Il viaggio di Dante : storia illustrata della Commedia [Carrocci ed.]

Table of contents :
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Carocci

@l editore

Seguendo il filo offerto dalle straordinarie miniature dei manoscritti più antichi e lasciando in primo piano il ritmo narrativo degli eventi, uno dei maggiori studiosi di Dante racconta la Commedia al pubblico non accademico, senza presupporre particolari conoscenze né rinviare a letture erudite o bibliografie accessorie. Grazie al risalto dato agli aspetti più concreti e stimolanti dell'opera, gli incontri con i personaggi e le atmosfere del poema invogliano di canto in canto ad attingere direttamente dal testo originale le emozioni e le conoscenze di cui il capolavoro dantesco si rivela, ancora e di nuovo, fonte inesauribile. Emilio- Pasquini è p�ofessore -emerito all'Università di Bologna, dove è stato a lungo docente di Letteratura italiana. Già presidente della Commissione per i testi di lingua e della Società dantesca italiana, è membro onorario della Dante Society of America e socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei. Collaboratore dell'Enciclopedia dantesca, è autore di numerose pub� blicazioni su Dante e la letteratura due-trecentesca, e del commento alla Commedia, in collaborazione con A. E. Quaglio .(Garzanti, 1982-86).

€ 29,0_0

A Fiorella

Emilio Pasquini

Il viaggio di Dante Storia illustrata della Commedia

Carocci editore

DANTE ALIGHIERI l

LO VISO MOSTOA 7SO"�IO lD COLOR DEL CI...IORE

Volume pubblicato in occasione del 750" anniversario della nascita di Dante, dichiarato evento di interesse nazionale dalla DG BIC - MIBACT

·

beni e delle

attività culturali e del turismo

DGBIC

DIREZIONE GENERAll BIBUOIKHE E ISTTTUT1 CUIJURAU

'

edizione, settembre 2015 ©copyright 2015 by Carocci editore S.p.A., Roma 1

Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari Impaginazione: Luca Paternoster, Urbino Finito di stampare nel settembre 2.015 da CTS grafica srl, Città di Castello (PG) Credits: Nozomi, Zovvo Editing 2017: nick2nick - www.italiashare.info

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633) Siamo su: www.carocci.it www.facebook.com/caroccieditore www.twitter.com/caroccieditore

Indice

Introduzione

Inferno Purgatorio

Paradiso

7

Il

I IS

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Tutte le miniature sono tratte dal ms. Holkham 514, mise. 48 (Bodleian Library , Oxford). Tuttavia, le miniature relative a Purg. XXVI-XXX e Par. X-XI, xm-xv, XIX, xxv-xxix, XXXI sono tratte dal ms. Egerton 943 (British Library, Londra) ; quelle relative a Par. XII e xxx dal ms. M676 (Pierpont Morgan Library, NewYork).

Introduzione

Prima di partire per questo viaggio attraverso la Commedia, vorrei pro­ porre una tenue riflessione al nostro lettore. Le tre cantiche del poema si suggellano con la parola stelle: «E quindi uscimmo a riveder le stel­ le » (Infèrno XXXIV 1 3 0 ), «puro e disposto a salire a le stelle » (Purga­ torio XXXIII 1 45 ), «l'Amor che move il sole e l'altre stelle » (Paradiso XXX I I I 1 45 ). Un primo e luminoso esempio delle simmetrie che reg­ gono il capolavoro dantesco. Di fatto, l'ultimo soggetto del poema è Amor, in una perifrasi che designa il Creatore. Ebbene, oltre vent'anni prima, in una data oscillante fra il 1295 e il 1 3 00, Dante aveva composto una canzone, Amor che ne la mente mi ragiona (poi inclusa nel terzo libro del Convivio), la quale rappresentava il coagulo delle sue prime esperienze amorose, ormai assunte su un piano spirituale, quasi la cele­ brazione di quanto Goethe definisce come "Eterno femminino". Sono s strofe, ciascuna di 1 7 versi (prevalentemente endecasillabi, 5 soltanto settenari), l'ultima delle quali funge da congedo. Ne ripropongo la pri­ ma strofa (vv. 1 - 18) aggiungendo una mia parafrasi moderna, proprio perché ci si renda meglio conto - appianate le difficoltà dell'originale­ del fascino, ancora oggi, della sintassi dantesca, che è il vero titolo di merito di Dante come fondatore della lingua italiana (al di là dei tanti geniali neologismi) : Amor che nella mente mi ragiona della mia donna dislosamente move cose di lei meco sovente che lo 'ntelletto sovr 'esse disvia. Lo suo parlar sì dolcemente sona, che l'anima ch'ascolta e che lo sente dice: «Oh me lassa! ch'io non son possente di dir quel ch'odo della donna mia! ».

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IL VIAGGIO DI DANTE E certo e' mi convien lasciare in pria, s'io vo' trattar di quel ch'odo di lei, ciò che lo mio intelletto non comprende; e di quel che s'intende gran parte, perché dirlo non potrei. Dunque, se le mie rime avran difetto ch'entreron nella loda di costei, di ciò si biasmi il debole intelletto e 'l parlar nostro, che non ha valore di ritrar tutto ciò che parla Amore. L'Amore, che nel mio intimo va disquisendo con fervore intorno alla donna da me amata, mi rivela spesso tali aspetti di lei che per essi la mia ragione si smarrisce. La sua parola risuona con tanta dolcezza che l'anima, la quale la sta aspettando e assaporando, esclama: « Povera me, che non sono in grado di esprimere quanto sento dire sulla mia donna ! » . Senza dubbio, se voglio affrontare ciò che di lei mi si dice, devo prima di tutto tralasciare quello che il mio intelletto non arriva a comprendere, e perfino una buona parte di quanto riesco a capire, perché non sarei in condizioni di esprimerlo a parole. Perciò, se i miei versi saranno inadeguati a sviluppare le lodi di questa donna, se ne at­ tribuisca la responsabilità alla debolezza del mio intelletto e della mia parola, incapace di rendere compiutamente quanto Amore mi suggerisce.

È sicuro che Dante a questa altezza non aveva ancora concepito il pro­ getto della Commedia; soprattutto, non era ancora arrivato a inventare il miracoloso congegno della terzina incatenata, senza di cui il poema non avrebbe ricevuto l' impulso logico e narrativo che ne consentì la genesi e lo sviluppo. Non vi è dubbio però che egli volesse corrispondere alla pro­ messa finale della Vita nova, il prosimetro scritto in ricordo di Beatrice, a pochi anni dalla sua morte; promessa che suonava rinuncia a parlare della donna amata fino a tanto che non potesse celebrarla più degnamen­ te. Per la verità, se la Vita nova si concludeva con l'assunzione in cielo di Beatrice, la prima idea di un poema che ne celebrasse le virtù divine si era concretizzata in una sorta di poema paradisiaco in esametri latini di cui resta traccia in un'epistola ( indirizzata da un certo frate Ilaro a Uguccio­ ne della Faggiuola, dopo il passaggio di Dante stesso per il suo convento alle foci della Magra) trascritta dal Boccaccio in un suo Zibaldone, il cui autografo si conserva nella Biblioteca Laurenziana di Firenze. Cogliamo a questo punto l'occasione per precisare che di Dante non ci è pervenuto nulla di autografo, neppure una firma, e che il suo poema è stato salvato da oltre So o copie manoscritte, trecentesche ma soprattut8

INTRODUZIONE

to quattrocentesche, oggi presenti in biblioteche di tutto il mondo, ma principalmente in quelle italiane. Ovviamente, il testo che noi leggiamo è il risultato del confronto fra i manoscritti più antichi e più autorevoli. Non sappiamo quali siano state le vicissitudini degli autografi di Dante, quando se ne sia completata la perdita (nel primo Quattrocento l'uma­ nista Leonardo Bruni attesta di aver avuto fra le mani alcune epistole di pugno di Dante e addirittura descrive la tipologia della sua scrittura), quante copie del poema siano andate distrutte. Non riusciamo neppure a precisare le modalità della diffusione del poema, anche se sussistono fortissimi indizi a favore di una "pubblicazione" di canti isolati o di grup­ pi di canti. Ignoriamo anche gran parte degli eventi della vita del poeta, soprattutto a partire dal 1 �02, quando ne fu decretato l'esilio da Firenze. Fortissima, dunque, la tentazione di riempire romanzescamente i vuoti della sua esistenza; né sono mancati sviluppi di vario genere in questo senso. Chi scrive, tuttavia, non deve e non può correre questo rischio, sia perché ha alle spalle studi di carattere scientifico sull'ope­ ra dantesca, ma soprattutto il commento all'intero poema (condiviso con Antonio Quaglia), sia perché pensa che si possa percorrere un'altra strada. Egli è mosso infatti da una duplice convinzione, ereditata da uno dei suoi maestri, Gianfranco Contini. Da una parte, la potenziale, assoluta popolarità di Dante, confermata anche da un geniale esecutore come Roberto Benigni; per dirla con Contini, «Dante era un auto­ re fondamentalmente popolare, e dovrebbe tornare a essere un autore popolare. L' Italia si arricchirebbe moltissimo se, trascurando valori se­ condari, potesse vantare un Dante popolare». Dall'altra, la natura, ben riconoscibile nel poema, di opera illustrata o illustrabile; e diamo qui ancora la parola a Contini: «La Commedia era da principio un libro il­ lustrato? Non sono in grado di dare una risposta sicura a questa doman­ da, e debbo anche ammettere che mi pare probabile, così a fiuto, che la Commedia non sia nata come libro figurato. [ ] Tuttavia direi che la (.'ommedia è un libro illustrabile, cioè un libro autorizzato dall'autore all'illustrazione perché contiene passi capitali in cui si è invitati a una rappresentazione visuale, basti pensare ai rilievi del Purgatorio». Detto questo, ciò che qui si propone è dunque una sorta di "storia illu­ strata" del poema dantesco, dove le tante figure proposte accompagnino pncsaggi e personaggi, come una prima essenziale ricezione che sia guida c stimolo a quella attuale, tanto più difficile per la lontananza cronolo­ �k> grida il nocchiero, mentre rivolto all'uni­ co vivo lo invita ad allontanarsi da quel mondo a lui estraneo ( «pàrtiti da cotesti che son morti » ) . Ma a quel punto suona imperioso il richia­ , mo all ordine di Virgilio: « vuolsi così colà dove si puote l ciò che si vuole, e più non di mandare >> . L'obiettivo si sposta ora sulle anime dei dannati che si accalcano sulla riva in attesa di essere traghettati: colti nella loro furibonda impo­ tente disperazione e nell'atto di bestemmiare Dio e l'umanità intera, a cominciare dai genitori. Una dopo l'altra vengono stipate sul battello infernale, senza potersi sottrarre alla violenza di Caronte, quasi fatal­ mente, con la stessa fragilità con cui in autunno le foglie si staccano da-

(;li ignavi, Dante con Virgilio, poi Caronte e i dannati sulle sponde del Flegetonte.

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IL

VIAGGIO DI DANTE

gli alberi. Senza sosta le schiere dei dannati, provenienti da ogni parte del mondo, si succedono nella traversata dell'Acheronte, sospinte da una Volontà superiore, come commenta la voce di Virgilio: «ché la divina giustizia li sprona, l sì che la tema si volve in disio» . A quel punto, si sprigiona un vento sotterraneo, che tra lampi ros­ seggianti produce un terremoto improvviso; di qui lo svenimento di Dante, che perde i sensi abbandonandosi a un sonno profondo: La terra lagrimosa diede vento, che balenò una luce vermiglia la qual mi vinse ciascun sentimento; e caddi come l'uom cui sonno piglia.

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Canto IV

Un tuono poderoso risveglia bruscamente Dante, il quale si guarda intorno per capire la natura del luogo dove è stato sbalzato : nessuna traccia del fiume, in quanto egli si trova davanti all'orlo della «valle d'abisso dolorosa » , il vero e proprio Inferno, a forma di cono rove­ sciato. Il pallore che si dipinge sul viso del maestro all'ingresso nel primo cerchio suscita paura nel discepolo; ma Virgilio provvede su­ bito a chiarirne l 'origine, nella compassione per la condizione di chi, come lui stesso, vive angosciosamente nel Limbo l'esclusione dalla salvezza. Le prime impressioni di questo cerchio non hanno infatti nulla di infernale: l'aria sembra tremare per i sospiri delle anime, derivanti da un dolore intimo e del tutto scevro di pene fisiche. Sono bambini, donne e uomini che, come spiega Virgilio, non hanno ri­ cevuto il battesimo o che, se vissuti prima di Cristo, pur non avendo commesso alcun peccato grave, « non adorar debitamente a Dio » , coltivando le divinità pagane. Di questa seconda schiera egli stesso fa parte condividendone la condizione ( «semo perduti, e sol di tanto offesi l che sanza speme vivemo in disio » ) : un'eternità di desiderio senza speranza, la con­ danna a quell'essere « sospesi » fra la realtà della punizione, sia pure solo spirituale, e il miraggio illusorio del divino. A quel punto, la curiosità di Dante, sulla scorta del Credo, mira a conoscere quali sia­ no i personaggi che «per suo merto l o per altrui » siano stati in grado di uscire dal Limbo e salvarsi; e Virgilio ricorda come, una cinquantina di anni dopo la sua morte e l' ingresso nel Limbo vide venire « un possente, l con segno di vittoria coronato » . Questo per­ sonaggio potente e vittorioso è ovviamente Cristo, il quale portò via con sé in Paradiso le anime dei patriarchi dell'Antico Testamento, fra i quali qui si nominano Adamo, Abele, Noè, Mosè, Abramo, !sacco, 21

IL VIAGGIO DI DANTE

Dante fra i limbicoli, nel primo cerchio dell'Inferno, i cinque poeti antichi e il nobile castello.

