Il vocabolario di Deleuze
 9788895967233

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Il corpo della filosofia Collana diretta da Rossella Fabbrichesi e Cristina Zaltieri

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Il corpo della filosofia è la scrittura dei suoi testi, là dove il pensiero si fa visibile, si concede al nostro sguardo. Porre l'accento su tale corpo non significa attraversare i testi mirando ad un altrove invisibile di cui essi sono i segni, ma illuminare l'intreccio scritturale che è la loro carne, il te:x:tum. Significa anche tener conto che il pensiero si dispiega sempre in un'alterità (corpo, scrittura, carne, materia) che lo contamina e lo nutre. Lungi da rimuoverlo od obliarlo, la filosofia deve essere all'altezza di tale suo corpo potente e glorioso.

11 vocabolario di Deleuze di François Zourabichvili

Introduzione e traduzione di Cristina Zaltieri

Negretto Editore

Volumi pubblicati nella collana IL CORPO DELLA FILOSOFIA: 1.

Camilla Pagani, Genealogia delprimitivo. Il musée du quai Bran!J, Lévi-Strauss e la scrittura etnografica. Prefazione di Carlo Sini

2.

Andrea Parravicini, La mente di Danvin. Filosofia ed evoluzione

3.

Cristina Zaltieri, L 'invenzione del co,po. Dalle membra disperse all'organismo

4.

Barbara Stiegler, Nietzsche e la biologia. Presentazione di Rossella Fabbrichesi e Federico Leoni

5.

François Zourabichvili, Il vocabolario di Deleuze. Introduzione e Traduzione di Cristina Zaltieri

6.

François Zourabichvili, Spinoza. Una fisica delpensiero Presentazione di Cristina Zaltieri Traduzione di Franco Bassani

Immagine di copertina: Giovanni G alafassi, Deleuze, acquerello, 2012 Progetto grafico: Mara Sanfelici Titolo originale: © Le vocabulaire de Deleuze, Ellipses, Paris 2003 © Il vocabolario di Deleuze, Negretto editore, Mantova 2012

© Negretto Editore, Mantova, Ottobre 2012 Telefono 340 5241726 [email protected] www.negrettoeditore.it Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-95967-23-3

Indice

Aion

22

Complicazione

24

Concatenamento*

25

Corpo senz'organi

28

Cristallo di tempo (o d'inconscio)

30

D eterritorializzazione (e territorio)

35

D istribuzione nomade (o spazio liscio)

37

D ivenire

38

E mpirismo trascendentale

40

E vento

42

L inea di fuga (e minore-maggiore)

45

Macchina da guerra

50

Macchine desideranti

52

Molteplicità

54

Piano d'immanenza (e caos)

56

Problema

65

Ritornello (differenza e ripetizione)

68

Rizoma

69

Singolarità pre-individuali

71

Sintesi disgiuntiva (o disgiunzione inclusiva)

73

Taglio - flusso (o sintesi passiva o contemplazione)

76

Univocità de/tessere

77

Vita (o vitalità) non-organica

80

Virtuale

83

1

* Mi adeguo a tradurre "agencement" con "concatenamento", come è invalso, osservando che nella parola italiana è presente l'idea di una "catena" di elementi che evoca una successione impensabile nel concetto deleuziano che indica elementi eterogenei legati entro una disposizione. (nota della traduttrice)

FJngrazio Ubaldo Fadini e Mauro Ferraresi per la preziosa disponibilità.

Pensare l'evento Introduzione di Cristina Zaltieri

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A otto anni dalla pubblicazione dell'edizione francese di questo testo di François Zourabichvili la decisione di presentare la traduzione italiana appare del tutto confortata dal permanere delle ragioni che rendevano allora urgente, agli occhi dell'autore, la sua scrittura. La prima di tali ragioni è eletta dall'autore come leit-motiv che guida il suo intero lavoro dedicato ali' interpretazione di Deleuze: leggere Deleuze richiede di assumere con molta serietà l'appello accorato e ricorrente - nei suoi testi, nelle sue lezioni - alla letterarietà. Non è un appello facile da raccogliere di fronte a creazioni concettuali quali "ritornello", "macchina da guerra", "macchine desideranti", "rizoma"; d'altra parte si tratta di assumere conseguentemente gli effetti di una filosofia dell'immanenza che - se intesa nella sua radicalità - comporta una serie di conseguenze di forte rilevanza teoretica. In primo luogo ne consegue il venir meno dei due distinti piani - che la nostra tradizione filosofica eredita dal platonismo - dei concetti e degli eventi. Nel piano d'immanenza - nozione a cui inevitabilmente sono dedicate tante dense pagine di questo libro - i concetti stessi sono eventi scaturiti da certi incontri, sempre accompagnati da affetti e percetti, la cui verità rimanda sì ad un fuori che provoca il pensiero ma che non ha mai un'immagine pre-configurata. Inoltre non ha più senso parlare di un uso proprio dei concetti di contro ad un loro uso figurato, semmai ciò che importa sono le effettualità, le intensità, l'efficacia che conseguono alla loro utilizzazione. I concetti - insegna Deleuze - sono strumenti fondamentali di contenimento del caos che, se lasciato irrompere brado nel pensiero, lo farebbe collassare. Arginare il caos è il compito dei concetti ma restando porosi di fronte all'affollamento di tutte le virtualità sconnesse in cui il caos consiste, pena una loro trasformazione in clichés inutilizzabili. Dunque si deve fuggire ogni riduzione della variegata e prolifica produzione deleuziana di concetti ad un inanellamento di seducenti metafore, occorre invece trattare tali concetti nel modo più fruttuoso: bisogna più che interpretare, sperimentare la filosofia di cui sono portatori; per far questo occorre svolgere con pazienza e dedizione tutto il pensiero che vi è implicato, tutti gli usi che vi sono impliciti dall'inviluppo costitutivo di ogni concetto. La seconda ragione s'intreccia con la prima e richiede di applicare allo stesso pensiero di Deleuze la definizione - da lui proposta - di filosofia come arte di formare concetti. Troppo spesso il destino dell'opera di Deleuze è stato quello di incontrare lettori emotivamente coinvolti o causticamente sprezzanti, simpateticamente trascinati o freddamente liquidatori, ma raramente l'una o l'altra delle schiere opposte hanno saputo accompagnare al pathos suscitato da Deleuze (che certo è elemento meritorio per ogni pensiero) un altrettanto potente lavoro filosofico sui concetti da lui prodotti.

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La terza ragione concerne la natura di questo testo che si presenta come un inventario dei concetti deleuziani il quale - pur modellandosi inevitabilmente sulla base delle scelte dell'interprete, sulle sue ragioni ma anche sulle su e passioni assume poi come ordine il più arbitrario e casuale: quello alfabetico. Una ragione molto seria rende felice la scelta di parlare del pensiero di D eleuze attraverso quest'ordine fittizio: esso permette di non sovrapporre altro ordine, meno innocente, più compromesso con pregiudizi e precomprensioni, a quell'intreccio rizomatico e dedalico che connette i concetti della su a filosofia, del suo pensiero. A queste ragioni oggi si può a pieno titolo aggiungerne un'altra: la profondità e la fertilità della lettura della filosofia di D eleuze offerta da Zourabichvili, capace di interpretare tale filosofia, o meglio di sperimentare con tale filosofia, evidenziandone tutta la forza speculativa e l'attualità. D eleuze, già a partire dagli anni settanta, è stato inchiodato sia dagli adepti che d ai detrattori al ruolo di pensatore del desiderio anarchico e ancor oggi fatica a farsi largo una piena emersione della sua ricchezza concettuale dalla gabbia di tale stereotipo. 1 Si è per troppo tempo letto hegelianamente D eleuze, ossia lo si è consid erato come il pensatore che più di altri della sua generazione ha innalzato il suo tempo al concetto tanto che il concetto sarebbe in lui rimasto irretito dal tempo - quel tempo dell'antipsichiatria, dell'immaginazione al potere, della liberazione sessuale, della critica ad ogni sapere costituito ... - e ne avrebbe subìto tutte le traversie, le ingiurie, i logoramenti, tanto da apparirci oggi lontano dalle urgenze del presente, dun que inutilizzabile. Ora, Zourabichvili ha avuto il merito di mostrare che non è così. E gli si è lasciato alle spalle ogni stereotipo, procedendo deciso oltre la fascinazione

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Alcuni noti esempi a proposito: M.Cressole, Deleuze, Editions Universitaires, Paris,1973; B.-H.Lévy, I..a barbarie à visage humain, Paris, Grasset,1977,tr.it. Marsilio, Venezia, 1977; PBoutartg, Apoca!Jpse du désir,Paris, Grasset, 1979. Di recente pubblicazione è invece il testo di J an Rehmann, Postmodern L nks-Niezscheanismus. Deleuze & Foucault: eine Deh mstruktion, Argument Verlag, H amburg, 2004, tr.it. di S.G. Azzarà, Odradek edizioni, Roma, 2009 dove l'autore oltre che dichiarare l'infondatezza della lettura deleuziana (e foucaultiana) di Nietzsche - frivolmente utilizzato come pensatore della leggera e "bella irresponsabilita" di contro alla pesantezza della " responsabilità dialettica"- denuncia la nascosta solidarietà tra il pensiero deleuziano della differenza e l'ideologia del neoliberismo in quanto l'autore legge l'esito politico della filosofia di Deleuze come " il tentativo di introdurre nei movimenti di opposizione e alternativi una sintesi contradditoria di fatalistica affermazione del dominio e di illusorie 'linee di fuga' particolaristiche verso la liberazione." (p.77) Ci limitiamo ad osservare il discutibile schematismo di una lettura che - inchiodando Nietzsche al ruolo di "pensatore di destra" - dichiari illegittimo un uso non-fascista di un pensiero così complesso (come se Platone e Hegel non potessero che essere utilizzati da fautori dello stato classista, il primo, e etico, il secondo) e che scambi poco filosoficamente l'esigenza legittima di una lettura letterale, non metaforica, di concetti quali "macchina da guerra", " deterritorializzazione" o " linea di fuga" (che come insegna Zourabichvili significa trarre da tali inviluppi di pensiero tutte le virtualità speculative in essi avvolte, dunque non solo spaziali, ma etologiche, esistenziali, affettive ...) con una totale destituzione degli stessi dalla dignità di concetti appiattendoli a mere designazioni univoche di stati di cose.

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deleuziana con il suo duplice effetto di seduzione o di repulsione, interrogandone invece semplicemente e radicalmente i concetti. In primo luogo Deleuze è colui che rovescia il gesto filosofico come lo intende Hegel perché il movimento che sottende tutta la sua filosofia è semmai quello di innalzare il concetto al tempo 2 • Certo occorre però chiarire di che tempo si tratta. Non è Chronos, il tempo storico, lineare - come si spiega nella voce Aiçn - in quanto la filosofia di Deleuze, questo è il cuore della lettura che ne offre Zourabichvili, è filosofia dell'evento, ossia di quella temporalità paradossale che frantuma il "tutto scorre" non permettendo dunque una lettura pacificamente continuistica del divenire deleuziano. 3 Nell'asserire ciò l'autore assume pienamente tutta la problematicità insita in tale definizione che, se non liquidata come una formula d'effetto, fa risuonare la propria ossimorica natura. Come può infatti la filosofia, in quanto arte di creare concetti, dunque universali del pensiero, aspirare a porsi all'altezza dell'evento, che è singolarità irrepetibile, rottura d'ogni linearità temporale, infra-tempo e fuori-tempo, mai uno perché sempre plurale? Come può la filosofia "rendere il pensiero degno dell'evento", per usare il linguaggio di Deleuze? Si tratta in primo luogo di ripensare il concetto di concetto, di vederne le molteplicità albergate, la frammentarietà, le virtualità ospitate e non espresse, i contorni irregolari, la dipendenza da un preciso problema che delimita un territorio al di fuori del quale esso può mutare o addirittura perdere senso (di qui la frequente inutilità della discussione filosofica). In fondo si tratta di ampliare gli ambiti della logica, di renderla - attraverso la sintesi disgiuntiva, il rifiuto del fondamento, l'apertura all'irrazionale, che non è l'illogico - un opportuno strumento più atto a navigare l'oceano della vita le cui molteplici esperienze spesso non vogliono saperne di obbedire al principio di non contraddizione o del terzo escluso. Zourabichvili nel suo inventario dei concetti deleuziani ripercorre questa sfida che Deleuze traccia fuori dalle rotte più frequentate della filosofia del Novecento, in solitaria compagnia di grandi inattuali, Bergson, Spinoza, Nietzsche, H ume, Lucrezio ... e di certo lontano dalle due grandi strade maestre della filosofia continentale: fenomenologia ed ermeneutica e dai loro padri H usserl e H eidegger.4

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Sull'antihegelismo di Deleuze cfr. U.Fadini, D eleuze p lumle. Per un pensiero nomade, Pendragon, Bologna, 1998, pp.9-45. 3 Non a caso la monografia che Zourabichvili ha dedicato a Deleuze, ha per titolo: D eleuze: una filosofia dell'evento. (F.Zourabichvili, D eleuze. Une p hilosophie de l'événement, Paris, PUF,1994; tr.it. a cura di F.D'Agostini, Ombre Corte, Verona, 2002). 4 Alain Beaulieu in Gilles Deleuze et la phénoménologie, Les Editions Sils Maria, Paris, 2004 ritiene importante sopperire alla mancanza di studi. sul rapporto tra Deleuze e la fenomenologia perché è sua convinzione che il pensiero di Deleuze si sviluppi proprio in una sorta di corpo a corpo con la fenomenologia da lui considerata il pensiero maggioritario del suo tempo entro cui è vitale aprire linee di fuga all'insegna - in primo luogo- del pensiero, in quegli anni obliato, di

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Lo strumentario concettuale di Husserl - tutto il lavoro di Zourabichvili lo testimonia - è fuori uso o cambia di segno nel territorio della filosofia deleuziana: il dato puro appare come un'astrazione mai sperimentabile, il reale non si esaurisce nell'attuale perchè si offre all'esperienza come una coalescenza cristallina di attuale e virtuale, la coscienza ben prima d'esser "coscienza di qualcosa" è anch'essa qualcosa, dunque cosa tra le cose, il corpo non è mai "proprio", bensì sempre espropriato, sempre ricettivamente esposto al fuori ... C'è un concetto di Husserl che Deleuze fa proprio: è quello di "sintesi passiva" (vedi la voce Taglio-flusso del testo) senza cui non si può comprendere alcuna esperienza; la stessa conoscenza è l'effetto della passività di cui siamo capaci, ma Deleuze imputa ad Husserl di non aver pensato tale concetto con la necessaria radicalità, di non aver dunque considerato come ogni esperienza contempli un accoppiamento, un dispars, in quanto gesto in cui si collocano oggetto e soggetto, anzi, meglio, si costituiscono come tali proprio in tale complicazione, in tale inviluppo, non preesistendo a tale gesto che li distribuisce. È ancora la sintesi passiva insita in ogni esperire che permette di comprendere la natura ultima del divenire - altro concetto-vessillo della filosofia di Deleuze - perché il divenire, meglio i divenire in quanto tale concetto si declina sempre e solo al plurale, in cui ogni dato si trova implicato, non consiste nel divenire qualcos'altro per imitazione o identificazione ma nel fatto che un altro modo di vivere e di sentire frequenta il nostro, ossia vi s'inviluppa e lo "fa fuggire". Deleuze non è dunque il filosofo di un rinnovato p anta rei perché non è interessato a un retorico "tutto cambia" universale, bensì suo compito è cercare di scandagliare la singolarità di ogni divenire. Vi è un esempio freudiano molto amato da Deleuze - da lui strappato alla lettura in chiave edipica di Freud - che Zourabichvili riprende più volte. Si tratta del piccolo H ans che vede un povero cavallo stramazzare in mezzo alla strada. Ora, ciò che accade in questa scena è che il bambino si modifica vedendo nel cavallo il proprio dolore e dunque Hans è trascinato in un divenir-animale. Ma anche il cavallo diviene qualcosa d'altro dall'animale da tiro a cui spetta solo trascinare carretti ed entra in una sorta di legame rispecchiante con il bambino che lo guarda. Quindi nell'esperienza si costituiscono rispecchiamento, coinvolgimento, sdoppiamento, scambio, indiscernibilità di ciò che noi chiamiamo soggetto e oggetto, coscienza e dato. Non si dà un dato neutro, indipendente dai nostri divenire. Si può parlare di

Spinoza. Beaulieu poco considera, invece, la funzione antifenomenologica svolta in Deleuze dalla lettura di Sartre e di Bergson, a mio avviso, di grande rilievo. Il corpo a corpo con Heidegger è analizzato nella seconda parte del testo, intitolata "Le critique de H egel" dove l'autore ha il merito oltre che di indicare le distanze tra Deleuze e Heidegger, di mostrare come molti motivi heideggeriani risuonino in Deleuze, dalla critica al pensiero rappresentativo, alla questione ontologica, alla riflessione filosofica sulla declinazione poetica del linguaggio. Aggiungerei a questi la presenza in Heidegger di elementi di spazialità, quali l'abitare, la quadratura, che incominciano a divenire importanti elementi di costituzione di ogni soggettività.

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regime cristallino dell'esperienza che evoca la coppia concettuale, virtuale/ attuale, la cui relazione caratterizza ogni nostra esperienza. Ossia, c'è sempre qualcosa che eccede l'attuale nelle nostre esperienze e sono le virtualità da non confondersi con le possibilità - le quali prevedono una progettualità che le trasformi in realtà, a differenza del virtuale che resta sempre e solo tale, pur essendo effettuale, dunque parte della realtà. Quindi l'esperienza ci rimand a ad un reale che è attuale e virtuale insieme, ossia è un attuale come complicazione di molteplicità di virtuale e un virtuale come implicato nell'attuale. Deleuze parla di un regime cristallino dell'esperienza come una struttura complessa di indiscernibilità tra attuale e virtuale. Il concetto di cristallo ha giustamente largo spazio in questo testo perché in esso convergono i motivi di fondo del pensiero di Deleuze e si fa manifesta la sua declinazione particolare, lontana da Husserl, del tema dell'esperienza. La struttura cristallina dell'esperienza non si esaurisce mai in ciò che percepiamo "attualmente", in ciò che pensiamo, in ciò che andiamo a dire, ma è costantemente corredata di forze, istanze emozionali, cognitive, virtualità che accompagnano l'attuale e lo arricchiscono. Quando Marcel incontra Albertine sulla spiaggia di Balbec - Proust lo fa intendere al lettore con grande maestria - non incontra solo una giovane donna che gli cambierà la vita: incontra un territorio, un paesaggio, una molteplicità - quella delle fanciulle in fiore da cui piano piano emergerà Albertine - delle affettività nuove, e tutto questo brulicare di istanze procederanno insieme al rapporto tra Marcel e Albertine, avranno effetti, dunque faranno parte della sua realtà pur non essendo tutte né attuali, perché non assimilabili a datità percepibili, népossibili, in quanto non destinate o meno a un "compiersi". Il virtuale appartiene a un campo trascendentale dell'esperienza dove ogni coscienza è già situata, per dirla alla Sartre, e l'esser-situati è assunto in modo radicale da D eleuze come singolarità irriducibile. L a scarsa attenzione per l'esser situati porta H usserl, secondo D eleuze, a un movimento di trascendenza dell'esperienza verso l'universalità del noema, del concetto, che impoverisce nella fenomenologia l'incontro di esperienza e pensiero. Per quanto concerne H eidegger si può dire che agli occhi di Deleuze, nonostante l'anti-hegelismo condiviso nella critica comune al pensiero della rappresentazione, c'è ancora molto, troppo storicismo nel suo pensiero: " H egel e H eidegger restano storicisti nella misura in cui pongono la storia come una forma di interiorità nella quale il concetto sviluppa o disvela necessariamente il suo destino" (CCF, 87 -889). La stessa questione del destino - Zourabichvili lo mostra efficacemente - è sintomatica d ella distanza tra i due pensatori: in D eleuze il destino si smonta e si anatomizza nei singoli organi, oggetti parziali, flussi molteplici, che si intrecciano ad ogni singolo evento mostrando ad ogni passo, ad ogni presunto "dato", le linee di fuga che si aprono e che non legittimano l'uso della parola "destino" come pietra tombale da porre su una molteplicità in perenne fermento, che trasforma tale cristallo proliferante di traiettorie imprevedibili in

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una totalità chiusa. La frequentazione della storia del pensiero praticata lungo l'intera opera di Deleuze è poco affine a quella dell'ermeneutica laddove le sue interpretazioni di H ume, Bergson, Proust, Nietzsche, Spinoza, Melville, Kafka ... non disegnano alcuna linea di continuità, non si collocano in una tradizione, non riprendono una catena ininterrotta d'interpretazioni, sono piuttosto membra diguncta, incontri singolari chiamati di volta in volta a rispondere alle domande attuali che provocano il pensiero: che cosa significa fare esperienza, come funzionano i segni, che cos'è un divenire . . . La lettura "continui.sta" della storia viene posta in causa già in Differenza e ripetizione, ma è a partire dalla ricerca condivisa con Félix Guattari,5 che Deleuze pone con chiarezza il suo pensiero non tanto in contrasto quanto più radicalmente fuori da qualsiasi filiazione storicista poiché va a sottolineare la natura spaziale (più che temporale) come fondamentale costitutivo di ogni soggettività. Qualsiasi processo di soggettivazione - che sia di un singolo, di un popolo, di uno stato - si accompagna necessariamente a pratiche di marcatura di un territorio, come accade per ogni forma di vita sulla terra; di qui la necessità di una creazione concettuale - ben attestata ne Il vocabolario di Deleuze - all'altezza di questo pensiero: tenitorio, detenitorializzazione, ritenitorializzazione, ritornello, spazio striato/ spazio liscio . .. e di conseguenza la declinazione geofilosofica di una filosofia che trova nella geostoria di Braudel un'ispirazione preziosa. Così si strappa la storia alla necessità e la si riconsegna alla contingenza, dunque alle linee di fuga che l'attraversano, la si toglie al culto dell'origine e la si riconsegna alle forze di un ambiente determinato e ai divenire differenti e sempre situati che in esso vengono espressi. Un'ultima riflessione vale la pena dedicare alla dimensione etica e politica che si dischiude in questa lettura di Deleuze offerta da Zourabichvili. Si consideri come anche interpreti che non si sono sottratti alla fatica di pensare davvero con Deleuze abbiano ceduto - in proposito - a semplificazioni e banalizzazioni. Un esempio, tra tanti, lo offre un interprete dalle tesi discutibili ma certo pensanti quale Badiou che, in conclusione del suo Deleuze. "Il clamore dell'essere" trova ben rispondenti a Deleuze le parole del curato di campagna di Bernanos: "Che importa? Tutto è grazia". Tutto sarebbe grazia, anche il morire, anche il disumano, per Deleuze apostolo di Spinoza. Il che spiegherebbe, per Badiou quella "sorta di indifferente allegria ('Che importa?')"6 con cui Deleuze avrebbe seguito le vicende politico-istituzionali del suo tempo.

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Per gli apporti - finora ben poco riconosciuti - con cui l'incontro con Guattari ha arricchito il pensiero di Deleuze e contro la diffusa doxa che esso sia stato apportatore solo degli aspetti più ideologizzati e più discutibili del pensiero sviluppato da L'anti-Edipo in poi cfr. E.Bazzanella, Il ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari, Mimesis, Milano, 2005, pp.12-1 5. 6 A.Badiou, Deleuze. "La clameur de l'Eire", Hachette, Paris, 1997; tr.it. a cura di D.Tarizzo, Einaudi, Torino, 2004, p.110.

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Diverso è il Deleuze che s'incontra in queste pagine: è pensatore capace di guardare in faccia le perversioni (nel senso letterale del termine) del desiderio, ossia ciò che accade quando questa forza produttiva7 - trovato sbarrato il corso del suo scorrere e persa la forza di cambiare - distrugge sé e gli altri (studiare le perversioni del desiderio collettivo potrebbe aiutarci a capire certi percorsi della vita politica attuale); vede nell'orgia d'informazioni in cui siamo gettati, l'ultima maschera assunta dal caos e ne riconosce tutta la tragica pericolosità (il filosofo ha il compito di tagliare tale caos attraverso la costruzione di un piano d'immanenza del pensiero che, pur congedandosi dal principio di fondamento di origine aristotelica, non abbandoni le nostre pratiche all'insignificanza e all'annichilimento); assume infine profondamente la vergogna che invade non solo di fronte alle situazioni di estremo avvilimento dell'uomo di cui ha parlato Primo Levi, ma anche di fronte alla stupidità e alla volgarità imperanti (è la betise il disumano che la filosofia, per Deleuze, ha il dovere morale, il compito alto, di combattere) . Perché avere coscienza che non ogni divenire finisce in gloria, che il desiderio - imprevedibile ma mai libero bensì sempre e solo possibile entro un concatenamento - non è sempre buono ma può pervertirsi in distruttivo, che i processi di liberazione e le rivoluzioni si trasformano in macchine da guerra ben poco desideranti, in stati ben poco liberati, che disfare gli organismi può essere pericoloso e nient'affatto creativo, che la stupidità più becera spesso la vince sulla filosofia, sulla scienza e sull'arte, insomma questa consapevolezza del male che Deleuze e Zourabichvili condividono e che può travolgere gli individui rende semmai solo più urgente la pratica di un pensiero come resistenza al presente e a ciò che in esso vi è di intollerabile. Ecco perché siamo ancor oggi chiamati a indagare la natura dei divenire entro cui siamo catturati, a pensare le forme assunte dal desiderio individuale e collettivo, entro quali concatenamenti esso si possa implementare oppure s'incancrenisca, a domandarci per quali vie desiderio e istituzioni umane non separino i loro destini, a chiederci come evitare che gli uomini desiderino le proprie catene invece della libertà ... Forse la lettura di questo Vocabolario di D eleuze potrà deludere il lettore in cerca di una semplificazione del pensiero di Deleuze, di certo non scontenterà colui che vuole comprenderlo e che ne trarrà grande aiuto: comprendere non è mai semplificare ma è semmai svolgere pazientemente e tenacemente il pensiero dal viluppo dei concetti nella speranza, quando questi sono efficaci e potenti, di farli amici, di averli buoni compagni - insieme agli affetti e ai percetti che li accompagnano - dei nostri divenire.

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Sulla derivazione spinoziana del concetto di "desiderio" in Deleuze, come forza produttiva e non " mancanza di" che permette di considerarne la specificità rispetto al desiderio psicoanalitico, anche nella sua versione lacaniana, rinvio a U.Fadini, I piani di Deleuze e Guattari, Introduzione a G.Deleuze e F.Guattari, M acchine desideranti, ombre corte, Verona,2004,pp.7-20.

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11 vocabolario di Deleuze di François Zourabichvili

1. "Alla letterd ': quale uditore di Deleuze non ha serbato il ricordo di questa mania del linguaggio? E come non sentire, sotto la sua apparente insignificanza, l'instancabile e quasi impercettibile richiamo di un gesto che sottende l'intera filosofia della "disgiunzione inclusiva", dell' "univocità" e della "distribuzione nomade"? I testi, dal canto loro, testimoniano ovunque la stessa insistente messa in guardia1: non bisogna scambiare per metafore concetti che, malgrado l'apparenza, non sono tali; occorre comprendere che la stessa parola " metafora" è un inganno, uno pseudo-concetto, del quale l'intero sistema dei "divenire" o della produzione di senso è la confutazione. A questa strana ed eterogenea catena dispiegata dalla parola di Deleuze, l'uditore di buon senso può ben opporre lo stesso elenco dell'autore e non trovarci altro che del figurato. N on di meno, ne riceve in sordina la perpetua smentita di "a la lettera", l'invito a collocare il suo ascolto al di qua della divisione stabilita tra un senso proprio e un senso figurato. Occorre, conformemente al senso datogli da Deleuze e Guattari, chiamare "ritornello" questa firma discreta - appello lancinante, sempre familiare e sempre sconcertante, a " lasciare il territorio" per la terra immanente e senza partizione della letteralità? La nostra ipotesi è che leggere Deleuze sia prestare ascolto, almeno per intermittenze, all'appello "alla lettera" . 2. Non conosciamo ancora il pensiero di Deleuze. Troppo spesso, ostili o adoranti, noi ci muoviamo come se i suoi concetti ci fossero familiari, come se fosse sufficiente sfiorarli perché si ritenga di capirli al volo o come se avessimo già preso in esame le loro promesse. Questa attitudine è rovinosa per la filosofia in generale: per prima cosa perché la forza del concetto rischia di essere confusa con un effetto di seduzione verbale, che senza dubbio è ineliminabile appartenendo a pieno diritto al campo della filosofia, ma non dispensa dal portare a compimento il movimento logico che il concetto inviluppa; in secondo luogo perché finisce per preservare la filosofia dalla novità deleuziana. Per questo non si soffre di un eccesso di monografie su Deleuze; al contrario, ci mancano monografie consistenti, ossia testi che espongano i suoi concetti. Con ciò non si escludono affatto i libri con Deleuze, dove non importa quale

1

A titolo d'esempi presi a caso: DR 294, 307-8, 320; AE, 3, 38, 44, 93, 156, 333; BP, 98; KlM, 39-40, 64, 80; C, 9, 117, 122; MP, II, 80-81, 86-87, 141-150, 204-205; TV, 50; IT, 32, 70, 146, 204, 315; CC, 93; etc.

