Il vizio dello stupro. L'uso politico della violenza sulle donne 883287167X, 9788832871678

Un saggio che affronta l’infinito sgranarsi dei dolori delle donne, da sempre relegate in un soffocante spazio simbolico

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Il vizio dello stupro. L'uso politico della violenza sulle donne
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Libri come pietre d’angolo

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Renzo Paternoster

IL VIZIO DELLO STUPRO

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L’uso politico della violenza contro le donne

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Copyright Tralerighe libri © Copyright Andrea Giannasi editore © Andrea Giannasi editore Lucca Lucca, maggio 2021 1° edizione Tutti i diritti sono riservati. Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633). ISBN 978-88-3287-167-8 I lettori che desiderano informazioni possono visitare il sito internet: www.tralerighelibri.com

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A tutti i maschi fragili che vivono nell’ottusa violenza.

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Indice

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Prologo La figura muta della storia

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Capitolo I La donna nella storia 1.1. Quando Dio era femmina, 15 – 1.2. I discriminanti sentieri androcentrici del sacro, 18 – 1.3. La donna nelle società antiche, 21 – 1.4. I “peccati” delle donne medievali, 25 – 1.5. L’apparente riscatto delle donne moderne, 30.

37

Capitolo II La violenza sessualizzata 2.1. Genere e sesso, 37 – 2.2. La violenza come concetto plurale, 39 – 2.3. I tanti “lividi” delle donne, 43 – 2.4. Violenza sessuale o violenza sessualizzata?, 48 – 2.5. Corpi e menti violate: le molte facce della violenza sessualizzata, 50.

57

Capitolo III Dal mito alla storia 3.1. La sessualità: il mito come fonte della violenza, 57 – 3.2. La sessualità: i divieti e le censure delle religioni “moderne”, 61 – 3.3. La violenza sessualizzata come dispositivo simbolico, 65 – 3.4. La donna del nemico, 70 ‒ 3.5. La donna nemica, 76.

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8

81

Indice

Capitolo IV Nelle mani del nemico: antichità, medioevo, età moderna 4.1. Il corpo della donna come bottino di guerra: antichità e Medioevo, 81 – 4.2. Il corpo della donna come luogo di dominio: il Nuovo Mondo, 85 – 4.3. Il corpo della donna da preservare, 93 – 4.4. Il colonialismo imperialista e il “tutto compreso”, 97.

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103

Capitolo V Nelle mani del nemico: età della Grande guerra 5.1. Il Novecento crudele, 103 – 5.2. Le donne armene durante il Metz Yeghérn, 104 – 5.3. La Grande guerra: moderno orrore, vecchie abitudini, 108 – 5.4. Faccetta nera, il “bottino” italiano, 116 – 5.5. Nanchino 1937: metafora di un dominio di genere in guerra, 125.

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Capitolo VI Sessimo e razzismo nella II Guerra Mondiale 6.1. Le violenze sessualizzate naziste in guerra e nei campi, 131 – 6.2. Donne come cavie per la purezza razziale ariana, 138 – 6.3. La vendetta sovietica in Germania, 144 – 6.4. Jūgun ianfu. La schiavitù sessuale del Giappone imperiale, 151 – 6.5. Italia: fascisti e partigiani, 156 – 6.6. I nazisti in Italia e le “mongolate”, 162 – 6.7. “Americanate” e “mongolate”, 167.

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Capitolo VII Lo stupro come strumento politico e di dominio 7.1. Le dittature latinoamericane: lo stupro come strumento politico, 177 – 7.2. Guatema: la mujere arrasada, 183 – 7.3. Le guerre asiatiche, il corpo come luogo di dominio, 188 ‒ 7.4. La guerra alle donne nei conflitti africani, 192.

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Indice

199

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Capitolo VIII Nazionalismi sessualizzati e stupri “umanitari” 8.1. Balcani 1992-1995: la sessualizzazione del nazionalismo, 199 – 8.2. L’etnonazionalismo sessualizzato in Ruanda, 205 – 8.3. Stupri “umanitari”, 212 – 8.4. Jihâd sessuale e teologia dello stupro dello Stato Islamico, 216.

Epilogo Non è sesso, ma “disturbo culturale”

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Bibliografia

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Prologo

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La figura muta della storia

Gli spazi della nostra vita sono organizzati sulla base di frontiere materiali e simboliche. Tali frontiere si basano su una concezione dualistica del mondo, ad esempio corpo e spirito, bene e male, interno ed esterno, simile ed estraneo, amico e nemico, maschio e femmina. Attraverso questi dualismi ciascun elemento si definisce in opposizione a un altro, diventando pericolosamente il mezzo che conferisce identità: noi/loro. Queste dualità producono una visione distorta dell’Umanità, negando molto spesso la fiducia a una delle due parti; poiché è sempre uno dei due termini a essere più esclusivo dell’altro, definendo — senza mediazione alcuna — l’orizzonte di senso e le regole che istituiscono ordini gerarchici di prelazione di una parte sull’altra. La più classica delle bipartizioni è quella maschio-femmina che, anziché favorire un modello dinamico delle differenze, circoscrive la diversità in uno schema statico, legittimando un ordine sociale che di fatto “colonizza”, attraverso una relazione di dominazione, una delle due parti, quella femminile1. In questa maniera, la naturale diversità tra maschi e femmine si converte pericolosamente in artificiali disuguaglianze tra uomini e donne.

1 Cfr. V. PLUMWOOD, Feminism and the Mastery of Nature, Routledge, London-New York, 1993, pp. 41-68.

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Prologo

Se la diversità biologica è data dalla natura (maschio e femmina) 2, la diversità di genere è un prodotto della cultura (uomo e donna). È quindi la natura a definire se siamo maschi o femmine, ma in seguito è la società, con la sua cultura, che attribuisce significato a questa distinzione3. Di conseguenza, se la diversità e l’equivalenza tra maschi e femmine sono principi di natura, le differenze e le disuguaglianze tra uomo e donna sono concetti costruiti. Queste ultime affondano le radici negli atteggiamenti culturali che hanno determinano il modo di recepire e interpretare il rapporto maschio–femmina e di conseguenza uomo–donna. Dunque è la cultura, distinta dalla natura, a determinare la costruzione delle differenze e delle discriminazioni. Le presunte differenze tra uomo e donna non sono un semplice luogo comune, bensì una serie di pregiudizi che sono serviti nella storia a giustificare interi sistemi sociali e politici, impregnati di discriminazioni, prevaricazioni ed esclusioni. Insomma un arbitrio culturale trasformato in qualcosa di naturale che, “biologizzando il sociale”4, ha realizzato un sistema di ruoli basato sulla produzione delle differenze, che di fatto ha legittimato il dominio di un sesso, quello maschile, su un altro, quello femminile. Una relazione fondata sull’asimmetria di potere non può che produrre violenza. Così, per tanti secoli, per troppi secoli, la donna, ritenuta incapace di determinare finanche se stessa, è relegata nell’ombra privata delle mura casalinghe sotto la tutela normativa dell’uomo di casa, senza avere storia, perché questa appartiene solo al maschio, custode non solo dell’ordine domestico ma anche di quello sociale. Tale ordine simbolico è talmente radicato, che è stato reputato come una 2

Occorre precisare che in natura ci sono più distinzioni di quelle riconosciute dalla tradizionale dicotomia maschio/femmina. Negli esseri umani al sesso maschile e femminile si aggiunge un’altra condizione, anche se rara, ossia quella in ci sono persone con caratteri sessuali che non rientrano nelle tipiche nozioni binarie anatomofisiologiche del maschio e della femmina, possedendone entrambi. Cfr. V. BAIRD, NoNosense Guide Sexual Diversity, Verso, London 2001, trad. it. Le diversità sessuali, Carocci, Roma 2003. 3 Ci sono inoltre infiniti modi di intendere e vivere la sessualità. Sull’argomento rimando al mio Sessi, Generi e Sessualità, in «Storia in Network, numero 197, marzo 2013, http://win.storiain.net/arret/num197/artic1.asp. 4 P. BOURDIEU, La Domination masculine, Seuil, Paris 1998, trad. it. Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 2009, pp. 8-9.

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Prologo

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emanazione della natura stessa. Paradossalmente ci sono volute delle leggi per riportare il discorso pian piano alla giusta e naturale equazione donna=uomo. Nel frattempo il simbolico ha permesso il reale. Infatti, questo sistema di dominio degli uomini sulle donne ha permeato di sé, sia a livello simbolico sia materiale, la storia. Se a livello simbolico ha determinato la negazione dell’autonoma soggettività, attraverso intere famiglie di divieti, condizionando la politica, le relazioni pubbliche e private; a livello materiale ha giustificato le molteplici forme di violenza come atti di potenza. Sia il livello simbolico sia quello materiale sono il guscio protettivo dell’uomo, divenendo utili al maschio per conseguire la legittimazione del proprio status sociale. «Non appena le donne cominceranno ad essere uguali a noi, subito saranno superiori», affermava Catone il Censore5. È stato questo l’ininterrotto timore ancestrale degli uomini nel corso della storia. Per questo il maschio ha scongiurato il proprio indebolimento identitario affermando continuamente l’inferiorità della donna. In questo modo si è accresciuta la figura di uomo, nutrendo il Sé maschile. Come dire, è un’autocelebrazione del maschio che si sente più virilmente uomo in quanto la donna gli è subalterna: Per secoli le donne hanno avuto la funzione di specchi dal potere magico e delizioso di riflettere raddoppiata la figura dell’uomo […] perché se queste non fossero inferiori, gli uomini cesserebbero di ingrandirsi.6

Il processo di costruzione dell’identità maschile, dunque, nasce dal presupposto che maschi e femmine siano gerarchicamente ordinati. Tale gerarchia ha segregato per secoli le donne in un recinto identitario che gli stessi uomini hanno costruito, trasformando la logica della naturalità in una artificiosa struttura binaria basata sull’inferiorizzazione di una delle due parti dell’Umanità, quella femminile appunto, elevando il maschio a misura di tutto. La conseguente oggettivazione della donna ha pericolosamente determinato nel corso della storia la sua strumentalità e la sua violabilità. 5

In LIVIO, Ab Urbe condita, XXXIV, 3, 2. V. WOOLF, A Room of Oness Own, Hogarth Press, London 1929, trad. it. Una stanza tutta per sé, Guaraldi, Rimini 1995, p. 55

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Prologo

Questo saggio che il lettore ha tra le mani, riprende e amplia un capitolo incluso nel mio volume La politica del male. Il nemico e le categorie politiche della violenza7. Al centro di questo lavoro non troverete una vera e propria storia delle violenze sessualizzate di una politica criminale, che cerca anche nel corpo della donna la celebrazione del proprio potere. Spiegare da dove nascono comportamenti crudeli che, nella storia, hanno sempre una direzione, è l’intento di questa ricerca. L’ho fatta in un’ottica multidisciplinare per raggiungere il mio intento. Per questo mi preme evidenziare che, per l’intrecciarsi degli argomenti, molti temi sono ripresi più volte nei vari capitoli, per esaminarli sotto più punti di vista e avere un quadro più completo. Non è stato facile affrontare realtà sconvolgenti che narrano il dolore antico delle donne, tuttavia ricostruire l’evoluzione di questo infinito sgranarsi di terribili violenze contro le donne, può permettere di comprendere (comprendere, in tutto il suo significato originario: cumprehendere, “prendere con sé”, col cuore, con l’intelletto, con entrambi), per allargare un orizzonte mentale limitato, che inquina le relazioni maschio-femmina e donna-uomo. È questo il motivo che mi ha spinto a dedicare questo saggio «A tutti i maschi fragili che vivono nell’ottusa violenza», perché si sentano carnefici, ma allo stesso tempo vittime ignoranti di una cultura ignorante da cui ci si può “guarire”.

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Tralerighe, Lucca 2019.

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Capitolo I

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La donna nella storia

1.1. Quando Dio era femmina Alle origini dell’Umanità è probabile che le prime comunità umane fossero fondate sull’eguaglianza dei sessi e sulla sostanziale assenza di una precisa gerarchia. Sono quelle che Riane Eisler, riprendendo le analisi dell’archeologa Marija Gimbutas, ha chiamato “società gilaniche”. “Gilania” è un neologismo coniato dalla scienziata sociale per indicare questa fase storica plurimillenaria di parità tra i sessi: gi– deriva dal termine greco gynè, donna; an– viene da andros, uomo; la lettera l in inglese rappresenta il linking, l’unione1. Le società gilaniche sono equilibrate e creative. La produzione artistica conferma il loro carattere pacifico. Infatti, nelle pitture rupestri difficilmente sono ritratte scene che raffigurano crudeltà e violenza2. Basate sul modello del partenariato, sono presenti sicuramente alcune differenze sociali, ma non radicalizzate e comunque non basate sull’appartenenza a un genere sessuale. Quindi consorzi umani in cui è assente l’idea di dominio e di possesso di un genere sull’altro. Furono queste le società della “rivoluzione agricola”, la transizione da un’economia basata su caccia e raccolta alla coltivazione e all’addomesticazione di animali. Con l’agricoltura le popolazioni diventano 1

Cfr. R. EISLER, The Chalice and The Blade. Our History, Our Future, Harper & Row, San Francisco 1987, trad. it., Il calice e la spada. La nascita del predominio maschile, Pratiche Editrice, Parma 1996, pp. 192–193. 2 Ivi, p. 63.

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Il vizio dello stupro

sedentarie e l’organizzazione sociale più complessa, ma tale rivoluzione non comportò la nascita della proprietà, dello schiavismo e della gerarchizzazione della società. Il modello della società gilanica è verosimilmente già presente nel Paleolitico superiore e prosegue nel Neolitico, anche se iniziò a prodursi una separazione dei compiti: i maschi andavano a caccia, le femmine lavoravano nei campi e accudivano i figli3. Nelle prime forme di comunicazione concettuale scritta (incisioni e disegni rupestri), è riprodotto uno dei simboli più antichi di cui si ha conoscenza: il triangolo pubico. È un triangolo col vertice rivolto verso il basso, o una “V”, entrambi originari simboli del pube, della vita, della fertilità. Quest’ultima non deve essere letta soltanto in chiave di riproduzione, e quindi finalizzata unicamente alla gestazione e parto. Fertilità è anche altro, è lo scandire del tempo ciclico, è sequela della vita, è espressione della terra che si rinnova, è simbolo di energia. Questo a dimostrazione che agli albori dell’Umanità è il femminile a incarnare l’archetipo del “divino” e, quindi, dell’alta considerazione che gli esseri umani preistorici avevano della donna. È proprio una potente divinità femminile a essere riprodotta in numerosi reperti archeologici preistorici4. È la Dea Madre, probabilmente la prima divinità primordiale, venerata attraverso figure steatopigie, le cosiddette Veneri dai grossi seni e dai paffuti sederi5. Si tratta di una potente Creatrice cosmica, dispensatrice della vita, modello di unità di tutte le creature, simbolo del rinnovamento della vita6.

3

Esistono tuttora alcune società gilaniche, eredi delle prime società preistoriche: la comunità yuchiteca in Messico, i Minankabau dell’Indonesia, la tribù Moso in Cina, tutte società egualitarie. 4 Cfr. M. GIMBUTAS, The Civilization of the Goddess. The World of Old Europe, Harper, San Francisco 1991, trad. it., La civiltà della Dea, 2 voll., Stampa Alternativa, Viterbo 2012 e 2013. 5 Sul modello della Dea Madre cfr. H. SHAHRUKH, The Goddess. Power, Sexuality, and the Feminine Divine, Little, Brown & C., Boston 1997, trad. it. La Dea. Creazione. Fertilità e abbondanza. La sovranità della donna. Miti e archetipi, E.D.T., Torino 1997. 6 Cfr. M. GIMBUTAS, The Living Goddesses, Religion in Pre-Patriarchal Europe, University of California Press, Berkeley-Los Angeles- London 1999, trad. it. Le dee viventi, Edizioni Medusa, Milano 2005, pp. 36-40 e 42-44.

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I. La donna nella storia

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Nelle sue diverse raffigurazioni, la Dea è riprodotta in piccole statue intagliate nella pietra, trovate un po’ ovunque nel Vicino e Medio Oriente, ma anche nell’Europa preistorica, dai Balcani al lago Baikal in Siberia, da Willendorf in Austria alle Grotte du Pape in Francia sino al bacino del Mediterraneo7. La presenza di un culto rivolto a una Dea Madre deve quindi essere un riflesso della struttura sociale esistente8. Non società matriarcali, intese come società in cui la donna costituisce il centro, come spiega l’antropologa Peggy Reeves Sanday: Il matriarcato non è un sistema di governo della famiglia o della società associato al dominio femminile esclusivo. Il matriarcato è un sistema sociale equilibrato in cui entrambi i sessi giocano ruoli chiave fondati su principi sociali materni.9

Dunque, società dove la funzione delle donne è centrale, ma non di dominio rispetto all’uomo, quindi in un’ottica di collaborazione sociale tra i due sessi. La Dea Madre, dunque, diventa l’espressione votiva di queste società gilaniche. L’assenza di immagini di violenza, di battaglie, di divinità bellicose, come anche i loro stanziamenti in pianure, senza difese, lasciano intendere che anche queste società furono pacifiche, con un orizzonte culturale e simbolico rivolto all’armonia sia tra i membri dello stesso gruppo sia con quelli di altre tribù10. 7

Cfr. M. GIMBUTAS, The Language of the Goddess. Unearthing the Hidden Symbols of Western Civilization, Harper & Row, San Francisco 1989, trad. it. Il linguaggio della Dea. Mito e culto della Dea madre nell’Europa neolitica, Venexia, Roma 2008. 8 Cfr. P. RODRIGUEZ, Dios nació. Mujer. La invención del concepto de Dios y la sumisión de la mujer, Ediciones B, Barcelona 1999, trad. it. Dio è nato donna. I ruoli sessuali alle origini della rappresentazione divina, Editori Riuniti, Roma 2000. 9 P.R. SANDAY, Matriarchy, in B.G. SMITH, The Oxford Encyclopedia of Women in World History, vol. 1, Oxford University Press, Oxford 2008, p. 192. 10 Cfr. anche J.J. BACHOFEN, Das Mutterrecht. Eine Untersuchung über die Gynaikokratie der alten Welt nach ihrer religiösen und rechtlichen Natur, 2 voll., Verlag von Krais und Hoffmann, Stuttgart 1861, trad. it. Il matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia nel mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, 2 voll., Einaudi, Torino 1988; H. GOETTNER-ABENDROTH, Das Matriarchat, 2 voll., 3 tomi, Verlag Kohlhammer, Stuttgart 1988-1995, trad. it. Le società matriarcali. Studi sulle culture indigene del mondo, Venexia, Roma, 2013.

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Il vizio dello stupro

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Nel lento passaggio dalla Preistoria alla Storia si pongono le basi per l’affermarsi di un potere tutto maschile (patriarcato), che eclissa il sacro potere generativo del femminile (Dea Madre), riconducendolo ora a divinità maschili, prima secondarie. Così come il patriarca tribale sulla terra ha sottomesso le “sue” donne, anche gli dèi del cielo hanno assoggettato le “loro” dèe. È la fine dell’uguaglianza dei sessi e l’inizio dell’uso strumentale della differenza di genere. La femmina è ora considerata inferiore al maschio e la sua funzione di donna è declassata, diventando «il primo animale domestico dell’uomo»11.

1.2. I discriminanti sentieri androcentrici del sacro Col passaggio a una visione androcentrica del mondo, i sentieri del mito iniziano a popolarsi di figure femminili perfide o mostruose. Tra queste: Lilith, il demone femminile della Mesopotamia, portatore di sventura e morte, divenuta nella Cabala ebraica la prima donna e prima moglie di Adamo nell’Eden, poi ripudiata per avergli disobbedito; Ammit, la “Divoratrice” dell’antico Egitto, “colei che annienta i colpevoli”; Astarte, dea semitica dell’amore lubrico e crudele divinità guerriera; Circe, Medea, Scilla e Clitemnestra nell’antica Grecia, ingannatrice la prima, assassina la seconda, mostro marino la terza e adultera l’ultima; Strige, presso gli antichi Romani, creatura che si nutre di carne e sangue umano, specialmente quelli dei bambini; Hel, infernale dea norrena dell’Aldilà infernale, portatrice di disgrazie e malattie ogni volta che si manifesta tra i viventi; Kali, la terrificante dea hindu. La stessa morte, la più grande sventura che possa capitare all’essere umano, nelle rappresentazioni popolari è spesso personificata in una “nera signora”. Anche nella “produzione” dei testi sacri sono racchiusi tutti i fondamenti della misoginìa. Facendo a gara a chi avrà più irriverenza e disprezzo per la donna, gli estensori raffigurano una visione della 11

C.J.M. LETOURNEAU, L’évolution de la propriété, Lecrosnier & Babé, Paris 1889, p. 86.

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I. La donna nella storia

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donna come origine del peccato, causa della “caduta” dell’uomo, strumento di seduzione malefica, ispiratrice del male. Ella è bramosa di potere e vuole finanche sovvertire i comandi di Dio: Pandora, ad esempio, la prima donna per la mitologia greca, infrange l’ordine di Zèus e, aprendo il vaso che gli aveva regalato, fa uscire i mali del mondo (malattia, vizio, pazzia, vecchiaia, gelosia), che si abbatterono inesorabilmente sull’Umanità12; oppure Eva, la prima donna della cultura ebraico–cristiana che, inducendo Adamo a disobbedire a Dio, causa la “caduta” dall’Eden13. Queste narrazioni, rendendo la donna colpevole dei mali dell’Umanità, hanno così elaborato una teologia gerarchica e asimmetrica, legittimando di fatto un modello di donna fisiologicamente, moralmente e giuridicamente inferiore all’uomo: alla parità spirituale dei due sessi non corrisponde purtroppo un’uguaglianza materiale. I testi sacri abbondano pertanto di divieti e di imposizioni imposte alle donne, sempre sottomesse al patronato dell’uomo (padre, fratello, marito). L’avvento delle tre grandi religioni monoteiste porta con sé una forte sterzata maschilista e misogina: Alla donna disse: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”. [Sacra Bibbia, Vecchio Testamento, Genesi 3, 16] Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo. E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. [Sacra Bibbia, Nuovo Testamento, Efesini 5, 22-24] Gli uomini sono anteposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre. [Sacro Corano, Sura IV AnNisâ’ (Le Donne), versetto 34]

12 13

ESIODO, Le opere e i giorni, c.a. VIII secolo a.C. Vecchio Testamento, Genesi, 3, 1-7.

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Il vizio dello stupro

In soccorso alla parte misogina dei testi sacri, vengono anche i santi, i giuristi, i teologi, gli esegeti, i padri delle Chiese. Il fanatismo degli apologeti delle Scritture, poi, completa il quadro14. I passi della Sacre Scritture delle religioni monoteiste che fanno riferimento alle donne sono numerosi e soggetti a varie interpretazioni storico-giuridiche. Di fatto, il legame religione e donna, ricco di ombre e con qualche luce, è tutto determinato da chi si assume il potere di interpretare le Scritture e decidere. Ora, la religione dovrebbe essere l’occasione in cui l’uguaglianza dovrebbe essere predicata come un valore imprescindibile, anziché alimentare discriminazioni. Così la voglia di conoscenza della prima donna, la sua curiosità, il suo spirito di ribellione, la sua capacità di convincere, sono divenuti pretesto in Occidente per squalificare tutto il genere femminile e scongiurare così l’indebolimento identitario di quello maschile, diventano il leitmotiv che ha permeato la storia di pura e sana misoginia. Tutto questo è potuto accadere perché nessun testo sacro è stato scritto da donne. Il patriarcato vigente sulla terra, dunque, è stato esteso in cielo. Le Scritture raccontano cosa Dio pensa degli uomini (esseri umani), gli uomini (nel senso di genere maschile) interpretano la Parola con cosa loro stessi pensano che Dio abbia detto. Ma Dio è innocente, perché se Egli ha fatto l’uomo (maschio e femmina), a sua immagine, gli uomini (nel senso di genere maschile) hanno fatto un dio a propria immagine e somiglianza, ingabbiando la femmina-donna in un duraturo recinto identitario edificato a immagine maschile. La Parola di questo dio maschio ha prodotto nel corso dei secoli una grande frattura tra il mondo femminile e quello maschile, diventando il collante che ha messo d’accordo la maggior parte dei maschi.

14

Ci saranno occasioni in questo stesso saggio per ritornare su questo argomento. Nel frattempo, sul legame religione-donna rinvio a testi specifici: A.T. NEGRI (a cura di), La donna nelle tre grandi religioni monoteiste. Ebraismo, Cristianesimo e Islam, Edizioni Mille, Torino, 2002; L. SCOPEL, La figura della donna nelle religioni, Edizioni Università di Trieste, Trieste 2012; L. SCOPEL, La figura della donna nelle religioni, Edizioni Università di Trieste, Trieste 2012; E. GIULIANELLI, Maledetta Eva. 30 secoli di misoginia religiosa, Tempesta Editore, Roma 2016.

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I. La donna nella storia

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1.3. La donna nelle società antiche Già nelle più remote legislazioni la donna è generalmente dequalificata, salvo rare eccezioni riguardanti per lo più donne appartenenti alle caste più alte, quindi ha uno status e funzioni subordinate in tutti gli ambiti della vita, assumendo il valore di “proprietà” del maschio (padre, fratello, marito)15. Il Codice di Hammurabi (XVIII secolo a.C), una delle più antiche raccolte di leggi scritte, dichiara che la donna, pur avendo notevole indipendenza giuridica, «è proprietà del marito e la figlia nubile è di proprietà del padre» (rigo 129). Presso gli antichi popoli germanici la donna è “ostaggio” della forza maschile; nella società ebraica antica è giuridicamente inferiore ed è passibile di ripudio; nelle antiche Cina e India è anche vittima di infiniti abusi e violenze. Insolita in quel tempo è la condizione della donna presso gli egizi, tanto che lo storico greco Erodoto, scioccato dalla relativa libertà delle donne egiziane, credeva che, nel trattare le loro donne meglio di qualsiasi altra civiltà del mondo antico, gli egizi avessero «invertito le pratiche ordinarie dell’umanità»16. Infatti, la donna egizia rispetto alle donne di altri popoli, vive in una situazione privilegiata, non esistendo alcuna barriera né di tipo culturale né tanto meno religioso nei diversi livelli societari. Ella, in maggior modo nell’Antico Regno (2650 – 2150 a. C.), ricopre un ruolo societario portante e i giudizi da lei espressi godono di notevole considerazione. La storia d’Egitto, difatti, racconta di numerose donne al potere o attive nelle scelte politiche e militari dei sovrani17. 15

Cfr. S.L. JAMES, S. DILLON (eds), A Companion to Women in the Ancient World, Wiley-Blackwell, Malden 2012. 16 Cit. in C. GRAVES-BROWN, Dancing for Hathor. Women in Ancient Egypt, Continuum, London 2010, p. 33. 17 Tra queste la regina Hatshepsut, che regna dal 1478 al 1458 a.C.; Teie (o Tiye), associata nel potere politico in modo complementare al suo consorte, il grande faraone Amenhotep III (che regna dal 1388 o 1386 al 1352 o 1349 a.C.); la famosa Nefertiti (1370–1330 a.C. circa), che affiancò attivamente il marito, il faraone Akhenaton, nel suo regno; Nefertari (1295–1255 a.C.), grande sposa reale di Ramesse II e attiva diplomatica del regno; Tausert (1194–1186 a.C.), la quinta donna a governare l’Egitto come faraone. Cfr. G. ROBINS, Women in Ancient Egypt, Harvard University Press, Cambridge 1993.

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Presso gli antichi greci e romani, invece, la donna era generalmente un vero e proprio “possesso” del “maschio di casa” (marito o padre), anche se la sua condizione è differente nel tempo e nei luoghi18. Nell’antica Grecia lo status sociale della donna è variabile in base ai diversi luoghi e ai diversi tempi della storia ellenica. Se le donne a Delfi, Gortina, Tessaglia, Megara e Sparta hanno gestito di fatto anche l’economia e le proprietà19, nelle altre pólis questo diritto è molto limitato e le donne sono parte della proprietà del maschio padrone (padre o marito): A una certa libertà nel mondo minoico miceneo tra il III-II millennio a.C. segue, fin dall’età omerica tra il VIII secolo a.C. una graduale segregazione in casa della donna, sancita anche dalle leggi, che raggiunge il suo apice nell’Atene del V secolo a.C. [nel] periodo storico chiamato ellenismo dal IV secolo a.C. […] la donna gode di una certa considerazione, aggiunte le nuove idee filosofiche portarono alle donne una vita più libera, riordiamo le numerose epigrafi che ricordano donne medico, artiste, benefattrici e atlete.20

La ripetuta invettiva di letterati e filosofi contro il genere femminile ha influito non molto sulla misoginia degli antichi greci. Esiodo (VIII secolo a.C. – VII secolo a.C.) in Teogonia sottolinea come il bel corpo della donna nascondi in realtà un’indole ingannatrice e un animo corrotto. Nella visione esiodea la donna è anche un elemento parassitario, poiché inutile bocca da sfamare in quanto non partecipa al duro lavoro dei campi21. Semonide di Amorgo (VII secolo a.C. – VI secolo a.C.) ne Il biasimo delle donne (conosciuto anche come Frammento 7), traccia una tipologia dei difetti attribuiti al sesso femminile, i quali rappresentavano l’archetipo di tutte le donne esistenti. Egli, infatti, afferma che Cfr. E. CANTARELLA, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Editori Riuniti, Roma 1985, ora Feltrinelli, Milano 2013. 19 Cfr. S.B. POMEROY, Spartan Women, Oxford University Press, Oxford 2002. 20 K. KRISTENSEN, Storia della Figa. Storia dell’Organo Femminile, Lulu Press, Morrisville (North Carolina) 2013, pp. 61-62. 21 ESIODO, Teogonia, 700 a. C ca., in «Mitologie e… dintorni», http://www.miti 3000.it/mito/biblio/esiodo/teogonia.htm 18

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Zèus abbia plasmato le donne basandosi su dieci differenti specie di animali e su due dalla natura: dalla scrofa, la donna sudicia e sciatta; dalla volpe, quella astuta e maliziosa; dalla cagna, quella bisbetica e aggressiva che tutto vuole sentire e sapere; dall’asina, quella testarda ma gran lavoratrice se si usa il bastone; dalla donnola, quella che “riduce l’uomo alla nausea”; dalla cavalla, quella vanitosa e poco incline ai lavori domestici; dalla scimmia, quella peggiore di tutto il genere femminile senza collo e sedere; dalla gatta, quella sensuale e ladra; dalla terra, quella pigra e apatica; dal mare, quella capricciosa e con instabilità di umore. Unico ritratto positivo è la donna che deriva dall’ape, moglie e madre affettuosa e virtuosa, la migliore che possa capitare ad un uomo, anche se di questa specie gli dèi ne fecero davvero poche22. Nelle opere dei grandi tragici del V secolo la donna è ancor più vilipesa. A lei non si attribuisce neppure la capacità di generare la prole. Eschilo (525 a.C. circa – 456-455 a.C) fa dire ad Apollo ne Le Eumenidi: Non la madre, non lei produce il suo frutto […] Solo, nutre il gonfio maturo del seme. Lui procrea, che d’impeto prende. Lei come ospite all’ospite: veglia sul giovane boccio, se un dio non lo schianti. Ti offro la prova di questo argomento: padre senza madre è possibile. Una testimonianza è qui vicina, presente: Atena, la figlia di Zèus, che non crebbe nel cavo ombroso di un seno.23

Per questo, Euripide (485 a.C. – 407-406 a.C.) fa dire ad Ippolito (nell’omonima tragedia) che meglio sarebbe se gli uomini potessero acquistare il seme dei propri figli, senza avere bisogno di portarsi in casa una donna: O Zèus, perché dunque hai messo fra gli uomini un ambiguo malanno, portando le donne alla luce del sole? Se proprio volevi seminare la stirpe dei mortali, non dalle donne dovevi produrla: ma che gli Cfr. T. GARGIULO, Per l’interpretazione di Semonide 7, 96 ss. Pellizer-Tedeschi (7, 96 ss. West), «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», vol. 81, n. 3, 2005, pp. 13-23. 23 ESCHILO, Le Eumenidi, 458 a.C. circa, http://www.miti3000.it/mito/biblio/eschilo/ eumenidi.htm 22

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uomini comprassero il seme dei figli, depositando in cambio nei tuoi templi oro o ferro o peso di bronzo, ciascuno secondo il valore del prezzo, e viver senza donne in libere case.24

Che la donna incarni l’aspetto più incompleto del genere umano è un topos anche della produzione filosofica greca. Per Platone (428-427 a.C. – 348-347 a.C.) la donna rappresenta una degenerazione fisica dell’essere umano, quindi ella è inferiore all’uomo, un’inferiorità tuttavia solo quantitativa che non pregiudica un loro concorso al governo della pólis e in generale ad attività riservate ai soli maschi. Per Aristotele (384-383 a.C. – 322 a.C.) la donna è caratterizzata da una natura incompleta, dunque la condizione di “maschi menomati” giustifica la sua sottomissione (la donna è materia e passività, l’uomo è forma e attività). Per Pitagora la donna è generata dal principio cattivo che creò il caos e le tenebre25. Nonostante questo la donna, per il suo ruolo finalizzato alla perpetuazione della specie umana, non può essere esclusa completamente dalla società, quindi ad ella è assegnato il ruolo di moglie e madre, con il compito di occuparsi dell’oikos, l’amministrazione della casa26. Nella millenaria storia di Roma la condizione femminile registra inaspettate aperture e brusche chiusure27. Da una legge inclusa nelle XII Tavole (451-450 a.C.), una tra le prime codificazioni scritte del diritto romano, si può ricavare la posizione giuridica della donna del tempo: «Feminas, etsi perfectae aetatis sint, in tutela esse, exceptis virginibus Vestalibus» Ossia: «[è stabilito], sebbene siano di età adulta, le donne devono essere sotto tutela, eccettuate le vergini Vestali», che erano sotto la tutela del pontefice massimo28. EURIPIDE, Ippolito coronato, 428 a.C., in «Mitologie e… dintorni», http://www.miti 3000.it/mito/biblio/euripide/ippolito.htm 25 Cfr. P. DUBOIS, Sowing the Body. Psychoanalysis and Ancient Representation of Women, Chicago University Press, Chicago-London 1988, trad. it. Il corpo come metafora. Rappresentazioni della donna nella Grecia antica, Laterza, Roma-Bari 1990. 26 Piccole eccezioni riguardano le sacerdotesse e le cortigiane di lusso (le c.d. etère). Cfr. I. SAVALLI, La donna nella società della Grecia antica, Patron, Bologna 1983. 27 Cfr. N. CRINITI, Imbecillus sexus. Le donne nell’Italia antica, Grafo, Brescia 1999. 28 L. PEPPE, Posizione giuridica e ruolo sociale della donna romana in età repubblicana, Giuffrè, Milano 1984, p.24. 24

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Dunque, nei primi secoli della repubblica il sesso femminile è causa limitatrice sia della capacità giuridica sia della capacità di agire. Non a caso è coniata l’espressione latina, ancora oggi usata, imbecillus sexus, sesso debole29. Tale debolezza è infatti dovuta, ritenevano gli antichi romani, a ragioni ascrivibili alla imbecillitas mentis (inferiorità naturale), alla infirmitas sexus (debolezza sessuale) e alla levitatem animi (leggerezza d’animo), che determinano una ignorantia iuris ignoranza della legge). Tuttavia, rispetto alle ateniesi, le donne romane non erano completamente segregate in casa, ma accompagnavano i mariti nei banchetti e condividevano con loro l’autorità sui figli e sui servi. Sul finire del periodo repubblicano si registra un miglioramento dal punto di vista sociale, anche se giuridicamente le donne restano sotto tutela del maschio di casa. Questa evoluzione è dovuta alla continua assenza del maschio, impegnato nelle incessanti guerre, o al suo decesso in battaglia. Causa forza maggiore, pratiche prima disapprovate sono ora accettate, divenendo prassi comune anche durante l’impero. Maggiori beneficiarie di questo nuovo clima sono le donne di “buona famiglia”, ammesse anche nelle scuole. Così le donne hanno potuto lasciare traccia di sé sulla scena sociale e, a volte, anche in quella politica30. Nello stesso tempo cominciano a circolare le opere di autori del nascente cristianesimo, che riconducono la donna nello spazio della famiglia e della casa. 1.4. I “peccati” delle donne medievali Nel Medioevo la donna è sempre considerata inferiore all’uomo, anche se questa condizione ha risvolti diversi secondo le diverse aree geografiche e la periodizzazione presa in considerazione31.

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TACITO, Annales (114-120 ca.), 3,33. Cfr. D. GOUREVITCH, M.T. RAEPSAET-CHARLIER, La femme dans la Rome antique, Hachettes, Paris 2001, trad. it. La donna nella Roma antica, Giunti, Firenze 2003. 31 Per tutti cfr. G. DUBY, M. PERROT (a cura di), Storia delle Donne in Occidente. Il Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2005 (tomo 2 della traduzione dei 5 volumi originali in francese Histoires des femmes en Occident, 5 voll., Paris, Plon 1991- 1992). 30

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Nell’occidente cristiano, si parte da un’ondata misogina dell’Alto Medioevo, dovuta al monopolio del sapere e della cultura da parte degli uomini della Chiesa di Roma. Basandosi sulle affermazioni della Bibbia e dei primi apologeti cristiani, alla donna si continuano infatti ad attribuire sia improbabili errori di natura ― dovuti al fatto di essere un “uomo mutilato, fallito e mal riuscito”32 ― sia colpe imperdonabili ― dalla tentazione di Adamo alla disobbedienza verso Dio, dalla morte di Giovanni il Battista alla rovina di Sansone. La donna è dunque inferiore, oggetto di perdizione e pure strumento del diavolo, per questo deve essere temuta e controllata. Tertulliano (150 – 220 ca), apologeta cristiano, è chiaro, la donna è «Diaboli ianua»: Tu sei la porta del diavolo, tu sei la profanatrice dell’albero della vita, tu sei stata la prima a violare la legge divina, tu sei colei che persuase Adamo, colui che il diavolo invece non riuscì a tentare. Tu che hai infranto l’immagine di Dio, l’uomo, con tanta facilità. Per causa tua esiste la morte, anche il Figlio di Dio ha dovuto morire. 33

Alla cultura patriarcale si aggiunge la sessuofobia della Chiesa di Roma, per la quale la donna è la tentatrice di tutte le sporcizie carnali34. La spiritualità del cristianesimo è tutta trascendentale, maschile e disgiunta dal corpo, per questo la sessualità è perdizione, anzi, secondo sant’Agostino (354-430), essa è la prima conseguenza del “peccato originale”, poiché dopo aver mangiato il frutto proibito, Adamo ed Eva subirono l’impulso sessuale (libido e concupiscenza), che prima non percepivano, e per questo si coprirono. Poiché il piacere fisico ha la capacità di obnubilare la coscienza cristiana, il cristianesimo toglie la sessualità dalla sfera naturale, disegnando la donna come un soggetto istigatore, luogo comune che accompagna sempre il femminino35. Lo ricorda Tommaso d’Aquino ad esempio nella Summa Theologiae (1265–1274). De Cultu Feminarum, (203-206), Liber I, cap. 1, 2. 34 Molte altre religioni, specialmente le altre monoteiste, hanno avuto analoghe manifestazioni di esasperata sessuofobia, lasciando segni nel costume delle rispettive società. Cfr. D.Ø. ENDSJØ, Sex og religion. Fra jomfruball til hellig homosex, Universitetsforlaget, Oslo 2009, trad. it. Tra sesso e castità. Un viaggio fra dogmi e tabù nelle religioni del mondo, Odoya, Bologna 2012. 35 Si ritornerà su questo nel capitolo terzo, al paragrafo 2. 32 33

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Il Medioevo procede su un doppio binario: da un lato, la donna continua a essere considerata inferiore all’uomo; dall’altro, le necessità del tempo (guerre e sviluppo dei commerci) impongono un diverso modo di valutare la donna, ora più legata alla realtà. Partendo dalle classi superiori, la donna inizia ad assumere nuove responsabilità, per l’assenza ricorrente del maschio di casa impegnato soprattutto nelle guerre. Con la nascita della borghesia, il Basso Medioevo rivaluta completamente la figura femminile, ora istruita e inserita nella società. La donna borghese, così, apporta un sostanziale riscatto alla condizione femminile36. Tuttavia, quando un potere inizia a essere minacciato, quando sorgono cause economiche, quando le questioni religiose si radicalizzano (Riforma e Controriforma), quando le nuove scoperte scientifiche scuotono il sapere consolidato37, quando l’irrompere della modernità acuisce la tensione sociale, determinando anche una certa ribellione all’ordine patriarcale, l’antico pregiudizio verso le donne è rispolverato. Inizia così la “caccia alle streghe”: le donne cosiddette malefiche diventano assieme il capro espiatorio dei mali del mondo e i simboli del disordine che sembrava prevalere nelle varie società38. La misoginia delle società del tempo tuttavia è un presupposto, non una causa della caccia alle streghe. Anzi, è la caccia alle streghe ad alimentare il sentimento misogino presente, come uno dei trattati più

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Cfr. R. PERNOUD, La femme au temps des cathédrales, Stock-Laurence Pernoud, Paris 1980, trad. it. La donna al tempo delle cattedrali. Civiltà e cultura femminile nel Medioevo, Lindau, Torino 2017; G. DUBY, Dames du XIIe siècle. Ève et les prêtres, vol. III, Gallimard, Paris 1996, trad. it., I peccati delle donne nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 2015. 37 In primis il modello eliocentrico di Copernico che inizia a scalzare quello geocentrico aristotelico-tolemaico. 38 Si è dibattuto a lungo sulle cause che hanno creato questa persecuzione, ma nessuno è riuscito a formulare una spiegazione condivisa. In verità esistono una serie di concause, a volte scollegate tra di loro, sparse nel tempo e nei vari luoghi geografici. Vi furono anche processi di stregoneria maschile, ma la maggior parte delle persone inquisite furono donne. Cfr. B.P. LEVACK, The Witch-hunt in Early Modern Europe, Longman, London 1987, trad. it. La caccia alle streghe in Europa, Laterza, RomaBari 2004; M. MONTESANO, Caccia alle streghe, Salerno, Roma 2012.

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noti sulle streghe, il Malleus Maleficarum (letteralmente “martello delle malefiche”, cioè delle streghe)39, attesta: Le donne sono difettose di tutte le forze tanto dell’anima quanto del corpo, non c’è da meravigliarsi se operano molte stregonerie contro gli uomini, che esse vogliono emulare. Infatti, per quanto riguarda l’intelletto e la comprensione delle cose spirituali, esse sembrano appartenere a una specie diversa da quella degli uomini, e questo viene richiamato dall’autorità e dalla ragione con vari esempi della Scrittura. […] Già nella prima donna è evidente che per natura ha minor fede: infatti, al serpente che le chiedeva perché non mangiassero da tutti gli alberi del Paradiso, già con la sua risposta si rivelava in dubbio e senza fede nelle parole di Dio. E tutto questo è dimostrato dall’etimologia del nome. Infatti, femmina viene da “fede” e “meno” perché ha sempre minor fede e la serba di meno. […] Dunque, una donna cattiva per natura, che è pronta a dubitare della fede, è altrettanto pronta a rinnegarla, ed è questa la caratteristica fondamentale delle streghe 40.

Gli autori di questo manuale ignorarono la corretta etimologia del termine “femmina”, che ha la stessa radice di fecundus, rimandando quindi all’idea di allattare, per cui femmina è colei che allatta e per estensione la madre di tutti41. Con il Malleus Maleficarum si ritorna dunque indietro, poiché gli autori fanno credere che in ogni donna c’è sempre una Eva. Sprenger e Kramer, quindi, attingendo dalle credenze medievali, non aggiungono nulla di nuovo ai concetti di stregoneria e maleficio, se non una maggiore enfasi misogina sulla condizione di inferiorità morale e intellettuale delle donne e sulla loro spontanea inclinazione al peccato: 39

È un manuale pubblicato tra il 1486 e il 1487, redatto dai domenicani Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer. Nella prima parte del trattato, i due autori dimostrano (alla loro maniera) l’esistenza della stregoneria, spiegando perché le donne ne sono più affette degli uomini. 40 H. INSTITOR (KRÄMER), J. SPRENGER, Malleus maleficarum, Strasburgo 1486-1487, trad. it., Il martello delle streghe. La sessualità femminile nel “trasfert” degli inquisitori, Spirali, Milano 2003, pp. 90-91. 41 Cfr. Voce “Femmina”, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di Ottorino Pianigiani, versione online: http://www.etimo.it/?term=femmina

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A ben guardare tutti i regni del mondo sono stati rovesciati a causa delle donne. […] Non c’è quindi da meravigliarsi se il mondo soffre ancora per la malizia delle donne. […] Perché davvero, se non esistessero le iniquità delle donne, anche a prescindere dalla stregoneria, a quest’ora il mondo rimarrebbe libero da innumerevoli pericoli42.

Unica eccezione per gli estensori del Malleus maleficarum è quella di Maria madre di Cristo, che «per grazia e per natura la fede non venne meno»43. Il Malleus maleficarum divenne la “bibbia” dei cacciatori di streghe cattolici. Anche se non fu adottato ufficialmente dall’Inquisizione, riscosse molto successo tra ecclesiastici e giudici44. Metaforicamente oggi si dice “caccia alle streghe” per riferirsi alla ricerca accanita e sistematica, o al persistente controllo poliziesco, di persone giudicate pericolose sulla base di soli preconcetti e semplici sospetti. Sarà pure una coincidenza storica, ma questa campagna contro le donne è portata avanti proprio nei secoli contrassegnati da un aumento del potere politico di molte donne, che rovesciano quello che era considerato l’ordine naturale (ad esempio, la successione al trono per linea maschile)45. Comunque, nel Settecento, spenti i roghi, le streghe scompaiono.

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Gli autori elencano una serie di regni che subirono sconfitte e massacri a causa delle donne: Troia per il ratto di Elena, la Giudea a causa di Gezabele e di sua figlia Atalia, Roma per colpa di Cleopatra. H. INSTITOR (KRÄMER), J. SPRENGER, Il martello delle streghe, cit., p. 93. 43 Ivi, p. 91. 44 Ci furono altri trattati sulla stregoneria, tra questi, due acquisirono una popolarità maggiore: Disquisitionum magicarum libri sex, del giudice Martin Delrio, molto diffuso nel Seicento; Practica nova imperialis saxonica rerum criminalium, del giurista luterano Benedikt Carpzov, che divenne il Malleus maleficarum dei cristiani riformati. 45 L. ARCANGELI, S. PEYRONEL RAMBALDI (a cura di), Donne di potere nel Rinascimento, Viella, Roma 2008; B. CRAVERI, Amanti e regine. Il potere delle donne, Adelphi, Milano 2005, ora 2014.

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1.5. L’apparente riscatto delle donne moderne Nel XVIII secolo, pur restando la società patriarcale e maschilista, le donne riescono a vivere una modesta autonomia, alcune accedono all’istruzione superiore e anche all’insegnamento, altre trovano occupazione negli ospedali, nelle fabbriche e negli uffici46. Con la Rivoluzione francese, poi con l’età napoleonica, si ritorna invece indietro. Se i moti del 1789–1799 segnano un nuovo corso politico, per le donne la rivoluzione ha ben poco di rivoluzionario. Ai principi di liberté, egualité, fraternité sono posti infatti precisi confini: la rivoluzione avrebbe dovuto cancellare le disuguaglianze artificiali, specialmente quelle dovute ai privilegi di nobiltà e clero, e non quelle ritenute “naturali”, dovute allo status fondato sul sesso. Nonostante la partecipazione attiva delle donne ai moti rivoluzionari47, esse beneficiano di una minima liberté, di poca egualité (solo morale e giuridica) e una modica dose di fraternité, per frenare le richieste rivoluzionare di parità delle sorelle della Nazione. Eppure, per personificare la Repubblica francese, è scelta una figura femminile, la Marianne, una giovane donna dal cappello frigio, simbolo della Patria coraggiosa. Il paradosso della Rivoluzione è stato quello di affermare l’uguaglianza dei cittadini attraverso una serie di eccezioni, rafforzando antichi pregiudizi, per non sovvertire un “ordine naturale”. Per questo le donne fanno irruzione nello spazio politico della rivoluzione, chiedendo piena parità di diritti. In particolare, una di loro, Olympe de Gouges (1748-1793) presenta nel 1791 la “Dichiarazione dei diritti delle donne e della cittadina”, volendo integrare la più celebre “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789. Nel testo Olympe de Gouges, pseudonimo di Marie Gouze, denuncia la man46

Cfr. G. DUBY, M. PERROT (a cura di), Storia delle Donne in Occidente. Dal Rinascimento all’Età moderna, Laterza, Roma-Bari 2009; A.M. MAMBELLI, Il Settecento è donna, Il Girasole, Ravenna 1985; M. HUNT, Women in Eighteenth Century Europe, Longman, Harlow (UK) 2010, ora Routledge, London 2014. 47 Celebre è la “marcia delle donne su Versailles” del 5 ottobre 1789. Cfr. D. GODINEAU, Citoyennes tricoteuses. Les femmes du peuple à Paris pendant la Révolution française, Éditions Alinéa, Paris 1988, trad. it. Cittadine tricoteuses. Le donne del popolo a Parigi durante la Rivoluzione francese, La Tartaruga, Milano 1989.

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canza di libertà e di uguaglianza delle donne, chiedendo il riconoscimento di una serie di garanzie che rendano effettivi i princìpi della rivoluzione anche per le donne. Insistendo perché si rendano alla donna tutti quei diritti naturali che la forza del pregiudizio le ha sottratto, scrive all’inizio della sua dichiarazione: Uomo, sai essere giusto? È una donna che te lo domanda: non vorrai toglierle questo diritto. Dimmi, chi ti ha dato il sovrano potere di opprimere il mio sesso? La tua forza? Le tue capacità? Osserva il creatore nella sua saggezza; percorri la natura in tutta la sua grandezza cui tu sembri volerti avvicinare, dammi, se puoi, un esempio di questo impero tirannico. Risali agli animali, consulta gli elementi, studia i vegetali, dà infine un’occhiata a tutte le modificazioni della materia organizzata e arrenditi all’evidenza quando te ne offro i mezzi; cerca, scava e distingui se puoi, i sessi nell’amministrazione della natura. Ovunque tu li troverai confusi e cooperanti nell’insieme armonioso di questo capolavoro immortale. Soltanto l’uomo ha fatto di questa eccezione un principio 48.

Nel primo articolo della sua dichiarazione, Olympe de Gouges è semplicemente essenziale: «La donna nasce libera e ha uguali diritti all’uomo»49. De Gouges avrebbe voluto far votare la sua dichiarazione dall’Assemblée Nationale ma, per la sfrontatezza delle sue rivendicazioni, è condannata a morte per decapitazione. Il procuratore della Comune di Parigi, Pierre-Gaspard Chaumette, si dichiara soddisfatto della condanna a morte di de Gouges, colpevole secondo lui di aver «dimenticato le virtù che convengono al suo sesso»50. Se nel nuovo corso della storia, la donna non è più identificata come un uomo imperfetto, ma come una creatura diversa, la sua natura

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O. DE GOUGES, Déclaration des droits de la femme et de la citoyenne, 1791, p. 5, in «Gallica», https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k64848397/f1.image 49 Ivi, p. 7. 50 Cfr. O. BLANC, Marie-Olympe de Gouges. Une humaniste à la fin du XVIIIe siècle, R. Viénet, Paris 2003, p. 227.

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di madre e moglie resta vincolante ed esclusiva, continuando a segnare il suo destino51. Si ritorna così indietro. Le legislazioni ottocentesche, pur facendo proprio il concetto di uguaglianza tra uomo e donna, sono tuttavia ancora alterate dall’accettazione di una differenza sessuale che colloca i generi maschile e femminile in livelli diversi rispetto alla legge. Si continua così a relegare la donna ha un ruolo marginale, sempre di subordinazione all’uomo: se la sua incapacità giuridica non le permette di ricoprire un ruolo sociale autonomo senza passare per la mediazione degli uomini, la sua incapacità politica funge da freno per la conquista dei diritti negati52. Tuttavia la Rivoluzione francese innesca il seme dei cambiamenti radicali e, nonostante la volontà dei maschi di non alterare lo status quo, le rivendicazioni delle donne cominciano a prendere forma poco alla volta, chiedendo diritti giuridici e politici, ma anche l’accesso incondizionato all’istruzione e l’ammissione alle professioni negate da sempre alle donne53. La strada è tutta in salita, ma pian piano arrivano i frutti: una parziale estensione al voto femminile si ha nel 1755 nella la Repubblica Corsa, seguita nel 1838 nelle Isole Pitcairn (nell’Oceano Pacifico meridionale), nel 1869 nello Stato del Wyoming (USA), nel 1881 nell’Isola di Man (nel Mar d’Irlanda). Il diritto di voto diventa universale in Nuova Zelanda nel 1893, seguita dall’Australia del Sud nel 1895, dal Commonwealth australiano nel 1902, dal Granducato di Finlandia nel 1906 e via via da altre realtà statali54. Nell’epoca moderna la donna entra nelle fabbriche e, anche se sottopagata, acquisisce più diritti. Tuttavia, agli arbori del XX secolo permangono le fratture di genere, associate anche a quelle sociali: le donne del ceto popolare sono le più escluse dalla vita pubblica. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale ricalca la distinzione tra i sessi evidenziando il mito dell’uomo difensore della Patria. Tuttavia la guerra totale mette in discussione i modelli sinora ritenuti naturali e, 51

Cfr. G. DUBY, M. PERROT (a cura di), Storia delle Donne in Occidente. Dal Rinascimento all’Età moderna, Laterza, Roma-Bari 2009. 52 Cfr. ID., Storia delle Donne in Occidente. L’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 2007. 53 Cfr. L. DONOLO, Donne nell’Ottocento. Rivendicazioni e cultura femminile, Pisa University Press, Pisa 2018. 54 Cfr. G. SICARI RUFFO, Il voto alle donne, Mond&editori, Roma 2009.

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I. La donna nella storia

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quindi, immutabili: la donna sostituisce l’uomo, ora assente, in tutte quelle attività che finora erano state di esclusiva pertinenza maschile, scoprendosi capaci di tanti mestieri: «donne spazzine, tranviere, campanare, cantoniere, addirittura pompiere, […] E poi barbiere, boscaiole, tassiste, ma anche direttrici d’orchestra e professoresse»55. La mobilitazione femminile alla guerra è di vaste proporzioni, dallo spionaggio all’industria bellica e dal corpo sanitario al rifornimento al fronte, le donne intervengono attivamente al momento militare, divenendo la prima grande esperienza di partecipazione delle donne alle vicende politiche del proprio Paese56. Non solo, le donne vivono la guerra in maniera molto crudele, diventando spesso “bottino di guerra”. Finisce la guerra e tanto debito nei loro confronti non trova purtroppo ricompensa. Con l’avvento dei regimi fascisti e reazionari si ritorna ad attuare politiche fortemente maschiliste, esaltando una figura di donna come madre esemplare di figli destinati a servire la Patria. La donna diventa un “essere mitizzato”57 di una politica in favore della natalità e della famiglia tradizionale. Insomma per i fascismi la donna deve essere una “docile patriottica giumenta”, asservita al maschio virile e fertile per la madrepatria. Nel fascismo italiano la donna è completamente nazionalizzata, la sua principale funzione di procreatrice è oggetto di pubblica esaltazione, con premi per madri prolifere; la sua deferenza di sposa e figlia esemplare è celebrata come ideale femminile patriottico58. Si legge nel periodico Critica fascista: La donna fascista deve essere madre, fattrice di figli, reggitrice e direttrice di vite nuove […], per essa occorre una intensa evoluzione 55

C. GALIMBERTI, Non si può pensare la guerra senza le donne, in AA. VV., Donne nella grande guerra, il Mulino, Bologna 2014, pp. 31-32. 56 Cfr. A. GUALTIERI, La Grande Guerra delle donne. Rose nella terra di nessuno, Mattioli, Fidenza (Parma) 2012; B. MOZZI, Le donne nella Grande Guerra, Biblioteca dei Leoni, Villorba (Treviso) 2018. 57 A. VICENTE, Antifeminismo, in A. MARUJO, J.E. FRANCO (Eds.), Dança dos Demónios. Intolerância em Portugal, Círculo de Leitores, Lisboa 2009, p. 455. 58 Cfr. V. DE GRAZIA, Le donne nel regime fascista, Marsilio, Venezia 1993, ora 2007.

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spirituale verso il sacrificio, l’oblio di sé, l’anti-edonismo individualistico.59

Lo scoppio del secondo conflitto mondiale chiama a raccolta tutte le energie dello Stato, comprese le donne. Queste diventano anche protagoniste attive di una resistenza partigiana contro i regimi nazifascisti, diventando “volontarie per la libertà”60. A partire dal secondo dopoguerra la situazione delle donne migliora gradualmente: le Costituzioni degli Stati democratici fanno della piena uguaglianza fra maschi e femmine un principio basilare, la partecipazione attiva delle donne alla vita politica è contemplata da quasi tutti gli ordinamenti nazionali, la donna può accedere liberamente a ogni grado di istruzione e a qualsiasi occupazione lavorativa, si codificano le prime importanti disposizioni internazionali sulla parità tra uomo e donna. Così, la Carta fondante dell’organizzazione delle Nazioni Unite al preambolo dichiara di «riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne», ribadendo questa ultima uguaglianza all’articolo 55, in cui si stabilisce che: Le Nazioni Unite promuoveranno […] il rispetto e l’osservanza universale dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzione di razza, sesso, lingua o religione.61

A questo importante traguardo, fanno seguito altre disposizioni internazionali 62, tra cui la “Dichiarazione sull’eliminazione della vio-

59

ARGO, Compiti della donna, in «Critica fascista», n. 14, 1933, p. 267. Cfr. L. LEIGH WESTERFIELD, ‘This Anguish, Like a Kind of Intimate Song’. Resistance in Women’s Literature of World War II, Rodopi, Amsterdam-New York 2004; G. VECCHIO (a cura di), La Resistenza delle donne 1943-1945, In dialogoAmbrosianeum, Milano 2010. 61 U.N., Universal Declaration of Human Rights, in «United Nations. Human Rights. Office of the High Commissioner», http://www.ohchr.org/EN/UDHR/Documents/ UDHR_Translations/itn.pdf 62 Cfr. P. DEGANI, Condizione femminile e Nazioni Unite, Cleup, Padova 2010. 60

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lenza contro le donne”, adottata senza voto dall’Assemblea generale con risoluzione 48/104 del 20 dicembre 199363. Nel 1999 le Nazioni Unite istituiscono anche la “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, una ricorrenza istituita dall’Assemblea Generale con la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre. La data è il 25 novembre, scelta in ricordo del brutale assassinio avvenuto nella Repubblica Dominicana nel 1960 delle tre sorelle Mirabal, uccise a bastonate per l’impegno con cui tentarono di contrastare il regime di Rafael Leónidas Trujillo (19301961)64. Nel luglio 2010, poi, l’Assemblea Generale dell’ONU, per favorire il processo di crescita e sviluppo della condizione delle donne e della loro partecipazione pubblica, ha istituito anche la UN Women (Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile), un organismo ufficiale per la promozione e protezione dei diritti delle donne. Tale istituzione raggruppa in uno solo quattro precedenti uffici delle Nazioni Unite che si occupavano di parità di genere, ossia la “Divisione per l’avanzamento delle donne”, l’Istituto internazionale di ricerca e formazione per la promozione delle donne, l’Ufficio del consigliere speciale sulle questioni di genere e sulla promozione delle donne, il Fondo ONU per lo sviluppo delle donne65. Nonostante le convenzioni internazionali e nazionali la violenza contro le donne è un problema persistente, retaggio di una concezione che affonda le sue radici nell’idea del supermaschio dominatore: la violenta autorità maschile sulle donne si è ritirata dalla sfera pubblica, restando prepotentemente in quella privata. Le donne così continuano a essere offese, denigrate, vestite di lividi, molto spesso sono uccise, regolarmente violate sessualmente. Cfr. Assemblea Generale ONU, Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, 1993, in «Università degli Studi di Padova. Centro di Ateneo per i Diritti Umani», http://unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/Dichiara zione-sulleliminazione-della-violenza-contro-le-donne-1993/27. 64 La risoluzione in UNITED NATIONS, International Day for the Elimination of Violence against Women, in «UN», http://www.un.org/womenwatch/daw/news/vawd. html. 65 L’organismo internazionale ha un sito web istituzionale, raggiungibile all’url: http://www.unwomen.org/en. 63

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Capitolo II

La violenza sessualizzata

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2.1. Genere e sesso La storia delle donne non è solo segnata da discriminazioni, prevaricazioni ed esclusioni, le violenze sono l’automatica conseguenza della colonizzazione della donna da parte dell’uomo. Queste violenze segnano indelebilmente la realtà delle donne. C’è la violenza che ammazza; poi c’è quella che non uccide, ma lascia ferite; poi ancora c’è quella che non ferisce il corpo, ma lascia segni ancor più profondi di quelli esteriori. Occorre riconoscere che la violenza sulle donne è una violazione dei diritti umani, una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne, e che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini.1

La violenza sulle donne è una manifestazione prepotente che si ripropone nel corso della storia in forme diverse, ma nella sostanza sempre uguale. Attraverso la violenza, gli uomini perpetuano i procesCfr. Assemblea Generale ONU, Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, 1993, in «Università degli Studi di Padova. Centro di Ateneo per i Diritti Umani», http://unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/Dichiara zione-sulleliminazione-della-violenza-contro-le-donne-1993/27. 1

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si di stereotipizzazione nei confronti delle donne, marcando la disuguaglianza storica tra i sessi. Occorre fare una distinzione tra violenza contro le donne e violenza di genere, espressioni spesso usate in maniera intercambiabile. Il genere non c’entra con l’anatomia. Esso non è un concetto statico o innato, in quanto si definisce e si forma nel corso dello sviluppo della persona, indicando sia il sistema socialmente costruito intorno alle differenze tra uomo e donna basato sull’età, sulla religione e sull’origine etnica o nazionale (cioè il ruolo di genere) sia la percezione che ciascuno ha di sé in quanto maschio o femmina (cioè l’identità di genere)2. Un’altra cosa ancora è l’orientamento sessuale, ossia il tipo di persone da cui un certo individuo è sessualmente attratto. Mentre il sesso è congenito e fisso, ci sono molte sfumature dell’essere uomini o donne. A fare gli uomini e le donne non sono solamente i genitali, ma si aggiungono altri fattori, poiché molte persone nascono e crescono in una condizione di discontinuità con il sesso in dotazione: per esempio ci sono persone che sono anatomicamente donne ma si sentono uomini, o il contrario; oppure non si percepiscono né donne né uomini. Riguardo l’orientamento sessuale, il panorama è ancor più variegato: per esempio, ci sono persone bisessuali e quelle asessuali (ossia che non provano attrazione sessuale per altri individui pur essendo capaci di avere delle relazioni affettive), oppure ci sono persone che hanno rapporti con transgender non operati e così via. Dunque, il sesso riguarda cosa si è, il genere cosa si sente di essere: il primo si individua attraverso l’evidenza biologica, il secondo è un modo di essere che si manifesta attraverso la percezione sessuata di se stesso3. Con l’espressione “violenza di genere” si indicano pertanto tutte quelle forme di limitazione dell’autonomia e delle libertà personali, quindi di dominio e sopruso sulla vita e sul corpo di un vasto numero di persone discriminate in base al sesso e alla percezione sessuale che 2

Cfr. R.W. CONNELL, Gender, Polity Press, Cambridge 2002, trad. it. Questioni di genere, il Mulino, Bologna 2006. 3 Cfr. anche E. ABBATECOLA, L. STAGI, R. TODELLA, Identità senza confini. Soggettività di genere e identità sessuale tra natura e cultura, FrancoAngeli, Milano 2008; E. RUSPINI, Le identità di genere, Carocci, Roma 2009.