Giacobbe coi figli e con Rachele, Davide (ma altri verranno ricordati nel seguito del poema). La spiegazione di Virgilio si sviluppa mentre continua il cammino, così che in breve i due viandanti si trovano di fronte a > , in questo congruenti alla condizione intermedia, "sospesa", del Limbo. Con l'autore dell'Iliade e dell' Odissea (di cui Dante nulla poté conoscere 2..2

INFERNO

dirl'ttamente) stanno Orazio, Ovidio e Lucano, autori invece da lui prl·dilctti, degni seguaci di Omero: Così vid' i ' adunar la bella scola di quel scgnor de l'altissimo canto che sovra li altri com'aquila vola.

( :on i suoi idoli Dante va conversando di poesia, sentendosi «sesto Ira cotanto senno» , fino a che essi giungono alle mura di un «nobile '.tstcllo» , sede di tutti questi « spiriti magni », dotati cioè della vir­ I Ìl della "magnanimità". Essa è infatti la qualità che accomuna gli eroi dcii' azione (Giulio Cesare, ma anche Ettore ed Enea; e poi le donne, ( :amilla e Lucrezia, per fermarci ai personaggi più noti) e quelli del pensiero, i filosofi (Socrate, Platone e Aristotele, Democrito ed Era­ dito, Cicerone e Seneca, ma anche, più recenti, gli islamici Avicenna nl Averroè), gli scienziati (Euclide, Tolomeo, lppocrate); isolato, da parte, il Saladino, terzo fra i grandi arabi salvati, accanto ai pagani, a dispetto del loro essere infedeli. Culmina qui il grande sogno di Dante autore, che già nel Convivio aveva abbozzato il mito laico delle «Ate­ ne celestiali» , una sede comune per i grandi spiriti a prescindere dalle differenze di tempi e di religioni. Ma è ormai venuto il tempo per i due viandanti di congedarsi dai colleghi in poesia e di riprendere il cammi­ no verso le tenebre del vero e proprio Inferno.

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Canto v

All'ingresso del secondo cerchio i due poeti si trovano il cammino sbarrato dall'imponente figura di Minasse, il quale dal mito antico (dove era il re di Creta) viene qui trasformato in un giudice belluino, che ringhiando segnala, cingendosi con la coda altrettante volte, la de­ stinazione eterna per ciascun dannato che gli compare davanti e pro­ nuncia una confessione totale dei suoi peccati. È dunque un giudice implacabile che si fa strumento della volontà divina. Inutilmente mette in guardia Dante dal proseguire nel suo cammino ( « guarda com'entri e di cui tu ti fide » ) ; Virgilio lo riduce al silenzio con la stessa formula con cui aveva placato l'ira di Caronte. Lasciato Minasse, i due poeti si trovano immersi nel frastuono di una bufera che non ha mai pause: lo venni in loco d'ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti è combattuto.

Travolti dal vento, gli spiriti, che ad intuito Dante indovina essere i «peccator carnali » , dominati dalla violenza tempestosa delle pulsioni: è il primo caso di contrappasso, cioè di una corrispondenza fra la colpa e la pena o per contrasto o (come qui) per analogia. Costoro dunque non possono che urlare bestemmiando, specie quando giungono a un punto di questo cerchio che rammenta loro il sacrificio di Cristo. La fra­ gilità di questi generici lussuriosi è sottolineata dal paragone con il volo a scatto di uccelli come gli storni; ma poi appare una schiera diversa, paragonabile al volo ordinato, quasi in fila, delle gru. Di questa seconda schiera Dante chiede notizie al maestro, intuendo dietro ciascuna anima il segreto di un dramma. Ed ecco succedersi, nella rapida presentazione

INFERNO

di Virgilio, fra le numerose anime di vittime della passione, Semiramide r·cgina di Assiria, la cartaginese Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Pa­ l'idc e Tristano, miti letterari (in parte conosciuti solo indirettamente dali' autore) piuttosto che personaggi storici; ma Dante sembra piutto­ sto attratto da una coppia che sembra distinguersi in quella folla: I ' cominciai: «Poeta, volentieri parlerei a que' due che 'nsieme vanno, e paion sì al vento esser leggeri».

Una volontà superiore fa sl che i due, invocati affettuosamente da Dante, impietosito per la loro sorte ( «0 anime affannate, l venite a noi p arlar [ ] » ), godano di una pausa del loro tormento, e possano arrestarsi vicino ai due viandanti, come colombe che tornano al nido. Si tratta della nobile ravennate Francesca da Polenta e del cognato ri­ minese Paolo Malatesti, che Dante aveva potuto conoscere a Firenze dove fu capitano del popolo fra ilr2.82. e il12.83, uccisi per vendetta dal marito di lei e fratello di Paolo, Gianciotto. L'autore tuttavia sdegna ogni particolare di cronaca, puntando su elementi sconosciuti alla sto­ ria, attinenti invece agli stati d'animo decisivi per la vita dei due perso­ naggi, che stabiliscono già una connessione fra questo e l'altro mondo. Chi parla è Francesca, la quale, grata a Dante per l' «affettuoso gri­ do», non si limita a ricordare il luogo della sua nascita, ma gli rivela l'origine profonda della sua colpa, quella invincibile forza di amore che ha travolto lei e Paolo. Per tre volte risuona il soggetto personificato Amore, prima in riferimento alla nobiltà dell'animo, poi alla potenza fatale che emana dalla bellezza (piacer) del partner: ...

Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona [ ]. ...

Alla terza («Amor condusse noi ad una morte», morte e dannazione comune) segue probabilmente l'urlo strozzato di Paolo, che augura al fratello il peggior destino infernale, fra i traditori dell'ultimo cerchio ( «Caina attende chi a vita ci spense»). Dante resta pensieroso di fron-

IL VIAGGIO DI DANTE

Secondo cerchio: i peccatori carnali (da Semiramide a Tristano) in volo, seguiti da Paolo e Francesca.

te a quel dramma, pensando a quali rischi si è esposto lui stesso, anche per la fiducia in un'idea nobili tante dell'amore ( > , "non furono equilibrati nel gestire i loro denari, sia che avidamente li covassero oppure li spre­ cassero disordinatamente") . Dante insiste perché il maestro faccia qualche nome; la vibrante risposta di Virgilio interpreta a fondo il disprezzo dell 'autore per il culto delle ricchezze in una società ormai dominata dalle leggi del mercato : «Vano pensiero aduni: la sconoscente vita che i fé sozzi ad ogne conoscenza or li fa bruni. etterno verranno a li due cozzi: questi restirgeranno del sepulcro col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi [ . ] » . In

..

...

E l'occasione per una suggestiva digressione sulla Fortuna, una entità su cui il protagonista sembra non avere le idee chiare, tanto più in quanto Virgilio sviluppa una tesi innovativa rispetto all immagine tradizionale di una divinità cieca e capricciosa. Essa è invece da ri­ guardare come una decima intelligenza angelica, delegata alla terra o ai beni mondani, che s'aggiunge dunque alle nove gerarchie o in­ telligenze motrici (Angeli, Arcangeli, Troni, Dominazioni, Virtuti, •

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Principati, Potestati, Cherubini e Serafini ) preposte ai rispettivi cieli, che si ritroveranno nel Paradiso: Quest'è colei ch'è tanto posta in croce pur da color che le dovrien dar lode, dandole biasmo a torto e mala voce; ma ella s'è beata e ciò non ode: con l'altre prime creature lieta volve sua spera e beata si gode.

Di fatto, la Fortuna è un'entità superiore a tutte le proteste e le maledi­ zioni degli uomini: la sua ruota non è dominata dal caso, ma si gira in perfetta sincronia col volere divino che muove le intelligenze angeliche da cui dipende il movimento dei cieli. Attraversato il quarto cerchio, essi passano rapidamente al successi­ vo: da una fonte sgorga un ruscello costeggiando il quale i due giungo­ no alla palude Stigia. I colori del paesaggio svariano dal grigio al nero ; nel pantano si trovano immersi altri dannati, anch'essi distinguibili in due categorie. Da una parte, ben visibili, stanno gli iracondi espliciti, i quali sfogano la loro collera percuotendosi con ogni parte del corpo e straziandosi a morsi come cani rabbiosi; non visibili, perché confit­ ti nel fango sotto la superficie dell'acqua (ed è Virgilio a rivelarlo a Dante ) si nascondono gli iracondi "amari" ( secondo la definizione di Aristotele ) . Costoro in terra hanno soffocato dentro di sé una sorta di « accidioso fummo», qui trasformato nella fanghiglia che gli riempie la gola e impedisce ugualmente ogni sfogo alla triste e sterile depressio­ ne che dalla vita si prolunga nell'oltrevita. Intanto, i due poeti hanno compiuto il circuito della « lorda pozza » e sono arrivati ai piedi di una torre.

p.

Canto VII I

Per la verità, molto tempo prima di giungere alla base della torre lo sguardo dei due era stato attirato dal balenare di due fiammelle sulla sommità della stessa, cui aveva corrisposto in lontananza un analogo bagliore. Accortosi della curiosità di Dante sull'origine di simili se­ gnali, Virgilio lo invita a guardare verso la distesa della palude, oltre la caligine prodotta dal pantano. Sta infatti solcando le acque, con la velocità di una freccia scagliata dall'arco, una navicella guidata da un nocchiero che crede di aver a che fare con un nuovo dannato ( « Or se' giunta, anima fella! » ) Virgilio lo riconosce: si tratta di Flegiàs, iroso personaggio del mito antico (incendiò a Delfi il tempio di Apollo, per vendicarsi del dio che gli aveva sedotto la figlia Coronide), qui delega­ to a vigilare sui dannati della palude Stigia, ma ora costretto a traghet­ tare i due poeti attraverso quelle acque stagnanti. Non manca a questo punto una svolta drammatica: .

Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango, e disse: « Chi se' tu che vieni anzi ora? » .

Nonostante il fango che ne sfigura e nasconde i lineamenti, Dante riconosce nel dannato un orgoglioso e sprezzante concittadino di parte avversa, il guelfo nero Filippo Argenti, della nobile casata de­ gli Adimari. S 'accende un rapido e violento battibecco fra i due, con Dante che maledice l'avversario, l'Argenti che tenta di rovesciare la barca e Virgilio che lo respinge energicamente ( «Via costà con li altri cani ! » ) . Di qui la lode evangelica (sulla scorta di Luca XI 7, «Beatus vcnter qui te portavit » ) del maestro al discepolo ( «Alma sdegnosa, l benedetta colei che 'n te s' incinse ! » ) con una ferma condanna all'o,

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blio per tutti coloro che in terra si credono «gran regi >> e sono inve­ ce destinati a una condizione eterna «come porci in brago >> , immersi nel fango. All'augurio di Dante di vedere l'iracondo sommerso del tutto in quella broda risponde positivamente la previsione di Virgilio, cui segue subito dopo l'assalto degli altri dannati al > , cioè "collerico": al punto tale che, impotente a difendersi da quella furia, > ). Virgilio cer­ ca di interporsi, ma quelli si dicono disposti a concedere il passaggio solo a lui, negandolo al vivo a cui non resterebbe altra soluzione che ritornare sui suoi passi. .

,

La palude Stigia, con Flegiàs e Filippo Argenti (fra gli iracondi del quinto cer­ chio); poi Dante e Virgilio dinanzi alla città di Dite.

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INFERNO

Non è difficile immaginare lo sconforto del protagonista, dinanzi alla prospettiva di non ritrovare più la strada del ritorno in terra. Di qui la sua invocazione d'aiuto a Virgilio, che lo aiuti, come nei tanti casi precedenti, a superare l'ostacolo, o altrimenti si rassegni ad ac­ compagnarlo a ritroso, rinunciando a proseguire il cammino. Il mae­ stro lo conforta, invitandolo a non perdere la fiducia in chi gli ha consentito un simile viaggio e nella sua stessa guida; al tempo stesso si dispone ad affrontare l'opposizione dei diavoli. Le sue parole tuttavia non hanno l'effetto sperato; lui torna indietro avvilito ( « Chi m'ha negate le dolenti case ! » , cioè di entrare nelle dimore del dolore), mentre quei tracotanti, che già tentarono inutilmente di impedire a Cristo la discesa nel Limbo, bloccando la porta d' ingresso nell'oltre­ romba, corrono dentro le mura e bloccano ogni passaggio. Ma egli provvede a rassicurare il discepolo ( « non sbigottir, ch'io vincerò la prova » ), preannunziando l'arrivo di un messo divino capace di vincere ogm resistenza. .