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uso perfino aberrante se ne faccia purché abbia una sua necessità propria. Nondimeno crediamo che tali usi potrebbero solo moltiplicarsi e diversificarsi se i concetti deleuziani fossero meglio conosciuti, presi sul serio nel loro tenore reale, il quale esige dallo spirito movimenti insoliti che non gli è sempre facile né fare né immaginare. Si crede talvolta che esporre un concetto sia di pertinenza della risposta scolastica mentre si tratta di realizzarne il movimento per sé e su di sé. Forse la filosofia d'oggi è troppo spesso affetta da una falsa alternativa: esporre o utilizzare, e da un falso problema: il sentimento che un approccio troppo preciso finisca per fare immediatamente di un autore un classico. Non stupiamoci allora se la produzione filosofica tende a volte a dividersi in esegesi disincarnate da un lato, in saggi ambiziosi ma che disdegnano i concetti dall'altro. L o stesso artista, architetto o sociologo che utilizza, a un certo momento del proprio lavoro, un aspetto del pensiero di Deleuze, è condotto, se quest'uso non è puramente decorativo, a fare per se stesso un'esposizione (che poi questa meditazione prenda forma scritta è un altro discorso). In effetti, è solo in questo modo che le cose cambiano, che un pensiero sconcerta per la sua novità e ci trascina verso contrade alle quali non eravamo preparati - contrade che non sono quelle dell'autore bensì le nostre. Tanto è vero che noi non esponiamo il pensiero d'altri senza fare un'esperienza che concerne propriamente il nostro pensiero, fino al momento di prendere commiato o di continuare il commento in condizioni di assimilazione e di deformazione che non si distinguono più dalla fedeltà. C'è infatti un altro falso problema, quello dell'approccio "esterno" o "interno" ad un autore. Talvolta si rimprovera allo studio d'un pensiero d'essere per se stesso interno, votato a un didatticismo sterile e al proselitismo; talvolta lo si sospetta di contro di un'incurabile esteriorità, assumendo il punto di vista d'una presunta familiarità, d'una affinità elettiva con la pulsazione intima e ineffabile di tale pensiero. Diremmo di buon grado che l'esposizione dei concetti è la sola garanzia dell'incontro con un pensiero. Non tanto l'agente di tale incontro, piuttosto la possibilità del suo compimento sotto la doppia condizione della simpateticità e dello straniamento, agli antipodi sia del disconoscimento sia dell'immersione per così dire congenita: dato che quando esplodono le difficoltà diviene infinita la necessità di rigiocare tale pensiero a partire da un'altra vita, infinita quanto la pazienza di sopportare il deserto. Premessa necessaria, meglio ancora un'affinità richiesta per comprendere, è che il cuore batta alla lettura dei testi; ma ciò non è che una parte della comprensione, la parte, come dice Deleuze, della "comprensione non filosofica" dei concetti. È vero che questa parte merita che vi si insista dato che la pratica universitaria della filosofia la esclude quasi metodicamente, mentre il dilettantismo, credendo di coltivarla, la confonde con una certa doxa del momento. Ma che un concetto non abbia né senso né necessità senza un "affetto" e un "percetto" corrispondenti non toglie comunque che esso sia altra cosa da essi: un compendio di movimenti logici che lo spirito debba effettuare se vuole filosofare, sotto pena di arrestarsi alla fascinazione iniziale delle parole e delle frasi, considerata a torto la parte irriducibile della comprensione intuitiva.

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Poiché come scrive Deleuze, "occorrono tutte e tre le componenti per fare il movimento "(P,217) Non avremmo bisogno di Deleuze se non presentissimo nella sua opera qualcosa da pensare che ancora non è stato pensato e di cui noi non valutiamo ancora bene come la filosofia potrebbe trovarsene affetta - a meno di non lasciarci affittare filosoficamente da ciò. 3. Niente appare più adatto a Deleuze di un elenco che compiti i concetti uno a uno sottolineando compiutamente le loro reciproche implicazioni. In primo luogo, Deleuze stesso si è assunto il compito di rendere al concetto di concetto un'importanza e una precisione che gli han fatto spesso difetto in filosofia (CCF, cap. 1). Un concetto non è né un argomento né un'opinione che si pronuncia su un argomento. Ogni concetto partecipa d'un atto del pensare che sposta il campo dell'intelligibilità, modifica le condizioni del problema che ci si poneva; esso non si lascia dunque assegnare il posto in uno spazio di comprensione comune già dato, attraverso concilianti o aggressive discussioni con i propri concorrenti. Ma se i temi generali o eterni esistono solamente per l'illusione del senso comune, la storia della filosofia non si riduce forse a una serie di omonimi? Essa testimonia piuttosto le mutazioni di variabili esplorate dall"'empirismo trascendentale". Inoltre, Deleuze stesso ha praticato il lessico per tre volte: si rinvia al "dizionario dei personaggi principali di Nietzsche" (N, 45-50), ali' indice dei principali concetti dell'Etica (SFP, cap. IV), infine alla "conclusione" di Millepiani. L'eco tra quest'ultima e l'introduzione del testo ("Introduzione: rizoma") sottolinea come l'arbitrarietà dell'ordine alfabetico è il modo più sicuro per non sovrimporre ai rapporti di molteplice embricatura dei concetti un ordine fittizio di ragioni che devierebbe dal vero statuto della necessità in filosofia. Ogni voce inizia con una o più citazioni. Nella maggior parte dei casi si tratta, più che di una definizione, della percezione del problema a cui il concetto si riallaccia e d'un assaggio del suo ambiente lessicale. La frase, inizialmente oscura, deve chiarirsi e completarsi nel dispiegarsi della voce che propone una sorta di schizzo, tracciato con parole. Quanto alla scelta delle voci, può certo essere parzialmente discussa: perché "complicazione" e non "macchina astratta", concetto nondimeno essenziale alla problematica della letterarietà? Perché "taglio-flusso" piuttosto che "codice e assiomatica", "macchina da guerra" e non ''blocco d'infanzia"? Senza dubbio, non si può essere esaustivi; certe voci, come "piano d'immanenza" ci sembravano meritare un esame approfondito; e inoltre ci si deve basare sullo stato provvisorio, incompiuto della nostra lettura di Deleuze (di qui la più evidente delle mancanze - i concetti del cinema). Noi proponiamo un "campionario", come Leibniz amava dire, ma come anche Deleuze diceva attraverso Whitman (CC, 80).

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Ai9n

* "Secondo

Aiçn soltanto il passato e il futuro insistono e sussistono nel tempo. Invece di un presente che riassorbe il passato e il futuro, un futuro e un passato che dividono ad ogni istante il presente, che lo suddividono all'infinito in passato e in futuro, nei due sensi contemporaneamente. O meglio è l'istante senza spessore e senza estensione che suddivide ogni presente in passato e futuro, invece di presenti vasti e spessi che comprendono gli uni rispetto agli altri il futuro e il passato." (Ll, 147)

** Deleuze riabilita la distinzione stoica di aiçn e kronos per pensare l'extratemporahtà dell'evento (o, se si preferisce, la sua temporalità paradossale). La traduzione corrente del primo termine con "eternità" può rendere equivoca l'operazione: in realtà, l'eternità propria all'istante quale la concepivano gli Stoici non ha che un senso immanente, senza relazione con ciò che sarà l'eternità cristiana (tale sarà anche la posta in gioco della reinterpretazione di Nietzsche del tema stoico dell'Eterno Ritorno). Aiçn si oppone a Kronos, che designa il tempo cronologico o successivo, dove il prima s'impone al dopo sotto la condizione di un presente inglobante nel quale, come si dice, tutto scorre ( Deleuze fa concorrenza qui ad Heidegger che, con il nome di "decisione anticipante", aveva contestato il primato del presente da Agostino a Hussetl~. Secondo un primo paradosso, l'evento è ciò che del mondo non sussiste come tale se non avvolgendosi nel linguaggio che, solo allora, lo rende possibile. Ma c'è un secondo paradosso: "l'evento è sempre un tempo morto, là dove non succede nulla" (CCF, 159). Questo tempo morto, che in un certo modo è un non-tempo, battezzato anche "fra-tempo", è l' Aiçn. A questo livello, l'evento non è più solamente la differenza tra cose o tra stati di cose, esso affetta di sé la soggettività, porta la differenza nel soggetto stesso. Se chiamiamo evento un cambiamento nell'ordine del senso (ciò che aveva senso fino ad ora ci è divenuto indifferente e perfino opaco, ciò a cui siamo d'ora in avanti sensibili non aveva senso prima), bisogna concludere che l'evento non ha luogo nel tempo dal momento che esso mina le condizioni stesse d 'una cronologia. Piuttosto marca una cesura, una coupure tale che il tempo s'interrompe per riprendere su un altro piano (da qui l'espressione "fra-tempo").

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Cfr. Essere e tempo, par.61 e sgg. Alle tre "estasi" temporali presentate al par.65 rispondono le tre sintesi del tempo di Dif.ferenza e ripetizione (cap.II), dove il rapporto diretto del passato e del futuro, così come lo statuto temporale del possibile, sono parimenti decisivi, ma concepiti differentemente e entro una prospettiva etico-politica incompatibile con quella di Heidegger. Per una rapido presa di visione della divergenza che oppone Deleuze a Heidegger si confrontino almeno i loro rispettivi concetti di destino (DR, 140-141; Essere e tempo, par.74). L a comprensione della posizione deleuziana suppone la lettura congiunta di Dif.lerenza e ripetizione Oe tre sintesi del tempo), di Logica del senso O'opposizione di Chronos e diAi6n) e di L'immagine-tempo O'opposizione di Chronos e di Kronos, cap.4 - vedere "Cristallo di tempo" )

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Elaborando la categoria d'evento, Deleuze esibisce dunque il legame primordiale di tempo e senso, e cioè che una cronologia in generale non è pensabile se non in funzione di un orizzonte comune alle sue parti. Così la nozione di un tempo oggettivo, esteriore al vissuto e indifferente alla sua varietà, non è che la generalizzazione di tale legame: essa ha per correlato il " senso comune", la possibilità di disporre la serie infinita delle cose o dei vissuti su di un medesimo piano di rappresentazione. L'evento, come "fra-tempo" , in se stesso non passa, sia perché esso è puro istante, punto di scissione o di disgiunzione tra un prima e un poi, sia perché l'esperienza che gli corrisponde è il paradosso di una "attesa infinita che è già infinitamente passata, attesa e riserva" (CCF, 159). Perciò la distinzione tra Aiçn e Kronos non riporta alla dualità platonico-cristiana di eternità e tempo: non vi è esperienza di un al-di-là del tempo, ma solamente d'una temporalità lavorata da Ai9n, dove la legge di Kronos ha cessato di regnare. Tale è il " tempo indefinito dell'evento" (MP, II, 185): questa esperienza di non-tempo nel tempo è quella d'un "tempo fluttuante" (C, 96), detto anche morto o vuoto, che s'oppone a quello della p resenz a cristiana: "Questo tempo morto non viene dopo ciò che accade, esso coesiste con l'istante o il tempo dell'accidente, ma in quanto immensità del tempo vuoto dove lo si vede ancora come di là da venire e già successo, nella strana indifferenza di una intuizione intellettuale." (CCF, 159) È così la temporalità del concetto (CCF, 160-161) .

*** Sotto il nome di Ai9n, il concetto di evento segna l'introduzione del fuori nel tempo, o il rapporto del tempo a un fuori che non gli è più esteriore (contrariamente all'eternità e alla sua trascendenza) . I n altri termini, l'ex tra-temporali tà dell'evento è immanente, e a tale titolo paradossale. Con quale diritto si può sostenere che tale fuori è nel tempo, se è vero che esso separa il tempo da se stesso? Si vede subito come non basti invocare la necessità di una effettuazione spazio-temporale dell'evento. La risposta comporta due momenti: 1) l'evento è nel tempo nel senso in cui esso rinvia necessariamente a una effettuazione spazio-temporale, come tale irreversibile (Ll, 135). Relazione paradossale tra due termini incompatibili (prima/ dopo, il secondo termine facendo "trascorrere" il primo), esso implica materialmente quell'esclusione che esso sospende logicamente. 2) L'evento è nel tempo nel senso che è la differenza interna del tempo, l'interiorizzazione della sua disgiunzione: esso separa il tempo dal tempo, non c'è modo di concepire l'evento fuori dal tempo benché non sia esso stesso temporale. È importante quindi disporre di un concetto di molteplicità, tale che la "cosa" abbia più unità attraverso le sue variazioni e non in funzione d'un genere comune che sottometterebbe le sue divisioni ( sotto i nomi d'univocità e di sintesi disgiuntiva, il concetto di "differenza interna" realizza questo programma d'un fuori posto dentro, al livello della struttura stessa del concetto: Ll, serie 24 e 25). Tale idea si esprime anche dicendo che non si dà ev ento fuori d'una effettuazione spazio-temporale sebbene l'evento non vi si riduca affatto. I n breve,

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l'evento s'inscrive nel tempo ed è l'interiorità dei presenti disgiunti. Inoltre, Deleuze non si accontenta di un dualismo di tempo e evento, ma cerca un legame più interiore tra il tempo e il suo fuori, cercando di mostrare che la cronologia deriva dall'evento dato che quest'ultimo è l'istante originario che apre l'intera cronologia. A differenza di H ussetl e dei suoi eredi, l'evento o la genesi del tempo si declina al plurale. In effetti è importante mantenere l'inclusione del fuori nel tempo, altrimenti l'evento resta ciò che è per i fenomenologi: un'unica trascendenza che apre al tempo in generale, istanza che si pone logicamente prima d'ogni tempo, e non - se si può dire - fra il tempo divenuto molteplice. Nell'argomentazione fenomenologica, logicamente si dà un solo evento, quello della Creazione, anche se non cessa di ripetersi: la fondamentale omogeneità del mondo e della storia è salva (l'invocazione d"'un solo e stesso evento" in Deleuze - Ll, 151, 160 - rinvia a quella sintesi immediata del molteplice detta "disgiuntiva", o differenza interna, e deve essere distinta con cura dall'Uno come significazione totale e inglobante, anche quando si concepisca quest'ultimo al di qua della partizione dell'uno e del molteplice, come è il caso della "differenza ontologica" di H eidegger: cfr. CCF, 87). Ora non è sicuro che la frattura tra il tempo e ciò che è altro da esso giustifichi ancora il nome di evento. Laddove si ritorna alla clausola deleuziana preliminare, ossia che non c'è evento fuori da un'effettuazione nello spazio e nel tempo, anche se l'evento non si riduce ad essa.

Comp licazion e

* ''Alcuni neoplatonici

si servivano di una parola profonda per indicare lo stato originario che precede ogni sviluppo, ogni dispiegarsi, ogni 'esplicazione': la complicatio, che racchiude il multiplo nell'Uno e afferma l'Uno nel multiplo. A loro, l'eternità non sembrava l'assenza di cambiamento, e neppure il prolungarsi di un'esistenza illimitata, ma lo stato 'complicato' del tempo stesso . .. " (PS, 44)

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Il concetto di complicazione comporta due piani, che corrispondono a due usi della parola. Esso esprime in primo luogo un piano: quello delle differenze (serie divergenti, punti di vista, intensità o singolarità) avvolte o implicate le une nelle altre (Ll, 261-262). Complicazione significa allora co-implicazione, implicazione reciproca. Questo stato corrisponde al regime del virtuale, dove le disgiunzioni sono "incluse" o "inclusive", e s'oppone al regime dell'attuale, caratterizzato dalla separazione delle cose e dai loro rapporti d'esclusione (oppure ... oppure): non è dunque retto dal principio di contraddizione. Complicazione definisce dunque un primo tipo di molteplicità, detta intensiva. E' la logica stessa del mondo in quanto "caos" (DR, 99, 200-201, 446; LS, 261-262).

*** Ma, più profondamente, "complicazione" esprime l'operazione di sintesi 24

dei due movimenti inversi dal virtuale all'attuale (esplicazione, sviluppo, svolgimento) dall'attuale al virtuale (implicazione, avvolgimento, inviluppo - nell'ultima pa:rte della sua opera Deleuze parlerà di cristallizzazione) (PS, 44; SPE, 11-12, La p iega, 39) . Deleuze sottolinea costantemente che questi due movimenti non s'oppongono ma sono sempre solidali (PS, 84; SPE, 11-12; La p iega, 10). Ciò che li consacra l'uno all'altro è la complicazione in quanto essa assicura l'immanenza dell'Uno nel molteplice e del molteplice nell'Uno. Non si confonda la :reciproca implicazione dei termini complicati con la reciproca implicazione dell'uno e del molteplice come viene operata dalla complicazione. Ne deriva il rapporto di due molteplicità, virtuale e attuale, che testimonia l'oltrepassamento del dualismo iniziale verso un monismo dove la stessa Natura oscilla tra due poli: il molteplice implica l'uno nel senso che esso è l'uno allo stato esplicato; l'uno implica il molteplice nel senso che esso è il molteplice allo stato complicato. È dunque chiara l'importanza del concetto di complicazione: esso si oppone, nella stessa storia del Neoplatonismo, alla solitaria sovranità dell'Uno, conduce il molteplice all'origine, alla condizione di un :regime speciale di inseparazione o di co-implicazione (questo tratto distingue Deleuze dalla fenomenologia, da Heidegger, ma anche tutto sommato da Der:rida) . Non meno chiara, l'importanza dell'operazione che esso esprime, e che rapporta i due movimenti di attualizzazione e di redistribuzione, di differenziazione e di :ripetizione, il cui funzionamento solidale dà la formula completa del mondo per Deleuze. La "conversione" neoplatonica, rovescio della "processione" dell'Uno verso i molti, è in effetti inadatta a trattare un movimento di ridistribuzione in seno al molteplice; non è il suo ambito dal momento che essa mi:ra al ritorno nella pienezza dell'Uno, del quale l'indifferenziazione e l'indifferenza del molteplice segnalano la trascendenza. Di tutt'altra natura è la risalita ve:rso l'uno in quanto complicazione (unità o sintesi immediata del molteplice, "differenziante" puro), al lavoro dall'interno in ogni cosa attuale e all'opera nella totalità virtuale complicata che essa implica. La logica della complicazione si :ricongiunge qui con la tesi dell'unicità dell'essere mentre il nome essere tende a lasciar posto a quello, differenziabile, di divenire.

Concatenamento

* "Secondo un primo asse, orizzontale, un concatenamento comporta due segmenti, l'uno di contenuto, l'altro di espressione. Da una parte esso è concatenamento macchinico di corpi, di azioni e di passioni, incrocio di corpi che reagiscono gli uni sugli altri; d'altra pa:rte è concatenamento collettivo d'enunciazione, di atti e di enunciati, trasformazioni incorporee che si attribuiscono ai corpi. Ma secondo un asse verticale orientato, il concatenamento ha da una pa:rte dei lati territoriali o riterritorializzati che lo stabilizzano, e d'altra parte delle punte di deterritorializzazione che lo trascinano." (MP, I, 153).

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Questo concetto può sembrare a prima vista d'uso largo e indeterminato: esso rinvia a seconda dei casi a istituzioni fortemente territorializzate (concatenamento giudiziario, coniugale, familiare, ecc.), a formazioni intime deteuitorializzanti (divenir-animale, ecc.), infine al campo d'esperienza dove si elaborano tali formazioni (il piano d'immanenza come "concatenamento macchinico di immagini-movimento", IM, 78) . Si dirà allora, in prima approssimazione, che si è in presenza di un concatenamento ogni volta che si può identificare e descrivere l'accoppiamento di un insieme di relazioni materiali e di un regime di segni corrispondenti. In realtà, la disparità dei casi di concatenamento trova un proprio ordine dal punto di vista dell'immanenza, laddove l'esistenza si rivela inseparabile da concatenamenti variabili e rimaneggiabili che non cessano di produrla. Piuttosto che a un linguaggio equivoco, essa rinvia dunque a poli del concetto stesso, cosa che interdice specificatamente ogni dualismo di desiderio e istituzione, d'instabile e stabile. Ogni individuo ha a che fare con tali grandi concatenamenti sociali definiti da codici specifici e che si caratterizzano per una forma relativamente stabile e per un funzionamento riproduttore: essi tendono a piegare il campo di sperimentazione del suo desiderio su una partizione formale prestabilita. Tale è il polo strato dei concatenamenti (che si dicono allora "molari"). Ma d'altro canto, la maniera in cui l'individuo investito è partecipe alla riproduzione di tali concatenamenti sociali dipende da concatenamenti locali, "molecolari'', nei quali lui stesso è preso, sia che, limitandosi a effettuare le forme socialmente disponibili, a modellare la propria esistenza secondo i codici in vigore, egli vi introduca la propria piccola irregolarità, sia ch'egli proceda all'elaborazione involontaria e tentennante di concatenamenti propri. che "decodificano" o "fanno fuggire" il concatenamento stratificato: questo è il polo macchina astratta (sotto il cui nome si devono annoverare i concatenamenti artistici) . Ogni concatenamento, in quanto rinvia in ultima istanza al campo del desiderio sul quale si costituisce, è affetto da un certo squilibrio. Resta il fatto che ciascuno di noi combina concretamente i due tipi di concatenamento a gradi variabili, il cui limite è quello della schizofrenia come processo (decodificazione o deterritorializzazione assoluta) e il problema è quello dei rapporti di forze concrete tra i tipi (vedere Linea di fuga). Se l'istituzione è un concatenamento molare che riposa su concatenamenti molecolari (di qui l'importanza del punto di vista molecolare in politica: la somma di gesti, attitudini, procedure, regole, disposizioni spaziali e temporali che fanno la concreta consistenza o la durata- in senso bergsoniano - dell'istituzione, burocrazia di Stato o di partito) , l'individuo, dal canto suo, non è una forma originaria che si evolve nel mondo come in uno scenario esterno o entro un insieme di dati ai quali egli si limita a reagire: egli non si costituisce se non come concatenantesi, non esiste se non preso da sempre entro concatenamenti. Di fatti il suo campo d'esperienza oscilla tra la sua ricaduta su forme preconcette (di conseguenza sociali) di comportamento e di pensiero e l' essere esposto al piano d'immanenza dove il suo divenire non si separa più da linee di fuga o trasversali che egli traccia tra le "cose", liberando il loro potere d'affezione e allo stesso tempo rientrando

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in possesso della propria potenza di sentire e di pensare ( di qui un modo d'individuazione per ecceità che si distingue dall'identificazione d'un individuo tramite caratteri identificanti - MP, II, 183 e segg.). I due poli del concetto di concatenamento non sono dunque il collettivo e l'individuale in quanto questi sono piuttosto due sensi, due modi del collettivo. Poiché se è vero che il concatenamento è individuante, resta chiaro che non si enuncia dal punto di vista d'un soggetto preesistente che potrebbe attribuirselo: il proprio è dunque in misura del suo anonimato, ed è a tale titolo che il divenire singolare di ognuno concerne di diritto tutti (proprio come il quadro clinico di una malattia può ricevere il nome proprio del medico che ha saputo riunire i sintomi benché sia egli stesso anonimo; lo stesso in arte - cfr. PSM, 3; C, 148). Non ci si inganni dunque sul carattere collettivo del "concatenamento d'enunciazione" che corrisponde a un "concatenamento macchinico": esso non è prodotto da, ma è per natura per una collettività (da cui l'appello di Paul Klee, spesso citato da Deleuze, a "un popolo che manca"). È per questo che il desiderio è il vero potenziale rivoluzionario.

*** Il

concetto di concatenamento sostituisce a partire da Kafka quello di "macchine desideranti" : "Non c'è desiderio se non in un concatenamento o in una macchina: Non è possibile cogliere o concepire un desiderio al di fuori di un concatenamento determinato, su un piano che non preesiste, ma che deve esso stesso venire costruito." (C, 100). Ancora una volta s'insiste sull'esteriorità (e non sull'esteriorizzazione) inerente al desiderio: ogni desiderio procede da un incontro. Questo enunciato solo apparentemente è un truismo: "incontro" s'intende in senso rigoroso (molti degli "incontri" non sono che ritornelli che ci rinviano ad Edipo ... ) invece il desiderio non aspetta l'incontro come occasione del suo esercizio ma vi si concatena e vi si costruisce. Tuttavia, l'interesse principale del concetto di concatenamento è d'arricchire la concezione del desiderio con una problematica dell'enunciato, riprendendo le cose là dove Logica del senso le aveva lasciate: lì ogni produzione di senso aveva per condizione l'articolazione di due serie eterogenee per mezzo di un'istanza paradossale, e il linguaggio in generale non era supposto funzionare se non in virtù dello statuto paradossale dell'evento che legava la serie delle mescolanze dei corpi alla serie delle proposizioni. Millepiani si porta al livello dove si articolano le due serie e dà una portata inedita alla dualità stoica degli intrecci di corpi e delle trasformazioni incorporali: una relazione complessa s'annoda tra "contenuto" (o "concatenamento macchinico") e "espressione" (o "concatenamento collettivo d'enunciazione"), ridefiniti come due forme indipendenti ma nondimeno prese in un rapporto di presupposizione reciproca e sollecitantesi l'un l'altro; la genesi reciproca delle due forme rinvia all'istanza del "diagramma" o della "macchina astratta". Non si tratta più di un'oscillazione tra i due poli, come sopra, ma della correlazione di due facce inseparabili. Contrariamente al rapporto significante-significato, considerato derivato, l'e-

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spressione si pone in relazione con il contenuto senza tuttavia né descriverlo né rappresentarlo: essa vi "interviene" (MP, I, 149-158, con l'esempio del concatenamento feudale). Ne deriva una concezione del linguaggio che si oppone alla linguistica e alla psicanalisi, e si segnala per il primato dell'enunciato sulla proposizione (1,fP, I, piano 4) . Aggiungiamo che la forma dell'espressione non è necessariamente linguistica: vedi !"esempio dei concatenamenti musicali (MP, II, 238-259). Se ci si attiene così all'espressione linguistica, quali logiche governano il contenuto e l'espressione sul piano della loro genesi e di conseguenza delle loro reciproche intrusioni ("macchina astratta") ? Quella dell"'ecceità" (composizioni intensive, d'affetti e di velocità - prolungamento significativo della concezione dell'Antiedpo, fondata sulla sintesi disgiuntiva e sugli "oggetti parziali"); e quella d'una enunciazione che privilegia il verbo all'infinito, il nome proprio e l'articolo indefinito. Tutte e due comunicano nella dimensione dell' Ai9n (MP, II, 183-190 - segnatamente l'esempio del piccolo Hans) . Infine è intorno al concetto di concatenamento che può valutarsi il rapporto di Deleuze con Foucault, i prestiti stornati che l'uno fa all'altro, il gioco di prossimità e di distanza che lega i due pensatori (MP, I, 117-8 e 243-246; tutto il testo Foucault è costruito sui differenti aspetti del concetto di concatenamento)

Corpo senz'organi (CsO) *"Al di là dell'organismo, ma anche come limite del corpo vissuto, c'è quello che Artaud, suo scopritore, ha chiamato corpo senza organi. 'Il corpo è il corpo / È solo/ E non ha bisogno di organi/ Il corpo non è mai un organismo/ Gli organismi sono i nemici del corpo.' Il corpo senza organi non si contrappone

tanto ai singoli organi, quanto a quell'organizzazione degli organi che va sotto il nome di organismo. È un corpo intenso, intensivo. È percorso da un'onda che traccia in esso livelli o soglie in base alle variazioni della propria ampiezza. Il corpo non ha dunque organi, ma soglie o livelli." (FB-Ll, 103) ** La distinzione di due quadri clinici a prima vista convergenti, "perversità" in Carroll e "schizofrenia" in Artaud, permette, in Logica del senso, di evidenziare la categoria di corpo senz'organi che Deleuze già rimprovera alla psicanalisi d 'aver trascurato: allo spezzettamento del proprio corpo e all'aggressione fisica che le parole ridotte ai loro valori fonetici gli fanno subire, lo schizofrenico risponde con le sue "grida-soffio", saldatura delle parole e delle sillabe rese indecomponibili, alla quale corrisponde la nuova visione di un corpo pieno, senza organi distinti. Il CsO come M ille piani l'abbrevierà continuamente, è dunque una difesa attiva ed efficace, una conquista che è propria della schizofrenia, ma che opera in una zona detta del "profondo" dove l'organizzazione di "superficie", che garantisce il senso mantenendo la differenza di natura tra corpi e parole, è in ogni modo perduta (Ll, serie 13 e 27) .

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A tale riguardo L'anti-Edipo rappresenta una svolta: l'idea del corpo senz'organi è qui rielaborata in funzione di un nuovo materiale clinico da cui emerge il concetto di "macchine desideranti" e acquista una complessità tale da permettere a Deleuze, dopo il tema dell'univocità e della distribuzione nomade, di affrontare una seconda volta il maggior problema del suo pensiero: come, al di là di Bergson, articolare le due dinamiche inverse e nondimeno complementari dell'esistenza - da una parte l'attualizzazione delle forme, dall'altra l'involuzione che vota il mondo a incessanti redistribuzioni.3 (Tale problema sarà affrontato una terza volta, con il concetto di ritornello.)

*** L a rettificazione verte su questo punto: il CsO si oppone più all'organismo (funzionamento organizzato degli organi dove ciascuno è al proprio posto, assegnato a un ruolo che lo identifica) che agli organi. Il CsO non è più un'entità specificatamente schizofrenica, ma è il corpo stesso del desiderio di cui lo schizofrenico fa un'esperienza estrema, lui che è in primo luogo l'uomo del desiderio dato che in fondo egli non soffre che dell'interruzione del processo del desiderio stesso (tutta una parte de L'anti-Edipo è consacrata a far emergere questa dimensione di un processo schizofrenico distinto dallo sprofondamento clinico). Il CsO rinvia certamente al vissuto corporale, ma non al vissuto ordinario che descrivono i fenomenologi; non concerne maggiormente un vissuto raro o straordinario (benché certi concatenamenti possano attendere al CsO in condizioni ambigue: droga, masochismo, ecc.). Esso è il "limite del corpo vissuto", "limite immanente" (MP, II, 5-6, 12) in quanto il corpo vi giunge quando è attraversato da "affetti" o da "divenire" irriducibili ai vissuti fenomenologici. Non è più un corpo proprio in quanto i suoi divenire disfano l'interiorità dell'io (MP, II, 16, 24-25, 28-29). I mpersonale, esso nondimeno è il luogo dove si conquista il nome proprio, attraverso un'esperienza che eccede l'esercizio regolato e codificato del desiderio "separato da ciò che esso può". Se il CsO non è il corpo vissuto ma il suo limite è perché rinvia a una potenza insopportabile come tale, quella di un desiderio sempre in movimento e che mai si fisserebbe in forme: l'identità produrre/prodotto (AE, 5-1 O- queste pagine non si comprendono pienamente che sullo sfondo della polemica implicita con il cap.Q,6 della Metafisica di Aristotele). Quindi non si dà esperienza del CsO come tale, salvo nel caso della catatonia dello schizofrenico. Si comprende l'ambivalenza a prima vista sconcertante del corpo senz'organi: condizione del desiderio, è nondimeno "modello della morte", inviluppato nell'intero processo del desiderio (AE, 10 e soprattutto 376-377 - è in tal senso che ogni sensazione avvolge l'intensità= 0, AE, 377-378; FB-LS, 153). Il CsO, nei confronti degli organi, è sia "repulsione" (condizione senza la qua-

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Alain Badiou parla a giusto titolo di " movimento dei due movimenti" : cfr. "L'ontologie vitaliste de Deleuze" in Court traité d'ontologie provisoire, Paris, Le Seuil, 1998, pp. 63-64, tr. It. a cura di A. Zanon, Ontologia transitoria, Mimesis, 2008, p. 49.

