Il turco, l'assedio di Vienna, la poesia italiana (1683-1720) 9788878706286

Il 12 settembre 1683, il re di Polonia Giovanni III Sobieski poneva fine, nel Nome di Maria, all'assedio turco di V

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Il turco, l'assedio di Vienna, la poesia italiana (1683-1720)
 9788878706286

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Studi (e testi) italiani Collana del Dipartimento di Studi Greco-Latini, Italiani, Scenico-Musicali Sapienza Università di Roma

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SALVATORE CANNETO

Il turco, l’assedio di Vienna, la poesia italiana (1683-1720)

Bulzoni Editore

In copertina: Francesco Maria Mitelli, Dirindina fà fallò (part.), incisione su foglio volante, 1686.

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-628-6 © 2012 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail:[email protected]

INDICE

Premessa .......................................................................................

Pag.

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I. TRA LA TÜRCHENFURCHT E LE TURQUERIES..................................

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15

1. Dalla Türchenfurcht alle Turqueries........................................

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15

2. Alle origini dell’«islamologia»: il Corano di Ludovico Marracci .........................................................................................

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22

3. Alle origini della «turcologia»: la Letteratura de’ Turchi di Giambattista Donà ...................................................................

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28

4. «Inopportuno assumere un atteggiamento di rifiuto»..............

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32

II. GLI ASPETTI FORMALI DELLA CELEBRAZIONE .................................

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39

1. Da Lepanto a Vienna ...............................................................

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39

2. Tra fogli volanti e architetture antologiche: i luoghi della partecipazione..........................................................................

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43

3. «Se non l’opera dell’ingegno, almeno la bontà del cuore»: i modi della celebrazione...........................................................

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49

4. Tra proclami e smentite: su alcuni exempla antologici ...........

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54

5. Le «lingue» della partecipazione.............................................

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72

6. Generi, metri, sperimentazioni: appunti ..................................

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81

III. LA RAPPRESENTAZIONE DELLO SCONTRO ......................................

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91

1. L’elemento ternario, tra tema e struttura .................................

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91

2. Il «Sole» e la «Luna», l’«oscurità» e la «luce» .......................

»

100

5

Indice

3. Alcune linee tematiche: la descrizione dello scontro ..............

Pag.

115

4. «Et fiet unum Ovile et unus Pastor»........................................

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142

5. «O Vittoria maggior d’ogni Vittoria!».....................................

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165

IV. LA RAPPRESENTAZIONE DEI PROTAGONISTI ....................................

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173

1. Diplomazia, prodigalità, zelo: il ritratto di Innocenzo XI Odescalchi ...............................................................................

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173

2. Per una “cosmesi” letteraria: Leopoldo I Asburgo e la gloria de loinh ....................................................................................

»

183

3. Tra «San Giovanni» e «Giulio Cesare»: Giovanni III Sobieski ..

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192

4. L’«arte della guerra» del «novello Buglione»: il duca Carlo V di Lorena..............................................................................

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204

5. Uno «scoglio» nel mare in tempesta: Ernest von Starembergh....

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210

6. Lo Stendardo del Profeta .........................................................

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215

V. «L’A DDOTTORAMENTO DELL’A SINO ». P ER UN PERCORSO “TURCO” NELL’OPERA DI GIROLAMO GIGLI .................................

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221

1. La lingua del Turco .................................................................

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221

2. Gli Intermezzi in derisione della setta maomettana di Gigli e Gasparini .................................................................................

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230

3. L’«Addottoramento dell’Asino» ..............................................

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236

4. La Brandaneide (e dintorni crociati) .......................................

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244

5. Tra Giuseppe e Baldovino: altri testi “turchi” nell’opera di Gigli.........................................................................................

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252

Illustrazioni...................................................................................

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261

Indice dei nomi..............................................................................

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289

6

Premessa

Fiacca è la man che scrive, forte è lo spirito, che la istiga, e muove. Vincenzo da Filicaia

Luoghi della memoria, tra suggestioni e propaganda Vienna, 14 luglio 1683. Dagli spalti delle mura che proteggono il centro abitato, i cittadini della capitale asburgica osservano, costernati e impotenti, il viavai indaffarato della moltitudine di operai intenti ad allestire uno strano accampamento simile a una tendopoli e a scavare un complesso reticolato di trincee e gallerie. I loro tratti somatici (la carnagione scura, i capelli corvini), i particolari del loro abbigliamento (i turbanti, i folti baffi), la loro lingua (gutturale e biascicata) incutono, negli attoniti osservatori, un timore freddo, inconfessabile. Qualcuno, forse, mormora sommessamente, levando gli occhi al cielo, parole di cui altri non afferrano il significato: Bisanzio 1453, Otranto 1480, Famagosta 1571... Poco lontano, a distanza di sicurezza, alcuni soldati turchi di pattuglia vigilano affinché il compito assegnato ai compagni e agli inservienti venga ultimato, secondo gli ordini, in fretta e con cura. Sono allegri e fiduciosi: alle loro spalle un’imponente armata, composta da molte decine di migliaia di uomini, sta completando l’accerchiamento della città, e si prepara a espugnare una rocca di vitale importanza strategica e ricchissima ma, all’apparenza, diruta, scarsamente difesa, paralizzata. Così, tra incredulità e terrore da una parte, determinazione e fierezza dall’altra, prendeva le mosse uno degli assedi più celebri, discussi e carichi di conseguenze dell’età moderna. Qualche anno dopo, rievocando quelle vicende nei suoi Annali d’Italia, Ludovico Antonio Muratori osserverà che «se mai ci fu anno, che tenesse la cristianità in agitazione, i corrieri in moto, e l’universale curiosità in continuo allarme, certamente fu questo»: si trattò infatti, di «un memorabile assedio, per cui tutta anche l’Italia restò sbigottita, né d’altro parlava che di un sì formidabile avve-

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Premessa

nimento»1. Basterebbero forse queste poche parole, riferite da una delle personalità intellettuali più consistenti e consapevoli dell’epoca, a destare oggi la curiosità dello storico della letteratura. Parrebbe inoltre ridondante osservare, in sede liminare, quanto l’attuale situazione storica – dopo la recrudescenza, nell’ultimo decennio, dell’odio reciproco tra Mediorientali e Occidentali, tra Cristiani e Musulmani – abbia potuto influire sulla decisione di affrontare un tema, spinoso e coinvolgente allo stesso tempo, qual è quello della risonanza delle guerre contro il Turco nella cultura e nella tradizione letteraria italiana tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo. Con il termine generico (e assoluto) di «Turco» si intendeva, allora, colui «che è della setta maomettana», come certifica l’impressione del Vocabolario della Crusca del 1691 e come ha giustamente ricordato Giovanni Ricci in un recente saggio dal titolo, emblematico quanto affascinante, Ossessione turca 2. La sensazione diffusa, al giorno d’oggi, è che siamo – per usare le parole di Franco Cardini – in «un tempo storicamente parlando molto interessante»3. Un tempo in cui al cruscante «Turco» è stato sostituito, nel migliore dei casi, il globalizzante «arabo». Un tempo in cui, ancora una volta, la paura, il disgusto di soffrire o perire per mano di qualcuno che “pretende” di imporre, più che una fede religiosa (o meglio, oltre a essa), qualcosa di più terribile e raccapricciante agli occhi di una normale persona di cultura “laica”, “razionale” e “occidentale” – id est uno stile di vita e un complesso di norme etico-morali giudicate, da un punto di vista “civile”, ben al di sotto del livello minimo umanamente consentito – rischia di far divampare un incendio pericoloso, sprigionato da scintille della Storia che sembravano – e credevamo – ormai sopite e definitivamente esorcizzate4. L’incontro / scontro tra Islam ed Europa, si sa, ha radici profonde: un incontro che ha attraversato / sta attraversando la Storia, con alterne vicende, da quasi un millennio e mezzo; uno scontro che si è concretizzato, nella memoria collettiva di noi “occidentali”, in un pugno di eventi, veri e propri luoghi della memoria, la cui sola menzione è in grado di suscitare, in chi ascolta, brividi di terrore

1 Cito da Annali d’Italia dal principio dell’era volgare fino al 1750. Compilati da Lodovico Antonio Muratori e continuati sino all’anno 1827. Tomo vigesimosettimo. Firenze, presso Leonardo Marchini, MDCCCXXVII, pp. 218 e 220. 2 G. RICCI, Ossessione turca. In una retrovia cristiana dell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 8. 3 La paura e l’arroganza, a cura di F. Cardini, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. VII. 4 Vastissima è la bibliografia relativa a simili problematiche; cito solo due testi, indicativi di due modalità opposte di approccio al tema: S. P. HUNTINGTON, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, New York, Simon&Schuster, 1996 (trad. it.: Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine globale, Milano, Garzanti, 2000); P. BARNARD, Perché ci odiano, Milano, Rizzoli, 2006.

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Premessa

e insieme di meraviglia, di incredulità e di speranza, di raccapriccio e di rabbia. Si pensi a una delle immagini più diffuse e cariche di significato di questi ultimi anni: il crollo – tra le fiamme, il fumo, la disperazione delle vittime terrorizzate e degli osservatori impotenti – delle «torri gemelle» del World Trade Center a New York, in una assolata mattina di settembre. La scia di tensioni politiche, internazionali e intestine, e di odi, “civili” e “civilizzatori”, apertasi immediatamente dopo quell’evento ne ha ulteriormente rafforzato la rappresentatività, e ha contribuito a delineare in essa la metafora ispiratrice più recente di uno scontro perpetuo tra Oriente islamico e Occidente cristiano. Quando pronunciano o ascoltano pronunciare le parole «undici settembre», molti di noi sono oggi costretti a richiamare alla mente, ma ancor di più al cuore, l’idea di un attacco frontale ai “valori” della nostra civiltà, della nostra cultura, della nostra religione. Un attacco improvviso, effettuato da un nemico infido, potente, incomprensibilmente “ferino” (poiché giudicato incapace di apprezzare l’altissimo livello di diffuso “benessere” cui la nostra benigna civilità ci ha condotti). Un attacco al quale i nostri custodes hanno tuttavia saputo e voluto reagire prontamente e con energica determinazione, sempre e dovunque, in assoluta devozione alla massima imperiale virgiliana: «regere imperio populos», «pacique imponere morem», «parcere subiectis» e, soprattutto, «debellare superbos» (Aen., VI, 851-53). Che poi il “nemico” “arabo” “terrorista” non si nascondesse tra le masse degli inermi contadini afghani già provati da decenni di guerre e sofferenze, o in seno all’enigmatica corte di uno dei regimi apparentemente più “laici” dell’area mediorentale (come quello iracheno) è questione che esula da tale “strategia della menzione” e rientra nei misterici e nebulosi confini dell’alta politica... Anche nei secoli passati esisteva una funzione del tutto simile: di catalizzare, cioè, i sentimenti più impulsivi e “viscerali” del popolo, per poi “dirigerne” la coscienza identitaria e politica. Ma era demandata ad altri episodi, non meno toccanti e altrettanto significativi. Altri «undici settembre». Pochi giorni dopo l’infelice discorso di papa Benedetto XVI all’Università di Ratisbona – un discorso ben presto tramutatosi nell’ennesima occasione di scontro tra le comunità cattoliche e musulmane in un periodo di equilibri già fin troppo precari5 – Renzo Martinelli pubblicava sulle pagine del quotidiano «il Curiosamente, il discorso del papa, dal titolo Fede, ragione e università, veniva pronunciato il 12 settembre 2006 a Ratisbona: in una data (anniversario della sconfitta turca nell’assedio di Vienna) e in un luogo (il punto più avanzato raggiunto dalle truppe ottomane nel cuore dell’Europa), cioè, che avrebbero potuto istituire un rimando provocatorio alle vicende del conflitto del 1683. Né si tratta dell’unica “coincidenza” di questo tipo. Il presidente americano George W. Bush annunciava al mondo l’inizio della campagna militare in Afghanistan, primo passo della guerra al terrorismo islamico globale (eufemismo attualizzante per “crociata”?), il 7 ottobre 2001 (anniversario della vittoria dei cristiani coalizzati a Lepanto); inoltre 5

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Premessa

Giornale» un articolo dal titolo, assai eloquente, L’undici settembre in cui cadde l’Islam, in cui il tema, attualissimo e sempre più urgente, dell’integrazione politica, culturale e confessionale dei cosiddetti “extracomunitari” veniva sacrificato sull’altare della rappresentazione di un conflitto, quello tra cristiani e musulmani, innegabile quanto irrimediabilmente insanabile. C’è un «undici settembre» da recuperare alla memoria collettiva, suggeriva Martinelli, e non è quello newyorkese del 2001, bensì quello del 1683, la vigilia della gloriosa giornata viennese, «un undici settembre che questa Europa stanca e rassegnata ha completamente rimosso». Dal confronto con la cultura islamica («enormemente più forte di noi», «con valori profondi e condivisi», «che crede fortemente in se stessa e in ciò che fa») si impone la necessità “civile” di denunciare il pericolo “barbarico” che preme ai confini del mondo occidentale, con il rischio di annientarlo («Se questa Europa [...] non rivendica con forza i valori fondanti della nostra civiltà, verrà lentamente ma inesorabilmente fagocitata»). L’unica via di fuga è rappresentata dal ritorno immediato e intransigente alla purezza dei «valori fondanti» cristiani («sui quali occorre mantenere una intransigenza assoluta»), gli unici a possedere i necessari “requisiti di cittadinanza” culturale ed etica nel mondo contemporaneo («Se un’altra cultura penetra nel nostro territorio e pretende diritto di cittadinanza si deve adeguare a questi valori e li deve rispettare. Altrimenti non può e non deve avere cittadinanza»). L’altro «undici settembre» evocato da Martinelli vuole dunque rappresentare, nell’immaginazione del lettore, una candida aspirazione e allo stesso tempo un severo monito, una confortevole speranza e un terribile memento: «L’Islam ha ripreso la sua marcia verso Occidente. Non capire tutto questo significa non capire la Storia»6. Secondo una prospettiva ideologica non dissimile, benché aggravata da un più evidente e marcato “antagonismo” politico, Antonio Socci pubblicava sul quotidiano «Libero», a qualche mese di distanza, un articolo dal titolo Bertinotti e Santa Maria della Vittoria, in cui il commento della mera cronaca politica veniva modulato, ancora una volta, sul richiamo prosopopeico a un passato di scontro reso glorioso dal sangue e dal fervore religioso. Un’occasione piuttosto prosaica (la decisione dell’allora presidente della Camera Fausto Bertinotti di rimuovere dalla sala di Montecitorio in cui riceve le delegazioni una tela raffigurante la battaglia di Lepanto) basta tuttavia a suscitare l’indignazione e lo riprendeva, ribadendola in più occasioni, la medesima espressione che, secondo le fonti, Don Giovanni d’Austria avrebbe utilizzato alla vigilia dello scontro navale per animare gli alleati più prudenti all’azione: andare a «stanare» i nemici («confidando nel nostro Signore Iddio a cui la causa appartiene e che ci soccorrerà, è stato deciso: andiamo a stanarli», cit. in J. BEECHING, The galleys at Lepanto, London, Hutchinson &Co., 1982; trad. it.: La battaglia di Lepanto, Milano, Bompiani, 20063, p. 227). 6 R. MARTINELLI, L’undici settembre in cui cadde l’Islam, «il Giornale», 26 settembre 2006.

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Premessa

zelo dell’autore, che non esita a ricordare quanto «quella vittoria cristiana» abbia contribuito al futuro “civile” dell’Italia: «Senza la battaglia di Lepanto e senza quella vittoria dei cristiani non ci sarebbe oggi nessuna democrazia in Italia (ma avremmo qualche sultano al potere). Senza quella vittoria cristiana non ci sarebbe neanche il Parlamento in Italia. Soprattutto – e questo dovrebbe far meditare Bertinotti – senza quella vittoria cristiana non ci sarebbe la sua poltrona di Presidente della Camera. Né la libertà di essere comunisti»7. Avremo modo di constatare, nel prosieguo di questo lavoro, quanto simili idee – sospese tra sincera fermezza e riutilizzo disinvolto, disinibito e strategico del dato storico – siano radicate nell’immaginario pubblico, da molto, troppo tempo. Qui, per completezza informativa, anticipo soltanto che dichiarazioni consimili si inseriscono in un contesto di delegittimazione sociale, culturale, confessionale e politica – in una parola: civile – sapientemente sfruttata in chiave patetica da molti degli autori che verranno richiamati nelle pagine seguenti8. L’immagine topica cui essi fanno riferimento, insomma, è quella della “tradizionale” striscia di devastazione e desolazione – fisico-geografica e insieme eticomorale – che il Turco (quasi un Attila redivivo) si lascerebbe alle spalle al momento del suo passaggio. «Il tema del Turco incolto e rozzo abitatore delle steppe», ha efficacemente suggerito Paolo Preto a questo proposito, «che distrugge ogni sembianza di civiltà dove passa con il suo cavallo è da tempo popolare nell’Occidente»9. Del resto, anche alcune recenti pubblicazioni dedicate a questo tema da autori dalla spiccata vena divulgativa come Arrigo Petacco e Lucio Lami non dimostrano una lettura della Storia affatto diversa o meno “coinvolta”. In riferimento alle più clamorose (e cruente) sconfitte subite, nel corso dei secoli, dall’esercito ottomano, nelle pagine di Petacco sembra infatti di riascoltare, come un cinico e sarcastico réfrain, il ghigno del Don Giovanni dapontiano che di fronte al cadavere del Commendatore mormora: «L’ha voluto, suo danno» (a. I, sc. 2, v. 55); mentre il volume di Lami – che costituisce in ordine di tempo l’ultima biografia sul principe Eugenio di Savoia, concentrata quasi esclusivamente sulle sue campagne antiturche – è eloquente fin dal titolo: La cacciata dei musulmani dall’Europa 10. Anche queste forme di sarcasmo più

A. SOCCI, Bertinotti e Santa Maria della Vittoria, «Libero», 13 aprile 2007. La delegittimazione storica e politica dell’impero turco costituiva uno dei tratti preminenti nella ricostruzione dell’identità degli Ottomani già negli scritti degli umanisti (Filelfo, Bessarione, Sagundino, Piccolomini). Su questi aspetti cfr. A. PERTUSI, I primi studi in Occidente sull’origine e la potenza dei turchi, in «Studi veneziani», XII (1970), pp. 465-552. 9 P. PRETO, Venezia e i Turchi, Firenze, Sansoni, 1975, p. 412. 10 Cfr. A. PETACCO, La croce e la mezzaluna. Lepanto 7 ottobre 1571: quando la Cristianità respinse l’Islam, Milano, Mondadori, 2005; ID., L’ultima crociata. Quando gli ottomani arrivarono alle porte dell’Europa, Milano, Mondadori, 2007; L. LAMI, La cacciata dei musulmani dall’Europa. Il principe Eugenio, il Papato e l’ultima crociata contro i turchi 7

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Premessa

o meno velato sono eredi dirette di una tradizione rappresentativa che aveva ottenuto ampia eco già negli scritti del tempo. Gli esempi citati, o meglio i luoghi della memoria menzionati negli articoli di Socci e Martinelli si riferiscono ai due episodi che nella cornice dello scontro tra Cristianità e Islam – e dopo la conquista di Gerusalemme del 1099, al termine della prima Crociata11 – hanno suscitato le emozioni più profonde e gli echi più strepitosi nel cuore e nelle penne dei contemporanei e dei posteri: l’insperato successo ottenuto nelle acque di Lepanto, il 7 ottobre 1571, dalla flotta cristiana al comando di Don Giovanni d’Austria sulla flotta turca comandata dal kapudan pashà Alì, e la clamorosa disfatta dell’esercito turco condotto dal gran vizir Kara Mustafà Köprülü fin sotto le mura di Vienna a opera dell’esercito congiunto austro-polacco guidato dal re Giovanni III Sobieski, il 12 settembre 1683 12. Entrambe le date e gli eventi a esse correlati sono entrati nell’immaginario collettivo cristiano-europeo soprattutto grazie a «significativi atti rituali» condotti sotto l’«impulso degli apparati di propaganda cattolici»13, in particolare attraverso il canale dell’istituzione di giorni di festa e di ringraziamento per il calendario religioso. Per decisione dei pontefici allora regnanti sul soglio di Pietro (Pio V Ghislieri nel 1571; Innocenzo XI Odescalchi nel 1683), le due date divennero infatti festività solenni e furono dedicate alla Vergine, alla cui intercessione gli uomini del tempo ascrissero quelle vittorie così decisive per la sopravvivenza e il destino del popolo di Cristo (alla Madonna della Vittoria il 7 ottobre, poi mutata da Gregorio XIII in Madonna del Rosario; al Santissimo Nome di Maria il 12 settembre)14.