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3S

Canto IX

Nonostante tale promessa, Dante non può che impallidire di fron­ te all 'apparente sconfitta della sua guida, la quale, mentre si sforza di dominare il suo furore nei confronti dei diavoli e insieme di na­ scondere il timore di avere preso un abbaglio quanto alle promesse celesti espresse da Beatrice, è tutta tesa a cogliere i segnali di qualco­ sa che non può tardare oltre. E tuttavia Dante non riesce a frenare la paura nel percepire l' imbarazzo del maestro, incapace di trovare da solo una via d'uscita. Gli chiede infatti se un abitante del Lim­ bo sia in grado di trarsi d' impaccio nei cerchi successivi dell' Infer­ no (un modo circospetto per non accusarlo di aver sopravvalutato le proprie forze); e qui l'autore mette in bocca a Virgilio il racconto di uno strano episodio inventato quasi di sana pianta (con minimi fondamenti nelle fonti classiche), la sua discesa cioè fino all'ultimo cerchio, evocato da una maga cessala, per ricongiungere col proprio corpo l'anima di un traditore. Dunque, conclude il maestro, «ben so 'l cammin; però ti fa sicuro » . Ma a questo punto lo sguardo di Dante è attirato da un' improvvisa e sconvolgente apparizione, sulla cima arroventata di una torre della cerchia muraria della città di Dite, dove in un punto furon dritte ratto tre furie infernal di sangue tinte, che membra feminine avieno e atto.

Davanti ai suoi occhi stanno proprio le Erinni del mito classico, vol­ to e corpo circondati di serpenti, Megera, Aletto e Tesifone, schiave di Proserpina regina dell' Inferno: divinità furenti che simboleggiano il rimorso nei colpevoli in questo e nell'altro mondo, e che qui non a caso si straziano con le proprie mani. Dante è terrorizzato alla loro

INFERNO

I due poeti e le tre Furie (Megera, Tesifone e Aletto) fra lo Stige e la città di Dite.

vista, anche perché tra le urla esse invocano la Gorgone Medusa, che la mitologia rappresentava coi serpenti al posto dei capelli, capace di pietrificare chiunque la guardasse e che per l'autore sembra incarnare qui la tentazione della pervicacia eretica, anche se si limita a invitare il lettore a guardare oltre la lettera: , , O voi eh avete li ntelletti sani, , mirate la dottrina che s asconde , sotto l velame de li versi strani.

Virgilio stesso provvede a riparare gli occhi di Dante con le sue mani, per evitare ogni pericolo; ma a questo punto l'attenzione è calamita.. ta dal fragore di un qualcosa che sta sopravvenendo facendo trema­ re le sponde della palude, simile a un ciclone tempestoso. Le anime degli iracondi si affollano impaurite lungo la riva, come rane messe in fuga da una biscia; qui, lo spavento viene dalla folgorante appari­ zione di un r:nesso celeste (un angelo in funzione di Mercurio) che, come Cristo sulle acque del Giordano, , rimovendo col braccio sinistro i miasmi, l' « aere grasso>> della palude. Col semplice tocco di un bastoncino spalanca la porta della città, ammonendo fieramente gli spregevoli >, la sanguinosa sconfitta dei Guelfi fiorentini, presso quel torrente, ad

l)ante e Virgilio fra le arche degli eretici: a dominare il sesto cerchio, il busto cretto di Farinata degli Uberti.

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opera dei Ghibellini capitanati dallo stesso Farinata, costui replica ricor­ dando come ebbe il coraggio di opporsi, nel parlamento di Empoli, alla proposta dei vincitori, concordi nel distruggere la città nemica: « [ ... ) Ma fu' io solo, là dove sofferto

fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, colui che la difese a viso aperto» .

Dame si limita a un affettuoso augurio che i suoi eredi possano final­ mente rientrare in patria; in più ottiene dall' Uberti la spiegazione del perché quei dannati, edotti sul futuro, non conoscano il presente (di qui la sua preghiera che Cavalcante venga informato che il figlio è an­ cora vivo) : il che comporta che nel giorno del Giudizio, «quel pun­ to l che del futuro fia chiusa la porta » , cesserà per loro ogni tipo di conoscenza. Le ultime parole dell' Uberti riguardano altri due suoi compagni di pena, il cardinale Ottaviano degli Ubaldini e il grande Federico n di Svevia, ultimo imperatore. Ma a quel punto Dante rivela il suo cruccio segreto, nato da quelle parole di Farinata sul suo prossi­ mo esilio, e vorrebbe forse qualche chiarimento dal maestro. Il quale non fa che rinviarlo alla prossima guida, Beatrice: « da lei saprai di tua vita il viaggio » . Intanto i due proseguono il cammino verso il settimo cerchio.

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Canto XI

l , 'abisso infernale emana un orribile puzzo, che li fa retrocedere verso 1.1 comba che contiene vari tipi di eretici, in particolare i monofisiti, l quali negavano l' immortalità e divinità di Cristo, attribuendogli la \ola natura umana. S'impone la necessità di una pausa, perché il pel­ lrgrino possa abituarsi al fetore che si sprigiona dai tre ultimi cerchi. l >ante allora prega Virgilio che approfitti di una simile occasione per un chiarimento generale sul primo regno ultraterreno: Così 'l maestro; e io: «Alcun compenso» , dissi lui, . « trova che ' l tempo non passi perduto» . Ed elli: «Vedi ch'a ciò penso>> .

(:. una mossa dialogica suggestiva, in quanto sembra riflettere una situa­ :r. ione del quotidiano, fra due amici che non amano perdere tempo e uti­ lizzano al meglio le pause obbligate. Essa prelude a una digressione dot­ trinaria apparentemente arida, ma capace di dare un' idea della struttura di una lezione medievale, intervallata da alcune richieste di chiarimento �(>rmulate dal discepolo. Si parte dalla distinzione primaria fra il male (cioè la volontà di nuocere) esercitato con la forza e quello che si sviluppa attraverso la frode (che può agire sia verso chi non si fida sia verso chi si Hda). Segue la descrizione sintetica della natura dei cerchi settimo, ottavo c nono, addetti rispettivamente alla Violenza, alla Frode e al Tradimento. Il settimo cerchio è suddiviso in tre gironi, dove vengono puniti in suc­ cessione i violenti contro il prossimo, nella persona (omicidi e simili) o negli averi (predoni e guastatori); i violenti contro sé stessi nella persona (suicidi) e nei beni materiali (giocatori e biscazzieri); e i violenti contro Dio nella persona (bestemmiatori), nella sua figlia, la natura (sodomiti) e nella sua nipote, l'arte, cioè il lavoro (usurai). 43

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, Dante e Virgilio davanti alla lapide di papa Anastasio IV; segue il colpo d obietti­ vo sul cono con i tre gironi del settimo cerchio (addetto ai violenti).

Quanto alla frode, nella sua forma meno grave ( : sembra infatti che essa recida solo il vincolo d'amore derivante dalla comune natura umana), essa viene punita da Dio nelle Malebolge, le dieci fosse dell'ottavo cerchio, che vedono nell'ordi­ ne i ruffiani e seduttori, gli adulatori, i simoniaci (coloro cioè che fanno commercio delle cose sacre), gli indovini, i barattieri (coloro che traggono vantaggi personali dalle cariche pubbliche), gli ipocriti, i ladri, i consiglieri fraudolenti, i seminatori di discordie, i falsari (a loro volta distinti tra falsa­ ri di persona, di moneta e di parola, cioè gli spergiuri). Più odiosa a Dio è la frode, che non solo infrange il naturale legame di solidarietà che sussiste fra gli uomini, ma si esercita ai danni di una fiducia particolare tra indi­ vidui, come tradimento: di qui la divisione del nono cerchio in quattro zone, rispettivamente addette ai traditori dei parenti (la Caina), della pa­ tria (l'Antenora), degli ospiti (la Tolomea) e dei benefattori (la Giudecca). A questo punto Dante chiede al maestro un chiarimento del suo dub­ bio circa i cinque cerchi precedenti, come mai quei dannati stiano fuori , dalla città di Dite; e Virgilio non può che richiamarlo ali Etica di Ari­ , stotele, dove si distingue fra , non riuscirebbe ad avere la soddisfazione di umiliarlo. A quel punto Virgilio sancisce con violenza la sorte di un siffatto millantatore, umiliato dali' assurdo di quella bestemmia perpetuatasi anche oltre la soglia della morte: «0 Capaneo, in ciò che non s'ammorza la tua superbia, se' tu più punito; nullo martiro, fuor che la tua rabbia, sarebbe al tuo furor dolor compito» .

Dante e Virgilio davanti a Capaneo e ai bestemmiatori, sferzati dalla pioggia di fuoco nel sabbione del settimo cerchio.

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INFERNO

In altre parole, quella rabbia impotente si rivela il solo supplizio ade­ guato a tale furibonda empietà. Liquidato quel falso eroe, il maestro raccomanda a Dante di procedere in tondo, restando cioè aderente al margine della selva, per non scottarsi col sabbion e rovente. A un certo punto i due incrociano un fiumicello di sangue, chiuso da argini di pietra i quali consentono di passare oltre in quanto sono risparmiati dalla pioggia di fuoco. Dante è incuriosito dall'aspetto di quel ruscello, e Virgilio in tono di favola gliene chiarisce l'origine, la quale è comune a tutti i fiumi infernali. C 'era una volta infatti, in mezzo al Mediterraneo, un'isola, quella di Creta, la quale, sotto il regno di Saturno, godeva di una sua splen­ dida età dell'oro; purtroppo, poco alla volta essa s i è trasformata in un «paese guasto». Tale parabola negativa si è come rispecchiata nella statua di un «gran veglio», un vegliardo di dimensioni colossali, na­ scosta nelle viscere del monte Ida: la cui testa è d'oro, le braccia e il pet­ to sono d'argento, mentre l'addome fino all'inforcatura delle gambe è di rame; infine tutto il resto è di ferro, ma uno dei p iedi è di terracotta. Riesce agevole intuire che in questa statua viene rappresentata la storia dell'umanità nella sua progressiva decadenza, secondo un mito già presente nella tradizione classica e in quella b i blica. Qui però si ag­ giunge il particolare delle fessure prodottesi in ogni parte della statua salvo che in quella più antica, icona dell'età dell'oro : fessure dalle quali fuoriescono le lacrime che hanno accompagnato la storia dell'umani­ tà; e questo pianto, espressione del dolore del mondo, p roduce tutto l' insieme dei liquidi presenti nell' Inferno, differenziati in vari fiumi, dascuno con funzioni e caratteristiche sue propri e : l'Acheronte, lo Sti­ �c. il Flegetonte e il Cocito. Manca all'appello del canone antico un mio fiume, il Letè ; ma Virgilio spiega che esso s i trova nel Purgatorio. l >opo di che invita il discepolo a seguirlo lungo gli argini del ruscello di sangue, derivato dal Flegetonte.

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Canto xv

Il loro cammino lungo gli argini di quel fìume (paragonati alle dighe fiamminghe contro l'Atlantico e a quelle padovane nella riviera del Brenta) è consentito dal fatto che il vapore prodotto dal sangue bol­ lente crea una specie di cortina protettiva rispetto alla pioggia di fuoco. Allontanatisi dalla selva, incontrano una prima schiera di dannati (i violenti contro natura, cioè i sodomiti), i quali guardano verso di loro stringendo gli occhi come si usa in una notte senza luna o «come 'l vecchio sartor fa ne la cruna » . Uno di costoro si sporge verso Dante e afferra il lembo della sua veste, mostrando di riconoscerlo; e il nostro poeta dietro il «cotto aspetto» e il «viso abbruciato» ravvisa con stupore i lineamenti del suo antico maestro: «Siete voi qui, ser Brunetto ? » . Evidentemente l'autore non può meravigliarsi di quella collocazione all' Inferno, ma il tono della voce appartiene al personaggio Dante, che scopre nell'aldilà di quale vizio si fosse macchiato in terra il nQtaio (ser) Latini: si sa che per quei tempi l'omosessualità non era altro che una violenza contro la natura. Dopo alcuni convenevoli (il discepolo gli propone di sedersi, l'altro gli risponde che la cosa non è consentita ai dannati: dunque occorre parlare camminando), mentre Virgilio resta silenzioso, i due si avviano, con Dante che non osa scendere dall'argine, ma tiene « 'l capo chino [ ... ] com'uom che reverente vada » . Quasi scontata la duplice doman­ da di Brunetto ( « Qual fortuna o destino l anzi l'ultimo dì qua giù ti mena ? l e chi è questi che mostra 'l cammino ?»); un po' sibillina la risposta di Dante, allusiva allo smarrimento in una valle e all'aiuto recatogli dal suo accompagnatore, lasciato però anonimo. Ma a quel punto Brunetto sembra abbandonare ogni preoccupa­ zione sull 'aldilà e tutto rivolgersi alla «vita serena » (così detta dalla 54

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Fra i sodomiti, Brunetto Latini a colloquio con Dante.

luce che si contrappone al buio dell'oltretomba), o meglio a rievocare i tempi del sodalizio con Dante a Firenze: l'Alighieri era certamente fra i suoi "allievi", più o meno nel decennio 1284- 94 (che è l'anno della morte di Brunetto). La stima del maestro per il discepolo è esplicita fin dali'esordio di questo nuovo discorso: «Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto, , se ben m accorsi ne la vita bella [ .. ] » . .