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le un organismo si sedimenterebbe, così che la macchina non funzionerebbe più) che "attrazione" (gli organi-macchine s'iscrivono sul CsO come stati intensivi o livelli che lo dividono in se stesso, AE, 377). O meglio: è istanza d'anti-produzione nel cuore della produzione (AE, 10-11 ). Questa è la fragile articolazione - in quanto sfiorante per natura l'autodistruzione - dei due dinamismi evocati sopra, articolazione chiamata produzione del reale, del desiderio o della vita (si capisce immediatamente perché una macchina desiderante "non funziona se non guastandosi").

Cristallo di tempo ( o d'inconscio)

* "L'immagine-cristallo può ben possedere molti elementi distinti, la sua irriducibilità consiste nell'unità indivisibile tra un'immagine attuale e la sua immagine virtuale." (IT,93) ''Al limite, l'immaginario è un'immagine virtuale che si affianca all'oggetto reale, e viceversa, per costituire un cristallo d'inconscio. Non basta che l'oggetto reale, il paesaggio reale evochi immagini simili o vicine; bisogna che sprigioni la propria immagine virtuale, nello stesso tempo in cui questa, come paesaggio immaginario, si addentra nel reale, secondo un circuito in cui ciascuno dei due termini insegue l'altro, si scambia con l'altro. La 'visione' è fatta di questo raddoppiamento o sdoppiamento, di questa coalescenza. È nei cristalli d'inconscio che si vedono le traiettorie della libido." (CC, 87). "Ciò che costituisce l'immagine-cristallo è l'operazione fondamentale del tempo: dato che il passato non si forma dopo il presente che esso è stato ma contemporaneamente, il tempo deve in ogni istante sdoppiarsi in presente e passato, differenti per natura l'uno dall'altro o, ed è lo stesso, deve sdoppiare il presente in due direzioni eterogenee, di cui una si slancia verso l'avvenire e l'altra ricade nel passato. Il tempo deve scindersi mentre si pone e si svolge: si scinde in due getti asimmetrici uno dei quali fa passare tutto il presente e l'altro conserva tutto il passato. Il tempo consiste in questa scissione, è questa che si vede nei cristallo." (IT, 96)

** Questo concetto, uno degli ultimi di Deleuze, presenta la difficoltà di condensare pressappoco l'intera sua filosofia. Il cristallo è lo stato ultimo della problematica dell'esperienza "reale", e si presenta come un approfondimento del concetto di divenire. Conferma per prima cosa che in un divenire qualsiasi (divenir-animale, divenire-donna, ecc.) non è l'esito finale che viene ricercato 0'animale o la donna che si diviene) ma piuttosto il divenire stesso, che sia condizione di un rilancio della produzione desiderante o della sperimentazione. Non è Moby Dick, il grande capodoglio bianco del romanzo di Melville, che interessa ad Achab: costui lo insegue per confrontarsi con la dismisura della sua propria vita; questa è la vera ragione, la vera logica, la vera necessità della sua condotta irrazionale (CC, cap.X). Dal canto suo, il piccolo Hans, così poco compreso da Freud, ha la "visione" del cavallo dell'omnibus che cade e si dibatte sotto i

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colpi di frusta, ma questa visione è doppia, cristallina, ciò che il bambino vede in relazione al cavallo, sono le traiettorie della sua libido. Attraverso ciò egli accede attivamente al suo proprio problema ("L'interpretazione degli enunciati" in Politique etp[Jchana!Jse4, e MP, II, pp. 178-179, 181). Nei due casi divenire significa abitare il piano d'immanenza dove l'esistenza non si produce senza farsi clinica di se stessa, senza tracciare la mappa delle sue impasse e delle sue vie d'uscita. Ma il lettore non può evitare di imbattersi in una difficoltà. Il dato al quale accede il "diveniente" sembra selezionato in anticipo per le sue speciali risonanze con una certa situazione di vita. Certamente lo specchio qui non rimanda il diveniente a un'immagine narcisistica di se stesso; la sua situazione si ripete o si riflette, ma nell'elemento non ridondante di una contemplazione valutativa di sé. Resta da comprendere come si legano l'intimo e lo spettacolo; perché, se l'esperienza reale presuppone la violenza e il caso di un incontro, cionondimeno non s'incontra chiunque, qualsiasi cosa. Per affrontare tale difficoltà Deleuze forgia il concetto di cristallo. I termini decisivi sono sdoppiamento, scambio, indiscernibilità. A prima vista, la struttura di scambio che definisce il cristallo si stabilisce tra i due termini del divenire, instituendo un rapporto di doppio o di rispecchiamento che libera una visione. Il rapporto del soggetto all'oggetto (il piccolo H ans vede il cavallo) si rivela subito insufficiente a descrivere la situazione, che comporta un momento d'indiscernibilità in cui il ragazzino vede sé patire nel cavallo, riflette i suoi propri affetti nelle singolarità e negli accidenti di quest'ultimo (e reciprocamente). Sono queste le condizioni dell'esperienza reale: il puro dato non è relativo a un soggetto preesistente che aprirebbe il campo, né a delle forme o a delle funzioni che permetterebbero d'identificarne le parti. Tale illusione di preesistenza deriva solo dal fatto che il dato preformato dell'esperienza possibile precede l'accesso al dato puro dell'esperienza reale, costituito (solamente) da movimenti e da differenze di movimenti, da rapporti di velocità e di lentezza, da "immagini-movimento". Pertanto non c'è nemmeno dell'affettività esterna al dato, nel senso in cui un soggetto costituito reagisca a ciò che vede in funzione dei propri sentimenti e delle proprie convinzioni: l'affettività non è separabile dalle forze corrispondenti ai movimenti sul piano. Diventa non solo possibile ma necessario dire, senza rischio di antropomorfismo né ricorso a un'empatia d'alcun tipo, che gli affetti sono quelli del piano - in altri termini, che essi sono le cose stesse (dato che è solamente da un punto di vista derivato che possiamo dire: questi sono gli effetti delle cose su di noi). "Il tragitto non si confonde solo con la soggettività di quelli che percorrono un ambiente, ma con

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Politique et p.rychana!Jse, raccolta di interventi di e a cura di Deleuze e Guattari, Bibliotheque des Mots perdus, Alençon 1977; trad. it. parziale di M. Ferraris da Gilles Deleuze, Félix Guattari, Claire Parnet, André Scala, «L'interpretation des énoncés" : "L'interpretazione degli enunciati" , in A utAut n. 191-192, settembre-dicembre 1982, pp. 92-112.(Nota della traduttrice)

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la soggettività dell'ambiente stesso in quanto si riflette in coloro che lo percorrono. La mappa esprime l'identità fra il percorso e il percorso che è stato fatto. Si confonde con il proprio oggetto, quando l'oggetto stesso è movimento." (CC, 85) Si misconoscono allora gli investimenti affettivi del bambino quando vi si vede l'accoppiamento d'una percezione oggettiva e di una proiezione immaginaria, e non lo sdoppiamento del reale nella sua attualità e nella sua propria immagine virtuale (il privilegio del bambino, la sua esemplarità nell'analisi dei divenire, deriva solo dal fatto che la sua esperienza non è ancora organizzata secondo clichés o schemi sensorio-motorii). La struttura cristallina dell'esperienza è data dal fatto che l'attuale si offre nella sua purezza solo riflesso immediatamente nello psichismo che percorre il piano: ad esempio, il cavallo visto da Hans nel divenir cavallo di quest'ultimo. Non si dà un dato neutro, indipendente dai nostri divenire. L'opposizione del reale e dell'immaginario, della cognizione e del delirio viene seconda, e non resiste alla svolta immanentista della questione critica. Questo sdoppiamento cristallino del reale istituisce un "circuito interno" in cui l'attuale e il suo virtuale non cessano di scambiarsi, di correre l'uno dietro l'altro, " distinti ma indiscernibili" (C, 160; IT, 84, 96). Su di esso vengono ad innestarsi dei circuiti più vasti, costituiti da tratti oggettivi e da evocazioni: altrettante soglie di problematizzazione dove possono comunicare, sotto la condizione del piccolo circuito, i concatenamenti rispettivi di Hans e del cavallo dell'omnibus: caduta del cavallo nella strada/ chiusura della strada e pericolo; potenza e addomesticamento del cavallo/ desiderio fiero / umiliato; mordere/ resistere/ essere cattivo; ecc. Sarebbe un controsenso pensare che la visione provochi l'evocazione: essa, al contrario, procede dall'accoppiamento di un insieme di tratti oggettivi e di un'immagine mentale che si selezionano mutualmente. E sempre la visione s'approfondisce attraverso successivi ritorni all'oggetto, rivelandosi o passando in primo piano un nuovo aspetto dell'oggetto in risonanza con un nuovo strato psichico (IT, 57-60, 82-83). Ragion per cui l'ossessione del cavallo è attiva, e non giuoca il ruolo di una semplice rappresentazione: esplorando ciò che il cavallo può, come fa la circolazione dei suoi affetti, il bambino medita e valuta tutte le altezze variabili della sua situazione. Il cristallo è dunque tale serie di circuiti proliferanti a partire, sia chiaro, dallo sdoppiamento fondamentale del reale; come si è detto, in esso si vedono le traiettorie del desiderio e il loro rimaneggiamento di carta in carta. Ma perché, in ultima istanza, ci si vede il tempo? Da un capo all'altro della sua opera, Deleuze insiste sulla coesistenza o contemporaneità di due temporalità fondamentalmente eterogenee: il concatenamento cronologico dei nostri percorsi o delle nostre effettuazioni in un presente inglobante, il passato virtuale o l'eternità paradossale (Aion) dei divenire che a loro corrispondono. Bergson aveva mostrato a quale vicolo cieco conduce l'abitudine di concepire il presente e il passato in un rapporto di successione, il passato seguito dal presente che esso non è più, o precedendo l'attuale come vecchio presente: infatti

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il presente non può essere allora che un'entità statica che non passa eppure la s'immagina continuamente rimpiazzata da un'altra. Bisogna assumere fino al paradosso l'evidenza che il presente passa: se passa pur restando presente è perché il presente è contemporaneo del proprio passato (B, 52; DR 137-138; IT, 93 - ritroviamo questo tema della contemporaneità nello straordinario concetto di "blocco d'infanzia", KIM., 137 e segg; MP, II, 27- 28, 235). Lo sdoppiamento del reale è così uno sdoppiamento del tempo. Tuttavia non basta mostrare l'impossibilità di costituire il passato a partire dal solo presente, la necessità di concepire il passato come una seconda temporalità che sdoppia il presente Qa quale, secondo un altro argomento di Bergson, condiziona la riattualizzazione dei vecchi presenti sotto forma di ricordi). Si rende pienamente conto del passaggio del presente spiegando tale doppio come scissione incessante del tempo. I presenti si allineano gli uni dopo gli altri solo in quanto il passato moltiplica le sue falde in profondità; tutte le nostre effettuazioni sembrano concatenarsi senza urto in un unico presente inglobante, ma sotto la loro apparente continuità operano delle redistribuzioni di problemi o di situazioni che fanno passare il presente. Ritroviamo la molteplicità degli strati psichici implicata nella scoperta plurale dell'oggetto: altrettante carte successive aperte nel cristallo. Dire che il cristallo ci fa vedere il tempo vuol dire che esso ci conduce alla sua perpetua biforcazione. Non si tratta della sintesi tra Chronos e Aion visto che Chronos è il tempo dell'attualità astratta, separata dalla sua propria immagine virtuale, l'ordine di successione di un sempre-già-dato. La sintesi è piuttosto quella di Aion e di Mnemo.ryne, della temporalità del puro dato, dei movimenti assoluti sul piano dell'immanenza, e della molteplicità delle falde del passato puro dove tale temporalità si stratifica e si moltiplica. (Perciò, nei suoi libri sul cinema, Deleuze non dice che l'immagine-movimento è cancellata dall'immagine-tempo, o regime cristallino dell'immagine, dato che il cinema resta per definizione "concatenamento macchinico d'immagini-movimento", ma che essa dimora nell'immagine-tempo a titolo di prima dimensione di un'immagine che cresce in dimensioni; egli definisce cinema dell'immagine-movimento quel cinema che, in conformità all'ordinario assoggettamento dell'esperienza ai concatenamenti sensorio-motori, stacca l'attuale dal suo sdoppiamento virtuale). Deleuze dà il nome di Chronos a tale sintesi, il nome del titano che divora i suoi figli dato che anche il tempo non cessa di ripartire e di ricominciare la propria divisione concatenandosi solo attraverso rotture (IT, 96). Perché chiamare "passato puro" questa temporalità peraltro descritta come sintesi istantanea dell'attesa e della presa d'atto, cesura declinata all'infinito(Aion)? ''Puro" qualifica il passato che è solo passato, ossia che non è un vecchio presente, "passato che non fu mai presente" (DR 138). Esso non si definisce in rapporto con l'attuale presente, ma assolutamente, in rapporto al presente di cui è il passato o l'esser-stato (così si deve comprendere la formula: "Il passato non succede al presente che non è più, esso coesiste con il presente che esso è stato" (IT, 94). Bergson lo chiamava "ricordo del presente": non il passato che questo presente diventerà ma il passato di questo presente. Esso è passato in quanto ele-

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mento nel quale il presente passa e non perché rinvierebbe a un'anteriorità entro un rapporto cronologico. È importante comprendere che questa invocazione del passato puro, in Deleuze, rinvia al tema del divenire, non della memoria. In nome dei divenire, Deleuze non la dà vinta alle preoccupazioni della storia e dell'avvenire (P, 203).

*** Il concetto di cristallo implica una svalutazione della metafora, peraltro inseparabile da una critica e da un rimaneggiamento del concetto d'immaginario. Richiamiamo lo schema di base: non una seconda immagine che verrebbe a duplicarne un'altra, ma lo sdoppiamento d'una sola immagine in due parti che rinviano originariamente l'una all'altra. Senza dubbio Freud ha ragione a credere che il rapporto del piccolo Hans con il cavallo concerne altro dal cavallo, ma non nel senso in cui egli lo intende. Il mondo nella sua ricchezza e complessità non è la cassa di risonanza d'una sola e stessa storia (Edipo), ma il cristallo proliferante di traiettorie imprevedibili. All'interpretazione metaforica della psicoanalisi deve dunque sostituirsi una decifrazione letterale "schizo-analitica". Si consideri che "letterale" non significa adesione al puro attuale (come se, per esempio, la non-metaforicità della scrittura di Kafka significhi che essa si esaurisce nel suo contenuto di fiction). Tuttavia, l'identificazione dell'immaginario con l'irreale non permette di comprendere che una fiction letteraria, aldilà dell'alternativa tra rappresentazione metaforica del reale e evasione arbitraria nel sogno, possa essere un'esperienza, un campo di sperimentazione. Viceversa, il reale opposto all'immaginario appare come un orizzonte di pura ricognizione, dove tutto è come fosse già conosciuto, e non si distingue più granché da un cliché, da una semplice rappresentazione. In compenso, se si rapporta l'immaginario come produzione o creazione alla coppia attuale-virtuale nel suo regime detto cristallino, diventa indifferente che l'attuale sia vissuto o inventato (immaginato). Poiché il taglio concettuale non è più lo stesso: ciò che si vede sullo schermo del cinema, ciò che uno scrittore racconta o descrive, ciò che un bambino immagina esplorando i propri godimenti e le proprie paure, è attuale - o dato - allo stesso titolo di una scena "reale". L'importante è allora il tipo di rapporto che l'attuale intrattiene con un eventuale elemento virtuale. C'è metafora quando l'attuale è supposto ricevere il suo vero senso da un'altra immagine, che s'attualizza in essa ma potrebbe attualizzarsi per proprio conto (tipo scena primaria o fantasma - il fondo della metafora è il ricordo). C'è sogno quando le sensazioni del dormiente si attualizzano in un'immagine che, a sua volta, si attualizza in un'altra, e così di seguito in un continuum in divenire che deborda da ogni metafora - IT, 70). C'è infine cristallo quando l'attuale, vissuto o immaginato, è inseparabile da un virtuale, gli è co-originario, in modo tale che si può parlare di "sua propria" immagine virtuale. L'immagine si divide in se stessa, in luogo di attualizzarsi in un'altra, o d'essere l'attualizzazione di un'altra. Tale dislocamento della coppia reale-immaginario (o reale-irreale) verso la coppia attuale-virtuale toglie ogni consistenza all'obiezione di chi si stupisce che

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Deleuze possa senza transizione passare dai bambini agli artisti (" a modo suo, l'arte dice ciò che dicono i bambini" , CC, 90 - che non significa, come egli ricorda di continuo, che i bambini siano degli artisti). Se il cristallo dissolve la falsa opposizione tra reale e immaginario, ci deve offrire, a sua volta, il vero concetto d'immaginario e il vero concetto di reale: per esempio la letteratura come fiction reale, produzione d'immagini ma anche produzione reale o di reale, delirio d'immaginazione articolata alla realtà di un divenire, guidata e sancita da essa (cfr. Kafka.Per una letteratura minore). Dato che l'immaginario non si oppone più al reale, salvo nel caso della metafora o della fantasia arbitraria, il reale dal canto suo non è più pura attualità, ma "coalescenza", secondo il termine di Bergson, di virtuale e attuale. È attraverso le vie dell'immaginario che il cristallo di un'opera o di una ossessione infantile fa vedere il reale in persona. Si comprende forse meglio ora ciò che significa letteralità. Ancora una volta tutta la questione si gioca nella natura estrinseca o intrinseca del legame tra attuale e virtuale: rappresentazione di una scena o tracciato di un divenire. La letteralità non è il senso proprio ("non esistono parole appropriate e nemmeno metafore", C, 9) : il cristallo, colpendo perché astratta la dualità reale-immaginario, fa vacillare con lo stesso colpo la partizione presunta originaria di proprio e figurato. Come a proposito della coppia soggetto-oggetto, si deve dire: le proprietà non sono distribuite in anticipo, la distinzione di proprio e di figurato s'istituisce solo nel dato (distribuzione sedentaria, falsamente originaria). Si osservi: lungi dall'esaltare un'ottusa fissazione sull'uso proprio delle parole, il partito della letteralità conduce al di qua del proprio e del figurato - piano d'immanenza o di univocità dove il discorso, in preda ai propri divenire, ha poco da temere di passare per metaforico presso spiriti "sedentari".

Deterritorializzazione ( e territorio)

* "La funzione

di deterritorializzazione: D è il movimento per il quale 'si' lascia il territorio." (MP, IV, 148) " Il territorio non preesiste al segno qualitativo, è il segno che fa il territorio. In un territorio le funzioni non sono prime, suppongono anzitutto un'espressività che fa territorio. Precisamente in questo senso il territorio, e le funzioni che in esso si esercitano, sono prodotti della territorializzazione. La territorializzazione è l'atto del ritmo divenuto espressivo o delle componenti d'ambiente divenute qualitative." (MP, III, 12-13)

** Il termine "deterritorializzazione", neologismo comparso in L 'anti-Edipo, s'è da allora ampiamente diffuso nelle scienze umane. Ma non forma da solo un concetto, e il suo significato resta vago finché non lo si pone in relazione con tre altri elementi: territorio, terra e riterritorializzazione - il cui insieme forma, nella sua versione compiuta, il concetto di ritornello. Si distingue una deterritorializzazione relativa, che consiste nel riterritorializzarsi diversamente, nel cambiare 35

territorio (divenire in effetti non è cambiare finché non c'è termine o fine d el divenire - ci sarebbe qui forse una certa differenza con Foucault); e una deterritorializzazione assoluta, che equivale a vivere su una linea astratta o di fuga (se divenire non è cambiare, di contro ogni cambiamento avviluppa un divenire che, catturato come tale, si sottrae all'influenza della deterritorializzazione: cfr. il concetto di "contro-effettuazione" dell'evento, LS, serie 21, e la domanda "che cosa è accaduto ?", MP, piano 8) . Questo è lo schema che prevale pressappoco ne L 'anti-Edipo, dove "deterritorializzazione" è sinonimo di "decodificazione". Pertanto si pone già il problema della "riterritorializzazione", che conduce al tema polemico della "nuova terra", sempre a venire e soprattutto da costruire, contro ogni terra promessa o ancestrale, riterritorializzazione arcaica di tipo fascista. (AE, 360-368, 293-4) In M illepiani lo schema si complica e si affina intorno a un'accentuazione dell'ambivalenza del rapporto con la terra - profondità del Natale e spazio liscio del nomadismo - che, pertanto, affetta così anche il territorio. Non solo la rigidità del codice non rende più conto di tutti i tipi di territorio, ma la riterritorializzazione è ormai pienamente assunta come il correlato di ogni deterritorializzazione, una volta chiarito che non si effettua più su un territorio, propriamente parlando, ma, nel caso sia assoluta, su di una terra non delimitata: concatenamento nomadico, deserto o steppa come territorio paradossale, dove il nomade "si riterritorializza sulla deterritorializzazione stessa" (MP, III, 124 - la differenza relativo-assoluto corrisponde all'opposizione di storia e divenire, la deterritorializzazione assoluta essendo il momento del desiderio e del pensiero: CCF, 80). Tale spostamento d'accento apre la via al concetto di ritornello.

*** Improntato più all'etologia che alla politica, il concetto di territorio implica certo lo spazio, ma non consiste nella delimitazione oggettiva di un luogo geografico. Il valore del territorio è esistenziale: esso circoscrive per ognuno il campo del familiare e del desiderabile, segna le distanze con gli altri e protegge dal caos. L'investimento intimo dello spazio e del tempo implica questa delimitazione inseparabilmente materiale (consistenza d'un "concatenamento" - vedi questa voce) e affettiva (problematiche frontiere della mia " potenza") . Il tracciato territoriale distribuisce un fuori e un dentro, talvolta percepiti passivamente come l'orlo intoccabile dell'esperienza (punti d'angoscia, di vergogna, di inibizione), talvolta abitati attivamente come linea di fuga, quindi come una zona d'esperienza. Ne L'anti-Edipo, il territorio non si distingue dal codice perché era in prima istanza un indice di fissità e di chiusura. In M illepiani questa fissità esprime solo un rapporto passivo con il territorio in quanto quest'ultimo diviene un concetto distinto (MP, III,23): "cifra costitutiva di un dominio, di una dimora", non di un soggetto, il territorio designa i rapporti di proprietà o di appropriazione e insieme di distanza, nei quali consiste l'intera identificazione soggettiva - "un avere più profondo dell'essere" (MP, III,14) . Il nome proprio, l'io, non assumono senso se non in funzione d'un "mio" o d'un " a casa mia" (MP, III, 19; IV, 141) .

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Tale valore d'appropriazione è solidale con un divenir-espressivo di qualità sensibili che entrano come variazioni inseparabili nella composizione di un ritornello, rivelando come la marcatura delle distanze - punto decisivo -preceda ogni altra funzionalità, come per gli animali (MP, III,11-24; CCF,190). Il territorio è quindi la dimensione soggettivante del concatenamento - tanto che si dà intimità solo al di fuori, in presa con ciò che è esterno, esito di una contemplazione precedente a qualsiasi divisione tra soggetto e oggetto (vedere Taglio-flusso e Piano d'itnmanenza). Questo primordiale avere, Deleuze l'aveva tematizzato inizialmente sotto il nome di "abitudine" o "contemplazione" (DR, 123-134). Il concetto è mutato come testimonia la distinzione tra ambienti e territori (MP, III, 8-11 ) . Preso nella logica del concatenamento e del ritornello, il motivo dell'avere contribuisce d'ora in avanti alla definizione del problema pratico essenziale, lasciare il territorio: che rapporto con l'anomalo, che prossimità con il caos può reggere il territorio? Qual è il suo grado di chiusura o al contrario di permeabilità (vaglio) con il fuori (linee di fuga, punti di deterritorializzazione)? Nessun territorio equivale a un altro, e il loro rapporto alla deterritorializzazione, come si capisce, non è di semplice opposizione.

Distribuzione nomade ( o spazio liscio) * " Si tratta di una distribuzione di movimento, addirittura di 'delirio', dove le cose si dispiegano su tutta la distesa di un Essere univoco e non ripartito. Non l'essere si divide secondo le esigenze della rappresentazione, ma tutte le cose si ripartiscono in esso nell'univocità della semplice presenza O'Uno-Tutto)." (DR, 67) ** La differenza tra dividere uno spazio chiuso e ripartirsi in uno spazio aperto, tra distribuire agli uomini uno spazio già diviso in parti e distribuire gli uomini in uno spazio indiviso, ha in primo luogo un senso pastorale (il nomos greco, prima di significare la legge, rinvia all'attività di pascolare: DR, 67 e MP, III, 122). È per metafora che Deleuze impiega tale differenza per spiegare i due strati del pensiero, creativo e rappresentativo? No di certo, poiché a loro volta i due valori socio-storici di nomos (modo d'esistenza nomadico e modo d'esistenza sedentario) implicano tale differenza. Il fatto è che il pensiero è affetto nel più intimo di sé dallo spazio, e si elabora in funzione di spazi astratti sia "lisci" che "striati", o secondo una mescolanza variabile dei due (cfr. la riabilitazione della distinzione leibniziana tra spatium e extensio, primo abbozzo di due spazi, ma che si prolungherà nel concetto di "corpo senz'organi": DR, 366-392; MP, II, 10). Verrà così compilata una lista non chiusa di "modelli" concreti dove tale distinzione è all'opera: tecnologico, musicale, matematico, ecc. (MP, piano 14) ***Perché la filosofia è essa stessa primariamente coinvolta?

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Alcuni s'immaginano i problemi eterni e i concetti già dati, disposti in un cielo dove noi dovremmo solamente andare a cercarli: costoro ragionano in funzione di una distribuzione sedentaria o fissa. O ancora: crediamo che il pensiero avanzi secondo un ordine di dispiegamento progressivo; immaginiamo tutti i grandi filosofi a partire da Platone chiamati a comparire davanti al tribunale della Verità. Come se esistesse una distribuzione oggettiva esterna a tutte le distribuzioni singolari: una tale credenza riapre alla trascendenza. D'altro canto, le idee ci paiono votate a dei domini, le significazioni a degli oggetti che indicano il loro uso "proprio" e la possibilità di un uso "figurato" (come se, per esempio, il senso delle parole "malattia" o "prigione" si sposi nella referenza a stati di cose fisiche che tali parole servono a designare). Misconoscendo il carattere intrinsecamente nomade del senso, gli rifiutiamo i diritti d'una deriva letterale, gli assegniamo degli steccati e i nostri atti di comprensione sono tutti pervasi d'un catasto implicito che ci fa giudicare al meglio impotenti, al peggio disoneste, le migrazioni semantiche che la filosofia richiede, condotta da una necessità e da un rigore che le son propri: per esempio gli usi non-scientifici d'una idea scientifica (come se la scienza stessa, nei suoi momenti inventivi, non praticasse assiduamente e legittimamente tali importazioni . . .) . Tutt'altro è il pensiero che afferma risolutamente il caso: non che esso opponga alla necessità i diritti d'una fantasia arbitraria (nessuno è stato più sensibile di Deleuze al tema della necessità e ne ha ricercato il concetto al di là di tutte le idee preconcette: (PS, 17; 90 e sgg.; DR, 226-227); ma questa affermazione è la prova del distacco dall'illusione di una necessità cercata in rapporto a una divisione originaria e trascendente, che il pensiero può solo postulare (Ll, decima e dodicesima serie). Lo spazio indiviso del lancio di dadi della distribuzione nomade mostra così in che senso occorre intendere L'Uno per Deleuze: senza recedere davanti alla molteplicità delle ridistribuzioni, impedendo ad ognuna di richiudersi su se stessa e di cedere al miraggio di un Uno ritirato e diviso, linea di fuga o di deterritorializzazione che affetta di sé intimamente ogni modo d'essere o di esistenza particolare (non ha senso dedurre un primato dell'Uno sul molteplice in Deleuze), È in tal senso che il nomade si definisce non tanto per i suoi spostamenti, come invece il migrante, quanto per il fatto di abitare uno spazio liscio (deserto o steppa - MP, III, 122). In definitiva, lo spazio liscio è il piano d'immanenza o d'univocità dell'essere (CCF, 26).

Divenire

* "Divenire non significa mai imitare, fare come, e neanche conformarsi ad un modello, fosse pure quello della giustizia o della verità. Non c'è un termine da cui si parte, né uno a cui si arriva o al quale si deve arrivare. E nemmeno due termini che si scambiano tra loro. Chiedere 'che cosa stai diventando?' è una cosa particolarmente stupida, dato che man mano che uno diventa, muta in se stesso 38

tanto quanto muta ciò che egli diventa. I tipi di divenire non sono fenomeni di imitazione, né di assimilazione, bensì di doppia cattura, di evoluzione non parallela di nozze tra due reami." (C, 8)

** Il divenire

è il contenuto proprio del desiderio (macchine desideranti o concatenamenti): desiderare è passare attraverso i divenire. Deleuze e Guattari lo dichiarano fin da L 'anti-Edipo, ma ne fanno un concetto specifico a partire da Kafka. Per prima cosa il divenire non è una generalità, non c'è divenire in generale: non si potrebbe ridurre questo concetto, strumento di una raffinata clinica dell'esistenza concreta e sempre singolare, all'apprensione estatica del mondo nel suo scorrere universale - meraviglia filosoficamente vuota. In secondo luogo il divenire è una realtà: i divenire, lungi dall'emergere dal sogno o dall'immaginario, sono la consistenza stessa del reale (su questo punto vedere Cristallo di tempo). È importante, per ben comprenderlo, considerarne la logica: ogni divenire forma un "blocco", altrimenti detto l'incontro o la relazione di due termini eterogenei che si "deterritorializzano" reciprocamente. Non si abbandona ciò che si è per divenire qualcos'altro (imitazione, identificazione) ma un altro modo di vivere e di sentire frequenta il nostro ossia vi s'inviluppa e lo "fa fuggire". La relazione mobilita così quattro termini e non due, ripartiti in serie eterogenee intrecciate: :x: inviluppante y diviene :x:' mentre y preso nel rapporto con :x: diviene y '. Deleuze e Guattari insistono continuamente sulla reciprocità del processo e sulla sua asimmetria: :x: non diviene y (per esempio "animale") senza che y dal canto suo non divenga un'altra cosa (per esempio scrittura o musica). Qui si mescolano due cose che non si devono confondere: a) ( caso generale) il termine incontrato è trascinato in un divenire-espressivo, correlato di nuove intensità (contenuto) attraverso le quali passa il termine incontrante, in conformità alle due facce di ogni concatenamento (cfr. il tema "Si diviene animale solo molecolarmente", MP, II, 205); b) (caso particolare) la possibilità che il termine incontrato sia a sua volta incontrante, come nel caso di co-evoluzione, così che un doppio divenire ha luogo da entrambe le parti (cfr. l'esempio della vespa e dell'orchidea, MP, I , 25). Il divenire è insomma uno dei poli del concatenamento, quello dove contenuto ed espressione tendono all'indiscernibile componendo una "macchina astratta" ( di qui la possibilità di considerare come non-metaforiche formulazioni quali: "scrivere come un topo che agonizza", MP, II, 152).