(1683-1718), Milano, Mursia, 2008. Sull’uso strumentale del ricordo di Lepanto cfr. A. STOURAITI, Costruendo un luogo della memoria: Lepanto, in «Storia di Venezia», I (2003), pp. 65-88. 11 Su cui cfr. il recente C. KOSTICK, The siege of Jerusalem. Crusade and Conquest in 1099, New York, Continuum Books, 2009 (trad. it.: L’assedio di Gerusalemme, Bologna, Il Mulino, 2010). 12 Per una ricostruzione generale delle vicende che prepararono e seguirono i due eventi, cfr. BEECHING, La battaglia di Lepanto, cit.; R. CANOSA, Lepanto. Storia della “lega santa” contro i Turchi, Roma, Sapere 2000 Edizioni Multimediali, 2000; A. BARBERO, Lepanto. La battaglia dei tre imperi, Roma-Bari, Laterza, 2010; E. EICKHOFF, Venedig, Wien und die Osmanen. Umbruch in Südosteuropa. 1645-1700, Stuttgart, Ernst Klett Verlage GmbH u. Co., 1988 (trad. it.: Venezia, Vienna e i Turchi. Bufera nel Sud-est europeo. 1645-1700, Milano, Rusconi, l991); J. STOYE, The siege of Vienna, Edinburgh, Birlinn, 20062 (trad. it.: L’assedio di Vienna, Bologna, Il Mulino, 2009); A. WHEATCROFT, The Enemy at the Gate. Habsburgs, Ottomans and the Battle for Europe, London, The Bodley Head, 2008 (trad. it.: Il nemico alle porte. Quando Vienna fermò l’avanzata ottomana, Roma-Bari, Laterza, 2010). Recentissimo è, infine, F. CARDINI, Il turco a Vienna. Storia del grande assedio del 1683, Roma-Bari, Laterza, 2011. 13 G. RICCI, I Turchi alle porte, Bologna, Il Mulino, 2008, pp. 81-82. 14 Cfr. M. CAFFIERO, La “profezia di Lepanto”. Storia e uso politico della santità di Pio V, in I Turchi, il Mediterraneo e l’Europa, a cura di G. Motta, Milano, Franco Angeli, 1998,

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Premessa

***** Nel licenziare queste pagine, vorrei ringraziare quanti mi hanno sostenuto – con la loro presenza o con i loro pensieri, talvolta anche a loro insaputa – in quel difficile percorso che la stesura di un saggio, quidquid hoc libelli, / qualecumque, inevitabilmente comporta: la mia compagna Zenda Martinelli; gli amici Valerio Camarotto e Alviera Bussotti, Tommaso Testaverde, Giorgia Proietti Pannunzi, Vincenzo Zampaglione, Flavio Silvestrini, Alessandra Mirra, Manuela Sammarco, Valentina Varano. Un commosso grazie anche alla professoressa Novella Bellucci, sempre prodiga di preziosa umanità e di generosità civile. L’idea originaria mi era stata offerta, qualche anno fa, dalla lettura di alcuni lavori su Eugenio di Savoia della professoressa Beatrice Alfonzetti, che ha poi seguito la mia ricerca accademica con rigorosa pazienza e con prudente consiglio: ora che il libro è concluso, sono onorato di poterlo dedicare al suo generoso, illuminante e impagabile magistero. Roma, 22/11/2011

pp. 103-121: 105-106. Dall’analisi delle esigenze ideologico-politiche che guidarono la celebrazione di Lepanto a Venezia, Cecilia Gibellini ha rilevato che il culto della Madonna del Rosario, promosso da Roma, venne sostituito con quello di Santa Giustina, la quale doveva assolvere la funzione «di rivendicare la “venezianità” dell’impresa di Lepanto anche sul piano celeste» (C. GIBELLINI, L’immagine di Lepanto. La celebrazione della vittoria nella letteratura e nell’arte veneziana, Venezia, Marsilio, 2008, pp. 145-169).

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I Tra la Türchenfurcht e le Turqueries

E pure, lo studio e conoscenza di questi tempi bassi dovrebbe essere a noi la più utile, anzi necessaria, poiché ha maggiore rapporto a’ nostri ultimi tempi ed alla presente costituzione d’Europa ed a’ nuovi domìni in essa stabiliti. Pietro Giannone

1. Dalla Türchenfurcht alle Turqueries La letteratura celebrativa “esplosa” all’indomani della vittoria di Lepanto sembra aver goduto, nel corso del tempo, di un interesse critico costante e variegato. Dopo i lavori di matrice storicista ed erudita, tardoottocenteschi e primonovecenteschi, volti sostanzialmente a rintracciare i testi, più o meno noti, conservati nelle varie biblioteche della penisola1, negli ultimi decenni – e in particolare a partire dagli anni intorno al centenario del 1971 – la storiografia letteraria si è concentrata su tale produzione nel tentativo di metterne in luce e coniugarne i diversi aspetti storici, tematici e più ampiamente culturali: un insieme di studi, insomma, complesso, problematico e stratificato, per il quale il saggio esemplare di Carlo Dionisotti, Le guerre d’Oriente nella letteratura veneziana del Cinquecento, ha rappresentato un punto di partenza obbligato, oltre che un modello d’indagine2. 1 Tra i più noti: F. MANGO, I cantori di Lepanto, in ID., Note letterarie, Palermo, Tip. Lo Statuto, 1894; I D ., Una miscellanea sconosciuta del secolo XVI. Note bibliografiche, Palermo, Giannipatrani, 1894; G. MAZZONI, La battaglia di Lepanto e la poesia politica, in La vita italiana nel Seicento. Conferenze tenute a Firenze nel 1894, vol. II, Milano, Treves, 1895; P. MOLMENTI, La battaglia di Lepanto nell’arte, nella poesia, nella storia, in «Rivista marittima», XXXI (1898), fasc. II, pp. 221-236; G. A. QUARTI, La battaglia di Lepanto nei canti popolari dell’epoca, Milano, Istituto Ed. Avio-Navale, 1930. 2 C. DIONISOTTI, La guerra d’Oriente nella letteratura veneziana del Cinquecento, in «Lettere italiane», XVI (1964), pp. 233-250, poi in ID., Geografia e storia della letteratura

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Salvatore Canneto

La battaglia di Vienna del 1683 e le guerre cosiddette “di liberazione” che con quell’episodio ebbero inizio – la liberazione dell’Ungheria per gli Imperiali; della Morea per i Veneziani; della Podolia per i Polacchi; di Bisanzio e del Santo Sepolcro per tutti i Cristiani – non hanno invece goduto, almeno nella nostra storiografia critica letteraria, la medesima fortuna dell’omologo evento lepantino. Basti pensare, per fare solo qualche esempio, che i testi poetici italiani pubblicati in onore di Giovanni III Sobieski, il coraggioso e irruente trionfatore di Vienna, sono stati individuati e descritti in alcuni lavori eruditi di Bronislaw Biliński, uno studioso polacco3; mentre lo studioso ungherese Peter Sárközy ha dedicato all’argomento Turchi in Arcadia alcuni saggi descrittivi che differiscono, più che nella sostanza, nella titolatura4. Altri interessanti ma spesso troppo circoscritti spunti di ricerca, infine, a metà strada tra storia e letteratura, sono stati esaminati in diversi contributi, raccolti in miscellanee varie e atti di convegni, che negli ultimi anni hanno tentato di fare un po’ di chiarezza nel mare magnum delle pubblicazioni dell’epoca5. I rapporti tra la cultura italiana e

italiana, Torino, Einaudi, 1967, pp. 163-182; ID., Lepanto nella cultura italiana del tempo, in Il Mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce di Lepanto. Atti del Convegno promosso e organizzato dalla Fondazione Giorgio Cini (Venezia, 8-10 ottobre 1971), a cura di G. Benzoni, Firenze, Olschki, 1974, pp. 127-151. Vedi poi M. TURCHI, Riflessi letterari in Italia della battaglia di Lepanto nel quarto centenario della battaglia di Lepanto, in «Nuovi Quaderni del Meridione», IX (1971), 36, pp. 385-434; M. LEFÈVRE, Immaginario e ideologia apocalittica nelle rime per la battaglia di Lepanto. Poeti italiani e spagnoli, in Apocalissi e letteratura, a cura di I. De Michelis, Roma, Bulzoni, 2005, pp. 97-123; S. MAMMANA, Lèpanto: rime per la vittoria sul turco. Regesto (1571-1573) e studio critico, Roma, Bulzoni, 2007; GIBELLINI, L’immagine di Lepanto, cit. Cfr. infine l’amplissima e assai dettagliata catalogazione di C. GÖLLNER, Turcica. Die Europaïschen Türkendrucke des XVI Jahrunderts, 3 voll., Bucaresti – Baden Baden, Heitz, 1968-1978. 3 B. BILIŃSKI, Giovanni III Sobieski tra Campidoglio, Vaticano e plebe romana, in «Strenna dei Romanisti», XLV (1984), pp. 47-69; ID., Sobiesciana Romana (Monumenti e Ricordi letterari), in Giovanni Sobieski e il terzo centenario della riscossa di Vienna: una crociata o una svolta poltica? Atti del Convegno (Udine, 17-18 settembre 1983), a cura di R. C. Lewanski, num. mon. di «Est Europa», 2 (1986), pp. 131-166; ID., Sebastiano Baldini Segretario della Sapienza Romana cantore dei vincitori di Vienna (1683), in «Strenna dei Romanisti», XLVIII (1987), pp. 65-82; ID., Le glorie di Giovanni III Sobieski vincitore di Vienna 1683 nella poesia italiana, Wroclaw-Warzawa-Krakow, Zaklad Narodowy Imienia Ossolinskich Wydawnictwo Polskiej Akademii Nauk, 1990. 4 P. SÁRKÖZY, L’eco letteraria italiana delle guerre contro i Turchi in Ungheria, in I Turchi, il Mediterraneo e l’Europa, cit., pp. 355-366; ID., Turchi in Arcadia, in L’Europa centro-orientale e il pericolo turco. Atti del Convegno Internazionale (Viterbo, 23-25 novembre 1998), a cura di G. Platania, Viterbo, Sette Città, 2000. pp. 361-372. 5 In un lungo articolo pubblicato una decina d’anni fa, Michele Sforza proponeva un’ampia panoramica storico-letteraria della letteratura antiturca dei secc. XVI e XVII (cfr. M. SFORZA, La paura del Turco e lo spirito di crociata nei secoli XVI-XVII tra storia, cronaca,

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quella ungherese – e l’Ungheria, come il Mediterraneo, ha rappresentato per lungo tempo il teatro dello scontro tra i due Imperi, ottomano e asburgico – sono stati ampiamente indagati, per quanto concerne i secc. XV-XVIII, negli anni Settanta, nel quadro delle ricerche promosse dalla Fondazione “Giorgio Cini” di Venezia6. Focalizzando l’attenzione sul medesimo contesto crono-geografico – l’Europa centro-orientale dell’età moderna – altri studiosi hanno approfondito, a partire soprattutto dagli anni del terzo centenario della battaglia di Vienna (1983), la situazione polacco-lituana in generale e, in particolare, si sono soffermati sulla figura e sul regno di Giovanni III Sobieski7. Agli echi veneziani delle guerre antiturche nella Morea della fine del Seicento, infine, è stato dedicato nel maggio 2001 un interessante Seminario, organizzato dal Dipartimento di Studi Storici dell’Università “Ca’ Foscari” di Venezia e dalla Fondazione Querini Stampalia, evento al quale vanno ricondotte alcune recenti pubblicazioni, come il catalogo della mostra allestita nei giorni del seminario (Immagini dal mito), l’antologia di testi che la integrava (Memorie di un ritorno) e in ultimo, a distanza di qualche anno, gli atti (Venezia e la guerra di Morea)8.

leggenda e poesia, in «Nicolaus. Studi storici», XIII (2002), 2, pp. 5-158): nella prima parte (pp. 5-80) rievocava le vicende storiche, mentre nella seconda parte (pp. 81-158) proponeva un’agile e succinta antologia di testi poetici – a partire dalle ottave proemiali della Gerusalemme liberata di Tasso (in particolare I, 5) – che su quelle vicende erano incentrati. Per quanto concerne l’assedio del 1683, lo studioso proponeva però soltanto le canzoni “viennesi” di Vincenzo da Filicaia, alcuni brani del primo canto del Meo Patacca di Giuseppe Berneri e qualche ottava tratta dal poema Vienna liberata di Antonio Costantini. 6 Venezia e Ungheria nel contesto del Barocco europeo. Atti del Convegno di Studi (Venezia, 11-14 giugno 1970), a cura di V. Branca, Firenze, Olschki, 1979; Venezia, Italia, Ungheria fra Arcadia e illuminismo: rapporti italo-ungheresi dalla presa di Buda alla rivoluzione francese. Atti del IV Convegno di Studi Italo-Ungheresi (Budapest, 23-26 ottobre 1979), a cura di B. Köpeczi e P. Sárközy, Budapest, Akadémiai Kiadó, 1982; I Turchi, il Mediterraneo e l’Europa, cit. 7 Giovanni Sobieski e il terzo centenario della riscossa di Vienna, cit.; L’Europa centroorientale e il pericolo turco tra Sei e Settecento. Atti del Convegno Internazionale (Viterbo, 23-25 novembre 1998), a cura di G. Platania, Viterbo, Sette Città, 2000; L’Europa di Giovanni Sobieski: cultura, politica, mercatura e società. Atti del VI Colloquio internazionale (Viterbo, 24-26 giugno 2004), a cura di G. Platania, Viterbo, Sette Città, 2005. Di Gaetano Platania cfr. inoltre: Gli ultimi Sobieski e Roma. Fasti e miserie di una famiglia reale polacca tra Sei e Settecento (1699-1715): studi e documenti, Roma, Vecchiarelli, 1990; Venimus, vidimus et Deus vicit. Dai Sobieski ai Wettin: la diplomazia pontificia nella Polonia di fine Seicento, Cosenza, Periferia, 1992. 8 L. MARASSO – A. STOURAITI, Immagini dal mito. La conquista veneziana della Morea (1684-1699), Venezia, Fondazione Scientifica Querini Stampalia, 2001; A. STOURAITI, Memorie di un ritorno. La guerra di Morea (1684-1699) nei manoscritti della Querini Stampalia, Venezia, Fondazione Scientifica Querini Stampalia, 2001; Venezia e la guerra di

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Alla base di queste ultime ricerche vi è la forte «convinzione», per citare le parole di Giorgio Busetto e Mario Infelise, che, come non di rado succede nella Storia, «vi siano conflitti che si caricano di significati particolari e che non si caratterizzano solo per i risvolti politici e militari, ma finiscono con il segnare a fondo l’azione degli individui e la cultura di una stagione»9. È alla luce di questa «convinzione» che bisogna dunque leggere gli eventi (militari, politici, culturali) accaduti negli anni a cavaliere tra Sei e Settecento. Gli anni successivi alla vittoria di Vienna rappresentano una di quelle “faglie” storiche, religiose e culturali notevoli ma di cui non sembra essere stata evidenziata – e coniugata nei diversi settori disciplinari – a dovere l’immensa portata. Si tratta infatti di anni gravidi di conseguenze profonde dal punto di vista politico, con l’inizio del lento tracollo militare dell’Impero turco e la ritirata degli ottomani dai territori conquistati secoli prima; con la definitiva ascesa dell’Impero asburgico al rango di unica potenza continentale europea in grado di opporsi all’espansionismo francese; con il definitivo declino della Spagna cattolica e la conquista, da parte dell’Inghilterra (ormai saldamante in mano protestante dopo i fatti del 1688), del predominio oceanico commerciale e militare. Si tratta inoltre, da un punto di vista culturale, di anni di rottura sostanziale con la tradizione consolidata, benché di una rottura spesso celata, sotterranea e indistinguibile dalla continuità apparente. I rilievi di due storici, i quali si sono occupati della questione del rapporto tra Europa e Islam sulla scorta di prospettive d’indagine antitetiche, convergono sintomaticamente nell’individuare negli anni tra la fine di Seicento e gli inizi del Settecento i prodromi fondamentali di processi che, se da una parte troveranno una compiuta realizzazione solo molto tempo dopo, tuttavia non avrebbero probabilmente avuto modo di innescarsi e maturare se il contesto storico, politico, religioso ed economico fosse stato diverso. Da un punto di vista militare e diplomatico, Bernard Lewis ha osservato che quando il sultano Solimano il Magnifico raggiunse per la prima volta le mura di Vienna, nel 1529, la potenza ottomana era «sulla cresta di un’onda conquistatrice». Nonostante l’attacco fosse fallito sul piano bellico, la sconfitta non fu infatti definitiva né decisiva: la ritirata delle truppe attraverso l’Ungheria e la Serbia si svolse ordinatamente, e la disfatta non sortì conseguenze gravi sulla forza dell’impero. Il secondo assedio e la seconda ritirata, nel 1683, furono invece ben diversi. Sotto le mura di Vienna la disfatta apparve netta e inequivocabile; mentre il percorso di ritirata fu segnato da altre sconfitte sul campo, dalla perdita di diverse città e dalla ces-

Morea. Guerra, politica e cultura alla fine del ’600, a cura di M. Infelise e A. Stouraiti, Milano, Franco Angeli, 2005. Cfr. inoltre S. PERINI, Venezia e la guerra di Morea (16841699), in «Archivio Veneto», 153 (1999), pp. 45-91. 9 G. BUSETTO – M. INFELISE, Presentazione, in Venezia e la guerra di Morea, cit., p. 7.

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sione di alcune province, poi confermate e sancite anni dopo dal trattato di pace di Carlowitz del gennaio 1699. Quel trattato, insiste Lewis, «segnò una svolta cruciale» non soltanto nel quadro dei rapporti fra l’impero ottomano e quello asburgico, ma anche, su un piano più profondo, fra l’Europa cristiana e l’Islam. L’esito della guerra aveva dimostrato che le armate ottomane, fino a poco tempo prima considerate le meglio addestrate e le più valorose del mondo, venivano ormai superate dagli avversari europei «in fatto di armamenti, di scienza militare e persino di disciplina e perizia». Fu dopo la ritirata turca da Vienna e le sconfitte militari e politiche che la seguirono che entrambi i contendenti compresero che il loro rapporto era tanto improvvisamente quanto definitivamente cambiato. Per le potenze cristiane d’Europa il problema del «Turco» persisteva ancora, certo, dal momento che il sultanato ottomano continuava a costituire «un fattore importante nell’equilibrio delle forze nel continente; ma ormai quel problema era costituito dalla debolezza della Turchia, non dalla sua forza». L’Islam, dunque, cessò, dopo l’evento viennese, «di essere temibile anche come minaccia militare»10. Da un punto di vista socio-culturale, Franco Cardini rileva invece che la sconfitta ottomana del 1683 rappresentò per molti aspetti «il segnale della definitiva liberazione dall’incubo della mezzaluna, dal Türchenfurcht [“paura dei turchi”]». Da quel momento in poi, anche l’Islam e la storia dell’Impero ottomano avrebbero potuto essere trattati «con maggior serenità», in quanto cominciava a svanire «la sensazione generale» che aveva segnato la dinamica del rapporto tra la Cristianità europea e l’Islam tra la fine del medioevo e l’età moderna: «che fosse l’Islam turco e barbaresco all’attacco, e la Cristianità in difesa»11. Appare dunque chiaro come entrambi gli autori concordino nell’individuare nella “guerra di Vienna” del 1683 il culmine di una parabola storica: quella dell’inarrestabile ascesa militare dell’Impero ottomano, e, di conseguenza, quella della forza propulsiva della cultura – e della religione – che gli ottomani propugnavano, durante i secc. XV-XVII. In seguito agli eventi viennesi, a partire dalla fine del sec. XVII il rapporto tra le due culture/civiltà non fu più lo stesso e gli europei ebbero ben chiara, quasi d’un tratto, la consapevolezza di una superiorità che, partendo da mere basi materiali e da rilevazioni economiche, tecnologiche e militari approdò ben presto a un sentimento di

B. LEWIS, L’Europa e l’Islam, Roma-Bari, Laterza, 20054, pp. 42-43. Cfr. inoltre D. QUATAERT, Le guerre di contrazione, in L’impero ottomano (1700-1922), Roma, Salerno, 2008, pp. 57-59 e S. FAROQHI, L’Impero ottomano, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 63. Propone invece una storiografia priva di «coinvolgimento politico», e che non si interessi alle vicende dell’impero ottomano «solo, e per quanto, entrava in contatto con uno stato europeo», M. P. PEDANI, La «grande guerra» ottomana (1683-1699), in Venezia e la guerra di Morea, cit., pp. 50-62. 11 CARDINI, Europa e Islam, cit., pp. 255-256 e p. 273. 10

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superiorità culturale, civile tout court. Si tratta di una riscostruzione delineata nelle sue linee generali già nella storiografia settecentesca. «Fino all’enunziata battaglia sotto Vienna», sostiene per esempio l’abate Francesco Becattini introducendo il quinto libro della sua Storia ragionata de’ Turchi (1788) «funestati abbiamo i lettori con una serie, poche volte interrotta, de’ progressi formidabili delle armi de’ Sultani Turchi. In avvenire vedremo in essi continue perdite, e a confronto della disciplina, dell’ordine, e del fuoco incessante delle armate Europee, vedremo restar quasi sempre abbattute e sconfitte quelle istesse squadre, il di cui solo nome serviva ad incutere ovunque lo spavento e il terrore»12. Sarebbe interessante approfondire il discorso che Cardini, nel saggio sopra citato, dedica alla «parabola – dalla tragedia all’opera buffa – che condusse il turco a popolare dei suoi alamari l’opera buffa europea a partire da Mozart»13. Lo studioso osserva infatti che dal Quattrocento in poi, quando cioè «cominciarono a infiltrarsi sempre più sovente i turchi, con i loro enormi turbanti, i loro lunghi abiti gallonati, gli alti candidi copricapo dei terribili giannizzeri», prese a diffondersi, soprattutto nelle zone più esposte al contatto diretto con gli ottomani, e in particolare a Venezia, «un gusto che già si può definire esotico», e che sortì «l’effetto di far crescere la curiosità, ma in parte anche la simpatia, nei confronti dei musulmani». D’altro canto, soprattutto nella Francia cinque-seicentesca, grazie alle intense e floride relazioni diplomatiche e commerciali che Parigi intratteneva con la Sublime Porta, si giunse «alla definitiva configurazione sia dell’orientalistica come sistema scientifico», con le opere di Barthélemy d’Herbelot de Molainville e di Antoine Galland, «sia all’orientalismo come gusto e come parte importante [...] di quello che sarebbe stato definito esotismo». Nel 1721, poi, le Lettres persanes del barone di Montesquieu – il cui «dato narrativo», secondo una nota formulazione di Francesco Orlando, funziona come «pretesto per attribuire a occhi estranei, quindi estraniati, e quindi –

12 Cito da Storia ragionata de’ Turchi, e degl’Imperatori di Costantinopoli, di Germania, e di Russia, e d’altre Potenze Cristiane. Dell’abate Francesco Becattini Accademico Apatista. Tomo terzo. In Venezia MDCCLXXXVIII. Per Francesco Pitteri, e Francesco Sansoni. Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio, pp. 3-4. Su Becattini cfr. G. TORCELLAN, Becattini Francesco, in DBI, VII (1965), pp. 394-400. 13 CARDINI, Europa e Islam, cit., p. 273. Riassumo e integro qui di seguito le pp. 272-289 del saggio, da cui devono intendersi tratte, ove non altrimenti specificato, le citazioni. Cfr. inoltre, su problematiche affini, C. CAMPA, Dal tableau esotico alla rappresentazione di carattere: la storiografia musicale, le turcherie e lo spirito enciclopedico, in I turchi, il Mediterraneo e l’Europa, cit., pp. 413-428; P. PRETO, Il mito del Turco nella letteratura veneziana, e G. MORELLI, Povero Bajazetto. Osservazioni su alcuni aspetti dell’abbattimento tematico della «paura del turco» nell’opera veneziana del Sei-Settecento in Venezia e i Turchi. Scontri e confronti di due civiltà, Milano, Electa, 1985, rispettivamente alle pp. 134143 e 280-293.

