Immagine di un'immagine. Cinema e letteratura 8877502169, 9788877502162

Torino, Utet, 1993, 8vo (cm. 20,5 x 14) brossura con copertina illustrata, pp. 214 con 8 tavole fotografiche a colori fu

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Italian Pages 216 [112] Year 1993

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Immagine di un'immagine. Cinema e letteratura
 8877502169, 9788877502162

Table of contents :
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Antonio Costa- Immagine di un'immagine (Utet, 1997)

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Il volume si occupa di lettura e visione, del «leggere film » e del «vedere racconti», del ra p p o rto fra letterario e visivo. A lternand o temi teorici a ll'a n a lis i di casi esem plari, parla di «rom anzi visivi» e d i «film letterari»; parla di come l'im m agine letteraria si fa film ica e di com e l'im m a g in a rio visivo c o n d izio n a l'im m a g in a rio letterario. Scrittura e visione, p a ro la e im m agine, intrecciate nelle rappresentazioni letterarie e film iche del sogno, offrono l'o ccasione di esam inare alcuni temi centrali d e ll'o d ie rn a teoria del cinem a; temi che vengon o ripercorsi anche attraverso una rilettura dell'«eresia sem iologica» di Pier Paolo Pasolini, al quale è d edicata Ia parte centrale del volume. E «un rom anzo visivo» P alom ar di C alvino, interpretato come una sorta di « a rcheolo gia della visione»; sono casi di «cinema letterario» Il fu M a ttia Pascal di P irandello nella versione d i L'Herbier, Il G a tto p a rd o che Visconti ha tratto d a ll'o m o n im o rom anzo di Tomasi di Lampedusa, Il Processo di Kafka nell'interpretazione di O rson W elles. A ttraverso A p o ca lyp se N o w di C o p p o la , con i suoi riferim enti a C onrad ed Eliot, e La cam era verde di Truffaut, ispirato a L'altare dei m orti e ad a ltri racconti di James, sono poi trattati i temi delle «fonti letterarie» e della «citazione» nel cinem a contem poraneo. A n to n io Costa insegna Storia del cinem a all'U niversità di Bologna. E condirettore del quadrim e strale «Cinem a & C inem a», ed è autore di S aper vedere il cinem a (1985), La m orale d e l g io ca tto lo . S a g g io su G eorges M éliès (1 989), Cinem a e pittura (1991).

In copertina Silvana Mangano in Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini.

A N T O N IO COSTA

IMMAGINE DI UN'IMMAGINE Cinem a e letteratura

ANTONIO COSTA

IMMAGINE DI UN'IMMAGINE Cinema e letteratura

UTET Libreria

A Giovanni

© 1993 UTET Libreria via P. Giuria, 20 - 10125 Torino I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi. L'editore potrà concedere a pagamento l'autorizzazione a riprodurre una porzione non superiore a un decimo del presente volume. Le richieste di riproduzione vanno inoltrate all’AIDROS via delle Erbe. 2-20121 Milano Tel. 02/86463091, Fax 02/89010863 Stampa: Stargrafica ISBN 88-7750-216-9 Prima edizione italiana 1993 Ristampe:

1 2 3 4 5 6 7 8 9 1993 1994 1995 1996 1997

IN D IC E

Introduzione....................................................................................... p.

9

P a r te Prima - Leggere film e vedere racconti R ingraziam enti

Nell'approfondimento dei temi trattati in questo libro, sono stato aiutato dalla vicinanza, dagli stimoli e dalla collaborazione di varie persone, con le quali ho condiviso comuni interessi in territori di frontiera. In particolare, vorrei ricordare Gian Piero Brunetta, che ha seguito da vicino la nascita di alcuni dei saggi poi confluiti in questo libro; Guido Fink, Giovanna Grignaffini e Leonardo Quaresima e gli altri redattori di «Cinema & Cinema» con i quali ho spesso lavorato sui temi qui affrontati; Michele Canosa, con il quale ho collaborato alla rassegna dell'opera di Marcel L'Herbier (Porretta, 1985), a partire dalla quale ha preso avvio il mio interesse per le versioni cinematografiche del Fu M attia Pascal di Pirandello. Lo studio delle diverse copie del Feu Mathias Pascal di L'Herbier mi è stato reso possibile dalla collaborazione del personale di varie cineteche: devo vivi ringraziamenti a Frantz Schmitt, capo del Service des Archives du Film del Centre National de la Cinématographie di Bois d'Arcy, all'epoca in cui ho studiato la copia del film di L'Herbier colà conservata; ad Alain Marchand che mi ha reso possibile lo studio della copia recentemente restaurata (1989) dalla Cinémathèque Française; a Emanuelle Toulet della Bibliothèque de l'Arsenal di Parigi; e inoltre a Gian Luca Farinelli (Il cinema ritrovato, Cineteca Comunale di Bologna), Fabrizio Grosoli e Fausto Gaiosi (Tele+1, Milano). Un particolare ringraziamento a Vittorio Martinelli, cui devo le informazioni sull'edizione italiana del film di L'Herbier. A. C. Le ricerche che stanno alla base di questo volume hanno beneficiato dei fondi del Ministero dell'Università e della Ricerca Scientifica.

I.

Π.

ΙΠ.

Lettura e visione..................................................................... »

17

1. «Lettura» del film.............................................................. » 2. Leggere o vedere?.............................................................. » 3. Vedere racconti e leggere immagini................................... » 4. Il testo perduto.................................................................. »

18 28

Palomar: effetto rebound e archeologia della visione.......»

45

1. L'effetto rebound ............................................................. » 2. Palomar? Chi?................................................. 3. Lo sguardo e il trasalimento.............................................. »

45 55

Incertezza del sogno................................................................»

62

1. «Specifico onirico»: tra il letterario e il filmico.................. » 2. Soggetti onirici.................................................................. » 3. Storicità dei sogni (e altro ancora)...................................... »

65 70 72

34

42

»49

PARTE S e c o n d a - Scenari italiani IV.

La passione di essere un altro: le ombre cinematografiche del fu Mattia Pascal................................................................ »

1. L'Herbier, Chenal, Monicelli..............................................» 2. Mosjoukine è Mattia Pascal, parola di Sciascia.................... » 3. Da Mattia a Mathias e ritorno: per una critica delle varianti...................................................................... »

79

81 86

89

Indice

8

4. Images de substitution....................................................... p. 95 5. Il teatrino dell'io............................................................... » 101 V.

Visconti, I l

G a tto p a rd o

IN T R O D U Z IO N E

e la scena storica...........................» 109

1. Visconti e la «scena» della Storia........................................ » 114 2. Il G attopardo : da Lampedusa a Visconti............................. » 118 VI.

Pasolini: eresia semiologica e scrittura tragica.................. » 128 1. Il cinema di poesia.............................................................» 2. La lingua scritta della realtà............................................... » 3. La scena e lo sguardo..........................................................» 4. Dal realismo al nominalismo............................................. »

129 138 142 154

Parte Terza - Altri scenari VE. Welles e Kafka......................................................................» 161 1. In principio era la Parola.................................................... » 162 2. Logica del sogno................................................................ » 167 3. Il cittadino K..................................................................... » 169 VIE. La camera di Truffaut e i fantasmi di James.......................» 173 1. Una lettera scritta a mano.................................................. » 2. Sur des thèmes d'Henry James........................................... » 3. Lutto e malinconia.............................................................» 4. Epifania dell'inafferrabile................................................... » IX.

173 176 181 187

Hitchcock racconta, nel famoso libro-intervista di Truffaut, questa storiella. Ci sono due caprette che stanno brucando le bobi­ ne di un film tratto da un best seller. E una dice all'altra: «Personalmente, preferisco il libro». Efficace e raggelante come sempre, Hitchcock liquida così una domanda sulla fedeltà di un adattamento {Rebecca), richiamando l'attenzione su quelle che altri chiameranno le diverse «materie dell'espressione». E ormai luogo comune affermare che un film, anche se di de­ rivazione letteraria, è un'opera autonoma che va giudicata in quan­ to tale. A ltrettanto luogo comune è notare che da libri mediocri possono nascere film eccellenti, e viceversa. D 'altra parte, pur nella riconosciuta autonomia delle diverse espressioni, è impossibile negare il gioco di interazioni che si stabilisce tra letteratura e cine­ ma. Il critico cinematografico Tullio Kezich osserva, a proposito di trascrizioni cinematografiche di classici della letteratura, che il rap­ porto più profondo tra i due mezzi di espressione non va cercato nei termini di un confronto diretto:

Apocalypse Now and Then................................................ » 191 1. Il referente non abita più qui.............................................. » 191 2. Good bye, mr. Frye...........................................................» 194 3. Ibridare, egli disse.............................................................. » 198

F ilm o g r a fia ..................................................................................... »

203

In d ic e d e i n o m i ............................................................................... »

2091

Più che la fedeltà, l'attendibilità culturale o il valore artistico della trasposizione cinematografica, contano l'alone che riescono a su­ scitare, la forza mitizzatrice che emanano, il fascino che esercitano sulle masse1. C 'è una buona parte di verità in questa affermazione. Prima an­ cora dei singoli testi sono le istituzioni, i dispositivi che entrano in 1 T ullio K ezich , Mattia Pascal: uno due tre, in Leonardo Sciascia (a cura di), Omaggio a Pirandello, Bompiani, Milano 1986, p. 84.

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Introduzione

Introduzione

rapporto e mettono in gioco le loro potenzialità: c'è un effetto «alone» che testi letterari e film si scambiano a vicenda. La vita di un testo si prolunga anche in trasposizioni infedeli; allo stesso modo i film richiamano pubblico anche in virtù della forza mitica di titoli e personaggi letterari. Ciò non esclude che anche confronti diretti possano gettare luce sui processi di interazione tra lettera­ tura e cinema. In tempi recenti, per effetto di diffusione dei modelli narratologici di analisi, si è registrato un incremento dei lavori di tipo comparativo. C 'è anzi chi, come François Jost, propone espli­ citamente una narratologia comparata; e lavora per la messa a punto di strumenti adeguati. È vero che nell'approccio narratologico le preoccupazioni di tipo descrittivo non sono le preminenti. A testi basati su differenti materie dell'espressione vengono poste analoghe domande, relative ai temi classici della focalizzazione, distribuzione del sapere tra narratore, personaggio, lettore (o spet­ tatore). Le proposte di una metodologia unitaria rischiano, tutta­ via, di appiattire le differenze. E in tutti i casi di limitare la compa­ razione a quegli aspetti del meccanismo testuale che funzionano allo stesso modo, vale a dire quelli relativi alla narratività. L'approccio proposto da questo libro, anche se tiene conto delle recenti indicazioni metodologiche, non si limita a questo aspetto e cerca di adottare una prospettiva più ampia2. Ci si occupa qui di

lettura e visione, del «leggere film» e del «vedere racconti», del rapporto tra il «letterario« e il «visivo». Alternando temi teorici all'analisi di casi esemplari, si parla di «romanzi visivi» e di «film letterari». Di come l'«immagine» letteraria si fa filmica e di come l'immaginario visivo condiziona l'immagmario letterario. U n «romanzo visivo» come Palomar di Calvino viene interpretato come una sorta di «archeologia della visione», un itinerario attra­ verso i luoghi e i temi di quella ossessione visiva che attraversa quest'ultimo secolo, dagli anni dell'invenzione del cinema a quelli della sua «dispersione» nei media elettronici. Scrittura e visione,

2 Vari capitoli di questo libro sono già apparsi, parzialmente o totalmente e quasi sempre in forma assai diversa, in altre sedi, secondo le indicazioni qui di seguito fornite. Lettura e visione riprende con variazioni e aggiunte un testo dal titolo Cinema: visione e lettura apparso in M arino Livolsi (a cura di), Schermi e ombre. Gli italiani e il cinema nel dopoguerra, La Nuova Italia, Firenze 1988. Palomar: effetto rebound e archeologia della visione, è stato presentato in una prima versione, assai più ridotta, dal titolo 11 senso della vista nell'ambito di un convegno su Calvino e il cinema tenuto a S. Giovanni Valdarno nel 1987 e successivamente pubblicato nel volume degli atti {L'avventura d i uno spettatore. Italo Calvino e il cinema, a cura di Lorenzo P ellizzari con una presentazione di G offredo F ofi , Pierluigi Lubrina, Bergamo 1990, pp. 21-35). Incertezza del sogno è apparso con il titolo Un sogno, molti sogni, come introduzione alla sezione monografica Onirikon. Tutti i sogni del cinema, in «Cinema & Cinema», 61, 1991, pp. 5-13. Lo studio sulle varie versioni cinematografiche del Fu Mattia Pascal di Pirandello è l'esito finale di una ricerca che è durata alcuni anni, anche a causa

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della difficoltà di visionare le varie copie del film di L'Herbier al quale è in gran parte dedicato, e che nelle sue varie tappe è stata presentata a vari convegni pirandelliani. L'attuale stesura riprende, con integrazioni varie, due testi: Sciascia, Pirandello, Mosjoukine e le ombre cinematografiche di Mattia Pascal, in N ino G enovese e Sebastiano G esù (a cura di), La musa inquietante d i Pirandello: il cinema, Bonanno Editore, Palermo 1990, vol. 1, pp. 171-88 e La passione d i essere un altro ■Rinascita e trasfigurazione del Fu Mattia Pascal dallo spirito della danza, in M aria A ntonietta G rignani (a cura di), Il cinema e Pirandello (Atti del Convegno di Pavia 8-10 novembre 1990), Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Pavia, La Nuova Italia, Firenze, 1992, pp. 51-57. Lo studio su Visconti, Il Gattopardo e la scena storica è apparso in forma diversa, con il titolo La traduzione filmica di un romanzo storico: Il Gattopardo da Lampedusa a Visconti, in «Circuito cinema», 34, 1989, pp. 3-13. Pasolini: eresia semiologica e scrittura tragica nasce dalla fusione di vari testi pubblicati in diverse occasioni o presentati a convegni, tra i quali vanno citati principalmente: Pasolini's SemiologicalHeresy, in P aul W illemen (a cura di), Pier Paolo Pasolini, BFI, London 1977; Pier Paolo Pasolini: la scrittura tragica, in PIER P aolo Pasolini, Appunti per un'Orestiade Africana, trascrizione del commento e dialoghi a cura di Anto n io C osta , Circolo culturale di Copparo, Copparo 1983, pp. 5-15; Dal realismo al nominalismo, relazione letta al convegno Pier Paolo Pasolini: avec les armes de la poésie, svoltosi a Parigi nel dicembre del 1984, e pubblicata con lo stesso titolo in «Cinema & Cinema», 43, 1985, pp. 17-25. Welles e Kafka riprende, ampliandola, una relazione letta al Convegno internazionale su Welles svoltosi all'isola di S. Giorgio nell'ottobre del 1991, sotto la direzione di Guido Fink, nell'ambito delle attività permanenti della Biennale di Venezia. La camera di Truffaut e i fantasmi di James è la rielaborazione di una recensione a La Chambre verte, apparsa in «Cinema & Cinema», 16-17, 1978, pp. 13-23. Apocalypse N ow and Then riprende il testo apparso con lo stesso titolo in «Cinema & Cinema», 24, 1980, pp. 18-26.

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Introduzione

Introduzione

parola e immagine, intrecciati nelle rappresentazioni letterarie e filmiche del sogno, offrono l'occasione di esaminare alcuni temi centrali dell'odierna teoria del cinema; temi che vengono ripercorsi anche attraverso una rilettura dell'«eresia semiologica» di Pier Paolo Pasolini, scrittore e cineasta che ha vissuto a un alto livello di coscienza teorica il rapporto, spesso conflittuale, tra la dimensione letteraria e quella filmica. U n confronto tra il «letterario» e il «filmico» viene condotto in tre famosissimi, e controversi, casi di cinema «letterario»: Il fu Mattia PascaI di Pirandello nella versione di L'H erbier, Il Gatto­ pardo che Visconti ha tratto dall'omonim o romanzo di Tornasi di Lampedusa, Il processo di Kafka nell'interpretazione di O rson Welles. Attraverso Apocalypse Now di Coppola, con i suoi riferi­ menti a Conrad e Eliot, e La Chambre verte di Truffaut, ispirato a L'altare dei morti e altri racconti di James, sono, infine, trattati i temi delle «fonti letterarie» e della «citazione» nel cinema contem­ poraneo. Sono varie le ragioni che possono suggerire il ricorso alla cate­ goria di «letterarietà» a proposito di un film. Ci sono dei film di­ scretamente letterari: film che in modo discreto lasciano trasparire la loro origine letteraria. E ci sono film ostentatamente letterari: film che esibiscono la fonte e che spettacolarizzano l'incontro tra cinema e letteratura. Alla prima categoria appartiene La Chambre verte (1978) di François Truffaut. Alla seconda appartiene Apo­ calypse Now (1979) di Coppola (non a caso un film tratto da quel Cuore di tenebra di Conrad che già Welles aveva cercato di portare sullo schermo). Nel prim o dei due il corpo a corpo tra letteratura e cinema sembra consumarsi tutto dentro la dimensione del testo filmico, resta in qualche modo nascosto. Nel secondo viene esterio­ rizzato in una sorta di sfida a campo aperto. E di sfida, ancora, si tratta nell'incontro tra Welles e Kafka, il cui significato trascende e condiziona, per così dire, il testo che ne potrà uscire. Il processo è quindi un esempio di film spettacolarmente letterario, al pari di altri clamorosi incontri, a livelli magari differenti, tra letteratura e cinema: Il fu Mattia Pasca! di Pirandello e L'H erbier, Il Gattopardo di Lampedusa e Visconti (o ancora Morte a Venezia di Thomas

Mann e Visconti), Il nome della rosa di Eco e Annaud. Certamente ci sono romanzi assai più cinematografici dei film che ne sono stati tratti. Questi ultimi sono magari colpevoli di eccessi di acquie­ scenza nei confronti di una concezione tutta m id cult della lettera­ tura, laddove i primi si caratterizzano invece per la capacità di la­ vorare su modelli estetici e di comunicazione ampiamente tributari di quella rivoluzione dei media in cui il cinema ha avuto una parte non marginale. N on sempre la letteratura offre al cinema buoni servigi. Spesso si tratta di brutti scherzi. In quanto «immagine di un'immagine», il film letterario è un film a rischio. Rischio del confronto, innanzi tutto. Rischio dell'illustrazione. Ma in questi rischi, c'è anche il vantaggio di operare in una dimensione metatestuale, interpretativa che spesso ci può dire m olto sugli assetti linguistici del cinema, e della letteratura, e magari anche sull'opera che ha ispirato il film. Sia nel caso delle «immagini di sostituzione» di cui parla L'H erbier, sia in quello dei «momenti privilegiati» di Truffaut, si tratta di comprendere quali configurazioni filmiche si producono a partire dalla letterarietà del testo. Ma, allo stesso tempo, si tratta di com­ prendere anche quale tipo di circolazione il referente letterario finisca per avere all'interno della dimensione scenografica o glo­ balmente spettacolare dei film più spettacolarmente letterari, come accade appunto in II Gattopardo, Il Processo, Apocalypse Now, tre degli esempi più tipici fra tutti quelli che si potevano scegliere. Comunque, sono pur sempre lo statuto e le configurazioni della testualità letteraria e di quella filmica che dovrebbero emergere da ogni confronto. È quanto si è cercato di fare nelle riflessioni meto­ dologiche e nelle analisi qui proposte.

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Parte Prima LEGGERE FILM E V ED ERE R A C C O N T I

I. LETTURA E VISIONE

Civiltà dell'immagine. Era dello spettacolo. Cultura del look. Età delle esposizioni. Queste etichette, al di là delle differenti sfu­ mature o accentuazioni, rimandano a un significato unitario: la fine, o per lo meno l'eclissi, della civiltà della lettura (e del suo correlato, la scrittura). Pur non mancando coloro che si industriano a cogliere aspetti positivi di questi segni epocali, o comunque a sdrammatizzare, c'è una diffusa tendenza, soprattutto tra chi è impegnato in attività pedagogiche, a enfatizzare i pericoli di un predominio dell'imma­ gine sulla parola, del visivo (o audiovisivo) sullo scritto. Il leggere e il vedere vengono contrapposti in un modo che ri­ corda la contrapposizione perentoria di Erich From m tra l'essere e l'avere. La diffusione dei media visivi, e in particolare di quelli elettronici, viene valutata come una sorta di biblica sventura che priva i giovani di tutti i benefici della più antica (e ascetica e dialet­ tica) pratica della lettura. Spesso in tali valutazioni, al di là dei rilevamenti empirici e dei dati statistici che non vanno comunque sottovalutati, pesa il pre­ giudizio, ben radicato nella storia della cultura occidentale, che col­ lega l'esercizio della visione alle incognite e ai pericoli dell'illusione, dell'inganno, della seduzione. In realtà, leggere e vedere, quand'anche si vogliano, per nobili scopi pedagogici, mettere in contrapposizione, non possono essere intesi in modo tanto semplicistico, attribuendo al secondo termine il significato pressoché esclusivo di «guardare la Tv». U na cono­ scenza anche non particolarmente approfondita di teoria e storia dei media, e delle pratiche sociali connesse, dovrebbe suggerire una

Leggere film e vedere racconti

Lettura e visione

maggior cautela rispetto a tali contrapposizioni manichee, dal mo­ mento che lettura e visione si trovano reciprocamente implicati in vari snodi della nostra storia culturale: basterebbe pensare a quel particolare punto d'incontro rappresentato dalle invenzioni com­ plementari della prospettiva pittorica e della stampa che hanno segnato l'avvento, secondo la ben nota teoria di Marshall McLuhan, dell'uomo «gutenberghiano» (o uom o tipografico)1. Ciò non significa che non si presentino oggi problem i del tutto nuovi che vanno affrontati con nuovi strumenti di indagine e che la diffusione dei media elettronici non stia producendo una sorta di mutazione antropologica che non potrà non avere conseguenze in ambedue quelle pratiche tradizionalmente definite dai termini di lettura e visione, creando nuovi equilibri e nuove realtà. Limitandomi a tenere sullo sfondo una problematica così com­ plessa, in questo capitolo mi occuperò di alcuni aspetti del racconto filmico nelle sue relazioni con quello letterario, cercando di defini­ re in tale contesto l'intreccio delle pratiche, da alcuni considerate contrapposte, della visione e della lettura.

Quale significato attribuire a espressioni come «leggère un film », «,lettura del film » e simili? A un prim o livello tali term ini sono sinonimi di corretta comprensione del significato della successione e combinazione di immagini e suoni; significato che è eminente­ mente narrativo, dal momento che la principale funzione del cinema spettacolare è quella di raccontare una storia. A un secondo livello, «lettura» può significare il riconoscimento degli elementi costitutivi del linguaggio filmico, individuazione corretta delle componenti delle varie materie dell'espressione (elementi visivi, verbali, musicali ecc.) e interpretazione delle rela­ zioni messe in atto attraverso la loro combinazione. La comprensione del film narrativo (primo livello) non com­ porta necessariamente la capacità di descrivere correttamente il procedimento: non occorre certo saper definire con esattezza un primo piano e un campo medio, un piano sequenza e una dissol­ venza incrociata per avere una corretta comprensione di un film narrativo. Tale competenza metalinguistica è invece necessaria per una corretta descrizione degli aspetti tecnico-formali dell'espres­ sione filmica. Si individua, così, un secondo livello di lettura che coincide con l'acquisizione e la corretta utilizzazione di un metalinguaggio adatto a rendere conto dei procedimenti attraverso i quali si attua la strategia comunicativa del film. U n terzo livello riguarda la capacità di individuare le relazioni tra i procedimenti «letti» al secondo livello e la costituzione di un universo narrativo coerente e riconoscibile. U n quarto livello riguarda la capacità di cogliere tutti quegli elementi che, pur non strettamente necessari alla delimitazione del significato narrativo, contribuiscono alla definizione di significati simbolici o secondi (che trascendono, cioè, il significato letterale della narrazione). «Lettura» negli ultimi tre livelli individuati presuppone la capa­ cità o possibilità di ripercorrere in modo rallentato la visione del film, sia idealmente (cioè con il solo ausilio della memoria), sia praticamente attraverso vari strumenti (una sceneggiatura desunta, una visione alla moviola o una copia in videocassetta).

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1. «Lettura» del film L'idea che il cinema costituisca un linguaggio dotato di tratti specifici e di tratti comuni con altri linguaggi espressivi è nata e si è sviluppata seguendo un andamento parallelo alle fortune del ci­ nema nella vita culturale e sociale. Corollari di quest'idea sono le metafore di «lettura» e «scrittura» (lettura di un film, scrittura filmica) che hanno conosciuto alterne fortune secondo le differenti accentuazioni della natura di «linguaggio» del cinema fatte in sede teorica. La metafora «scrittura filmica» si è sviluppata a contatto con determinate teorie semiologiche e filosofiche diffuse in Francia negli anni sessanta12, quella di «lettura» ha avuto una diffusione più ampia ed è attestabile anche in altri contesti culturali. 1 M arshall M c Lu h a n , La galassia Gutenberg. Nascita dell'uomo tipografico, Armando, Roma 1976. 2 Si veda G ianfranco Bettetini, Cinema: lingua e scrittura, Bompiani, Milano 1968.

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Leggere film e vedere racconti

Prendiamo ora, come esempio sul quale verificare l'esistenza dei diversi possibili livelli di lettura, l'incipit di un celebre film di Hitchcock, Rebecca, la prima moglie (.Rebecca, Usa 1940). Suppo­ niamo di avere appena rivisto i prim i tre minuti di proiezione. U n qualsiasi spettatore interpellato sarà in grado di fornire una sintesi di questo tipo:

Prendendo spunto da un sogno recente in cui le è sembrato di rivisitare il castello di Manderley ormai in completo abbandono, la protagonista rievoca il suo primo incontro con l'uomo che diven­ terà suo marito e assieme al quale vivrà l'inquietante vicenda che sta per esserci svelata. U na lettura di questo tipo com porta la capacità di collegare correttamente la successione e la combinazione di elementi visivi e sonori e di rendere espliciti alcuni nessi che nel film sono impliciti. Si tratta di una capacità minima di lettura al di sotto della quale non c'è comprensione del racconto filmico. Prefiguriamo un secondo livello che dia conto in modo anali­ tico delle successioni schermiche e delle combinazioni che sono state messe in campo per produrre i significati individuati al prim o livello di lettura.

Dopo i titoli di testa, un'inquadratura fissa ci mostra la luna piena, alta nel cielo attraversato da nuvole cupe che finiscono per co­ prirla. Una musica romantica, già iniziata durante i titoli di testa, ac­ cresce l'atmosfera di vibrante attesa. Una dissolvenza incrociata introduce l'inquadratura del cancello chiuso di un parco, mentre una voce femminile comincia a recitare fuori campo il seguente monologo: «La scorsa notte ho sognato di es­ sere tornata a Manderley. Mi sembrava di essere ferma davanti al cancello che chiude il viale e di non poter entrare da non so quanto tempo, perché il passaggio mi era sbarrato. Poi, come accade nei so­ gni, a un tratto mi sentii in possesso di poteri soprannaturali e attra­ versai come un fantasma le sbarre che mi erano davanti». In sincronia con quest'ultima frase, la macchina da presa inizia un movimento in avanti (carrellata in avanti) che dovrebbe dare l'illu­ sione di un corpo smaterializzato che attraversa le sbarre.

Lettura e visione

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Il movimento di macchina prosegue poi lentamente lungo un sentiero tortuoso invaso da una vegetazione selvaggia, mentre la voce narrante prosegue fuori campo: «Il viale si snodava davanti a me con le sue curve tortuose, come una volta. Mano a mano che avanzavo, mi accorsi che v'era qualcosa di mutato. La natura aveva ripreso quello che le apparteneva e a poco a poco aveva invaso il viale con lunghe dita tenaci. Sempre più addentro si insinuava il libero sentiero che una volta era stato il nostro viale. Finalmente arrivai a Manderley». Su quest'ultima frase si conclude il lungo movimento di mac­ china con un'inquadratura d'insieme del castello diroccato in contro­ luce. In perfetta sincronia con l'andamento della voce off si nota, gra­ zie a un quasi impercettibile cambio di inquadratura, un mutamento di luce determinato dal movimento delle nuvole in cielo che così viene segnalato dal testo verbale: «A Manderley, segreto e silenzioso, il tempo non era riuscito a sfigurare la perfetta simmetria delle sue mura. Il chiaro di luna può giocare strani scherzi alla fantasia. Mi sembrò improvvisamente che giungesse luce dalle finestre. Poi, porta­ ta dal vento, una nuvola coprì la luna e sembrò una mano scura da­ vanti a un volto. L'illusione svanì. Quelle mura mi parvero simili a una conchiglia vuota, in cui non risuonassero più echi di vita passata». Su queste ultime parole riprende il movimento di macchina che, da sinistra a destra, ci fa scoprire lentamente un'ala del castello, fino a fermarsi sul dettaglio di una finestra buia con inferriate...Du­ rante quest'ultimo movimento, la voce così prosegue: «Noi non pos­ siamo tornare a Manderley, ormai è più che certo. Ma talvolta nei so­ gni io rivedo quegli strani giorni della mia vita che per me comincia­ rono sulle rive del Mediterraneo». La voce si interrompe e l'immagine si oscura (dissolvenza in ne­ ro), mentre la musica discreta, che aveva fatto da sottofondo al parla­ to, lascia posto al fragoroso ribollire delle onde che si mescola a un tema musicale che, in crescendo, scandirà la successione delle inqua­ drature del primo segmento del flash-back. In forte angolatura dall'alto verso il basso e con una leggera inclinazione da destra a sinistra, vediamo uno scosceso dirupo a picco sul mare ribollente. Un complesso movimento di macchina, combi­ nazione di una carrellata aerea con una panoramica, ci fa vedere dapprima i flutti marini e poi, con una lenta inversione della dire­ zione, il dirupo dal basso verso l'alto, arrivando infine a inquadrare, in campo lungo, un uomo vestito di nero che sta guardando assorto il

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Leggere film e vedere racconti mare dal limitare della scogliera. In rapida successione si alternano le seguenti inquadrature: primissimo piano dell'uomo che guarda verso il basso; controcampo che ci fa vedere l'uomo di spalle e assieme il mare che egli sta guardando; dettaglio dei piedi; di nuovo il suo volto in primissimo piano frontale. La musica fragorosa, dopo aver toccato il parossismo, si placa e sull'ultimo primissimo piano dell'uomo, in sincronia con il suono acuto di un violino, si alza improvviso il grido di una donna. Stacco. Seguono in rapida successione: inquadratura leggermente inclinata dall'alto che mostra in campo lungo l'uomo e la donna che ha gridato che si guardano; primo piano della donna; controcampo dell’uomo; ancora primo piano della donna che si muove verso l’uomo; campo medio che inquadra i due che si scambiano le seguenti battute: «No! Fermatevi!» «Che diavolo avete da strillare? Chi siete? Mi state spiando?» «Mi dispiace. Non vi stavo spiando. Credevo...» «Potete levarvi! Insomma, perché siete qui?» «Facevo una passeggiata.» «Ah si? Be’ andate a passeggiare altrove e non venite più a gri­ darmi intorno.» Dopo quest'ultima battuta, primo piano dell'uomo che gira lo sguardo inquieto, esita, poi esce di campo: l'inquadratura mostra un paesaggio marino. Una dissolvenza incrociata introduce una visione notturna della costa punteggiata di luci.