*** Kafka e Millepiani presentano una gerarchia dei divenire.

Tale gerarchia, al pari della lista che essa dispone, non può essere che empirica, procedendo da una valutazione immanente: animalità, infanzia, femminilità, ecc. Questi domini non hanno alcun privilegio a priori, ma l'analisi constata che il desiderio tende ad investirli più che ogni altro dominio. Basterebbe osservare che essi sono altrettante alterità in rapporto al modello d 'identificazione maggioritaria (uomo-maschio-adulto, ecc.), dato che essi non

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si propongono affatto come modelli alternativi, come forme o codici di sostituzione. Animalità, infanzia, femminilità valgono per i loro coefficienti d'alterità o di deterritorializzazione assoluta, in funzione in un al-di-là della forma che non è il caos ma una consistenza detta "molecolare": allora la percezione capta delle variazioni intensive (composizioni di velocità tra elementi informali) piuttosto che un ritaglio di forme (insiemi "molari"), mentre l'affettività si emancipa dai propri ritornelli e dalle proprie ordinarie impasses (vedere Linea di fuga). Si prenda l'esempio dell'animale: come tale, esso non è l'individuo addomesticato e reso familiare che può aggiungersi ai membri della famiglia. Inseparabile da una muta anche virtuale (un lupo, un ragno qualsiasi), esso vale solo per le intensità, per le singolarità, per i dinamismi che presenta. Il rapporto immediato che abbiamo con lui non è il rapporto con una persona, con le sue coordinate identificanti e con i suoi ruoli; esso sospende il taglio dicotomico dei possibili, la ricognizione delle forme e delle funzioni. Nondimeno la stessa possibilità di allacciare un rapporto familiare con l'animale o di assumere da lui degli attributi mitologici indica un limite di rapporto all'animale dal punto di vista della deterritorializzione (KIM, 66-67; MP, II, 152-153). Tra i tipi di divenire, il criterio di selezione non può essere che un fine immanente: in quale misura il divenire, in ogni caso, vuole se stesso? Divenire-bambino e divenire-donna sembrano così condurre più lontano dei divenire-animali dato che tendono verso un terzo grado dove il termine di divenire non è addirittura più assegnabile, verso una "asignificanza" che non si presta più alla minima identificazione o interpretazione e dove le domande "che cosa succede?", "come funziona?" prendono il sopravvento su "che cosa significa?": non tanto la rinuncia al senso, ma al contrario la sua produttività, in un rifiuto della confusione senso-significato e della distribuzione sedentaria delle proprietà. Questo terzo grado, quantunque non vi sia né progressione dialettica né serie chiusa, si chiama "divenire-intenso", "divenire-molecolare", "divenire-impercettibile", "divenire-ognuno" (cfr. KIM, cap.2 e cap.4; MP, piano 10).

Empirismo trascendentale

* "La forma trascendentale di una facoltà si confonde col suo esercizio disgiunto, superiore o trascendente. Trascendente non significa per nulla che la facoltà si rivolga a oggetti fuori dal mondo, ma viceversa che colga nel mondo ciò che la riguarda esclusivamente, e la faccia nascere al mondo. Se l'esercizio trascendente non va ricalcato sull'esercizio empirico, ciò dipende proprio dal fatto che esso apprende ciò che non può essere colto dal punto di vista di un senso comune, il quale misura l'uso empirico di tutte le facoltà secondo la parte di ciascuna nella forma della loro collaborazione. Questo spiega perché il trascendentale dal canto suo va fatto rientrare in un empirismo superiore, l'unico in grado di esplorarne il campo e le regioni, poiché, contrariamente a quanto poteva supporre Kant, l'empirismo trascendentale non può essere indotto dalle forme empiriche ordinarie

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così come appaiono nella determinazione del senso comune." (DR, 232)

** Il problema più generale di Deleuze non è l'essere ma l'esperienza. È entro questa prospettiva che vengono affrontati Be:rgson e Nietzsche. I due studi hanno una diagnosi in comune: Kant ha saputo metter in scena la questione delle condizioni dell'esperienza, ma il condizionamento ch'egli invoca è quello dell'esperienza possibile, non :reale, e :resta esterno a ciò che esso condiziona (NF, 137; B, 20-21). Essi si :richiamano alla medesima :radicalizzazione del problema: pensare delle " condizioni che non siano più ampie di ciò che condizionano", che siano questione di un "empirismo supe:rio:re" (NF, 84; B, 20-21, 24 e già in "La concezione della differenza in Be:rgson", ID, 38). Parallelamente, Deleuze espone attraverso Nietzsche e Proust una "nuova immagine del pensiero" intorno all'idea che "il pensare non è innato, ma deve essere generato nel pensiero" (DR, 240): da qui i temi dell'involontario, della violenza dei segni o dell'incontro con ciò che fo:rza a pensare, e il problema della stupidità elevata a trascendentale (NF, 151 160; PS, 87-94). Sono tutti temi ripresi in Differenza e ripetizione (116, 226-250, 452) con l'aggiunta di un nuovo argomento. Il to:rto di Kant è di aver "ricalcato il trascendentale sull'empirico" dandogli la forma di un soggetto cosciente correlato a quello di un oggetto (DR, 220-221; 232-234; Ll, 92). La dottrina delle facoltà viene riabilitata (testo sop:ra e PS, 92) laddove si enuncia l'idea di un campo trascendentale impersonale costituito da singolarità pre-individuali (Ll, 93, 102). E lo spinozismo di Deleuze? Non procede da tutt'altra ispirazione, ontologica, dato che v'interviene la famosa tesi dell'univocità dell'essere? Deleuze osserva che il paradosso di Spinoza consiste nel mettere l'empirismo al servizio del razionalismo (SPE, 118), e di costruire un piano d'esperienza pura che coincide subitamente, sotto il nome di "piano d'immanenza", con il campo trascendentale :rimaneggiato (MP, II, 172-173; SFP, cap.VI; CCF, 38-39 - la logica dell'essere univoco, dove ciascun essente, pu:ra differenza, si misura con gli altri solo in :rapporto al suo p:rop:rio limite, si apparenta a quella della dottrina delle facoltà). Deleuze può allora tornare a Bergson e leggere l'inizio del p:rimo capitolo di Materia e memoria come l'instaurazione di un tale piano d'immanenza (IM, 74-80; CCF, 38). Ma perché egli sembra scivolare così facilmente dallo stile trascendentale allo stile ontologico, invocando pe:r esempio il "pu:ro piano d'immanenza di un pensiero-Essere, di un pensie:ro-Natu:ra" (CCF, 80)? Tale impressione deriva dal fatto che non c'è più un Ego originario per segnare una frontiera t:ra i due disco:rsi5.

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Sarebbe questo il luogo per sviluppare la divergenza di Deleuze in rapporto ad Heidegger (di origine cartesiana, l'esigenza di correlare l'essere all'esperienza è rinnovata e radicalizzata in Husserl; è con H eidegger che, per la prima volta, l'esperienza che convalida il discorso ontologico cessa d'essere rapportata ad un soggetto originario e, simultaneamente, non rileva più alcuna "evidenza").

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Tuttavia non si ritorna a una teoria dogmatica dell'in-sé del mondo, ancor meno a una forma d 'intuizione intellettuale in senso kantiano: semplicemente l'immanenza esce dalle frontiere del soggetto mentre l'in-sé non è che quello della differenza, di cui il soggetto, derivato e nomade, percorre i gradi (logica della disgiunzione inclusiva- su questa conversione cfr. IT, 97; e sull'intuizione, vedere ''Piano d'immanenza"). È divenuto indifferente parlare nell'uno o nell'altro stile: l'ontologia del virtuale o delle singolarità altro non è che l'attrezzo per descrivere l'esperienza " reale" .

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1) Empirismo trascendentale significa in primo luogo affermare che la

scoperta delle condizioni dell'esperienza presuppone essa stessa un'esperienza in senso stretto: non tanto l'esercizio ordinario o empirico di una facoltà, che i dati del vissuto empirico non informano il pensiero su ciò che esso può, ma questa stessa facoltà portata al proprio limite, messa a confronto con ciò che la sollecita nella sua sola propria potenza (là, per esempio, dove la filosofia si scopre votata al solo concetto piuttosto che all'opinione o alla riflessione). Ecco perché non solo la filosofia critica deve farsi empirista, ma l'empirismo, che "tratta il concetto come l'oggetto di un incontro" (DR, 6), realizza la propria vocazione solo elevandosi al trascendentale. Si comprende così perché l'utilizzo del materiale clinico o letterario tende a sostituire i vissuti di prima mano della fenomenologia. È inerente a questo tipo di esperienza il fatto d'essere rara, non disponibile quotidianamente e di esigere un'appropriata invenzione semiotica. 2) Empirismo trascendentale significa inoltre che le condizioni non sono mai generali ma si declinano secondo i casi: da qui l'enunciato capitale per cui esse non risulterebbero essere più ampie di ciò che condizionano. Tale enunciato a prima vista sembra annullare la distinzione di diritto e di fatto allineando il primo sul secondo ( questo sarebbe il colmo, per chi denuncia il "ricalco" del trascendentale sull'empirico). Il suo vero senso è che noi non possiamo mai parlare in anticipo a nome di tutta l'esperienza, a meno di perdere variazioni essenziali, singolarità inerenti e di applicare ad essa un discorso troppo generale così da lasciare concetto e cosa in un rapporto di reciproca indifferenza. Occorre dunque un tipo speciale di concetto: un "principio plastico", alla maniera della Volontà di Potenza (NF, 84-85) o della Durata-Memoria ("La concezione della differenza in Bergson", ID, 40, 48-50), principio differenziale o di differenziazione interna dove ogni grado designa un modo di esistenza e di pensiero, una possibilità di vita (vedere Piano d'immanenza).

Evento

* "Non si chiederà dunque quale sia il senso di un evento. L'evento è il senso stesso. L'evento è essenzialmente proprio del linguaggio, è un rapporto essenziale con il linguaggio; ma il linguaggio è ciò che si dice delle cose."(Ll, 27)

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''In ogni evento vi è certo il momento presente dell'effettuazione, quello in cui l'evento s'incarna in uno stato di cose, in un individuo, in una persona, quello che si designa dicendo: ecco, è venuto il momento; e il futuro e il passato dell'evento sono giudicati soltanto in funzione di questo presente definitivo, dal punto di vista di colui che lo incarna. Ma vi sono d'altra parte il futuro e il passato dell'evento considerato in se stesso, che schiva ogni presente, perché è libero dalle limitazioni di uno stato di cose, in quanto impersonale e preindividuale, neutro, né generale né particolare, eventum tantum . .. ; o piuttosto che non ha altro presente che quello dell'istante mobile che lo rappresenta, sempre sdoppiato in passato-futuro, che forma quella che occorre chiamare la contro-effettuazione. In un caso, è la mia vita che mi sembra troppo debole per me, che fugge in un punto diventato presente in un rapporto assegnabile con me. Nell'altro caso, sono io che sono troppo debole per la vita e la vita troppo grande per me, che getta ovunque le sue singolarità senza rapporto con me, né con un momento determinabile come presente, tranne che con l'istante impersonale che si sdoppia in ancora-futuro e già passato." (LS, 135-136)

** Il concetto di evento nasce da una distinzione d'origine stoica: "non confondere l'evento con la sua effettuazione spazio-temporale in uno stato di cose" (LS, 27). Dire che "il coltello entra nella carne", è esprimere una tra.iformazione incorporale che differisce per natura dalla mescolanza dei corpi corrispondente (quando il coltello entra effettivamente, materialmente nella carne) (MP, I, 150). L'effettuazione nei corpi (incarnazione o attualizzazione dell'evento) dà luogo alla successione di due stati di cose, prima-dopo, secondo il principio della disgiunzione esclusiva, mentre il linguaggio tiene insieme la differenza di tali stati di cose, puro istante della loro disgiunzione (vedere "Ai61i'): tocca a lui compiere la sintesi disgiuntiva dell'evento, ed è questa differenza che fa senso. Ma dal fatto che l'evento trovi riparo nel linguaggio non si deve inferirne una sua natura linguistica come se l'evento non fosse altro che l'equivalente del miscuglio dei corpi su un altro piano: la frontiera non passa tra il linguaggio e l'evento da una parte, il mondo e i suoi stati di cose dall'altra, ma tra due interpretazioni del rapporto di linguaggio e mondo. Secondo la prima, voluta dai logici, il rapporto si stabilisce tra la forma proposizionale a cui è ricondotto il linguaggio, e la forma dello stato di cose a cui, da quel momento, il mondo è riportato. Ora, la distinzione attraverso cui Deleuze intende riparare a questo doppio snaturamento p assa contemporaneamente attraverso il linguaggio e attraverso il mondo: il paradosso dell'evento è tale che, essenzialmente "esprimibile", ciò non di meno è anche "attributo" del mondo e dei suoi stati di cose, cosicché il dualismo della proposizione e dello stato di cose corrispondente non si ritrova sul piano dell'evento, perché non sussiste se non nel linguaggio che appartiene al mondo. L'evento è dunque due versanti alla volta, in quanto è ciò che, nel linguaggio, si distingue della proposizione, e ciò che, nel mondo, si distingue degli stati di cose. Meglio ancora, esso è il differenziante doppio delle significazioni, da una par-

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te, degli stati di cose dall'altra. Di qui l'applicazione della coppia virtuale-attuale (e, in misura minore, della coppia problema-soluzione) al concetto di evento. Di qui ugualmente le due strade cui conduce il primato riconosciuto dell'evento: teoria del segno e del senso, teoria del divenire. Da un lato, Deleuze si oppone alla concezione della significazione come entità piena o dato esplicito, ancora pregnante nella fenomenologia e in tutta la filosofia dell' "essenza" (un mondo di cose o di essenze non farebbe senso per se stesso, vi mancherebbe il senso come differenza o evento, che solo rende sensibili le significazioni e le porta alla luce nel pensiero). Qui ha origine l'interesse verso lo stile o la creazione di sintassi, e la tesi che il concetto, che è propriamente l'evento auto-liberatosi nella lingua, non si compone di proposizioni (CCF, 11-12; 22-23). D'altro canto, il concetto tratteggia un'etica della contro-effettuazione o del divenire-impercettibile (LS, 21 ° serie; MP, piano 8 e 1O), fondata sulla liberazione della pa:rte evenemenziale, "ineffettuabile", di ogni effettuazione. Riassumendo, l'evento è inscindibilmente il senso delle frasi e il divenire del mondo; è ciò che, del mondo, si lascia avvolgere nel linguaggio e gli permette di funzionare. È per questo che il concetto di evento viene esposto in una Logica del senso.

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Siamo legittimati a opporre pensiero dell'evento e pensiero dell'essere, oppure, al contrario, a confonderli? L'evento si pone a due livelli, nel pensiero di Deleuze: condizione per la quale il pensiero pensa (incontro con un fuori che forza a pensare, colpo di caos sul piano d'immanenza), oggettualità particolari del pensiero (il piano è popolato solo da eventi o da divenire, ogni concetto è la costruzione d'un evento sul piano). E se non c'è modo di pensa:re che non sia anche modo di fa:re un'esperienza, di pensare ciò che c'è, la filosofia non assume la sua condizione evenemenziale da cui pretende di trarre la garanzia della propria necessità senza proporre nello stesso tempo la descrizione di un dato puro, esso stesso evenemenziale. Chiamiamo tale esperienza, se si vuole e in modo provvisorio, esperienza dell'essere - benché, né nel suo stile né nelle sue motivazioni, l'andatura deleuziana abbia alcunché in comune con quella di Heidegger; e sebbene l'essere sia qui una nozione ingannevole, se è vero che non c'è dato se non in divenire (si noterà che Deleuze evita la pa:rola "essere" per quanto è possibile). Occorre pada:re di ontologia deleuziana con molte precauzioni, non fosse che per riguardo nei confronti di un pensatore che non maneggiava volentieri tale genere di categorie. Si tratta di due ordini di precauzioni. Da una parte, si deve ben osserva:re ciò che permette in Deleuze la conversione della filosofia critica in ontologia: il fatto che il dato puro non sia per un soggetto Q.a divisione di soggetto riflessivo e di oggetto osservato e riconosciuto non si opera che all'interno del dato mentre il dato puro rinvia a una soggettività paradossale "in adiacenza", ossia non trascendentale ma situata in ogni punto del piano d'immanenza). D'altra pa:rte ed è l'aspetto che qui svilupperemo - occorre pensare una eterogenesi, secondo la splendida parola di Felix Guattari, dove "genesi" non s'intende più solo nel suo senso tradizionale di generazione, di nascita o di costituzione ( il vero rapporto

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tra diritto e fatto che Deleuze richiede, e che afferma di non trovare né in Kant né in Husserl in quanto entrambi "ricalcano" la condizione sul condizionato, la forma del trascendentale su quella dell'empirico: forma ricognitiva dell'oggetto qualunque, relativa a un soggetto cosciente). "Genesi" s'intende quindi in rapporto al nuovo concetto di "divenire", ed è senza dubbio ciò che allontana di più Deleuze dalla fenomenologia e dai suoi eredi anche ingrati. La fenomenologia non riesce a pensare l'eterogeneità sostanzialmente in gioco nel divenire (in termini strettamente deleuziani: non è il suo problema, essa pone un altro problema). In effetti la fenomenologia pensa solo un divenire-medesimo ~a forma che sta per nascere, il manifestarsi della cosa) e non ciò che dovrebbe essere un pleonasma - un divenire-altro. Non è ciò che esprime la disarticolazione heideggeriana della parola E reignis (evento) in Ereignis (venuta-in-proprio)? Di qui l'equivoco, quando la fenomenologia dopo Deleuze vuole riprendere il tema dell'evento e riscoprirlo come il cuore stesso di ciò ch'essa da sempre s'impegna a pensare. Tenuto conto della sua problematica fondamentale, essa non può ottenere altro che degli avventi, del tipo nascita o venuta (e poi questo, dato che il suo problema è un altro, è senza dubbio ciò che essa desidera o ciò che del "caos" il suo "piano" le restituisce). Il suo tema è l'inizio del tempo, la genesi della storicità; non, come per Deleuze, la cesura o rottura che taglia irrevocabilmente il tempo in due e lo costringe a ricominciare, in un innesto sintetico di irreversibile e imminente, in quanto l'evento si dà nella strana posizione di un ancora-qui-e-già-passato, ancora-davenire-e-già-qui (vedere Aion) . Di conseguenza, la storicità per Deleuze è essa stessa in divenire, affetta all'interno da udesteriorità che la mina e la fa divergere da sé. In definitiva, questo duello tra due pensieri dell'evento, della genesi, del divenire, l'uno che può rivendicare l"'essere", l'altro che vi vede solamente un paravento o una parola, non è forse il duello tra una concezione cristiana e una concezione non cristiana del nuovo?

Linea di fuga (e minore-maggiore)

* "La linea di fuga è una deterritorializzazione. I

francesi non sanno bene che cos'è. Evidentemente essi fuggono come tutti ma pensano che fuggire sia una fuga dal mondo, misticismo o arte, oppure sia qualcosa di vile, in quanto si sfugge così agli impegni e alle responsabilità. Fuggire non significa affatto rinunciare alle azioni, non c'è niente di più attivo di una fuga. È il contrario dell'immaginario. Lo stesso vale per il far fuggire, non necessariamente gli altri, ma far fuggire qualcosa, far fuggire un sistema, come si fa scoppiare un tubo. [...]Fuggire significa tracciare una linea, delle linee, tutta una cartografia." (C, 41)

** Tale concetto definisce l'orientamento pratico della filosofia di Deleuze. In primo luogo si nota una doppia uguaglianza: linea

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=fuga, fuggire =far fug-

gire. Ciò che definisce una situazione è una particolare distribuzione dei possibili, la ripartizione spazio-temporale dell'esistenza (ruoli, funzioni, attività, d esideri, gusti, tipi di gioia e di dolore, ecc.). Non si tratta tanto di rituali - tetra ripetizione, alternanza troppo regolata, eccessiva angustia del campo di opzioni - quanto della forma stessa, dicotomica, della possibilità: o/ o, disgiunzioni esclusive d'ogni ordine (maschile/ femminile, adulto /bambino, umano/ animale, intellettuale/manuale, lavoro/ tempo libero, bianco/ nero, eterosessuale/ omosessuale, ecc.) che striano in anticipo la percezione, l'affettività, il pensiero, serrando l'esperienza in forme già compiute, comprese quelle del rifiuto e della lotta. Si dà oppressione in virtù di tale striatura, come si vede in quelle coppie di opposti che implicano tutte una gerarchia: ogni disgiunzione è in fondo tra un maggiore e un minore. Se si aggiunge che la divisione dicotomica interrompe il desiderio, sia essa processo o incessante autoproduzione, si può evidentemente chiedersi se è il desiderio a rifugiarsi negli stati minori una volta stabilitasi la dominazione, o se la minorizzazione non affetta soprattutto le regioni dell'esistenza dove il desiderio si sottrae a ogni assegnazione, a ogni segmentazione. L a seconda opzione equivarrebbe a dotare il desiderio di una qualità intrinsecamente femminile, infantile, ecc. In realtà, se i divenire passano attraverso un rapporto privilegiato con la femminilità, con l'infanzia, ecc., è perché tali rapporti aprono una linea di fuga in una situazione costituita da dicotomie che si organizzano a partire da uno stato di maggiorità (qualitativa) definito sulla base del maschio adulto. Di qui il carattere finto di un'emancipazione che consisterebbe nell'affermazione di donna, dato che questa non avrebbe altro contenuto che i caratteri derivati dalla distribuzione dei ruoli, delle attitudini, ecc, istituiti dal rapporto dominante. Da questo punto di vista " u na donna deve divenir-donna", ossia deve raggiungere il punto in cui la sua auto-affermazione, lungi dall'essere quella di un'identità inevitabilmente definita in riferimento all'uomo, è quella "femminilità" inafferrabile e senza essenza che non si afferma senza compromettere l'ordine stabilito degli affetti e dei costumi, dato che quell'ordine implica la sua repressione. Ed è anche per questo che il divenir-donna concerne tanto gli uomini che le donne: queste ultime non coltivano la linea di fuga che sono nella situazione data (e non l'identità che è a loro imposta) senza far fuggire l'insieme della situazione e così "contaminare gli uomini, catturarli in tale divenire" (MP, II, 206-21 O; sez. II, 231 -232; sez.IV, 75 e segg.). Per Deleuze e Guattari, la soluzione dunque non sta tanto in un cambiamento di situazione o nel venir meno della stessa quanto nell'incertezza, nel panico, nella disgregazione di una situazione qualsiasi. Ciò non vuol dire che tutte le situazioni si equivalgano ma che il loro rispettivo valore sta al grado di disorganizzazione che esse sopportano senza scoppiare e non alla qualità intrinseca dell'ordine di cui esse testimoniano. Resta che espressa in questi termini, la pratica deleuzianoguattariana cadrebbe nella piega di un'altra dicotomia infamante: ordine/ disordine. Ora il disordine, bene inteso, non significa il nulla o il caos, ma piuttosto un

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taglio nel caos, lo scontro con esso piuttosto che il suo rifiuto in nome di presunte forme naturali (vedere Piano d'immanenza). Tali vettori di disorganizzazione o di "deterritorializzazione" sono chiamati precisamente linee difuga. Comprendiamo subito la doppia uguaglianza che costuitusce questa complessa espressione. Fuga s'intende nei due sensi della parola: perdita dell'impermeabilità o della chiusura; allontanamento, evasione. Se fuggire è far fuggire è perché la fuga non consiste nell'uscire da una situazione per andare altrove, cambiare vita, evadere attraverso il sogno o ancora trasformare la situazione (questo ultimo caso è più complesso, poiché far fuggire la situazione implica necessariamente una ridistribuzione dei possibili che sfocia - salvo ottusa repressione - in una trasformazione perlomeno parziale, del tutto improgrammabile, legata alla creazione imprevedibile di nuovi spazi-tempi, di concatenamenti istituzionali inediti; resta che l'esito è, nella fuga, il proseguimento di un processo desiderante, non nella trasformazione di cui il risultato, a sua volta, varrà solo per le sue linee di fuga, e così di seguito). Si tratta nondimeno di una via d'uscita, ma paradossale. Deleuze analizza casi d'ogni genere, famiglia, società, istituzione; limitiamoci al caso della filosofia, che anch'essa ha il proprio stato di cose, non perché sia più importante di altre, ma perché ci rende edotti comparativamente del passo deleuziano. "Uscire dalla filosofia, ma attraverso la filosofia" (Abécédaire, C come Cultura): tutto accade come se la filosofia implicasse i suoi propri fuori, come se il suo vero fuori non fosse fuori di essa (uscire dalla filosofia diventando sociologo, antropologo, psicoanalista, o militante - che lascia invariato lo stato di cose per saltare in altre situazioni giudicate intrinsecamente migliori), ma da scoprire in seno ad essa. Si avrebbe così la base per un possibile confronto con Derrida: là dove quest'ultimo definisce la situazione attraverso la "chiusura della metafisica" e, lungi dal vagheggiare un altro logos oltre il logos, tutto di parola e di presenza, si propone di "decostruire" a partire dall'escluso che la minava da sempre Oa scrittura e i suoi effetti di "differenza"). Deleuze procede con un metodo che si potrebbe definire di perversione, che consiste sia nell'individuare e coltivare una linea di pensatori " che avevano l'aria di far parte della storia della filosofia pur sfuggendone da un lato o da tutte le parti: Lucrezio, Spinoza, Hume, Nietzsche, Bergson" (C, 20), sia nel deviare frammenti di teorie di ogni genere per utilizzarle verso altri fini (DR, Ll, AE, MP, passim), sia inoltre nel rapportare un concetto alle sue vere condizioni, ossia alle forze e ai dinamismi intuitivi che lo sottendono (ID, 121 e segg. - metodo della "drammatizzazione"), sia infine, piuttosto che criticare frontalmente un tema o una nozione, nell'accostarvisi di sbieco, attraverso una "concezione del tutto contorta" ( il contratto giuridico a partire da Sacher-Masoch, P, 223 e PSM, 91 e segg.). Si potrebbe persino leggere l'opposizione di due metodi nel testo " Per farla finita con il giudizio" ( CC, cap.XV): uno retto da un senso dell'analisi interminabile come unica Giustizia possibile, l'altro operante per serie di "processi finiti" (dato che è proprio in questo modo che Deleuze si serve della storia della filosofia - esempi di processi finiti: le sue interpretazioni del Cogito kantiano,

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della paradossale contemporaneità di passato e presente in Bergson, ecc., come tanti pezzi definitivi i cui effetti di senso non cessano comunque di rinnovarsi in funzione dei concatenamenti nei quali sono presi) . Meglio sempre far fuggire che criticare (KIM, 83) .. .Ma perché parlare di perversione? Non pensiamo solamente alla definizione corrente - deviazione rispetto allo scopo o rispetto all'oggetto - ma a un testo su quell'attitudine di cui Freud aveva fatto il tratto distintivo della perversione: " Potrebbe sembrare che la disconoscenza in generale sia molto più superficiale di una negazione o anche di una distruzione parziale. Ma così non è; si tratta di tutt'altra operazione. Forse è necessario vedere la disconoscenza come punto di partenza di un'operazione che non consiste nel negare e nemmeno nel distruggere ma piuttosto nel contestare il giusto diritto di ciò che è, informare ciò che è, a una specie di sospensione, di neutralizzazione, proprie ad aprirci al di là del dato, un nuovo orizzonte non dato" (PSM, 20). Poichè non si tratta di fuggire fuori ma di far fuggire, c'è proprio qualcosa che si fugge, e che si confonde con il far-fuggire: il regno assoluto del sì/ no, dell'alternativa come legge del possibile, la scelta come pseudo-libertà del desiderio assoggettato a tagli prestabiliti (Ll, 281; CC, cap.X, non solo la disturbante alternativa di Bartleby, 93-102, ma anche la "perversione metafisica" del capitano Achab, l'uomo che "fugge ovunque",103-105; infine E,passim). Contrariamente alla dialettica che pretende di oltrepassare l'alternativa attraverso una riconciliazione sintetica, e per tale via ne ammette e ne conserva la premessa ( non si raggiunge il divenire combinando l'essere e il nulla), la linea di fuga è posta sotto il segno dell'indiscernibile e della disgiunz ione inclusiva. Infine è perverso, in senso quasi etimologico, l'uomo delle superfici o del piano d 'immanenza (Ll, 120-121) . Dato che la linea si traccia proprio di traverso - altro aspetto della doppia uguaglianza. È attraverso un libero uso dell'organo che lo si deterritorializza, che si cessa di viverlo come destinato alla funzione a lui attribuita dall'organismo, per disporlo altrimenti sul "corpo senz'organi" o sul p iano d'immanenza, in funzione di incontri con altri "oggetti parziali", anch'essi prelevati o dirottati. Vale a dire che la linea di fuga è sempre trasversale e che legate trasversalmente le cose perdono la loro fisionomia, smettono di essere pre-determinate attraverso schemi precostituiti, e acquistano la consistenza d'una vita o di un'opera, ossia di una "unità non organica" (PS, 149-156). La linea trasversale è come il taglio dell'univocità nelle forme costituite, il piano d'esperienza pura sul quale tutto comunica con tutto (e si compone o meno), al di là delle barriere di forma, funzione o specie. 6

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E' Felix Guattari che forgia un concetto di trasversalità, prima della sua collaborazione con Deleuze. Cfr. P.rychana!Jse et transversalité, che le edizioni La Découverte stanno per ripubblicare ( FGuattari, Psychana!Jse et transversalité , Maspéro, Paris, 1971, ripubbl. da La Découverte, Paris, 2003 - aggiunta della traduttrice) . I due pensatori non hanno smesso di prendersi a prestito delle nozioni che ognuno di loro utilizzava e comprendeva a modo suo, fino a rimaneggiarli assieme nel quadro di un lavoro comune.

