come di­ ceva Walter Benjamin.*6

Eccoci allora ricondotti alT“immagine dialettica” di Benja­ min e, di conseguenza, alla conoscenza tram ite il m ontaggio.667 Non soltanto " l’epoca del cinema è l’epoca della storia nella sua accezione m oderna” , come afferma Jacques Rancière, ma il cine­ ma così inteso lavora inoltre con Vindimenticabile: in altre paro­ le, si confronta di continuo con la questione della Vemichtung, dell’annientamento.68 Scrivendo che “il cinema è fatto per pen­ sare l’im pensabile” ,69 Jean-Luc G odard è però costretto a con­ statare, tragicam ente, che “il cinema non è stato all’altezza del suo com pito”: Ingenuamente, si è creduto che la Nouvelle Vague fosse un ini­ zio, una rivoluzione. Invece, era già troppo tardi. Tutto era già finito. 66. J.-L. Godard, "Le cinema a été l'art des àmes qui ont vecu intimement dans l’Histoire (entretien avec Antoine de Baecque)”, in Liberation, 6-7 avrìl 2002, p. 43. 67. Sul tenore benjaminiano delle Histoireis) du cinema cfr. soprattutto A. Bergala, Nul mieux que Godard, cit., pp. 221-249 (“L’Ange de l’Histoire"); Y. Ishaghpour, "J.-L. G. dnéaste de la vie moderne. Le poétique et l’historiquc”, in Archeologie du cinéma et mémoire du siècle, cit., pp. 89-118. Sulla “conoscenza attraverso il montag­ gio” in Walter Benjamin cfr. G. Didi-Huberman, Devant le tempi, cit., pp. 83-133. 68. J. Rancière, "L’inoubliable”, in J.-L. Comolli, J. Rancière (a cura di), Arrèt surhistoire, Centre Georges Pompidou, Paris 1997, pp. 47-70; J. Rancière, “L'historicité du cinéma”, in A. de Baecque, C. Delage (a cura di), De l'histoire au cinéma, IHTP-CNRS-Éditions Complete, Paris-Bruxelles 1998, pp. 43-60. Tutto ciò è stato avanzato - come nel dibattito già menzionato a proposito di C. Ginzburg - contro la postmoderna “fine della storia”, illustrata ad esempio dall’articolo di A. Kaes, “Holocaust and the End of History: Postmodern Historiography in Cinema”, in Probing the Limits o f Representation, cit., pp. 206-222. 69. J.-L. Qodard, “Le cinéma est fait pour penser 1'impensable”, cit., pp. 294-299.

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Ed era finito quando non si erano filmati i campi di concentramento. In quell’istante, il cinema ha mancato totalmente al suo dovere. G sono stati sei milioni di persone, uccise o gasate, e il cinema non era là. Eppure, dal Dittatore alla Regola del gioco, aveva preannunciato ogni dramma. Non filmando i campi di concentramento, il cinema ha dato forfait. È come la parabola del buon servitore, morto a forza di non essere utilizzato. H cinema è un mezzo di espressione da cui è scomparsa l’espressione. È restato solo il mezzo.70

Le H istoire(s) du àn im a non costituiscono ovviamente una cronaca o un docum entario sui campi. M a uno dei loro leitmotiv più potenti consiste nel m ostrare come uno straordinario "m ezzo d’espressione” , il cinema, si sia privato della sua stessa "espres­ sione” - o del suo oggetto principale - il giorno in cui, una volta aperti i cam pi, "ha dato forfait” . Che vuol dire G odard quando afferm a che 0 cinema "non ha filmato i cam pi” ? Non soltanto egli è a conoscenza dei filmati di G eorge Stevens e di Sidney Bern­ stein, ma li utilizza addirittura nel suo film. Non soltanto ricorda che Chaplin e Lubitsch non hanno scansato il tema, ma si dice addirittura certo che i nazisti abbiano filmato le loro sinistre in­ venzioni, in documenti che riposano ancora al fondo di qualche archivio inesplorato.7172Dunque, perché dire che il cinema non ha film ato i cam pi? Perché tutto questo non basta a fare del cinema. Perché, se­ condo G odard, nessuno ha saputo m ontare - ossia m ostrare per comprendere - le inquadrature esistenti, i docum enti della storia. In apparenza, G odard non è soddisfatto dei consigli elargiti da H itchcock, in qualità di treatm ent advisor, al montatore Sidney Bernstein. E non sem bra nemmeno molto soddisfatto né dei tra­ velling di N uit et brouillard né di Shoah?2 70. J.-L. Godard, “Le cinema n’a pas su remplir son role” (1995), in Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, u. 1984-1998, dt., p. 356. 71. J.-L. Godard, “ La legende du siède (entreden avec Frédéric Bonnaud et Arnaud Viviant)”, in Les Inrockuptibles, 21 octobre 1998, p. 28: “Gli archivi, li si sco­ pre sempre molto tempo dopo. [...] Non posso provare d ò che dico, ma credo che, re mi ci mettessi con un buon giornalista d’investigazione, troverei immagini delle camere a gas nel giro di vent’anni. Si vedrebbero entrare i deportati e si vedrebbe in checondizioni ne escono”. 72. J.-L. Godard, “Entreden avec Marguerite Duras" (1987), in Jean-Luc Go­ dardpar Jean-Luc Godard, li. 1984-1998, dt.,pp. 144-146: “Jean-Luc Godard. - Non si vuole vedere, si preferisce dire del male. Facdo sempre l’esempio d d campi di

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Posizione, questa, al tem po stesso ingiusta e com prensibile in una logica come la sua: ingiusta perché Alain Resnais e Claude Lanzmann di sicuro non hanno "dato forfait” dinanzi al com pito di cui G odard ha spesso parlato, ma che non ha mai assolto in prima persona;” com prensibile perché l’esigenza di G odard è coerente e concreta: bisognerebbe riesplorare gli archivi storici "N on li si m ostra più oggi, nessuno sa che cosa è accaduto [...]. A tratti, l’immagine non si ha voglia di vederla, l’immagine è diffi­ cile”74 - e bisognerebbe fare un grande film di questa esplorazio­ ne, al di là di quella "pedagogia dell’orrore” che veicolarono, alla liberazione, i nostri cinegiornali. Il cinema, in tal senso, ha “dato forfait” davvero, allora, nono­ stante il com pito fosse essenziale. E alla colpa di non aver filmato i cam pi si aggiunge, per G odard, quella di aver lasciato cam po li­ bero a Hollywood: “JL G non è stato in grado di [ ...] im pedire al signor Spielberg di ricostruire Auschwitz”.7’ Tuttavia, le H istoire(s) du cinéma si ostinano magnificamente nel m ontaggio mal­ grado tutto di questa grande questione sem pre aperta: non aver paura degli archivi - evitando il duplice scoglio della sacralizza­ zione e della denegazione - ma non aver paura nemmeno di uti­ lizzarli per creare un’opera, che è qui un 'opera d i m ontaggio. “È senza dubbio questo il paradosso più profondo di H istoire(s) du cinéma. M ostrare che il cinema ha tradito, oltre che la sua vocaconcentramento: si preferisce dire ‘mai più’ piuttosto che mostrare. [... J Si preferi­ sce scrivere dei libri per dire che ciò non è accaduto, ai quali replicheranno altri li­ bri per dire che ciò è accaduto. Ma basta mostrare, la visione esiste ancora. [...] Marguerite Duras. - Shoah ha mostrato: le strade, le fosse profonde, i sopravvissu­ ti. .. Jean-Luc Godard. - Non ha mostrato nulla”. 73. J.-L. Godard, “Feu sur Les carabinieri" ( 1963), in Jean-Luc Godard par JeanLuc Godard, l. 1920-1984, cit., p. 239: “Facciamo l’esempio dei campi di concentra­ mento. L’unico vero film su di essi - che non è mai stato girato e mai lo sarà, poiché sarebbe intollerabile - sarebbe quello in cui si filma un campo dal punto di vista dei torturatori (...]. Sarebbe insopportabile non tanto l’orrore di queste scene, quanto il loro aspetto perfettamente normale e umano”. J.-L. Godard, Introduction à une veritable histoire du cinéma, Albatros, Paris 1980, pp. 269-270: “E si studiano i cam­ pi. .. è per questo che non è mai stato fatto un vero film sui campi di concentramen­ to, perché ci vedremmo il nostro stesso mondo, in una forma chiara e netta”; tr. it. Introduzione alla vera storia del cinema. Editori Riuniti, Roma 1992. 74. Ibidem, pp. 221-222. 73. J.-L. Godard, “Lettre à un ami américain” (1995), in Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, IL 1984-1998, cit., p. 344. È una delle ragioni invocate da Godard per rifiutare U “ricompensa” offertagli dal New York Film Critics Circle.

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zione alla presenza, il proprio com pito storico. M a la dim ostra­ zione della vocazione e del tradimento è pure l’occasione per ve­ rificare l’esatto contrario.”76 L a dom anda diventa allora: con cosa montare - per m ostrarle - le immagini dei cam pi? L a risposta di H istoire(s) du cinéma è ovviamente com plessa, e sem pre dialettica: né "totalitaria” (non presuppone cioè una sola storia “tutta” ), né dispersiva (non pre­ suppone cioè molteplici storie senza alcun legame tra loro). Ja c ­ ques Aumont ha analizzato con precisione il m odo in cui G odard “ri-monta il tem po” in H istoire(s) du ciném a.77 Cammin facendo, egli osserva che dando ritm o alle im m agini d'archivio non si cor­ rompe mai, comunque, la loro natura di registrazione fotografica: “vale la pena notare che, pur nella loro brillantezza e com plessità, le H istoire(s) non hanno m ai fatto ricorso al ritocco dell’im m agi­ ne, ma soltanto a tecniche che non corrom pono l’indizialità” .78 Ecco perché m ontaggio non significa “assim ilazione” indistin­ ta, “fusione” o “distruzione” degli elementi che lo costituiscono. M ontare un’immagine dei campi - o della barbarie nazista in ge­ nerale - non significa perderla in un calderone culturale fatto di quadri, di estratti di film o di citazioni letterarie: significa semmai dare a intendere qualcosa di diverso, m ostrando la differenza e il legam e di questa immagine con ciò che la circonda per l’occasio­ ne. M asha Bruskina, giovane ebrea di diciassette anni, fu im pic­ cata dai tedeschi a M insk, nell’ottobre 1941: la corda ben tesa, sulla foto, è im placabile, così come è sconvolgente il volto del­ l’im piccata; G odard - il cui film è letteralmente ossessionato dal­ la scom parsa degli esseri, dei corpi - pone questa immagine in eco con una celebre fotografia di H iroshim a, in cui si scorgono l’om bra di una scala ancora in piedi e un corpo polverizzato con­ tro un muro.79 La stessa immagine di im piccagione era stata associata, nella prim a parte del film, ad alcuni D isastri di Goya. E questi a loro volta prolungati in un dettaglio dei Capricci: sorta di angelo male­ fico - versione m ostruosa dell’Angelo benjaminiano della Storia 76. J. Rancière, La Fable cinématographique, Le Seuil, Paris 2001 , p. 236. 77. J. Aumont, Amnesies. Fictions du cinema d’après Jean-Luc Godard, POL, Paris 1999, pp. 9-32. 78 .Ibidem, p. 241. 79. J.-L. G odard, Histoire(s) du cinéma, cit., IV, p. 103.

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Figura 24 Jean-Luc G odard, prima parte, “Toutcs les histoircs".

H istoirefs)

dcinema, 198

che porta sulle ali alcune povere anime, ossia delle teste mozzate*0 (figura 24). U manoscritto della Biblioteca nazionale di Francia ri­ porta un breve commento su questa tavola che parla di "vizi che prendono il volo per il paese dell’ignoranza” . 11 manoscritto del Prado è ancora più esplicito: "D ove se ne andrà questa infernale coorte, che urla nell’aria attraverso le tenebre della notte? Se fos­ se giorno, già sarebbe diverso: a forza di fucilate si farebbe cadere a terra tutta questa calca. Ma siccome è notte, nessuno la vede”.8081 Ecco, per G odard, il male politico, allegorizzato qui da una notte sghignazzante in cui "nessuno lo vede” (e dunque nessuno gli im­ pedisce di agire). Si vede molto di più nelle immagini seguenti: si vedono, a co­ lori - giacché il male reale è sempre a colori - , i cadaveri del con­ voglio Buchenwald-Dachau filmati alla fine dell’aprile 1945 da George Stevens con la sua camera da sedici millimetri e una pelli­ 80. Ibidem , I, p. 130. 81. F. Goya^Lw C apricci ( 1799), tr. fr. L'InsuJaire, Paris 1999, p. 166.

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cola Kodachrom e82 (figure 25*26). M entre l’inquadratura se­ guente non è altro che un tipico esem pio di erotism o hollywoo­ diano in cui si riconosce Elizabeth Taylor distesa, in costum e da bagno, sul cui grem bo riposa il volto dell’amante, M ontgomery Clift (figura 27). L a differenza è certo brutale. M a dove sta il lega­ me costruito dal m ontaggio? Sta innanzitutto nella form a, ossia nella libera scelta di G o ­ dard. O nella sua finzione, se vogliamo. L’artista si concede qui in linea con la tradizione occidentale - la libertà sovrana del reim ­ piego: sceglie due fotogram m i di Dachau e vi associa la breve in­ quadratura hollywoodiana, assum endo come vettore dialettico i volti dei due uomini che si rispondono crudelmente l’un l’altro. Q uello che è m orto, inclinato a sinistra, sem bra ancora gridare, in preda a una sofferenza senza fine; quello che è vivo, inclinato a destra, sem bra riposare in una felicità definitiva. M a ci si conti­ nua a dom andare che cosa la vittima reale e l’amante fittizio ab­ biano da rispondersi l’un l’altro. E d è qui che interviene il pensiero di G odard, un pensiero inerente a tutte le forme costruite nel film: voglio dire che ci tro­ viamo, qui, dinanzi a un esempio, tra i tanti che costellano Histoire(s) du àn im a, di come le tensioni estreme confluiscano in una grande "im m agine dialettica” . D i fatto, noi non possiam o non com prendere, o almeno presentire, che nella successione di questi fotogram m i la felicità privata si staglia spesso sullo sfon­ do di sventure storiche; che la bellezza (dei corpi amanti, degli istanti) si staglia spesso sullo sfondo dell’orrore (dei corpi assas­ sinati, della storia); che la tenerezza di un singolo per un altro singolo si staglia spesso sullo sfondo di un odio di un gruppo per un altro gruppo. E che questo contrasto filosofico può trova­ re, come accade in questo caso, la sua espressione cinem atogra­ fica nel paradosso di una morte reale a colori - con G odard che fissa il film di Stevens in due fotogram m i - e di una vita fittizia in bianco e nero. Ma non è tutto: G odard fa anche opera di storia. Il suo com ­ mento, con la voce off, giustifica con forza il legame che va stabili­ ta. J.-L. Godard, Hi$toire(s) du ànim a, cit., I, p. 131. Su questo “convoglio” fo­ tografato pure da Éric Schwab, Lee Miller e David Schermar, cfr. C. Chéroux, “Le win", in Mémoire des camps, dt., pp. 150-151. Sull’archivio a colori, cfr. C. Delage, ‘ La guerre, les camps: la couleur des archives”, in Vertigo, n. 23,2003, pp. 39-42.

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to tra queste immagini: il fatto è, semplicemente, che esse sono opera dello stesso uomo, George Stevens, ritornato a Hollywood dopo la guerra, che filmò tutto questo a cinque o sei anni di di­ stanza, massimo: uSe George Stevens non avesse utilizzato la pri­ ma pellicola a colori in sedicesimi ad Auschwitz e Ravensbriick, probabilmente la felicità di Elizabeth Taylor non avrebbe mai trovato un posto al sole” ." Ciò su cui questo montaggio fa riflet­ tere è dunque proprio il fatto che le differenze poste in gioco ap­ partengono alla stessa storia della guerra e del cinema: bastò che gli Alleati vincessero la guerra reale perché G eorge Stevens tor­ nasse a Hollywood a filmare le sue storielle di pura fantasia. Così, è certo una "storia al singolare” che viene raccontata qui, poiché i cadaveri di Dachau restano inseparabili dallo sguardo di testim o­ ne che Stevens getta anche sul corpo di Elizabeth Taylor - pur muovendosi nel regno dell’impensato. Ma sono al tempo stesso “storie al plurale”, poiché i due momenti tendono di continuo a83 83. J.-L, Godard, H istoire(s) du cinem a, cit., I, pp. 131*133. G odard si sbaglia su * Auschwitz e Ravensbriick”, poiché si tratta di Dachau.