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II. La violenza sessualizzata

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hanno di sé. L’espressione “violenza contro le donne” è invece una violenza di genere riferita a donne o bambine. Entrambe perpetuano il processo di stereotipizzazione dei ruoli tra generi. Queste violenze possono essere attuate sia in ambienti privati (famiglia in primis) sia pubblici, riguardano azioni o comportamenti che procurano danni o sofferenze fisiche o mentali, la minaccia di compiere tali azioni, la coercizione o altre prepotenze.

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2.2. La violenza come concetto plurale La violenza è un concetto plurale e polisemantico, riguarda molti ambiti d’azione e può assumere connotazioni differenti. In generale, la violenza è l’atto del violare e il violento è qualcuno che viola arbitrariamente con la forza lo “spazio”, fisico e psichico, dell’Altro […]. La violenza è dunque potere, nel senso di dominio, di riduzione di qualcuno o qualcosa sotto una forza e una volontà prepotente. In quanto strumento del potere, essa diventa anche generatrice del potere stesso. La violenza di per sé è destrutturante, produce disordine disgregando i legami sociali ed etici4.

La stessa etimologia del termine riporta a uno squilibrio, a un’infrazione, a una prepotenza. La violenza, infatti, si connette a “violare”, ovvero infrangere i limiti. Il violento, dal latino violéntus, è dunque colui che commette un eccesso, una sproporzione, come la terminazione uléntus indica5. La violenza può esprimersi in tre modi: attraverso un’azione diretta e concreta, per mezzo di una condotta, tramite una formazione intellet-

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R. PATERNOSTER, La politica del male. Il nemico e le categorie politiche della violenza, Tralerighe, Lucca 2019, pp. 46-47. 5 Sebbene il termine latino violentia ha la stessa radice di vis, forza, la violenza non è sinonimo di quest’ultimo termine. Al contrario la violenza è spesso lo specchio di debolezze, complessi, rancori, mentre la forza è invece ragionata e misurata.

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tuale6. Dunque: la violenza-evento, la violenza–processo e la violenza–forma. La violenza–evento si manifesta con azioni materiali, ossia atti fisici che danneggiano l’integrità fisica, ma anche attraverso condotte concrete che colpiscono fattivamente la mente o lo spirito. La violenza–processo colpisce indirettamente, attraverso programmi di oppressione e comportamenti che privano dei diritti, come la distribuzione ineguale dell’accesso alle opportunità e alle risorse (materiali, intellettuali, economiche, politiche, giuridiche e sociali)7, le limitazioni delle libertà, la promozione del terrore8. Questa violenza può essere attuata sia attraverso decisioni sia per mezzo di nondecisioni, quest’ultime sono determinate da una volontà di negazione mimetizzata che porta a decidere di non decidere, senza renderlo pubblico, trascurando le richieste, oppure facendo finta di non conoscerle, oppure ancora sopprimendole ancor prima che vengano presentate9. La violenza–forma appartiene ai diversi ambiti della cultura. Essa fornisce la base da cui le altre due traggono nutrimento. Infatti, in essa albergano le visioni del mondo che, attraverso modelli cognitivi fissi, ispirano, giustificano e legittimizzano le altre due tipologie di violenza. Razzismo, xenofobia, misoginìa, sessismo, maschilismo e omofobia sono i maggiori modi di pensiero a schema rigido, ossia arbitrarie convinzioni che influenzano, stimolano e motivano la svalutazione di 6

Il sociologo norvegese Johan Galtung, grande esperto di mediazione nei conflitti, li denomina come “violenza diretta”, “violenza strutturale” e “violenza culturale”. Cfr. il suo Peace by peaceful means. Peace and Conflict, Development and Civilization, International Peace Research Institute, Oslo – Sage, London 1996, trad. it. Pace con mezzi pacifici, Esperia, Peschiera Borromeo 2000. 7 Ad esempio favorendo l’analfabetismo (primario e di ritorno), la marginalizzazione (per motivi sociali, razziali o di genere), l’impoverimento, l’accesso alle cure, la delegittimazione politica e così via. 8 “Il terrore è una manifestazione diretta o indiretta della capacità di violenza”. Cfr. il mio La politica del Terrore. Il Terrorismo: storia, concetti, metodi, Aracne, Roma 2015, pp. 19-29. 9 È questa quella che il politologo Peter Bachrach e l’economista Morton Baratz hanno chiamato “l’altra faccia del potere”, quella delle “non–decisioni”. Cfr. P. BACHRACH, M.S. BARATZ, Power and Poverty. Theory and Practice, Oxford University Press, Oxford 1970, trad. it. Le due facce del potere, Liviana, Padova 1986, in particolare pp.72–74.

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una persona o di un gruppo, convalidando atteggiamenti soggioganti e prepotenti nei loro confronti. Dunque la violenza è l’insieme di azioni, condotte e strumenti che permettono di dominare sull’altro, condizionando la sua libera scelta, in primis quella di non subire violenza. La violenza è pertanto trasgressione, disordine e distruzione. È riduzione della vittima sotto la forza arbitraria del persecutore. È violazione di uno spazio e di un tempo. È travalicazione arrogante di un confine. È disgregazione dei legami sociali ed etici. È interruzione del dialogo. È prepotenza liquida che si insinua nel corpo e nella mente. La violenza è pertanto uno strumento di dominio che prevede danni fisici, costrizione emotiva, oppressione sociale, politica o economica. Per questo la violenza è un mezzo e non un fine. In quanto mezzo, il risultato della violenza è quello di distruggere il senso delle cose, ecco perché non potrà mai essere priva di senso, altrimenti ci troveremmo in presenza di squilibrati. In quanto mezzo la violenza o instaura o conserva un dominio10. Misoginìa, sessismo e maschilismo sono gli elementi centrali nella costruzione della violenza sulle donne. Il termine misoginìa deriva dal sostantivo greco antico misògynos, composto da mìsos, odio, e gyné, donna, ed è appunto un’avversione assoluta verso il genere femminile inteso come gruppo, come se esse avessero peculiarità che le rendono tutte uguali11. Da questo nascono condotte violente e atti discriminatori. La misoginìa non è rivolta uniSull’argomento in generale cfr. A.T. VAZSONYI, D.J. FLANNERY, M. DELISI (Eds.), The Cambridge handbook of violent behavior and aggression. Cambridge University Press, Cambridge 2018. 11 Il termine compare per la prima volta nel 1620 in un’opera teatrale scritta in forma anonima e pubblicata dall’editore londinese Richard Meighen dal titolo Swetnam the Woman-Hater. È una risposta da parte di alcune femministe al pamphlet The arraignment of lewd, idle, froward , and unconstant women, scritto da Joseph Swetnam cinque anni prima con lo pseudonimo di Thomas Tell-Troth. Nel libello Swetnam dà sfogo a tutto il suo odio sessista contro le donne. Nell’opera teatrale il personaggio principale si chiama Misogynos, rappresentando proprio Swetnam. Il termine misoginìa resta impopolare sino al 1974, quando torna alla ribalta grazie all’attivista Andrea Dworkin, la quale nel 1974 scrisse Woman Hating. A Radical Look at Sexuality. Per la sua attività radicale a difesa delle donne Andrea Dworkin è tacciata di misandrìa, termine speculare e contrapposto a misoginìa. 10

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camente verso il genere femminile, ma anche nei confronti di chi si “avvicina” al femminile adottando atteggiamenti o atti che simbolicamente rappresentano attributi appartenenti alle donne, discostandosi così dall’arbitraria stereotipizzazione di maschi e femmine. Dunque anche verso gli uomini che si discostano dalla mascolinità come gli omosessuali (omofobia) e i transessuali (transmisoginìa), considerati il contraltare simbolico della virilità. Se la misoginìa è un sentimento di matrice esclusivamente psicologica e individuale, il sessismo e il maschilismo sono concetti sociali e di formazione ideologica, in quanto prodotti della cultura. Il termine sessismo è coniato nel Novecento dalle sociologhe francesi Liliane Kandel e Marie-Josèphe Dhavernas pensando alla contiguità semantica e fonetica con il termine razzismo. Come quest’ultimo, il sessismo esprime quindi un carattere sociale e politico, o semplicemente interpersonale, di una discriminazione basata sulla stereotipizzazione estremizzata dei ruoli di genere, che ne limita ruoli e diritti12. Il maschilismo, invece, è una (presunta) superiorità dell’uomo sulla donna sul piano biologico, intellettuale e psicologico. Il sessismo maschilista porta alla devalorizzazione delle donne, determinando una loro subordinazione all’uomo, che instaura un sistema di dominazione e oppressione. Più delle altre forme, la violenza sulle donne contiene impliciti culturali, retaggio di antichi pregiudizi13, che sostengono e rendono possibile prepotenze, maltrattamenti, coercizioni, minacce, soprusi, sino a condotte letali. Tali pregiudizi sono stati così assimilati dalla cultura, che sono diventati parte della strutturazione sociale, dalla divisione di ruoli al semplice linguaggio quotidiano. La tendenza dominante è così divenuta quella di sminuire, banalizzare, nascondere o addirittura dare per scontata la sottomissione a questo tipo di violenza: Idee, credenze e convinzioni, stereotipi e pregiudizi, norme giuridiche e pratiche sociali, comportamenti individuali e collettivi concor12

Cfr. M.-J. DHAVERNAS, L. KANDEL, Le sexisme comme réalité et comme représentation, in «Les Temps Modernes», n. 444, juillet 1983, pp. 3-27. 13 Vedi supra cap. I.

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II. La violenza sessualizzata

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rono a perpetuare e legittimare la gerarchia e la disuguaglianza fra i sessi.14

La violenza contro le donne esprime dunque un fallimento evolutivo, che frena di fatto il cammino verso un reale avanzamento nel processo egualitario, impedendo concretamente il godimento da parte delle donne dei naturali diritti umani. Questi ultimi rimandano al diritto delle donne alla vita, alla libertà, alla sicurezza; il diritto a un egualitario standard di salute fisica e mentale; il diritto a non essere sottoposte a trattamenti crudeli, disumani e degradanti; il diritto all’istruzione e allo sviluppo personale; il diritto alla libertà nelle espressioni artistiche e culturali; il diritto alla libertà di movimento, di opinione e di manifestazione; il diritto a godere di pari condizioni nell’accesso al matrimonio in piena libertà, durante la vita coniugale e al momento della sua cessazione; il diritto alla partecipazione culturale, sociale e politica; il diritto a un pari accesso al lavoro e a un’uguale retribuzione per le stesse mansioni; il diritto a essere pienamente donna. 2.3. I tanti “lividi” delle donne La violenza contro le donne è un fenomeno universale, invasivo e multifattoriale, che assume diverse forme nello spazio e nel tempo 15. Per secoli questa violenza rivolta contro le donne, pur massicciamente presente nella quotidianità delle donne è rimasto un problema invisibile, diventando paradossalmente finanche una “normalità” delle relazioni tra i sessi. Nel 1993, l’Assemblea Generale delle Nazioni Uniti, ammettendo l’urgenza di riconoscere il bisogno «di una universale applicazione alA. RIVERA, La Bella, la Bestia e l’Umano. Sessismo e razzismo senza escludere lo specismo, Ediesse, Roma 2010, p. 29. 15 Materia di questo saggio è la violenza politica contro le donne, quindi per un’analisi approfondita sulla violenza domestica (quella che si realizza dentro la famiglia) e su quella sociale (quella che si produce all’interno di una comunità) rimandando a saggi specifici, tra cui quelli di N. MATTUCCI, I. CORTI (a cura di), Violenza contro le donne. Uno Studio Interdisciplinare, Aracne, Roma 2016; C.M. RENZETTI, R. KENNEDY BERGEN (eds), Violence against women, Rowan & Littlefield, New York 2005. 14

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le donne dei diritti e dei principi con riguardo all’uguaglianza, alla sicurezza, alla libertà, all’integrità e alla dignità di tutte le persone umane», identifica la violenza contro le donne come una

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manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne, e che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini.

L’Assemblea Generale delle Nazioni Uniti chiarisce che tale violenza si manifesta attraverso qualsiasi atto che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata 16

La violenza, dunque, può assumere diverse caratteristiche, da quella fisica a quella psicologica e da quella economica a quella sessuale o sessualizzata. Queste categorie della violenza si manifestano separatamente o molto spesso combinate tra loro. Possono essere violenze occasionali o possono durare nel tempo in un crescendo di intensità. La violenza fisica è ogni forma di azione contro il corpo su cui è esercitato un maltrattamento materiale. Dunque qualsiasi atto guidato dall’intenzione di fare del male, con o senza oggetti usati come arma, che provoca lesioni, anche mortali. Quindi dallo schiaffo alle percosse, dalle sevizie all’omicidio. La forma più estrema della violenza fisica sulle donne è l’assassinio. Sono tante, così tante le donne assassinate che si conia finanche un termine femmicidio.

Cfr. Assemblea Generale ONU, Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, 1993, in «Università degli Studi di Padova. Centro di Ateneo per i Diritti Umani», http://unipd-centrodirittiumani.it/it/strumenti_internazionali/Dichiarazionesulleliminazione-della-violenza-contro-le-donne-1993/27. 16

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II. La violenza sessualizzata

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Femmicidio è un vecchio neologismo che identifica la violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna in quanto donna, quella in cui la violenza è l’esito di pratiche misogine e sessiste. Nel 1976 la criminologa e scrittrice Diana Elizabeth Hamilton Russell usa il termine femicide durante una sua testimonianza presso il Tribunale Internazionale dei Crimini contro le donne, sostituendo il termine neutro “omicidio” con “femmicidio” (femicide), ossia l’assassinio di una donna da parte di un uomo per motivi di odio (misoginia)17. Nel corso degli anni, Diana Russell è tornata a occuparsi più volte del femmicidio18, ma nel 2001 assegna il significato definitivo al termine: il concetto di femicide passa dall’uccisione delle donne da parte di uomini, a uccisione di femmine da parte di maschi, includendo tutti gli omicidi sessisti, compreso quelle di bambine e ragazze 19. Da precisare che il vocabolo femmicidio non è il sinonimo del più utilizzato femminicidio. Quest’ultimo termine è coniato dall’antropologa messicana Marcela Lagarde che, ispirandosi alla drammatica violenza quotidiana vissuta dalle donne in Messico, in particolare di quelle di Ciudad Juarez (la città più popolosa dello stato messicano di Chihuahua), lo utilizza per identificare tutti i maltrattamenti subiti dalle donne che non necessariamente culminano nella morte (violenza fisica,

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Russell venne a conoscenza di questo termine nel 1974, quando una sua amica le disse che una donna di nome Carol Orlock stava scrivendo un libro intitolato Femicide. Questo termine compare già nel 1801, nel testo di John Corry “In a Satirical View Of London At The Commencement of the Nineteenth Century (Kearsley, London 1801), con il significato di “uccisione di una donna”. Nel 1827 è usato da William MacNish nella terza edizione di “The confessions of an unexecuted femicide” (W.R. M’Phun, Glasgow 1827). Ancora, il termine ricompare nel 1848 nel “Wharton’s Law lexicon”, un dizionario di giurisprudenza. Cfr. B. SPINELLI, Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, FrancoAngeli, Milano 2008, p. 32. 18 Cfr. J. CAPUTI, D.E.H. RUSSELL, Femicide. Speaking the Unspeakable, «Journal of Personality and Social Psychology», September-October 1979, pp. 424-30, poi in «Ms Magazine» 1,2, Research Library Core, September-October 1990, pp. 34-37; J. RADFORD, D.E.H. RUSSELL, Femicide.The politics of woman killing, Twayne, New York 1992. 19 Cfr. D.E.H RUSSELL, R.A. HARMES, Femicide in Global Perspective, Teachers College Press, New York, 2001, p. 14.

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Il vizio dello stupro

psicologica, sessuale, sul lavoro, educativa, economica, familiare, sociale e istituzionale; sparizioni)20. Impropriamente chiamato “delitto passionale”, il femmicidio è dunque la forma definitiva di violenza sulle donne, una violenza che trova il suo fondamento nella prepotenza misogina e sessista. Non sono quindi delitti passionali, di passione non c’è niente, semmai c’è un perverso senso di superiorità, di possesso e di dominio mancato, che scatenano rabbia incontrollata, gelosia, orgoglio. L’amore non uccide, l’amore è un’altra cosa. Se la violenza fisica arriva persino ad ammazzare, quella psicologica “non fa vivere più”. La violenza psicologica riporta a ripetute umiliazioni, a continui giudizi svalutativi, a insistenti critiche, atteggiamenti questi che destabilizzano la vittima, inducendola a una distorsione della realtà oggettiva. Insomma, comportamenti mirati a ledere l’identità e la dignità di chi è perseguitata. È questa la forma di violenza sulle donne con più sfumature, la più subdola, la più nascosta, quella che non sporca le mani dell’aggressore e non lascia segni visibili sul corpo della vittima: un livido sul viso si vede, uno nell’anima no!21 Avvalorando l’idea che la vittima abbia qualche inadeguatezza o colpa, l’oppressore mira a sottometterla, a controllarla o a plagiarla. La donna è dunque svalorizzata (ad esempio si sminuendola nella sua femminilità e sessualità), trattata come un oggetto (ad esempio considerarla una proprietà esclusiva), privata dei contatti sociali e con la famiglia di origine, oggetto di attenzioni maniacali possessive (ad esempio si controlla cosa fa e dove va), minacciata (ad esempio di toglierle i propri figli), oberata di compiti e incombenze nella gestione del ménage familiare, ignorata nei suoi bisogni, denigrata per le sue credenze religiose (ad esempio impedendole di praticare il proprio culto o costringendola a professare un’altra fede), colpita nei suoi affetti attraverso il maltrattamento di persone a lei care (ad esempio i figli o gli anziani genitori) o del suo animale di affezione. 20

Cfr. M. LAGARDE, Del femicidio al feminicidio, «Desde el jardín de Freud», n. 6, 2006, pp. 216-225. 21 Cfr. S. FILIPPINI, Relazioni perverse. La violenza psicologica nella coppia, FrancoAngeli, Milano 2005; P. PACE (a cura di), Un livido nell’anima. L’invisibile pesantezza della violenza psicologica, Mimesis, Milano 2018.

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II. La violenza sessualizzata

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Ci sono, poi, altre due particolari forme di violenza psicologica sulle donne: il gaslighting e lo stalking. Attraverso il gaslighting si crea una manipolazione cognitiva che

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stringe la donna dentro una fitta trama di asserzioni e constatazioni false, presentate dall’abusante come vere, in modo che la vittima arriva a dubitare delle sue percezioni, della sua memoria, di se stessa, ridotta a una totale dipendenza psicologica (e fisica), incapace di valutare correttamente e di decidere, e presentata al di fuori del contesto relazionale come instabile e bizzarra.22

Il termine gaslighting deriva dall’unione delle parole “gas” e “light” e si riferisce a un’opera teatrale del 1938, Gas light appunto, di cui furono fatti successivi adattamenti cinematografici, fra cui quello di Alfred Hitchcock con “Angoscia” del 1944. La trama tratta di un marito che cerca di portare la moglie alla follia, facendole credere che lei è veramente pazza. Dunque manipola piccoli elementi dell’ambiente, a partire dall’affievolimento delle lampade a gas, percepite dalla donna ma negate dal marito, che insiste essere solo frutto dell’immaginazione della moglie. Attraverso il gaslighting, dunque, la vittima diventa oggetto di azioni volte a insinuare nella vittima il dubbio sulla veridicità e affidabilità delle sue percezioni e sulla lucidità dei propri ragionamenti, in altre parole si fa credere alla donna di essere instabile mentalmente23. Anche lo stalking, rientra nella violenza psicologica. È un vocabolo in uso nel gergo delle attività venatorie, che letteralmente si traduce in “fare la posta”, quindi braccare una preda. Lo stalking è una serie di comportamenti molesti reiterati da intrusioni continue nella vita privata della vittima (ad esempio pedinamenti continui, invio di messaggi al cellulare in continuazione, telefonate assillanti). Atteggiamento da parte del persecutore che finisce per condizionare il normale svolgi-

22

C.M. SCAGLIOSO, Violenza domestica. Una perversione sociale, Armando, Roma 2019, p. 71. 23 Cfr. in breve F. VAGLIO, Il mobbing coniugale, Key, Vicalvi (Frosinone), 2017, pp. 33-35; più analiticamente S. SARKIS, Gaslighting. Recognize Manipulative and Emotionally Abusive People --and Break Free, Da Capo Press, Boston 2018.

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Il vizio dello stupro

mento della vita quotidiana della vittima, ingenerando nella stessa un continuo stato di inquietudine e terrore24. Espressione meno nota della violenza sulle donne, ma ugualmente pericolosa, è quella economica. È ogni forma di privazione e controllo che limiti l’accesso alla indipendenza economica di una persona, al fine di poter esercitare su di essa un controllo indiretto. Tra queste prepotenze rientrano comportamenti quali: negare o limitare l’accesso alle finanze familiari, privare delle informazioni relative alla situazione patrimoniale e reddituale del partner, impadronirsi dei proventi del lavoro della donna usandoli a proprio vantaggio; costringere la donna a spendere il suo stipendio nelle spese familiari, costringerla a fare debiti, tenerla in una situazione di privazione economica continua, impedirle di lavorare25. La violenza sessualizzata, nelle sue tante sfaccettature, è quella che più ferisce l’anima della vittima, la stritola, la umilia, la fa cadere in un vortice dal quale è davvero difficile risalire, lasciando comunque cicatrici invisibili che mai potranno rimarginarsi.

2.4. Violenza sessuale o violenza sessualizzata? La sessualità negli esseri umani ha una molteplicità di valori che trascendono il mero atto fisico. Se nel mondo animale è una manifestazione puramente istintiva e riproduttiva, la relazione sessuale negli esseri umani è una libera relazione di donazione di sé e di accettazione dell’altro che si inserisce in dimensioni culturali e non solo in fatti biologici26. 24

Cfr. B.C. GARGIULLO, R. DAMIANI, Lo stalker, ovvero il persecutore in agguato. Classificazioni, assessment e profili psicocomportamentali, FrancoAngeli, Milano 2016. 25 Cfr. O.I. FAWOLE, Economic Violence To Women and Girls, in «Trauma Violence & Abuse», 9(3), 2008, pp. 167-77. 26 Lo psicologo e psicoterapeuta Fabio Veglia ipotizza l’esistenza di sei dimensioni: riproduttiva (conservare la specie – io e tu), ludica (finalizzata al piacere – io e tu), sociale (costruire legami sociali — noi), semantica (fare all’amore – noi), narrativa (avere una storia d’amore – noi) e procreativa (fare un bambino – io e tu o noi). Cfr. F. VEGLIA, Manuale di educazione sessuale. Vol.1. Teoria e metodologia, Trento, Erickson, Trento 2004. Corsivo mio.

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II. La violenza sessualizzata

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La sessualità umana, dunque, non è naturale come quella del mondo animale, poiché

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non è solo dettata dall’istinto o da una stereotipia di condotte, come accade nell’animale, ma è influenzata da un lato dall’attività mentale superiore e dall’altro dalle caratteristiche sociali, culturali, educative e normative dei luoghi in cui i soggetti sviluppano e realizzano la loro personalità.27

La sessualità umana dovrebbe essere un libero incontro attraverso la mente e non solo tramite il corpo: l’elemento psicologico gioca un ruolo importante, perché non dobbiamo dimenticare che l’organo sessuale più importante nell’essere umano è la testa e non il sesso in dotazione e la sessualità non è una condizione limitata all’uso dei genitali, ma un’esperienza totale. La sessualità negli umani deve avere sempre un senso per entrambi gli attori e deve essere liberamente partecipata, in caso contrario uno dei partner diventa oggetto e l’azione è violenta. Un atto sessuale è sempre possesso: se voluto da entrambi i partner è possesso reciproco, se non consenziente è possesso unidirezionale ed è solo la vittima ad appartenere allo stupratore. Un rapporto sessuale violento indesiderato non è soltanto una deviazione personale, ma anche una degenerazione culturale. Per questo mi trovo in difficoltà a teorizzare e denominare tutte le violenze che si consumano con e attraverso il sesso come “violenze sessuali”. La tesi centrata sul desiderio sessuale mi sembra un attenuante per chi compie questa violenza e, al tempo stesso, un’offesa per la donna, considerata solo per il suo corpo. Dunque non “violenze sessuali”, ma “violenze sessualizzate”, la differenza è sottile, ma importante: le prime sono un abuso che si manifesta nelle relazioni intime (che possono essere all’origine anche consensuali), le seconde sono un atto di forza che si esprime in modo sessuale (e sempre non consensuale). Una violenza sessuale può divenire violenza sessualizzata, il contrario no28. 27 L. BOCCADORO, S. CARULLI, Il posto dell’amore negato. Sessualità e psicopatologie segrete, Tecnoprint, Ancona 2008, p. 77. 28 Si ritornerà sullargomento nel capitolo III al terzo paragrafo.

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Il vizio dello stupro

La violenza sessuale è un aspetto prepotente che nasce da un comportamento sessuale, dunque è una manifestazione sessuale violenta. La violenza sessualizzata è un atto di potere o di controllo non consensuale, concreto, tentato o minacciato che si manifesta attraverso l’uso e/o l’abuso del sesso e/o l’oltraggio di natura sessuale di una persona a causa della propria identità sessuale. Una violenza sessualizzata non soddisfa alcuna funzione erotica principale, poiché la causa della soddisfazione è da ricercare nella pretesa di imporre una propria volontà, nella umiliazione della vittima e dal senso di potere che si ha su di essa. Non a caso, nel commentare una violenza sessualizzata su una donna, il violentatore utilizza frasi del tipo: “È stata mia”, “L’ho posseduta” e così via. L’obiettivo dello stupratore non è dunque il corpo della donna, ma il suo essere, la sua “natura simbolizzata”. Attraverso l’umiliazione del suo corpo, si dissacra il suo essere. Se consideriamo tutti i violentatori come mossi da un impulso sessuale irrefrenabile, trasferiamo la responsabilità a un istinto incoercibile di cui l’aguzzino non è padrone. Tuttavia il motivo di questo tipo di violenza, della scelta di una vittima anziché un’altra, è tutto nella cultura dell’aguzzino e nella sua storia personale. Per questo si tratta di violenza nella sua espressione sessuale29. Gli impulsi possono anche essere animali (il bisogno di copulare), ma le conseguenze di questi istinti sono sempre umane.

2.5. Corpi e menti violate: le molte facce della violenza sessualizzata La violenza sessualizzata può avere molte condotte illecite concretizzate in svariate condizioni: quando manca il consenso libero; quando questo è ottenuto con l’utilizzo della forza fisica, della coercizione, di inganni, di plagio psicologico o minacce; quando la vittima è incapace di intendere e volere; quando la vittima non è completamente cosciente (per uso volontario o involontario di alcool e/o droghe); quando la vittima è addormentata o incosciente. 29

Si approfondirà meglio questo assunto nel capitolo che segue.

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II. La violenza sessualizzata

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La violenza sessualizzata può essere messa in atto indipendentemente dalla relazione che l’aguzzino ha con la vittima (conoscente o sconosciuto) e in qualsiasi ambito (da quello familiare a quello amicale, da quello del lavoro a quello casuale)30. Se tutte le violenze sulle donne sono tortura — in quanto “programmato, deliberato e sistematico oltraggio violento perpetrato sul corpo e sulla mente di una donna, per azzerarla fisicamente, psicologicamente e culturalmente, spogliandola della sua dignità umana, privandola della sua singolarità”31— le violenze sessualizzate sono la forma più estrema che, «protocollando un potere sul corpo», divengono «lo spazio dell’essere senza essere, il margine in cui [la donna] è ancora il proprio corpo senza averne più facoltà»32. La violenza nella sfera sessuale include in generale diverse condotte come lo stupro, qualsiasi contatto materiale indesiderato che sia un atto libidinoso sgradito, la coercizione sessuale, l’esposizione non voluta alla nudità, la divulgazione di foto intime senza consenso, la molestia, l’abuso, le pratiche contro l’integrità sessuale, lo sfruttamento33. In ogni singola storia di violenza sessualizzata spesso si intrecciano oscenamente più condotte violente. Lo stupro è l’invasione indesiderata con l’organo sessuale del violentatore o con altri corpi estranei di qualsiasi parte del corpo della vittima, attuata sia con la forza sia con la minaccia della forza. Lo stupro è un attacco totale all’integrità e alla dignità della vittima, per i suoi gravi effetti può essere paragonato a un’esperienza letale. Il contatto sessuale è toccare intenzionalmente e in maniera libidinosa, anche attraverso i vestiti, le parti intime della donna. La coercizione sessuale riguarda le minacce e i ricatti sessuali che una donna può ricevere dal proprio partner, da altri conoscenti o sco-

30

Le condotte che portano alla violenza sessualizzata differiscono a seconda dei quadri normativi dei diversi ordinamenti giuridici nazionali, mentre le definizioni variano a seconda la prospettiva che si assume (legale, medica, psicologica e così via). 31 Ho parafrasato un passaggio dedicato alla tortura in generale del mio La politica del male, cit., p. 88. 32 Ivi, p. 89. 33 Per tutti cfr., World Health Organization, World report on violence and health, Geneva 2002, pp. 149–150.

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Il vizio dello stupro

nosciuti in qualsiasi ambito (domestico, lavorativo, scolastico e sociale). Violenza è anche l’esposizione non voluta alla nudità, come il divulgare foto intime senza consenso. Diffondere materiale fotografico o video nel compimento di atti sessuali, o di semplici scatti dove è mostrata la nudità, è infatti ritenuto una violenza, anche quando sono state prodotte con il consenso, ma senza la volontà di renderle pubbliche. Anche la costrizione a mostrare la propria nudità in pubblico o in privato è ritenuta una violenza. Le molestie consistono quasi sempre in un insieme di atti ripetuti nel tempo che non implicano un contatto fisico. Possono riguardare approcci di natura sessuale non desiderati e non ricambiati, compreso il corteggiamento insistente e continuo; allusioni sessuali sgradite o espressioni volgari a sfondo sessuale (anche attraverso chiamate telefoniche), oppure ancora commenti offensivi sulla sessualità della donna ovvero osservazioni inappropriate sull’aspetto fisico; diffusione deliberata di pettegolezzi di natura sessuale, mostra di materiale pornografico. A condizioni impari o coercitive e in qualunque situazione, attiva od omissiva, c’è un abuso sessuale quando c’è un coinvolgimento in attività sessuali, fisiche o psicologiche, di una persona non in grado di scegliere perché o sottoposta a costrizione o non è consapevole delle proprie azioni (ad esempio per via dell’età, di una particolare condizione psicofisica e così via). L’abuso sessuale non comporta necessariamente l’atto sessuale in sé, ma può riguardare anche l’esposizione alla visione di vicende a contenuto sessuale (ad esempio film o assistere ad atti sessuali) senza il volontario consenso e sotto costrizione o la piena consapevolezza (nel caso di bambini o di adulti a cui manca la piena facoltà di intendere e volere). L’abusante è sempre una persona in posizione di potere, influenza e controllo su quella abusata (genitore, parente, datore di lavoro, figura spirituale e così via). L’abuso sessuale può includere anche il contagiare deliberatamente il partner con malattie infettive o infezioni di tipo sessuale, oppure utilizzare oggetti, giochi o altre cose durante un rapporto consenziente che causano dolore o umiliazione senza il permesso del partner. Se pur maggiormente motivata da chi li compie come un argomento culturale o religioso, non terapeutico dunque, la mutilazione fem-

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II. La violenza sessualizzata

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minile è sia un atto violento contro l’integrità sessuale femminile sia un abuso sessuale. In realtà la pratica delle modificazioni genitali femminili non trova la sua fonte nella religione, bensì in particolari forme di organizzazione sociale patriarcali basate su un rigoroso controllo sociale della sessualità femminile, che si traduce nel ridurre il desiderio sessuale della donna e nel garantire la verginità34. Secondo la classificazione predisposta dall’Organizzazione mondiale della Sanità si possono distinguere diversi tipi di mutilazioni genitali femminili, che vanno «dall’escissione parziale o totale del clitoride e/o del prepuzio (clitoridectomia)», alla «rimozione parziale o totale del clitoride e delle piccole labbra, con o senza escissione delle grandi labbra (escissione)», sino al «restringimento dell’orifizio vaginale con creazione di un sigillo di copertura tagliando e posizionando le piccole labbra e/o le grandi labbra, con o senza escissione del clitoride (infibulazione)»35. Quest’ultima è la forma di gran lunga più grave di mutilazione genitale femminile, molto praticata in molte società dell’Africa, del Medio Oriente e del Sud-Est asiatico. Le circostanze per compiere orrori sulle donne sembrano non finire mai. Un’altra condotta inaccettabile di violenza sulle donne, riguarda lo sfruttamento sessuale. Questo consiste nel trarre un profitto economico, un vantaggio sociale, un tornaconto personale o un’utilità politica attraverso lo sfruttamento della donna per le sue caratteristiche sessuali. Ricadono in questa forma di violenza, la schiavitù sessuale, il coinvolgimento obbligato in attività di pornografia, il matrimonio coatto, la gravidanza forzata. In breve. La schiavitù sessuale è una forma criminale di servaggio nel lavoro sessuale a cui la donna è costretta a vantaggio economico di altri soggetti, che possono essere una singola persona (protettore) o un’organizzazione criminale che gestisce la tratta delle donne e la relativa prostituzione. Il coinvolgimento in attività pornografiche è invece una condotta inammissibile in cui la donna è costretta alla produzione di video, foto 34

A. MORRONE, La speranza ferita. Storia delle mutilazioni genitali femminili, FrancoAngeli, Milano 2017. 35 La tipologia completa in World Health Organization, Classification of female genital mutilation, in «World Health Organization», https://www.who.int/reproductive health/topics/fgm/overview/en/

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Il vizio dello stupro

o spettacoli a carattere osceno, anche quando la divulgazione di questo materiale, seppur prodotto con il consenso di tutti gli attori coinvolti, non ha l’autorizzazione alla diffusione pubblica. Il matrimonio forzato è una piaga inconcepibile, poiché spesso sono coinvolte ragazze adolescenti e bambine. È una pratica in cui si organizza un’unione contro i desideri e la volontà di qualcuna, che diventa ostaggio di decisioni prese da altri. Abominevole è invece la gravidanza forzata, la cosiddetta “schiavitù procreativa”, l’ultima frontiera dello sfruttamento sessuale: donne e ragazze, spesso rapite, sono stuprate, ingravidate e tenute prigioniere fino al momento in cui partoriscono, con l’intento di poter rivendere i loro figli36. In conclusione di questo tragico e inconcepibile menù di brutalità, c’è la violenza sessualizzata come arma di guerra e metodo di tortura. In questo caso la violenza diventa politica, istituzionale. Come studieremo, in guerra questa violenza non ha nessuna funzione militare, ma serve unicamente per umiliare il nemico; come metodo di tortura, invece, le violenze sessualizzate diventano una delle procedure nella “tecnica di interrogatorio rafforzata”37. Il criminale repertorio delle violenze sessualizzate è vasto e abbondanti sono gli effetti che ognuna di queste violenze produce sulla vittima. Mancando libero consenso e autonoma approvazione della vittima, ogni violenza sessualizzata comporta un’umiliazione continuativa, una prevaricazione completa, una soggiogazione assoluta, una li36 Cfr. C. ALFRED, A.A. FRANCIS, A.C. ALE, Dialectics of the Incubation of ‘Baby Factories’ in Nigeria, «International Journal of Peace and Conflict Studies», vol. 2, n. 1, March 2014, pp. 82-90; J.C. NWAKA, A. ODOEMENE, “Baby Factories”: Exploitation of Women in Southern Nigeria, «Dignity: A Journal on Sexual Exploitation and Violence», Volume 4, Issue 2, Article 2, 2019, pp. 1-15. 37 Enhanced interrogation technique è un eufemismo che identifica il programma di tortura sistematica dei detenuti da parte del governo statunitense, autorizzato dall’amministrazione di George W. Bush e attuato dalla Central Intelligence Agency, dalla Defense Intelligence Agency e da altri distaccamenti delle forze armate statunitensi nei cosiddetti “siti neri” (prigioni segrete) ubicati fuori i confini nazionali (ad esempio Guantánamo e Abu Ghraib). Cfr. A. MCCOY, A Question of Torture. CIA Interrogation, from the Cold War to the War on Terror, Henry Holt & Co, New York 2007; J. MAYER, The Black sites. A rare look inside the C.I.A.’s secret interrogation program, «The New Yorker», August 13, 2007.

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II. La violenza sessualizzata

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mitazione completa all’autodeterminazione sessuale della persona offesa. Ogni violenza sessualizzata, dunque, implica un’invasione del sé, per questo le conseguenze sulle vittime sono sempre devastanti, sia a livello fisico sia di quello psicologico, perdurando nel tempo… perché “la porta” non si chiude dopo che l’aggressore ha violato il domicilio dell’anima della vittima38.

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Cfr. V. SCHIMMENTI, G. CAPRARO (a cura di), Violenza sulle donne. Aspetti psicologici, psicopatologici e sociali, FrancoAngeli, Milano 2016.

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Capitolo III

Dal mito alla storia

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3.1. La sessualità: il mito come fonte della violenza La violenza sessualizzata è storicamente una delle principali armi impiegate dal maschio per assoggettare e controllare il genere femminile. L’intuizione da parte dell’uomo che i suoi genitali potessero servire come arma, sia concreta sia simbolica, per generare dominio, è una delle più scellerate scoperte della storia: La scoperta dell’uomo che i suoi genitali potevano servire come arma per generare paura deve essere annoverata fra le più importanti scoperte dei tempi preistorici […]. Dalla preistoria ai nostri giorni lo stupro ha svolto una funzione critica. Si tratta né più né meno che di un consapevole processo di intimidazione mediante il quale tutti gli uomini mantengono tutte le donne in uno stato di paura.1

Infatti, la conoscenza della funzione dell’organo sessuale maschile nella procreazione segna un importante momento nella storia dei rapporti tra i sessi. Tale scoperta si traduce erroneamente nella valorizzazione da parte del maschio del suo organo sessuale, capace di creare e trasmettere il seme che genera, e nel deprezzamento di quello femminile, considerato unicamente come ricettacolo del liquido seminale.

1 Ho parafrasato un passaggio del saggio Contro la nostra volontà, della giornalista e attivista per i diritti delle donne Susan Brownmiller. Cfr. il suo Agaist Our Will. Men, Women and Rape, Simon & Schuster, New York 1975, trad. it. Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale, Bompiani, Milano 1976, p. 13.

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Il vizio dello stupro

Probabilmente i primi umani credevano che fosse lo spirito di qualche entità sovrannaturale che, penetrando nella donna, la ingravidasse. Questo perché ragionevolmente i primitivi non riuscivano a collegare l’atto sessuale con la gravidanza, probabilmente per il lungo intervallo di tempo fra la fecondazione e la nascita. La scoperta del potere creativo del sesso maschile e, simultaneamente la considerazione che quello femminile fosse solo un mezzo per la fecondazione, si traduce nella valorizzazione del fallo e del suo possessore, il maschio appunto. La nascita dei miti costellati di divinità maschili lussuriose, allontana il naturale senso di parità fra i sessi e di condivisione di una delle più belle attività umane, in cui i rispettivi corpi e le rispettive menti dovrebbero liberamente interagire, perché la sessualità non è una condizione limitata all’uso degli organi genitali (o peggio del solo organo genitale maschile), ma un’esperienza totale. Attraverso il mito l’antichità infatti non concede troppo spazio a figure femminili, lo abbiamo studiato2. Il mito, in quanto specchio della condizione umana, è generatore di strutture mentali che generano e legittimano modelli comportamentali3. Il mito, in questo modo, è servito non solo a giustificare lo spazio di subordinazione della donna all’uomo, ma anche a legittimare azioni arbitrarie e violente. Assolutizzando la soggezione della donna all’uomo, il mito ha infatti originato criteri di azioni che trasgrediscono l’ordine naturale. Storie di vessazioni sulle donne e di seduzioni violente trovano radici proprio nel mito. La mitologia è ricca di scene di rapimenti seguite da stupro e di ingravidamenti contro la volontà della donna da parte di divinità che incarnano la sessualità maschile violenta o autoritaria. D’altronde se è dio, lui può e lei deve volerlo per forza. Molte divinità nascono per concepimento divino da una donna che è ingravidata con violenza o a sua insaputa. Nella mitologia del Medio 2

Vedi cap. I. Il mito è definito da Joseph Campbell come l’esigenza di avere modelli che diano risposte su come trattare le questioni che incontriamo nel corso della nostra esistenza. Cfr. B. MOYERS, B.S. FLOWERS (eds), The Power of Myth. Joseph Campbell with Bill Moyers, Doubleday, New York 1988, trad. it. Il potere del mito. Intervista di Bill Moyers, Neri Pozza, Vicenza 2012. 3

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III. Dal mito alla storia

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Oriente il feroce dio Enlil stupra e ingravida la dea Ninlil mentre si bagna nuda nel fiume; in Asia il dio Visnù si incarna nel grembo di Devaki e nasce come suo figlio (Krishna); Maya, la regina del regno Shakya (nord dell’India e in Nepal) si ritrova incinta dopo aver sognato la luce divina del Grande Essere che, sotto forma di elefante a sei zanne, la feconda facendola divenire madre di Siddhārtha Gautama, il Buddha storico; in Cina Houji, il “Signore delle messi”, è concepito miracolosamente dalla vergine Jiang Yuan, dopo che mise un piede nell’impronta lasciata dal dio Shangdi; nell’America precolombiana Huītzilōpōchtli, dio della guerra e del sole, nasce dopo che sua madre Coatlicue, dea del fuoco e della fertilità e madre delle stelle del Sud, resta incinta per avere raccolto e posato in grembo una palla di piume caduta dal cielo; nel Nord Europa il dio Odino violenta la dea Rindr con inganno, mettendo al mondo Bous (detto anche Váli) divinità della vendetta. Nell’antica Grecia ritroviamo Zèus che, sotto mentite sembianze, violenta serialmente e ingravida: sotto forma di pioggia d’oro seduce e feconda Dànae, che diviene madre di Perseo; sotto forma di cigno mettere incinta Leda, ne nasceranno Elena e Pollùce; sotto forma di toro rapisce Europa e assunte le sembianze di un’aquila la ingravida, diventando padre di Minosse; assumendo le fattezze di Anfitrìone seduce e ingravida la moglie Alcmena, da cui nascerà Eracle; con le sembianze di un satiro inebria Antiope e la feconda rendendola madre di Anfione e Zeto4. Sempre nell’antica Grecia il dio dei boschi Pan è ritenuto lo stupratore per eccellenza, mentre i Centauri si applicano nei loro possessi orgiastici e in scorrerie sessuali5. Nell’antica Roma Marte ingravida la vergine Rea Silvia mentre dormiva in un 4

Ancora altre donne sono state possedute da Zèus e altri eroi greci possono vantare la nascita da questa divinità. Cfr. D. FASCIANO, Gli amori di Zèus, «Rivista di cultura classica e medioevale», vol. 34, n. 2, luglio-dicembre 1992, pp. 263-301. Più in generale A. SANTONI, Passioni divine. Storie d’amore di Zèus e altri dèi, ETS, Pisa 2017. 5 Un certo Issione, re dei Lapiti, licenzioso e assassino, è accolto da Giove, ma riesce persino a molestare sua moglie Giunone. Giove, per metterlo alla prova, rende a una nuvola le sembianze della sua consorte. Offuscato dalla lussuria, Issione scarica la sua libidine sul simulacro. Dal curioso amplesso nasce Centauro che, ereditando dal padre la “passione” per il sesso, da adulto si accoppia con le cavalle del Monte Pelio, diventando progenitore dei Centauri, creature metà uomini e metà cavalli. I Centauri rappresentano oggi la violenza sessualizzata di gruppo Cfr. L. ZOJA, Centauri Mito E Violenza Maschile, Laterza, Roma-Bari 2010.

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boschetto sulle rive del Tevere, nascono così i fondatori della Città eterna Romolo e Remo. Nella Palestina di Erode Maria di Nazareth resta incinta dello spirito di Dio, partorendo Yeshua (Gesù). In tutti questi casi si esalta una procreazione divina non sessuale e non consensuale. Nelle narrazioni mitiche la violenza sessualizzata o l’ingravidamento non consensuale porta, non solo alla nascita di nuove divinità o eroi, ma anche alla fondazione di istituzioni. Ad esempio la dea Athēnâ, che nasce da uno stupro da parte di Zèus ai danni di Mètis, è considerata la fondatrice di Atene6; Romolo, il fondatore di Roma, è figlio di Rea Silvia ingravidata da Marte con inganno; lo stesso Romolo per assicurare la discendenza e popolare Roma, prende con l’inganno e la forza le donne di un altro popolo (Ratto delle Sabine); lo stupro di Lucrezia da parte di Sesto Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo, determina la cacciata dei Tarquini da Roma, la fine della monarchia e l’avvento della Res publica Populi Romani (Repubblica romana); il tentativo di stupro ai danni di Virginia, promessa sposa al tribuno della plebe Lucio Icilio, architettato dal decemviro Appio Claudio pone fine al decemvirato legislativo romano. Il mito del dio stupratore e fecondatore diventa la metafora sia del contatto mistico tra la divinità e il mortale sia della sessualità maschile autoritaria7. Se da un punto di vista simbolico i miti contribuiscono a umanizzare la sessualità, nell’aspetto pratico rafforzano gli stereotipi sui rapporti di potere del maschile sul femminile, e il modello maschile del seduttore prepotente prende piede anche tra gli umani8.

Erodoto, in Storie, designa Athēnâ come la fondatrice, mentre un’altra versione del mito spiega che questa divinità diede solo il proprio nome alla città e ne diventò la protettrice. 7 Cfr. C. SCHODDE, Rape Culture in Classical Mythology, in «Found in Antiquity», October 6, 2013 https://foundinantiquity.com/2013/10/06/rape-culture-in-classicalmythology/comment-page-1/ 8 Per tutti cfr. D. CERRATO, La cultura dello stupro: miti antichi e violenza moderna, in M.E. JAIME DE PABLOS (ed), Epistemología Feminista: Mujeres e Identidad, Arcibel, Sevilla 2011, pp. 432–449; F. LUCREZI, F. BOTTA, G. RIZZELLI, Violenza sessuale e società antiche. Profili storico–giuridici, Edizioni del Grifo, Lecce 2003. 6

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3.2. La sessualità: i divieti e le censure delle religioni “moderne” Svuotato il cielo dalle divinità femminili, Dio diventa uno. È maschio e vuole per sé l’esclusività. Questo Dio maschio si reincarna in un figlio maschio, o reclama un profeta maschio. Ha ministri di culto maschi. Gli umani maschi richiedono al Dio maschio il mandato per dominare… e lo hanno! (o meglio credono di averlo): l’idea di una maschilità trascendente, dunque, porta a un potere maschile immanente. Il patriarcato celeste diviene così fonte di legittimazione del patriarcato terreste. La società diventa più maschilista e il gesto divino dell’accoppiamento forzato assume la forma di archetipo della potenza virile. L’atto sessuale diventa soprattutto una manifestazione unidirezionale: la donna diventa oggetto e la sua “funzione” diviene solo quella di donarsi al maschio. Sin dalle prime società umane, la donna appartiene al maschio che l’ha posseduta. L’antica usanza religiosa del “sacrificio della vedova” testimonia questo possesso. Infatti, presso molti popoli — dalle civiltà messico-andine a quelle asiatiche indiane, passando per gli Egizi, Achei, Sumeri e alcune tribù barbare dei Traci e degli Slavi — la vedova doveva “seguire” il marito nella morte9. Secondo le varie credenze, tale rituale sottolinea l’appartenenza della moglie al marito che deve seguirla nell’aldilà, oppure evidenzia il fatto che la moglie senza il marito non vale più nulla e la sua vita diventa indecorosa. La filosofa statunitense di origine bengalese Gayatri Chakravorty Spivak afferma che il sacrifico delle vedove praticato nel sud asiatico non è prescritto da alcun codice religioso, ma è semplicemente una creazione del patriarcato dovuta a «una contro-narrazione artefatta della coscienza della donna, e dunque dell’essere donna, e dunque dell’essere – brava della donna, dunque del desiderio della brava donna, dunque del desiderio della donna»10. In pratica la donna in condizione di veIl “sacrificio della vedova” più noto è il rituale del “Satī”. L’immolazione, prima obbligatoria poi volontaria, della vedova sulla pira funeraria del marito. Rito abolito per legge dagli inglesi nel 1829 e ancora oggi non dimenticato. Cfr. S. PIRETTI, Satī. Una tragedia indiana, CLUEB, Bologna 1991. 10 G.C. SPIVAK, A Critique of Postcolonial Reason. Towards a History of the Vanishing Present, Harvard University Press, Cambridge 1999, trad. it. Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004, p. 248. 9

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dovanza “è spinta” a compiere il supremo atto del suicidio per agevolare l’ordine patriarcale nel quale vive. Ebraismo e cristianesimo riprendono questa idea della donna proprietà del maschio. Nel IX comandamento che Dio detta a Mosè è scritto: “Non concupire la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue, né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo”11. Per quanto un gradino in su dei servitori, del bue e dell’asino, la donna è sempre proprietà del marito e nessun uomo può desiderare la moglie di un altro maschio. Il contrario non è puntualizzato. Proprio la religione ha fortemente influenzato l’esperienza sessuale umana connessa alla sessualità. Essa esercita un controllo costante sull’attività sessuale degli esser umani. Per la sua forte carica seduttiva e simbolica, il sesso ha attivato una serie di divieti e censure, per lo più caratterizzate da una unilaterale prospettiva maschile. La posizione delle religioni relativa al sesso è multiforme e varia, con caratteristiche diverse secondo il tempo e lo spazio. Si va da un iniziale rifiuto a posizioni più aperte, ovviamente rispettando determinate prescrizioni e sempre nell’ottica della donna sottomessa al maschio12. Fra tutte le religioni l’induismo valorizza di più la sessualità, sia sotto la forma maschile (Lingam) sia femminile (Yoni), considerandola come un contributo all’evoluzione spirituale del maschio e della femmina uniti in matrimonio (basti pensare all’antico testo del Kāma Sūtra che spiega praticamente come raggiungere l’armonia umana attraverso il rapporto di coppia, dal corteggiamento alla conquista, sino alle otto modalità differenti per fare all’amore, che si articolano in otto varianti per un totale di sessantaquattro posizioni chiamate “arti”). Anche per il buddismo, seppur ne impedisce il raggiungimento completo del nirvana, il sesso non è considerato di per sé negativo, se praticato all’interno dell’unione coniugale e privo di comportamenti sessuali non appropriati (tra cui l’incesto e l’omosessualità). 11

X comandamento, Deuteronomio 5: 7-21. Per il Catechismo cattolico di S. Pio X, che ha “debraicizzato” gli iniziali precetti, il comandamento diventa il numero IX. 12 G. NADALI, Sessualità, religioni e sette. Amore e sesso nei culti mondiali, Armando, Roma 1999; D.Ø. ENDSJØ, Sex og religion. Fra jomfruball til hellig homosex, Universitetsforlaget, Oslo 2009, trad. it. Tra sesso e castità. Un viaggio fra dogmi e tabù nelle religioni del mondo, Odoya, Bologna 2012.

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Con l’avvento delle religioni monoteiste il rapporto sesso–donna diventa più complicato e conflittuale secondo il grado di fondamentalismo presente nelle varie correnti interne. In generale sul sesso le religioni del Libro hanno operato un controllo assoluto, sviluppando dei codici morali con l’intento di disciplinare l’attività sessuale e condurla verso strade religiosamente tollerate13. Questo perché il piacere che nasce dall’atto sessuale porta all’estasi obnubilando la mente, sottraendo momentaneamente il corpo al pensiero razionale: il sesso è debolezza della carne che conduce a un imperfetto controllo della ragione allontanando lo spirito da Dio. Per Tommaso d’Aquino (santo e dottore della Chiesa cattolica, 1225-1274), ad esempio il piacere sessuale frena del tutto l’uso della ragione, la opprime e ne assorbe lo spirito assoggettandone completamente il pensiero14. È peccato non solo l’atto sessuale compiuto, ma anche quello desiderato, perché attraverso la fantasia emerge la brama che eccita il corpo. Si legge nella Bibbia cristiana al Libro del Siracide: Non avvicinare una donna licenziosa, per non cadere nei suoi lacci. […] Allontana l’occhio dalla donna avvenente e non mirare le bellezze di un’estranea; molti ha sedotto la bellezza di una donna, il suo amore brucia come un fuoco. Non sederti assieme alla moglie di un altro, in sua compagnia non bere a una festa, perché la tua anima non le corra dietro e tu cada, insanguinato, nella perdizione. 15

Per lunghi secoli la visione teologica cristiana della sessualità, anche quella procreativa, assume un valore negativo16. Nel primo cristianesimo, ad esempio, la procreazione attraverso l’atto sessuale non 13

Cfr. D. COHN-SHERBOK, G.D. CHRYSSIDES, D. EL ALAMI, Love, Sex and Marriage: Insights from Judaism, Christianity and Islam, SCM, London 2013. 14 TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, II, II, 55. 15 Siracide. 9, 3 e 8-9. 16 Più recentemente per la Chiesa di Roma «la genitalità, orientata alla procreazione, è l’espressione massima, sul piano fisico, della comunione d’amore dei coniugi. Avulsa da questo contesto di reciproco dono […] essa perde il suo significato, cede all’egoismo del singolo ed è un disordine morale» Sacra Congregazione per l’educazione cattolica, Orientamenti educativi sull’amore umano. Lineamenti di educazione sessuale, 1983, http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/ccathe duc/documents/rc_con_ccatheduc_doc_19831101_sexual-education_it.html.

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è considerata una condizione originaria, ma la conseguenza della trasgressione adamitica, quindi di una colpa. La trasgressione verso Dio di Adamo ed Eva, che colgono i frutti dall’“albero della conoscenza del bene e del male”, da peccato di superbia e orgoglio, assume una valenza sessuale. Adamo ed Eva, infatti, dopo la disubbidienza scoprono la loro nudità, perdendo l’innocenza sessuale, ed Eva è condannata anche a partorire con dolore e a subire le mestruazioni. In seguito al peccato verso Dio, i maschi assegnano alla donna la patente di seduttrice e peccatrice. Unica eccezione è Maria, madre del Cristo, che, per acquisire la dignità che gli compete, ha dovuto essere illibata, restando vergine anche dopo il parto. Maria di Nazareth, infatti, è l’unica donna che realizza al femminile la pienezza della grazia di Dio, perché “immacolata”, ossia immune dal peccato originale17, e “madre–vergine”, quindi estranea al dannoso peccato dei sensi, avendo sia concepito Gesù senza essersi “sporcata” con una relazione sessuale18 sia partorito restando vergine. L’attività sessuale è quindi aborrita dal cristianesimo come naturale piacere armonico, relegandola unicamente a dovere procreativo, da praticare solo “alla missionaria”19 e rigorosamente nel sacro vincolo del matrimonio. Scrive Clemente d’Alessandria (150 ca.-215 ca.) nel Paedagogus: «Praticare il coito, salvo a scopo di procreazione, è far ingiuria alla natura»20. Tutta la predicazione patristica trascina la morale cristiana in una demonizzazione del sesso che, emarginando le istanze d’amore compartecipe, aggiunge al rosario delle ingiurie contro la donna anche la sua inclinazione a essere pericolosa espressione diabolica dell’adesca17

Il dogma fu proclamato da Pio IX nel 1854 con la bolla Ineffabilis Deus. La verginità di Maria è celebrata anche nella Sūra XIX del Corano. 19 È la posizione in cui il maschio e la femmina si trovano di fronte, guardandosi negli occhi. Quindi non alla maniera animale (more ferarum). Erroneamente si attribuisce il nome di questa posizione agli insegnamenti dei missionari, ma in realtà gli indigeni l’appresero dai mercanti occidentali. Cfr. R.J. PRIEST, Missionary Positions. Christian, Modernist, Postmodernist, in «Current Anthropology», vol. 42, N. 1, February 2001, pp. 29-68, ora in «Academia.edu», http://www.academia.edu/2222550/Mis sionary_Positions_Christian_Modernist_Postmodern 20 Paedagogus, 2.10. 18

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mento: sempre lei è responsabile del peccato, è lei che istiga, anche quando a cercare il piacere della carne è l’uomo21. L’iniziale esagerata sessuofobia dei monoteismi ha durevolmente dominato i costumi delle rispettive società nel corso del tempo, condizionando decisamente il rapporto umano col piacere.

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3.3. La violenza sessualizzata come dispositivo simbolico Sin dall’antichità c’è una concezione corrotta dell’uso dell’organo sessuale maschile. La storia della violenza sessualizzata va di pari passo con la stima che l’uomo ha della donna, frutto dell’eredità religioso–filosofiche che vogliono la donna assoluta proprietà privata del maschio–padrone: la violenza attraverso e sul sesso viaggia sullo stesso binario dell’oppressione simbolica che da sempre accompagna le donne. La personalità degli autori di violenza sessualizzata è molto complessa e distorta, ed è difficile entrare completamente nella loro mente22: lo stupro racchiude un reticolo di significati che vanno ben oltre l’atto fisico in sé e qualsiasi spiegazione mono-causale sarebbe riduttiva. Certamente ci troviamo di fronte a soggetti che non riescono a gestire i loro impulsi automaticamente con razionalità e stabilità psichica23, tuttavia, la violenza sessualizzata maschile sulle donne non può essere letta solamente alla luce di una patologia mentale del cosiddetto sex offender. C’è sempre una causa scatenante che porta a una 21

Cfr. K. DESCHNER, Das Kreuz mit der Kirche. Eine Sexualgeschichte des Christentums, Econ, Düsseldorf 1974, trad. it., La croce della Chiesa. Storia del sesso nel Cristianesimo, Massari, Roma 2000. 22 La personalità degli autori di queste violenze è oggetto di studio da parte di molteplici discipline, ognuna delle quali produce particolari contributi adoperando strumenti di analisi propri. 23 Quindi di soggetti con: disturbi parafilici (termine che ha sostituito il precedente “perversione sessuale”: esibizionismo, voyeurismo, frotteurismo, masochismo, sadismo, pedofilia, feticismo); disturbo antisociale di personalità; disturbo narcisistico di personalità; disturbo borderline di personalità; deliri (tra cui i disturbi dello spettro della schizofrenia, episodi maniacali che caratterizzano il disturbo bipolare). Cfr. V. SCHIMMENTI, G. CRAPARO (a cura di), Violenza sulle donne. aspetti psicologici, psicopatologici e sociali, FrancoAngeli, Milano 2014, ora 2016.