La lettura appena prefigurata, che corrisponde grosso modo a quella che tecnicamente si chiama una «sceneggiatura desunta» (anche se qui è stata resa in forma discorsiva, con un minimo di termini tecnici), com porta l'acquisizione di un metalinguaggio non particolarmente complesso che lo spettatore, quello che magari non perde un film di Hitchcock alla Tv, non è tenuto a conoscere, anche se poi è un ottim o giudice, oltre che estimatore, dei procedimenti sopra descritti. Passiamo ora a un terzo livello di lettura che riguarda la rela­ zione tra i procedimenti letti al secondo livello e la costituzione dei significati del prim o livello: si tratta cioè di percorrere analiti­ camente i meccanismi della narrazione audiovisiva e di rispondere alle domande che, in un film al pari che in un romanzo, garanti-

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scono la formalizzazione di un universo narrativo coerente: «chi parla?» e «chi vede?»3. Il prim o segmento, cioè la sequenza del rac­ conto e della visualizzazione del sogno che introduce il flash-back, può essere scomposto in una serie di inquadrature soggettive, inquadrature che vengono designate come appartenenti all'esperienza onirica del soggetto istituito dalla voce narrante (cioè di chi dice «io» negli enunciati della voce o ff che contestualizza le immagi­ ni come soggettive). La simultaneità del racconto e della visione occulta in realtà uno scarto temporale tra l'indefinito qui e ora della voce e il passato prossimo in cui si colloca il sogno («la scorsa notte ho sognato»). Più complessa risulta la definizione dei punti di vista che si in­ trecciano nel secondo segmento. La prima inquadratura che, come visto, comporta un complesso movimento di macchina, ci fa pas­ sare senza soluzione di continuità da una veduta dall'alto sul mare a una, dal basso verso l'alto, sul personaggio maschile. Essa istituisce uno sguardo mobile, identificabile con quello del narratore (il grand imagier, il regista, costruttore e venditore di immagini, secondo un'espressione francese non facilmente traducibile, tornata in auge nella recente letteratura teorica), che domina e collega vari elementi della scena e che può anche fingere di occultarsi e mettersi da parte: è quanto accade con l'inquadratura del personaggio ma­ schile che contestualizza come visione soggettiva del protagonista i flutti che abbiamo appena visto. L'inquadratura successiva, da die­ tro le spalle dell'uomo, che in gergo si chiama «visione con», è un modo per contestualizzare ancor più esplicitamente la soggettività della visione (anche se lo sguardo che la istituisce come tale può appartenere al solo narratore). 3 Per una corretta impostazione del problema in narratologia, si vedano

G érard G enette , Figure III 11 discorso del racconto, Einaudi, Torino 1976 (ed. orig. 1972) e Id., Nuovo discorso del racconto, Einaudi, Torino 1987 (ed. orig. 1983). Per un panorama dei tentativi di applicazione al cinema dei modelli di Ge­ nette, si rimanda a Lorenzo C u c cù e Augusto Sa inah (a cura di), Il discorso del film. Visione, narrazione, enunciazione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1987 e Seymour Chatman , Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nelfilm , Pratiche, Parma 1981 (ed. orig. 1978).

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Questo sincretismo (o confusione, commistione) di punti di vi­ sta del narratore e del personaggio ci dice ben poco, anzi nulla, su cosa passi per la mente dell'uomo: ci dice cosa vede, ma non cosa pensa o cosa sta per decidere (possiamo fare ipotesi che lo sviluppo del racconto confermerà, smentirà o lascerà tali). Le inquadrature successive introducono un altro punto di vista, quello del personaggio femminile. Il prim o piano della donna, che compare subito dopo che abbiamo sentito il suo grido, integra sul piano visivo (espressione angosciata) la sua reazione emotiva alla scena che abbiamo appena visto (un uom o sull'orlo della scogliera) e che così viene, a posteriori, ricontestualizzata come soggettiva. In questo modo il narratore riconduce ciò che abbiamo finora visto al punto di osservazione della donna, facendoci inferire anche ciò che pensa: quell'uomo sta per suicidarsi e bisogna fermarlo. L'uom o reagisce in modo brusco all'intrusione, senza però smentire né confermare l'ipotesi della donna. Risulta che la focalizzazione può essere definita al negativo, in quanto stabilisce il limite di inform a­ zione che il narratore decide di non farci valicare, prendendo come punto di riferimento il sapere di un personaggio. D ire che il rac­ conto è focalizzato su un personaggio non significa sapere tutto ciò che egli sa o pensa, o vedere il mondo attraverso i suoi occhi, ma non sapere più di quanto egli sappia circa lo sviluppo della vicenda. Come questo segmento, anche l'intero film è focalizzato sulla donna. Ciò significa che il narratore non ci fa sapere più di quanto la donna sa o crede di sapere. N on è escluso però che, come abbia­ mo visto nei segmenti analizzati, possano parzialmente essere assunti punti di vista diversi (ci sono, infatti, inquadrature sogget­ tive in cui il soggetto della visione è il personaggio maschile o altre in cui il punto di vista è esterno ad ambedue i personaggi). A dot­ tando la distinzione proposta da Jost tra «focalizzazione» e «ocularizzazione»4, si potrà dire che «ocularizzazioni» multiple (piano percettivo) sono rese funzionali a una focalizzazione unita­ ria del racconto (piano cognitivo).

Questo terzo livello di lettura può apparire astruso e complica­ lo, ma esso non è altro che la formalizzazione del procedimento logico-discorsivo compiuto in tempo reale da uno spettatore qual­ siasi che, come abbiamo visto, accede con assoluta facilità al prim o livello di lettura. Esiste, poi, un quarto livello che individua le accentuazioni formali, cioè i diversi gradi di funzionalità che caratterizzano il rapporto tra procedimenti tecnico-formali e progressione del rac­ conto. In questo caso, il fatto che l'avvio del racconto sia determi­ nato da un sogno e che il prim o evento (l'incontro dei due prota­ gonisti) avvenga all'insegna di un «equivoco non del tutto risolto» (la donna dà un'interpretazione degli atteggiamenti dell'uomo che non solo genera in lei una grande angoscia, ma che non viene del tutto smentita dalla brusca reazione di quello) acquista un partico­ lare rilievo in seguito alle soluzioni tecnico-formali adottate dal regista. Se il significato letterale dell'enunciato narrativo ci mostra che l'equivoco è risolto, le accentuazioni formali producono una situazione di «indecidibilità» che può essere assunta come la «forma simbolica» dell'intero film. Giostrando le inquadrature in modo da accentuare l'ambiguità e l'incertezza circa la situazione e le reali intenzioni dei personaggi (in questo caso del personaggio maschile riguardo al quale non sappiamo più di quanto sappia la protagoni­ sta), Hitchcock dilata e sovraccarica le varie situazioni m olto più di quanto non sia richiesto dalle esigenze del racconto (tanto è vero che il prim o livello di lettura, quello che, come si dice comune­ mente, individua la trama, non coglie questi aspetti che, quindi, possono risultare inessenziali per la comprensione della storia). In questo modo Hitchcock fa qualcosa di più che raccontare una storia, in quanto finisce per esprimere idee che dipendono m olto più dallo stile figurativo e narrativo adottato, che da ciò che viene raccontato. Introducendo il racconto attraverso un sogno, egli mette lo spettatore in una situazione di indecidibilità circa lo statuto reale o immaginario di ciò che gli viene presentato. Nell'incipit la voce fuori campo attribuisce a una forza sopranna­ turale il procedimento, assai comunemente usato nel cinema reali-

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4 F rançois J ost , Narrazione(i): al di qua e al di là, in discorso delfilm cit., pp. 61-66.

Cuccù e Sainati, Il

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stico, di attraversamento da parte della cinepresa di un ostacolo quale un'inferriata, una cancellata ecc. (tutto ciò fa parte delle pre­ rogative del narratore onnisciente). Da questo momento in poi il più comune procedimento filmico, anche il più grammaticalizzato, viene caricato di una duplice valenza: lo spettatore, come la prota­ gonista, vive in una situazione di incertezza circa la natura (reale o onirica, spiegabile razionalmente o inesplicabile) di quanto accade. Inoltre, ponendo il prim o incontro tra l'uom o e la donna all'in­ segna dell'equivoco solo in parte fugato (segni interpretati come inquietanti dalla donna vengono ricondotti a una dimensione appa­ rentemente normale dall'intervento brusco e autoritario del prota­ gonista), Hitchcock ci dà il tema di cui il film presenterà una serie di variazioni (come una sinfonia presenta nelle prime battute il tema che sarà poi riproposto e variato nello sviluppo dei vari tempi). I significati rinvenibili a questo livello dipendono dalle configurazioni tecnico-discorsive individuate nei precedenti livelli (il secondo e il terzo del nostro percorso) ma eccedono la loro funzione puramente narrativa, vale a dire la produzione di quegli enunciati narrativi individuati nel prim o livello di lettura. Pensiamo all'ultima recensione cinematografica che abbiamo letto. Ci accorgeremo probabilmente che nel discorso del nostro critico preferito si mescolano il prim o e il quarto livello di lettura. La critica cinematografica è solita alternare notizie riguardanti la storia raccontata dal film a valutazioni che possono rientrare nel quarto livello, ma che il più delle volte possono riguardare elemen­ ti eterogenei del film: significato morale o sociale dell'opera, reali­ smo e plausibilità delle situazioni o della recitazione, originalità del racconto, qualità tecnica degli effetti. N on rientra tra i suoi scopi quello di interrogarsi sui meccanismi di produzione del senso, anche se è chiamata a valutarne gli effetti. L'esigenza di uno studio sistematico dei meccanismi di produ­ zione di senso è emersa, sia per il cinema sia per la letteratura, in settori specialistici della ricerca, anche se l'oggetto di tali indagini riguarda aspetti comunissimi dell'esperienza del lettore e dello spettatore (i quali non necessariamente ne hanno coscienza).

U n notevole impulso a questo tipo di ricerche in campo cine­ matografico è venuto dalla semiotica, cioè dalla scienza dei segni che studia i meccanismi di produzione e ricezione dei significati, anche se tali problemi sono stati al centro di ogni riflessione sul cinema precedente o parallela agli sviluppi di una metodologia semiotica. In tutti i casi, fatta in modo impressionistico o sistematico, l'in­ terpretazione del complesso flusso di significati trasmesso da un film comporta un'attività5*che non ha nulla da invidiare all'attività necessaria per l'interpretazione di un testo di narrativa letteraria. La differenza tra la recensione giornalistica di un film e un percorso organico dei differenti livelli di lettura sta nel fatto che la prima riferisce sui risultati e li giudica da un punto di vista estetico o ideologico, mentre il secondo ripercorre i meccanismi attraverso i quali il testo si costituisce. Differenze analoghe si possono riscontrare tra la recensione giornalistica di un romanzo e u n ’analisi particolareggiata delle sue strutture narrative. Q uest'ultim a non differirà di m olto da un'ana­ lisi del testo filmico quale abbiamo sopra prefigurato. In tempi recenti, anzi, nello studio della narrativa cinematografica e lettera­ ria si sono registrate una certa confluenza di interessi e comple­ mentarità delle indagini. Questo avvicinamento è stato favorito dallo sviluppo della narratologia (o semiotica della narratività), disciplina che si propone di studiare le regole di costituzione del racconto, indipendentemente dalla materia dell'espressione in cui esso si manifesta. In questo ambito si è affermata una prospettiva unitaria, dalla quale vengono impulsi a superare divisioni tra lettu­ ra e visione. T utto ciò non è senza problemi. Una netta contrappo­ sizione tra lettura e visione, cioè tra sistemi comunicativi basati sul­ la scrittura lettura e sui media visivi, è ampiamente in vigore, sia in vari settori culturali, sia in specifici ambiti disciplinari. Da una parte i media audiovisivi vengono visti come una costante minaccia

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5 Sulla lettura come attività (in contrapposizione alla pura e semplice operazione del leggere), si veda Roland Barthes e An toine C ompagnon , «Lettura», in AA. W . , Enciclopedia,Einaudi, Torino 1979, voi. 8, pp. 176-99.

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che incombe sui valori, sui modelli conoscitivi e sulle pratiche so­ ciali connesse all'universo della scrittura-lettura; dall'altra si tende a sottolineare appunto la differenza, sia in termini quantitativi che qualitativi, dei due differenti processi. Fin qui abbiamo usato il termine «lettura» in un'accezione ab­ bastanza diffusa, ma senza porci alcun interrogativo circa la legit­ timità e i fondamenti di questa metafora, attribuendo al termine il significato di traduzione in forma verbale ora degli effetti di senso prodotti dai due segmenti di film presi ad esempio, ora dei proce­ dimenti con cui tali effetti sono stati ottenuti. E arrivato il momento di addentrarci un po' più a fondo nei problemi connessi con la convivenza di due differenti regimi (quello della visione e quello della lettura) nelle diverse forme del fatto narrativo. 2. Leggere o vedere? Molto tempo è passato e molte cose sono accadute da quando Kellogg e Scholes, a conclusione di un loro suggestivo e documen­ tatissimo studio sulla «natura della narrativa», si chiedevano se la narrativa in libri, a causa delle crescenti fortune del cinema e della Tv, non fosse destinata a decadere progressivamente al rango di «arte rara e minore»6. Ciò che Kellogg e Scholes paventavano si è realizzato? Da una parte c'è chi, non senza qualche accento trionfalistico, parla di una civiltà della scrittura che ha ormai toccato il suo punto di catastrofe e vede nella produzione seriale televisiva l'espressione di un nuovo immaginario. Altri, invece, denunciano in term ini apocalittici i risultati di una progressiva riduzione della spazio della parola scritta, dell’interazione verbale, della lettura dovuta principalmente a una smisurata dilatazione dei media visivi7.

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Ai trionfalistici cantori delle sorti meravigliose e progressive dei media elettronici si potrebbe ricordare che McLuhan, che dopotut­ to è stato uno dei più convinti assertori della nuova cultura medio­ logica, non ha esitato a sostenere che dai media bisogna anche difendersi. Il sociologo canadese paragonava l'inquinamento dei inedia all'inquinamento atomico e riteneva che fosse compito della scuola adottare sistemi di difesa adeguati, anche se doveva ammet­ tere che la scuola era attrezzata per un solo medium, ignorando tutti gli altri8. D 'altra parte, agli apocalittici che paventano la fine della civiltà della lettura, si potrebbe ricordare che ci sono stati tempi non lon­ tanissimi in cui venivano attribuite proprio alla pratica della lettura colpe assai simili a quelle che oggi si attribuiscono agli eccessi di esposizione dei giovani ai media audiovisivi9. Ma al di là di queste o altre obiezioni che si potrebbero fare sia agli spicci liquidatori, sia ai nostalgici cantori della civiltà della lettura, è innanzi tutto la contrapposizione frontale tra lettura e visione che va messa in discussione. Al giorno d'oggi, come del resto in epoche passate cui ci siamo già riferiti, lettura e visione si intrecciano e si rendono in vario modo complementari in diversi e fondamentali momenti della vita culturale. Se oggi l'immagine ha acquistato una preminenza indiscussa, se sono i media audiovisivi a modellare l'esperienza del mondo, ciò non significa sempre e necessariamente una restrizione della pratica della lettura. Senza contare il fatto che la diffusione dei media visivi, già di per se stessa, ha allargato enormemente la sfera dell'esperienza estetica in fasce sociali che in passato ne erano comunque escluse, indipendente­ mente dalla diffusione della pratica della lettura. N on è un caso se il cinema ha avuto un posto centrale nelle ri­ flessioni estetiche di Walter Benjamin, che con grande lucidità e 1986 (ed. orig. 1985).

6 Robert Scholes e Robert Kellogg , La natura della narrativa, Il Mulino, Bologna 1970, pp. 358 sg. (ed. orig. 1966). 7 Oltre a M arie Win n , La droga televisiva, Armando, Roma 1978 (ed. orig. 1977), si può ricordare N eil Postman , Divertirsi da morire, Longanesi, Milano

8 M arshall M c Lh u a n , Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 325 (ed. orig. 1964). C'è da chiedersi se sia davvero cambiata la situazione nella scuola, almeno in quella italiana, da quando il sociologo canadese scriveva queste cose. 9 Si veda Barthes e C ompagnon , «Lettura» cit., pp. 188 sg. e passim.

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con grande anticipo ha compreso i tratti di una rivoluzione dei media che, privando l'arte della sua aura, del suo carattere di ecce­ zionalità e di sacralità, portavano l'esperienza estetica nella vita quotidiana della masse10. Rispetto a quella rivoluzione che trova nella televisione il suo compimento, il cinema appare oggi come un mezzo che conserva forti legami con il testo narrativo scritto e con la testualità in gene­ re. Ciò è dovuto non solo ad aspetti strutturali del cinema, ma anche alle modalità attraverso le quali esso si è storicamente inseri­ to nel sistema delle arti. Potrà essere utile richiamarle sinteticamen­ te, per comprendere le ragioni del suo particolare statuto tra i media contemporanei. Il cinema ha raccolto l'eredità della tradizione narrativa ottocen­ tesca, dopo aver dato un notevole contributo a dissolverla, e, comunque, è vissuto in osmosi con le manifestazioni narrative di questo secolo, sia nelle espressioni popolari sia in quelle in varia misura colte. Il cinema ha sviluppato, a partire dalle sue prim e manifestazio­ ni, una sua autonoma e peculiare tradizione che gli ha permesso di produrre una sua mitologia con radici profonde nell'immaginario collettivo della modernità e con stretti legami con altri media, prim o fra tutti la carta stampata (basti pensare allo stretto legame che si è stabilito tra «best sellers» editoriali e «block busters» cine­ matografici, ma anche tra quelli che, nell'ambito della «mid cult», si chiamano i «casi letterari» e la loro versione cinematografica). Nelle diverse sistematizzazioni del fatto cinematografico tentate in varie aree culturali parallelamente alle diverse fortune del mezzo, si sono accentuati in varia misura i caratteri di relazione o di autonomia della narrazione filmica rispetto alle altre forme di espressione. Si pensi alle varie caratterizzazioni estetico-ideologiche assunte dalla critica cinematografica in Italia, contrassegnate spesso da una forte dipendenza da modelli letterari; o, all'opposto, all'im­ portanza che ha avuto lo studio del cinema nello sviluppo, e nella 10 W alter Benjamin , L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1974 (ed. orig. 1936).

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divulgazione, dei metodi di analisi testuale; o ancora ai rapidi svi­ luppi della storiografia cinematografica, che ha trovato abbastanza presto una sua collocazione autonoma nel sistema culturale. Espressioni come «testo filmico», «analisi testuale del film», «fonte filmica», cioè espressioni che trattano il prodotto cinemato­ grafico in modo analogo a quello letterario, sono da considerare ancora esclusive di settori specialistici. Al contrario, espressioni come «lettura del film», «linguaggio cinematografico», concettual­ mente non molto differenti da quelle sopracitate, sono ampiamente diffuse in ambienti non specialistici, e hanno conosciuto una gran­ de fortuna nell'ambito di esperienze di scolarizzazione del cinema e di educazione permanente, oggi in via di espansione. Nell'uso del termine «lettura», si oscilla da un minimo a un massimo di metaforicità, a seconda che si consideri il testo audiovi­ sivo più o meno vicino a quello verbale. Ci sarebbe m olto da imparare da uno studio analitico dello sviluppo e della fortuna della metafora della lettura applicata al cinema. Q ui ci si limiterà a qualche rapida osservazione. Forse era inevitabile che lo sviluppo del cinema, considerato a torto o a ragione come mezzo di ripro­ duzione della realtà e del mondo, portasse con sé, come corollario, la metafora della leggibilità. Metafora che è appunto vecchia, se non come il mondo, almeno come la scrittura, come il libro11. In tale contesto, si legge il cinema, non come si legge un libro, ma diret­ tamente come si legge il mondo di cui il cinema riproduce, e forse amplifica, il requisito di leggibilità, dando nuova pregnanza a un'antica metafora. Potrebbe sembrare paradossale che la metafora della lettura, e quelle ad essa collegate, abbiano avuto una particolare fortuna in contesti in cui si è particolarmente insistito sulla natura riprodut­ tiva, quindi prelinguistica, del mezzo cinematografico. L’esempio più significativo è dato dagli scritti semiologia di Pasolini: in que­ sto caso l'uso della terminologia linguistico-semiologica è solo un 1* 11 Sulla metafora della «leggibilità» del mondo, si veda l'acuto studio storico-fi­ losofico di H ans Blumenberg, La leggibilità del mondo, Il Mulino, Bologna 1984 (ed. orig. 1981).

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pretesto per dare nuova risonanza all'antica idea di intercambiabi­ lità tra testo e mondo. C'è probabilmente uno stretto legame tra la struggente rievocazione degli albori della civiltà comunale, del mondo che sta in un testo fatta da Pasolini nel poemetto La Guinea e la sua teoria del cinema come «lingua scritta della realtà» formulata nei saggi di Empirismo ereticon . Proprio perché collegate in modo sotterraneo o esplicito, all'an­ tica metafora della leggibilità del mondo, le metafore linguisticoscritturali di questo tipo tendono a svalutare la natura di linguaggio del cinema, il quale dispiegherebbe al meglio le sue potenzialità ed esprimerebbe al meglio la sua essenza non quando esibisce i suoi caratteri di artificio e di convenzione, ma quando sembra restituire allo spettatore l'esperienza di una lettura diretta del libro del mondo, della natura. La metafora della lettura si sorregge in realtà sull'idea della visività, o meglio della visionarietà del cinema che dà accesso alla lettura del mondo. A ll'opposto se ci si riferisce alla semiologia di Barthes, o meglio alla formulazione che essa ha avuto negli anni sessanta, si può notare che il prim ato assoluto che viene dato al codice linguistico riduce di molto la valenza metaforica del termine lettura. Le tesi allora sostenute dallo studioso francese, che influenzarono tutte le prim e teorizzazioni semiologiche e che probabilmente condizio­ nano ancor oggi molte semiotiche contemporanee, sono sintetizza­ bili in questo modo: i cosiddetti segni non verbali si organizzano in sistema solo attraverso la mediazione di una lingua; di qui il pro­ getto di una semiologia come provincia della linguistica e di qui tutte le analisi proposte da Barthes (sulla pubblicità, sulla moda, sulla pittura e sullo stesso cinema) tese a dimostrare che la «civiltà dell'immagine» continua a essere più che mai «civiltà della parola»13.

In questa prospettiva, l'uso della terminologia linguistica, sia in senso proprio sia in senso metaforico, trova la sua giustificazione in una sorta di condizionamento assoluto che il sistema linguistico esercita su ogni processo di comunicazione, anche quando sia basato per lo più su materie dell'espressione diverse dalla lingua. L'assunzione del modello linguistico, una volta stabilita l'im ­ possibilità di fissare corrispondenze tra le unità minime della lingua e del cinema, cioè grosso modo tra i fonèmi e le inquadrature o gli oggetti compresi nelle inquadrature, ha poi indotto alcuni a studia­ re le forme di concatenazione tra inquadrature. A queste concatenazioni Metz ha dato il nome di «grande sin­ tagmatica del film narrativo»14. Di cosa si tratta? Semplicemente, di una classificazione delle possibili combinazioni tra inquadrature: dalla singola inquadratura fissa alla rapida successione tra inquadra­ ture che mostrano gli inseguiti e quelle che mostrano gli inseguitori nei coinvolgenti finali «alla Griffith», o alla successione di inqua­ drature che in rapida sintesi ci mostrano l'irresistibile ascesa di una cantante attraverso i più celebri teatri del mondo. Si tratta insotnma di uno studio del codice del montaggio cine­ matografico, punto di partenza per la lettura di una più complessa rete di codici. Metz passa infatti rapidamente a considerare il film come testo nel quale si intrecciano codici eterogenei (specifici e non specifici) che producono combinazioni che di volta in volta biso­ gna saper cogliere. In sintesi, la lettura del film si sposta dall'indi­ viduazione di regole generali (i codici) alla ricerca delle particolari combinazioni secondo regole che ogni film si dà (il testo filmico)15. Il cinema non è però solo linguaggio che posso studiare nella singolarità dei testi in cui si manifesta, il cinema è anche disposi­ tivo, è anche istituzione. A questo livello non è più in gioco il solo linguaggio, ma entrano in campo i soggetti sociali della comunica-

12 P ier Paolo Pasolini, Le poesie, Garzanti, Milano 1975, pp. 328-36 e Id., Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1973 (su questi temi si veda il capitolo dedicato a Pasolini in questo stesso libro). 13 Alcuni dei principali saggi di Barthes sui «linguaggi non verbali» (pubblicità, pittura, cinema) sono ora raccolti nel volume L'ovvio e l'ottuso, Einaudi, Torino 1985 (ed. orig. 1985).

14 Christian M etz, Semiologia del cinema, Garzanti, Milano 1972 (ed. orig. 1968). 15 Per una significativa documentazione del passaggio dalla semiotica del codice alla semiotica del testo, si veda P aolo M adron (a cura di), L'analisi del film. Pratiche, Parma 1984.

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zione (il cinema come industria, lo spettatore come soggetto psico­ logico, come consumatore di immaginario, come prodotto stori­ co). La lettura diventa individuazione dei «rapporti di produ­ zione», dei «regimi percettivi». Insomma, il problem a del linguag­ gio si incontra con quello della produzione economica (economia politica) e della produzione simbolica (psicologia del profondo)16. L'approccio al cinema come dispositivo e come istituzione, forse perché legato a un progetto totalizzante tipico di certa cultura degli anni settanta, in cui il problema della lettura del film sconfi­ nava rapidamente con quello della leggibilità del mondo, ha cono­ sciuto la crisi dei modelli totalizzanti cui si ispirava. Più fortuna hanno avuto le concezioni del testo come intreccio di codici speci­ fici e non specifici, del ruolo dello spettatore imperniato sulla coo­ perazione interpretativa, sulle relazioni tra comunicazione filmica e altre forme di comunicazione contigue, parallele17. In questi contesti di ricerca, si tende a individuare le aree di in­ terazione tra universo della lettura e universo della visione. Ed è per questo che ad essi guarda con particolare interesse chi cerca di evitare o di superare certe contrapposizioni tanto schematiche quanto improduttive.

Sotto l'influsso del già citato Figure III di Genette, che viene ormai considerato il punto di riferimento creila contemporanea narratologia letteraria, si sono sviluppati interessanti tentativi di applicazione al cinema di una problematica narratologica. Si pos­ sono ricordare, in particolare, i lavori dell'americano Seymour Chatman e del francese François Jost, che si muovono in una pro­ spettiva di narratologia comparata19. In questa prospettiva, si lascia da parte il criterio genericamente comparativo che, come avevano fatto i formalisti russi, aveva per scopo l'affermazione dell'artisti­ cità del cinema sulla base dell'analogia tra i suoi procedimenti e quelli della letteratura. E, allo stesso modo, si rinuncia all'esigenza di definire i tratti specifici del linguaggio cinematografico. L'obiet­ tivo è, piuttosto, quello di approfondire e affinare la teoria generale della narrazione attraverso un approccio comparato alle due forme espressive. Lavorando sulle strutture profonde della narrazione, è possibile individuare un comune terreno di indagine e una comune proble­ matica. Ad esempio, se i personaggi vengono indagati non tanto nelle loro caratteristiche psicologiche o esteriori o sociali, ma in base alle funzioni che svolgono nello sviluppo del racconto, e sono pertanto trattati come funzioni narrative, diventa indifferente che il testo analizzato sia cinematografico o letterario. Lo stesso si può dire per i modi di implicazione del racconto, vale a dire per lo stu­ dio dei rapporti che si stabiliscono tra segmenti successivi (rapporti cronologici, causali ecc.). N é diversamente vanno le cose, per dare un altro esempio, nella trattazione del punto di vista o

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3. Vedere racconti e leggere im m agini Forse è proprio perché assicura (o promette) solidi agganci tra l'universo dell'espressione letteraria e quello dell'espressione filmi­ ca, con prospettive di fruttuose applicazioni in sede didattica, che l'approccio narratologico ha conosciuto notevole fortuna, anche al di fuori degli ambienti strettamente accademici18. 16 Si veda Christian M etz, Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Marsilio, Venezia 1980 (ed. orig. 1977). 17 Oltre alle già citate antologie di C u c c ù e Sainati e di Madron , che do­ cumentano l'evoluzione avvenuta in questa direzione nell'area francese, si vedano, per la ricerca in Italia, Gianfranco Bettetini, La conversazione audiovisiva, Bompiani, Milano 1984 e F rancesco C asetti, Dentro lo sguardo, Bompiani, Mi­ lano 1986. 18 Per quanto riguarda la narratologia letteraria, si veda la chiara ed efficace

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esposizione di Angelo M archese, L'officina del racconto, Mondadori, Milano 1983. Per il cinema, anche in Italia, sia pure in misura minore che in Francia, si è sviluppata un'editoria di divulgazione in questo settore, indirizzata prevalente­ mente a un pubblico scolastico. Si vedano, ad esempio, i tre volumi della serie «Cinema e racconto»: G iorgio Cremonini, L'autore, il narratore, lo spettatore-, Dario T omasi, Il personaggio-, G iulia C arluccio , Lo spazio e il tempo, Loescher, Torino 1988; oppure, il più recente Francesco C asetti e F ederico di C m o, L'analisi delfilm , Bompiani, Milano 1990. 19 C hatman , Storia e discorso cit. e François J ost , L 'oeil-caméra. Entre film et roman, Presses Universitaires de Lyon, Lyon 1987.

Leggere film e vedere racconti

Lettura e visione

focalizzazione, cioè nella definizione del punto di osservazione assunto dal narratore per raccontare una scena o un'intera vicenda: si tratta in effetti di problemi che narrativa letteraria e narrativa cinematografica hanno in comune, in quanto riguardano quello che nella linguistica hjelmsleviana e nelle semiotiche del cinema da essa derivate (quella di Metz, ad esempio) investono i piani della mate­ ria (o sostanza) e delle forme del contenuto (o significato), piani che la narrativa letteraria e cinematografica hanno in comune, men­ tre differiscono per le diverse materie e forme dell'espressione (o significante)20. Sul versante cinematografico, questioni ben note e approfondite con varie metodolologie dalla teoria e dall'analisi del film, quali l'organizzazione dello spazio o il ruolo della soggettività dentro e oltre gli aspetti riproduttivi della tecnica cinematografica, possono trovare, grazie all'approccio narratologico, una riformulazione in una prospettiva unitaria e, al tempo stesso, incentrata sulla narrativita, cioè su uno degli aspetti di maggior rilievo sul piano della fruizione. Certo, la narratività non esaurisce l'espressione filmica né è sufficiente a comprendere tutti gli aspetti dell'enorme influenza che il cinema ha esercitato e esercita sul piano sociale e comportamentale. Ma è pur sempre attraverso lo studio delle strut­ ture narrative che si possono comprendere i meccanismi più com­ plessi ed efficaci di organizzazione, attivazione e potenziamento di tutti gli aspetti, o almeno di molti, della rappresentazione filmica. Sul versante letterario, poi, l'approccio narratologico ha il meri­ to di evidenziare l'im portanza delle dislocazioni spazio-temporali che regolano i rapporti tra narratore e personaggi, tra narratore e storia raccontata: si pensi alle implicazioni della problematica del punto di vista che ha un posto centrale nella contemporanea rifles­ sione narratologica21.