Lo avrebbe anzi aiutato a perseguire la sua vocazione se fosse vissuto più a lungo; ma non avrebbe potuto impedire quanto egli legge nel futuro dell'esistenza di Dante. E il momento di una nuova profezia (la terza, dopo Ciacco e Farinata) , assai più articolata delle precedenti, anche perché Brunetto la prende un po' alla lontana, dalla leggendaria contaminazione dei fiorentini eredi dei buoni coloni romani, ad opera dei discendenti dell'esercito di Catilina, ; e sono appunto quelle con la lenta andatura delle proces­ sioni che si vedono in terra. Aguzzando la vista egli si rende conto che il collo di costoro, rovesciato ali' indietro, soffoca la voce e impedisce agli occhi di guardare in avanti, costringendoli a spargere le lacrime sulle natiche (un effetto estraneo a qualsiasi forma di paralisi terrena nota all'autore). È questa la pena cui sono condannati gli indovini, che hanno preteso - per ingannare il prossimo - di spingere lo sguardo nel futuro illudendosi di poterlo prevedere : viene così stravolta la figu­ ra umana, creata a immagine di Dio, in una misura che induce Dante al pianto, suscitando la dura reazione di Virgilio ( ). Così, lo respingono sotto la superficie con i loro uncini come i cuochi fanno con la carne bollita nella caldaia. Virgilio, preoccupato, fa acquattare Dante dietro una roccia e si diri­ ge verso i diavoli allo scopo di ottenere il consenso per andare oltre ; ma quelli gli si fanno addosso con le loro armi come cani da guardia all'ar­ rivo di chi chiede l'elemosina. L'urlo della guida chiede I' intervento del capitano di quella masnada: entra in scena Malacoda, scettico circa una

Fra i barattieri: Dante e Virgilio vedono un diavolo che trasporta sulle spalle un anziano di Lucca, destinato alla quinta bolgia.

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IL VIAGGIO DI DANTE

., i m ile preghiera. Solo con un appello al «voler divino», che ha consen­

tito di attraversare l'alto Inferno rimovendo tutti gli ostacoli, egli piega la volontà del capobanda, rassegnato di fronte a un'autorità superiore ( « nel cielo è voluto l eh' i' mostri altrui questo cammin silvestro» ).

Solo a quel punto Virgilio fa uscire Dante dal suo nascondiglio, senza rendersi conto della malizia dei diavoli, che si avventano sulla nuova preda, sventolando gli uncini: terrorizzato, il protagonista si ac­ costa al maestro per chiedere protezione, mentre ricorda la paura dei soldati pisani, nonostante avessero patteggiato la resa, quando usciro­ no dalle mura di Caprona fra le schiere dei vincitori (e Dante, allora ventiquattrenne, era tra i Guelfi fiorentini). Malacoda frena lo slancio dei sottoposti, tra cui si distingue lo scatenato Scarmiglione. Ma so­ prattutto provvede a dare le istruzioni ai due pellegrini (il ponte su cui stanno è crollato per il terremoto alla morte di Cristo, ma ne esiste più avanti un altro ancora intatto) e ad assegnare la scorta. È una sciorinata di nomi che sono un programma: «Tra' ti avante, Alichino, e Calcabrina», cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo; e Barbariccia guidi la decina. Libicocco vegn'oltre e Draghignazzo, Ciriatto sannuto e Graffiacane e Farfarello e Rubicante pazzo [ .. ] » . .

Nonostante le assicurazioni, Dante preferirebbe che si proseguisse il viaggio da soli: infatti i diavoli che formano la pretesa scorta digrigna­ no i denti con sguardi minacciosi. Il segnale di partenza del nuovo ca­ pobanda appartiene per eccellenza al repertorio di ciò che chiamiamo il "basso corporeo" (si tratta infatti di un peto demoniaco) ; e ad esso fa riscontro la sconcia pernacchia dei dieci.

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Canto XXII

A Dante pare proprio che quel segnale rappresenti una novità assoluta; ha fatto esperienza di trombe, campane, tamburi, fumi o fuochi dalle mura, ma non si è mai trovato in presenza di un suono emesso da una zampogna così strana. Eppure deve fare buon viso a cattivo gioco : Noi andavam con li diece demoni. Ahi fiera compagnia ! ma ne la chiesa coi santi, e in taverna coi ghiottoni.

Ora però la sua attenzione è attirata dal fìume di pece bollente e dai dannati che vi si cuociono dentro, colti in varie pasture: che ora ricor­ dano i delfìni, quando essi sollevano la schiena per alleviare la pena del bollore, ora ricordano le rane, quando stanno col muso fuori ali'orlo del fossato. Naturalmente si rituffano subito sotto la superfìcie all'ap­ prossimarsi dei Malebranche per evitare di essere arpionati. Uno di loro non è però abbastanza rapido, e Graffiacan, che li era più di contra, li arroncigliò le 'mpegolate chiome e trasse! sù, che mi parve una lontra.

Dante, che ormai si è resi familiari i nomi dei diavoli, vede inferoci­ re Rubicante sul malcapitato; chiede a Virgilio di appurarne, se può, l' identità. Costui fa appena in tempo a rivelarsi come navarrese, di nome Ciampòlo (Jean-Paul), accolto alla corte di Tebaldo n e dive­ nuto impenitente barattiere. Come un topo nelle grinfie di « male gat­ te », azzannato da Ciriatto, è sotto la minaccia di Barbariccia; il quale però, prima di infìlzarlo, consente un seguito di intervista a Virgilio, 7S

IL VIAGGJO DI DANTE

Inseguiti dai Malebranche, Dante e Virgilio fuggono dalla pece dove sono caduti Alichino e Calcabrina, dopo l' inganno di Ciampòlo.

desideroso di sapere se tra i compagni di sventura ci fosse qualche ita­ liano. Ma Ciampòlo ha appena detto di essersi congedato da un sardo, che Libicocco e Draghignazzo cominciano a straziarlo, frenati dal co­ mandante. Virgilio insiste per sapere; e quello comincia a snocciolare i nomi del gallurese Gomita, frate godente, vicario del pisano Nino Vi­ sconti (che tradì per denaro, liberandone i nemici ma finendo impic­ cato); e del governatore del Logudoro Miche! Zanche, altro sfegatato barattiere di Sardegna. Interrotto dalle minacce dei Malebranche, Ciampòlo propone - di­ sposto a tradire i compagni di pena, in apparenza solo per godere di un minimo di tregua - di far allontanare un poco i diavoli promettendo di fare venir fuori almeno sette dannati modulando un particolare fi­ schio con cui fra di loro i barattieri si segnalano il via libera per sottrar­ si all'abbraccio della pece. Per quanto Cagnazzo si mostri diffidente, sospettando l'inganno, Alichino accetta questa sorta di sfida: troppo agevole catturarlo al volo, grazie alle ali, se il navarrese tenterà di sfug­ gire alle loro grinfie. A quel punto, Ciampòlo sceglie perfettamente il tempo e si precipi­ ta fulmineo nella pece scomparendo sotto la superficie ; Alichino tenta inutilmente di raggiungerlo volandogli dietro:

INFERNO non altrimenti l'anitra di botto, quando 'l falcon s'appressa , giù s'attuffa, ed ei ritorna sù crucciato e rotto.

Calcabrina, quasi lieto per la beffa subìta dal compagno, coglie il pre­ testo per azzuffarsi con lui; e l'altro non può che reagire artigliandolo a sua volta. Di fatto, cadono entrambi nel bel mezzo di quello stagno rovente. Il bollore li divide, ma i due non riescono a sollevarsi, tanto le ali sono invischiate di pece. A Barbariccia non resta che organizzare il faticoso recupero dei due, disponendo da una parte e dall'altra della fossa i suoi sottoposti coi loro uncini. Approfittando di questo impac­ cio, Dante e Virgilio se la svignano in silenzio.

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Canto XXI II

I due pellegrini procedono di buon passo allontanandosi dai Male­ branche: Taciti, soli, sanza compagnia n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo, come frati minor vanno per via.

Dante sta ripensando alla recente rissa fra Alichino e Calcabrina, che gli ricorda una celebre favola di Esopo. Troppe le somiglianze: i due litiganti, la rana e il topo, finiscono nelle grinfie del nibbio, così come Alichino e Calcabrina erano stati separati dalla pece dove erano piom­ bati artigliandosi ( «Lo caldo sghermitor sùbito fue», il calore divise di botto i contendenti ) . Si sa che un pensiero tira l'altro: a questo pun­ to, è dunque facile per Dante prevedere che i Malebranche, dopo l'in­ cidente con Ciampòlo, ce l'abbiano con loro due, ritenendoli primi responsabili della beffa subita. Coi capelli ritti per la paura, chiede a Virgilio di trovare un rifu­ gio immediato : quelli sicuramente staranno inseguendoli, o per lo meno egli ne avverte quasi la presenza. Il maestro gli rivela di essere già sulla stessa lunghezza d'onda, come se quel pensiero gli fosse stato trasmesso, e di avere già preso una decisione: scendere subito nella bol­ gia successiva, sperando che i diavoli lì non potessero seguirli. Le loro previsioni trovano subito conferma: ecco i Malebranche sopravvenire «con l'ali tese l non molto lungi, per volerne prendere » . Così Virgilio fa appena in tempo ad abbracciare Dante e a lasciarsi scivolare lungo la roccia, con la stessa rapidità dell'acqua lasciata andare libera verso la ruota di un mulino o di una madre la quale riesce a salvare il suo bambino dall'incendio, precipitandosi fuori della casa senza neppu-

INFERNO

re preoccuparsi di mettersi un panno addosso. E per fortuna i diavoli sono costretti a guardarli dal ciglio superiore, impotenti a lasciare la loro sede. O ra, nella sesta bolgia, lo spettacolo è ben diverso, in quanto ve­ dono una turba di dannati che procede > . Sono gli ipocriti, coperti di cappe di piombo rivestite di lamine d'oro, simili nella foggia, per i cappucci da­ vanti agli occhi, a quelle dei monaci benedettini dell 'abbazia di Cluny, in Francia, ma per il peso a quelle con cui Federico I I torturava i suoi nemici sciogliendo al fuoco il metallo con cui li rivestiva. I due pelle­ grini p rocedono sincronizzandosi con quelle schiere, ma per quanto vadan o piano, a ogni passo mutano compagnia. Dante prega il maestro di aiutarlo a scoprire qualcuno con cui si possa dialogare. Uno dei dannati, riconoscendo la pronuncia toscana, grida verso di loro di non correre oltre, ma di fermarsi ad aspettarlo. Così, a fatica lui e un altro giungono alla loro altezza e, sollevando appena gli occhi di sbieco sotto il peso del cappuccio, si dicono: , quattro strisce fuse in due braccia e tutte le altre parti dei corpi conglo­ bate in > . Insomma, cancellata ogni caratteristica delle due figure, fino a darci un essere mostruoso che si allontana con movimenti impacciati: Ogne primaio aspetto ivi era casso: , due e nessun l imagine perversa parea; e tal sen gio con lento passo.

Appare ora, come folgore, con la velocità con cui un ramarro d'estate, sotto il solleone, attraversa la strada, un >, il quale trafigge l'ombelico a uno dei due ladri ancora indenni da guasti, che si manifestano anch'essi come fiorentini. E qui si assiste a un prodigio ss

IL VIAGGIO DI DANTE mai visto, ignoto perfino a Lucano e ad Ovidio (per eccellenza, descrit­

tori di metamorfosi, qui sfidati dall'autore): una trasformazione simul­ tanea di due nature, l'uomo che diventa serpente mentre il serpente diventa uomo. Lo sguardo di Dante segue allucinato tutti i particolari, nel serpente e nell'uomo, in questa sincronia speculare: la coda che di­ venta gambe e le gambe che diventan coda, la pelle che diventa molle e la molle che diventa dura, «li piè di rietro, insieme attorti» convertiti nel «membro che l'uom cela » di contro al mutamento opposto, e via dicendo, mentre la scena è avvolta dal fumo che da una parte genera il pelo e dali' altro lo toglie. Infine, la postura si inverte, in un gioco di sguardi maligni: l'un si levò e l'altro cadde giuso, non torcendo però le lucerne empie, sotto le quai ciascun cambiava muso

in quanto da una parte si forma una faccia umana e dali'altra un muso di animale, con le orecchie tirate dentro «come face le corna la lumac­ cia », al modo della lumaca con le sue cornine. Da ultimo: L'anima ch'era fiera divenuta , suffolando si fugge per la valle, e l'altro dietro a lui parlando sputa.

Dante fa appena in tempo a cogliere le fisionomie di altri fiorentini, Buoso Donati, Puccio Sciancato e Francesco Cavalcanti, i quali si dile­ guano, mentre l'autore, quasi stremato dallo sforzo creativo, rinuncia a descrivere altre trasformazioni di questa settima bolgia.

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Canto XXVI

La voce di Dante autore si leva ora nei toni di un feroce sarcasmo con­ tro la città natale: Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande che per mare e per terra batti l'ali, e per lo 'nferno tuo nome si spande !

Il che equivale a stigmatizzare la corruzione di Firenze prendendo oc­ casione dalla presenza di questi suoi ladroni per presagirne una pros­ sima, per quanto ancora oscura, punizione. Frattanto, i due viandanti riprendono il cammino risalendo a fatica per gli anfratti rocciosi fino a riguadagnare il ciglio superiore della bolgia. Ma prima di ridare voce al protagonista, l'autore si attarda ad ammonire sé stesso sulla necessità di frenare il proprio orgoglio intellettuale, memore dei suoi cedimenti giovanili a un certo laicismo, legato al sodalizio con l' "eretico" Guido Cavalcanti. Ora infatti si rende meglio conto della necessità di non disperdere i doni del cielo in parole e azioni non governate dalla virtù: Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio, perché non corra che virtù nol guidi; sì che, se stella bona o miglior cosa m'ha dato 'l ben, ch'io stesso nol m'invidi.