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*** Per tale via, le nostre due uguaglianze s'oltrepassano verso una terza: tracciare una linea di fuga= pensare in termini di linee. Non che sul piano d'immanenza ci siano altro che linee di fuga dove si costruisce la "vita non organica", in rapporto trasversale con forme costituite. Ma tracciare una linea sul piano offre un altro punto di vista sull'insieme di una situazione, un criterio immanente che permette d'analizzare i concatenamenti secondo i loro due poli, deterritorializzazione e stratificazione (istituzioni). Immanente infatti, dal momento che, in conformità al primato del piano d'immanenza come punto di vista critico (condizione dell'esperienza) , ogni forma o organizzazione deve costituirsi a partire da esso. Non c'è dunque un mondo di forme fisse e un mondo di divenire, piuttosto differenti stati della linea, differenti tipi di linee, il cui intreccio costituisce la carta rimaneggiabile di una vita. Questo tema geografico della carta si oppone al metodo archeologico della psicoanalisi (cfr. MP, I , 28-29, II, 88-89; P, 48, CC, cap. IX). Cos'è in fondo una linea? E' un segno che implica il tempo, l'elemento-base di una semiotica della durata, di una clinica dell'esistenza (Deleuze perviene a questo concetto solo a partire da Conversaz ioni, 124-148: Proust e i segni, 25, che descrive i "mondi dei segni" dispiegantisi "secondo linee di tempo", cercava la sintesi dei due termini ma li manteneva ancora separati) . Un concatenamento in cui qualunque situazione si analizza mediante una differenziazione del concetto di linea, al contrario del "sistema di punti e di posizioni" che caratterizza il pensiero di tipo strutturalista.( C,42). Vi sono tre tipi distinti di linea, che definiscono altrettanti rapporti con lo spazio e con il tempo: oltre alle linee di fuga, che rinviano ali' Aion e allo spazio liscio, le linee di "segmentarietà rigida" (cicli binari e spazio striato) e, tra questi due poli, un tipo di linea dallo statuto ambiguo, detta di "segmentarietà flessibile"(prelievi frammentari, soglie di ridistribuzione affettiva) (MP, II, 76-94, 118-134). Perché Deleuze asserisce il primato delle linee di fuga (C, 132, 142; MP, II, 91), quando esse appaiono così fragili, così incerte, a volte assenti, o del tutto disseccate, mentre una situazione sembra in primo luogo definirsi attraverso le proprie regolarità, i propri movimenti periodici da cui occorre per l'appunto uscire? L'ordine di fatto non deve occultare quello di diritto: se è vero che la linea trasversale è prima nell'esperienza, è sulle linee di fuga che si edificano le forme e i soggetti che devono essere costituiti nel dato. Da qui, di contro, le linee di fuga che li attraversano originariamente dal di dentro, le molteplici esteriorità interne che li lavorano mentre li costituiscono, e che giustificano un "pessimismo gioioso", una volta immanente, l'attesa serena di giorni migliori bench é le cose vadano davvero male. Giacché, se le nostre forme sono costruite su deterritorializzazioni prime e se noi soffriamo della loro durezza, abbiamo comunque bisogno di loro per riprodurre la nostra esistenza. "Disfare l'organismo non ha mai voluto dire uccidersi, ma aprire il corpo a connessioni che suppongono tutto un concatenamento . . . Dell'organismo, bisogna conservarne quanto basta perché si riformi ad ogni alba" (MP, II, 22) - dal momento che anche in tal caso non c'è da fuggire ~'organismo) ma da far fuggire. 49

Macchina da guerra

* "Ogni volta

che una linea di fuga si volge in linea di morte, noi non ci richiamiamo a una pulsione interiore del tipo 'istinto di morte', ma ci richiamiamo ancora una volta a un concatenamento di desiderio che mette in moto una macchina oggettivamente o estrinsecamente definibile. Non deve dunque essere inteso in senso metaforico il fatto che qualcuno inventi, ogni volta che distrugge gli altri e se stesso, la propria macchina da guerra sulla sua linea di fuga. " (C, 150) " Noi definiamo la 'macchina da guerra' come un concatenamento lineare che si costruisce su linee di fuga. In questo senso, la macchina da guerra non ha affatto come fine la guerra; ha per oggetto uno spazio specialissimo, lo spazio liscio, che essa crea, occupa e propaga. Il nomadismo è precisamente questa combinazione macchina da guerra-spazio liscio." (P, 49)

** Questo concetto comporta due livelli di difficoltà, concernenti il contenuto (si dice insistentemente che la macchina da guerra non ha la guerra come oggetto) e lo statuto (è un concatenamento storico, universale, metaforico?). Tutto nasce da una meditazione intorno al rapporto tra guerra e desiderio, intorno alla ricorrenza dell'immagine della guerra negli scrittori trascinati in una "linea di fuga". Come sempre, Deleuze e Guattari rifiutano la qualifica di metafora in quanto essa scaturisce da un controsenso (C, 148). Il concetto di macchina da guerra risponde al problema dell'ambiguità della "linea di fuga" (che consiste più nel "far fuggire" piuttosto che nel fuggire, nell'utilizzarne i punti di deterritorializzazione): la sua capacità di convertirsi in linea d'abolizione. Come sarebbe troppo semplice considerare l'amore per la morte o la vertigine fascista come l'opposto del desiderio, così anche sarebbe troppo semplice credere che il desiderio non incontri altro pericolo che quello della propria riterritorializzazione. Ne L'anti-Edipo, malgrado la logica del "corpo senz'organi", il rapporto che il desiderio collettivo intrattiene con la morte resta legato all'interiorizzazione della propria repressione: in tale contesto, il fascismo non si distingue ancora da tutt'altra società se non per il carattere estremo della riterritorializzazione arcaica alla quale procede per scongiurare la deterritorializzazione propria dell'epoca capitalista (AE, 32, 293-294, 421-422). In Millepiani le cose procedono diversamente: "passione d'abolizione" designa il momento in cui il desiderio affronta la sua repressione in condizioni disperate e trova nella distruzione degli altri e di sé "il solo oggetto" che gli resta dal momento che ha "perduto la potenza di cambiare''. Il fascismo è allora il momento complesso, che si esita a qualificare come interiorizzazione, in cui il desiderio trova in seno alla disfatta l'atroce risorsa di rivolgere lo Stato contro se stesso facendo "passare attraverso di esso il flusso della guerra assoluta" (MP, II, 131-134). Questo stato del desiderio funzionante per così dire a vuoto non si confonde con il non-desiderio della nevrosi visto che è precisamente l'interiorizzazione che il desiderio scongiura dandosi come oggetto ultimo la guerra o la morte; fa pensare piuttosto al polo "repulsivo" o "paranoi50

co" del corpo senz'organi (AE, 9-11). Tuttavia il concetto di macchina da guerra non si esaurisce nella descrizione di uno stato clinico, individuale o collettivo: è lui a offrire un vero tenore problematico alla critica dello Stato come forma o come modello (la ragione per cui la "macchina da guerra" tende a identificarsi con il desiderio in quanto tale, invece di indicare solo la sua soglia critica, si chiarirà più avanti). La tesi dell'esteriorità della macchina da guerra significa sia che lo Stato non si concepisce se non in rapporto ad un fuori di cui si appropria senza poterlo ridurre (la macchina da guerra istituzionalizzata come esercito), sia che la macchina da guerra si rapporta di diritto, positivamente, a un concatenamento sociale che per natura non si rinchiude mai su una forma d'interiorità. Questo concatenamento è il nomadismo. La sua forma d'espressione è la macchina da guerra, la sua forma di contenuto - la metallurgia; l'insieme si rapporta a uno spazio liscio (MP, III, 121-176). La tesi ha una portata pratica: invece di conservare una fede intatta e non critica nella rivoluzione, o di appellarsi astrattamente ad una "terza via" rivoluzionaria o riformista, permette di precisare le condizioni di una politica rivoluzionaria non-bolscevica, senza organizzazione di partito, che disporrebbe nello stesso tempo di uno strumento d'analisi per far fronte al pericolo di deriva "fascista" proprio delle linee di fuga collettive (C, 152-155; MP, Iv, 68-79). L'impegno di Deleuze al fianco dei Palestinesi e della loro resistenza aveva questo significato: egli vedeva nell'OLP una "macchina da guerra" nel senso preciso che lui dava a tale concetto.(P, 226-227).

*** Per non rimanere alla prima impressione di ambivalenza o

di apparente contraddizione, il lettore deve comprendere in che senso la macchina da guerra "non ha la guerra come oggetto". L'ambiguità da cui la macchina da guerra trae il suo nome viene dal fatto che essa lascia solo tracce negative nella storia.(C, 150). Lo testimonia il destino di ogni resistenza: essere all'inizio tacciata di terrorismo o di destabilizzazione, trionfare poi amaramente, quando trionfa, passando nella forma dello Stato: è ciò che essa assume del divenire, del " divenir-rivoluzionario", e non s'iscrive nella storia (P, 203; CCF, 104). Occorre dunque dire che la ''vitalità non organica" di una collettività, la sua inventiva sociale in termini di concatenamenti originali, talvolta si manifestano nella guerra benché quest'ultima non abbia la guerra stessa come oggetto. Solo quando lo Stato se ne appropria, quando è "separata da ciò che essa può", prende la guerra come oggetto: allora cambia di segno o di "regime di segni" dato che non è più lo stesso concatenamento; da guerriglia essa diviene operazione militare (MP, III, 176-187). In definitiva, il concetto di macchina da guerra condensa i due poli del desiderio, "paranoico" e "schizoide", messi in evidenza dalla logica del corpo senz'organi (AE, 421 segg.; MP, II, 28-30).

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Macchine desideranti

* "Nelle macchine desideranti tutto funziona contemporaneamente, ma negli iati e rotture, nei guasti e nei colpi a vuoto, nelle intermittenze e corti circuiti, nelle distanze e frammentazioni, in una somma che non riunisce mai le sue parti in un tutto."(AE, 44). "Le macchine desideranti costituiscono la vita non-edipica dell'inconscio." (BP, 102).

** Una macchina desiderante

si definisce in primo luogo per un accoppiamento o un sistema "taglio/ flusso" di cui i termini, determinati entro tale coppia, sono "oggetti parziali" (in un senso che non è più quello di Melanie Klein, ossia non rinvia più all'integrità anteriore di un tutto): da questo punto di vista, essa si compone già di macchine, e queste di altre all'infinito. L'anti-Edipo si apre così sul piano univoco di una Natura concepita come processo di produzione (si accosti questo testo all'inizio del primo capitolo di Materia e memoria, considerato come ulteriore esempio d'instaurazione di un campo d'immanenza: IM, cap.4; CCF, 38). In secondo luogo i tagli di flusso s'iscrivono, si registrano o si distribuiscono secondo la legge della sintesi disgiuntiva su un corpo pieno senz'organi (AE,1017). Infine, un soggetto che in alcun caso preesiste alla macchina, ma vi è prodotto come un "resto" o un "residuo", circola attraverso le disgiunzioni e le consuma come altrettanti stati di se stesso (AE, 18-24) - per una ricapitolazione dei tre aspetti, 38-44). Le macchine desideranti sono paradossali: "non funzionano che guaste" (AE, 33-34). Questo paradosso non è che apparente se si realizza che la parola macchina non è qui una metafora. I n effetti, il senso corrente della parola risulta da una astrazione per cui si isola la macchina tecnica dalle condizioni della sua apparizione e del suo funzionamento (uomini, eventualmente animali, tipi di società o di economia, ecc.). La macchina è dunqu e sociale prima di essere tecnica, ignora la distinzione tra la sua produzione e il su o funzionamento, e non si confonde affatto con un meccanismo chiuso (KIM, 141-142; AE, 38 e segg.; BP, 98). Infine, non c'è differenza di natura tra le macchine sociali (mercato capitalista, Stato, chiesa, esercito, famiglia, ecc.) e le "macchine desideranti", ma una differenza di regime o di logica: queste "investono" quelle e costituiscono il loro inconscio, ossia nello stesso tempo se ne nutrono e le rendono possibili facendole "fuggire" (AE, 389 e segg., BP, 118). In Millepiani, il concetto di macchine desideranti sparisce a beneficio dei concetti di concatenamento e di macchina astratta (dove si ritrova quella funzione paradossale di condizionamento destabilizzante).

*** Non ci si stupirà dello scarto tra la concezione deleuzeiano-guattariana e il significato corrente della parola desiderio: in verità lo scarto è nella stessa parola, tra l'esperienza che essa designa, ciò che occorre elevare a concetto, e l'interpretazione che vi è tramessa, conforme alle esigenze delle rappresentazioni coscienti di un soggetto costituito. Comunem ente si contrappone il desiderio alla sua realizzazione, di modo che esso venga respinto nell'ambito d el sogno, del fantasma,

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della rappresentazione. Ma ecco che il desiderio viene condotto nell'ambito della produzione, che il suo modello non è più il teatro - l'eterna rappresentazione della storia d'Edipo - ma la fabbrica, e che "se il desiderio produce, produce del reale [... ] L'essere oggettivo del desiderio è il Reale in se stesso." (AE, 29). Il desiderio non è la rappresentazione di un oggetto assente o mancante, ma un'attività di produzione, una sperimentazione incessante, un montaggio sperimentale. La celebre proposizione "il desiderio è macchina" (AE, 29), assume così una doppia portata polemica: 1) ricusa l'idea psicanalitica secondo cui il sogno sarebbe la "via maestra" verso l'inconscio; 2) si pone in concorrenza con il marxismo più che ritornarvi, sollevando a sua volta il problema della produzione dell'esistenza e stabilendo che "il desiderio fa parte dell'infrastruttura" (AE, 115 - il modello dell'inconscio-fabbrica si sostituisce a quello dell'inconscio-teatro). Ora, troncare con le concezioni abitualmente idealiste del desiderio implica contestarne la logica: ci si figura il desiderio come la tensione di un soggetto verso un oggetto (logica della rappresentazione del desiderio), lo si subordina a un fine ben distinto - il possesso; per tale via, non solo non si rende conto della realtà del desiderio come tale o della sua formazione, ma il desiderio si autoinganna. Mi è certo necessario poter disporre di esseri e di cose sui quali sono prelevate le singolarità che fanno parte della composizione macchinica del mio desiderio, stabilendo così il mio "territorio" - ma al fine di poter desiderare, ossia di perseguire un'avventura affettiva su quel piano macchinico. Il desiderio, in tal senso, non è mancanza ma processo, apprendistato errabondo; esso soffre solo se interrotto, e non del fatto che l"'oggetto" si sottrae di continuo. È anche in questo che si distingue dal piacere: pure l'esplorazione del dolore rientra nel campo del desiderio; non tanto che si voglia soffrire e trovarci piacere, si tratta piuttosto ancora di un divenire, di un viaggio affettivo (esempi dell'amor cortese: C, 104-105 e MP, II, 15-16; del masochismo: MP, II, 8-9, 14). L'altro inganno è quello del soggetto: rappresentarsi il desiderio come una facoltà sempre pronta a esprimersi, che non conosce ostacoli se non esteriori (soggetto imbrigliato, impedito a esteriorizzarsi). In realtà, il desiderio non è dato in anticipo e non è un movimento che vada dal dentro al fuori: nasce fuori, da un incontro o da un accoppiamento (C, 57-58, 101). Esploratore, sperimentatore, il desiderio va di effetto in effetto o di affetto in affetto, mettendo in moto esseri e cose non per loro stesse ma per le singolarità che esse emettono e che lui preleva. Tale prelievo non implica che le cose si spezzettino, come nel concetto kleiniano, dato che le cose e gli "oggetti parziali" non operano sullo stesso piano, e che il piano dove questi "si macchinano" non comprende le cose. La rappresentazione comune del desiderio - tensione verso qualcosa o qualcuno - rinvia dunque alla formazione di una "macchina desiderante" che precede la divisione soggetto/ oggetto e ne rende conto.

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Molteplicità

* "La molteplicità non deve designare una combinazione di multiplo e di uno, ma viceversa un'organizzazione propria del multiplo in quanto tale, che non ha affatto bisogno dell'unità per formare un sistema." (DR, 295)

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Di origine bergsoniana, questo concetto opera un doppio spostamen-

to: da una parte l'opposizione di uno e molteplice smette d'essere pertinente, dall'altra il problema diviene quello della distinzione tra due tipi di molteplicità (attuale-estensiva, che si divide in parti esterne le une alle altre, come la materia o l'estensione; e virtuale-intensiva, che si divide in dimensioni implicate le une nelle altre, come la memoria o la durata). Per di più, la vecchia opposizione di uno e molteplice appare relativa a uno dei due tipi - il tipo attuale-estensivo, che deriva per "attualizzazione" dal tipo virtuale-intensivo. Ecco perché l'invocazione di una o più molteplicità senza altra specificazione rinvia sempre in D eleuze al tipo virtuale-intensivo, che solo realizza l'unità immediata del molteplice, l'immanenza reciproca del molteplice e dell'uno. Da un lato, Deleuze resta profondamente fedele all'idea bergsoniana secondo cui il concreto è sempre un misto in cui il pensiero deve distinguere le due tendenze o i due tipi di molteplicità: da qui la serie delle grandi dualità, Chronos-Aion, spazio striato-spazio liscio, molare-molecolare, ecc. (leggere comparativamente B, 15-29 e MP, Iv, 92-93). E si vede che non si tratta di due mondi e neppure di due opzioni separate tra le quali l'esistenza dovrebbe scegliere; in generale, per D eleuze non ci sono che corpi, e eventi alla loro superficie, confondendosi lo spirito con le avventure "cristalline" del piano d'immanenza o del corpo senz'organi (FB-LS, 105); in nessun caso il virtuale trascende l'attuale o esiste fuori di esso, benchè lo abiti e lo oltrepassi. D'altro lato, Deleuze rimette costantemente in cantiere il concetto di molteplicità, conducendolo su sentieri estranei a Bergson. D el concetto iniziale, egli trattiene soprattutto un tratto significativo al quale dà una portata inedita: è ciò che" dividendosi cambia natura" (B, 36; DR, 382, 412; MP, piani 1, 2, 10, 14; IM, capp.1 -2). E' chiaro l'equivoco della tesi di un primato dell'Uno in Deleuze. 7

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Tale tesi è sostenuta da Alain Badiou, in un libro di cui si deve peraltro salutare la profondità di veduta e la cura per il confronto reale: Deleuze. LA clameur de l'ètre, H achette, Paris, 1997; tr.it. a cura di D.Tarizzo, Deleuze. Il clamore dell'essere, Einaudi, Torino, 2004. Sul fatto che il pluralismo ricusato da Deleuze sia quello dell'equivocità (p.30), non si può che essere d'accordo; tuttavia l'equivocità è precisamente per Deleuze uno pseudo-pluralismo, la garanzia più sicura della trascendenza dell'Uno in relazione al molteplice. Il nocciolo del problema è il seguente: per Deleuze, il pluralismo può pensarsi solo in ragione di un primato del rapporto che Badiou non può ammettere in quanto vuoto latore di un supplemento, il quale per D eleuze rasenterebbe il miracoloso trascendente, non la creazione (il malinteso raggiunge l'apice a p.105, quando il passato virtuale è confuso con un semplice passato vissuto - vedere anche a proposito Cris tallo di te m po). Pertan-

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In Differenza e ripetizione la molteplicità compare entro una teoria del problema o dell'Idea (295 e segg.); già sotto il nome di "perplicazione", Deleuze vi evoca delle transizioni non-gerarchiche, laterali, tra Idee di ogni genere, in conformità all"'anarchia coronata" dell'essere affermata nella sua univocità (302,446); tuttavia la descrizione logica della molteplicità vi conserva ancora qualcosa di statico. È in Millepiani che le conseguenze di tratto notevole sono più chiaramente enunciate: direttamente articolata all'idea di incontro, si comprende meglio in che senso ogni molteplicità è subito "molteplicità di molteplicità" (MP, I , 67 - la composizione del libro obbedisce d'altronde a questa logica). Parallelamente, il concetto di molteplicità fornisce la logica dei pezzi che compongono le macchine desideranti o i concatenamenti: "oggetti parziali" il cui prelievo non implica lo spezzettamento o la perdita di un tutto, come in Melanie Klein, dato che abbandonando il piano delle totalità costituite (gli oggetti del dato empirico, organizzato secondo le esigenze della rappresentazione) per raggiungere quello in cui si concatenano dei frammenti in qualche modo assoluti, senza orizzonte di totalizzazione, non si fa altro che seguire le condizioni dell'esperienza "reale". Non avendo né forma né individualità, questi frammenti di realtà qualunque concatenandosi danno luogo a delle individuazioni intensive (o "ecceità": MP, II, 183 e segg.): esse costituiscono, a titolo di "singolarità pre-individuali", le dimensioni intensive di una molteplicità (LS, 261; AE, 353, n°1 e 370). Da questo punto di vista, la logica delle molteplicità integra quella delle disgiunzioni inclusive, e i concetti di molteplicità e di singolarità si rivelano solidali. A questo punto, il lettore può avere la sgradevole sensazione di un ingolfamento concettuale, e persino di una neutralizzazione reciproca dei concetti: le dimensioni di una molteplicità sono esse stesse delle molteplicità, dunque singolarità = molteplicità, ecc. Tale sensazione si dissipa quando ci si ricorda che una molteplicità si compone di dimensioni che si inviluppano le une nelle altre, che ognuna riprende tutte le altre a un altro livello, secondo un elenco aperto che può aumentare di nuove dimensioni; mentre, dal canto suo, una singolarità non è mai isolabile, ma sempre" si prolunga fino ai dintorni di un altro", secondo il principio del primato degli accoppiamenti o delle relazioni. In tal modo la molteplicità si trasforma in "dividentesi", su un corpo senz'organi che non equivale mai a un "corpo proprio" (questo concetto suppone al contrario l'arresto del funzionamento primario delle macchine desideranti, e la distribuzione "sedentaria" di un organismo).

to Deleuze ha effettivamente bisogno di "un concetto rinnovato dell'uno" (p.11), ma come sintesi immediata - o disgiuntiva - del molteplice ("univocità dell'essere" non ha altro significato) . Ne consegue l'equazione: "pluralismo monismo" (MP, I , 42), che potrebbe essere espressa altrettanto bene: dif.lerenza interna = esteriorità delle relazioni: A tale riguardo, il concetto di "simulacro", applicato all'essente, è meno essenziale al deleuzianesimo che all'interpretazione offertane da Badiou: noi saremmo più inclini, dal canto nostro, a domandare perché Deleuze abbandona definitivamente tale concetto dopo Logica del senso. Vedere Univocità dell'essere.

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*** Un'altra difficoltà attende il lettore: l'equivoco apparente legato all'assunzione di due livelli di pre-individualità, in certi passi di Millepiani. La stessa parola "molteplicità" sembra designare sia una "complicazione" di dimensioni intensive (o singolarità), sia una "massa" o una "muta" estensiva d'elementi detti astratti. In realtà, i due aspetti si congiungono: la loro distinzione, estranea a Bergson, si basa su un'originale interpretazione della teoria spinoziana del corpo (MP, II, 172-183). Come per la disgiunzione inclusiva, il secondo aspetto permette di rendere giustizia a un materiale clinico travisato dalla psicoanalisi (MP, piano 2 in e:x:tenso: caso de "l'uomo dei lupi"). Le dimensioni vi conservano nondimeno il primato (MP, II, 159, 165), dato che è solo in funzione loro che la massa o la muta non si confonde più con un aggregato di individui già formati, con una molteplicità di tipo attual-estensivo. Questo passaggio-chiave di Millepiani è quello in cui i fenomeni del "divenir-animale" assumono tutta la loro importanza: qui si opera la transizione verso il "molecolare", definito come il regime dove unità qualsiasi acquistano determinazione solo raggruppate in masse secondo rapporti di velocità e di lentezza. Come testimoniano in modi diversi l'arte e il "delirio" psicotico, l'intensivo si apre un varco paradossale nella rappresentazione. D'ora in avanti, alla filosofia importa, in virtù dell'intimo rapporto che stringe il concetto allo spazio, d'assumere come compito di riversare l'intensivo nell'estensivo: qui s'afferma la stretta solidarietà tra "molecolare" e distribuzione nomade nella determinazione dello "spazio liscio" (MP, III, 123-124). Piano di immanenza (e caos)

* "Chiamiamo questo piano, che conosce soltanto le longitudini e le latitudini, le velocità e le ecceità, piano di consistenza o di composizione (in opposizione al piano d'organizzazione e di sviluppo). È necessariamente un piano d'immanenza e di univocità. Lo chiamiamo quindi piano di Natura, anche se la natura non ha nulla a che vedere con esso, poiché questo piano non fa alcuna differenza tra il naturale e l'artificiale. Benché cresca in dimensioni, non ha mai una dimensione supplementare a quello che sopra di esso accade. Proprio per questo è naturale e immanente." (MP, II, 192) "Il piano di immanenza non è un concetto, né pensato né pensabile, ma l'immagine che esso si dà di cosa significhi pensare, usare il pensiero, orientarsi nel pensiero ... " (CCF, 27) "Il piano d'immanenza è come un taglio del caos, e agisce come un setaccio. Il caos, in realtà, non è tanto caratterizzato dall'assenza di determinazioni quanto dalla velocità infinita con cui queste si profilano e svaniscono: non è un movimento dall'una all'altra, ma al contrario l'impossibilità di un rapporto tra due determinazioni, poiché l'una non appare senza che l'altra sia già scomparsa, e appare come evanescente quando l'altra sparisce come abbozzo. Il caos non è uno stato inerte o stazionario, non è un miscuglio casuale. Il caos rende caotica e scioglie nell'infinito ogni consistenza. Il problema della filosofia è di acquisire una consistenza, senza perdere l'infinito in

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cui il pensiero è immerso (il caos da questo punto di vista ha un'esistenza tanto mentale quanto fisica)." (CCF, 33) "L'immanenza non si riferisce a un Qualcosa come unità superiore a ogni cosa, né a un Soggetto come atto che opera la sintesi delle cose: solo quando l'immanenza non è altro che immanenza a sé si può parlare di un piano di immanenza. Il Piano di immanenza non è definito da un Soggetto o da un Oggetto capaci di contenerlo, non più di quanto il campo trascendentale sia definito dalla coscienza." (G. Deleuze, L 'immanence: une vie..., «Philosophie», 47, 1995, pp. 3-7, p. 4; tr. it. F. Polidori, L'immanenza: una vita... , «aut aut», 271-272, 1996, pp. 4-7, p. 5).

** Il caos

è ciò che, in un certo modo, viene primo (CCF, 211 e segg.): un incessante afflusso di puntualità d'ogni ordine, percettive, affettive, intellettuali, la cui unica caratteristica comune è d'essere aleatorie e non vincolate. Come sottolinea H ume, il regno del puro caso non può avere sullo spirito gran altro effetto che l'indifferenza ("La realtà profonda della mente è delirio, o, secondo altri punti di vista, che conducono alle medesime conclusioni, caso, indifferenza." ES, 14) Ogni vita è dunque in primo luogo sommersa da "dati" di ogni sorta. È bene precisare: oggi come non mai, visto che i media invitano quotidianamente ciascuno di noi a prendere interesse per dati sempre più numerosi e disparati, e a registrarli in vista dell'azione che essi potrebbero orientare, muoversi in modo adeguato in un mondo divenuto molto complesso richiede di essere informati. Questo regime d'informazione o di parola d'ordine, Deleuze lo analizza specialmente a partire dal cinema d'azione: qui una situazione è data, il personaggio inizia a assorbire i dati che la costituiscono per scoprire la reazione adeguata e giungere così a modificare la situazione stessa (IM, cap. 9; e MP, I, 1 33 e segg.). La vita come inarrestabile attivazione di schemi sensorio-motori è dunque il presupposto dell'informazione: i dati sono utili, li si sceglie e li si "elabora" secondo il proprio interesse vitale o il proprio uso; alla lettera, l'informazione è l'occorrenza messa in buona forma, la forma dell'uso che fa di essa un "datd' in senso stretto nel momento in cui viene catturata in un certo schema ed è riconosciuta utile in anticipo, anche se non si sa bene a cosa. Ma siccome questa profusione ingombrante di utilità putative ha in sé qualcosa di comicamente caotico, si può pensare che essa non contrapponga altro che uno schermo risibile, esso stesso contaminato da ciò che pretende di scongiurare, a ciò che Deleuze chiama il fallimento dei "clichés'', la rottura dei codici o degli schemi sensorio-motori che assicuravano il vincolo organico di uomo e mondo. L'Età moderna si caratterizza per una "decodificazione generalizzata "inerente alle società capitaliste, secondo L 'anti-Edipo; per un allentamento e perfino un venir meno dell'influenza che le forme precostituite di comprensione e di vita, di "trattamento" dei dati e di azione, esercitavano su di noi fino alla Seconda Guerra Mondiale, secondo L'immagine tempo. Questo fatto, non psicologico ma di civilizzazione, lascia senza difesa di fronte alla dismisura abituale dell' afflusso di dati a cui siamo consegnati, e l'uomo moderno è come preso da vertigine - fascinazione 57

o nausea. È questo, per approssimazione, il caos come lo concepisce D eleuze, come "fatto modernd', rivelatore di una situazione di diritto. Infatti non si era mai imposta con tanta evidenza e necessità l'esigenza di un diverso rapporto con il caos rispetto a quello che consiste nel proteggersene con codici e con schemi fissati. Così il pensiero, davanti all'aspetto nuovo e ciononostante indefinibile dei fatti, invoca contemporaneamente la rivelazione degli specifici legami che ci dicono in quale mondo entriamo, e, di fronte al crollo dei vecchi schemi interpretativi e informativi, una nuova forma di relazione o di decifrazione, diversa dalla totalizzazione interpretativa trascendente, che alleni a riconoscere sempre ciò che arriva invece di procurare i mezzi per inseguire il divenire (la risposta è in una definizione della clinica come valutazione di un divenire, slittamento da un'organizzazione di segni ad un'altra su una "superficie" - primo abbozzo del piano d'immanenza - che è precisamente quella del senso, Ll, 80; le due parti di Capitalismo e schizefrenia sono dedicate a questa impresa, in quanto elaborano il piano d'immanenza su cui in seguito può valutarsi lo spostamento da un regime sociale di "codificazione" a un regime di "assiomatizzazione"; o, secondo una valutazione più recente, lo spostamento dalla "società di disciplina" definita da Foucault alla "società di controllo", così definita dallo stesso Deleuze, P, 234-241) Ecco che non "reagiamo" più granché ai dati, che non abbiamo più fede nelle concatenazioni dell'abitudine o della tradizione che ci farebbero riconoscere nelle puntualità aleatorie della vita individuale e collettiva dei dati prolungabili in azione, e che - in mancanza di meglio - continuiamo a mantenere sotto una forma indebolita; si ritorna ad una sorta di indifferenza, di cui i cocci dei vecchi schemi mantengono il rifiuto, che si fa ogni giorno più dolorosa. Intuiamo chiaramente che c'è qualcosa d'importante da estrarre dal caos, ma ci ripugnano le forme consuete della sua assegnazione e indoviniamo che le condizioni di un discernimento immanente non sono esse stesse dati bensì i risultati di un gesto particolare. Insomma, ci manca un piano che tagli di nuovo il caos, ci mancano condizioni che ci permettano di connettere i dati e trovarvi un senso, nello stile di una problematica piuttosto che di una interpretazione. Il pensiero comincia effettuando un tale taglio del caos o instaurando un tale piano. Il piano d'immanenza è, dunque, tutt'altra cosa che una griglia interpretativa che tira fuori forme di pensiero bell'è che fatte, clichés con cui coprire il caos invece di affrontarlo: il piano non è soggiacente al dato, come una struttura che lo renderebbe intellegibile a partire da una "dimensione supplementare" rispetto a quelle che esso comporta. Di che natura è il piano? Esso presenta necessariamente due facce, essendo ognuna lo specchio dell'altra: piano del pensiero, piano della natura, dato che "il movimento non è immagine del pensiero senza essere anche materia dell'essere" (CCF, 28). Sotto l'angolatura "formale", come avrebbe detto Spinoza, l'atto consiste nel selezionare qualcuna delle determinazioni caotiche - quelle che noi chiamiamo più sopra occorrenze, puntualità o dati per così dire intrattabili - per conservarli come tanti "movimenti infiniti" piegati gli uni dentro gli altri, "infi-