N on è difficile comprendere le ragioni del successo dell'approc­ cio narratologico, soprattutto in sede di applicazione didattica, dove viene inteso come metodo di iniziazione a\Y attività di lettura, nel senso più ampio e integrale secondo le già ricordate indicazioni di Barthes. Si tratta di un metodo che permette di penetrare nei meccanismi attraverso cui riusciamo a vedere racconti e leggere im ­ magini, di comprendere le ragioni profonde della convivenza di due istanze integrate e complementari, la visiva e la narrativa, nelle diverse forme in cui si rinnova la fortuna dell'arte del racconto. Con l'espressione vedere racconti si allude alle varie forme di implicazione del visivo nella narrativa letteraria che sono ben note e da tempo oggetto di indagini e riflessioni. Il più scarno ed essen­ ziale degli enunciati narrativi viene dal lettore trasformato in scena. Questo procedimento può essere interpretato in vari modi. Lo si può intendere come attività di cooperazione interpretativa, secon­ do la definizione di Eco, che chiama in causa l'insieme delle «sceneggiature iconiche» (o «sceneggiature intertestuali»)22. Questo significa che, quando leggiamo, tendiamo a sceneggiare, a visualiz­ zare, a collocare in determinati scenari gli eventi narrati, secondo il più o meno ampio repertorio di stereotipi che abbiamo a disposi­ zione e con il quale colmiamo sottintesi, silenzi e lacune del testo narrativo. Le competenze intertestuali del lettore d'oggi sono in realtà intermediali·, durante la lettura vengono, cioè, attivati model­ li figurativi appresi e interiorizzati attraverso il cinema, la televi­ sione, il fumetto, con effetti di risonanza che agiscono sul lettore, ma che prima ancora possono aver agito sullo scrittore23. Oltre agli effetti visivi impliciti, risultato dell'attività coopera­ tiva del lettore, ci sono effetti che vengono esplicitamente perse­ guiti dal tessuto stesso della narrazione. Questo non vale solo per certe correnti della narrativa del Novecento (come «l'école du re­ gard» o certi testi di Calvino o, su un altro versante, lo «hard boi­ led novel»), ma anche e soprattutto per il romanzo ottocentesco, e non solo per l'importanza che in esso acquistano i procedimenti

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20 Si veda, a questo proposito, Francis Vanoye , Récit écrit, récit filmique, Nathan, Paris 1988, pp. 41-43. 21 Si veda P a o la P u g lia to , L o sguardo nel racconto, Zanichelli, Bologna 1985.

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22 U mberto E c o , Lector in fabula, Bompiani, Milano 1989, p. 81. 23 Sull'effetto rebound si veda G enette , Nuovo discorso del racconto cit., p. 62.

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descrittivi. «Effetti di visione» sono il risultato di una precisa strategia testuale in relazione ai problem i di prospettiva, distribu­ zione del sapere ecc., in forme che siamo soliti considerare come tipiche dei moderni media visivi (e della narrativa che a quelli deve qualcosa o più di qualcosa) e che invece sono già perfettamente padroneggiate nella grande tradizione narrativa dell'Ottocento. Nei romanzi di Balzac si possono trovare numerosissimi esem­ pi. Prendiamone uno da La recherche de l'absolu: «Quella scena l'aveva resa bella come una giovinetta, e di tutta la sua persona il marito non vedeva che la testa, sopra una nuvola di mussola e mer­ letti»24. Niente di più ovvio, per un lettore odierno, che «tradurre» questo breve passo in un'inquadratura soggettiva in primissimo piano. In realtà, il narratore non ha fatto che alludere a una mo­ mentanea restrizione del campo visivo del personaggio, determi­ nata dalla sua posizione e resa più evidente dalla sua situazione psicologica. O ltre tutto, il fatto che in questo caso il narratore assuma momentaneamente il punto di vista del marito non intacca minimamente la focalizzazione dell'intero romanzo sul personag­ gio femminile (è un po' lo stesso meccanismo individuato sopra in Rebecca di Hitchcock). È tutt'altro che insolito trovare nella letteratura critica odierna esempi di impiego di una terminologia cinematografica per descri­ vere gli effetti di visualizzazione prodotti da un testo letterario. Ci si può così imbattere in Um berto Eco che analizza la famosa de­ scrizione di apertura de Ipromessi sposi nei termini di un complesso movimento di zoom 25 o in un Gerard Genette che ci intrattiene in tutta tranquillità sul «procedimento di carrellata in avanti del ro­ manzo batacchiano»26. Per non parlare di un pregevole saggio di

narratologia letteraria di Paola Pugliatti, che abbiamo già citato, nel quale i vari tipi di narrazione sono classificati, a volte senza neppu­ re ricorrere alle virgolette, con la nomenclatura televisiva della «presa diretta», «presa diretta simulata», «differita»27*. Naturalmente, nessuno degli autori citati ha la minima inten­ zione di sostenere che Manzoni ha inventato lo zoom, Balzac il travelling o che H enry James o James Joyce hanno aperto la strada ai «programmi contenitore» della Tv. Ricorrendo a una term inolo­ gia che chiama in causa le competenze intermediali di un moderno lettore-spettatore, il critico non fa altro che usare un espediente di grande efficacia espositiva. Ciò di cui gli scrittori analizzati ci par­ lano è l'universo delle relazioni spaziali (distanza, prossimità, allar­ gamento o restringimento del campo visivo ecc.) esperite ed espres­ se secondo le modalità della percezione visiva e riferite a soggetti della percezione, concreti o ideali, dotati di mobilità, reale o virtua­ le. In questo caso, vedere racconti non significa solo cogliere l'insieme delle relazioni spaziali espresse attraverso le formalizza­ zioni proprie degli enunciati linguistici, ma anche coglierle secondo i modelli dei linguaggi audiovisivi (insomma, in tutti i tempi i lettori hanno «visto» ciò che veniva loro raccontato; il lettore odierno «vede» secondo un modello cinematografico o televisivo). Inversamente, diremo che leggere immagini significa tradurre in termini di coerenza logico-discorsiva l'universo delle relazioni spa­ ziali attualizzate dal film. In simmetria con quanto esposto sopra, si potrà affermare che la più elementare e banale inquadratura cine­ matografica viene dallo spettatore «tradotta» in un enunciato narra­ tivo, o integrabile in una catena di enunciati narrativi. U n limite dell'approccio narratologico, sul quale grava l'ipotesi della sua origine linguistica, sta nella possibilità di dare l'illusione di una assoluta intercambiabilità dei piani (narrativo e figurativo). L'analisi dell'universo figurativo non può essere ridotta a una sorta di analisi grammaticale e logica degli enunciati narrativi.

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H o n o r é de B a lz a c , La ricerca dell'assoluto, Garzanti, Milano 1975, p. 70

(ed. orig. 1834). 25 U m berto E co, Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano 1985, p. 253. 26 G e n e tte , N uovo discorso del racconto cit., p. 59. A questo proposito c'è da segnalare il recente studio di A nne -Marie Baron , Balzac cinéaste, Méridiens Klincksieck, Paris 1990, nel quale viene studiata la forte caratterizzazione visiva de

La comédie humaine, che permette di individuare una complessa tecnica di gestione di punti di vista mobili, attribuiti o meno ai personaggi coinvolti nell'intrigo, tale

da far pensare a tutti i principali procedimenti che saranno successivamente in uso nella narrazione cinematografica. 27 P u g lia tti, L o sguardo nel racconto cit., passim.

In realtà, bisognerebbe saper attenersi al principio, spesso for­ mulato e ancor più spesso dimenticato, che «la narrazione non esaurisce l'immagine, così come l'immagine non esaurisce la narra­ zione»28. Certo, è im portante verificare la traducibilità in enunciati narrativi delle relazioni espresse dall'universo figurativo (o meglio audiovisivo) e sviluppare tutta la relativa problematica già profi­ cuamente indagata dalla narratologia letteraria. N on meno im por­ tante, però, è la comprensione del ruolo e del grado di interferenza che aspetti visivi hanno nella produzione degli enunciati narrativi. Per riprendere il problema della focalizzazione del racconto, cui ci siamo già riferiti con l'esempio di Rebecca, la combinazione di inquadrature che ci permette di definire la focalizzazione produce effetti rallentanti, depistanti, apre spazi di incertezza, di ambiguità. È in questa dimensione, in cui l'immagine ha una relativa autono­ mia ed esprime una sorta di spinta centrifuga rispetto alla chiusura di senso propria della narrazione, che è possibile individuare un insieme di significati simbolici o secondi che «eccedono» il signifi­ cato letterale degli enunciati narrativi. N é di m inor im portanza è il rapporto che si stabilisce tra la dimensione sonora e quella visiva. Il fatto che all'inizio del film la voce narrante sia collocata fuori campo (in altri termini, che l'immagine non mostri il volto di colei che parla) determina una serie di effetti di importanza fondamen­ tale, come dimostrano gli studi di Michel Chion, sul suono «acusmatico», cioè sul suono percepito senza vedere la fonte29. L'approccio narratologico, pur nella specificità del suo oggetto che è la narratività e non il film nel suo complesso, dovrebbe por­ tare a esaltare e a definire con esattezza questa dimensione e non a comprimerla o negarla. Gianfranco Bettetini richiama opportuna­ mente l'attenzione sui pericoli di un'applicazione meccanica ai testi audiovisivi di modelli elaborati per l'analisi di messaggi verbali e basati esclusivamente sugli aspetti informazionali e di puro scam­ bio comunicativo: 28

L o re n z o C u ccù , Dalla parte della visione, in C u c c ù e S ain ati, Il discorso

delfilm eie., pp. 32 sg. 29

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M ich el C hion, La voce nel cinema, Pratiche, Parma, 1992 (ed. orig. 1982).

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La comunicazione del cinema e della televisione (ma anche del­ la radio) si immiserisce, se viene fatta rientrare nelle categorie dell'in­ formazione del senso verbalizzabile e, quindi, nelle categorie della testualità che ne derivano. L'immagine ha i suoi diritti, e sono diritti che vanno al di là dei limina posti dalla concezione verbale della testualità30. Allo stato attuale della semiotica dei linguaggi non verbali, una dichiarazione del genere è più una petizione di principio che una effettiva acquisizione. L'aspetto più importante non va comunque visto nel timore di una riduzione alle categorie del senso verbaliz­ zabile. Nessuno, credo, vagheggia un fondo o un residuo di sostan­ za inanalizzabile che sfugga alla possibilità della verbalizzazione, cioè della comprensione e dell'interpretazione: fuori delle categorie del senso verbalizzabile, c'è solo l'ineffabile, ciò che, alla lettera, non è dicibile. Altra cosa è prendere le distanze, come del resto fa Bettetini, da una concezione verbale della testualità. Ciò che viene messo in discussione non è tanto la traducibilità del visibile in enunciati narrativi, quanto la pretesa di esaurirlo entro tali limiti. È indubbio che esistono diverse gradazioni di traducibilità del film in termini di enunciati narrativi. Ci sono periodi della storia del ci­ nema in cui questa traduzione risulta quanto mai agevole ed esau­ stiva, in quanto c'è una rigorosa funzionalizzazione di tutti gli elementi espressivi a un principio di economia narrativa; e altri al contrario in cui tale traducibilità è minima o addirittura al limite dell'impossibile. Certo, il problema del rapporto tra il «visibile» e Γ«enunciabile» ha implicazioni che vanno al di là delle questioni poste dai rapporti tra testualità verbale e testualità filmica e che investono i fondamenti epistemologici delle scienze umane, come mostra il filosofo Deleuze occupandosi di un cinema della «disgiunzione parlare-vedere» le cui espressioni più compiute ven­ gono individuate in un cinema volutamente «antinarrativo», come quello di Straub e Huillet, di M. Duras e di H. J. Syberberg31. 30

G ia n fra n c o Β εττεή νι, Il segno dell’informatica, Bompiani, Milano 1987,

p. 56. 31

G illes D eleuze, Foucault, Feltrinelli, Milano 1987 (ed. orig. 1986) e

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Tornando al cinema più propriam ente narrativo, considerazioni analoghe si possono fare per il problem a dei ruoli enunciazionali (chi parla? a chi parla? da quale luogo? in quale tempo?): la pretesa di stabilire una sorta di tabella delle corrispondenze tra tipologia delle inquadrature e costituzione-emergenza dei soggetti enunciativi mostra tutti i suoi limiti non appena si passi dalla formulazione astratta all'analisi di un testo concreto. La problematica narratologica risulterà tanto più utile quanto più servirà a misurare scarti, differenze e, ai livelli pertinenti, anche tutte le possibili conver­ genze tra formalizzazioni del testo filmico e del testo letterario. Tuttavia, un deciso invito a non farne un uso schematico e dogma­ tico ci viene proprio da Genette, cioè da colui che non solo ha influenzato i più recenti sviluppi della narratologia letteraria (e anche cinematografica) ma che ci ha anche fornito, con la sua anali­ si della Recherche di Proust in Figure III, una delle prove più con­ vincenti di tale modello di indagine. Scrive Genette:

Non vedo perché la narratologia dovrebbe diventare un cate­ chismo, con una risposta da spuntare con un sì o con un no a ogni domanda, mentre spesso la risposta buona sarebbe: dipende dai giorni, dal contesto e dalla velocità del vento32. Destinatari del messaggio sono i narratologi letterari, ma esso dovrebbe e essere meditato con attenzione anche da chi si misura con tale problematica in campo cinematografico.

4. Il testo perduto L'approccio narratologico al cinema, pur con i limiti della sua dipendenza forse eccessiva dai modelli della «testualità verbale» e della tentazione dogmatica (non nuova e non dipendente dal meto­ do in sé), ha comunque il merito di tener vivo il dialogo tra l'uni­ verso della lettura e quello della visione. O forse è questo il merito Cinema 2. L'immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989, pp. 248-88 (ed. orig. 1985). 32 G e n e tte , N uovo discorso del racconto cit., p. 62.

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che più volentieri e più frequentemente gli viene riconosciuto da chi, operando nel settore dell'istruzione, ha più che mai la necessità di tener vivo un dialogo tra la cultura della parola e la cultura dell'immagine. Comunque lo si voglia intendere e giudicare, tale approccio la­ vora sull'ipotesi che il film si possa costituire come testo e pro­ muove, attraverso una pratica analitica, una cultura della testualità filmica. In tal modo si legittima e si sviluppa una attività di lettura quale risultato della volontà di definire, interrogare e percorrere il testo filmico esattamente come accade per quello letterario. E tuttavia il nuovo problema che si pone è quello di compren­ dere se lo stesso modello della testualità non sia oggi messo in crisi dalle attuali forme di fruizione non solo del film, ma in genere dei linguaggi audiovisivi. Certo, l'avvento della videoregistrazione e delle videocassette sembra aver avvicinato modalità di visione (di un film o altro) e modalità di lettura. Inoltre informatica e telema­ tica hanno cominciato a riavvicinare l'elaborazione di testi e l'ela­ borazione di immagini, integrandole in processi unitari. È troppo presto, forse, per dire quali conseguenze potrà avere tutto questo per il destino del cinema e, in genere, per tutte quelle attività che hanno attinenza con la sfera del simbolico: scrittura, lettura, visio­ ne, produzione e fruizione di forme. Forse è lungo questa via che si stanno delineando i caratteri di una nuova testualità rispetto alla quale anche i recenti tentativi di coinvolgere in una problematica unitaria testualità verbale e testualità visiva potranno trovare un nuovo terreno di applicazione e conferma. Per il momento, però, sembra prevalere una sensazione di diffuso malessere che si esprime in descrizioni apocalittiche della fine e dispersione del testo nella struttura del palinsesto televisivo. Neil Postman stabilisce una radicale opposizione tra ciò che viene considerato «buona televisione» e quello che è «buono» per l'esposizione scritta o per qualunque altra forma di comunicazione verbale33. Gianfranco Bettetini descrive la frantumazione del testo e 33

Postm an, Divertirsi da morire cit., in particolare il capitolo L'era dello spet­

tacolo, pp.85-99.

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l'emergenza di forme di consumo più attente al medium che al testo, con un conseguente fenomeno di dispersione della testualità audiovisiva e l'emergenza di una nuova testualità rispetto alla quale il modello di quella verbale mostra la sua inadeguatezza34. Al di là delle pur importanti differenze tra «testualità verbale» e «testualità iconica», è lo statuto stesso della testualità, e con esso quello della lettura (sia in accezione ristretta che in accezione allar­ gata), a essere messo in discussione, e non tanto da qualche nuova teoria più sottile o sofisticata delle precedenti, ma dalla realtà stessa delle pratiche di consumo. N on è forse un caso che teorie e analisi di narratologia compa­ rata cui ci siamo riferiti siano state elaborate e applicate avendo come pressoché unico oggetto di riferimento il cinema classico, con qualche rara incursione nel cinema moderno. C'è il sospetto che in quest'area disciplinare la teoria del testo si configuri sempre più come teoria del testo perduto, l'unica, forse, possibile nell'epoca del palinsesto, in cui i testi appunto si disperdono, si sovrappon­ gono, si cancellano.

II. PALOMAR: EFFETTO REBOUND E ARCHEOLOGIA DELLA VISONE

1. L'effetto rebound Scrive Gerard Genette in Nouveau discours du récit, testo in cui si è divertito a dare dispiaceri ai più zelanti seguaci della narra­ tologia letteraria e cinematografica (pur essendo stato profeta e lucido cultore dell'una e, forse, involontario ispiratore dell'altra): «A differenza del cineasta, il romanziere non è obbligato a mettere da qualche parte la cinepresa: non ha nessuna cinepresa». Ma subito si pente di una così drastica affermazione, e aggiunge in nota: «È vero che oggi può, effetto rebound di un medium su un altro, fingere di averne una»1. C 'è stato, prim a di tutto, un effetto rebound della letteratura sul cinema. Fin dalle origini, il cinema ha saccheggiato in modo siste­ matico la letteratura traendone ispirazione per le storie da raccon­ tare e traducendo in immagini, spesso per un pubblico analfabeta, classici e libri di successo. Ma soprattutto, esso ha cercato di introiettare il dispositivo della narrazione letteraria. Attraverso le didascalie, nel cinema muto, la scrittura si insinua dentro la conti­ nuità deH'immagine. Infinite volte, inoltre, la metafora del libro sfogliato fa da supporto allo svolgimento della narrazione, con motivazioni più o meno profonde (e non mancano casi esemplari, come Pagine del libro di Satana, 1921, di Cari Th. Dreyer, un autore che nella sua produzione muta ha fatto della parola un uso 1 G é ra rd G e n e tte ,

34 B e tte tin i,

I l s e g n o d e l l'in fo r m a tic a

cit., pp. 45-59.

(ed. orig. 1983).

N

uovo

d is c o r s o d e l r a c c o n to ,

Einaudi, Torino 1987, p. 62

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non puramente illustrativo, trasformandola in un elemento costitu­ tivo del tessuto visivo e simbolico del film). Con l'avvento del sonoro, poi, è stato possibile riprendere inte­ gralmente la forza di suggestione della voce, fare cioè ampio uso di un narratore, attraverso Γartificio della «voce fuori campo». Anzi, fu proprio attraverso l'uso di una proprietà del sonoro (ma che è anche della radio, cui il cinema sonoro deve non poco, sia per lo sviluppo della sua tecnologia, sia per la retorica degli effetti sonori), che il cinema potè dare esistenza concreta a ciò che nel romanzo si designa metaforicamente come voce narrante, o, con maggior suggestione di soggettività, l'io narrante. L'effetto rebound, della letteratura sul cinema funziona, ovvia­ mente, anche per la critica cinematografica che, a diversi gradi di coscienza teorica, ha travasato dall'uno all'altro campo tutte le principali categorie critiche e ha adattato in modo più o meno pertinente al cinema modelli interpretativi della letteratura. Come sono andate le cose sul percorso inverso, quello dell'ef­ fetto rebound del cinema sulla letteratura? M omenti di introiezione di modelli visivi in letteratura non sono mancati in questo secolo, dalla narrativa americana degli anni trenta e quaranta ÛYécole du regard degli anni sessanta. Sono stati, tuttavia, i contributi, piutto­ sto recenti, della narratologia che, lavorando su nozioni come focalizzazione, punto di vista, osservatore e simili, hanno messo in evidenza il gioco di reciproci influssi. François Jost, autore di una sofisticata ricerca sulla tipologia narrativa a metà strada tra romanzo e cinema, ha esplicitamente dichiarato l'ambizione di arrivare a una «narratologia comparata»2. Da parte sua, Genette ha ricordato come la moderna narratologia, e comunque quella francese che ha ampiamente condizionato la ricerca internazionale in questo settore, abbia il suo punto d'avvio in un'opera spesso ingiustamente dimenticata, L'âge du roman américain di Claude-Edmonde Magny (1948)3. E cos'altro è questo 2 F ra n ç o is J o s t, L'Oeil-caméra. Entre film et roman, Presses Universitaires de Lyon, Lyon 1987, p. 9. 3 C laude-E dm onde M agny, L'Age du roman américain, Ed. du Seuil, Paris

Palomar: effetto rebound e archeologia della visione

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libro della Magny se non un'acuta indagine sui reciproci condizio­ namenti di cinema e letteratura nell'età di Faulkner, Dos Passos e Hemingway, ma anche di Hawks, Welles e H uston e, sul versante europeo, di Camus, Sartre e Malraux? Echi della problematica sollevata dal libro della Magny si avvertono anche nella critica cinematografica, quando ad esempio Rohmer, parlando della relazione tra letteratura e cinema in America a metà degli anni cinquanta, scrive che da ultimo la letteratura restituiva al cinema ciò che in precedenza il cinema le aveva prestato, quanto al «gusto dell'elissi, del tratto netto, del visivo»4. Jost non solo trova legittima l'applicazione al cinema della pro­ blematica della focalizzazione, ma afferma che è in un certo modo nel campo cinematografico che tale categoria trova il suo fonda­ mento. Affermazione paradossale, ma non se si pensa che è dal campo dell'ottica che trae origine l'impiego (metaforico) del term i­ ne focalizzazione. Parafrasando Rohmer, si può dire che la narrato­ logia restituisce al cinema ciò che il cinema le aveva prestato. Ma si tratta solo di un prestito linguistico? C 'è da ritenere che si tratti di qualcosa di più. Come ci ha insegnato McLuhan, i media, proprio perché prolungamenti dei nostri sensi, modificano le nostre relazioni con il mondo circostante, e quindi il nostro modo di rapportarci ad esso e di rappresentarlo. C'è uno stretto legame, 1948. Ecco quanto scrive Genette (Nuovo discorso del racconto cit., p. 55) a pro­ posito di questo saggio: «Si tratta di uno studio oggi misconosciuto e spesso sac­ cheggiato senza dirlo, a volte senza saperlo, che fu per molti aspetti il punto di partenza della narratologia francese, stimolata per suo tramite dall'incontro col romanzo americano e con la tecnica cinematografica. La sua assenza nella bibliografia del Discorso del racconto è assolutamente tipica di questo, e tanto più ingiustificabile in quanto, avendola già letta e ammirata fin dalla sua prima pubbli­ cazione, l'avevo segnalata nel 1966, nel dossier 8 di "Communications". Ricordo soggetto a eclissi». In effetti, in «Communications» (8, 1966), egli aveva scritto che lo studio della Magny «a fortement contribué à reverser sur la littérature l'intérêt que la nouveauté des moyennes cinématographiques avait suscité autour des problèmes de la teenique narrative» (p. 166). 4 E ric Rohm er, Redécouvrir l'Amérique, «Cahiers du cinéma», 54, 1955, pp. 11-16, trad. it. in G io v an n a G rig n affin i, La pelle e l'anima. Intorno alla Nouvelle Vague, La Casa Usher, Firenze 1984, pp. 149-53.

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come ha mostrato Max M ilner in un'opera suggestiva, tra le scoperte scientifiche e gli sviluppi della tecnologia nel campo dell'ottica e le configurazioni del fantastico nella letteratura ottocentesca5. L'idea stessa di fantastico e le tecniche della sua rappresentazione letteraria risultano condizionate dall'allargamento dell'esperienza percettiva reso possibile dai nuovi strumenti e dalle varie applicazioni dell’ottica: nel campo dello spettacolo con le fantasmagorie di Robertson e successivi sviluppi, nel campo scientifico con microscopi, microscopi solari, telescopi. Ciò che vale per il secolo scorso, un forte condizionamento dell'immaginario tecnologico su quello visivo, vale a maggior ra­ gione per questo secolo, in cui l'immaginario cinematografico, da intendere come il risultato e punto di aggregazione di svariate tec­ nologie, ha svolto un ruolo determinante nella costituzione del nostro immaginario visivo, che, come ha scritto Calvino, è una delle componenti essenziali dell'immaginario letterario6. Ci sembra questa un'autorevole, anche se indiretta, conferma della pertinenza e produttività della relazione posta da Jost tra il filmico e il letterario per definire importanti categorie narratologiche. E non sarà necessario entrare in dettagli troppo tecnici. Certo, sarebbe facile sollevare questioni di metodo, su certi disinvolti passaggi dal piano metaforico al letterale e viceversa che caratteriz­ zano l'uso di categorie qudi focalizzazione, punto di vista, punto d'ascolto ecc., sul gioco al rilancio di un furore analitico, che porta ad esempio Jost a scomporre la «focalizzazione» genettiana in «ocularizzazione» e «auricularizzazione»7.

Mentre la vecchia categoria di focalizzazione si reggeva su equilibrati, e tranquilizzanti, riferimenti all'ottica e al senso comu­ ne, le nuovissime ocularizzazione e auricularizzazione di Jost, pro­ dotti dell'età dei cyborgs e dell'iperrealismo, evocano inquietanti tavole anatomiche, grovigli di fili, interventi chirurgici e organi artificiali... In fondo, anche i ricercatori sono posseduti dallo stesso immaginario visivo che nutre pittori, cineasti e romanzieri. Questa proliferazione terminologica, questo affollarsi intorno a noi di piccoli mostri lessicali fanno pensare alla teratologia di Luigi Serafini, finemente analizzata da Calvino, nella quale «l'anatomico e il meccanico si scambiano le loro morfologie»8. N on è un giudizio di valore. I mostri, e con quelli le metamor­ fosi e le metafore, nascono - ci ricorda Calvino - «nella contiguità e nella permeabilità di ogni territorio dell'esistere»9. La commistione tra l'universo della scrittura e l'universo della visione (i dispositivi tecnici, le immagini riprodotte, le immagini disegnate) quale risultato di questa contiguità, di questa permeabilità di cui parla Calvino a proposito di Serafini, ci rinvia con insistenza a Palomar.

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5 M ax M iln er, La fantasmagoria. Saggio sull'ottica fantastica, Il Mulino, Bologna 1989 (ed. orig. 1982). 6 I t a l o C a lv in o , Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano 1988, pp. 81-98. Si tratta della lezione dedicata alla «visibilità», nella quale ci sono non pochi riferimenti all'influsso del cinema e degli altri media nella costituzione deH'immaginario visivo, che lo scrittore considera una componente fondamentale del suo universo poetico. 7 J ost , L'Oeil-caméra cit., in particolare il secondo capitolo, L ordile interne. Le film , pp. 37-59).

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2. Palomar? Chi? Chi è il signor Palomar se non un piccolo «mostro» che ci risulta descrivibile con gli stessi termini con cui Calvino definisce la teratologia di Serafini?

L'anatomico e il meccanico si scambiano la loro morfologia: braccia umane, anziché in una mano finiscono in un martello o una tenaglia; gambe si reggono non su piedi ma su ruote [...]. Il vegetale si sposa al merceologico (ci sono piante dal fusto caramella-incartata, dalle spighe-matita, dalle foglie-forbici, dai frutti fiammifero), lo zoologico al minerale (cani e cavalli per metà pietrificati), e così il cementizio e il geologico, l'araldico e il tecnologico, il selvaggio e il metropolitano, lo scritto e il vivente10. 8

I t a l o C alv in o , Collezione di sabbia, Garzanti, Milano 1984, p. 150.

9 Ibid., pp. 149 sg. 10 Ibid., p. 150.

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Come i mostri di Serafini, con i quali sembra condividere la bidimensionalità delle figurine di carta, della nitida ma schematica grafica dei fumetti, il corpo del signor Palomar sembra finire non con la testa, ma con uno strano dispositivo ottico-meccanico o elettronico. Forse una cinepresa, forse una telecamera. Forse un cannocchiale, un sensore a fibre ottiche. O, più semplicemente, una versione miniaturizzata dello specchio del telescopio del monte Palomar di cui egli porta il nome. In tutti i casi, c'è in questo gioco di scambi dal soggettivo allo strumentale sotteso nella stessa meta­ fora costitutiva del personaggio, la ricerca di una sorta di correla­ tivo oggettivo di una visione senza soggetto, di un annullamento della soggettività in una funzione percettiva: «forse l'io non è altro che la finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondo»11. A volte lo sguardo del signor Palomar sembra avere, nelle mi­ nuziose descrizioni calviniane, movimenti di cronometrica regolarità, come le panoramiche cinematografiche guidate dalla geometrica perfezione dei cuscinetti a sfera, come le evoluzioni della steady cam che unisce astratte regolarità a liquida leggerezza. Più spesso i congegni che lo sguardo del signor Palomar evoca hanno qualcosa di arcaico. Prodotto della fase terminale dell'età della visione meccanica, nei suoi comportamenti e nelle sue osses­ sioni riemergono stadi arcaici dell'evoluzione tecnologica, come nei comportamenti umani si possono individuare modelli anteriori dell'evoluzione biologica, secondo le teorie di H enri Laborit (che hanno ispirato Aio« Oncle d'Amérique di Alain Resnais). Capitolo dopo capitolo, ma verrebbe da dire sequenza dopo sequenza, il signor Palomar sembra destinato (condannato) a riper­ correre i luoghi, gli stadi di quella ossessione visiva che salda in una ambigua ed evanescente continuità la scorsa alla presente fin-desiecle (in mezzo, i prim i - e ultimi? - cento anni di storia del cinema). Forse proprio perché c'è da parte di Palomar la scelta di costruire un rapporto con il mondo «limitandolo all'osservazione 11 I t a l o C a lv in o , Palomar, Einaudi, Torino 1983, p. 116. Sulle implicazioni anche filosofiche di una «scena visiva senza soggetto», si veda M a rc o B elpoliti, Storie del visibile. Letture di Italo Calvino, Luise, Rimini 1990, p. 76.