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come soprattutto si vuole – estranianti, una visione che è alla lettera revisione […] delle convenzioni, delle istituzioni e della tradizione intera d’Occidente»14 – sancirono la ricezione di un Oriente che «era in grado di proporsi come luogo metaforico, come punto di vista immaginario, “al-di-là / al-di-fuori”, dal quale meglio cogliere e criticare le stranezze e le follie della propria civiltà». Si tratta, per fare un esempio tratto dalla nostra tradizione letteraria, di quel punto di vista “esotico” che, qualche decennio più tardi, Carlo Goldoni – appunto un veneziano approdato in Francia – adotterà per alcuni suoi significativi lavori, come la «trilogia persiana» del 1753-56 (La sposa persiana, Ircana in Julfa, Ircana in Ispaan)15. Intanto, dopo il «rinnovato pacifico clima inaugurato dal dibattito sulla tolleranza» – condotto da intellettuali quali John Locke, Voltaire, Gotthold Ephraim Lessing16 – giunse «il tempo delle turqueries: il tempo del vestire, del costruire, dell’arredare “alla turca”». Appunto quella moda (e la sua conseguente “precipitazione” in immagine concreta) che, pur attraversando diverse complessità e complicazioni, giunse fino al Mozart del Die Entfuhrung aus dem Serail (Il ratto dal Serraglio, 1782) e del Die Zauberflöte (Il flauto magico, 1791), del celebre Rondò alla turca della Klaviersonate n° 11 in la maggiore KV331 (1784) e, ancora più avanti nel tempo, al Rossini dell’Italiana in Algeri (1813) e del Turco in Italia (1814). La turquerie, la “moda turca”, rappresenta dunque l’esito culturale di una premessa a prima vista inconciliabile, la “paura dei Turchi”, il Türchenfurcht. Questa significativa metamorfosi delinea un mutamento di segno epocale nel rapporto tra l’Europa cristiana e l’Oriente islamico, all’interno del quale ebbe modo di giocare un ruolo notevole anche l’esperienza di due autori, Ludovico Marracci e Giambattista Donà, indicati come i padri fondatori dell’«islamologia» e della «turcologia». La loro coeva attività di “diffusori”, anche se con modi e toni diversi, della cultura turco-islamica nel mondo italiano ed europeo può ben testimoniare quanto l’eco delle guerre turche abbia offerto, in qualche frangente, un contribuito decisivo alla complessità dell’effervescenza culturale – germinale, ripeto, e foriera di esperienze e atteggiamenti che troveranno una compiuta realizzazione solo nei decenni successivi17 – in cui si incarna la cifra peculiare del tardo Seicento.

14 F. ORLANDO, Che Maometto può aver torto contro John Locke, in ID. Illuminismo, barocco e retorica freudiana. Nuova edizione ampliata, Torino, Einaudi, 1997, pp. 29-64: 29. 15 Cfr. F. ANGELINI, Vita di Goldoni, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 145-152. Cfr. inoltre F. DEL BECCARO, L’esperienza “esotica” del Goldoni, in «Studi Goldoniani», quaderno n. 5, pp. 62-101 e PRETO, Venezia e i Turchi, cit., pp. 468-473. 16 Su cui cfr. R. MINUTI, Orientalismo e idee di tolleranza nella cultura francese del primo ’700, Firenze, Olschki, 2006. 17 Il rimando va, a questo proposito, ai lavori di S. MORAVIA, La scienza dell’uomo nel Settecento, Roma-Bari, Laterza, 19782, e Id., Filosofia e scienze umane nell’età dei Lumi,

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2. Alle origini dell’«islamologia»: il Corano di Ludovico Marracci Per molti secoli dopo la predicazione del profeta Maometto e l’avvento dell’Islam, il testo sacro dei musulmani, il Corano, era rimasto pressoché inaccessibile ai dotti cristiani, finché, intorno alla metà del XII secolo, per volere di Pietro il Venerabile, abate di Cluny, l’arcidiacono di origine inglese Roberto di Chester (o di Ketten, o di Ketton, o di Retz) ne allestì una versione latina (1143). Tuttavia, data l’incompletezza del numero delle sure, e per via di arbitrarie riformulazioni nella loro sequenza, si è parlato, per questo testo, di “compendio”, più che di “traduzione”: a esso andrebbe comunque riconosciuto il merito di rappresentare il «primo tentativo di accedere direttamente al testo che stava alla base del fenomeno islamico, senza più accontentarsi delle notizie incerte e frammentarie che circolavano in proposito»18. Fu a partire dal Cinquecento che cominciò a irradiarsi in tutta Europa, e non solo tra i dotti ecclesiastici cattolici, un rinnovato interesse per il Corano, la cui motivazione di base si diramava lungo tre diverse ma intrecciate ragioni. La prima, di tipo “storico”, andava individuata nella sempre più impellente “minaccia” turca: di quell’entità politico-militare, cioè, che nell’arco di una sessantina d’anni, con la conquista della capitale bizantina (1453) e dell’Egitto mamelucco (1516-1517), si era autoproclamata erede universale dei califfati musulmani medievali, e che conseguentemente, nell’ottica dei contemporanei cristiani, si presentava in modo inequivocabile come la sede principale e propulsiva dell’islamismo moderno. La seconda ragione era costituita dalla nascita e diffusione delle idee riformatrici di Martin Lutero, la cui interpretazione politico-religiosa della modernità storica era imperniata come è noto su una visione – di chiara matrice apocalittica – dell’inarrestabile ascesa e potenza dell’Impero ottomano quale “flagello divino” contro le colpe della cristianità corrotta e traviata. A loro volta i cattolici, all’epoca, ascrivevano all’immanenza del Turco la salvezza del riformismo religioso tedesco: se il “nemico della Cristianità” non fosse stato in agguato alle porte della Germania, probabilmente nulla avrebbe vietato che i luterani subissero la medesima sorte – lo sterminio – degli “eretici” di altre epoche e di altri luoghi, come la triste vicenda dei Catari nella Francia del XIII

Firenze, Sansoni, 1982. Lo studioso insiste sui concetti relativi all’apertura geo-antropologica verso l’“Altro” e alla scienza del “diverso” come fondativi della «scienza dell’Uomo» maturata nel pieno Settecento. Il testo fondamentale per ogni approccio allo studio del rapporto tra Europa e Vicino Oriente rimane l’ormai “classico” saggio di E. W. SAID, Orientalism, New York, Vintage Books, 1979 (trad. it.: Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Milano, Feltrinelli, 20065). 18 P. BRANCA, Il Corano, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 100.

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secolo non mancava di rammentare19. In ultimo, e strettamente correlata alle due ragioni precedenti giacché ne costituiva il risvolto prettamente materiale, vi era un’istanza di tipo “commerciale”, veicolata dall’intraprendenza di editori spregiudicati, lungimiranti e, talvolta, in odor di eresia. Interessante, a questo proposito, è la vicenda riguardante la prima stampa europea in arabo del Corano, edita a Venezia da Alessandro Paganini nel 1538. A lungo si era dubitato della veridicità della notizia dell’esistenza di questa pubblicazione, dal momento che non si era riusciti a rinvenire alcun esemplare superstite dell’opera: si era perciò creduto che – nella più probabile delle ipotesi – tutte le copie fossero state distrutte per ordine delle autorità pontificie del tempo. Solo vent’anni fa ne venne rintracciata una copia presso una biblioteca conventuale, a Venezia20. Risulterebbe quindi evidente perché il Corano arabo di Paganini, sebbene edito, non circolò in Italia e in Europa; mentre i musulmani – verso i quali l’operazione del libraio veneziano era direttamente sbilanciata – dimostrarono una grande avversione nei confronti della stampa del loro testo sacro, in ottemperanza ai dettami del Corano che vietavano ai “giaurri”, agli infedeli europei, di accedervi o anche solo materialmente toccarlo. Alessandro Paganini ebbe così modo di risentire pesantemente le conseguenze finanziarie e professionali di un’operazione tanto ambiziosa quanto miseramente fallita. L’istanza legata alla diffusione delle idee riformatrici è invece riscontrabile in due altre importanti edizioni cinquecentesche del Corano. Innanzitutto va ricordata la versione latina di Bibliander (il teologo Theodor Buchmann, seguace di Zwingli e amico di Lutero), edita nel 1543 a Basilea, in tre tomi, presso il libraio Johann Herbester, che al momento della pubblicazione sollevò spinose polemiche religiose, poi risolte grazie all’intervento diretto di Lutero che diede il suo beneplacito per la stampa. Il testo di questa edizione ricalcava quello della versione di Roberto di Chester, cui furono aggiunte alcune annotazioni, una praemonitio di Lutero contro la legge islamica, alcune composizioni sulla vita e sulla dottrina di Maometto e sulla storia e i costumi dei Turchi. Importante fu soprattutto l’Apologia introduttiva, in cui Bibliander dava conto delle ragioni che lo avevano spinto alla pubblicazione, in sostanza la necessità di conoscere le opere dottrinali degli avversari del cristianesimo e l’attualità della pubblicazione davanti all’incombenza del pericolo turco. A proposito della molteplicità

19 È stato rilevato che la grande scienza orientalistica moderna traeva le sue origini proprio nel travaglio religioso del sec. XVI: cfr. C. DE FREDE, Cristianità e Islam nel Cinquecento, in ID., La prima traduzione italiana del Corano sullo sfondo dei rapporti tra Cristianità e Islam nel Cinquecento, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1967, pp. 13-30; A. DANTI, L’aspetto «utopico» della letteratura antiturca in Italia e in Polonia alla metà del XVI secolo, in Venezia e Ungheria nel contesto del Barocco europeo, cit., pp. 551-570: 565-566. 20 Cfr. A. NUOVO, Alessandro Paganini. 1509-1538, Padova, Antenore, 1990.

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dei testi contenuti in questa pubblicazione (tra i quali spiccava il famoso Commentario delle cose de’ Turchi di Paolo Giovio), è stato detto che «tutto quel che si poteva offrire a chi fosse desideroso di erudirsi sull’Islam e sui Turchi fu pubblicato». L’opera ebbe un successo assai notevole (fu ripubblicata, pressoché invariata, nel 1550), ma si trattò di un successo che «non si spiega certo col valore scientifico d’essa», a conferma dell’inscindibilità, in molti casi, delle istanze culturali da quelle meramente economiche e speculative 21. Insomma: anziché demolire un pregiudizio secolare, l’edizione di Bibliander lo consolidava ulteriormente. Nel 1547 usciva invece la prima edizione italiana – o meglio, in una lingua volgare europea – del Corano, apparsa a Venezia per i torchi di Andrea Arrivabene e dedicata a Gabriel de Puels barone d’Aramon, ambasciatore francese presso Solimano il Magnifico tra il 1546 e il 1553 22. Colpisce innanzitutto, in questa edizione, la dedica alla personalità diplomatica che fu l’ideatrice e l’esecutrice materiale della tanto vituperata (dai filoimperiali) “alleanza muta” tra la Sublime Porta e il Re Cristianissimo; ed è inoltre da notare che Arrivabene era notoriamente favorevole alle posizioni riformatrici, e che fu anche coinvolto in diversi processi per eresia23. Dal punto di vista testuale, si tratta di un’opera che – nonostante la proclamata derivazione diretta dall’originale arabo, «nuovamente tradotto», come recita il titolo, per l’occasione – tradisce una manifesta discendenza dalla versione latina di Bibliander apparsa quattro anni prima, e che, essendo «zeppa di madornali errori», «non portò alcun contributo alla conoscenza dell’Islam, anzi confermò le false notizie che se ne avevano e non ha ormai altro valore che quello di una rarità bibliografica»24. Recentemente Luciano Formisano ha tuttavia scoperto, studiato e pubblicato il famoso “Codice Vaglienti” (Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 1910), al cui interno sembra essere contenuta una più antica versione italiana del Corano, eseguita da un tal «Nicolaio di Berto» (Nicola Berti) nell’ottobre del 1461 (e dunque circa ottant’anni prima dell’edizione di Arrivabene) sulla scorta della

21 C. DE FREDE, Il Corano latino del Bibliander, in ID., La prima traduzione italiana del Corano, cit., pp. 1-11: 10. Cfr. inoltre L. FELICI, L’Islam in Europa. L’edizione del Corano di Theodor Bibliander (1543), in Traduzioni e circolazione delle idee nella cultura europea tra ’500 e ’700. Atti del convegno internazionale (Firenze, 22-23 Settembre 2006), a cura di G. Imbruglia, R. Minuti e L. Simonutti, Napoli, Bibliopolis, 2007. 22 L’Alcorano di Macometto, nel qual si contiene la dottrina, la vita, i costumi et le leggi sue. Tradotto nuovamente dall’Arabo in lingua italiana. Con Gratie, e Privilegii. MDXLVII. 23 Su cui cfr. C. DE FREDE, Il Corano italiano di Andrea Arrivabene, in ID., La prima traduzione italiana del Corano, cit., pp. 31-48; P. BRANCA, Le traduzioni italiane del Corano, in Il Corano: traduzioni, traduttori e lettori in Italia, a cura di G. Zatti, Milano, IPL, 2000, pp. 111-182: 116-118. 24 A. MALVEZZI, L’islamismo e la cultura europea, Firenze, Sansoni, 1956, p. 212.

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traduzione latina compiuta da Marco da Toledo per l’arcivescovo Rodrigo Jiménez de Rada agli inizi del XIII secolo (probabilmente nel 1212 o nel 1213). Si tratta di una scoperta interessante, che, in sostanza, tende a dimostrare come la circolazione del Corano in Italia – tradizionalmente legata, come si è visto, agli ambienti favorevoli alla Riforma protestante – abbia seguito anche altre strade, una delle quali conduce all’entourage dei Domenicani di Firenze, e in particolare di Ricoldo da Montecroce (1243-1320), «convinto sostenitore dell’utilità dello studio dell’arabo e traduttore dello stesso Corano»25: ambiente e mediatore culturale cui, secondo Formisano, sarebbe da ricondurre la traduzione di Nicola Berti. Fu solo nel 1698 che apparve, per i torchi della Tipografia del celebre Seminario di Padova, la prima traduzione completa, in latino, del Corano, frutto degli studi quarantennali dell’erudito lucchese Ludovico Marracci (16121700)26. L’opera, nota in genere col titolo sintetico (e forse ingeneroso) di Refutatio Alcorani, consisteva di due corposi tomi – preceduti da dediche “strategiche”: il primo (che reca il titolo Prodromus ad refutationem Alcorani, in quo per quatuor praecipuas verae Religionis notas Mahumetanae Sectae falsitas ostenditur Christianae Religionis veritas comprobatur, in quatuor partes divisus), pubblicato separatamente già nel 1691, al defunto papa Innocenzo XI; il secondo (intitolato Refutatio Alcorani in qua ad Mahumetanicae superstitionibus radicem securis apponitur; et Mahumetus ipse gladio suo jugulatur) all’imperatore Leopoldo, entrambi protagonisti della guerra di Vienna – in cui erano contenuti, oltre al testo arabo e alla relativa traduzione latina a fronte, da una parte i consueti scritti di condanna tipici della pubblicistica cristiana, dall’altra un apparato di commenti, note e raffronti testuali tratti da opere di diversi studiosi musulmani: tutto un materiale, insomma, che contribuisce a definire questa pubblicazione come la prima “edizione critica” del Corano in ambito europeo.

25 L. F ORMISANO , La più antica (?) traduzione italiana del “Corano” e il “Liber Habentometi” di Ibn Tūmart in una compilazione di viaggi del primo Cinquecento, in «Critica del testo», VII (2004), 2, pp. 652-696; Iddio ci dia buon viaggio e guadagno. Firenze, Biblioteca Riccardiana, ms. 1910 (Codice Vaglienti), edizione critica a cura di L. Formisano, Firenze, Edizioni Polistampa, 2006, in part. le pp. 29-34 e 267-281. 26 Alcorani textus universus ex correctoribus Arabum exemplaribus summa fide, atque pulcherrimis characteribus descriptus. Eademque fide, ac pari diligentia ex arabico idiomate in Latinum translatus; appositis unicuique capiti notis, atque refutattione: his omnibus praemissus est Prodromus totum priorem tomum implens in quo contenta indicantur pagina sequenti, auctore Lodovico Marraccio e Congregatione Clericorum Regularium Matris Dei, Innocenti XI gloriosissime memoriae olim confessario. Patavii, Ex Typographia Seminarii, MDCXCVIII. Un agile profilo biobibliografico dell’autore si legge in L. SARACCO, Marracci Ludovico, in DBI, LXX (2008), pp. 700-702.

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È ancora aperta la discussione, tra gli studiosi, sull’effettivo beneficio che l’islamologia di Marracci, per quanto acerba, abbia recato a una comprensione dell’Islam per quei tempi più aperta e matura: una discussione i cui termini variano a seconda della visuale prospettica con cui ci si approccia alla figura dell’erudito lucchese. In sostanza: se si privilegia una lettura in chiave teologico-controversistica – propria, potremmo dire, del religioso “di professione” – risulta chiaro che Marracci rimane un uomo del suo tempo, un religioso erudito nelle lingue orientali ma pur sempre ancorato a una visione “tradizionale” dell’Islam come “nemico” da confutare e quindi da abbattere. Come qualcuno ha proposto, «la sua elevata specializzazione arabo-islamica non cambia e non migliora il modello tradizionale controversistico della cristianità»27. Del resto lo stesso Marracci non si sottrae a una interpretazione di questo tipo affermando, fin dal titolo del secondo tomo dell’Alcorani textus universus, che Mahumetus ipse gladio suo jugulatur, “Maometto stesso viene sgozzato con la sua spada”. Se, invece, si pone mente all’enorme contributo che Ludovico Marracci ha offerto all’affinamento di una nuova metodologia d’approccio al testo sacro dei musulmani – secondo un’ottica “filologica” che rifiuta di riproporre le vuote e acritiche formulazioni del passato – la sua personalità risulta inevitabilmente, pur senza dimenticare le limitazioni proprie del periodo in cui egli visse, quella di un pioniere, di un valido studioso, insomma di un «pacato erudito che non accetta di distorcere le affermazioni degli avversari e che […] immagina la possibilità di un incontro di altra natura con chi gli è diverso nella fede», «superando un eruditismo fine a se stesso, l’epoca dei lumi ormai alle porte»28. Un personaggio, secondo una sintesi efficace, «non primo in senso assoluto, né come traduttore del Corano e neppure come confutatore dell’Islam», al quale tuttavia deve essere riconosciuto un primato notevole: che «per la prima volta nella storia della controversia antislamica il campione della fede cristiana si sforza, prima di combattere l’avversario, di conoscerne con precisione le posizioni»; una metodologia, insomma, secondo cui «quanto vi è di caduco nella sua opera di polemista non deve farci dimenticare quanto di solido, di permanente, di vitale sussiste nella sua opera di antesignano dello studio scientifico dell’Islam»29. Questa seconda lettura, oltre che più affascinante, è forse consonante in misura maggiore con lo spirito e gli eventi dell’epoca. La ritirata dei Turchi da Vienna

27 G. RIZZARDI, Il modello controversistico del Marracci, in Il Corano. Traduzioni, traduttori e lettori in Italia, cit., pp. 81-109: 109. 28 M. P. PEDANI FABRIS, Ludovico Marracci: la vita e l’opera, in Il Corano. Traduzioni, traduttori e lettori in Italia, cit., pp 9-29: 27 e 29. 29 G. LEVI DELLA VIDA, Ludovico Marracci e la sua opera negli studi islamici, in ID., Aneddoti e svaghi arabi e non arabi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959, pp. 193-210, 203-204, 206 e 210.