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instabilità mentale, che può essere ad esempio un motivo di natura socio-culturale (il contesto in cui si sviluppa la sua personalità), oppure una ragione riconducibile alla storia individuale (abusi e maltrattamenti pregressi che sfociano in un meccanismo ciclico che converte la vittima in persecutore nei confronti di un soggetto ritenuto per definizione culturale più debole)24. Insomma: stupratori non si nasce, si diventa. Si potrebbe così azzardare l’ipotesi che una forma di disturbanza psicologico-comportamentale sia quasi spesso una conseguenza di una disturbanza socio-culturale, quindi un sistema di valori “malato” che conduce ad alterare pericolosamente la psiche dell’autore di una violenza sessualizzata. Dunque, «non si tratta di una manifestazione aggressiva della sessualità, ma di piuttosto di una manifestazione sessuale di aggressione»25. La violenza sessualizzata, specialmente nella variante dello stupro, diventa così una manifestazione di una volontà predatoria, un atto di dominio, un’opera punitiva, un gesto di offesa: Da parte dell’aguzzino la vittima diventa un dispositivo per attraversare un orizzonte simbolico e raggiungere un determinato scopo: un piacere (sadico), un (perverso) senso di dominazione, una potenza simbolica (scellerata), una superiorità maschile (illusoria).26

L’uomo predatore è un arcaismo antropologico divenuto ormai il precipitato di molti stereotipi celati nel vivere comune. Questa concezione dell’uomo predatore è inquadrata nei cosiddetti “miti dello stu-

24

Lunfy Bancroft, grazie alla sua lunga esperienza lavorativa come consulente di programmi per il recupero di uomini maltrattanti, ha stilato alcune tipologie di maschi violenti. Cfr. L. BANCROFT, Why Does He Do That. Inside the Minds of Angry and Controlling Men, Putnam’s Sons, New York 2002, trad. it. Uomini che maltrattano le donne. Come riconoscerli per tempo e cosa fare per difendersi, Vallardi Editore, Milano 2013, pp. 80-102. 25 R. SEIFERT, War and Rape. A Preliminary Analysis, in A. STIGLMAYER (eds.), Mass Rape, The War against Women in Bosnia‐Herzegovina, University of Nebraska Press, Lincoln 1994, p. 55. 26 Dal mio La politica del male. Il nemico e le categorie politiche della violenza, Tralerighe, Lucca 2019, p. 148

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pro”, che vogliono il maschio come soggetto e la femmina come oggetto27. In breve i miti dello stupro sono atteggiamenti e false convinzioni che permettono di negare, normalizzare e/o giustificare un’aggressione sessuale maschile contro le donne, attraverso modi di pensare stereotipici sulle caratteristiche delle vittime dello stupro, sugli aspetti di chi stupra e sulla situazione e/o contesto della violenza28. Tra questi miti la convinzione che l’uomo non sappia controllare le proprie pulsioni sessuali; la credenza che da sempre l’uomo è cacciatore e la donna preda; la falsa certezza dell’impossibilità di violentare se la vittima si oppone con tutte le forze («È impossibile inguainare la spada in un fodero palpitante»29, diceva nel 1868 il medico ginecologo statunitense Horatio Robinson Storer) e, quindi, la presenza di una insufficiente opposizione o finanche di un “certo” consenso da parte della stessa vittima; oppure il coinvolgimento della vittima attraverso pseudo segni occulti di consenso (ad esempio modi di vestire provocanti), che lasciano sottintendere il suo interesse non espresso e che, quindi, addossano la colpa alla vittima; oppure ancora la presenza di circostanze facilitanti, che deresponsabilizzano lo stupratore, come abuso di alcol o di stupefacenti30. Così, automaticamente, una minigonna diventa un “sì”, un sorriso un assenso, l’incapacità di respingere dovuta a droga o alcol un’occasione31. Cfr. M.R. BURT, Rape myths, in M.E. ODEM, J. CLAY–WARNER (Eds), Confronting Rape and Sexual Assault, Scholarly Resources, Wilmington 1998, ora Rowman & Littlefield, Lanham 2003, pp. 129–143. 28 Nel 1980 la ricercatrice Martha Burt ha introdotto la Rape Myth Acceptance Scale, ossia un metodo per misurare il livello di accettazione dei miti dello stupro. Cfr. il suo Cultural myths and supports for rape, «Journal of Personality and Social Psychology», 38, 1980, pp. 217-230. 29 Cit. in M.G. BELMONTI, A. CARINI, R. DAOPAULO, P. DE MARTIIS, Un processo per stupro. Dal programma della Rete 2 della televisione italiana, Einaudi, 1980, p. 77. 30 Cfr. K.A. LONSWAY, L.F. FITZGERALD, Rape Myths, in «Review. Psychology of Women Quarterly», 18, 1994, pp. 133–164; D. DETTORE, C. FULIGNI, Psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale, in S. CIAPPI, V. PALMUCCI, P. SCALA, I. TOCCAFONDI (a cura di), Aggressori sessuali. Dal carcere alla società: ipotesi e strategie di trattamento, Giuffrè, Milano, 2006, pp. 323-327. 31 Cfr. G. VIGARELLO, Histoire du viol, Seuil, Paris 1998, trad. it. Storia della violenza sessuale, Marsilio, Venezia 2001. 27

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La formulazione dei miti sullo stupro può essere una strategia difensiva del violentatore, ma molto spesso si tratta di una sedimentazione culturale dovuta a pregiudizi, convinzioni popolari, credenze religiose, esperienze vissute32. La volontà predatoria si manifesta nella rapacità del maschio, ossia nel “sottrarre forzatamente con avidità”, meglio nel “prendere con la forza ciò che non ti appartiene”33. L’atto sessuale predatorio non è determinato da un eccesso di desiderio, ma da una forte volontà di possedere: al predatore non interessa stabilire una relazione, ma semplicemente catturare e avere per sé il corpo della sua preda. Lo stupro predatorio è dunque un’esposizione materiale del potere maschile, che nasce da un’idea proprietaria della sessualità. Lo stupro è un’azione istituente o convalidante di un ordine gerarchico che si esplica attraverso gli organi sessuali, per questo è un atto di dominio simbolico esercitato attraverso un dominio fisico. Il dominio porta a una dimensione di padronanza, quindi a una situazione che rimanda nei fatti a un possesso. Quest’ultimo presuppone la presenza di un padrone, come vuole la stessa etimologia del termine: dal latino possidére, composto dalla particella pos- dal tema di potis, ossia che è padrone, che può, e sidére, ovvero sedere, stare, occupare qualcosa. Il padrone esercita dunque un diritto di proprietà su qualcosa (o qualcuno), quindi ha facoltà di disporre di quel bene (o di quella persona). Questo sottende una titolarità da parte dello stupratore di “possedere” la propria preda. Non a caso “possedere” è un verbo spesso utilizzato dall’uomo quando copula con una donna, anche in mancanza di violenza. Il possesso diventa totale quando la vittima è poi uccisa. Dunque lo stupro, sul piano sociale, sottende non ad un’aspirazione alla dissidenza, tipica spesso di altre forme di violenza, ma di conferma, sia pure esacerbata, di quella tipologia che, dandosi come equivalenza gene-

32

Cfr. P. DI NICOLA, La mia parola contro la sua. Quando il pregiudizio è più importante del giudizio, HarperCollins Italia, Milano 2018. 33 Rapace dal latino rapax -acis, derivato di rapere,"rapire". Cfr. Voce “rapace”, in Enciclopedia Treccani, http://www.treccani.it/vocabolario/rapace_%28Sinonimi-eContrari%29/

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ralizzata, consente l’esercizio della differenza solo all’interno di relazioni di dominio e di controllo.34

Questo modello predatorio e di dominio non si limita unicamente a negare l’autonomia decisionale della donna, quindi anche ad accettare un rapporto sessuale o meno, ma rappresenta un processo di una manifestazione costitutiva e costituente di un sistema non solo gerarchico, ma anche de-umanizzante. Attraverso la violenza, il maschio che stupra nega alla sua vittima di esprimere una scelta, riducendo il suo essere donna a una dimensione corporea. Anche la prostituzione presuppone una violenza che oggettivizza la donna: la sua sessualità diviene “di servizio”, il suo corpo un oggetto “in locazione”. A parte i pochi casi di prostituzione libera e volontaria, essa è molto spesso sfruttamento coercitivo. In ogni caso, l’uomo che paga per ottenere sesso (versando soldi o offrendo beni di prima necessità) è l’esatto contrario della tanto decantata virilità maschile. Ecco, la trasfigurazione della donna in un oggetto, in una “cosa” accessoria, è un’immagine conservativa della supremazia del maschio. Il corpo della donna è dunque “svuotato”, non ha più capacità di desiderare e di decidere, diventando un contenitore passivo di una sessualità che appartiene solo al maschio: un vuoto a rendere nel caso di stupro, un vuoto a perdere in caso di femmicidio. Lo stupro può assumere anche la qualifica di atto punitivo. Così, attraverso la dominazione sessuale, il maschio “riprende” il proprio posto contro la donna che ha osato sfidarlo. Lo stupro diviene anche un atto politico contro chi appoggia e condivide scelte ideologiche ritenute errate, sfidando le autorità costituite. Anche in questo caso, la violenza sessualizzata diventa un dispositivo simbolico politico che assume sia valore educativo per la vittima sia virtù deterrente per chi non si omologa a un’autorità. Infine, lo stupro può assumere anche la qualifica di gesto di offesa, non solo per la vittima, ma anche per la sua famiglia e per l’essenza collettiva di un popolo. È questo lo stupro deciso e consumato durante una guerra. In questo caso la violenza non è concepita esclusivamente 34 C. VENTIMIGLIA, La differenza negata. Ricerca sulla violenza sessuale in Italia, Franco Angeli, Milano 1987, p. 69.

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Il vizio dello stupro

come un’aggressione alla persona, ma soprattutto come un affronto all’onore del maschio, che di quelle donne violate sono considerati i titolari (padre, marito, fratello). Il corpo della donna, perciò, diviene campo di battaglia e luogo di dominio. Anche le aggressioni sessuali perpetuate contro maschi rispondono a modelli di genere che possono essere paragonati alla violenza maschile perpetrata contro le donne. Queste violenze rimarcano infatti sempre il concetto maschilista della superiorità dell’uomo sulla donna: gli stereotipi di genere raccomandano infatti che gli uomini non possono essere vittime di violenze sessualizzate. Per questo anche le brutalità sessuali commesse sui maschi riguardano il potere e il dominio. Nel caso di violenze sessualizzate commesse su uomini da altri maschi, specialmente quelle praticate durante contese politiche, la violazione diventa il meccanismo che, distruggendo la virilità maschile, femminilizza la vittima celebrando la sua emasculazione metaforica.

3.4. La donna del nemico Se già in tempo di pace la considerazione della donna come essere umano autonomo e uguale all’uomo fa fatica a emergere e realizzarsi, figuriamoci in tempo di guerra o di contese politiche. Infatti, il filo conduttore tra tutte le guerre è che lo stupro è un prodotto di una mascolinità egemonica militarizzata distorta (ma normalizzata), che verosimilmente è strutturalmente incorporata in un’ineguaglianza di genere e relazioni di potere ineguale pre-conflitto.35

Per molti secoli la guerra è “faccenda da maschi”, alle donne sono riservate funzioni sussidiarie. Tra questi compiti c’è quello di badare ai figli piccoli, di contribuire agli approvvigionamenti, di impegnarsi nell’industria bellica. Soprattutto rivestono l’esclusivo ruolo di “donne del nemico”, una proprietà dell’uomo nemico da conquistare al pari del loro territorio, un simbolo sociale da “attraversare” per offendere 35

N. HENRY, Theorizing Wartime Rape. Deconstructing Gender, Sexuality, and Violence, «Gender & Society», vol. 30, n. 1, 2016.

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l’intera comunità dei maschi in guerra: la donna è sessualizzata con lo scopo di perfezionare la conquista. Le cause della qualità delle violenze in generale non sempre sono collegate alle ragioni dello scoppio delle ostilità, ma possono nascere durante la guerra (ad esempio per la forte resistenza o per l’aggressivo comportamento di una delle parti della contesa). Le violenze sulle donne, poi, non sono mai connesse alle motivazioni della guerra, poiché rispondo a logiche di diversa origine già presenti prima di un conflitto (ad esempio sessismo) e che nel conflitto sono mobilitate: le violenze contro le donne in guerra sono sempre in relazione alla struttura sociale e culturale di chi le compie. Le brutalità sulle donne sono dunque un triste retaggio dei conflitti bellici o delle contese politiche militarizzate, sino a farle divenire un “qualcosa” di naturale, un normale effetto collaterale di una situazione di caos politico–sociale. Tuttavia, per evitare la riproposizione di falsi miti, occorre precisare che indubbiamente le violenze contro le donne aumentano tantissimo durante i conflitti, ma questo non significa che siano un «fenomeno ancestrale, fondato biologicamente e quindi, in qualche misura, inevitabile»36. Infatti, non riguarda tutti i conflitti e neppure tutti gli attori coinvolti nelle ostilità: L’argomento che gli stupri siano conseguenze inevitabili dei periodi di guerra è stato da tempo scartato. Infatti esistono diversi casi di conflitti recenti, dunque studiati di recente, all’interno dei quali stupri e violenze sessuali sono stati scarsissimi o quasi inesistenti. […] Vi sono anche casi nei quali c’è stato un mutamento progressivo dei modelli di violenza di certi gruppi armati che hanno incluso solo in un secondo tempo l’uso della violenza sessuale tra le loro pratiche. 37

Il trattamento riservato alla donna del nemico è direttamente proporzionale alla valutazione che si ha dell’avversario38: se il nemico è convenzionale la sua donna sarà considerata bottino di guerra e il suo 36

F. DECLICH, Violenza di genere e conflitti: considerazioni antropologiche, «Dada. Rivista di Antropologia post-globale», speciale n. 1, 2017, p. 138. 37 Ibidem. 38 Sull’evoluzione delle categorie del nemico, mi permetto di rimandare ancora al mio La politica del male, cit., pp. 17-36.

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corpo metafora di un simbolico confine da depredare; se illegittimo la violazione della donna diventa il simbolo dell’umiliazione di un intero popolo; se ideologico la donna diventa luogo di dominio e la profanazione del suo corpo uno strumento politico di terrore; se etnico l’oltraggio diviene l’emblema dell’annientamento materiale e spirituale di un popolo. Le violenze sessualizzate possono essere di massa e selettive, pubbliche e non. Nel caso di violenze in pubblico, l’atto da visibilità e concretezza al gesto. Possono essere anche un atto individuale o il frutto di un comando. Se l’azione è individuale si tratta di un crimine privato. L’atto dello stupro è materialmente sempre lo stesso in ogni momento, ma in tempo di guerra combina ragioni diverse, in quanto la vittima, meglio il suo corpo, non rappresenta una individualità ma una collettività. Osserva Susan Broenmiller: A parte una genuina umana preoccupazione per mogli e figlie amate, lo stupro perpetrato da un vincitore è una prova inconfutabile della condizione d’impotenza virile del vinto. La difesa delle donne è stata fin dalla notte dei tempi un simbolo dell’orgoglio maschile, così come il possesso delle donne è stato un simbolo del successo maschile. Lo stupro compiuto da un soldato conquistatore distrugge tutte le residue illusioni di potere e di possesso negli uomini della parte sconfitta.39

Anche in una contesa lo stupro investe di realtà fisica un atto simbolico: come in tempo di pace, ugualmente in quello di guerra lo stupro è la celebrazione di un potere reale. Il corpo della donna del rivale è dunque metafora di un confine da conquistare e depredare: come si attraversa, s’invade e si conquista un territorio del nemico, così si irrompe e si usurpa il corpo delle loro donne. Come in tempo di pace, anche in tempo di contese politiche si assiste a una soppressione del corpo–soggetto della donna e alla sua sovrimposizione come corpo–oggetto.

39

S. BROWNMILLER, Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale, cit., pp. 42–43.

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Durante una contesa armata, alla donna è stato così «risparmiato [per secoli] il ruolo di combattente ma non quello di vittima»40. Se gli uomini devono mostrare di essere valorosi soldati e, se necessario, anche coraggiosi martiri, le donne no! Esse, considerate come parte del normale ordine dei generi, non possono e non devono essere sacrificabili, poiché viene meno il valore dei loro soldati che non hanno saputo difendere i confini, reali e simbolici, che rappresentano appunto il patrimonio della loro comunità: la terra e l’onore (sempre maschile). In generale, sia il rapimento per ridurre le donne del fronte nemico in schiavitù sia gli stupri delle mogli e delle figlie dell’avversario sono una precisa espressione di disprezzo delle donne, trattate appunto come preziosa proprietà da depredare al nemico. Infatti, i soldati conquistano i territori del nemico e «usurpano una sua forma trasfigurata»41 trovandola nel ‘territorio’ del corpo della donna che ‘usurpano’ esercitando su di esso violazione, come se fosse un luogo sacro. […] Il termine violazione richiama molti connotati semantici: è profanazione, sacrilegio, oltraggio, offesa, prepotenza, abuso, violenza, e a sua volta, il termine violenza richiama il significato di qualcosa che agisce con forza, con impeto e con irascibilità.42

La donna è la rappresentazione concreta e simbolica della Nazione, il loro corpo non è considerato solo “luogo privato”, ma anche “territorio pubblico”, in cui sono depositati sia l’onore familiare sia l’onorabilità nazionale. Il possesso della donna del nemico realizza, dunque, non solo un disonore per i maschi della famiglia, ma anche una vergogna della Nazione sottoposta a una simbolica invasione e conquista. La necessità di umiliare definitivamente una Nazione passa quindi attraverso il corpo della donna:

40

F. BATTISTELLI, Guerrieri ingiusti. Inconscio maschile, organizzazione militare e società nelle violenze alle donne in guerra, in M. FLORES (a cura di), Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento, FrancoAngeli, Milano 2010, p. 18. 41 C.B. TORTOLICI, Violenza e dintorni, Armando, Roma 2005, p. 78. 42 Ivi, pp. 78-79. Il corsivo è dell’autrice.

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Il corpo di una donna violentata diventa un campo di battaglia rituale, un terreno per la parata trionfale del vincitore. L’atto compiuto su di lei un messaggio trasmesso da uomini ad altri uomini: una vivida prova di vittoria per gli uni e di una sconfitta per gli altri 43.

I significati dello stupro di guerra subiscono evoluzioni nel corso della storia, arrivando finanche a trasformarsi in progetto per demolire definitivamente il gruppo nemico. Se in molti conflitti contemporanei gli stupri sono ancora considerati come un elemento concomitante allo stato di guerra oppure l’esito di comportamenti devianti di singoli o di gruppi di soldati, in altri diventano una decisione programmata. Nei moderni conflitti armati, infatti, non sempre le finalità riguardano unicamente il controllo di un territorio, ma anche la distruzione di un popolo. Ecco allora che la sessualità è arruolata per svolgere questa funzione. In questo caso essa non ha valenza di effetto collaterale, ma ha un fine. Ovviamente l’idea della donna come “bottino di guerra” non muore, anzi è integrata ad altre motivazioni. Ad esempio nel 2002, Shmuel Eliyahu, il rabbino capo ortodosso di Safad, ha giustificato la violenza sulle donne non ebree, considerate bottino di guerra per il “benessere” psico-fisico dei soldati israeliani e per non inficiare la lotta contro i palestinesi. Nella rubrica “Chiedi al rabbino” della rivista “Kipa.co.il”, Eliyahu, oltre a trovare il fondamento delle sue farneticanti teorie in una legge biblica che autorizzerebbe la violenza sessuale in determinate circostanze, giustifica le violenze col fatto che se al soldato israeliano «gli proibisci una donna bellissima dalla quale è affascinato, lui penserà a lei e probabilmente si arriverà al punto in cui il popolo ebraico sarà sconfitto», perché quanto è il «momento di combattere» non si deve «predicargli moralità». Per Eliyahu la donna palestinese violata dovrebbe essere addirittura grata al suo carnefice che l’ha solo violentata e non uccisa44. 43

S. BROWNMILLER, Contro la nostra volontà, cit., p. 43. Il rabbino è stato indagato dalle autorità israeliane per incitamento al razzismo, anche se poi non è stato perseguito. Cfr. R. LENTIN, Traces of Racial Exception: Racializing Israeli Settler Colonialism, Bloomsbury academic, New York 2018, p. 124; D. SHEEN, Rabbi who urged Gaza genocide excused rape by soldiers, «The Electronic Intifada», 1 September 2017, https://electronicintifada.net/content/rabbi-who-urgedgaza-genocide-excused-rape-soldiers/21566. 44

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Superando il significato unico di “bottino di guerra”, gli stupri assumono nuove e complesse valenze, diventando spesso parte della strategia bellica per distruggere il nemico: arma di guerra psicologica, per instillare paura e far fuggire la popolazione, liberando i territori; strumento politico di terrore, per esercitare dominio (estorcere informazioni, relegare al silenzio o semplicemente per mostrare autorità); tattica per destabilizzare un territorio e disgregare la comunità attraverso l’alterazione della composizione etnica. Fra tutte le violenze, quella più ricorrente è certamente lo stupro, ma spesso le donne sono torturate, sequestrate e costrette a servire, a prostituirsi, a sposarsi, ad abortire attraverso brutalità o finanche a portare avanti gravidanze non volute. La qualità e la quantità della violenza sono sempre indicatori della funzione che deve assumere l’azione. Ad esempio spesso dopo lo stupro sulle donne nemiche e del nemico, si consuma anche lo sfregio del corpo, attraverso la deturpazione degli elementi esteriori femminili (seno, viso), oppure attraverso il taglio del ventre o la recisione degli organi genitali, zone rappresentanti la continuità di un’altra vita. In quest’ultimo caso si vuole cancellare non solo il presente, ma anche il futuro del gruppo di appartenenza della vittima, dominando la potenzialità procreatrice delle donne del gruppo nemico. Stessa funzione adempie l’ingravidamento forzato delle donne nemiche. Attraverso lo stupro inseminante e l’uccisione dei maschi nemici, i carnefici, convinti di una discendenza patrilineare, intendono cambiare la composizione etnica di un territorio, sancendo la dissoluzione completa del gruppo avversario. Come già riferito, anche lo stupro di guerra sui maschi trasmette messaggi specifici. Attraverso la violenza sessualizzata, infatti, si esercitano umiliazione e degrado, che portano a un processo in cui avviene la femminilizzazione del nemico45. Nel caso di stupro perpetuato in pubblico, l’umiliazione diventa doppia, poiché rende pubblico il processo di femminilizzazione, trasformando il disonore individuale in una degradazione sociale. La peggior offesa per un uomo in una società patriarcale è quella di mutarlo simbolicamente in donna, facendogli perde la virilità maschile. Una vergogna che la vittima cerca di na45

Cfr. S. SIVAKUMARAN, Sexual Violence Against Men in Armed Conflict, «European Journal of International Law», vol. 18, n. 2, April 2007, pp. 253–276.

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scondere, per non ammettere lo status di vittima, che di solito in una società patriarcale è riservato alle donne. Questo ha valore ancor maggiore se la violenza riguarda più uomini di uno stesso gruppo, perché, come nel caso degli stupri di massa sulle donne, la violazione può simboleggiare la distruzione dell’identità di un popolo, la decadenza del gruppo maschile nazionale attraverso una collettiva emasculazione metaforica. In situazioni di contese politiche, accanto agli stupri si incontrano molte altre forme di violenza sessualizzata, dalla nudità forzata alla schiavitù sessuale, dalle mutilazioni sessuali alla sterilizzazione imposta, dall’aborto procurato sino alla gravidanza forzata. Nel caso di mutilazioni sessuali, sterilizzazione imposta, aborto procurato e gravidanza forzata), il corpo della donna diventa la posta in gioco delle nuove strategie biopolitiche, un dispositivo che espropria la donna del suo potere di decidere se dare una nuova vita o meno. Ne deriva un nuovo biopotere che determina e crea “identità etniche” (figli del nemico) attraverso lo stupro inseminante, oppure le cancella attraverso la soppressione della vita che sta per nascere o che potrebbe venire al mondo46. Lo stupro diventa così una strategia militare e un processo biopolitico per cancellare quello che è stato, quello che è, quello che sarà… per scrivere nuove pagine di storia. 3.5. La donna nemica Le violenze sesssualizzate sono usate anche in politica in momenti di forte tensione ideologica, diventando strumento della violenza politica: se in guerra la donna diventa la “femmina del nemico”, in contesti di repressione politica essa può diventare il nemico per eccellenza. Per Michel Foucault al “vecchio (bio)potere del sovrano di lasciar vivere oppure di far morire, si è sostituito nel XVIII secolo un (bio)potere che decide di far vivere o di respingere nella morte”. Per questo ho scritto “nuova biopolitica” e “nuovo biopotere”. Cfr. M. FOUCAULT, La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976, trad. it., La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978; ID., Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France, 1978–1979, Gallimard, Paris 2004, trad. it. Nascita della Biopolitica. Corso al Collège de France, 1978–1979, Feltrinelli, Milano 2005; R. ESPOSITO, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004. 46

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Prima di procedere credo sia necessario chiarire cosa intendo per violenza politica. Essa è:

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Il dominio di una politica incapace di essere risolutiva con i suoi propri mezzi che, escludendo il confronto pacifico e annullando la normalità dei rapporti politico–sociali, dà intenzionalmente corso alla prepotenza trasformandosi in forza arbitraria che sottomette, terrorizza, espelle, uccide. 47

Anche nel caso di violenze politiche diverse dalla guerra, lo stupro ha significati simbolici, quasi identici a quelli che si consumano nei conflitti armati: è umiliazione dispensata, è dimostrazione di potere. È anche metafora di un «assassinio sociale»48, un delitto politico senza cadaveri, ma con vittime che non vivono più. Con la politicizzazione dello stupro il corpo della donna diventa un corpo politico, materia della politica, strumento di comunicazione politica, dispositivo attraverso cui costruire un certo ordine politicosociale. Quando la politica è considerata materia per soli uomini, alle donne non è concesso sostare in questo ambito. Ecco che le violenze sessualizzate diventano una ritorsione nei confronti di un femminile che si fa protagonista, che vuol far politica, oppure che protesta, oppure ancora che si oppone a sistemi oppressivi di regimi antidemocratici. A compiere le violenze sono generalmente gli uomini delle strutture dello Stato (esercito, polizia o servizi segreti), ma può accadere che gli “operai del crimine” possono essere su commissione. Un esempio del primo caso potrebbe essere la violenza profusa sulle donne attive in politica in funzione antiregime durante le dittature latinoamericani49. Un esempio del secondo caso è quello che riguarda la drammaturga e attrice teatrale Franca Rame, vittima della “guerra fredda” che si è consumata in Italia. Era il 9 marzo 1973 quando Franca Rame è sequestrata a Milano. Fatta salire a forza su un camioncino, le spaccarono gli occhiali, le 47

R. PATERNOSTER, La politica del male, cit., p. 50. Dunque, non solo guerre, ma anche contesti di repressione politica. 48 C. WINKLER, Rape as Social Murder, «Anthropology today», vol. 7, n. 3, 1991, pp. 12-14. 49 Si ritornerà sull’argomento nel capitolo VII.

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bruciarono la pelle con le sigarette, la ferirono con una lametta viso e corpo, la spogliarono e la violentarono a turno. Questa una parte del racconto della violenza, scritta da Rame nel monologo “Lo stupro”: […] Non sto capendo niente di quello che mi sta capitando. Ho lo sgomento addosso di chi sta per perdere il cervello, la voce… la parola. Dio che confusione. […] È il cuore che mi batte così forte contro le costole ad impedirmi di ragionare. […] Io non tento nessun movimento. Sono come… congelata. […] Oltre a quello che mi tiene, ce ne sono altri tre. […] Sì, sta per succedere qualche cosa… lo sento […] Ho il cuore che mi esce. […] Perché mi aprono le gambe con sù i pantaloni? Mi sento così a disagio… peggio che se fossi nuda. Da questa sensazione mi distrae un qualcosa che subito non riesco a individuare… è un calore, prima tenue, poi più forte, sempre più forte, sul seno sinistro. Una punta di bruciore… Le sigarette!... le sigarette sopra il golf, fino ad arrivare alla pelle. Io non so cosa dovrebbe fare una persona in queste condizioni. Io non riesco a fare niente, né gridare, né piangere. Mi sento come proiettata fuori, affacciata ad una finestra e costretta a guardare qualche cosa di orribile. […] Ora tutti si danno da fare per spogliarmi. […] Adesso uno mi entra dentro. Mi viene da vomitare. […] Non conosco più nessuna parola, non capisco nessuna lingua. Sono di pietra. […] È il turno del secondo… […] È il turno del terzo. È orribile sentirti godere dentro delle bestie orrende. […] Sento che mi stanno rivestendo. Io servo a poco. Quello che mi teneva alle spalle mi riveste con movimenti precisi, come se fossi un bambino. Si lamenta perché è l’unico che non abbia fatto… che non si sia aperto i pantaloni […] Il camioncino ferma giusto il tempo per farmi scendere […] Mi sento male… mi sento male proprio nel senso che mi sento svenire… e non soltanto per il dolore fisico, ma per lo schifo… per la rabbia… per l’umiliazione… per le mille sputate che mi sono presa nel cervello… […] Poi, senza neanche accorgermene, mi trovo all’improvviso davanti al Palazzo della Questura. Sto appoggiata al muro della casa di fronte… guardo quel portone, vedo la gente che va e che viene… poliziotti in borghese, poliziotti in divisa… Penso a quello che dovrei affrontare se entrassi. Penso alle domande. Penso alle loro facce… ai lor mezzi sorrisi… Penso e ci ripenso. Poi mi decido. Torno a casa. Li denuncerò domani.50 50 F. RAME, Lo stupro – 1975, «Archivio Franca Rama Dario Fo», http://www.archi vio.francarame.it/scheda.aspx?IDScheda=1194&IDOpera=170.

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Due fascisti rivelarono a un giudice che a compiere lo stupro fu una squadra neofascista51. L’azione, se non ordinata, sicuramente è stata ispirata o suggerita da alcuni ufficiali dei carabinieri della divisione Pastrengo che mantenevano stretti e assidui legami con la destra extraparlamentare52. Franca Rame è una donna scomoda negli anni della “Guerra fredda” in Italia. Lei parlava quando doveva stare zitta. Lei faceva politica e lo faceva anche dalla parte sbagliata. Lei stava “ficcando il naso” nella oscura strage di Milano del 12 dicembre 196953. Non solo ha prestato la sua voce all’organizzazione Soccorso Rosso Militante54, ma diventa finanche un’attivista del movimento antifemminista. Insomma, una donna attiva che doveva imparare, con le buone o le cattive, a stare al suo posto senza sfidare la “naturale” posizione delle donne e la “naturale” posizione di cittadine obbedienti. In politica le violenze sessualizzate diventano dunque un controllo disciplinare attraverso il corpo, per addomesticare la mente e ribadire i rapporti di potere. Siamo oltre il nuovo biopotere: un potere che sessualizzando la politica vuole demolire risolutamente la volontà della 51

I due fascisti informatori sono Angelo Izzo e Biagio Pitaresi; il giudice Guido Salvini. Cfr. G.M. BELLU, I carabinieri ci dissero: stuprate Franca Rame, «La Repubblica», 2 ottobre 1998, https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1998/ 02/10/carabinieri-ci-dissero-stuprate-franca-rame.html. Per lo stupro di Rame non c’è mai stata nessuna condanna, ma solo la prescrizione. 52 Il generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, all’epoca tenente di stanza alla caserma Lamarmora, ha riferito che in caserma si era gioito per la violenza e che il generale Palumbo, il comandante dell’Italia del Nord dei carabinieri, parlando in ufficio con il suo segretario personale, all’arrivo del fonogramma della notizia, esclamasse «Finalmente!». Bozzo è tuttavia convinto che il “suggerimento” proveniva da qualcuno che “stava più in alto” del generale Palumbo. Cfr. L. SISTI, E l’infame sorrise. Colloquio con Nicolò Bozzo, «L’Espresso» 26 febbraio 1973, ora in «Archivio Franca Rama Dario Fo», http://www.archivio.francarame.it/scheda.aspx?IDScheda=16291&IDOpera= 191. 53 Il 12 dicembre 1969 un ordigno esplode nella sede della Banca nazionale dell’agricoltura di Piazza Fontana a Milano, dando il via agli anni del terrorismo stragista neofascista in Italia. 54 Nata con il compito iniziale di raccolta fondi per la classe operaia e sostegno alle lotte dei lavoratori, l’organizzazione Soccorso Rosso Militante, dopo la strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) inizia a dare sostegno economico, legale e psicologico ai carcerati della sinistra extraparlamentare, arrestati durante le manifestazioni antifasciste.

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vittima violata che si fa ribellione, sia per garantire la soggezione totale all’autorità costituita sia per normalizzare la subalternità del genere femminile al potere maschile. Per effetto del paradigma di questo biopotere, i corpi delle donne diventano allora territorio della politica, per essere “oltrepassati” e occupati. Parafrasando Carl von Clausewitz, le violenze sulle donne da parte di un potere diventano così la continuazione della politica con altri mezzi.

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Capitolo IV

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Nelle mani del nemico: antichità, medioevo, età moderna

4.1. Il corpo della donna come bottino di guerra: antichità e Medioevo Per migliaia di anni il saccheggio dei beni del nemico vinto è un elemento connaturale al conflitto stesso. I vincitori depredavano il territorio nemico, distruggendo quello che non potevano prendere. La vittoria non era concepibile senza aver raccolto il bottino di guerra. Il saccheggio è concesso come premio ai soldati con la funzione di ricompensa e arricchimento, ma soprattutto è una manifestazione per sancire la sconfitta del nemico in ogni suo aspetto. Oro e preziosi, grano e altre derrate alimentari e quanto più poteva servire, era depredato dal vincitore. Anche le persone entravano a far parte del bottino di guerra, specialmente le donne. Omero riporta nell’Iliade la disputa fra Agamennone e Achille riguardante il possesso di Criseide e Briseide, entrambe bottino di guerra; Erodoto racconta dello stupro di Cassandra nel tempio di Atena dopo la conquista di Troia; Tito Livio e Publio Cornelio Tacito raccontano dell’incapacità dei generali romani di tenere a freno i soldati dal compiere efferatezze sulle donne del nemico vinto. Mito e realtà si inseguono1. Anche la legge Biblica insegna ai guerrieri come trattare le donne del nemico:

1 Cfr. E VIKMAN, Ancient Origins: Sexual Violence in Warfare, Part I, vol. 12, n. 1, April 2005, pp. 21–31.

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Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla, le offrirai prima la pace. E se acconsente alla pace e t’apre le sue porte, tutto il popolo che vi si troverà ti sarà tributario e soggetto. Ma s’essa non vuol far pace teco e ti vuol far guerra, allora l’assedierai; e quando l’Eterno, il tuo Dio, te l’avrà data nelle mani, ne metterai a fil di spada tutti i maschi; ma le donne, i bambini, il bestiame e tutto ciò che sarà nella città, tutto quanto il suo bottino, te li prenderai come tua preda; e mangerai il bottino de’ tuoi nemici, che l’Eterno, l’Iddio tuo, t’avrà dato.2

Se i maschi risparmiati erano schiavizzati, alle donne toccava anche il pietoso oltraggio fisico: lo stupro. Specialmente la donna del nemico è sempre stata intesa come ulteriore proprietà da depredare, anzi la proprietà che, a livello simbolico, è sempre stata la più significativa rispetto alle altre: in una società patriarcale, dove l’unico soggetto che fa la storia è il maschio, «un uomo che risulta incapace di proteggere la propria moglie, sorella o figlia è un uomo impotente e disonorato e questa incapacità compromette la sua virilità»3. Così lo stupro delle donne nemiche simboleggiava lo stupro dell’intera città. Se le violenze contro le donne sono una conseguenza delle campagne militari, la loro “appropriazione indebita” è causa di guerra. Nell’Iliade Omero narra del rapimento della bellissima Elena, regina di Lacedemone (la futura Sparta), da parte di Paride, figlio di Priamo, re di Troia. La guerra che segue porta alla distruzione di Troia4. Più famoso è il cosiddetto “Ratto delle Sabine”, ossia la decisione di Romolo di rapire le donne sabine per popolare Roma, dopo che i vicini avevano rifiutato di stringere alleanze e contrarre accordi matrimoniali. Il numero delle donne rapite varia secondo delle fonti: la tradizione riporta soltanto trenta (dalle quali derivano anche i nomi delle trenta fratrie romane); ma Valerio Anziate fa ascendere il loro numero a 527, mentre Giuba e Dionigi di Alicarnasso a 683. Per erro2

Deuteronomio 20, 10-14. G. LERNER, The Creation of Patriarchy, Oxford Paperbacks, Oxford 1987, p. 78. 4 In realtà le cause furono altre. L’espansione commerciale dei Greci a Oriente era limitata dal controllo dei troiani dell’Ellesponto (stretto dei Dardanelli), che impediva il libero passaggio tra l’Egeo e il Mar Nero. Di qui la guerra. Cfr. E.H. CLINE, The Trojan War. A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford 2013, trad. it. La guerra di Troia, Hoepli, Milano 2018. 3

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IV. Nelle mani del nemico: antichità, medioevo, età moderna

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re è rapita anche una donna sposata, Ersilia5. È probabile che l’usanza della sposa tenuta in braccio dallo sposo mentre varca la soglia della nuova casa rimandi proprio alle Sabine, che furono portate nella loro nuova dimora senza entrare da sole. Scoppia la guerra perché non si ruba una donna in tempo di pace. Infatti, notò Aurelio Agostino che sarebbe stato «più giusto far guerra con una popolazione che aveva rifiutato a corregionali e confinanti le proprie figlie chieste come mogli che con una popolazione che le richiedeva perché rapite». Romolo — rimarcava il padre, dottore e santo della Chiesa di Roma — «come vincitore» di un’eventuale guerra contro i Sabini poteva «per diritto in tempo di guerra prendere le fanciulle che gli erano state negate», ma egli «senza alcun diritto rapì in tempo di pace le fanciulle rifiutate e condusse una guerra ingiusta contro i loro indignati genitori»6. L’idea di una cerca liceità nel compiere stupri e altre violenze sui civili durante uno stato di guerra è riaffermata molti secoli dopo, nel tardo Medioevo, durante il processo al cavaliere borgognone Peter von Hagenbach, poi condannato per “crimini contro le leggi di Dio e dell’uomo in tempo di pace”. Governatore per conto di Carlo di Borgogna della città di Breisach, nel 1474 von Hagenbach fu infatti sottoposto a giudizio per aver instaurato un regno del terrore nella città che reggeva, con esecuzioni sommarie, stupri, saccheggi e altre violenze, al fine di ottenere la sottomissione dei cittadini. I reati per i quali von Hagenbach fu condannato sarebbero rientrati nei limiti della legittimità qualora fossero accaduti dopo una formale dichiarazione di guerra7. A parte singoli comportamenti che si snodano nell’arco di centinaia di anni da parte di alcuni personaggi illuminati (Alessandro, Scipione l’Africano, Lucullo, Annibale Totila, Belisario) che, anticipando i tempi, sottolineavano come nei momenti di guerra fosse necessaria 5 Cfr. E. CANTARELLA, Dammi mille baci. Veri uomini e vere donne nell’antica Roma, Feltrinelli, Milano 2011, p. 49 (orig. 2009). 6 AURELIO AGOSTINO, De civitate Dei, II, 17. 7 Cfr. E. GREPPI, I crimini di guerra e contro l’umanità nel diritto internazionale, UTET, Torino 2001, pp. 4-5; G.S. GORDON, The Trial of Peter Von Hagenbach. Reconciling History, Historiography, and International Criminal Law, in K. HELLER, G. SIMPSON (eds), The Hidden Histories of War Crimes Trials, Oxford University Press, Oxford 2013, pp. 13-49.

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una diversità di trattamento fra combattenti e civili, fra donne e uomini, la valutazione della donna come bottino di guerra è continuata nella storia per tutto il Medioevo8. Così, Visigoti, Unni, Avari, Franchi, Vandali, Saraceni, Vichinghi, Ungari, Normanni, Mongoli, crociati, soldati delle compagnie di ventura e tutti gli altri protagonisti delle guerre medievali non lesinarono violenze sulle donne del nemico9. Se la difesa dell’integrità delle donne durante la guerra da parte di alcuni uomini del tempo deve essere letta sotto l’aspetto economicopatrimoniale e non dei diritti della persona, con la Pace di Dio la cristianità volle anche istituire quello che oggi si potrebbe chiamare “diritto umanitario”10. Infatti, oltre a tutelare i beni e gli ecclesiastici, con la Pace di Dio la cristianità verso la fine del X secolo tentò, attraverso dei giuramenti, di mettere un freno alle violenze perpetuate in guerra e sottrarre alla violenza guerresca le persone indifese e non armate, dunque non solo persone di Chiesa, ma anche pellegrini, mercanti, contadini e, soprattutto, donne e bambini: il giuramento contratto si pone ad un livello superiore, oltre le leggi terrene — nella misura in cui ve ne fossero ancora — oltre la stessa giustizia terrena. […] Il contenuto dei giuramenti specificava un certo numero di interdetti che corrispondono alle pratiche correnti della guerra di rapina dell’epoca.11

Con la Pace di Dio i vescovi cercarono dunque di «affermare l’idea di una immunità naturale di cui godono i non combattenti e i loro beni»12. In realtà, per la semplice truppa il saccheggio e il ratto resta 8

Cfr. A. REDAELLI, Donne nelle mani del nemico, Storia dello stupro di guerra dai tempi antichi a oggi, Amazon, Brescia 2017, p. 18 e pp. 20-21. 9 Cfr. ivi, pp. 20-38. 10 Il movimento della Pace di Dio ha inizio nel 987 su iniziativa del vescovo di Le Puy, che raduna i suoi cavalieri e impone loro un giuramento. Negli anni seguenti altri vescovi faranno la stessa cosa. Cfr. G. MINOIS, L’Église et la guerre. De la Bible à l’ère atomique, Arthème Fayard, Paris 1994, trad. it., Chiesa e la guerra. Dalla Bibbia all’éra atomica, Edizioni Dedalo, Bari 2003, pp. 129-134. 11 Ivi, p. 132. 12 P. CONTAMINE, La guerre au Moyen Age, PUF, Paris 1980, trad. it. La guerra nel Medioevo, il Mulino, Bologna 1986, ora 2005, p. 360.

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una ricompensa economica per ingrassare la misera e irregolare paga ricevuta, mentre lo stupro della donna del nemico rimane un premio di guerra: il ratto equivaleva alla richiesta di un riscatto, oppure all’acquisizione di schiave da vendere o da utilizzare nel lavoro. Lo stupro, oltre a una perversa soddisfazione sessuale, procurava anche il piacere di rendere una grande offesa all’onore dei vinti, mentre l’uccisione delle donne faceva parte di una procedimento indiscriminato di devastazione generale dei beni del nemico13.

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4.2 Il corpo della donna come luogo di dominio: il Nuovo Mondo La notte fra l’11 e il 12 ottobre 1492, dalla coffa della caravella Pinta si levò un grido: «Tierra, tierra!». Il mattino dopo, Cristoforo Colombo, più che mai convinto di trovarsi nell’Asia orientale, pose piede sull’isola di Guanahani (nel gruppo delle Bahamas), da lui subito ribattezzata San Salvador. Nessuno fu consapevole che era stato appena scoperto un nuovo mondo. Colombo incontrò un’etnia indigena sconosciuta e selvaggia ma, scrisse l’11 ottobre del 1492: «devono essere buoni e di ingegno vivace […] Mi parve che non abbiano alcuna religione»14. Colombo annota anche che «vanno nudi come la madre loro li partorì e ugualmente le donne»15. Dunque «una grande moltitudine di popoli» buoni e senza religione che, annota Colombo il 12 novembre, sarà guadagnata alla nostra santa religione e inoltre acquisteranno alla Spagna signorie, e ricchezze a vantaggio loro e di tutti i loro popoli. Perché, senza dubbio, v’è in queste terre grandissima abbondanza d’oro16.

13 Cfr. J.M. ILLSTON, ‘An Entirely Masculine Activity’? Women and War in the High and Late Middle Ages Reconsidered, MA Thesis, University of Canterbury, Canterbury 2009, pp. 90-107. 14 C. COLOMBO, Diari di bordo, Einaudi, Torino 1992, p. 32. 15 Ivi, p. 31. 16 Ivi, p. 65.

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Quelle nuove terre e quei sconosciuti popoli diventano d’ufficio una «pagina bianca in attesa dell’iscrizione spagnola e cristiana»17. La nobile responsabilità di portare il Vangelo a quei popoli che ancora l’ignoravano, di cui l’europeo si sentì investito, fu invocata come alibi per le spoliazioni e per gli eccessi d’ogni genere contro quei popoli considerati primitivi e senza governo. L’europeo si sentì quasi incaricato dalla storia di diffondere la propria cultura, perché egli si riconobbe portatore di una civiltà superiore, perfetta. Ecco che, dopo i primi audaci esploratori, una turbe di spregiudicati hidalgos18 castigliani, s’imbarcarono per il Nuovo Mondo dando l’avvio a una caotica e violenta colonizzazione. Con le “Leggi di Burgos” (Ordenanzas reales para el buen regimento y tratamiento de los yndios), la Corona cercò, invano, di regolare il trattamento dei popoli nativi del Nuovo Mondo. Allo stesso tempo, con la pratica del Requerimiento (Ingiunzione)19 si diede veste legale all’occupazione delle nuove terre e all’assoggettamento, materiale e spirituale, dei popoli che l’abitavano. Il Requerimiento stabiliva infatti le ragioni giuridiche della conquista, per questo era letto pubblicamente agli uomini dei villaggi man mano conquistati, affinché accettassero pacificamente la sovranità spagnola e la religione cattolica. L’ingiunzione iniziava con una breve catechesi sulla storia della creazione del mondo e del pontefice che, assumendo il potere spirituale in nome del Cristo, aveva donato le «isole e la terraferma del mare Oceano» al re Fernando e alla regina di Castiglia e León Giovanna. Il documento continuava con una precisa richiesta, seguita da una intimidazione: Quindi, come meglio possiamo, vi preghiamo e vi chiediamo che intendiate bene ciò che vi abbiamo detto […] e riconosciate la Chiesa come signora e entità suprema dell’universo, e il sommo Pontefice, T. TODOROV, La conquête de l’Amerique. La question de l’autre, Seuil, Paris 1982, trad. it. La conquista dell’America, il problema dell’«altro», Einaudi, Torino 1984, p. 43. 18 Dallo spagnolo hijo de algo, ossia figlio di qualcuno, vale a dire nobile. 19 Il testo è scritto nel 1514 dal giurista regio Juan López de Palacios Rubios, in applicazione delle “Leggi di Burgos” (Ordenanzas reales para el buen regimento y tratamiento de los yndios). 17

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chiamato papa in suo nome, e il Re e la regina donna Giovanna, nostri signori, in suo luogo, come superiori e re di queste isole e terraferma, in virtù della suddetta donazione, e che consentiate e diate modo che questi padri religiosi vi dichiarino e predichino il suddetto. Se farete questo, e tutto ciò cui voi siete tenuti e obbligati, farete bene, e le Loro Altezze e noi in loro nome vi riceveremo con tutto l’amore e la carità, e vi lasceremo le vostre mogli e i vostri figli, e le fattorie libere e senza vincolo di servitù, perché di queste e di voi stessi voi facciate liberamente quello che vogliate e riteniate bene: non vi obbligheremo a farvi cristiani, se non nel caso che voi, informati della verità, vogliate convertirvi alla nostra santa Fede cattolica, come hanno fatto quasi tutti gli abitanti delle altre isole, e oltre a ciò le Loro Maestà vi concederanno privilegi ed esenzioni, e vi faranno molti doni. Ma se voi non faceste ciò, o in ciò voi interponeste maliziosamente delle dilazioni, vi faccio sapere che con l’aiuto di Dio noi interverremo potentemente contro di voi, e vi faremo guerra da tutte le parti e i modi che potremo, e vi assoggetteremo al giogo e all’obbedienza della Chiesa e delle Loro Maestà, e prenderemo le vostre persone, e le vostre mogli e i vostri figli e li faremo schiavi, e come tali li venderemo e disporremo di loro come le Loro Maestà comanderanno, e vi prenderemo i vostri beni, e vi faremo tutti i mali e i danni che potremo, come si fanno ai vassalli che non obbediscono né vogliono ricevere i propri signori e oppongono loro resistenza e disobbedienza; e dichiariamo che le morti e i danni che faranno seguito a ciò saranno attribuiti alla vostra colpa e non alle Loro Maestà, né a noi, né a questi signori che vengono con noi.20

È questo un documento che non solo rimarca la dottrina teocraticaimperialista, ma anche il pensiero patriarcale dell’epoca: uomini indios, se obbedite vi lasceremo «le vostre mogli e i vostri figli», in caso contrario li faremo schiavi assieme a voi… e la colpa sarà solo vostra. Peccato che la lettura del documento avvenisse in spagnolo, lingua ovviamente sconosciuta agli indios, e che nessuno di quella gente potesse ribattere. Così, al primo incontro pacifico, seguì la violenza della conquista e della colonizzazione. In «Wikipedia», voce “Requerimiento”, senza fonte, https://it.wikipedia.org/wiki/ Requerimiento.

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Una eventuale accettazione di un nuovo “padrone”, non avrebbe comunque cambiato il destino di quei popoli, considerati inferiori a priori. Juan Ginés de Sepúlveda, presbitero spagnolo, nella sua opera Democrates alter, sive de justis belli causis apud indos (1544-1548?), esponeva un principio di subalternità degli indigeni agli europei, ancor di più delle donne indios considerate doppiamente inferiori: In prudenza e in accortezza, in virtù e in umanità questi barbari sono inferiori agli spagnoli come i bambini sono inferiori agli adulti e le donne agli uomini, fra loro e gli spagnoli corre la stessa differenza che vi può essere fra gente feroce e crudele e gente di eccezionale clemenza, fra esseri straordinariamente intemperanti ed esseri temperanti ed equilibrati, la stessa differenza – oserei dire – che intercorre fra le scimmie e gli uomini.21

Certamente i massacri, le torture, le mutilazioni e le altre violenze di ogni genere sono serviti «per incutere paura e per ottenere la sottomissione di milioni di indiani a una manciata di spagnoli»22, ma la considerazione che i civili e cattolicissimi europei avevano dei nativi di quelle terre è stata direttamente proporzionale alla violenza utilizzata, così usati tormenti ne sono andati via via aggiungendo dei nuovi, più crudeli e inusitati, e si son fatti ogni giorno più inumani, perché Dio li lasciava sempre più precipitosamente cadere e diruparsi nell’abominio del loro iniquo giudizio e delle passioni loro.23

Così scrive il vescovo missionario domenicano Bartolomé de Las Casas, testimone d’eccezione, in quanto aveva ereditato dal padre — compagno nel secondo viaggio di Cristoforo Colombo — una grande

In T. TODOROV, La conquista dell’America, il problema dell’«altro», cit., p. 185. . E.M. CABALLOS, Terror, violación y pederastia en la Conquista de América: el caso de Lázaro Fonte, «Jahrbuch fü Geschichte Lateinamerikas», vol. 44, n. 1, January 2007, p. 40. 23 B. de LAS CASAS, Brevissima relazione della distruzione delle Indie, a cura di C. ACUTIS, Mondadori, Milano 2015, p. 158. 21 22

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encomienda24 nell’isola di Hispaniola, proprietà poi rifiutata poiché fortemente turbato dalla violenta campagna militare per la conquista dell’isola di Cuba25. Le donne, secondo il cronista Juan Rodríguez Freyle (uno dei primi scrittori nel Nuovo Regno di Granada, gruppo di provincie coloniali spagnole situate nell’America del Sud settentrionale corrispondente pressappoco all’attuale Colombia, Panama, Ecuador e Venezuela) sono «un’arma del diavolo», sono «teste di peccato e distruzione del paradiso»26. La loro nudità divenne una dimostrazione dei loro costumi licenziosi, il marcatore che permise di creare il mito della lascivia delle donne indios, della loro disponibilità al peccato. Così non solo oro, argento e altri minerali, ma anche le carnali native divennero un’enorme attrattiva per recarsi nel Nuovo Mondo: tutte le classi sociali della Spagna, compresi gli ecclesiastici, ben presto seppero della presenza di un “altro oro”27. L’europeo iniziò a percepire il suo futuro in questa lontana terra «solo attraverso la lussuria e l’avidità»28 e il Nuovo Mondo divenne

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L’encomienda consisteva nella delega a un colono (encomendero) dei diritti su un repartimiento (dominio) e sugli indigeni che lo abitavano. All’encomendero spettava il compito di proteggere i “suoi” indios e provvedere alla loro cristianizzazione, in cambio riceveva la riscossione di tributi in natura o in forma di lavoro obbligatorio non retribuito. 25 Consegnata il 15 agosto 1514 al governatore Velázques la sua rinuncia all’encomieda, fra Bartolomé si dedica alla difesa degli indios, contestando l’ingiusto sistema coloniale. 26 Cit. in C. QUESADA-GÓMEZ, Las mujeres en los inicios de la ciudad literaria hispanoamericana. Representaciones femíneas y misóginas en textos coloniales de los siglos XVI y XVII, in M. ARRIAGA FLÓREZ, R. BROWNE SARTORI, Á. CRUZADO RODRÍGUEZ, J.M. ESTÉVEZ-SAÁ, V.S. ECHETO, K. TORRES CALZADA, L. TRAPASSI (eds.), Mujeres, espacio y poder, ArCiBel, Sevilla, 2006, p. 573. 27 A. POSSE, El alucinante viaje del doble descubrimiento. En: A los 500 años del choque de dos mundos, Edic. del Sol, Cehass, Buenos Aires 1989, p. 201, così cit. in G.L. GUERRERO VINUEZA, El ”Otro Oro” en la Conquista de América: las Mujeres Indias, el Surgimiento del Mestizaje, Estudios Latinoamericanos, n. 22-23, 2008, p. 12. 28 R. HERREN, La conquista erótica de las Indias, Editorial Planeta, Barcelona 1991, p. 14, così cit. in ivi, p. 13.

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assieme il mitico Eldorado29 e anche una specie di “porno-tropici”30 per l’immaginazione europea, il luogo “vergine” su cui effettuare la dominazione maschile. Nel Nuovo Mondo i conquistatori pianificarono un “patriarcato ad alta intensità”, installando l’idea del maschio virile costruito con l’immagine del colonizzatore31. La spietatezza divenne la forma pratica del dominio europeo su quei popoli, che si praticava soprattutto attraverso l’accaparramento delle donne, specie quelle “appartenenti” ai capivillaggio. Lo stupro divenne un’affermazione di superiorità simbolica e materiale, «una celebrazione metonimica di acquisizioni territoriali»32; non più una conseguenza della guerra, ma un’arma per dominare: se il vostro leader non è capace di proteggere sua moglie, non è un bravo capo e il villaggio merita una guida più autorevole. È vero che ci sono stati numerosi casi di donne indios che hanno volontariamente vissuto con gli spagnoli, anche se molte di esse sono state solo concubine, come anche parecchi episodi in cui molti capi indios hanno offerto le loro mogli ai comandanti spagnoli33, ma la maggior parte delle donne native furono “rubate” ai maschi, per essere schiavizzate e utilizzate come oggetto sessuale. Il frutto delle convivenze, delle violenze e degli ingravidamenti forzati (pratica per poter vendere a maggior prezzo le donne incinte), L’origine del termine è legata al rituale che i Muisca (tribù stanziante nell’attuale Colombia) dedicavano al re che, cosparso d’oro (“el Indio dorado”) si immergeva nel lago Guatavita, in quel momento i suoi sudditi gettavano nelle acque oggetti votivi spesso realizzati in oro. Il nome è diventato dapprima sinonimo di “città perduta d’oro” e poi per estensione qualsiasi altro luogo in cui si possono ottenere rapidamente ricchezze. Cfr. F. CORSI, Eldorado, «ACAM. Associazione Culturale Archeologia e Misteri», 29 novembre 2012, http://www.acam.it/eldorado/ 30 A. MCCLINTOCK, Imperial Leather: Race, Gender, and Sexuality in the Colonial Contest, Routledge, New York 1995, p. 22. 31 R.L. SEGATO, La guerra contra las mujeres, Traficantes de Sueños, Madrid 2016, p. 96. 32 G.C. SPIVAK, A Critique of Postcolonial Reason. Towards a History of the Vanishing Present, Harvard University Press, Cambridge 1999, trad. it. Critica della ragione postcoloniale, Meltemi, Roma 2004, p. 310. 33 «Ci sono casi ben noti, come quello di doña Marina, “la Malinche”, o come quello di doña Inés Huaylas, la sorella di Huascar, che è stata data da Atahualpa a Francisco Pizarro. Cfr. E.M. CABALLOS, Terror, violación y pederastia en la Conquista de América, cit., p. 44. 29

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determina la nascita dei cosiddetti mestizi (meticci), i figli di spagnoli e di donne native34, considerati eredi dei difetti di europei e donne indios e per questo discriminati35. Nella seconda metà del XVI secolo, mentre gran parte del continente americano del centro-sud è sotto il dominio spagnolo, inglesi e francesi iniziano a esplorare le coste atlantiche del nord alla ricerca di una rotta alternativa verso l’Asia. Abbandonata la ricerca del passaggio a nord-ovest è avviata una campagna di colonizzazione nel Nuovo Mondo. La situazione nelle terre settentrionali era molto diversa rispetto alla parte centromeridionale del continente. La popolazione indigena era numericamente inferiore a quella del sud e distribuita su un territorio più vasto. Inoltre i nativi nordamericani non avevano il concetto di proprietà, per questo in un’ottica di condivisione della terra, non trattano con ostilità i nuovi arrivati. Ci volle poco a comprendere che gli uomini venuti dal mare la pensavano diversamente, poiché loro avrebbero voluto possedere tutto il territorio. L’aperta ribellione all’oppressore europeo porta gradualmente al quasi totale sterminio dei nativi: D’altra parte, la diversa situazione sociale e le diverse convinzioni religiose dei colonizzatori dell’America del Nord, rispetto a quelli dell’America del Sud, resero impossibile quella relativa integrazione tra europei, indigeni e meticci […]. Gli Stati Uniti soprattutto furono colonizzati da una maggioranza di protestanti e di coltivatori diretti: i puritani in particolare, convinti di essere il popolo eletto da Dio, che destinava loro una nuova terra promessa, vedevano negli indiani uno strumento di Satana e un ostacolo da eliminare […] i coltivatori diretti non avevano necessità di asservire gli indiani per farli lavorare a proprio profitto (come fecero gli spagnoli), ma desideravano unicamente strappar loro la terra e cacciarli via sempre più lontano.36

Dall’unione di donne meticce e spagnoli poi nasceranno i cosiddetti castizi. Cfr. G.L. GUERRERO VINUEZA, El ”Otro Oro” en la Conquista de América: las Mujeres Indias, el Surgimiento del Mestizaje, cit., pp. 12-24. 36 P. TOFFANO, M. de Combourg e i pellerossa. Il mito dell’America selvaggia nell’opera di Chateaubriand, Edizioni ETS, Pisa 2017, pp. 9-10. 34 35

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Nacque così la leggenda sugli “indiani”37, disegnati come principali aggressori dei “visi pallidi”. Una montatura diffusa dagli stessi coloni per giustificare la loro guerra contro i nativi e, poi, veicolata anche dalla letteratura e dal cinema attraverso l’immagine dei nativi che scorticavano i coloni, facendo collezione dei loro scalpi: Nella realtà, era stata l’aggressione bianca a segnare il rapporto con tutte le popolazioni indiane […] a mano a mano che il procedere della conquista rendeva il contatto inevitabile. Fu soprattutto una violenza istituzionale, messa in atto da milizie ed eserciti, oppure istituzionalizzata di fatto, in quanto praticata a fini acquisitivi da singole comunità bianche e poi quasi sempre legittimata a posteriori dalle autorità civili e militari.38

Il colonialismo anglosassone è stato dunque più distruttivo di quello spagnolo e portoghese. Lo ha riconosciuto finanche un europeo arrivato in America, divenuto poi primo Ministro della guerra durante la presidenza di George Washington, il generale Henry Knox: È melanconico riflettere sul fatto che, rispetto alla condotta adottata dai conquistatori del Messico e del Perù, le nostre modalità di popolamento sono state molto più distruttive per i nativi indiani. Lo dimostra in modo evidente la completa estirpazione di quasi tutti gli indiani nella maggior parte delle aree densamente abitate dell’Unione. Uno storico futuro potrebbe descrivere a tinte fosche le cause di questa distruzione della razza umana.39

Alle uccisioni dei nativi si aggiunsero anche le malattie importate dai coloni europei, che decimarono i superstiti. Il termine, inesatto, deriva dall’errore storico per il quale si confuse l’America con l’India. Anche l’espressione “pellerossa”, sempre utilizzata per indicare i nativi è errata, non fa riferimento al colore della loro carnagione, ma riguarda l’usanza di tingersi la pelle di ocra rossa prima delle battaglie o per proteggersi dalle intemperie. 38 B. CARTOSIO, Verso Ovest. Storia e mitologia del Far West, Feltrinelli, Milano 2018, p. 202. 39 R. HORSMAN, Expansion and American Indian Policy, 1783-1812, University of Oklahoma Press, Norman 1992, p. 64, così cit. in L. PEGORARO, I dannati senza terra. I genocidi dei popoli indigeni in Nord America e in Australasia, Meltemi, Milano 2019, pp. 331-332. 37

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Se gli iberici hanno voluto colonizzare le donne anche attraverso la fecondazione, gli invasori europei del nord hanno preferito aggiungere la loro eliminazione fisica. Per la loro natura “sporca”, le donne native furono considerate doppiamente inferiori, per l’appartenenza a una “sotto-razza” e per essere “femmine”40. Dunque la donna nativa diventa “sessualmente violabile e stuprabile”41 e, soprattutto, “eliminabile” per la capacità di assicurare la continuità del popolo attraverso la concepimento di nuovi nativi42. Con l’arrivo degli schiavi dall’Africa43, le donne africane diventano il nuovo soggetto della violenza sessualizzata da parte dei “bianchi” e, al contrario delle donne native americane, il loro valore dipende dalla loro capacità di riprodurre “nuovi schiavi”44. 4.3. Il corpo della donna da preservare Senza soluzione di continuità in Europa si prosegue in linea con il periodo precedente: «Le donne rimangono con la loro etichetta di bottino e assurgono a funzione di campo di battaglia, il luogo su cui si manifesta «la parata trionfale del vincitore»45. Dalle guerre religiose del XVI secolo, passando per la Rivoluzione francese e poi per le guerre napoleoniche, sino a tutti i conflitti 40

Cfr. G.M. LE MAY, The Cycles of Violence Against Native Women. An Analysis of Colonialism, Historical Legislation and the Violence Against Women Reauthorization Act of 2013, «PSU McNair Scholars Online Journal», vol. 12, n. 1, art. 1, 2018, https://pdxscholar.library.pdx.edu/mcnair/vol12/iss1/1/ 41 «Sexually violable and “rapable” scrive l’accademica Andrea Smith in Conquest. Sexual Violence and American Indian Genocide, South End Press, Cambridge 2005, p. 10; e anche in Not an Indian Tradition. The Sexual Colonization of Native Peoples, «Hypatia. A Journal of Feminist Philosophy», vol. 18, n. 2, 2003, p. 73. 42 Cfr. A. SMITH, Not an Indian Tradition. The Sexual Colonization of Native Peoples, cit., p. 78. 43 I primi venti schiavi provenienti dall’Africa arrivano a James Fort (Virginia), il primo insediamento stabile inglese, nel 1619. 44 Cfr. R.A. FEINSTEIN, When Rape was Legal. The Untold History of Sexual Violence during Slavery, Routledge, New York 2018. 45 S. BROWNMILLER, Agaist Our Will. Men, Women and Rape, Simon & Schuster, New York 1975, trad. it. Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale, Bompiani Milano 1976, p. 43.