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F igari 26 Jein-Luc Godard, H istoire(s) prima parte, “Toutes les histories” .

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ignorarsi, mentre si dibattono nella stessa "tragedia della cultu­ ra” . G odard lo spiegava già, con sufficiente precisione, nel 1988: C’è una cosa che mi ha sempre toccato in un cineasta che non amo troppo, George Stevens. In Un posto al sole rinvenivo un senso di felicità che ho ritrovato in ben pochi altri film, anche migliori di quello. Un senso di felicità laico, semplice, che a un certo punto af­ fiora in Elizabeth Taylor. E quando ho saputo che Stevens aveva fil­ mato i campi e che in quell’occasione Kodak gli aveva consegnato i primi rallini a colorì in sedici millimetri, questa mi è sembrata l’uni­ ca spiegazione possibile per quel primo piano di Elizabeth Taylor, da cui si irradia una specie di felicità oscura.**

E d ecco che l’irradiazion e” di quella felicità si trova a sua vol­ ta composta da G odard all’interno di un quadro formato da una mano, due braccia tese e un viso di santa tipico del Trecento ita-84 84. J.-L. Godard, “ H istoireis) du am in à: Godard fait avec Serge Daney” (1988), in Jean-Luc G odard par Jean-Luc G odard, li. 1984-1998, cit., p. 172.

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Figura 27 Jean-Luc Godard, prima parte, “Toutes les histoires".

H isloire(s)

d 1988-1998.

liano (figura 28). Si tratta, a ben vedere, di un dettaglio del me tangere di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni di Padova, dettaglio che G odard fa ruotare di novanta gradi, in modo tale che la Maddalena diventi a sua volta un “angelo della Storia” che la mano di Cristo in basso - più umana che divina - non riesce a raggiungere. Commento o ff. “Trentanove quarantaquattro, mar­ tirio e resurrezione del documentario” .*5 In un commento filoso­ fico a queste immagini, Jacques Rancière ha parlato di un “angelo della Resurrezione che manifesta, alzandosi verso di noi, il potere immortale dell’Immagine capace di resuscitare da ogni morte”. Così, la Maddalena di G iotto si impone a G odard nell’“ uso ben determinato della pittura che completa e porta a compimento la dialettica dell’immagine cinematografica. [...] Elizabeth Taylor che esce dall’acqua raffigura allora il cinema stesso, resuscitato dai morti. È l’angelo della Resurrezione” .8586 85. J.-L. Godard, H istoireis) du cinem a, cit., 1, pp. 134-135. 86. J. Ranciere, La Fable cinématograpcit., pp. 231-232.

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Si ha quasi la sensazione che G odard abbia seminato il panico tra i suoi commentatori ritornando più volte sul dictum cristiano, paolino: “L’immagine verrà al tempo della resurrezione” .87 Ora, conviene senz’altro ricollocare questa frase nell’immensa trama di citazioni delle H istoìre(s), anziché fam e l’emblema di una pro­ fessione di fede unilaterale o di un dogma teorico-teologico. Nel momento in cui del resto la parola “ resurrezione” appare sullo schermo, G odard la mette in prospettiva col suo commento più freudiano che paolino: “Le due grandi storie sono state il ses­ so e la morte”.88 Ed ecco allora che Liz Taylor come “angelo della Resurrezione” diventa, perlomeno ai miei occhi, una faciloneria ermeneutica, suscitata capziosamente dalla potenza stessa - visi­ va e testuale - dei “cartelli” godardiani. Per quanto mi riguarda, non vedo alcun “angelo della Resurre­ H istoire(s) du am én ic, soprattutto nello spezzone di 87. J.-L. Godard. 88. Ibidem , I, p. 166.

H itto ireii)

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du cinem a, cit., 1, pp. 164-167

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montaggio di cui stiamo parlando (figure 24-28). D ire che il docu­ mentario contiene una potenza di “resurrezione” - “Che meravi­ glia poter guardare ciò che non si vede", afferm a G odard*9 - non significa parlare da teologo della fine dei tempi ma, più semplicemente, da persona che continua a meravigliarsi del rapporto tra cinema e storia: fa sem pre im pressione, ancora oggi, vedere A dolf H ider che si muove nei cinegiornali degli armi Trenta e Quaranta. D 'altronde, va notato pure che l’inquadratura in cui Jacques Ran­ cière vede sorgere in G odard l’“angelo della Resurrezione" (figura 28) è anch’essa tesa, dialetticamente, tra immagini completamente contrapposte: la santa cristiana e la star hollywoodiana, l’aureola che cinge un capo coperto da un velo e l’aura che avvolge un cor­ po da ninfa pagana. Anche in questo caso, le differenze non sono “fuse”, ma piuttosto esposte come tali nello stesso “quadro” . O ltretutto, la rotazione di novanta gradi della scena evangelica ha per effetto visivo quello di avvicinare questa dram m aturgia del contatto im possibile con un’allegoria dipinta da G iotto quasi ac­ canto al N oli me tangere', si tratta di una rappresentazione della Speranza, che ricorda da vicino la scultura del tem po, in partico­ lare la celebre versione di Andrea Pisano nel Battistero di Firen­ ze. E d è questa stessa dram m aturgia - della speranza, non della resurrezione - che Walter Benjamin ha voluto commentare filo­ soficamente, da Strada a senso unico del 1928, in cui accenna pro­ prio al bassorilievo di Pisano, fino alle tesi Su l concetto d i storia del 1940, in cui parla invece delVAngelus Novus di Paul Klee. Nel prim o caso Benjamin scriveva: “Seduta, leva im potente le braccia verso un frutto che le rimane irraggiungibile. E tuttavia è alata. Nulla di più vero”.8990 Nel secondo: “H a l’aria di allontanarsi da qualcosa su cui il suo sguardo sem bra restar fissato” .91 Insom m a, la funzione assegnata da G odard alla storia della pittura - anche cristiana, com ’è destino inevitabile in Occidente, perlom eno prima del Settecento - non si può ridurre a un movi­ mento di chiusura sulla resurrezione e a un desiderio, come insi­ nua Rancière, di “com pletare e portare a com pim ento la dialetti­ ca dell’immagine cinem atografica” . Non c’è nessun “angelo della 89. Ibidem, I, p. 135. 90. W. Benjamin, Strada a senso unico (1928), tr. it. in Opere II. Scritti 1923-1927, Einaudi, Torino 2001, p. 443. 91. W. Benjamin, Sul concetto di storta, cit., p. 67. 186

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Figura 29 Jean-Luc G odard, H istoire(s) prima parte, “Toutes les histoires”.

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Resurrezione”, perché la Maddalena di Giotto non toccherà mai la mano di Cristo (figura 28); perché questa immagine non è una fine della storia, ma un quadro di intelligibilità per i corpi assassi­ nati e per i corpi amanti filmati da George Stevens (figure 25-27); e perché, all’altro capo, insiste ancora l’“angelo della Distruzio­ ne” di Goya, con le immagini di G odard che qualche minuto d o­ po cominceranno a essere assillate dalla formula goyesca di Luis Bunuel: "L ’angelo sterminatore”.9293Tutto ciò, semmai, sembra ab­ bozzare il profilo di un "angelo della Storia” di ispirazione deci­ samente benjaminiana.9’ E l’angelo della Storia non può offrirci alcuna prospettiva sulla fine dei tempi, né - tantomeno - sul G iu ­ dizio finale dei giusti e dei dannati. Non c’è alcuna resurrezione, nel senso teologico del termine, perché non c’è alcun compimento dialettico. Il film, a questo punto, non fa che cominciare. E subito dopo che Liz Taylor è emersa, simile a una Venere, dai flutti - sullo sfondo di una tra­ dizione iconografica ben riconoscibile - , è un ta, resistente a ogni lettura immediata, ad affiorare (figura 29). 92. J.-L. G odard, H isto iràs) du àn im a, d t., I, p. 191. 93. A. Bergala, N ulM ieuxque G odard, dt., pp. 221-249.

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Vi si leggono, in sovrim pressione, alcune lettere: innanzitutto End, com e alla fine di ogni classico hollyw oodiano. E ppu re si capisce subito che la parola - com e le H istoire(s), com e la storia stessa e com e la dialettica secondo G odard - non è affatto “ fini­ ta” . Facendo attenzione, non vi si legge forse endlos (“ senza fi­ ne” , “interm inabile”) e poi Endlosung (“Soluzione finale” )? N on è al senza fin e della distruzione dell’uom o da parte dell’u o­ mo che G odard pensa con questa storia e questa pratica del m ontaggio?94

94. Come ho accennato poc’anzi. Godard non è chiaramente 1’unico deposita­ rio di questo rapporto con la storia, l’archivio e il montaggio: bisognerebbe anche analizzare, per limitarsi a due soli esempi, le opere di Chris Marker o di Harun Farocki. Sul primo cfr. R. Bellour, L’Entre-images 2. Mots, images, POL, Paris 1999, pp. 335-362. Sul secondo cfr. R. Aurich, U. ICriest (a cura di), Der Àrger mit den B it dem, Die Filme voti Harun Faroeki, UVK Medien, Kostanz 1998, e in francese C. Blumlinger, “Harun Faroeki ou Part de trailer les entre-deux” , tr. fr. in H. Faroeki, Reconnoitre poursuivre. Theatre Typographique, Montbard 2002, pp. 11 -18. 188

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Ignorando il lavoro dialettico delle immagini, si corre il ri­ schio di non capire nulla e di confondere ogni cosa: confondere il fatto col feticcio, l’archivio con l’apparenza, il lavoro con la manipolazione, il m ontaggio con la menzogna, la somiglianza con l’assim ilazione... L’immagine non è nulla, né tutta, né una così come non è due. E ssa si dispiega secondo quel minimo di com plessità che presuppongono due punti d i vista che si affron­ tano sotto lo sguardo d i un terzo. Q uando Claude Lanzmann si dice "scioccato”, nella mostra M émoire des camps, "dal parallelo tra i volti tumefatti dei deportati pestati a sangue e i volti dei lo­ ro boia picchiati alla liberazione” ,1 rifiuta semplicemente di aprire gli occhi sul fatto che l’archivio fotografico m esso su da Eric Schwab o da Lee M iller a Dachau e a Buchenwald non in­ tendeva rendere conto del funzionamento dei cam pi ma della loro liberazione, con tutte le situazioni paradossali che una sim i­ le situazione comportava, le necessarie denunce, le com prensibi­ li vendette, la felicità vera e falsa di prigionieri ancora straziati, ancora m orenti... M ostrando tutto questo, Éric Schwab e Lee M iller non avevano affatto l’intenzione di gettare luce sull’orga­ nizzazione del terrore, né sulla distanza necessaria per giudicare. Q uanto alla m ostra M émoire des camps, l’idea era quella di in­ terrogarsi sulle condizioni e la diffusione di queste testimonian­ ze fotografiche, più che quella di spiegare in che modo fìinzio1. C. Lanzmann, “La question n’est pas celle du document”, cit., p. 29. Cfr. C. Chéroux, “L’‘épiphanie negative’: production, diffusion et reception des photo­ graphies de la liberation des camps” , in Mémoire des camps, cit., pp. 103-127.

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navano i campi. L’“inquadratura” morale, rivendicata da Lanzmann, non consisteva quindi nel "parallelo” ma nel raffronto delle immagini; e non consisteva in fondo neppure nel raffronto in quanto tale, ma nel punto di vista gettato su di esso.23 Montare non significa assimilare. Nel 1968, Jean-Luc G odard aveva già mostrato assieme le immagini del totalitarismo e quelle della pornografia: “In One plus One c’erano al tempo stesso im­ magini di sesso e un testo di H iden erano one più one" ? In Histoire(s) du cinéma, una vittima dei campi è mostrata, morta, subito dopo l’estratto di un film pom ografico, occasione questa per di­ stinguere, nel commento off, la violenza dell’immagine inflitta allo spinto da “ogni atto creativo” e la brutalità reale estesa da un siste­ ma totalitario alla vita intera: “Ogni atto creativo contiene una mi­ naccia reale per l’uomo che osa compierlo, ed è così che un’opera tocca lo spettatore o il lettore. Se il pensiero si rifiuta di pesare, di violentare, corre il rischio di subire senza frutti ogni brutalità che la sua assenza ha liberato”.45Se la morte è montata col sesso, non è per avvilire la morte, al contrario; e non è neppure per necrotizza­ re il sesso. In effetti, nei campi, capitò che lo stesso aggettivo sonder (“speciale”) servisse a designare la morte (nella parola Sonderbebandlung, che indicava le “azioni speciali” di gasaggio) e il sesso (nella parola Sonderbau, che indicava il bordello). £ un montaggio può ben aspirare a rendere conto di tutto questo. Ma spesso si dice: non bisogna fare amalgami. Non si tratta di amalgami, le cose sono messe assieme, la conclusione non è data subito. [...] Le cose sono esistite assieme, e si ricorda dunque che sono esistite assieme.’

Montare non significa assimilare. Solo un pensiero triviale può insinuare che, se due cose vengono affiancate, allora devono esse­ re simili. Solo una réclame pubblicitaria può provare a farci cre­ dere che un’automobile e una giovane donna sono di natura 2. L’unico ’‘parallelo” stabilito da C. Chéroux nel suo catalogo {ibidem, pp. 108-109) pone l’una a fianco dell’altra due fotografie di Buchenwald: la guardia picchiata è posta a confronto con dei resti umani bruciati. 3. J.-L. Godard, Introduction à une veritable histoire du cinéma, cit., p. 308. 4. J.-L. Godard, Histoire(s) du cinema, cit., IV, pp. 54-55. 5. J.-L. Godard (con Y. Ishaghpour), Arcbéologie du cinéma et mémoire du siècle, cit., p. 7 L

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identica, per la semplice ragione che sono viste assieme. Solo un’immagine propagandistica può provare a farci credere che una popolazione minoritaria allunghi i suoi tentacoli sull’Europa intera come una piovra fa con la sua preda.6 1 maestri del mon­ taggio - W arburg, Eisenstein, Benjamin, Bataille - hanno tutti ac­ cordato un posto centrale, nelle loro riflessioni critiche sull’imma­ gine, al potere politico e alle immagini di fantasia della propagan­ da. Ma, depurando l’immagine dalle immagini di fantasia, hanno fatto fondere le som iglianze rendendo im possibili le assim ilazioni: hanno “lacerato” le somiglianze, producendole; ci hanno fatto ri­ flettere sulle differenze creando dei rapporti tra le cose.7 Ecco perché allora, volendo ridurre a “idea abietta” la mia analisi delle fotografie di Birkenau, G érard Wajcman procede a un ribaltam ento sistem atico della som iglianza nell’assim ilazione e del sim ile nel sem biante (che è poi il fittizio, il feticcio, la per­ versione, e infine l’abiezione). Così facendo, egli ripete scrupo­ losam ente il discorso di Claude Lanzmann sulle “fotografie dei detenuti picchiati dalle guardie e [ ...] delle guardie picchiate dai detenuti il giorno della liberazione”. Vi aggiunge solo un so­ spetto politico: “è la stessa [identificazione] che tende a fare og­ gi dei palestinesi gli ebrei della nostra epoca e degli israeliani i nuovi nazisti” . E protesta infine, con le ultime energie morali, che “no, i boia non erano simili alle vittime, e non sono neppu­ re miei sim ili” .8 Insomma, ha talmente paura delle immagini da confondere som iglianza e identità - pur accusando ogni sim ile di non essere altro che un sem biante. L'idea che “Auschwitz è inseparabile da noi" è un'idea terribile. Di primo acchito avrei semmai l'idea opposta, ossia che si tratta per noi della separazione stessa. Auschwitz come Altro assoluto [...]. Ed ecco allora dove ci porta la bella trovata di pensare Auschwitz contro l’impossibile: loro siamo noi, noi tutti siamo vittime e siamo carnefici. [...] In questo valzer dei possibili in cui ciascuno è il simi­ le dell’altro, era fatale che si giungesse infine all’idea abietta di uno scambio infinito e reciproco tra la vittima e il carnefice.9 6. Cfr. M.-A. Matard-Bonucci, “L’image, figure majeure du discours anrisemite?”, in Vingtième siede. Revue d’bistoire, n. 72,2001, pp. 27-39. 7. Cfr. G. Didi-Hubennan, La Ressemblance informe, cit. 8. G. Wajcman, “De la croyance photographique”, cit., p. 74. 9. Ibidem, pp. 73-74.