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delle forme visive»12, il suo itinerario è destinato a ripercorrere i luoghi canonici di quella preminenza del visibile, che ha dominato Γimmaginario scientifico di un secolo che si conclude con l'inven­ zione del cinema. A volte lo sguardo di Palomar sembra funzionare come il «fucile cronofotografico» di Etienne J. Marey. Altre volte come il «revolver fotografico» di Pierre-Jules C. Janssen13. Il signor Palo­ mar sulla spiaggia, alle prese con il problema della «lettura di un'onda», sembra rivivere tutte le ossessioni della ricerca otticofisiologica del professor Marey, il cui prim o film cronofotografico è appunto La Vague (1890). Con le sue ricerche sulla fissazione fotografica del movimento, Marey è annoverato tra i pionieri della scoperta del cinematografo. Le sue ricerche in questo campo lo portarono alla messa a punto di un sistema di registrazione (il cronofotografo) e in prossimità di un sistema di proiezione delle immagini in movimento (progetto che egli abbandonò, lasciando il campo libero ai fratelli Lumière). Marey era in realtà un medico, un fisiologo: si proponeva di analizzare il movimento, di tradurre in curve e in grafici quegli aspetti che l'occhio umano, troppo implicato nel flusso del vivente, non riesce a cogliere e a «fissare». Se abbandonò le sue ricerche sul proiettore cronofotografico, fu perché non vedeva nessun interesse a proiettare sullo schermo «la vita com 'è», mentre il suo ideale era raggiunto quando «le immagini animate si sono immobilizzate in figure geometriche: l'illusione del movimento è svanita, ma ha lasciato il posto alla soddisfazione dello spirito»14. 12 «Quando Palomar s'era accorto di quanto approssimativi e votati all'errore sono i criteri di quel mondo dove credeva di trovare precisione e norma universale, era tornato lentamente a costruirsi un rapporto col mondo limitandolo all'osservazione delle cose visibili» (ibid., p. 54). 13 Sull'attività di questi pionieri dell'invenzione del cinema è ancora d'obbligo il riferimento a G eorges Sadoul., Storia generale del cinema, Einaudi, Torino 1965, 2voll., pp. 50-62 (ed. orig. 1947-48). 14 Jacq u es D eslandes, Histoire comparée du cinéma, Casterman, Tournai 1966, p. 144. Si veda anche An to n io C osta e M anlio Brusatin , «Visione», in A A .W , Enciclopedia, Einaudi, Torino 1981, vol. XIV, p. 1126. Da notare che

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Il signor Palomar sulla spiaggia richiama alla mente una stampa, ben nota agli storici del cinema delle origini, che mostra Marey in riva al mare con il suo fucile cronofotografico, il congegno con il quale cercò di fissare in tracciati di geometrico rigore l'indefinito pulsare del cosmo, «di trattenere, di conservare traccia dei movi­ menti più sottili, più sfuggenti della vita»15. Certo, in quest'idea di un dominio assoluto sul visibile, Marey è totalmente immerso nell'ideologia della medicina del secolo scorso, quale ritroviamo in questo passo della Nascita della clinica di Foucault:

derio; trovare l'ordine, la simmetria, la regolarità misurabile; pos­ sedere ciò che ci sfugge attraverso il segno, la traccia, il nome. Né il signor Palomar ignora che questa sua ossessione di fermare le cose, nominarle, classificarle ha l'effetto di pietrificarle, museificarle: «il suo sguardo trasforma' ogni vivanda in un documento della storia della civiltà, in un oggetto da museo» si legge in un capitolo ironicamente intitolato II museo dei formaggi1*. D 'altra parte, ciò che più colpisce tra gli esiti delle prove crono­ fotografiche di Marey è senz'altro una scultura in bronzo delle varie fasi del volo di un gabbiano, straordinaria anche dal punto di vista estetico per le anticipazioni rispetto al futurismo e al cubismo19. L'impressione di «museificazione» del palpito, regolare e affannoso a un tempo, della vita è m olto forte: il risultato è, appunto, mostruoso, in quanto si realizza nella contiguità del m o­ bile e dell'immobile, del fluttuante e del rigido, della ripetizione e della differenza, dell'unità e della pluralità. È significativo, credo, che Calvino abbia posto a prefazione di Collezione di sabbia, libro che va letto in parallelo con Palomar10, un articolo del 1974 dal quale deriva, in un secondo tempo, in un gioco di mise en abyme il titolo dell'intera raccolta, in cui si afferma tra l'altro:

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L'occhio assoluto del sapere ha già confiscato e ripreso nella sua geometria di linee, di superfici e di volumi, le voci rauche o acute, i sibili, le palpitazioni, le pelli ruvide o tenere, i gridi. Sovranità del visibile. Tanto più imperiosa in quanto vi associa il potere della morte. La medicina del XIX secolo è stata assillata da quest'occhio assoluto che cadaverizza la vita, e ritrova nel cadavere le gracili nervature spezzate della vita16. Come Marey, di cui sembra rivivere le ossessioni, il signor Pa­ lomar scruta in cielo il volo degli uccelli, alla ricerca di un metodo per «fissare nei minimi dettagli il poco che riesce a vedere»17. In ef­ fetti questa idea di fissazione di tutto ciò che è sfuggente, espressa in modo mirabile nel capitolo L'invasione degli stormi, presenta straordinarie analogie con gli scritti di Marey: superare i limiti della vista troppo implicata nel pulsare dell'esistenza, compromessa nel movimento convulso del volo, catturata dai fantasmi del desiC alvino , in un articolo dedicato al volume conclusivo dell'Enciclopedia Einaudi (E ora siamo a Zero, in «la Repubblica», 19 gennaio 1982), aveva segnalato, nell'ambito di una scelta «soggettiva e suggestiva» sulla base della quale ripercor­ rere a ritroso l'intera enciclopedia, anche questa voce nella quale compaiono non pochi di quei riferimenti che sto ora riprendendo per la mia rilettura di Palomar. 15 J e a n C o lle t, «Cinepresa», in A A .W ., Attraverso i cinema. Semiologia, lessico, lettura delfilm, a cura di A n to n io C o sta , Longanesi, Milano 19812, p. 33. 16 M ic h e l F o u c a u lt, Nascita della clinica, Einaudi, Torino 1969, p. 190 (ed. orig. 1963). 17 C a lv in o , Palomar cit., pp. 63 sg.

Ibid., p. 72. 19 Si veda in particolare la Sculpture en bronze du vol de goéland (1887), con­ servata al Musée di Beaune e riprodotta in Michel Frizot , La Chronophoto­ graphie, Association des Amis de Marey, Dijon 1984, p. 39. Sull'influsso di Marey sulla pittura di Duchamp, si veda P atrick D e H aas, Cinema integral, Transédition, Paris 1985, pp. 22 sg. 20 Sui rapporti tra Palomar e Collezione di sabbia si veda Gian C arlo Ferretti, Le capre di Bikini. Calvino giornalista e saggista 1945-1985, Editori Riuniti, Roma 1989, pp. 145-53. In un denso e puntuale capitolo, intitolato 11 Signor Calvino-Palomar, Ferretti mostra «gli strettissimi nessi di fondo che legano la serie giornalistica di Collezione di sabbia e la serie letteraria di Palomar», a partire dalla iniziale collocazione giornalistica dei brani che entreranno poi a comporre i due volumi, e dalle interpolazioni, dagli scambi e addirittura dalle parziali sovrapposizioni operate da Calvino («una volta anzi, uno stesso testo-Palomar viene scomposto e riscritto per l'uno e per l'altro libro», p. 145).

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Leggere film e vedere racconti Eppure, chi ha avuto la costanza di portare avanti per anni questa raccolta sapeva quel che faceva, sapeva dove voleva arrivare; forse proprio è per allontanare da sè il frastuono delle sensazioni deformanti e aggressive, il vento confuso del vissuto, ed avere finalmente per sè la sostanza sabbiosa di tutte le cose, toccare la struttura silicea dell'esistenza21.

Jean Collet, commentando i temi della ricerca di Marey, ha ri­ cordato che nel Settimo Sigillo (Det Stunde Inseglet, 1956) di Ingmar Bergman c'è un giocoliere che cerca di insegnare a suo figlio un numero straordinario consistente neH'immobilizzare una palla nel bel mezzo della traiettoria che sta compiendo. E accosta questo esercizio all'immagine dell'aquila planante e pietrificata in volo che Bergman, all'inizio del film, cita direttamente dall'Apocalisse. Scrive Collet: [...] questo uccello pietrificato in volo ci schiude il significato del testo giovanneo e del film, segna Listante paradossale in cui il tempo cessa di esistere, l'istante alle soglie della morte [...] in cui l'uomo deve avere [...] la conoscenza suprema, il segreto della vita22. Il signor Palomar scruta l'universo nella speranza di poter acce­ dere, potrem m o dire parafrasando Blanchot, a una «seconda vista»23. Personaggio tragico e burlesco a un tempo, egli è sospeso tra l'interiorizzazione del tempo vissuto e Γoggettivazione di com­ portam enti meccanici e ripetitivi, Palomar adatta le modalità del suo sguardo alla attitudine analitica dei vari strumenti che com­ paiono nella «storia della visione». Così, egli è sempre sul punto di restituirci, come il fucile cronofotografico di Marey, il profilo pietrificato del cosmo, la sublimazione astratta (o la degradazione meccanica?) del palpito vitale delle cose. Come Janssen con il suo revolver astronomico, Palomar interroga le tracce sensibili 21 Calvino , Collezione di sabbia cit., p. 13. 22 C ollet , «Cinepresa» cit., p. 34. 23 M aurice Blanchot , L'infinito intrattenimento, Einaudi, Torino 1977, p. 39 (ed. orig. 1969).

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dell'evoluzione degli astri nel cosmo, cercando le corrispondenze tra la limitata prospettiva terrestre e l’immensità degli spazi celesti. Ma cosa accadrà, quando «punterà il suo telescopio sulle orbite tracciate dal corso della sua vita anziché su quelle delle costellazioni?» Cosa vedrà? Vedrà navigare in silenzio stelle e pianeti sulle parabole che determinano il carattere e il destino? Contemplerà una sfera di circonferenza infinita che ha l'io per centro e il centro in ogni punto?24

3. Lo sguardo e il trasalimento Palomar sembra destinato a continuare, senza requie, la sua ri­ cerca. E ad arricchire, con maniacale precisione, la sua enciclopedia dei movimenti, la sua collezione di percezioni, il suo catalogo di sensazioni, la sua vetrina di eventi. Ciò che egli cerca e che sempre gli sfugge è una cosa rara e preziosa: essa è detta nel paragrafo II mondo guarda il mondo. Il signor Palomar cerca «una di quelle fortunate coincidenze in cui il mondo vuole guardare e essere guardato»25. N o n è difficile trovarvi un riferimento alla teoria fenomenologica della visione enunciata in termini assai prossimi a quelli usati da Merleau-Ponty o, per riferirci direttamente al cinema, da André Bazin (influen­ zato, come è noto, da tale teoria)26*. Esemplare, in questo senso, il secondo capitolo (Il seno nudo), in cui «viene descritta una di queste fortunate coincidenze»: essa è marcata da uno «scarto», da una «diversa consistenza della visione», come si legge appunto in questo passo: 24

C alv in o , Palomar cit., pp. 121 sg.

25 Ibid., p. 117. 26 M au rice M erleau -P o n ty , Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 1962, pp. 69-83 (ed. orig. 1948); F ra n c o F e rg n a n i (a cura), Il corpo vissuto, antologia di lesti di Merleau-Ponty, Il Saggiatore, Milano 1979. Sugli influssi di Merleau-Ponty su Bazin, si veda D udley Andrew , André Bazin, Oxford University Press, N ew York 1979, pp. 229 sg.

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Leggere film e vedere racconti Ora, nel far scorrere il suo sguardo sulla spiaggia con ogget­ tività imparziale, fa in modo che appena il petto della donna entra nel suo campo visivo, si noti una discontinuità, uno scarto, quasi un guizzo. Lo sguardo avanza fino a sfiorare la pelle tesa, si ritrae, come apprezzando con un lieve trasalimento la diversa consistenza della visione e lo speciale valore che essa acquista, e per un momento si tiene a mezz'aria, descrivendo una curva che accompagna il rilievo del seno da una certa distanza, elusivamente ma anche protettivamente, per poi riprendere il suo corso come niente fosse stato27.

Certo ha ragione Greimas quando richiama «la concezione hus­ serliana della percezione» e sottolinea come l'oggetto estetico (in questo caso il seno) non si costituisca in definitiva che attraverso la produzione di una discontinuità sul continuo dello spazio visivo28. Ciò che Greimas non mette in evidenza è che l'andamento analitico della descrizione dei movimenti dello sguardo di Palomar nell'intero capitolo, il passaggio dal campo d'insieme al dettaglio, l'idea stessa di «discontinuità» tra i vari momenti della visione (termine che il critico riprende alla lettera da Calvino), insomma tutti gli aspetti che meglio caratterizzano l'immaginario visivo che ha ispirato questo brano rinviano insistentemente alla tecnica di ripresa cinematografica (senza contare la relazione esplicitamente ed esclusivamente voyeuristica che si instaura tra soggetto e ogget­ to, altro rinvio a una situazione tipicamente cinematografica). Bellissimo esempio di effetto rebound, Calvino-Palomar, come il romanziere di cui parla Genette, sembra fingere di avere una cine­ presa; sembra anzi guardare la realtà attraverso il mirino di una cinepresa. L'idea stessa di discontinuità, di scarto, di diversa consi­ stenza della visione è in perfetta consonanza con la definizione, 27 28

C a lv in o , Palomar eie., pp. 12 sg. A lg ird a s J u lie n Greimas, De l'Imperfection, Périgueux, Fanlac 1987. Ecco

la citazione integrale del brano che ho parafrasato nel testo: «Doté de la fonction syntaxique du sujet, construit au milieu du champ perceptif par la protensivilé du regard, l'objet esthétique ne se constitue définitivement qu'en produisant de la discontinuité sur le continu de l'espace visuel» (p. 28). Sul rapporto tra «eros e discontinuità» si veda una interessante pagina di C a lv in o dedicata alle stampe erotiche giapponesi in Collezione di sabbia cit., p. 187.

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tanto quella intuitiva quanto quella analitica di «inquadratura sog­ gettiva»29. È insomma una sorta di incontro tra l'oggettività impar­ ziale dello sguardo del signor Palomar (che si attribuisce appunto una qualità tipica dello sguardo cinematografico) e la soggettività del desiderio che ne guida il movimento a produrre una configura­ zione del «realismo ontologico» di cui parlava Bazin: essa ci appare assai prossima alle condizioni in cui si realizza Γ«enigma della vi­ sione», inteso da Merleau-Ponty come «concordanza spontanea tra l'aspetto soggettivo e quello oggettivo del fenomeno», come «armonia tra progetti m otorii e mondo visto»30. Facendo il verso a Genette e a Eco, si può affermare che Calvino padroneggia con invidiabile efficacia l'inquadratura soggettiva. In questo caso l'effetto rebound funziona non solo sul piano della scrittura, ma anche su quello della ricezione: una lettura di questo tipo presuppone l'attivazione di qualcosa che assomiglia alle «sceneggiature intertestuali visive» o «sceneggiature iconiche» di cui parla Eco31 e che ha che fare in tutti i casi con le configurazioni del linguaggio cinematografico. Ma non soltanto. La strana configura­ zione di questa particolare inquadratura soggettiva legata a un movimento, a uno sguardo mobile che reitera il suo percorso fino al punto in cui avverte una differenza, percepisce uno scarto, evoca il movimento dello sguardo che di fronte a una anamorfosi attende il momento in cui la giusta angolatura provochi finalmente il guizzo dell'immagine cercata, desiderata, l’attimo in cui si svela il senso nascosto del groviglio apparentemente informe di linee32*. La 29 E d w ard B ran ig an , Point of View in the Cinema. A Theory o f Narration and Subjectivity in Classical Film, Mouton, Berlin-New York-Amsterdam 1984. 30 A n n a Sordini, Pittura e metafisica nell'ultimo Merleau-Ponty, in F erg n an i, Il corpo vissuto cit., p. 195. 31 U m berto E co, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979, p. 81. 32 Sui rapporti tra visione anamorfica e visione cinematografica si veda C osta e Brusatin , «Visione» cit. Sui rapporti tra travelling e anamorfosi si rimanda a Pascal Bonitzer , Décadrages. Cinema et peinture, Editions de l'Etoile-Cahiers du Cinéma, Paris 1985, pp. 93-95 («Ce que démontrent les anamorphoses c'est que la peinture a, non moins que le cinéma et depuis longtemps, sinon depuis toujours, affaire au mouvement. Le point de vue se déplace et ce déplacement est un dépla­ cement de sens. Au cinéma aussi, le mouvements d'appareil, les changement de

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«lettura visiva del mondo» di cui parla Calvino in Collezione di sabbia presuppone la capacità di cogliere lo scarto, la discontinuità, le differenze senza le quali «lo sguardo scorre su una supeficie liscia e senza appigli». Labili e intermittenti come le visioni anamorfiche, le percezioni dello scarto, della differenza sono fortemente implicate nell'economia del desiderio, in quanto aprono lo sguardo a dimensioni diverse, regolate da spazi e tempi diversi: ecco ciò che lega la discontinuità al trasalimento. Il termine «trasalimento» non è nuovo nel lessico calviniano: es­ so è già presente in uno dei capitoli giapponesi di Se una notte d'inverno un viaggiatore, in una pagina in cui tra l'altro vengono fatte alcune considerazioni sulla percezione della discontinuità nel campo visivo33. Lo stesso termine compare anche in un testo di Starobinski dedicato al tema dello sguardo e del desiderio in cui, nonostante la diversa funzione (è attribuito alla forma osservata e non alla sguardo), si possono rilevare singolari analogie con l'attitudine che regola lo sguardo del signor Palomar. A tal punto che sembra legit­ timo ipotizzarne la conoscenza da parte di Calvino. D opo aver ricordato che il termine francese, regard che designa la visione orientata, originariamente non stava a indicare l'atto del vedere, ma piuttosto l'attesa, la preoccupazione, la guardia, la sal­ vaguardia, Starobinski scrive in L'Oeil vivant: plan, sont le mouvement même du sens», p. 95). 33 I t a l o C a lv in o , Se u m notte d'inverno un viaggiatore, Einaudi, Torino 1979, p. 202. Ecco il brano in questione: «Ma il trionfo della cattura delle ninfee scompose l'ordine dei nostri movimenti, per cui il mio braccio destro si rinchiuse nel vuoto, mentre la mia mano sinistra che aveva lasciato la presa del ramo ricadendo all'indietro incontrò il grembo della signora Miyagi che pareva disposto ad accoglierla e quasi a trattenerla, con un cedevole trasalimento che si comunicò a tutta la mia persona. In quell'istante si giocò qualcosa che ebbe successivamente conseguenze incalcolabili per la mia persona» (mio il corsivo). Da notare che nello stesso testo Calvino stabilisce un parallelo tra lettura e sguardo erotico, tra «lettura delle pagine scritte» e «lettura che gli amanti fanno del loro corpo»: «L'aspetto in cui la lettura e l'amplesso si assomigliano di più è che al loro interno si aprono tempi e spazi diversi dal tempo e dallo spazio misurabili» (p. 156).

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Guardare [regarder] è un movimento che mira a riprendere sotto-guardia. L'atto dello sguardo [regard] non si esaurisce nell'istante, perché comporta uno slancio che dura, una ripresa ostinata, come se fosse animato dalla speranza di accrescere la propria scoperta e di riconquistare ciò che è sul punto di sfuggirgli. Quello che interessa è il destino dell'energia insofferente che muove lo sguardo e desidera altro da ciò che gli è dato: spiando l'immobilità nella forma in movimento, pronto a cogliere il trasalimento più lieve nella figura in riposo, con l'aspirazione a cogliere il volto dietro la maschera, o nel tentativo di abbandonarsi alla fascinazione vertiginosa della profondità per ritrovare, alla superficie delle acque, il gioco dei riflessi34. Tra la pietrificazione e il trasalimento, tra la verità ultima e il vuoto inaugurale di ogni sguardo, di ogni desiderio, di ogni narra­ zione, si stende l'infinito repertorio, l'infinita esposizione, l'infi­ nita collezione. N o n a caso, credo, in Collezione di sabbia, un libro dedicato a mappe, musei, mostre, enciclopedie, collezioni, repertori, reali o immaginari, la posizione centrale è occupata dalla sezione «Il raggio dello sguardo». Questa si apre con un testo in memoriam di Roland Barthes, quasi interamente dedicato a La Chambre claire (1980), un libro sulla fotografia o meglio sull'immaginario fotografico scritto da un autore la cui opera «consiste nel costringere l'impersonalità del meccanismo linguistico e conoscitivo a tener conto della fisicità del soggetto vivente e mortale»35; e si chiude con la recensione di L'occhio e l'idea. Fisiologia e storia della visione di Ruggero Pierantoni (1982), un libro che, percorrendo criticamente la storia dei miti relativi alla visione, induce Calvino a chiedersi se non sia il caso di concludere che la mente umana funziona solo a base di miti e che «l'alternativa sta solo nell'adottare un codice mitico piuttosto che un altro» :

34 Je a n S tarobinski, L'occhio vivente, Einaudi, Torino 1975, p. 7 (trad, parziale; ed. orig. 1961). 35 C alv in o , Collezione di sabbia cit., p. 78.

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Leggere film e vedere racconti Usando «miticamente» l'immagine della struttura biofisica della retina, la mente umana mi appare come un tessuto di «mitoricettori» che si trasmettono l'un l'altro le loro inibizioni ed eccitazioni, a somiglianza dei fotoricettori che condizionano la nostra vista e fanno sì che guardando le stelle le vediamo raggiate mentre «in realtà» dovrebbero apparirci puntiformi...36

Se Palomar è la storia di un'ossessione visiva, Collezione di sabbia è in qualche modo l'archeologia di questa ossessione. Nella già citata sezione «Il raggio dello sguardo», c'è un brano dedicato agli scavi archeologici di Settefinestre, presso Orbetello. In esso Calvino cita un neologismo «traulare» (dall'inglese trowel: cazzuola) coniato dagli uomini impegnati negli scavi. Con questo verbo, egli ci spiega, viene indicata l'operazione di mettere alla luce, fotografare e disegnare, schedare strato per strato, frammento per frammento, i resti del passato37. Se questa piccola cazzuola introdotta dagli archeologi inglesi può essere considerata «l'emblema simbolico della nuova archeologia», Collezione di sabbia è un tentativo di «traulare» le varie stratificazioni di quell'immaginario visivo di cui Palomar offre un significativo repertorio. Dagli automi di Neuchâtel alla mostra parigina sull’iconografia dei Faits divers, dai mostri di cera del dottor Spitzer ai Freaks di Leslie Fiedler (e di Tod Browning), dalla «lettura visiva» del giapponese «impero dei segni» ai «resoconti dal fantastico», Calvino visita e rivisita luoghi e momenti della formazione deH'immaginario visivo della nostra epoca. Anche se in Palomar non ci sono riferimenti espliciti al cinema, l'effetto rebound e la presenza di certe ossessioni tipiche dell'«archeologia del cinema» fanno di questo testo uno dei più significativi per lo studio dei rapporti tra letteratura e media dell'età contemporanea, rapporti sui quali Calvino ritornerà in Visibilità, il quarto dei Six Memos fo r Next Millennium, non senza qualche accento nostalgico per un'età arcaica dei media

36 Ibid., p. 126. 37 Ibid., pp. 87-93.

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(«L'esperienza della mia prima formazione è già quella di un figlio della "civiltà delle immagini", anche se essa era ancora agli inizi, lontana dall'inflazione di oggi»38). C'è, secondo Calvino, una preponderanza dell'immagine visuale sull’espressione verbale, in un'epoca come la nostra «in cui la letteratura non si richiama più a un'autorità o a una tradizione come sua origine o come suo fine, ma punta sulla novità, l'originalità, l'invenzione»39. Di fronte all'inflazione di immagini prefabbricate, ci sono se­ condo Calvino, due vie possibili. La via del «post modernism» che consiste nel «riciclare le immagini usate in un nuovo contesto che ne cambi il significato», nel «fare un uso ironico dell'immaginario dei mass media» o neH'«immettere il gusto del meraviglioso eredi­ tato dalla tradizione letteraria in meccanismi narrativi che ne accen­ tuino l'estraneazione». L'altra via è quella seguita da Samuel Beckett e consiste nel «fare il vuoto per ripartire da zero», nel ridurre «al minimo elementi visuali e linguaggio, come in un mondo dopo la fine del mondo». Palomar si colloca all'incrocio di queste due vie. C'è un vuoto programmatico fatto attorno a questo personaggio che scruta la superficie delle cose, indaga ossessivamente dettagli, riduce la sua relazione con il mondo a una relazione visiva. E così facendo, ri­ percorre, come abbiamo cercato di mostrare, un'«archeologia» della visione, una stratigrafia di «relazioni visive». C'è qualcosa di meccanico, di innaturale nelle varie attitudini cui Palomar adatta il suo sguardo. È, però, la stessa meccanicità del grande burlesque, che rende tragici e comici a un tempo gli eroi del cinema muto. Così, alla fine, immaginiamo il signor Palomar: con le fattezze di un eroe del burlesque americano, un Buster Keaton ormai senza età che, come in Film (1965) di Beckett e Schneider, sopravvive nel limbo di un dopo-storia, con il terrore che gli incubi della (sua e nostra) storia tornino a visitarlo.

38 C alvino , Lezioni americane cit., p. 92. 39 Ibid., p. 86.

Incertezza del sogno

III. INCERTEZZA DEL SO G N O

Tra cinema e sogno, come del resto tra letteratura e sogno1, si sono stabilite varie e complesse relazioni. Il cinema come macchina per produrre artificialmente dei sogni è concetto ben radicato anche nel linguaggio comune (la «fabbrica dei sogni»). Già nel cinema prim itivo (Méliès), c'è l'intuizione della relazione tra dispositivo cinematografico e sogno, con un gioco di mise en abyme che sottintende la coscienza che il cinema, se serve a riprodurre la realtà, può servire altrettanto bene a «riprodurre» i sogni. In Les Hallucinations du Baron du Münchhausen (1911), Méliès ci ha dato un catalogo pressoché definitivo del suo universo onirico; e ha mostrato il limite al di là del quale il testo letterario (in questo caso il romanzo di Raspe evocato dal titolo) si annulla nel gioco della pura visione, nel repertorio di trucchi. Sia pure all'interno di un'organizzazione arcaica che lo costringe all'uso della doppia scena (il sognatore è in basso, mentre il dream screen è in alto), Méliès sfuma i confini tra le due «scene». Se la struttura è ancora primitiva, rispetto alle conquiste del m ind screen di Porter e di Cohl (che sono pur sempre contemporanei di Méliès), di una straordinaria modernità è l'intercambiabilità tra le due scene: il Barone penetra più volte nella scena del sogno, mentre i mostri del sogno sconfinano nella scena reale. 1 Sul rapporto tra letteratura e sogno, si vedano, anche per ulteriori riferi­ menti bibliografici, G uido Almansi e C laude Béguin , Il teatro del sonno, Garzanti, Milano 1988 (da segnalare, alle pp. 43 sg., un gustosissimo excursus su Hollywood e il sogno) e Marco H agge , Il sogno e la scrittura. Sansoni, Firenze 1986 (che contiene frequenti e pertinenti riferimenti al cinema).

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Ma ancor più sottile è il gioco di metamorfosi incessanti grazie al quale la scena del sogno si fa palcoscenico, specchio, caverna, antro marino, cielo e, infine, senza più remore, schermo cinematografico, in una definitiva mise en abyme di tutto il sistema di rappresentazione del cinema primitivo. Nello sviluppo del racconto cinematografico, già nell'ambito del cinema delle origini, la rappresentazione cinematografica del sogno costituisce, al di là della irripetibile ambiguità della scena mélièsiana, una delle prime forme di articolazione del rapporto tra «oggettività» della storia e soggettività del «personaggio»2. Uso narrativo del sogno e onirismo diffuso sono tratti distintivi in al­ cuni generi classici del cinema hollywoodiano (segnatamente noir e musical), mentre nel new horror si assiste a un impiego massiccio di tutte le possibili articolazioni narrative dell'universo onirico3. Al dispositivo della visione filmica si fa frequentemente ricorso per definire, se non altro metaforicamente, l'esperienza onirica. N ozioni come quella di dream screen, sogno a colori o in bianco e nero ecc. sono mutuate dal campo della visione filmica. W.R.D. Fairbairn paragona il sogno allo spettacolo cinematografico in cui ogni personaggio è una versione del sognatore stesso4. Secondo Guido Fink, «è più facile sognare, da quando esiste il cinema»5. In tutti i casi, sembra più facile raccontare i sogni. Lo dimostra brillantemente Marco Hagge, nel suo documentato studio sui rapporti tra sogno e scrittura, descrivendo in termini esplicitamente cinematografici la struttura visiva di un sogno (raccontato):

2 Per un repertorio di sogni nell'ambito dell'uso della soggettiva nel cinema primitivo, si veda Elena D agrada , La rappresentazione dello sguardo nel cinema delle origini in Europa, Dipartimento di musica e spettacolo dell'Università di Bo­ logna, a.a. 1987-88 (tesi di dottorato). 3 Si veda M onica D all'A sta, Incubus, «Cinema & Cinema», 61, 1991, pp. 69-79. 4 Riprendo la definizione da Almansi e Béguin , Il teatro del sonno cit., p. 16. 5 G uido Fink, L'altro congegno: appunti su cinema e sogno, in M a rin o B o sinelli e P ie rC a rla C ic o g n a (a cura di), Sogni: figli di un cervello ozioso, Bollati-Boringhieri, Torino, 1991, p. 62.

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Leggere film e vedere racconti Sorpreso dall'eccellente qualità formale delle immagini oniri­ che, evito di chiedermi se l'incubo dipenda da una cena pesante, da una errata posizione degli arti nel corso del sonno, da una qualche azione combinata dell'inconscio con gli avvenimenti del giorno prima. Mi concentro invece sull'affabulazione: le inquadrature erano ben tagliate, il montaggio incalzante. L'aggressore non aveva volto: era rigorosamente "fuori campo". Si vedevano solamente le sue mani e al­ cuni particolari della stanza: la porta, la parete accanto al letto. Tutto il resto era nero, tranne alcune linee evidenziate da una luce bianca­ stra che servivano a definire l'ambiente, come in un "effetto notte" ci­ nematografico. Poi l'interruttore, grigio chiaro, sul quale arriva la mia mano, a riempire Vinquadratura6.

In questo racconto di un sogno Hagge utilizza con insistenza una terminologia da decoupage tecnico (totale, soggettiva, fuori campo ecc.), mostrando non senza ironia come i nostri sogni (o comunque le narrazioni di sogni) siano ampiamente tributari (nuovo campo di applicazione dell'effetto rebound!) della sintassi filmica. La teoria del cinema, in un'area di convergenza tra linguistica e psicoanalisi, ha scandagliato in profondità le relazioni tra configu­ razioni oniriche e figure del linguaggio cinematografico7. D 'altra parte, la psicologia sperimentale, quando definisce il sogno una «simulazione percettiva multimodale»8, attiva una nozione (quella di «simulazione percettiva») che non solo è proficuamente applicabile anche al cinema9, ma che è anche difficilmente concepibile e applicabile senza fare riferimento all'esperienza spettatoriale.

6 H agge, Il sogno e la scrittura cit., pp. 5 sg. (m iei i corsivi). 7 Si v ed a C hristian M etz , Cinema e psicoanalisi. Il significante immaginario, M arsilio , V en ezia 1980 (ed. orig. 1977). 8 D e fin iz io n e rip o rta ta da Almansi e Béguin , Il teatro del sonno c it., p . 16, i quali la d e su m o n o da D . F oulkes, A Cognitive-Psychological Model o f REM Dream Production, «Sleep», 5, 1982, p p . 169-97. 9 Si v e d a n o Antonio C osta , Saper vedere il cinema, B o m p ia n i, M ila n o 1985, p p . 199-210 e G ianfranco Bettetini, La simulazione visiva, B o m p ia n i, M ila n o 1991.

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1. «Specifico onirico»: tra il letterario e il fìlmico L'interesse per il sogno nel cinema non è prerogativa della sola psicoanalisi. Come in letteratura, altri approcci paralleli e comple­ mentari sono parimenti legittimi. N é l'attenzione al sogno è prero­ gativa del cinema hollywoodiano (che è certo quello che più ha contribuito alla volgarizzazione, in tutti i sensi, della psicoanalisi). In letteratura, il racconto del sogno pone il problema delle stra­ tegie enunciative, dei codici retorici e delle funzioni della rappre­ sentazione di un'esperienza che, in una vasta area che va dal roman­ ticismo al surrealismo, è considerata assai prossima alla poesia o addirittura con essa identificata. Problemi analoghi si pongono per il cinema, anche a partire dalle affinità tra esperienza onirica e visione filmica segnalate in vari contesti (anche qui l'area è vasta: surrealismo, psicologia sperimentale, psicoanalisi, teoria del cine­ ma). Dalla quasi contemporaneità dell'invenzione del cinema (1985) e della pubblicazione di L'interpretazione dei sogni (1900) alle analogie di situazione psico-fisica, di «posizione» ecc., di spettatore cinematografico e sognatore, tutto un repertorio di argomentazioni è stato approntato per sottolineare le affinità tra cinema e sogno, per dimostrare che il cinema è costitutivamente onirico. Quasi a sigillo di alcuni decenni di «letteratura sul cinema» di pura marca surrealista si potrebbe citare questo passo di Jacques B. Brunius:

La notte della sala equivale per la retina all'occlusione delle palpebre e, per il pensiero, alla notte dell'inconscio - la folla che vi circonda e vi isola, la musica deliziosamente idiota, la rigidità del collo necessaria per orientare lo sguardo, provocano uno stato assai prossimo al dormiveglia, - sul muro s'iscrivono lettere bianche su fondo nero, con evidente carattere ipnologico. Ai tempi del cinema muto, per distrazione dell'operatore, questi testi appaiono a volte a rovescio, cosa che aggiunge un significativo rinvio alle immagini eideti­ che. Infine, quando si accende lo schermo abbagliante, simile a una fi­ nestra, la stessa tecnica del film evoca più il sogno che la veglia10. 10 J acques B. ciném a», 4-5, 1951.