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dell’Ottocento, la donna continua così a essere ora bottino di guerra, ora luogo di guerra, oppure entrambe le funzioni46. In tutti i casi non è una deliberata strategia, ma il risultato di un temporaneo momento che si realizza nella vittoria di una battaglia o di una guerra per umiliare il signore di turno e i suoi soldati. A questo si aggiunge un ulteriore elemento: con la comparsa del nazionalismo emerge anche il connotato ideologico e politico per il quale la violazione del corpo della donna equivale alla profanazione dell’intera Nazione. Oltraggiare colei che genera i figli della Nazione vuol dire alterare nell’intimo l’armonia della comunità nazionale, colpire l’essenza collettiva di un popolo e protocollare una testimonianza indelebile: violare il suo corpo vuol dire violare il corpo della Patria. La violenza sui civili, in particolare sulle donne, diventa sempre più un’urgenza da risolvere. Nascono così le prime trattazioni giuridiche e politiche per eliminare, o almeno attenuare, questi soprusi di guerra. Già nel 1385, Riccardo II d’Inghilterra volle porre un freno alle crudeltà di guerra verso i civili, stabilendo dei limiti alle condotte belliche. Con l’Ordinance for the Government of the Army proibì, comminando la pena di morte, gli atti di violenza contro le donne e i preti disarmati, l’incendio immotivato delle case e la violazione dei luoghi sacri. Precetti simili furono previsti anche nei codici di guerra emanati da Ferdinando d’Ungheria nel 1526, dall’Imperatore Massimiliano II nel 1570 e dal re Gustavo II Adolfo di Svezia nel 162147. Per i giuristi Alberigo Gentili (1552–1608) e Ugo Grozio (1583– 1645) in caso di guerra le donne (e i bambini) devono essere trattati con particolare indulgenza. Gentili prospetta comunque due ipotesi che derogano a questo principio di indulgenza: le donne che combattono e quelle in possesso di armi. In entrambi i casi, “venendo meno alle ragioni del loro sesso sono andate oltre il loro sesso”, ponendosi

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Cfr. A. REDAELLI, Donne nelle mani del nemico, Storia dello stupro di guerra dai tempi antichi a oggi, Amazon, Brescia 2017, pp. 42-66. 47 Cfr. S. SGROI, Il principio di retroattività e il processo di Norimberga, in «Diritto & questioni pubbliche», vol. 3, 2003, p. 314.

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sullo stesso piano dell’uomo, quindi devono essere trattate allo stesso modo48:

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Se il loro sesso le rende inabili a combattere, e quindi esenti dalla punizione, l’esercizio delle armi, al contrario, costituisce una negazione della propria natura, che pertanto le rende passibili, per contrappasso, di punizione al pari degli uomini. Alla donna, insomma, non si perdona l’essersi comportata da uomo.49

Resta comunque illecita in ogni caso la violenza sessualizzata: per Ugo Grozio lo stupro «non dovrebbe rimanere impunito in guerra meno che in tempo di pace»50. L’attenzione verso i civili non rimane relegata al pensiero filosofico e una prima concretizzazione a livello internazionale arriva nel 1785: in un trattato di amicizia e di commercio stipulato fra Stati Uniti D’America e Prussia, tra le altre disposizioni, oltre a dettagliate istruzioni sul trattamento dei prigionieri di guerra, si stabilisce che in caso di guerra, le donne e i bambini «non saranno molestati nella loro persona»51. Un altro atto importante per svincolare la guerra dalle antiche condotte crudeli sui civili da parte della truppa, arriva il 19 febbraio 1847 dal generale statunitense Winfield Scott: durante la spietata guerra USA–Messico (1846–1848), l’ufficiale statunitense emana il General Orders n. 20 quale sussidio al più generico Rules and Articles of War del 1806. Nell’ordine militare, temendo che «molti e gravi reati non previsti nell’atto di Congresso» possano essere commessi dai soldati dei due eserciti (art. 1), vieta la profanazione di chiese, cimiteri e case e tutte le condotte ritenute immorali, quali l’omicidio premeditato, le 48

A. GENTILI, De iure belli libri tres, 1612, ed. an. New York 1995, p. 413, così cit. in A.A. CASSI, Lo ius in bello nella dottrina giusinternazionalista moderna. Annotazioni di metodo e itinerari d’indagine, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», XXXVIII, 2009, p. 1163. 49 A.A. CASSI, Lo ius in bello nella dottrina giusinternazionalista moderna, ivi, p. 1164. 50 H. GROTIUS, On the Law of War and Peace, ed. S.C. Neff, Cambridge University Press, Cambridge 2012, p. 356. 51 Articolo XXIII del trattato. Cfr. Y. KHUSHALANI, Dignity and Honour of Women as Basic and Fundamental Human Rights, Martinus Nijhoff, Den Haag 1982, p. 3.

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mutilazioni maligne, lo stupro non ordinati da un ufficiale superiore (art. 2), stabilendo che «l’onore degli Stati Uniti e gli interessi della umanità esigono imperativamente che tutti i crimini di cui sopra devono essere puniti severamente» (art. 3) da una Corte marziale (artt. 7 e 10)52. Nel diritto bellico più recente il primo riferimento espresso al divieto di stupro si trova nel General Orders n. 100, sottoscritto dal presidente Abraham Lincoln il 24 aprile 1863, una “direttiva” che nasce dal famoso “Codice Lieber”, una compilazione privata di diritto umanitario redatta dallo storico ed economista Francis Lieber (1798 o 1800–1872). Nel novembre 1862, durante la feroce guerra di secessione tra gli Stati confederati del Sud e l’Unione del Nord (1861–1865), in una lettera inviata al generale statunitense Henry Halleck, segretario di Stato militare, Lieber suggerisce di codificare le norme di condotta bellica in coerenza con i principi morali dei popoli civili. Ispirandosi alle idee di Emeric de Vattel, giurista svizzero e consigliere del Re di Polonia Augusto III, contenute nel volume Le droit des gens, ou Principes de la loi naturelle (1758), Lieber afferma che anche la guerra richiede regole, doveri e vincoli. Per questo suggerisce una serie di misure per disciplinare la condotta dei militari in guerra. Il presidente Abraham Lincoln, attingendo dalle Lieber’s Instructions emana così il General Orders n. 100. Nella direttiva, tra i principi di civiltà nella conduzione delle guerre, oltre il riconoscimento nei territori occupati della religione, della moralità, della sacralità delle relazioni domestiche e dei civili (art. 37), si ritrova il divieto di eseguire qualsiasi atto di violenza sfrenata commessa nei confronti di persone nei territori invasi, compreso lo stupro, da sanzionarsi «con la pena di morte, o altra pena che risulti commisurata alla gravità dell’offesa» (art. 44)53. 52

General Headquarters of the Army, General Orders n. 20, February 19, 1847, Tampico, Mexico, in «Rice. Digital Scholarship Archive», https://scholarship.rice.edu/ jsp/xml/1911/27562/3/aa00208tr.tei.html 53 Cfr. US War Department, General Orders n. 100. Instructions for the Government of Armies of the United States in the Field (Lieber Code), in «Library of Congress», https://www.loc.gov/rr/frd/Military_Law/Lieber_Collection/pdf/Instructions-govarmies.pdf.

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Il Codice Lieber è oggi considerato la pietra miliare del diritto bellico internazionale e, quindi, della codificazione dei crimini di guerra, diventando il modello al quale poi si ispireranno i regolamenti emanati in Europa, destinati a disciplinare i problemi umanitari nascenti dai conflitti armati nazionali e internazionali, dal “Manuale di Oxford” — scritto nel 1880 dal giurista svizzero Gustave Moynier, uno dei fondatori della Croce Rossa54 — alle varie convenzioni internazionali sulle norme e consuetudini di guerra55. Nonostante questo lo stupro continua a sussistere come atto «normale di guerra»56, poiché la guerra — ricorda Susan Brownmiller — fornisce sempre «agli uomini una tacita licenza di violentare»57. 4.4. Il colonialismo imperialista e il “tutto compreso” Il termine “colonialismo” indica una politica tesa all’espansione politico-economica, realizzata con la forza e finalizzata all’occupazione di nuovi possedimenti per lo sfruttamento delle risorse ivi presenti e all’assoggettamento politico delle popolazioni native. Un dominio di un popolo su un altro popolo, che si realizza in nome di una pretesa superiorità biologica e culturale, attraverso la fondazione di “colonie”, ovvero insediamenti più o meno ampi fuori dal territorio dello Stato occupante. Esistono due modelli di colonialismo: quello d’insediamento e quello di sfruttamento58. Nel primo si realizza un progressivo popolamento da parte di persone che si trasferiscono, spontaneamente o su Adottato all’unanimità dall’Istituto di Diritto Internazionale, il “Manuale di Oxford” del 1880 è diventato la base per le legislazioni nazionali e internazionali sul diritto umanitario durante le guerre. Cfr. Institute of International Law, The Laws of War on Land, Oxford 9 September 1880, in «International Committee of the Red Cross», https://ihl-databases.icrc.org/ihl/ INTRO/140?OpenDocument. 55 Cfr. Y. KHUSHALANI, Dignity and Honour of Women as Basic and Fundamental Human Rights, cit.. 56 R SEIFERT, The Second Front, The Logic of Sexual Violence in War, in «Women’s Studies International Forum», 19, 1–2, January–April 1996, p. 35. 57 S. BROWNMILLER, Contro la nostra volontà, cit., pp. 35–36. 58 Alle colonie d’insediamento e di sfruttamento, si aggiungono quelle costituite come base d’appoggio militare e/o commerciale. 54

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impulso dei governanti, realizzando colonie stanziali. Nel secondo caso non si realizza una ripopolazione completa, ma quella sufficiente per dominare la popolazione nativa. C’è una importante differenza tra i due modelli di colonialismo che riguarda la loro cessazione: se il colonialismo di sfruttamento si estingue con la decolonizzazione, ossia con la restituzione dell’autonomia politica delle terre occupate, in quello d’insediamento i coloni conquistano l’indipendenza dalla madrepatria. Se nella sua prima fase la politica colonialista si incardina su un’approvazione di tipo religioso, avvalorata dalle bolle papali di Alessandro VI59 e Niccolò V60, successivamente si aggiunge una legittimitazione scientifica che, considerando i popoli nativi giacenti nel basso della scala biologica umana (e quindi anche di quella sociale), giustifica le conquiste con una presunta missione civilizzatrice. In realtà il colonialismo si è sempre fondato sulla potenza economica e commerciale. Il colonialismo moderno61 inizia cronologicamente con la scoperta del continente americano e prosegue attraversando schematicamente diverse fasi: nel Cinquecento, con le conquiste da parte di spagnoli e portoghesi; nel Sei-Settecento, con gli insediamenti francesi, olandesi e britannici; nell’Ottocento, con l’espansione in Asia e Africa di Francia e Gran Bretagna; dalla metà dell’Ottocento alla prima metà del Novecento, con l’inserimento di Belgio, Germania e Italia, e poi di Stati Uniti e Giappone62. La politica coloniale britannica, attraverso una riforma amministrativa che toglie la direzione politica delle colonie alle compagnie private affidandole direttamente a organismi governativi, diventa modello per le altre potenze coloniali. 59

Con la bolla Inter caetera del maggio 1493, papa Alessandro VI regolamentava in anticipo i domini coloniali spagnoli e portoghesi nel continente americano, subordinandoli alla evangelizzazione di quelle terre. 60 Nelle bolle papali Dum Diversas (1452) e Romanus Pontifex (1454), papa Niccolò V legittima de jure il colonialismo portoghese in cambio della cristianizzazione, dando inizio alla spartizione coloniale dell’Africa. 61 In senso lato è esistito un colonialismo anche nell’Antichità e nel Medioevo, seppure con una strutturazione meno articolata e in un ambito geografico più delimitato. 62 Cfr. W. REINHARD, Kleine Geschichte des Kolonialismus, Alfred Kröner Verlag, Stuttgard 1996, trad. it. Storia del Colonialismo, Einaudi, Torino 2002.

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Il colonialismo è dominio politico, militare ed economico, convalidato da un discorso razzista, che legittima un nuovo ordine politicosociale attraverso pratiche di discriminazione, che a loro volta generano oppressione. La servitù che il colonialismo crea è comune in tutti i regimi coloniali, seppure in forme non sempre uguali. In tutti i colonialismi, i nativi diventano puro corporeo: un corpo bello da possedere, un corpo forte da sfruttare o un corpo inutile da annientare. Sulla base di una stigmatizzazione delle altre civiltà e di una supposta superiorità, gli europei impongono il loro imperialismo sui territori già occupati, mascherando le loro vere intenzioni con il compito di civilizzare i “selvaggi”. Nella corsa coloniale le motivazioni politico-ideologiche hanno un’importanza pari a quelle economiche. Se le seconde vanno individuate nell’accaparramento di risorse a basso costo e nella ricerca di sbocchi commerciali, le prime riguardano lo spirito nazionalista e quello religioso. Tuttavia il colonialismo europeo non può essere letto esclusivamente in un’ottica di potere politico ed economico, poiché si dimentica che esso è stato anche una dominazione fallocentrica, con l’imposizione di un ordine patriarcale e gerarchico fra i sessi. Anzi, come riferito63, sin dalle prime scoperte dei “nuovi mondi” è avvenuta una certa femminilizzazione metaforica di queste terre, che sono state libidinosamente erotizzate facendole divenire luoghi di conquista maschile: possedere le donne native equivale a conquistare la loro terra, e viceversa. Per definire questi territori considerati “vergini alla civiltà” l’accademica Anne McClintock ha utilizzato il termine provocatorio di «porno-tropic»64, per evocare una nozione coloniale feticista che ha erotizzato tutto lo spazio di questi “nuovi mondi”, considerato emblema di occasioni carnali, «una fantastica lanterna magica della mente su cui l’Europa ha proiettato i suoi proibiti desideri sessuali e le sue paure»65. In questi “nuovi” spazi giudicati terra di nessuno, il maschio colonizzatore può dispensare a sua libera scelta, quando e come vuole, le sue potenzialità virili.

63

Cfr. parafrafo 2 di questo capitolo. A. MCCLINTOCK, Imperial Leather, cit., p. 22. 65 Ibidem. 64

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Così nelle colonie europee, luoghi divenuti privi di storia, non solo espropri totali di terre e animali e continue umiliazioni agli indigeni trasformati in “merce” da impiegare, ma anche – e soprattutto – persistenti violenze contro le donne, trasformate in corpo da abusare, da comprare o svendere. Proprio sulle donne indigene si proietta un doppio processo: di razzializzazione e di sessualizzazione: La classificazione razziale attuata dagli Stati coloniali legittimò, in effetti, le disuguaglianze tra soggetti europei e soggetti indigeni, con la schiavitù sociale, politica e sessuale di questi ultimi, e la relazione con la donna, corrispondeva ad una violenza naturalizzata contro la terra da addomesticare, attraverso la forzatura sessuale, la cui importanza è paradigmatica di un effetto performativo e duraturo della conquista maschile-coloniale.66

Sulle donne native, dunque, i coloni instaurano relazioni di potere attraverso la doppia discriminazione, perché il corpo delle donne native assume il valore di un duplice confine da marcare per completare il processo di colonizzazione. La donna indigena subisce così una duplice colonizzazione politica e patriarcale: sul suo sfruttamento sessuale «si interconnettano eurocentrismo e maschilismo, discriminanti diretti al tracciare il confine dall’alterità iniziando dal e sul corpo»67. Nella scala giuridica e sociale la donna scivola al gradino più basso, ella è considerata la più inferiore degli inferiori. Allo stesso tempo la sua sessualità violata diventa una categoria della politica, il simbolo del potere coloniale; il suo corpo metafora dell’espansionismo coloniale, un “bottino” da aggiungere alle glorie della conquista68. È l’Italia ha rappresentare più di altri la sessualizzazione dell’impresa coloniale, il miglior esempio dell’erotizzazione del nuovo spazio 66 L. SUGAMELE, La narrazione dei corpi nell’edificazione “eurocentricaandrocentrica” coloniale: terra femminilizzata, reificazione e subalternità, «Altre Modernità», febbraio 2019, p. 77, https://riviste.unimi.it/index.php/AMonline/article/ view/11326/10709. 67 Ivi, p. 81. 68 Cfr. G. B OËTSCH , N. B ANCEL , P. B LANCHARD , S. C HALAYE , F. R OBLES , T.D. S HARPLEY -W HITING , J.-F. S TASZAK , C. T ARAUD , D. T HOMAS , N. Y AHI , Sexualités, identités & corps colonisés, CNRS, Paris 2019, pp. 303-392.

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extraterritoriale in Africa. L’esperienza coloniale italiana è così intrisa di connotazioni sessuali, tanto da essere finanche istituzionalizzata una forma di sfruttamento sessuale, con l’aggravante di essere esercitata su minorenni: il madamato69. Proprio l’Africa, più di altri continenti, rappresenta nell’immaginario coloniale europeo il “paradiso dei sensi”, il luogo incantevole dove vivono le “veneri nere”, l’essere primitivo dalla sensualità esagerata e dalla sessualità sregolata e vorace. Infatti le donne africane sono raffigurate con corpi erotizzati libidinosamente e la loro alterità diviene desiderata e bramata, «la sua disponibilità sottende la disponibilità dell’Africa ad essere conquistata»70. L’africana è dunque ridotta a essere solamente corpo, senza nessuna soggettività; collocata solamente in un indebito stato di natura, la sua unica identità è quella sessuale, reductio ad unum del suo essere. La sua sbandierata carica erotica diventa «il sogno di una vita libera e stimolante vicina alla natura: desideri repressi da una società carica di tabù secolari»71. Le violenze sessualizzate sulle donne aumentano vertiginosamente durante le lotte anticoloniali. Anzi, diventano un elemento costituito nella repressione della guerriglia, come nel caso del protettorato del Kenya nell’Africa Orientale Britannica durante la Mau Mau rebellion (1946-1955) o durante la guerra algerina per l’indipendenza dalla Francia (1954-1962). Nel primo caso, la violenza sessualizzata, anche con serpenti e bottiglie rotte, è stata sia la forma specifica della disumanizzazione delle donne africane da parte dei britannici sia l’arma per frenare la guerriglia anticoloniale72. Nel secondo caso le violenze L’argomento sarà trattato in maniera più approfondita nel prossimo capitolo, al terzo paragrafo. 70 G. CAMPASSI, M.T. SEGA, Uomo bianco, donna nera. L’immagine della donna nella fotografia coloniale, «Rivista di storia e critica della fotografia», anno IV, n. 5, 1983, p. 55. 71 Ivi, p. 57. 72 Cfr. C.M. ELKINS, Detention and rehabilitation during the Mau Mau Emergencey. The crisis of late colonial Kenya, Harvard University, Cambridge 2001, p. 263; J. FRANKS, Scram from Kenya! From colony to republic, Pomegranate Press, Lewes 2004, p. 300. Sulla guerriglia anticoloniale cfr. il mio Kenya 1946–1957: la rivolta Mau Mau la repressione Britannica e il Risorgimento keniota, «clio», n. 4, anno XLVIII, 2012, pp. 617-637. 69

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contro le donne sono state un vero e proprio strumento di tortura e, assieme, di umiliazione da parte dell’esercito francese contro le donne algerine attivamente impegnate nella lotta di liberazione73. Le autorità coloniali aprono finanche prigioni per le mogli e le figlie dei guerriglieri, per ricattarli e persuaderli a rinunciare alla lotta armata. La più famosa di queste prigioni è quella di Tifelfel, nei pressi del massiccio dell’Aurès nell’est algerino, avviata pochi mesi dopo l’inizio della lotta di liberazione (agosto del 1955)74. La dilagante violenza contro le donne nelle colonie europee può aver rappresentato una ragione in più per ribellarsi e imboccare la rivolta armata contro gli europei. È il caso della lotta herero contro i coloni teutonici nell’Africa Tedesca del Sud-Ovest, un regime coloniale particolarmente vorace e violentemente razzista75. In alcune descrizioni dell’epoca si trovano accenni al fatto che le aggressioni sessuali di coloni e soldati divennero un motivo in più per imbracciare le armi contro i crudeli occupanti tedeschi76. La storia del colonialismo dunque vive sul e nel corpo della donna indigena. In uno spazio governato da imperialismo, razzismo e sessismo, una gerarchia biologica combinata a una gerarchia di genere ha determinato la costruzione di rapporti di dominio in cui ogni cosa è permessa. Il corpo della donna indigena diventa merce di scambio e compravendita, luogo di perversioni di una virilità velenosa, bottino da disporre come si vuole, allegoria di uno spazio geografico. Il suo asservimento sessuale la metafora di un colonialismo dove tutto è compreso.

Cfr. M. STRAZZA, La guerra d’Algeria e la violenza sulle donne, «Storia in Network», ottobre 2011, http://win.storiain.net/arret/num180/artic3.asp 74 Cfr. K. ADEL, La prison des femmes de Tifelfel. Enfermement et corps en souffrance, «L’Année du Maghreb», Institut de Recherches et d’études sur le Monde Arabe et Musulman (IREMAM), n. 20, 2019, p. 123-138. 75 Cfr. L. COSTALUNGA, Aspetti del colonialismo tedesco in Africa orientale, 1884– 1914, Effepi, Genova 2001. 76 Cfr. Union of South Africa, Report on the Natives of South-West Africa and their treatment by Germany, Administrator’s Office, Londra, Her Majesty’s Stationary Office, 1918, 54ff, così cit. in W. HARTMANN, Urges in the colony. Men and women in colonial Windhoek, 1890-1905, «Journal of Namibian Studies», 1, 2007, p. 66. 73

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Capitolo V

Nelle mani del nemico: età della Grande guerra

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5.1. Il Novecento crudele Il Novecento è il secolo della pianificazione della violenza smisurata, l’epoca che segna il definitivo passaggio dalla crudeltà come fatto istintuale, a quella della crudeltà come frutto di una pianificazione. Anche gli stupri politici si incrementano, trasformandosi da “elemento accessorio” a strumento psicologico della biopolitica, dove il corpo dell’individuo in generale, e della donna in particolare, diventa la posta in gioco delle strategie politiche. Non solo nel corso della guerra guerreggiata dei due conflitti mondiali, ma anche durante la belligeranza velata della cosiddetta “Guerra fredda” — che nella pratica è stata “tiepida”, perché combattuta sommessamente per procura — e delle guerre civili, assieme al lungo periodo delle feroci dittature novecentesche, le brutalità hanno insanguinato il secolo, violando ogni senso di umanità. La violenza politica del Novecento ha fatto definitivamente «venir meno ogni jus in bello, assieme all’immunità dei civili, diventando così una catastrofe antropologica»1. Il XX secolo è il secolo degli stermini di massa, ma anche il secolo in cui le violenze sessualizzate diventano parte integrante delle strategie militari e politiche, assumendo molteplici valenze simboliche. L’impeto bellico rivolto a una Nazione nemica, acquista nuove valen-

1 R. PATERNOSTER, Guerrocrazia. La cultura e la politica armata, Aracne, Roma 2014, p. 95.

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ze, finendo «col divampare nel popolo dei maschi contro il popolo delle femmine»2. Il XX secolo inaugura una guerra totale in cui il nemico deve essere annientato totalmente e lo stupro delle donne nemiche, meglio delle “donne del nemico”, diviene un atto per sancire la sconfitta in ogni suo aspetto: la violenza di massa contro la popolazione femminile, essendo già prestabilita come parte della strategia politico-militare, non è più un eccesso limitato al momento in cui si conquista un centro abitato. Diviene permanente: serve a terrorizzare la totalità della popolazione avversaria, a farla fuggire, a convincerla a sottomettersi. Fa parte della guerra psicologica e dello sfondamento del «fronte interno». 3

Il corpo della donna diventa così campo di battaglia e la sua conquista materiale sancisce la sconfitta del nemico in ogni suo aspetto, divenendo un atto di morte politico-sociale degli uomini della Nazione vinta... perché la donna resta ancora una “proprietà” del maschio e la sua violazione un estremo oltraggio alla sua virilità. Sebbene lo stupro di guerra sia considerato un reato grave dai Codici penali militari, l’efficacia di tali disposizioni, come studieremo, resta inadeguata.

5.2. Le donne armene durante il Metz Yeghérn La prima grande fiamma novecentesca del disprezzo verso le donne è accesa in Turchia a danno del popolo armeno dell’Impero Ottomano. Le violenze sulle donne armene rientrano in quello che lo stesso popolo armeno ha chiamato Metz Yeghérn (in armeno Մեծ Եղեռն), che significa il “Grande Male”, un male assoluto, un male «fisico e anche morale»4: la loro persecuzione sino allo sterminio da parte del governo turco avvenuta a partire dal 1915. 2

L. ZOJA, Centauri Mito E Violenza Maschile, Laterza, Roma-Bari 2010, p.44. Ivi, p.45. 4 M. NORDIO, Presentazione, in C. MUTAFIAN, Metz Yeghérn. Breve storia del genocidio degli armeni, Guerini, Milano 1995. 3

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V. Nelle mani del nemico: età della Grande guerra

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Brevemente. Mentre infuria il primo conflitto mondiale, il governo ultranazionalista dei Giovani Turchi, retto dal triumvirato di Tal’at Pasha, Enver Pasha e Djemal Pasha, decide di realizzare la “turchificazione” di quello che resta dell’Impero ottomano, in pratica una “patria ottomana”, turca e musulmana. Gli armeni, presenti nel territorio fin dal VII secolo a.C., di religione cristiana, fanno parte di una comunità che più delle altre è percepita come elemento di disomogeneità etnica, valutati quindi come un popolo incompatibile con il progetto panturco. Gli armeni, inoltre, sono considerati sia potenziali fautori del separatismo sia possibili traditori, perché probabili alleati delle potenze straniere, in primis della Russia5. Per questo si decide la “cancellazione” della loro comunità come soggetto storico, culturale e politico. Questa operazione è mascherata attraverso un’azione di trasferimento da ipotetiche zone di guerra. Il Governo turco dapprima elimina il “cervello” della comunità armena, arrestando la sua élite culturale (intellettuali, religiosi, politici, professionisti) dal 24 aprile 1915, poi la massacra; in seguito rimuove i “muscoli” del gruppo etnico, i maschi dai 16 ai 60 anni, sopprimendoli fisicamente; infine è il turno del “cuore”, i vecchi e i bambini, e dell’anima della comunità, le donne, deportando entrambi verso la morte. Sfruttando sia l’assenza del Parlamento precedentemente annullato sia la guerra in corso, il 27 maggio 1915 il governo dei Giovani turchi legittima con decreto il “trasferimento provvisorio”, per ragioni di sicurezza nazionale e per necessità militari, di una parte della popolazione e di tutte quelle persone considerate sospette. Il 10 giugno adotta anche la “Legge temporanea di espropriazione e confisca” dei beni delle persone soggette al trasferimento. L’appropriazione delle terre e dei beni diventa anche un’utile base economica per la Nazione turca. Gli Armeni, pur non essendo citati aper-

5

Già il sultano Abdul Hamid II ritenne quei sudditi cristiani irriverenti nei confronti dell’autorità sovrana per le loro richieste di riforme volte a tutelare le loro persone, i loro beni, la loro religione, e per questo, tra il 1895 ed il 1897, divennero oggetto di una dura repressione con l’assassinio di migliaia di essi e la devastazione dei loro villaggi. Cfr. M.I. MACIOTI, Il genocidio armeno nella storia e nella memoria, Cultura Nuova, Roma 2011, pp. 18–30.

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tamente nelle disposizioni del governo, sono i destinatari per eccellenza del provvedimento di esilio6. La destinazione dei deportati e le modalità del trasferimento non sono definite dal decreto del 27 maggio, ma riguarda la sistemazione in campi di raccolta, meglio in accampamenti nei deserti dell’interno della Siria e dell’Iraq attuali, dopo marce forzate. Tra questi campi i maggiori sono quelli di Bozanti, Mamoura, Islahiyé, Akhtérim, Mounboudj, Radjo, Katma, Azaz, Bab, Lalé, Téfridjé, Meskéné, Marrâ, Dipsi, Abouharar, Sébka/Rakka, Ras ul-Aïn, Aleppo e, soprattutto quello di Deir er-Zor7. Durante il viaggio le colonne dei deportati armeni, con il benestare dei militari di scorta, vengono attaccate, depredate e decimate dagli uomini del Teşkilât-i Djedida8 e dai predoni dai reggimenti di cavalleria leggera Hamidiés, formati principalmente da curdi. La deportazione equivalse dunque a smisurate violenze sino alla morte nei molteplici e indicibili modi dell’orrore: inedia, fatica, assassinii in svariate modalità, violenze sessualizzate. A donne, bambini e anziani è riservata dunque una morte lenta, un destino ancor peggiore dell’uccisione immediata9. Le destinazioni non sono definitive, ma soste in accampamenti a cielo aperto in condizioni insopportabili, «prima di affrontare nuove estenuanti marce verso un altro campo»10. Questo fino a quando «le 6

Le altre comunità erano quelle prevalentemente cristiane, come i greci e gli assiri ottomani. 7 Deir ez-Zor è per gli armeni quello che per gli ebrei è Auschwitz, per questo fu eretta la “Chiesa dei Martiri Armeni”, con il mausoleo a ricordo del Metz Yeghérn contenente i resti di alcune vittime delle atrocità turche, poi distrutto nell’autunno del 2014 dai miliziani dello Stato Islamico. 8 Branca dell’Organizzazione Speciale creata allo scopo di risolvere a forza di massacri la questione armena. Del reparto armato fanno parte anche “avanzi di galera” appositamente scarcerati. 9 La tragedia armena è stata immortalata dalle duecento fotografie scattate dall’ufficiale medico tedesco Armin Wegner di stanza in Anatolia. Cfr. AA. VV., Armin T. Wegner e gli Armeni in Anatolia, 1915. Immagini e testimonianze, Guerini, Milano 1996. Cfr., anche, M. IMPAGLIAZZO, Una finestra sul massacro: documenti inediti sulla strage degli armeni, 1915-1916, Guerini e Associati, Milano 2000. 10 R. PATERNOSTER, La politica dell’esclusione. Deportazione e campi di concentramento, Tralerighe, Lucca 2020, p. 121.

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colonne dei deportati non si riducono a pochi superstiti. La deportazione degli armeni è dunque verso il nulla».11 Oltre che luoghi di inedia e supplizi, i campi di raccolta diventano mercati di esseri umani, dove donne e bambini erano comprati dai musulmani locali. I bambini erano acquistati per essere “turchificati” attraverso adozioni in famiglie islamiche; le donne, nel migliore dei casi, erano destinate a sposare un musulmano, nel peggiore dei casi, a popolare le tante “case di piacere” per il sollazzo dei turchi. Sia durante le lunghe marce, sia nella breve permanenza nei campi di raccolta, le donne armene sono sottoposte a un modello deliberato di violenze sessualizzate sistematiche. In un memorandum inviato al nunzio apostolico Eugenio Pacelli, il futuro papa Pio XII, così il teologo bavarese Josef Engert riassume il dramma armeno, tra cui quello delle donne della comunità: Sono morti circa 1 milione di armeni ... Se pure gli armeni si sono resi colpevoli di ribellione (ma la prova di ciò non è stata ancora presentata […]), di cosa sono colpevoli le donne e i bambini? Il destino di queste miserabili creature è perfino più orribile di quello degli uomini: sono stati abbandonati a migliaia nei deserti e nelle steppe, lasciati a morire di fame e di sete, afflitti da ogni sofferenza ... Migliaia di donne e fanciulle sono state vendute ... e passate da proprietario a proprietario per una somma di venti lire. Sono state portate negli harem e fatte concubine … I fanciulli sono stati abbandonati negli orfanotrofi turchi e costretti ad abbracciare la religione islamica ... La dichiarazione dei turchi secondo cui «per quanto ci riguarda la questione armena è risolta» ha significato di fatto lo sterminio degli armeni. 12

In una lettera del 16 agosto 1915, trasportata oltre la frontiera ottomana celata in una scarpa, un rifugiato armeno della Cilicia conferma l’iniziale sterminio degli uomini di un gruppo di deportati e poi delle violenze sulle donne:

11

Ibidem. N. FERGUSON, The War of the World. History’s Age of Hatred, Allen Lane, London 2006, trad. it. Ventesimo secolo, l’età della violenza. Una nuova interpretazione del Novecento, Arnoldo Mondadori, Milano 2008, p. 192. 12

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Tre quarti delle giovani donne e delle ragazze furono rapite; il resto fu costretto a giacere con i gendarmi che le condussero. Migliaia sono morte sotto questi oltraggi, e i sopravvissuti hanno storie da raccontare di raffinati oltraggi così disgustosi da inquinare le orecchie. 13

Proprio le violenze sessualizzate sono parte integrante del menù delle atrocità riservate alle armene da parte dei turchi, prima della morte. Spesso poco evidenziate dalla storia, sono state propedeutiche alle uccisioni e contestuali alla distruzione della comunità armena. Contrariamente ad altri stermini di massa che si realizzeranno nel Novecento, gli stupri durante il Metz Yeghérn non hanno una funzione strategica prestabilita. Scopo dello stupro non è quello di distruggere i legami familiari delle vittime e neppure di umiliare i maschi della comunità, poiché ne erano rimasti davvero pochi, ma è quello di dare un’occasione in più ai torturatori, dando sfogo al sadismo maschilista e alle manifestazioni di virilità dei singoli stupratori. L’assenso delle autorità, o almeno la mancata disapprovazione delle violenze sessualizzate (assieme alla pratica del saccheggio), sono serviti per assicurare la partecipazione popolare al processo di sterminio. Lo sterminio degli armeni, in tutta la sua crudeltà, è stato antesignano di una lista di scempi sul corpo del nemico in generale, e sulla donna in particolare, che si riprodurranno in tutto il Novecento.

5.3. La Grande guerra: moderno orrore, vecchie abitudini La Prima Guerra Mondiale (1914-1918) impresse una svolta radicale nell’immaginario collettivo. Rendendo «familiare il fantastico e normale l’orrore»14, la Grande guerra è stata la prima catastrofe antro13

In J. BRYCE, The Treatment of Armenians in the Ottoman Empire, A.J. Toynbee (ed), Hodder and Stoughton, London 1916, note 57, at 20, 2-3, così cit. in J. HARRELSON, Genocide and the Rape of Armenia, «University of St. Thomas Journal of Law and Public Policy», vol. 4, n. 2, art. 9, 2010, p.175. 14 P. FUSSEL, The Great War and Modern Memory, Oxford University Press, Oxford 1975, trad. it. La Grande Guerra e la memoria moderna, il Mulino, Bologna 1984, cit. da A. GIBELLI, L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 75.

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pologica del Novecento con venti milioni di persone uccise, di cui quasi sette furono civili. Il furore bellico, cancellando definitivamente ogni linea di demarcazione tra sfera militare e sfera civile, si amplifica, ma la ferocia sulle donne resta la stessa. Anzi, è proprio il crescente coinvolgimento dei civili a intensificare l’uso delle violenze sessualizzate sulle donne del nemico. Le violenze sessualizzate hanno un’impennata nei primi mesi di guerra, per poi diminuire in relazione al mutare delle modalità di combattimento. Infatti, dopo la battaglia della Marna (5-12 settembre 1914) il conflitto mondiale perde il suo slancio militare, per lasciare spazio a una logorante guerra di posizione. È proprio la trincea la grande novità del primo conflitto mondiale, una interminabile serie di fossati a zigzag che hanno caratterizzato il fronte di guerra, dal mare del Nord ai Balcani, passando per la Francia, la Svizzera, l’Italia (Trentino e lungo l’Isonzo fino a Trieste)15. Il casus belli che dà formalmente inizio alla prima guerra è l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, l’erede designato al trono asburgico, avvenuto il 28 giugno 1914 a Sarajevo da parte dell’estremista serbo-bosniaco Gavrilo Princip. In realtà i veri grandi motivi vanno ricercati nell’espansionismo della Germania, nella politica di potenza della Gran Bretagna, nella tensione nei Balcani tra Russia e Austria, nel desiderio da parte della Francia di ritornare in possesso dell’Alsazia-Lorena tolta dai tedeschi nel 1870, nella questione del Trentino e della Venezia Giulia rivendicate all’Austria dall’Italia. È la Germania che inizia il vero e proprio conflitto con l’invasione del neutrale Belgio il 4 agosto 191416. Il 4 agosto 1914, la Germania dichiara guerra alla Francia e invade il Belgio, violando la sua neutralità. Occupato il Belgio, irrompe in Francia settentrionale. L’inaspettata resistenza dei belgi e dei francesi intralcia il piano strategico predisposto dagli ufficiali tedeschi sulla 15

Anche se era già stata adottata sporadicamente in precedenza, ad esempio nel Medioevo nelle operazioni d’assedio, nella guerra di Crimea (1854), nella Guerra di secessione americana (1861-1865) e nella Guerra russo-giapponese (1904-1905), la trincea è una caratteristica specifica di tutta la Grande Guerra. 16 Cfr. W. MULLIGAN, The Origins of the First World War. New approaches to European History, Cambridge University Press, Cambridge 2017, trad. it. della prima edizione del 2010 Le origini della prima guerra mondiale, Salerno, Roma 2011.

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rapidità militare, così per velocizzare al massimo l’avanzata, i soldati del Kaiser fanno ricorso a condotte brutali di repressione e rappresaglia, sia in Belgio17 sia in Francia18. Pertanto, se l’invasione tedesca è particolarmente violenta, l’occupazione si dimostra estremamente carica di atrocità, cosicché la propaganda britannica e franco-belga sintetizza con grande efficacia propagandistica il comportamento dei soldati di Guglielmo II usando l’espressione “stupro del Belgio”. Infatti, se inizialmente quest’espressione si riferisce alla violazione della neutralità del Belgio, le atrocità tedesche danno in seguito un significato letterale: la violenta politica repressiva porta a rappresaglie contro i civili belgi, sia partigiani sia non combattenti, con esecuzioni sommarie, incendi di villaggi, distruzioni sistematiche di edifici pubblici o di interesse culturale, deportazioni, stupri sulle donne. È proprio la questione degli stupri in Belgio e nella parte settentrionale della Francia ha suscitare un dibattito acceso tra gli storici, poiché la propaganda franco-belga e britannica, attraverso commissioni d’inchiesta, ha ampliato il numero delle violenze sessualizzate per screditare il nemico tedesco19. La propaganda franco-belga e, in particolare, quella britannica, più che alle donne si interessa ai carnefici, per alimentare lo spirito nazionalista contro il tedesco invasore20. La stampa, poi, divulgando a manciate le notizie, contribuisce a creare il mito del tedesco barbaro e bruto21. 17 L. ZUCKERMANN, The Rape of Belgium. The Untold Story of World War I, New York University Press, New York 2004. 18 S WICHERS, The Forgotten Victims of the North: French Civilians under German Occupation during World War I, «Armstrong Undergraduate Journal of History», n. 2, 2011, http://archive2.armstrong.edu/archive/Initiatives/history_journal/history_jour nal_the_forgotten_victims_of_the_north_french_civilians_un.html 19 Sulle varie commissioni cfr. M. STRAZZA, Senza via di scampo. Gli stupri nelle guerre mondiali, Consiglio regionale della Basilicata. Commissione Regionale per la Parità e le Pari Opportunità, Azienda Poligrafica TecnoStampa, Villa d’Agri (Pz) 2010, pp. 23-29. 20 Cfr. N.F. GULLACE, Sexual Violence and Family Honor. British Propaganda and International Law during the First World War, «The American Historical Review», Oxford University, vol. 102, n. 3, 1997, pp. 714-747. 21 N.F. GULLACE , The Blood of Our Sons. Men, Women, and the Renegotiation of British Citizenship during the Great War, Palgrave Macmillan, New York 2002, pp. 17-33.

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Certamente, almeno dal punto di vista quantitativo, sul fenomeno degli stupri tedeschi alcuni dubbi permangono, nel senso che probabilmente l’entità e la diffusione indicata risentono di impostazioni di propaganda o di fonti non sempre attendibili. Ma è pur vero che, seppure non in quella misura, un certo numero di casi si verificò realmente.22

Tuttavia non è la quantità che fa il crimine! Sicuramente gli stupri non hanno avuto un carattere sistematico ma, pur non raggiungendo grandi cifre, grazie alle testimonianze di diverse vittime e di alcune dottoresse e infermiere questo genere di violenze si realizzano e non come fenomeno isolato23. Nel caso dell’invasione del Belgio lo stupro ha valenze simboliche. Sicuramente lo spirito vendicativo per la strenua resistenza dei belgi, colpevoli di ritardare i piani militari, ha influito molto sulla condotta dei soldati. Quindi, stupri con significati giustizialisti, una sanzione per non essersi piegati subito alla volontà degli potenti invasori, ma anche come strategia del terrore, per sconfortare e far arrendere i belgi, e come manifestazione di potere da parte dei soldati tedeschi. Diverso è il caso degli stupri in terra francese: gli odiati nemici della Germania dovevano essere umiliati in tutti i sensi. Dunque gli stupri sulle donne francesi equivalgono allo stupro della Nazione, assumendo non solo carattere politico, ma anche sociale: espugnazione del territorio dal punto di vista formale, “occupazione” delle donne dal punto di vista materiale. Dello stesso tenore sono le atrocità elargite in quantità sui civili serbi da parte degli austro-ungheresi dopo l’occupazione del territorio nel 1914. Lo spirito vendicativo contro i serbi per l’attentato mortale contro arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, non risparmia neppure le donne, costrette a subire violenze anche pubbliche24. 22

M. STRAZZA, Senza via di scampo. Gli stupri nelle guerre mondiali, cit., p. 23. Cfr. ivi, pp. 29-34. 24 Rudolph Archibald Reiss, un criminologo svizzero, su invito del governo serbo svolse nel 1914 svolse una serie di inchieste sui crimini commessi in Serbia dagli eserciti invasori, poi raccolti in una pubblicazione. Cfr. R.A. REISS – The Kingdom of Serbia, Report upon the atrocities committed by the Austro-Hungarian Army during the first invasion of Serbia, Simpkin, Marshall, Hamilton, Kent & Co., London 1916. 23

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Se gli stupri sulle donne in Belgio e in Francia settentrionale compiuti dall’esercito tedesco nel 1914 e quelli austro-ungarici in Serbia sono un esempio della guerra psicologica non pianificata, le violenze sulle donne durante l’occupazione bulgara nei Balcani assumono il carattere di arma di guerra. In questo caso gli stupri in massa hanno lo scopo di spingere la popolazione serba a lasciare i propri territori, al fine di snazionalizzare la regione25. A fine novembre del 1915, a un anno dall’inizio delle manovre militari, l’intera Serbia è sotto occupazione da parte degli eserciti di Austria-Ungheria, Germania e Bulgaria. I soldati del Regno di Bulgaria occupano la parte orientale e meridionale della Serbia con la grande città di Niš, i due terzi del Kosovo e parte della Macedonia. Le vecchie pretese territoriali bulgare sulla Macedonia si realizzano. Ottenuti i nuovi territori il nuovo obiettivo è la loro “bulgarizzazione”. Il primo passo è la liquidazione di quelle persone considerate “guardiane dello spirito serbo”: l’intellighenzia serba (intellettuali, insegnanti e clero), le donne. Quest’ultime sono valutate dagli invasori come la parte più pericolosa del nemico, poiché considerate le principali sediziose antibulgare, “occultatrici astute”, “capaci di sfruttare la naturale inclinazione maschile verso il sesso femminile per ipnotizzare i bulgari, spingendoli ad agire in loro favore”26. Le donne serbe, inoltre, sono le generatrici dei figli della Nazione serba, per questo vanno umiliate e oltraggiate, impedendo loro nuove maternità o rendendole genitrici di “nuovi” bulgari. Quindi, oltre alla loro deportazione forzata in Asia Minore per essere vendute come schiave sessuali, gli ufficiali bulgari incoraggiano a compiere stupri per ingravidare le serbe con la forza o contagiarle con malattie veneree attraverso militari infetti27. In definitiva le violenze sessualizzate sulle serbe sono compiute 25 Cfr. B. BIANCHI, Crimini di guerra e contro l’umanità. Le violenze ai civili sul fronte orientale (1914-1919), Unicopli, Milano 2012; ID., Gli stupri di massa in Serbia durante la prima guerra mondiale, in M. FLORES (a cura di), Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento, FrancoAngeli, Milano 2010, pp. 43–60. 26 Dall’ordine n. 13 dell’Area d’ispezione militare Morava, del 29 maggio 1918. Cfr. M. PISARRI, Sul fronte balcanico. Guerra e crimini contro la popolazione civile in Serbia tra il 1914 e il 1918, Arkiv Vojvodine, Novi Sad 2019, p. 303. 27 Ivi, pp. 225-226.

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in quanto donne e in quanto donne serbe, per questo le violenze contro di esse rientrano nelle grandi atrocità commesse durante l’occupazione28. Nel 1919, la “Commissione interalleata sulle violazioni delle Convenzioni dell’Aia e del diritto internazionale da parte del Regno di Bulgaria”, affermò che: «Si può deliberatamente affermare che non esiste una clausola dell’accordo dell’Aia e non un principio di diritto internazionale che i bulgari non abbiano violato durante la loro occupazione in Serbia»29. Poco documentate sono invece le accuse reciproche tra gli Imperi centrali e Russia di violenze sessualizzate contro le donne, rientranti nelle più attestate atrocità contro la popolazione civile sul fronte europeo nordorientale30. Se gli stupri sui fronti europei nordoccidentale e orientale risentono della propaganda, più documentati sono le violenze sessualizzate da parte delle truppe tedesche e austro-ungariche in Friuli e Veneto nel 1917-1918. Nonostante le violenze sessualizzate non sono parte di un piano preordinato, come invece è avvenuto in Serbia, anche sul fronte italiano è raggiunto un livello quantitativo molto elevato di stupri.

28

La documentazione sulle atrocità bulgare raccolte dalla commissione interalleata in L. STOYANOVITCH, A. BONNASSIEUX, P. GAVRILOVITCH, H.-B. MAYNE, S. YOVANOVITCH, Documents relatifs aux violations des Conventions de la Haye et du Droit international en général, 3 voll., Imprimerie Yougoslavia, Paris 1919, http://mace donia.kroraina.com/en/drvc/documents.htm#1b. Le fotografie degli effetti dei crimini in Album des crimes bulgares : annexes aux documents relatifs aux violations des conventions de la Haye et du droit international en général, commises de 1915-1918 par les bulgares en Serbie occupée, Imprimerie Yongoslavin, Paris 1919, http://macedonia.kroraina.com/en/drvc/album_des_crimes_bulgares_1919.pdf 29 L. STOYANOVITCH, A. BONNASSIEUX, P. GAVRILOVITCH, H.-B. MAYNE, S. YOVANOVITCH, Rapport de la commission interalliée sur les violations des Conventions de La Haye et du Droit International en général, commises de 1915-1918 par les bulgares en Serbie occupée, Imprimerie Yougoslavia, Paris 1919, p. 45. Il rapporto si può leggere in http://macedonia.kroraina.com/en/drvc/rapport.htm. 30 Cfr. A. WATSON, “Unheard-of Brutality”. Russian Atrocities against Civilians in East Prussia, 1914–1915, «The Journal of Modern History. The University of Chicago Press», vol. 86, n. 4, 2014, pp. 780-825.

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Nel 1917, a seguito della “rotta di Caporetto” (24–25 ottobre)31, il Friuli e parte del Veneto sono conquistati con estrema violenza dall’Impero austro–ungarico: la popolazione «senza armi, composta di donne, di vecchi e di bambini fu duramente, continuamente colpita con cinica crudeltà e su di essa la barbarie si esplicò sotto ogni forma, violando e calpestando le leggi più umane»32. La maggior parte delle violenze si consumano durante la prima fase della conquista e nelle fasi finali dell’occupazione. Le brutalità durante lo stanziamento degli eserciti nemici, grazie agli ordini dei comandanti, diminuiscono, ma non cessano. La conquista e l’occupazione militare lasceranno il segno del trauma sugli italiani, specialmente sulle italiane, caratterizzandosi per il saccheggio sistematico di ogni bene mobile, dalle cose agli animali, e per la sistematica violenza sessualizzata sulle donne, senza alcuna distinzione di età33. Le violenze carnali sulle donne non hanno il significato di “arma sessuale”, ma sono la metafora di una simbolica frontiera da conquistare e depredare. Dunque violenza privata commessa da soldati in 31

La battaglia di Caporetto (Kobarid per gli sloveni) è la dodicesima battaglia dell’Isonzo. È combattuta tra le forze congiunte degli eserciti austro-ungarico e tedesco contro il Regio Esercito italiano. Alle 2 del mattino del 24 ottobre inizia dapprima il tiro a gas sulle prime linee italiane, poi dell’artiglieria. Con l’assalto della fanteria, il giorno dopo le difese italiane crollano ovunque. I reparti italiani sono costretti a un’affrettata ritirata che si trasforma in una rotta. I vertici militari e politici, evitando di assumersi le colpe, hanno accusato i soldati e la propaganda sovversiva e pacifista della disfatta. A oltre 100 anni di distanza, però, sappiamo che la responsabilità è stata dei generali al comando. Cfr. L. FALSINI, Processo a Caporetto. I documenti inediti della disfatta, Donzelli, Roma 2017. 32 Il martirio delle terre invase. Risultati dell’ispezione compiuta dal 4 al 14 novembre 1918 dalla Commissione d’inchiesta inviata dall’Ufficio tecnico di propaganda nazionale di Milano, Edizione dell’Ufficio Tecnico di Propaganda nazionale, Stab. Grafico Matarelli, Milano 1918, p. 8. 33 Cfr. A. GIBELLI, Guerra e violenze sessuali: il caso veneto e friulano, in AA. VV., La memoria della grande guerra nelle Dolomiti, Paolo Gaspari, Udine 2001, pp. 195– 205; D. CESCHIN, “L’estremo oltraggio”: la violenza alle donne in Friuli e in Veneto durante l’occupazione austro-germanica (1917–1918), in B. BIANCHI (a cura di), La violenza contro la popolazione civile nella Grande guerra. Deportati, profughi, internati, Unicopli, Milano 2006, pp. 165–184; M. STRAZZA, Senza via di scampo, cit., pp. 43–67.

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gruppo, seriale ma non preordinata. Per gli italiani, invece, le violenze sessualizzate diventano il simbolo dell’umiliazione dell’intera Nazione. Nelle “Relazioni della Reale Commissione d’inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico”34, sono raccolte molte deposizioni e testimonianze sulle atrocità austro–ungariche consumate nelle cinque province che furono occupate (Belluno, Treviso, Venezia, Vicenza e Udine). La documentazione servì per ottenere il risarcimento dei danni fisici e morali. Dalle deposizioni e testimonianze si evince che le violenze sessualizzate sono compiute maggiormente in gruppo, spesso in presenza di parenti della vittima. I maggiori responsabili di queste violenze sono stati «innanzitutto i militari tedeschi ed ungheresi, seguiti da bosniaci e croati»35. Gli stupri portano a uno sconvolgimento del tessuto sociale, perché non solo molte italiane restano contagiate da malattie veneree, le cosiddette «mutilate morali»36, ma dalle violenze carnali nascono molti “figli del nemico” che nessuno vuole, destinati «nel dopoguerra ad accrescere il numero degli “orfani”»37. Rifiutati quasi sempre dalle madri, questi “figli del nemico” non sono beneficiari neppure delle provvidenze statali per gli orfani di guerra. Per loro don Celso Costantini crea nel 1918 a Portogruaro un istituto per accoglierli, l’“Ospizio dei figli della guerra”, denominato poi “San Filippo Neri”38. Strutture di abbandono per i “figli del nemico tedesco” sono aperte anche in Bel34

Con Decreto Legge 1711 del 5 novembre 1918 si costituisce una commissione, formata da quindici membri tra ufficiali, magistrati e residenti nelle zone occupate, per raccogliere e documentare i soprusi compiuti durante la conquista e l’anno di occupazione al fine di sostenere la richiesta di danni dello Stato italiano. Cfr. Relazioni della Reale Commissione d’inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico, 7 voll., Bestetti & Tumminelli, Milano-Roma 1920-1921. 35 M. STRAZZA, Senza via di scampo, cit., p. 49. 36 M. BIASIOLO, Il corpo violato di Caporetto. Scrittura, arte e politica davanti alle donne, vittime invisibili della Nazione, in F. BELVISO, M.P. DE PAULIS, A. GIACONE (a cura di), Il trauma di Caporetto. Storia, letteratura e arti, Accademia University Press, Torino 2018, p. 292. 37 P. POZZATO, Caporetto e la “violenza” dei vincitori, in M. ERMACORA (a cura di), Le «disfatte» di Caporetto. Soldati, civili, territori. 1917-1919, Edizioni Università di Trieste, Trieste 2019, p. 16. 38 Cfr. R. SANDRON, L’Istituto S. Filippo Neri per i figli della guerra a Portogruaro, «la bassa», anno XXXIV, n. 65, 2012, pp. 49 -70.

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gio e Francia. In quest’ultimo Stato qualcuno propone finanche la depenalizzazione dell’aborto, per evitare l’alterazione del tessuto nazionale e, quindi, la “degenerazione ereditaria” francese dovuta alla nascita dei “figli dell’odiato nemico tedesco”39. Anche quando la guerra termina, l’arma dello stupro continua a essere utilizzata, sia come strumento di vendetta sia come dispositivo di umiliazione. Successe nella Renania occupata dall’esercito francese a seguito dell’armistizio dell’11 novembre 1918. Non bastando l’umiliazione politica inferta con il Trattato di Versailles, le truppe francesi di occupazione si preoccupano di umiliare anche fisicamente i tedeschi, violentando le “loro” donne40. La prima grande guerra mondiale apre la lunga “età degli stermini” e delle violenze sulle donne, infrangendo irrimediabilmente le barriere del vivere civile. 5.4. Faccetta nera, il “bottino” italiano Faccetta nera è il titolo di una canzonetta simbolo dell’impresa coloniale italiana. È una specie di inno più sessista che razzista, perché l’impresa italiana in Africa fu presentata agli italiani mascherando le vere intenzioni. Procediamo con ordine. L’Italia si inserisce nella corsa coloniale con ritardo rispetto alle altre potenze europee, per questo deve accontentarsi di “quel che resta” sulle aree ancora “libere” del Corno d’Africa. Dal 1869 al 194741, anche l’Italia ha il suo “posto in Africa”: Eritrea, Somalia, Etiopia e più tardi Libia42. Cfr. S. AUDOIN–ROUZEAU, L’enfant de l’ennemi, 1914–1918, Aubier, Paris 1995. Cfr. E. FATTORINI, Il colpo di grazia sessuale. Le violenze delle truppe nere in Renania negli anni venti, in A. BRAVO (a cura di), Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma–Bari 1991, pp. 28–56. 41 Il 2 ottobre del 1869, il governo di Luigi Federico Menabrea stipula un trattato segreto per comprare un terreno o una baia sulle coste africane. Il 15 novembre si acquista dalla società genovese Rubattino la Baia di Assab in Eritrea. Il 10 febbraio del 1947, con il Trattato di Parigi l’Italia perde le sue colonie. La Somalia italiana è però messa sotto “amministrazione fiduciaria italiana” che poi cessa nel 1960. 42 Cfr. N. LABANCA, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, il Mulino, Bologna 2002. 39

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L’Italia giunge in Africa sia per ragioni diplomatiche ― come mezzo per entrare a pieno titolo tra le grandi potenze coloniali, quindi per ottenere rispetto e prestigio a livello internazionale ― sia per indirizzare l’emigrazione interna. Più tardi il fascismo aggiungerà anche le finalità geostrategiche e politiche interne. Ma per trascinare gli italiani nell’avventura coloniale, occorre creare motivazioni popolari allettanti, attraverso miti condivisi e immagini stimolanti. Dunque, missione civilizzatrice per affrancare i popoli africani dalle arretratezze, via allettante per dare collocamento a una immigrazione “interna” delle classi piccole e medie e, soprattutto, luogo di occasioni sessuali inedite. Sono queste le motivazioni agitate dalla propaganda governativa per mobilitare la società e creare una coscienza coloniale condivisa con il popolo italiano. In Italia la discriminazione verso altri esseri umani era già stata sperimentata durante e dopo il Risorgimento. Se le pretese di potere da parte dei Savoia sul Mezzogiorno hanno addestrato a un sistema coloniale, gli stereotipi utilizzati per inferiorizzare i meridionali sono stati ripresi con le stesse modalità nei territori coloniali, trasferendo l’alterità dai “fratelli minori” d’Italia agli ex “proprietari” delle terre d’Africa. Il pensiero coloniale liberale italiano incentrato sulla missione civilizzatrice di quei popoli considerati selvaggi, legittimò l’aggressione, aggregando gli italiani. Almeno inizialmente, più che basati su meccanicismi biologici, i rapporti di potere che si stabiliscono nelle colonie sono incentrati sulla superiorità culturale degli italiani. Tuttavia il maschilismo segna, dall’inizio alla fine, il periodo coloniale. Se l’emigrazione non ha il successo desiderato43, anche perché molti italiani non smisero di desiderare l’America, l’idea dell’Africa come “paradiso dei sensi” attira molti maschi che plagiati dai meccanismi mistificatori abilmente adoperati dalla macchina propagandistica, si votano al progetto di conquista coloniale: la prospettiva sessuale è una forte attrazione che favorisce una spinta a partecipare alla conquista coloniale.

Cfr. G.L. PODESTÀ, Il mito dell’impero. Economia, politica e lavoro nelle colonie italiane dell’Africa orientale 1898-1941, Giappichelli, Torino 2004. 43

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L’avventura coloniale italiana, al pari di quelle delle altre potenze occidentali, è dunque imbevuta di connotazioni sessuali, ma più delle altre rappresenta la sessualizzazione dell’impresa con caratteristiche italiane specifiche. Infatti, durante il colonialismo italiano, non è esistita un’unica forma di raffigurazione della donna africana, in quanto le rappresentazioni divengono funzionali alle differenti fasi politiche44: inizialmente celebrate per la loro bellezza e sensualità, successivamente disprezzate fisicamente. Tuttavia, pur variando le forme di rappresentazione la violenza resta identica, anche se muta negli aspetti formali: se nella prima fase del colonialismo è permessa e finanche promossa per calamitare la partecipazione maschile all’impresa, nell’ultima fase è tollerata. In ogni caso le violenze sulle donne africane non sono mai accessorie e fanno parte del lungo menù di crimini commessi durante tutto il periodo coloniale, dalle espropriazioni forzate alle distruzioni di villaggi, dalle uccisioni indiscriminate all’utilizzo del gas, dalle deportazioni alle torture. In un contesto nazionalista e discriminatorio, il maschilismo concima il terreno in cui si realizzano le violenze sulle donne. Le africane sono costrette a “indossare” un triplo stigma che acutizza la discriminazione nei loro confronti: sono “nere”, sono povere e, soprattutto, sono femmine. Dunque diventano vittime per legame, per condizione sociale, per appartenenza a un sesso ritenuto inferiore e accessorio. Ritorniamo alla canzonetta “Faccetta nera”, perché esprime la valutazione che si ha delle donne africane durante il periodo coloniale dall’Italia liberale a quella fascista45. Descrive infatti l’idea civilizzatrice di una porzione d’Africa, l’Etiopia, da attuarsi attraverso la liberazione da una schiavitù, idealizzando però altri due asservimenti: quello politico all’Italia e quello d’amore ai maschi italiani: moretta che sei schiava fra le schiave […] quando saremo insieme a te noi ti daremo un’altra legge e un altro Re […] La legge nostra è schiavitù d’amore il nostro motto è libertà e dovere […] 44

In generale il periodo coloniale italiano si può suddividere in tre fasi: periodo liberale, fase del regime fascista, fase dell’alleanza fascista con la Germania. 45 Il motivetto è scritto nel 1935, in pieno periodo fascista, richiamando tuttavia la spinta civilizzatrice che sin dall’epoca liberare ha accompagnato tutta la conquista coloniale.

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“Faccetta nera” raccoglie il pensiero della propaganda istituzionale, inneggiando a una sorta di unione tra italiani ed etiope, escludendo però i maschi africani. Scrive Ennio Flaiano nel 1935: «Influenza delle canzonette sull’arruolamento coloniale. Alla base di ogni espansione, il desiderio sessuale»46. Ecco, ai fini di questo studio, deve essere evidenziato l’accavallamento della terra da conquistare e dominare, con la donna africana da prendere e possedere. Nell’immaginario popolare italiano l’Africa è donna con tutte le sue peculiarità fisiche, per tale motivo è accattivante e da occupare. Descrive l’Africa etiope nel 1937 Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del movimento letterario futurista italiano, come un territorio «ricco di ondulazioni femminili [che] conducono eroticamente fra le cotte pendici cosce per stringervi un folto sesso boscaglia di ulivi selvatici [con] affumicati uteri montani da visitare ginecologicamente»47: È significativo rilevare […] che fin dai primordi dell’espansione coloniale […] la rappresentazione femminilizzante ed erotizzata delle terre conquistate sia servita ad alimentare o rassicurare modelli di potere maschile fondati sulla forza e la prevaricazione. Inoltre, attraverso il simbolismo del rapporto tra i generi, cioè del dominio maschile sul genere femminile, il potere coloniale (maschile) sulle terre colonizzate (femminili) è stato interiorizzato come parte dell’ordine naturale delle cose.48

A contribuire ad assegnare l’immagine della donna africana come voluttuosa e disponibile, con una sessualità esagerata, non sono solo la propaganda e le canzonette famose, ma anche la vasta produzione di cartoline e poi di fotografie porno-erotiche provenienti dal continente

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E. FLAIANO, Aethiopia. Appunti per una canzonetta, a cura di A. LONGONI, Adelphi, Milano 2020, p. 5. 47 Ivi, p. 141. 48 G. STEFANI, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Ombre corte, Verona 2007, p. 99.