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D opo di che, ci mancava solo l’ultima deduzione - o quanto­ meno il forte sospetto - che questo punto di vista antropologico sull’immagine equivalga semplicemente al punto di vista nazi­ sta: "Fare dell’immagine il fondam ento umano, ecco il grave danno prodotto dal pensiero delle immagini. [ ...] Uccidendo sei milioni di esseri umani, non sono sei milioni di immagini a essere m orte nei cam pi, sei milioni di Figuren, come i nazisti chiamavano appunto i cadaveri” .101Ciò che G érard Wajcman vuol dire con quest’ultima inferenza - e quest’ultima offesa - è che la posizione etica di fronte alla Shoah deve essere tanto sem ­ plice quanto radicale: basta porre un “Altro assoluto” , una se­ parazione senza residui, un im possibile senza m algrado tutto. £ l’inim m aginabile appare allora come un m odo tra i tanti di af­ fermare questa posizione etica. M entre la posizione avversa, che parla di “inseparabile” e “possibile” nel senso di Bataille, invo­ cando Vim m aginabile m algrado tutto, diventa subito una posi­ zione perversa, vituperabile e “abietta” . M a è Wajcman che in effetti perverte con cura il senso delle parole che trova nella mia analisi. Q uando io scrivo, ad esem ­ pio, che “di sicuro non si tratta di confondere le vittime e i car­ nefici” , egli si accontenta di form ulare, senza argom entazione di sorta, un dubbio unilaterale: “Non sono tanto sicuro di essere veramente rassicurato da questo ‘di sicuro’” ." Che rispondere allora, se non che prima di sbandierare il suo credo moralista egli avrebbe dovuto sollevare e porre la questione etica in sé? La questione infatti rimane: è in quanto sim ile che un essere umano diventa il carnefice di un altro. L a tigre non sarà mai un carnefi­ ce dell’uomo, appunto perché è radicalm ente diversa e perché l’uomo può rappresentare per essa, tutt’al più, una preda o un ghiotto boccone. U rapporto tra il carnefice e la vittima si fonda sulla loro comune “specie um ana” , ed è proprio qui il problem a etico dell’odio razziale, dell’umiliazione, della crudeltà in gene­ rale, e del totalitarism o nazista in particolare. O ra, in questa relazione tra simili non c’è nulla che permetta di dire - se non con una punta di perversione, è il caso di segna­ lare - che, essendo sim ili, la vittima e il carnefice sarebbero per 10. Ibidem, pp. 74-75. 11. Ibidem, p. 75.

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ciò stesso indiscernibili, sostituìbili o perfettam ente "intercam ­ biabili”. L a migliore illustrazione di d ò è offerta da Charlie Chaplin nel D ittatore: l'ebreo e il dittatore sono più che simili, sono dei sosia; ma in nessun momento diventano indiscernibili. Tutto li oppone. E quando, per salvarsi la vita, l’ebreo deve in­ dossare i panni del dittatore, questa stessa sostituzione non fa che dissociare gli elementi di questa struttura, poiché è l’artista Chaplin a fare improvvisamente capolino di fronte alla camera, al di là dei due personaggi, nelle vesti di cittadino del m ondo che si assum e la responsabilità di un discorso etico.1213 He

Non d si sem plifica la vita etica respingendo il "m ale radica­ le” dalla parte dell’"A ltro assoluto” . L’estetica óe\ì’inim m agina­ bile è una triviale "estetica negativa” - variante del sublim e reinterpretato da Lyotard - nel senso che definisce il male radi­ cale tramite d ò che esso non è; così facendo, essa lo allontana da noi e si legittima in virtù di questo allontanamento, in virtù di quest’astrazione. L'im m aginabile, viceversa, non rende certo "presente” il male radicale, e tantomeno lo controlla sul piano pratico, ma quantomeno d avvicina alla sua possibilità, sem pre aperta nell’aperto di un qualsiasi paesaggio familiare: H crematorio è fuori uso. È passato il tempo delle furberie naziste. Nove milioni di morti abitano come spettri questo paesaggio. Chi di noi veglia in questo strano osservatorio per avvertirci della venuta dei nuovi cam efid? Hanno davvero un volto diverso dal nostro? Da qualche parte, in mezzo a noi, restano dei kapò opportuni­ sti, dei capi rinvigoriti, dei delatori ignoti. E poi d siamo noi che guardiamo sinceramente queste rovine co­ me se il vecchio mostro ooncentrazionario fosse morto e sepolto sot­ to i detriti, noi che fingiamo di riguadagnare speranza davanti a que­ sta immagine che si allontana come se si potesse guarire dalla peste concenfrazionaria, noi che fingiamo di credere che tutto questo ap­ partenga a un solo tempo e a un solo paese, noi che non d curiamo di guardarci intorno e non vogliamo sentire che si grida senza fine.” 12. Sul film di Chaplin, dir. C. Delage, Chaplin: la grande histoire, Jean-Michel Place, Paris 1998. 13. J. Cayrol, Nuit et hrouillard, cit., pp. 42-43.

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Studiare un’immagine della Shoah non significa però “finge­ re di riguadagnare speranza davanti a questa immagine che si allontana” . Significa semmai persistere nell’approccio m algrado tutto, m algrado l’inaccessibilità del fenomeno. Non significa consolarsi ‘nell’astrazione, ma voler com prendere m algrado tutto, m algrado la com plessità del fenomeno. Significa, in altri termini, sollevare senza posa la questione del come: “Troppo ve­ locemente ci si chiede come tutto ciò sia stato possibile. [ ...] Se invece diam o al motivo della inintelligibilità dei crimini nazisti il valore di un enunciato teorico, dovremo concludere che ogni tentativo intrapreso dalle scienze umane di spiegare eventi non comuni o unici è destinato a fallire sin dall’inizio” , ha scrìtto W olfgang Sofsky.1415Non si deve insomma postulare unilateral­ mente l’indicibile o l’inimmaginabile di questa vicenda, ma si deve lavorare con esso e contro di esso: facendo del dicibile e dell’im maginabile un com pito infinito e necessario, benché la­ cunoso.11 E perché viene mal posta che la questione dell’imma­ gine finisce per com plicare e avvelenare i tanti dibattiti sulla “specificità” o l’“universalità” della Shoah.16 Jean-Luc Nancy e Jacqu es Rancière, di recente, hanno offer­ to qualche chiarificazione filosofica supplem entare sul tema, davvero abusato, dell’irrappresentabile. D prim o vi scorge “ un’i­ dea im precisa ma insistente” del discorso d ’“opinione” , una pa­ rola d ’ordine “confusa” , incapace pertanto di dare una risposta coerente all’“ ultima crisi della rappresentazione” in cui la Shoah ci ha gettato. Il dogm a defi’irrappresentabilità m escola l’im possibilità all’illegittimità, facendo di ogni immagine l’og­ 14. W. Sofsky. Lordine del terrore (1993), tr. it. Latetza, Roma-Bari 1995, p. 13. Cfr. anche G. Decrop, Des camps au genocide: la politique de l’impensable. Presses Universitaires, Grenoble 1995. 15. Cfr. C. Coquio, “Du malentendu", in C. Coquio (a cura di). Parler des camps, penser les génocides, Albin Michel, Paris 1999, pp. 17-86; Y. Thanassekos, “Shoah ‘objet’ métaphysique”, in Bulletin trimestriel de la Fondation Auschwitz, n. 73.2001, pp. 9-14. 16. Cfr. J. Rovan (a cura di), Devant l’histoire. Les documents de la controverse sur la singularité de 1‘extermination des juifs par le regime nazi. Ceri, Paris 1988; C. Coquio, I. Wohlfarth, “Avant-propos", in Parler des camps, penser les génocides, cit., pp. 11 -16; E. Traverso, “La singularité d’Auschwitz. Hypothèses, problemes et derives de la recherche historique”, in Parler des camps, penser les génocides, cit., pp. 128-140, S. Trigano, LIdéal démocratique à l'épreuve de la Sboa, Odile Jacob, Paris 1999, pp. 9-20 e passim.

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getto di un divieto o di un interdetto. Nancy, invece, propone di decostruire questo stesso “interdetto” , per tram e la conclusione che la rappresentazione si trova ormai, davanti alla Shoah, “in­ terdetta nel senso di sorpresa, perplessa, stregata, confusa o sconcertata da questo vuoto che si scava nel cuore della presen­ za” . D i m odo che Vinterdetto non segnala più la revoca o il ban­ do, ma il gesto intrinseco da cui è animata - nel senso di sorpre­ sa - la rappresentazione stessa.17 O ra, il gesto dell'im m agine costituisce senza dubbio l’oggetto per eccellenza del m ontaggio secondo G odard: montare delle immagini animate le une dalle altre - le mani di H ider, il bom ­ bardiere in picchiata e la fuga dei civili, per esem pio18 - non si­ gnifica soltanto creare una sintesi astratta sul processo totalita­ rio, ma significa anche produrre un gesto com plesso quanto con­ creto, un gesto che non si può riassum ere altrimend. In tal sen­ so, G odard è davvero l’erede (consapevole) di Nietzsche e di Eisenstein, nonché quello (inconsapevole) di Burckhardt e di W arburg: la sua riflessione sulla storia condene una energetica, che Jacques Aumont ha avuto ragione a ribattezzare una “nuo­ va Patbosform et* .1920Com e in W arburg, infatti, il gesto è com pre­ so - e prodotto - da G odard come un sintom o, cioè come un m ontaggio di tempi eterogenei in cui la rappresentazione si “sorprende” , si “sospende” , ossia si “interdice” - nel senso di Nancy - nella m isura stessa in cui la sua proliferazione disegna qualche cosa: non tanto una iconografia, quanto una sism ografia della storia™ Il “disincanto postm oderno” ignora tutto di questa energetica. E Jacques Rancière ha visto sorgere il motivo dell’irrappresentabile da questa stessa ignoranza e dal nichilismo che le si abbina puntualmente: “Il postmodernismo è diventato il grande canto funebre dell’irrappresentabile/intrattabile/irrecuperabile che de­ nuncia la follia moderna di un’auto-emandpazione dell’umanità 17. J.-L. Nancy, “La representation interdite*, in Le Genre humain, n. 36, 2001, pp. 13-39. 18. J.-L. Godard, Histoirefs) du cinema, dt., 1, pp. 79-83. 19. J. Aumont, Amnésies, dt., p. 98. 20. Sulla Patbosformel di Warburg come sintomo, montaggio e sismografia della storia, cfr. G. Didi-Huberman, Llm age sunrivante. Histoire de l'art et temps des fantómes selon Aby Warburg, Minuit, Paris 2002, pp. 113-270.

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dell’uomo e del suo inevitabile quanto interminabile compimen­ to nei campi di sterminio” .21 Più di recente, Rancière è poi torna­ to sulla questione dal punto di vista del "terrore sacro”, in un brano in cui sem bra pensare all'O bjet absolu di Wajcman: [C’è] un uso inflazionato della nozione di irrappresentabile e di tutta una serie di nozioni alle quali questa è riconnessa spesso e vo­ lentieri: rimpresentabile, l’impensabile, l’intrattabile, l’irrecupera­ bile ecc. Quest’uso inflazionato fa cadere sotto uno stesso concet­ to, creando quasi un’aura di terrore sacro, ogni sorta di fenomeno, di processo o di nozione, che va dall’interdetto mosaico della rap­ presentazione alla Shoah, passando per il sublime kantiano, la sce­ na primitiva freudiana, il Grand Vene di Duchamp o il Quadrato bianco su sfondo bianco di Malévitch.2132

In questo paesaggio teorico confuso, la nozione di irrappre­ sentabile, secondo Rancière, tende a produrre un “effetto ben preciso: essa trasform a il problem a di regolare la distanza rap­ presentativa in una im possibilità della rappresentazione stessa. L’interdetto emerge così da questa im possibilità, pur negandosi, ossia proponendosi come sem plice conseguenza delle proprietà dell’oggetto”.21 Sem bra di leggere un’analisi dei testi di Wajc­ man, quando ad esem pio questi scrive: “Non rappresentare nul­ la della Shoah non è una scelta libera, ma obbligata. Non si trat­ ta qui di interdetto [ ...] , semplicemente ci sono cose im possibili da vedere” ... E poi: “Essendoci Shoah, non c’è immagine a ve­ nire” .24 Rancière risponde: “Q uesta è una favola com oda, ma incon­ sistente" - ricordando che Shoah, come ogni opera che appar­ tenga alla storia del cinema, si muove com unque nel regime del­ la rappresentazione, regolato dal problem a specifico del proprio oggetto: “Shoah pone solo problem i di irrappresentabilità relati­ va, di adeguamento tra mezzi e fini della rappresentazione. [ ...] Non esiste un irrappresentabile che sia proprietà dell’evento 21. J. Rancière, Le Partage du sensible, cit., pp. 43-44. 22. J. Rancière, “S’il y a de l’irreprésentable”, in Le Genre humain, n. 36, 2001, p. 81. 23. ìbidem, p. 83. 24. G. Wajcman, “ Saint Paul’ Godard contre ‘Motse’ Lanzmann”, cit., pp. 126-127. s

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stesso. Esistono solo scelte”.25 Sovrapponendo un “im pensabile al cuore dell’evento” e un “im pensabile al cuore dell’arte”, se­ condo Rancière, non si fa altro che prolungare “l’iperbole spe­ culativa dell’irrappresentabile” proposta da Jean-Fran^ois Lyo­ tard sulla base di una certa concezione del sublim e e dell’“impensabile originario” .26 E al pari dell’irrappresentabile e dell’im­ pensabile, Vinim m aginabile corrisponde in effetti troppo spesso a un sem plice rifiuto d i pensare l’im m agine, che si auto-legittima a colpi di grandi iperboli. *

L a tesi dell’inimmaginabile pare dunque accom pagnarsi a tre iperboli concomitanti. Prim a iperbole: se si vuole sapere qualco­ sa della Shoah, bisogna sbarazzarsi delle immagini. “Anche se esistessero delle immagini delle camere a gas, bisognerebbe sa­ pere in che misura esse potrebbero m ostrare la verità” , scrive ad esem pio G érard Wajcman; contro quella che chiama la “pro­ mozione dell’immaginazione come strum ento essenziale di sa­ pere” , egli sostiene che l’immagine è solo un “appello all’alluci­ nazione”; contro l’esplorazione degli archivi, sostiene che con Shoah “sappiam o, sappiam o tutto, siamo in pieno nel sapere” .2728 Da una parte, dunque, Wajcman fa m ostra di ignorare che un sapere che si deve trarre dall’esperienza altrui deve fenom enolo­ gicamente passare per Xim m aginazione?* D all’altra, lo ammette, ma solo per il film di Lanzm ann, che in effetti sollecita potentemente l’immaginazione tanto dei testimoni (per riuscire a enun­ ciare qualcosa della loro esperienza) quanto degli spettatori (per riuscire ad afferrare qualcosa di questa esperienza). Seconda iperbole: se si vuole fare appello a una memoria de­ cente della Shoah, bisogna rinunciare a ogni immagine. Q che contraddice una lunga tradizione filosofica della memoria, che 25. J. Rancière, “S’il y a de Pineprésentable”, cit., pp. 89,94-96. 26. Ibidem, pp. 97-102. 27. G. Wajcman, “De la croyance photographique”, dt., pp. 49-50, 66; G. Wajcman, “Oh Les Demiers jo u rs', dt., pp. 20-21. 28. Per un approcdo filosofico della questione, cfr. in particolare lo studio re­ cente di G . Deniau, Cognitio Imaginativa. La pbénoménologie berméneutique de Gadamer, Ousia, Bruxelles 2002.