Brunius , Le rêve, l'incoscient, le merveilleux, «L'Age du

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Al di là delle affinità, costitutive o elettive che siano, tra sogno e cinema, pur nelle difficoltà oggettive o addirittura nell'impossibi­ lità di una definizione di «specifico onirico»11, resta pur sempre il problema di comprendere in quale modo dei media costitutiva­ mente differenti come letteratura e cinema si rapportino a quello che sembra essere un tratto comune di tutti i vari tentativi di defi­ nizione di una specificità onirica, vale a dire - secondo una pre­ gnante definizione di Bosinelli - «la caratteristica di evento fenome­ nicamente percettivo»1112. In campo letterario, Caillois13, in uno studio sui sogni, ha preso le distanze dai metodi di resa dell'esperienza onirica da parte dei surrealisti che, con sfoggio di aggettivi e altro, enfatizzavano l'incongruenza e la stranezza dei loro sogni (cui era dedicata una rubri­ ca della rivista «Revolution surréaliste»). In questo modo, secondo Caillois, si priva la narrazione di una delle proprietà costitutive dell'esperienza onirica, cioè di un'«impressione irrefutabile di evi­ denza e di realtà». Egli detta alcune regole, cui dovrebbe attenersi ogni testo letterario che voglia rendere l'«impressione del sogno».

Modello insuperato è la prosa di Kafka con la sua attenzione ossessiva ai dettagli e a tutti quegli aspetti della quotidianità che contestualizzano in una assoluta e banale normalità gli accadimenti più insoliti. La prima di queste regole è che «non conviene mai, in nessun caso, premettere al lettore che si tratta di un sogno». Le altre si possono ricondurre tutte al principio che l'insolito (elemento irrinunciabile del sogno) deve essere reso attraverso un adeguato sviluppo di tutti quei procedimenti capaci di accrescere Γimpres­ sione di realtà. Caillois ritiene, quindi, che la letteratura debba perseguire con appropriati procedimenti quello che è uno degli effetti costitutivi dell'esperienza filmica. A partire dal concetto, centrale nella moderna teoria del cinema, di impressione di realtà (cui, in ogni caso, Caillois neppure accen­ na), si possono fare alcune riflessioni sul sogno cinematografico, anche in relazione a quello letterario. Ci si deve, in primo luogo, chiedere quali conseguenze derivino, per la rappresentazione del sogno in un film, da questa proprietà originaria, da questo onirismo costitutivo del cinema. I procedimenti adottati per designare il sogno possono essere i più diversi. Si va, come nota opportunam ente Deleuze, da procedimenti di «complessificazione» a procedimenti di segno opposto (sottrazione, semplificazione). Quello che conta è che la sequenza onirica si pone rispetto a quelle riferite al «reale» nello stesso rapporto in cui gli stati «anomali» della lingua si pongono rispetto alla lingua "corrente"14. Qualunque sia il procedimento che lo qualifica come tale (voce narrante, segni di interpunzione marcati come la dissolvenza incrociata, deformazioni mediante grandangolare o altro), il sogno cinematografico sembra costretto a denunciare una sua costitutiva artificiosità, in quanto deve contrassegnare la natura «mentale» delle immagini che mostra.

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11 Sulle possibili definizioni di «specifico onirico» alla luce della letteratura onirologica, si veda Almansi e Béguin , Il teatro del sonno cit., pp. 25 sg. (gli au­ tori riprendono qui le varie formulazioni da un progetto di ricerca condotto da M arino Bosinelli all'Istituto di psicologia dell'Università di Bologna). Per quanto riguarda invece uno specifico onirico nell'ambito della resa letteraria, H agge (Il sogno e la scrittura cit., pp. 186 sg.) nega interesse alla questione dello specifico che egli tende piuttosto a risolvere in termini di funzione (più che que­ stioni di composizione, incorniciatura ecc. legate al come è fatto?, gli interessa il come funziona?, cioè il problema della funzione in rapporto allo «statuto culturale del sogno»). 12 M a rin o B osinelli, Definire il sogno, in B o sin elli e C ic o g n a (a cura di), Sogni:figli di un cervello ozioso cit., p. 25. Sarà utile citare integralmente il passo in cui, presentando il lavoro di ricerca sulla possibilità di definire una specificità oni­ rica, Bosinelli la limita alla caratteristica sopra citata, e per di più con una formula dubitativa: «La definizione di sogno, apparentemente agevole secondo il pensiero quotidiano, diventa intricata e pesante, allorché si voglia circoscrivere l'evento en­ tro confini certi e indubitabili. Si può dire che fra tutti gli elementi che sono stati brevemente analizzati nella ricerca di un'improbabile specificità onirica, forse sol­ tanto le caratteristiche di evento fenomenicamente percettivo resiste alla variabilità di questo tipo di esperienza» (ibid., mio il corsivo). 13 R o g e r C aillo is, L'incertezza dei sogni, Feltrinelli, Milano 1983, pp. 102104 (ed. orig. 1956).

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G illes D eleuze, Cinema IL L'immagine tempo , Ubulibri, Milano 1989, p.

71 (ed. orig. 1985).

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L'obiezione di M itry, secondo il quale l'immagine mentale non sarebbe rappresentabile al cinema in quanto cesserebbe per ciò stesso di essere mentale15, appare oggi teoricamente debole. Certo, è comprensibile che una filosofia o metafisica del cinema come riproduzione della realtà debba porre dei limiti al rappresentabile, stabilendo ciò che è ontologicamente irriproducibile (come, appun­ to, l'immagine mentale). In realtà, oggi sappiamo che non ci sono limiti per un cinema correttamente inteso come simulazione16. Quella obiezione resta, tuttavia, interessante perché traduce un senso di imbarazzo, di ostacolo rappresentato dalle sequenze oniri­ che. Proviamo a capirne la ragione. Prendiamo in considerazione una qualsiasi sequenza onirica, va­ le a dire una sequenza contestualizzata come sogno attraverso uno dei tanti procedimenti codificati nel cinema classico (escludiamo, almeno per il momento, film in cui la relazione con il sogno sia data da un generico clima onirico). La sequenza onirica induce lo spettatore ad attribuire al personaggio che sogna quel regime di credulità che lui stesso condivide nelle sequenze ordinarie; e che in questo caso deve sconfessare, o comunque mettere tra parentesi. Metz a proposito dei film interamente sognati da un personaggio e la cui natura di illusione onirica viene svelata solo alla fine (ad esempio La donna del ritratto di Fritz Lang) parla di «rinnegamento» {désaveu)17. Secondo la sua prospettiva, la dimis­ sione di credulità {croyance) nei riguardi di una porzione di film la cui natura illusoria sia comunque esplicitata non farebbe altro che accrescere il coefficiente di credulità nel film restante (nel cinema). Ma non è questo il problema che ci interessa, anche perché la p ro ­ spettiva di Metz nel saggio citato era quella del dispositivo cinema­ tografico, piuttosto che del testo filmico. Ciò che conta è che, co­ munque, di fronte alla sequenza onirica c'è una scissione di credu­ lità tra personaggio e spettatore. Jacqueline Risset attribuisce alla oniricità costitutiva della visione filmica la ragione dell'«effetto

involontario prodotto in genere dalla rappresentazione del sogno». Si tratta, secondo la sua efficace definizione, di un effetto di «lacerazione nel tessuto dell'identificazione»18. Anche Deleuze sottolinea la scissione che viene determinata dalla rappresentazione del sogno: «L'immagine sogno - scrive il filosofo francese - è co­ stretta a attribuire il sogno a un sognatore e la coscienza del sogno (il reale) allo spettatore»19. Di questi effetti, rilevati da diverse prospettive e con differenti finalità, ci interessano ora le conse­ guenze sul piano pragmatico, oltre che sul piano estetico. Tutto quanto c'è di insolito, di perturbante nel contenuto dei sogni viene a perdere quei tratti dell'indecidibilità, dell'incertezza che secondo Todorov starebbero alla base dell'esperienza del fantastico20, in quanto la contestualizzazione fornisce già una giustificazione ra­ zionale di qualsivoglia stranezza. N on a caso, René Clair, che pure ha fatto un uso magistrale del sogno, riteneva che il sogno fosse assai spesso «un cattivo tema drammatico»21. Fin qui niente di nuovo: la riflessione teorica ci porta a conclusioni cui la pratica era già arrivata da tempo. N on c'è dubbio, infatti, che il cinema (ma analoghe considerazioni sono valide anche per la letteratura, come già aveva mostrato Caillois) riesce assai meglio a restituire e a far funzionare, in tutta la sua produttiva ambiguità, l'«impressione di sogno» quando sfrutta il suo costitutivo onirismo, senza ricorrere al sogno dichiarato e alla sua rappresentazione esplicita; e soprat­ tutto, aggiungiamo anticipando le conclusioni, quando lavora sulla linea di confine tra l'universo onirico e quello reale, giocando sulle sfumature, l'indecidibilità, le relazioni metaforiche.

15 J. M itry, Esthétique et psychologie du cinéma, Editions Universitaires, Paris 1965, vol. 2, p. 65. 16 Si veda nota 9. 17 M etz, Cinema e psicoanalisi cit., p. 76.

18 J acqueline Risset, La fiction decifrante, in F. Salina , Immagine e fanta­ sma. La psicoanalisi nel cinema di Weimar, Kappa, Roma 1979, p. 189. A dire il vero, la Risset attribuisce questo effetto al flashback. A parte il fatto che il sogno narrato coincide con un flashback, questa lacerazione è forse più evidente nel so­ gno visualizzato simultaneamente, in quanto lo spettatore, come vedremo fra po­ co, è costretto a sospendere la credulità in ciò che vede. 19 D eleuze, Cinema IL L'immagine tempo cit., p. 72. 20 T zvetan T odorov , La letteratura fantastica , Garzanti, Milano 1977 (ed. orig. 1970). 21 Citato in C harles Po r n o n , L'Ecran merveilleux. Le Rêve et le fantastique dans le cinéma français, La N ef de Paris, Paris 1959, p. 126.

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2. Soggetti onirici L'indagine sulla sequenza onirica merita un ulteriore appro­ fondimento per quello che ci può dire circa il problem a della rap­ presentazione della soggettività al cinema. La sequenza onirica, in quanto rappresentazione di un mental process, rientra, con suoi ca­ ratteri peculiari, nella tipologia della soggettiva stabilita da Branigan in base ai tre parametri fondamentali (;mental condition, frame, time)21. Una esatta definizione della posizione dello spettatore rispetto alla sequenza onirica permette una proficua discussione circa la soggettiva in generale. Pressoché tutte le definizioni di soggettiva parlano di identifi­ cazione tra sguardo dello spettatore e sguardo del personaggio, con tutte le implicazioni che ne derivano sul piano percettivo, cogni­ tivo e di «credulità». In particolare, nelle definizioni correnti, il regime cognitivo della soggettiva risulta caratterizzato da «un sape­ re infradiegetico (e cioè calato completamente nel sapere di chi sta in scena: si sa quello che sa il personaggio, oltre che a vedere con i suoi occhi)»2223. Nel casó dell'immagine sogno, è forse più corretto dire che noi vediamo con i nostri occhi le visioni «mentali» del personaggio (oggettivazione di una soggettività, secondo la terminologia di 22 Edward Branigan , Point o f View in the Cinema. A Theory o f Narration and Subjectivity in Classical Film, Mouton, Berlin-New York-Amsterdam 1984, in particolare il cap. 4, pp. 71-102. 23 Si veda Francesco C asetti e F ederico di C h io , Analisi del film, Bom­ piani, Milano 1990, p. 248. Del resto, anche le soggettive ordinarie possono mar­ care diversi regimi cognitivi del personaggio e dello spettatore, istituendo pertanto una scissione o comunque una certa distanziazione tra i due. Un esempio recente, tratto da Amleto di Zeffirelli: quando il re offre alla regina la coppa su cui aveva preventivamente versato del veleno (ma questo, a differenza di lei, lo sa solo lo spettatore), reiterate soggettive della coppa accrescono l'effetto di suspense (avrà dei sospetti? berrà? non berrà? berrà anche se ha ormai dei sospetti?)classicamente ottenuto in base alla differente distribuzione di sapere. Una grande varietà di ef­ fetti (narrativi, stilistici ecc.) della soggettiva si basano su un sistema di scarti, dis­ simmetrie, disgiunzioni che si stabilisce (tra la «posizione» dello spettatore, del personaggio, del narratore) in quello che convenzionalmente è considerato un luogo di identificazione (di sguardo, di sapere, di credulità).

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Mitry); la nostra visione è inscindibile dalla coscienza che abbiamo noi (ma, per definizione, non il personaggio) della natura onirica delle sue visioni. Inoltre, nei film che tematizzano l'interpretazione psicoanalitica del sogno (non im porta quanto correttamente), la sequenza onirica produce uno spazio in cui si attua una scissione di sapere tra il contenuto manifesto del sogno (metadiegesi focalizzata sul personaggio del sognatore) e il contenuto latente. Q uest'ultim o presuppone un sapere di secondo grado che è gestito dall'interprete del sogno. Ad esempio, gli psicoanalisti all'opera in Io ti salverò {Spellbound, 1945) di Alfred Hitchcock o in Una lama nel buio {Still o f the Night, 1982) di Robert Benton non si limitano a inter­ pretare clinicamente dei sogni, ma trovano attraverso l'analisi elementi che servono a giungere allo scioglimento dell'intrigo. Poco im porta che si tratti di una psicoanalisi piuttosto rozza e che gli psicoanalisti in questione appartengano alla schiera di coloro che Almansi e Béguin chiamerebbero «battitori liberi della bassa freudiana». Ciò che qui interessa è che Γoggettivazione del sogno com porta una sorta di espropriazione della soggettività, come dimostra in modo paradossale Una lama nel buio in cui vediamo, contestualiz­ zato dal racconto dello psicoanalista, il sogno di un personaggio che è già m orto. Insomma, la psicoanalisi (anche quella volgarizzata dal cinema hollywoodiano) costringe a superare le tradizionali distinzioni di soggettivo e oggettivo. Nella relazione tra il dispositivo cinematografico (il sogno del cinema) e le strategie di rappresentazione dell'esperienza onirica (i sogni dei film) entrano in gioco aspetti non trascurabili della teoria del racconto cinematografico24. 24 Qualche utile spunto in questa direzione è stato avanzato da M. D evillers, Rêves informulés, «Cinématographe», 35, febbraio 1978, p. 4, il quale a proposito del sogno cinematografico parla di un'oscillazione «da un enunciato a una sorta di enunciazione senza soggetto», intendendo con questo evidenziare che il sogno ci­ nematografico piuttosto che come «manifestazione psicologica che marca necessariamente il passaggio alla prima persona» si caratterizza al contrario per un dissolvimento in una «terza persona indifferenziata».

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3. Storiata dei sogni (e altro ancora) La varietà di funzioni che la rappresentazione di sogni può ac­ quistare all'interno di un film dipendono in pari misura dalle leggi che regolano il funzionamento del racconto e dalla concezione del sogno che viene attivata. Ad esempio, riferendoci alla classificazio­ ne genettiana dell'«ordine» del racconto25, il segmento onirico è un segmento metadiegetico (cioè un racconto nel racconto) che intro­ duce una anacronia (cioè una dislocazione temporale rispetto al racconto primo). Esso può essere orientato verso il passato (analessi) o il futuro (prolessi), anche se la anacronia propria del sogno è costitutivamente indefinita. La funzione prolettica del racconto di un sogno presuppone l'attivazione della credenza (o quanto di essa permane oggi) che i sogni contengano la previsione del futuro. Da questo punto di vista, non c'è aspetto del nostro «sapere» sul sogno (non im porta se abbia basi scientifiche, religiose, superstiziose o altro) che non abbia avuto o che non possa avere trattazione cinematografica. Schematizzando, diremo che al sogno cinematografico si possono attribuire: - in quanto racconto, funzioni analoghe a quelle attribuite da Genette ai segmenti metadiegetici (tra queste, la funzione predittiva è esemplificata con sogni, oracoli ecc.)2627; - in quanto evento, tutte le funzioni previste dallo statuto cultu­ rale del sogno attivato dalla narrazione (si va, a seconda del conte­ sto, dal colloquio con i defunti alla realizzazione di un desiderio inconscio); - in quanto artificio retorico, tutte le funzioni attribuibili al som­ m im i fictum 17.

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La funzione dei sogni cinematografici (come del resto di quelli letterari) non può, quindi, essere ridotta a quella narrativa. C 'è chi ha sostenuto, con eccellenti ragioni, la tesi della storicità dei so­ gni28. Si è arrivati, inoltre, a studiare, su basi statistiche e con inda­ gini empiriche, la distribuzione sociale dei sogni (cosa sognano i contadini? e i dirigenti? e gli artigiani? chi sono i sognatori "atopici"?)29. Se questo radicamento nello storico e nel sociale del sogno «sognato» è un dato acquisito, a maggior ragione si potrà parlare di una storicità dei sogni rappresentati e raccontati al cine­ ma. E sulla traccia di Almansi e Béguin30, anche di un'estetica, di una retorica e - aggiungiamo - di un'ideologia. Tutte le possibili tipologie dei sogni cinematografici con la va­ rietà delle funzioni potranno poi servire per stabilire relazioni tra il sogno e l'universo estetico di un autore o gli elementi costitutivi di un genere o i caratteri originali di una cinematografia nazionale. L'onirismo come tratto distintivo di un cinema d'autore è sicura­ mente una formula di comodo, di cui spesso si è abusato (conniventi gli autori), tuttavia è difficile non porre la questione parlando di registi come Cocteau, Bergman, Fellini, Bunuel... Quanto alle cinematografie nazionali, sintomatico è l'impiego del sogno nel cinema italiano. Da L'impiegato (1959) di Gianni Puccini, con N ino Manfredi, a Sogni mostruosamente proibiti (1982) di N eri Parenti, con Paolo Villaggio (o qualche altro titolo fantozziano), prevalgono nettamente i «sogni di desiderio» giocati in chiave comica o iperbolica, non senza intenti moralistici (nel caso di Puc­ cini). Del resto, fin dai primi decenni fa la sua comparsa, nel nostro cinema, il sogno pedagogico-nazional-popolare. N e sono prototipi La guerra e il sogno di Momi (1917) di Segundo de Chom òn (con Robert T. E berwein, Film and The Dream Screen, Princeton U.P., Princeton,

25 G érard G enette , Figure III. Discorso del racconto , Einaudi, Torino 1976, 81-134 (ed. orig. 1972). 26 Ibid., pp. 279-81 e G é ra rd G e n e tte , N u o v o discorso del racconto, Einaudi, Torino 1987, pp. 79 sg. (ed. orig. 1983) Sulle possibilità di applicazione della classi­ ficazione genettiana alle sequenze oniriche, si veda Silvia C ap o cch ia, Per una ti­ pologia della sequenze oniriche, «Cinema & Cinema», 61, 1991, pp. 23-30. 27 H agge , Il sogno e la scrittura cit., pp. 169-88. Per una tipologia che cerca di tener conto sia della natura sia delle funzioni del sogno rappresentato, si veda

1984, pp. 54-90 (la sua tipologia esamina sogni basati sull'«isomorfismo mente/corpo», sogni di eventi traumatici, «anxiety dreams», sogni di desiderio, sogni proiettici). 28 Si veda George Steiner , L'Historicité des rêves (deux questions adressées à Freud), in AA. W ., 1 linguaggi del sogno, Sansoni, Firenze 1984, pp. 107-21. 29 Si veda J. e F. Duvignaud e J.-P. C orbeau , La banca dei sogni, Editori Riuniti, Roma 1980 (ed. orig. 1979). 30 Almansi e Béguin , Il teatro del sonno cit., p. 23.

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supervisione di Pastrone) e Mariute (1918) di Eduardo Bencivenga. Q uest'ultim o, interpretato da Francesca Bertini nel ruolo di se stessa, presenta una curiosa inversione del rapporto tra sogno e realtà, per cui tutto l'onirico (con tinte nettamente dannunziane) è nella realtà e tutto il realistico è nel sogno: tipico prodotto di una cultura avvezza da sempre a castigare con buoni propositi e proget­ ti pedagogici il proprio inconscio (cinematografico) che così si vendica e riemerge imperioso nella realtà (reale) con le sue più mostruose configurazioni... Dall'esame di queste tipologie oniriche, certamente parziali ma pur sempre indicative, emergono, oltre alle implicazioni teoriche dello studio delle rappresentazioni del sogno nel cinema, alcune zone di maggior produttività lungo la linea di confine tra film e sogno. Schematizzando, esse possono essere individuate:

tutte le possibili metaforizzazioni della scena onirica. Vorrei poi ricordare The Iced Bullet (1917) di Reginald Barker, uno tra i primi film in cui si pone metonimicamente la relazione tra set e scena onirica (uno sceneggiatore che cerca di vendere i suoi soggetti, in attesa di una risposta, si addormenta e sogna uno dei soggetti da lui scritti). E, assieme a questo, il contemporaneo A Girl's Folly (1917) di Maurice Tourneur che inscena, con maggior sottigliezza, un repertorio di situazioni incentrate sulla relazione metaforica tra vi­ ta reale e moving pictures. U n posto centrale, in questo percorso, spetta naturalmente a La palla n. 13 (Sherlock Jr., 1924) di Buster Keaton, in cui la relazione tra sogno come appagamento del deside­ rio e visione filmica è definita attraverso un gioco di rinvìi vir­ tualmente infinito tra il dispositivo psichico del sogno e la messa in scena cinematografica. Procedendo nei decenni successivi, gli esempi possibili si m olti­ plicano. Basterà ricordare, perché in esso più esplicita è la relazione di mise en abyme, il musical (Minnelli, in particolare), in cui frequentemente sequenze di ballo vengono contestualizzate come oniriche e in cui viene accentuato l'onirism o delle configurazioni coreografiche. Ricorderò, infine, che non a caso il saggio di Metz che ha messo in circolazione anche in campo cinematografico la nozione di mise en abyme è stato scritto in relazione a Otto e mezzo, altro film paradigmatico per le sequenze oniriche e l'indecidibilità tra sogno e realtà, cinema e vita. E pensare che all'epoca dell'uscita del film di Fellini, furono messe in circolazione copie con le se­ quenze oniriche virate in seppia, al fine evidente di «orientare» lo spettatore, di «aiutarlo» a separare realtà e immaginazione: da sem­ pre, grammatici pedanti, distributori miopi e censori di ogni gene­ re vanno a braccetto.

- nell'uso del sogno come espediente per attivare procedimenti di mise en abyme capaci di tematizzare le affinità tra sogno e cinema; - nell'uso di strategie enunciative basate sull'indecidibilità tra sogno e realtà e sul procedimento metaforico; - nello sfruttamento dell'effetto di sconfinamento, che può esse­ re deliberatamente traumatico (come nel new horror) o sottilmente sfumato come ha saputo fare, in vari generi, il cinema hollywoo­ diano classico. Pur con tutti i limiti che può avere la sequenza onirica esplici­ tamente dichiarata, essa tuttavia può essere produttivam ente recu­ perata quando diviene funzionale allo sviluppo di una delle tre possibilità sopra schematizzate. Mi limiterò qui a delineare qualche traccia della prim a (mise en abyme) in quanto è quella che meglio fa vedere il punto di contatto tra un sogno (quello del cinema, del dispositivo) e i molti sogni (dei film). Affidandomi a preferenze personali, questo percorso non può non iniziare da Les Hallucinations du Baron de Münchhausen (1911) di Georges Méliès, che come già abbiamo detto è un catalogo non solo delle ossessioni visive del grande pioniere, ma anche di

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P a r t e Se c o n d a

SCEN A R I ITA LIA NI

IV. LA P A S S IO N E D I ESSERE U N A L T R O : LE O M B R E C IN E M A T O G R A F IC H E D E L F U M A T T IA P A S C A L

Quanti sono i Mattia Pascal dello schermo? E, soprattutto, quali sono? Per rispondere non basta citare i film dichiaratamente ispira­ ti a II fu Mattia Pascal (1904) di Pirandello (finora tre ma, come vedremo, le cose non sono così semplici). Bisognerebbe citare an­ che quelli che sviluppano una tematica che in vario modo si ispira al romanzo pirandelliano. E allora in elenco dovrebbe figurare Professione: reporter (1975) di Michelangelo A ntonioni, che, a giudizio di Tullio Kezich, è «il più convincente Mattia Pascal dello schermo», anche se va considerato «una semplice derivazione, pro­ babilmente involontaria del tema originario»1. Accanto a quello di Antonioni, potrebbero stare molti altri film, di genere e livello diverso, da Ménage a ll’italiana (1965) di Franco Indovina, con Ugo Tognazzi che sviluppa su registri opportunam ente grotteschi da «commedia all'italiana» una sorta di incrocio tra Mattia Pascal e D on Giovanni, a Hotel Colonial (1986) di Cinzia Th. Torrini, nel quale la tematica pirandelliana dell'impossibile ricerca di un'altra identità è una tra le tante suggestioni affastellate in una sceneggia­ tura sproporzionatamente ambiziosa. U na eco così vasta nel settore dello spettacolo cinematografico è il sintomo della capacità di penetrazione nell'immaginario collet­ tivo di un'invenzione letteraria. N el caso poi del Fu Mattia Pascal è la perdurante fortuna presso il pubblico dei lettori del romanzo che è uno dei pochi classici del nostro Novecento regolarmente presenti nelle classifiche settimanali dei supplementi letterari - a confermare Vattualità del romanzo. A tutto ciò va aggiunta poi la1* 1 T u llio Kezich, Mattia Pascal: uno due tre, in L e o n a rd o Sciascia (a cura di), Omaggio a Pirandello, Bompiani, Milano 1986, p. 80.

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fortuna teatrale e televisiva di questa complessa creatura pirandel­ liana: basterebbe ricordare l'adattamento teatrale di Tullio Kezich, messo in scena da Luigi Squarzina nel 1975, da Maurizio Scaparro nel 1986 e da Marco Mattolini nel 19922, e quello televisivo di Diego Fabbri (1960). Sicuramente ha giovato e giova alla fortuna straordinaria di que­ sto testo la tematica della fuga dalla gabbia di un'identità sociale, anagrafica, esistenziale di un soggetto sempre disposto ad affermare la propria alterità (il grido di Rimbaud Car JE est un autre attra­ versa con varietà di significati e accenti la coscienza della moder­ nità). L'universalità del tema affrontato da Pirandello in quello che può essere considerato il suo romanzo più celebre non deve però trarre in inganno: tale è la sua complessità strutturale e stilistica che difficilmente esso sopporta riduzioni e semplificazioni. N o n è un caso forse che al fascino che questo testo continua a esercitare presso gli uomini di spettacolo, come dimostrano le varie versioni cinematografiche, teatrali e televisive, non corrispondano dei risul­ tati sempre soddisfacenti, soprattutto quando del testo pirandel­ liano non si sa cogliere la complessità strutturale. Questa incom­ prensione del resto ha riguardato spesso anche la stessa critica, come dimostra il ben noto giudizio, assai limitativo, di Benedetto Croce. Saranno qui esaminate le tre riduzioni cinematografiche del Fu Mattia Pascal, cercando di capire in che modo la presenza o meno di un effettivo tentativo di confronto con la struttura espressiva del testo letterario determini il risultato finale. Certo, per quanto deri­ vato da una fonte letteraria, un film diventa un'opera a sé stante, dotata di una sua autonomia e di una sua specificità. Tuttavia è pur sempre legittimo chiedersi quali spunti forniti dall'opera originaria riescano ad assumere una loro configurazione filmica e quali invece rimangano un riferimento inerte, rispettoso di un insieme di dati puramente esteriori.

2 T ullio Kezich , Il fu Mattia Pascal, Einaudi, Torino 1975.

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1. L'Herbier, Chenal, Monicelli Le tre versioni cinematografiche del Fu Mattia Pascal di cui mi occuperò sono state realizzate in tre momenti variamente signifi­ cativi della storia del cinema. Quella di Marcel L 'H erbier (Le Feu Mathias Pascal, 1925) viene realizzata all'apogeo del cinema muto; quella italo-francese di Pierre Chenal (// fu Mattia Pascal/ L'Homme de nulle part, 1937), all'epoca della stabilizzazione dei codici narra­ tivi ed espressivi del cinema sonoro; infine, quella di Mario Monicelli (Le due vite di Mattia Pascal, 1985) rappresenta un tipico prodotto del cosiddetto cinema televisivo. A queste tre diverse fasi della storia del cinema corrispondono, poi, tre diverse fasi del rapporto tra il cinema e l'opera dello scrit­ tore siciliano. U n rapporto che, per quanto ricco di scambi e di suggestioni, non è privo di ambiguità, fraintendimenti e occasioni mancate. Senza entrare nel merito degli atteggiamenti assunti da Pirandello nei riguardi del cinema, che sono per lo meno ambigui3*, basterebbe soffermarsi sull'uso che il cinema italiano ha fatto dello scrittore siciliano, sfruttando la risonanza del suo nome piuttosto che affrontare il confronto tra linguaggi o impadronirsi in modo non superficiale degli aspetti più impegnativi della sua problema­ tica. Ad esempio, nei primi anni venti, nel periodo precedente alla realizzazione in Francia del Feu Mathias Pascal, escono ben sette film italiani di ispirazione pirandelliana, il cui interesse risulta piut­ tosto marginale rispetto alla varietà e alla complessità della problematica dello scrittore siciliano. Eccone l'elenco con l'indicazione della fonte: Il lume dell'altra casa (1920) di Ugo Gracci 3 Per una completa documentazione sui rapporti tra Pirandello e il cinema, si veda Francesco C àllari (a cura di), Pirandello e il cinema, Marsilio, Venezia 1991. Tra i numerosi contributi bibliografici accumulatisi in anni recenti, si ten­ gano presenti almeno: ENZO Lauretta (a cura di), Pirandello e il cinema. Centro nazionale di studi pirandelliani, Agrigento 1978; N ino G enovese e Sebastiano G esù (a cura di), La musa inquietante di Pirandello: il cinema, Bonanno, Palermo 1990, 2 voli.; M aria Antonietta G rignani (a cura di), Il cinema e Pirandello, La Nuova Italia, Firenze 1991.