Lo spettacolo che gli si para davanti gli ricorda certe sere d'estate all' imbrunire, quando, dopo tante ore di luce, c'è una sorta di cambio della guardia fra gli insetti molesti e il contadino, dopo le fatiche del

IL VIAGGIO DI DANTE �iorno, riposandosi su un'altura, indovina in basso can1 p i ravvivati dal brillare di una folla di lucciole:

i contorni dei suoi

Quante 'l villan ch'al poggio si riposa, nel tempo che colui che ' l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa, come la mosca cede a la zanzara, vede lucciole giù per la vallea, , forse colà dov e' vendemmia e ara.

Egli vede infatti il fondo deli'ottava bolgia, destinata ai consiglieri fraudolenti, grazie allo splendore di tante fiamme, ciascuna delle quali include un peccatore; e gli viene in mente la storia del profeta Elia, let­ ta nel libro dei Re (entro l'Antico Testamento), il quale ascese al cielo su un carro infuocato. Spinto dalla curiosità, sporgendosi sul vuoto, Dante sta per per­ dere l'equilibrio e cadere : Virgilio intuisce il desiderio del discepolo, che fra le tante fiamme ne ha colta una bipartita, simile a quella del rogo dei due fratelli rivali, Eteocle e Polinice, di cui leggeva nella Tebaide di Stazio. Virgilio gli rivela che in quel fuoco si nascondo­ no le anime di Ulisse e di Diomede, ad espiare i comportamenti fraudolenti che in vita avevano caratterizzato soprattutto il primo ( il sotterfugio con cui riuscì a indurre Achille a partecipare alla spedizione guidata da Agamennone e volta a vendicare l 'offesa a Menelao, cioè il ratto di Elena; e soprattutto l'inganno del cavallo

Dante e Virgilio davanti alla doppia fiamma di Ulisse e Diomede.

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INFERNO

di Troia), ma anche il secondo (il furto del Palladio, la statua lignea di Minerva). Dante confessa apertamente di essere sopraffatto dal desiderio di avere un colloquio con Ulisse, ma Virgilio lo prega di lasciare la parola a lui, più vicino alla cultura e alla lingua dell'eroe greco. Così egli si rivolge alla fiamma, che si è nel frattempo avvicinata, vantando i suoi meriti come aurore che di loro aveva scritto nell'E­ neide, e chiede ad Ulisse di rivelargli il segreto del suo ultimo viaggio e della sua morte, dal momento che di lui, dopo, non si era saputo più nulla. E a quel punto la fiamma si trasforma in una lingua di fuoco la quale, crepitando, va convertendosi nelle parole di un racconto, che prende le mosse dal momento in cui Ulisse lasciò la dimora della maga Circe per affrontare di nuovo le insidie del mare. Si tratta di un' invenzione dell'autore, che non conosce ovviamente l' Odissea (e dunque prescinde dal ritorno dell'eroe a ltaca) ma utilizza spunti isolati di vari scrittori, da Cicerone a Seneca. Così dunque l'U­ lisse dantesco confessa di essere venuto meno a tutti gli affetti familiari per seguire un suo insopprimibile desiderio di conoscenza: né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né 'l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta, vincer potero dentro a me l'ardore ch'i ' ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore; ma misi me per l'alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto.

Cominciano così, con la sua nave e l'equipaggio fidato (la «compa­ gna picciola » , !' "esigua compagnia"), le sue lunghe peregrinazioni nel Mediterraneo. La loro rotta, verso l'ovest, tocca successivamente la Sardegna, la costa spagnola e quella africana, nel Marocco; fino a che giungono, stanchi e invecchiati, allo stretto di Gibilterra, quelle colonne d'Ercole che segnavano i confini del mondo abitato. A quel punto, Ulisse pronunciò un'arringa, breve ( «orazion picciola » ) ma di alto profilo, dove risuona un ammonimento che resterà paradigmatico per l' intera civiltà occidentale:

IL VIAGGIO DI DANTE frati », dissi, «che per cento m ilia perigli siete giunti a l'occidente, a questa tanto picciola vigilia «O

de' vostri sensi ch'è del rimanente non vogliate negar l'esperienza, di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza » .

In altre parole, egli chiede ai "fratelli", i suoi vecchi marinai, che hanno con lui superato tanti pericoli, di sfruttare al massimo l'esiguo spazio di vita che a loro rimane (con i sensi ancora svegli) affrontando l'av­ ventura intentata dell'esplorazione degli antipodi, che si ritenevano deserti e spopolati : questo chiede, appunto, in nome della loro voca­ zione di uomini, nati per sviluppare al massimo una connaturata ansia di conoscenza. E l'effetto non si fa attendere : quella sparuta ciurma si infiamma, al punto che sarebbe stato impossibile trattenerla: e volta nostra poppa nel mattino, de' remi facemmo ali al folle volo.

Trascorrono altri cinque mesi, sempre navigando verso occidente, fino a che giungono in vista di una montagna altissima, « bruna l per la distanza » . È quella dove si trova il Purgatorio, impossibile da raggiun­ gere senza I' avallo divino. Non fanno in tempo a gridare "terra, terra!", che ne nasce un ciclone violentissimo, il quale fa ruotare la barca su sé stessa vorticosamente. La prua sprofonda sotto la superficie e il mare si richiude sopra quegli incauti navigatori, condannando di fatto il su­ perbo gesto di Ulisse.

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Canto XXVII

Si è appena spenta la voce di Ulisse, congedato da Virgilio, che un'altra fiamma si avvicina mostrando di voler parlare. La lingua del dannato fatica, ancor più di quella dell'eroe greco, a trasmettersi alla lingua di fuoco; e qui all'autore viene in mente il caso dell'ateniese Perillo che aveva costruito per il tiranno di Agrigento Falaride un toro di bronzo per arrostire vive le sue vittime, le cui urla sembrassero muggiti dell'a­ nimale. Chi si rivolge a Virgilio, invitandolo a soffermarsi per un colloquio e chiedendogli subito notizie della sua terra natale, la Romagna ( « io fui de' monti là intra Orbino l e 'l giogo di che Tever si diserra » ), è un grande ghibellino e condottiero dell'ultimo quarto del Duecento, che aveva riempito delle sue gesta le cronache coeve, Guido da Montefel­ tro. Chi risponde è però Dante, meglio edotto dei fatti contemporanei (egli per giunta sa bene, dopo l' incontro con Cavalcante, come i dan­ nati ignorino il presente): [ ] Romagna tua non è, e non fu mai, sanza guerra ne' cuor de ' suoi tiranni; ma 'n palese nessuna or vi lasciai [ .] » . «

...

..

Così, rapidamente, egli fornisce ragguagli essenziali su sette città o borghi di quella terra: Ravenna con la stirpe dei da Polenta i quali do­ minano anche su Cervia, Forlì con Scarpetta degli Ordelaffi, Rimini coi Malatesta, Faenza e Imola con Maghinardo Pagani da Susinana, infine Cesena col montefeltrano Galasso, capitano del popolo. Ma so­ prattutto chiede al dannato di presentarsi, augurandogli buona fama nel mondo terreno. E Guido non si fa pregare dichiarandosi sicuro che nessuno potrà riferire la sua confessione, lontano com'è dal pensare 91

IL VIAGGIO DI DANTE

Tra le fìamme dei consiglieri fraudolenti, nell'ottava bolgia: l'incontro con Gui­ do da Moncefelcro.

di trovarsi davanti un vivo: per quel che sa, nessuno dall'oltretomba è tornato mai in terra. Racconta, dunque, di aver abbandonato milizie e guerre sanguinose facendosi francescano; e si sarebbe salvato se il papa, contro cui scaglia una maledizione, non lo avesse indotto a ricadere nel suo peccato: , [ . . ] lo fui uom d arme, e poi fui cordigliera, credendomi, sì cinto, fare ammenda; e certo il creder mio venia intero, «

.

se non fosse il gran prete, a cui mal prenda! che mi rimise ne le prime colpe [ .. . ] » .

Nella sua esistenza egli era diventato famoso soprattutto per l'astuzia (dunque, volpe piuttosto che leone ) , maestro nel mettere a frutto inganni d'ogni tipo (

  • ) ; ma arrivato in tarda età aveva sentito sazi età e disgusto di quella vita: di qui, il pentimento e la conversione. Purtroppo, però, il papa Bonifacio V I I I , il più grande ipocrita di questo mondo ( > ( in realtà, di questa debolezza l'aveva già rimproverato, e assai più duramente, nella bolgia degli indovini ) . Dan­ te cerca di giustificare il proprio indugio con la curiosità di ritrovare fra quelle anime un proprio congiunto; e Virgilio gli conferma di avere visto un certo Geri del Bello segnarlo minacciosamente col dito mentre Dante era tutto assorto ad ascoltare le parole di Bertran de Born. E a quel punto il protagonista non può che confermare il rancore di questo cugino del proprio padre, assassinato da un Sacchetti, per non essere ancora stato vendicato dalla famiglia Alighieri. Siamo ora giunti al passaggio nell'ultima bolgia, subito contrassegna­ ta da un violento concerto di lamenti. Vi sono punite, con le più diverse malattie, quattro categorie di falsari: di metalli, di persona, di monete e di parole. Non a caso, per dare una lontana idea del dolore e del puz-

    l

    due poeti con gli alchimisti, tra i falsari della decima bolgia.

    97

    I L VIAGGIO D I DANTE

    ( > , unicamente al rancore nei confronti dei corruttori conti Guidi ai quali augura la dannazione (poco lo conforta l'aver sa­ puto dai colleghi rabbiosi che uno di costoro gli tiene compagnia nella stessa bolgia, perché, impedito com'è nei movimenti, non riesce a rag­ giungerlo per godere di vederlo punito). IOO

    INFERNO

    A quel punto, Dante sembra pago di quanto ha saputo circa mae­ stro Adamo, ma desideroso di avere notizia dei «due rapini l che fum­ man come man bagnate 'l verno» , puzzolenti per una febbre acuta; viene così a sapere che l'una è la moglie di Putifarre, la quale, respinta dal casto Giuseppe, lo accusò di aver tentato di sedurla; mentre l'altro è quel « falso Sinon greco di Troia » , che indusse i Troiani a introdurre in città il famoso cavallo di legno. Proprio questo sbrigativo giudizio induce Sinone a percuotere rabbiosamente con un pugno la pancia gonfia di maestro Adamo, il quale lo ripaga con una gomitata al viso. Si avvia qui una vera e propria tenzone a botta e risposta, come si usava allora nella rimeria giocosa, secondo la prassi del rispondere per le rime: una serie di battute pungenti in cui ciascuno rinfaccia ali' altro le sue mancanze. Ad esempio: «S'io dissi falso, e tu falsasti il conio» «Ricorditi, spergiuro, del cavallo» «E te sia rea la sete onde ti crepa [ ... ] la lingua [ .. . ] » « [ ... ] s'i' ho sete e omor mi rinfarcia, tu hai l'arsura e ' l capo che ti duole [ ... ] » .

    Dante è colpevolmente attratto da quella scena, che in qualche modo lo diverte e lo incuriosisce, suscitando il risentimento di Virgilio ( «ché voler ciò udire è bassa voglia » ) e un brusco rimprovero; di qui nasce in lui una tale mortificazione che Virgilio si sente in dovere di consolarlo: «Maggior difetto men vergogna lava » .

    IOI

    Canto xxxi

    Riflettendo sul potere della lingua del suo maestro, che prima lo fe­ risce ma poi lo guarisce, Dante segue Virgilio in silenzio: una luce crepuscolare impedisce di vedere a distanza, ma improvvisamente si sente il suono fortissimo di un corno, che al poeta viaggiatore ricor­ da quello suonato dal paladino Orlando nella rotta di Roncisvalle ( 77 8 d.C. ) . Indirizzatosi verso l'origine di quel suono, pare al pel­ legrino di intravedere « molte alte torri » ; di qui il suo desiderio di apprendere da Virgilio la natura di quella che gli sembra una città fortificata. Vero è che le tenebre e la lontananza avevano prodotto un inganno dei sensi; siamo infatti davanti al pozzo che mette in comunicazione l'ottavo col nono e ultimo cerchio, pozzo custodito e sovrastato da giganti. A un toscano come Dante, che ormai avvicinatosi vince l'ostacolo della nebbia e del buio, non può non venire in mente un celebre castel­ lo ancor oggi visibile fra Siena e Colle Valdelsa: [ . .. ] come su la cerchia tonda Montereggion di torri si corona, così la proda che 'l pozzo circonda torreggiavan di mezza la persona li orribili giganti.

    Così, gli viene naturale riflettere sulla saggezza della natura che a un certo punto cessò di produrre esemplari umani di questa grandezza, dotati di ragione, di «mal volere » e di una forza incontenibile, ac­ contentandosi di tanto più innocui animali come elefanti e balene. Per dare un' idea delle proporzioni di simili creature, Dante ne para­ gona il volto alla pigna bronzea che allora si trovava nell'atrio della 102

    INFERNO

    chiesa di San Pietro, mentre la parte visibile del corpo, dalla cintola fino al collo, corrispondeva ali' altezza di tre abitanti della Frisia, più o meno cioè misurava sette metri (dunque un'altezza complessiva di almeno una ventina di metri). Con una sequenza di parole incomprensibili ( > ) si annuncia il gigantesco suonato re del cor­ no, Nembrot, cacciatore indomabile nella Bibbia, che la tradizione patristica (specie san t 'Agostino) presentava come responsabile della costruzione della torre di Babele, origine della confusione delle lin­ gue. Lasciato costui alle spalle, i due proseguono fìno a incontrare un secondo gigante, Fialte, qui immobilizzato da robuste catene, il quale era stato protagonista della sfida contro Giove nella guer­ ra di Flegra (col collega Oto aveva sovrapposto due montagne per raggiungere il cielo). Dante esprime il desiderio di vedere « lo smi­ surato Brlareo >> , per averne letto, uno dei Titani; ma Virgilio gli prospetta come possibile l'incontro con Ante o, figlio della Terra e di Nettuno, vinto da Ercole in una delle sue fatiche, che a differen­ za di Nembrot usa un linguaggio comprensibile e non è incatenato come Briareo e Fialte. Dopo essersi preso una gran paura per il rumore da terremoto prodotto da Fialte nello scuotere invano le catene, Dante arriva da-

    l ,Juc poeti davanti al pozzo dei Giganti.