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africano49. Se le cartoline esprimono l’immaginario stereotipato, le fotografie diventano certificazione dell’appropriazione del territorio attraverso la presa di possesso delle donne. Alcune fotografie, infatti, ritraggono le donne in pose lascive e ammiccanti, mentre in altre le africane sono fotografate come prede appena catturate: attraverso le prime si vuole dimostrare la (presunta) disponibilità delle donne, con le seconde la facilità della conquista sessuale. Le donne africane entrano così a far parte dei sogni dei maschi italiani, un’aspirazione che rimanda a fantasie libere da inibizioni. Le conquiste territoriali danno accesso al corpo della donna africana che, per diritto esclusivo, diventa bottino coloniale; un beneficio che appartiene solo a chi partecipa sul campo al progetto coloniale: «Elo non è un essere, è una cosa […] che deve dare il suo corpo quando il maschio bianco ha voglia carnale»50. Così lo scrittore coloniale Gino Mitrano Sani si riferisce quando scrive nel 1933 della sua “faccetta nera” del Corno d’Africa. Proprio il “romanzo coloniale” di Mitrano Sani, racchiude tutta la disistima verso la “femina africana”, un’oggettificazione intrisa di razzismo e sessismo. Vale la pena riferire altri passaggi: Cosa era la ragazza se non un corpo preso lì, da una tribù della sua giurisdizione, per placare l’astinenza di quell’esilio volontario? Non erano egli il padrone ed ella la schiava? [...]. L’anima occidentale di lui, usa a riversare la propria tenerezza in un essere femminile, inconsciamente agiva con la bontà innata della sua razza italiana [...]”.51 Come una bestiola, accucciata in un angolo della camera che doveva divenire d’un altro [...] Elo, il viso nelle palme, faceva pensare a quei cani fedeli che muoiono sulla fossa del padrone. [...] Andriani aveva tutto regolato per Elo [...] ora se ne andava senza scrupoli, senza rimorsi, con la coscienza di aver ben ricambiato l’alleviamento alla Cfr. G. CAMPASSI, M.T. SEGA, Uomo bianco, donna nera. L’immagine della donna nella fotografia coloniale, cit., «Rivista di storia e critica della fotografia», anno IV, n. 5, 1983, pp. 54-62; E. BINI, Fonti fotografiche e storia delle donne. La rappresentazione delle donne nere nelle fotografie coloniali italiane, Convegno SISSCO Cantieri di Storia II, Lecce 2003. 50 G. MITRANO SANI, Femina somala. Romanzo coloniale del Benadir, Detken e Rocholl, Napoli 1933, p. 143. 51 Ivi, p. 29. 49

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dura astinenza africana che Elo docilmente gli aveva procurato. Non poteva, però, scacciare il senso penoso pel distacco dalla fanciulla, e non se ne vergognava [...] Che cosa doveva fare? Si può lasciare il proprio cane fedele senza una carezza?.52

La storia coloniale italiana si macchia così di stupri violenti, abusi, pornografia, concubinaggio e schiavitù sessuale finanche istituzionalizzata, come la prassi del “madamato”. In Eritrea, infatti, le autorità coloniali riprendono l’usanza locale del Dämòz (tradizione peraltro non riconosciuta in tutto il territorio), riadattandola alle esigenze dei nuovi padroni. L’istituto tradizionale del Dämòz è un “matrimonio per mercede”, spesso a tempo determinato, ovvero un vero e proprio contratto coniugale con una reciprocità di obblighi: l’uomo acquista la moglie con l’obbligo di “mantenerla”, provvedendo alla prole avuta anche dopo la risoluzione del contratto; la donna deve garantire le cure domestiche e le “cure” sessuali. Il Dämòz nella sua modalità di utilizzo locale difatti garantiva una forma di salvaguardia delle donne, le quali erano tutelate grazie a questo istituto come lo erano ad esempio anche gli eventuali figli nati dalle relazioni53.

I colonizzatori italiani acquisiscono questa antica usanza trasformandola secondo i loro interessi in una forma di concubinaggio, o peggio di prostituzione, e come libero accesso a prestazioni domestiche. Ovviamente senza rispettare i doveri che questa unione prevede, come il mantenimento dei figli nati da questo rapporto a termine. Gli italiani la chiamano “madamato”, che è una forma distorta del vocabolo con cui in Italia, soprattutto in Piemonte, è di solito indicata la signora di alto lignaggio; un’espressione che, nella sua applicazione coloniale, innegabilmente assume una particolare connotazione denigratoria.54 52

Ivi, pp. 163-164. S. PALMA, L’Italia coloniale, Editori Riuniti, Roma 1999, p. 48. 54 Ibidem.

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Il madamato non è utilizzato solo nelle colonie italiane del Corno d’Africa, ma anche in Libia, dove è chiamato “mabruchismo”, in relazione al termine locale mabrukah, che indica la donna. Il madamato e il mabruchismo in pratica permettono al colono italiano di acquistare dai genitori una bambina (sì parliamo di bambine o di piccole adolescenti), le quali sono costrette a convivere more uxorio sino alla risoluzione del contratto. Questa relazione a tempo risulta vantaggiosa per il buon andamento della vita in colonia poiché, oltre a rivestire una soluzione al fenomeno incontrollato della prostituzione, eliminando eventuali problemi di ordine sanitario, garantiva l’assistenza domestica al colono, oltre al “sostegno “sessuale. Madamato e mabruchismo sono quindi il frutto acerbo di una doppia subalternità della donna africana germogliata nell’intersezione di razzismo e sessismo. Entrambi racchiudono lo spazio di una violenza istituzionalizzata, un alibi per permettere una servitù da parte di esseri umani declassati per “razza” e genere55. Il fenomeno del madamato genera un numero assai elevato di meticci. Pur non mancando esempi di coscienza di responsabilità nei confronti dei propri figli nati dalla relazione di madamato e finanche casi di autentiche relazioni coniugali tra italiani e africane, la maggioranza dei coloni italiani si riconosce in diritto di sentirsi libera da qualsiasi vincolo e responsabilità nei riguardi tanto della propria madama tanto dell’eventuale prole nata durante la convivenza. Questo incide fortemente sugli equilibri sociali locali poiché, se molte ex madame sono destinate alle case di tolleranza, i bambini meticci il più delle volte sono affidati a brefotrofi gestiti dalle missioni. Quando il 9 maggio 1936 Benito Mussolini proclama la fondazione dell’impero dell’Africa Orientale Italiana, l’ipersessualizzazione della donna africana cambia di segno passando al disprezzo: l’esotico immaginario coloniale è smantellato per sempre56. Se inizialmente è tollerato, il “matrimonio per mercede” con gli italiani cambia così total55

Cfr. G. CAMPASSI, Il madamato in A.O.: relazioni tra italiani e indigene come forma di aggressione coloniale, in «Miscellanea di Storia delle Esplorazioni», XII, 1983, pp. 219-258. 56 Cfr. N. POIDIMANI, Difendere la ‘razza’. Identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini, Sensibili alle foglie, Roma 2009, pp. 125-184.

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mente rotta, divenendo assai pericoloso agli occhi del regime fascista, ormai preoccupato della integrità razziale del popolo italiano. Un articolo pubblicato il 21 maggio dello stesso anno sulla “Gazzetta del Popolo”, L’impero italiano non può essere un impero di mulatti, riassume la nuova politica imperiale nelle colonie, poi attuata dal regime l’anno successivo. Il regime è preoccupato dei cosiddetti “insabbiati”, ossia gli italiani che decidono di restare in Africa assimilandosi alla popolazione locale57, ancor di più dei figli avuti da donne africane che non sono rinnegati dai coloni. Tutto questo è in contrasto con la missione civilizzatrice promossa nell’impero fascista d’oltremare. La “venere nera” diventa brutta e pure puzzolente, portatrice di malattie e pericolosa per la “razza italiana”. Per questo, con il Regio Decreto-legge del 19 aprile 1937, pubblicato il 24 giugno, sono previste “Sanzioni per i rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi”: Il cittadino italiano che nel territorio del Regno o delle Colonie tiene relazione d’indole coniugale con persona suddita dell’Africa Orientale Italiana o straniera appartenente a popolazione che abbia tradizioni, costumi e concetti giuridici e sociali analoghi a quelli dei sudditi dell’Africa Orientale Italiana è punito con la reclusione da 1 a 5 anni.58

Insomma, è vietato voler bene alle africane. Nel frattempo anche la propaganda si mette in moto, vietando la divulgazione di cartoline e fotografie. La famosa canzonetta “Faccetta nera”, cambiata nel testo per tre volte59, è sconfessata dal regime e dalla propaganda e al suo posto compaiono altri motivetti “conformi” alle Nel gennaio 1939, la Corte d’Appello di Addis Abeba definisce “l’insabbiamento” come un fenomeno in cui «non è il bianco che ambisce sessualmente la venere nera e la tiene a parte per tranquillità di contatti agevoli e sani, ma è l’animo dell’italiano che si è turbato ond’è tutto dedito alla fanciulla nera sì da elevarla al rango di compagna di vita e partecipe d’ogni atteggiamento anche non sessuale della propria vita». Ivi, p. 143. 58 Regio decreto-legge 19 aprile 1937-XV, n. 880, Sanzioni per i rapporti d'indole coniugale fra cittadini e sudditi, in Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia, anno XV, 24 giugno 1937, https://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/1937/06/24/145/sg/pdf 59 Per le versioni del brano cfr. http://www.lorien.it/X_INNI/Pg_CanzoniD/Alfa_F/Ca_Faccetta-Nera.html 57

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direttive della dittatura60. Tra questi la meno famosa “Faccetta bianca”61 e il più popolare brano “L’avventura di un soldato italiano con un’abissina”, motivetto del 1936 in cui una «negra», sporca e sfrontata, cerca di sedurre un soldato chiedendogli dapprima «un bacino», poi sfacciatamente dice «Voglio esser la tua sposa stai sicuro qui al soggiorno che giammai ti farò un corno, e un bel bambino noi lo faremo italo abissino». Il «bel soldatino» minaccia la «morettina» dapprima riferendo che «solo in Italia ci ho il mio caro bene», ordinando poi di andare a lavorare e stare lontano dall’Italia e dagli italiani62. Le donne africane, dunque, sono ufficialmente ancor più inferiori razzialmente, prossime agli animali e sempre fetide di burro che cola a goccioline sul collo; sfatte a vent’anni; per secolare servaggio fatte fredde ed inerti tra le braccia dell’uomo; e per una bella dal viso nobile e composto, cento ce ne sono dagli occhi cipriosi, dai tratti duri e maschili, dalla pelle butterata. 63

Con la pubblicazione del “Manifesto della razza” e delle leggi razziali del 1938, in virtù della protezione della “razza italiana”, il fenomeno del madamato si arresta, ma le violenze sessualizzate no, anzi si inaspriscono. In fin dei conti, l’ultimatum per arrestare il fenomeno del madamato “Aut Imperium Aut Voluptas!” (O potere o piacere!), lanciato nel 1938 in una circolare dal governatore dell’Harar, il generale Guglielmo Nasi, è preso alla lettera dai coloni e soldati italiani in Africa: non più per piacere, ma si usa violenza sulle donne africane per dimostrare un potere razziale e sessista. In un articolo firmato da Paolo Monelli col titolo “Mogli e buoi dei paesi tuoi” e pubblicato sulla “Gazzetta del Popolo” il 13 giugno 1936, si legge: «ora che cosa vuol fare della faccetta nera il nostro cantastorie? Un figlio? Un meticcio? [...] Ma noi dobbiamo popolare l’impero d’intatta gente nostra, non disseminare intorno malinconici bastardi. [...] Un popolo che costruisce per uno splendido futuro non augura a sé eredi corrotti». 61 È la storia di una ragazza, questa volta italiana, che saluta fiera il fidanzato in partenza per l’Africa. Il testo in http://www.aclorien.it/archivioalternativa/song.php?id =6473 62 Il testo in http://www.lorien.it/X_INNI/Pg_Canzoni-D/Alfa_L/Ca_L'avventura-diun-SICUA.html 63 P. MONELLI, Mogli e buoi dei paesi tuoi, «Gazzetta del Popolo», 13 giugno 1936. 60

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5.5. Nanchino 1937: metafora di un dominio di genere in guerra Impregnata di razzismo, maschilismo e sessismo è la seconda guerra sino-giapponese (1937-1945), che anticipa la più vasta guerra del Pacifico (1941-1945), parte integrante della Seconda Guerra Mondiale. Un evento più di tutti caratterizza questo conflitto: lo “stupro di Nanchino”. Nanchino era la capitale della Repubblica di Cina e dal 13 dicembre 1937, per circa sei settimane, resta in balia dei soldati dell’Esercito imperiale giapponese che l’ha conquistata. Sono commessi i peggiori crimini ai danni della popolazione civile della città, con uccisioni indiscriminate, saccheggi e violenze di massa di ogni genere. Sono trucidate circa trecentomila persone64. La conquista di Nanchino si inquadra all’interno del grande scenario delle guerre di espansione nella regione cinese, avviate dal Giappone militarista per estendere il suo potere sul territorio asiatico. Il comportamento brutale dei soldati nipponici, invece, si collocata entro la cornice culturale dominante in Giappone. Sulla base dell’originaria cultura giapponese, l’Imperatore è un diretto discendente di Amaterasu no Omikami, potente divinità del sole del pantheon shintō e progenitrice del Giappone. Il termine con il quale si indica l’imperatore è Tennô, ossia “sovrano celeste”, qualcosa che indica più di una semplice figura politica65. Ora, il cittadino giapponese è un suddito di un “sovrano divino”, quindi riconosce l’unicità del popolo del Giappone nella superiorità su altri popoli, considerati 64

A questi si aggiungono altre duecentomila persone uccise durante la marcia verso Nanchino, come rivelano due telegrammi inviati da William Edward Dodd, ambasciatore degli Stati Uniti in Germania, e Clarence E. Causs, console degli Stati Uniti a Shanghai, e conservati nella US National Archives and Records Administration. Cfr. X. DU, U.S. archives reveal war massacre of 500,000 Chinese by Japanese army, «Xinhua», 13 december 2007, in «CCTV», http://www.cctv.com/english/20071213/ 104119.shtml. 65 Solo nel gennaio del 1946 l’imperatore Hirohito, il 124° Tennô, pronunciò via radio alla nazione la “Dichiarazione della natura umana dell’imperatore”, comportando la riduzione del sovrano divino a capo di Stato, diventando così di fatto l’“ultimo divino”. Cfr. D. DE PALMA, Note sull’origine del titolo imperiale giapponese Tennô, in «Rivista degli studi orientali», Sapienza - Università di Roma, volume LXVI, fasc. 1-2 (1992), 1993, pp. 171-183.

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appunto inferiori. Ne deriva la delirante e pericolosa credenza che il popolo nipponico è stato scelto dalla divinità per governare sugli altri popoli, specialmente quelli asiatici66. L’estremizzazione di queste concezioni ha condotto a un nazionalismo esasperato intriso di razzismo, che a sua volta ha determinato la conquista della Corea e della Cina. In realtà le motivazioni sono da ricercare negli interessi politici ed economici, tra cui l’approvvigionamento di materie prime sempre più scarse in Giappone. Al nazionalismo e al razzismo comune fra i giapponesi, si aggiunge l’odio coltivato dall’indottrinamento militare verso nemici considerati inferiori, proprietà che ha fatto acquisire all’esercito nipponico caratteristiche molto aggressive: un esercito impregnato di tanta presunzione di superiorità non può che elargire crudeltà di ogni tipo, attraverso un comportamento militare distruttivo che non ha limiti al proprio orizzonte da conquistare. Se l’“incidente di Mukden”67 del 1931 diventa il pretesto giapponese per conquistare la Manciuria e parte della Mongolia Interna, dando vita all’Impero del Manciukuò, una presunta scaramuccia tra soldati cinesi e giapponesi verificatasi nei pressi del Ponte di Marco Polo (per i cinesi Lúgōu Qiáo) diventa il casus belli della seconda guerra sino-giapponese68. I giapponesi prevedono la resa della Cina in poche settimane dallo sbarco in massa dell’esercito imperiale, ma l’inaspettata resistenza cinese delude le aspettative giapponesi. Questo determina un inaspriCfr. M. RAVERI, Itinerari nel sacro. L’esperienza religiosa giapponese, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia 2006, pp. 268-277. 67 Nella tarda serata del 18 settembre una bomba distrugge a Mukden parte della ferrovia della Manciuria meridionale sotto il controllo giapponese. Il Giappone accusa i cinesi e usa l’incidente come pretesto per lanciare un attacco alla base cinese di Beidaying, per poi invadere la Manciuria meridionale. Più tardi si è scoperto che la bomba era stata piazzata dal primo tenente Suemori Komoto dell’Unità nipponica di sorveglianza della ferrovia indipendente del 29° reggimento di fanteria. Cfr. P. DUUS, J.W. HALL, The Cambridge History of Japan: The Twentieth Century, Cambridge University Press, Cambridge 1989, p. 294. 68 Il ponte si trova nei pressi di Pechino. La versione più accreditata vede militari giapponesi travestiti da cinesi sparare contro i soldati della guarnigione giapponese. Cfr. J.B. CROWLEY, A Reconsideration of the Marco Polo Bridge Incident, «The Journal of Asian Studies», vol. 22, n. 3, may 1963, pp. 277- 291, (ora in «Cambridge University Press» 23 March 2011). 66

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mento della condotta militare nipponica, che si accanisce su città e villaggi. Quando poi l’esercito imperiale arriva a Nanchino, l’accerchia da tre diverse direzioni per non lasciare scampo ai cinesi. Conquistata, la città è messa a ferro e fuoco. Lo spirito di vendetta, amalgamato al razzismo, al nazionalismo e al militarismo, determinano una inaudita violenza: decapitazioni, mitragliate a sangue freddo, gare di uccisioni e brutalità di ogni tipo, impalamenti, seppellimenti di persone vive, mutilazioni d’ogni genere, incendi umani, sbranamenti con i cani, cannibalismo, smembramenti, evirazioni e, soprattutto, violenze sessualizzate sulle donne. La pietà umana verso civili indifesi e disarmati è anestetizzata dalla cultura militare, dal nazionalismo e dal razzismo. I documenti diplomatici69 e le testimonianze degli stranieri presenti a Nanchino durante l’occupazione giapponesi, tra cui quelle di John Rabe70 e Minnie Vautrin71, sono tutti concordi sull’efferatezza dei crimini disumani commessi dal potente esercito imperiale. Elemento centrale delle violenze criminali elargite sono gli stupri: tra le ventimila e le ottantamila donne di ogni età sono stuprate, spesso 69

Cfr. T. BROOK (ed.), Documents on the Rape of Nanking, University of Michigan Press, Ann Arbor 1999. 70 John Rabe era rappresentante della Siemens a Nanchino e leader del partito nazista della città. Assieme ad altri europei e agli americani realizzò una zona di sicurezza nella città, circondata da bandiere bianche e con i simboli della Croce Rossa. Rabe scrisse finanche a Hitler per sollecitare un suo intervento a favore del rispetto almeno della zona neutrale. Al rientro in Germania Rabe fu messo a tacere dalla Gestapo, perdendo il suo lavoro e finendo i suoi giorni in povertà in Cina, mantenuto a spese della città di Nanchino come riconoscenza della sua attività umanitaria. Rabe è oggi per gli abitanti di Nanchino quello che Oskar Schindler rappresenta per gli ebrei. Cfr. E. WICKERT (ed.), John Rabe. Der gute Deutsche von Nanking, Deutsche VerlagsAnstalt, Stuttgart 1997, trad. engl. The Good Man of Nanking. The Diaries of John Rabe, Knopf, New York 2007. 71 È una missionaria e insegnante americana. Si prodigò all’interno della zona di sicurezza accogliendo donne e bambini nel Ginling College, la prima fondazione destinata all’istruzione femminile universitaria in Cina. Cfr. M.L. SMALLEY (ed.), American Missionary Eyewitnesses to the Nanjing Massacre, Yale Divinity School Library, New Haven 1997; K.Y. ZHANG (ed.), Eyewitnesses to Massacree. American Missionaries Bear Witness to Japanese Atrocities in Nanjing, Sharpe, Armonk New York 2001; S. LU, Terror in Minnie Vautrin’s Nanjing. Diaries and Corrispondence. 1937-38, University of Illinois Press, Urbana 2008.

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in pubblico o di fronte ai familiari72. Poiché le violenze carnali sono ufficialmente condannate dalle autorità militari imperiali, ogni stupro si conclude frequentemente con l’uccisione della vittima, per scongiurare qualsiasi denuncia. Spesso prima di ucciderle, le donne sono mutilate, perché era credenza che un amuleto fatto con l’organo sessuale femminile, con tanto di peli pubici, attaccato alla cintola salvasse dalle ferite in combattimento73. Se uccidere crudelmente i civili diventa un’espressione di vendetta, che si trasforma finanche uno sport crudele74, gli stupri hanno precisi significati. Le violenze sulle donne a Nanchino non sono state solo una strategia per soggiogare totalmente la popolazione, assieme a un esercizio di proprietà, ma anche manifestazione di disprezzo verso le donne e di un dominio di genere razzializzato e militarizzato, che rafforza la percezione di forza e superiorità assoluta. Questo spiega sia le torture a cui furono costrette sia lo scempio praticato sul corpo delle donne dopo lo stupro: dal comando di consumare incesti pubblici (padri su figlie, madri su figli, fratelli su sorelle e così via) allo sventramento o l’impalamento delle vagine con bastoni di legno, canne di bambù, rami d’albero, bottiglie, mazze da golf, baionette, petardi75. Le poche donne che si salvano dalla morte, specialmente le più giovani, sono inviate nei bordelli militari giapponesi, diventando jugun ianfu (donne di conforto dell’esercito imperiale)76. Nanchino divenne l’efferata metafora del comportamento militare giapponese nel corso dell’intero secondo conflitto mondiale. Tuttavia, 72

Cfr. M. STRAZZA, Senza via di scampo, cit. pp. 75–79. Cfr. I. CHANG, The Rape of Nanking. The Forgotten Holocaust of World War II, Basic Books, New York 1997; trad. it. Lo stupro di Nanchino. L’olocausto dimenticato della seconda guerra mondiale, Corbaccio, Milano 2000, p. 49-50. Anche ai maschi è riservata questa “atrocità apotropaica”: peni mutilati erano venduti come cibo afrodisiaco. Ivi, p. 86. 74 «A Nanchino, l’abisso di degradazione umana e di perversione sessuale dei giapponesi parve non avere fondo. Mentre alcuni soldati allestivano gare di uccisioni per rompere la monotonia, altri soldati, nel momento in cui anche il sesso veniva a noia, inventavano competizioni di stupro e di tortura». Ivi, p. 91. 75 Cfr. ivi, pp. 92-93. 76 Si studieranno le “donne di conforto dell’esercito imperiale” nel paragrafo 4 del prossimo capitolo. 73

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in questa seconda grande tragedia mondiale del Novecento, i crimini sessuali sono parte integrante di tutto il conflitto mondiale, sia da parte degli altri eserciti delle Potenze dell’Asse sia pure di quelli dei cosiddetti Alleati77.

77

Cfr. J. BOURKE, Rape. A history from 1860 to the present day, Virago Press, London 2007, trad. it. Stupro. Storia della violenza sessuale, Laterza, Roma–Bari 2009, pp. 408–441.

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Capitolo VI

Sessismo e razzismo nella II Guerra Mondiale

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6.1. Le violenze sessualizzate naziste in guerra e nei campi Durante la Seconda Guerra Mondiale le donne nemiche dei nazisti sono destinatarie di sadiche attenzioni, un fenomeno che ha avuto scarsa attenzione, perché offuscato dal crimine dello sterminio programmato di massa di ebrei, rom e sinti1. La Germania di Hitler, dopo aver esteso il dominio nazista in Polonia nel 1939 e progressivamente dal 1940 su gran parte dell’Europa continentale, con tutte le atrocità che hanno accompagnato l’azione militare e l’occupazione, il 22 giugno del 1941 sferra la grande “Operazione Barbarossa” sul fronte orientale. È la più vasta operazione militare della Seconda Guerra Mondiale, con tutte le sue atrocità belliche annesse e connesse. Tutte le campagne militari naziste sono sanguinose e ricche di atrocità. La supremazia bellica è supportata dal desiderio di conquista e dominio, per la creazione di un nuovo ordine all’ombra della svastica. Interessanti per comprendere il motivo di tante atrocità da parte dei nazisti, sono le intercettazioni delle conversazioni tra i soldati tedeschi Non utilizzo il termine “genocidio” perché ha una connotazione razzista. Deriva da genos, stirpe, per estensione razze, col suffisso cidio, dal latino uccidere. Dunque uccisione deliberata, totale o in parte, di una razza… ma le razze non esistono! Come ho scritto nel mio saggio “La politica del male”, «per motivi di precisione sociologica, preferisco utilizzare la definizione di “sterminio programmato di massa (degli armeni, o degli ebrei e così via)”, dove “programmato” sottolinea l’intenzionalità della violenza» Cfr. il mio, La politica del male. Il nemico e le categorie politiche della violenza, Tralerighe, Lucca 2019, p. 191. 1

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arrestati e detenuti nei campi di prigionia di Trent Park e Wilton Park nel Regno Unito e di Fort Hunt negli Usa. Nei dialoghi tra soldati emerge una guerra combattuta senza regole, fatta di “battute di caccia all’ebreo, di esecuzioni a freddo dei prigionieri, di stragi di civili, di stupri indiscriminati2; tutte azioni compiute senza rimorsi e che di strategia militare non avevano nulla e, quindi, prive di umanità nei confronti di un nemico considerato totale, come la guerra che i nazisti pensavano di combattere. La convinta adesione della stragrande maggioranza dei tedeschi al disegno nazista di un “nuovo grande ordine germanico”, ha trasformato persone comuni in zelanti carnefici: L’universo dei carnefici si compone di persone “normali”, di “uomini comuni”(come recita il titolo del libro di Christopher Browning)3, di persone “della porta accanto” (come riporta il titolo del saggio di Jan Tomasz Gross)4, di “volenterosi carnefici” (come intitola il suo lavoro Daniel Jonah Goldhagen)5, non fanatici assassini, professionisti della tortura, esperti del crimine, ma persone “normali” che hanno innalzato una barriera alla loro coscienza per esseri svincolati da qualsiasi considerazione morale.6

Se gli stermini e le distruzioni si basano sulla presunta superiorità razziale tedesca, legittimata a eliminare chi non può appartenere (ebrei, rom, sinti, “scemi”) e chi intralcia (oppositori e partigiani), le violenze sessualizzate rispecchiano il dominio assoluto che i nazisti

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Cfr. S. NEITZEL, H. WELZER, Soldaten. Protokolle vom Kämpfen, Töten und Sterben, Fischer, Frankfurt am Main 2011, trad. it. Soldaten. Le intercettazioni dei militari tedeschi prigionieri degli alleati, Garzanti, Milano, 2012. 3 Cfr. Ordinary Men. Reserve Battalion 101 and the Final Solution in Poland, Harper, New York 1993, trad. it. Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia, Einaudi, Torino 2004. 4 Neighbors. The destruction of the Jewish community in Jedwabne, Princeton University Press, Princeton 2001, trad. it. I carnefici della porta accanto. 1941: il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia, Mondadori, Milano 2002. 5 Hitler’s Willing Executioners. Ordinary Germans and the Holocaust, Alfred A. Knopf, New York 1996, trad. it., I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Mondadori, Milano 1996. 6 R. PATERNOSTER, La politica del male. Il nemico e le categorie politiche della violenza, cit., pp. 258-259. Note nel testo citato.

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VI. Sessismo e razzismo nella II Guerra Mondiale

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credono di avere anche su una fetta di quella umanità distrutta: le donne nemiche, anzi, le donne del nemico. Nella campagna militare in Unione Sovietica, la dimensione dei crimini, tra cui gli stupri di massa, diventa rilevante. La guerra a Oriente, infatti, ha caratteri diversi da quella condotta in Occidente, è una campagna razziale e di sterminio (Vernischtungkrieg), che avrebbe dovuto portare all’eliminazione di intere popolazioni razzialmente spregevoli, in particolare ebrei e slavi. La Wehrmacht e le Schutzstaffel, infatti, distruggono interi villaggi, sterminando masse di cittadini. Indipendentemente se in armi o meno, come anche a prescindere dall’appartenenza a una “razza” o a un credo religioso, sono tutti sovietici e quindi ognuno di loro nemico. Tutti diventano obiettivo strategico7. In un contesto bellico intriso di razzismo e maschilismo, lo stupro diviene così un atto costituivo di un nuovo ordine disumanizzante. Le violenze sessualizzate rientrano soprattutto in un processo di discriminazione di genere e di politica di dominio totale, poi di persecuzione razziale. In quest’ottica lo stupro non fu considerato un crimine ma sarebbe giunto all’attenzione delle autorità solamente nel momento in cui avesse messo in pericolo l’immagine dell’esercito tedesco, il suo prestigio e la sua virilità. Solo in tal caso «dormire con il nemico» sarebbe stato interpretato come crimine. 8

Nel 1941 il tribunale militare della 7a divisione Panzer condanna un Caporale a otto mesi di carcere per aver commesso un illecito sessuale su una donna russa ebrea. La modesta pena ricalca l’atteggiamento ideologico imperante nel III Reich, che è dovuta alle attenuanti che i giudici hanno applicato alla sentenza: oltre alla confessione del soldato, la pena è ridotta perché la vittima “appartiene a un popolo per il quale il concetto dell’onore sessuale della donna è

7 W.J. GERTJEJANSSEN, Victims, Heroes, Survivors. Sexual Violence on the Eastern Front during World War II, Ph.D. Dissertation, University of Minnesota, 2004, p. 286 http://www.victimsheroessurvivors.info/VictimsHeroesSurvivors.pdf. 8 Ivi, p. 28.

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Il vizio dello stupro

scomparso”9. La violenza sessualizzata messa in atto dal soldato ha leso la disciplina e la reputazione della Wehrmacht, ma non quella della donna violata, perché in quanto donna non ariana ha perso la rispettabilità sessuale, quindi non è soggetta a vittimizzazione di un crimine punibile. Ecco il collegamento presente nella filosofia politico-sociale del nazismo tra ideologia di genere e dottrina razziale. Il rapporto fra razzismo e sessismo nell’ideologia nazista «è rapporto non solo stretto, ma organico, strutturale: tanto che parlare del primo senza nominare il secondo rende il discorso monco»10. Tuttavia, se nel riordinare la società tedesca i nazisti hanno dato priorità alla razza rispetto al genere, nei territori occupati la precedenza è andata all’ideologia di genere rispetto a quella razziale: le convinzioni sessiste e maschiliste hanno radici più profonde nell’ideologia politico-militare del nazismo. Le violenze sessualizzate nelle campagne militari non sono tuttavia né pianificate né preordinate, rifacendosi ai comportamenti individuali dei soldati. Nessuna donna è esclusa. Quando poi la guerra partigiana si organizza contro l’invasore, le violenze si ampliano, specialmente contro le donne che, sfacciatamente, hanno imbracciato le armi contro i maschi nazisti, trasgredendo ai loro “ruoli normativi” di genere. A dispetto delle proibizioni di avere rapporti sessuali con donne ebree (veto di Rassenschande, profanazione razziale), moltissime di loro sono violentate sia nelle zone occupate sia nei Lager11, assieme a ragazze russe, bielorusse, lettoni, ucraine. Tantissime donne, specialmente quelle che più si avvicinano al “modello ariano”, sono anche forzate alla prostituzione nei bordelli per i soldati, pratica adottata dai BA-ZNS, S 269, ‘Gericht der 7. Panz.Division, Feldurteil vom 19., August 1941’, 22–23, così cit. da B. BECK, Rape. The military trials of sexual crimes committed by soliders in the Wehrmacht, 1939-1944, in K. HAGEMANN, S. SCHÜLER-SPRINGORUM (eds), Home/front: the military, war, and gender in twentieth-century Germany, Berg, Oxford-New York, 2002, p. 263 (originale Heimat-Front. Militär und Geschlechterverhältnisse im Zeitalter der Weltkriege, Campus, Frankfurt 2002). 10 L. MONACO, La deportazione femminile nei Lager nazisti, FrancoAngeli, Milano 1995, p. 19. 11 Cfr. S.M. HEDGEPETH, R.G. SAIDEL (eds), Sexual Violence against Jewish Women during the Holocaust, Brandeis University Press, Hanover and London 2010, pp. 75– 136, pp. 29-136. 9

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comandi militari per scongiurare sia la diffusione delle malattie veneree sia i “miscugli razziali”. Per evitare malattie veneree, dunque, i vertici dell’esercito istituiscono luoghi di prostituzione per sollazzare i soldati della Wehrmacht e delle SS. Postriboli sono impiantati nei territori orientali occupati, a Riga, Wilna, Charkow, Lemberg, Smolensk e in altre città, ma anche nei Lager, specialmente quelli adibiti al lavoro forzato. L’idea di istituire bordelli nei Lager, tecnicamente Sonderbauten (edifici speciali), risale a una visita del capo delle SS Heinrich Himmler nel campo di concentramento di Mauthausen nel 1942. Il Reichsführer delle Schutzstaffel, ha pensato di incrementare la scarsa produttività dei prigionieri offrendo loro questo incentivo, pagato dai fruitori attraverso buoni-lavoro. Il “piacere” è tuttavia riservato unicamente a detenuti politici, prigionieri di guerra, kapò, insomma ai nemici non di razza. Per la maggioranza le donne impiegate come prostitute sono tedesche classificate come “asociali”, le altre provengono dai Paesi occupati (specialmente ucraine, polacche e bielorusse). La loro età media è di ventitré anni. A queste donne è spesso promessa la libertà dopo sei mesi, ma questo non avvenne mai. A tutte è garantito cibo migliore e finanche la carne. In queste baracche speciali c’è acqua calda e sanitari adeguati per lavarsi. Tutte sono sottoposte a visite mediche periodiche. Le prestazioni avvengono la sera, dopo il lavoro, e la domenica tutto il giorno12. Nei Lager sappiamo come è andata a finire per i popoli considerati razzialmente inferiori13, poco si è detto sulle violenze reiterate sulle 12

Cfr. B. ALAKUS, K. KNIEFACZ, R. VORBERG, Sex-Zwangsarbeit in nationalsozialistischen KonzentrationsLagern, Mandelbaun, Wien 2006, trad. it. I bordelli di Himmler. La schiavitù sessuale nei campi di concentramento nazisti, Mimesis, Milano 2011. 13 La bibliografia sullo sterminio di ebrei, sinti e rom è vasta. Tra i libri rimando a M. CATTARUZZA, M. FLORES, S. LEVIS SULLAM, E. TRAVERSO (a cura di), Storia della Shoah. Lo sterminio degli Ebrei, vol. 2, UTET–L’Espresso, Torino–Roma 2005-2008; S. FRIEDLÄNDER, The Years of Extermination. Nazi Germany and the Jews, 19391945, HarperCollins, New York 2007, trad. it. Gli anni dello sterminio. La Germania nazista e gli ebrei: 1939-1945, Garzanti, Milano 2009; G. BOURSIER, M. CONVERSO, F. IACOMINI, Zigeuner. Lo sterminio dimenticato, Sinnos, Roma 1996; L. GUENTER, The Nazi Persecution of the Gypsies, Oxford University Press, Oxford 2000, trad. it., La persecuzione nazista degli zingari, Einaudi, Torino 2002.

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donne. Lascio alla fantasia di chi sta leggendo immaginare il loro trattamento nei Lager. Qui si consuma la degradazione massima della donna, un orrore nell’orrore. Alle ebree e alle cosiddette zingare spetta il declassamento massimo, perché razzialmente inferiori con l’aggravante di essere donne. Nei campi di concentramento nazisti la violenza reiterata sulle donne è elargita per colpire la loro dignità e identità di genere: dalla rasatura totale alla nudità forzata, uguale agli uomini, ma più umiliante per le donne; dalle mortificanti ispezioni fisiche interne alla violazione fisica, sino all’uso del loro corpo trasformato in cavia umana per ridurre, meglio, annullare il loro pericoloso potenziale sessuale e riproduttivo. Assicura Liliana Segre, deportata a tredici anni ad Auschwitz– Birkenau e poi a Malchow, terribile sottocampo di Ravensbrück: Nel Lager ho sentito con molta forza il disprezzo dei nazisti maschi verso donne offese. Non credo assolutamente che gli uomini provassero la stessa cosa. Qualunque delinquente comune aveva diritto di vita e di morte su noi donne ebree, generatrici di un popolo odioso. E tuttavia noi di questo, allora, non eravamo consapevoli. Sapevamo la sopraffazione, la vergogna, la brutale umiliazione che ci spogliava della nostra umanità, e con essa anche della nostra femminilità […] Mettere nudo un uomo davanti a un altro uomo è senz’altro una cosa umiliante e terribile. L’uno è vestito, magari in divisa, con le armi; l’altro è nudo, inerme, in stato di completa debolezza. Eppure mi pare che la donna nuda davanti all’uomo armato sia sottoposta a un oltraggio ancora maggiore. Ti insegnano a stare sempre composta, a vestire accollata, a provare pudore del corpo. Poi, di colpo, nello stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, in cui scendi da un treno della deportazione e arrivi in un posto che non sai nemmeno collocare geograficamente su una cartina, ti ritrovi nuda insieme ad altre disgraziate che, come te, non capiscono quello che sta succedendo. Non c’è nulla, lì attorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano sghignazzando, oppure si mettono in un angolo discosto a osservare la scena di queste donne che vengono rasate, tatuate, già umiliate, torturate per il solo fatto di essere lì, nude.14 D. PADOAN, Come una rana d’inverno. Conversazioni con tre donne sopravvissute ad Auschwitz, Bompiani, Milano 2017, pp. 15-16, (orig. 2004).

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Corrobora Giuliana Fiorentino Tedeschi, arrestata nel marzo del 1944 assieme al marito e alla suocera, in quanto ebrei; tutti deportati, dapprima nel campo di transito di Fossoli, di qui ad Auschwitz:

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Eravamo nude, depilate, rapate ridotte a non essere più delle donne, piacenti o appetibili. […] mi sentivo umiliata per non essere guardata come donna, mentre sentivo che avrei dovuto essere umiliata se mi avessero guardato come donna. 15

Sorte peggiore tocca alle deportate omosessuali. Se inizialmente sono rinchiuse in ospedali psichiatrici poi, per loro, si aprono anche le porte dei campi di concentramento. Nei Lager, oltre alle violenze più brutali, a loro non spetta portare neppure il triangolo identificativo rosa, che marchia gli uomini omosessuali16: queste donne sono il nulla assoluto, poiché femmine con l’aggravante di avere un “comportamento deviato”. La celebrazione massima della superiorità del maschio nazista sulle donne prigioniere è compiuta nel Frauen-KonzentrationsLager di Ravensbrück (a circa ottanta chilometri a nord-est di Berlino), il più grande campo di concentramento adibito esclusivamente per le donne da “eliminare” attraverso l’inedia, il lavoro forzato, le violenze gratuite e i forni crematori17. Dal maggio del 1939 sino al 30 aprile 1945, nel campo di Ravensbrück sono internate 132.000 donne, soprattutto tedesche, polacche, francesi, austriache, italiane e russe. La maggior parte sono oppositrici 15

In A. CHIAPPANO (a cura di), Essere donne nei Lager, Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in Ravenna e provincia, Giuntina, Firenze 2009, p. 101. 16 Il marchio assegnato loro fu quello delle altre categorie: il triangolo rosso dei prigionieri politici, la stella di David degli ebrei, maggiormente quello nero riservato agli/alle “asociali”. Cfr. S.A., Lesbiche, in «Omocausto.it», https://www.omocausto.it/ omocausto/lesbiche/ 17 Cfr. C. BERNADAC, Le Camp des Femmes. Ravensbrück, Michael Lafon, Paris 1971, trad. it. Ravensbrück, il Lager delle donne, Pgreco, Roma 2013; S. HELM, If This Is a Woman. Inside Ravensbrück: Hitler’s Concentration Camp for Women, Little, Brown, London 2015, trad. it. Il cielo sopra l’inferno. La drammatica storia vera di Ravensbrück il campo di concentramento nazista per sole donne, Newton, Roma 2015.

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politiche, omosessuali, asociali (clocharde, mendicanti, alcoliste e prostitute), donne con disabilità fisiche e mentali, rom, sinti, ebree, testimoni di Geova. Il Frauen-KonzentrationsLager di Ravensbrück è considerato la “capitale” dell’orrore nazista sulle donne.

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6.2. Donne come cavie per la purezza razziale ariana Maschilismo e sessismo si accomunano al razzismo, perché fanno appello a ragioni biologiche. Per fortuna questi tre “miti” sono stati smontati dalla scienza e dal buon senso. La Germania nazista eredita le concezioni razziste già presenti dalla fine dell’Ottocento18, fondando le sue basi ideologiche sul “mito della razza ariana”, un immaginario raggruppamento razziale, quello degli Ariani, il popolo indo-iranico considerato antropologicamente omogeneo e razzialmente integro, dal quale si crede che le popolazioni germaniche siano dirette discendenti. Si inventa così un’entità razziale definita degli “arii”, da cui “ariani”. Ha scritto Adolfo Hitler: Ciò che noi vediamo oggi, in materia di cultura o d’arte o di scienza o di tecnica è quasi esclusivamente il prodotto geniale dell’ariano. E ciò ci conduce alla conclusione ovvia che egli solo è stato il fondatore dei valori umani più alti e rappresenta quindi il prototipo di ciò che noi designiamo con la parola uomo. […] Se si potesse dividere l’umanità in tre specie: fondatori di cultura, portatori di cultura e distruttori di cultura, il rappresentante della prima non potrebbe essere che l’ariano.19

18

Sulle teorie scientifiche del razzismo cfr. P.A. TAGIUEFF, Le racisme. Un exposépour comprendre, un essaipour réfléchir, Flammarion–Dominos, Paris 1997, trad. it. Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, Raffaello Cortina, Milano 1999; G. BARBUJANI, L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana, Bompiani, Milano 2010. In breve il mio Le farneticanti basi scientifiche del razzismo, in «Storia in network», dicembre 2015, http://www.storiain.net/storia/le-farneticantibasi-scientifiche-del-razzismo/?fbclid=IwAR1dDODI0HN7w6f-ZOYurf-UBZt7lTZv 1f_-6bFrJFKwEsFFtbzMUqSiQ10. 19 A. HITLER, Mein Kampf, Franz Eher Verlag, München 1925, trad. it. La mia vita-La mia battaglia, Bompiani, Milano 1939, p. 315.

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Tuttavia l’aggettivo ariano si riferisce a un gruppo linguistico e non a una razza20. Il trasferimento di una comunanza linguistica con una genetica ha condotto il nazismo su una disastrosa strada, creando odio razziale, il quale ha prodotto milioni di morti e violenza di genere in nome, appunto, della purezza ariana. Proprio la “purezza della razza ariana” è l’elemento fondante della politica demografica e razziale nazista. Supportato dalle idee dei darwinisti sociali tedeschi, Hitler teorizza la necessità di proteggere la razza ariana, di cui il popolo tedesco sarebbe la più pura espressione, da tutti quei fattori di “corruzione” che avrebbero potuto indebolirla. Le più alte cariche naziste, così, ordinano agli scienziati tedeschi di applicare le teorie eugenetiche per garantire “l’igiene della razza”, sia nella versione negativa — sterilizzazione coatta di degenerati, poi eutanasia, poi ancora sterminio delle “razze inferiori” e infecondità indotta sulle loro donne — sia in quella positiva — incentivi alla natalità per coppie considerate sane e procreazione mirata. In questo modo si pensa di impedire lo sviluppo dei caratteri ereditari sfavorevoli (disgenici) e di favorire i caratteri ereditari favorevoli (eugenici). Le donne di “razza inferiore” in età fertile, benché utili ai nazisti come forza lavoro, costituiscono una minaccia in quanto potenziali madri di nuove generazioni “degenerate”. Per questo il loro potenziale riproduttivo deve essere bloccato attraverso una sterilizzazione veloce e in massa. L’orrore nazista sulle donne continua, anche senza pene. Una prima grande sterilizzazione su migliaia di persone tedesche indegne di riprodursi21 è attuata tra il 1933 e il 1934, dopo l’emanazione della “Legge sulla sterilizzazione” del 14 aprile 1933, ma costa circa quattordici milioni di Reichsmark22. Troppo lenta e costosa per applicarla su milioni di persone. Heinrich Himmler chiede allora agli scienziati medici una soluzione definitiva, veloce, non chirurgica, oc20

Cfr. G. FACCHETTI, Il mito della razza ariana, Mimesis, Milano 2019. Portatori di psicoastenia, schizofrenia, disturbo maniaco-depressivo, epilessia su base genetica, corea di Huntington, cecità e sordità geneticamente determinate, deformità fisica grave e alcolismo cronico. Cfr. E. GIRMENIA, L’eutanasia nazista. Lo sterminio dei disabili nella Germania di Hitler, Armando, Roma 2016, p. 128. 22 R.J. LIFTON, The nazi doctors. Medical Killing and the Psychology of Genocide, Basic Books, New York 1986, trad. it., I medici nazisti. La psicologia del genocidio, Rizzoli, Milano 2003 (ora 2012), p. 47. 21

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culta, economica e discreta al problema della sterilizzazione di massa. La rapidità e l’economicità avrebbero sostenuto l’accelerazione del progetto; la pratica non chirurgica e occulta non avrebbe allarmato, poiché il soggetto che l’avrebbe subita non se ne sarebbe accorto; la riservatezza avrebbe eliminato problemi con l’opinione pubblica internazionale. L’ossessione per la purezza razziale porta dunque i medici nazisti a ricercare una metodologia di sterilizzazione pratica e applicabile in massa23. Una prima strada per sterilizzazioni in serie è quella intrapresa dal dottor Gerhard Madaus, che prevede l’utilizzo di una pianta sudamericana, il Caladium seguinum, vegetale conosciuto per i suoi effetti sterilizzanti già collaudati su alcuni animali, ma il progetto è abbandonato perché la pianta, nonostante gli sforzi dei botanici, non attecchisce in serra. Per questo iniziano le sperimentazioni e le “cavie umane” sono presenti in gran numero nei Lager: le deportate diventano così Versuchkaninchen (“conigli da esperimento”) 24. Horst Schumann, medico già protagonista dell’operazione eutanasia negli istituti di Grafeneck e Sonnenstein, valuta l’impiego dei raggi X sulle ghiandole germinali al fine della sterilizzazione. A tal fine, Himmler gli mette a disposizione alcuni prigionieri del Lager di Auschwitz. Tali esperimenti portano alla conclusione che sottoponendo gli organi genitali all’azione dei raggi X si determina una sterilizzazione senza narcosi. Oltre a un numero imprecisato di morti per complicanze post-operatorie, questa soluzione porta a numerosi effetti collaterali, non potendo schermare le parti del corpo non interessate, tra cui ustioni cutanee, perdita di capelli, disturbi metabolici e psichici. La sostanziale impraticabilità del metodo dei raggi X dimostra il fallimento di questo primo progetto.

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Quanto segue è tratto dal mio Un ginecologo al servizio del Reich nazista, in «Storia in Network», marzo 2014, http://www.storiain.net/storia/un-ginecologo-alservizio-del-reich-nazista/. 24 Cfr. L. STERPELLONE, Le cavie dei Lager. Gli «esperimenti» medici delle SS, Mursia, Milano 1978, ora 2009; V. SPITZ, Doctors from Hell. The Horrific Account of Nazi Experiments on Humans, Sentient, Boulder 2005. Alcuni documenti gli esperimenti nei campi, sono consultabili su «Jewish Virtual Library»: http://www.je wishvirtuallibrary.org/jsource/Holocaust/medtoc.html.

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Nel 1941 Himmler chiede a Carl Clauberg, famoso medico ginecologo interessato ai sistemi di incremento della natalità, di rovesciare la sua ricerca, dedicando i suoi studi alla messa a punto di una procedura non chirurgica per una sterilizzazione permanente, efficace e veloce25. Clauberg nella prospettiva di poter disporre di cavie umane, accetta diventando particolarmente attivo. Nel dicembre del 1942, il ginecoloco si trasferisce inizialmente a Birkenau, nella Baracca 30, poi gli è assegnata parte del famigerato Block 10 del campo di Auschwitz26. Nei suoi esperimenti Clauberg inietta nella cervice uterina soluzioni caustiche per inaridire le ovaie, oppure per occludere le tube di Falloppio. Tutti gli esperimenti sono verificati attraverso accertamenti radiografici. In alcuni casi, il dottor Clauberg immortala alcuni esperimenti servendosi di Wilhelm Brasse, un fotografo polacco deportato dai nazisti nel campo di concentramento di Auschwitz con la matricola 3444. Gli esperimenti provocano sulle “cavie” dolori lancinanti, causando nel migliore dei casi febbre alta e infiammazioni delle ovaie, nel peggiore gravissime infezioni ed emorragie delle vie genitali, fino alla morte. Molte donne periscono, altre sono uccise per eseguirne l’autopsia, altre ancora sono destinate alle camere a gas al termine degli esperimenti. In molti casi, per constatare i risultati della sperimentazione, dopo circa un anno, alcune donne sono costrette a sottoporsi a rapporti sessuali con prigionieri del campo selezionati a questo scopo. Chi sopravvive alla ricerca di Clauberg porta per tutta la vita i segni e i dolori di questi esperimenti. Dopo circa un anno dall’accettazione dell’incarico, e quindi al termine di una prima serie di esperimenti, Clauberg si convince di aver scoperto il sistema per la sterilizzazione efficace e mascherata. Probabilmente la procedura prevede una soluzione composta da formalina e novocaina da iniettare

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Il dottor Clauberg era impegnato all’Università di Königsberg nella quale insegnava, nello studio di metodi per il trattamento contro la sterilità femminile con i preparati ormonali Progynon e Proluton. Oggi è utilizzato il “test di Clauberg” per misurare l’azione del progesterone nel processo della fecondazione. 26 Cfr. H.J. LANG, Die Frauen von Block 10, Hoffmann und Campe, Hamburg 2011. Nel sito web «Olokaustos», http://www.olokaustos.org/bionazi/leaders/clauberg.htm alcune testimonianze di donne sottoposte a esperimenti da Clauberg.

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Il vizio dello stupro

nell’apertura dell’utero, un metodo veloce che può essere mascherato come una visita ginecologica. L’approssimarsi dell’Armata Rossa costringe Clauberg a fuggire da Auschwitz e a continuare le sue sperimentazioni nel campo di concentramento di Ravensbrück. Ma il crollo dell’esercito nazionalsocialista nel 1945 obbliga Clauberg ad abbandonare definitivamente le sperimentazioni e a fuggire. Se gli esperimenti avrebbero dovuto trovare la soluzione per sterilizzare in massa le donne delle “razze” considerate inferiori, un altro progetto avrebbe dovuto invece accrescere la natalità promuovendo al tempo stesso i principi eugenetici. È questo un altro modo per distruggere la dignità delle donne, questa volta di quelle considerate pure ariane: utilizzarle come “fabbrica” di figli perfetti. La Germania del dopo primo conflitto mondiale ha uno dei più bassi tassi di natalità in Europa, conseguenza sia della morte di numerosi uomini nel conflitto sia della disoccupazione dilagante che blocca l’accrescimento delle famiglie. Così, nel tentativo di ricreare e conservare la purezza della razza ariana il nazismo vara il progetto Lebensborn (fonte della vita): migliaia di donne sono trasformate in generatrici di una stirpe di uomini corrispondenti ai canoni della “razza ariana”, alti, belli, biondi e con i capelli azzurri. «Obiettivo era raggiungere una popolazione di 120 milioni di individui, rafforzando la componente “nordica”»27. Il 10 dicembre 1935, col motto “Per noi sia sacra ogni madre di buon sangue”, è fondata a Berlino la Lebensborn e.V. (Sorgente di vita società registrata), istituzione amministrata dall’“Ufficio Centrale delle SS per la Razza e l’Insediamento” in collegamento con diversi uffici per la tutela della madre e del fanciullo. L’ente si occupa di promuovere la natalità di “razza ariana” attraverso assistenza alle gestanti, a prescindere dal fatto che siano regolarmente sposate oppure no; poi della crescita e dell’educazione dei loro bambini. Il 1º gennaio del 1938 la società, con il nome di Amt L (Ufficio L, dove L sta per Lebesborn), passa sotto il controllo diretto dello Stato maggiore delle

E. GIRMENIA, L’eutanasia nazista. Lo sterminio dei disabili nella Germania di Hitler, Armando, Roma 2016, p. 134. 27

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SS, quindi di Himmler, trasferendo gli uffici centrali da Berlino a Monaco. Inizialmente le “case di maternità avrebbero dovuto ospitare le mogli delle SS in procinto di partorire, ma pochissime accettano di trasferirsi in questi centri. Da qui la scelta di accogliere anche le ragazze madri tedesche, dopo che queste hanno dato garanzie di arianità. Ovviamente tutte sono sottoposte ad accurati esami diagnostici, assieme a ricerche razziali sulla discendenza. Entrambe le indagini servono ad attestare l’assenza di patologie ereditarie, nonché provare sia di non avere ascendenze ebraiche sia di non avere concepito il figlio con una persona appartenente a una categoria considerata razzialmente inferiore. I neonati giudicati di livello razziale inferiore sono affidati alla Nazionalsozialistische Volkswohlfahrt, ente di previdenza del Partito nazista. Le prescelte vivono in queste case di maternità in ottime condizioni di alloggio e di assistenza medica. Tutte le nascite sono coperte da segreto di Stato. La prima clinica o “casa di maternità” tedesca comincia a funzionare il 15 agosto 1936 a Steinhöring in Baviera, mentre nel 1938 si apre quella austriaca28. Ai 10-13 centri tedeschi che “producono” circa 7.500 bambini ariani, si aprono altre case di maternità nei territori occupati, specialmente in Norvegia (nove enti con circa diecimila bambini), ma anche uno in Polonia, Paesi Bassi, Danimarca, Belgio e Francia. I Paesi dell’Est sono considerati razzialmente al di sotto degli standard29. La vulgata ha creato il mito del Lebensborn come una serie di istituzioni forzate per la riproduzione, o addirittura luoghi di accoppiamento tra uomini di pura razza ariana e volenterose donne di altrettanta purezza razziale. Insomma una sorta di centri di inseminazione quasi industriale di bambini ariani. Gli archivi del progetto Lebensborn sono stati distrutti quando ormai divenne chiara la disfatta del III Reich, strappando questa realtà alla verità. Dunque non si ha la certez28

Cfr. K. ERICSSON, E. SIMONSEN (eds), Children of World War II: The Hidden Enemy Legacy, Berg, New York 2005, trad. it., I “figli” di Hitler. La selezione della “razza ariana”, I figli degli invasori tedeschi nei territori occupati, Boroli, Milano 2007, pp. 24-25. 29 Ivi, p. 26 e p. 204.

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za di cosa si occupasse realmente il programma Lebensborn, se offrire solo ospitalità alle donne ariane già fecondate da altrettanti uomini ariani, o di procurare anche gravidanze combinate o forzate. Sicuramente le donne tedesche sono state scelte su base volontaria, mentre in Norvegia alcune sono state rapite su segnalazione di selezionatori fisionomisti della Sicherheitspolizei, la Polizia di Sicurezza30. Ognuna di queste possibilità potrebbe essere plausibile stando alle testimonianze e alle pochissime prove ritrovate31. In ogni caso, seppur le madri della stirpe ariana sono volontarie, il nazismo ha comunque oggettificato le donne, trasformandole in perfette incubatrici di “purosangue di Stato”. Nel nazismo, dunque, la violenza contro le donne si è fatta concreta in diversa forme attraverso la politica, un’oppressione di genere imbevuta di razzismo che ha prodotto morte e offesa in gran quantità. Nella gerarchia umana e sociale teorizzata dal nazismo, la donna ha occupato l’ultimo posto. 6.3. La vendetta sovietica in Germania Durante la controffensiva dell’URSS contro la Germania nazista, che ha il suo grande successo quando il 2 maggio 1945 sulle rovine del Reichstag sventola definitivamente la bandiera rossa con la falce e il martello32, i soldati sovietici incontrano scenari raccapriccianti: villaggi distrutti, fosse comuni e testimonianze dei sopravvissuti ai tedeschi intrisi d’orrore. Per questo la capitolazione del III Reich non significa per i tedeschi la fine della violenza di guerra, ma — parafra30

La distruzione degli archivi ha comportato anche di risalire alla vera identità di molte vittime. In Norvegia, dove gli archivi non sono stati del tutto distrutti, si è potuto risalire alle identità delle madri e dei figli, entrambi vessati alla fine della guerra da campagne d’odio. 31 Cfr. C.A. MACKINNON, Are Women Human?, Belknap Press, Cambridge-London 2006, trad. it. a cura di A. Besussi e A. Facchi, Le donne sono umane?, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 99-100 e soprattutto la nota 24 del capitolo 7 a pp. 207-208. 32 La bandiera sovietica è issata la prima volta sul Parlamento tedesco alle ore 22.50 del 30 aprile dagli uomini della sezione da ricognizione del I battaglione/756º Reggimento fucilieri della 150ª Divisione fucilieri della 3ª Armata d'assalto. Un contrattacco tedesco riesce ad abbattere la bandiera.

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sando von Clausewitz — indicano la continuazione del conflitto con altri mezzi: la guerra di sterminio condotta dai soldati di Hitler nell’Est Europa, innesca un smisurato vortice di violenza da parte degli uomini dell’Armata Rossa, non solo durante, ma anche dopo i combattimenti. Il primo assaggio di quello che sarebbe accaduto alla Germania e ai tedeschi si ha nell’ottobre del 1944, quando un reparto di soldati russi sconfina nella Prussia orientale, occupando per poche ore il villaggio di Nemmersdorf. Quando i tedeschi rioccupano il sobborgo trovano molti corpi morti di donne, bambini e anziani. La propaganda nazista racconta di donne stuprate, alcune ritrovate con le gonne sollevate e i genitali insanguinati, altre rinvenute inchiodate alla porta di un fienile. I nazisti documentano lo scempio, diffondendo le immagini in tutta la Germania33. Ai soldati dell’Armata Rossa è attribuita la missione di porre fine al fascismo in Europa e di vendicare le violenze subite, per questo ognuno di loro si sente autorizzato a comportarsi come desidera. I tedeschi non devono essere solo sconfitti, ma odiati e umiliati. Un dispaccio rivolto ai soldati al fronte da parte del Consiglio di guerra invoglia alla guerra incondizionata: Rammenta, soldato! Là, in Germania, si nasconde il tedesco che ha assassinato tuo figlio, che ha violentato tua moglie, la tua fidanzata, tua sorella, che ha fucilato tua madre e tuo padre, che ha bruciato il tuo focolare. Avanza incontro al nemico con odio inestinguibile. È tuo sacro dovere, per amor di giustizia e per onorare la memoria di quanti sono stati uccisi dai boia fascisti, penetrare nella caverna di questa bestia selvaggia e punire i criminali fascisti. 33

Bernhard Fisch nel suo libro Nemmersdorf, Oktober 1944, includendo il materiale dei documenti russi e le dichiarazioni dei molti testimoni di entrambe le parti, incluso il generale sovietico Kuzma N. Galitsky, ex comandante dell’XI armata, azzarda l’ipotesi che il massacro non è stato completamente opera dei russi, ma è stata una abile messinscena orchestrata dai nazisti per rafforzare la resistenza tedesca. Cfr. B. FISCH, Nemmersdorf, Oktober 1944. Was in Ostpreußen tatsächlich geschah, Das Neue Berlin, Berlin 1997. La tesi è riproposta dallo stesso autore in Nemmersdorf im Oktober 1944, in E. SCHERSTJANOI, Rotarmisten schreiben aus Deutschland. Briefe von der Front (1945) und historische Analysen, K.G. Saur, München 2004, pp. 287304.

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Il sangue dei compagni caduti, le sofferenze degli assassinati, i gemiti dei sepolti vivi, le lacrime inconsolabili delle madri vi chiamano alla vendetta senza risparmio.34

È proprio la vendetta la parola d’ordine esaltata dalla propaganda sovietica, per motivare i propri soldati e portarli vittoriosi nella «tana del lupo»35, presentando quindi il conto da far pagare ai tedeschi. La scoperta dei campi di concentramento accresce l’odio e la volontà di vendetta. Nell’avanzata dell’Armata Rossa la distinzione tra bersagli militari e civili è definitivamente cancellata: tutti i tedeschi sono considerati responsabili delle efferatezze naziste. Le atrocità sono il frutto di una guerra totale condotta dai sovietici contro la Germania, inasprita dalla tenace resistenza della Wehrmacht. Lo stupro è uno degli elementi che caratterizza la violenza, preceduto da atti di umiliazione e seguito da uccisione, con successiva ulteriore profanazione del corpo. Aleksandr Solženicyn ha riconosciuto già all’epoca, quando era un giovane capitano, che quelle compiute dalla “sua” Armata Rossa sono delle atrocità: Höringstrasse 22. Nessun incendio ancora, però devastazioni, saccheggi. Attraverso la parete, attutito, un gemito: trovo la madre ancora viva. Quanti le sono piombati addosso sul materasso? Una compagnia? Un plotone? Che importa! La figlia, una bambina ancora, uccisa. Il tutto all’insegna della semplice parola d’ordine: Non dimenticare niente! Non perdonare niente! Sangue per sangue!... E dente per dente. Quelle che erano ancora vergini diventano donne, e le donne … cadaveri presto. Già annebbiata, gli occhi che sanguinano, lei implora

34

In G. KNOPP, Die Grosse Flucht. Das Schicksal der Vertriebenen, Econ, München 2001, trad. it. Tedeschi in fuga, L’odissea di milioni di civili cacciati dai territori occupati dall’Armata Rossa alla fine della Seconda guerra mondiale, Corbaccio, Milano 2004, p. 34. Cit. anche in M. STRAZZA, Senza via di scampo. Gli stupri nelle guerre mondiali, Consiglio regionale della Basilicata. Commissione Regionale per la Parità e le Pari Opportunità, Azienda Poligrafica TecnoStampa, Villa d’Agri (Pz) 2010, p. 177. 35 Ivi, p. 34.