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va da Aristotele a Bergson, H usserl, Freud, e ancora oltre.” È vero che G erard Wajcman tenta - sinceram ente e ingenuamente - di porre la sua memoria della Shoah all'altezza dell’evento stesso: la vuole dunque assoluta, non relativa ai punti di vista, depurata da ogni immagine. E la terza iperbole intende appun­ to delineare le conseguenze morali di una simile esigenza: Xetica scom pare, secondo W ajcman, là dove com pare l’immagine. D onde quei penosi amalgami sulla “bulim ia delle im m agini” e la perversione “feticista” , sull’“amore generalizzato della rap­ presentazione” e il “pensiero infiltrato di cristianesim o” , il tutto fuso in un “ideale televisivo” riassunto dall’“idea che tutto [sa­ rebbe] m algrado tutto rappresentabile” nella “chiesa universale delle im m agini” , ossia nelle cappelle successive di San Paolo, San Giovanni, San Luca - San Jean-Luc - e, ovviamente, San G eo rg es...,0 Il bersaglio principale di questo attacco resta la frase d ’aper­ tura della mia analisi delle quattro foto dell’agosto 1944: “Per sapere occorre immaginare” , interpretata com e se avessi scritto: “Per sapere basta immaginare” . Accontentarsi delle immagini significherebbe, è chiaro, privarsi dei mezzi per com prenderle, ed ecco perché ho dovuto fare ricorso ad altre fonti, altre testi­ monianze, o a “tutta la biblioteca del N ovecento” come mi rim­ provera Wajcman con la solita esagerazione e incocrenza.’ 1 Le immagini diventano preziose per il sapere storico a partire dal momento in cui esse vengono m esse in prospettiva in certi mon­ taggi di intelligibilità. L a memoria della Shoah non dovrebbe cessare di riconfigurarsi - e di precisarsi, nel migliore dei casi grazie a nuove relazioni da stabilire, nuove som iglianze da sco­ prire, nuove differenze da sottolineare. D ’altronde, non mi sono lim itato a dire: “Per sapere occorre im m aginare”. H o detto: “Per sapere (per sapere e conoscere questa storia dal luogo e dal tem po in cui ci troviam o oggi) oc­ corre im m aginarsi”. E mettere in gioco il soggetto nell’esercizio del vedere e del sapere significa anzitutto procedere con cautela epistem ologica: non si può separare l’osservazione dall’osserva-29301 29. Un sunto di questa tradizione è stato offerto da P. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, dt., pp. 15-81 (“Memoria e immaginazione” ). 30. G. Wajcman, “De la croyance photographique”, cit., pp. 55,58,60-61. 31. Ibidhn, p. 72.

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tore. Wajcman confonde - l’ho già m esso in rilievo - im m agi­ n arsi e credersi in. Sicché le sue conclusioni etiche sulla “perver­ sione” e l’ttabiezione” di una simile attitudine si rivelano a conti fatti completamente prive di fondamento. Mi sem bra utile, tut­ tavia, precisare ulteriormente perché lo sguardo posato sulle immagini e l’esercizio dell’immaginazione non abbiano niente della “passione” immorale o dello “sfogo” funesto di cui parla W ajcman.” Uim m agine, nel senso antropologico del termine, sta al cen­ tro della questione etica. L a cosa non è sfuggita a quanti, so­ pravvissuti alla Shoah, non hanno voluto cedere allo smarrimen­ to, al sem plice “deperimento della politica”, e hanno tentato, per quanto difficile fosse il compito, di “pensare ciò che acca­ de”. Problem a quanto mai attuale.” L a “singolarità esem plare” dei campi si riconosce dal fatto che l'um anità stessa vi è stata si­ stematicamente negata, distrutta, stritolata, abolita. M a che fare adesso? “D i che cosa dobbiam o ricordarci affinché sia ancora possibile agire?” Q uesta è la dom anda che si pone Myriam Revault d ’Allonnes nel corso di una mirabile analisi filosofica della difficile questione - etica e antropologica - posta dall’esperienza della disum anizzazione concentrazionaria e genocidiaria.” Non si può pensare alla condizione inumana dell’uomo sot­ tomesso al terrore dei campi senza scorgervi “una crisi dell’i­ dentificazione e una sconfitta del riconoscimento del proprio si­ mile” .” Myriam Revault d ’Allonnes rievoca le testimonianze di Primo Levi, di Chalamov, e poi quel passo celebre di LEspèce humaine in cui Robert Anteime parla di questa spina conficcata crudelmente perfino nei rapporti tra prigionieri: Quando, arrivando a Buchenwald, abbiamo visto le prime tute a righe che portavano pietre o tiravano carretti ai quali erano legati con la corda, le teste rasate sotto il sole d’agosto, non ci aspettava­ mo che parlassero. Ci aspettavamo altro, forse un muggito o un pi-5342 32. Ibidem, pp. 58-59. 33. Cfc M. Revault d’Allonnes, Le Dépérisiement de la politique. Genealogie d'un lieu commun, Aubier, Paris 1999 (2002*), pp. 249-255. 34. M. Revault d’Allonnes, “Une mémoire doit-elle en chasser une autre?” (1998), in Fragile humanité, Aubier, Paris 2002, p. 143. 35. M. Revault d’Allonnes, “À l’épreuve des camps: l’imagination du semblable” (1998), in Fragile humanité, cit„ p. 148.

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golio. Tra noi e loro c’era una distanza incolmabile, che da lungo tempo le SS colmavano di disprezzo. Non pensavamo di avvicinarci a loro. Ridevano guardandoci, di un riso che non potevamo ancora riconoscere, nominare. Ma bisognava pur alla fine farlo coincidere col rìso dell'uomo, che nel giro di poco non si sarebbe più riconosciuto. Il che è acca­ duto lentamente, a mano a mano che diventavamo come loro.14

Non soltanto il cam po distrugge gli uomini e crea nel rap­ porto tra il carnefice e la vittima una dissom iglianza radicale tra “uom ini" e “sotto-uom ini” - eliminando così ogni senso di col­ pa nei torturatori - ma per di più cerca di distruggere nei pri­ gionieri la facoltà di riconoscere nei propri com pagni altri uo­ mini, loro simili. Q uando ciò accade, la “condizione di possibi­ lità dell’um ano" svanisce realmente.” Le quattro immagini di Birkenau sono tanto preziose, allora, perché ci offrono Vimma­ gine dell'um ano m algrado tutto, la resistenza con l’immagine un piccolo segmento di pellicola - alla distruzione dell’umano che vi si trova comunque docum entata. Q uasi che il gesto del fotografo clandestino ci inviasse una sorta di m essaggio non for­ mulato: guardate cosa sono obbligati a fare i miei (nostri, vostri) simili (figura 9); guardate come sono ridotti i miei (nostri, vo­ stri) simili (figura 12); guardate come i già-morti e gli ancora-vi­ vi che li trascinano nella brace sono pur sem pre (miei, nostri, vostri) sim ili; guardate come vengono annientati assiem e dalla “Soluzione finale"; possiate voi guardare e tentare di com pren­ dere, quando la “Soluzione finale", dopo la nostra morte, sarà stata ferm ata; e possiate voi seguitare a protestare, sem pre, con­ tro questa vicenda. Ecco perché queste fotografie ci im portano, ci riguardano, ci guardano dal luogo e dal tem po di cui esse te­ stimoniano. Bisogna adesso precisare tutto questo dal luogo e dal tempo che sono i nostri, il luogo e il tem po di una sopravvivenza a questa vicenda. “Elaborare il terribile", dice bene Myriam Revault d ’Allonnes. Non si tratta di “credersi nella vicenda”, ov­ viamente. Ma di intraprendere un “processo di riconoscim ento del sim ile" su cui si fonda l'etica stessa del rapporto che dobbia-367 36. R. Anteime, LEspèce humaine, Gallimard, Paris 1957, pp. 100-101. 37. M.'Revault d’Allonnes, “À l’épreuve dcs camps", cit., p. 151.

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mo intrattenere con l’esperienza dei cam pi.18 Un processo que­ sto che è im m aginazione, com e Robert Anteime avvertiva all’ini­ zio del suo libro: Appena cominciavamo a raccontare, già soffocavamo. Quanto avevamo da dire cominciava a sembrare inimmaginabile a noi stessi. Questa sproporzione tra l’esperienza che avevamo vissuto e il racconto che era possibile fam e non fece che confermarsi in segui­ to. Avevamo davvero a che fare con una di quelle realtà di cui si di­ ce che vanno oltre l’immaginazione. Ed era chiaro ormai che sol­ tanto per scelta, cioè sempre con l'immaginazione, potevamo prova­ re a dirne qualcosa.”

L’immaginazione non ridà però "proporzionalità” all’evento. E ssa lavora nel cuore stesso della sproporzione tra l’esperienza e il suo racconto. In tal senso anche G illes Deleuze - prendendo a contropelo il celebre dictum di Adorno - rammentava un pen­ siero di Kafka: "L a vergogna di essere uomo, c’è una ragione migliore per scrivere?” .40 Q uasi che l’immaginazione si anim asse proprio quando si im batte nell’"inim m aginabile” , parola spesso utilizzata per esprim ere solo il nostro smarrimento, la nostra difficoltà di com prendere: d ò che non com prendiam o e che pu ­ re non vogliam o rinunciare a com prendere - che non vogliam o in ogni caso respingere in una sfera astratta che ce ne sbarazze­ rebbe facilmente - siam o ben costretti a immaginarlo, ossia a sa­ perlo m algrado tutto. M a sappiam o anche che non lo coglierem o mai nella sua giusta proporzionalità. E che cosa ha a che fare tutto d ò con l’etica? L a vera forza delle analisi di Myriam Revault d ’Allonnes è quella di ricordarci sulla sd a di Hannah Arendt e di una lunga tradizione di pensiero - che l’immaginazione "è anche una facoltà politica. [ ...] Non d troviamo qui nella fusione comunitaria, o nella verità consensua­ le, o nella prossimità sodologica. Tentiamo al contrario di imma­ ginare a che cosa assomiglierebbe il nostro pensiero se fossim o al­ ili. M. Revault d’Allonnes, “Peut-on elaborar le terrible?” (2000), in Fragile bumanité, dt., pp. 180-182. 39. R. Anteline, LEspèce humaine, ctt, p. 9 (corsivo mio). 40. G. Deleuze, Critica e clinica (1993), tr. it. Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 13.

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trove” *1 Lo stesso tentativo arendtiano di pensare al contempo la radicalità e la banalità del m ale si basa su quest’animazione del* rimmaginazione politica.4142*4Il giudizio su A dolf Eichmann - il giu­ dizio della storia di cui lei era una sopravvissuta - sprona Arendt a reinterpretare politicamente la “facoltà del giudizio” kantiana, di cui si dimentica spesso che tende a gettare un ponte tra l’etica e l’estetica, corrispondenti alle due grandi sezioni dell’opera.45 Ecco perché allora bisognava - m algrado tutto - gettare uno sguardo estetico sulle quattro foto di Auschwitz: proprio per chiarire meglio il tenore etico e antropologico che i membri del Sonderkommando attribuivano a queste immagini. Immagini fatte paradossalm ente per m ostrare, nell’organizzazione del m assacro, l’abbattim ento del simile. Immagini fatte per m ostra­ re, con una sconcertante crudezza - qualche luce e qualche om ­ bra, qualche corpo nudo e qualche corpo vestito, qualche vitti­ ma e qualche “lavoratore” , qualche ramo d ’albero e qualche vo­ luta di fumo - ciò che l’ordine di Auschwitz voleva abolire defi­ nitivamente: il riconoscim ento del sim ile su cui si basa il legame sociale e di cui Arendt ha provato a rintracciare diverse espres­ sioni filosofiche nella koinònia di Platone, nella filantropia di Aristotele, o nel sim ilis affectus di Spinoza. ..** Ecco tutto ciò che Wajcman ignora quando, col pretesto di 41. M. Revault d’Allonnes. “Le ‘coeur intelligent’ de Hannah Arendt" (1995), in Fragile humanité, cit., p. 56. 42. M. Revault d’Allonnes, Ce que l’bomme fait à l’homme. Essai sur le mal po­ litique, Le Seuil. Paris 2000, pp. 21-72; M. Revault d ’Allonnes, “Hannah Arendt: le mal banal, la guerre totale" ( 1999), in Fragile humanité, cit., pp. 89-116. 4 3 .1. Kant, Critica del giudizio (1790), tr. it. Laterza, Roma-Bari 1982, pp. 43221 (“Critica del giudizio estetico” ); pp. 225-371 (“Crìtica del giudizio teleologi­ co"); H. Arendt, Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant (1970), tr. it. Melangolo, Genova 1990, pp. 119-127 (“L'immaginazione") e passim-, R. Beiner, “Il giudizio in Hannah Arendt”, tr. it. in H. Arendt, Teoria del giudizio politico, cit., pp. 139-213; M. Revault d ’Allonnes, “Le courage de juger", in H. Arendt, ]uger. Sur la philosophic politique de Kant, tr. fr. Le Seuil, Paris 1991, pp. 217-239; P. Ricoeur, “Giudizio estetico e giudizio politico in Hannah Arendt” (1994), tr. it. in II giusto, SEI, Torino 1998. 44. Cfr. M. Revault d’Allonnes, “À l’épreuve des camps", cit., pp. 151-167. Sul ruolo dell’immaginazione nelTE/flcs di Spinoza cfr. in particolare M. Bertrand, Spinoza et l'imaginaire, PUF, Paris 1983, pp. 171-185. Sull'immaginazione come le­ game sociale cfr. anche C. Castorìadis, L’istituzione immaginaria della società (1975), tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1995; A.M.S. Piper, “Impartiality, Com­ passion, and Modal Imagination", in Ethics, Cl, n. 4, pp. 726-757.

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un’“etica del visibile”, esige - armato del solo riferimento a Shoah - che tutte le “immagini di Auschwitz” siano, com’egli stesso di­ ce, semplicemente rigettate; o quando afferma che la memoria della Shoah, al pari della Shoah stessa, va intesa come la “produ­ zione di un Irrappresentabile” ; o quando insiste a scorgere in ogni immagine una “ denegazione dell’assenza” , una singolarità incapace di rendere conto del terribile “tutto” dello sterminio.0 Ma è appunto in quanto singolarità - lacunari, incapaci di tende­ re al tutto - che le immagini restano malgrado tutto necessarie: E cosa sarebbero allora le immagini? Ciò che irripetibilmente, sempre di nuovo irripetibilmente hic et nunc viene percepito e ha da essere percepito {Wahrgennomene und Wahnunehmende) .*

In realtà, un’immagine non è la “denegazione dell’assenza” , ma la sua stessa attestazione. Tenere un’immagine di Birkenau tra le mani significa sapere che quanti vi sono rappresentati non ci sono più. Q uando Zalmen Gradow ski chiede allo scopritore del suo m anoscritto di unire al testo le foto della sua fam iglia, non è per illudersi sulla presenza di esseri umani che egli stesso ha visto andare in fumo: “Ecco la mia fam iglia, bruciata martedì 8.12.1942 alle nove del m attino” . Ma è semmai, com ’egli dice in quanto membro del Sonderkommando - , perché “ahimè, io, loro figlio, non posso piangere in questo mio inferno, in cui an­ nego come in un oceano, un oceano di sangue [in cui] devo se­ guitare a vivere” , schiavo della morte. Firm ato: “Colui che resta sulla soglia della tom ba” .47 *

L’ultima critica portata all’attenzione - storica e antropologi­ ca - verso le quattro immagini di Birkenau consiste, in via mol­ to generale, nell’invalidare ogni fiducia accordata ai poteri testi-4567 45. G. Wajcman, L’Objet du siècie, cit., pp. 221-254. 46. P. Celan, Il meridiano (I960), tr. it. in La verità delta poesia. Il meridiano e altre prose, Einaudi, Torino 1993, p. 17. 47. Z. Gradowski, Au cceur de l’enfer, cit., pp. 40-41. Queste righe di “prefa­ zione” sono reiterate poi, con qualche minima variante, alle pp. 53-55, 119-120.

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moniali della fotografia. Q uesta fiducia non sarebbe altro che una “fede” oscurantista. E un paradigm a religioso finirebbe così per regnare sull’intero dibattito. L’immagine consola, "allevia il nostro orróre di non vedere nulla, dandoci a vedere alcune im­ magini dell’orrore” , scrive G erard W ajcman. "L a fotografia, an­ che la più cruda e la più esatta, di quanto è accaduto, ogni im­ magine dell’orrore, non è altro che un velo dell’orrore; ogni im ­ magine, essendo immagine, ci protegge dall’orrore.”484950Abbiam o detto, poc’anzi, che cosa si deve pensare della nozione unilate­ rale di immagine-velo. M a eccoci adesso di fronte a un’altra me­ tafora che va a rinforzare lo stesso argom ento: è quella òeì\'im ­ magine-specchio - cos’altro sarebbe la fotografia? - che è al con­ tem po un ’ immagine-scudo : I greci inventarono un mito che metteva in evidenza il potere pacificante delle immagini rispetto al reale. È il mito della Medusa Gorgona, un mostro che non si poteva guardare in volto: tutti co­ loro che alzavano gli occhi su di lei venivano impietriti all’istante, si trasformavano veramente in sassi. Così quando Perseo, venuto per uccidere la Gorgona, si trovò di fronte a lei, fece attenzione a non incrociare mai il suo sguardo. Per osservare i suoi movimenti alzò lo scudo di metallo e, usandolo come uno specchio retroviso­ re, con gli occhi fissi sul suo riflesso, le tagliò la testa con un colpo di spada. Lo specchio, l’immagine, è uno scudo reale sollevato contro il reale inguardabile, ecco che cosa racconta questo m ho."