    103

    IL VIAGGIO D I DANTE

    vanti ad Anteo, al quale Virgilio rivolge un lungo discorso, celebran­ done le gesta di grande cacciatore di leoni in Africa e pregandolo di agevolare la loro discesa nell'ultimo cerchio: quel vivo che egli sta guidando nel viaggio ultraterreno potrà in cambio rinfrescare la sua fama nel mondo. Ed ecco il gigante accondiscendere alla richiesta cortese, afferrare in mano Virgilio, che a sua volta abbraccia Dante per proteggerlo, e piegarsi verso il basso con quel carico prezioso : Qual pare a riguardar la Carisenda sotto 'l chinato, quando un nuvol vada sovr'essa sì, ched ella incontro penda: tal parve Anteo a me.

    Il ricordo della torre pendente che Dante aveva ammirato in uno dei suoi soggiorni a Bologna introduce uno spiraglio di luce in questo luo­ go tenebroso, come confermano le ultime note, addirittura marine, che chiudono la vicenda di questo canto: Ma lievemente al fondo che divora Lucifero con Giuda, ci sposò; né, sì chinato, lì fece dimora, e come albero in nave si levò.

    Canto XXXII

    L'autore si concede una pausa di riflessione sulla natura del suo raccon­ to alle prese con una materia disarmonica che richiederebbe, per essere rispecchiata adeguatamente, linguaggio e stile irti e striduli: S ' io avessi le rime aspre e chiocce, come si converrebbe al tristo buco sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce, io premerei di mio concetto il suco pm pienamente. . '

    .

    Mentre, dunque, egli si confessa consapevole di non possedere stru­ menti adeguati per descrivere il punto centrale dell'universo, non può esimersi dall'invocare le Muse, protettrici delle arti, perché lo assistano «sì che dal fatto il dir non sia diverso» . I due stanno appena ambientandosi nell'oscurità di quel pozzo che una voce li invita alla cautela nel procedere lungo il pendio, per non calpestare le teste dei dannati. Aguzzando la vista, Dante si tro­ va davanti un enorme lago gelato, che gli richiama, per averne letto qualche notizia, i fiumi del Nord Europa in inverno, il Danubio o il Don; ma qui la crosta di ghiaccio appare così spessa che reggerebbe all'impatto di una montagna delle Apuane, a lui familiare, la Tam­ bura o la Pania, se le cadesse sopra. Dalla superficie, nella posizione che hanno d'estate le rane col muso fuori dell'acqua, emergono le teste della prima categoria di peccatori, i traditori dei congiunti, pu­ niti nella Caina (tale il nome della zona, in memoria dell'uccisore di Abele), con giusto contrappasso : per il freddo, le loro lacrime si ghiacciano e i denti battono facendo un rumore simile a quello del becco delle cicogne. I OS

    I L VIAGGIO DI DANTE

    Nella ghiaccia di Cocito, fra i traditori del nono cerchio: tra di loro si nota Ugo­ lino che rode il capo di Ruggieri.

    Ai piedi di Dante stanno ora, quasi congiunte, le teste di due dannati, che reagiscono rabbiosamente alla domanda sulla loro identità, coz­ zando fra di loro come due montoni. È un terzo dannato, il ghibellino Camicione dei Pazzi (che nella sua Valdarno aveva proditoriamente ucciso un congiunto) a rivelare il loro nome. Sono, costoro, i due fra­ telli Napoleone e Alberto degli Alberti, conti di Mangona, originari della valle del Bisenzio, divisi in vita da una feroce ostilità (ghibellino il primo, guelfo il secondo), fino a darsi reciprocamente la morte. Ca­ micione si mostra loquace: non solo preannuncia la prossima discesa in Antenora (fra i traditori politici) di un altro membro della famiglia Pazzi, Carlino, responsabile di una colpa ancora più grave, ma rivela i nomi di altri dannati nella Caina: Mordret, ucciso dal suo sovrano, Artù, alla cui vita aveva attentato; il guelfo bianco pistoiese Vanni dei Cancellieri, soprannominato Focaccia, che aveva ammazzato a tradi­ mento il cugino Detto; così come aveva fatto il fiorentino Sassol Ma­ scheroni, nei confronti di un giovanissimo congiunto. Dante è frattanto giunto, intirizzito anche lui fra tanti volti pao­ nazzi, nella zona dei traditori della patria, appunto l 'Antenora. Senza volerlo, urta col piede la testa di un dannato, che se ne lamenta nomi­ nando Montaperti. Al ricordo della battaglia che vide i Guelfi fioren­ tini sconfitti dai Ghibellini (si ricordi l'episodio di Farinata) , Dante si 106

    INFERNO

    inalbera sospettoso e, dichiarandosi per vivo, vuole conoscere il nome di quello spirito, per rinfrescare la sua fama in terra; costui si nega con ostinazione fino a suscitare l'ira del poeta, che lo afferra per la collot­ tola per costringerlo a rivelarsi. Il violento diverbio fra i due può ram­ mentare al lettore certi precedenti: non tanto quello fra il protagonista e Farinata, quanto piuttosto lo scontro con Filippo Argenti o fra mae­ stro Adamo e Sino ne. La tensione si scioglie quando un altro dannato, infastidito da tante urla, rivela quel nome: « Che hai tu, Bocca? non ti basta sonar con le mascelle, se tu non latri ? qual diavol ti tocca? » .

    Costui è Bocca degli Abati, il ghibellino di Firenze che nella memo­ rabile battaglia del r26o tagliò di soppiatto la mano di chi impugna­ va la bandiera dei Guelfi, provocando di fatto la rotta dei concittadi­ ni. Implacabile, Dante promette di diffamare al suo ritorno in terra quel «malvagio traditor:>> ; il quale non trova di meglio che sfogare il proprio rancore denunciando chi aveva fatto il suo nome, Buoso da Dovera, signore di Cremona, che aveva tradito l'alleato Manfredi fa­ vorendo l'esercito angioino. Né rinuncia a spiattellare altri nomi di traditori politici: l'abate pavese Tesauro di Beccheria, il ghibellino di Firenze Gianni Soldanieri, Tebaldello de ' Zambrasi, che consegnò la sua Faenza ai Geremei bolognesi; infine Gano di Maganza, il traditore per eccellenza nella tradizione carolingia, responsabile dell'agguato di Roncisvalle che costò la vita a Orlando e ai paladini. Un brusco cambiamento di scena mostra due dannati ferocemente accoppiati: una testa sopra l'altra, una bocca che rode una nuca con la stessa avidità con cui l'affamato divora un tozzo di pane. Desideroso di apprendere le responsabilità della sua vittima e le ragioni di un simile odio (che ricorda l' infierire di Tideo su Menalippo nella Tebaide di Stazio) , Dante promette, se risulteranno vere e legittime, di riferirne debitamente in terra.

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    Canto XXXIII

    Una bocca rossa di sangue si solleva dalla testa addentata, pulendo­ si contro quei capelli; un gesto bestiale, che dà luogo però alle parole drammatiche di un terribile racconto: «Tu vuo' ch'io rinovelli disperato dolor che 'l cor mi preme già pur pensando, pria ch'io ne favelli. Ma se le mie parole esser dien seme che frutti infamia al traditor ch'i' rodo, parlare e lagrimar vedrai insieme [ . . ] » . .

    Chi parla è Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico, che in Pisa tramò a favore dei Guelfi, cedendo loro vari castelli per attenerne la pace, ma suscitando così la ribellione dei Ghibellini pisani guidati dall'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, qui esposto alla sanguinosa vendetta di Ugolino. Ruggieri infatti, carpendo la sua fiducia, lo aveva fatto rinchiudere in una torre con due figli e due nipoti, !asciandolo morire di fame ( 128 9 ) Questi i fatti di cronaca, ben noti a tutti (ovviamente anche a un Dante ventenne); ciò che invece preme a Ugolino di rivelare è il segreto della loro fine: .

    [ . .. ] però quel che non puoi avere inteso, ciò è come la morte mia fu cruda: udirai, e saprai s'e' m'ha offeso [ ] » . «

    ...

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    INFERNO

    Nella Tolomea, fra i traditori degli ospiti: frate Alberigo.

    Erano passati più mesi dentro la torre dei Gualandi (che poi sarà chia­ mata Muda della Fame), quando egli aveva fatto un sogno orribile che gli aveva rivelato il futuro incombente. Ruggieri vi recitava la parte del capo di una spedizione venatoria, dove i cani da caccia erano le famiglie dei maggiorenti pisani ( Gualandi, Sismondi e Lanfranchi) con la plebe pisana, istigata dali' arcivescovo, e le prede erano il lupo e i lupicini, cioè Ugolino stesso e i suoi figli e nipoti, presto raggiunti e addentati dal­ la muta. Appena destatosi, egli ricorda, . Ed ecco Dante affrontare uno dopo l'altro i tre gradini, allusivi al rito della confessione: il primo, bianco come marmo, simboleggia infatti nel penitente la contrizio­ ne del cuore; il secondo, di colore scuro e di pietra attraversata da fenditure, corrisponde ali' ammissione verbale delle proprie colpe; il terzo, di porfìdo rosseggiante, alla penitenza col suo ardore di ca­ rità. All'angelo, seduto sulla soglia e coi piedi sull'ultimo gradino, l )ante, battendosi il petto, chiede umilmente che li sia dischiusa la porta. Ma il divino portinaio incide prima con la spada, sulla fron­ l c del penitente, sette "P� corrispondenti ai peccati che si purgano nel secondo regno; poi estrae due chiavi, una d'argento e raltra d'o­ l'O, ereditate da san Pietro, primo pontefice, e allusive alla scienza e " I l ' autorità del confessore, introducendo!e nella toppa. A quel pun­ l n , con un'ultima raccomandazione (non si torni indietro, al passato prl·caminoso, pena la perdita dell'assoluzione), egli spinge la porta, rhc stride fortemente sui cardini, rammentando all 'autore l'episodio dr l i ' ingresso nella rupe Tarpea narrato da Lucano, quando Giulio

    IL VIAGGIO DI DANTE

    Cesare ne aprì violentemente la porta per impadronirsi dell'erario pubblico. Ma su quel fragore s' innesta e va prevalendo il dolce suono del Te Deum, l ' inno di ringraziamento al Signore, intonato dalle ani­ me purganti che esultano per l'ingresso di un nuovo spirito nel loro regno. L' impressione è quella di uno strumento che accompagna le voci del coro: Tale imagine a punto mi rendea ciò ch'io udiva, qual prender si suole quando a cantar con organi si stea; ch'or sì or no s'intendon le parole.

    Canto x

    Appena entrati, la porta si richiude fragorosamente dietro le loro spal­ le; e i due iniziano la salita lungo un sentiero tortuoso scavato nella pietra, che li obbliga a seguire lentamente le varie rientranze della roc­ cia. Così, intanto, le ore passano e il sole è ormai alto sull'orizzonte quando Dante e Virgilio giungono a un ampio ripiano circolare, largo ali' incirca cinque metri e apparentemente deserto, che corre uniforme intorno alla montagna, costituendo il primo balzo del Purgatorio. Tut­ tavia, mossi i primi passi, Dante si accorge che la fascia inferiore della parete sovrastante è occupata da bassorilievi in candido marmo, di tale maestria che avrebbero fatto arrossire il grande scultore greco Polideto c di tale realismo che la stessa natura avrebbe ceduto le armi. La prima rappresentazione è quella dell'annuncio dell' incarnazio­ ne di Cristo, che riaperse le porte del Paradiso serrate dopo il peccato d i Adamo, con al centro l'arcangelo Gabriele e Maria: L'angel che venne in terra col decreto de la molt'anni lagrimata pace, ch'aperse il ciel del suo lungo divieto, dinanzi a noi pareva sì verace quivi intagliato in un atto soave, che non sembiava imagin� che tace. Giurato si saria ch'el dicesse "Ave!"; perché iv'era imaginata quella eh'ad aprir l'alto amor volse la chiave; avea in atto impressa esta favella "i:'Lu ancilla Det', propriamente m me figura in cera si suggella. c

    147

    IL VIAGGIO D I DANTE

    1'� > , che precede il corteo, disposto in sette cori, danzando in vesti succinte, umile e re­ gale insieme, non senza suscitare la rabbia della moglie Micol, chiusa nella sua superbia. Tale è l'efficacia della rappresentazione che sembra di ascoltare il canto e di percepire il fumo degli incensi, mentre l'unico senso attivo è la vista. Segue il terzo esempio, un aneddoto largamente diffuso nei testi medievali, riguardante Traiano, ancor più "parlante" dei precedenti, con la vedovella che blocca l' imperatore alla testa del suo esercito pre­ tendendo e ottenendo senza indugio, con poche drammatiche battu­ te di dialogo, la vendetta del figlio ucciso. Solo Dio, osserva l'autore, poteva animare il marmo fino a conseguire questo «visibile parlare » , inaccessibile per l'arte terrena. Mentre Dante è tutto assorto a contemplare questi sublimi esempi di umiltà, Virgilio attira la sua attenzione su una turba che si va avvici-

    I due poeti nella prima cornice: i bassorilievi con gli esempi di umiltà premiata

    (Maria, David e Traiano) .