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“Uccidimi, soldato!” Non vedete gli sguardi turbati? Sono anch’io uno di loro.36

La furia sovietica trova sfogo sui civili di pressoché tutti i villaggi che l’Armata Rossa conquista, ma la summa delle violenze si ha con l’arrivo dei sovietici a Berlino. Riguardo gli stupri si parla di una cifra che arriva a due milioni, anche se difficile da certificare. Nella sola Berlino furono centomila le donne abusate37. Il livello di terrore per le donne berlinesi è tutto riassunto in una storia riportata dalla giornalista Lucy Ash, tratta dal diario di Vladimir Gelfand, un giovane tenente ucraino dell’Armata Rossa: il 25 aprile, mentre girava con la sua bicicletta sul lungofiume Spera, incontra un gruppo di donne tedesche con valigie, le quali raccontano degli stupri subiti nella notte precedente da parte di una ventina di soldati sovietici; una di queste donne, gettandosi tra le braccia di Gelfand lo supplica: «Dormi con me! Fammi quello che vuoi, basta che sia solo tu a farlo!»38. La donna preferisce consegnarsi all’ufficiale pur di non essere violentata da molti altri uomini. Sempre Lucy Ash riporta la storia di un’altra donna che cerca di persuadere l’ufficiale che accompagna un gruppo di soldati a risparmiarla dalle violenze sessualizzate, dopo che questi fanno irruzione nella sua casa: L’ufficiale ordinò ai suoi uomini di fermarsi ma uno di loro protestò: «Dopo tutto quello che i tedeschi hanno fatto alle nostre donne? Si 36

In G. KNOPP, Tedeschi in fuga, cit., p. 262. La giornalista e scrittrice bielorussa Svjatlana Aleksievič ha raccolto molte testimonianze di donne-soldato che hanno partecipato alla conquista della Germania. In queste testimonianze si coglie un sentimento misto di dispetto e di riconoscimento delle violenze. Cfr. S. ALEKSIEVIČ, U vojny ne ženskoe lico, Mastackaja litaratura, Minsk 1985, trad. it. La guerra non ha un volto di donna. L’epopea delle donne sovietiche nella seconda guerra mondiale, Bompiani, Milano 2015 (ed. digitale). 37 Cfr. N. NAIMARK, The Russians in Germany. A History of the Soviet Zone of Occupation, 1945-1949, Belknap Press, Cambridge 1995; D. BLATMAN, The Death Marches. The Final Phase of Nazi Genocide, Harvard University Press, Cambridge 2011, trad. it. Le marce della morte. L’olocausto dimenticato dell’ultimo esodo dai lager, Rizzoli, Milano 2009, p. 130. 38 L. ASH, The rape of Berlin, BBC News, Berlin 30 April 2015, https://www.bbc. com/news/magazine-32529679.

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sono presi mia sorella e mia madre!». L’ufficiale riuscì a calmarlo e a portarlo fuori. Poco dopo la donna uscì nel corridoio per controllare che i soldati se ne fossero andati. Non se ne erano andati e la stavano aspettando. Quando ebbero finito scrisse sul suo diario: «Capii che avevo bisogno di un lupo per tenere lontane le altre bestie». La donna iniziò una relazione ambigua con un ufficiale russo. 39

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Gli stupri nell’Europa orientale non sono preordinati dai vertici militari, ma la loro ammiccante indulgenza permette questo e altro. L’atteggiamento degli ufficiali è tutto riassunto dalla risposta che Stalin dà a un leader jugoslavo che denuncia le violenze sulle donne: Hai idea di che cosa complicata sia la mente umana? Bene, immagina un uomo che ha combattuto da Stalingrado a Belgrado attraversando oltre mille chilometri dalla sua terra devastata, cosparsa dei corpi dei compagni e dei suoi familiari più cari. Come può un uomo del genere comportarsi in maniera normale? E che cosa c’è di così terribile nel divertirsi con una donna dopo tutti questi orrori? La cosa che conta è combattere la Germania. Tutto il resto non è importante. 40

La violenza hanno spesso un carattere pubblico, racchiudendo significati di umiliazione collettiva: la donna tedesca come “corpo della Nazione”, la sua profanazione equivale a quella dell’intero popolo. Quindi umiliazione non solo per la donna che la subisce, ma anche per i familiari e gli involontari spettatori. I cadaveri di molte donne violentate e/o uccise sono poi abbandonati sulla strada, spesso ancora con le gonne sollevate e con i genitali deturpati (anche con granate o armi da taglio), come promemoria per terrorizzare le comunità. Tutto questo assume un significato pedagogico, un messaggio di monito rivolto ai vivi, i risparmiati dal potere dei vincitori del loro dominio sulla vita e sulla morte. Molte donne tedesche violentate e non uccise, poi, devono ben presto affrontare un’ulteriore crudeltà: la contrazione di malattie veneree e le gravidanze indesiderate. 39

Ibidem. M. DJILAS, Conversations with Stalin, Harcourt Brace & Company, New York, 1962, p.111, anche N. TOLSTOY, Stalin’s Secret War, Jonathan Cape, London 1981, p. 269, così cit. in R. OVERY, Russia’s War. A History of the Soviet Effort: 1941-1945, Penguin, New York 1998, pp. 261-262 (orig. 1997). 40

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Le violenze sovietiche sulle donne tedesche sono dunque il prodotto di una serie di rappresentazioni sia pratiche sia simboliche: spirito di vendetta, di umiliazione dei maschi e di odio antitedesco in primis, poi desiderio di bottino di guerra, forte arbitrarietà dovuta a scarsa disciplina. Gli stupri da parte dei soldati sovietici si inseriscono non solo all’interno del più ampio processo patriottico, dunque di rappresaglia nazionale, ma anche di rivalsa a titolo personale. Come già riferito, la vendetta patriottica è dovuta alla grave offesa politica e sociale arrecata dalla Germania all’URSS, alle esagerate distruzioni e ai crudeli crimini perpetrati contro i russi: tutti i tedeschi sono colpevoli per aver permesso al loro dittatore di scatenare una feroce guerra d’aggressione all’URSS, una sorta di colpa collettiva che deve essere punita, per questo ogni violenza concorre nell’oltraggiare l’intera società. Afferma Aglaja Borisovna Nesteruk, donna sergente radiotelegrafista dei sovietici: Finalmente eravamo nella loro terra… La prima cosa a stupirci erano le loro belle strade. Le grandi case delle fattorie… I vasi con i fiori, le tendine ricamate appese alle piccole finestre, persino nella rimessa. E all’interno delle case le tovaglie bianche. Le stoviglie preziose. Le porcellane. Era la prima volta in vita mia che vedevo una lavatrice… Non riuscivo a capacitarmi del perché ci avessero combattuto, se vivevano così bene. […] Il nostro odio nei loro confronti era comprensibile. Ma il loro?41

La rivalsa personale nasce dalla volontà di oltraggiare le donne tedesche in quanto mamme e mogli di quegli stessi soldati che hanno profanato le donne russe. Riferisce A. Ratkina, donna sergente telefonista dell’esercito sovietico: Mi ricordo… Mi ricordo bene di una tedesca che era stata violentata e uccisa… Giaceva a terra, nuda, con una bomba a mano infilata tra le cosce. Ora ci si vergogna, ma allora neanche tanto. […] Pensa che sia facile perdonare?42

41 42

S. ALEKSIEVIČ, La guerra non ha un volto di donna, cit., p. 314. Ivi, p. 213.

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Gli stupri rappresentano anche un’umiliazione rivolta ai maschi tedeschi, disonorati nella loro virilità e nella loro incapacità di proteggere le proprie donne, retaggio culturale di una società patriarcale; mentre l’idea della femmina come bottino di guerra accompagna da sempre i desideri dei vincitori. L’odio antitedesco nasce dalla guerra razziale intrapresa dai nazisti: la loro presunta supremazia militare assieme alla supposta superiorità razziale devono essere definitivamente smentite attraverso la completa sconfitta e l’umiliazione totale, che passa soprattutto attraverso l’oltraggio delle loro donne, dimostrando così di essere completamente “al di sopra” dei tedeschi. Riguardo la scarsa disciplina, nonostante le raccomandazioni delle alte cariche militari di adottare comportamenti non disonorevoli per il prestigio dell’Armata Rossa43, la remissività degli ufficiali inferiori contribuisce a favorire tra i soldati l’idea di libertà di azione44. Inoltre la maggior parte dei crimini sono commessi da reparti di seconda e terza linea, unità composte da una marmaglia di soldati, una turba di combattenti disorganizzati e indisciplinati: «Questi soldati sarebbero stati particolarmente predisposti agli stupri per il basso livello culturale, la frequente rotazione a causa delle ingenti perdite, la scarsa formazione militare, l’uso di alcol e la mancanza di licenze»45. Gli eccessi continuano anche dopo l’istituzione dell’Amministrazione Militare Sovietica e la creazione della Repubblica Democratica Tedesca. In prospettiva dell’imminente “Guerra fredda”, Stalin si preoccupa di queste violenze affermando che, pur meritandole, le crudeltà non sono utili perché favoriscono la diffidenza dei tedeschi nei confronti dei sovietici: «In altre parole, i tedeschi meritano il peggio, ma il loro maltrattamento non serve agli interessi sovietici»46.

43

N. NAIMARK, The Russians in Germany: A History of the Soviet Zone of Occupation, 1945-1949, Harvard University Press, Cambridge 1995, pp. 69-77. 44 C. MERRIDALE, Ivan’s War, the Red Army 1939-1945, Faber and Faber, London 2005, pp. 310-311. 45 M. STRAZZA, Senza via di scampo, cit., p. 174. 46 N.M. NAIMARK, About “The Russians” and about us: The Question of Rape and Soviet-German Relations in the Soviet Zone of Occupation, «The National Council for Eurasian and East European Research», Washington 1991, p. 16.

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Nella guerra dell’URSS alla Germania nazista, riassumendo, il corpo della donna è stato campo di battaglia e luogo di dominio; la sua violazione un espediente pedagogico per terrorizzare. Il sadismo, le violenze in pubblico, l’uccisione delle vittime appena stuprate, la profanazione del loro corpo già violato da vivo, la soppressione dei loro feti, l’abbandono per le strade dei corpi oltraggiati dopo la morte, hanno assunto svariati significati simbolici: dallo sfregio delle manifestazioni esteriori femminili a quelle biologiche relative alla funzione materna, tutte azioni che convalidano la personalità delle vittime, colpite in quanto femmine, in quanto donne, in quanto madri di futuri nemici, in quanto donne del nemico, in quanto donne nemiche. 6.4. Jūgun ianfu. La schiavitù sessuale del Giappone imperiale L’intersezione di potere coloniale, razzismo e genere ha condotto nel sud–est asiatico alla grande schiavitù sessuale chiamata Jūgun ianfu47, un eufemismo tradotto con “donne di conforto”, ma che in realtà è stata una immensa oppressione di circa duecentomila donne costrette a diventare risorse militari attraverso l’oggettificazione sessuale. L’occupazione giapponese è caratterizzata da una ferrea politica di sfruttamento coloniale: se gli uomini sono impiegati nel lavoro schiavo, le donne sono adoperate per la servitù sessuale attraverso un complesso sistema di luoghi di prostituzione forzata. I luoghi di prostituzione forzata sono parte integrante della politica militare nipponica. Il sistema di schiavitù sessuale è creato sia per migliorare il “benessere” e l’“umore” dei soldati nipponici, per aumentare il rendimento militare, sia per ridurre la pratica degli stupri. Non è comunque una soluzione per salvaguardare le donne civili, ma per ridurre l’incidenza delle malattie veneree e le conseguenti ed eccessive spese mediche48. I vertici militari credono anche che, diminuendo gli stupri, si riduca l’ostilità degli abitanti dei territori occupati nei conChonggun wianbu in coreano e wèi’ān fù in mandarino. Sono anche distribuiti preservativi ai soldati. Nel 1942 circa 32,1 milioni di preservativi sono spediti oltreoceano. Cfr. Y. TANAKA, Hidden Horrors. Japanese War Crimes in World War II, Westview Press, Boulder 1996, p. 96. 47

48

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fronti dei giapponesi49. Tenendo in isolamento le donne, i vertici militari pensano anche di poter scongiurare l’infiltrazione di spie nemiche. Le prime donne a essere “arruolate” sono prostitute giapponesi maggiorenni, reclutate (boshū) su base volontaria attraverso annunci. A queste donne nessuno ha ovviamente riferito che quella che avrebbero praticato sarebbe stata una vera e propria schiavitù sessuale. Con l’intensificarsi del conflitto sul continente, aumenta anche la richiesta di donne per i numerosi ianjo, i bordelli militari. L’idea di utilizzare donne giapponesi da reclutare con la forza è inconciliabile con l’archetipo nipponico della ryōsai kenbo, la “brava moglie e madre” del Giappone. Per rifornire i bordelli militari di nuovi oggetti sessuali, i giapponesi rivolgono così l’attenzione sulle donne dei territori occupati, considerate razzialmente inferiori. Queste sono arruolate attraverso l’inganno o peggio la loro requisizione (chōyō). Questa operazione è chiamata dai giapponesi chōben, che grosso modo significa “approvvigionare scorte militari per la guerra”, dunque donne alla stregua di oggetti, di munizioni e di provviste per la campagna militare. I giapponesi approfittano della povertà dilagante nei territori occupati, promettono alle donne lavori ben retribuiti come infermiere, domestiche o impiegate. In realtà l’ingaggio è per un altro lavoro, quello sessuale appunto. In altri casi le donne sono “affittate” ai militari direttamente dalle loro famiglie povere con un contratto di sei mesi o un anno50. Così è descritto il reclutamento in un rapporto statunitense: All’inizio di maggio del 1942, agenti giapponesi arrivarono in Corea per arruolare ragazze coreane per un “servizio di conforto” nei territori giapponesi appena conquistati del Sudest asiatico. La natura di questo “servizio” non era specificata, ma si presumeva che fosse un lavoro legato alla visita dei feriti negli ospedali, alla fasciatura delle bende e, in generale, alla felicità dei soldati. L’incentivo utilizzato da questi agenti era un sacco di soldi, un’opportunità per pagare i debiti familiari, un lavoro facile e la prospettiva di una nuova vita in una nuova terra, Singapore. Sulla base di queste false rappresentazioni 49

Nonostante la messa a disposizione di donne da parte dei vertici militari, gli stupri non cessano. Cfr. Ivi, pp. 92-100. 50 Cfr. Y. TANAKA, Japan’s Comfort Women. Sexual slavery and prostitution during World War II and the US occupation, Routledge, New York 2002, p. 42 (orig. 2001).

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molte ragazze si arruolarono per il servizio all’estero e furono ricompensate con un anticipo di qualche centinaio di yen. La maggior parte delle ragazze erano ignoranti e non istruite, anche se alcune di loro erano già state legate alla "professione più antica della terra". Il contratto che firmarono le legava alle regole dell'esercito e alla guerra per il "padrone di casa" per un periodo che andava da sei mesi a un anno, a seconda del debito familiare per il quale erano stati anticipati... 51

In altri casi ancora le modalità sono più semplici: sequestrare direttamente le ragazze con la forza; prelevare le donne dai luoghi di prigionia, rivolgersi a un mediatore privato, ingaggiato per l’occasione, il quale con minacce procura le giovani vittime. Nell’esercito delle prostitute imperiali, oltre alle giapponesi, ci sono in maggioranza coreane e cinesi, ma anche taiwanesi, filippine, tailandesi, vietnamite, malesi, indonesiane, birmane e finanche trentacinque olandesi prelevate da luoghi di prigionia52. Ognuna di queste donne subisce una iniziale indagine medica, a cui fanno poi seguito periodicamente altri controlli per attestare l’assenza di infezioni sessualmente trasmissibili. A tutte è imposto un nome giapponese. Una parte di queste “donne di conforto” ha diritto a una misera paga, ma questa è decurtata sia da una quota dell’anticipo sia dalle spese per i cosmetici e altre necessità personali. Inoltre per evitare fughe, il pagamento è spesso posticipato53. Il sistema prevede comfort stations stanziali e mobili: le prime sono quelle permanenti, le seconde quelle che si muovono con l’esercito.

51

US Office of War Information, Psychological Warfare Team Attached to U.S. Army Forces India-Burma Theater, APO 689, Report No. 49: Japanese Prisoners of War Interrogation on Prostitution, Date of Report: October 1, 1944, By: T/3 Alex Yorichi, in «Exordio», http://www.exordio.com/1939-1945/codex/Documentos/report49-USA-orig.html. 52 Sono inviate in quattro centri di prostituzione diversi di Semarang, città portuale dell’isola di Java: il club degli ufficiali, il club di Semarang, quello di Hinomaru e di Seiun. Cfr. Y. YOSHIMI, Comfort Women. Sexual Slavery in the Japanese Military During World War II, Columbia University Press, New York 2002, p. 166. 53 Cfr. Ivi, pp. 142-144.

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Ogni luogo di sfruttamento sessuale ha prezzi, da versare al responsabile della stazione, e orari di ricevimento, entrambi prestabiliti in base al rango militare. Il sistema più comune può essere riassunto così:

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Soldati semplici dalle 10 alle 17, con un ticket di 1.50 yen 30 minuti, 2 yen mezz’ora; Sottufficiali e addetti non militari dalle 17 alle 21, con un ticket 3.00 yen 30/40 minuti; Ufficiali dalle 21 alle 24, con un ticket 3-5.00 yen 30/60 minuti. Gli ufficiali potevano pernottare per 15-20 yen.54

In un’ottica razziale, per contraddistinguere le giapponesi da tutte le altre, le prime indossano abiti tipici del Giappone, mentre tutte le altre vestono uniformi. In molti casi non mettono nessun vestito per il susseguirsi frenetico delle prestazioni sessuali55. I “clienti”, infatti, spesso si susseguono uno dopo l’altro, determinando un alto numero di prestazioni sessuali da subire. Calcolando un numero minimo di 5 “clienti” a giorno per 6 giorni a settimana si ottiene la cifra spaventosa di oltre 1500 rapporti sessuali indesiderati a cui una singola donna è costretta a subire in un anno. Anche una prostituta che ha accettato volontariamente è evidente che non può reggere questi ritmi56. Questo determina disturbi psico-fisici che ognuna delle sopravvisute si porterà dietro per sempre. Inoltre, sulle donne che riescono a sopravvivere a questo inferno, si abbatterà

54

Questi gli orari e i prezzi applicati in alcuni centri di prostituzione della Birmania e delle Filippine. Cfr. Report No. 49: Japanese Prisoners of War Interrogation on Prostitution, cit..; Y. TANAKA, Japan’s Comfort Women, cit., pp. 53-54. 55 Cfr. Y. TANAKA, Japan’s Comfort Women, cit., pp. 18-19. 56 Karen Parker segue un altro calcolo giungendo a una cifra annuale minima di 1800 rapporti. Cfr. K. PARKER, War Rape, in United Nations Commission on Human Rights, Fifty-first Session, Agenda Item 11, 1996, pp. 1-2, cit. in M.A. ODETTI, Jugun ianfu (Comfort women). La schiavitù sessuale nel sud-est asiatico durante la Seconda guerra mondiale e la memoria femminile, in «DEP. Deportate, esuli, profughe», n. 4, 2006, p. 34, https://www.unive.it/pag/fileadmin/user_upload/dipartimenti/DSLCC/do cumenti/DEP/numeri/n4/Dep004.pdf.

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VI. Sessismo e razzismo nella II Guerra Mondiale

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il disagio della vergogna e lo stigma sociale dopo il ritorno nei loro Paesi d’origine alla fine della guerra57. A seguito della disfatta giapponese, su questo criminale sistema di prostituzione cala il silenzio, rafforzato dalla distruzione della maggior parte dei documenti. Nel 1991, in occasione del 50° anniversario dell’attacco a Pearl Harbour, tre donne coreane rendono pubblica la propria storia di oppressione sessuale. I governi giapponesi, fino a quando hanno potuto, hanno respinto ogni addebito, negando ogni legame diretto tra il loro esercito e la schiavitù sessuale. Nel 1992 lo storico Yoshimi Yoshiaki ritrova alcuni documenti che avvalorano la responsabilità del governo e dei quadri di comando superiori nella pianificazione e organizzazione di questo sistema di sfruttamento sessuale. Se in un rapporto stilato nel 1938 dal Consolato generale giapponese a Shanghai sono citate le donne come mezzo per “assicurare momenti di ricreazione” ai soldati58, un documento dello stesso anno riporta l’intenzione del governo di porsi a capo dell’operazione, poiché contrario al metodo del rapimento utilizzato per reclutare le donne, che rischiava di distruggere la fiducia dei popoli sottomessi nei confronti dei giapponesi59. Nel 2014, il governo di Tokyo, pur non assumendo la responsabilità politica del sistema di prostituzione, ha annunciato lo stanziamento di 1 miliardo di yen per un fondo, amministrato da Seoul, che garantisca il “maggior benessere possibile” alle sopravvissute60. Solo nel 2015 arrivano le scuse ufficiali di Shinzō Abe, primo ministro del Giappone, per “le esperienze incommensurabili e dolorose” delle donne, senza però riconoscere il coinvolgimento dei vertici mili57

In un romanzo storico la scrittrice Jing-Jing Lee documenta la vita durante e dopo lo sfruttamento sessuale, ripercorrendo le tappe di Wang Di che a sedici anni è portata via con la forza dal suo villaggio per essere arruolata come prostituta dell’esercito imperiale. Cfr. J.-J. LEE, How We Disappeared, Oneworld Publications – Hanover Square Press, London – New York 2019, trad. it. Storia della nostra scomparsa, Fazi, Roma 2020. 58 Cfr. Y. YOSHIMI, Comfort Women, cit., p. 44. 59 Per tutti cfr. ivi, pp. 57-61. 60 Ministry of Foreign Affairs of Japan, Measures Taken by the Government of Japan on the Issue known as “Comfort Women”, 14 ottobre 2014, https://www.mofa.go.jp/ policy/women/fund/policy.html.

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Il vizio dello stupro

tari giapponesi nel programma di reclutamento delle donne, poiché è ritenuto organizzato da privati. Il sistema giapponese della prostituzione forzata è stato un criminale abuso basato sul non riconoscimento del diritto di ognuna di quelle donne al dominio sul proprio corpo; una deumanizzazione che ha prodotto una oggettificazione del corpo femminile divenuto merce di consumo per fini militari. Un crimine, dunque, in termini di violenza collettiva sulle donne in generale e violenza individuale su ciascuna di quelle donne. Per questo, il sistema di schiavitù sessuale creato dai giapponesi è stato un delitto che meritava di essere punito con severità da un Tribunale internazionale, come crimine di guerra, come violazione del diritto internazionale, come oltraggio a ogni singola persona e, soprattutto, come crimine contro l’umanità. Ognuna di quelle donne perse ogni diritto di essere umana.

6.5. Italia: fascisti e partigiani In Italia dopo l’8 settembre 194361 inizia una vera e propria guerra contro le donne: in un contesto di guerra civile, che si trasforma in guerra ai civili, per le italiane cambia la prospettiva della guerra, poiché esse assumono collettivamente un ruolo centrale nella continuazione del conflitto mondiale. Alcune aderiscono alla Resistenza62, altre continuano ad appoggiare il fascismo, moltissime estendono il loro lato materno indirizzandolo ai soldati italiani allo sbando: Di fronte a centinaia di migliaia di soldati allo sbando e a rischio di cattura, prende forma immediatamente una operazione spontanea di La sera dell’8 settembre, attraverso un comunicato alla radio, il generale Badoglio rende noto l’armistizio firmato con le forze alleate qualche giorno prima. Per gli italiani inizia un lungo periodo di incertezza politico-militare che porta a una guerra civile. 62 Occorre chiarire una questione: il movimento partigiano italiano non era comunista, ma di popolo. I partigiani erano inquadrati nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), non nel Partito Comunista Italiano. L’atto fondativo del Comitato di Liberazione Nazionale fu firmato da Alcide De Gasperi (DC), Ivanoe Bonomi e Meuccio Ruini (Democrazia del Lavoro), Mauro Scoccimarro e Giorgio Amendola (PCI), Ugo La Malfa e Sergio Fenoaltea (Partito d’Azione), Pietro Nenni e Giuseppe Romita (PSI), Alessandro Casati (PLI). 61

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salvataggio su larga scala in cui primeggiano le donne, e si tratta davvero di donne molto diverse fra loro.63

Nel biennio 1943-1945 le donne italiane, al di là dell’aspetto ideologico, sono state capaci di operare liberamente delle scelte, scontandone poi le tristi conseguenze Così le donne fasciste diventano bersaglio dei partigiani, le partigiane espiano il loro fervore antifascista, la donna italiana che non appartiene a nessuno dei due casi paga per l’appartenenza nazionale restando in balìa sia dei nazifascisti sia dei cosiddetti “liberatori”. Le violenze sessualizzate dei fascisti italiani assunsero particolare rilievo durante la ritirata, soprattutto sulle partigiane, donne valutate come trasgreditrici, per aver travalicato pericolosamente il ruolo tradizionale assegnato loro dalla storia: già ribellarsi al fascismo è un gravissimo reato, figuriamoci se questa ostilità arriva da una donna. Decisiva è dunque la cultura militare-maschile dei “carnefici”, il substrato mentale, il loro retroterra educativo che spinge a punire le donne che hanno osato ribellarsi al regime e che hanno voluto lottare per emancipare se stese da quel ruolo sociale inferiorizzante e sottomesso di brave mogli ubbidienti e madri sacrificali. L’aggressività mostrata dai fascisti contro le donne documenta fino a che punto la violenza sul corpo femminile possa ispirarsi a una concezione superomistico-vitalistica della vita, e parallelamente a una carica di brutalizzazione dei rapporti politici, che spinge a vedere nell’avversario un nemico da abbattere.64

Lo stupro, dunque, non è una eventualità criminale, ma una conseguenza diretta della cultura fascista della sottomissione e dell’oggettivazione delle donne. Le partigiane italiane sono donne “normali” che scelgono liberamente di resistere al nazifascismo e conquistare, finalmente, la cittadinanza politica fino allora negata da una società maschilista. 63

A. BRAVO, A.M. BRUZZONE, In guerra senza armi. Storie di donne. 1940-1945, Roma-Bari, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 67. 64 M. PONZANI, Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico», Torino, Einaudi, 2012, p. 172.

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Sono trentacinquemila le donne inquadrate nelle formazioni combattenti e ventimila quelle con funzioni di supporto65, portano messaggi, medicine, cibo, giornali, armi, esplosivi, chiodi a tre punte; curano, stampano e sparano. Alcune di loro comandano. Le partigiane italiane sono parte attiva della Resistenza anzi, come ha detto Arrigo Boldrini, partigiano col nome di battaglia “Bulow”, «Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza»66. Spesso si legge “le partigiane hanno preso parte alla Resistenza”. No! Le partigiane sono state parte attiva dal punto di vista militare, logistico e politico, non ne hanno solo preso parte: esse, in quanto donne, «facevano politica senza separarla dalla vita»67. Molte di loro non hanno fatto mai più ritorno a casa. Tante sono tornate violate nel corpo e nell’anima68. Le partigiane sono state «la Resistenza dei resistenti», come ha detto il “Comandante Maurizio”, il partigiano Ferruccio Parri 69. Decidendo di partecipare alla lotta di liberazione dal nazifascismo, quando catturate, le partigiane si sono offerte a sacrifici dolorosi. Al pari degli uomini hanno subito grandi torture, spesso con l’aggiunta dell’oltraggio fisico: lo stupro. Le violenze sessualizzate sulle partigiane sono una modalità di azione usata in maniera quasi sistematica dagli uomini della Repubblica Sociale Italiana. Sono elargite al riparo da occhi indiscreti. Infatti, se le esecuzioni sono pubbliche (come quella avvenuta a Milano nel piazzale Loreto, il 10 agosto 1944, quando quindici partigiani sono uccisi per ritorsione per un attentato con due ordigni esplosivi contro

65

P. CASAMASSIMA, Bandite!, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, Viterbo 2012, p. 91. 66 Ivi, p. 7. 67 S. MAFFEO, Storia delle donne partigiane: fu una resistenza taciuta, in «Storia in Network», n. 89, marzo 2004, http://win.storiain.net/arret/num89/artic3.asp. 68 «683 le donne fucilate o cadute in combattimento; 1750 le donne ferite; 4633 le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti; 1890 le deportate in Germania». P. CASAMASSIMA, Bandite!, cit., p. 91. 69 In M. ALLOISIO, G. BELTRAMI GADOLA, Volontarie della libertà. 8 settembre 194325 aprile 1945, Mazzotta, Milano 1981, p. 121.

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un camion tedesco)70, le violenze sessualizzate si realizzano nelle caserme o nelle celle delle prigioni. Si tratta di colpire la partigiana per le sue specificità sovversive in tutti i sensi: in quanto donna innovatrice, perché con il suo atteggiamento immorale vuole stravolgere le norme tradizionali di genere condivise dai fascisti, entrando prepotentemente in uno spazio sessuato, maschile e politico; in quanto donna sediziosa, per essersi macchiata del reato di combattente contro un potere precostituito, sconfinando nella trasgressione e nell’azzardo. Per questo le violenze sessualizzate sulle partigiane sono ricche di significati. Non sono stupri di guerra in senso classico, ma tortura reiterata e riservata per carpire informazioni, per umiliare e, soprattutto, punire. Come ogni supplizio sono espressione fisica del dominio del torturatore in «una logica di cancellazione della vittima», perché «poter disporre del corpo significa poter disporre […] della sua condizione, dei suoi valori più cari»71. Attraverso lo stupro i carnefici riproducono il verbo fascista nella carne, per azzerare fisicamente, psicologicamente e culturalmente la partigiana, protocollando un potere. Non sono neppure pubblici, perché non servono per mandare messaggi ad altri, ma direttamente alla donna violata. Lo stupro fascista, dunque, come pratica pedagogica di esercizio politico attraverso il terrore. Per contro i partigiani non furono molto “teneri” con i fascisti e le fasciste, le spie e le amanti del nemico72. Se per il fascismo le violenze sessualizzate sono frutto di una violenza collettiva, nel caso dei partigiani sono frutto di violenze individuali, soprattutto vendette personali compiute per punire e come manifestazione di odio. … e la Resistenza non dimenticherà questo luogo, portando le salme del duce, della sua amante e di alcuni gerarchi fascisti. Furono tutti appesi alla pensilina di un distributore di benzina, non tanto in segno di scherno, quanto per permettere all’enorme folla accorta di vedere, ma anche per porre fine agli oltraggi ai cadaveri, fatti oggetto dalla folla di sputi e altre offese. Un prete vicino ai partigiani, don Pollarolo, chiuse con una spilla da balia la gonna di Claretta per impedire che si vedessero le mutande. 71 D. LE BRETON, Anthropologie de la douleur, Édition Métailié, Paris 1995, trad. it., Antropologia del dolore, Meltemi, Roma 2007, p. 196. 72 G. PANSA, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti, Rizzoli, Milano 2012. 70

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Se le esecuzioni pubbliche gestiste dai partigiani riguardano maggiormente fascisti di notevole caratura (gerarchi, capi locali), il linciaggio è spesso frutto non premeditato della rabbia popolare. Il più famoso esempio di linciaggio per rabbia popolare è stato quello di Donato Carretta, direttore del grande carcere romano di Regina Coeli. Il 18 settembre 1944 Carretta è in tribunale per testimoniare contro l’ex questore della città Pietro Caruso e del suo segretario Roberto Occhetto, alla sbarra con l’accusa di corresponsabilità in omicidi ma soprattutto della stesura, insieme con Kappler e Buffarini Guidi, della lista delle persone destinate a essere fucilate alle Fosse Ardeatine. Una donna, madre di un detenuto comune ucciso nel carcere, lo riconosce scatenando la folla. Insultato e afferrato con la forza è trascinato sulle rotaie del tram, ma il conducente del mezzo si rifiuta di passare sopra il corpo. La folla tenta di spingere il tram a braccia, ma l’autista, mostrando la sua tessera del Partito Comunista per non essere linciato a sua volta, aziona i freni e si allontana dal luogo con la manovella di frenata. Carretta è così gettato nel Tevere e, poiché annaspava ancora, è finito a colpi di remo. Il cadavere di Carretta è poi appeso a testa in giù a un’inferriata di Regina Coeli. 73. Ci sono tanti altri esempi, come questo raccontato nelle sue memorie militari da Norman Lewis, allora ufficiale appartenente all’intelligence del Field Security Office britannico durante la campagna d’Italia: A Cancello cinque soldati furono uccisi in una sorta di imboscata: “Li hanno attirati offrendo loro delle donne, poi del cibo e del vino che conteneva un veleno paralizzante. Quando erano ancora pienamente in sé li hanno prima evirati, poi decapitati”.74

In generale: Nella scelta dei luoghi, delle modalità dell’esecuzione, del trattamento inflitto ai corpi degli uccisi è evidente l’applicazione di una feroce legge del contrappasso: gli ex repubblichini muoiono dove sono

Cfr. G. RANZATO, Il linciaggio di Carretta. Roma 1944 – Violenza politica e ordinaria violenza, il Saggiatore, Milano 1997. 74 N. LEWIS, Napoli 1944, Adelphi, Milano 1994, p. 175. 73

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morti i partigiani, soffrono le stesse sevizie inflitte come carnefici, i loro cadaveri sono bruciati dove arsero le loro vittime 75.

Quindi, sempre in generale76, di frequente c’è

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una violenza tesa alla riparazione dei torti che si accompagna alla forma più elementare di giustizia, quella dell’occhio per occhio e dente per dente, più frequente quando l’atto di giustizia è eseguito dalla stessa persona che ha subìto i soprusi: […] facevano fare al fascista quello che il fascista aveva fatto fare a loro per vent’anni.77

Umiliare una donna per il solo fatto di essere una congiunta di qualche fascista (madre, moglie, sorella, fidanzata) è un riflesso del codice applicato dai fascisti nell’estendere la violenza anche sulle famiglie dei partigiani, mentre per le repubblichine, le spie e le amanti del nemico i significati cambiano: vanno dal principio di vendetta allo spirito d’odio, passando ovviamente per il carattere di punizione esemplare. Specifica forma di violenza contro le fasciste, le spie, le donne con familiari fascisti e, soprattutto, le amanti del nemico è, quando andava loro bene, quella della rapatura dei capelli, una pena applicata un po’ dappertutto nell’Europa occupata, spesso anticipata o seguita da percosse, insulti e da esposizione delle nudità: se i fascisti preferivano esporre pubblicamente il corpo giustiziato, la Resistenza esibisce il corpo vivo punito e umiliato. Per le repubblichine e le “donne dei fascisti” la rapatura dei capelli equivale a uno spietato rito collettivo di dileggio: «L’hanno tosata proprio vicino a casa mia. E poi buona grazia che le hanno solo tosato i capelli, perché se i fascisti prendevano i partigiani gli tagliavano la testa, mica i capelli»78. 75

G. DE LUNA, Il corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contemporanea, Einaudi, Torino 2006, p. 177. 76 Ci sono comunque, «situazioni in cui era difficile distinguere i confini tra la giustizia popolare, la vendetta e il linciaggio». Ibidem. 77 M. DONDI, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma 2008, p. 123 (orig. 1999). 78 Testimonianza di Ines Crisalidi, staffetta partigiana. In C. VENTUROLI, Guerra popolazione e partigiani a Sasso Marconi (1940/1945), Università di Bologna, Facoltà di Magistero, Tesi di laurea in Storia Contemporanea, a.a. 1994-95, p. 265, così cit. in M. DONDI, La lunga liberazione, cit. p. 127.

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Il vizio dello stupro

Per le amanti del nemico, invece, l’atto corrisponde a una punizione pubblica per «mettere in mostra la colpa»79. Non si tratta di punire una sessualità extraconiugale, considerata comunque tabù, ma di tradimento morale nei confronti della propria comunità.

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Moralità e politica si fondono quindi per espropriare le donne del proprio corpo. La punizione per la collaborazione di natura particolare richiede di fare affidamento sul reato di adulterio esteso dal contesto familiare a quello nazionale.80

Nell’eliminazione violenta del simbolo della femminilità, la «tosatura non fu tanto una punizione di una colpa sessuale, ma essa fu piuttosto una punizione sessuata della colpa»81. In entrambi i casi la rapatura dei capelli equivale a uno stupro simbolico, una profanazione del corpo per disonorare la vittima, marcando un Noi politico-nazionale da un voi moralmente traditore. I capelli sono considerati il simbolo esteriore della seduzione femminile, eliminando completamente i capelli a una donna si vuole renderla brutta, priva di femminilità, rendendo in questo modo pubblica la sua bruttezza morale celata. 6.6. I nazisti in Italia e le “mongolate” Durante la Seconda Guerra Mondiale sulle donne italiane si riversano violenze di tutti i tipi e su tutti i fronti. Le violenze si spostano man mano che si muove il fronte di guerra, uno spazio fragile e asservito alla ferocia degli eserciti.

79

Ivi. F. VIRGILI, Les « tondues » à la Libération: le corps des femmes, enjeu d’une réaproppriation, «Clio. Femmes, Genre, Histoire», n. 1, janvier 1995, p. 18, https://journals.openedition.org/clio/518. Lo storico Fabrice Virgili si riferisce alle donne rasate in Francia durante la Resistenza francese. 81 F. VIRGILI, La France «virile». Des femmes tondues à la libération, Payot, Paris 2000, p. 58. Anche in questo caso Virgili si riferisce alle donne rasate in Francia durante la Resistenza francese. 80

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Le violenze sessualizzate subite dalle italiane tra il 1943 e il 1945 hanno significati diversi nei differenti contesti militari: le brutalità sulle donne sono ora tragica appendice della guerra di annientamento nazista, ora mezzo di tortura nella guerra alle “bande partigiane”, ora oggetto di vendetta verso un popolo considerato traditore, ora bottino di guerra da parte degli occupanti. A seguito dell’accordo di armistizio firmato il 3 settembre del 1943 a Cassibile, nei pressi di Siracusa, e poi reso pubblico via radio dapprima dal generale statunitense Dwigth Eisenhower, poi il giorno dopo dal maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, gli italiani diventano per i nazisti dei traditori, mentre per gli Alleati restano complici del fascismo. Alle ostilità militari si aggiunge così una guerra ai civili. La politica repressiva tedesca contro la popolazione nelle sue campagne militari della Seconda Guerra Mondiale82 è attuata anche in Italia, sicuramente determinata dall’entrata in vigore, tra il settembre e il novembre 1943, della direttiva Merkblatt 69/183. Questa disposizione militare non è rivolta tanto alla presenza della ribellione civile, bensì è una misura per prevenirla: «la violenza sui non combattenti costituì la norma e non l’eccezione nella complessa interazione tra tedeschi, partigiani e popolazioni civili»84. A questo indirizzo generale si aggiunge la necessaria dimostrazione di forza dei tedeschi, intrisa d’odio e disprezzo, poiché trasformata in pregiudizio razziale verso gli italiani ormai ritenuti traditori. Insomma, parafrasando un titolo dello psicoanalista e filosofo statunitense James Hillman, il comportamento dei 82

Cfr. S. NEITZEL, H. WELZER, Soldaten, Protokolle von Kaempfen, Toeten und Sterben, S. Fischer Verlag, Frankfurt am Main 2011, trad. it. Soldaten. Combattere uccidere morire. Le intercettazioni dei militari tedeschi prigionieri degli Alleati, Garzanti, Milano 2012. Come già citato (in cap. VI, par. 1), lo storico Sonke Neitzel e lo psicologo sociale Harald Welzer attingono dai verbali desecretati dagli archivi inglesi e americani che riportano le intercettazioni delle conversazioni tra combattenti tedeschi detenuti nei campi di prigionia di Trent Park e Wilton Park, nel Regno Unito, e di Fort Hunt, in Virginia, Stati Uniti, scoprendo che quella combattuta dai soldati di Hitler è stata una “normalità criminale” di una guerra senza regole e senza rimorsi. 83 Kampfanweisung für die Bandenbekämpfung im Osten, le direttive di guerra per la lotta ai banditi ad est, emanate nel 1942 durante la guerra di conquista nell’Europa orientale, in pratica condurre una guerra d’annientamento. 84 E. MONTALI, Il comandante Bulow. Arrigo Boldrini partigiano, politico, parlamentare, Ediesse, Roma 2015, p. 42.

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nazisti è il frutto amaro di “un terribile amore per la vendetta”85: il tradimento è pagato a caro costo dagli italiani e dalle italiane. Ne segue una politica militare punitiva totale, con violenze di ogni tipo, con stragi, devastazioni e stupri86, come un altro documento militare, la Bandenkampf in der Operationszone Adriatische Kunstenland, suggerisce: “le nostre operazioni dovranno perciò superare ulteriormente la misura della totalità”»87. Man mano che i nazisti arretrano, poi, la sindrome dell’accerchiamento porta a reazioni sempre più radicali sul piano dei crimini di guerra, con una crescita esponenziale non solo delle uccisioni e delle violenze nei confronti dei civili, ma anche delle devastazioni e dei saccheggi. Le stragi e gli eccidi rispecchiano un criterio burocratico della condotta totalitaria di guerra, una morte che a volte è dispensata per ordine alfabetico, come testimonia l’eccidio di Cibeno, presso Carpi, del 12 luglio 1944: dalla fossa comune in cui furono gettati i corpi delle vittime riemersero secondo la successione in cui erano stati fucilati, in rigoroso ordine alfabetico: il corpo di Luigi Vercesi affiorò per primo, mentre l’ultima salma recuperata fu quella di Andrea Achille». 88

Le distruzioni rappresentano la politica della terra bruciata su un territorio comunque destinato a essere abbandonato definitivamente. Le ruberie possono inquadrarsi in generale con i bisogni dei soldati in guerra. Gli stupri, invece, non sono proprio giustificati da alcuna esigenza bellica, divenendo un sovrappiù di forza militare. Alle violenze sessualizzate, poi, spesso si aggiungono non solo la soppressione della vittima, ma anche altre uccisioni “collaterali”: 85

Cfr. J. HILLMAN, A Terrible Love of War, Penguin, New York 2004, trad. it. Un terribile amore per la guerra, Adelphi, Milano 2005. 86 Cfr. G. FULVETTI, P. PEZZINO (a cura di), Zone di guerra, geografie di sangue. L’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945), il Mulino, Bologna 2016. Cfr. anche Atlante delle stragi Naziste e Fasciste in Italia, in http://www.straginazifasciste.it/. Anche M. STRAZZA, Senza via di scampo, cit., pp. 89-101. 87 Cit. in E. MONTALI, Il comandante Bulow, cit. p. 42. 88 G. DE LUNA, Il corpo del nemico ucciso, cit., p. 144.

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In relazione ad abusi di carattere sessuale commessi da soldati tedeschi, per esempio, si giunse ripetutamente ad azioni violente e omicide, soprattutto quando i familiari o i vicini intervenivano per impedire lo stupro.89

Nei territori lungo il tragitto della ritirata gli stupri sono frutto dell’odio etnico e politico, l’ultimo oltraggio da infliggere alla donna del traditore; all’interno dei confini della linea Gustav90, e poi della Linea Gotica91, diventano invece strumento di tortura e di sottomissione92. In entrambi i casi le violenze sessualizzate si possono inquadrare all’interno della politica del terrore esercitata dai nazisti, una strategia per annientare il nuovo avversario a ogni livello, non solo sul piano fisico ma anche psicologico e morale. Tuttavia queste violenze non sono pianificate, anche se restano tollerate dai vertici militari: I violentatori erano prevalentemente soldati semplici e sottufficiali. In alcuni casi intervenivano gli ufficiali, ma fonti italiane dimostrano che nel caso di proteste e denunce delle vittime e dei loro familiari gli ufficiali difesero ripetutamente i propri soldati.93

89 Rapporto della Commissione storica italo-tedesca insediata dai Ministri degli Affari Esteri della Repubblica Italiana e della Repubblica Federale di Germania il 28 marzo 2009, in «Patria Indipendente. Periodico dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia», ins. al n. 1, gennaio 2013, p. 30. 90 È stata una linea difensiva costruita nel 1943 da cui i tedeschi potevano controllare le due vie di facilitazione per l’avanzata alleata su Roma: la valle del Liri e la linea litoranea. Il tratto più stretto della penisola italiana che si estendeva dalla foce del fiume Garigliano, al confine tra Campania e Lazio, fino a poco più sopra della foce del Sangro, presso il comune costiero di Ortona (Pescara). Il suo fulcro strategico era rappresentato da Cassino e dalla sua abbazia, che domina la via Casalina, una delle arterie principali della viabilità dell’area centro-meridionale della penisola. 91 È stata una linea difensiva costruita dai militari tedeschi nel 1944 per impedire che gli Alleati raggiungessero la Pianura Padana. Tagliava in due la penisola italiana grosso modo da Massa-Carrara a Rimini. 92 Cfr. T. BARIS, Tra due fuochi. Esperienza e memoria della guerra lungo la linea Gustav, Laterza, Bari-Roma 2003, pp. 3-92; G. RONCHETTI, La linea gotica. I luoghi dell’ultimo fronte in Italia, Mattioli 1885, Fidenza (Parma) 2009. 93 Rapporto della Commissione storica italo-tedesca insediata dai Ministri degli Affari Esteri della Repubblica Italiana e della Repubblica Federale di Germania il 28 marzo 2009, cit., p. 30.

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Il vizio dello stupro

Dall’agosto del 1944, e sino al maggio dell’anno seguente, sull’Italia si abbatte anche la furia dei cosiddetti “mongoli”. Sono le truppe legionarie cosacche e caucasiche della “Legione turkmena”, istituita il 20 aprile del 1942 e poi inserita nella CLXII divisione Turkestan della Wehrmacht. Ucraini, georgiani, calmucchi, uzbeki, azerbaigiani, karakalpachi, tartari, kirghisi, una marmaglia di poveri cristi che preferirono la dura guerra con Hitler ai terribili Gulag sovietici di Stalin, prendendo a cuore la politica militare nazista e seguendone scrupolosamente l’esempio. La divisione Turkestan ha già combattuto sul Don e in Polonia contro i partigiani. È con questa specializzazione che è inviata in Italia con un ordine di Hitler datato 10 ottobre 1943. La divisione, che risponde direttamente al Comado della Wehrmacht. combatte principalmente sul litorale adriatico, nelle province di Udine, Trieste, Gorizia, sono segnalati anche nel lecchese e sul lago Maggiore94. La guerra dei “mongoli” è carica di finalità repressive e di intimidazione, poiché intrapresa per eliminare la presenza dei partigiani nelle aree dell’occupazione tedesca. Non è un odio razziale, come quello dei nazisti, ma una diligenza militare che produce distruzione, saccheggi di ogni genere e, ovviamente, violenze sessualizzate. Tali violenze, che sono direttamente proporzionali al tasso alcolemico dei soldati coloniali, non furono riconducibili esclusivamente ad atti isolati di irragionevole aggressività attribuibili alla brutalizzazione della condotta umana dovuta al tempo di guerra o alla natura — così come è stata sovente definita — «animalesca» o «primitiva» dei soldati che perpetrarono tali crimini; […] Gli stupri furono, all’opposto, molto frequenti e, già dalle prime fasi dell’azione militare, non furono esclusivamente degli atti criminali pulsionali, ma assunsero le caratteristiche e la funzione di uno strumento di guerra.95 94

Cfr. C. JAMPAGLIA, M. PORTANOVA, Il fantasma dei mongoli, in «D i a r i o d e l M e s e », Anno VII n.1, 26 gennaio 2007, pp. 122-137. 95 F. VERARDO, «Offesa all’onore della donna». Le violenze sessuali durante l’occupazione cosacco-caucasica della Carnia 1944-1945, «Quaderni di Qualestoria», 36, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, Stella Arti Grafiche, Trieste 2016, pp. 7-8.

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VI. Sessismo e razzismo nella II Guerra Mondiale

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Le donne abusate sono etichettate come “mongolate” — come succede a quelle della Valle del Liri e del basso Lazio violate dalle truppe legionarie francesi, bollate come “marocchinate” — e discriminate, violando ancora la loro dignità di donne e il rispetto di vittime del dominio maschile. A fine guerra il destino dei “mongoli” è segnato: alla Conferenza di Jalta (febbraio 1945), Stalin ottiene dai britannici la promessa della consegna di tutte le truppe russe che avevano combattuto a fianco dei nazisti. Con l’“Operation Keelhaul” gli inglesi onorano l’impegno preso spedendo i “mongoli” in URSS. All’arrivo in Patria gli ufficiali sono subito giustiziati, gli altri finirono nei Gulag. 6.7. “Americanate” e “marocchinate” La lista delle violenze sulle donne durante la Seconda Guerra Mondiale non è finita, poiché coincide perfettamente con l’elenco di tutte le storie militari di questo conflitto. Se i “cattivi” della Seconda Guerra Mondiale si confermano di essere stati davvero molto cattivi, i “buoni”, i cosiddetti “liberatori”, non sono stati però così buoni. Infatti, man mano che il terrore nazista si allontana, ecco che arrivano le angherie alleate, un ricambio solo di divisa, ma le violenze restano sempre le stesse. Violenze sessualizzate sono state così elargite anche dai militari statunitensi in Inghilterra, Francia, Germania, Italia e Giappone; dai francesi in Germania e Italia. Lo storico statunitense James Robert Lilly, indagando sui documenti e sulle testimonianze conservate negli archivi dei tribunali militari americani, quantifica gli stupri commessi dai soldati statunitensi in 2.420 in Gran Bretagna, 3.620 in Francia e 11.040 in Germania. Ovviamente queste cifre riguardano solo i casi denunciati96. Nel suo lavoro lo storico rivela il volto oscuro dei cosiddetti “liberatori americani” durante il secondo conflitto mondiale. Cfr. J.R. LILLY, La Face Cachee Des GI’s. Les viols commis par des soldats americains en France, en Angleterre et en Allemagne pendant la Seconde Guerre mondiale, Poyot & Rivages, Paris 2003, trad. it. Stupri di guerra. Le violenze commesse dai soldati americani in Gran Bretagna, Francia e Germania 1942–1945, Mursia, Milano 2004. 96

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Il vizio dello stupro

I soldati statunitensi iniziano a stuprare già prima del loro sbarco in Normandia, quindi in un periodo di assenza di guerra guerreggiata e contro le donne di uno Stato amico. Stazionando in Inghilterra, infatti, i soldati statunitensi compiono intorno alle 2.500 violenze sessualizzate97, molte delle quali sono inflitte da afroamericani e da soggetti ubriachi. In assenza di motivazioni politiche, queste violenze sessualizzate possono inquadrarsi in spiegazioni sociologiche, dovute presumibilmente al generale “razzismo sociale” che da sempre permea la società statunitense: un processo psicologico che, imbevuto di una presunta superiorità su tutti gli altri popoli, determina autorità. Riguardo agli afroamericani si aggiunge probabilmente anche la fantasia di «possedere sessualmente una donna bianca»98, desiderio difficilmente raggiungibile in Patria. L’accusa ai soldati afroamericani, considerati i maggiori violentatori, sarà ripresa anche in altri teatri di guerra sul continente. Tuttavia, nelle brutte storie di violenze sessualizzate sulle donne europee, gli afroamericani sono stati il capro espiatorio di un comportamento che è stato molto più generale99. Nei confronti degli Stati nemici, a comportamenti uguali di molti soldati, corrispondono motivazioni diverse. In tutti i teatri di guerra, gli statunitensi sono i vincitori e molti soldati si sentono padroni in casa d’altri. Così la supremazia militare diventa per molti di loro pretesto per somministrare autorità con violenza100, anche sulle donne. La Francia è un Paese occupato e con un governo collaborazionista dei nazisti. Pertanto è uno Stato nemico. Per convincere i giovani americani a partecipare a una guerra che non è sentita come la loro, quindi in mancanza del sentimento della vendetta che avrebbe motivato i soldati, la propaganda erotizza il conflitto, presentando la Francia come il Paese delle damigelle belle che aspettano il coraggioso americano, accecando la libido dei soldati. Ma tali fantasie scatenano durante la reale guerra «un vero e proprio tsunami di lussuria maschile»101, 97

Cfr. ivi, p. 44. M. STRAZZA, Senza via di scampo, cit., pp. 130-131. 99 M.L. ROBERTS, What Soldiers Do. Sex and the American GI in World War II France, University of Chicago Press, Chicago 2013, pp. 197-198. 100 Cfr. T.J. KEHOE, E.J. KEHOE, Crimes Committed by U.S. Soldiers in Europe, 1945– 1946, «Journal of Interdisciplinary History», vol. 47, 1, 2016, p.53-84. 101 M.L. ROBERTS, What Soldiers Do, cit., p. 9. 98

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VI. Sessismo e razzismo nella II Guerra Mondiale

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con oltre 3.500 violenze sessualizzate, a cui si devono aggiungere quelle non denunciate. Così quando arrivano in Francia i giovani statunitensi si sentono cavalieri virili con il compito di salvare le damigelle in pericolo102. Alcuni di questi “cavalieri”, poi, pretendono a tutti i costi la razione della ricompensa, la giusta parte spettante da spartire con gli altri: «Agli occhi di molti soldati americani, le donne francesi erano poco più che sigarette – qualcosa che faceva parte delle razioni e che si poteva condividere»103. Diverse sono le motivazioni che sono alla base degli stupri statunitensi in Giappone. Qui c’è un discorso più razziale e vendicativo, amplificato dalla propaganda dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor (7 dicembre 1941) e in seguito alla comparsa dei cosiddetti kamikaze. Le atrocità compiute sui popoli asiatici sono attribuite al popolo giapponese nel suo insieme, e nell’insieme devono essere tutti puniti. “Remember Pearl Harbor” diventa anche lo slogan che motiva i soldati statunitensi nel combattere spietatamente i nemici del Sol Levante. Dopo lo sbarco ad Okinawa e nelle altre isole dell’arcipelago delle Ryūkyū i soldati statunitensi, per combattere le ultime resistenze giapponesi, iniziano a occupare villaggi. Qui trovano solo donne, bambini e anziani, che diventano oggetto di vendetta. L’accademico giapponese Yuki Tanaka calcola che, tra il 30 agosto e il 10 settembre 1945, si consumano ben 1.300 stupri nella sola prefettura di Kanagawa. Questo dato è indicativo della diffusione di queste violenze durante l’occupazione104. Scrive lo storico Oshiro Masayasu: Non appena i Marines degli Stati Uniti sbarcarono, tutte le donne della penisola Motobu caddero nelle mani dei soldati USA. All’epoca, vi erano solo donne, bambini e vecchi nel villaggio, dato che gli uomini e i giovani erano stati mobilitati per la guerra. Subito dopo lo sbarco i Marine rastrellarono l’intero villaggio non trovando però se102

Ivi, p. 59. G. WALTERS, The GIs who raped France: We know about the mass rape of German women by Stalin’s soldiers. Now a new book reveals American troops committed thousands of rapes on French women they were ‘liberating’, «Mailonline», 31 May 2013, https://www.dailymail.co.uk/news/article-2334204/The-GIs-raped-France-We-knowmass-rape-German-women-Stalins-soldiers-Now-new-book-reveals-American-troopscommitted-thousands-rapes-French-women-liberating.html. 104 Y. TANAKA, Hidden Horrors, cit., p. 103. 103

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Il vizio dello stupro

gni delle forze giapponesi. Sfruttando la situazione, cominciarono a “dare la caccia alle donne” alla luce del giorno e quelle che si erano nascoste nel villaggio o vicino ai crateri dei bombardamenti furono trovate una dopo l’altra.105

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Riporta lo storico Takemae Eiji Le truppe statunitensi si sono comportate come conquistatrici, specialmente nelle prime settimane e nei primi mesi di occupazione. I comportamenti scorretti andavano dal mercato nero, piccoli furti, guida spericolata e condotta disordinata al vandalismo, incendio doloso, omicidio e stupro […] Quando i paracadutisti statunitensi sbarcarono a Sapporo, ne seguì un’orgia di saccheggi, violenza sessuale e risse tra ubriachi. Gli stupri di gruppo e altre atrocità sessuali non erano infrequenti. Le vittime di tali attacchi, evitate come reiette, a volte si sono date disperatamente alla prostituzione; altre si sono tolte la vita piuttosto che portare vergogna alle loro famiglie. I tribunali militari hanno arrestato relativamente pochi soldati per questi reati e condannati ancora meno, e il risarcimento per le vittime è stato raro. I tentativi giapponesi di autodifesa furono puniti severamente [ma] i residenti locali formarono un gruppo di vigilanti e si vendicarono contro i GI fuori servizio.106

Terminata la guerra, gli Stati Uniti d’America si insediano stabilmente nell’isola Okinawa e ne restano in possesso sotto forma di protettorato fino al 1972 quando, con l’“Accordo di Reversione di Okinawa” (1971) è ceduta la sovranità nuovamente al Giappone. Gli USA, tuttavia, continuano ad avere basi militari senza cambiare il carattere tipico dei padroni, persistendo quindi nell’assumere atteggiamenti sprezzanti e umilianti nei confronti della popolazione civile Cit. in Y. TANAKA, Japan’s Comfort Women, cit., p. 111. E. TAKAMAE, Inside GHQ. The Allied Occupation of Japan and Its Legacy, Continuum, London 2002, p. 67. Nel 1998 in una grotta a nord di Okinawa sono stati ritrovati i resti di tre marine di 19 anni, uccisi da gruppo di abitanti del villaggio Katsuyama, ritenendoli di essere più volte andati al loro borgo per violentare le donne. Cfr. C. SIMS, 3 Dead Marines and a Secret of Wartime Okinawa, «New York Time», June 1, 2000, https://www.nytimes.com/2000/06/01/world/3-dead-marines-and-asecret-of-wartime-okinawa.html. 105 106

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VI. Sessismo e razzismo nella II Guerra Mondiale

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dell’isola.107. I soprusi in generale e le violenze contro le donne in particolare sull’isola sono così tanti, che si costituisce finanche un’associazione femminile contro la prepotente presenza militare statunitense, la Kichi guntai wo yurusanai kōdō suru onnatachi no kai, letteralmente l’“Associazione femminile contro le violenze dei militari delle basi americane”108. La spavalderia dei soldati statunitensi, sicuri dell’impunità, si mostra in tutta la sua drammaticità anche in Italia109. Ma non sono i soli. Tra i cosiddetti “liberatori”, i francesi sono però quelli ricordati più di tutti, poiché le loro truppe coloniali hanno scritto una pagina ignobile e oscena nella storia delle donne italiane. Le hanno chiamate “marocchinate” le donne violate dai soldati coloniali francesi, “marocchinata” è stata invece qualificata l’azione della violenza sessualizzata. Questo perché “marocchini” sono stati definiti i soldati coloniali francesi del Corps expeditionnaire francais, un corpo militare comandato del generale Alphonse Juin, formato da circa 130mila uomini, inquadrati in quattro Divisioni110, e caratterizzato dalla presenza di poco meno di 12mila soldati di origine marocchina I continui reati (dai furti agli stupri) da parte dei soldati dell’esercito statunitense non si sono mai fermati. Il più efferato crimine risale al 4 settembre 1995, quando una ragazzina di 12 anni è rapita, picchiata e violentata nel villaggio di Kin da tre militari statunitensi: due marines e un medico della marina. Cfr. R.D. ELDRIDGE, The 1995 Okinawa rape that shook U.S.-Japan ties, «The Japan Times», Sep 3, 2020, https://www.japantimes.co.jp/opinion/2020/09/03/commentary/japancommentary/okinawa-rape-incident-us-japan-relations/. Sulla indecorosa presenza statunitense sull’isola cfr. S. MATAICHI, Okinawa rivuole la sua terra, «Limes», n. 10, 2007 pp. 77-85. 108 Cfr. K. AKIBAYASHI, Okinawa Women Act Against Military Violence: An Island Feminism Reclaiming Dignity, «Okinawan Journal of Island Studies», 1, 2020, pp. 37–54. 109 Cfr. M. PORZIO, Arrivano gli alleati. Amori e violenze nell’Italia liberata, Laterza, Bari-Roma 2011, pp. 82-99; G. DI FIORE, Controstoria della Liberazione. Le stragi e i crimini dimenticati degli alleati nell’Italia del Sud, Rizzoli, Milano 2012. 110 La Divisione motorizzata “Francia Libera”, ultima ad arrivare in Italia (aprile 1944), composta da appartenenti alla legione straniera e da soldati provenienti dal Senegal, Camerun e da altri possedimenti francesi; la 2 a Divisione fanteria marocchina; la 3a Divisione composta da militari algerini e tunisini; la 4 a Divisione formata si unifica con la Divisione di montagna composta da marocchini provenienti dalle montagne dell’Atlante, in Marocco. Cfr. I. BOURNIER, M. POTTIER, Paroles d'indigènes. Les soldats oubliés de la Seconde Guerre mondiale, Librio, Paris 2006, p. 37. 107

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Il vizio dello stupro

ed algerina specializzati nella guerra di montagna. Quest’ultimi sono organizzati in piccoli raggruppamenti chiamati goum, da qui il loro nome goumiers nell’accezione francese:

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Agiscono come una marea su una fila di castelli di sabbia. Sono capaci di spingersi ad ondate su un massiccio montano dove truppe regolari non riuscirebbero mai a passare. Attaccano in silenzio qualsiasi avversario si presenti, lo distruggono e tirano via senza occuparsi di quel che accade a destra o a sinistra. Hanno l’abitudine di riportarsi indietro la prova delle vittime uccise; perciò sono nemici con cui non è piacevole aver a che fare.111

Così descrive queste truppe Fred Majdalany, un giornalista inglese che partecipa alla battaglia di Cassino come ufficiale di fanteria. Per l’abilità militare di adattarsi alla conformazione del terreno e la temerarietà nel combattimento, ai goumiers è affidato il compito di conquistare la dorsale montuosa dei Monti Aurunci, per permettere alle truppe anglo-americane l’aggiramento della rocca di Cassino, tenacemente difesa dai paracadutisti tedeschi, e lo sfondamento della linea Gustav, aprendo così all’esercito alleato la strada per Roma. Il loro coraggio è tuttavia pari alla crudeltà con cui combattono e alle razzie che sono capaci di mettere in atto dopo la battaglia. La crudeltà dei “marocchini” è preannunciata agli italiani dai tedeschi, che consigliano di mettere al sicuro specialmente le donne. Questo «lasciò increduli» gli italiani, perché «aspettavamo gli americani»112. Il partigiano e storico ciociaro Bruno D’Epiro racconta che già prima della battaglia di Esperia un ricognitore tedesco aveva lanciato sui monti Aurunci volantini che incitavano la popolazione a fuggire dalle prevedibili violenze delle truppe nordafricane113. 111

F. MAJDALANY, The Battle of Cassino, Cassell, London 1957, trad. it. La battaglia di Cassino, Garzanti, Milano 1974, p. 283. 112 Cfr. F. ALBANI, Gli stupri di Lenola. Microstoria di efferatezze su civili inermi che attende ancora di entrare nella “grande” storia d’Italia, «Studi Cassinati», anno III, n. 4, ottobre-dicembre 2003, p. 276. 113 Cfr. B. D’EPIRO, Linea Dora – La battaglia di Esperia (15-17 maggio 1944), «DVAC. Dal Volturno a Cassino» http://www.dalvolturnoacassino.it/asp/doc.asp?id =002.