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nel 1683, come si è visto, segnò l’inizio di una nuova era nei rapporti fra l’Europa cristiana e l’Oriente musulmano; favorì un mutamento nello stato d’animo degli Europei rispetto all’Islam, infine coincise con la cessazione di ogni pubblicazione teologica antislamica. Fu in questo nuovo clima di novità e di apertura che Ludovico Marracci consegnò all’Europa, secoli dopo il compendio voluto nel lontano 1143 da Pietro il Venerabile abate di Cluny, la prima traduzione integrale del Corano. La sconfitta ottomana a Vienna contribuì a determinare, in questo modo, la fine della controversia antislamica, «che terminava proprio nel modo in cui avrebbe dovuto cominciare: con lo studio diretto e critico del Corano, un libro che fino a questo momento in Occidente era stato sempre condannato e mai letto»30. A conclusioni non dissimili conduce, infine, una recente indagine, di respiro europeo, nella quale trova conferma il fatto che l’esperienza di Marracci deve essere giustamente valutata non come una summa di modalità d’approccio al testo del Corano persistentemente arcaiche e ancorate al passato, bensì nella sua tensione proiettiva verso il futuro, come paradigma, in ultima istanza, di un’operazione culturale non pregiudiziale, anche se temprata nel fuoco della fede e della controversistica religiosa. Pochi anni dopo la pubblicazione patavina del Corano, nel 1705, l’erudito olandese Adriaan Reeland, professore di lingue orientali a Utrecht, pubblicava il De religione Mohammedica, un’opera – ancora una “edizione-traduzione-commento” del testo sacro musulmano31 – che da una parte «pone le sue radici nel tessuto profondo della cultura protestante», mentre dall’altra «contribuì in modo significativo a un dibattito sull’Islam che, tra Seicento e Settecento, fu di particolare intensità, per le molteplici e nuove implicazioni che venne ad assumere dal punto di vista filosofico, politico, religioso». Anche in questo caso l’intento principale dell’opera era quello di condurre i cristiani a una conoscenza effettiva, scevra dai secolari fraintendimenti ed errori, dei contenuti della religione islamica, conseguita attraverso l’attento esame delle fonti documentarie, essenziale per poter giungere a una «confutazione autentica». Appunto questa «affinità metodologica significativa» accomuna Adriaan Reeland e Ludovico Marracci, «due eruditi certamente diversi dal

30 M. P. PEDANI, I due volti della storia: padre Marco d’Aviano e lo şeyh Vani Mehmed efendi, in «Metodi e ricerche», XIV (1995), 1, pp. 3-10: 4. Cfr. inoltre EAD., Intorno alla questione della traduzione del Corano, in Gregorio Barbarigo patrizio veneto, vescovo e cardinale nella tarda Controriforma (1625-1697). Atti del Convegno di Studi (Padova, 7-10 novembre 1996), a cura di L. Billanovich e P. Gios, Padova, Istituto per la Storia Ecclesiastica Padovana, 1999, pp. 353-365. 31 Adriani Relandi de religione Mohammedica libri duo: quorum prior exhibet compendium theologiae Mohammedicae, ex codice manuscripto arabice editum, Latine versum, et notis illustratum: posterior examinat nonnulla, quae falso Mohammedanis tribuuntur. Utrajecti, ex officina G. Broedelet, 1705.

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punto di vista delle premesse dottrinali ma accomunati dall’intento di offrire una conoscenza più rigorosa dei contenuti della religione islamica». Atteggiamenti di questo tipo rappresentavano la cifra peculiare di una «tensione metodologica e teorica derivante da un nuovo modo di confrontarsi con l’“alterità” che costituisce uno dei tratti più rilevanti della “crisi della coscienza europea”»32. 3. Alle origini della «turcologia»: la Letteratura de’ Turchi di Giambattista Donà Che la traduzione del Corano di Ludovico Marracci debba reputarsi sintomatica di un nuovo incipiente “clima culturale” – più disponibile e curioso, rispetto al passato, nei confronti dei pilastri fondamentali della tradizione culturale islamica (e turca) – trova una significativa conferma nell’esperienza di un altro autore, sul quale già da tempo Paolo Preto ha richiamato l’attenzione e per il quale lo studioso non ha esitato a coniare la definizione di «turcologo»33. Rampollo di un’illustre famiglia aristocratica veneziana, Giambattista Donà o Donado (1627-1699) fu avviato giovanissimo alla carriera politica e diplomatica, del cui corso seguì le varie tappe, fino a essere nominato bailo (ambasciatore) della Serenissima presso la Sublime Porta a Costantinopoli nel 1680 34.

32 R. MINUTI, L’immagine dell’Islam nel Settecento. Note sulla traduzione francese del De religione Mohammedica di Adriaan Reeland, in «Studi settecenteschi», 25-26 (2006), pp. 23-45. 33 P. PRETO, Un libro nuovo alla fine del Seicento: La letteratura de’ Turchi del Donà, in ID., Venezia e i turchi, cit., pp. 340-351. Cfr. inoltre ID., I servizi segreti di Venezia, Milano, NET, 20042, pp. 254 e 379; ID., Venezia e i Turchi nel Seicento, in Marco d’Aviano e il suo tempo. Un cappuccino del Seicento, gli Ottomani e l’Impero, a cura di R. Simonato, Pordenone, Edizioni Concordia Sette, 1994, pp. 53-54. Conferma l’importanza internazionale del libello di Donà l’analisi dello studioso turco M. SOYKUT, A New Vision from Venice: Della Letteratura de’ Turchi, in ID., Image of the “Turk” in Italy. A History of the “Other” in Early Modern Europe: 1453-1683, Berlin, Schwarz, 2001, pp. 112-147. Un profilo biobibliografico dell’autore si legge in G. GULLINO, Donà Giovanni Battista, in DBI, vol. XL (1991), pp. 738-741. 34 Sulla rappresentanza diplomatica veneziana a Costantinopoli cfr. C. C OCO – F. MANZONETTO, Baili veneziani alla Sublime Porta: storia e caratteristiche dell’ambasciata veneta a Costantinopoli, Venezia, Comune, 1985; B. SIMON, I rappresentanti diplomatici veneziani a Costantinopoli, in Venezia e i Turchi. Scontri e confronti di due civiltà, cit., pp. 56-69; G. BENZONI, A proposito dei baili veneziani a Costantinopoli: qualche spunto, qualche osservazione, in «Studi veneziani», XXX (1995), pp. 69-78; H. ENZENSBERGER, I veneziani a Costantinopoli nel periodo ottomano, in «Ubi neque aerugo neque tinea demolitur». Studi in onore di Luigi Pellegrini per i suoi settant’anni, a cura di M. G. Del Fuoco, Napoli, Liguori, 2006, pp. 237-274.

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Venne tuttavia frettolosamente richiamato in patria, soltanto quattro anni dopo, per essere sottoposto al processo (dal quale risulterà poi discolpato) orditogli contro dalle autorità cittadine a causa di una decisione politica da lui eseguita senza aver prima ottenuto l’autorizzazione del Senato. Rientrato dunque a Venezia, Donà proseguì i suoi studi e continuò a coltivare i propri interessi. Nel dicembre del 1684 promosse, assieme al geografo ufficiale della Repubblica Vincenzo Coronelli, l’Accademia degli Argonauti (un cenacolo di studiosi attratti da forti interessi astronomici e geografici), mentre, nello stesso tempo, si dedicava a far circolare le sue idee “alternative” concernenti il secolare nemico turco, che aveva avuto modo di conoscere da vicino durante l’attività diplomatica. «Alcune delle novità più significative e rivoluzionarie» (Preto) del suo pensiero vennero per la prima volta esposte in quello stesso 1684, e durante un’occasione “ufficiale”: la consueta Relazione al Senato che tutti gli ambasciatori erano tenuti a presentare al termine delle loro mansioni. Donà costruì il proprio ragionamento attorno a «cinque capi» – cinque snodi nevralgici, preziosi per l’elaborazione della politica estera veneziana in una contingenza storica difficile e pericolosa – che ripercorrevono l’entità imperiale ottomana nella sua completa articolazione: dagli aspetti di ordine “politologico” sulla natura del dispotismo turco («Rappresenterò se la casa Ottomana si ritrovi per anco in quell’alto posto di autorità dispotica nella quale, con il corso di tante vittorie per molti secoli, si trovava; ed insieme l’arte violentissima della tirannia»), alle considerazioni sui vari membri della dinastia regnante e del governo («Quali siano le persone della famiglia reale, abilità loro, e de’ ministri»), dalle valutazioni economico-patrimoniali («Quanta sia la vera somma dell’annuale rendita, casnà e tesoro in danaro e gioje ed altre cose preziose»), a quelle di ordine militare («Quanto numerose e poderose siano le forze militari, così terrestri che marittime») e, finalmente, alla delinazione della rete diplomatica turca («Quanto reputi e come si intenda il Sultano con li Principi a lui confinanti, e con li remoti ancora, e in particolare con Vostra Serenità; essendo il massimo dei miei riflessi riferire come riguardino li Turchi la Serenissima Repubblica»). Si può comprendere con quale estremo interesse questa relazione dovette essere ascoltata dai Senatori veneziani: come l’oratore non mancava di ribadire, il contesto politico-militare era in estremo fermento per i fatti viennesi («renderanno questi miei fogli non impari all’aggradimento generoso delle Eccellenze Vostre verso le applicazioni mie, e tanto più, quanto che la superba intrapresa contro la Cristianità, con tant’arte ed in tanto tempo simulata e tessuta, ridotta a così poderosa e reputabil potenza d’armi, essendo stata schernita, dissipata e dispersa dall’Onnipotente mano di Sua Divina Maestà con forma inopinata, col mezzo di braccio militare che sebbene forte non era solito a trionfare di simili eserciti prepotenti, distinguerà questi secoli dai secoli precedenti, e qualificherà questa narrazione»), mentre è assai probabile che la Cancelleria veneziana stesse già trattando, assieme alle autorità pontificie, polacche e imperiali, l’ingresso della Repubblica

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nella Lega Santa e la conseguente dichiarazione di guerra al Sultano Mehemet IV. In questo contesto acquistava allora un sapore particolare e significativo la convinzione, esposta da Donà già negli esordi del suo discorso, secondo la quale «per addittare il nome di Barbaro non basta la diversità dei costumi e la distanza dei paesi, l’opposto della Religione, o l’incolta maniera di vivere»35. Il testo tuttavia più interessante – perché meno legato ai vincoli dell’alta istituzionalità e quindi in grado di trasmettere le idee dell’autore nella pienezza della loro espressione – fu il libello pubblicato nel 1688 sotto forma di letteramemorandum indirizzata al fratello Andrea, intitolato Della letteratura de’ Turchi e volto a descrivere lo stato e i progressi della cultura turca attraverso un’ampia e diversificata rassegna in traduzione di testi di diverso genere (religiosi, politici, scientifici, poetici): una «narrativa familiare», la definisce Donà, «fatta per il Sig. Abate Andrea mio fratello, che mi ricercò circa l’intelligenza, & uso, che havessero i Turchi delle Scienze; e loro Letteratura»36. È stato rilevato che questo testo – sebbene l’autore possedesse una preparazione linguistica non ancora del tutto sufficiente, e non fosse sorretto da un adeguato vigore intellettuale – godette di un successo tutto sommato positivo, anche se effimero, dal momento che «dopo secoli di pubblicistica “turchesca” abbarbicata con ossessionante monotonia ai temi della crociata, della “perfidia”, “barbarie”, “ferocia” del Turco, molti accolgono quasi con sollievo un libro che pur con mezzi inadeguati fa conoscere il patrimonio letterario di una nazione da troppo tempo creduta incapace di esprimersi come civiltà autonoma e valida»37. Anche in questo caso il proposito dell’autore viene esplicitamente dichiarato fin dagli esordi dell’esposizione: innanzitutto ribadire e far risaltare le consonanze con lo scritto precedente («Fissato pertanto l’occhio sopra lo stesso [il Potentato ottomano], compresi a bastanza quello, che presi per appunto per soggetto della mia relatione di quell’Imperio all’Eccellentissimo nostro Senato: Che quella Natione non si ritrovi in quel vigore così grande, come havea acquistata la riputatione d’esser invincibile: Nè ch’ella havesse tale rozzezza d’ingegno, e totale imperitia e nella cognitione delle Scienze, e delle belle arti»), e in secondo luogo di smascherare l’inganno («l’universale errore») di quanti si pro-

35 G. DONADO, Relazione di Costantinopoli (1684), in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato. Tratte dalle migliori edizioni disponibili e ordinate cronologicamente, a cura di L. Firpo, Torino, Bottega d’Erasmo, 1965. 36 Della letteratura de’ Turchi. Osservationi fatte da Gio: Battista Donado Senator Veneto, fù Bailo in Costantinopoli. In Venetia, MDCLXXXVIII, per Andrea Poletti, all’Insegna dell’Italia, à San Marco. Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio. L’operetta di Donà anticipa di un secolo esatto la ben più nota Letteratura turchesca dell’abate Giambattista Toderini, pubblicata sempre a Venezia, presso Giacomo Storti, nel 1787, e a lungo considerata la prima trattazione occidentale della storia della letteratura turca. 37 PRETO, Venezia e i Turchi, cit., p. 345.

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clamavano convinti dell’innata «ignoranza» dei Turchi. L’ascesa del potere imperiale e il contatto con le nazioni sottomesse, nella ricostruzione di Donà, hanno permesso una lenta ma inarrestabile opera di civilizzazione e di raffinamento culturale, per la quale hanno concorso diversi elementi: l’espansione territoriale («La dilatatione degli acquisti nelle Provincie popolate d’huomini della maggior eruditione»), l’arrivo di rinnegati e convertiti dall’Europa («Il concorso di quantità di Rinegati di varie Nationi, molti de’ quali sono stati più che mezzanamente avanzati nelle cognitioni scolastiche, e tal’uno non secolare prima di farsi Turchi»), la fioritura della Legge connessa all’esercizio del comando («L’uso continuo del Commando, nel quale essendo una parte necessaria la Giudicatura, si ricercano anco cognitioni legali») e, infine, «la necessità d’insegnare l’Alcorano per istruttion di loro stessi, & altri riflessi, molto bene facilitano il non acconsentire all’universale errore, che siano totalmente ignoranti»38. L’importanza storica dell’operetta di Donà deriva dal suo configurarsi – e in ciò consiste il suo punto di raccordo con la svolta culturale cui è connessa anche la traduzione del Corano di Ludovico Marracci – come un’operazione culturale di gran portata, che suggerisce all’opinione pubblica veneziana un modo nuovo e originale di accostarsi alla civiltà turca, la quale, per la prima volta, viene studiata nei suoi valori autonomi, valori che l’Occidente deve ancora scoprire39; come uno “spartiacque”, insomma, tra una concezione del mondo turco basata sul concetto di barbarie e di ignoranza propria dei secc. XV-XVII, e una nuova concezione, di stampo pre-illuministico e scevra di pregiudizi culturali e/o sociali. In una lettera al Magliabechi, del resto, lo stesso Gottfried Wilhelm Leibnitz, di passaggio per Venezia nel 1690, ebbe modo di giudicare la Letteratura de’ Turchi come l’unico titolo d’una certa novità presente nelle librerie veneziane. Quella di Giambattista Donà è quindi una «figura appassionante», la cui apertura verso un «nuovo livello di comprensione del Turco» acquista una maggiore profondità se si pensa che «sfidare così la communis opinio dei colleghi e tanto più farlo in un momento così delicato [cioè durante gli anni del processo a suo carico], mentre il Donà si trovava esposto a un’attenzione certamente speciale ed era chiamato a discolparsi e a riabilitarsi, rende tanto più forte questo atto d’ingresso ufficiale della cultura turca in quella veneziana»40. L’attività “turcologica” di Donà non si esaurì nei soli campi della diplomazia e della pubblicistica: al suo nome e al suo «stimolo» vanno infatti collegate le attività di un gruppo di “giovani di lingua”, addestrati alle lingue orienta-

DONÀ, Della letteratura de’ Turchi, cit., pp. 2-3 e pp. 5-6. PRETO, Venezia e i Turchi, cit., pp. 350-351. 40 G. BUSETTO, Introduzione a MARASSO – STOURAITI, Immagini dal mito, cit., pp. 8-9; cfr. inoltre la nota di catalogo alle pp. 64-65 dello stesso volume e M. INFELISE, L’ultima crociata, in Venezia e la guerra di Morea, cit., pp. 17-18. 38

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li nella scuola per dragomanni che Donà aveva con forza deciso di (ri)istituire a Venezia negli anni del suo bailaggio41. Tra di essi, vanno ricordati in particolare Antonio Benetti (post 1640-1685 circa), biografo del diplomatico nei suoi viaggi a Costantinopoli42, e Gian Rinaldo Carli (1645-1720 circa), il dragomanno collaboratore nella traduzione dei testi letterari turchi inseriti nella Letteratura, nonno del futuro e omonimo tragediografo e teorico della tragedia43. Sempre a Donà va accostata infine un’ultima figura, quella del poligrafo Francesco Maria Pazzaglia, autore di alcune liriche sulla conquista di Buda, e curatore e traduttore di edizioni riferite o dedicate al Donà, come la già citata opera biografica di Benetti o il romanzo Kara Mustafà di Jean de Préchac. La Letteratura de’ Turchi, si può dunque concludere con Preto, «non è un fiore nel deserto ma il frutto migliore e fecondo di un’attività di divulgazione culturale di cui il Donà è l’appassionato promotore»44. 4. «Inopportuno assumere un atteggiamento di rifiuto» Il timore che Vienna potesse cedere davanti all’invasione ottomana e, di conseguenza, permettere alle feroci e bellicose truppe turche un facile ingresso/scempio nel cuore dell’Europa cristiana risvegliò in tutto il vecchio continente – ma soprattutto in Italia, e in particolare a Roma, sede della Cristianità occidentale – una congerie di sentimenti di ispirazione apocalittica e un forte interesse nei confronti delle vicende militari: sentimenti e interesse che suscitarono una profluvie di testi di diversa tipologia ma accomunati da quello stesso carattere «plebiscitario» (Dionisotti) che, nel secolo precedente, aveva caratterizzato anche la produzione lepantina. La pressione produttiva ebbe inoltre

PRETO, Venezia e i Turchi, cit., pp. 106-109. Viaggi a Costantinopoli di Gio. Battista Donado Senator Veneto spedito Bailo alla Porta Ottomana l’anno 1680. Sua permanenza, e ritorno in patria nel 1684. Osservati colla raccolta delle più curiose notitie dal fu Dottor Antonio Benetti, e dati in luce dal dottor Francesco Maria Pazzaglia [...] Parte prima [- quarta]. In Venezia, per Andrea Poletti. All’insegna dell’Italia, a San Marco, 1688. Con licenza de’ Superiori, e Privilegio. Per un profilo biobibliografico, cfr. G. E. FERRARI, Benetti Antonio, in DBI, VIII (1959), pp. 479481. 43 Cfr. M. INFELISE, Gian Rinaldo Carli Senior, Dragomanno della Repubblica, in «Acta Histriae», V (1997), pp. 189-198. Di Carli si sa che tradusse la famosa Cronologia historica scritta in lingua Turca, Persiana & Araba da Hazi Halifè Mustafà (Venezia, Poletti, 1697), su cui cfr. A. BOMBACI, La letteratura turca. Con un profilo della letteratura mongola, Firenze, Sansoni, 1969, pp. 392-397 e G. BELLINGERI, Voci del Seicento ottomano, in Marco d’Aviano e il suo tempo, cit., pp. 89-91. 44 PRETO, Venezia e i Turchi, cit., p. 347. 41