    PURGATORIO

    nando lentamente. Sono le anime di coloro che vanno espiando il pec­ Glto più grave nel secondo regno, la superbia, con una pena adeguata, (he non è però eterna come quelle inflitte nell' Inferno, in quanto in ogni caso non potrà prolungarsi oltre il giorno del Giudizio, «la gran sentenza » . Dante confessa al maestro di non vedere sagome di per­ sone, un'impressione confermata da Virgilio, che lo invita a guardare meglio sotto a quella folla di macigni camminanti. E qui l'autore non può trattenersi dali' inveire contro i « superbi cristian » i quali perdono di vista per vanagloria l'approdo divino: non v'accorgete voi che noi siam vermi nati a formar l'angelica farfalla, che vola a la giustizia sanza schermi ?

    In altre parole, il peccato di superbia impedisce all'uomo lo sviluppo dal bozzolo alla farfalla, metafora dell'anima che vola purificata in cie­ lo. Qui, dunque, il contrappasso comporta che le anime procedano lungo il ripiano del primo cerchio quasi rattrappite in quanto oppres­ se da un pesante macigno. Quella posizione faticosamente innaturale non può non richiamare al visitatore le cariatidi e i telamoni che anco­ ra nell'architettura medievale sostenevano le strutture superiori di un edificio: Come per sostentar solaio o tetto, per mensola talvolta una figura si vede giugner le ginocchia al petto.

    Solo che qui non si tratta di pietre insensibili, ma di spiriti che soffrono una quasi intollerabile fatica.

    1 49

    Canto XI

    « O Padre nostro, che ne' cieli stai, non c1rcunscntto, ma per pm amore ch'ai primi effetti di là sù tu hai, .

    .

    . '

    laudato sia 'l tuo nome e 'l tuo valore da ogne creatura [ ] » . ...

    È una parafrasi e amplificazione della più nota preghiera cristiana,

    messa in bocca ai superbi, con i necessari adattamenti, fra l 'insistenza francescana sulla lode tributata a Dio dagli uomini (in luogo del secco «sia santificato il tuo nome » ) e l'avvertenza che il « non ci indurre in tentazione » si rivolge ai viventi e non può riguardare i penitenti. Trattandosi del peccato più grave fra i sette mortali, non ci si può stupire che le anime dei superbi ricevano un trattamento diverso per quanto riguarda l' intensità della pena, in proporzione alla colpa da espiare; meno scontato che le loro preghiere giovino ai viventi, i quali a loro volta possono contribuire ad abbreviare il tempo dell'espiazione coi loro suffragi. La parola di Virgilio si leva a interrogare le anime sul cammino più comodo per passare alla cornice successiva, anche alla luce delle difficoltà di una scalata del monte per un uomo in carne ed ossa quale è Dante. La voce che risponde suggerendo la strada più agevole è quella di Omberto Aldobrandeschi, conte di Santafìora, che, senza poter guardare in faccia quel vivo a causa del macigno che lo pie­ ga verso terra ( «per veder s'i' 'l conosco, l e per farlo pietoso a questa soma » ), così si presenta, ben consapevole della sua boria nobiliare: «

    [ . ] L'antico sangue e l'opere leggiadre .

    .

    de' miei maggior mi fer sì arrogante, che, non pensando a la comune madre,

    PURGATORIO ogn'uomo ebbi in despetto tanto avante, ,. , [ . ] >> . c h 10 ne mon .

    ..

    In effetti, il suo odio si appuntò con violenza smisurata contro i senesi, l > ), ricono­ scendo ora la superiorità di Franco da Bologna e soprattutto stigma­ tizzando la vanagloria dell' ingegno umano, incapace di ammettere la relatività della fama : « [ . ] Credette Cimabue ne la pittura ..

    tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, sì che la fama di colui è scura.

    , Sempre fra i superbi: l incontro con Omberto Aldobrandeschi.

    IL VIAGGIO D I DANTE

    Così ha tolto l 'uno a l'altro Guido

    la gloria de la lingua; e forse è nato chi l'uno e l'altro caccerà del nido.

    Non è il mondan romore altro ch'un flato di vento, eh'or vien quinei e or vien quindi, e muta nome perché muta lato [ ] » . ...

    Come Giotto ha soppiantato Cimabue, così Guinizzelli è stato oscura­ to da Cavalcanti, a sua volta destinato ad essere superato da qualcuno (sembra d' intendere, lo stesso Alighieri). Ben poca cosa è dunque la gloria umana di fronte all'eternità, se la si può paragonare al soffio del vento o al verde della vegetazione ( « La vostra nominanza è color d'er­ ba, l che viene e va »). Per Oderisi, portavoce qui dell'autore, un esem­ pio calzante viene dal personaggio che gli sta accanto, la cui potenza s'irradiava nell'intera Toscana, il senese Provenzan Salvani, di cui ap­ pena qualcuno si ricorda nella sua città e fu invece fra i protagonisti della vittoria ghibellina di Montaperti e del successivo consiglio di Empoli (dove era fra quelli che votarono per la distruzione di Firenze). A quel punto Dante non può non meravigliarsi, essendo edotto del­ la smodata superbia del signore di Siena, di scoprirlo esente dalla sosta nell'Antipurgatorio, immaginandone una conversione in fin di vita (Provenzano era morto nel 126 9 , nello scontro di Colle Valdelsa) . Ma a quel punto Oderisi gli rivela che Provenzano era stato capace di umi­ liarsi nel pieno della sua potenza, chiedendo l'elemosina ai concittadini per metter� insieme i soldi del riscatto per un amico (forse Bartolomeo Seracini) catturato da Carlo d'Angiò nella battaglia di Tagliacozzo: «Quando vivea più glorioso», disse, « liberamente nel Campo di Siena, ogne vergogna diposta, s'affisse; e lì, per trar l'amico suo di pena, ch'e' sostenea ne la prigion di Carlo, si condusse a tremar per ogne vena [ .. ] » . .

    Il tremare in ogni fibra s'accompagna all'umiliazione cocente dell'an­ dare elemosinando, specie in un animo orgoglioso; e qui il miniatore allude oscuramente al destino che attende Dante, esiliato e costretto ali' indigenza dai suoi concittadini. Egli dunque, privo di ogni aiuto, proverà l'amarezza del mendicare il pane. È questa la seconda delle profezie dell'esilio ricevute da Dante nel regno dell'espiazione.

    Canto XII

    Concluso il lungo racconto di Oderisi, Dante persiste a seguire i len­ ti passi del miniatore ( «come buoi che vanno a giogo » ), tanto che Virgilio lo invita bruscamente a procedere veloce nel cammino verso l'alto che li attende. Procedono dunque di conserva, con leggerezza crescente, ma il maestro invita il discepolo a volgere gli occhi al pavi­ mento di roccia sul quale poggiano i piedi. Su questo, come sulle lastre marmoree delle tombe terragne si scolpiscono le immagini dei defunti, si susseguono in serie numerose figure riferibili ad esempi di superbia punita, che Dante trae dalla Bibbia o dalla mitologia classica (princi­ palmente dalle Metamorfosi di Ovidio). Non per caso si comincia con Lucifero: Vedea colui che fu nobil creato più ch'altra creatura, giù dal cielo folgoreggiando scender, da l'un lato.

    Seguono Briareo, uno dei Titani ribelli fulminato da Giove; i Gigan­ ti sconfitti dagli dei dell'Olimpo nello scontro di Flegra; Nembrot e la confusione delle lingue conseguente alla temeraria impresa della torre di Babele; Niobe fra i cadaveri dei figli dopo l'orgogliosa sfida a Latona; Saul disobbediente a Dio che si trafigge con la propria spada; Aracne già per metà trasformata in ragno per aver sfidato Minerva nell'arte del­ la tessitura; Roboarno, figlio di Salomone, in fuga verso Gerusalemme per la sollevazione degli ebrei da lui provocati; Erifìle uccisa dal figlio Alcmeone in quanto colpevole di aver rivelato, in cambio di un gioiello prezioso, il nascondiglio del marito Anfiarao; il re assiro Sennacherib trucidato dai figli per la sua empietà; la regina degli Sciti, Tamiri, che immerge nel sangue la testa dello sconfitto Ciro, il grande re persiano; il 1 53

    IL VIAGGIO D I DANTE

    generale assiro Oloferne ucciso e decapitato da Giuditta; infine le rovine fumanti di Troia, esempio archetipico di superbia punita. Qui, l'autore non può nascondere la sua ammirazione per I ,efficacia di quelle raffigurazioni, sostitutive della realtà e dunque irraggiungibili da qualsiasi arte terrena: Qual di pennel fu maestro o di stile , che ritraesse l'ombre e tratti ch , ivi mirar farieno uno ingegno sottile ? Morti li morti e i vivi parean vivi: non vide mei di me chi vide il vero.

    ,

    Di qui, fuori campo, una sarcastica invettiva deli autore contro la su­ perbia degli uomini; mentre riprende il cammino e sono ormai passa­ te sei ore dall'alba, quando Virgilio attira lo sguardo di Dante verso un angelo che si sta avvicinando, per sancire il passaggio alla cornice successiva, davvero un momento irripetibile del viaggio ( .

    Dante non riesce però a capacitarsi di come egli possa aver attraversato col peso del suo corpo le sfere dell'aria e del fuoco; è questa l'occasio­ ne, per Beatrice, di una prima digressione filosofica. Essa muove dal , ��lmt--ll'f'1�ttl hk't?ll«>, come l'unione in Cristo dell'umano e del divino. Dante associa > . Premessa necessaria - afferma Carlo - è che la Provvidenza divina si trasmetta ai cieli come capacità di influire sulle creature terrene, specie nella realizzazione delle potenzialità cui esse sono destinate, con un fìne previsto: altrimenti, sarebbe difettoso il primo Motore, che non

    ()ante e Beatrice nel terzo cielo, quello di Venere.

    243

    I L VIAGGIO D I DANTE

    recherebbe a perfezione le Intelligenze angeliche. È necessario dunque per il buon funzionamento del sistema sociale che siano diverse le at­ titudini dei singoli uomini: c'è chi nasce con la vocazione dell'uomo politico, chi con quella del guerriero, chi con l' inclinazione alla vita religiosa, chi alla scienza. Tuttavia la virtù dei cieli rotanti, mentre non manca mai di imprimere il suo sigillo sull'indole umana, non tiene conto dei rapporti di parentela; avviene così che l'indole del figlio non corrisponda spesso a quella del padre. Di questo, purtroppo, non ci si rende conto in terra, proprio nel non rispettare le inclinazioni di base date dalla natura: «

    [ ... ] Ma voi torcete a la religione

    tal che fia nato a cignersi la spada, e fate re di tal ch'è da sermone [ ... ] .

    Un'allusione, questa finale, al proprio fratello, Roberto d'Angiò, più adatto a fare il predicatore che a regnare.

    Canto IX

    L'autore chiama qui in causa anche la moglie di Carlo Martello, Cle­ menza, figlia di Rodolfo I d'Asburgo, a confermare le malefatte della schiatta degli Angioini, cui allude un oscuro vaticinio di Carlo; ma in­ tanto l'amico si era congedato, mentre si avvicina a loro un'altra anima splendente, mostrandosi desiderosa di compiacere ad ogni curiosità di Dante. A un'esplicita preghiera del nostro poeta, la sconosciuta dichia­ ra la propria provenienza e identità: «In quella parte de la terra prava italica che siede tra Rialto e le fontane di Brenta e di Piava, si leva un colle, e non surge mole' alto, là onde scese una facella che fece a la contrada un grande assalto. D 'una radice nacqui e io ed ella: Cunizza fui chiamata [ ... ] » .

    Si tratta di Cunizza da Romano, andata sposa a Riccardo di San Bonifacio, signore di Verona, che Dante poté conoscere a Firenze, ormai vecchia e pentita. Nel colle di Romano, presso Bassano del Grappa, si ergeva il castello della famiglia degli Ezzelini, dove nac­ que anche il fratello di lei Ezzelino I I I , feroce tiranno ("fiaccola in­ cendiaria") della Marca Trevigiana (comprendente l'attuale Veneto, esclusa Venezia). Dominata dall' influsso del terzo cielo, Cunizza seppe purificare questa sua inclinazione amorosa, che l'aveva indot­ ta a gesti clamorosi (l'abbandono del marito per seguire il trovatore Sordello, per il quale aveva perso la testa) : un riscatto e una sublima­ zione che la gente superficiale riusciva difficilmente a capire. 245

    IL VIAGGIO D I DANTE

    Fra gli spiriti amanti del terzo cielo, Dante incontra Cunizza da Romano.