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dalla novella omonima (1909); Lo scaldino (1920) di Augusto Genina dalla novella omonima (1906); Il crollo (1920) di Mario Gargiulo dall'atto unico Lumie di Sicilia (1900); Ma non è una cosa seria (1921) di Augusto Camerini dalla pièce omonima (1918); La rosa (1921) di Arnaldo Fratelli dalla novella omonima (1914); Il viaggio (1921) di Gennaro Righelli dalla novella omonima (1910); a questi alcune filmografie aggiungono Senza amore o Pantera di neve (1921) di Arnaldo Fratelli, al cui soggetto Pirandello, secondo una testimonianza dello stesso regista, avrebbe collaborato4. Si riscontra con tutta evidenza una predilezione per le novelle (e tra queste l'esito migliore, almeno dal punto di vista del pubblico, sembra essere stato l'adattamento de II viaggio di Righelli5). A maggior ragione risulta quindi significativo l'incontro che, sotto l'egida di L'Herbier, avviene tra l'avanguardia francese e l'opera di Pirandello con la traduzione filmica del Fu Mattia Pascal. A rigor di termini, questo incontro dovrebbe riguardare la fortuna di Pirandello in Francia, tuttavia la «versione» italiana del film di L'H erbier rappresenta anche - come vedremo - un episodio non secondario (purtroppo, tutto al negativo) della fortuna, non solo cinematografica, di Pirandello in Italia. Né, per quanto riguarda l'Italia, le cose vanno meglio negli anni trenta, anche se il nome di Pirandello viene associato a produzioni di prestigio, in un crescendo che culmina con la realizzazione negli studi di Cinecittà, da poco completati, di un nuovo Fu Mattia Pascal, risultato di una coproduzione italo-francese. Basti ricordare che nel nome di Pirandello, cioè di colui che aveva teorizzato che il cinema doveva trasformarsi in «pura visione»6, viene realizzato il prim o film sonoro italiano, parlato e

cantato, La canzone dell'amore (1930) di Gennaro Righelli, tratto dalla novella In silenzio che dà il titolo al sesto volume (1923) dell'edizione Bemporad delle Novelle per un anno. Per quanto Blasetti lo ritenesse «un avvenimento base nella storia del cinema­ tografo italiano»78, questo film non si segnala che per gli espedienti macchinosi di sceneggiatura tesi a introdurre le attrazioni canzonettistico-musicali permesse dal sonoro. I caratteri della novella risul­ tano a tal punto sconciati, con la trasformazione del protagonista in una loquace fanciulla e con la sostituzione del finale ambiguo con un melenso happy ending, che il riferimento a Pirandello più ancora che inutile appare derisorio. Appena un po' meglio, ma non troppo, vanno le cose con il film Acciaio (1933) di Walter Ruttmann, tratto da un soggetto originale (Giuoca, Pietro!)%e con la seconda versione del Fu Mattia Pascal per la quale, faceva notare con rilievo la stampa d'epoca, viene utilizzata la stessa gru aerea messa a punto per le riprese del kolossal di regime Scipione IAfricano9. Nel film di Chenal dopo il titolo, Il fu Mattia Pascal, appare la roboante dicitura «dal romanzo immortale di Luigi Pirandello». Quello di Chenal si segnala soprattutto come un caso di sfrutta­ mento del nome di Pirandello in un film che del testo originale riprende solo la fabula-, esso si inscrive come episodio dignitoso, e nulla più, nel clima del naturalismo cinematografico che si afferma

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4 Si vedano G enovese e G esù (a cura di), La musa inquietante di Pirandello cit., voi. 2, pp. 20 sg.; Vittorio M artinelli, Cinema muto italiano, «Bianco e Nero», XLII, 1-3, 1981, p. 291. 5 Ibid., pp. 351 sg. 6 Luigi Pirandello , Se il film parlato abolirà il teatro, «Corriere della Sera», 16 giugno 1929 e II dramma e il cinematografo parlato, «Cinema», IV, 81, 1939 (articolo apparso originariamente sulla «Nacion» di Buenos Aires, 17 luglio 1929); ora in C allari, Pirandello e il cinema cit., pp. 120-27; si veda anche M ario

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Verdone , Gli intellettuali e il cinema, Bulzoni, Roma 19822, pp. 94-102. 7 Alessandro Blasetti, Servizio di turno, «Cinematografo», 30 novembre 1930, citato in Francesco Savio , Ma l'amore no. Realismo, formalismo, propaganda e telefoni bianchi nel cinema italiano d i regime (1930-1943), Sonzogno, Milano 1975, p. 57. 8 C allari, Pirandello e il cinema cit., non accoglie, con criteri discutibili, Ac­ ciaio nella filmografia pirandelliana, in quanto il soggetto del film viene da lui at­ tribuito al figlio di Pirandello, Stefano Landi; per una ricostruzione esemplare di tutta la vicenda produttiva di Acciaio, che dimostra come il film appartenga inte­ gralmente alla storia della fortuna cinematografica di Pirandello, si veda Claudio C amerini, Acciaio. Un film degli anni trenta. Pagine inedite d i una storia italiana, Nuova Eri, Torino 1990. 9 D ario Sabatello, Il fu Mattia Pascal, «Lo schermo», XV, dicembre 1936, pp. 17 sg.

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in Francia negli anni trenta con alcuni riflessi anche in Italia (ma non è di questo tipo la miglior chiave di lettura del romanzo). Corretta e funzionale rispetto alle scelte di sceneggiatura e di regia risulta l'interpretazione di Pierre Blanchar nel ruolo del protagonista. Da un confronto tra il film di Chenal e il testo letterario, risulta con particolare evidenza un uso assolutamente piatto, mantenuto nei limiti di un'estetica naturalistica, delle potenzialità di impiego della voce narrante offerta dal sonoro. L'unico mom ento in cui si fa notare è quando Adriano Meis medita il finto suicidio per poter tornare a essere Mattia Pascal. Il conflitto tra i due personaggi, così im portante nel romanzo e reso con soluzioni originali nel film di L'H erbier, diventa involontariamente grottesco nel relativo passo del film di Chenal. Il personaggio, in abito scuro e con l'aria pensosa, è in riva al Tevere. Sullo sfondo di un paesaggio oleografi­ camente cupo e con l'accompagnamento di una musica enfatica ascoltiamo una voce o ffe he così lo apostrofa:

sione di monumentalizzazione. Significativo, in questo senso, è l'incipit di Kaos i cui titoli di testa scorrono sulle suggestive im­ magini aeree del tempio di Segesta, tratte da un famoso documen­ tario di Folco Quilici; una sorta di monumentalizzazione di secondo grado, si direbbe, anche se ciò non implica un giudizio sugli esiti del film che non sono disprezzabili. La versione di Monicelli - editto minor cinematografica di uno sceneggiato televisivo in due puntate10 - è purtroppo solo una prova della stanchezza del cinema italiano degli anni ottanta, e dell'interprete, Marcello Mastroianni, sconsolatamente fuori ruolo. La sorte ha voluto che questo attore, giustamente assai apprezzato per prove di altro tipo e di altra levatura, sia stato chiamato a dare il volto a due dei più tipici eroi del romanzo novecentesco, il Mersault di L 'Etranger di Camus per la regia di Visconti e il Mattia Pascal, con esiti in ambedue i casi assai deludenti: è evidente che le ovattate mollezze che evoca l'allure ciondolante e sorniona di Mastroianni male si conciliano con inquietudini e dissociazioni novecentesche, con le astratte geometrie del conte philosophique. Circa questa poco convinta, ancor prima che poco convincente, operazione di aggiornamento del Fu Mattia Pascal, alla quale hanno collaborato due illustri sceneggiatori del cinema italiano, Suso Cecchi D'Amico e Ennio de Concini, non ci sarebbe altro da aggiungere se non fosse che il film fallisce in modo più clamoroso proprio là dove tenta gli agganci all'attualità, alla cronaca, quando cioè gioca la carta che è stata a lungo vincente nel cinema di costume e di impegno civile e che qui appare come una malinco­ nica moneta fuori corso. Si può collezionare al proposito un'anto­ logia di battute pronunciate da attori che sembrano essere i prim i a non crederci: la madre di Mattia che dice che Malagna si è arric­ chito speculando sugli emigrati degli anni sessanta; Malagna che aggrava la sua posizione con battute volgari sull'aborto; i riferi­ menti alla vedova Pescatore che si è inventata un marito desaparecido per mascherare il fatto di essere stata abbandonata per un'altra donna. Andrebbero antologizzati anche alcuni passi della voce

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Tu vuoi ucciderti...non lo fare! Hai già fatto troppe pazzie. Non sei tu che devi sparire, Mattia Pascal, ma l’altro, Adriano Meis. Uccidilo! Ritorna a Miragno. Riprenderai la tua condizione e il tuo nome. Picchierai all'uscio della tua casa. «Eccomi: io sono Mattia Pascal vivo». Su! Di' addio a Adriano Meis una volta per sempre. Distruggilo! La terza versione del Fu Mattia PascaI viene girata negli anni ottanta, cioè in un decennio caratterizzato da un consistente ricorso a Pirandello, sicuramente influenzato dalla concomitanza del prim o cinquantenario della morte (1986) oltre che da una certa crisi di idee. N ell'am bito del revival pirandelliano degli anni ottanta che comprende anche II turno (1981) di Tonino Cervi, Enrico I V (1984) di Marco Bellocchio e Kaos (1984) dei fratelli Taviani -, quello di Monicelli risulta forse il più inadeguato proprio perché ambiguamente sospeso tra illustrazione scolastica e (velleitari) tentativi di attualizzazione. Certo, in questo revival pirandelliano, è proprio la concomitanza delle celebrazioni che accresce l'impres-

10 Trasmesso dalla Rai neH'autunno del 1990.

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monologante di Mastroianni che, introdotta con finalità illustrative e didascaliche, finisce per banalizzare anche qualche passabile trova­ ta di regia. Limitiamoci a qualche rapido esempio, si può citare la scena in cui l'eroe si lascia tentare dall'idea di darsi una «morte per acqua». Il travaglio psicologico è reso da un'«incredibile» voce fuori campo che illustra le ragioni delle sue esitazioni: «Certo che affon­ darsi in acqua in una notte gelida come quella era dura, anche per uno stanco della vita. E oltre tutto già bagnato»; oppure quella in cui vediamo Mattia Pascal seguire meccanicamente la sua autom o­ bile rimossa da un carro attrezzi, quasi si trattasse di un funerale: come se l'impressione visiva, accentuata dalla musica di circostanza, non fosse bastevole, ecco riemergere la voce di Mastroianni che commenta: «Anche quest'ultimo vestigio di me stesso se ne andava ingloriosamente al cimitero. Lo seguii per qualche tem po come per dare l'ultim o addio all'ultim o ricordo di Mattia Pascal».

cinema italiano11. A tal punto Sciascia arrivò a identificare il personaggio di Mattia Pascal con il suo prim o interprete cinematografico che nel suo Alfabeto pirandelliano, alla voce «Mosjoukine», scrisse:

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2. M osjoukine è M attia Pascal, parola di Sciascia D opo aver tracciato questo rapido profilo dei rapporti tra il romanzo di Pirandello e il cinema, risulterà giustificata la scelta di concentrare l'attenzione sulla prim a versione del Fu Mattia Pascal, che non è soltanto la più interessante, ma è anche quella che nasce come vedremo più avanti - sdoppiata. In questa mia scelta mi trovo in buona compagnia. A Leonardo Sciascia, che al film di L'H erbier dedicò un'attenzione particolare, solo la prim a delle tre vite cinematografiche del Fu Mattia Pascal sembrava interessare. È del resto comprensibile che, avendo letto per la prima volta, quando era ancora ragazzo, il nome di Pirandello, non in un libro, ma sui titoli di testa del film di L'H erbier, Sciascia si sentisse intellettualmente e sentimentalmente legato al «primo dei tre Mattia Pascal del cinema nel cui ricordo sbiadisce quello del secondo», mentre la sua ostentata indifferenza per l'ultim a versione («non ho visto, né vedrò il terzo») va probabilmente messa in relazione con una sfiducia nelle sorti del

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Nel 1925, ormai famoso, il regista Marcel L'Herbier lo chiama a interpretare il Mattia Pascal di Pirandello: da Fedja Protasov a Mattia Pascal, già si intravede la linea di un destino. Indimenticabile Mattia Pascal: nonché tutti i lettori che hanno visto il film, forse lo stesso Pirandello non riuscì più a ricordare il suo personaggio se non con la figura, i movimenti e le espressioni di Mosjoukine112. Il lettore di Alfabeto pirandelliano che non conosca un altro importante testo di Sciascia sul grande attore russo rischia di non cogliere tutte le sfumature e le allusioni presenti. Poiché tale voce costituisce un capitolo importante del particolarissimo pirandellismo di Sciascia, mi soffermerò ancora un poco su questo singolare interesse che egli ha dimostrato, più ancora che al film di L'H erbier, del quale ha comunque colto tutta l'importanza, alla figura del suo interprete. Il testo in questione, apparso originariamente in un volum etto fuori commercio edito da M ondadori13, è stato ristampato, con l'aggiunta di una postilla, in Cruciverba14. Prendendo spunto dalla visione presso Les Archives du Film di Bois d'A rcy del film di L'H erbier, Sciascia intesse un gioco, da lui stesso definito borgesiano, nel quale attorno alle vicende dell'attore che per prim o interpretò il ruolo di Mattia Pascal aleggiano le ombre di «uno, 11 Leonardo Sciascia, Per me è come un rapporto con il padre, «Tuttolibri», XII, 484, 4 gennaio 1986. 12 Id., Alfabeto pirandelliano, Adelphi, Milano 1989, p. 45. La prima edizione di questo testo è apparsa con il titolo Pirandello dall'A alla Z, quale supplemento al n. 26 de «L'Espresso» del 6 luglio 1986. 13 Id ., Il volto sulla maschera. Mosjoukine-Mattia Pascal, Mondadori, Milano 1980. Sull'importanza di questo scritto per la definizione dei rapporti tra Sciascia e il cinema, si veda C laude Ambroise, Visionner avec Sciascia, in A A .W ., Cinéma Italien. Rencontres d'Annecy 89, Annecy 1989, pp. 38-40. 14 Leonardo Sciascia, Cruciverba, Einaudi, Torino 1983, pp.182-201.

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nessuno, centomila» personaggi: da Casanova, il ruolo che Mosjoukine interpreta in seguito al successo del Feu Mathias Pascal, a D on Giovanni («Non è quella di Mattia Pascal - anche se il caso sembra avervi più parte che la volontà - una forma del polim orfo dongiovannismo, se non addirittura la radice?»); da Fedja Protasov, l'eroe del Cadavere vivente di Tolstoj, a Michel Strogoff («Quand'ero Michel Strogoff - scrive Mosjoukine - per la prim a volta ho avuto l'impressione di mutare personalità, di uscire da me stesso, di non essere più Ivan Mosjoukine...»); dal «paradosso dell'attore» di Diderot all'«effetto Kule^ov» che trovò in Mosjoukine il suo interprete ideale («Sarebbe stato impossibile concepire un simile esperimento e ottenere quegli effetti senza il volto di un grande commediante»). Sulla base di poche fonti (un profilo di Jean M itry, La storia generale del cinema di Sadoul, l'autobiografia di L'H erbier), Sciascia costruisce un inquietante profilo dell'attore russo, a metà strada tra Pirandello e Borges, tutto incentrato sulla tesi paradossale della predestinazione di Mosjoukine a essere Mattia Pascal. L'argom en­ tazione di Sciascia è scopertamente capziosa: se non c'è alcun rife­ rimento al Mathias Pascal nell'autobiografia di Mosjoukine, questa è la prova di una fatale e ormai compiuta identificazione dell'attore con il suo personaggio. Ma il vertice di questa straordinaria invenzione è raggiunto dalla Postilla dove Sciascia racconta l'incredibile vicenda dello scrittore Romain Gary, che di Ivan Mosjoukine fu probabilmente il figlio naturale, m orto suicida nel 1980 (poco dopo la morte avvenuta in circostanze drammatiche della moglie Jean Seberg, l'indimenticabile interprete di Bonjour Tristesse e di A Bout de souffle). D opo aver illustrato il tema «pour cause» pirandelliano dell'impossibilità di essere Romain Gary attraverso i vari eteronimi adottati lungo la carriera dello scrittore francese (Fosco Sinibaldi, Shatan Bogat, Emile Ajar), conclude:

Quella che Pirandello, dedicandole il saggio sull'umorismo chiamava «la buon'anima di Mattia Pascal», come si era incarnata in Mosjoukine, per legittima eredità era passata ora a Romain Gary15. 15 Ibid., p. 201.

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3. Da M attia a Mathias e ritorno: per una critica delle varianti Il prim o Mattia Pascal, quello di L'H erbier, in una sorta di predestinazione alla scissione, nasce in realtà doppio o quasi: le differenze tra l'edizione italiana e quella francese sono tali che non è fuori luogo parlare di due film diversi16. Le differenze tra le due versioni erano già state notate da Sciascia che ne ha parlato nel saggio appena citato. Scrive Sciascia a propo­ sito di una visione del film presso Les Archives du Film di Bois d'Arcy (trasformato inspiegabilmente in Bercy) a più di quaran­ ta n n i dalla prima volta:

[...] nella copia del film che sto vedendo qualcosa manca. Non c'è, per esempio, nel film degli «Archives», la scena di Mattia Pascal che esce dal casino di Montecarlo, prende uno di quei taxi scoperti di allora e nella corsa in piedi, nel taschino dell'autista infila biglietti di banca17. In effetti questa scena non c'è in nessuna della copie da me visionate. L'esame comparato delle quattro differenti copie che ho potuto studiare, confermano che sicuramente è la versione italiana quella che ha subito i maggiori rimaneggiamenti e tagli, mentre la più completa è certamente quella di Bois d'A rcy18*. In realtà la 16 II presente studio si basa sulla visione delle seguenti copie: versione restau­ rata dalla cineteca di Bois D'Arcy (1975), la stessa vista da Sciascia; versione re­ sturata dalla Cinémathèque Française (1989); edizione italiana del film di L'Her­ bier, conservata a Milano presso un collezionista privato (si tratta della stessa copia trasmessa dalla Rai in un breve ciclo pirandelliano nel 1986); edizione inglese del film di L'Herbier in una copia conservata a Milano presso un collezionista privato (questa copia, con didascalie tradotte in italiano, è stata trasmessa da Tele+1 nel 1992). 17 Sciascia, Cruciverba cit., p. 188. 18 Sul restauro del Feu Mathias Pascal, si veda Frantz Schmitt , Notes sur la re­ stauration des films de Marcel L'Herbier, in A A .W ., Hommage a Marcel L'Herbier en cinq films de l'art muet, Centre National de la Cinématographie, Paris 1975 (catalogo dell'omonima rassegna, pagine non numerate); An t o n io C osta , Ci vorrebbero quattordici anni e mezzo per vedere tutti i film di Bois d'Arcy, «Cineteca», I, 7-8, novembre-dicembrel985, pp. 4 sg.

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vicenda distributiva del film di L 'H erbier in Italia è piuttosto com­ plessa. Benché risulti approvato dalla censura già nell'aprile del 1926 (visto n. 22644), il film esce solo l'anno successivo (1927), con numerosi tagli: mentre l'edizione originale francese è di 3300 metri, quella italiana risulta di 2481. Risulta, inoltre, che nel settembre 1926 la censura lo riprese in considerazione in base alla legge n. 2277 del 10 dicembre 1925, per escluderlo ai minori di anni 15. Tuttavia, nel marzo del 1927 il film ricompare nelle liste di censura (con lo stesso numero e lo stesso metraggio), forse perché - secondo quanto ipotizza Vittorio Martinelli - la distribuzione si era opposta al provvedimento di divieto ai minori. Il film fa un'ultim a appari­ zione nelle liste della censura nel febbraio del 1930, con la precisa­ zione che al titolo originale è stato aggiunto un nuovo titolo, La maschera della morte (che è lo stesso che compare nella copia italiana attualmente visibile)19. Prendendo come termini di confronto la copia di Bois d'A rcy e quella italiana appena citata, una «critica delle varianti» ci potrà dar ragione dei princìpi organizzativi dei due diversi testi: cogliendo i criteri con cui sono stati fatti i tagli e le interpolazioni nell'edizione italiana siamo in grado di capire meglio il ruolo che le parti omesse o interpolate hanno nella definizione del testo originale. Si può cominciare dalle varianti più vistose, quelle che investono lo svi­ luppo narrativo. Innanzi tutto c'è il problema dei due diversi finali: con il m atrim onio tra Mattia e Adriana nell'edizione francese e con una conclusione più consona al romanzo e alle nostre leggi di allora, che non prevedevano il divorzio, nell'edizione italiana. M entre nella versione italiana, l'epilogo è enunciato dalla didascalia «Riprese le vie del mondo e d'ora in poi, a chi gli chiederà come si chiami, risponderà Io sono il Fu Mattia Pascal», in quella originale francese il matrimonio tra Mattia e Adriana è mostrato attraverso una sorta di foto ricordo, incorniciata e inquadrata obliquamente. Può sembrare paradossale che Pirandello abbia accettato tale mutamento di finale dopo che, nella lettera di assenso per l'adatta-

mento cinematografico del Fu Mattia Pascal, aveva ricordato scan­ dalizzato il caso di una società americana che aveva osato proporgli di modificare «lo scioglimento» di un suo testo20. D 'altra parte, in una dichiarazione rilasciata a Parigi alla vigilia dell'inizio della lavorazione del film, Pirandello, pur ribadendo quanto affermato nella lettera, aveva lasciato la porta aperta a qualche possibilità di modifica:

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19 Ho raccolto tutte queste informazioni grazie alla preziosa collaborazione di Vittorio Martinelli.

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Il est inadmissible, affirme l'auteur de L a V olupté de l'H onneur, qu'un directeur de firme cinématographique, un commerçant, vienne sans nous consulter modifier les cours des événements que nous avons imaginés ou la vie, superficielle ou profonde, des êtres que nous avons créés et tout cela sous pretexte que le public a ses raisons...Qu'est-ce qu'il en sait? Est-ce qu'un éditeur nous demande de changer une virgule au manuscrit du roman dont nous confions le lancement? Alors?... C'est pour cela que je restais si longtemps éloigné du cinéma. Mais avec M. Marcel L'Herbier je suis tranquille. Il va venir s'installer près de moi à Rome et nous travaillerons en bonne camaraderie, en complète intimité à l'élaboration de son scénario. Si ce travail nous amène logiquement à envisager certaines modifications à apporter à mon roman nous verrons... mais je ne crois pas21. U n'altra vistosa variante è data dalla quasi totale eliminazione di riferimenti al libro che Mattia Pascal sta scrivendo, il cui frontespi­ zio (Histoire de la Liberté par Mathias Pascal) è ben leggibile nell'edizione francese, mentre lo spettatore italiano vede solo di sfuggita il titolo nella sola sequenza del treno (e, quindi, non può sapere che Mattia è l'autore dello «scartafaccio» che portava con se a Montecarlo!). N on si tratta solo di un espediente per eliminare la componente linguistica francese in un personaggio italiano che il pubblico avrebbe trovato incongrua, perché di fatto vengono eli­ minate nella versione italiana le caratterizzazioni intellettuali che il 20 Per il testo della lettera, si veda M ichele C anosa (a cura di), Marcel L'Herbier, Pratiche, Parma 1986, p. 93. 21 René J eanne , Cinq minuits avec Pirandello, «Nouvelles Littéraires», 19 novembre 1924.

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personaggio invece possiede nell'originale. Nella versione francese si crea inoltre un efficace effetto di gag, parodistico e derisorio, nella contrapposizione tra la parola «liberté» che appare sul fronte­ spizio del libro e la stessa parola che Mattia «vede» fluttuare nello spazio, cioè tra gli astratti furori dell’intellettuale impegnato a comporre la storia della libertà e le preoccupazioni del marito fru­ strato per il quale la parola «libertà» si riduce alla concreta prospet­ tiva di sottrarsi alle angherie della suocera. Inoltre, un Pascal, auto­ re di un libro sulla libertà, carica di un significato ben più ampio la beffa giocata a Batta Malagna (nell'originale divenuto Maldagna), nominato nel frattempo sindaco. La maschera straordinariamente «mussolinesca» che assume l'attore Isaure Douvan in questa sequenza non dovette passare inosservata ai curatori dell'edizione italiana. Nella versione originale Mattia Pascal, dopo aver strappato a Malagna la fascia tricolore con la quale lo lega alla sedia, si presenta al balcone da dove avrebbe dovuto parlare l'im postore e arringa la folla: da questa viene osannato e portato in trionfo (da notare, oltre tutto, che L'H erbier presenta una folla avvinazzata che dà alla cele­ brazione dell'eroe una connotazione decisamente bacchica), ma Mattia, dopo aver riservato uno di quegli sguardi allucinati di cui è maestro Mosjoukine a una «inquietante» macchina da caffè che emette sbuffi di vapore carichi di suggestioni a metà tra il futurista e l'alchemico, si sottrae all'abbraccio della folla e rapidamente si eclissa. Nella versione italiana, già la privazione della caratterizzazione intellettuale e libertaria dell’eroe limita i margini di una possibile lettura politica della beffa inflitta a Malagna. Inoltre viene eliminata tutta la parte relativa al discorso di Mattia alla folla e al trionfo dell'eroe, che, subito dopo aver legato Malagna con la fascia trico­ lore, viene mostrato al cimitero davanti alla «propria» tomba. Da notare che la successione delle didascalie della versione italiana esplicita per eccesso le motivazioni della beffa. Nella versione ori­ ginale, si vede soltanto Mattia Pascal che legge il seguente avviso: «A 10 heures/Devant l'H otel de la Ville/Discours de Batta Mala-

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gna». Nella versione italiana, dopo aver visto Mattia Pascal che legge questo proclama: «Cittadini! G iorno solenne è questo! Mira­ gno rende onore al suo primo, intemerato cittadino: Batta Malagna. Sono con noi le nostre gloriose memorie. I nostri morti risorgono a consacrare...», siamo informati da una nuova didascalia su quanto sta maturando nella sua mente: «Intemerato cittadino... I nostri m orti risorgono... Quelle parole gli rivoltarono l'anima, gli sugge­ rirono uno scherzo atroce». Ma ancor più significative, almeno per la comprensione dell'impianto stilistico della versione originale che viene comple­ tamente stravolto in quella italiana, possono risultare le varianti meno vistose: per quanto scarsamente rilevanti (scioglimento a parte) ai fini dello sviluppo della fabula, e per quanto deprecabili per i danni che portano al film nel suo insieme, esse sono tuttavia riconducibili a una logica coerente, come cercherò di dimostrare attraverso alcuni esempi. Nell'edizione francese lo spazio in cui prende avvio e si forma la fantastica avventura di Mattia Pascal viene definito secondo un doppio registro: quello naturalistico, riservato alla rappresentazio­ ne della decadenza di una famiglia di possidenti terrieri ormai in rovina, e quello metafisico e astratto del conte philosophique. Di qui gli attriti e le dissonanze, le oscurità e le arditezze che danno la cifra stilistica del film. L'edizione italiana traduce in chiave pittoresca gli elementi naturalistici della scenografia, eliminando del tutto quelli di tipo astratto. Ecco qualche significativo esempio. L'edizione italiana si apre con una suggestiva inquadratura delle torri di San Gimignano nella quale si inserisce, come intarsiata in sovrimpressione, una carrellata in avanti lungo le viuzze medievali della cittadina toscana. Si noti che questa inquadratura iniziale della versione italiana manca nell'edizione francese (copia di Bois d'Arcy), come pure in quella della Cinémathèque Française e in quella inglese. Tale inquadratura dell'incipit dell'edizione italiana appare, invece, nell'edizione francese, nella sequenza che mostra il ritorno di Mat­ tia Pascal al proprio paese: in tale modo, questo gioco di intarsio di

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un'inquadratura statica e di una in movimento, che nella colloca­ zione dell'edizione italiana ha un significato puramente pittoresco, appare come uno dei tanti procedimenti di soggettivazione del dato visivo di cui è ricco il film di L'H erbier. Nella versione originale, è possibile ammirare una stupenda scenografia che fa da sfondo al corridoio di accesso allo studio di Mattia Pascal e che produce un effetto di astratta spazialità, in contrasto con le caratterizzazioni naturalistiche di tutti gli altri scorci di casa Pascal. Nell'edizione italiana sono eliminate tutte le inquadrature che rendono visibile questa scenografia davanti alla quale passa zia Scolastica (Pauline Carton) quando controlla se il nipote è al lavoro e indugia Pom ino (Michel Simon) nella sua prim a apparizione. N e risulta che, nell'edizione francese, l'inqua­ dratura di Mattia Pascal che emerge da dietro la pila dei libri della scrivania preceduto dagli anelli di fumo della pipa appare conte­ stualizzata come una soggettiva di zia Scolastica che lo osserva at­ traverso uno spioncino; allo stesso modo l'universo in cui vive Mattia appare inaccessibile a Pomino il quale riesce a penetrare solo grazie a sotterfugi. Il tutto dà luogo a effetti di gag eliminati o ridotti nell'edizione italiana, che punta invece a uno sviluppo più rapido dell'intrigo. Con gli stessi criteri viene scorciata la sequenza del Casino di Montecarlo. Risulta eliminata, tra l'altro, l'inquadratura di tre giocatori visti di scorcio che con movimenti da automi, perfetta­ mente sincronizzati, registrano su un taccuino il numero appena uscito, poi, deposta la matita, riprendono a fissare con mortuaria immobilità di manichini la roulette o meglio «il giocattolo», come la chiama Pirandello: intervento tanto più deprecabile, in quanto si tratta di una sintetica quanto puntuale realizzazione filmica del rapporto di quasi equivalenti che in Pirandello è stabilito tra il gioco e la m orte22. Stessa sorte tocca alle inquadrature soggettive, che abbiamo già

ricordato e che sono un'evidente derivazione da II gabinetto del dottor Caligari (1920) di Robert Wiene, in cui Mattia Pascal vede emergere come dal vuoto, dilatarsi e ingigantirsi le lettere che for­ mano la parola «liberté». Nell'edizione francese la decisione di Mattia Pascal di interrompere il viaggio di ritorno a Miragno è visualizzata con il gag del ferroviere che cerca in tutti i modi di convincerlo a risalire sul treno che sta partendo; Mattia gli rispon­ de in modo stizzito e minaccioso, compiendo poi enigmatici tragit­ ti sulla banchina della stazione deserta. Nell'edizione italiana tutto ciò è eliminato e sostituito con una sintetica didascalia: «Riparte in un'altra direzione verso la libertà, verso una nuova vita». Gli esempi potrebbero continuare, ma quelli fatti sono suffi­ cienti, credo, per mostrare in che direzione procedono tagli e varianti. Nel complesso l'edizione italiana tende a una normalizza­ zione del testo, a privarlo delle dissonanze e degli eccessi che nell'edizione originale rallentano lo svolgimento dell'azione, al fine di renderlo più accettabile a un pubblico giudicato evidentemente incapace di cogliere gli aspetti più originali della trascrizione.

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22 Sul rapporto di «quasi equivalenti» che si instaura nel testo pirandelliano tra il gioco e la morte si vedano le puntuali notazioni di E zio F errario , L'occhio di Mattia Pascal. Poetica e estetica in Pirandello, Bulzoni, Roma 1978, p. 16.

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4. Images de substitution H a scritto L'H erbier a proposito del Feu Mathias Pascal:

Filmer c'est donner la parole à la réalité. La réalité n'a pas eu un mot à dire dans l'adaptation. C'est qu'elle n'avait pas de MOTS pour s'exprimer. Elle ne s'exprime que par les IMAGES qu’elle donne d'elle. Tautologie ou pas, il est donc évident que le travail des images ne puisse se calquer fidèlement sur le travail des mots et qu'il faille inventer à chaque instant quand on est derrière une caméra pour l'orienter vers les images de substitution. C'est cette invention devant la réalité qui sera mon lot dans Feu Mathias Pascal plus nettement encore sans doute que dans mes films antérieures. Qu'il en soit résulté pour cette ouvrage un caractère plus spécifiquement filmique, ce n'est pas à moin le dire, mais j'ai vu plus tard que des critiques l'avaient pensé23. 23 M arcel L 'H erbier, La Tête qui tourne, Belfond, Paris 1979, p. 119.