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VI. Sessismo e razzismo nella II Guerra Mondiale

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L’avvertimento si concretizza al termine della battaglia di Cassino, quando i goumiers si abbandonano ad assassinii, razzie e stupri in gran quantità. Si racconta che i “marocchini” abbiano avuto carta bianca sulla popolazione civile dal loro generale Alphonse Juin che, attraverso un annuncio in forma di volantino, li avrebbe premiati permettendo loro ogni abuso per cinquanta ore: Il vostro generale vi annuncia, vi promette solennemente, vi giura, sul suo onore di soldato e sulla bandiera della Francia, che si alza, per l’ultima volta, il sole sulle vostre sofferenze, sulle vostre privazioni, sulla vostra fame. Oltre quei monti, oltre quei nemici che stanotte ucciderete, c’è una terra larga… ricca di donne, di vino, di case. Se voi riuscirete a passare oltre quella linea senza lasciare vivo un solo nemico, il vostro generale vi promette, vi giura, vi proclama che quelle donne, quelle case, quel vino, tutto quello che troverete sarà vostro, a vostro piacimento e volontà. Per 50 ore. E potrete avere tutto, prendere tutto, distruggere o portare via, se avrete vinto, se ve lo sarete meritato.

Tuttavia non è stata ritrovata al momento alcuna fonte documentata di questa disposizione, ma ne circolano tante nelle più disparate versioni. È improbabile che il generale Juin abbia messo per iscritto un documento che viola le leggi francesi e le convenzioni internazionali114. Un conto è soprassedere e un altro apporre una firma in calce a un proclama contro le leggi francesi e internazionali. È bastato solo “chiudere temporaneamente entrambi di occhi” per permettere ai “marocchini” l’effettuazione di efferati crimini. Di vero, però, ci sono solo le uccisioni, le numerose violenze sessualizzate e le grandi razzie in danno a civili disarmati: alla violenza collettiva della guerra di liberazione, si aggiunge una impressionante violenza individuale dei soldati francesi. Queste iniziarono ancor prima della battaglia di Cassino, in Sicilia, e continuarono anche dopo, in Toscana, maggiormente sull’isola dell’Elba. La convenzione dell’Aja del 1899 e quella del 1907 sul diritto bellico per la disciplina della guerra terrestre e marittima. Uno dei principali risultati di queste conferenze riguarda il principio che i belligeranti non dispongono di un diritto illimitato nella scelta dei mezzi per colpire il nemico e che i soldati messi fuori combattimento e i civili devono essere risparmiati da ogni atrocità. 114

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Il vizio dello stupro

Il comportamento dei goumiers ha infatti una escalation di violenza sfrenata e incontrollata man mano che risalgono l’Italia, sino a Cassino, dove esplode probabilmente per rabbia contro i nazisti che hanno decimato le truppe, per risentimento nazionale per aver dichiarato guerra alla Francia, per vendetta contro gli italiani alleati ai tedeschi, per livore in quanto ritenuti perfidi colonizzatori in Africa:

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Il 17 maggio, i soldati americani che passavano da Spigno [Saturnia (Latina)] sentirono le urla disperate delle donne violentate: al sergente Mc Cormick che chiedeva cosa fare, il sottotenente Buzick rispose: «Credo che stiano facendo quello che gli italiani hanno fatto in Africa»115.

Dopo Cassino, maggiormente nelle zone di Esperia e Ausonia, in provincia di Frosinone, si registra un trionfo della barbarie contro gli italiani e le italiane: i soldati coloniali francesi uccidono, razziano e violentano circa 60mila donne e bambine, dagli otto agli ottant’anni, obbligando a volte padri e mariti ad assistervi. Anche alcuni maschi sono oggetto di violenze sessualizzate, tra cui pure un sacerdote, don Alberto Terrilli, parroco di Santa Maria di Esperia116. Gli stupri che si sono consumati in Italia da parte dei soldati coloniali francesi possono essere inquadrati in un’ottica classica di “bottino di guerra”, a cui si aggiunge vendetta e odio nei confronti degli italiani. Di questo ne è convinto anche l’allora comandante generale dei carabinieri Taddeo Orlando, quando riferisce al governo sulle vicende legate alle violenze in generale e agli stupri in particolare in Toscana: queste truppe si abbandonavano, verso le popolazioni dell’isola, ad ogni sorta di eccessi, violentando, rapinando, depredando paesi e case coloniche, razziando bestiame, vino, ed uccidendo coloro che tentavano opporsi ai loro arbitri. Dettero l’impressione alla popolazione atterrita di voler sfogare un profondo sentimento di vendetta e di odio. 117 115

G. DE LUNA, Il corpo del nemico ucciso, cit., p. 137; M. STRAZZA, Senza via di scampo, cit., p. 110. 116 Cfr. E. CIOTTI, Il dossier segreto dei crimini francesi. Dove tutto ebbe inizio. Le «marocchinate», 2 voll., Youcanprint, Lecce 2020. 117 Cfr. G. PARDINI, L’occupazione francese dell’isola d’Elba (giugno 1944), «Nuova storia contemporanea», settembre-ottobre 2007, n. 5, p. 47.

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VI. Sessismo e razzismo nella II Guerra Mondiale

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Con la vittoria, i soldati francesi si erigono dunque a dominatori assoluti, padroni di ogni cosa dei vinti. Le loro violenze sessualizzate sono selvagge e indiscriminate, probabilmente frutto della cultura maturata nei loro territori di origine:

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L’itinerario copulatorio del giovane maghrebino d’origine campagnola comincia spesso nei lombi delle bestie che è incaricato di portare al pascolo; […] La sessualità degli uomini si riverserà all’esterno e perciò si ispirerà alla vita degli animali […] la via anale sembra costituire uno sfogo assai diffuso, che permette al desiderio maschile di esprimersi liberamente.118

La furia dei soldati del Corps expeditionnaire francais si arresta nell’ottobre del 1944 alle porte di Firenze, quando, probabilmente per la consapevolezza dei crimini di cui si erano macchiati, il corpo di spedizione francese è trasferito in Provenza. Per i francesi i goumiers sono gli eroi dell’importante battaglia di Cassino, per le donne marocchinate restano però eroi maledetti. A queste donne, travolte dalla storia, non è restato altro che «rimuovere l’orrore assolutizzandolo»119.

M. CHEBEL, L’esprit de sérail. Perversions et marginalités sexuelles au Maghreb, Lieu commun, Paris 1988, pp. 35-36, trad. it. La cultura dell’harem. Erotismo e sessualità nel Maghreb, Bollati Boringhieri, Torino 2000. 119 T. BARIS, Tra due fuochi, cit., pp. 100. 118

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Capitolo VII

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Lo stupro come strumento politico e di dominio

7.1. Le dittature latinoamericane: lo stupro come strumento politico Nella “pace calda” protrattasi nel periodo della cosiddetta Guerra fredda le violenze sessualizzate diventano un’arma politica per estorcere informazioni, relegare al silenzio o semplicemente per mostrare autorità. In quest’ottica, nei regimi latinoamericani della seconda metà del Novecento, le donne sono destinatarie particolari del surplus di violenza di genere. Nel corso degli anni Settanta regimi militari prendono progressivamente il potere in tutto il Cono Sud del continente americano. I “nuovi padroni” controllano non solo la vita politica dello Stato, ma anche quella sociale del Paese, differenziandosi dalle altre dittature che si succedono dall’inizio del Novecento per durata e intensità dei metodi repressivi1. Utilizzando l’arma della repressione, facendo permeare il puro terrore in ogni angolo, queste dittature riescono a imporre l’oblio in tutto il corpo sociale attraverso una “guerra sucia” (guerra sporca) contro ogni forma di opposizione civile2. La struttura del potere repressivo comune di queste dittature, sostenute dagli Stati Uniti d’America e coordinate dalla sua Central Intelligence Agency (CIA) Quando l’America Latina si libera dal dominio spagnolo e portoghese inizia una sequela di conflitti tra i diversi Stati. Ne segue instabilità politica ed economica diffusa. In questo quadro si rafforza il potere dell’esercito. Così nella storia del subcontinente americano seguono frequenti colpi di Stato militari. 2 Cfr. W. ANSALDI, V. GIORDANO (coord), América Latina. Tiempos de violencias, Ariel, Buenos Aires 2014. 1

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Il vizio dello stupro

attraverso l’Operación Cóndor3, ha concepito un’attività di violenza biopolitica verso il corpo sociale dei rispettivi Paesi: non solo un potere politico repressivo contro qualsiasi oppositore, ma una vera e propria custodia sociale su tutta la propria popolazione in generale. Tra i vari meccanismi repressivi utilizzati, l’omicidio politico, la desaparición forzada (sparizione forzata) e i Centros clandestinos de detención (centri clandestini di detenzione) sono quelli che accomunano queste feroci dittature4. Se l’omicidio politico è lo strumento di cui si servono i regimi per eliminare personaggi famosi ritenuti scomodi (sia residenti sia espatriati), la desaparición forzada riguarda semplici cittadini inghiottiti per sempre dalla politica attraverso una modalità perfetta: nessun testimone, nessun carnefice e, soprattutto, nessun corpo della vittima5. Il termine desaparecido è usato per la prima volta nel 1980 dal generale Jorge Rafael Videla Redondo, dittatore de facto dell’Argentina dal 1976 al 1981: egli, durante una conferenza stampa in Venezuela, in risposta alle pressioni dei giornalisti riguardo la sorte degli oppositori scomparsi, risponde: «no están ni vivos ni muertos; están desaparecidos» (non sono né vivi né morti: sono spariti)6. Lo stesso generale, in un’intervista rilasciata al giornalista Ceferino Reato dalla prigione federale di Campo de Mayo in cui era rinchiuso, spiega il perché è stata adottata questa soluzione: «non potevamo fucilarli» tutti «e nemL’Operación Cóndor è stata un coordinamento tra gli organi di repressione di Argentina, Paraguay, Uruguay, Brasile, Perù e Cile, con il coinvolgimento della CIA e di gruppi di esiliati cubani, per stroncare l’opposizione politica e il “cancro comunista e socialista”, attraverso sequestri, torture e assassinii. Cfr. S. CALLONI, Operación Cóndor, pacto criminal, La Jornada, Ciudad de México 1999, trad. it. Operazione Condor. Un patto criminale, Zambon, Milano 2010; L. ROSSI, F. CANTONI, Operazione condor. Storia di un sistema criminale in America Latina, Castelvecchi, Roma 2018. 4 Cfr. C. FIGUEROA IBARRA, Dictaduras, tortura y terror en América Latina, «Revista Bajo el Volcán», Benemérita Universidad Autónoma de Puebla, Puebla (México), vol. 2, n. 3, 2001, pp. 53-74; W. ANSALDI, V. GIORDANO (coord), América Latina. Tiempos de violencias, Ariel, Buenos Aires (Argentina) 2014. 5 Cfr. A.L. MOLINA THEISSEN, La desaparición forzada de personas en América Latina, «Progetto Desaparecidos», http://www.desaparecidos.org/nuncamas/web/inve stig/biblio_theissen_01.htm. 6 J.A. GALVÁN, Latin American Dictators of the 20th Century. The Lives and Regimes of 15 Rulers, McFarland, Jefferson (North Carolina) 2013, p. 160. 3

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VII. Lo stupro come strumento politico

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meno affidarli all’autorità giudiziaria», così per «non provocare reazioni e proteste dentro e fuori dal Paese, si giunse alla decisione di far sparire tutta questa gente» e «ogni scomparsa può certamente essere intesa come mascheramento, dissimulazione, di una morte»7. Dunque una modalità perfetta per ridurre il numero degli oppositori, veri o presunti: La presenza del corpo, infatti, avrebbe testimoniato il compimento del ciclo della repressione, producendo reazioni negative nell’opinione pubblica mondiale, mentre la sua mancanza non avrebbe reso evidente il crimine, creando ambiguità sulla sorte della vittima e impedendo riconoscimento del carnefice. L’incertezza sulla reale fine di un familiare, inoltre, avrebbe reso i suoi familiari più docili per non inimicarsi il regime, scongiurando un verdetto di morte. 8

I “centri clandestini di detenzione” sono carceri, stazioni di polizia, edifici pubblici, ville e altri spazi privati (abitazioni, garage) in cui i “sovversivi”, veri o presunti, dopo essere stati prelevati per strada o nelle loro abitazioni, sono condotti per essere interrogati e allontanati dalla vita pubblica. Il concetto di sovversione è definito in maniera molto ampia, includendo in questa categoria non solo gli oppositori politici, ma chiunque si ribella all’ordine sociale imposto dai vari regimi. È proprio nei Centros clandestinos de detención che si consumano brutalità che segneranno per sempre le persone che sono riuscite a sopravvivere. Tra queste violenze, quelle sessualizzate sono la norma, una routine rabbiosa per imporre un doppio potere: politico e patriarcale. Le dittature latinoamericane descrivono il carattere maschile del potere attraverso strutture oppressive e gerarchiche. In una società dove per definizione la politica è maschile, le donne non devono oltre7

In C. REATO, Disposición final. La confesión de Videla sobre los desaparecidos, Editorial Sudamerica, Buenos Aires 2012, pp. 2 e 56. Disposición final, era il termine che designava la “soluzione finale” destinata agli oppositori del regime argentino: nell’ambito militare significa liberarsi, smantellare qualcosa di inservibile. Ivi, p. 1. 8 R. PATERNOSTER, La politica del male. Il nemico e le categorie politiche della violenza, Tralerighe, Lucca 2019, p. 243.

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Il vizio dello stupro

passare il ruolo assegnato, sconfinando in un campo in cui non è permesso loro sostare. Infatti, trasversale all’ideologia politica è la matrice patriarcale della società già presente ancor prima dell’avvento delle dittature. Il preesistente e ramificato maschilismo acquisisce una nuova valenza, quella politica. I regimi si appropriano delle dinamiche già esistenti nei rapporti maschio–femmina e uomo–donna trasformando la violenza sulle donne da domestica in pubblica. In un’ottica moralizzatrice, basata su valori cattolici, le dittature assumono dunque anche il compito di preservare a tutti i costi un ordine sessuale “tradizionale”, in cui la donna ricade solo nei suoi aspetti materni (procreativi e di cura), di dedizione e di obbedienza alla volontà del maschio di casa. In quest’ottica, l’esordiente modello femminile protagonista che timidamente emerge negli anni Sessanta, che prospetta l’emancipazione delle donne attraverso la richiesta di intervento nello spazio sociale e politico (indipendenza personale, partecipazione politica, richiesta di lavoro retribuito come mezzo di realizzazione personale delle donne, sessualità libera), è considerato dai regimi un’eresia da soffocare. Le donne che non vogliono piegarsi al modello tradizionale antropocentrico difeso dai regimi, che nega loro autodeterminazione, autonomia e soggettività, diventano doppiamente trasgressive: eversive dei valori politici instaurati, sovversive dei valori sociali da tempo esistenti. La donna, attraverso il suo corpo, diventa luogo stesso dello scontro politico-sociale e le violenze a loro riservate rientrano in un doppio meccanismo che normalizza la subalternità del genere femminile al potere maschile e garantisce la soggezione all’autorità politica costituita. In quest’ottica si spiega la qualità delle violenze riservate alle donne: dall’incarcerazione abusiva alle torture classiche, dallo stupro vero e proprio ai supplizi sessuali9. La detenzione si configura come un’attività repressiva e preventiva, mentre le torture classiche servono a “far parlare” il prigioniero; lo stupro e le torture sessuali, invece, rivolgendosi alla sfera del sesso ricordano alle vittime qual è il posto che il corpo femminile ha in un ordine tutto maschile, ostentando in9 Cfr. K. BILBIJA, A. FORCINITO, B. LLANOS, Poner el cuerpo. Rescatar y visibilizar las marcas sexuales y de género de los archivos dictatoriales del Cono Sur, Editorial Cuarto Propio, Santiago (Chile) 2017.

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VII. Lo stupro come strumento politico

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tenzioni distruttive per il fisico e la psiche, quindi sono utilizzate per “far tacere” per sempre. Dunque, prigionia e tortura in un’ottica di educazione politica, stupri e supplizi sessuali in una prospettiva di rieducazione sociale. Il menù dei supplizi non è perciò casuale: nudità forzata, uso della corrente nelle zone erogene, stupri da parte dei carcerieri con violazione in tutte le sue varianti (penetrazione orale, vaginale, anale), violazioni sessuali di fronte ai parenti per costringerli a parlare, introduzione di oggetti nell’ano o nella vagina (canne di fucili o di pistole, bottiglie, bastoni e così via), introduzione di ragni, ratti o insetti, costrizione a fare sesso con cani addestrati10. Queste crudeltà a volte sono rivolte anche agli uomini, con l’obiettivo di femminilizzarli, quindi di degradarli intaccando il loro status di uomini. Tutto questo è sistematico, pianificato ed esteso, una pratica statale istituzionale utilizzata in un’ottica di repressione totale del dissenso politico-sociale. Le vittime di questi supplizi appartengono a due diverse categorie: ci sono le sovversive certe (le militanti attive) e le potenziali sediziose (le simpatizzanti, le compagne, figlie o sorelle di oppositori). A inizio di ogni dittatura le percentuali relative alle donne vittime della repressione sono modeste rispetto alla controparte maschile, questo perché la partecipazione femminile è più bassa rispetto a quella degli uomini. Tuttavia se rapportiamo questa percentuale al numero complessivo delle donne rivoluzionarie violate l’indice diventa alto. Inoltre, nel corso delle dittature il numero delle donne che si ribellano aumenta man mano che i “loro” uomini sono inghiottiti dalla repressione. In Perù, alle violenze sessualizzate di Stato si aggiungono anche quelle dei guerriglieri dei due maggiori gruppi rivoluzionari, il “Movimento Rivoluzionario Tupac Amaru” e il “Partito Comunista del Perù sul sentiero luminoso di Mariátegui”. Secondo la Comisión de la Verdad y Reconciliación11, le violenze sessualizzate perpetuate dai guerriglieri rivoluzionari sono state frutto di azioni individuali e spon10

Cfr. Informe de la Comisión Nacional sobre Prisión Política y Tortura, 2004, p. 278. È un resoconto ufficiale degli abusi commessi in Cile tra il 1973 e il 1990 dagli agenti del regime militare di Augusto Pinochet. 11 È un comitato istituzionale costituito nel giugno 2001 dal presidente provvisorio Valentín Paniagua, incaricato di preparare un rapporto sul terrorismo vissuto in Perù nel periodo tra il 1980 e il 2000.

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Il vizio dello stupro

tanee, seppur spesso condivise sia dai vertici sia dalla base, che si realizzano essenzialmente nel contesto delle incursioni, ma anche negli scontri tra gli stessi gruppi rivoluzionari. In quest’ottica, le violenze si inquadrano soprattutto nel preesistente e ramificato maschilismo. Le violenze sessualizzate messe in atto da parte degli uomini dello Stato (forze armate, forze di sicurezza, gruppi paramilitari), invece, se dapprima non sembrano essere pianificate, dal 1992, con l’approvazione delle leggi antiterroristiche volute dal presidente “autogolpista” Alberto Kenya Fujimori Inomoto, diventano parte integrante della strategia repressiva, che ha previsto l’impunità per gli autori12. La Comisión de la Verdad y Reconciliación attribuisce le responsabilità delle violenze per il 46% a Sendero Luminoso, per il 30% allo Stato, mentre il 24% ad altri agenti (Tupac Amaru, gruppi paramilitari, ronde contadine, comitati di autodifesa, agenti non identificati)13. Come negli altri regimi, queste violenze rientrano nella soggezione totale, politica e sociale, all’autorità costituita14. Anche in Colombia, nel conflitto che persiste nel Paese da più di cinquant’anni, le violenze sessualizzate sono elargite da tutti gli attori della guerra civile. Protagonisti del conflitto, oltre alle forze statali e parastatali, sono principalmente le “Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia-Ejército del Pueblo” (FARC-EP) e l’“Ejército de Liberación Nacional” (ELN). In seguito si aggiungono anche i potenti “cartelli” della droga. Secondo i dati a disposizione del Centro Nacional de Memoria Histórica colombiana, le violenze sessualizzate sono maggiormente elargite dai gruppi paramilitari che combattono la guerriglia (32,2% delle violenze), seguono i guerriglieri rivoluzionari, che la usano anche con 12

Cfr. Comisión de la Verdad y Reconciliación, Informe Final, Lima, 2003, in www.cverdad.org.pe/ifinal/indice.php. 13 Comisión de la Verdad y Reconciliación, Informe Final, Anexo 2: Estimación del total de víctimas, Lima, 2003, p. 13, http://www.cverdad.org.pe/ifinal/pdf/Tomo%20%20ANEXOS/ANEXO%202.pdf 14 Cfr. Comisión de Derechos Humanos, Violaciones sexuales a mujeres durante la violencia política en el Perú, «Revista Democracia y Derechos Humanos», Lima 2003; E.C. ALVITES ALVITES, L.M. ALVITES SOSA, Mujer y violencia política. Notas sobre el impacto del conflicto armado interno peruano, «Feminismo/s», 9 junio 2007, pp. 121-137.

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VII. Lo stupro come strumento politico

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le donne reclutate nei loro gruppi (31,5%), poi altri attori armati, tra cui gli agenti dello Stato (1,3%)15. Le violenze sessualizzate in Colombia durante la guerra civile non sembrano essere attuate come tattica sistematica militare, ma sono piuttosto la trasposizione della violenza privata in uno spazio pubblico. La violenza familiare contro le donne in Colombia è infatti da sempre un’emergenza sociale, deriva da concezioni profondamente radicate sul significato di mascolinità e femminilità16. Le violenze sessualizzate così servono per disciplinare le proprie donne, per offendere i maschi nemici, per spargere terrore nella popolazione. Stupri e torture sessuali come “disciplina di genere” e “ammaestramento politico” restano pratiche radicate nella storia del continente latinoamericano, utilizzate ancora oggi ogni qualvolta un potere è messo in discussione17.

7.2. Guatemala: la mujere arrasada Restando sempre in America Latina, il livello di violenza e la sua durata rendono il Guatemala un caso speciale. In questo Paese, in un conflitto interno che dura trentasei anni, le violenze contro le donne, dal femmicidio alle grandi aberrazioni sessualizzate, sono state compiute anche in un’ottica antropologica: inter15

R. MARTÍNEZ MONTOYA (coord), La Guerra Inscrita en el Cuerpo: Informe Nacional de Violencia Sexual en el Conflicto Armado Colombiano, Centro Nacional de Memoria Histórica, Bogotá D.C. (Colombia) 2017, pp. 481-482, in «Centro de Memoria Historica», http://www.centrodememoriahistorica.gov.co/descargas/infor mes-accesibles/guerra-inscrita-en-el-cuerpo_accesible.pdf 16 Cfr. R. COOMARASWAMY , Informe de la Misión a Colombia de la Relatora Especial sobre la Violencia contra la Mujer, Comisión de Derechos Humanos de Naciones Unidas, E/CN.4/2002/83/Add.3, 2002, in «UNHCR-ACNUR», https://www.acnur.org/fileadmin/Documentos/BDL/2002/1529.pdf 17 Cfr. M.L. KROOK, J. RESTREPO SANÍN, Género y violencia política en América Latina. Conceptos, debates y soluciones, «Política y gobierno», vol.23, n.1, 2016, pp. 127-162; Aa. Vv., Historias de violencia hacia las mujeres en la política en América Latina, «ONU Mujeres», 2019, https://www2.unwomen.org/-/media/field%20office% 20americas/documentos/publicaciones/2020/05/unw_web_testimoniosdeviolenciapoli tica.pdf?la=es&vs=5519.

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Il vizio dello stupro

rompere la trasmissione biologica e culturale della popolazione indigena, cancellando il loro passato e presente, invalidando il loro futuro. Tutto inizia nel 1954 con la deposizione del Presidente della Repubblica democraticamente eletto Juan Jacobo Arbenz Guzman, promotore di una riforma agraria che colpisce gli interessi dei grandi latifondisti e delle imprese nordamericane, tra cui la potente United Fruit Company. Questo spiega il sostegno finanziario e logistico della CIA che, attraverso l’azione paramilitare denominata “PBsuccess Operation”, rimpiazza il deposto presidente con il governo dittatoriale del generale Carlos Castillo Armas, il primo di una lunga serie di regimi autoritari conservatori appoggiati dagli USA18. L’opposizione popolare e la nascita della guerriglia, porta il Paese nel 1960 a una guerra civile che si protrae per trentasei anni, fino al 1996. Da una parte ci sono le forze dello Stato e i gruppi paramilitari, entrambi sostenuti dagli USA, dall’altra i gruppi guerriglieri: entrambi si abbandonano all’uso indiscriminato della violenza, seppur con responsabilità diverse. Infatti, le due commissioni sulla verità storica costituite dopo gli accordi di pace del 1996, la Comisión para el Esclarecimiento Histórico a las Violaciones a los Derechos Humanos y Hechos Violencia que han causado sufrimientos a la población guatemalteca (CEH – istituita mediante l’Accordo di Oslo del 23 giugno 1994 per chiarire con obiettività, equità e imparzialità le violazioni dei diritti umani e gli atti di violenza che hanno causato sofferenza alla popolazione guatemalteca durante il conflitto interno)19 e la Comisión para el Esclarecimiento Histórico (attivata nel 1996 dall’arcivescovato di Guatemala City con il suo Ufficio Diritti Umani)20, con margini di differenza minimi, fanno ricadere le responsabilità delle atrocità Cfr. R. MARTELLA, Gli Stati Uniti e il Guatemala. L’operazione PBSUCCESS (1953-1954), «Eunomia», n. 2, 2013, pp. 311-346. 19 La Commissione non ha natura processuale penale, ma investigativa. Nel 1998 conclude i suoi lavori pubblicando l’anno dopo Guatemala Memoria del Silencio, in «Centro Nacional de Memoria Histórica», http://www.centrodememoriahistorica.gov. co/descargas/guatemala-memoria-silencio/guatemala-memoria-del-silencio.pdf 20 Il progetto della Chiesa guatelmateca ha coinvolto undici diocesi del Paese e si conclude con la pubblicazione di Guatemala: Nunca Más, Informe Proyecto Interdiocesano de Recuperación de la Memoria Histórica, 4 voll, 1998, in «Derechos Humanos», http://www.derechoshumanos.net/lesahumanidad/informes/guatemala/informe REMHI-Tomo1.htm 18

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VII. Lo stupro come strumento politico

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contro i civili, soprattutto quelle rivolte contro le comunità indigene maya, per un 93% sugli agenti dello Stato, per un 3% sui gruppi guerriglieri e un 4% su responsabili non identificati. Il potere guatemalteco individua nel gruppo maya dell’Altopiano la base sociale del movimento di guerriglia. Per questo la popolazione maya è assimilata all’oppositore politico e violentemente perseguitata. La CEH ha infatti stabilito che, tra le vittime pienamente identificate, l’83% erano maya e il 17% ladine21. Se il motore che ha azionato la macchina repressiva è politico, esso si è alimentato anche di razzismo e sessismo. Così, se l’anticomunismo ha permesso la vessazione anche verso chi era solo sospettato di simpatie socialiste e il maschilismo a riprodotto tutte le forme di violazione dei diritti umani, il razzismo invece ha ridotto una maggioranza (i popoli discendenti maya) in una minoranza, scardinando pure la loro forte coesione identitaria e la loro alta resistenza comunitaria. Nelle intenzioni del regime, infatti, la maggioranza della popolazione maya deve essere eliminata: si inizia con l’uccisione individuale di leader politici delle comunità e delle loro guide spirituali, per distruggere le basi organizzative; si passa all’abbattimento degli elementi socio-culturali (villaggi, simboli sacri, strumenti del lavoro, vestiti tipici), per smantellare il patrimonio storico-sociale dei maya; infine si compiono una serie di massacri, sia selettivi (contro persone in armi) sia indiscriminati (verso la popolazione civile), per completare lo sterminio. È durante la campagna militare iniziata sotto la presidenza di Lucas García (1978-1982), poi proseguita e ampliata sotto la presidenza di Ríos Montt (1982-1983), che si registra il maggior numero di massacri e di violazioni dei diritti umani contro i maya, considerati indegni di possedere terre, ostacolo alla modernizzazione del Paese, base sociale della guerriglia22. È la strategia militare definita tierra arrasada (terra bruciata) che si dispiega in cinque tappe principali: militarizzazione dell’intera società guatemalteca, lotta contro i rivoluzionari, massacro 21

Cfr. Comisión para el Esclarecimiento Histórico a las Violaciones a los Derechos Humanos y Hechos Violencia que han causado sufrimientos a la población guatemalteca, Guatemala Memoria del Silencio. Capítulo cuarto: Conclusiones, cit., p. 21. 22 Oscar Farfán ha raccolto alcune testimonianze in Guatemala: Tierra Arrasada, in «Gatopardo», 2017, https://gatopardo.com/reportajes/guatemala-tierra-arrasada/.

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Il vizio dello stupro

della maggior parte della popolazione civile maya, rieducazione ladina della popolazione scampata alle uccisioni; annullamento della cultura maya. Queste tappe sono attuate attraverso una serie di programmi militari, tra cui i piani “Victoria 82”23, “Sofía”24 e “Firmeza 83”25. La militarizzazione della società si realizza attraverso l’arruolamento forzato dei civili, inquadrati nei Comités voluntarios de Autodefensa Civil, meglio conosciuti come Patrullas de Autodefensa Civil (PAC)26, per coinvolgere la popolazione civile nelle operazioni di repressione e controllo del territorio; la lotta contro i rivoluzionari, reali o presunti, è attuata elargendo il massimo terrore in ogni angolo del Paese; il massacro della maggior parte della popolazione civile maya si realizza con assassini in massa indiscriminati; la rieducazione ladina si concretizza attraverso lo spostamento forzato della popolazione scampata alle uccisioni in polos de desarrollo (poli di sviluppo) che raggruppano diversi aldeas modelo del estado (villaggi modello statali)27; l’annullamento della cultura maya è attuata con la distruzione della cultura autoctona (lingua, costumi, usanze, simboli), tra cui la soppressione della santa milpa, che non è solo un agroecosistema di coltivazione che garantisce la sussistenza, ma una struttura socioculturale che tiene unita ogni singola famiglia ed è comunione con l’intero villaggio28. 23

Cfr. Plan de campaña Victoria 82, in «Plaza Pública», Ciudad de Guatemala, https://www.plazapublica.com.gt/sites/default/files/resumen_del_plan_de_campana_v ictoria_82.pdf 24 Cfr. Operación Sofía, in «Plaza Pública», Ciudad de Guatemala, https://plazapublica.com.gt/sites/default/files/operation_sofia_lo.pdf 25 Cfr. Plan de campaña Firmeza 83, in in «Plaza Pública», Ciudad de Guatemala, https://www.plazapublica.com.gt/sites/default/files/plan_de_campana_firmeza_83_pa rte_1.pdf e https://plazapublica.com.gt/sites/default/files/plan_de_campana_frimeza _83_parte_2.pdf 26 Cfr. Guatemala Memoria del Silencio, cit., VI, pp. 181-235. 27 Ivi, XIX, pp. 211-241. 28 La milpa è un sistema di coltivazione delle colture (maggiormente mais) utilizzato in tutta la Mesoamerica. Deriva dal nahuatl mīl-li, campo seminato, e dal suffisso pan, sopra, e significa letteralmente “ciò che viene seminato sopra il campo”. Cfr. F. KARTTUNEN, An Analytical Dictionary of Nahuatl, University of Oklahoma Press, Norman 1992, p. 147; A. RE CRUZ, The Two Milpas of Chan Kom. Scenarios of a Maya Village Life, State University of New York Press, New York 1996, pp. 76-78.

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VII. Lo stupro come strumento politico

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Come le distruzioni delle milpas, anche le violenze sulle donne maya sono una specifica strategia militare con caratteri altamente simbolici. Le donne presso i maya hanno un ruolo primordiale nel mantenimento e nella trasmissione della cultura del loro popolo. Corrompere la loro sessualità attraverso gli stupri, vuol dire interrompere sia la continuità biologica sia quella culturale, perché la donna maya non solo perpetua la discendenza del gruppo, ma tramanda la conoscenza. In questo quadro la donna maya è disprezzata perché donna, perché donna indigena. Le donne che sopravvivono alle violenze, infatti, sono rifiutate e abbandonate dalla propria famiglia, escluse dalla propria comunità e condannate al celibato forzato, impedendo ogni progetto di ricostruzione della loro vita. Nei confronti delle donne maya, non solo violenze selettive come strumento di punizione per aver osato opporsi a un potere, per ottenere informazioni, per terrorizzare la restante parte della comunità oppure come castigo per essere mogli, figlie o sorelle di guerriglieri, ma anche in massa nei villaggi, come preludio ai massacri e come sistema per revocare le peculiarità socio-culturali della popolazione maya e annullare la continuità biologica. La commissione CEH ha certificato l’inclusione della pratica dello stupro nell’addestramento militare dei soldati29. Le violenze individuali si consumano in prevalenza nei luoghi di detenzione, completandosi quasi regolarmente con l’uccisione o la desaparición della vittima. Di solito sono anche lasciate le prove di violenza sessualizzata sui cadaveri, lasciati esposti con oggetti inseriti nei genitali o nel retto30. In un’ottica maschilista, la violenza sulle donne non si è limitata allo stupro attivo da parte dei militari, ma anche al rapimento delle donne per costringerle a svolgere lavori considerati propriamene femminili come cucinare, pulire o lavare per i distaccamenti militari31 e come schiave sessuali.

29

Cfr. Guatemala Memoria del Silencio, cit., tomo III, p. 32. Questo vale anche per i maschi. Cfr. ivi, tomo III, pp. 29-35. 31 Cfr. ivi, tomo III, pp. 30-44. 30

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Il vizio dello stupro

Famoso è il caso delle donne maya di Sepur Zarco, un villaggio del comune di El Estor in cui i militari si insediarono per combattere contro i rivoluzionari. Gli abitanti del villaggio furono accusati di essere solidali alla guerriglia, così le loro abitazioni furono distrutte, gli uomini uccisi e le donne costrette non solo a lavorare forzosamente, cucinando e lavando per i soldati, ma anche ad appagarli sessualmente32. L’esportazione del feto alle donne in gravidanza, lasciato poi in bella mostra, è un’ulteriore dimostrazione della volontà sterminazionista del regime, attraverso l’appropriazione simbolica del presente e cancellazione del futuro della comunità. Assieme ai grandi massacri, anche le violenze sessualizzate possono essere considerate il modus operandi del regime per riscrivere la storia del Paese33.

7.3. Le guerre asiatiche, il corpo come luogo di dominio Le violenze di genere in guerra non si fermano, segnando la continuità del disprezzo verso le donne nemiche e del nemico. Lo scontro tra Bangladesh e Pakistan (1971), l’occupazione indonesiana di Timor Est (1975), la guerra civile in Sri Lanka (1983–2009) e le ripetute violenze etniche in Myanmar contro la popolazione rohingya, sono alcuni esempi di eventi in cui il corpo donna continua a raffigurare un “campo di battaglia” tra le parti in lotta, un continuo “bottino di guerra” per i vincitori, uno strumento di oppressione politico-militare. 32

Nel 2011 quindici donne del villaggio hanno intentato una causa penale contro i loro sequestratori. Il processo a condannato in forma definitiva Esteelmer Francisco Reyes Giron e Heriberto Valdez Asig, due ex militari, rispettivamente a 120 e 240 anni di prigione perché dichiarati colpevoli di delitti contro l’umanità: assassinio, desaparición forzada, violenza sessuale e schiavitù domestica. Cfr. J.-M. BURT, Gender Justice in Post-Conflict Guatemala: The Sepur Zarco Sexual Violence and Sexual Slavery Trial, «Critical Studies», 2019, http://www.criticalstudies.org.uk/uploads/2/ 6/0/7/26079602/ burt-gender_justice_in_post-conflict_guatemala.pdf. 33 Cfr. A. FULCHIRON, La violencia sexual como genocidio, memoria de las mujeres mayas sobrevivientes de violación sexual durante el conflicto armado en Guatemala, «Revista mexicana de ciencias políticas y sociales», vol. 61, n. 228, 2016, pp.391422.

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VII. Lo stupro come strumento politico

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Durante la guerra di liberazione del Bangladesh, che nel 1971 vide schierati i bengalesi del Pakistan dell’est (e poi dell’India) contro l’esercito del Pakistan dell’ovest, si manifesta tutta la volontà sterminazionista da parte del regime pakistano. Le violenze sulle donne si concretizzano su base razziale e religiosa: le donne indù sono violentate e uccise, quelle musulmane costrette alla schiavitù sessuale e a gestazioni forzate al fine di costruire una nuova etnicità34. A Timor Est, dopo l’invasione indonesiana iniziata il 7 dicembre 1975, segue una feroce occupazione sino al 1999. Sia nel corso della guerra di conquista sia durante la dominazione, i soldati indonesiani si rendono protagonisti di massacri e stupri di massa, assieme a sequestri per riduzione in schiavitù sessuale35. La donna, anzi il suo corpo, diventa così territorio da conquistare per confermare la definitiva presa di possesso36. Nel 1983 inizia in Sri Lanka una guerra civile che si protrae sino al 2009. Da una parte i militari dell’esercito singalese, dall’altra i ribelli tamil, inquadrati nella “Tigri per la liberazione della Patria Tamil”, entrambi responsabili di violenze estreme sulla popolazione civile e di almeno centomila morti. È una guerra etnica e religiosa: la minoranza tamil, situata nella parte nord-orientale dell’isola, chiede la separazione politico-territoriale e la costituzione di una propria patria, mentre la maggioranza sinhala del resto del Paese si oppone; i primi sono in maggioranza induisti, i secondi buddisti. Se i governativi sinhala hanno utilizzato la strategia della guerra indiscriminata, i separatisti tamil hanno prediletto la guerriglia come strategia di confronto bellico, con il reclutamento finanche di bambini soldato, e il terrorismo come guerra rivoluzionaria, con numerosi attentati kamikaze contro politici 34

Cfr. Y. SAIKA, Beyond the Archive of Silence. Narratives of Violence of the 1971 Liberation War of Bangladesh, «History Workshop Journal”, vol. 58, n. 1, 2004, pp. 275-287; N. MOOKHERJEE, The raped woman as a horrific sublime and the Bangladesh war of 1971, «Journal of material culture», vol. 20, n. 4, 2015, pp. 379-395. 35 Cfr. J. NEVINS, A not-so-distant horror. Mass violence in East Timor, Cornell University Press, Ithaca 2005. 36 Cfr. M. HYNES, K. ROBERTSON, J. WARD, C. CROUSE, A Determination of the Prevalence of Gender-Based Violence among Conflict-affected Populations in East Timor, «Disasters», vol. 28, n. 3, 2004, pp. 294–321; H. MYRTINNEN, Masculinities, Violence and Power in Timor Leste, «Revue Lusotopie», vol. XII, n. 1–2, 2005, pp. 233–44.

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Il vizio dello stupro

e civili. Non sono mancate le violenze sessualizzate, sia sulle donne sia sugli uomini, maggiormente da parte governativa. Queste si consumano quasi sempre durante la detenzione, come metodo di tortura e strategia di interrogatorio37. Restando in Asia, c’è un popolo che nel sud del continente non possiede Stato e neppure viene riconosciuto come gruppo etnico: sono i rohingya, gli abitanti musulmani dell’antico Stato di Rakhine. Il popolo rohingya è percepito dalla popolazione birmana come estraneo al tessuto etnico e religioso del Paese. Proprio per questo è divenuto oggetto di discriminazioni che sono sfociate in violenza materiale. Di fatto per i governi birmani i rohingya sono un popolo che non esiste, diventando soggetti di tutta una serie di efferatezze da parte del Tatmadaw, le forze armate del Myanmar, che restano impunite. Parafrasando un famoso brocardo latino: nullum crimen sine victima38. Nell’uso corrente birmano la parola rohingya è finanche vietata, poiché costituisce di per sé una legittimazione, un riconoscimento dell’esistenza di questo gruppo umano. Sulla base di questa presunta estraneità della popolazione rohingya al territorio birmano poggia la politica di esclusione dei governi che si sono succeduti dal 1948, anno dell’indipendenza del Paese. Nei fatti i rohingya sono sottoposti a una sequela di abusi di ogni genere: dai confinamenti nei villaggi controllati agli arresti illegali, dalle uccisioni indiscriminate alle violenze sessualizzate. Si è arrivati finanche nel 2013 a imporre il vincolo discriminatorio dei due figli ai rohingya delle città di Maungdaw e Buthidaung nello Stato del Rakhine. Questa situazione persecutoria ha originato in maniera ricorrente fenomeni di espulsioni forzate o grandi esodi verso il vicino Bangladesh, ma anche verso altri Paesi dell’area, tra cui Thailandia, Malesia e Indonesia. A questi esodi corrispondono spesso rimpatri forzati che determinano l’insorgere di crisi umanitarie lungo la frontiera. Human Rights Watch, “We Will Teach You a Lesson” Sexual Violence against Tamils by Sri Lankan Security Forces, in «PeaceWomen», 2013, http://www.peace women.org/sites/default/files/srilanka0213webwcover_0_0.pdf; S.E. WARD, Violating the State Body: Sexual Violence and Control in the Sri Lankan Civil War as NationBuilding in the Body Politic, «Interdisciplinary Political Studies», n. 5(1), 2019, pp. 157-187. 38 Nullum crimen, nulla poena sine lege, è l’originale massima giuridica latina. 37

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La creazione di organizzazioni politiche e militari tra i rohingya39, che attuano una energica guerriglia, giustifica l’indiscriminata repressione da parte delle forze militari birmane, anche con bombardamenti di interi villaggi, uccisioni sommarie e stupri di massa. Alla persecuzione statale si aggiungono anche gli estremisti buddhisti, che alimentano il fuoco dell’intolleranza. Le violenze sono continuate anche nel periodo di transizione democratica, avviatosi con la vittoria della Union Solidarity and Development Party (USDP) alle elezioni democratiche popolari del marzo del 2011. Anche l’insediamento nelle stanze del potere di Aung San Suu Kyi — vittima della violenza di una politica che si fa padrona, paladina dei diritti umani, Nobel per la Pace nel 1991 e “Ambasciatrice della coscienza” nel 2009 per Amnesty International)40 — ufficialmente Consigliere di Stato (una sorta di Primo Ministro), ma in pratica presidente de facto del Paese, non ha cambiato nei fatti la triste situazione del popolo rohingya. L’antica gente dello Stato di Rakhine vive un crescendo di violenza prodotto dalla volontà di distruzione di questo popolo e le violenze sessualizzate sono uno degli strumenti distintivi di questa determinazione. La sistematicità dello stupro, esercitato anche pubblicamente per massimizzare l’efficacia simbolica, indica una deliberata strategia tesa a terrorizzare la popolazione civile e farla fuggire dalle loro terre. Alle violenze sessualizzate si aggiungono anche le inevitabili gravidanze indesiderate, che fanno aumentare l’emarginazione delle vittime dalla propria comunità.

I gruppi più consistenti sono: l’Esercito di Liberazione dell’Arakan, l’Organizzazione Nazionale Arakan rohingya, il Fronte Islamico Arakan rohingya, l’Organizzazione di Solidarietà rohingya, l’Esercito Islamico rohingya, l’Organizzazione di Liberazione Islamica rohingya, il Fronte Islamico Arakan rohingya, l’Esercito Nazionale rohingya, l’Harkat-ul-Mujahidin e il Jihad Islamico di Birmania 40 Il perdurare della violazione dei diritti umani ha portato nel 2018 Amnesty International a revocare il riconoscimento a Aung San Suu Kyi, «alla luce del vergognoso tradimento dei valori per i quali una volta si era battuta» e perché non ha «usato la sua autorità politica e morale per salvaguardare i diritti umani, la giustizia e l’uguaglianza in Myanmar». Cfr. Amnesty International, Revocato il premio “ambasciatore della coscienza” ad Aung San Suu Kyi, 12 novembre 2018, https://www.amnesty.it/revoca to-premio-ambasciatore-della-coscienza-aung-san-suu-kyi/. 39

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Le violenze sessualizzate dunque rientrano nella politica della pulizia etnica attuata in Myanmar41. Il Tribunale permanente dei popoli, nella sessione realizzata dal 18 al 22 settembre 2017 a Kuala Lumpur (Malesia), nella facoltà di legge dell’Università di Malaya, si è spinto a utilizzare finanche il termine di “genocidio”, denunciando appunto sia lo sterminio di massa sia altri orribili crimini contro l’umanità commessi contro i “fantasmi” rohingya42. Alle politiche discriminatorie del governo del Myanmar si è affiancato l’immobilismo della comunità internazionale, incapace di trovare soluzioni politiche.

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7.4. La guerra alle donne nei conflitti africani Stesso discorso vale per il tormentato continente africano. I conflitti armati in Liberia (1989–1996 e 1999–2003), Sierra Leone (1991– 2002) e quello infinito in Congo, sono gli esempi in cui la violazione del corpo della donna diventa una strategia deliberata di dominio per destabilizzare le forze avversarie e stravolgere il loro tessuto sociale. Le due guerre civili che scoppiano il Liberia, dal 1989 al 1996 e dal 1999 al 2003, sono caratterizzate dalla lotta per il potere e dalla forte contraddizione etnica del Paese. La Liberia è infatti uno Stato creato per dare una patria agli schiavi afro-americani affrancati43, una Cfr. Human Rights Watch, All of My Body Was Pain” Sexual Violence against Rohingya Women and Girls in Burma, 2017, https://www.hrw.org/sites/default/files/ report_pdf/burma1117_web_1.pdf; R. SULTANA, Rape by Command Sexual violence as a weapon against the Rohingya, Kaladan Press Network, Chittagong (Bangladesh) 2018, www.kaladanpress.org/images/document/2018/RapebyCommandWeb3.pdf 42 Il forum aggiunge anche le violenze esercitate nei confronti degli kachin, altro gruppo umano del Paese, di fede buddhista, residente maggiormente nel Nord nello Stato del Kachin, che aspira al riconoscimento di uno Stato autonomo sia pure nell’ambito di una struttura realmente federale del Myanmar. Permanent Peoples’ Tribunal, State Crimes Allegedly Committed in Myanmar against the rohingyas, Kachins and Other Groups, 2017, Kuala Lumpur (Malaysia), http://permanentpeoplestribu nal.org/wp-content/uploads/ 2017/11/PPT-on-Myanmar-Judgment-FINAL.pdf. 43 Nel 1822 l’American Colonization Society con l’appoggio del governo USA fonda una colonia sulla costa del golfo di Guinea, al fine di ospitarvi gli ex schiavi africani. Nel 1824 la colonia prende il nome Liberia, “terra degli uomini liberi”. Nel 1847 è costituita la Repubblica indipendente con capitale Monrovia (in onore del presidente statunitense James Monroe, in carica al momento della sua fondazione). 41

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nuova entità sorta in uno spazio già abitato da altri africani. Dalla sua costituzione e per centotrent’anni la Liberia è governata dagli afroamericani, senza integrare politicamente i nativi. Nel 1980 un gruppo di ufficiali di discendenza tribale compie un colpo di Stato e un Consiglio di redenzione popolare (People’s Redemption Council) composto da militari prende il potere. Samuel Kanyon Doe, di etnia krahn, diventa il primo presidente non americo-liberiano della storia del Paese. Per nove anni Doe governa col pugno di ferro, soffocando nel sangue ogni tentativo di opposizione. Nel 1985 le elezioni generali confermano Doe alla presidenza. La repressione della dissidenza, che ora accusa brogli elettorali, diventa ancor più feroce. Nel dicembre 1989, Charles Taylor, discendente degli afro-americani ed ex funzionario del governo di Doe, rimosso dal suo incarico per appropriazione indebita, rientra in Liberia a capo del National Patriotic Front of Liberia per rovesciare il regime di Doe44. Inizia la prima guerra civile liberiana. Doe è assassinato e Taylor si autoproclama presidente di un governo provvisorio. Il conflitto provoca duecentomila morti. Le violenze scatenate da tutti i contendenti, compreso le violenze sessualizzate45, si ripropongono anche nel secondo conflitto che devasta la Liberia dal 1999 e sino al 2003, quando Taylor è costretto ad abbandonare il Paese e a rifugiarsi in Nigeria. Durante i due lunghi conflitti si consumano quasi tutti crimini di guerra e contro l’Umanità, dalle esecuzioni sommarie a massacri, dalle torture alle mutilazioni, dall’uso di bambini-soldato alle onnipresenti violenze sessualizzate. Appena terminato il secondo conflitto, in un’analisi preliminare Amnesty International ha indicato che «tra il 60 e il 70 per cento della popolazione aveva subito una qualche forma di violenza sessuale», evidenziando che queste vio44

Fuggito negli USA, Taylor è arrestato su un mandato di estradizione del suo Paese. Evita il rimpatrio ma è condotto nella prigione di Plymouth (Massachusetts). Pochi giorni dopo il fallito golpe di Thomas Quiwonkpa (12 novembre 1985), Taylor riesce a fuggire dal carcere. Lo stesso Taylor ha affermato che la sua evasione è stata patrocinata dal governo USA inducendolo a organizzare la caduta di Doe. Cfr. M. SIMONS, Ex-Leader of Liberia Cites C.I.A. in Jailbreak, «The New York Time», July 17, 2009, https://www.nytimes.com/2009/07/18/world/africa/18taylor.html. 45 Cfr. S. SHANA, P. JENNINGS, G.V. ARYEE, G.H. BROWN, R.M. JAPPAH-SAMUKAI, M.S. KAMARA, R.D.H. SCHAACK, R.S. TURAY-KANNEH, Violence Against Women During the Liberian Civil Conflict., «Journal of the American Medical Association», vol. 279, n. 8, 1998 pp. 625–629.

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lenze benché dirette «prevalentemente contro la componente femminile, anche «alcuni uomini e ragazzi erano stati anche soggetti a violenza sessuale»46. Tali brutalità hanno incluso lo stupro, individuale e di gruppo, l’inserimento di oggetti estranei, la nudità pubblica, il rapimento e il reclutamento con la forza per combattere, la schiavitù domestica e sessuale, fino alla costrizione a compiere atti di cannibalismo sui propri mariti o figli dopo aver assistito al loro assassinio47. Nell’agosto 2003, l’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite Bertrand Ramcharan, in un rapporto di emergenza sulla situazione in Liberia, ha denunciato «la natura diffusa» del crimine di stupro di donne e ragazze, accusando «il coinvolgimento di alti funzionari militari» e la relativa «impunità di cui godono», concludendo che le violenze sessualizzate sono usate principalmente come «arma di guerra per instillare il terrore tra la popolazione civile»48. In Sierra Leone nel 1991 scoppia una guerra civile combattuta tra il Fronte Rivoluzionario Unito (RUF), sostenuto dalla Liberia di Taylor, e le forze del regime del presidente Joseph Saidu Momoh. Ufficialmente è un conflitto per abbattere il governo dispotico di Momoh, ma si è trattato non solo di acquisire il potere, ma anche di controllare le ricche miniere di diamanti del distretto di Kono. Manco a dirlo le violenze sono dispensate a piene mani da entrambe le fazioni. Più spietato è il Fronte Rivoluzionario Unito, a cui si aggiungono anche i suoi alleati del “Consiglio Rivoluzionario delle Forze Armate” (AFRC), gruppo di ex militari guidati dall’ex sergente maggiore Johnny Paul Koroma, e i “West Side Niggaz”, formazione militare composta mag46

Cfr. Amnesty International, Liberia: No impunity for rape - A Crime against Humanity and a War Crime, 14 December 2004, https://www.amnesty.org/download/Documents/88000/afr340172004en.pdf. 47 Cfr. Republic of Liberia, Liberian Truth and Reconciliation Commission, vol. 3, appendice, titolo 1, Women and the Conflict, 2010, pp. 36-37, http://trcofliberia.org/ resources/reports/final/volume-three-1_layout-1.pdf. 48 Cfr. UN High Commissioner for Human Rights, Situation of human rights and fundamental freedoms in Liberia, Report of the United Nations High Commissioner for Human Rights and follow-up to the World Conference on Human Rights, UN Doc. E/CN.4/2004/5, 12 August 2003, par. 13, https://digitallibrary.un.org/record/5008 89?ln=en#record-files-collapse-header. L’intero report all’url: http://www.trcoflibe ria.org/reports/final-report.html.

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giormente da bambini soldato costretti dopo l’assassinio dei loro genitori a combattere. Mentre gli uomini fanno la guerra, donne e pargoli diventano i maggiori destinatari di ogni atrocità. Un’indagine condotta da parte dell’associazione Physician for Human Right nel 2002, ha stimato che dalle 215.000 alle 257.000 donne di tutte le età hanno subito violenze sessualizzate durante gli undici anni di guerra49. È solo una stima, ma le cifre anche andando al ribasso restano spaventose. Queste violenze sono spesso precedute e seguite da altre: rapimento, schiavitù domestica e sessuale, coscrizione forzata nelle forze combattenti, aborti o gestazioni forzate. Per i comandanti del Fronte Rivoluzionario Unito le violenze sessualizzate sono tuttavia considerate una minaccia alla coesione nelle zone conquistate, per questo è promosso come antidoto il matrimonio50, seppur forzato51, anche se poi all’interno della vita coniugale la sessualità e i rapporti coniugali si basano sulla sottomissione della donna all’uomo. Nonostante i tentativi del comando centrale di mettere al bando lo stupro, anche attraverso il divieto di “prendersi delle libertà con le donne” espresso nel “Codice di condotta”52 del gruppo, le violenze sessualizzate sono diffuse, specialmente nelle zone non conquistate. Ogni donna catturata diventa de facto “civile del Fronte Rivoluzionario Unito” e obbligata, quindi, a rispettare le regole del gruppo. Per questo a volte si marchiano come simbolo di appartenenza le donne catturate, incidendo con coltelli le iniziali RUF sul loro petto, in modo da scoraggiare eventuali fughe53. 49

Cfr. Physicians for Human Rights, War-Related Sexual Violence in Sierra Leone. A Population-Based Assessment, Boston 2002, https://s3.amazonaws.com/PHR_Reports /sierra-leone-sexual-violence-2002.pdf. 50 Con questa politica la sfera domestica ha iniziato a minacciare la sfera militare, per la forte presenza di donne non combattenti rispetto ai militari. Così si è deciso di rendere il matrimonio durante la guerra un privilegio per i soli comandanti. Cfr. ivi, pp. 74-75. 51 Cfr. A.S.J. PARK, ‘Other Inhumane Acts’: Forced Marriage, Girl Soldiers and the Special Court for Sierra Leone, «Social & Legal Studies», vol. 15, n. 3, 2006, pp. 315–37. 52 Cfr. Z. MARKS, Sexual violence in Sierra Leone's civil war: ‘Virgination’, rape, and marriage, «African Affairs», vol. 113, n. 450, 2014, p. 72. 53 Cfr. Amnesty International, Sierra Leone: 1998 – A year of atrocities against civilians, 1 November 1998, p. 27 https://www.amnesty.org/en/documents/afr51/022/ 1998/en/; L. TAYLOR, “We’ll kill you if you cry”: sexual violence widespread in the Sierra Leone conflict, «Human Rights Watch», January 14, 2003, p. 44.

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Il vizio dello stupro

Gli abusi sulle donne, specialmente lo stupro, sono state durante il conflitto in Sierra Leone una strategia politica e militare per degradare la vittima, se in armi; per dominare e umiliare la comunità di appartenenza della donna violata, erodendo i legami comunitari attraverso l’inquinamento dei loro valori culturali e la contaminazione delle relazioni sociali del gruppo. Terminata la guerra, gli stupri e lo sfruttamento sessuale di ragazze e bambine continuano a essere un’emergenza sociale in Sierra Leone54. In Congo a seguito di una guerra condotta dal movimento Alliance des Forces Démocratiques pour la Libération du Congo/Zaïre, guidato Laurent Deisré Kabila e sponsorizzato dai governi ruandese e ugandese, nel 1997 è spodestato il presidente Mobutu Sese Seko, dittatore per trentadue anni del Paese. Divenuto il nuovo presidente, Kabila cerca di liberarsi dei suoi “sponsorizzatori”, Ruanda e Uganda, che lo hanno portato al potere. Entrambi i Paesi ex alleati non sono disposti a rinunciare ai loro interessi in Congo, per questo finanziano nuovi movimenti rivoluzionari: il gruppo Rassemblement Congolais pour la Démocratie, sponsorizzato dal Ruanda, e il Mouvement de Libération du Congo finanziato dall’Uganda. Nel 1998 inizia una nuova fase militare, ancor più sanguinosa della prima. Sullo scenario bellico compaiono altri movimenti, frutto delle faide e delle scissioni che dividono i principali gruppi armati. A questi si aggiungono i migranti hutu e tutsi del Ruanda. Tutti i protagonisti cercano di assicurare il dominio del proprio gruppo etnico per accaparrarsi il potere e per controllare le risorse naturali del Paese, in primis le ricchezze minerarie, facendo sprofondare il Congo in una crudele guerra dove tutti sono contro tutti. Anche nella travagliata storia bellica del Congo, non mancano le violenze sessualizzate. Le motivazioni che portano agli stupri sono diverse secondo i punti di vista dei combattenti. Unico elemento comune è la quasi assoluta impunità che ha permesso di perpetuare questo crimine. Molti combattenti sembrano considerare lo stupro come un bottino di guerra, per questo le violenze sessualizzate sono sempre ac54

Cfr. S. EATON, Sierra Leone: The Proving Ground for Prosecuting Rape as a War Crime, «Georgetown Journal of International Law», vol. 35, n. 4, 2004, pp. 873–919; J.JOHN-LANGBA, V.N. JOHN-LANGBA, N.M. ROGERS, Sexual violence in post-conflict Sierra Leone: Obstacles to prevention responses, «African Safety Promotion Journal», vol. 11, n. 2, 2013, https://www.ajol.info/index.php/asp/article/view/136099

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VII. Lo stupro come strumento politico

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compagnate al saccheggio55. Poi ci sono le violenze sessualizzate usate come strategia deliberata di guerra per destabilizzare le forze avversarie; per terrorizzare i civili e controllare il loro spazio; come rappresaglia contro gli avversari; per minare il tessuto sociale del gruppo etnico nemico; per prevenire le nascite nel gruppo rivale, attraverso la stigmatizzazione delle donne violate, che sono rifiutate dai maschi del proprio gruppo; per ingravidare con lo scopo di cambiare la composizione etnica di un territorio, secondo la convinzione di una discendenza patrilineare. Maria Eriksson Baaz e Maria Stern hanno intervistato alcuni soldati delle Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo, indagando sui motivi degli stupri. Per gli intervistati c’è uno “stupro buono” e uno “cattivo”. Il primo è dovuto alla mancanza di soldi per “pagare una donna” e, quindi, “la prendono con la forza”; il secondo è il risultato dello “spirito della guerra per umiliare la dignità delle persone”. In entrambi i casi lo stupro rientra dunque in una logica considerata ordinaria56. In alcuni casi le violenze sessualizzate rientrano nelle credenze tribali di alcuni gruppi armati congolesi. Ad esempio, la forte superstizione ha condotto alcuni miliziani a credere che avere rapporti sessuali con una bambina prepuberale o con una donna in post-menopausa può rendere immuni da malattie, compreso l’HIV/AIDS, oppure che può proteggere dalle ferite o dalla morte durante il combattimento57. La guerra termina ufficialmente nel 2003, ma le rivalità non si sopiscono e così le armi non tacciono. Alle violenze sessualizzate dei guerriglieri, si aggiungono anche quelle dei civili, tanto che il Congo è stato bollato da Margot Elisabeth Wallström, nominata nel 2010 prima rappresentante speciale delle Nazioni Unite per le violenze sessualizzate nei conflitti, come “capitale mondiale degli stupri”58. 55 Cfr. J. KELLY, Rape in War: Motives of Militia in RDC, «United Nations Institute of Peace Special Report», n.243, 2010, p. 8, https://www.usip.org/sites/default/files/SR 243Kelly.pdf. 56 Cfr. M. ERIKSSON BAAZ, M. STERN, Why Do Soldiers Rape? Masculinity, Violence and Sexuality in the Armed Forces in the Congo (DRC), «International Studies Quarterly», vol. 53, 2009, pp. 495–518. 57 Cfr. Amnesty International, Democratic Republic of Congo Mass rape: Time for remedies, AFR 62/018/2004, p. 14, https://www.amnesty.org/download/Documents/ 92000/afr620182004en.pdf. 58 Cfr. United Nations, Tackling sexual violence must include prevention, ending impunity, «UN News Centre», 2010, https://news.un.org/en/story/2010/04/336662.