    Accanto a lei, che lo presenta in termini altamente elogiativi, come destinato a una fama duratura, si trova il trovatore Falchetto da Mar­ siglia. Ma a questo punto Cunizza parte per la tangente di una fiera polemica contro i signori e gli abitanti della Marca Trevigiana, restii a , sottomettersi ali autorità imperiale, ai quali, ispirata da Dio attraverso i Troni (le Intelligenze celesti, specchi della Giustizia divina, che pre­ siedono al cielo di Saturno), essa profetizza una serie di sventure, fra il 1312 e il 131 4 : i Guelfi di Padova sbaragliati dai Ghibellini di Vicenza e Verona; Rizzardo da Camino ucciso da una congiura per mano di un sicario; il tradimento delrempio vescovo di Feltre, Alessandro Novello da Treviso, ai danni dei fuorusciti ferraresi. Al posto di lei, tornata nel coro degli spiriti amanti, succede l'anima splendente di Falchetto, la cui gioia interiore si traduce in un riso di luce. Il trovato re non si fa certo pregare nell'accondiscendere al desi­ derio di Dante di essere edotto sulla sua vita. Egli dunque precisa di essere nato sulle rive del Mediterraneo, al centro di quel grande mare, sul litorale a metà strada fra la foce dell' Ebro e quella della Magra. Ma soprattutto rivela di essere stato segnato profondamente dall'influsso del cielo di Venere, consumato dalla passione come i più celebri esempi

    PARADISO

    di seduzione nel mito e nella storia; e di essersi via via liberato da que­ sta tendenza peccaminosa ( fattosi cistercense alla morte della donna amata, diventò vescovo di Tolosa e implacabile persecutore dell'eresia albigese) . Previene infine il desiderio di Dante presentandogli la luce di Raab, la meretrice di Gerico che favorì Giosuè nella conquista di Gerico e della Terra Promessa, rendendosi degna di essere accolta nel popolo di Israele, ma soprattutto di essere fra le prime anime redente da Cristo, disceso n el Limbo. Ne nascono l'amara allusione al pontefice ormai dimentico della Terrasanta e la sferzante polemica contro Firenze, città maledetta perché nata dal seme di Lucifero, in quanto attraverso l'a­ vidità del fiorino ha corrotto il mondo ecclesiastico e l'intera società civile, coi pastori diventati lupi. Di qui l'abbandono del Vangelo e dei Padri della Chiesa, che non si leggono più, mentre si compulsano solo i testi di diritto canonico, come appare dai margini (vivagni) dei ma­ noscritti, riempiti di note: Per questo l' Evangelio e i dottor magni son derelitti, e solo ai Decretali si studia , sì che pare a' lor vivagni. A questo intende il papa e' cardinali; non vanno i lor pensieri a Nazarette, là dove Gabriella aperse l'ali.

    Sullo sfondo dell'Annunciazione si alza infine la sua voce profetica a preannunciare la fine di questa profanazione nei luoghi del martirio di san Pietro, sul colle Vaticano.

    247

    Canto x

    Il canto si apre con un appello al lettore, perché mediti sul godimen­ to che gli deriva dal contemplare l'ordine dell'universo come riflesso dell'ordine della Trinità quale si rispecchia nelle sfere celesti e nei due opposti movimenti rotatori, il diurno o equatoriale da est a ovest e quello annuo o zodiacale in senso opposto. Ed ecco la fascia circola­ re, obliqua rispetto al piano dell'equatore celeste, entro cui orbitano i pianeti e il sole, cioè lo zodiaco, senza del quale verrebbero meno le influenze benefiche dei cieli e dunque non potrebbero tradursi in atto tutte le potenzialità terrene, con turbamenti di clima e di stagioni. Questo, solo per sfiorare un argomento di tanta complessità, perché preme il resoconto del viaggio nel terzo regno ultraterreno. Si sta infatti completando il passaggio al cielo successivo, quello del Sole: Lo ministro maggior de la natura, che del valor del ciel lo mondo imprenta e col suo lume il tempo ne misura.

    Appunto : "il più nobile esecutore di Dio, che meglio imprime sulla terra il suggello delle influenze celesti". Istantanea la percezione del nuovo cielo, quanto mai luminoso; e tuttavia gli spiriti sapienti che lo popolano vincono di splendore quella luce: un fenomeno che nessuna fantasia riuscirebbe a descrivere ade­ guatamente. Sollecitato da Beatrice, e per la prima volta quasi dimen­ tico di lei, l'animo di Dante si volge a Dio per esprimere tutta la sua gratitudine in uno slancio mistico. Frattanto si è formata intorno a loro una ghirlanda di anime, più luminose del Sole ma dotate di un canto ancor più armonioso, inimmaginabile in terra:

    PARA D I S O

    Io vidi più folg6r vivi e vincenti far di noi centro e di sé far corona, più dolci in voce che in vista lucenti.

    Questa corona di spiriti ruota per tre volte intorno a loro, arrestandosi, prima di riprendere un nuovo giro completo, come per un movimento di ballata. Si leva una voce solista a confermare l'eccezionalità di quel viaggio e quindi il buon diritto di Dante ad essere ragguagliato sulr i­ dentità dei beati che compongono questa prima ghirlanda. Chi parla, a nome degli altri undici sapienti, è il domenicano Tommaso d'Aquino, caposcuola della Scolastica, che ha accanto a sé il tedesco Alberto Ma­ gno: l'uno e l'altro fra i principali riferimenti filosofici per l 'Alighieri. La presentazione di Tommaso trascorre rapidamente dall'uno all'altro di questi grandi spiriti: il giurista umbro Francesco Graziano, fondato­ re del diritto canonico ; il novarese Pietro Lombardo, autore di quattro

    Dante e Beatrice nel cielo del Sole tra gli spiriti sapienti: qui, in abito domenicano.

    2 49

    !L v

    1AulilU lJ l DANTE

    libri di Sentenze; Salomone, figlio di Davide e re d' Israele, ritenuto au­ tore di almeno quattro libri dell'Antico Testamento, fra cui il Cantico dei cantici; il greco Dionigi l'Areopagita, cui fu attribuito il De coele­ sti hierarchia, trattato sulle Intelligenze angeliche; lo storico spagno­ lo Paolo Orosio; Severino Boezio, morto nelle carceri di Teodorico e sepolto a Pavia nella basilica di San Pietro in Ciel d'oro, definito (sulla scorta del tema conduttore nel De consolazionephilosophiae, l'inganno delle cose terrene): l'anima santa che 'l mondo fallace fa manifesto a chi di lei ben ode.

    Vita e morte di lui sintetizzate in poche battute: Lo corpo ond'ella fu cacciata giace giuso in Cieldauro; ed essa da martiro e da essilio venne a questa pace.

    Seguono nella ghirlanda due grandi eruditi, Isidoro di Siviglia e Beda il Venerabile, benedettino sassone; viene poi un grande mistico, l'a­ gostiniano Riccardo da San Vittore; chiude la serie il più illustre rap­ presentante dell'averroismo latino, Sigieri di Brabante, professore all' Università di Parigi, in terra fieramente avversato da Tommaso per le sue posizioni eterodosse (la teoria della "doppia verità", di fede e di ragione). Si chiude il discorso dell'Aquinate, mentre la corona di spiriti ruota su sé stessa come un meccanismo d'orologio sincronizzato col tempo divino: che l'una parte e l'altra tira e urge, tin tin sonando con sì dolce nota che 'l ben disposto spirto d'amor turge; così vid'lo la gloriosa rota muoversi e render voce a voce in tempra e in dolcezza.

    Canto XI

    La voce di Dante-autore si leva alta e commossa a stigmatizzare il com­ portamento dissennato degli uomini, tutti in vario modo rivolti alle ambizioni e alle seduzioni terrene, mentre lui, da tutte queste cose sciolto, con Beatrice m'era suso in cielo cotanto gloriosamente accolto.

    È ancora san Tommaso che parla, il quale ha intuito come nella mente

    di Dante si siano formati due dubbi, circa la decadenza dell'Ordine domenicano e circa il maggior sapiente al mondo, conseguenti a due snodi del suo discorso. L'Aquinate la prende qui alla lontana, rievocan­ do la congiuntura storica dell' intervento di Dio a favore della Chiesa, la quale rischiava di smarrire la strada dell 'insegnamento evangelico: due principi ordinò in suo favore, che quinci e quindi le fosser per guida. L'un fu tutto serafico in ardore; l'altro per sapienza in terra fue di cherubica luce uno splendore.

    Lui, domenicano, pronuncerà qui l'elogio di san Francesco d'Assisi, ardente di carità come un Serafino, riservando a un francescano il pa­ rallelo elogio di san Domenico, splendente di saggezza come un Che­ rubino. In questa rievocazione, Tommaso muove dalla descrizione del luogo di nascita di Francesco, nel cuore dell' Umbria, definibile come un nuovo Oriente, in quanto il santo è paragonato a un sole, che fin dal suo sorgere ha irradiato il mondo col suo benefico influsso:

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    U l UANTE

    Dante e Beatrice con san Tommaso, ancora nel quarto cielo fra i sapienti. Non era ancor molto lontan da l'orto, ch'el cominciò a far sentir la terra de la sua gran virtute alcun conforto; ché per tal donna, giovinetto, in guerra del padre corse a cui, come a la morte, la porta del piacer nessun disserra.

    Si allude qui al contrasto col padre, il mercante Pietro Bernardone, che lo voleva come suo erede, e alla scelta della Povertà, vista come una donna a cui nessun uomo fa lieta accoglienza e che invece Fran­ cesco decide di sposare, imitando l'esempio di Gesù, nato e morto nella povertà : > . Ed ecco i primi frutti dell'esempio di Francesco, i suoi primi segua­ ci, Bernardo, Egidio, Silvestro; poi la decisione di sottoporre al papa, per un primo avallo, la severa regola dell' Ordine che si andava forman­ do, senza vergognarsi del proprio aspetto quasi spregevole per incuria

    PARADISO

    fisica e miseria di abito, ma con la dignità che gli veniva dal suo santo e disinteressato coraggio: ma regalmente sua dura intenzione ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe primo sigillo a sua religione.

    Un'approvazione solo verbale, poi confermata ufficialmente dalla bolla di papa Onorio III (12.2.3 ), costitutiva dell'Ordine francescano. Mentre di giorno in giorno aumentavano i proseliti, «la gente pove­ rella » , il fondatore affrontò un viaggio di evangelizzazione in Orien­ te, tentando invano di convertire il sultano d' Egitto Malek-al-Kamil; rientrato in Italia, ricevette con lo stimmate, alla Verna, la più solenne approvazione divina per il suo santo operato: nel crudo sasso in tra Tevero e Arno da Cristo prese l'ultimo sigillo, che le sue membra due anni portarno.

    Due anni dopo infatti, nel 1 2.2.6, dal seno della Povertà egli tornava nel seno del Padre, e il suo letto di morte fu la nuda terra: e del suo grembo l'anima preclara mover si volle, tornando al suo regno, e al suo corpo non volle altra bara.

    Terminato l'elogio di san Francesco, Tommaso volge la sua attenzione a san Domenico e all'Ordine da lui fondato, dolendosi per la decaden­ za dello stesso rispetto alle origini gloriose: su questa diagnosi amara si spegne così la sua voce.

    2.53

    Canto XII

    La corona dei dodici beati guidata da Tommaso non fa in tempo a girare su sé stessa che una seconda corona la serrò al suo interno accordandosi alla prima nel canto e nel movimento. L'impressione è quella di un dop­ pio arcobaleno, che, pur lontano dali'analogo fenomeno rilevabile in ter­ ra, può richiamare nel suo meccanismo il fenomeno acustico dell'eco e nella sua origine il racconto biblico riferito al Diluvio universale. Ma qui ben diversi sono il tripudio e lajesta, fra sincronia di canto e corrispon­ denze luminose, che a un certo punto s'arrestano per dare modo di espri­ mersi a una voce singola che si alza da una luce della seconda ghirlanda. Chi parla è Bonaventura da Bagnoregio (12.21-1274), grande mistico oltre che principale biografo di san Francesco, anche se qui si presen­ terà solo alla fìne del suo lungo discorso. Egli parte, analogamente a Tommaso, dai «due campioni» che Dio mandò in soccorso di una Chiesa in crisi profonda, appunto i fondatori dei due Ordini mendi­ canti. Egli ricambia il favore ricevuto dall'Aquinate, domenicano e lo­ datore di Francesco, costruendo, lui francescano, un parallelo elogio di Domenico. Anche qui abbiamo dunque una descrizione del luogo di nascita del santo, Calaruega nella Vecchia Castiglia, sulla costa occi­ dentale della Spagna che s'affaccia sull'Atlantico: quella parte ove surge ad aprire Zefìro dolce le novelle fronde di che si vede Europa rivestire, In

    non molto l ungi al percuoter de l'onde.

    Domenico è definito «l'amoroso drudo l de la fede cristiana, il santo atleta l benigno a' suoi e a' nemici crudo», l' innamorato della fede im­ placabile contro gli eretici: non a caso si narrava che la madre, incinta 2 54

    PARAlHSU

    Sempre nel cielo del Sole, la ghirlanda di san Domenico.

    di lui, sognasse di partorire un cane bianco e nero ( il colore dell' abi­ to domenicano), che con una fiaccola in bocca incendiava il mondo intero. Un' ispirazione celeste suggerì di chiamarlo col possessivo di Dominus, quasi, "proprietà del Signore". Così, fin dalla più tenera età, apparve chiara la sua vocazione a un'eroica umiltà, nel solco della pri­ ma fra le beatitudini evangeliche ("Beati i poveri di spirito perché di loro è il regno dei cieli"): Spesse fiate fu tacito e desto trovato in terra da la sua nutrice, come dicesse: "Io son venuto a questo,.

    In realtà in breve tempo, per amore della sapienza divina, 1 \ �itt o t m .cr. �\\1\\.ll\0 6\ �o tm tO iU'lt1.." h m�.:'\ t\ tel1g,arrt' \ ·t(� r n\

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