D ato però che questa parabola pagana, inopportuna in un confronto ideologico sulla Shoah, andava subito abbandonata, G érard Wajcman ha scelto allora di affibbiarm i un altro scudo, un’arm atura diversa da quella di Perseo. Sfruttando con disin­ voltura il mio nome, mi ha dunque raffigurato come un "San G iorgio [ ...] che affronta il drago dell’Irrappresentabile” : "san ­ to laico” e "avventuriero del pensiero” , lanciato in una "crocia­ ta per la riconquista della Shoah” , ma im potente a "piantarvi la sua bandiera” .’0 E cosa c’è sulla bandiera? Una croce, ovvia­ mente. E cosa tengo in pugno? Le immagini, e soprattutto la "Fotografia che annienta l’Irrappresentabile” . E cosa mi m uo­ 48. G. Wajcman, “De la croyance photographique", cit., pp. 67-68. 49. Ibidem, p. 68. 50. Ibidem, pp. 51-52.

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ve? Una religione simile a quella professata da Jean-Luc G o ­ dard (a causa d d l’esergo) - il che consente di raffigurarm i an­ che come San Giovanni (per l’apocalisse) e come San Paolo (per la resurrezione).91 Non soltanto “ogni immagine è un appello alla fed e”, ma ol­ tretutto “la passione cristiana dell’immagine infiltra e avvelena tutto” ... G érard W ajcman, che rivendica un “ateism o originale e inveterato” , pensa di diagnosticare “un antisem itism o ram ­ pante [...] pure in ebrei confessi” che, con la loro “passione per l’im magine” , non fanno che “cristianizzare” la Sh oah 92 In que­ sto dibattito, quindi, immagine finisce per fare rima con “fede” o, peggio ancora, con “cristianesim o” . Sul versante cultuale, ciò provoca “l’elevazione a reliquia di un’immagine” , con le “lita­ nie” esegetiche e lo sfondo “feticista”, ossia perverso - in senso clinico e m orale - , che il tutto com porta.99 M entre sul versante teologico, accusa W ajcman, “l’immagine diverrebbe davvero la Salvezza” , in quanto “epifania della verità” , di una verità “reli­ giosa e, per dirla tutta, intimamente cristiana” .94 D al momento che la mia analisi delle fotografie di Birkenau non faceva ricorso ad alcun paradigm a di carattere teologico, si può ipotizzare che la diagnosi avanzata da Wajcman si fondi su un sem plice - ma potente - effetto di associazione, prodotto so­ prattutto dalla frase di G odard posta in esergo al m io saggio: [...] anche se molto rigato un semplice rettangolo di trentadnque millimetri salva l’onore di tutto il reale.”

L’idea di “onore” non è, in sé, religiosa; va piuttosto riferita al m ondo etico o al paradigm a politico della “ resistenza” . M a dato che lo stesso G odard, in un momento ulteriore delle sue H istoire(s) du ciném a, cita un celebre spunto paolino - “L’im-51234 51. Ibidem, pp. 60-61. 52. Ibidem, pp. 62-65. 53. Ìbidem, pp. 81-83. 54. Ibidem, pp. 54,56-57. 55. J.-L. Godard, Histoire(s) du cinéma, dt., 1, p. 86.

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magine verrà al tem po della resurrezione”56 - sem bra possibile riunire i temi della redenzione attraverso l’immagine dell’“onore salvato” del reale e, infine, della resurrezione dei morti. D ’al­ tronde, G erard Wajcman non aveva già reperito in G odard “una politica delle immagini [rivendicata] per far passare altra paccottiglia, ossia un’autentica teologia [che] gli perm ette di preservare un po’ di fede in una resurrezione dell’Im m agine” ?57 Riunire nella stessa "paccottiglia” teologica la redenzione della storia e la resurrezione cristiana sem bra una cosa che va da sé. Eppure si tratta di un controsenso filosofico. Per com in­ ciare, G erard W ajcman non è m olto sensibile all’ironia godardiana. D ire che “l’immagine verrà al tem po della resurrezio­ ne” , in un film m elanconico com e H istoire(s) du àn im a, signi­ fica forse che verrà il tem po della resurrezione? Non significa semmai che l’“im m agine” - l’Immagine con la m aiuscola, l’im ­ magine una, l’immagine tutta - non ci è data, e nemmeno ci possiam o sperare? Q uel che ci è dato è solo il "sem plice rettan­ golo di trentacinque m illim etri” , che non form a Vimmagine tut­ ta, ma Fim m agine-lacuna, il lem bo - "m olto rigato”, cioè non ricostituibile nella sua integrità - di un aspetto del reale. G u ar­ dando questo lem bo di immagine, non possiam o certo nutrire la speranza (e tantom eno l’illusione) di una resurrezione: men­ tre risuona la voce o ff - “ anche se m olto rig a to ...” - sullo schermo delle H istoire(s) non vediam o che i resti bruciati di un uomo: opera di qualche Endlòsung da cui quest’uom o, con mi­ lioni d ’altri che rimangono fuori quadro, non resusciterà mai, sebbene il suo aspetto, la sua som iglianza in ceneri "ten ga” an­ cora, sotto il nostro sguardo, e venga raccolta dal fotogram m a (figura 30). l i im m agine-lacuna è un 'im m agine-tracda e un’im m agine-spa­ rizione al tem po stesso. Q ualcosa resta, qualcosa che non è la cosa, ma un lem bo del suo aspetto, della sua som iglianza. Q ualcosa - pochissim o, una pellicola - resta del processo di annientamento: quel qualcosa, dunque, testim onia di una sp a­ rizione e al contem po resiste a essa, diventando l’occasione di 56. Ibidem, I, p. 214. 57. G ì Wajcman, “‘Saint Paul’ Godard contre 'Motse' Lanzmann”, cit., pp. 121,127.

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Figura >0 Jean-Luc Godard, Histoire(s) du prima parte, “Toutes les histoires".

1988-1998. Fotogramma della

un suo possibile ricordo, di una possibile memoria. Non si trat­ ta di presenza piena, né di assenza assoluta. Non si tratta di re­ surrezione, né di morte senza resti. È la morte, in quanto fa dei resti. È un mondo in cui proliferano lacune, immagini singolari che, montate le une con le altre, provocano una un effetto di sapere, quello che Warburg chiamava Mnemosyne, Benjamin Passaggi, Bataille Documenti, e che G odard chiama oggi H istoire(s). Rovesciare completamente le H istoire(s) in una resurrezione significa insomma disconoscere completamente il lavoro del tempo: Wajcman ragiona sempre per alternative triviali, che confutano l’esistenza stessa delle immagini, dei segni in genere e del loro ricordo, della loro memoria. La morte fa dei resti, ho detto (benché ogni criminale sogni la morte senza resti delle proprie vittime, i nazisti, come sappiamo, non hanno potuto cancellare tutto). Non c’è dunque alcun bisogno di rifarsi alla resurrezione per constatare la sopravvivenza di cui è intessuto il mondo della memoria, al quale contribuiscono pure le immagi­ 207

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ni.’8 Non contento di confondere d ò che andrebbe contrapposto, Wajcman dà prova inoltre di ignoranza nel cam po della storia fi­ losofica, in cui la parola redenzione ha finito per assum ere un sen­ so preciso nel contesto - Auschwitz - della nostra interrogazione. Che cosa fa si che-un "sem plice rettangolo di trentadnque mil­ limetri'’ possa redimere, "salvare” qualcosa del reale di Au­ schwitz? £ solo il senso di colpa per non esserd stati - il cartello che precede il fotogramma del corpo in ceneri, in H istoire(s) du cinema, porta appunto l'iscrizione D aseir,f9- , è solo il senso di col­ pa del cinema in generale che G odard tenta di redimere col suo immenso lavoro di montaggio mnemotecnico? Non soltanto. La redenzione del reale si rivela in effetti una delle nozioni più profon­ damente significative in coloro che Walter Benjamin, indurendosi tra loro, definiva "la generazione degli sconfitti”.40 Pensatori ebrei e pensatori rivoluzionari, tra i primi a essere perseguitati, spinti al­ la fuga o al suiddio, eppure decisi a ripensare la storia malgrado tutto, proprio n d momento in cui la storia si richiudeva su di loro dimostrando l’inanità d d progresso, il crollo delle utopie, la po­ tenza d d totalitarismi:5859601623ì'Erlósung, o "redenzione”, fu per questi pensatori di lingua tedesca la povera ma necessaria risposta alle grandi macchine d d terrore, quelle macchine cui fa riferimento anche la parola tecnica Endlosung, "Soluzione finale”. Basta dare qualche riferimento, citare qualche data. Franz Kafka com indò a scrivere 11 processo n d 1914 - n d 1912 aveva scritto II verdetto - che ruotava attorno alla grande questione d d YErlosungy sebbene sotto form a di ostinata "utopia negati­ va” .41 Franz Rosenzweig, che già n d 1910 aveva scritto “Ogni atto diventa colpevole n d momento in cui penetra nella storia” ,4* pubblicò nel 1921 La stella della redenzione, in cui ten58. Anche in storia dell'arte ritroviamo questi due modelli concorrenti della re­ surrezione (Vasari) e della sopravvivenza (Warburg); cfr. G. Didi-Huberman, L7mage survivante, cit., pp. 9-114. 59. J.-L. Godard, Histoire(s) du cinema, cit., I, p. 87. 60. W. Beniamin, Sul concetto di storia, cit., p. 43. 61. Cfr. M. Lowy, Redemption et utopie. Le judafsme libertaire en Europe cen­ trale. Une étude R affiniti elective, PUF, Paris 1988; tr. it. Redenzione e utopia. Fi­ gure della cultura ebraica mitteleuropea, Bollati Boringhieri, Torino 1992. 62. M. Lowy, Redemption et utopie, dt., pp. 92-120. 63. F. Rosenzweig, ritato da S. Mosès, LAnge de Vhistoire. Rosenzweig, Benja­ min, Schotem, Le Seuil, Paris 1992, p. 56; tr. it. La storia e il suo angelo. Ro­ senzweig, Benjamin, Scbolem, Anabasi, Milano 1993.

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tava di conferire aìl’Erlosung il senso filosofico di una “frattura violenta del tessuto storico, irruzione nel cuore del tem po di un’alterità assoluta, di una form a di esperienza radicalmente differente” . L a redenzione così intesa non concerneva più il rapporto tra l'uom o e D io, ma un rapporto "estetico” tra l’uomo e la storia, nel momento stesso in cui quest’uldm a dim ostrava la sua incapacità di serbare l’illusione del progresso.64 Per Rosenzweig, la redenzione non rappresentava più il salvataggio de­ finitivo, la “fine dei tem pi” , e tantomeno la resurrezione di al­ cunché. Era semmai im o sconvolgimento che può giungere in qualsiasi momento, o un momento d i resistenza agli artigli della storia che si richiudono su di noi. E ra, come dice lo stesso Ro­ senzweig, il “Sì, nel colpo d'occhio dell’attim o”,65 mentre il N o continua a spadroneggiare incontrastato nel regno del divenire. N el 1931, Gershom Scholem definiva quello di Rosenzweig “un saggio sulla dialettica storica del concetto di redenzione” .66 E cinque anni dopo, quando il sistem a nazista orm ai spadroneg­ giava, Scholem intraprendeva un'analisi storica del concetto di redenzione nella m istica ebraica, descrivendo in prim o luogo la “ redenzione col peccato” propugnata dall’eresia sabbatiana e dal nichilismo di Jaco b Frank,67 e passando poi nel 1941 alla stesura di un saggio, che diventerà presto un classico, su “L’idea di redenzione nella K abbalah” , profondam ente ancorato - l’a­ mico W alter Benjamin si era appena tolto la vita, fuggendo dalla G estapo - nella storia di quei giorni: Di fronte al problema essenziale della vita, quello dello svinco­ lamento dalle catene di quel caos che è la storia, si può esitare tra due opzioni. Si può dirigere l’attenzione sulla “fine” dei tempi, sul­ la redenzione messianica, riponendo ogni speranza in questa fine dei tempi, sforzandosi di accelerarla, considerando la salvezza co­ me una corsa verso la fine [....]. Oppure si può scegliere l’opzione contraria, cercando una via di uscita dalla sporcizia, dalla confusio64. F. Rosenzweig, La stella della redenzione (1921), tr. it. Marietti 1985, pp. 260-268 (“Redenzione come categoria estetica'’). 65. Ìbidem, p. 271. 66. G. Scholem, "Sur l’édidon de 1930 de LÉtoile de la rédemption de Ro­ senzweig” (1931), tr. fr. in Le Messianisme ju if Essais sur la spiritualité du judaisme, Clamann-Lévy, Paris 1974, pp. 449-454. 67. G. Scholem, “La rédemption par le péché” (1937), tr. fi. in Le Messiani­ sme ju if Essais sur la spiritualité du judaisme, cit., pp. 139-217.

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ne, dal caos e dai cataclismi della storia con una fuga verso l’inizio. [...] Di qui l’importanza del problema della creazione.**

Scholem -ha m ostrato che l’idea ebraica di redenzione ige’ulah) costituisce un contrappunto rigoroso all’idea - cristiana, e poi hegeliana o m arxista - di salvataggio storico. Si tratta di una risposta alla situazione delTen//b, ma di una risposta ispirata a un "pessim ism o assoluto” circa la storia e il suo progresso. "L a tradizione ebraica classica, - scrive Scholem commentando un capitolo del trattato Sanhedrin, - si com piace nel mettere in ri­ lievo l’aspetto catastrofico della redenzione [ ...] : la redenzione è una distruzione, un crollo titanico, una sovversione, una cala­ mità; non c’è posto per un’evoluzione favorevole o un qualche progresso. Ciò deriva dal carattere dialettico della redenzione in questa tradizione.”49 Com ’è noto, nel frattem po - nel 1940, poco tem po prim a di togliersi la vita - W alter Benjamin era riuscito a riformulare o a ri-m ontare tutte queste fonti, dalla Kabbalah a Kafka, da Karl M arx a Rosenzweig, in un’idea di Erlosung intesa per l’appunto come catastrofe priva di ogni "salvezza” storica (vittoria defini­ tiva sulle forze del totalitarism o) o religiosa (resurrezione, vitto­ ria definitiva sulle forze della morte). Le sue tesi "Su l concetto di storia” rappresentano al contem po una testim onianza su una certa esperienza storica e un'elaborazione filosofica assolutamente nuova, sconvolgente, della storicità in quanto tale. Si tratta senz’altro di una delle fonti delle H istoire(s) di Jean-Luc G odard, soprattutto quando questi dice di scorgere in un "sem ­ plice rettangolo di trentacinque millimetri" - cioè in un sem pli­ ce fotogram m a che appare e scom pare nel lam po di un istante una possibilità di "redenzione” del reale storico. "Articolare storicam ente il passato non significa conoscerlo ‘proprio come è stato davvero’. Vuole dire im possessarsi di un ricordo così come balena in un attim o di pericolo. Per il mate­ rialism o storico l’im portante è trattenere un’immagine del pas-689 68. G. Scholem, T i dèe de redemption dans la Kabbale” (1941*1955), tr. fr in Le Messtanisme juif. Essais sur la spiritualité du judaisme, cit., pp. 74-75. 69. Ibidem, pp. 78-79. La dialettica cui fa riferimento Scholem (ibidem, p. 92) nella Kabbàlah si esprime in termini di “contrazione” (tsim tsum), di “rottura” (shevtrah) e di “riparazione” (tikkun).