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un’ulteriore, notevole impennata a partire dal 1684, anno dell’istituzione della seconda Lega Santa (o Sacra Lega), quando anche l’antemurale italiano all’espansionismo ottomano, la Repubblica di Venezia, decise finalmente e formalmente di entrare in guerra col Turco45. In tutti gli Stati della penisola, dai Viceregni spagnoli di Milano e Napoli al Granducato di Toscana, dalle Repubbliche di Genova e Venezia, alla città di Lucca, per non parlare degli Stati Pontifici, poeti e letterati di varia statura artistica fecero allora a gara nel pubblicare racconti più o meno poetici, più o meno veritieri (di una verità “poetica”, naturalmente, non “storica”) di quelle battaglie e di quegli scontri, inframezzandoli, o più spesso risolvendoli nelle lodi di questo o quel principe, cardinale, o nobile personaggio. Si tratta, è chiaro, nella stragrande maggioranza dei casi, di una produzione superficiale ed esteriore, occasionale, in cui, come è stato giustamente osservato, «la qualità è lungamente superata dalla quantità»46. Sembrerebbe dunque valere anche per questi testi il lapidario giudizio che Guido Mazzoni aveva coniato per la poesia politica e lepantina del secolo XVI: «Insomma verseggiatori molti, troppi; poeti neppur uno»47. Persino il senso di saturazione di fronte a una simile profluvie di scritti (spesso tutt’altro che originali) divenne ben presto esso stesso, già per i contemporanei, argomento degno di pubblicazione, al pari della cronaca militare e degli omaggi poetici, e di satira, come testimoniano alcune curiose incisioni di Giuseppe Maria Mitelli (1634-1718)48. Nella prima, intitolata Compra chi vuole (FIG. 1), realizzata nel 1684, e dunque in una fase relativamente iniziale del rinnovato conflitto con i Turchi, l’attenzione dell’artista sembra infatti puntata contro l’esorbitante numero di «avisi», «ritratti», «nove» e «giornali» in mano al venditore ambulante, dal quale gli avventori fuggono via disgustati. In un’incisione successiva, intitolata Il corriere in lontananza aspettato dagl’appassionati di guerra (FIG. 2), del 1692, la satira – che non riguarda più soltanto il fronte antiturco danubiano, ma anche quello anglo-francese apertosi con la “Gloriosa rivoluzione” del 1688 – si rende oltremodo violenta, e Mitelli sembra denunciare una sorta di “malcostume sociale”, conseguenza, ancora una volta, dell’alto numero di stampe provenienti

45 Venezia approfittò della favorevole congiuntura internazionale apertasi in seguito alla sconfitta turca a Vienna: l’adesione alla Sacra Lega «le permise, per la prima volta nella sua storia, di togliersi la soddisfazione di essere essa a dichiarare guerra al sultano»: cfr. P. DEL NEGRO, Il Leone in campo: Venezia e gli oltramarini nelle guerre di Candia e di Morea, in Mito e antimito di Venezia nel bacino adriatico (secoli XV-XIX), a cura di S. Graciotti, Roma, Il Calamo, 2001, pp. 323-344: 336. 46 BILIŃ SKI, Le glorie di Giovanni III Sobieski, cit., p. 8. 47 MAZZONI, La battaglia di Lepanto e la poesia politica del secolo XVI, cit., p. 199. 48 Sul binomio raffigurazione iconografica – circolazione delle informazioni cfr. L. MARASSO, Iconografia di guerra: immagini e informazione, in Venezia e la guerra di Morea, cit., pp. 209-231.

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dai vari fronti di guerra: la curiosità macabra per il numero delle vittime («Per un milione almen ne saran morti», afferma uno dei personaggi) e il gioco di scommesse clandestine sul tenore delle notizie stesse («Ecco la borsa, e gioco come dissi» e «Lui la dirà come stà, ecco la moneta», è il dialogo tra altri due). La mediocrità artistica di molti di questi testi non deve tuttavia trarre in inganno e fuorviare da un percorso di ricerca che si prospetta potenzialmente denso di possibilità, oltre che effettivamente poco solcato. Indagando le nuove forme di giornalismo sviluppatesi in Italia nel periodo 1684-1699, Mario Infelise ha osservato che la diffusione sempre maggiore delle gazzette a stampa favorì il costituirsi dei primi nuclei di quella che nel secolo successivo verrà definita «publica opinione», e che furono soprattutto le vicende militari dell’epoca «a segnare una decisiva evoluzione delle forme giornalistiche e delle aspettative di chi ne faceva uso»49. Altrove lo stesso Infelise ha considerato la relazione di consequenzialità che lega «il martellante bombardamento di notizie provenienti da Levante» a «un vero e proprio interesse antropologico nei riguardi della cultura ottomana»: nonostante «una certa curiosità per l’“altro” sia sempre stata presente nella cultura veneziana», le vicende belliche di quegli anni avevano determinato «lo sviluppo di una domanda di conoscenze che andava in tutte le direzioni, di cui è possibile trovare ancora una volta un efficace riscontro nella produzione editoriale»50. Ancora una volta, dunque, ci si ritrova davanti a un interessante “corto circuito” che serpeggia tra diversi elementi legandoli a un sottile ma allo stesso tempo solido fil rouge: la brama di notizie e curiosità dal fronte di guerra orientale genera la nascita di una pubblica opinione, la quale funge da sostrato, da feconda humus su cui implicazioni ben più consistenti – quali l’interesse antropologico, religioso e culturale nei confronti dell’“altro”, evidente nei casi summenzionati di Marracci e Donà – avranno modo, nell’arco di pochi decenni, di innestarsi e germogliare. In un contesto culturale così fluido, magmatico, a tratti caotico, generato essenzialmente da un contesto storicopolitico altrettanto in divenire, la domanda che lo studioso può e deve porsi, allora, potrebbe essere: da un punto di vista squisitamente letterario, quali furono le novità (se novità vi furono), oppure a quali elementi mutuati dalla tradizione i poeti del tempo affidarono i loro racconti e le loro fantasie? Quali furono le forme, le immagini, i toni, le riflessioni che gli echi di guerre così lontane, eppure così immanenti, suscitarono nei contemporanei? All’interno di quale clima culturale?

49 M. INFELISE, La guerra, le nuove e i curiosi. I giornali militari negli anni della lega contro il Turco, in I Farnese. Corti, guerra e nobiltà in antico regime. Atti del Convegno di Studi (Piacenza, 24-26 novembre 1994), a cura di A. Bilotto, P. Del Negro e C. Mozzarelli, Roma, Bulzoni, 1997, p. 322. 50 M. INFELISE, L’ultima crociata, in Venezia e la guerra di Morea, cit., p. 17.

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Un “fenomeno letterario” peculiare del Seicento, quello del romanzo, illustra paradigmaticamente quanto l’elemento “turco” giocò un ruolo notevole e significativo nella fioritura editoriale del genere attraverso la descrizione dei diversi aspetti e figure del mondo ottomano, o attraverso il filtro dell’eco delle grandi battaglie combattute in quello scorcio di tempo. Gli ultimi anni del secolo, e con maggior insistenza negli anni successivi al trionfo viennese del 1683, assistettero infatti in tutta Europa alla fortuna di un tipo particolare di romanzo: storicheggiante, avventuroso, sentimentale e soprattutto d’ambientazione pseudoorientale. In Italia, e in particolare a Venezia, il successo di pubblico fu conquistato grazie a un indovinato dosaggio di attualità, amore e avventura pienamente corrispondente al gusto “popolare” del tempo. In alcuni casi questo tipo di produzione rispecchiava i giudizi tradizionali negativi sulla civiltà turca; più spesso, invece, il contesto “orientale” del racconto offriva l’occasione per la ricerca della dimensione esotica e lo spunto per la fuga dal reale. Il legame tra storia e finzione romanzesca – e dunque il binomio storia-romanzo – giungeva, talvolta, persino al rovesciamento della consueta successione sequenziale: non era l’opera storica – spesso anche in uno stesso autore – a fornire il sostrato architettonico alla narrazione romanzesca, ma era quest’ultima, pur con tutti i suoi limiti, a configurarsi come base per il “lancio” pubblicitario e/o editoriale della ricostruzione storiografica, come è stato rilevato a proposito delle opere di Nicolò Maria Corbelli, il cui romanzo Historia di molti successi e avvenimenti fortunati accaduti nel regno di Fenicia e Armenia (Venezia, Curti, 1688) anticipa e promuove l’uscita del trattato Historia delle guerre d’oggidì overo la luna eclissata, in cui l’autore ricostruiva il conflitto antiottomano avvenuto negli anni tra il 1683 e il 1688 51. Sul versante della traduzione italiana dei romanzi francesi, una notevole fortuna godettero in Italia le opere di Jean de Préchac (1647-1720 circa), e, in particolare, i suoi romanzi incentrati sulle note personalità storiche che proprio in quegli anni agivano nel contesto bellico danubiano, come il gran Vizir ottomano Kara Mustafà, comandante della fallimentare invasione del 1683 52, il “ribelle” ungherese Imre Töcköly, alleato dei turchi 53, o, più in generale, il Pashà

51 L. SPERA, Il romanzo italiano del tardo Seicento: 1670-1700, Firenze, La Nuova Italia, 2000, pp. 60-61. 52 Cara Mustafa Gran Visir. Historia in cui si contiene il suo innalzamento, suoi amori nel Serraglio, [...] portata dal francese dal Pazzaglia. Consacrata all’Illustriss. & Eccellentiss. Sig. Gio. Battista Donato [...] In Venetia, per Steffano Curti [1685 o 1686]. 53 Il conte Techeli. Ragguaglio historico, in cui si ha distinta relatione della sua prima fuga, amori, disperationi, viaggi alla Porta, favori della Sultana, protettione del Gran Signore; [...] Portato dal francese all’italiano da D. Francesco Coli lucchese. [...] In Venetia & Macerata, per il Muti, e Sassi, 1687.

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Seraskier, dal nome della carica di generale in capo dell’armata turca schierata sul campo di battaglia o a difesa di una piazza54. In tutti questi titoli – o almeno nella versione italiana della titolatura di questi testi – faceva la sua comparsa il binomio “storia” – “amore”: veniva, cioè, istituita una relazione tra la figura storica, le cui vicende realmente avvenute il romanzo intendeva narrare, e la dimensione romanzesca, che con il richiamo alle avventure amorose del protagonista l’autore intendeva presentare in primo piano. Lo schema narrativo peculiare dei romanzi di Préchac – che Preto ha liquidato con una formula lapidaria: «un grosso polpettone storico-romanzesco»55 – sembra un vero e proprio canovaccio: ambientato sempre nel contesto di avvenimenti rilevanti, realmente accaduti e di grande attualità, l’intreccio sviluppa una vicenda amorosa motivata nei termini di “storia segreta”, attraverso la quale il lettore viene informato su ciò che è “realmente” accaduto. Poiché si prestano agevolmente a reggere la rigida intelaiatura di questo schema, le guerre contro i Turchi ne costituiscono un argomento privilegiato56. Per quanto invece concerne la produzione originale italiana, va ricordato in primo luogo un testo che all’epoca godette un’ampia circolazione: La turca fedele (1687) di Teodoro Mioni57, probabilmente il primo romanzo storico a soggetto turco di autore veneziano58, la cui fortuna editoriale conobbe ben quattro edizioni nell’arco di un decennio (a Lucca nel 1686; le restanti a Venezia: nel 1687, due volte, e nel 1696). Un romanzo dalla forte vocazione al resoconto storico (evidente già nel sottotitolo, in riferimento all’«intiero ragguaglio di tutto ciò, che di notabile occorse nell’Assedio, e Presa di Buda») e non privo di attenzioni all’approfondimento psicologico dei personaggi. Tra di essi spicca la presenza di un Cavaliere di Malta, la cui inserzione nel contesto narrativo sospinge occasionalmente l’autore verso il recupero di valori e situazioni propri del poema cavalleresco: l’utilizzo della vicenda storica funziona, talvolta, come sfondo per le avventure del “prode cavaliere”, secondo una modulistica tradizionale che troverà ampi riscontri anche nella coeva ed estesa produzione di poemi

54 Il Seraskier Bascià. Historia in cui si contiene il suo inalzamento, suoi amori, la diversita de’ suoi impieghi, ed altre particolarità della sua carica suprema nella difesa delle piazze dell’Ungheria. Portata dal francese da N.N. In Bologna, per gli eredi del Sarti, alla Rosa, 1685. 55 PRETO, Venezia e i Turchi, cit., pp. 281-282. 56 MARASSO – STOURAITI, Immagini dal mito, cit., p. 29. 57 La Turca fedele nella presa di Coron, e suoi accidenti amorosi. Con un succinto racconto fatto da un schiavo della vita, amori fortune, azioni, e disgrazie del famoso Co: Emmerico Techelì. E con l’intiero ragguaglio di tutto ciò, che di notabile occorse nell’Assedio, e Presa di Buda. Del Mioni. In Lucca, per i Marescandoli. Con licenza de’ Superiori [1687]. 58 PRETO, Venezia e i Turchi, cit., p. 282.

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di tipologia eroica59. Ma è forse ne L’esploratore turco (1684) del genovese Gian Paolo Marana60 che, nell’ambito del genere romanzesco e nel vortice di una complessa vicenda compositiva ed editoriale61, l’elemento ottomano riuscì a collocarsi in una dimensione letteraria tale da garantire, al testo che lo veicolava, una circolazione di eccezionale estensione – l’opera era notissima praticamente in tutta Europa, soprattutto nei paesi culturalmente più “avanzati” (Francia, Olanda e Inghilterra) – e la configurazione in modulo e modello narrativo foriero di successive e significative esperienze culturali. Dal punto di vista strutturale, L’esploratore turco è infatti costruito come un romanzo epistolare – impreziosito, inoltre, all’espediente del ritrovamento del manoscritto – che propone al lettore una serie di missive, scritte dal turco Mehmet, un personaggio residente a Parigi, in incognito e sotto mentite spoglie cristiane, e dedito all’attività spionistica per conto della Sublime Porta ottomana. L’analisi dei rapporti tra questo romanzo e le ben più celebri Lettres persanes di Montesquieu è stata oggetto di interessanti e appassionate ricerche: rapporti che, forse, non sono stati ancora del tutto chiariti62. Il romanzo di Marana costituisce un ulteriore esempio paradigmatico dell’attestazione di veridicità degli avvenimenti proposti, configurandosi in un topos letterario – quello relativo all’insistenza sulla riscontrabilità storica e oggettiva di quanto narrato – che godrà di una fortuna persistente e significativa anche sul versante della lirica coeva63.

59 C. CORRADI, Una curiosa eco veneziana della guerra contro il Turco in Ungheria, in Venezia, Italia e Ungheria nel contesto del Barocco europeo, cit., pp. 193-215; SPERA, Il romanzo italiano del tardo Seicento, cit., pp. 140-144; MARASSO – STOURAITI, Immagini dal mito, cit., p. 52. 60 L’Esploratore Turco e le di lui Relazioni segrete alla Porta Ottomana scoperte in Parigi nel Regno di Luigi il Grande. Tradotte dall’Arabo in Italiano, da Gian-Paolo Marana; e dall’Italiano in Francese da ***. Contengono le più nobili azioni della Francia, della Christianità, dall’anno 1637, fino al 1682. Tomo Primo. In Parigi, appresso Claudio Barbin, 1684. Con Privilegio del Re. 61 Alle iniziali trenta lettere dell’edizione parigina del 1684 se ne aggiunsero ben presto altre, non tutte di sicura attribuzione. Guido Almansi e Donald Warren hanno curato la pubblicazione del materiale epistolografico di certa paternità maraniana in «Studi Secenteschi», IX (1968), pp. 165-257, lettere 1-18; X (1969), pp. 243-288, lettere 19-30; XI (1970), pp. 75165, lettere 31-42; XII (1971), pp. 325-365, lettere 43-48. Una selezione antologica è inoltre riportata in Romanzieri del ’600, a cura di M. Capucci, Torino, UTET, 1974, pp. 765-802. 62 Cfr. su questi aspetti P. TOLDO, Dell’Espion di Giovanni Paolo Marana e delle sue attinenze con le Lettres Persanes, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», XXIX (1892), pp. 46-79 e G. ALMANSI, «L’esploratore turco» e la genesi del romanzo epistolare pseudoorientale, in «Studi secenteschi», VII (1966), pp. 35-65. 63 Su questo romanzo vedi G. C. ROSCIONI, Sulle tracce dell’«Esploratore turco». Letteratura e spionaggio nella cultura libertina del Seicento, Milano, Rizzoli, 1992. Una diversa angolatura muove invece il bel contributo di S. ROTTA, Gian Paolo Marana, in La let-

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Osservare la letteratura attraverso la lente della storia, e la storia attraverso la lente della letteratura: la potenziale rilevanza critica dei riscontri effettuati con un’analisi non pregiudiziale – sul piano estetico – di questi testi risulterebbe forse più evidente se, come è stato proposto, «dal terreno puramente letterario, ove il giudizio, in ultima analisi, non può essere che quello di “valore”, sorretto da tutte le giustificazioni storiche possibili, ci si trasferisce in un campo più vastamente storico, ove altri criteri insorgono, quali quelli riguardanti le testimonianze dell’opinione pubblica, del costume, del gusto, della civiltà, oppure della letteratura e della pubblicistica occasionale, celebrativa e di propaganda, che rivelano sintomi interessanti le disposizioni e il clima di un particolare momento storico». In questo senso, dunque, anche di fronte alla riconoscibile (e riconosciuta) mediocrità degli esiti artistici, e alla vuota ripetitività delle situazioni e delle formule narrative su cui questi testi poggiano, sembrerebbe «inopportuno assumere un atteggiamento di rifiuto»64.

teratura ligure. La Repubblica aristocratica (1528-1797), vol. II, Genova, Costa & Nolan, 1992, pp. 153-187. Cfr. inoltre PRETO, Venezia e i Turchi, cit., p. 281; SPERA, Il romanzo italiano del tardo Seicento, cit., pp. 54-55 e 108-111; MARASSO – STOURAITI, Immagini dal mito, cit., pp. 114-116. 64 Ripropongo qui alcuni «chiarimenti di metodo» esposti in TURCHI, Riflessi letterari in Italia della battaglia di Lepanto, cit., p. 388.