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Se la critica, come ricorda L 'H erbier con orgoglio, ha potuto notare in quest'opera «un carattere più specificamente filmico», ciò è dovuto a una sistematica ricerca di images de substitution di cui questo film presenta notevoli esempi. Ci si può provare a definire una mappa di queste images de substitution e verificare in quale modo esse partecipino all'organizzazione del testo. Si pensi, ad esempio, al passo del romanzo in cui Mattia Pascal si libera di una delle più pesanti tracce della propria identità, l'anello nuziale con la scritta Mattia-Romilda, che lui stesso definisce «un resto della catena che mi legava al passato»24. Si tratta di un brano di grande interesse quanto a tecnica di costruzione. L'io narrante deve raccontare come si è liberato dell'anello gettandolo nello scarico di una toilette. Sceglie la via della reticenza, dell'eufemismo, della perifrasi:

comico e grottesco, il tono luttuoso preannunciato poco prim a dall'espressione «anche chi sia compreso da un profondo cordo­ glio». Ecco un passo per il quale, secondo l'espressione di L'H erbier, bisognava trovare images de substitution, non tanto perché la visualizzazione di questa trovata di Mattia Pascal sarebbe potuta risultare poco fotogenica, quanto perché si trattava di pro­ durre qualcosa di equivalente alla struttura di «gag verbale» dell'enunciazione pirandelliana. Cosa inventa L'Herbier? Il suo personaggio, all'uscita dall'ufficio postale, dove era entrato per inviare un telegramma di smentita della propria morte e dove aveva rapidamente cambiato idea, «intomba» in una buca da lettere l'eti­ chetta del proprio cappello dove era impressa la sua sigla (MP), cioè spedisce in «nessun luogo» una possibile prova della propria identi­ tà. (Da notare che nel film di Chenal, Mattia Pascal lascia cadere, con ammiccamenti tra il furtivo e il cerimonioso, l'anello dal fine­ strino del treno in corsa, mentre in quello di Monicelli egli si libera dell'anello, con un eccesso di esplicazione didascalica, assieme ai documenti di identità nello stesso luogo previsto dal romanzo. Dal confronto emerge la sottigliezza dell'invenzione di L'H erbier con­ tro la piattezza delle altre due soluzioni.) H o preso in prestito l'espressione «gag verbale», che oltre tutto mi permette stare in sintonia con lo spirito della trascrizione di L'H erbier, da uno studio di Gianni Celati sulla struttura del gag nella prosa di Beckett27. La tripartizione del gag ripresa da Celati (gag verbale, gag immagine, gag di situazione) può essere funzionale alla classificazione di un procedimento che è tipico anche dell’umorismo pirandelliano. Nel Fu Mattia Pascal sono presenti tutti e tre i tipi di gag, come vedremo subito con alcuni esempi.

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Il treno, in quella, si fermò in un'altra stazione. Guardai, e su­ bito mi sorse un pensiero, per la cui attuazione provai dapprima un certo ritegno. Lo dico, perché mi serva di scusa presso coloro che amano il bel gesto, gente poco riflessiva, alla quale piace di non ricor­ darsi che l’umanità è pure oppressa da certi bisogni a cui purtroppo deve obbedire anche chi sia compreso da un profondo cordoglio. Cesare, Napoleone e, per quanto possa parere indegno, anche la donna più bella25. D opo questo lungo periodare che assume apparentemente l'an­ damento di una conferenza con le perifrasi ampollose («gente poco riflessiva alla quale piace di non ricordare») e i riferimenti ironica­ mente colti («Cesare, Napoleone»), ecco che il discorso subisce un brusco sobbalzo con un cambiamento di ritmo che lo porta a una rapida conclusione: «Basta. Da una parte c'era scritto Uom ini e dall'altra Donne e lì intombai il mio anellino di fede»26. Da notare che la metafora «intombai» riprende e conferma, con un effetto 24 Luigi Pirandello , Tutti i romanzi, a cura di G iovanni M acchia con la collaborazione di M ario C ostanzo , Mondadori, Milano 19846, vol. 1, p.410. 25 Ibid. 26 Ibid.

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Gag verbale. Parlando della propria libertà riconquistata, l'io narrante si abbandona a un lirismo filosofico di questo tipo, con brusco e inatteso mutamento di registro finale:

27 G ianni C e la ti, S u Beckett, Γ interpolazione e il gag, in Finzioni occidentali. Fabulazione comicità e scrittura, Einaudi, Torino 1975, pp. 53-80.

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Scenari italiani Ecco, essa [libertà], per esempio, voleva dire starmene lì di sera, affacciato a una finestra a guardare il fiume che fluiva nero e silente [...], seguire con la fantasia il corso di quelle acque [...] fingermi col pensiero il mare tenebroso e palpitante in cui quelle acque, dopo tanta corsa, andavano a perdersi, e aprire di tanto in tanto la bocca a uno sbadiglio2S.

Gag-immagine. Sono così classificabili certe caricature di perso­ naggi, come ad esempio quella del cavalier Tizio Lenzi, con le sue gambe troppo corte, per cui, quando si alzava da sedere, si poteva dire che «scendeva piuttosto dalla sedia», e con i suoi «passettini da pernice» cui lo costringevano i tacchi troppo alti con i quali cercava di mascherare il suo difetto2829. Gag di situazione. Il clima sonnambulesco in cui si muovono i personaggi pirandelliani dà spesso luogo a situazioni e com porta­ menti assurdi. Tra i vari esempi possibili, potrem m o citare i comportamenti del signor Paleari, descritto come uno che pareva «non avesse occhi per lo spettacolo della vita intorno, che cammi­ nava tenendo sempre il cappello in mano e di tanto in tanto lo alzava come se salutasse delle ombre esclamando "sciocchezze!"»30. Da questi esempi risulta evidente come nella prosa pirandelliana sia operante un meccanismo che può essere paragonato a quello del gag cinematografico in cui lo sviluppo di un certo significato pro­ dotto dalla successione delle inquadrature è alla fine contraddetto e per così dire polverizzato dalla messa in evidenza di un dettaglio o dall'intrusione di un nuovo elemento che capovolge il quadro generale della situazione che ci eravamo fatto31. Grande maestro di questo procedimento nel cinema m uto fu Buster Keaton, nel quale lo sviluppo del significato iniziale dà luogo a performances mimicogestuali portate al limite del parossismo, per cui l'irruzione di un 28 Pirandello , Tutti i romanzi cit., p. 446. p. 429. p. 444.

29 Ibid., 30 Ibid.,

31 Tale meccanismo viene esemplarmente analizzato a proposito della struttura del gag di Buster Keaton in Sylvain D u P asquier, Les gags de Buster Keaton, «Communications», 15, 1970, pp. 132-44.

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nuovo senso contraddittorio rispetto al prim o acquista sempre il carattere di una sorta di catastrofe (catastrofe non solo fisica, mate­ riale, ma soprattutto catastrofe di senso). L'esempio più bello che mi viene in mente è quella sequenza di The Cameraman {Io e... la scimmia, 1928), in cui Buster, cine-reporter alle prim e armi, giunge allo stadio di baseball nel giorno sbagliato. Eccitato dalla vastità del campo da gioco vuoto, tutto per lui, si esibisce in una spasmodica azione fingendosi un campione che porta la sua squadra alla vittoria. Nel momento in cui è allo sforzo massimo per la vitto­ riosa conclusione della sua eroica azione, nella quale siamo ormai totalmente identificati, lo sguardo ironico e stupefatto di un custode del campo riconduce tutto alle sue dimensioni reali, polve­ rizzando così il senso della «messa in scena» improvvisata dal picco­ lo Buster. In alcuni degli esempi di gag verbale nella prosa del romanzo che ho sopra selezionato, si realizza, nella m icrostruttura di un paragrafo, un analogo percorso in direzione di queste piccole catastrofi di senso cui naturalmente e inevitabilmente porta questo abbandono all'istrionismo della parola, alla retorica della realizza­ zione immaginaria, alla rêverie di onnipotenza. C oloro che in passato hanno rim proverato a L'H erbier un ricorso eccessivo a effetti comici, o comunque superiore a quanto si dovrebbe ritenere ottimale per un film drammatico32, non hanno probabilmente colto l'im portanza che la struttura del gag ha nel 32 È quanto veniva osservato, in un diligente confronto tra il film di L'Herbier e quello di Chenal da O svaldo C ampassi e Virgilio Sàbel, Chenal, L'Herbier e «Ilfu Mattia Pascal», «Cinema», VI, 117, 10 maggio 1941, pp. 302-305.1 due autori avanzavano riserve sul film di L'Herbier giudicato stilisticamente discontinuo, con motivazioni di questo tipo: «Un caso tipico di questa discontinuità è dato dalla frequenza degli spunti comici sfruttati in profondità, come se sopra essi dovesse basarsi la natura del film, con l'impiego di mezzi che sono parenti strettissimi con quelli impiegati nelle comiche finali» (p. 303). Osservazioni analoghe erano, però, già state fatte dalla critica francese all'epoca dell'uscita del film di L'Herbier. Aveva scritto, ad esempio, Emile V uillemoz («Le Temps», 9 agosto 1925): «Et j'avoue, pour ma part, avoir éprouvé une certaine gêne en voyant l'auteur de L'Inhumaine régler certaines scènes d'une boufonnerie terriblement convention­ nelle empruntée aux pires traditions des films comiques américains» (citato in Re­ staurations et Tirages de la Cinémathèque Française, vol. 4, 1989, p. 56).

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tessuto della prosa del Fu Mattia Pascal. Lungi dal travisare lo spirito del romanzo, L'H erbier si è posto il problem a di trovare equivalenti filmici di tali procedimenti, tipici àt\Yumorismo pirandelliano33, e li ha individuati nelle forme espressive del burlesque cinematografico combinate con quelle del balletto. Si tratta di una scelta espressiva estremamente felice in quanto consente di trasporre nella dimensione plastico-visiva della scena muta la teatralità tutta verbale del testo, sostituendola con una teatralità di diversa natura, come si cercherà di vedere ora in modo più analitico. La forma diaristica o più esattamente memorialistica del Fu Mattia Pascal tende continuamente alla simulazione della scena, se non di quella propriamente teatrale, certamente di quella della «teatralizzazione» di eventi e conflitti del tutto comune nella vita quotidiana, soprattutto in contesti antropologici e sociali cui di preferenza si riferisce il mondo narrativo di Pirandello. A questo proposito, si può ricordare che Giovanni Macchia ha parlato, riferendosi alle novelle, di una «forma di teatralizzazione del lin­ guaggio, se così si può dire, quale forma spinta di "dialettalità"»34. E ha precisato inoltre: «La teatralizzazione del linguaggio s'aggrava in istrionismo in quel rapporto tra l'effetto e la parola, come in una prosa che s'appoggi, teatralmente, sulla stessa inflessione della voce»35. Effetti di questo tipo si insinuano con frequenza nella prosa del Fu Mattia Pascal, in cui, come ha notato Marchese, escla­ mative, interrogative e deittici hanno la funzione di produrre un «discorso scenicamente rivolto al destinatario»36. Maria A ntonietta Grignani ha parlato, a sua volta, di «un'estensione del dire» che ha per scopo l'iscrizione nel testo della figura del lettore (o, genettia-

namente, narratario) che diventa «una presenza con cui lo stralu­ nato biografo vuole interagire»; e ancor più esplicitamente si è riferita al «recitativo» che «sfrutta le quinte tonali del parlato in situazione e ne impiega gli antagonismi»37. La «scrittura» del bibliotecario di Miragno tende fin dall'incipit (la prim a premessa) a simulare una situazione teatrale, a interpellare il lettore come una sorta di spettatore-interlocutore. I procedimenti linguistici finalizzati alla produzione dello spazio di una messa in scena, messa in scena di una voce recitante, sono stati finemente analizzati in sede di critica letteraria, come dimostrano le citazioni appena fatte. Il tratto distintivo della narrazione sta appunto in una commistione della form a scrittura e àe\h forma scena™: è per questa via, credo, una via puramente analogica che possiamo vedere in Mattia Pascal una sorta di antesignano dello «scriba-commediante» quale viene analizzato da Gianni Celati nel romanzo di Beckett MoIIoy39.

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33 Sul problema del rapporto tra il Mattia Pascal e il successivo saggio di Pirandello sull'umorisnio si veda Salvatore G uglielmino , Introduzione, in Luigi Pirandello , L'umorismo, Mondadori, Milano 1986, pp.7-20 34 Giovanni M acchia , Introduzione, in Pirandello , Tutti i romanzi cit., vol. 1, p. XXXIX. 35 Ibid., p. XL. 36 Angelo M archese, Metodi e prove strutturali, Principato, Milano 1979, pp. 336 sg.

5. I l teatrino dell'io Apparentemente, L'H erbier rispetta nelle sue linee essenziali l'intrigo pirandelliano trasferendolo nell'astratta spazialità già spe­ rimentata ne L 'Inhumaine (1923), senza tuttavia che le scenografie di Alberto Cavalcanti annullino gli scorci realistici ripresi a S. 37 M aria A ntonietta G rignani, Le parole di traverso: lingua e stile nel Fu Mattia Pascal, in Enzo Lauretta , Uno strappo nel cielo di carta. Introduzione alla lettura del Fu Mattia Pascal, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1988, p. 58 (miei i corsivi). 38 Si tenga presente, a questo proposito, il seguente passo della già citata Grignani: «Lo smontaggio della volumetria temporale è ottenuto con varie mo­ dalità linguistiche, che alterano il rapporto gerarchico tra gli strati cronologici del racconto: il ricordare sostituito da un vedere o un rappresentare pre-teatrale, gli indicatori spaziali, le onomatopée, le esclamazioni e le iterazioni enfatiche tra­ sformano resoconto e discorsi indiretti in presentificazioni e irruzioni di voce a macchia di leopardo» {ibid., p. 59). 39 C elati, Finzioni occidentali cit., p. 59 (da notare le analogie tra quanto è stato rilevato a proposito del «recitativo» nella prosa del Fu Mattia Pascal e lo «statuto della parola recitativa» di cui parla Celati a proposito di Molloy).

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Gimignano e a Roma. Costruzione astratta e scorcio documentari­ stico convivono in un sistema che è insieme artificioso e realistico, riconoscibile e irreale. E tuttavia, l'astrazione incrina l'impianto naturalistico della scena, aprendoci alla dimensione «altra» in cui si gioca il dramma dell'identità di Mattia Pascal, dramma che tra­ scende le possibilità stesse della scena naturalistica e pretende quindi un'altra scena. Allo stesso modo, la recitazione di Ivan Mosjoukine devia continuamente da un uso del corpo e del movi­ mento secondo le regole della recitazione naturalistica, per accedere a una stilizzazione che si colloca tra i parossismi della slapstick comedy e le astrazioni del balletto. N o n c'è dubbio, infatti, che Mosjoukine abbia tenuto presente il modello del cinema burlesque americano, e di Buster Keaton in particolare. Significativa è in questo senso la seguente dichiarazione di Mosjoukine sull'arte di Keaton:

primo accostamento al mondo dello spettacolo: il suo prim o arti­ colo, firmato con lo pseudonimo Didier Debraux e dedicato a una messa in scena di André Antoine del Faust di Goethe, contiene un'esaltazione del principio registico di sfruttare il contrasto tra «émotions contraires» e, soprattutto, un attento esame delle coreografie di Loie Fuller42. Del resto l'attore lherbieriano Jacque Catelain ha messo in evidenza l'attenzione riservata all'arte di Loie Fuller sia da L'H erbier che da René Clair, sottolineando il reciproco influsso tra danza e cinema m uto negli anni venti43. Il gag è, dunque, il polo che struttura il rapporto tra il perso­ naggio e lo spazio. La scenografia può tendere all'astrazione e pro­ durre una spazialità rarefatta, carica di cifre simboliche, ma è pur sempre il parossismo isterico del gag a definire il rapporto tra il personaggio e lo spazio. Fin dalla sua prim a apparizione, Mosjoukine impone al personaggio un'accentuazione clownesca: il suo «sorgere» da dietro la pila dei libri che ingombrano la scrivania, preceduto dagli anelli del fumo della pipa, evoca il gioco di presti­ gio; e il gag viene ripetuto da Pomino con la variante della testa coperta da un drappo nero (che imprime una caratterizzazione funerea al tema iconografico dell'ombra, del doppio). Quando poi Pomino si appresta a confidare il suo segreto a Mattia, i due, prima di sedersi attorno a un tavolino, compiono una sorta di cerimo­ nioso balletto. Da ricordare, poi, la scena che si svolge sulla scalinata di Trinità de' Monti in cui il nostro eroe si abbandona a un folle zig-zag (reso attraverso il procedimento dell'accelerato) incrociando più volte una ragazza. Altrettanto memorabile la sequenza dell'Hotel Excel­ sior che inizia con l'incontro con Terenzio Papiano dentro l'infer­ nale meccanismo della porta girevole e si conclude con una fuga precipitosa dell'eroe perseguitato da un nugolo di boys (tutta questa sequenza, nella quale si avverte l'influenza del cinema tedesco, oltre

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Buster Keaton est l'homme qui a le sens le plus aigu et le plus lucide du cinématographe, il est insurpassable et ce qui est prodigieux, c'est son inépuisable faculté de renouvellement, son imagination qui n'est jamais à court d'inspiration40. Tuttavia, il modello del burlesque che L'H erbier e Mosjoukine hanno sicuramente sfruttato non com porta una replica pura e sem­ plice degli effetti di comicità. Pur utilizzati nella stessa funzione di catastrofi di senso, sono per così dire raffrenati e sfumati, insomma convogliati più nella direzione del «sentimento del contrario» tipico deH'umorismo, secondo la ben nota teoria pirandelliana, piuttosto che dell'«avvertimento del contrario», proprio del comico41. Questo raffreddamento dell'effetto comico è ottenuto dalla commistione, che abbiamo più volte segnalata, tra il modello del burlesque e quello della danza, commistione che ci dà la confi­ gurazione fondamentale del sistema stilistico del film. D a notare che l'interesse di L'H erbier per la danza è attestato fin dal suo 40 J e a n A rroy , Ivan Mosjoukine, Pubblications Jean Pascal, Paris 1927, p. 58. 41 P irandello , L'umorismo cit., pp. 134-40.

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42 D idier D ebraux (pseud, di Marcel L'Herbier), Les éleves de Loie Fuller, «L'Illustration», 3645, 4 gennaio 1913, p. 16. 43 Jacque Catelain présente Marcel L'Herbier, Jacques Vautrain, Paris 1950, pp. 14 sg.

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che della slapstick comedy, è completamente eliminata nell'edizione italiana). Assai gustoso è anche il gag del prim o incontro con Adriana: quando la ragazza guida il nuovo ospite verso la sua stan­ za, egli sbaglia ripetutamente porta e, quando finalmente arriva a quella giusta, passa oltre. Anche il tema più profondo e segreto del romanzo - quello del desiderio di regressione dell'eroe - ispira la notevole invenzione visiva del gag di zia Scolastica che infila le scarpine di lana, prepa­ rate per il nascituro, sulle dita delle mani di Mattia Pascal. Costui, dapprima impacciato e divertito, darà, facendosi schermo con tali «fiori» misteriosi, un bacio appassionato alla madre (un'immagine che si carica ben presto di oscure connotazioni di morte). Assieme a questo va poi ricordato il gag di Mattia Pascal che, legando a sè con un filo la culla della figlioletta, la fa oscillare compiendo buffis­ simi ancheggi femminei, mentre si agghinda per recarsi per la prim a volta alla biblioteca. E sui fili è impostato anche quello che è sicu­ ramente il gag più godibile del film, quello dei gatti e dei topi nella fatiscente biblioteca di Miragno, quando Mosjoukine scatena con­ tro i roditori di libri i due felini, in realtà piuttosto intim oriti, manovrandoli con i due fili con cui li ha legati, derisorio auriga o burattinaio in preda a un delirio di onnipotenza (impossibile, ve­ dendo Mosjoukine in questa scena, non pensare al Buster Keaton di Film di Beckett e Schneider). Questo sommario repertorio delle citazioni del cinema burlesque non sarebbe completo se non ricordassimo anche la forma scelta da L'H erbier per visualizzare il conflitto Adriano Meis e Mattia Pascal. In ben due sequenze (una delle quali eliminata dall'edizione italiana e l'altra notevolmente scorciata), L 'H erbier fa comparire all1improvviso, con un procedimento desunto dalle «scene a trucchi» dei film di Méliès, il «fantasma» di Mattia Pascal che perseguita Adriano Meis, giocando su un duplice registro, co­ mico e fantastico, il tema dello sdoppiamento del personaggio. Questo ricorso frequente agli effetti di gag ha im portanti conse­ guenze sulla strutturazione dello spazio. N e deriva, infatti, una sorta di instabilità, continuamente riproposta, tra lo spazio interio-

rizzato, carico di valenze simboliche, della dimensione soggettiva e lo spazio esteriorizzato dell'oggettivazione parossistica del gag. A una concezione dello spazio come espressione dell'interiorità del personaggio rinvia quella che possiamo considerare l'inquadratura più tipica (e frequente) di L'H erbier. Si tratta di un totale in leggera plongée con uno o più personaggi, a mezzo busto, collocati al limite inferiore del quadro; ciò accentua e carica di suggestione la spazia­ lità della scena colta nella sua totalità e definita nella sua profon­ dità, valorizzando l'espressività dei volti denotante un particolare senso di spaesamento. Allo stesso modo, funzionale alla resa della dimensione dell'interiorità, del ricordo ecc., si rivela l'uso delle sovrimpressioni attraverso le quali L'H erbier ottiene quelle com­ plesse figurazioni generalmente classificate come tipiche della scuo­ la impressionista francese: tali sono le sovrimpressioni con cui L'H erbier visualizza i ricordi di Mattia durante il viaggio a M onte­ carlo o, nella sequenza del ritorno a Miragno, le emozioni della riscoperta di uno spazio familiare. In realtà, come dimostrano anche le citazioni e suggestioni del cinema tedesco già segnalate e altre non meno evidenti come l'in­ cubo che ha per sfondo l'ufficio dello stato civile che è tutto reso in termini di deformazioni e stilizzazioni espressioniste, il problema della spazialità del cinema di L'H erbier non si risolve attraverso una schematica contrapposizione tra una scuola francese impres­ sionista e una tedesca espressionista44*.È semmai in una complessa, e a volte contraddittoria e comunque dissonante, convivenza tra

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44 Ritengo che siano da condividere le argomentazioni, di tipo squisitamente teorico, con le quali J acques A umont , Point de vue, «Communications», 38, 1983, pp. 3-29, propone un superamento di questo tipo di contrapposizioni. Del resto indicazioni che si muovevano già con lucidità in questa direzione (anche se da un punto di vista più empirico), si trovavano in una recensione di Adolf Loos a L'Inhumaine, nella quale il celebre architetto avanzava l'ipotesi che il film di L'Herbier non fosse altro che una sorta di traduzione in francese, secondo un'idea francese di modernità, delle invenzioni scenografiche del Caligari di Wiene. Spunto validamente applicabile ad alcune sequenze del Mathias Pascal. La re­ censione di A dolf Loos , L'Inhumaine. Histoire féerique, apparsa sulla «Neue Freie Presse» di Vienna del 29 luglio 1924, è tradotta in italiano in C anosa (a cura di), Marcel L'Herbier cit., pp. 73-76.

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soggettivazione e oggettivazione che va cercata la cifra stilistica di questo film. Alla dimensione soggettiva dello spazio - resa attraverso vari procedimenti tra i quali primeggia la sovrimpressione - si contrap­ pone quella dell'oggettivazione che è, tra l'altro, un portato tipico della struttura del gag. Gli effetti di dissonanza che nascono da una sorta di instabilità, disomogeneità dello spazio, lungi dall'essere un limite, costituiscono l'aspetto più originale e moderno del film di L'H erbier che regge felicemente il confronto con le invenzioni strutturali della prosa pirandelliana. Torniamo ora alla funzione delle stilizzazioni coreografiche e gestuali di Mosjoukine, che hanno sempre il carattere di esaspera­ zione, di scaricamento di una pulsione coatta. Si tratta di momenti che interrom pono il tempo e i ritmi di una messa in scena reali­ stica, ne spezzano l'uniform ità introducendo lo scarto di una picco­ la follia: il valore assoluto del «gesto-espressione» in contrapposi­ zione alle costrizioni e ai limiti del «gesto-comunicazione»45. Ognuno di questi piccoli deliri m otorii di Mosjoukine-Mattia viene interrotto e mutato di senso dall'irruzione di un principio di realtà che ne frustra il potenziale liberatorio e riconduce l'eroe alle dimensioni della scena quotidiana da cui aveva creduto di evadere: il «balletto della culla» viene bruscamente interrotto da Romilda («Ne trocasse pas ma fille» dice la didascalìa); il «folle volo» giù per Trinità de' M onti si interrompe con lo sgradevole «incontro» con due carabinieri; il delirio di potenza dell'eroe in lotta contro i topi si esaurisce con l'arrivo di zia Scolastica. Da notare che la stilizzazione della gestualità nella direzione fin qui indicata ha una funzione im portante non solo nella compiuta realizzazione della struttura del gag, ma anche nel contestualizzare l'effetto derisorio del gag su un piano astratto, metalinguistico: il che impedisce appunto di appiattire la vicenda dell'identità negata in direzione

naturalistica e macchiettistica (come accade ad esempio nella versione di Chenal, ma anche nella versione italiana del film di L'H erbier privata di buona parte di queste invenzioni) o scolasticamente illustrativa (come accade nella versione di Mario Monicelli). In queste sequenze c'è da parte di Mosjoukine, eviden­ temente assecondato dalla regìa di L'H erbier, una sorta di esibi­ zione di virtuosismo mimico allo stato puro. L'istrionismo che, per così dire, eccede la definizione del personaggio e diventa gioco del corpo che si libera dal fardello del nome, dell'identità, esibi­ zione della «passione di essere un altro»46. N on resta quindi che tributare un conclusivo riconoscimento all'eccezionale performance di Ivan Mosjoukine in questo film, performance che non solo asseconda ed esalta, ma contribuisce anche e in modo determinante a produrre, quella instabilità continua dello spazio e delle situazioni su cui ci siamo già ampiamente soffermati. Mosjoukine si esibisce in questo film in una tale varietà di movenze e di espressioni (passando dal flessuoso al meccanico, dal parossistico allo svagato) da dare l'impressione di una capacità quasi sovrumana di adattamento, di mimetismo rispetto ai luoghi, ai contesti, alle situazioni. Sciascia è stato a tal punto colpito dalla proteiforme prestazione di Mosjoukine in questo film da arrivare ad attribuire alla sua arte anche la riuscita dei celebri esperimenti di Kulesov47, che consiste­ vano nel dimostrare che una stessa espressione del volto poteva essere interpretata in modi affatto diverso a seconda dell'oggetto con il quale era messa in relazione attraverso il montaggio (una medesima espressione di Mosjoukine poteva essere interpretata come espressione di fame, dolore o serenità a seconda che venisse associata con l'immagine di un piatto di minestra, di una bara, di

45 «Gesto-espressione» e «gesto-comunicazione» sono termini mutuati da un saggio di Mukarovsky su City Lights (Luci della città, 1931) di Chaplin: si veda Ian M ukarovsky, Tentativo di analisi strutturale del fenomeno dell'attore (1931), in Id ., Il significato dell'estetica, Einaudi, Torino 1974, pp. 342-49 (ed. orig. 1966).

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46 È proprio il riferimento alla danza nelle stilizzazioni gestuali di Mosjoukine che mi hanno suggerito questo riferimento a P a u l L egendre , La Passion d'être un autre, Seuil, Paris 1978, classico studio psicanalitico in cui la danza viene inter­ pretata come forma simbolica della messa in scena della liberazione del corpo dal nome, dalla lettera. 47 Sciascia, Cruciverba cit., p. 193.

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un bambino che gioca)48. In tal modo, Sciascia sembra attribuire alle proprietà del volto dell'attore la riuscita di un esperimento che doveva invece dimostrare l'onnipotenza del montaggio. E tuttavia è proprio in questa paradossale affermazione dello scrittore sici­ liano che sta forse la chiave della perfetta aderenza di Mosjoukine al personaggio del Mattia Pascal, della sua capacità di produrre le configurazioni fondamentali del dramma dell'identità negata, dell'impossibile chiusura di senso, facendone esplodere tutto il suo potenziale, a un tempo tragico e comico. Del resto, era stato pro­ prio vedendo un film interpretato da Ivan Mosjoukine che Piran­ dello si era convinto delle possibilità della nuova arte, possibilità che il film di L'H erbier ha probabilmente realizzato, e proprio nella direzione auspicata da Pirandello:

C'est un film russe, Le Père Serge49 qui m'a pendant la guerre laissé entrevoir les possibilités de cet art jeune: le Rêve, le Souvenir, l'Hallucination, la Folie, le Dédoublement de la personnalité. Si les cinématografistes voulaient, il y aurait des grandes choses à faire!50

48 Si veda Vsevolod P udovkin , La settima arte, a cura di U mberto Barbaro , Editori Riuniti, Roma 1961, pp. 125-29. 49 Si tratta di Otec Sergij (Padre Sergio, 1917) di Jakov Protazanov, ispirato all'omonimo racconto di Lev Tolstoj e interpretato da Ivan Mosjoukine. 50 J eanne , Cinq minuits avec Pirandello cit.

V. V IS C O N T I, IL GA T T O P A R D O E LA S C E N A S T O R IC A

La rievocazione di episodi storici recenti o remoti, fortemente impressi nella memoria popolare, è uno dei temi più frequente­ mente sfruttati dal cinema, fin dalle sue origini. La possibilità di visualizzare la scena storica con effetti di reali­ smo superiore a quello della pittura, del teatro e del romanzo illu­ strato è stata una delle carte vincenti del cinema primitivo, una delle attrazioni più fascinose che il nuovo mezzo poteva offrire. Spesso il cinema, per temi, iconografia e per lo stesso personale artistico, continuava a dipendere dalla tradizione, più o meno re­ cente, di altri mezzi espressivi: pittura di argomento storico, spet­ tacoli teatrali o, meglio ancora, spettacoli ottici come panorama e diorama (nei quali aveva avuto una grande espansione la rievoca­ zione storica) é infine il romanzo storico (che il romanticismo europeo aveva imposto come uno dei generi di maggior fortuna popolare alla nascente industria culturale). Tuttavia, grazie al po­ tere di attrazione assoluto ed esclusivo delle immagini in movi­ mento, della fotografia animata, il cinema dotava le sue rappresen­ tazioni di un realismo, o meglio di un alone di verità, che dava un fascino supplementare alle più suggestive rievocazioni letterarie e teatrali. Il cinema primitivo ebbe quindi un atteggiamento parassi­ tario nei riguardi del genere storico affermatosi in letteratura, tea­ tro e pittura, anche se non tardò a trovare una propria dimensione originale attraverso la progressiva scoperta delle sue possibilità espressive. U no spazio particolare fu riservato al genere storico, che permettava un mediazione tra la tradizione culturale, alla quale erano maggiormente sensibili le classi medie, e i gusti del pubblico

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più popolare. Le fortune del genere, nel cinema delle origini, pren­ dono avvio da The Execution o f Mary Queen o f Scots (1985), uno dei primissimi film prodotti da Edison, e raggiungono risultati rag­ guardevoli con La Reine Elizabeth (1912), interpretato dalla divina Sarah Bernhardt e im portato in America da Adolph Zukor, che iniziò così la sua irresistibile ascesa nell'O lim po dei magnati di Hollywood. Il cinema non si impose solo come dispositivo di fascinazione spettacolare, ma anche come strumento di controllo ideologico, spesso proprio attraverso le rievocazioni storiche, e quindi di ma­ nipolazione della memoria collettiva, facendosi in tal modo il prin­ cipale veicolo dell'ideologia dominante. Queste considerazioni valgono anche per il cinema italiano. Il genere storico, di ambienta­ zione antico-romana, che derivava del resto da un genere letterario che ebbe vastissima fortuna tra la fine dell'Ottocento e i prim i del Novecento, venne intensamente sfruttato dal cinema italiano: Cabiria (1914), «visione storica del HI Secolo» come predica l'altiso­ nante sottotitolo dannunziano, rappresenta una delle più im por­ tanti affermazioni internazionali del cinema italiano di tutti i tempi. E non fu certamente un caso se all'iconografia e alle tecniche di fascinazione del film storico il cinema italiano tornerà con insistenza negli anni venti, quando tali tematiche potevano conver­ gere con le direttive della politica culturale del fascismo, anche se il mancato rinnovamento tecnico ed espressivo determinerà una rapida involuzione del genere. Accanto alla rievocazione della storia antica, l'epopea risorgi­ mentale diviene un tema tra i più sfruttati dal cinema italiano, in un'ambigua commistione di suggestioni romantico-ottocentesche e di smaccate strumentalizzazioni in chiave «continuista» delle im­ prese patriottiche1. La presa di Roma (1905) di Filoteo Alberini, che secondo lo storico del cinema Aldo Bernardini può essere conside1 Sulla presenza dell'interpretazione del fascismo come continuazione del Risorgimento nei film storici del ventennio si veda G ianfranco M. G ori , Patria Diva. La storia d'Italia nei film storici del ventennio, La Casa Usher, Firenze 1988, pp. 43-57.