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sato (ein B ild der Vergangenheit festzubalten) nel m odo in cui si im pone im prevista nell’attim o del perìcolo (im Augenblick der G efahr).”70 Che significa? Anzitutto, che la “ redenzione” è pos­ sibile solo entrando in un certo rapporto con la storia: si può in­ ventare il futuro solo rim ettendosi a una rimemorazione (Fingedenken), secondo quella strana legge dell ’anacronism o che p o ­ tremmo battezzare “inconscio del tem po” : “Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione. N on sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prim a di noi? Non c’è, nelle voci cui prestiam o ascolto, un’eco delle voci ora m ute?” .71 O ra, questo “soffio d’aria” e questa “eco” , Benjamin li chia­ ma im m agini. Articolare storicamente il passato significa “tratte­ nere” questo soffio e questa eco, sospendere questa “immagine del passato” che “si impone imprevista nell’attimo del perìcolo” . L’immagine va pensata inizialmente secondo la fenomenologia della sua apparizione, del suo pericolo, del suo passaggio. Ed è appunto questo che bisogna “trattenere” (festbalten). Vi è dun­ que, in questo modello, un im possibile che assom iglia molto alla nostra incapacità, guardando un film, di trattenere le immagini che appaiono e che passano, che ci colpiscono e che sfuggono, cioè che ci toccano a lungo pur scom parendo nel lasso di un istante. “L a vera immagine del passato guizza via. È solo come immagine che balena, per non più comparire, proprio nell’atti­ mo della sua conoscibilità che il passato è da trattenere.”7273 Ovvio allora che, da questo punto di vista, l’immagine non resuscita alcunché, non consola affatto. E ssa è “ redenzione” so ­ lo nel secondo - così prezioso - in cui passa: è questo lo strappo del velo m algrado tutto, m algrado la rischermatura immediata di ogni cosa in quella che Benjamin definisce la “ desolazione del passato” .71 Nella pratica godardiana, i fotogram m i di G eorge Stevens (figure 25-26) “salvano l’onore di tutto il reale” solo 70. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 27. 71. Ibidem, p. 23. 72. Ibidem, pp. 25-27. 73. Cfr. M. Lowy, Walter Benjamin: avertissement d'incendie. Une lecture des theses *Sur le concept d’histoirem, PUF, Paris 2001, pp. 35-40; tr. it. Segnalatore d'in­ cendio. Una lettura sulle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, Bollati Boringhieri, Torino 2004.

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nell’istante in cui com paiono per “salvare” se stessi, ossia guiz­ zare subito via dal nostro cam po visivo. In tal m odo, alm eno, il montaggio crea le condizioni mnemotecniche di una pregnanza di queste immagini tanto sfuggenti. L a finzione di felicità che avvinghia Elizabeth Taylor e Montgomery Clift (figure 27-28) è m ostrata solo in contrappunto a questa “desolazione del passa­ to” . E la “ redenzione” si profila allora, più profondam ente, co­ me ciò che getta luce sul m odo dialettico in cui ognuno di questi due stati esiste sullo sfondo di possibilità dell’altro. N ulla si può capire di questa idea anacronistica di “redenzio­ ne” se la si riduce a un salvataggio definitivo del passato in qual­ che avvenire radioso. Benjamin si esprim e con durezza sull’idea che si fanno “la vecchia morale protestante” e il “m arxism o vol­ gare” del lavoro come M essia o “salvatore dell’epoca m oder­ na”.74 E se in fin e parla delle pratiche ebraiche di rammemora­ zione, è perché esse, nelle principali feste del calendario religio­ so, rammentano gli “eventi redentori” come altrettanti ricordi dell’esilio.75 L’“estetica benjaminiana della redenzione” , come l’ha chiamata Richard Wolin, è proposta m algrado tutto come una resistenza all’ultimo respiro - che per noi resta comunque una lezione di lungo respiro - opposta alla non-consolazione da­ vanti alla storia: “ N oi chiediamo a chi verrà dopo di noi, non gratitudine per le nostre vittorie, ma rammemorazione delle no­ stre sconfitte. Q uesta è consolazione: la sola consolazione con­ cessa a chi non nutre più la speranza di essere consolato” .76 *

Il fotogram m a “m olto rigato” di G eorge Stevens che filma l’apertura dei campi “salva” dunque l’“onore” del reale storico solo nel tem po stesso della sua fuga - una fuga che va di conti­ nuo rammemorata. Q uesto fotogram m a, testimonianza di un 74. W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 39-41. 75. Ibidem, p. 57. 76. W. Benjamin, citato da M. Lowy, Walter Benjamin, cit., p. 99. Cfr. R. Wo­ lin, Walter Benjamin: An Aesthetic o f Redemption, Columbia University Press, New York 1982. Per un contributo più recente sulla filosofìa ebraica della reden­ zione, cfr. P. Bouretz, Témoins du futur. Philosophic et messianisme, Gallimard, Paris 2003.

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tem po im possibile da ricostituire com e im m agine tutta, restitui­ sce m algrado tutto Yimmagine-lacuna di una storia di cui noi siam o eredi. Non è che una singolarità, di cui il m ontaggio do­ vrebbe però perm ettere l’articolazione e l’elaborazione. Il com­ pito che Benjamin assegna allo storico - Aby W arburg se l’era già assegnato, fino alla follia - è dunque im possibile in linea di principio: affinché “tutto il reale” fosse redento, bisognerebbe che “ tutto il passato” diventasse citabile: Il cronista che racconta gli avvenimenti, senza distinguere tra grandi e piccoli, tiene conto della verità che per la storia nulla di d ò che è avvenuto dev’essere mai dato per perso. Certo, solo a una umanità redenta tocca in eredità piena il suo passato. D che vuol dire: solo a una umanità redenta il passato è divenuto dtabile in ciascuno d d suoi momenti.77

M a di d ò che per il filosofo è im possibile in linea d i principio, lo storico e l’artista sperimentano la possibilità m algrado tutto. Possibilità chiaramente parziale, erratica, sem pre da riprendere, da ricominciare, da riconfigurare. E d ecco perché le H istoire(s) du cinéma, nella m olteplidtà delle loro varianti, si propongono come un’opera mai realmente finita. E d ecco perché, parimenti, la “redenzione” non concerne affatto una “fine d d tem pi” , ma ogni istante del nostro presente aperto. Se il pensiero filosofico deU’Erlósung ha trovato una certa eco in alcuni d d contemporan d di Benjamin sfuggiti, con l’esilio, aìYEndlósung - penso so­ prattutto a Ernst Bloch e Karl Lowith7879- è però nell’opera di Siegfried Kracauer che le tesi concomitanti di Benjamin sulla storia e sull’immagine hanno conosduto un destino ancora più “amichevole” , se così possiam o dire. In questo caso, la prossi­ mità d d problem i sfocia, né più né meno, in una teoria d d cine­ ma che Kracauer formula in termini molto simili a quelli utilizza­ ti prim a da Benjamin e poi da G odard: si tratta, infatti, della “ re­ denzione della realtà fisica” (the redemption o f physical reality) 77. W. Benjamin, Sul concetto di storia, dt., p. 23. 78. Cfr. E. Bloch, Il principio speranza (1938-1959), tr. it. Garzanti, Milano 1994; K. Lowith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia (1949), tr. it. il Saggiatore, Milano 2004. 79. S. Kracauer, Film. Ritorno alla realtà fisica (1960), tr. it. il Saggiatore, Mila­ no 1962.

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Siegfried Kracauer è noto soprattutto per essere stato il piimo ad analizzare il nazismo com e fenomeno di m assa a partire dal cinema: quest'arte che, “da Caligari a H ider” , avrebbe a suo avviso anticipato, descritto, denunciato, e talvolta anche servito, il terrore nazista.80 D agli anni Vend in poi Kracauer ha sviluppa­ to un’analisi delle immagini che è parente tanto di una “esterica m ateriale” quanto di una antropologia del visivo 81 Benjamin lo descrive come un eterno “scontento”, un “brontolone” che pro­ testa di continuo contro le innumerevoli nefandezze della storia - viene da pensare a Cari Einstein - ma anche come uno storico a tutto tondo, vale a dire uno storico degli oggetti parziali, dei lembi, delle immagini. Un “cenciaiolo” insomma: Non è un capo, un fondatore, ma un malcontento, un guastafe­ ste. E se ce lo vogliamo rappresentare nella solitudine del suo me­ stiere e dei suoi sforzi, vediamo un cenciaiolo che alle prime luci del­ l’alba solleva col suo bastone gli stracci linguistici, per gettarli nel suo carretto brontolando, caparbio e un po’ ubriaco, non senza agi80. S. Kracauer, De Caligari à Hitler. Une histoire psychologique du ànim a allemand (1947), tr. fr. Flammarion, Paris 1987; tr. it. Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del ànema tedesco, Lindau, Torino 2001. 81. S. Kracauer, Kino. Essays, Studien, Glosse» zum Film (1926-1950), a cura di K. Witte, Suhrkamp, Frankfurt 1974; cfr. anche i’eccdlente edizione inglese, S. Kracauer, The Mass ornament. Weimar Essays (1920-1951), tr. ingl. Harvard Uni­ versity Press, Cambridge-London 1995; tr. it. La massa come ornamento. Prismi, Napoli 1982. Su Kracauer cfr. in particolare M. Jay, "The Extraterritorial Life of Siegfried Kracauer1* (1975-1976), in Permanent Exiles. Essays on the Intellectual Migration from Germany to America, Columbia University Press, New York 1985, pp. 152-197; H. Schlupmann, “Phenomenology of Film: On Siegfried Kracauer’s Writings of the 1920s", tr. ingl. in New German Critique, n. 40, 1987, pp. 97-114; I. Mùlder-Bach, “Negativite et retoumement. Reflexions sur la phénoménologie du superficiel chez Siegfried Kracauer", tr. fr. in G. Raulet, J. Fùmkiis (a cura di), Wàmar: le toumant esthétique, Anthopos, Paris 1988, pp. 275-285; M. Kessler, T.Y. Levin (a cura di), Siegfried Kracauer. Neue Interpretationen, Stauffenburg, Tubingen 1990; M. Hansen, “Decentric Perspectives: Kracauer s Early Writings on Film and Mass Culture", in New German Critique, n. 54, 1991, pp. 47-76; D. Bamouw, Critical Realism. History, Photography, and the Work o f Siegfried Kra­ cauer, Johns Hopkins University Press, Baltimora-London 1994; E. Traverso, Siegfried Kracauer. Itinerarie d'un intelleàuel nomade. La Découvertc, Paris 1994; P. Despoix, Éthiques du disenchantement. Essais sur la modemiti allemande au dibut du siècle, L'Harmattan, Paris 1995, pp. 169-212; G . Koch, Siegfried Kracauer: an Introduction (19%), tr. ingl. Princeton University Press, Princeton 2001; M. Brodersen, Siegfried Kracauer, Rowohlt, Reinbek 2001; P. Despoix, N. Perivolaropoulou (a cura di), Culture de masse et modemiti. Siegfried Kracauer, soàologue, critique, icrivain, Editions de la Maison des Sciences de l’Homme, Paris 2001.

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tare nel vento del mattino, ogni tanto, Tuna o l’altra di queste mus­ sole sbiadite - Inumanità”, ^interiorità", 1’“approfondimento". Un cendaiolo alle prime luci del giorno - all’alba della rivoluzione.0

Kracauer non ha mai smesso di interrogarsi sulla questione che d sta a cuore qui: la questione d d rapporti tra Ximmagine e il reale, soprattutto quando il loro contatto tira in ballo la storia in d ò che ha di davvero cruciale. La sua riflessione ruota quindi co­ stantemente attorno al problema d d realism o: quale "valore criti­ co” può vantare, allorquando ogni “teoria d d riflesso” - ogni illu­ sione referenziale - viene respinta sul piano filosofico come falso problema, circolo vizioso, pregiudizio idealista?*’ Il punto di par­ tenza di Kracauer è una veemente critica del continuo, che prende spunto in primo luogo da un’osservazione puntigliosa e caustica d d giornali illustrati e d d cinegiornali degli anni Venti e Trenta. Ed è in questa prospettiva che Kracauer se la prende poi anche con la fotografia, n d 1927, quando questa pretende di restituirà un continuum dello spazio e d d tempo: allora essa diventa la filiale dello storicismo imperante; allora “sotto la fotografia di un essere umano la sua storia resta seppellita come sotto un manto di neve”; allora l’immagine caccia via l’idea e, “nelle mani della sodetà re­ gnante, [essa diviene] uno d d più potenti mezzi di sdopero con­ tro la conoscenza”; allora la realtà che essa rappresenta viene defi­ nita da Kracauer “non consegnata”, incapace d oè di memoria au­ tentica; quando il mondo diventa fotogenico in siffatto modo, la storia si ritrova semplicemente m ortificata, ridotta all’impotenza e aU’“indifferenza n d riguardi di d ò che le cose vogliono dire”.** Stesso discorso per i cinegiornali dell’Ufa, della Fox o della Param ount: essi pretendono di “abbracdare il mondo intero” , d abbuffano di catastrofi naturali e manifestazioni sportive, mentre “tutti gli eventi davvero im portanti vengono scartati” .8234 82. W. Benjamin. “Un isoiato si fa notate. A proposito degli Impiegati di S. Kracauer" (1930), tr. it. in Opere complete. IV. Scritti 1930-1931, Einaudi, Torino 2002, p. 144. 83. Cfr. P. Despoix, "Avant-propos”, tr. fr. in S. Kracauer, Le Voyage et la dan­ se. Figures de la ville et vues de films, Presses Universitaires de Vincennes, SaintDenis 19%, p. 20. 84. S. Kracauer, “La photographic’ (1927), tr. fr. in S. Kracauer, Le Voyage et la danse, pp. 42-57; cfr. B. Lindner, “Photo profane. Kracauer et la photographie”, in Culture de masse et modemité, cit., pp. 75-95.

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Kracauer, dì tutto questo, fa altrettanti sintom i sto ria che fen­ dono la società, lacerano il consenso, risvegliano i sopravvissuti e rendono visibile il disagio della civiltà. Ma solo un’analisi, o s­ sia una frantum azione seguita da ricostruzione, è in grado di m o­ strarci un sintom o. Kracauer parla quindi dell’esperim ento si­ gnificativo - ma presto censurato - di una “associazione cine­ m atografica” che sulla base del “materiale disponibile negli ar­ chivi di imm agini” aveva raggiunto “ una vista più acuta”, sem ­ plicem ente m ostrando le immagini “com poste in maniera diver­ sa ” , cioè rim ontate alla luce di una certa problem atica.*5 D realism o critico cui mira Kracauer si ottiene così solo spez­ zando la continuità artificiale presentata dallo “storicism o” foto­ grafico o cinem atografico. D ei m ontaggi di Eisenstein o di Dziga Vertov, Kracauer ammira il m odo in cui il reale storico si tro­ va decostruito, per essere poi ricondotto alla sua vera “causa” . “Q uesto film, - scrive a proposito della Corazzata Potem kin, non cattura l’attenzione com e i film occidentali, con sensazioni dietro le quali si nasconde la noia. In esso è la causa che cattura l’attenzione, poiché è vero.”16 Ciò che lo affascina nella Corsa al­ l’oro è il fatto che Chariot sia un personaggio kafkiano, del tutto spezzettato, ossia rivelato in quelle che sono le sue componenti più segrete: “Altri uomini hanno una coscienza del loro io e vi­ vono rapporti umani; lui ha perso il suo io, ed ecco perché non può vivere quella che chiamiamo vita. È un buco in cui precipi­ ta tutto quanto; ciò che di solito è raccolto in un tutto qui si frantuma sbattendo sul fondo e andando in mille pezzi” .858678C iò che ammira in René Clair o Jean Vigo è anzitutto la “logica del sogno” innestata sulla logica del reale (in E n tr’acte e Sotto i tetti d i Parigi); così come è il m odo in cui (in L’atalan te ad esem pio) la fiaba diventa “porosa”, senza fine dichiarato, ma aperta tutta­ via all’irruzione di una “causa” inavvertita, ben più profonda.8* 85. S. Kracauer, “Les actualités cinématographiqucs" (1931), tr. fr. in Le Voya­ ge et la danse, dt., pp. 124-127. 86. S. Kracauer, "Les lampes Jupiter restent alhunécs. À propos du Cturnssé Potemkine" (1926), tr. fr. in Le Voyage et la danse, dt., p. 64; cfr. anche S. Kra­ cauer, “L’hotnme à la camera" (1929), tr. fir. in Le Voyage et la danse, ctt., pp. 89-92. 87. S. Kracauer, “The Gold Rush" (1926), tr. fr. in Le Voyage et la danse, dt., p. 41. 88. S. Kracauer, “Sous les toils de Paris’ (1930), tr. fr. in Le Voyage et la danse, dt., pp. 101-103; S. Kracauer, "Jean Vigo” (1940), tr. fr. in Le Voyage et la danse, dt., pp. 101-103, pp. 142-145.