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niti" che sta a significare: tolti da ogni coordinata spazio -temporale, ricondotti al loro puro senso esprimibile attraverso il verbo all'infinito. Le determinazioni trattenute sono quelle che il pensiero identifica come appartenenti a sé di diritto: così si opera una partizione tra fatto e diritto - partizione singolare e rimaneggiabile, non originaria, ci si tornerà più avanti - che libera un'immagine del pensiero, il cui correlato è uno o più personaggi concettuali che effettuano i propri movimenti costitutivi. Tali personaggi non si confondono né con l'autore né con gli interlocutori fittizi che egli può giungere a far dialogare, benché costoro a volte li incarnino: essi stessi prelevati dal caos (Giudice, Inquisitore, Idiota, Balbuziente, ecc.) sono altrettante posture che il pensatore assume mentre pensa. L'insieme piano-personaggi definisce il problema o i problemi che il pensatore si pone attraverso quel tentativo di soluzione che è la creazione dei concetti (CCF, cap. 3). Ciò dimostra quanto l'intuizione giochi un ruolo in filosofia, perlomeno " se si considera l'intuizione come l'avvolgimento dei movimenti infiniti del pensiero che percorrono senza sosta il piano d'immanenza" ( CCF, 30), non come accesso a realtà superiori, a essenze indipendenti dal pensiero. E' in tal senso, e solo in tal senso, che il pensatore ha visioni, che si confondono con il divenir-filosofia di certe determinazioni del mondo, con il gesto di orientare il pensiero senza punti di riferimento, d'inventare il proprio sistema d'orientamento (CCF, 27; P, 196): "Non sono al di fuori del linguaggio, ne sono il di fuori" (CC, 18). Quindi è in questo senso che i concetti della filosofia, i quali ricevono il proprio senso solo dal problema a cui si riallacciano, sono giudicabili in prima istanza dalla comprensione non- concettuale, che concerne tanto la non-filosofia - visto che essa fa intendere come la filosofia le si rivolga di diritto - quanto la filosofia, che avrebbe torto a bandire dal proprio lavoro la parte di sé che non filosofa. Si noterà che Deleuze chiama Ragione il momento puramente intuitivo del piano (CCF, 68). Non è solo una boutade o una provocazione, ma è per sottolineare che non si saprebbe concepire una ragione unica originaria: se c'è ragione, essa rientra pienamente nel campo di un'instaurazione, o piuttosto di atti multipli d'instaurazione, detti "processo di razionalizzazione" (PV, 13-15 e 24). Eternamente biforcante, essa non esiste al di fuori delle razionalità distinte che rinviano ognuna a un atto di fondazione necessariamente irrazionale, ma che ne testimoniano comunque una necessità di altro ordine: il pensiero che crede di possedere se stesso o che proietta tale ideale in un futuro indefinito non può che consegnarsi alla trascendenza, a credenze che oltrepassano il dato e che si sottraggono alla prova stessa del pensare (cfr. AE, 429, 436 e ID, 332-333: "La ragione è sempre una regione ritagliata nell'irrazionale ... "). Infine l'intuizione si accompagna al gusto di adattare i concetti creati al piano che li richiama. L'ultima conseguenza che si intuisce del piano d'immanenza è che non vi è verità se non creata (CCF, 17-18, 44; IT, 164). Di modo che, di nuovo, il criterio di verità, che interviene solo nel rapporto tra piano e concetto, tra problema e sua soluzione, si subordina a quello dell'interessante, dell'importante, del notevole (DR, 306; CCF, 74) - ciò che D eleuze definiva prima "sottoporre i problemi stessi alla

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prova del vero e del falso" (B, 9; DR 248-266). Non si confonda dunque la critica e la secondarietà deleuziana del concetto di verità con una supposta indifferenza di Deleuze per la questione della verità (cfr. IT, capp. 5-6). Ma perché ci sono dei piani, piuttosto che un solo e unico piano che si potrebbe chiamare IL PIANO, e che ben pochi pensatori sembrano aver avvicinato (Spinoza e fuggevolmente Bergson - cfr. CCF, 38)? La risposta si può così schematizzare:1) se l'insieme dei dati o delle determinazioni è un caos è perché questi recano in sé immagini rivali del pensiero, tanto che il pensatore che le ritenesse tutte insieme subirebbe un tracollo psichico e il suo piano non si distinguerebbe dal caos; 2) viceversa, ogni selezione rischia in nome della coerenza e della quiete relativa di sfociare nell'identificazione del piano proprio al pensatore con un piano unico e universale che si sostituirebbe allora al caos, e riporterebbe sul trono la trascendenza, svilendo di conseguenza i propri concetti ad opinioni (cfr. l'opposizione distribuzione nomade - distribuzione sedentaria); 3) il pensatore scongiura tale ritorno della trascendenza e dell'opinione solo se traccia il suo piano in maniera da inviluppare quanto può IL P IANO d'immanenza, ossia l'impensabile capace sì di ricondurre al caos il pensiero che s'identificasse con esso ma la cui affermazione è non di meno necessaria per evitare l'altra identificazione, quella di creato e originario; 4) si devono dunque ritenere come determinazioni di diritto del pensiero quelle che lo rendono affetto da movimenti infiniti che esprimono l'avanzata per continuo ricominciamento e biforcazione, o l'insistere di un altro pensatore nel pensatore stesso (balbettamento, glossolalia, ricerca simile al cane che proceda per balzi disordinati, ecc.) (su tutto questo cfr. CCF, 39-40, 44, 48, 62, ecc.). Questo concetto di piano d'immanenza è il primo nell' "ordine della ragione"? La questione in apparenza si può porre dato che, concetto delle condizioni dell'esperienza, il piano d'immanenza nondimeno pare procedere dal caos. Togliamo di mezzo un equivoco: non ci può essere alcuna esperienza del caos, poiché questa si confonderebbe con il collasso di quel pensiero che si lasciasse afferrare da esso senza trovare schemi da opporgli, e senza avere l'intuizione di un piano che andasse a ritagliarlo e gli permettesse di prender consistenza entro un quadro clinico. Questo perché le puntualità da cui noi partiamo sono pienamente "date" solo se condizionate da schemi che le informano. Solo che i condizionamenti si rivelano troppo ampi in considerazione di ciò che essi condizionano: essi non "danno" alcunché se non sotto la forma del riconosciuto, del già conosciuto; essi non permettono più di parlare d'esperienza se non in un senso improprio. L'esperienza "reale" comincia con il taglio o l'instaurazione di un piano. Il caos, da allora, è piuttosto pensato che dato: è virtuale. Solo il piano d'immanenza ci consegna un dato puro, immediato, di cui il caos non offre se non l'abbozzo e la dissolvenza. E per virtuale non dobbiamo intendere uno stato che s'opporrebbe al reale o che dovrebbe, come il possibile, realizzarsi: al virtuale corrisponde l'attualizzazione (e il movimento inverso di cristallizzazione). Per di più, se l'esperienza reale inviluppa o implica il caos, è il reale, beninteso, che cessa di confon-

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dersi con una pura attualità e che comporta una parte di virtualità (B, 90 e segg.; DR, 336 e segg.). Questo perché divenire,. creare, pensare implicano sempre un dinamismo inverso a quello dell'attualizzazione: la cristallizzazione (C, 159-160).

*** Il dato puro è l'altro versante del piano d'immanenza: un'immagine del pensiero non emerge senza che siano nello stesso tempo offerte le condizioni sotto cui qualcosa c'è; una nuova forma di pensiero è una nuova maniera di considerare l'esperienza, o di pensare ciò che c'è. Si potrebbe dunque rievocare la storia discontinua del dato in filosofia, ma senza tuttavia che il pensiero mai raggiunga l'immanenza di un dato immediato, nemmeno con Husserl. Di tale dato puro, secondo Deleuze, solo due filosofi hanno prodotto il quadro, hanno enunciato la logica: Spinoza nell'Etica e Bergson nel primo capitolo di Materia e memoria (forse dobbiamo aggiungere: Deleuze e Guattari nel magistrale inizio di L'anti-Edipo). Ma non dicevamo che IL PIAN O non era enunciabile? Cosa significa allora che Spinoza abbia saputo "mostrare questa volta la possibilità dell'impossibile" (CCF, 49 - questo tema indica almeno che la conversione immanentista si realizza instaurando IL PIANO, credere alla terra come diceva Nietzsche, credere in questo mondo qui come lo dice a modo suo Deleuze)? Significa che avendo ritagliato il caos senza imporre il minimo taglio a priori alle proprie determinazioni, avendole poste in relazione senza avede inquadrate in forme preconcette e sottratte ali'esperienza, egli ha prodotto un piano d 'esperienza che implica la propria ridistribuzione potenziale all'infinito. Spinoza, in effetti, si concede solo il movimento. Essendo dato un campo di particolari materiali indeterminati, la percezione si staglia solo in funzione della loro variabile ripartizione in composti distinti, definiti da certi rapporti di riposo e di movimento, di velocità e di lentezza, ma sempre esposti a incontri, a migrazioni di sotto-composti, a composizioni di composizioni o ancora a decomposizioni ("longitudini"); dal canto suo, l'affettività si differenzia, si arricchisce, si ricompone in seguito ai divenire corrispondenti a tali incontri più o meno felici (aumenti-diminuzioni di una potenza d'agire anonima e ripartita sul piano, o "latitudini"). Oltre il movimento che solo lo costituisce, si noterà il carattere acentrato del piano: questi due tratti sono comuni alla descrizione del piano d'immanenza tratteggiata da Spinoza (SFP, cap.6; MP, II, 172176) e ulteriormente a quella che Deleuze disegnerà di Bergson (IM, cap. 4). Altrimenti si può comprendere poco il fatto che il concetto d' ecceità, che propone un modo d'individuazione immanente differente delle forme individuali organiche che tagliano a priori il campo empirico, si concatena all'esposizione spinozista (MP, II, 183 e segg.). La bestia-caccia-alle-cinque, un-cavallo-cadenella-strada: queste composizioni dove gli esseri non si stagliano più dallo sfondo né dall'atmosfera ma si compongono immediatamente, originariamente con loro, corrispondendo quasi già al concetto di immagine-movimento. Come dice Deleuze, lettore di Proust, noi non amiamo qualcuno separato dai paesaggi, dai momenti, dalle circostanze di varia natura che lo inviluppano. Poiché è così che noi siamo

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resi affetti o che l'affetto ci strappa ai ritornelli delle usuali affezioni, il percetto alle attese e alle ripartizioni spontanee della percezione ordinaria: raggiungendo il piano d'immanenza dove tutto non si compone sempre con tutto - dato che contiene anche la morte come decomposizione o ingestione - ma comunica con tutto su un medesimo piano detto anche d'univocità, indipendentemente dalle assegnazioni di forma, di specie e di organo (è così che un cavallo d a tiro, dal punto di vista del dato puro o dell'esperienza reale, è più vicino al bue che al cavallo da corsa: SFP, 153). Su tale piano l'incontro, la sperimentazione sono sempre possibili e non s'infrangono contro barriera alcuna; che poi siano felici è un'altra questione. Pertanto il personaggio concettuale che abita lo spinozismo è il fanciullo (MP, II, 175-176; CCF, 63). Ma seguiamo l'analogia, per ben realizzare come i due approcci convergano verso il medesimo concetto, ciascuno ponendo l'accento in modo differente. Ritorniamo al primo capitolo di Materia e memoria: il dato puro (indistinzione di immagine, movimento e materia) precede la coscienza che ho di me stesso e d'essere quell'Io che apre assolutamente il campo della percezione, che si sa situato in un punto dello spazio, ma che, non essendo lui-stesso nel suo campo, lo sposta con sé. Sarebbe un errore confondere il campo di percezione e il piano d'immanenza: se è vero che c'è qualcosa che precede ogni assegnazione di un soggetto mirante un oggetto, il piano dove si dispiega il dato non s'apre da nessun punto in particolare e non ha senso pretendere che esso cambi secondo l'angolo di visuale. Esso è là immediatamente, acentrato, fisso per così dire sebbene non fissi nulla, come le immagini cinematografiche che scorrono su uno schermo imperturbabile, anche se propongono allo spettatore delle prospettive mutevoli. Se c'è un soggetto, esso si costituisce nel dato, secondo il problema posto da Deleuze fin dal suo primo libro Empirismo e soggettività, nel 1953; e vi si costituisce in ciascuno dei suoi punti. Pertanto, dire del soggetto che percepisce e sperimenta che esso è "nelle adiacenze", non significa toglierlo di mezzo in quanto dato per reintrodurre in extremis l'Io trascendentale, al contrario è farlo circolare per tutti i punti del piano come per altrettanti casi dello stesso per dedurlo da tale serie di divenire (il Cogito deleuziano sarebbe qualcosa del tipo :"io sento che divengo altro, dunque ero, c'era dunque me!" - cfr. Ll, 272 e AE, 18-24). Se ritorniamo alla descrizione spinozista, si comprende subito come si possa trattare di un "piano fisso" (C, 98; MP, II, 173) e di "stati intensivi di una forza anonima" (SFP, 157). In effetti, non c'è bisogno di alcuna fusionalità o speciale empatia perché a ciascuno dei punti di tale piano di pura esperienza, che non apre ad alcun soggetto costituito, corrisponda un affetto: per esempio la distanza che separa il cavallo da corsa dal cavallo da tiro, dal punto di vista immanente di quello che possono, dei dinamismi o dei ritmi di cui sono capaci; di contro la vicinanza del cavallo da tiro e del bue - sono tutti oggetti immediati di un percetto e di un affetto sul piano d'immanenza. Infine se ci chiediamo in che senso questo piano di Natura o di univocità può valere come IL PIAN O d'immanenza di ogni pensiero, in che senso di conse-

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guenza Spinoza mostri "la possibilità d ell'impossibile", si comprende che al di là della "immagine dogmatica del pensiero" a cui la sua filosofia sembra esteriormente aderire (affinità naturale del pensiero e del vero, modello di una verità preesistente all'atto del pensare - cfr. DR, cap. III), il suo piano traccia l'immagine paradossale di un p ensiero senza immagine, di un pensiero che non sa in anticipo cosa significa pensare e che ritorna incessantemente all'atto che lo genera (taglio del caos) . Se si può dire che Spinoza ha mostrato IL PIANO è nella misura in cui il pensiero si riflette in questo "spazio liscio" unicamente occupato da movimenti ineguali, componibili e non, ricomponibili sempre in altro modo e li vive come altrettanti drammi di se stesso, saggi o allucinazioni di ciò che pensare può significare. Concludiamo con qualche riferimento. Il concetto di piano d'immanenza si sostituisce a quello di "campo trascendentale" proveniente dalla filosofia di Kant e da quella di H usserl (su questi due autori, cfr. Ll, serie 14 e 15 ;CCF, 36-37) . ''Piano" e non più "campo": perché non è p er un soggetto supposto fuoricampo, o al limite di un campo che si apre a partire da lui sul modello di un campo percettivo (cfr. l'Io trascendentale della fenomenologia - al contrario il soggetto si costituisce nel dato, o più esattamente sul piano); e inoltre perché tutto ciò che viene a occuparlo non cresce o non si connette se non lateralmente, sui bordi, non essendoci che scivolate, spostamenti, clinamen (LS, 13-14, 236237) , e perfino "clinica", non solo nel senso sopra definito di "scivolamento da un'organizzazione all'altra", ma nel senso di "formazione di una disgregazione, progressiva e creatrice" (che rinvia alla definizione deleuziana di p erversione - vedere Linea di fuga ). I movimenti sul piano si oppongono alla verticalità di una fondazione o alla rettilinearità di un progresso (è in Logica del senso che il campo trascendentale comincia ad essere pensato come un piano, anche se la parola non viene pronunciata: Ll,102; e la triade profondità-superficie-altezza - ossia mescolanze di corpi in interazione e compenetrazione, eventi e forme - sarà rigiocata o ripetuta differentemente in caos-piano-trascendenza o opinione in Che cos'è la filosofia?). ''D'immanenza" e non più "trascendentale" : perché il piano non precede ciò che viene ad affollarlo o a riempirlo, ma si costruisce e si modifica nell'esperienza, in modo tale che non ha più senso parlare di forme a p riori dell'esperienza, di una esperienza in generale, per tutti i luoghi e tutti i tempi (così come non ci si può più accontentare del concetto di uno spazio-tempo universale e invariabile). In altri termini, tali condizioni non sono "più ampie di ciò che condizionano", e pertanto la filosofia critica così radicalizzata esige di enunciare i principi di una vera genesi, non di un semplice condizionamento esterno indifferente alla natura di ciò che condiziona Oe epistemi o gli "a priori storici" di Foucault danno un'idea di tale esigenza, anche se i piani di pensiero in D eleuze si riferiscono piuttosto ad autori e a opere). Non si veda contraddizione nel fatto che Deleuze non rinunci del tutto a

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un discorso di tipo "trascendentale": il concetto necessariamente generale delle condizioni dell'esperienza reale (ossia sempre singolare, inseparabile da una produzione di novità) non si confonde con le supposte condizioni dell'esperienza in generale. Ma c'è innegabilmente una difficoltà da risolvere, una mutazione filosofica da compiere, dal momento che si tratta di pensare il concetto di qualcosa che non è mai dato di colpo né per sempre, che non si dà neanche progressivamente, pezzo per pezzo, ma che si differenzia o si ridistribuisce, che esiste solo nelle sue proprie variazioni (cfr. l'opposizione di "una volta per tutte" e di "per tutte le volte", DR, 157-158, 189; LS, 59-60). Sin dal suo primo articolo "La concezione della differenza in Bergson", del 1956, Deleuze difende la causa di un nuovo tipo di concetto, che trova un abbozzo in Nietzsche (Volontà di Potenza) e in Bergson (Durata, Memoria): un concetto che obbedisca alla logica della differenza interna, ossia per cui l'oggetto "non si divide senza cambiare natura" in ogni momento della sua divisione, ma differisca con sé ad ogni affermazione di sé (vedere Empirismo trascendentale). Così si ottiene il concetto di condizioni dell'esperienza che si differenziano attraverso l'esperienza, pur senza confondersi con essa e senza raggiungere l'empirico confondendo diritto e fatto. Un tale concetto non esprime più niente di universale: attraverso di esso Deleuze parla a volte di piano d'immanenza in generale, a volte di piano instaurato da questa o quella filosofia. Sono proprio le variazioni di un solo e medesimo piano, una volta detto che "un solo e medesimo piano" non esprime più nulla di permanente o di identico a sé (Logica del senso lavora in modo particolare su questa nozione di "un solo e medesimo" nel senso di ciò che non esiste se non differendo da sé; la nozione di "comune" subisce una sorte parallela - vedere Univocità dell'essere). Si costaterà infine che l'uso deleuziano della parola "immanenza" non deriva da Husserl, benché emerga nel quadro di una domanda critica e non metafisica: Deleuze trae da Spinoza lo strumento di una radicalizzazione anti-fenomenologica della filosofia critica per un'operazione che ha analogie con il post-kantismo, di cui Deleuze riconosce più volte l'importanza. L 'immanenza, in effetti, diviene "pura", o "a sé", in luogo di quella immanenza alla coscienza che Husserl faceva proprio criterio di metodo (quando Deleuze ripete l'operazione una seconda volta interpretando il primo capitolo di Materia e memoria, è per alterare la celebre formula dell'intenzionalità: ogni coscienza è qualche cosa, e non coscienza di qualche cosa - cfr. IM, cap. 4). Oltrepassa il diritto dell'interprete fare della logica dei modi finiti della sostanza spinoziana l'enunciato di un piano d'esperienza? No, se si tien conto 1) delle ragioni per considerare che il concetto di sostanza unica, nella prima parte dell'Etica, si ottiene sotto l'esigenza dell'immanenza e non l'inverso, ossia a partire da "attributi" che sono l'estensione e il pensiero (da un canto, essi non hanno alcun fuori, dall'altro non si distinguono ontologicamente, essendo espressione di una stessa e medesima realtà), 2) del drastico cambiamento di tono che dà luogo al brusco inserimento della teoria dei corpi nel percorso deduttivo della seconda parte (il passaggio si trova dopo lo scolio della proposizione 13). 3) della portata espres-

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samente etica di tale teoria (cfr. IV, prop. 39 e dimostr.) "occorreva che l'autore dicesse effettivamente tutto ciò che gli facevo dire" (P, 15) : sotto l'apparenza di una battuta, può la storia della filosofia aspirare a massima più rigorosa e profonda (salvo prender congedo dalla filosofia)?

P roblem a

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"Se non si scorge che il senso o il problema è extra-proposizionale, che differisce essenzialmente da ogni proposizione, ci si lascia sfuggire l'essenziale, la genesi dell'atto di p ensare, l'uso delle facoltà." (DR, 255) " Ogni concetto rinvia a un problema, a problemi senza i quali non avrebbe senso e che non possono essere estrapolati o compresi se non nel corso della loro soluzione." (CCF, 6) " Ci si vuol far credere che i problemi siano dati già pronti, e che scompaiano nelle risposte o nella soluzione; ma sotto questo d uplice aspetto, essi ormai non possono più essere che fantasmi. Ci si vuol far credere che l'attività d el pensare, e anche il vero e il falso in rapporto a questa attività, non comincino che con la ricerca delle soluzioni, non riguardino che le soluzioni." (DR, 256) " L a vera libertà consiste in un potere di decisione e nella possibilità di costituire i p roblemi stessi." (B, 9)

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Non si trascuri l'importanza del concetto di problema in D eleuze così come la precisione che lui gli conferisce, al seguito e oltre Bergson. È comune, per lo meno in Francia, che i professori di filosofia esigano in primo luogo dai loro allievi una "problematica"; è raro, tuttavia, che provino a definirne lo statuto, cosicché la cosa si circonda di un'aura di mistero iniziatico che non manca di produrre comprensibili effetti d'intimidazione. Tutta la pedagogia di D eleuze consisteva in questa insistenza metodologica e deontologica sul ruolo dei problemi (ci si convince particolarmente di questo consultando le registrazioni o trascrizioni dei suoi corsi, oggi facilmente disponibili, cfr. bibliografia) : un enunciato, un concetto non hanno senso se non in fun z ione del p roblema al quale si rapportano.

Il problema filosofico, che deve essere enunciabile, non si confonde con l'ordinaria drammaturgia della dissertazione, la messa in contradditorio su un medesimo soggetto di tesi a prima vista ammissibili l'una quanto l'altra (poiché ciò che chiamiamo problema non sarebbe in tal caso altro che il calco artificiale delle risposte a una domanda caduta dal cielo) . Qual'è il senso che il problema conferisce ali'enunciazione concettuale? Non si tratta della significazione immediata delle proposizioni: queste si rapportano solo a dati (o a stati di cose), che mancano essi stessi precisamente di orientamento, di un principio discriminante, della problematica che permetterebbe loro di legarsi, ossia di fare senso. I problemi sono degli atti che aprono un orizzonte di senso, e che sottintendono la creazione dei concetti: un nuovo aspetto del domandare, che schiude una prospettiva inusuale su ciò che è più familiare o conferisce interesse a dati fino a quel momento ritenuti insignificanti. Certamente, ognuno è più o meno incline a riconoscere questo fatto: ma una cosa è ammetterlo, un'altra è trarne le conseguenze teoriche.

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Se il domandare è l'espressione del prob lema, la sua faccia direttamente enunciabile (anche se le domande restano a volte implicite in filosofia), nondimeno esso deriva da due costituenti anch'essi enunciabili, la cui enunciazione spetta al filosofo "ritrattista" o "storico" nel senso della storia naturale: tassonomista o clinico, esperto nella localizzazione e nella differenziazione dei regimi di segni (P, 66, 180; CCF, 44-45): da una parte, una nuova immagine del p ensiero, definita attraverso la selezione di alcuni "movimenti infiniti" (nuovo taglio nel caos, nuovo piano del pensiero); d'altra parte i p ersonaggi concettuali che l'effettuano (CCF, capp.2-3 e in particolare pp. 43, 65, 72-74) . Prima conseguenza: l'orizzonte di senso non è universale (vedere Pian o d'imman enza, U nivocità dell'essere) . Seconda conseguenza, o versante deontologico: discutere in filosofia, ossia opporre ad un autore delle obiezioni che necessariamente si comprendono solo dal punto di vista di un altro problema e su di un altro piano, non è che la parte frivola o vendicativa dell'attività intellettuale. Non che lo scambio vada proscritto e nemmeno che il pensiero sia autarchico - c'è in Deleuze tutto un tema della " solitudine affollata" - ma il dialogo ha interesse nelle modalità della collaborazione sconcertante, del tipo Deleuze e Guattari, oppure nelle modalità della libera conversazione , le cui ellissi, discontinuità e altri scontri possono ispirare la filosofia: C, prima parte; CCF, 18-19. Terza e ultima conseguenza: l'argomentazione, del tutto esigibile dal filosofo, resta subordinata al gesto fondamentale di porre un problema.

*** Questo atto di posizione è

la parte irriducibilmente intuitiva della filosofia, che non significa arbitraria né privata di rigore: semplicemente, la necessità risponde a altri criteri rispetto a quelli del razionalismo, ossia di un pensiero che si possederebbe pienamente; e il rigore risponde ad altre virtù rispetto a quelle dell'inferenza valida. Ancora una volta, quest'ultima deve essere l'oggetto di una preoccupazione secondaria, intendendo con questo subordinata e non facoltativa. Se essa fosse facoltativa, mal si capirebbe il carattere dimostrativo dell'enunciazione deleuziana, compresi gli aspetti allusivi e digressivi, sia nella forma polifonica, variegata e discontinua di Capitalismo e schizefrenia o laddove adotta una forma aspra e ellittica, come nei testi stesi negli ultimi anni (su l'allusivo e il digressivo come caratteri positivi dell'enunciazione filosofica, cfr. CCF, 14, 160-161) . Ma se la validità del ragionamento fosse il primo criterio, tutta la filosofia sarebbe catturata nella trappola di contraddizioni apparenti, ossia di paradossi insostenibili senza scorgervi senso e necessità. La filosofia è dunque a piacere, poiché fa lo stesso, irrazionale o fondatrice di razionalità eterogenee. Irrazionale: la parola non può fare paura, o giustificare degli amalgama spiacevoli, se non dal punto di vista di una nostalgia di razionalismo, ossia di un pensiero che non avrebbe percorso il circolo del fondamento e non si sarebbe convinto di avere la propria necessità solo in un fuori ossia in un incontro con ciò che obbliga a pensare (PS, 17, 90; DR, 227) . Un tale incontro ha per criterio il fatto che il pensiero si vede forzato a pensare ciò che pur non può ancora pensare, non pos-

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sedendo alcun schema pronto per riconoscerlo, né disponendo della forma che gli permetterebbe a priori di porlo come oggetto. A tale riguardo, la filosofia si rivela inseparabile non solo da una credenza propriamente immanente, ma anche da una parte di comprensione non-concettuale, che è anche il varco preciso attraverso il quale la filosofia può pretendere di rivolgersi a tutti (invece di accontentarsi di una vaga e generica pretesa che "tutti" la ricambino esigendo in cambio di giudicarla secondo i propri criteri). E senza dubbio la filosofia può ben darsi la forma universale dell'oggetto possibile: indosserà allora quello che si presenta come un abito troppo largo, che ne cancellerà la singolarità al posto di affrontarla. Questo perché il pensiero che pensa il suo proprio atto pensa contemporaneamente le condizioni dell"'esperienza reale", per rara che sia; ossia le condizioni di una trasformazione della condizione in misura di ciò che essa deve condizionare, in modo che non ci sia forma universale dell'oggetto possibile ma singolarità irriducibili, effrazioni di non riconoscibile alle quali risponde volta per volta, nel corso di una "sperimentazione a tentoni" ( CCF, 32), una ridistribuzione originale dei tratti che definiscono cosa significa pensare e inoltre una nuova posizione del problema. La posizione del problema non è giustificabile attraverso argomenti: essi sono sì indispensabili, ma logicamente interni al problema. Inoltre, se essi servono a dar prova di coerenza, a tracciare percorsi nel concetto o da un concetto all'altro, sarebbe illusorio separarli dall'atto di porre il problema: il fatto è che la consistenza garantita dagli argomenti proviene solo per via negativa dalle regole di validità logica che essi rispettano, così come la possibilità logica condiziona ciò che accade solo per difetto. E' evidente che se ci si contraddice non si parla: non c'è granché interesse a rilevarlo. In compenso, le condizioni di verità di una proposizione, la validità di un ragionamento, in altri termini il loro carattere infor-

mativo, non garantiscono affatto che essi abbiano senso o interesse alcuno, ossia che si pongano in relazione ad un problema. In altre parole il punto di vista della logica non preserva dalla stupidità, dalla caotica indifferenza di validi propositi che quotidianamente sollecitano lo spirito sotto forma di "informazioni": la filosofia non può accontentarsi del criterio di consistenza dei logici (sulla questione della stupidità come fondamentale stato negativo del pensiero, più che l'errore, cfr. NF, 151 e segg.; DR, 240 e segg., 258, 439; P, 173). In positivo si definirà dunque la consistenza per l'inseparabilità dai componenti concettuali di natura strettamente evenemenziale, rinviante all'atto di posizione del problema di cui essa manifesta le motivazioni, e che un punto di vista strettamente formale è del tutto incapace a fondare, al di là che intenda davvero farlo (CCF, 10, 140-141). Non c'è insomma vera differenza tra concettualizzare e argomentare: si tratta della stessa operazione che precisa e risolve un problema. Non c'è posto, in filosofia, per un'autonoma problematica dell'argomentazione. Il lettore può allora iniziare a comprendere per quale ragione Deleuze può dire che "il concetto non è discorsivo" (o che il filosofo "non concatena delle proposizioni") benché "la filosofia proceda per frasi" (CCF, 12-15). In definiti-

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va si comprende il senso della posizione deleuziana: irrazionalismo, non i/logicismo: o ancora logica dell'irrazionale. "Irrazionale" rinvia sia all'incontro che genera il pensiero (a questo titolo è il correlato di ccnecessario"), sia al divenire, alle linee di fuga che ogni problema implica, in sé e nell'oggetto informe che si coglie attraverso di lui. "Logico" si rapporta alla coerenza del sistema di segni o di sintomi -di concetti, all'occorrenza - che la filosofia inventa per rispondere a questa sfida.