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rato il prim o vero film italiano2, dimostra l'im portanza che la tematica risorgimentale assume fin dagli inizi del nostro cinema. U n impegno produttivo senza precedenti fu messo dalla neonata società Alberini & Santoni, «primo stabilimento italiano di mani­ fattura cinematografica», per la realizzazione di questo film dedica­ to a un episodio cruciale, e tra i più traumatici per l'immaginazione popolare, del Risorgimento. Sull'importanza del film di Alberini per i suoi aspetti tecnico-formali, per i caratteri dell'impresa pro­ duttiva e distributiva (riprese dal vero, battage pubblicitario ecc,), concordano tutti gli storici del cinema (Langlois, Brunetta, Bernar­ dini). Ciò non impedisce, ovviamente, di evidenziare la volgare manipolazione ideologica dell'apoteosi finale, nella quale tra gli artefici del Risorgimento italiano non trova «inspiegabilmente» posto Mazzini, il quale viene «sostituito», accanto a Cavour, Gari­ baldi e Vittorio Emanuele Π, da Francesco Crispi. Come scrive Guido Cincotti,

Mazzini è escluso da questa tendenziosa apoteosi di marca sabauda: al rango di quarto grande viene inopinatamente promosso Francesco Crispi, che i suoi trascorsi repubblicani e rivoluzionari aveva presto riscattato con la conversione a una piena ortodossia monarchica, della quale sarebbe poi stato difensore con il pugno di ferro3. Ancora secondo Cincotti:

La presa di Roma appare oggi l'archetipo di un modo particolare di rivolgersi al Risorgimento, che sarà tipico del nostro cinema negli anni successivi e che a ben guardare, salvo poche ammirevoli eccezioni, non ha granché mutato fino a oggi4*.

2 Aldo Bernardini, La presa di Roma: prototipo del film italiano, in A ntonio C osta , La meccanica del visibile. Il cinema delle origini in Europa, La Casa Usher, Firenze 1983, pp. 117-27. 3 Guido C incotti , Il cinema italiano e il Risorgimento, in D omenico M eccoli (a cura), Il Risorgimento italiano nel teatro e nel cinema, Editalia, Roma 1961, pp. 131 sg. Mbid., p. 132.

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Visconti, Il Gattopardo e la scena storica

A partire da questo film, il Risorgimento è stato lungo tutti i decenni della storia del cinema italiano un tema tra i più sfruttati, anche in relazione al ricorso piuttosto frequente a opere letterarie ottocentesche. Nella filmografia italiana relativa al Risorgimento si possono isolare due principali linee di tendenza: da una parte, Γambientazione risorgimentale fornisce una riserva pressoché ine­ sauribile di tematiche avventurose, romantiche ed epiche (oltre che patriottiche, naturalmente); dall'altra, si registra un'evidente stru­ mentalizzazione delle risonanze emotive ed epiche delle vicende risorgimentali a fini di propaganda politica (tutto ciò appare con maggior chiarezza durante il ventennio fascista). Alla prim a tendenza, oltre a una notevole messe di prodotti mediocri, possono essere ricondotti alcuni film della cosiddetta corrente calligrafica che presentano il pregio, ai nostri occhi non trascurabile, di differenziarsi nettamente, sul piano estetico e ideo­ logico, dalle enfatiche e osannate epopee propagandistiche. M ino Argentieri, un critico non m olto incline ad apprezzare le tendenze calligrafiche, riconosce che film come Piccolo Mondo Antico (1941) di Mario Soldati e Giacomo l'idealista (1943) di Alberto Lattuada «restituiscono al di là dei preziosismi calligrafici che li caratterizzano, un clima autentico e l'aura dell'epoca rievo­ cata» e, soprattutto nel secondo, coglie «gli echi, per quanto perife­ rici all'interno dell'economia narrativa, delle delusioni prodotte dalla conquista regia e dalla mortificazione degli ideali più progressisti»5. Alla tendenza della esplicita strumentalizzazione propagandisti­ ca appartengono invece quei film che, secondo una costante della politica culturale del fascismo, si propongono di dimostrare una continuità ideale tra imprese risorgimentali e «rivoluzione» fascista. In questo senso una sorta di prototipo è fornito da un film fascista della primissima ora, Il grido dell'aquila (1923) di Mario Volpe (al cui modello, qualità formali a parte, si adegua il celebratissimo

1860 di Alessandro Blasetti). Il film di Volpe, per quanto ambientato negli ultimi mesi della prim a guerra mondiale, trova modo di mostrare nel finale un ex garibaldino (Pasquale, personag­ gio di prim o piano nell'impianto ideologico, oltre che narrativo, della vicenda) che partecipa assieme alle camicie nere alla marcia su Roma. Q uanto al film di Blasetti 1860, anche se a partire dal dopo­ guerra viene disinvoltamente presentato in versione amputata, forse in omaggio alla incondizionata esaltazione che ne avevano fatto i giovani di «Cinema», non va dimenticato che nella versione origi­ nale si concludeva - come ricordava la recensione di Filippo Sacchi sul «Corriere della Sera» - con la «baldanzosa visione delle falangi fasciste che sfilano davanti ai reduci garibaldini sullo sfondo del Foro Mussolini»6. Nel secondo dopoguerra - osserva M ino Argentieri nel già citato saggio su II Cinema italiano e il Risorgimento questo tema «scom­ pare o quasi dagli schermi per riaffacciarvisi sporadicamente come fondale di qualche film di appendice o come rievocazione conte­ nuta entro canoni tradizionali»7.1 film sui quali si sofferma Argen­ tieri (e che potrebbero entrare nell'elenco delle opere essenziali da programmare in un ciclo sul tema) sono: La pattuglia sperduta (1954) di Piero Nelli, Senso (1954) e II Gattopardo (1963) di Luchino Visconti, Viva l'Italia (1960) di Rossellini, Nell'anno del Signore (1969) di Luigi Magni, Correva l'anno 1870 (1972) di Alfredo Giannetti e, infine, Bronte (1972) di Florestano Vancini8. Q uest'ultim o è oggetto di una minuziosa analisi e viene indicato, con riferimenti a mio giudizio discutibili al modello del Gatto­ pardo, come l'esempio più maturo e coerente di lettura del tema

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5 M ino Argentieri, Il cinema italiano e il Risorgimento, «Cinemasessanta», 90, luglio-agosto 1972, pp. 7-17, riprodotto in G ianfranco G ori (a cura di), Passato ridotto, La Casa Usher, Firenze 1982, p. 86.

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6 Citato in F ra n c e sc o Savio, Ma l'amore no. Realismo, formalismo, propa­ ganda e telefoni bianchi nel cinema italiano di regime, Sonzogno, Milano 1975, p.

220. 7 Argentieri, Il cinema italiano e il Risorgimento cit., p. 88. 8 L'elenco di Argentieri fermo al 1972, data di stesura del saggio, andrebbe opportunamente aggiornato: da aggiungere, per lo meno, Quanto è bello lo murire ucciso (1976) di Ennio Lorenzini, film nel quale viene fatta una ricostruzione, evi­ dentemente ispirata al cinema dei fratelli Taviani (S. Michele aveva un gallo, Allonsanfari) della sfortunata spedizione di Carlo Pisacane (1857).

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risorgimentale, espressione pienamente riuscita di un cinema di impegno civile volto, attraverso l'interpretazione o meglio il recu­ pero di una memoria storica manipolata dall'ideologia dominante, a una «riappropriazione del presente». In giudizi di questo tipo prevale, ovviamente, un criterio di valutazione politica delle interpretazioni del Risorgimento offerte dai vari film. Del film di Nelli viene detto, ad esempio che

la sua interpretazione del processo di unificazione nazionale non è solo generica e irta di facili echi solidaristici, ma confonde in sostanza il Risorgimento con la Resistenza, applicando lo schema ciellenistico a vicissitudini storiche inaccoppiabili in un identico mazzo9. Questa riserva, avanzata nei riguardi di un film che per giudizio unanime della critica, dal quale non si discosta nemmeno Argentie­ ri, va considerato una delle opere più rigorose su tale tema, ribadi­ sce in sostanza la tendenza del cinema italiano a considerare il Ri­ sorgimento più che un oggetto di ricostruzione storica, uno scena­ rio sul quale proiettare problematiche politiche attuali. N é da tale tendenza si distacca la critica: ne è la riprova la citata riserva di Argentieri che si preoccupa evidentemente di valutare la correttzza più della tesi politica, in relazione alle contingenze attuali, che della ricostruzione storica.

1. Visconti e la «scena» della Stona Nella filmografia di Visconti ricorre con una certa frequenza un'ispirazione a opere letterarie che possono fornire l'occasione di vasti affreschi storici. In Senso (1954), che è tratto da una novella di Camillo B oito10, il Risorgimento fa da sfondo alla vicenda amorosa di un'aristocratica italiana, Lidia Serpieri (Alida Valli), e un tenente austriaco, Franz 9 Argentieri, Il cinema italiano e il Risorgimento eie., p. 89. 10 La novella di B o ito , Senso (1883), si trova in L u c h in o V isconti, Senso, a cura di G io v an n i B a ttis ta C a v a lla r o , Cappelli, Bologna 1977, pp. 11-37.

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Mahler (Farley Granger); una vicenda di passioni e tradimenti tutta impostata sul registro del melodramma che amplifica e dilata il sentimento della fine. Assai più che la rappresentazione di una classe in irreversibile decadenza conta l'abbandono tutto romantico e «musicale» del «cupio dissolvi»:

Cosa m'importa che i miei compatrioti abbiano vinto oggi una battaglia in un posto chiamato Custoza quando so che perderanno la guerra e non solo la guerra. E l'Austria fra pochi anni sarà finita. E un intero mondo sparirà. Quello a cui apparteniamo tu e io. C'è in queste frasi di Franz Mahler a Lidia il senso di estraneità alla «scena della storia» di personaggi e comportamenti intrisi di abiezione e cinismo, sensualità e disperazione. Il medesimo scenario storico delle vicende risorgimentali è sullo sfondo della malinconica fine, nutrita più di um ori metafisici o comunque metastorici che di coscienza politica, del principe Salina in II Gattopardo, tratto dal romanzo di Tornasi di Lampedusa. L'irresistibile ascesa del nazismo, dopo l'incendio del Reichstag e la notte dei lunghi coltelli, fornisce l'incandescente materiale storico di La caduta degli dei (1969), moderna trascrizione del Macbeth shakespeariano riletto in chiave più wagneriana che espressionista. E la Baviera della guerra austro-prussiana fa da sfondo alla trasgressiva avventura estetica di Ludvig Π in Ludvig (1973). Lina meticolosa, e fastosa, ricostruzione della Roma um bertina e dannunziana sembra essere la principale (o l'unica?) ragione d'es­ sere della riduzione del romanzo di D 'A nnunzio L'innocente (1976), ultim o film di Visconti, uscito postumo. M entre agli anni più cupi del fascismo e dell'occupazione tedesca con i drammi delle delazioni e delle deportazioni fa riferimento, con uno sguardo a Proust e uno al dramma elisabettiano, Vaghe stelle dell'Orsa (ma a suo tempo ci fu anche chi vi trovò reminiscenze, e anche qualcosa di più, del Giardino dei F im i Contini di Giorgio Bassani). La presenza nei film di Visconti di referenti storici ben indivi­ duabili, anche in relazione all'utilizzo o meno di una esplicita fonte letteraria, pone i seguenti problemi:

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- qual è la funzione drammaturgica della Storia nell'economia del film? - qual è l'interpretazione della Storia che i film sottintendono o esplicitano? - quale posto occupa la ricostruzione storica nel processo di ideazione e realizzazione del film e, soprattutto, come funziona la mediazione della fonte letteraria? Tenterò di dare qualche rapida risposta, necessariamente sche­ matica, in quanto ogni film richiederebbe un'analisi particolareg­ giata. Sarà sufficiente per ora individuare possibili linee di tendenza. Credo che alla prima domanda si possa rispondere affermando che lo sfondo storico fornisce a Visconti soprattutto materiale plastico, elementi scenografici e musicali e che, in tutti casi, la scrit­ tura storica, per quanto accurate possano essere la documentazione e la ricostruzione che ne stanno alla base, non è mai l'oggetto cen­ trale del film. Poiché il racconto è focalizzato su personaggi cui l'autore attri­ buisce lo statuto tragico, la Storia è presentata come il polo che catalizza un destino di decadenza, di dissoluzione, di abiezione, di solitudine. Come dimostrano i casi di Senso e II Gattopardo, finisce per esserci una disparità tra le intenzioni programmatiche e il pro­ dotto finale, con un ridimensionamento della centralità della scena storica, il cui spazio viene invaso da tematiche più legate alla di­ mensione soggettiva e intima dei personaggi. Da qui possiamo partire per rispondere alla seconda domanda. Da una parte la Storia fornisce elementi di intensificazione dram­ matica, in quanto dota le vicende dei singoli dei caratteri dell'ecce­ zionaiità e dell'esemplarità. Dall'altra, in quanto luogo di trasfor­ mazioni che sfuggono alle possibilità di controllo e di dominio dell'individuo e, spesso, dello stesso gruppo sociale di apparte­ nenza, essa viene fatta oggetto di un'interpretazione essenzialmente fatalistica, funzionale più alla costruzione drammaturgica che a un lavoro di interpretazione dei processi di evoluzione politica, sociale.

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Q uanto alla terza domanda, basterà ricordare la fitta serie di testimonianze di collaboratori e di dichiarazioni dello stesso regi­ sta: da tutte risulta evidente quale importanza avesse nella produ­ zione dei film di Visconti la fase di documentazione storica, spinta spesso fino alla ricerca quasi maniacale dell'esattezza di tutti i detta­ gli, degli arredamenti, dei costumi. È noto che Visconti sottopo­ neva se stesso e i suoi collaboratori a veri e propri tour de force in nome dell'assoluta «autenticità» di ogni aspetto della messa in scena, facendo così la disperazione dei produttori che vedevano ingigantire i costi e la gioia dei biografi che potevano collezionare aneddoti quanto mai pittoreschi. Ciò che sembra prevalere è però l'esigenza, che Visconti sentì con un vigore e un intuito che non hanno riscontri in nessun altro regista a lui contemporaneo, della ricerca della fascinazione spetta­ colare, della suggestione scenografica. Con questo non voglio smi­ nuire il significato attribuito da Visconti al lavoro di documenta­ zione e di ricerca storico-filologica. Voglio semplicemente affer­ mare che a prevalere sono le ragioni del metteur en scene dal gusto raffinato e sicuro, capace di amalgamare in una visione prepotentemente soggettiva le suggestioni più varie ed eterogenee che gli provengono dall'ambiente storico rivisitato. Roman Gubern, in un acuto studio sulle strutture del melo­ dramma cinematografico dedicato in larga parte al cinema di Visconti, ha scritto che Senso è «un dramma d'amore scritto in maiuscolo e con implicazioni politiche scritte in minuscolo»11. Credo che una definizione del genere possa a ragione essere impie­ gata per chiarire il rapporto che esiste tra il nucleo fondamentale del cinema di Visconti (che è tragico, o meglio melodrammatico) e lo sfondo storico.1

11 Rom an G ubern, Teoria del melodramma, in Id., Immagine e messaggio nella cultura di massa, Liguori, Napoli 1976, p. 283.

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2. Il Gattopardo: da Lampedusa a Visconti Riprenderemo ora le domande che ci siamo posti sul rapporto tra storia e cinema nell'opera di Visconti, adattandole al caso specifico della versione cinematografica de II Gattopardo di Tornasi di Lampedusa. Siamo facilitati dalla possibilità di basarci su un confronto tra il ruolo svolto dalla scena storica rispettivamente nel romanzo e nel film, anche se il giudizio sul film non potrà essere dedotto dal grado di fedeltà all'opera letteraria che lo ha ispirato. Partiamo dal romanzo. Q ui, quelli che chiamiamo i fatti storici ci sono, fin dalle prime pagine: dallo sbarco di Garibaldi in Sicilia al referendum per l'annessione al Regno Sabaudo e all'eliminazione degli ultimi focolai di resistenza «garibaldini» liquidati in Aspromonte. Focalizzato sul personaggio del Principe, ma con frequenti scambi dal punto di vista di quello a una visione dall'esterno che permette l'intrusione della voce del narratore, il racconto definisce il ruolo della scena storica soprattutto attraverso il registro espositivo, una scrittura controllata e allusiva: il refe­ rente storico compare così sospeso tra ironia e malinconica con­ templazione, tra realismo (più fatalista che disincantato) e lucido distacco. Osserviamo come vengono introdotti, nelle prim e pagine, i riferimenti ai mutamenti politico-militari che segnano l'inizio di quei «tempi nuovi» che fanno da sfondo e da principio acceleratore delle vicende narrate. D opo la descrizione ironica, inserita nel bel mezzo della recita del rosario, dell'affresco che celebra in un'aura di mitologia classica «la gloria di casa Salina», ecco come viene introdotto il prim o riferimento storico preciso:

Al di sotto di quell'Olimpo palermitano anche i mortali di casa Salina discendevano in fretta giù dalle sfere mistiche. Le ragazze rag­ giustavano le pieghe delle vesti, scambiavano occhiate azzurrine e parole in gergo di educandato: da più di un mese, dal giorno dei moti del Quattro Aprile, le avevano per prudenza fatte rientrare dal con­ vento, e rimpiangevano i dormitori a baldacchino e l'intimità collet­ tiva del Salvatore12. 12

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 1963,

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In questo riferimento, fornito quasi casualmente, prevale una sfumatura ironica combinata ad alcune eleganti «illuminazioni» intimistiche, di gusto vagamente simbolista («occhiate azzurrine», «intimità collettiva»). Di ben altra ampiezza e suggestione è, di lì a poco, la rievocazione del «cadavere di un giovane soldato del Q uinto Battaglione Cacciatori che, ferito nella zuffa di S. Lorenzo contro la squadra dei ribelli, se ne era venuto a morire solo, sotto un albero di limone»13. L'informazione che serve a farci capire il contesto storico è data anche qui di sfuggita, quasi una sorta di pretesto per introdurre una descrizione insistita e un po' compiaciuta della lacerazione della carne, della putrefazione, con l'aggiunta di un tocco di macabra ironia:

Era stato il Russo, il soprastante, a rinvenire quella cosa spezza­ ta, a rivoltarla, a nascondere il volto con il suo fazzolettone rosso, a ricacciare con un rametto le viscere dentro lo squarcio del ventre, a coprire poi la ferita con le falde verdi del cappottone; sputando conti­ nuamente per schifo, non proprio addosso ma assai vicino alla salma. Il tutto con preoccupante perizia. «Il fetore di queste carogne non cessa neppure quando sono morte» diceva. Era stato tutto quanto avesse commemorato quella morte derelitta. Quando poi i commilitoni imbambolati lo ebbero portato via (e, sì, lo avevano trascinato per le spalle sino alla carretta cosicché la stoppa del pupazzo era venuta f u o ù d i nuovo) un D e Profundis per l'anima dello sconosciuto venne aggiunto al Rosario serale; e non se ne parlò più, la coscienza delle donne di casa essendosi dichiarata soddisfatta14. Lampedusa relativizza il fatto storico e dilata le considerazioni sulla meccanica ripetitività di un destino di morte: da notare, in particolare, l'uso della metafora «la stoppa del pupazzo» per visua­ lizzare un raccapricciante particolare della traslazione della salma. In realtà, il «momento rivelatore del trapasso di regime», per p. 6 (ed. or. 1958). 13 Ibid., p. 8. 14 Ibid., p. 9 (miei i corsivi).

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usare le parole di Giorgio Bassani nell'introduzione alla prim a edizione, rappresenta un'occasione privilegiata per ribadire l’estra­ neità del personaggio alla scena della Storia: la lucidità del giudizio che è in grado di esprimere e l'esattezza della «diagnosi», anziché indurlo a una reazione, lo isolano nella sua aura di aristocratico distacco. Basterà un passo come il seguente, nel quale i rivolgimenti politici cui la narrazione farà costante riferimento sono ricondotti alla loro monotona ripetitività da una metafora di caccia, per com­ prendere come la Storia serve da rivelatore della solitudine e dell'indifferenza di un personaggio che ha imparato a godere della coscienza dell'ineluttabilità della morte e della fine di ogni cosa:

Valga come esempio la chiusura del colloquio tra il principe e don Ciccio Tumeo, durante una battuta di caccia, in cui si è parlato dei brogli elettorali compiuti nel plebiscito per l'annessione:

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Lasciamo che qui giù i Bendicò inseguano rustiche prede e che il coltellaccio del cuoco trituri la carne di innocenti bestiole. All'al­ tezza di questo osservatorio le fanfaronate dell'uno, la sanguinarietà dell'altro si fondono in una tranquilla armonia. Il problema vero è di poter continuare a vivere questa vita dello spirito nei suoi momenti più sublimati, più simili alla morte15. L'«osservatorio» del passo citato è naturalmente quello dal quale il principe Salina si diletta a scrutare l'im perturbabile perfezione delle stelle, ma è anche quello metaforico dal quale il narratore gli permette di contemplare l'inesorabile trascorrere del tempo e il vano succedersi di eventi da altri creduti memorabili. È un «osservatorio» dal quale tutto ci appare filtrato attraverso la subli­ me ambiguità del linguaggio: il narratore concede al personaggio che va incontro al suo destino di decadenza tutti i conforti di una tradizione letteraria squisita. Naturale che, in tale contesto e in un tale impianto linguisticonarrativo, il riferimento funzioni da rivelatore della relatività e deH'intercambiabilità di qualsivoglia mutamento politico e sociale, anche se ciò non esclude la capacità di esprimere giudizi netti e lucidi ai quali, anzi, una visione fatalistica della storia conferisce una classica icasticità.

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Don Fabrizio non poteva saperlo allora, ma una buona parte della neghittosità, dell'acquiescenza per le quali durante i decenni se­ guenti si doveva vituperare la gente del Mezzogiorno ebbe la propria origine nello stupido annullamento della prima espressione di libertà che a questo popolo si era mai presentata16. A questo passo si riferisce Visconti quando, nell'intervista a cura di Antonello Trom badori pubblicata assieme alla sceneggia­ tura del film, afferma:

Ma in conclusione partecipo anch'io della definizione del Risorgimento come «rivoluzione mancata» o meglio «tradita». Motivo del resto accennato nel romanzo: ti basti ricordare le riflessioni del principe durante lo sfogo di don Ciccio Tumeo sui risultati del plebiscito17. A parte il lapsus di attribuire al principe quello che nel roman­ zo è uno dei vari interventi espliciti dell'autore, bisogna notare l'evidente forzatura di leggere in termini gramsciani il passo citato, che rientra benissimo nel fatalismo da «ciclo dei vinti» e, cosa ben più importante, il fatto che di questa riflessione non rimane traccia nella sceneggiatura né, tantomeno, nella copia definitiva del film: qui infatti l'esibizione di un esasperato lealismo da parte di don Ciccio si trasforma, in virtù dell'interpretazione di Serge Reggiani, in un gustoso pezzo di colore vernacolo sotto lo sguardo più diver­ tito che turbato del principe (che ha già fatto la sua scelta di Realpolitik e che vediamo subito dopo impegnato nel rituale della richiesta a don Calogero Sedara della mano di Angelica per suo nipote Tancredi). 16 Ibid., p. 78.

15 Ibid., p. 30.

17 Suso C ecchi D'A mico (a cura di), Il film *11 Gattopardo» e la regia di Lachino Visconti, Cappelli, Bologna 1963, p. 23.

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Queste osservazioni ci inducono a porre il problem a del rap­ porto tra testo filmico vero e proprio e dichiarazioni programma­ tiche del regista (che appartengono alla fase di progettazione, produzione e lancio del film, ma che sono materiali di primaria importanza, come ha mostrato Sorlin, per lo studio delle compo­ nenti ideologiche del lavoro cinematografico18). N on c'è dubbio che Visconti fosse preoccupato di dimostrare l'ortodossia politica della sua trascrizione di un romanzo come II Gattopardo, quanto mai sospetto di ideologia reazionaria presso la critica di sinistra. Lo dimostrano il già citato colloquio con A nto­ nello Trombadori pubblicato come introduzione alla sceneggiatura del film, e, in modo ancor più scoperto, l'intervista con Paolo Spriano pubblicata sull'«Unità» (11 aprile 1963), in concomitanza con l'uscita del film e alla vigilia di un'im portante scadenza elettorale. Basterà citare il seguente passo:

D. La tesi di fondo del tuo ultimo film, Il Gattopardo, ha richia­ mato l'attenzione di tutta la critica. Poiché tale tesi ruota proprio attorno a un preciso giudizio sullo sviluppo storico della società italiana dal Risorgimento in poi ci vuoi dire qualche cosa in merito? R. È vero. La massima reazionaria del principe Tancredi, «qualcosa deve cambiare perché tutto rimanga uguale», corre come un filo rosso lungo il mio film: E non nego che elaborando la riduzione del romanzo di Tornasi di Lampedusa e poi girando il film, io abbia pensato oltre che al passato, anche al presente del nostro Paese. Il monito contro il pericolo che, malgrado qualche ammodernamento, tutto rimanga tale e quale, come avvenne all'indomani dell'impresa dei Mille, è, a mio avviso, di scottante attualità. Il tema del «trasformismo» come male storico italiano, di quel «trasformismo» che è riuscito nelle grandi svolte di un intiero secolo ad assorbire e a deformare gli aneliti di libertà delle masse popolari, è un tema che ricorre costantemente in quasi tutti i miei film. Perciò si parla di un mio pessimismo. Mi permetto di chiarire che si tratta di una ricerca critica e interpretativa dei motivi della «rivoluzione tradita» e di una

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scelta conseguente. Il mio punto di vista non è di tipo anarchico­ evasivo, come qualcuno vuol far credere. Ad esempio, la mia adesione all'azione e al programma dei comunisti italiani è dettata dalla consa­ pevolezza che in Italia si è formata una forza storica nuova, autono­ ma, non corruttibile dal trasformismo, capace di lavorare per il supe­ ramento del ricorrente, sterile compromesso tra destra e sinistra che da Crispi a Giolitti, fini col produrre il fascismo. Questa forza storica nuova ha le sue radici nella unità di tutti i lavoratori. Il Partito comu­ nista italiano ne è l'espressione più conseguente sul piano politico e ideale. Ogni attentato a questa unità in nome di una qualsiasi forma di anticomunismo è, in realtà, un attentato alle stesse basi costituzionali, democratiche e antifasciste dello Stato italiano, così come esso è sorto dalla Resistenza e dalla guerra di liberazione. È un atto di autolesioni­ smo le cui conseguenze sarebbero drammatiche19. Fino a che punto l'analisi del testo filmico può confermare la piena realizzazione di così impegnative dichiarazioni di intenti? O, in altri termini, in quale misura Visconti è riuscito a ribaltare o a modificare il ruolo che la «scena» della Storia ha nel romanzo di Lampedusa? Attraverso un esame comparato dei due testi si può verificare un'indubbia dilatazione della presenza del referente storico nel film rispetto al romanzo. Basterà ricordare al proposito la sequenza epica delle azioni belliche dei garibaldini e dei picciotti per le vie di Palermo (si tratta di una delle integrazioni di maggior rilievo anche perché giocata secondo un registro stilistico decisamente diverso da quello del romanzo e, probabilmente, da quello delle parti più intensamente viscontiane del film). Tuttavia, il referente storico occupa, nell'economia del film, una posizione complessivamente modesta, tanto più se si tiene conto che scompare totalmente nell'edizione finale l'im portante episodio (importante dal punto di vista dell'illustrazione della tesi dichiarata da Visconti) del conflitto tra D on Calogero e i contadini a proposito della proprietà degli 19 La citazione è tratta dalla bella antologia di testi di e su Visconti di

18 Pierre Sorlin , Sociologia del cinema, Garzanti, Milano 1979, pp. 79-117 (ed. orig. 1977).

G iluliana C allegari e N u c c io Lodato , Leggere Visconti, Amm. Prov. di Pavia, Pavia 1976, p. 98.

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asini e del diritto di voto20*.È vero che il riferimento alle esecuzioni dei disertori, cioè dei soldati regi che avevano seguito Garibaldi in Aspromonte, viene, nella sequenza del ballo, ampiamente illustrato dalle orazioni del colonnello Pallavicini e, oltretutto, assai didasca­ licamente enunciato da Tancredi. Tuttavia, esso si riduce, alla fine, a una scarica di fucileria, che Tancredi commenta assieme al suo­ cero nella carrozza che li riporta a casa dopo il ballo, ma resta poco più che un contrappunto sonoro, un evento tenuto rigorosamente fuori campo, nell'economia di una sequenza in cui il tema della decadenza fisica e della contemplazione della m orte assume ben altra pregnanza. N on avendo saputo o potuto - data la natura del mezzo cinema­ tografico - tentare la resa della dimensione lirico-soggettiva del personaggio che è la chiave dell'eccezionale esito stilistico della scrittura di Lampedusa, Visconti ha dovuto rinunciare a filtrare la «scena» della Storia attraverso la visione soggettiva del principe Fabrizio: quando lo ha fatto, come ad esempio nelle digressioni soggettive del principe durante la sequenza della battuta di caccia con don Ciccio Tumeo, Visconti ha ottenuto delle variazioni sul tema «comico» dei nuovi ricchi, che complicano inutilmente l'o r­ dine del discorso narrativo, senza che l’adozione della dimensione soggettiva ne arricchisca davvero la valenza. Visconti ha operato quindi la scelta stilistica di privilegiare i dati comportamentali, i tratti rituali della gestualità e delle azioni dei personaggi: di qui il ruolo determinante che ha il rapporto tra il personaggio e la sceno­ grafia e la centralità dell'aspetto coreografico, che non a caso trova il suo trionfo nella seconda metà del film quasi interamente occupata dalla lunghissima sequenza del ballo. Si tratta di una scelta stilistica che tende a trasformare ogni aspetto del contesto (storico, ambientale, sociale ecc.) in scenografia, in suggestione paesaggistica, in metaforica combinazione di movi­ mento musicale e movimenti di macchina. Secondo tale procedi­ mento, anzi, la dimensione scenografica e quella sinfonica costitui20 Si veda C ecchi D'A m ico , 11 film «Il Gattopardo» e la regia d i Luchino Visconti cit., pp. 78-81.

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scono il punto d'incontro e di fusione delle suggestioni che Visconti ricava dal testo letterario e sviluppa con autonomia di mezzi nella dimensione dello spazio filmico. Nel romanzo ci sono frequenti passaggi attraverso la mediazio­ ne di uno sguardo o di un gesto di un personaggio da una dimen­ sione chiusa, raccolta in se stessa, a una visione d'insieme. È attraverso questo movimento dello sguardo che si inserisce median­ te metafore, similitudini e altri procedimenti retorici la voce del narratore che raccorda il qui del particolare della vicenda narrata a un altrove da cui si attiva una visione d'insieme, a un tempo storica e carica di vibrazioni cosmiche, distaccata e sofferta. Vari sono gli esempi possibili. O ltre ai due già citati sopra (quello del «soldato morto» e il