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quell’eterna, e sempre benefica Provvidenza, che rinovò al Mondo nella pietà d’Innocenzo l’innocenza di Pio, rinova, e multiplica sul Danubio i prodigj di Lepanto… Francesco De Lemene

1. Da Lepanto a Vienna Nel contesto europeo, le guerre turche fornirono un contributo prezioso e attivo per l’instaurazione di un nuovo “clima” culturale, per l’individuazione di nuove modalità di approccio alla cultura dell’“altro” e per la creazione di modelli interpretativi non tradizionali, verso molti dei quali l’incipiente Età dei Lumi potrà – e dovrà – ritenersi debitrice. Sul piano letterario, negli anni successivi alla vittoria di Vienna si assistette a una fioritura poetica assai ampia, senz’altro più consistente, sul piano quantitativo, rispetto a quella prodottasi nell’autunno del 1571 grazie alla risonanza del successo lepantino. Quest’ultimo, per quanto strepitoso, era rimasto un episodio isolato, sia sul piano militare che nel quadro dei rapporti di forza tra Europa e Turchia: sostanzialmente, il “dopo Lepanto” non mutò la situazione geopolitica precedente. Nel volgere di pochissimi anni, dunque, da evento cronachistico urgentemente attuale, il richiamo a Lepanto si era mutato in fatto storico, meno coinvolgente dal punto di vista emotivo. La conseguenza, comprensibile, fu una costante quanto implacabile decaduta dell’opzione lepantina nella scala degli interessi tematici degli autori italiani del tempo, tanto che il regesto più recente attesta già al 1573 il termine della produzione poetica direttamente ascrivibile all’eco della vittoria. La liberazione di Vienna dall’assedio ottomano del 1683 costituì, al contrario, il primo (e più celebre) di una nutrita serie di episodi bellici che proseguirono per molti anni ancora: fino al 1698 una prima fase, chiusa con la pace di Carlowitz,

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cui fece seguito una ripresa, analogamente intensa e coinvolgente, negli anni 1715-18, conclusa con i trattati di Passarowitz1. L’argomento militare, tra la fine del Seicento e il primo ventennio del Settecento, ebbe dunque modo di rappresentare l’opzione tematica più attuale e attualizzante, e non solo sul fronte turco. Gli importanti conflitti intestini che in quegli anni procedevano a delineare una nuova geografia dell’Europa risultavano, infatti, temi altrettanto urgenti nella riflessione e nell’elaborazione letteraria dei contemporanei. L’esito della Glorious Revolution inglese del 1688 – il rovesciamento dinastico-religioso che vide la caduta dei cattolici Stuart e la conquista del trono da parte del protestante Guglielmo d’Orange – offrì una nuova possibilità di sfogo a quanti volevano coniugare fervore religioso, intenzione polemico-denigratoria, creatività poetica e dimensione iperattualizzante. Durante le fasi preparatorie delle varie campagne contro gli ottomani a Est – scandite da una condotta militare più prudente e dunque meno clamorosa – gli avvenimenti del Nord spingevano i cattolici del tempo a operare una curiosa e significativa sovrapposizione letteraria delle due figure, quella del turco musulmano e quella del protestante riformato. In quei testi, il secolare nemico esterno cedeva il passo a quello, altrettanto pericoloso, interno; l’«empietà» protestante e l’«infedeltà» nordeuropea prendevano il posto di quella «macomettana» e orientale; e la riconquista da portare a termine non era più quella, utopica, di «Bizanzio», della «Tracia», o del «Sepolcro di Cristo», bensì quella, assai meno ambiziosa, dell’«Anglia» e del fragile trono di Giacomo II Stuart. L’apparato simbolicoallusivo tipico (e topico) del ritratto dell’eroe cristiano in procinto di far strage di infedeli musulmani trovava dunque una riconnotazione agevole e decisamente non problematica in chiave antiprotestante, come per esempio si può leggere in un sonetto di Lodovico Adimari a Luigi XIV, il sovrano europeo meno coinvolto nella questione antiottomana: l’invito a proseguire il conflitto contro i protestanti inglesi appena insediatisi alla guida dell’Inghilterra («Gran Regnator, le trionfanti prore, / Vinto il Belga infedel, volgi al Brittanno, / Che là ti chiama a vendicar l’inganno / D’un Re tradito il Tuo Regale Onore») si snoda infatti attraverso la medesima immagine “erculea” rintracciabile nel repertorio turchesco («L’Idra infernal, che sparge ira, e furore / Sia bel Trofeo del Tuo guerriero affanno; / Tu il Mostro abbatti, e ne compensa il danno, / Tu che d’Alcide hai la Andrew Wheatcroft individua «un’infilata di sei miracolose vittorie» che scandirono il conflitto austro-ottomano alla fine del Seicento: la liberazione di Vienna nel 1683; la conquista di Buda nel 1686; la cosiddetta «seconda Mohács», la battaglia di Nagyhársany, del 1687; la riconquista (temporanea) di Belgrado nel 1688; la battaglia di Slankamen del 1691; la battaglia di Zenta del 1697. Vent’anni dopo, furono le vittorie di Eugenio di Savoia, a Petrovaradin nel 1716 e a Belgrado nel 1717, a segnare la ripresa del conflitto e a portare a compimento la riconquista austriaca dell’Ungheria (WHEATCROFT, Il nemico alle porte, cit., pp. 263-269). 1

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Sembianza, e il Core»)2. Pochissimi anni dopo, inoltre, la crisi per la successione dinastica spagnola seguita alla morte di Carlo II Asburgo (1700) coinvolse quasi tutti gli Stati europei e offrì, ancora una volta, con l’eco di battaglie altrettanto strepitose (una su tutte: quella svoltasi a Blenheim nel 1704, che vide gli anglo-austriaci del duca di Marlborough e del principe Eugenio infliggere una decisiva sconfitta ai franco-bavaresi del duca di Tallard e dell’Elettore di Baviera Massimiliano Emanuele) e con l’inasprimento delle tensioni tra filoborbonici e filoasburgici, tra filofrancesi e filoimperiali, che ne seguì, un’ulteriore possibilità di opzione tematica (talvolta codificata, più spesso vagamente allusiva) e di declinazione letteraria. Il «plebiscito» letterario ottenuto dagli eventi militari del tempo, e in particolare per ciò che concerneva il fronte orientale e ottomano, poteva innestarsi su un tronco linguistico, stilistico, strutturale e formale ormai consolidato, costituito dalla produzione lepantina. Un primo percorso d’indagine, quindi, si soffermerà sul ruolo – letterario, propagandistico e culturale – che l’antecedente lepantino giocò all’interno dell’ampio panorama testuale viennese. Il collegamento – ideale e ideologico; reale e realizzato – tra il successo continentale del 1683 e la vittoria mediterranea del 1571 era del resto ben presente, prima ancora che nelle fantasiose ricostruzioni dei poeti, nelle intenzioni delle autorità pontificie, le quali non persero tempo a mobilitare il loro imponente apparato propagandistico per rievocare, nello spirito dei cattolici, le sensazioni di un passato glorioso, da ammirare e da emulare. Il diarista romano Galeazzo Marescotti testimonia infatti che Innocenzo XI «ha ordinato a’ Maestri di Cerimonie che trovino la memoria delle feste fatte in Roma in tempo di Pio V per la vittoria navale et ha ad imitarle»3; mentre, tra le medaglie fatte coniare dalla Santa Sede nel 1683, quella celebrativa della vittoria di Vienna (FIG. 3) riprendeva l’epigrafe veterotestamentaria («Dextera tua, Domine, percussit inimicum», Esodo, 15:6) che Pio V aveva fatto intagliare nella medaglia da lui voluta per comme-

2 L. ADIMARI, Supplica il Gran Re doppo la Vittoria navale [contro gli Olandesi] a proseguir la Guerra validamente contro gli Inglesi per lo stabilimento della Fede, in Poesie di Lodovico Adimari Patrizio Fiorentino e Gentiluomo della Camera del Serenissimo di Mantova. Alla Maestà del Gloriosissimo e Cristianissimo Re Lodovico XIV il Grande. S.n.t. [ma Firenze, nella Stamperia Granducale, 1693]. Alcuni esempi – scelti a caso tra i tanti – di declinazione turca dell’allusione erculea; in riferimento a Giovanni III: «Vadan dunque d’Alcide in muto oblio / le dure imprese, i fortunati affanni; / ch’oggi il Sarmato Rege è l’Ercol mio»; e in riferimento a Leopoldo I: «Pien di Mostri era il Mondo a l’or, che Alcide / Sù tanti Mostri insanguinò la Clava. [...] Che fai Leopoldo Invitto? [...] Armati, ch’è tua gloria ai tempi nostri / questa Ercinia risorta ove Tu siedi, / ché dove Ercole vive han morte i Mostri». 3 G. MARESCOTTI, Avvisi di Roma, Roma, Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele II”, Fondo Vittorio Emanuele, vol. 787, p. 39b.

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morare il felice esito di Lepanto4. Né va trascurato il fatto che proprio in quegli anni si dibatteva in Vaticano la fase più accesa del processo per la canonizzazione di Pio V, il quale era stato beatificato nel 1672 e verrà poi canonizzato nel 1712, sotto Clemente XI Albani: è stato infatti evidenziato quanto la “profezia” del successo lepantino attribuita a papa Ghislieri nelle agiografie successive abbia costituito un elemento “politico” abilmente modulato in direzione della sua santificazione5. Oltre che nelle strategie propagandistiche del papato – un papato nuovamente in primo piano sulla scena europea in qualità di collante ideologico e politico di diverse e spesso in contrasto entità statali, come altre medaglie pontificie coniate in quegli anni non mancavano di ribadire (FIG. 4 e FIG. 5)6 – l’elemento lepantino acquistava un rilievo tutto particolare anche in sede letteraria. Mentre Francesco De Lemene, consacrando il suo Dio. Sonetti, ed Hinni del 1684 al «Vicedio» Innocenzo XI, affermava compiaciuto che «quell’eterna, e sempre benefica Provvidenza, che rinovò al Mondo nella pietà d’Innocenzo l’innocenza di Pio, rinova, e multiplica sul Danubio i prodigj di Lepanto»7, Vincenzo da Filicaia, in apparente contrasto con il cerimoniale vaticano, ne faceva invece una sorta di exemplum vitandum all’interno di una riflessione sto-

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Serie dei conj di medaglie pontificie da Martino IV fino a tutto il Pontificato della San. Mem. di Pio VII esistenti nella Pontificia Zecca di Roma. Roma MDCCCXXIV. Presso Vincenzo Poggioli Stampatore Camerale: a p. 27, n° 96, si legge l’iscrizione per la medaglia del 1571; a p. 95, al n° 341, quella per Vienna (che riporto in appendice). Sull’argomento cfr. F. BORTOLOTTI, La medaglia annuale dei Romani Pontefici da Paolo V a Paolo VI, Rimini, Stabilimento Grafico Cosmi, 1967, pp. 84-96; G. GORINI, Lepanto nelle medaglie, in Il Mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce di Lepanto, cit., pp. 153-162; L. GALLAMINI, Innocenzo XI, i Turchi ed «Il Turco Cristianissimo di Versailles», in «Cronaca numismatica», a. XI, n. 108 (maggio 1999), pp. 66-68. 5 CAFFIERO, La “profezia di Lepanto”. Storia e uso politico della santità di Pio V, cit., pp. 108-109. 6 Cfr. Serie dei conj di medaglie pontificie, cit., nn. 342 e 343, pp. 95-96, riferite alla creazione della seconda Lega Santa. Entrambe le medaglie sono del 1684, anno dell’istituzione della Sacra Lega, e riproducono il “quartetto” di alleati. Nella prima (FIG. 4), il dritto recita l’iscrizione INNOC XI PONT LEOP I IMP IOA III REX PO M A IVS VE DVX, e l’alleanza è rappresentata dai busti accollati dei regnanti: da sinistra, Innocenzo XI papa, Leopoldo I imperatore, Giovanni III re di Polonia e Marcantonio Giustinian doge di Venezia; il rovescio recita VNIVIT PALMAMQVE DEDIT e vi è raffigurata l’Aquila bicipite in volo, con tutti i riferimenti ai partecipanti e con la somma protezione della Croce raggiante in cielo. Nella seconda medaglia (FIG. 5), opera di Giovanni Hamerani, il rovescio recita HABETO NOS FOEDERATOS ET SERVIEMVS TIBI; su di un’ara sono raffigurati i copricapo dei quattro alleati, irradiati dalla colomba dello Spirito Santo. 7 Dio. Sonetti, ed Hinni consagrati al Vicedio Innocenzo Undecimo Pontefice Ottimo Massimo da Francesco de Lemene. In Milano. Per Camillo Corrada vicino a S. Sebastiano 1684. Con Licenza de’ Superiori, pp. xvi-xvij.

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rica in cui il clamore della propaganda religiosa (e della sua evidente strumentalizzazione) non poteva e non doveva ridurre al silenzio la coscienza politica, e nel solco di un topos storico-letterario relativo all’incapacità, riscontrabile in alcuni illustri victores dei tempi andati, di sfruttare pienamente la vittoria: Non chi vittoria ottiene, Ma chi ben l’usa, il glorioso nome Di vincitor ritiene. Nella naval gran Pugna, onde divenne Lepanto illustre, e per cui rotte, e dome Fur le Sitonie Antenne, Vincemmo, è ver; ma l’Idumee catene Cipro non ruppe unquanco, Vincemmo, e nocque al vincitore il vinto8.

Gli esempi di De Lemene e Filicaia costituivano comunque alcuni dei tutto sommato rari casi in cui il termine «Lepanto» veniva esplicitamente nominato all’interno di un testo “viennese”. Alla scarsa incidenza, sul piano statistico, del richiamo verbale si affiancava tuttavia una singolare convergenza tra le due produzioni – ed è questo il dato su cui sembra opportuno riflettere – di elementi “esterni” (strutturali e formali) e, seppure in misura minore, di rilievi “interni” (tematici). Si tratta di una convergenza che spinge a presupporre, nei cantori del successo viennese, una non dissimulata dimestichezza con ampi aspetti del repertorio precedente, e un’evidente disponibilità a estrarre, da quel medesimo repertorio, modelli tematici, stilistici e strutturali ai quali attingere e ai quali ispirarsi per molte opzioni poetiche e narrative. 2. Tra fogli volanti e architetture antologiche: i luoghi della partecipazione Alcune osservazioni preliminari dovrebbero essere riservate ai luoghi della partecipazione poetica – intendendo, con questo termine, i diversi contesti in cui si trovano a essere “materialmente” incardinati i componimenti poetici. Di un certo interesse risulta l’evidente dissonanza che intercorre tra l’appartenenza “esteriore” di molte edizioni alla stampa cosiddetta “popolare” – i cui caratteri 8 V. DA FILICAIA, Per la vittora degl’Imperiali, e Pollacchi sopra l’Esercito Turchesco, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna di Vincenzo da Filicaia Accademico della Crusca al Serenissimo Granduca di Toscana. In Firenze, per Pietro Matini, MDCLXXXIV. Con licenza de’ Superiori, p. 19. Il topos è quello, mutuato da Tito Livio, relativo alle vittorie di Annibale («[Maharbal:] Vincere scis, Hannibal, sed victoria uti nescis»: Ab Urbe condita, XXII, 51, 4) e canonizzato, nella tradizione italiana, da Petrarca («Vinse Hanibàl, et non seppe usar poi / ben la vittorïosa sua ventura»: RVF, CIII, 1-2).

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principali, per il periodo tra il ’500 e il ’700, sono stati individuati nel ripetersi degli stessi piccoli formati, dei medesimi caratteri, di un analogo tipo di impaginazione, come anche il prevalente anonimato – e il contesto non sempre “basso” e popolare dei testi accolti o dei loro autori. La riconosciuta eccezionalità degli eventi politico-militari in corso favorisce una diffusione capillare di questa produzione, conseguita attraverso diverse modalità editoriali. In primo luogo, per l’alta incidenza statistica sul repertorio, va ricordata la circolazione “sciolta” di singoli testi sotto forma di plaquettes e fogli volanti. Nel contesto viennese del 1683 – e fino a quello, successivo, delle campagne condotte in oriente da Eugenio di Savoia nel 1697 e negli anni tra il il 1716 e il 1718 – questo tipo di circolazione è appannaggio peculiare dei testi (quasi sempre anonimi o dalla paternità vagamente indicata, e spesso pubblicati contemporaneamente in più luoghi) dalla vocazione al “consumo” immediato – come le «relationi» dei diversi fatti d’arme9 o i «ragguagli» riferiti a particolari aneddoti della condotta militare10, oppure i vari «diarii» narranti le vicende di un particolare assedio o, più in generale, la vita quotidiana all’interno dell’accampamento11 – o la cui finalità principale, se non esclusiva, è ricondotta alla lode del protagonista della vicenda militare o del dedicatario cui la rievocazione di quella vicenda è offerta. La Biblioteca Nazionale di Roma conserva un volume miscellaneo che raccoglie una consistente quantità di “fogli volanti”, tutti pubblicati nel primo ventennio del ’700 e in gran parte ascrivibili all’eco per le vittorie del principe Eugenio di Savoia nel teatro marziale serbo-ungherese12. Un paradigmatico

Si vedano, per esempio, Vera relatione del combattimento, e vittoria ottenuta dall’armi Cesaree, e Polacche contro gli Ottomani sotto Vienna. Venuta li 24 Settembre 1683. In Vienna, Appresso Gio: Van Ghelen. 1683. E di nuovo in Macerata, nella Stamperia di Carlo Zenobj. Con Licenza de’ Signori Superiori; Distinta relatione di quanto è seguito nella presa di Buda, li 2 settembre 1686. E della prigionia di uno de’ primi uffitiali di detta città con la morte del Palo data ad un sergente christiano scappato in Buda in tempo dell’assedio. Descritta da un comandante in Vienna. In Venetia, Bologna, & in Todi, per il Galassi, 1686; 10 Come in [F. LEONE] Ragguagli dell’origine della Guerra di Ungaria. Dell’assedio di Vienna, delle Vittorie ottenute contro il Turco in Austria, in Ungaria [...] nell’anno 1683 [...] In Venetia, appresso il Giunta. Si vendono da Francesco Leone libraro in piazza Madama, 1684. 11 La vicenda della nascita e della diffusione del celebre «Chracas», a Roma, è esemplare a questo proposito. Il primo numero uscì il 5 agosto del 1716 e, fino al numero 212 del 12 ottobre 1718, mantenne la titolatura originaria di «Diario Ordinario d’Ungheria», con esplicito riferimento al contenuto della pubblicazione: il racconto delle evoluzioni militari nelle terre magiare. In seguito, grazie all’ampliamento del panorama tematico di riferimento (non più solo notizie dal fronte militare ungherese), essa fu abbreviata in «Diario Ordinario» e infine, successivamente, in «Diario di Roma». Cfr. SÁRKÖZY, L’eco letteraria italiana delle guerre contro i Turchi in Ungheria, cit., pp. 365-366. 12 Roma, Biblioteca Nazionale Centrale “Vittorio Emanuele II”, collocazione 34.9.I.1. 9

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esempio di «plebiscito» letterario e culturale, da cui si evince il ruolo di primo piano agito dagli stampatori nel farsi promotori (spesso in prima persona) e nel veicolare l’irruenza letteraria attraverso stampe in cui, oltre il prevalente anonimato, è la cospicua serie di varianti a far pensare a una dimensione letteraria in cui il confine tra autore e stampatore è oltremodo labile, e in cui il dato testuale si caratterizza per l’estrema fluidità, per una sorta di (in)consistenza magmatica in cui va ravvisata una delle cifre peculiari di questa produzione. Ne è testimone, per esempio, lo stampatore romano Bernabò, che pubblicò, nel 1716, un foglio volante dal titolo Alla Santità di Nostro Signore Papa Clemente XI. Nelle presenti Vittorie contro il Turco, contenente un sonetto anonimo13. Il medesimo titolo veniva poi utilizzato dal Bernabò in un’altra sua pubblicazione (di poco successiva, ma sempre datata 1716), contenente una corona di quattro sonetti inneggianti alle stesse vittorie, il primo dei quali si presenta come una versione fortemente variata del testo pubblicato in precedenza14. Le varianti, che coinvolgono in misura maggiore le terzine della sirma, tradiscono comunque l’intenzione di non separare i due testi dal punto di vista dell’allestimento fonico-visivo: viene mantenuto il medesimo impianto fonico (le rime anto e -igli) e, se non la successione, almeno la riproposizione degli stessi termini in rima (Consigli, Figli, perigli, tanto e Pianto compaiono in entrambi i testi; solo vanto, nel secondo, sostituisce quanto). Un analogo rigore non appartiene però alla costruzione tematica del nuovo testo. Nella prima versione del sonetto la lode, secondo una formula di provata tradizione nel repertorio testuale viennese, è diretta a una “triade” di protagonisti (il papa, l’imperatore e il generale vittorioso), e incrocia aspetti celebrativi pontifici e austriaci («Con la Penna, con l’Oro, e co i Consigli, / Clemente oprò da Padre; Ed oprò tanto, / Che trionfò nella Pietà de i Figli. / Mente di Carlo! È teco Eugenio; Oh quanto / Da Voi l’Europa aspetta! I suoi perigli / Or l’Asia vede, e l’Ardir cangia in Pianto»). Nella seconda versione, con l’abbandono dei rinvii “imperiali” a Carlo VI e a Eugenio di Savoia e del tema apparentemente poco lirico dell’«Oro» (del tema, cioè, delle elargizioni di grosse somme di denaro concesse dal Vaticano ai regnanti impegnati nella guerra col Turco), l’elogio esclusivo al pontefice non concede spazio agli altri protagonisti («Tal’era nostra sorte, e dubbia tanto, / Che se torna il Pensiero a i gran perigli / La timida memoria invita al Pianto. / Ma frà tante sventure; Opre, e Consigli / Unì Clemente a i Voti; Ed ebbe il vanto / Di trionfar nella Pietà de i Figli»). Sempre nel 1716, infine, il sonetto compare, senza ulteriori varianti testuali, nella sottosezione “turchesca” del terzo tomo delle Rime degli Arcadi, pubblicate dallo stampato-

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Ivi, collocazione 34.9.I.1.247. Ivi, collocazione 34.9.I.1.249.