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Dinanzi a W estfront 1918, realizzato nel 1930 da G.W. Pabst, Kracauer si trova invece alle prese con una difficoltà cruciale per giudicare il valore etico e memoriale di un “ realism o di guerra” spinto all'estrem o. D a un lato, egli critica la leggerezza di questo “genere” cinem atografico, che tenta di abbellire la “m onotonia di quell'inferno” che sono le trincee, deplorando anche l'incapacità del film di rappresentare i “segni precursori” della storia. D all’altra, egli ammira “questo paesaggio di fili spi­ nati [che] dom ina lo spazio [e al quale] tutta l’esistenza umana risulta subordinata”.** M a, soprattutto, riconosce a P abst il m e­ rito di aver corso un rischio estetico che ha una certa ricaduta sul piano etico della memoria storica, ossia dell’attitudine politi­ ca dinanzi alla guerra: Senza alcun dubbio, il film sul piano estetico corre un rìschio rilevante. Distrugge, nei luoghi menzionati, i limiti impartiti all’i­ mitazione e, come ogni figura panottica, crea l’apparenza contro natura di una natura extra-artistica. Il problema è di capire se ha ragione a compiere il salto nel tridimensionale. Tenderei a rispon­ dere di si in questo caso preciso, in cui si tratta di serbare a ogni costo il ricordo della guerra. [...] Durante la rappresentazione - il film viene dato al Campidoglio - molti spettatori se la sono data a gambe. “È assolutamente insop­ portabile”, ho sentito dire dietro di me. E: “Come osano proporci uina cosa del genere?”. Possano questi spettatori dichiarare altret­ tanto insopportabile la guerra, e non dovranno più vedersi propor­ re cose del genere. Purtroppo, cosi come temono lo spettacolo del­ la guerra, essi rifuggono anche dalla conoscenza che potrebbe im­ pedirla.’0

Tre anni dopo, Kracauer dovrà affrontare l’avvento del nazi­ smo e poi lo scoppio di una guerra che gli spettatori scandaliz­ zati dei 1930 non faranno nulla per im pedire. Ciononostante, lasciando da parte il libro del 1947 sul valore sintom atico del ci­ nema in tutta questa vicenda,8901 Kracauer non rinuncerà per 89. S. Kracauer, “ Westfront 1918* (1930), tr. (ir. in Le Voyage et la danse, cit., pp. 108-109. 90. Ibidem, p. 110. 91. S. Kracauer, De Caligari i Hitler, cit, p. 12: “Così, al di là della storia ma­ nifesta dei mutamenti economici, delle esigenze sodali e delle macchinazioni poli­ tiche, esiste una storia segreta delle inclinazioni interiori del popolo tedesco. La rivelazione di queste inclinazioni per mezzo del cinema tedesco può aiutarci a ca-

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questo a insistere sulle prerogative etiche dell’immagine nella prospettiva di una redenzione m algrado tutto - una speranza la sua che avrebbe dovuto incontrare, com ’era già accaduto a Wal­ ter Benjamin, l’incom prensione di A dom o.92 Uno dei grandi meriti di Theory o f Film , che rappresenta il testam ento estetico di Kracauer, consiste nel fatto che non rinuncia né al costruttivi­ sm o né al realism o: invece di giocarli l’uno contro l’altro (bana­ lità, luogo comune della storia degli stili), Kracauer tenta di gio­ carseli l’uno e l’altro assiem e, con l’obiettivo di elaborare una certa esperienza della storia nell’immagine. Per un verso, l’im m agine decostruisce la realtà, e ciò grazie ai suoi stessi effetti di costruzione: oggetti inosservati all’improvvi­ so invadono lo scherm o, i mutamenti di scala cam biano il no­ stro sguardo sul m ondo, i concatenamenti inediti prodotti dal montaggio ci fanno com prendere le cose altrimenti. L e situazio­ ni familiari si svuotano di significato, ma “all’improvviso questo vuoto esplode” , e allora il caos em pirico diventa la “ realtà fon­ dam entale”. Con la sua costruzione di stranezze - quella che Kracauer chiama exterritorialità - , coi suoi “tagli trasversali” del continuum spaziale e tem porale, l’immagine tocca un reale che la realtà stessa fin lì ci aveva velato.95 Ed è così che l’im m agine tocca il tempo: decostruendo i rac­ conti e le cronache “sto riaste ” , essa guadagna un “ realism o crì­ tico” , ossia acquisisce il potere di “giudicare” la storia, di far af­ fiorare il tem po occulto delle sopravvivenze, di rendere visibile pire l’ascensione e l’ascendente di Hitler”. Cfr. anche E. Traverso, Siegfried Kra­ cauer, cit., pp. 156-166. 92. Cfr. T.W. Adorno, "Das Wunderliche Realist. Ober Siegfried Kracauer’ (1964), in Gesammelte Scbriften, XI. Noten zur Literatur, Suhrkamp, Frankfurt 1974, pp. 388-408; tr. it. Note sulla letteratura, 1961-1968, Einaudi. Torino 1979; M. Jay, “Adorno and Kracauer: Notes on a Troubled Friendship” (1978), in Per­ manent Exiles, cit., pp. 217-236. 93. S. Kracauer, Theory o f Film, cit., pp. 285-311. Cfr. anche I. Mulder-Bach, “Négativité et retoumement", cit., pp. 273-285; K. Koziol, “Die Wirklichkeit ist cine Konstruktion. Zur Methodologie Siegfried Kracauers", in Siegfried Kracauer. Neue Interpretationen, cit., pp. 147-158; P. Despoix, “Siegfried Kracauer, essayiste et critique de cinema”, in Critique, XLV11I, 1992, n. 539, pp. 298-320; N. Perivolaropoulou, ‘ Les mots de l’histoire et les images de cinema” , in Culture de masse et modemité, cit., pp. 248-261. Sul concetto di “exterritorialità” cfr. E. Traverso, Siegfried Kracauer, cit., pp. 178-189; E. Traverso, “Sous le signe de l’exterritorialité. Kracauer et la modemité juive”, in Culture de masse et modemité, cit., pp. 212-232.

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il "ritorno dell’assente” nelTexterritorialità, nella stranezza del cinema.9495Ecco perché allora Kracauer non esita a parlare di "funzioni rivelatrici” (revealing functions) del cinema: noi acce­ diam o, grazie ai suoi artifici, alle "cose normalmente invisibili” (things norm ally unseen), alle "m acchie cieche dello spirito” (iblind spots o f the m ind). D i che si tratta? Kracauer parla qui di qualcosa che va dalle piccole "catastrofi elem entari” (elem ental catastrophes) della vita fisica o psichica alle grandi catastrofi del­ la storia e della società, in cima alle quali egli pone le "atrocità di guerra" e gli “atti di violenza e di terrore" (atrocities o f war, acts o f violence and terror)™ Non è certo un caso se il libro di Kracauer accorda un ruolo di prim o piano al “ film del fatto” {film o f fact), ossia al docu­ mentario.96 E non è un caso neppure che esso si concluda con una riflessione che - parlando di "redenzione” - tenta di form u­ lare le conseguenze teoriche dello sconvolgim ento provato alla vista del Sangue delle bestie di G eorges Franju, ma soprattutto dei "film sui campi nazisti” , tra i quali bisogna includere senz’altro le pellicole girate alla liberazione, ma anche probabil­ mente N uit et brouillard di Alain Resnais.97 N ella sua ultima opera sulla storia, eloquentemente sottotitolata The L ast Things before the L ast, Kracauer paragonerà il “cercatore del tem po” al contem po cenciaiolo e montatore, ossia cineasta della storia a O rfeo che discende agli inferi per riportare, cosa di per sé im­ possibile, Euridice in vita.98 È im possibile, infatti. L’immagine, al pari della storia, non re­ suscita nulla, non resuscita del tutto. Ma essa "redim e” : salva un sapere, recita m algrado tutto, m algrado il poco in suo potere, la memoria dei tempi. Kracauer sa bene che il realismo di Pabst, 94. Cfr. G. Koch, “‘Not Yet Accepted Anywhere’. Exile, Memory, and Image in Kracauer s Conception of History”, tr. ingl. in New German Critique, n. 54, 1991, pp. 95-109; H. Schlùpmann, “The Subject of Survival: On Kracauer’s Theory of Film”, tr. ingl. in New German Critique, n. 54, 1991, pp. 111-126; D. Banouw, Critical Realism, cit., pp. 200-264. 95. S. Kracauer, Theory o f Film, cit., pp. 46-59. 96. Ibidem, pp. 193-214. 97. Ibidem, pp. 305-306. 98. S. Kracauer, History: Last Things before the Last, Oxford University Press, Oxford 1969, pp. 78-79. Cfr. D.N. Rodowick, “The Last Things before the Last: Kracauer on History”, in New German Critique, n. 41,1987, pp. 109-139.

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nel 1930, non ha potuto im pedire nulla nel 1933. Sa bene che N uit et brouillard non potrà far nulla per im pedire che altre not­ ti e altre nebbie calino su di noi. M a l’immagine “ redim e”: in essa, egli dice, si dispiega tutta l’energia di Perseo. E il suo libro si conclude, o quasi, con la parabola della M edusa: Ci hanno insegnato a scuola la storia della Gorgona Medusa il cui volto, coi suoi enormi denti e la lingua protuberante, era tal­ mente orrìbile da trasformare uomini e animali in pietre non appe­ na incrociavano il suo sguardo. Incitando Perseo a uccidere il mo­ stro, Atena gli raccomandò di non guardarlo mai direttamente in faccia, ma di farlo solo attraverso il riflesso dello scudo lucido che gli aveva dato. Seguendo il suo consiglio, Perseo tagliò la testa del­ la Medusa col falcetto donatogli da Ermete. La morale di questo mito è, chiaramente, che noi non vediamo, non possiamo vedere gli orrori reali (actual honors) che d paralizzano con un terrore ac­ cecante (blinding fear)\ ma che sapremo {w e sh all know ) a che cosa assomigliano soltanto guardando le immagini di essi (only by w at­ ching im ages o f them) che riproducono la loro autentica apparenza [...] Lo schermo del cinema è lo scudo riflettente di Atena. Non è tutto, però. Il mito insinua anche che le immagini sullo scudo o sullo schermo sono mezzi per un fine (m eans to an end)-, esse sono lì per permettere allo spettatore - o per convincerlo al­ meno della possibilità - di decapitare l’orrore che esse riflettono (to behead the horror they m in or). [...] Le immagini invitano lo spettatore ad accettare e così a incorporare nella sua memoria (in­ corporate into his memory) il volto reale delle cose (the real face o f things), quelle cose che sono troppo terrìbili da contemplare nella realtà. Facendo esperienza delle schiere di teste decapitate, o delle barelle su cui giacrìono i corpi umani torturati, nei film girati nei campi di concentramento nazisti, noi salviamo l’orrore dalla sua invisibilità (we redeem horror from its invisibility) dietro il velo del panico e del fantasma. Quest’esperienza è liberatrice, poiché ri­ muove il tabù più potente (it rem oves the m ost pow erful taboo). L’impresa maggiore di Perseo forse non fu quella di decapitare la Medusa, ma quella di vincere la paura e di guardare il suo riflesso nello scudo. Non è proprio questo exploit che gli ha consentito di mozzare la testa al mostro?9*

Per Kracauer questa parabola è davvero im portante, poiché con essa torniamo - ma con tutto il peso della storia vissuta nel frattem po - alle condizioni infantili e incantate di un’esperienza 9 99. S. Kracauer, Theory o f Film, cit., pp. 305-306. \

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cinem atografica raccontata, con toni quasi proustiani, all’inizio del libro: si trattava lì di una realtà che si riflette in una pozzan­ ghera, la cui superfìcie è però scossa a un certo punto da un sof­ fio di vento che ne scom piglia l’immagine.100 Che ci insegna al­ lora questa parabola? Che l’immagine non è solo quella “ dialet­ tica dell’arresto” di cui parlava W alter Benjamin: a noi spetta, aggiunge Kracauer, di rimetterla sem pre in movimento. E qui sta, se si afferra bene questo movimento, il senso di quella che possiam o definire un’etica delle immagini. Il m ito di M edusa d ricorda in primo luogo che l’orrore reale è per noi fon te d i im potenza. Q uanto è accaduto sotto gli occhi del “fotografo clandestino” di Auschwitz non era altro che il terribile dispiegam ento del potere dei cam efid, un potere che annienta la vittima e pietrifica, rendendolo m uto o cieco, il testi­ mone a occhi nudi. M a l’orrore riflesso e ricostruito come im­ magine - non a torto Kracauer, come farà in seguito G odard, pensa soprattutto alle immagini d ’archivio - può essere invece fon te d i conoscenza, a patto certo di assum ersi la propria re­ sponsabilità nel dispositivo form ale dell’immagine prodotta. La m étis del riflesso, di cui Atena parla a Perseo, nell’agosto 1944 si trasform a nell 'astuzia della “m essa in scena” - che com porta un perìcolo di morte - organizzata dalla squadra del Sonderkommando affinché Alex potesse scattare le sue foto. Esiste davvero, spiega Kracauer a proposito di Perseo, un coraggio d i conoscere', è il coraggio di “incorporare nella nostra m em oria” un sapere che, una volta riconosciuto, elimina quel tabù che l’orrore, sem pre paralizzante, seguita a far pesare sulla nostra intelligenza della storia. In questo coraggio risiede già la capacità dell’immagine di “salvare il reale” , scrìve Kracauer, dalla sua cappa di invisibilità. L a “ redenzione” in senso pieno sopraggiunge solo quando il co­ raggio di conoscere si trasform a in fon te d’azione. L’“onore" è salvato quando l’impotenza, la paralisi davanti al peggio, si tra­ sform a in “ resistenza” , anche disperata (questo segnala l’espres­ sione m algrado tutto). E l’im presa del Sonderkom m ando, nell’a­ gosto 1944, è caratterizzata proprio da questo ribaltamento del­ 100. Ibidem, p. XI. Cfr. J.-L. Leutrat, “Cornine dans un miroir confusément” , in Culture de masse et modemité, dt., pp. 233-247.