Ritornello (differenza e ripetizione)

* " Il ritornello va verso il concatenamento territoriale, vi s'insedia o ne esce. In senso lato chiamiamo ritornello ogni insieme di materie d'espressione che traccia un territorio e che si sviluppa in motivi territoriali, in paesaggi territoriali (vi sono ritornelli motori, gestuali, ottici, ecc.). In senso stretto parliamo di ritornello quando il concatenamento è sonoro o 'dominato' dal suono - ma perché questo apparente privilegio?" (MP, III, 24) " Il grande ritornello si leva a mano a mano che ci si allontana dalla casa, anche se lo scopo è quello di farvi ritorno, poiché nessuno ci riconoscerà quando saremo tornati." (CCF, 198)

** Il ritornello si definisce per la stretta coesistenza o contemporaneità di tre dinamiche l'una implicata nell'altra. Esso forma un completo sistema di desiderio, una logica dell'esistenza ("logica estrema e senza razionalità"). Si espone in due triadi un po' differenti. Prima triade: 1. Cercare di raggiungere il territorio per scongiurare il caos, 2. Tracciare e abitare il territorio che filtra il caos, 3. Slanciarsi fuori dal territorio o deterritorializzarsi verso un cosmo che si distingua dal caos (MP, II, 243-244 e sez.III, 5-7; P, 195). Seconda triade: 1. Cercare un territorio, 2. Partire o deterritorializzarsi, 3. Ritornare o riterritorializzarsi ( CCF, 57-58). Lo sfasamento tra queste due rappresentazioni sta alla bipolarità del rapporto terra-territorio, alle due direzioni - trascendentale e immanente - attraverso le quali la terra esercita la sua funzione deterritorializzante. Poiché la terra vale sia come intimo focolare verso il quale il territorio naturalmente s'incurva, ma che, colto come tale, tende a respingere quest'ultimo all'infinito (tale è il Natale, sempre perduto: MP, III, 5, 29, 49 e segg. - si pensi al polo catatonico del corpo pieno che respinge ogni organo, nell'_Anti-Edpo); sia come quello spazio liscio che presuppone e inviluppa tutti i limes, e che di diritto costituisce l'apertura, l'irriducibile destabilizzazione del territorio, anche del più chiuso (CCF, 186-187 per esempio - si noti qui una certa fluttuazione dell'enunciato "terra deterritorializzata" dal momento che ora lo è di diritto, a titolo di "caosmo", ora lo è sotto l'effetto del suo rapporto con il cosmo, così come in MP, III, 59-60). Il ritornello merita due volte il suo nome: prima di tutto come traccia che ritorna su sé, si riprende, si ripete; inoltre, come circolarità di tre dinamiche (cercarsi un territorio = cercare di raggiungerlo). Così ogni cominciamento è già un ritorno, ma questo implica

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sempre uno scarto, una differenza: la :rite:rritorializzazione, correlato della deterritorializzazione, non è mai un ritorno al medesimo. Non vi è arrivo, non vi è mai un ritorno, ma il ritornare si pensa in un rapporto dritto-rovescio, recto-verso con il partire, ed è nello stesso tempo che si parte e che si torna. Di conseguenza si danno due modi distinti di partire-tornare e d'infinitizzare questa coppia: l'errare dell'esilio e il richiamo del profondo, oppure il dislocamento nomade e il richiamo del fuori (Il Natale non è che un fuori ambiguo: MP, III, 29). Sono due forme di scarto da sé: il dissidio del sé a cui non si cessa di rivolgersi come ad un estraneo dato che è perduto (rapporto dell'Esule al Natale incluso nel 2° tempo della prima triade) ; lo sradicamento da sé a cui si torna solo da straniero, irriconoscibile o divenuto impercettibile (rapporto del Nomade al Cosmo, 3° tempo della seconda triade) . Non vi è dunque né incompatibilità né evoluzione tra le due triadi: solo una differenza d'accento. La posta in gioco è il senso esistenziale del ritorno come problema (la parola ritornello evoca alla maniera di una parola-baule l'Eterno Ritorno): che fa il tracciato che, ritornando su sé, differenzia un interno e un esterno (instaurazione del territorio) ? S'inabissa nel folle vortice intorno all'origine, di cui secerne il simulacro (Natale)? Oppure così facendo ripete il fuori che inviluppa e cavalca sempre distinguendosene (il limite è nello stesso tempo un vaglio)? In questa tensione logica si vede in che cosa il tracciato, l'impronta, il segno del territorio si confondano con il :ritornello. I due sensi del ritorno compongono il piccolo" e il "grande" ritornello: territoriale o fermo su di sé, cosmico o trascinato su una linea di fuga semiotica; ed è in rapporto ai due stati del ritornello, piccolo e grande, che la musica (MP, II, 247; sez.III, 66-67: "deterritorializzare il ritornello"), e l'arte in generale (CCF, 191-193 ) divengono pensabili. Infine se il concetto ne risulta così, è, per quanto passi e ripassi attraverso tutte le singolarità che lo compongono (CCF, 9-11), in funzione di una terra a volte natale-immutabile (è allora a p riori, innato, o ancora oggetto di reminiscenza), a volte nuova- a venire (allora è costruito su un piano d'immanenza: quando la filosofia traccia il proprio territorio sulla deterrito:rializzazione stessa)

(CCF, 32, 58, 80-81).

Rizoma

* "Sottrarre l'unico dalla molteplicità da costituire; scrivere in n-1. Questo sistema potrebbe essere chiamato rizoma." (MP, I , 19) "[... ]a differenza degli alberi o delle loro radici, il rizoma connette un punto qualunque con un altro punto qualunque e ognuno dei suoi tratti non rinvia necessariamente a tratti della stessa natura, mette in gioco regimi di segni molto differenti e anche stati di non-segni. Il :rizoma non si lascia riportare né all'U no né al molteplice. [...] N on è fatto di unità, ma di dimensioni o piuttosto di direzioni in movimento. Non ha inizio né fine, ma sempre un mezzo, per cui cresce e straripa. Costituisce molteplicità[ ... ] (MP, I, 42) .

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** Tale concetto, senza dubbio il più celebre di D eleuze e Guattari, non è sempre compreso bene. Costituisce, da solo, un manifesto: una nuova immagine del pensiero destinata a combattere il secolare privilegio dell'albero che configura l'atto di pensare e, di rimando, configura anche noi (l'introduzione di M illepiani, intitolata "Rizoma", fu pubblicata separatamente qualche anno prima del libro; la nozione appare per la prima volta nel Kqfka). È evidente che "molta gente h a un albero piantato nella testa" (MP, I , 34) : sia che si tratti di cercarsi delle radici o degli antenati, di porre la chiave di un'intera esistenza nell'infanzia più remota, o ancora di consacrare il pensiero al culto dell'origine, della nascita, del rendersi manifesto in generale. Genealogisti tradizionali, psicoanalisti e fenomenologi non sono amici del rizoma. Inoltre, il modello arborescente sottomette il pensiero, almeno idealmente, ad una progressione dal principio alle conseguenze a volte conducendola dal generale al particolare, a volte cercando di fandarla, di ancorarla per sempre su di un terreno di verità (le stesse applicazioni multimediali dei nostri giorni fanno fatica ad instaurare una navigazione trasversale, e si limitano spesso a un andirivieni tra un sommario e delle rubriche senza ulteriore sbocco) . Questa critica, secondo Deleuze, non esclude affatto il mantenimento della distinzione di fatto e di diritto, derivata dalla questione critica o trascendentale. Occorre qui raddoppiare l'attenzione: se l'empirismo trascendentale consiste nel pensare delle "condizioni più ampie del condizionato", va da sé l'assimilazione del diritto all'originario e del fatto al derivato. Ma la cosa può essere altrimenti formulata: l'origine, essa stessa affetta dalla differenza e dal molteplice, perde il suo carattere di a priori inglobante mentre il molteplice si sottrae all'impresa dell'Uno (n-1) e diventa oggetto di una sintesi immediata, detta "molteplicità"; essa designa ormai ciò che è primo nell'esperienza "reale" (che non si dà mai "in generale" o semplicemente come "possibile"), in opposizione al concetto di rap-

presentazione. Il rizoma dice in un sol tempo: nessun punto d'origine o di principio primo che domini tutto il pensiero; nessun avanzamento significativo che non si faccia per biforcazione, incontro imprevedibile, nuova valutazione dell'insieme da un angolo inedito (ciò distingue il rizoma da una semplice comunicazione in rete - "comunicare" non ha più lo stesso senso, vedere " U nivocità dell'essere"); basta con alcun principio d'ordine o di entrata privilegiata nel percorso di una molteplicità (per questi due ultimi punti vedere "Com plicazi on e" e la definizione qui sopra indicata: il rizoma " non è fatto di unità ma di dimensioni"). Il rizoma è dunque un anti-metodo, che ha l'aria di autorizzare tutto - e in effetti l'autorizza, che tale è il suo rigore, di cui gli autori, sotto il nome di "sobrietà", sottolineano volentieri il carattere ascetico all'attenzione di discepoli precipitosi ( MP, I, 19, 170; sez.II, 213, III, 58-59). Non giudicare in anticipo quale via sia buona per il pensiero, rimettersi alla sperimentazione, erigere la benevolenza a principio, considerare infine il metodo come un baluardo insufficiente contro il pregiudizio dal momento che esso ne conserva la forma (verità prime): una nuova definizione di "fondato" in filosofia, contro il burocraticismo puritano dello spirito accademico e il suo frivolo "professionalismo". Questa nuova vigilanza 70

filosofica è del resto uno dei sensi della formula: "condizioni non più ampie del condizionato" (l'altro senso è che la condizione muta con l'esperienza). Il minimo che si possa di:re è che non è facile attenervisi: sotto questo :rapporto, il rizoma è il metodo dell'anti-metodo, e i suoi "principi" costitutivi sono altrettante regole di prudenza nei confronti di ogni vestigia e di ogni re-introduzione dell'albero e dell'Uno nel pensiero (MP, I, 19-34) .

*** Il pensiero

si rimette alla sperimentazione. Questa decisione comporta almeno tre corollari: 1) pensare non è :rappresentare (non si cerca un'adeguazione con una supposta realtà oggettiva, ma un effetto reale che rilancia vita e pensiero, disloca i loro giochi, li rilancia più lontano e altrove); 2) non c'è reale cominciamento che nel centro. Là dove la parola "genesi" ritrova in pieno il suo valore etimologico di "divenire", senza relazione ad un'origine; 3) se ogni incontro è " possibile" nel senso che non c'è :ragione di squalificare a priori un certo percorso piuttosto che un altro, non per questo ogni incontro è qualificato per l'esperienza (certi montaggi, certi tagli non producono e non cambiano niente) . Approfondiamo quest'ultimo punto. Non si fraintenda il gioco apparentemente gratuito a cui si richiama il metodo del rizoma, come si trattasse di praticare ciecamente non si sa quale collage per ottenere arte o filosofia, o come se ogni differenza fosse a priori feconda, secondo una diffusa dox a. Di certo, chi si aspetta di pensare deve accettare una parte di brancolamento cieco e senza appiglio, una "avventura dell'involontario" (PS, 88-91); e malgrado l'apparenza o il discorso dei nostri maestri, questo tatto è l'attitudine meno condivisa, in quanto soffriamo di troppa coscienza e di troppo controllo - noi non concediamo granché al rizoma. La vigilanza del pensiero non vi resta meno richiesta, ma lo è al cuore stesso della sperimentazione: al di là delle regole sop:ra menzionate, essa consiste nel discernere lo sterile (buchi neri, impasses) dal fecondo (linee di fuga) . È qui che il pensiero conquista al medesimo tempo la sua necessità e la sua effettività riconoscendo i segni che ci costringono a pensare in quanto inviluppano ciò che non pensiamo anco:ra. Perciò Deleuze e Guattari possono dire che il rizoma è affare di cartografia (MP, I, 27-30), ossia di clinica o di valutazione immanente. Indubbiamente accade che il rizoma sia scimmiottato, rappresentato e non prodotto, e serva da alibi per assemblaggi senza effetto o per fastidiose logorree: perché si crede che basti che due cose non abbiano alcun :rapporto tra loro perché ci sia interesse a collegarle. Ma il rizoma è così benevolente quanto selettivo: ha la crudeltà del reale e non germoglia che là dove determinati effetti hanno luogo.

Singolarità pre-individuali

* "Non possiamo accettare l'alternativa che compromette a un tempo la psicologia, la cosmologia e la teologia intere: o singolarità già prese in individui e in persone o l'abisso indifferenziato. Quando si apre il mondo brulicante delle

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singolarità anonime e nomadi, impersonali, preindividuali, sfioriamo il campo del trascendentale.'' (Ll, 96) ** L'elaborazione del concetto di singolarità procede da una radicalizzazione dell'interrogazione critica o trascendentale: l'individuo non è primo nell'ordine del senso, deve venir generato nel pensiero (problema dell'individuazione); il senso è lo spazio della distribuzione nomade, non esiste una originaria partizione delle significazioni (problema della produzione di senso). In effetti, benché aprima vista appaia come la realtà ultima sia del linguaggio che della rappresentazione in generale, l'individuo presuppone la messa in convergenza di un certo numero di singolarità, che determina una condizione di chiusura sotto cui si definisce una identità: trattenere alcuni predicati implica l'esclusione di altri. Tra le condizioni della rappresentazione, le singolarità sono dunque immediatamente dei predicati, attribuibili a dei soggetti. Ora il senso è per se stesso indifferente alla predicazione ("verdeggiare" è come tale un evento prima di diventare la possibile proprietà di una cosa, l"'essere-verde"); di conseguenza esso comunica di diritto con ogni altro evento, indipendentemente dalla regola di convergenza che lo attribuisce a un soggetto eventuale. Il piano ove si produce il senso è così affollato di singolarità "nomadi", allo stesso tempo non attribuibili e non gerarchiche, e che costituiscono dei puri eventi (Ll, 51-53, 100, 104). Tali singolarità hanno tra loro rapporti di divergenza o di disgiunzione, certo non di convergenza visto che questa implica già il principio di esclusione che governa l'individualità: esse comunicano dunque attraverso le loro differenze e le loro distanze, e il gioco libero del senso e della sua produzione risiede precisamente nel percorso di tali molteplici distanze o "sintesi disgiuntiva" (Ll,153-156). Gli individui che noi siamo, derivanti da tale campo nomadico d'individuazione che conosce solo accoppiamenti e disparità, campo trascendentale perfettamente impersonale e incosciente, non riprendono il gioco del senso senza mettere alla prova la mobilità delle loro frontiere (DR, 407,412). A questo livello, ogni cosa è solo una singolarità che: "si apre all'infinito dei predicati attraverso i quali passa, nello stesso tempo che perde il suo centro, cioè la sua identità come concetto o come io."(Ll, 155, 261).

*** Le

singolarità preindividuali sono dunque sempre relative a una molteplicità. Pertanto si direbbe che Deleuze esita tra due possibili trattazioni. A volte le singolarità designano le "dimensioni" intensive di una molteplicità (LS, 261; AE, 353, nota n°1, 370) e a tale titolo possono essere chiamate altrettanto bene "intensità", "affetti", oppure "ecceità": allora la loro distribuzione corrisponde alla carta affettiva di un concatenamento (MP, II, 88-89; CC, 85), o ancora alla modulazione continua di un materiale (MP, III, 103-105, 161 -167). Altre volte esse si distribuiscono a livello di ciascuna dimensione, e si ridistribuiscono da una dimensione all'altra: tali sono i "punti brillanti" o notevoli a ogni grado del cono bergsoniano della memoria (B, 56, 94-95), i "punti sui dadi" di ogni lancio della distribuzione nomade (DR, 318-320; Ll, 59-60), i "punti sin-

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golari" la cui ripartizione determina le condizioni di risoluzione nella teoria delle equazioni differenziali (DR, 286-288; Ll, 54-55), ecc. Tuttavia non è sicuro che queste due trattazioni non convergano. Si noti come Deleuze passi facilmente da una singolarità a delle singolarità, come se ogni singolarità fosse di già plurale (Ll, 53,261): il fatto è che le singolarità che compongono una molteplicità "penetrano le une nelle altre attraverso un'infinità di gradi", essendo ogni dimensione come un punto di vista su tutti gli altri, che le distribuisce tutte al proprio livello. Tale è la legge del "senso come singolarità pre-individuale, intensità che ritorna su se stessa attraverso tutte le altre" (Ll, 262 - logica della sintesi disgiuntiva). Questa "complicazione" che è solo di diritto, chiede di effettuarsi: così si dà redistribuzione, colpo di dadi creatore, solo se la "ripresa delle singolarità le une nelle altre" si esercita a condizione di un incontro di "problemi" distinti (DR, 323-324) o di serie eterogenee (Ll, 54). Da qui deriva una teoria dell'apprendimento (DR, 44, 31 O), e di ciò che significa "avere un'idea" (DR, 295-322 - testo estremamente difficile ma la cui comprensione è decisiva) . Si è proprio sulla via di ciò che Millepiani esplorerà sotto il nome di "molteplicità di molteplicità" (teoria dei "divenire").

Sintesi disgiuntiva (o disgiunzione inclusiva)

* " Tutta la questione è di sapere a quali condizioni la disgiunzione è una vera sintesi e non un procedimento di analisi che si accontenta di escludere predicati di una cosa in virtù dell'identità del suo concetto (uso negativo, limitativo o esclusivo della disgiunzione). La risposta è data nella misura in cui la divergenza o il decentramento, determinati dalla disgiunzione, diventano oggetti di affermazione

in quanto tali." (Ll, 155) "La disgiunzione è stata inclusa, tutto si divide, ma in se stesso." (E, 11)

** 1) Si intende comunemente per disgiunzione inclusiva un insieme tale che, date due proposizioni, almeno una delle due è (per esempio "è bel tempo oppure fa freddo"): "inclusiva" non ha senso positivo e significa solamente che la disgiunzione inviluppa una congiunzione possibile. Non c'è esclusione, ma si vede che le due proposizioni cessano di escludersi proprio nel punto stesso in cui la loro disgiunzione si cancella. Di conseguenza, in senso stretto, ogni disgiunzione è esclusiva: una non-relazione ove ciascun termine è la negazione dell'altro. Con Deleuze la nozione assume tutt'altro senso: il non-rapporto diviene un rapporto, la disgiunzione una relazione. Non era già l'originalità della dialettica hegeliana? Ma quella contava paradossalmente sulla negazione per affermare la disgiunzione come tale, e non poteva farlo che per la mediazione del tutto, elevando la negazione a contraddizione (B è tutto ciò che non è A: DR, 80); si dava dunque sintesi disgiuntiva, persino innalzata all'infinito, solo nell'orizzonte della sua risoluzione o "riconciliazione" che distribuisce ogni termine al proprio posto.

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In realtà, gli stessi contrari o termini relativi (vita-morte, genitore-figlio, uomo-donna) non son destinati ad una relazione dialettica: "inclusiva, la disgiunzione non si chiude sui suoi termini, ma è al contrario illimitativa" (AE, 84 - pagina essenziale; e l'illustrazione di questa formula attraverso la teoria degli n sessi, 334 e segg.); essa fa passare ogni termine nell'altro seguendo un ordine d'implicazione reciproca asimmetrica che non si risolve né in equivalenza né in identità di ordine superiore. Una meditazione del prospettivismo nietzscheano offre consistenza positiva alla disgiunzione: distanza tra p unti di vista, insieme inscindibile e inuguale a sé in quanto il tragitto non è il medesimo nei due sensi ( secondo un celebre esempio nietzscheano, il punto di vista della salute sulla malattia differisce dal punto di vista della malattia sulla salute - Ll, 154-155; AE, 83-84) . 2) Perché Deleuze ne conclude che "tutto si divide ma in se-stesso" (-AE, 15, 84; E, 11; CC, 144)? Qui il nome "disgiunzione inclusivd ' assume un senso positivo. Si considerino le coppie vita-morte, genitore-bambino, uomo-donna: i termini vi hanno solo relazione differenziale, la relazione è prioritaria, lei distribuisce i termini entro i quali si stabilisce. Di conseguenza il cimento del senso sta nel doppio percorso della distanza che li collega: non c'è uomo senza divenir-donna, ecc.; dove la psicoanalisi vede una malattia, c'è invece la vivente avventura del senso o del desiderio sul "corpo senz'organi", la salute superiore del bambino, dell'isterica, dello schizofrenico (AE, 82 e segg.). Ogni volta, i termini in presenza sono altrettanti punti di vista o casi di soluzione in rapporto al "problema" dal quale derivano (condizione sociale, generazione, sesso) e che si descrive logicamente come differenza interna, o istanza di "ciò che si differenzia in sé" ("La concezione della differenza in Bergson", ID, 33 e segg.; N F, 86; B, 97; LS, 230). Si obietta che gli esempi dati sono equivoci in quanto i termini vi sono da subito in rapporto di presupposizione reciproca? Si prendano allora le sintesi disgiuntive dell'anoressica: esse formano una serie aperta (parlare-mangiare-defecare-respirare) che definisce un problema intorno alla bocca come organo, al di là della funzione assegnatale dall'organismo (AE, 3, 41, in particolare la disgiunzione inclusiva bocca-ano, 372) . Inoltre, la natura nel suo insieme, la molteplicità ramificata delle specie viventi, testimoniano una ripartizione o una libera comunicazione di problemi e di divisioni risolventi che rinviano in ultima istanza all'essere univoco come a LA differenza: "L'univocità dell'essere non vuol dire che vi è un solo e medesimo essere: al contrario gli essenti sono molteplici e differenti, sempre prodotti da una sintesi disgiuntiva, essi stessi disgiunti e divergenti, membra diguncta." (LS, 159-160 - e DR, 70-71) . Ciascun essere implica dunque di diritto tutti gli esseri, ciascun concetto si apre ad ogni predicato; infine il mondo, instabile o caotico, è "complicazione" (LS, 155 e 259-264) . 3) Dal punto di vista pratico, la sintesi disgiuntiva è sospensione, neutralizzazione, esaurimento della divisione sempre derivata cui natura e società ci sottomettono "stratificando" la realtà indivisibile dell'essere univoco o del corpo senz'organi: "Mentre 'l'oppure' pretende contrassegnare scelte decisive tra termi74

ni impermutabili (alternativa), il 'sia' designa il sistema di permutazioni possibili tra differenze che sono sempre lo stesso spostandosi, scivolando." (AE, 14 -cfr. anche E, 11-13). Questo gioco di permutazioni ha di certo un valore difensivo nei confronti della fissazione identitaria, e precisamente ai fini di preservare il divenire o il processo desiderante; lo stesso a cui tutto torna qui "si dice di ciò che differisce in sé", intendendo: di ciò che si divide in sé e non esiste al di fuori delle proprie divisioni (principio della disgiunzione inclusiva). Ora il processo consiste in un percorso d'intensità che, lungi dall'equivalersi, danno luogo a una valutazione immanente. La sintesi disgiuntiva si confonde dunque in ultima analisi con tale valutazione, e con l'Eterno ritorno nietzscheano interpretato come selettivo. Se si comprende come i modi d'esistenza che ritornano "una volta per tutte" non siano trattenuti, occorre prestare ascolto con la massima attenzione alla radicalità del modo che vi si oppone e che supera la prova - perché si mostra capace di ritornare per tutte le volte (LS, 264). Non si tratta di un'esistenza che cambia di modo, ma di un'esistenza il cui modo è di sospendere ogni modo: principio di un'etica nomade la cui formula è "divenire-tutti", "divenir-impercettibile" (MP, II, 212-214). Non si consideri diminuita o nemmeno contemplativa in senso banale tale esistenza, che consiste in definitiva nel farsi uguale al mondo per viverlo nella realtà delle sue intensità: al contrario essa implica la più intensa attività "macchinica", un'incessante costruzione di "concatenamenti" sotto la regola dell'involontario.

*** La sintesi disgiuntiva (o

disgiunzione inclusiva) è il principale operatore della filosofi.a di Deleuze, il concetto siglato da tutti. Poco importa che appaia un mostro agli occhi di coloro che chiamiamo logici: Deleuze, che definiva volentieri il proprio lavoro come l'elaborazione di una "logica", rimproverava alla disciplina istituzionalizzata sotto tale nome di ridurre abusivamente il campo del pensiero confinandolo all'esercizio puerile della ricognizione, giustificando per tale via il buon senso soddisfatto e ottuso ai cui occhi ogni esperienza che faccia vacillare i due principi di contraddizione e di terzo escluso è puro nulla, e vano è ogni tentativo di discernere che cosa sia. (CCF, cap.6). Il pensatore è in primo luogo un clinico, decifratore sensibile e paziente dei regimi di segni che l'esistenza produce, e attraverso i quali essa stessa si produce. La sua impresa è quella di costruire gli oggetti logici capaci di render conto di tale produzione conducendo così la questione critica al suo punto più alto di paradosso: là dove si ravvisano le condizioni che non sono "più ampie del condizionato " (questo programma conduce diritto al concetto di disgiunzione inclusiva). Deleuze protesta dunque con veemenza contro la confusione di irrazionalismo e illogicismo augurandosi "una nuova logica, pienamente logica, ma che non ci riconduca alla ragione", una "logica irrazionale", "una logica estrema e senza razionalità" (FB-LS, 154; CC, 109). L'irrazionalismo deleuziano non deve rimanere un'etichetta vaga, buona per tutti i malintesi e le malignità. Esso comporta almeno due aspetti forti, che in ogni modo compongono il programma di "empirismo trascendentale": confutazione

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del fondamento Qa necessità dei concetti va cercata dalla parte dell'involontario di un incontro), logica della sintesi disgiuntiva o disgiunzione inclusiva, o ancora della complicazione (i principi di contraddizione e di terzo escluso esercitano la loro giurisdizione solo su un dominio derivato). Taglio-flusso ( o sintesi passiva, o contemplazione)

* "Lungi dall'opporsi alla continuità, il taglio la condiziona, implica o definisce ciò che taglia come continuità ideale: Ogni macchina è infatti, come abbiam visto, macchina di macchina. La macchina non produce un taglio di flusso se non in quanto è innestata su un'altra macchina che si suppone produca il flusso. E quest'altra macchina è magari a sua volta in realtà taglio. Ma non lo è se non in rapporto con una terza macchina che produce idealmente, cioè relativamente, un flusso continuo infinito." (AE, 39)

** Flusso e taglio formano ne L'anti-Edipo un solo e medesimo concetto, tanto difficile quanto essenziale. Non rinviano a un dualismo ontologico o a una differenza di natura: il flusso non è solo intercettato da una macchina che lo taglia, è lui stesso emesso da una macchina. Non c'è che un solo termine ontologico, "macchina", ed è perché ogni macchina è "macchina di macchine" (A.E, 3). La regressione all'infinito è tradizionalmente il segno d'uno scacco del pensiero: Aristotele le oppone la necessità di un primo termine ("deve arrestarsi"), l'età classica l'assume subordinandola all'infinito in atto dal punto di vista di Dio. La regressività assume in Deleuze un valore positivo perché è il corollario della paradossale tesi immanentista secondo la quale primeva è la relazione e originario l'accoppiamento: divenuta oggetto d'affermazione, offre una garan-

zia metodologica contro il ritorno dell'illusione del fondamento (illusione d'una reale divisione dell'essere come referenza trascendente del pensiero). Non si dà in effetti un dato che non sia prodotto, il dato è sempre la differenza d'intensità scaturita da una accoppiamento chiamata dispars (DR 196-197, 357-358; AE, 370 MP, III, 104 e segg.). Anche i due termini della percezione, soggetto e oggetto, derivano da un accoppiamento che li distribuisce l'un e l'altro come reciprocamente presupponentesi: l'occhio, in tal senso, non è che pezzo di una macchina separata astrattamente dal suo correlato Quce). Husserl manca la vera definizione della sintesi passiva: essa infatti rinvia a tali accoppiamenti, a tali "contemplazioni" o "contrazioni" primarie (DR 136-143), o se l'accoppiamento è all'origine, questa necessariamente regredisce all'infinito, implicando una riabilitazione della regressione. Il concetto rinnovato di sintesi passiva passa in primo piano in L'anti-Edipo sotto il nome di "macchine desideranti", dove si concretizza il principio d'instabilità o di metamorfosi che lo inviluppa (AE, 29 - questo principio è chiamato "anarchia incoronata" negli sviluppi sull'univocità). Ciò significa che il dato non è mai costituito di flusso ma di un sistema taglio-flusso, altrimenti detto di macchine (AE, 4 - l'espressione "ontologia del flusso" attraverso la quale a volte si 76

riassume il sistema de L 'anti-Edipo, è un'invenzione della stampa polemica). *** Perché allora tale dualità del taglio e del flusso? 1) Il sistema taglio-flusso designa le "vere e proprie attività dell'inconscio" (far scorrere e tagliare, AE, 371), funzioni complementari costitutive di un accoppiamento, mentre gli "oggetti parziali", che non sono più come in Melanie Klein relativi a un tutto frantumato e perduto, ne sono i termini, "elementi ultimi dell'inconscio" (.A.E, 370) che si determinano reciprocamente nell'accoppiamento, l'uno come fonte o emittente di flusso, l'altro come organo ricevente. Non ci si stupirà dunque del paradosso: l'oggetto-fonte preleva dal flusso che emette. L'oggetto emette un flusso proprio per l'oggetto capace di tagliarlo (da qui il caso emblematico della macchina seno-bocca, lungo tutto L'anti-Edipo, principalmente AE, SO). A sua volta, l'oggetto-organo può essere colto come emettitore di flusso per un altro oggetto (cfr. l'esempio ricorrente della bocca, AE, 7, 39, ecc. e in particolare nel caso dell'anoressia, AE, 3, 372). L a relazione del flusso al taglio è sempre richiamata. 2) " Il desiderio fa scorrere, scorre e interrompe" (AE, 7): interrompere non è l'opposto di scorrere (fare sbarramento), ma è la condizione per cui qualcosa scorre; in altri termini, un flusso non scorre se non interrotto. Che significa allora "interrompere"? Precisamente il regime di scorrimento di un flusso, la sua erogazione, continua o segmentata, più o meno libera o strozzata. Anche queste immagini troppo dualiste sono insufficienti: un flusso sarà uniforme o al contrario imprevedibile e mutevole a seconda della modalità di interruzione - taglio che lo caratterizza. Il concetto di taglio è dunque differenziato: il codice ne è uno, la "schiza" ne è un altro. Qui sarebbe elementare controsenso ritenere il flusso schizofrenico, "che supera gli sbarramenti e i codici" e "sgorga irresistibile" (AE, 147-148) per un flusso che elude ogni taglio: significherebbe dimenticare il primato della macchina, e il nome stesso di schiza (atto di spezzare, biforcazione: AE, 84, 148). Al taglio del tipo codice, che procede per alternative o esclusioni, s'oppone la schiza come disgiunzione inclusiva, caratteristica del divenire o dell'incontro (Deleuze e Guattari non riducono la schizofrenia allo sprofondamento catatonico, ne estraggono il processo, libera produzione di desiderio). Millepiani, distinguendo tre tipi di "linee", rimaneggerà i concetti di taglio e di flusso (piani 8-9).