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re De Rossi, tra i componimenti di Fenicio Larisseo, pseudonimo del Pastore Arcade Acclamato Cardinale Benedetto Pamphili15. Tra le altre modalità di “incardinamento” dei componimenti celebrativi delle vittorie turche nel panorama editoriale del tempo, oltre alle presenze formalmente allotrie, che espletano la funzione di corredo paratestuale di testi “altri”, assumono un rilievo tutto particolare le inserzioni in canzonieri evidentemente già allestiti: inserzioni o “isole” tematicamente estranee, che si configurano tuttavia come necessaria concessione all’attualità degli eventi e marca di modernità del prodotto, anche a costo di un innesto vistosamente incongruo rispetto al resto16. Rilevante, a questo proposito, risulta un’operetta del letterato reatino Loreto Mattei17, sfuggita all’attenta perlustrazione archivistica di Gianfranco Formichetti18. Noto traduttore dei Salmi (fu autore del famoso Salmista toscano che in quegli anni stava suscitando tante polemiche) e di numerosi testi classici, Mattei dava alle stampe, nel 1686, la sua traduzione («parafrasi») dell’Arte Poetica d’Horatio aggiungendovi, già nel titolo, alcune compositioni Poetiche sopra alle presenti Vittorie contro il Gran Turco 19. Il volumetto comprendeva, oltre alle 103 ottave della traduzione, diversi componimenti, tra i quali un’ode «per il buon capo d’Anno» dedicata all’imperatrice Eleonora (intitolata Le Vittorie Cesaree nella Rotta dell’essercito Ottomano, e la liberation di Vienna, & altri progressi) e una serie di sei sonetti sul medesimo argomento. Cinque di essi erano tuttavia già stati pubblicati in due importanti sillogi, entrambe del

15 Rime degli Arcadi. Tomo terzo. All’Altezza Serenissima del Principe Eugenio di Savoja. In Roma, per Antonio Rossi alla Piazza di Ceri. 1716. Con licenza de’ Superiori, pp. 377-380. 16 MAMMANA, Lèpanto. Rime per la vittoria sul turco, cit., pp. 54-55. 17 Su cui cfr. G. VINCENTINI, Vita di Loreto Mattei Reatino detto Laurindo Acidonio, in Le Vite degli Arcadi illustri scritte da diversi Autori e pubblicate d’ordine della Generale Adunanza da Giovan Mario Crescimbeni Canonico di S. Maria in Cosmedin, e Custode d’Arcadia. Parte Seconda, All’Eminentissimo, e Reverendissimo Principe il Cardinale Pietro Ottoboni Vicecancelliere di S. Chiesa. In Roma, Nella Stamperia di Antonio de’ Rossi alla Piazza di Ceri, 1710. Con licenza de’ Superiori, pp. 165-194; ELASGO CRANNONIO, Loreto Mattei, in Notizie Istoriche degli Arcadi morti. Tomo terzo. All’Eminentiss., e Reverendiss. Signore Francesco De Vico Prelato Domestico di N.S. Votante d’ambedue le Segnature, e Segretario della Sacra Congregazione della Disciplina Regolare. In Roma, Nella Stamperia di Antonio de Rossi, 1721. Con licenza de’ Superiori, pp. 122-127; In onore di Loreto Mattei nel secondo centenario della morte, Rieti, Tip. Trinchi, 1905; F. DI GREGORIO, Introduzione, in L. MATTEI, Sonetti, Rieti, Il Velino, 1976. 18 G. FORMICHETTI, Inediti di Loreto Mattei, in «La Rassegna della letteratura italiana», LXXXIII (1979), pp. 181-224. 19 Arte poetica d’Horatio parafrasata da Loreto Mattei Nobil Reatino con alcune compositioni Poetiche sopra alle presenti Vittorie contro il Gran Turco. In Bologna, MDCLXXXVI. Per gli HH. di Gio: Recaldini. Con lic. de’ Sup.

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1684: gli Applausi poetici per la liberazione di Vienna raccolti ed editi da Francescantonio Tinassi, a Roma, e le Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, apparse a Venezia, sulle quali mi soffermerò più avanti. Colpisce allora la vistosa incongruità di questo innesto, che non solo non appare dettato da urgenze o necessità di pubblicazione, ma soprattutto coinvolge testi già circolanti e per di più riferiti a eventi bellici che – fatta salva la loro risonanza sempre attuale (le «presenti Vittorie contro il Gran Turco») – erano stati “oscurati”, giorno dopo giorno, dai successivi progressi militari, fino a quel punto inarrestabili, e dalla conquista dell’Ungheria, ormai quasi definitivamente compiuta. Alla capitolazione di Buda, avvenuta il 2 settembre 1686, Mattei dedicava del resto – come si vedrà – altri componimenti, rimasti inediti, molti dei quali in dialetto reatino. Le testimonianze più eloquenti di un’inserzione tutto sommato forzata di testi in contesti eterogenei provengono senz’altro dai tomi terzo e settimo delle Rime degli Arcadi. Uno degli spunti di ricerca più affascinanti, nell’ambito degli studi sull’Arcadia, potrebbe essere costituito dall’indagine sulle modalità di “selezione”, nell’allestimento del prodotto antologico, operata dai curatori – o meglio dal curatore: Crescimbeni – a proposito degli autori in esso inseriti. Furono veramente ed esclusivamente i “meriti” artistici a garantire la presenza poetica – e forse, in ultima istanza, la sopravvivenza letteraria successiva – dei vari letterati cui fu concesso spazio in quei pur poderosi tomi? Risulterebbe inoltre interessante indagare le strategie attraverso le quali venne approntata la selezione antologica all’interno del corpus poetico di un autore una volta che la direzione dell’accademia avesse optato per la sua inserzione. Quali furono i criteri – o meglio: furono solo i criteri letterari a influire nella scelta selettiva dei vari testi? E se, di conseguenza, ragioni estranee alla genuina “letterarietà” dei testi – e fatta salva l’opportunità, per il prestigio dell’accademia, di alcune presenze forzate e forzose, come aristocratici influenti e potenti religiosi – ne favorirono comunque l’inserzione (e dunque la successiva circolazione, e spesso l’immeritata fortuna), a implicazioni di quale natura rimandava l’atto selettivo/censorio compiuto dal direttivo accademico? Pur riconoscendo la complessità della questione e la cautela con cui è necessario avvicinarsi a simili problematiche, si può però affermare che l’allestimento dei tomi delle Rime degli Arcadi – ma il discorso potrebbe allargarsi anche alle altre raccolte d’argomento arcadico curate da Crescimbeni, come le Vite degli Arcadi Illustri o le Notizie Istoriche degli Arcadi morti – presupponeva, oltre a un’ampia riflessione strategica, propedeutica all’attività di selezione, una cura notevole soprattutto per il risvolto cosmetico di quelle attività preparatorie, rappresentato dalla veste tipografico-editoriale del prodotto. Una veste che, in particolare per quel che riguarda i tomi delle Rime stampati da Antonio De Rossi (tomi I – IX, 1716-1722), tutti sotto la supervisione dell’astuto Crescimbeni, raggiunse picchi di notevole finezza e di riconosciuta eleganza. Colpisce allora, proprio per una sorta di

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inspiegabile contrasto metodologico e strategico, la fretta con cui il Custode Generale e gli alti vertici dell’Arcadia optarono per l’inserzione, nei tomi terzo20 e settimo21, dei componimenti celebrativi delle vittorie sui Turchi ottenute da Eugenio di Savoia nel 1716 (a Petervaradino, il 5 agosto) e nel 1717 (a Belgrado, tra il 15 e il 16 agosto). L’inserzione appare decisamente forzata, dunque, già da un punto di vista tematico: se le Rime costituivano antologie in cui temi, autori e testi venivano “distillati” con estrema cura, in linea con un meditato e lungimirante piano d’azione, quale esigenza rivendicava l’inserzione cumulativa e a valanga di componimenti, alcuni addirittura anonimi, per i quali si sarebbe potuto pensare a un progetto editoriale a parte, come per esempio fecero negli stessi giorni i “rivali” Quirini22? In misura forse maggiore, l’opzione risulta infelice anche dal punto di vista, pratico, della politezza tipografica. L’inserzione tardiva e urgente di testi talvolta lacunosi non solo sul piano della paternità recava con sé tutta una serie di risvolti problematici, connessi alle contingenze editoriali e non privi di inevitabili ricadute sull’eleganza e sul decoro del prodotto. Il risultato è un’edizione bifronte, anfibia: per un verso superbamente definita, ma che, nelle sottosezioni d’argomento turco, tradisce sé stessa svelandosi meno impeccabile e meno preziosa di quanto il contesto parrebbe imporre, e soprattutto meno pubblicamente rappresentativa; incapace, in ultima istanza, di corrispondere agli interessi pubblicitari del direttivo arcadico.

20 Varie Rime degli Arcadi in occasione delle presenti Vittorie riportate contra i Turchi dalle Armi Cesareee nel presente Anno MDCCXVI, in Rime degli Arcadi. Tomo III, cit., pp. 341-395. Scrive Crescimbeni nell’avviso alla sezione: «però la Società degli Arcadi ha stimato suo debito di unir tutti quelli [Componimenti], che sono a lei capitati, metterli colla solita approvazione de’ Deputati in fine di questo medesimo Volume nella guisa, che si vede; sì perché col corso del tempo non periscano; sì anche perche quanto agli stampati, gli Autori anno di poi variate delle cose; e quanto a’ manuscritti, non pochi errori vi sono corsi per l’inavvertenza de’ trascrittori: né si è potuto dar loro altro ordine più conforme a quello del rimanente del Volume, perche, come si è detto, la stampa di questo era già incominciata» (p. 342). 21 Varie Rime degli Arcadi in occasione della disfatta dell’Esercito Turchesco, e della conquista di Belgrado fatta dalle Armi Cesaree nel presente Anno MDCCXVII, in Rime degli Arcadi. Tomo settimo. Alle Altezze Sereniss. de’ Principi Filippo Maurizio, e Clemente Augusto di Baviera. In Roma, per Antonio de Rossi alla Piazza di Ceri. MDCCXVII. Con licenza de’ Superiori, pp. 347-382. Si legge sempre nell’avviso: «Or siccome i Deputati di questa Raccolta vollero, che i Componimenti Toscani del passato anno s’inchiudessero nel Tomo, che allora si stampava; così avendo dato lo stesso ordine per quelli usciti nel corrente, e capitati in Serbatojo, noi gli abbiamo inseriti in questo volume; promettendo di pubblicare le Orazioni, e i Componimenti Latini, altresì recitativi, nella Raccolta, che di simili fatiche si sta già preparando» (p. 348). Quale sia la «Raccolta» cui si fa riferimento in questo passo non mi è stato dato di scoprire. 22 A questo proposito ha scritto pagine illuminanti B. ALFONZETTI, Eugenio eroe perfettissimo. Dal canto dei Quirini alla rinascita tragica, in «Studi storici», I (2004), pp. 259-277.

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3. «Se non l’opera dell’ingegno, almeno la bontà del cuore»: i modi della celebrazione Un’ulteriore, ampia convergenza, sul piano formale, tra la letteratura lepantina e quella viennese può essere riscontrata nella lettura della vittoria come una grande occasione encomiastica, un clamoroso successo cui il mondo delle lettere di allora intese partecipare sprigionando torrenziali energie espressive. Tali energie si concretizzarono in un vero e proprio corpus testuale compatto – sia pure nell’esperimento di una molteplicità di forme e linguaggi – soprattutto dal punto di vista ideologico e nel motivo di un unanimismo occidentale e cristiano finalmente riconquistato con la (ri)costituzione dell’alleanza europea in funzione antiturca e con i risultati concreti e significativi conseguiti dalla sua azione («Non vi è petto così barbaro, che ne’ passati pericoli dell’Austria, non s’habbia sentuto intenerire il cuore per l’afflizione: considerando con tanta pertinacia angustiata dall’Ottomano la forte Vienna; onde rapita da giustissimo Entusiasmo la mente non ha potuto contenersi la Musa di non isfogare parte del proprio dolore; e racchiudere in poche pagine la sterminata ampiezza d’un tanto Marte», scriveva, per esempio, Giovanni Prati23). Tale compattezza manifestata a livello esteriore appare tuttavia in contrasto con la diffrazione degli esiti artistici dei testi prodotti. La celebrazione poetica, vero e proprio «plebiscito», si configura come un fenomeno culturale nel quale l’importante è, e in modo talvolta esclusivo, partecipare: tutti si affrettano a scrivere rime, in una dimensione unitaria nelle intenzioni eppure frastagliata nei risultati, in cui l’omogeneità sostanziale del discorso riconduce la diversità degli esiti all’interno di un medesimo sistema. In particolare, è possibile individuare due esigenze – spesso rivendicate con determinazione nelle sedi testuali e ancor di più in quelle paratestuali delle diverse pubblicazioni – le quali testimoniano efficacemente la netta priorità di una simile urgenza partecipativa rispetto alla possibilità di offrire un prodotto letterario più autonomo ma tardivo. Da una parte si colloca dunque l’esigenza di rivendicazione di tempismo alla propria solidarietà letteraria con il corso della storia, mentre, dall’altra, affiora talvolta l’eventuale giustificazione per la ritardataria adesione a modi, toni e situazioni encomiastico-celebrative che avrebbero potuto essere avvertiti ormai come scaduti e di non più sicura presa sul pubblico24. La ricostruzione dell’iter compositivo delle Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna (1684) di Vincenzo da Filicaia25 – secondo Giosuè 23 G. PRATI, dedica a Marco Antonio Borghese, datata 19 settembre 1683, in [ID.] Vienna assediata dall’Armi Ottomanne, hora gloriosamente liberata. All’Eccellentissimo Signore il Signore D. Marc’Antonio Borghese. In Roma, per Michel’Ercole. 1683. Con lic. de’ Supp. Si vendano in Piazza Madama da Francesco Leone, p. 1. 24 MAMMANA, Lèpanto. Rime per la vittoria sul turco, cit., pp. 29-30. 25 Per un profilo biografico cfr. T. BUONAVENTURI, Vita di Vincenzo da Filicaia Senator Fiorentino, detto Polibo Emonio, in Le Vite degli Arcadi illustri, parte seconda, cit., pp. 61-86;

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Carducci «di certo il meglio della sua preziosa e sonora opera lirica»26 – costituisce un esempio paradigmatico in questo contesto. Lo scambio epistolare intrattenuto con Francesco Redi27 permette infatti non solo di seguire, data per data, i vari “respiri” che portarono alla pubblicazione della prima raccolta poetica filicaiana28, ma anche di percepire, de vultu e nelle sue varie articolazioni, quell’urgenza partecipativa che connotava l’esperienza dei cantori viennesi così come, un secolo prima, era avvenuto per gli autori lepantini. La testimonianza resa da Filicaia nella lettera che inaugura lo scambio con Redi, del 22 settembre 1683, risulta quindi preziosa su più fronti. In primo luogo va considerata l’altezza cronologica della sua stesura: essa offre infatti, a dieci giorni esatti dalla battaglia, un esempio di quella sincera commozione (la «bontà del cuore», la definisce l’autore) che Filicaia, assieme a moltissimi altri poeti del tempo, percepì come impellente durante le fasi finali dell’assedio, e della tempestività con cui egli, anche in questo caso in compagnia di una nutrita schiera di omologhi, si accinse a celebrare la vittoria quando quest’ultima era ancora «non ben confermata». In secondo luogo vanno segnalati i riferimenti all’avanzato stato di ideazione di un testo “gemello” («la compagna») e l’interesse dell’autore affinché la sua composizione circolasse all’interno della corte granducale medicea e tra gli «Amici più intendenti». Come preannunciato, il 29 settembre Filicaia invia a Redi una seconda canzone (la «Canzone della Vittoria»): presentandola al corrispondente, l’autore si riconosce, ancora una volta, il «merito» della tempestività della composizione («per non perdere il merito della prontezza, gliela mando tale quale è, poco importando che i ringraziamenti a Dio sien disadorni, purché sien pronti»), mentre del testo viene sottolineata l’affinità con la canzone precedente («ho procurato, ch’ella renda

M. P. PAOLI, Filicaia Vincenzo, in DBI, vol. XLVII (1997), pp. 658-660. Cfr. inoltre W. BINNI, L’Arcadia e il Metastasio, Firenze, La Nuova Italia, 1968, pp. 37-40; C. DI BIASE, Vincenzo da Filicaia poeta «elegiaco», in ID., Arcadia edificante. Menzini – Filicaia – Guidi – Maggi – Lemene, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1969, pp. 139-262; C. GEDDES DA FILICAIA, Regum maxima, grandiorque regno. Vincenzo da Filicaia cantore di Cristina di Svezia, in Cristina di Svezia e la cultura delle accademie. Atti del Convegno internazionale (MacerataFermo, 22-23 maggio 2003), a cura di D. Poli, Roma, Il Calamo, 2005, pp. 331-342. 26 G. CARDUCCI, Dello svolgimento dell’ode in Italia, in ID., Lirica e storia nei secoli XVII e XVIII. Vol. XV dell’Edizione Nazionale delle Opere di Giosue Carducci, Bologna, Zanichelli, 1936, pp. 1-81: 54. 27 Lettere di Benedetto Menzini e del Senatore Vincenzio da Filicaia a Francesco Redi. Firenze, nella Stamperia Magheri, 1828. Lo scambio relativo ai componimenti turchi, da cui traggo le citazioni, si legge alle pp. 143-197 del volume. 28 Cfr. G. CAPONI, Vincenzo da Filicaia e le sue opere, Prato, Tipografia Giachetti, Figlio e C., 1901, in part. le pp. 51-134, dedicate ai rapporti tra la poesia filicaiana e le guerre turche.

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aria alla sorella, accioché l’una, e l’altra (toltene le differenze accidentali cagionate dalla diversità della materia) si riconoscano per figliuole dello stesso padre»). Tuttavia, benché consapevole dei rischi che solitamente reca con sé una «prontezza» così sfrenata («io non so, s’io mi sarò troppo importuno, o se ho da divenir la cicala di Firenze in tempo d’Autunno»), l’11 ottobre Filicaia manifesta l’intenzione di «cantar qualche cosa anche in lode del Re di Polonia, al quale tutto il Cristianesimo è tanto obbligato»; l’intenzione, anzi, è già in fase di attuazione («io ho già architettato il lavoro, e cominciato a metterci mano»), e il poeta non può far a meno di dichiarare che «spero in Dio benedetto, che ne verrò presto a capo, perché la mente è gravida, e non ha da far altro che partorire». Il 19 ottobre la «Canzone per le lodi del Re di Polonia» è già pronta e prontamente inviata a Redi: anche per essa Filicaia si prodiga, pur dietro il velo dell’ironia, in manifestazioni d’orgoglio («questa sì ch’io raccomando alla protezione di V.S.Ill. con tutta la tenerezza del cuore. Ho preso a lavorare un bel marmo, ma piaccia a Dio, ch’io non l’abbia straziato»). Eppure la vena del poeta non accenna a esaurirsi («le acque della fantasia commosse da potente impulso di così miracolosa vittoria non sono ancora affatto quiete»), forse anche a motivo delle notizie che giungono dalla «Repubblica delle lettere» circa l’attività degli altri letterati («godo di sentire, che le penne più famose s’impieghino in celebrar le glorie di Dio. Se a suo tempo potrò restar favorito d’una copia della Canzone del Sig. Menzini, mi sarà graditissima»): l’idea, quindi, corroborata dall’intenzione di tacere in seguito sull’argomento («poi sigillo la bocca, e non parlo più per un secolo»), è quella di comporre «un’altra sola Canzone in lode dell’Imperatore», testo che viene terminato prima del 29 ottobre. La «Canzone Imperiale» è poi pronta prima del 23 novembre, mentre alla data del 3 dicembre risultano già composte la canzone in lode del Duca di Lorena e la «bagattella, opera di poche ore» con cui Filicaia rispondeva a un componimento di un anonimo romano che lodava le prime canzoni. L’ultimo testo poi incluso nella raccolta, Il ringraziamento a Sua Divina Maestà, venne composto probabilmente nell’aprile del 1684, quando tutto il corpus veniva sottoposto nuovamente al vaglio delle attente letture di Redi e dell’avvocato Francesco Gori in vista della pubblicazione, che vide la luce nel giugno dello stesso anno. Un non dissimile esempio di rivendicazione della propria letteraria solidarietà col corso della storia è offerto, trentasei anni dopo, ancora dalle inserzioni “forzate”, nel terzo e nel settimo volume delle Rime degli Arcadi, del corpus di componimenti relativi alle vittorie di Eugenio di Savoia del 1716-17. Come racconta infatti il Custode Crescimbeni nell’Avviso premesso al Tomo terzo, «mentre si stava stampando il presente Terzo Tomo, essendo sopraggiunta la famosa, e notissima Vittoria ottenuta de’ Turchi al Savo dalle gloriosissime Armi Cesaree, la nostra Arcadia fu la prima a promuoverne le debite lodi nella pubblica Ragunanza tenuta nel suo Bosco a’ 17 del passato mese di Settembre». La

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pretesa del primato poetico viene tuttavia declinata, subito dopo, con una excusatio non petita, in questo caso relativa alla mediocre presentazione editoriale («però la Società degli Arcadi ha stimato suo debito di unir tutti quelli, che sono a lei capitati, metterli colla solita approvazione de’ Deputati in fine di questo medesimo Volume nella guisa, che si vede»)29. Proseguendo l’indagine parallela sui modi della celebrazione, si possono individuare alcuni elementi tematici lepantini che attraversano, spesso intrecciandosi, anche la produzione qui presa in esame. Il più ricorrente di questi elementi, in particolare nella produzione relativa all’episodio viennese, è il tema del “combattente mancato” o, meglio, dello “scrittore-soldato”: come era avvenuto per i cantori della vittoria navale del 1571, la pratica scrittoria può espletare una funzione sostitutiva rispetto a quella attivamente militare, ma al pari eroica e di giovamento alla patria, surrogando in questo modo, con l’ardore poetico, quello civico del combattente mancato per avversità del destino30. Risulta perfettamente riconducibile a questa categoria tipologica, per esempio, la testimonianza del lucchese Domenico Bartoli: Signor, desio guerriero M’accese il sen d’esercitar pugnando Sotto il tuo giusto Impero Per la causa comune, il petto, e ‘l brando; Ma poiche Fato avverso à me s’oppose, Porger à Te dispose La destra mia che di desio non langue, L’Inchiostro almen già che non puote il Sangue31.