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l’impotenza, cui fa cenno anche M aurice Blanchot quando, a proposito di L’Espèce hum aine, osa parlarci m algrado tutto dell’“indistruttibile” umanità dell’uom o.101 È forse un caso che il libro di Kracauer si concluda con un paragrafo intitolato The Fam ily o f M an ?'02 In estetica della redenzione” contrappone Benjamin e K ra­ cauer ad Adorno, che resta invece ostile alle im m agini.10’ Q ue­ sta estetica non dice che il film “salva coloro che m ostra” , come crede Jean-M ichel Frodon:104105non si tratta di discolpare gli atto­ ri della storia o del cinema, ma semmai di aprire il vedere stesso a un movimento del sapere e a un orientam ento della scelta eti­ ca. Non si tratta neppure di im parare a “guardare la G orgon a” con gli occhi della vittima, come spiega G iorgio Agamben a proposito del “m usulm ano” dei campi: noi non possiam o, in realtà, im parare nulla da uno sguardo paralizzato e pietrificato, da un’“immagine assoluta” - come la chiama Agamben - che inaridisce e mette a morte, abbandonandoci all’“im possibilità di vedere”.10* N oi dobbiam o piuttosto im parare a maneggiare il d i­ spositivo delle immagini, per sapere che farcene del nostro ve­ dere e della nostra memoria. D obbiam o im parare, insomma, a maneggiare lo scudo: Vimmagine-scudo. Ciò che G érard Wajcman non ha capito, anche nel suo ri­ chiamo alla M edusa, è il fatto che lo scudo, in questo mito, non è lo strum ento di una fuga dal reale. Ogni immagine, per W ajc­ man, è “scudo" perché è velo, “copertura” o “ ricordo di coper­ tura” , dietro il quale ci si nasconde, in mancanza di meglio. M entre la favola e il commento di Kracauer dicono esattam ente il contrario: Perseo non fugge via dalla M edusa, la affronta m al­ grado tutto, m algrado il fatto che un faccia a faccia non equivar­ rebbe a un sem plice sguardo, a un sapere, a una vittoria, ma alla 101. M. Blanchot, L'infinito intrattenimento, cit., pp. 165-183. 102. S. Kracauer, Theory o f Film, cit., pp. 309-311. 103. Cfr P. Despoix, “Siegfried, essayiste et critique de cinéma", cit., pp. 318319. 104. J.-M. Frodon, “L’image et la ‘rédemption mécanique’, le récit et son conteur", in J. Aumont (a cura di), La Mise en scène, De Boeck Université, Bruxelles 2000, p. 318. 105. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 49. Cfr. anche su questo punto la critica di P. Mesnard, C. Kahan, Giorgio Agamben à l'épreuve de Au­ schwitz, cit., pp. 79-83. \

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sua morte subitanea. Perseo affronta m algrado tutto la Gorgona, e questo m algrado tutto - questa possibilità di fatto, a dispet­ to di una im possibilità di principio - si chiama im m agine: lo scu­ do, il riflesso non sono soltanto la sua protezione, ma anche l’ar­ ma, l’astuzia, il mezzo tecnico di cui egli dispone per decapitare il mostro. All’impotente fatalità dell’inizio (“non si può guarda­ re in faccia la M edusa” ) si sostituisce la risposta etica (“ebbene, affronterò com unque la M edusa, guardandola altrim en tD . Scorgere in questa favola un’illustrazione del “potere pacifi­ cante delle immagini nei confronti del reale” 106 è dunque un er­ rore. L a storia di Perseo ci insegna piuttosto come affrontare questo stesso reale, tramite un dispositivo form ale utilizzato no­ nostante e contro ogni fatalità dell’“inim m aginabile” - questo tabù col quale W ajcman, dal canto proprio, vorrebbe im pietrir­ ci tutti quanti. E non stupisce affatto che Aby W arburg abbia fatto di Perseo che lotta con la G orgona una personificazione esem plare dell’intera “storia intellettuale europea” , pensando alla lotta incessante ddl*ethos contro i poteri di quelle che chia­ mava i m onstra, i m ostri della barbarie.107108C osì come non stupi­ sce neppure che Paul Celan abbia visto nell’atto poetico la “curva di un respiro” (Atemwende) gettato in faccia all’“abisso della testa di M edusa” celato in ogni parola, in ogni momento dell 'Endlosung.m Ecco perché un “rettangolo di trentacinque millimetri” , an­ che se “m olto rigato” per il contatto col reale (come testim o­ nianza o immagine d ’archivio), per poco che sia reso conoscibi­ le m ettendolo in rapporto con altre fonti (come montaggio o immagine costruita), “salva l’onore” , cioè salva almeno dall’o­ blio un reale storico minacciato dall’indifferenza. L a dim ensio­ ne etica non scom pare nelle immagini: viceversa, nelle immagini essa si esaspera, nel senso che si spalanca in esse quel doppio re­ gim e che le immagini stesse autorizzano. Diventa allora una que­ stione d i scelta: noi dobbiam o, davanti a ogni immagine, sceglie­ re come vogliamo farla partecipare, o non partecipare, alle no­ 106. G. Wajcman, “De la croyance photographique", cit., p. 67. 107. A. Warburg, lettera a Mary Warburg del 15 dicembre 1923, citata da E H. Gombrich, Aby Warburg. An Intellectual Biography, The Warburg Institute, London 1970, pp. 281*282. 108. P. Celan, Il meridiano, cit., p. 13.

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stre iniziative di conoscenza e azione. Potrem o accettare o rifiu­ tare questa o quella immagine; prenderla com e oggetto che con­ sola o che inquieta; usarla per porre dom ande o per form ulare risposte. Su quest’ultimo punto, ad esem pio, la riflessione di Adorno sul m ondo in guerra tram utatosi in un grande docu­ mentario di.propaganda, che soffoca ogni esperienza e ogni do­ manda, resta di un’attualità sconcertante: Il totale travestimento della guerra a o p e r a dell'informazione, della propaganda, dei commenti, gli operatori cinematografici nel­ le prime tanks e la morte eroica dei reporters di guerra, la combina­ zione di opinione pubblica tenuta artificialmente al corrente e azione inconsapevole, tutto ciò non è che un’altra espressione dell'e sp e rie n z a disseccata, del vuoto tra gli uomini e il loro destino, in cui il destino propriamente consiste. Il calco reificato e irrigidito degli avvenimenti sostituisce, per cosi dire, gli avvenimenti stessi. G li uomini vengono ridotti al ruolo di attori di un documentariomonstre, che non conosce più spettatori, perché anche l’ultimo spettatore deve recitare la sua parte sulla tela. [...] La guerra è ef­ fettivamente strana (phony), ma la sua stranezza (phonyness) è più orrìbile di tutti gli orrori, e quelli che ci rìdono sopra contribuisco­ no in primo luogo alla calamità.10*

M a l’immagine non è solo questo. Esistono altri tipi di docu­ mentario. Altre scelte sono possibili, com ’è possibile, parlando, orientarsi verso un pensiero interrogativo invece di restare trin­ cerati dietro parole d ’ordine consunte. U n'etica delle im m agini, oggi così com e nel 1944 - data in cui Adorno scrisse queste fra­ si - , deve tener conto di una situazione sem pre sfaldata. Q uan­ do Robert Anteime tornò dai cam pi, dovette ammettere che quanto aveva da dire "com inciava a sem brava inim m aginabile"; ma è proprio per questo che enunciò m algrado tutto la necessità della “scelta, cioè sem pre [del] l’im m aginazione".110 D opo di lui, Beckett dirà: "Im m aginazione m orta” . Ma per richiamarci m al­ grado tutto all’ingiunzione: “Im m aginate” .109111 Dunque, im m aginare m algrado tutto. Perché m algrado tutto? 109. T.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa (1944-1951), tr. it. Einaudi, Torino 1994, pp. 54-55. 110. R. Anteime, LEspèce humaine, cit., p. 9. 111. S. Beckett, Tètes-Mortes, Minuit, Paris 1972, p. 51; tr. it. Teste morte, Ei­ naudi, Torino 1980. V

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Q uest’espressione indica la lacerazione: il tutto rinvia al potere delle condizioni storiche alle quali non riusciam o ancora a repli­ care; il m algrado resiste a questo stesso potere con la sola poten­ za euristica del singolare. È un "lam po” che fende il d elo quan­ do tutto sem bra ormai perduto. Ed è appunto questo che esem ­ plifica, a mio parere, il gesto del fotografo clandestino di Au­ schwitz. Non m eriterebbe allora un om aggio minimo: che ci si sporga un attimo sull’oggetto per cui ha rischiato tanto - queste quattro immagini strappate all’inferno? N oi oggi ne sappiam o di più su quanto è accaduto laggiù. E questo sapere ci priva di ogni consolazione. Ma deve per questo privarci di ogni conside­ razione per un simile gesto di resistenza? N oi viviamo l’im m agine n ell’epoca dell’im m aginazione lacera­ ta. Ciò che G érard W ajcman, nei suoi attacchi, definisce spesso "feticism o” , e dunque perversione, assom iglia m olto a quella che H egel, nella Fenom enologia dello spirito, descrive come l’a­ marezza della "coscienza onesta” nei confronti della "coscienza lacerata” (ed è chiaro che G odard, nella storia del cinema, rap­ presenta la coscienza lacerata per antonomasia): "L a coscienza onesta, che considera ogni momento come un’essenzialità per­ manente, è l’incolta assenza di pensiero che non sa di fare pro­ prio l’inverso di ciò che crede di fare. La coscienza lacerata, in­ vece, è la coscienza della perversione, e precisam ente della per­ versione assoluta; al suo interno domina quel concetto che rac­ coglie i pensieri che per l’onestà si trovano a grande distanza gli uni dagli altri: il linguaggio della coscienza lacerata è perciò ric­ co di spirito (geistreicb)” .n2 In questa "perversione” va colta la perversio latina, cioè l’atto di rovesciare, di mettere le cose sottosopra, come le H istoire(s) du cinema fanno con la storia in generale. E nel "concetto che raccoglie i pensieri che si trovano a grande distanza gli uni dagli altri” una sorta di attività di m ontaggio, come quando ad esem ­ pio G odard ci chiede di pensare assiem e un’allegoria di Goya, una vittima di D achau, una star di Hollywood e un gesto dipin­ to da G iotto (figure 24-28). Q uesta "coscienza lacerata” è stata spesso rivendicata dai 112. G.W.F. Hegel, La fenomenologia dello spirito (1807), tr. it. Rusconi, Mila­ no 1993, p. 701 (traduzione leggermente modificata).

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pensatori ebrei sopravvissuti alla Shoah, da C assirer a Ernst Bloch, da Stefan Zweig a Kracauer. Alla fine di Significato e fin e della storia Karl Lowith constatava ^ in d ecisio n e” fondamentale di quello che chiama lo “spirito m oderno” nei suoi rapporti con la storia.11’ E Hannah Arendt si sarebbe spinta ancora oltre nel­ l’analisi di questa lacerazione storica: da un lato, scorgendo nel­ l’artista, nel poeta e nello storico altrettanti “costruttori di m o­ numenti” senza i quali “la vicenda [che gli uomini o i “m ortali”, come Arendt preferisce definirli] interpretano e raccontano non potrebbe sopravvivere” ;1131415dall’altro, citando René Char - uNo­ tre héritage n est précédé d'aucun testam ent” - e sottolineando la difficoltà della nostra epoca a dare un nome al proprio “tesoro perduto” . La “lacuna tra passato e futuro”, come la battezza Arendt, sta allora tutta nell’im possibilità di riconoscere e m ette­ re in gioco l’eredità di cui noi stessi siam o depositari: D tempo manca di una continuità tramandata con un esplicito atto di volontà, e quindi, in termini umani, non c’è più né passato né futuro."5

La questione delle immagini resta così al centro del disagio che affligge il nostro tem po - il “disagio della civiltà” . Bisogne­ rebbe im parare a guardare le immagini, im parare a scorgervi ciò cui esse sono sopravvissute. E questo affinché la storia, svincola­ ta dal puro passato (quest’assoluto, quest’astrazione), ci aiuti ad aprire il presente del tempo. (2002-2003)

113. K. Lowith, Significato e fine della storia, cit., p. 236. 114. H. Arendt, Vita adiva. La condizione umana (1958), tr. it. Bompiani, Mi­ lano 2000, p. 125. 115. H. Arendt, Tra passato e futuro (1954-1968), tr. it. Garzanti, Milano 1991,

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FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI

Figura 1 Anonimo (tedesco), Siepe di mascheramento del crematorio V di Auschwitz, 1943-1944. Oswiecim, Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativo n. 860). Figura 2 Anonimo (tedesco), Il crematorio v di Auschwitz, 1943-1944. Oswiecim, Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativo n. 20993/508). Figura 3-4 Anonimo (membro del Sonderkommando di Auschwitz), Cre­ mazione di corpi gasati in fosse di incinerazione all'aria aperta, davanti alla camera a gas del crematorio V di Auschwitz, agosto 1944. Oswiecim, Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativi n. 277-278). Figura 5-6 Anonimo (membro del Sonderkommando di Auschwitz), Don­ ne spinte verso la camera a gas del crematorio v di Auschwitz, agosto 1944. Oswiecim, Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativi n. 282-283). Figura 7 Józef Cyrankiewicz e Stanislaw Klodzinski, Messaggio indirizzato alla resistenza polacca, 4 settembre 1944. Oswiecim, Museo di Stato di Au­ schwitz-Birkenau. Figura 8 Anonimo (russo), Rovine del crematorio v di Auschwitz, 19451946. Oswiecim, Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativo n. 908). Figura 9 Dettaglio della figura 5. Tratto da Auschwitz, A History in Photo­ graphs, a cura di T. Swiebocka, Oswiecim-Warsaw-Bloomington-Indianapolis, 1993, p. 173. Figura 10-11 Dettaglio e ritocco della figura 5. Tratto da Mémoire des camps, a cura di C. Chéroux, Parigi, 2001, p. 91. Figura 12 Dettaglio della figura 4. Tratto da Auschwitz, A History in Photo­ graphs, a cura di T. Swiebocka, Oswiecim-Warsaw-Bloomington-Indianapolis, 1993, p. 174. Figura 13 Schema ricostruttivo dei posti occupati dai membri del Son­ derkommando per realizzare i due cliché delle fosse di incinerazione nell’a­

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FONTI M U LE ILLUSTRAZIONI

gosto 1944. Tratto da J.-C . Pressac, Auschwitz: Technique and Operation o f the Gas Chambers, New York, 1989, p. 422. Figure 14-15 Anonimo (membro del Sonderkommando di Auschwitz). Don­ ne spinte verso la camera a gas del crematorio v di Auschwitz, agosto 1944. Oswiedm, Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativi n. 282-283). Tratto da Mémoire des camps, a cura di C. Chéroux, Parigi, 2001, p. 88. Figure 16-17 Anonimo (membro òri Sonderkommando di Auschwitz), Cre­

mazione di corpi gasati in fosse di incinerazione all'aria aperta, davanti alla camera a gas del crematorio V di Auschwitz, agosto 1944. Oswiecim, Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativi n. 277-278). Tratto da Mémoire des camps, a cura di C. Chéroux, Parigi, 2001, p. 89. Figure 18-19 Anonimo (membro del Sonderkommando di Auschwitz), Cre­

mazione di corpi gasati in fosse di incinerazione all'aria aperta, davanti alla camera a gas del crematorio v di Auschwitz, agosto 1944. Oswiecim, Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativi n. 277-278, rovesciati). Figure 20-21 Anonimo (membro del Sonderkommando di Auschwitz). Donne spinte verso la camera a gas del crematorio V di Auschwitz, agosto 1944. Oswiecim, Museo di Stato di Auschwitz-Birkenau (negativi n. 282283, rovesciati). Figura 22 Alain Resnais, Nuit et brouillard, 1955. Fotogramma dell’inizio del film. Figura 23 Claude Lanzmann, Shoah, 1985. Fotogramma dell’inizio del film. Figure 24-30 Jean-Luc Godard, Histoire(s) du cinema, 1988-1998. Foto­ grammi della prima parte, “Toutes les histoires”.

SAGGI

1. F. D ’Agostini, A nalitici e continentali 2. G . Deleuze, Critica e clinica 3. G . Deleuze, Differenza e ripetizione 4. M. Ferraris, Estetica razionale 5. D. Gillies, Intelligenza artificiale e metodo scientifico 6. S. Manghi (a cura di), Attraverso Bateson 7. M. D i Francesco, L io e i suoi sé 8. E. Lévinas, Scoprire l’esistenza con H usserl e Heidegger 9. L. Accati, Il mostro e la bella 10. C. Montaleone, Homo loquens 11. R Galatolo, G . Pallotti (a cura di), La conversazione 12. A. Oliverio, G li esploratori della mente 13. C. Glymour, Dimostrare, credere, pensare 14. A. Wieviorka, L'era del testimone 15. R Nozick, Puzzle socratici 16. P. Gam bazzi, L!occhio e il suo inconscio 17. G .O . G abbard, K. G abbard, Cinema e psichiatria 18. R de Monticelli (a cura di), La persona: apparenza e realtà 19. E. Franzini, Fenomenologia dell’invisibile 20. U. Wolf, La filosofia come ricerca della felicità 21. E. Morin, Il metodo 1. La natura della natura 22. S. Tagliagambe, Il sogno di D ostoevskij 23. H. Bergson, Saggio su i dati im m ediati della coscienza 24. E. Morin, Il metodo 5. L’identità umana 25. H. Bergson, Devoluzione creatrice 26. W. Lycan, Filosofia del linguaggio 27. D. Tarizzo, //pensiero libero 28. P. Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio 29. S. Èizek, Il soggetto scabroso 30. M. Merleau-Ponty, È.possibile oggi la filosofia? 31. R G irard, Origine della cultura efine della storia 32. T. Crane, Fenomeni m entali

A partire da quattro foto fra p p a te all'Inferno di Auschwitz nell'estate del l ‘> tt da alam i membri del Sontierkontnuiiulo, questo libro sviluppa una ri­ gorosa e originale riflessione sulla memoria, la storia, l'immagine e I opera d'arte,ricostruendo in mar­ gine uno dei più accesi dibattiti culturali che hanno avuto luogo a Parigi negli ultimi anni, posta in gioco e la possibilità di accostarci ad alcuni lembi di quella traiti, per molti inimmaginabile e indici­ bile.che furono i campi di sterminio nazisti. Ma non si tratta solo di questo. Si tratta anche di capire quali siano i limiti e le potenziatila specifi­ che dell'immagine in quanto tale, artistica, foto­ grafica. cinematografica. È questo U tema al quale Georges Didi-Huberman lavora da anni, c che lo ha portato all'attenzione di un vasto pubblico in­ temazionale.

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GEORGES DIDI-HUBERMAN

Immagini malgrado tutto

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