Univocità dell'essere

* "Difatti, l'essenziale dell'univocità non

è che l'Essere si dica in un solo e stesso senso, ma che si dica, in un solo e stesso senso, di tutte le sue differenze individuanti o modalità intrinseche."(DR, 65-66) " L'univocità dell'essere non vuol dire che vi è un unico e medesimo essere: al contrario gli essenti sono molteplici e differenti, sempre prodotti da una sintesi disgiuntiva, essi stessi disgiunti e divergenti, membra diguncta. L'univocità dell'essere significa che l'essere è Voce, che si

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dice in un solo e medesimo "senso" di tutto ciò di cui esso si dice."(Ll, 159-160) ** La rilevanza attribuita alla tesi medievale dell'univocità dell'essere è certo l'apporto più profondo di Deleuze alla storia della filosofia (SPE, cap.VI e XI; DR, 64-75; LS, 25° serie). Tale tesi, di cui la storia comprende tre tappe, Duns Scoto, Spinoza, Nietzsche, sovverte l'intera ontologia, H eidegger compreso; dispiegata nelle sue conseguenze, mette in causa perfino la pertinenza del nome d'essere. L'essenziale è che porta in sé l' qffermazione dell'immanenza. 1) L'univocità è la sintesi immediata del multiplo: l'uno non si dice più se non del multiplo, invece che quest'ultimo si subordini all'uno come genere superiore e comune capace d'inglobarlo. Ossia, l'uno non è altro che il differenziante delle differenze, differenza interna o sintesi disgiuntiva (Deleuze osserva che la sostanza unica di Spinoza conserva ancora qualche indipendenza in rapporto ai suoi modi, ovvero "occorrerebbe che la sostanza si dicesse dei modi, e soltanto dei modi", DR, 73, rovesciamento che si trova effettuato solo in Nietzsche, nel concetto di Eterno Ritorno; ma tornando a Spinoza per una seconda lettura, egli mostra come la teoria dei corpi rinvii tendenzialmente a una comprensione ben diversa della sostanza unica promuovendo un puro piano d'immanenza o corpo senz'organi: AE, 353, nota 1; MP, II, 10-12, 172 e segg.; SFP, cap.VI). La parola "differenziante", frequente sotto la penna di Deleuze, presenta tuttavia l'inconveniente di lasciare supporre un'istanza separata, ospitata nel cuore del mondo come direzione interna delle sue distribuzioni; eppure è chiaro che non designa nient'altro che il corrispondersi delle differenze o la rete molteplice e mutante delle loro "distanze" (la cosa, ricondotta al piano originario o "trascendentale" della sintesi disgiuntiva, esiste solo come singolarità o punto di vista inviluppante un'infinità di altri punti di vista) . 2) Il corollario di tale sintesi immediata del molteplice è la distribuzione di tutte le cose su di un medesimo e comune piano d'uguaglianza: "comune" qui non ha più il significato di una generica identità, ma di una comunicazione trasversale e senza gerarchie tra esseri che differiscono solamente. La misura (o la gerarchia) cambia anch'essa di senso: non è più la misura esterna degli esseri in relazione a un campione, ma la misura interna a ciascuno in rapporto ai suoi propri limiti ("il più piccolo diviene l'uguale del più grande non appena è separato da ciò che può", DR, 68; - derivando ulteriormente un concetto di "minoranza", MP, II, 230 e segg., una teoria del razzismo, MP, II, 49- 50, e una concezione dell'infanzia, per esempio CC, 174, "il neonato è combattimento"). Questa etica dell'essere-uguale e della potenza si trae da Spinoza ma meglio ancora da Nietzsche e dal suo Eterno Ritorno (DR, 74 e 467 fino alla fine) . In definitiva, " l'Essere univoco è nel contempo distribuzione nomade e anarchia incoronata" (DR, 68). Che senso ha conservare la nozione di unità, non fosse che nel modo non inglobante di una molteplicità (immanenza dell'uno al molteplice, sintesi immediata del molteplice)? Il fatto è che un pluralismo che non fosse nello stesso tempo un monismo condurrebbe a una deflagrazione di termini sparsi, indifferenti e trascendenti gli uni 78

agli altri: la differenza, il nuovo, il cambiamento evidenzierebbero un sorgere brado e miracoloso ( creazione ex nihilo - ma da dove verrebbe la potenza di tale nihiR E in che consisterebbe tale "venuta"?). A tale proposito, l'uno dell'univocità condiziona l'affermazione del molteplice nella sua irriducibilità (CCF, 203). Che tutto provenga dal mondo, anche il nuovo, senza che questo sia in alcun modo attinto dalpassato, è la lezione d'immanenza che viene alla luce dalla solidarietà dei concetti di univocità, di sintesi disgiuntiva e di virtuale, ben compresi.

*** L'affermazione dell'univocità dell'essere, la cui formula costante è

"ontologicamente uno, formalmente diversi"(SPE, 49; DR, 65, 477; LS, 59), sfocia nell'equazione "pluralismo = monismo" (MP, I, 42). Niente permette dunque di trarre la conclusione di un primato dell'uno. Questa tesi, sostenuta da Alain Badiou8, sembra che non soppesi a sufficienza l'enunciato secondo cui l'essere è ciò che si dice delle sue differenze e non l'inverso, l'unità " è l'unità del molteplice e si dice solo del molteplice" (NF, 130). Inoltre, il fatto che il concetto di simulacro applicato all'essente in generale sia la conseguenza inevitabile della tesi dell'univocità non ci pare affatto confermare un primato dell'uno. L'applicazione del simulacro all'essente significa solo che il lessico dell'essere ha smesso di essere pertinente nell'universo della sintesi disgiuntiva, per ciò che di un orizzonte fisso e identitaria vi si conserva. Considerato che quando Deleuze annuncia il rovesciamento del platonismo e l'universalità delle intensificazioni dei simulacri, ciò che è simulato è nient'altro che l'identità, la delimitazione impermeabile delle forme e delle individualità, non affatto il gioco delle disgiunzioni inclusive o dei divenire che ne produce l'effetto: "Tutte le identità non sono che simulate" (DR, 4), "il simulacro fa cadere sotto la potenza del falso (fantasma) il Medesimo e il Simile" (Ll, 231) . Reale, per D eleuze, è solo il gioco mobile della sintesi disgiuntiva come unità immediata del molteplice, o l'Eterno Ritorno interpretato come "l'essere del divenire" (DR 73); non l'uno isolato dato che sola è LA differenza che diverge immediatamente da sé. Vogliamo dire che in Deleuze non c'è l'uno isolato come polo; vi è uno, ma è la morte, il corpo senz'organi puro e nudo, voluto come tale. Tale polo è indubbiamente implicato nella vitalità e nel desiderio, ma precisamente in quanto ultimo rifiuto di lasciare organizzare o unificare la molteplicità. Che il rapporto con la morte sia la condizione del reale non significa che la morte sia il reale e che i divenire non ne siano che il simulacro (questa illusione è più volte sottolineata in Mille piani come il rischio inerente al desiderio). È significativo che, solo tra i concetti deleuziani, il simulacro sia stato completamente abbandonato dopo Logica del senso (se ne trova traccia solo nel "Natale": vedere Ritornello). Due ragioni possono essere avanzate: si prestava a troppi equivoci, ma soprattutto partecipava ancora ad una esposizione negativa dell'

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Vedere nota in Molteplicità.

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"anarchia incoronata", del tutto :rivolta ve:rso la dimostrazione critica del carattere prodotto o derivato dell'identità, rimasto vacante, il suo posto viene occupato dal concetto di divenire.

Vita (o vitalità) non organica

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"C'è un profondo legame t:ra i segni, l'evento, la vita, il vitalismo. È la potenza di una vita non-organica, quella che può esservi in una linea di disegno, di sc:rittu:ra o di musica. Solo gli organismi muoiono, mai la vita. Non c'è opera che non indichi alla vita una via d'uscita, che non tracci una strada pe:rco:r:ribile. Tutto quello che ho scritto è vitalista, o almeno lo spe:ro, e costituisce una teoria dei segni e dell'evento." (P, 190).

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Raramente la pa:rola "vitalismo" è impiegata con il :rigo:re di un concetto. Come tutti, i filosofi hanno i lo:ro momenti più gloriosi, dove scoprono, senza confessarselo, l'interesse di coltivare una do:x:a a loro p:rop:ria, di mantenere l'equivoco di certe parole pe:r poterle gettare in faccia all'avve:rsario come brevetto d'infamia. Così, pe:rché non imputare Deleuze di vitalismo dato che lui stesso non smette di :richiamarvisi? È decisivo in questo tipo di manovra infra-filosofica, non sape:re di cosa si pa:rla. Quando si invoca il vitalismo, ci si riferisce più o meno a due cose: a un ce:rto fuo:rvia:rsi delle scienze naturali del XVIII0 secolo ve:rso una so:rta di mistica che si sottrae ad ogni tentativo di ve:ra spiegazione ( assunzione del postulato di un "principio vitale" come :ragione ultima del vivente), al culto della vitalità che si propaga in modi diversi in Europa alla fine del XIX0 secolo, e a cui in seguito si :richiamano un ce:rto nume:ro di movimenti politici, tra i quali il

fascismo (invocazione di un genio della razza, del popolo o dell'individuo, e dei diritti superiori della vita nella sua lotta contro le fo:rze ritenute degenerate). Il rifiuto dell'idea di spontaneità, corollario della teo:ria del desiderio-macchina, dovrebbe bastare a coprire di ridicolo ogni impresa insinuante attorno all'uso deleuziano della parola "vitalismo". È vero che occo:r:re a tal fine po:rta:rsi su di un piano filosofico. Non si trova mai in Deleuze un concetto di vita in generale. Se egli s'interessa alla nozione nietzscheana di "volontà di potenza", e se la identifica in ultima analisi con la memoria-durata di Bergson, è in p:rimo luogo perché egli ne fa emergere il ca:ratte:re differenziato-differenziabile, che esclude il :ricorso alla vita come valore trascendente, indipendente dall'esperienza, preesistente alle fo:rme concrete e trans-individuali nelle quali essa s'inventa (NF, cap. II-III, specialmente 83-87, 147-149; IT, 154-165). Non si dà dunque vita in generale, la vita non è un assoluto indifferenziato ma una molteplicità di piani eterogenei di esistenza, catalogabili secondo il tipo di valutazione che li ordina e li anima (distribuzione di valo:ri positivi e negativi); e tale molteplicità attraversa gli individui più che distinguerli gli uni dagli alt:ri (o anco:ra: gli individui si distinguono solo in funzione del tipo di vita dominante in ciascuno di lo:ro).

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In secondo luogo, Deleuze cerca con questo concetto una problematica che permetta di oltrepassare l'alternativa tra morale fondata su valori trascendenti e amoralismo nichilista o relativista che prende a pretesto la fatticità di tali valori per concludere che "tutto si equivale". Più precisamente, dobbiamo distinguere due forme di relativismo, di cui una solo è nichilista: "non è una variazione della verità a seconda del soggetto, ma la condizione in cui appare al soggetto la verità di una variazione." (La piega, 32). Una cosa è affermare che la verità dipende dal punto di vista di ognuno, un'altra è dire che la verità è del tutto relativa a un punto di vista ma che tutti i punti di vista non sono affatto equivalenti. Ma come può un punto di vista arrogarsi una superiorità in assenza di un qualche criterio oggettivo che permetta di misurarne dal di fuori le pretese? Assumendo in effetti questa convinzione e ponendo di conseguenza il problema di una valutazione immanente dei punti di vista o delle valutazioni che condizionano ciascuno modo d'esistenza (SPE, 210-211; IT, 159-160; CCF, 64-65; CC, cap.XV). Superiore sarà il modo di esistenza che consiste nella mutua verifica dei modi di esistenza o che s'impegna nel farli risuonare uno nell'altro. E' vera la distanza o l'insieme delle distanze sperimentate, e la selezione immanente che vi si opera. Ossia la verità è creazione, non nel senso per cui Dio avrebbe potuto farla altrimenti (Descartes), ma nel senso per cui è relativa alla prospettiva che un pensatore o un artista ha saputo assumere a proposito della varietà dei modi d'esistenza e dei sistemi di valori disponibili (IT, 164) . Ma la domanda rimbalza: in che cosa il punto di vista ordinatore degli altri punti di vista sarebbe a loro superiore? Inoltre come possiamo affermare che i punti di vista si ordinano nell'esperienza? Perché il modo dell'esistenza creatore è il solo aperto, il solo a problematizzare se stesso e a vivere l'esistenza come problema? La risposta rischierebbe di reintrodurre la finalità e di compromettere la condizione di immanenza. Domandiamoci allora perché in definitiva vale di più pensare che non pensare. La risposta deleuziana è che pensare èp iù intenso. Si soppesi con prudenza l'obiezione che a questo punto giunge allo spirito: certamente, noi impariamo nell'esperienza la superiorità intensiva degli qffetti - s'intende: dell'incontro con l'eterogeneo o con il fuori attraverso cui l'intera affettività si trova squassata e ridistribuita - sulle affezioni ordinarie, ma questo non sarebbe ancora, sotto l'apparenza di un enunciato ultimo, di un criterio esterno di giudizio, la reintroduzione contraffatta di un valore trascendente - l'intensità - che firma così lo scacco del programma di valutazione immanente? In ultima istanza, l'intensità è un criterio immanente perché l'autoaffermazione delle nostre facoltà coincide con l'affermazione del nuovo, del buon esito, dell'affetto, e attraverso ciò determina l'intensità - quali siano i terrori che l'accompagnano - come gioia.

*** Di conseguenza, Deleuze può chiamare con più precisione vita o vitalità non tanto la molteplicità delle forme di vita, quanto quelle tra di esse in cui la vita - l'esercizio stesso delle nostre facoltà- vuole se stessa: forma paradossale, a dire il vero più vicina all'informe. Qui ancora si riconosce una ispirazione nietzcheana,

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e si deve ribadire, benchè in altro modo, l'assenza in Deleuze di un concetto di vita o di vitalità in generale: da una parte perché la vita quale egli la concepisce è sempre e inseparabilmente vita non organica (o ancora nonpersonale - cfr. LS, 135; C, 55; ecc.), d'altra parte perché il proprio della vitalità non organica è la sua creatività e di conseguenza la sua imprevedibilità (certamente non un tesoro naturale o originario che basterebbe esternare), invano si cercherebbe la sua forma standard ( anche se niente impedisce di riferirsi alla vitalità non - organica scimmiottando penosamente, tristemente, l'immagine che ne offre inevitabilmente Deleuze, pur essendo "senza immagine"; proprio come è possibile venerare il rizoma senza l'ombra di un'ispirazione rizomatica). Vita non organica: l'espressione viene da Worringer (MP, IV, 125-130; FB-LS, 104-1 05 e 195; IM, 68-73), è amplificata dal concetto di "corpo senz'organi" nato da Artaud (FB-LS, 103-105; CC, 171) e dal pensiero di Bergson (IT, 96). Soffermiamoci su ciò che risulta da Bergson: " la vita come movimento si aliena nella forma materiale che suscita" (B, 98), la vita è creazione ma il vivente è chiusura e riproduzione, in modo che lo slancio vitale - come la durata- si dissocia ad ogni istante in due movimenti, l'uno di attualizzazionedifferenziazione in una specie o in una forma organica, l'altro per il quale esso si riprende come totalità virtuale sempre ape.rta ad ognuna delle sue differenziazioni, così "non è il tutto a chiudersi come un organismo, ma l'organismo che si apre al tutto, e nello stesso modo di questo tutto virtuale" (B, 99). In conseguenza al rifiuto di circoscrivere la vita nei limiti del formato vivente, definendola in tal modo come organizzazione, la tendenza evolutiva o creatrice che attraversa il vivente può essere pensata al di là dell'insoddisfacente alternativa tra meccanicismo e finalismo. Tale rifiuto conduce, beninteso, sia a rappresentarsi la vita sotto forma di principio distinto dalla materia, sia a concepire la materia stessa come vita, non - lo si avrà capito - in quanto vi si ospitano anime direttrici, poiché per tale via si testimonierebbe solo l'incapacità di uscire dall'immagine della vita come organizzazione o come soggettività costituita, ma definendo vita l'attività anonima creatrice della materia, che, ad un dato momento della sua evoluzione, si fa organizzazione: questa seconda via sbocca nella concezione di una vitalità fondamentalmente inorganica. Qui non si tratta di fantasia terminologica, meno ancora - salvo sottrarsi al ragionamento logico e lasciarsi inquietare dalle prevenzioni della doxa - di fantasmagoria mistica, questa ridefinizione della vita ha per posta in gioco - ripetiamolo - di pensare in cosa il formato vivente è in eccesso sulla sua propria organizzazione, in che modo l'evoluzione lo attraversa e vi trabocca Qa sua logica non può che porsi in contrasto e in alternativa con quella del darwinismo- si comprende come Deleuze, nel proprio studio del divenire, abbia meditato in modo particolare i casi di mutualismo o di co-evoluzione, trifoglio e calabrone, vespa e orchidea, per i quali la teoria dell'evoluzione non fornisce spiegazione soddisfacente: cfr. MP, I, 25-26). Infine, se la vita deve concepirsi al di qua di ogni organizzazione, come pura creazione della natura, non c'è minimamente da sospettare di metafora la sua invocazione al di là - vita psichica e creazione di pensiero. In effetti, ogni proces-

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so rientra nel dominio della vita non-organica, per quanto non riconduca a una forma costituita ma se ne fugga e non ne tratteggi una nuova che per sfrecciare già altrove, verso altri abbozzi. Ciò che qui chiamiamo "vita" non dipende dalla natura degli elementi (formazione materiale, psichica, artistica, ecc.), ma dal rapporto di reciproca deterritorializzazione che le trascina verso soglie inedite O'organizzazione, per esempio, è una soglia superata per la materia, sia detto semplificando all'estremo; e nel rapporto tra la vespa e l'orchidea, si consideri la vita non-organica del "blocco di divenire" che trascina con sé le loro due forme di vita organizzata, le intreccia l'una con l'altra fino a varcare una soglia di esistenza dove esse si presuppongono mutualmente). L a vita non-organica è un tipico esempio di concetto deleuziano, irriducibile all'assegnazione di un campo netto, conseguentemente suscettibile di un u so letterale quale sia il campo abbordato, e di un uso "trasversale" che combina entro una costante letterarietà una molteplicità di campi qualsiasi, per eterogenei che siano. Attraverso ciò ci avviciniamo alla concezione deleuzo-guattariana della natura, che non riconosce p iù la frattura di naturale e artificiale; al concetto di piano d'immanenza; infine, naturalmente, all'esperienza del corpo a condizione di pensarla in rapporto a un corpo senz'organi.

Virtu ale

* " Il virtuale non si oppone al reale, ma soltanto all'attuale. Il virtuale possiede una realtà piena in quanto virtuale [... ]. Il virtuale va anche definito come una parte integrante dell'oggetto reale - come se l'oggetto avesse una parte nel virtuale, e vi si immergesse come in una dimensione oggettiva."(DR, 336)

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Perché il pensiero di D eleuze fa appello al virtuale? Il virtuale è l'insistenza di ciò che non è dato. Solo l'attuale è dato, ivi compreso sotto la forma del possibile, ossia dell'alternativa come legge di divisione del reale che assegna immediatamente la mia esperienza a un certo campo del possibile. Ma che il virtuale non sia dato non significa che esso sia altrove o per un altro: tale sarebbe l'altro senso del possibile come mondo espresso da altri, dunque come punto di vista - percettivo, intellettuale, vitale - differente dal mio; o ancora il possibile sotto la forma trascendente del necessario o di un punto di vista ubiquitario totalizzante, rappresentato come occupato da un D io che contempla l'infinito attuale delle verità eterne, alla maniera del razionalismo classico, o come mancanza perpetua e assenza, alla maniera strutturalista. Che ci sia virtuale vuol dire in primo luogo che non tutto è dato o tramutabile in dato. Questo significa in secondo luogo che tutto ciò che giunge non può provenire che dal mondo - clausola d'immanenza, e di corrispondente credenza (credere a questo mondo-qui "come all'impossibile", vale a dire alle sue potenzialità creatrici o alla creazione di possibili: IT, 190; CCF, 65). Il ricorso a questa categoria non si spiega dunque attraverso non si sa quale tentazione spiritualista di un altro mondo o di un Cielo camuffato: l'elementare

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controsenso sul virtuale consiste in effetti nel vederci una attualità d'un altro tipo, ossia nel confonderlo con ciò da cui si demarca per definizione - la trascendenza. Esso si esplica nello sforzo di dotare la filosofia di uno strumentario logico capace di dar consistenza all'idea di immanenza.

*** Ecco perché non si può affrontare il virtuale a partire dal solo processo d'attualizzazione: il lettore sarebbe tentato di interpretarlo come uno stadio primitivo del reale dal quale deriva il dato. E quand'anche la modalità d'esposizione del cap.V di Differenza e ripetizione favorisse tale impressione, seppur contradditoria rispetto alla sua tesi più esplicita (contrariamente a Mille piani che riprenderà il tema embriologico in relazione alla questione dell'esperienza reale, e affermerà con più chiarezza la contemporaneità dell'uovo con tutte le fasi di vita - cfr. MP, II, 27-29), resta che il virtuale è introdotto nel cap.II, nell'esplicita prospettiva di un pensiero dell'esperienza, vale a dire del dato (DR, 158-1 69) . Se non c'è esperienza del virtuale come tale in quanto non è un dato e non ha esistenza psicologica, in compenso una filosofia critica che si rifiuti di "ricalcare" la forma del trascendentale su quella dell'empirico, assegnando per tale via al dato la forma di un già-dato come struttura universale dell'esperienza possibile, renderà giustizia al dato componendo il reale di una parte attuale e di una parte virtuale. È in questo senso che si dà reale - vale a dire incontro e non solo di oggetti riconosciuti in anticipo come possibili - solo in via di attualizzazione; e che se il virtuale per se stesso non è dato, di contro il dato puro, sul piano d'immanenza dell'esperienza reale, è in presa su di esso, lo implica intimamente. Perciò il processo d'attualizzazione è logicamente inseparabile dal movimento inverso di cristallizzazione che restituisce al dato la sua parte irriducibile di virtualità. Se ora ci domandiamo in virtù di che cosa l'intero mondo non è né dato né tramutabile in dato, la risposta sta nel rifiuto dello statuto pseudo-originario del possibile: la storia del mondo, come quella di una vita, è marcata dalle redistribuzioni - o eventi - che pluralizzano il campo del possibile, o meglio li moltiplicano in campi incompatibili gli uni con gli altri. Tali redistribuzioni sono certo databili, ma non possono allinearsi in continuità con un presente permanente, coestensivo al tempo del mondo (sul nuovo senso della datazione cfr. P, 49-50). Non ha senso enunciare tali redistribuzioni in successione: lo sono solo le effettuazioni spazio-temporali (o stati di cose) quando le si consideri astrattamente, a partire da una "dimensione supplementare" rispetto a quelle dell'esperienza, vale a dire separandole dal campo determinato dei possibili al quale queste si ricollegano, omettendone la loro parte virtuale e trattandole come pure attualità. Il carattere derivato del campo dei possibili richiede l'affermazione di una temporalità multipla, di un tempo multidimensionale - la rivelazione di una realtà non-cronologica del tempo, più profonda della cronologia (vedere Cris tallo di temp o). È mettere l'esteriorità nel tempo; ma il fuori non è più la sovra-storicità dell'eterno, anche sotto la forma apparentemente immanentista dell'ermeneutica, che mantiene almeno la continuità di una coscienza umana e, di conseguenza, di

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un senso comune; tale fuori è divenuto interno al tempo, separandolo in modo multiplo da sé. Il tutto può dunque essere pensato solo per mezzo di una sintesi delle dimensioni eterogenee del tempo, da cui proviene il senso fondamentalmente temporale del virtuale. E' questa sintesi che ci fa vedere il "cristallo"; è lei, in altri termini, che è in gioco in tutto il divenire.

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Bibliografia

Abbreviazioni Sono qui elencate le opere di Gilles Deleuze citate nel testo. Ci si riferisce ad ognuna di essa con le seguenti sigle, seguite dal numero di pagina: AE

L'artti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia (scritto con Felix Guattari) (1972), tr.it. di A.Fontana, Einaudi, Torino 1975.

B

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BP

"Bilancio-programma per macchine desideranti", appendice all'edizione francese de L'Anti-CEdipe del 1973, prima pubbl. in Minuit 2,Jan.1973, pp. 1- 25); tr. it. di M. Guareschi in G: Deleuze, F. Guattari, Macchine desideranti, a cura di U. Fadini, ombre corte, Verona, 2004, pp. 97-123.

c

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cc

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DR

Differenza e ripetizione (1968) tr.it. di G. Guglielmi, riv. da G. Antonello e A. M. Morazzoni, Raffaello Cortina Editore, Milano 1997.

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Logica del senso (1969), tr.it. di M. de Stafanis, Feltrinelli, Milano 1979.

MP

Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia (scritto con F. Guattari) (1980), tr.it. di G. Passerone, Castelvecchi, Roma 1997 (nel testo si cita questa edizione in 4 volumi, indicati con il numero romano dopo la sigla MP, seguita da virgola). Dal 2006 in volume unico edito da Castelvecchi.

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Nietzsche (1965); tr.it. di F. Rella, SE, Milano1997.

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Nietzsche e la filosofia (1962), tr.it. di F. Polidori, Feltrinelli, Milano 1992.

P

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PS

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PSM

Presentazione di Sacher-Masoch (1967), tr.it. di M. de Stefanis, Bompiani, Milano 1986.

PV

Pericle e Verdi. La filosofia di François Chatelet (1988), tr.it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1996.

La piega

La piega. Leibniz e il Barocco (1988), tr.it. di D. Tarizzo, Einaudi, Torino 2004.

SPE

Spinoza e ilproblema dell'espressione (1968), tr.it. di S. Ansaldi, Quodlibet, Macerata 1999.

SPP

Spinoza. Filosofia pratica (1961), tr.it. di M. Senaldi, Guerini e Associati, Milano 1991.

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Politique et p.rychana!Jse, raccolta di interventi di e a cura di Deleuze

e Guattari, Bibhotheque des Mots perdus, Alençon 1977; trad. it. parziale di M. Ferraris da Gilles Deleuze, Féhx Guattari, Claire Parnet, André Scala, "L'interpretation des énoncés": "L'interpretazione degli enunciati", in Aut Aut n. 191-192, settembre-dicembre 1982, pp. 92112. • G. Deleuze, "L'immanence: une vie...","Philosophie", 47, 1995, pp. 3-7,p.4; tr. it. F. Pohdori, «L'immanenza: una vita...», «aut aut», 271272, 1996, pp. 4-7, p.5. •

L'abecedaire de Gilles Deleuze (3 dvd), a cura di Claire Parnet.

Regia di Pierre-André Boutang, Editionsmontparnasse, Paris, 2004, edizione sottotitolata italiana Derive Approdi 2005. • Corsi di Gilles Deleuze a Vincennes, parzialmente disponibili in trascrizione sul sito di R. Pinhas (www.webdeleuze.com). Registrazioni di alcune lezioni disponibili su you tube.

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Altri concetti evocati:

Blocco d'infanzia: 21, 33 Carta, cartografia: 32, 45, 49, 71-72 Clichés, schemi sensorio-motori: 11, 32, 34, 57-58 Clinica: 31, 39,49, 58,63, 71 Codice e assiomatica: 21, 36, 40, 57-58, 77 Concetto: 11-15, 17, 19-21, 23-31, 34-39, 42-45,47-56, 59-60, 62-67, 71-83 Contemplazione, contrazione, abitudine: 31, 37, 58, 76 Differenza interna: 23-24, 55, 64, 74, 78 Drammatizzazione: 4 7 Ecceità: 27-28, 55-56, 61, 72 Fuori, esteriorità: 10, 27, 45, 49, 51, 55n., 59, 63-64, 66, 68-69, 74-75, 81, 84-85 Immagine-movimento: 33, 61 Letteralità: 19, 35 Logica dell'irrazionale: 68, 75, 30, 59, 66, 68 Macchina astratta: 21, 26-28, 39, 52 Molecolare e molare: 26, 40, 54, 56 Personaggi concettuali: 59, 66 Perversione: 47-48, 63, 26, 32, 63 Strato: 26, 32 Trasversalità: 26, 48-49, 70, 78, 83 Valutazione immanente: 31, 32, 37, 58, 76

Confronto con altre forme di pensiero contemporaneo: Badiou (Alain): 16, 29n, 54n, 78-79 Derrida Qacques): 25, 47 Ermeneutica: 13, 16,84 Foucault (Michel): 12, 28, 36, 58, 63 Freud (Sigmund) e la psicoanalisi: 14, 17, 30, 34, 47-49, 56, 70, 74 Heidegger (Martin): 13-15, 22, 24-25, 41, 44-45, 78 Husserl (Edmund) e la fenomenologia: 13-15, 22, 24-25, 29, 41-42, 44-45, 6364, 70, 76 Klein (Mélanie): 52-53, 55, 77 Marxismo: 53 Positivismo logico: 43 Strutturalismo: 49, 83

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Finito di stampare nel mese di Ottobre 2012 da Digitalbook, Città di Castello (PG)