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Capitolo VIII

Nazionalismi sessualizzati e stupri “umanitari”

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8.1. Balcani 1992-1995: la sessualizzazione del nazionalismo Nei Balcani il lungo regime del maresciallo Josip Broz “Tito” (1945-1980) ha tenuto insieme un mosaico di popoli con culture differenti. Scomparsa la grande guida, la pax titoista nella Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia cessa di avere i suoi effetti. Si mette in moto il meccanismo del nazionalismo, che pone in discussione il potere federale tutto nelle mani della Serbia. Il vedere la Jugoslavia come una “cosa serba”, retta da una rigida autarchia che guardava alla Russia, non è una prospettiva gradita anche a una parte dell’Occidente. A questo si aggiunge la grande crisi economica e il forte indebitamento estero. La volontà di creare degli Stati nazionali omogenei porta lo Stato federale a perdere un pezzo per volta. Nel 1991 la Slovenia dichiara la propria indipendenza. Nello stesso anno anche la Croazia dichiara la propria indipendenza. Seguono due guerre, la prima tra Belgrado e Lubiana che, probabilmente a una tacita comunità d’intenti tra le parti, dura solo dieci giorni; la seconda tra Belgrado e Zagabria, più lunga e sanguinosa. Entrambi i conflitti si concludono con il riconoscimento dell’indipendenza di Slovenia e Croazia. Nel marzo del 1992 anche i musulmani di Bosnia proclamano la loro autodeterminazione. Dopo il referendum sull’indipendenza, boicottato dalla maggior parte della popolazione serbo-bosniaca, questi ultimi proclamano a loro volta la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (Republika Srpska). Scoppia una guerra che, attraverso pseu199

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do-rivalità, pseudo-differenze e pseudo-pericoli, amplifica la conflittualità1. È una guerra di tutti contro tutti, perché la Bosnia è una repubblica composta da tre principali gruppi nazionali: bosgnacchi (slavi convertitisi all’Islam), serbi (cristiano-ortodossi) e croati (cristianocattolici). La lunga coabitazione, tra l’altro retta dal principio di reciprocità chiamato komšiluk (parola di origine turca indicante i buoni rapporti di buon vicinato fra gente di diversa tradizione)2, non ha determinato aree abitate da una sola nazionalità, per cui anche “normali” vicini di casa si sono ritrovati a combattersi l’uno con l’altro. Una guerra in cui la rivalità politica precede l’odio popolare e quest’ultimo diventa la conseguenza e non la causa delle ostilità: In maggio e soprattutto in giugno si registrarono i primi scontri tra forze di polizia rivali. In generale, le uccisioni iniziali avvennero nel turbine delle prime schermaglie e non furono premeditate. I pestaggi e le sparatorie diventarono però più deliberati, con i nazionalisti che prendevano di mira moderati ben noti della propria comunità oltre che la comunità avversaria. Ogni violenza veniva giustificata come autodifesa o rappresaglia. A cominciare era sempre stato l’altro. Raramente gli attacchi erano portati contro coloro che avevano davvero compiuto la precedente violenza. Di conseguenza, la violenza si diffuse, dato che vittime innocenti si rifacevano contro vittime innocenti. Gli attacchi ridussero presto al silenzio i moderati e ingenerarono nelle comunità un senso di insicurezza generalizzata. Esse fuggirono al riparo del proprio gruppo etnico, da cui potevano arrivare fiducia e difesa. La fuga degli uni e degli altri produsse villaggi e città sempre più monoetnici, ciascuno con le proprie emergenti forze di polizia. Il destino individuale di una persona era determinato dalla sua appartenenza etnica: il modo più prepotente in cui l’etnia prevale sulla classe.3 1 Cfr. B. BRUNETEAU, Le siècle des génocides, Armand Colin, Paris 2004, trad. it. Il secolo dei genocidi, il Mulino, Bologna 2004, p. 220. 2 Cfr. X. BOUGAREL, Twenty Years Later: Was Ethnic War Just a Myth?, «Südosteuropa. Zeitschrift für Politik und Gesellschaft», vol. LXI, n. 4, 2003, pp. 568-577, ora in «archive-ouvertes», https://halshs.archives-ouvertes.fr/halshs-025649 14/document, pp. 5-7. 3 M. MANN, The Dark Side of Democracy: Explaining Ethnic Cleansing, Cambridge University Press, Cambridge 2005, trad. it. Il lato oscuro della democrazia. Alle radici della violenza etnica, Egea Università Bocconi Editore, Milano 2005, p. 472.

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VIII. Nazionalismi sessualizzati e stupri “umanitari”

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Il fine della guerra diventa la trasformazione della struttura demografica della Bosnia, attraverso l’eliminazione fisica della controparte nazionale che decide di non abbandonare il Paese. Il feroce conflitto che si consuma nei Balcani è preparato dalla costruzione prebellica da parte dei nazionalismi che, attraverso politiche di creazione d’identità etniche, hanno forgiato un “nemico razziale”. I bosgnacchi considerano quel pezzo dei Balcani loro esclusiva “proprietà”, che appartiene da secoli al gruppo musulmano. Per contro, i serbi e i croati considerano i musulmani di Bosnia etnicamente degli estranei nei Balcani, poco è importato che si fossero anche secolarizzati già durante il dominio austro-ungarico: loro erano e sono considerati “turchi”. Tuttavia i musulmani di Bosnia sono europei-caucasici, così come lo sono i croati e i serbi. L’idea che i bosgnacchi siano di un’altra “razza” nasce con il Cristoslavismo, ossia il fulcro della teologia patriottica dell’ortodossia panserba e dell’ultra cattolicesimo pancroato che ritiene che gli slavi sono per natura cristiani, quindi la conversione ad altre religioni comporta la perdita dell’appartenenza alla “razza slava”4. Dunque i nazionalismi trasformano la Bosnia da Stato multiconfessionale a Stato multinazionale. È questo comporta distruzione, morte e lacrime. Per ottenere uno Stato “etnicamente” puro, infatti, ogni mezzo diventa lecito per le parti coinvolte: massacri, demolizioni di villaggi, distruzione del patrimonio culturale della parte avversaria (luoghi di culto, cimiteri, biblioteche), internamento in campi e, soprattutto, stupri di massa. Durante la guerra, tuttavia, il confine tra buoni e cattivi non è stato così netto come si vorrebbe 5. Sicuramente le vittime bosgnacche sono state molto più numerose ri4

M.A. SELLS, The Bridge Betrayed. Religion and Genocide in Bosnia, University of California Press, Berkeley 1998, p. 37. 5 Cfr. P. RUMIZ, Maschere per un massacro. Quello che non abbiamo voluto sapere della guerra in Jugoslavia, Feltrinelli, Milano 2011 (orig. 1996); M. COLLON, Poker menteur, EPO, Bruxelles 1998; J. ELSÄSSER, Kriegsverbrechen. Die tödlichen der Bundesregierung und ihre Opfer im Kosovo-Konflikt, K.V.V. Konkret, Hamburg 2000, trad. it. Menzogne di guerra. Le bugie della NATO e le loro vittime nel conflitto per il Kosovo, La Città del Sole, Napoli 2002; D. JOHNSTONE, Fools’ Crusade. Yugo-

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Il vizio dello stupro

spetto a quelle da parte serba e croata, tuttavia una barbarie non si misura con i soli numeri. Nessuno fu esente dalla brutalità durante la guerra, come ha stabilito il Tribunale Penale Internazionale per l’exJugoslavia6. Pur di ottenere o conservare una fetta di territorio, non si è esitato finanche a uccidere i civili appartenenti alle proprie comunità. Ibran Mustafic, già deputato musulmano del Partito dell’Azione Democratica al Parlamento della Bosnia-Erzegovina, riferisce non solo dell’armamento da parte di alcuni Stati occidentali ai musulmani bosniaci, nonostante il divieto dell’ONU, e, soprattutto, di crimini di massa da parte dell’esercito bosniaco musulmano rivolti ai serbi della Bosnia, ma anche alla loro stessa popolazione7. Le stragi sui civili del Markale (mercato) di Sarajevo del 5 febbraio 1994 (68 morti e 144 feriti) e del 28 agosto 1995 (43 morti e 75 feriti), cause scatenanti l’intervento militare della NATO contro i serbo-bosniaci e la Serbia, pare siano stati compiuti dagli stessi bosniaci, almeno così rivelano alcuni testi al Tribunale dell’Aia,8

Gli stupri di massa in Bosnia, utilizzati da ciascuna delle fazioni nazionali presenti in Bosnia9, sono serviti per contrassegnare la comunità del “noi” rispetto al gruppo del “voi”, quindi per erigere una rigida e invalicabile barriera. Lo stupro non è solo una scelta vendicativa per odio costruito, ma diventa anche arma e il corpo delle donne diviene il luogo della guerra slavia, NATO and Western Delusions, Monthly Review Press, New York 2002. 6 I documenti dell’International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia in http://www.icty.org/. 7 Cfr. I. MUSTAFIĆ, Planirani haos 1990-1996, UG Majke Srebrenice i Podrinja, Sarajevo 2008. Ibran Mustafic è stato oggetto di diversi attentati dopo la pubblicazione del libro. 8 Tra questi il testimone KW-568, un membro delle unità speciali bosniache musulmane. Il teste, nel periodo in cui aveva l’incarico di garantire la sicurezza durante le riunioni del corpo governativo bosniaco, ascoltò i piani militari prospettati durante le riunioni, tra cui attacchi terroristici sugli stessi bosniaci musulmani nel Markale di Sarajevo e a Srebrenica, al fine di accusare i serbi e ottenere un intervento della NATO in loro favore. Cfr. The International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia, The Prosecutor v. Ratko Mladić. Case No. IT-09-92-T, 16 February 2015, p. 123. In R. PATERNOSTER, La politica del male. Il nemico e le categorie politiche della violenza, Tralerighe, Lucca 2019, pp. 209-210. 9 Cfr. U.N. Security Council, Final report of the Commission of experts established pursuant to Security Council Resolution 780 (1992), 27 may 1994, par. 244-249.

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nazionalista10. Questo è potuto accadere perché, già in tempo di pace la tradizione patriarcale presente in tutti i gruppi nazionali poggiava sui concetti di onore legati alla sessualità delle donne della propria comunità: una donna violata fa perdere l’onorabilità dei loro maschi e la profanazione sessuale, anche di una sola donna, ricade su tutta la comunità di appartenenza. Questo vale anche nel caso di violenze sessualizzate che si realizzano sugli uomini, così “femminilizzati” per disonorare loro stessi e la loro comunità. Grandissima parte degli stupri è stata commessa ai danni di donne musulmane da parte dei serbo–bosniaci11: dalle oltre quarantacinque milizie paramilitari12, dagli ausiliari della polizia e dalle bande di uomini comuni, da semplici vicini di casa. L’esistenza di una politica di stupro sistematico da parte dei serbo–bosniaci ordinata dal governo di Belgrado non è stata tuttavia comprovata13.

10

Questo spiega anche le violenze sessualizzate da parte tutte le tre fazioni in lotta sugli uomini da parte di altri uomini e anche di donne sugli uomini, come anche gli abusi sessuali da parte di donne su altre donne. Cfr. ivi, par. 234; E. DONI, C. VALENTINI, L’Arma dello Stupro: voci di donne della Bosnia, La Luna, Palermo 1993, pp. 41 e 53. 11 Amnesty International ha quantificato in circa 20.000 le donne bosgnacche stuprate o violate sessualmente, il governo bosniaco attraverso l’organismo “The Sarajevo State Commission for Investigation of War Crimes” è andato a rialzo, valutando il numero in 50.000. Cfr. Amnesty International, Whose justice? The women of Bosnia and Herzegovina are still waiting, Amnesty International Publications, London 2009, p. 5; S.V. DI PALMA, Lo stupro come arma contro le donne: l’ex Jugoslavia, il Rwanda e l’area dei Grandi Laghi africani, in M. FLORES (a cura di), Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento, FrancoAngeli, Milano 2010, p. 218. 12 Proprio questi gruppi sono stati riconosciuti come i maggiori responsabili dei peggiori crimini perpetrati sul territorio dell’ex Jugoslavia durante i sanguinosi conflitti. Cfr ivi, par. 120-121. 13 Nella sentenza del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia del 24 marzo 2016, che ha condannato il presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina dal 1992 al 1996 Radovan Karadžić per crimini contro l’umanità e crimini di guerra, si afferma la mancanza di prove sufficienti per considerare il defunto presidente della Repubblica di Serbia Slobodan Milosevic mandante della “pulizia etnica” in Bosnia. Cfr. il verbale di giudizio rilasciato dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia in «United Nations – International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia», http://www.icty.org/x/cases/karadzic/tjug/en/ 160324_judgement.pdf.

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Il Rapporto finale delle Nazioni Unite del 1994 ha individuato cinque contesti in cui le violenze sessualizzate sono state praticate in Bosnia: come tattica di terrore pubblica, per intimidire la restante popolazione avversaria e costringerla ad abbandonare i territori contesi (in pratica dopo la conquista di un villaggio, le donne sono violentate in pubblico, la notizia si diffonde negli altri villaggi e la loro occupazione è facilitata dalla paura della popolazione che fugge senza opporre resistenza); come presa di possesso di un territorio dopo i combattimenti e umiliare il nemico; per estorcere informazioni durante la prigionia; per de-umanizzare le donne del nemico rendendole schiave sessuali nei bordelli allestiti appositamente ovunque (in edifici abbandonati, hotel, stalle, stazioni di polizia, semplici abitazioni private o all’interno di campi di concentramento); come strumento di assimilazione forzata attraverso l’ingravidamento violento14. Le milizie paramilitari serbo–bosniache e le bande di uomini comuni hanno utilizzato lo stupro in tutti questi ambiti. Lo hanno fatto per appropriarsi simbolicamente del presente dei bosgnacchi e per invalidare il loro “futuro biologico”, erodendo le relazioni sociali del gruppo; per limitare le nascite; contaminando la loro “razza” impregnando le donne del gruppo. Questo per diminuire l’opportunità di un loro possibile ritorno. Proprio l’ingravidamento forzato è l’aspetto che rende specifico lo stupro in Bosnia: Attraverso lo stupro inseminante […] si recide il legame di filiazione con la comunità di appartenenza della donna, perpetuando l’identità etnica dello stupratore. Il pene diventa una vera e propria arma che, attraverso il seme (le munizioni di questa arma), ipoteca il futuro del gruppo etnico dello stupratore. 15

Questo è potuto accadere perché nella tradizione e nella cultura patriarcale-arcaica di bosgnacchi e serbi è credenza che solo l’uomo sia trasmettitore dei propri geni e la donna un mero contenitore. Di conseguenza da uno stupro inseminante compiuto da un uomo serbo su 14

U.N. Security Council, Final report of the Commission of experts established pursuant to Security Council Resolution 780 (1992), cit., par. 232-253. 15 R. PATERNOSTER, La politica del male, cit., p. 165.

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una donna bosniaco-musulmana, non potrà che nascere sempre e comunque una prole serba (chetniks). Se le violenze del nazionalismo serbo-bosniaco si configurano come una strategia per eliminare o espellere quella parte della popolazione che ha perso l’appartenenza alla “razza slava, per riscrivere la storia; in Ruanda le stesse violenze si delineano invece come un mezzo per sopprimere il gruppo umano ritenuto alieno, per riprendersi la storia.

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8.2. L’etnonazionalismo sessualizzato in Ruanda Il conflitto che più ha sessualizzato la guerra è quello che si è combattuto in Ruanda nel 1994. Un conflitto all’apparenza etnico, tra gli hutu e i tutsi, ma in realtà si tratta di un’ostilità con motivazioni economiche e di potere. Tutto inizia il 6 aprile del 1994, quando l’aereo che trasportava il presidente ruandese Juvénal Habyarimana e il presidente burundese Cyprien Ntaryamira, entrambi di etnia hutu, è colpito da due missili terra-aria mentre è in fase di atterraggio a Kigali: non si salva nessuno. Gli hutu accusano i tutsi dell’attentato16. L’attentato è la scintilla che fa scoppiare la guerra civile, l’occasione per una delle due etnie di liberarsi definitivamente dell’altra. La rivalità tra le due maggiori gruppi etnici del Paese non è antica come hanno voluto farci credere17. Prima dell’arrivo dei coloni europei (tedeschi e belgi), in Ruanda la società era suddivisa in classi so16

Il Report of the Investigation into the Cause and Circumstances of and Responsibility for the Attack of 06/04/1994 Against The Falcon 50 Rwandan Presidential Airplane Registration Number 9XR-NN, pubblicato nel gennaio 2010 attribuisce le responsabilità dell’attentato ai “sostenitori del potere hutu”. Cfr. https://www.files.ethz. ch/isn/125423/1036_FalconReport.pdf. Nel 2012, una relazione tecnica presentata da un pool di esperti francesi ha stabilito che i due missili furono lanciati dal campo militare di Kanombé, dove alloggiava la guardia presidenziale hutu. Cfr. T. BERTHEMET, Rwanda, le rapport qui met fin à des années de flou, «Le Figaro» 01/10/2012, https://www.lefigaro.fr/international/2012/01/10/01003-20120110ARTFIG00667rwanda-le-rapport-qui-met-fin-a-des-annees-de-flou.php. 17 Cfr. M. FUSASCHI, Hutu–Tutsi. Alle radici del genocidio rwandese, Bollati Boringhieri, Torino 2000.

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ciali, basate su un differente rango economico e produttivo. La convivenza tra hutu e tutsi nel periodo precoloniale non aveva eccezionali contrasti e i matrimoni misti erano diffusi. I colonizzatori europei scalzarono questa suddivisione e crearono i gruppi razziali, forgiando delle differenze genetiche che prima non esistevano. La vecchia distinzione sociale caratterizzata da mobilità, assunse un connotato prettamente etnico e statico: o hutu o tutsi. Questo ha creato delle rivalità, poi acuitesi con la scelta dei belgi di assegnare la leadership del Paese alla minoranza tutsi18 (circa il 15%), l’etnia più ricca e che più si avvicinava ai canoni estetici occidentali. Infatti, se gli hutu, ossia l’85% della popolazione, sono marchiati come “negri per eccellenza”, perché bassi, tozzi e valutati con un’intelligenza ridotta, quindi fatti solo per lavorare, i tutsi sono considerati dai colonizzatori di origine etiopica, sono alti e snelli e ritenuti con un’intelligenza superiore a primi, quindi idonei a governare i “negri”. Nel 1925, così il ministro coloniale belga in Ruanda valutava i tutsi: Il Mutusi di buona razza non ha nulla del negro, a parte il suo colore. Egli è molto alto […] È molto magro […] I suoi lineamenti sono molto fini: sopracciglia alte, naso sottile e labbra sottili che incorniciano bei denti splendenti. Le donne Batutsi sono di solito di pelle più chiara dei loro mariti, molto snelle e belle in gioventù, anche se tendono a ispessirsi con l’età […] Dotati di un’intelligenza selvaggia [vicious], i tutsi mostrano una raffinatezza di sentimenti che è rara tra i popoli primitivi. [L’uomo tutsi] È un leader nato, capace di un estremo autocontrollo e di calcolata buona volontà. 19

Il favoritismo razziale dei colonizzati ha privilegiato la minoranza tutsi, mentre la presunta inferiorità degli hutu ha portato alla loro graduale esclusione politica e sociale. Con l’indipendenza avviene un rovesciamento di ruoli: il potere finisce nelle mani della maggioranza hutu e i prediletti tutsi diventano estranei, cittadini che non appartengono alla nazione hutu. Ora gli hutu hanno la possibilità di liberarsi 18

Cfr. P. COSTA, L. SCALETTARI, La lista del console. Ruanda: cento giorni un milione di morti, Paoline, Milano 2004, pp. 33-37. 19 A. TWAGILIMANA, The Debris of Ham: Ethnicity, Regionalism, and the 1994 Rwandan Genocide, University Press of America, Lanham (Maryland) 2003, p. 45.

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definitivamente degli hutu e lo fanno nella maniera più cruenta: attraverso la distruzione sia del loro presente sia del loro futuro. Cancellare il gruppo tutsi diventa un imperativo hutu. In termini di percentuale tra vittime, numero di abitanti e tempo impiegato, in Ruanda si consuma così non solo uno dei più feroci stermini di massa, ma anche la più rappresentativa guerra civile combattuta attraverso il corpo della donna per cancellare per sempre il futuro di questo gruppo umano. Un etnonazionalismo sessualizzato che ha prodotto una guerra sterminazionista, dove in circa cento giorni le due armi principali, il machete e il pene, hanno determinato tra 800.000 e 1.074.017 morti20 e tra 250.000 e 500.000 casi di violenze sessualizzate21. La violazione delle donne è un elemento decisivo nella guerra civile del Paese, anzi, durante lo sterminio dei tutsi lo stupro fu «la regola, e la sua mancanza l’eccezione»22. Ci sono due espressioni che sono state impiegate da parte di chi gli atti li ha commessi e sono rispettivamente umusanzu e kubohoza. Il primo termine umusanzu fu impiegato durante il genocidio per definire lo stupro come “contributo agli sforzi della guerra” […]. Il secondo termine kubohoza fu impiegato durante il genocidio dal violentatore, o più spesso dai violentatori perché agivano in gruppo, con il significato di “liberare”. […] Attraverso lo stupro consideravano quindi che la donna venisse liberata dal suo essere “nemica tutsi” quale occupante un paese non proprio. Nel caso specifico attraverso la violenza essi penL’ultima cifra è quella diffusa dal governo ruandese nel dicembre 2001. Fra le vittime anche il ridotto gruppo etnico Twa e gli huti moderati. Cfr. H. ROMBOUTS, Victim Organisations and the Politics of Reparation: A Case-study on Rwanda, Intersentia, Antwerp-Oxford 2004, pp. 145-146. 21 Anche se quest’ultima cifra sembra eccessiva, il valore minimo riferito al breve lasso di tempo fa rabbrividire. Cfr. U.N. Commission on Human Rights, Report on the Situation of Human Rights in Rwanda Submitted by Mr. René Degni–Segui, Special Rapporteur of the Commission on Human Rights under par. 20 of Resolution S–3/1, 25 May 1994, E7CN.4/1996/68, 29 January 1996, p. 7, https://digitallibrary.un.org/ record/228462. 22 U.N. Commission on Human Rights, Report on the Situation of Human Rights in Rwanda Submitted by Mr. René Degni–Segui, Special Rapporteur of the Commission on Human Rights under par. 20 of Resolution S–3/1, 25 May 1994, E7CN.4/1996/68, 29 January 1996, p. 7, https://digitallibrary.un.org/record/228462. 20

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savano di liberare la donna tutsi proprio da una sua presunta “tutsitudine” che aveva incorporato in termini “etnici” per divenire […] proprietà di un violentatore che, con la violenza, la faceva entrare a far parte del nuovo progetto nazionalista hutu.23

La violenza sessualizzata in Ruanda non è stata indiscriminata, ma mirata e con una logica politico-militare. I supremi giudici del Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, nel procedimento contro Jean–Paul Akayesu, insegnante e bourgmestre (sindaco) di Taba, hanno infatti riconosciuto lo stupro di massa come elemento decisivo e caratteristico dello sterminio contro i tutsi, stabilendo che «l’aggressione sessuale era parte integrante del processo di distruzione del gruppo etnico» e rivolta «solo contro le donne Tutsi, manifestando così lo specifico intento richiesto da queste azioni per costituire un genocidio»24. Il corpo delle donne tutsi diventa dunque luogo di guerra al fine di completare la distruzione dell’odiato nemico. Istigati dalle autorità politiche, tutto il gruppo hutu — dai soldati dell’esercito regolare alla guardia presidenziale e dagli Interahamwe (gruppo paramilitare estremista) ai semplici civili — partecipa alla mattanza. Apporto determinante è dato dall’emittente radiofonica Radio Télévision Libre des Mille Collines25 e dal giornale Kangura, che hanno divulgato messaggi fortemente razzisti e sessisti. Il giornale Kangura crea una fortissima propaganda basata sull’odio per le donne del gruppo nemico, anche attraverso illustrazioni satiriche in cui le donne tutsi sono raffigurate in scene degradanti26. Nel numero 6 del 10 dicembre 1990, lo stesso settimanale pubblica un 23

M. FUSASCHI, Corpo non si nasce si diventa. Antropologiche di genere nella globalizzazione, Cisu, Roma 2013, pp. 67-68. 24 Cfr. International Criminal Tribunal for Rwanda, The Prosecutor v Jean–Paul Akayesu, Case n. ICTR–1996–4–T, 2 September 1998, par. 731, in «U.N. Mechanism for International Criminal Tribunals – International Criminal Tribunals», https://unictr.irmct.org/sites/unictr.org/files/case-documents/ictr-96-4/trialjudgements/en/980902.pdf. 25 È stata un’emittente gestita dai circoli estremisti hutu, utilizzata inizialmente come principale mezzo per aizzare la propaganda dell’odio contro i tutsi e poi come vero e proprio strumento per dirigere i massacri. Cfr. A. THOMPSON (ed.), The Media and the Rwanda Genocide, Pluto Press, London 2007. 26 Cfr. J.-P. CHRÉTIEN, Les médias du génocide, Karthala, Paris 1995, ora 2002.

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articolo intitolato Richiamo alla coscienza degli Hutu, invitando gli hutu a “svegliarsi” perché i tutsi stavano cospirando per prendere il controllo del Paese. Alla quarta parte, l’editoriale evidenzia anche il pericoloso potere seduttivo delle donne tutsi sugli uomini hutu, mentre alla quinta parte si dettano i cosiddetti Dieci comandamenti Hutu27, i primi tre dei quali sono proprio dedicati alle donne tutsi: 1. Ogni hutu deve sapere che una donna tutsi, ovunque lei sia, lavora nell’interesse del suo gruppo etnico tutsi. Di conseguenza noi consideriamo traditore qualsiasi hutu che: - sposi una donna tutsi; - si leghi d’amicizia con una donna tutsi; - impieghi una donna tutsi come segretaria o come concubina. 2. Ogni hutu deve sapere che le nostre ragazze hutu sono migliori e più coscienziose nel loro ruolo di donne, mogli, madri. Non sono forse belle, brave segretarie e più oneste? 3. Donne hutu, siate vigili e cercate di ricondurre a ragione mariti, fratelli e figli.

Se il giornale Kangura è servito per conferire una base teorica alle violenze, le emittenti radiofoniche, mezzi capaci di raggiungere via etere anche i più sperduti villaggi del Paese, sono utilizzate come canale per infondere una sistematica circuizione della massa hutu per radicalizzarla. Dagli aggiornamenti dei tutsi morti all’istigazione ad ammazzare «con ordine, calma e amore», la “Radio delle mille colline” arriva finanche a lanciare veri e propri ordini a uccidere con tanto di nomi e indirizzi28.

27

Cfr. Appeal to the Conscience of the Hutu, «Kagura», n. 6, 1990, in «Genocide Archive of Rwanda», https://genocidearchiverwanda.org.rw/index.php?title=Kangura_ No_6&gsearch=. I “dieci comandamenti” tradotti in italiano in «Bene Rwanda», http://www.benerwanda.org/?p=1340. 28 Alcune trascrizioni dei farneticanti programmi radio del periodo, in «Montreal Institute for Genocide and Human Rights Studies», Rwanda radio transcripts. Université Concordia, Montreal, https://www.concordia.ca/research/migs/resources/rwandaradio-transcri pts.html.

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L’apporto determinante dei media nello sterminio dei tutsi è riconosciuto grazie alle sentenze emesse nel 2007 dal Tribunale Internazionale per i Crimini in Ruanda contro il fondatore e curatore del giornale Kangura, Hassan Ngeze, e i due direttori di Radio Télévision Libre des Mille Collines, Ferdinand Nahimana e Jean-Bosco Barayagwiza, per istigazione al genocidio29. Le forme di violenza sessualizzata che sono state inferte durante i circa cento giorni della mattanza, hanno compreso lo stupro individuale e di gruppo, la schiavitù sessuale, la gravidanza forzata. Molte delle vittime sono state anche orribilmente mutilate in corrispondenza degli organi genitali, utilizzando bastoni, coltelli, oppure con acido o acqua bollente. L’idea che le donne non abbiano a che fare con l’orrore delle violenze di massa è infranta da molte donne hutu. Più di altri casi di stermini e violenze di massa, in Ruanda le donne carnefici sono numerose, intervenendo sia in maniera attiva (partecipando alle violenze materialmente) sia come ausiliare delle violenze (incoraggiamento, supporto tattico e operativo e spionaggio): alcune costrette dai propri uomini, altre volontariamente. Tra le circa centomila persone in attesa di giudizio nel 2002, perché accusate di essere coinvolte nello sterminio in massa dei tutsi, circa tremila sono donne30. Tra quelle particolarmente attive, oltre alle donne comuni, ci sono anche la ministra della Giustizia Agnes Ntamabyariro, la madre superiora Gertrude Mukangango e suor Julienne Kizito, entrambe del monastero di Sovu, la ministra ruandese per la promozione delle donne e della famiglia Pauline Nyiramasuhuko31. 29

Cfr. L. MAY, Genocide. A Normative Account, Cambridge University Press, Cambridge 2010, pp. 180-201. 30 Cfr. N. ITANO, 3,000 Rwandan Women Await Trials for Genocide, «Women's eNews» December 20, 2002, https://womensenews.org/2002/12/3000-rwandanwomen-await-trials-genocide/. 31 Cfr. N. HOGG, Women’s Participation in the Rwandan Genocide: Mothers or Monsters?, «International Review of the Red Cross», vol. 92, n. 877, 2010, pp. 89-99; D.J. MAIER, Women Leaders in the Rwandan Genocide: When Women Choose To Kill, «The University of Northern Iowa Journal of Research, Scholarship, and Creative Activity», vol. 8, 2012-2013, https://universitas.uni.edu/volume-8-20122013/essays-studies-and-works/women-leaders-rwandan-genocide-when-womenchoose-kill.

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Quest’ultima è l’unica donna condannata dal Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, che le inflisse la pena dell’ergastolo per la partecipazione al genocidio, per aver incoraggiato lo stupro di massa nella prefettura di Butare e per aver fatto liberare per l’occasione malati di AIDS per contagiare le donne tutsi (aprile 1994)32. Il coinvolgimento delle donne hutu nelle violenze ha diverse spiegazioni, le stesse che hanno mosso i maschi hutu. Ci sono motivazioni legate al forte senso di appartenenza alla propria etnia, ora minacciata da un’ipotetica offensiva tutsi del Fronte Patriottico Ruandese, tanto annunciata dalla propaganda; poi c’era la paura sostanziale delle conseguenze se si fossero rifiutate di collaborare; poi ancora la gelosia per la ricchezza dei tutsi (depredati dopo ogni uccisione); infine c’era rancore verso le donne tutsi, considerate le più avvenenti nel continente africano e per questo pericolose, perché in grado di soggiogare l’uomo hutu; umiliare i maschi hutu, infliggendo la “morte sociale” alle loro donne; compromettere la natalità all’interno del gruppo e completare lo sterminio anche nel lungo periodo33. Il resto l’ha fatto l’AIDS, di cui il 70% delle donne hutu è risultato contagiato, condannando le sopravvissute ai massacri a una lenta e dolorosa agonia34. Ci sono anche molte donne che hanno cercato di proteggere gli odiati nemici, specialmente quelle sposate con uomini tutsi. Per la credenza della discendenza patrilineare, infatti, i figli di un padre tutsi e una madre hutu sono considerati appartenenti al lignaggio paterno, quindi nemici. 32

Cfr. International Criminal Tribunal for Rwanda, The Prosecutor v. Pauline Nyiramasuhuko et al., Case n. ICTR–98–42–A, 14 December 2015, in «U.N. Mechanism for International Criminal Tribunals – International Criminal Tribunal for Rwanda», http://unictr.unmict.org/sites/unictr.org/files/case-documents/ictr-98-42/appeals-cham ber-judgements/en/151214.pdf 33 Cfr. N. HOGG, Women’s Participation in the Rwandan Genocide: Mothers or Monsters?, cit., pp. 83-89. 34 Cfr. African Rights, Rwanda. Broken Bodies, Torn Spirits. Living with Genocide, Rape and HIV/AIDS, African Rights, Kigali 2004 (il report anche in «GBV Africa», http://preventgbvafrica.org/wpcontent/uploads/2013/10/brokenbodies.africanrights.pdf); Amnesty International, Rwanda: “Marked for Death”, Rape Survivors Living with HIV/AIDS in Rwanda, London 2004, in «Amnesty International», https://www.amnesty.org/en/documents/ afr47/007/2004/en/.

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Le violenze in massa si concludono a luglio, quando le milizie tutsi riunite nel “Fronte Patriottico Ruandese” di Paul Kagame, depongono il governo hutu.

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8.3. Stupri “umanitari” L’orrore non ha mai fine per le donne durante i conflitti: anche chi avrebbe dovuto proteggerle si dimostra un perfido razziatore. È la storia, anzi le storie di molti peacekeepers coinvolti in squallide vicende di abusi sessuali e di sfruttamento della prostituzione, anche minorile. Le cosiddette forze di pace hanno il preciso mandato di proteggere le popolazioni civili, prevenire i crimini di guerra e contro l’umanità in teatri bellici. Questi impegni sono l’ethos di ogni loro missione. Tuttavia, a dispetto di questi nobili intenti, molti peacekeepers si trasformano da soccorritori a oppressori. Ricorda Hillary Margolis , ricercatrice sui diritti delle donne di Human Rights Watch: «In un Paese in cui i gruppi armati di routine depredano i civili, le forze di pace dovrebbero essere protettori, non predatori»35. Tanti sono i casi documentati di violenze e abusi contro le donne da parte dei cosiddetti “operatori della pace”: Cambogia, Haiti, Sierra Leone, Costa d’Avorio, Sudan del Sud, Mali, Mozambico, Somalia, Guinea, Liberia, Eritrea, Timor Est, Iraq, Kosovo, Bosnia, Repubblica Centroafricana, Burundi, Congo36.

35

Human Rights Watch, Central African Republic: Rape by Peacekeepers. UN, Troop-Contributing Countries Should Hold Abusers Accountable, in «Human Rights Watch», February 4, 2016, https://www.hrw.org/news/2016 /02/04/central-africanrepublic-rape-peacekeepers. 36 Cfr. K. AKONOR, UN Peacekeeping in Africa. A Critical Examination and Recommendations for Improvement, Springer, New York 2017, pp. 35–57; S. OMARI, The Index: Peacekeeper Rape, by the Numbers, «Women Under Siege Project», March 18, 2016, http://www.womenundersiegepro ject.org/blog/entry/the-index-peacekeeperrape-by-the-numbers; S.E. MENDELSON, Barracks and Brothels: Peacekeepers and Human Trafficking in the Balkans, Center for Strategic and International Studies, Washington 2005.

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Le numerose denunce testimoniano il fatto che questo corrotto fenomeno non è né occasionale né isolato37. Si tratta sempre di una cattiva condotta sessuale che si potrebbe distinguere in: abusi sessuali violenti, quando è coinvolta la forza fisica diretta o minacciata da parte di un oppressore o più oppressori verso una o più vittime; sesso transazionale, ossia un vero e proprio baratto sessuale in cui le prestazioni sessuali si ottengono in cambio di supporti materiali (cibo, vestiti e altri beni di prima necessità); produzione di materiale pornografico, favoreggiamento della prostituzione. Come ben comprensibile, nel primo caso il rapporto sessuale si basa sulla violenza fisica (materiale e/o minacciata) da parte dello stupratore o del molestatore; nel secondo caso attraverso una circonvenzione o una concussione; nel terzo caso di sesso dietro pagamento di una somma di denaro. In tutti i casi c’è sempre una violenza in una cultura sessuale predatoria, seppur in diversi gradi: da quella fisica a quella minacciata, sino al ricavare profitto da una condizione di indigenza della vittima. Questo conferma una certa continuità di forme simboliche nel considerare le donne “il corpo della donna”, anche in situazioni di difesa della pace. Dunque: stupro e molestie sessuali 38, produzione pornografica di video39, sesso a pagamento (sfruttamento della prostituzione forzata 37

Uno schema dettagliato dei procedimenti per tipo di missione, data, categoria del personale coinvolto (civile o militare), accusa, indagini, in ONU, Sexual exploitation and abuse, «Conduct in UN field missions», https://conduct.unmissions.org/table-ofallegations. 38 Ad esempio un clamoroso caso di violenza sessualizzata interessò un francese, un responsabile della manutenzione dei veicoli della missione per il mantenimento della pace delle Nazioni Unite nel Congo. La polizia congolese lo arrestò mentre si apprestava a violentare una bambina di dodici anni inviata a casa sua, l’ultima di circa venti ragazze africane. C. AYAD, Un «Casque bleu» violeur de jeunesse?, «Libération», 9 septembre 2008, https://www.liberation.fr/jour/2008/09/09/un-casquebleu-violeur-de-jeunesse_79715/ 39 Ad esempio, un caso eclatante di produzione pornografica fu quello che nel 2002 vide come protagonista un casco blu irlandese di stanza in Eritrea. Il militare venne infatti colto in fragrante dopo aver avuto rapporti sessuali con una ragazza di 22 anni e aver effettuato un video porno con quest’ultima. D. WALSH, N. BYRNE, Peacekeeper jailed for porn films, «Scotland On Sunday», 22 dicembre 2002, http://www.whale.to/ b/peace1.html.

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o consensuale)40, prestazioni sessuali dietro compenso di beni di prima necessità41, sevizie sessuali42. Le vittime sono sia adulti sia bambini, maggiormente di sesso femminile. Gli autori comprendono l’intera gamma di forze di pace delle Nazioni Unite in uniforme (ufficiali e soldati membri del contingente militare, osservatori militari, componenti della Polizia delle Nazioni Unite o di una Unità di polizia formata) e civile (personale civile dell’ONU internazionale o nazionale, volontari civili delle Nazioni Unite), nonché appaltatori privati, operatori umanitari e altri associati alle operazioni di pace. Seppur azioni individuali per tornaconti privati, queste violenze rientrano in contesti politico-militari, quali sono le missioni per il mantenimento della pace. È la posizione dominante dei peacekeepers a permettere queste violenze sulle donne. Il fattore interpretativo di queste violenze, infatti, è tutto nelle relazioni di potere che si instaurano nei territori già segnati dalla guerra: potere di genere, potere militare, potere sociale, potere economico. Queste potestà auto-acquisite dai peacekeepers rafforzano il concetto di mascolinità egemonica che riproducono relazio40

Ad esempio soldati della UNPROFOR, la missione creata per attuare le condizioni di pace e sicurezza necessarie per raggiungere una soluzione della crisi jugoslava, venivano spesso visti in bordelli controllati dai miliziani e in cui donne bosniache venivano costrette a prostituirsi. B. ALLEN, Rape Warfare. The Hidden Genocide in Bosnia-Herzegovina and Croatia, University of Minnesota Press, Minneapolis-London 1996, pp. 66-67. 41 Ad esempio in Congo molte delle donne e ragazze stuprate dalle fazioni nemiche sono state abbandonate con il loro figli dalle proprie famiglie. Senza mariti ad assisterle, si sono rivolte ai peacekeepers uruguaiani e marocchini stazionati nel campo. Un modo per loro di barattare cibo è di offrire il loro corpo ai peacekeepers. S. MARTIN, Must boys be boys. Ending sexual exploitation & abuse in Un peacekeeping operations, «Refugees International», Washington 2005, p. 4. 42 Ad esempio, tra le manifestazioni più orribili durante l’operazione condotta dai parà della Folgore nell’ambito di “Restore Hope” (1992–1995), quelli di una giovane somala stuprata con un razzo illuminante e di un prigioniero torturato con elettrodi applicati ai suoi genitali. Del caso si occupò anche il Parlamento Italiano. Cfr. https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/83335.pdf. Cfr. anche Human Rights Watch, The Power These Men Have Over Us. Exploitation and Abuse by African Union Forces in Somalia, September 8, 2014: http://www.hrw.org/reports/2014/ 09/08/power-these-men-have-over-us.

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ni impari tra i generi. Tuttavia queste pseudo dimostrazioni di machismo, associate al senso di onnipotenza, alla consapevolezza delle mancanze di regole in una situazione bellica e a volte al razzismo, sono l’esatto contrario della virilità. Quando poi le violenze sono commesse da operatori occidentali, si aggiunge anche il razzismo, retaggio del colonialismo. Un peacekeeper civile francese della missione ONU nella Repubblica Democratica del Congo (MONUC) ha ammesso di aver fatto sesso con 24 ragazze minorenni nel 2004, giustificando col fatto che «laggiù lo spirito coloniale persiste. L’uomo bianco ottiene ciò che vuole»43. Un ultimo fattore che contribuisce allo sfruttamento delle donne in stato di bisogno e all’abuso sessuale è quello evidenziato da Paul Higate: la predominanza di una visione pessimistica della missione. Nel suo rapporto sulla Repubblica Democratica del Congo, Higate rileva che un certo numero di peacekeeeprs crede che le loro azioni non possano peggiorare la situazione in un contesto già disastroso44. A tutto questo si aggiunge la convinzione dell’impunità da parte degli aguzzini. La cultura maschile delle missioni di pace delle Nazioni Unite ha prodotto una certa giustificazione per i comportamenti del personale delle missioni per il mantenimento della pace. Ad esempio tra il 1992 e il 1993, durante la missione dell’Autorità di Transizione delle Nazioni Unite in Cambogia (UNTAC) il numero delle case di tolleranza e dei saloni di massaggio “alla thailandese” nel Paese si è moltiplicato e il numero di prostitute è aumentato da 6.000 a 25.000, com-

43 UN civilian worker in DRC accused of child molestation, «UN News Service», 1 Nov. 2004, http://reliefweb.int/report/democratic-republic-congo/un-civilian-workerdr-congo-accused-child-molestation; MUNA NDULO, UN responses to the SEA of women and girls by peacekeepers during peacekeeping missions, «Berkeley Journal of International Law 27», 1, 2009, p. 144, così cit. in J.-K. WESTENDORF, L. SEARLE, Sexual exploitation and abuse in peace operations: trends, policy responses and future directions, «International Affairs», 93, 2, 2017, p. 376. 44 Cfr. P. HIGATE, Gender and peacekeeping. Case studies: the Democratic Republic of the Congo and Sierra Leone, «Institute for Security Studies Monographs», n. 91, 2004, p. 13, ora in «AfricaPortal», https://www.africaportal.org/publications/genderand-peacekeeping-case-studies-the-drc-and-sierra-leone/.

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preso un numero crescente di prostitute bambine45. Molti cambogiani si lamentarono per il comportamento disordinato del personale della delegazione UNTAC, ma il rappresentante speciale del Segretario generale della stessa missione, Yasushi Akashi, rispose affermando assurdamente: «I ragazzi sono ragazzi»46. Non fu presa alcuna azione disciplinare. Dall’iniziale condiscendenza e rassegnazione della gerarchia delle missioni ONU, finalmente si è passati a tolleranza zero, attraverso l’adozione di “misure speciali”47. Tuttavia, nonostante i provvedimenti e le varie condanne dell’Onu e dei vertici di altre istituzioni, gli episodi si susseguono con una regolarità allarmante.

8.4. Jihâd sessuale e teologia dello stupro dello Stato Islamico Jihâd significa “impegno totale per la causa di Dio” (al- Jihâd fî sabîli-Ilâhi), quindi in un certo senso richiama alla “lotta per Dio”. Tuttavia, lotta in ogni caso non necessariamente vuol dire confronto materiale, perché si può lottare anche interiormente e spiritualmente: è la guerra dell’io contro le sue malvagità e il controllo delle proprie passioni, che allontanano dalla legge di Dio. Al Jihâd, si attribuiscono tre grandi significati48. Alcuni ulema49 ritengono che la pace sia “salvezza”, in questo mondo e nell’altro. Il termine Jihâd assume qui soprattutto significati ascetici e mistici. Si tratta del Jihâd interiore dell’anima (Jihâd ‘ala nafs - sforzo su sé stesso), per convertirsi a Dio. Insomma, una lotta morale individuale per il bene, una costante preoccupazione dell’equilibrio e della dignità, 45

A. MACKAY, Sex and the Peacekeeping Soldier: The New UNResolution, «Peace News», June 2001-31 August 2001; C. LYNCH, U.N. Faces More Accusations of Sexual Misconduct, «The Washington Post», March 13, 2005, così cit. in S. MARTIN, Must Boys, op.cit., p. 4. 46 Ibidem. 47 Una serie di misure in https://www.un.org/preventing-sexual-exploitation-andabuse/content/secretary-generals-reports. 48 Sui concetti di Jihâd in generale cfr. il mio La politica del terrore. Il terrorismo: storia, concetti, metodi, Aracne, Roma 2015, pp. 315-333. 49 ‘Ulama, esperti nella Sharîî’a, la Legge di Dio.

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un dovere etico e religioso proiettato a un modello di vita ideale come quello del profeta Maometto, uno sforzo continuo che ogni credente deve fare per dominare se stesso nella ricerca del sentimento di Dio50. In questo “fare il bene” sono ovviamente sottintese tutta una serie di azioni e di scelte morali che riguardano il singolo, il suo rapporto con Allah, ma anche verso la comunità. Un altro significato è legato all’idea di difesa della propria comunità. Così, se la forma pacifica fallisce, l’Islam ricorre alla guerra per ristabilire la giustizia51. Non è ammesso fare Jihâd per scopi politici, o altro che esuli dalla legittima difesa, poiché chi si comporta diversamente viene accusato di omicidio. In questo senso, quindi, Jihâd può indicare anche lo sforzo materiale teso a difendere la propria incolumità, quella della propria famiglia e quella della propria comunità da attacchi esterni, anche attraverso il sacrificio supremo. L’ultimo significato è quello fondamentalista-radicale: l’egiziano Sayyid Qutb considera l’Islam una lotta non solo morale e spirituale, ma anche militare e, soprattutto, missionaria. La guerra quindi non può essere solo difensiva, ma anche offensiva, poiché con essa si deve assicurare il governo della Sharîî’a. Per Sayyid Qutb il Jihâd armato appartiene alla natura dell’Islam ed è il mezzo per salvare le anime perdute dell’umanità. Tutti però concordano su una caratteristica: poiché è prescritto da Dio, tramite il profeta Maometto, il Jihâd è un ibâda (atto di culto), quindi diviene una delle chiavi che apre le porte d’accesso al Paradiso. Chi muore nel Jihâd è per sempre un martire della fede, uno shahid. Il mondo musulmano è un universo composto al suo interno da numerose correnti, anche contrapposte. Una di queste è quella radica50

«Quando a coloro che fanno uno sforzo per Noi, li guideremo sulle Nostre Vie. In verità Allah è con coloro che fanno il bene». Corano 29, 69. 51 «Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, che Allah non ama coloro che eccedono. Uccideteli ovunque li incontriate e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti», Corano 2, 190-191. Ancora, «Oh voi che credete, siate testimoni sinceri davanti ad Allah, secondo giustizia. Non spinga all’iniquità l’odio per un certo popolo. Siate equi: l’equità è consona alla devozione», Corano 5, 8.

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le, una corrente estremista del fondamentalismo che sostiene il ritorno alle grandi origini nell’Islam. Questa corrente, in risposta al processo di modernizzazione del mondo, ha reagito radicalizzando la Parola del Testo sacro e strutturandosi in due movimenti: una neotradizionalista e l’altro radicale. Questi due movimenti differiscono soprattutto nella strategia da adottare per la reislamizzare la società e l’individuo: per l’ala neotradizionalista la strategia si deve concretizzare attraverso una profonda opera di diffusione della cultura islamica, tramite una fitta rete di scuole coraniche e moschee, attraverso la diffusione dei precetti religiosi tra gli intellettuali, gli studenti e nel mondo del lavoro in generale, offrendo una vasta gamma di servizi sociali. Per l’ala radicale, l’islamizzazione va perseguita mediante la conquista del potere politico, anche attraverso l’uso della forza e delle armi.52

L’Islam radicale determina un quadro costituzionale nel quale non v’è alcuna separazione tra politica e religione. Tutte le organizzazioni radicali islamiche sono rivolte alla creazione di uno Stato teocratico di stampo islamico nel proprio Paese o nella propria area geografica53. L’idea di unificare questi governi “autenticamente islamici” in una federazione guidata da un’unica autorità insieme spirituale e politica che porti il titolo di “Califfo”, porta nel 2014 Ibrāhīm Awwād Ibrāhīm Alī al-Badrī al-Sāmarrā ī, più noto come Abu Bakr alBaghdadi, a proclamare la nascita di al-Dawla alIslāmiyya (Stato islamico) e la restaurazione del Califfato54. Missione dello Stato islamico è quella della conversione all’Islam del mondo. Per l’Islam estremista il Jihâd ha anche una componente di genere e assume la modalità di jihad al-nikah, letteralmente “guerra santa della copulazione legale”, per estensione “guerra santa attraverso il 52 R. PATERNOSTER, Da al-Qa’ida allo Stato Islamico: la genesi del terrore in nome di Dio, «Storia del Mondo», n. 84, 2017, p. 4. 53 Tutte hanno duplice struttura: una politica e una legale. La prima opera pubblicamente, occupandosi anche dell’insegnamento religioso e del proselitismo, assicurando assistenza sociale; l’altra è clandestina, dedicandosi alla “Guerra santa” contro l’infedele che occupa i territori dell’Islam. I gruppi radicali in R. PATERNOSTER, La politica del terrore, cit., pp. 333-339. 54 Cfr., Ivi, pp. 339-346.

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contratto matrimoniale” (l’etimologia del termine nikah rimanda al coito, mentre nel suo significato terminologico vuol dire matrimonio). In pratica si tratta di un’attività che si riferisce alle donne islamiche che compiono l’hijra (emigrazione) verso le terre del Califfato, per offrirsi come mogli a tempo per il comfort sessuale dei jihâdisti, contribuendo indirettamente alla guerra contro i miscredenti. La donna che compie l’hijra accede allo status religioso e sociale di muhajira, la “sposa del Jihâd”. Accettando il jihad al-nikah le donne jihâdiste, meglio le donne dei jihâdisti si assoggettano a una servitù volontaria, diventando espressione della loro identità musulmana femminile55. La pratica dello jihad al-nikah si basa sulla presunta fatwā56 “Jihad ul Nikaah”, emessa tra il 2012 e il 2013 e attribuita a un religioso saudita wahhabita, lo sceicco Mohamad al-Arefe. Partendo dal presupposto che in circostanze eccezionali alcune cose proibite sono permesse, lo sceicco ha affermato che è lecito per le donne dare un senso sacro alla loro vita offrendosi come mogli ai valorosi jihâdisti. Seppur Mohamad al-Arife abbia negato di essere l’autore di questa fatwā57, l’impatto di questa sentenza è stato molto importante per i combattenti dello Stato islamico. Dunque, per superare il precetto che vieta di avere rapporti sessuali prima del matrimonio, i jihâdisti si sposano con donne che accettano di diventare mogli anche solo per poche ore. Poi possono essere ripudiate per accettare altri matrimoni. Dalla volontarietà si è passati poi alla costrizione, dando luogo alla schiavitù sessuale, ora permessa da questa “teologia dello stupro” che 55

Una campagna di matrimoni forzati e schiavitù sessuale è portata avanti anche dall’organizzazione terroristica alleata allo Stato islamico, il gruppo nigeriano Boko Haram. J. ZENN, E. PEARSON, Women, Gender and the evolving tactics of Boko Haram, «Journal Of Terrorism Research», 5(1), 2014, pp. 46–57; T.B. ORIOLA, “Unwilling Cocoons”: Boko Haram’s War Against Women, «Studies in Conflict and Terrorism», 2016 May 12, pp. 1–23. Una breve descrizione e storia di Boko Haram nel mio La politica del terrore, cit., pp. 346-356. 56 È una sentenza o un parere in materia giuridico-religiosa emessa da un muftì (esperto nella legge coranica). 57 Cfr. H. ANSARIAN, Jihad Al-Nikah, https://www.erfan.ir/english/89782.html. Questa pratica è condannata oltre che dagli esperti religiosi dell’Islam moderato, anche negli altri ambienti jihadisti.

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istituzionalizza la violenza sessualizzata. In questo secondo caso, in buona sostanza si legittimano le violenze sessualizzate, facendole apparire in regola a livello religioso. I rapporti carnali sulle schiave sessuali si presentano, infatti, come dei veri e propri rituali, ogni stupro è preceduto e seguito da una preghiera ad Aḷāh. 58. Diversa è la posizione della “teologia dello stupro” sulle donne non musulmane. Infatti, queste sono considerate “cose” da utilizzare a piacimento. In caso di guerra diventano oggetti per concretizzare una punizione, una vendetta, una umiliazione, una supremazia. A loro, dunque, è riservata la schiavitù sessuale. Questo è chiarito sulla rivista dello Stato Islamico “Dabiq”, maggior organo di propaganda del gruppo. Nel quarto numero del 1995 (che corrisponde al 1415 del calendario islamico) si riporta la giustificazione della riduzione in schiavitù delle donne yazide59 attraverso un’interpretazione propria dei precetti dell’Islam: gli yazidi sono considerati dallo Stato islamico “adoratori del diavolo”, quindi pericolosi nemici, per tanto la loro persecuzione è un atto benvoluto da Aḷāh e lo stupro delle donne della comunità è un atto di devozione, dunque non è considerato peccato60. Lo stesso è permesso nei confronti di donne cristiane ed ebree, qualora si trovino in territori conquistati dallo Stato islamico. Anche il “Comitato per la ricerca e le fatwa dello Stato islamico”, in un opuscolo contenente le risposte a 32 domande sulla prigionia e 58

Cfr. R. CALLIMACHI, ISIS Enshrines a Theology of Rape, «The New York Times», AUG. 13, 2015, https://www.nytimes.com/2015/08/14/world/middleeast/isis-enshri nes-a-theolo gy-of-rape.html. 59 Sul gruppo cfr. B. AÇIKYILDIZ, The Yezidis. The History of a Community, Culture and Religion, I.B. Tauris, London-New York 2010. Le donne più tormentate dai jihâdisti sono proprio quelle yazide. Gli yazidi, rifiutando qualsiasi forma di conversione sono diventati nemici interni per eccellenza. Una volta conquistati i loro territori i maschi adulti e giovani sono massacrati, mentre le donne dai nove anni in poi, se non vogliono convertirsi all’Islam ― e quindi aderire al Jihad sessuale ― diventano schiave da vendere. Cfr. Amnesty International, Escape from Hell. Torture and sexual slavery in Islam State captivity in Iraq, London 2014, https://www.amnesty.org/down load/Documents/MDE140212014ENGLISH.pdf; R. CALLIMACHI, ISIS Enshrines a Theology of Rape, cit. 60 Cfr. The revival of slavery before the hour, in «Dabiq», n. 4, 1415 Dhul-Hijjah (maggio 1995), p. 15, https://www.ieproject.org/projects/dabiq4.pdf.

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su come trattare con i prigionieri, attesta che “l’infedeltà ad Aḷāh autorizza la loro cattività”61. Nel nono numero di “Dabiq”, Umm Sumayyah Al-Muhajirah, dedica un articolo di cinque pagine per sostenere la pratica della schiavitù femminile anche di donne sposate. Consumare un rapporto sessuale con una donna sposata è peccato, ma la redattrice dell’articolo precisa che se questa è catturata durante una “guerra santa”, la sua prigionia la svincola dal matrimonio62. Questo è confermato da Sa’īd ibn Jubayr, della generazione Tabi`I63, «Avvicinarsi a qualsiasi donna sposata è fornicazione, ad eccezione di una donna che è stata schiavizzata»64. Agli stupri si aggiungono altre due terribili violenze: molte schiave sono sottoposte alla ricostruzione dell’imene, perché una donna vergine ha un valore superiore rispetto alle altre; la maggior parte sono costrette ad assumere dosi massicce di contraccettivi per evitare gravidanze indesiderate che annullerebbero il loro valore (sia per la vendita sia il loro uso sessuale). Lo Stato islamico, dunque, non ha stabilito i classici bordelli in cui rinchiudere le schiave sessuali, ma ha elaborato una teologia per assicurare il rispetto dei precetti dell’Islam. Jihâd sessuale e teologia dello stupro consentono pertanto ai combattenti dello Stato islamico di conservarsi puri, arretrando dinanzi alla tentazione di relazioni sessuali illecite. Dunque sono dispositivo di disciplina, ma anche strumento di reclutamento e raccolta fondi. Oltre alla giustificazione propriamente religiosa, il “trattamento” sessuale riservato alle donne miscredenti ha altri significati. Nell’articolo già citato di Umm Sumayyah Al-Muhajirah, la redattrice si rifiuta di accettare la nozione di desiderio maschile come il solo motore che 61 Islamic State’s Committee of Research and Fatwas, Questions and Answers on Taking Captives and Slaves, «House of al-Himma Library Archive», 2014, https://archi ve.li/bK5Ut. L’opuscolo spiega come trattare le proprie schiave, che possono essere comprate, vendute e distribuite tra gli eredi quando il loro padrone muore. 62 Cfr. UMM SUMAYYAH AL-MUHAJIRAH, Slaver-girls or prostitutes?, in They Plot and Allah Plots, «Dabiq», Sha’ban, 1436 (maggio 2015), pp. 44-49, https://www.joshua landis.com/blog/wp-content/uploads/Dabiq-9-They-Plot-and-Allah-Plots-compressed. pdf. 63 I Tabi`I (Seguaci) furono i musulmani della generazione successiva a quella del profeta Maometto. 64 In ivi, p. 44.

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muove la pratica della schiavitù sessuale, ma la considera un esercizio puro per la salvezza e la purificazione della donna in servitù. La scrittrice aggiunge anche altri motivi che giustificano la schiavitù delle donne del nemico: terrorizzare e umiliare la restante parte della popolazione nemica per spingerli ad arrendersi e convertirsi all’Islam. Tuttavia, anche con la conversione la fine delle donne diviene identica, cambiando solo nome all’oppressione: da schiavitù a matrimonio (forzato).

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Epilogo

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Non è sesso, ma “disturbo culturale”

Sono poche le riflessioni possibili da aggiungere a quanto scritto. Vi è invece tanto da lavorare per riportare il mondo umano alle giuste equazioni, perché nella storia delle donne, ogni volta che si pensa di aver raggiunto il fondo, arriva sempre qualcosa che fa ricredere, comprendendo che il fondo, purtroppo, non c’è. Se ancora oggi la violenza sulle donne continua in tutte le sue sfumature di spavalderia maschile, tanto nel sociale tanto nel politico, è perché agisce come sottofondo a quello che chiamo disturbo culturale, che ha istituzionalizzato una differenza biologica in una differenza culturale, imbrigliando i generi umani in un ordine gerarchico. Definisco in generale il costrutto del disturbo culturale come una disfunzione del sapere, dovuta a una cattiva conoscenza delle “cose”, che porta a una significativa indisposizione nell’ambito della sfera relazionale e affettiva di una persona, che conduce a una pericolosa asocialità e inumanità. I rapporti squilibrati tra uomini e donne in tempo di pace si riflettono poi in tempo di conflitti. La trasformazione delle finalità della guerra ha ampliato la riproduzione della disuguaglianza di genere e la donna, attraverso il suo corpo, diventa appannaggio di opportunisti della politica. In conflitti dove il nemico è diventato assoluto, non si cerca più solo la vittoria, ma la sua distruzione assoluta, materiale e simbolica. In questo quadro la donna assurge a ruolo di vittima sacrificale, anzi la donna completamente svuotata della sua compiutezza ontologica, di223

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viene il suo corpo, a sua volta metafora simbolico-materiale sia di una conflittualità tutta maschile sia di una “naturale” predestinazione della differenza tra generi. Così, anche durante i conflitti politici, si continua a considerare la violenza sessualizzata come un raptus, un impulso sessuale irrefrenabile. Come in pace, anche in guerra queste violenze sono banalizzate, ridimensionate e quasi giustificate. Questo continua a determinare un uso strumentale della donna, ora doppiamente vittima (per la violenza subita e per la banalizzazione di quella stessa violenza): Così facendo vengono delegittimati, minati e sminuiti l’orrore, l’invasività, la profanazione che hanno sperimentato. Questo le fa sentire sole e impotenti tanto quanto si sentivano al momento dello stupro.1

Tutto questo è un’altra forma di stupro. Ancora oggi si fa fatica a chiamare la violenza sulle donne con il loro nome. Ancora oggi, anziché lavorare per “porre fine allo stupro, lo si ridefinisce”2. Ancora oggi si fa fatica a comprendere che la violenza sulle donne, in guerra e in pace, non è il frutto acerbo di una pseudo virilità maschile disturbata, malata, insanabile, ma è il frutto di una cultura diversamente appresa. Già comprendere che la violenza sulle donne ha radici culturali è un primo importante passo che aiuta a «rendere visibili le regole invisibili perché naturalizzate»3. Il paradosso tuttavia resta quello che si insegna alle donne a difendersi, mentre si dovrebbe soprattutto educare l’uomo al rispetto. Educare a considerare la donna nella sua pienezza e non nel suo corpo. 1

Sono parole di Eve Ensler drammaturga statunitense, scritte nel 2012 in una lettera aperta al parlamentare repubblicano Todd Akin, che aveva tentato di giustificare le restrizioni all’accesso all’aborto negli USA sostenendo che in caso di “stupro legittimo” (sic!) non c’è nessun bisogno per la donna violentata di abortire, poiché il corpo evita la gravidanza da solo. La lettera di Ensler in «Globalist», https://giulia.globalist.it/at tualita/2017/07/11/mister-todd-le-spiego-lo-stupro-cos-e-2004038.html. 2 «Perché non usate il vostro tempo per porre fine allo stupro invece di ridefinirlo? Usate le vostre energie per perseguire i criminali che distruggono le donne con tanta facilità invece di fare distinguo linguistici usando un linguaggio manipolativo che minimizza la loro distruzione». Sono ancora parole di Eve Ensler. Ibidem. 3 S. CICCONE, Violenza maschile, «Post-filosofie», n. 8, 2017, p. 73.

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Educare nel comprendere ai maschi che non è il sesso in dotazione a fare la differenza. Educare per annullare definitivamente la “distanza di genere”. Educare per sbriciolare i vecchi stereotipi sulle donne, per abbattere risolutivamente le barriere simboliche e comprendere che una differenza biologica non può, e non deve essere una differenza politico-sociale. Educare, dal verbo latino educĕre (tirar fuori, dalla unione di e-, prefisso che indica movimento verso il fuori, e dūcĕre, condurre). “Tirar fuori”, dunque, il bello, il vero, il giusto, iniziando a nominare propriamente la violenza, perché essa, lo riscrivo, contiene un implicito culturale universale retaggio di antichi stereotipi e pregiudizi, che portano ancora oggi a considerare le violenze sulle donne come violenze sessuali, violenze passionali. No, non è così… di erotismo non c’è niente, di passione non c’è nulla, è solo egoismo, possesso, fallocrazia… l’erotismo è un’altra cosa… e l’amore non distrugge.

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Tralerighe libri editore www.tralerighelibri.com Finito di stampare nel mese di maggio dell’anno 2021 per conto di Andrea Giannasi editore, Lucca.

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