Allo stesso modo eloquente risulta, ancora, un’altra testimonianza tratta da Filicaia, il quale non esita ad ampliare il motivo dello “scrittore-soldato” fino a pervenire alla sovrapposizione di esso su un altro motivo tradizionale, quello della poesia come “arma”:

Rime degli Arcadi. Tomo terzo, cit., p. 342 (corsivo mio). MAMMANA, Lèpanto. Rime per la vittoria sul turco, cit., p. 32. 31 [D. BARTOLI] Per il Sig. Conte di Starembergh, che col suo valore hà difesa Vienna dall’Esercito formidabile del Turco, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna dall’Armi Ottomane. Componimenti di varii Soggetti raccolti da Francesco Antonio Tinassi e dedicati all’Eminentiss. e Reverendiss. Signore il Signor Cardinale Benedetto Panfilio. In Roma, per il Tinassi Stampator Camerale. MDCLXXXIV. Con licenza de’ Superiori, e Privileggio, p. 108. Sul Bartoli cfr. N ICASIO PARINIANO , Domenico Bartoli, in Notizie Istoriche degli Arcadi morti. Tomo secondo. All’Eminentiss., e Reverendiss. Monsignor Girolamo Crispi Auditore della Sacra Ruota Romana. In Roma, Nella Stamperia di Antonio de Rossi, 1720. Con licenza de’ Superiori, pp. 354-358. 29

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Gli aspetti formali della celebrazione Ah perché al ferro avvezza Non ho la destra, e in sì famoso aringo L’acciar non vesto, e ‘l brando anch’io non stringo? Ma se imbelle è ‘l mio braccio, ah ver non fia, Che questa penna or, che si trattan l’armi, E che va ‘l Mondo in guerra, in ozio posi; Armerò d’ira, e di vendetta i carmi, E ben mille scoccando Inni animosi Saetterò l’empia Masnada, e ria; Dall’alta fantasia In tuo servigio, ove assoldar ti piaccia, O gran Sir, le mie Muse, a mille a mille Pioveran dardi, e voleran faville: Sù sù varia di lor prova si faccia; Vuoile tu ‘n campo aperto, O vuoi porle in agguati, o vuoi, che in alto Tentino murale assalto? Pronte il faran: più d’uno strale a certo Scopo an drizzato, e più d’un segno colto, E più d’un nome a Libitina an tolto32.

Anche in campo religioso-dottrinale l’idea – in senso lato – del miles Christi, del combattente, cioè, che si avvale di tutti i mezzi a propria disposizione (e quindi anche della parola di Dio) per opporsi all’aggressiva empietà del Turco, si manifesta in forme chiare e decise. Appunto a questo proposito Giorgio Levi della Vida si soffermava sul fervore battagliero di Ludovico Marracci, sottolineando come questi non avesse esitato a presentare sé stesso, nel Prodromus alla sua Refutatio Alcorani del 1691, come un «militem auxiliarem, dum adversus communem hostem sese offert non ferro, sed Verbo Dei decertaturum»33. Un secondo motivo, ricordato in riferimento ai «modi» celebrativi lepantini, concerne le connotazioni paniche della contentezza post triumphum, secondo il tradizionale topos del “tota Natura gaudens”, cui va correlato il motivo del poeta come strumento atto a dar voce ad una felicità universale34. Riporto ancora un esempio viennese tratto dalle Canzoni di Filicaia:

32 FILICAIA, Alla Sacra Cesarea Maestà di Leopoldo I Imperatore, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., pp. 28-29. 33 Cfr. LEVI DELLA VIDA, Ludovico Marracci e la sua opera negli studi islamici, cit., p. 196. 34 MAMMANA, Lèpanto. Rime per la vittoria sul turco, cit., p. 32.

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Salvatore Canneto A te, cui piacque Salvar di nostra eredità gli avanzi, Applaudon l’aure, e l’acque, E dicono in lor lingua: A Dio si dee De gli assalti repressi Il memorando sforzo, a Dio la cura Dell’assediate Mura; Rispondon gli antri, e ti dan lode anch’essi; I Monti, i Monti stessi Par, che a te pieghin la nativa altezza, E di renderti grazie abbian vaghezza35.

4. Tra proclami e smentite: su alcuni exempla antologici La modalità di diffusione multipla dei vari testi, consistente nell’addizionare i singoli “pezzi” negli edifici cumulativi rappresentati dalle antologie, trovava nella raccolta allestita nel 1572 da Luigi Groto, il Cieco d’Adria36, la costruzione antologica più spiccatamente rappresentativa del genere all’interno del variegato panorama testuale lepantino37. Grazie all’allestimento del Trofeo della Vittoria Sacra, l’antologia veniva a determinarsi quale testimone privilegiato di un’esperienza, quale summa di un entusiasmo spontaneo e dirompente, del quale intende fissare il senso complessivo e più genuino. Non è tuttavia l’argomento, esclusivo e precedentemente stabilito, della raccolta a sancire la determinazione tematica dei vari testi; bensì, al contrario, sono i testi stessi, già composti e non privi di una circolazione indipendente, già autodeterminati sul versante

35 FILICAIA, Per la Vittoria degl’Imperiali, e Pollacchi sopra l’Esercito Turchesco, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., p. 17, con geminatio conclusiva, emotivamente connotata per amplificare l’effetto del dettato. 36 Trofeo della Vittoria Sacra, ottenuta dalla Christianiss. Lega contra Turchi nell’anno MDLXXI. Rizzato da i più dotti spiriti de’ nostri tempi; nelle più famose lingue d’Italia; con diverse Rime, raccolte, e tutte insieme disposte da Luigi Groto Cieco d’Hadria. Con uno brevissimo Discorso della Giornata. In Venetia, Appresso Sigismondo Bordogna, et Franc. Patriani [1572]. 37 MAMMANA, Lèpanto. Rime per la vittoria sul turco, cit., pp. 56-82. Non mi risulta che siano apparsi, finora, studi di un certo interesse incentrati sulla costruzione del “libro di poesia” e sui processi selettivi e/o accumulativi operati dagli autori per i secc. XVII e XVIII. Il rimando bibliografico va dunque, ancora una volta, a contributi che si occupano di questi aspetti per l’epoca rinascimentale e manierista: A. QUONDAM, Petrarchismo mediato. Per una critica della forma “antologia”, Roma, Bulzoni, 1974; Il libro di poesia dal copista al tipografo, a cura di M. Santagata e A. Quondam, Modena, Panini, 1989; in part., per alcuni rilievi di tipo teorico e generale, cfr. l’Introduzione (e qualcosa d’altro) di Amedeo Quondam (ivi, alle pp. I-XXII).

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contenutistico, a suggerire, anzi a imporre la costituzione della raccolta: non è insomma il genere a imporsi sulle varie singole forme, ma sono queste ad attivarlo, quasi meccanicamente, e disporsi in antologia. Una dinamica analoga, qualificata dalla spinta centripeta implicita ai diversi componimenti e tendente a una naturale (ri)collocazione antologica, soggiace alle due principali modalità aggregative individuabili anche nel contesto poetico viennese. Si tratta di modalità i cui aspetti peculiari, solo apparentemente in opposizione, trovano testimonianza, da un lato, sul versante delle pubblicazioni accademiche, o meglio sull’intrapresa editoriale che alcune accademie, particolarmente attive nel contesto celebrativo delle vittorie sui turchi, vollero condurre a compimento in attestazione della loro attività; dall’altro, sul versante delle raccolte antologiche autonome, approntate da stampatori scaltri e consapevoli delle enormi possibilità di guadagno (economico e di prestigio) che gli eventi bellici avevano innescato nel panorama editoriale del tempo. Segue un’impostazione strutturale di tipo tradizionale lo stampatore veneziano Giovanni Giacomo Hertz, il quale, avuta (come afferma) «a caso» la notizia di una riunione letteraria degli Accademici Infecondi di Roma, durante la quale furono recitati diversi componimenti per la vittoria viennese, risolse di raccoglierne quanti più gli fosse possibile reperire per approntare una pubblicazione che, si può dedurre, gli garantisse ulteriore notorietà editoriale, oltre che cospicui guadagni; e in ciò, scrisse, «hebbi così buona fortuna, che in breve tempo trovai d’haverne fatta una non mediocre raccolta. E perche il darne a molti le copie mi riusciva di qualche incomodo, risolsi, per sodisfare a ciascheduno, di farne stampare questo volume. Avvisata intanto l’accennata Accademia di questo mio proponimento, se ne compiacque, e volle aggiungervi la precedente Dedicatoria»38. Anche in questo caso, quindi, è la materia preesistente – i canti di giubilo per la vittoria di Vienna e le lodi dei suoi protagonisti – che si impone sul tema, che lo costruisce e lo costituisce. Giacomo Hertz limitava il proprio intervento alla semplice raccolta del materiale poetico circolante e alla pura attività di stampa: dunque, un intervento dal quale risulterebbero estranee articolazioni formali e tematiche riconducibili a precise linee di curatela. Il volume segue, infatti, una costruzione canonica e tradizionale, secondo la quale la divisione in due grandi sezioni, che separano i componimenti italiani (Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma) da quelli latini (Academicorum Infoecundorum Poesis), prelude a un percorso strutturale in cui la successione

38 Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma. Per le felicissime Vittorie riportate dall’Armi Christiane contro la Potenza Ottomana nella Gloriosa Difesa dell’Augusta Imperial Città di Vienna l’anno 1683. Consacrate alla Sacra Maestà Cesarea dell’Imperatrice Eleonora. In Venetia, MDCLXXXIV. Presso Gio: Giacomo Hertz. Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio.

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dei vari partecipanti, in entrambe le sezioni, è impostata seguendo un neutrale ordine alfabetico: mentre le successive Rime degli Arcadi, per esempio, seguiranno quello del nome pastorale (nel Tomo primo: Alessi Cillenio, Alfesibeo Cario, Erilo Cleoneo, e così via fino a Uranio Tegeo), le Poesie degli Infecondi seguono invece l’ordine del nome di battesimo dei vari autori (Alessandro Guidi, Anna Rosalia Caruso, Antonio Francesco Nucci, e così via fino a Tomaso Giuseppe Farsetti)39. Nel caso di autori presenti con più testi, l’architettura seguita da Hertz privilegia poi una successione che procede dal testo più ampio e complesso a quello più breve e immediato (ad esempio: canzone > ode > sonetto). Infine, nel caso di autori presenti con diversi componimenti ma riconducibili tutti allo stesso genere, la successione procede secondo un criterio che prevede, in primo luogo, una distinzione potremmo definire “di merito”: una distinzione, cioè, tra vincitori ideali e strategici (il papa Innocenzo XI e l’imperatore Leopoldo I, cui eventualmente aggiungere il re Giovanni III), ispiratori e coordinatori del percorso che portò al successo, e vincitori reali e tattici (il re Giovanni III, il duca Carlo di Lorena, il conte Ernst von Starembergh, cui eventualmente si aggiunge l’elettore Massimiliano Emanuele di Baviera), veri artefici – sul campo e in prima persona – delle vittoriose imprese militari. In secondo luogo, la distinzione è “di censo” o “di titolo”: procede, cioè, secondo le rigide gerarchie delle “precedenze nobiliari”, come testimoniano, ad esempio, la successione dei sonetti del medico e viaggiatore friulano Nicolò Madrisio40 o dell’abate e librettista calabrese Arcangelo Spagna41. Si tratta, per usare le parole di Amedeo Quondam, di una costruzione che segue un rigoroso cerimoniale gerarchico discendente, in cui

39 La stessa successione (in base al nome di battesimo dell’autore) verrà seguita dagli accademici Quirini, i cui Componimenti in lode di Eugenio di Savoia rinunciano però alla bipartizione italiana-latina: cfr. Componimenti delli Signori Accademici Quirini in lode del Serenissimo Principe Eugenio di Savoja recitati nella Galleria dell’Eminentissimo Corsini in occasione delle Vittorie d’Ungheria l’anno MDCCXVII. In Roma, per Antonio de’ Rossi. Con licenza de’ Superiori, 1717. 40 N. MADRISIO, Alla Santità di Nostro Signore Innocenzio XI; Alla Sacra Cesarea Real Maestà di Leopoldo Imperatore; Alla Sacra Real Maestà di Giovanni III Rè di Polonia; Al Serenissimo Carlo Duca di Lorena; A Sua Eccellenza il Signor Conte di Starembergh, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 279-283. Nicolò Madrisio fu una delle personalità accademiche più attive negli anni a cavaliere tra Sei e Settecento: nel 1704 fu tra i fondatori, a Udine, della Colonia arcadica Giulia. Cfr. P. CAVAN, Niccolò Madrisio viaggiatore: un gentiluomo udinese in Francia ai tempi del Re Sole, Udine, Del Bianco, 1989. 41 A. SPAGNA, All’Eroe del nostro Secolo Giovanni III Rè di Polonia per la insigne Vittoria ottenuta de’ tre Nemici Visir, Teclì, e Budiani; Al Serenissimo Carlo Duca di Lorena della Stirpe del Pio Buglione; Al Conte Ernesto di Starembergh Difensore di Vienna; Al Serenissimo principe Giacomo Figliuolo del Rè di Polonia, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 16-19.

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Gli aspetti formali della celebrazione l’ordine di sequenza è rigido – imposto da un protocollo diplomatico che è soprattutto ideologico – e non consente variazioni o inversioni di rilievo, perché si tratta della gerarchia – conclusa e storicamente non verificabile perché ontologicamente immutabile ed eterna – che regola il mondo stesso in tutte le sue molteplici articolazioni naturali, politiche, culturali; un mondo che si presenta quindi bloccato al suo interno, codificato nelle sue funzioni. Il senso ideologico dell’ordine […] è fortemente aristocratico: non solo perché non c’è spazio se non per chi ha un grado in quella gerarchia precostituita; ma essa è definita in astratto e non può essere sottoposta a verifiche di tipo sperimentale-naturalistico o realistico-storico. Un universo metafisico per eccellenza, insomma; i cui predicati coerentemente si dispongono nello stesso contesto d’astrazione progressiva e tendenzialmente antinaturalistica42.

Il confronto tra la ricostruzione delle fasi della stesura delle liriche viennesi di Filicaia e la loro disposizione nel volume a stampa permette di affermare che, in generale, le Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna furono pubblicate seguendo l’ordine di composizione. Fa tuttavia eccezione un solo caso, assai significativo: quello della canzone al re Sobieski, composta, come si è visto, prima di quella all’imperatore Leopoldo, ma inserita dopo nel corpus edito per ragioni evidenti di necessità encomiastiche. Ciò conferma la vocazione strutturale della raccolta: le Canzoni dimostrano infatti, nella loro addizione in edificio multiplo, una struttura di tipo circolare, che si apre e si chiude nel segno del ringraziamento e delle lodi del nome del Signore (canzoni I-II e VI). L’encomio per papa Innocenzo XI (al quale spetterebbe “di diritto” un componimento direttamente indirizzato, in quanto anima ideologica e politica della resistenza cristiana contro l’assalto ottomano) viene diluito nella prima canzone, mentre ai protagonisti della vicenda militare è dedicata la sezione centrale della raccolta (canzoni III-IV-V). Quest’ultima appare dunque strutturata, in maniera chiara e decisa, secondo un significativo modello architettonico. A un “dittico” d’apertura (Sopra l’Assedio di Vienna e Per la Vittoria degl’Imperiali, e Pollacchi sopra l’Esercito Turchesco), la cui cifra tematica peculiare è risolta nelle lodi in onore di Dio e di colui attraverso il quale Dio ha manifestato la sua potenza, papa Innocenzo XI, fa seguito un “trittico” di componimenti – accompagnati da lettere latine di dedica – incentrati sulla lode dei protagonisti della vicenda (Alla Sacra Cesarea Maestà di Leopoldo I Imperatore; Alla Sacra Real Maestà di Giovanni III Re di Pollonia; All’Altezza Serenissima di Carlo V Duca di Lorena). Chiude la raccolta un “dittico” finale, in cui il poeta pone la propria attività sotto l’ispirazione e l’egida divine (Ringraziamento a Sua Divina Maestà), e poi ridimensiona le lodi “terrene” e mondane tributategli da un anonimo al loro giusto valore di «bella menzogna» «che la Ragione addormenta, e i sensi molce» (Risposta dell’Autore alla Canzone di Nobilissimo Personaggio

42 A. QUONDAM, La parola nel labirinto. Società e scrittura del Manierismo a Napoli, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 82.

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Incognito), secondo un’autorappresentazione in chiave di pia devozione e di profonda moralità più volte ribadita nei vari testi («Non da vana di lode aura sospinto / Il fo, Signor; ma per sovrano instinto. / Quando mi diè la Cetra, / Dissemi il Re dell’Etra: / Su questa i vo’, che de’ mei’ forti, e santi / Eroi l’imprese, e l’opre mie tu canti»43). L’ipotesi dell’esistenza di una molteplicità di piani laudativi, organizzati attorno a due diverse “terne”, che prevedono la costante presenza di due elementi fissi in ciascuna di esse (il papa Innocenzo XI e l’imperatore Leopoldo I da una parte; Carlo di Lorena ed Ernst Starembergh dall’altra) e di uno, per così dire, “mobile” (con la possibilità, per Giovanni III, di inserirsi agevolmente in entrambe, e di essere eventualmente sostituito, nella seconda, da Massimiliano Emanuele di Baviera), trova conferma anche in un «ragionamento», dal titolo I Trionfi delle Armi Cristiane (1684), del letterato romano Stefano Pignatelli44. Il 43 FILICAIA, All’Altezza Serenissima di Carlo V Duca di Lorena, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., p. 65. 44 I Trionfi delle Armi Cristiane per la liberazione di Vienna. Ragionamento di Stefano Pignattelli. In Roma, per Michel’Ercole MDCLXXXIV. Con licenza de’ Superiori. Pochi sono i dati relativi alla sua esperienza biografica e alla sua attività letteraria nella Roma del secondo Seicento. Nato probabilmente negli anni attorno alla metà del secolo, Stefano era nipote del cardinale Antonio Pignatelli, futuro papa con il nome di Innocenzo XII (16911700). Accademico Reale almeno dal 1674 (cfr. M. MAYLENDER, Storia delle accademie d’Italia, 5 voll., Bologna, Cappelli, 1926-1930, vol. IV, p. 406), la sua opera più ambiziosa fu un trattato platonico sulla bellezza, dedicato a Cristina di Svezia, pubblicato nel 1680 (Quanto più alletti la bellezza dell’animo, che la bellezza del corpo. Alla Sacra e Real Maestà di Cristina Reina di Svezia. Trattato di Stefano Pignatelli. In Roma, per Angelo Bernabò, 1680. Con licenza de’ Superiori); fu inoltre autore, in anni giovanili, di un Discorso in lode della elezione della Santità di N.S. Innocenzo Undecimo. Del Signor Stefano Pignattelli Accademico Reale; e da Antonio Bosio dedicato all’Eminentissimo, e Reverendissimo Signor Cardinal Cibo. In Venetia, per Antonio Bosio, 1676. Con Lic. de’ Sup. Fu amico di Francesco Redi, il quale, se da una parte lo citava nel suo ditirambo come «l’erudito Pignatelli», «Cavalier Romano mio riveritissimo Amico, e Litterato di maniere gentilissime» (Bacco in Toscana, v. 121 e annotazione dello stesso Redi), dall’altra confessava in una lettera che «il Sig. Stefano in somma non è poeta» (cfr. Lettere di Francesco Redi Gentiluomo Aretino. Dedicate all’Ill.mo Signor Conte Antonio Beccari. In Firenze, MDCCXXXI, Per Giuseppe Manni. Con Licenza de’ Superiori, pp. 207-208), muovendo così un primo rilievo critico che vede in Pignatelli un apprezzato prosatore ma un mediocre poeta. Ricevette, infine, attestati di stima anche da parte di alcuni dei letterati più importanti del momento. Benedetto Menzini lo elogiava in una missiva allo stesso Redi del 3 novembre 1685 («ho scorto in lui una buona cognizione di cose belle, e notabili, ed ha a memoria di nobili scritti»; in Lettere di Benedetto Menzini e del Senatore Vincenzio da Filicaia a Francesco Redi. cit., pp. 101-102), e gli dedicava una canzone, Stefano, in sul gentil Tosco Elicona, e un epigramma funebre latino, In lividos de obitu Praeclarissimi Viri Stephani Pignattelli, poi inclusi nelle Opere di Benedetto Menzini Fiorentino accresciute, & riordinate e divise in Quattro Tomi. All’E.mo, e R.mo Sig. Cardinale Alamanno Salviati. In Firenze.

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«pregio» dell’opera, secondo le dichiarazioni proemiali dell’autore, andava ravvisato nella sua capacità di soddisfare le due principali aspettative del lettore: ancora una volta, la tempestività della pubblicazione (l’«inchiesta di celebrar una sì memoranda Vittoria, immediatamente dopo ch’ella fosse stata conseguita») e la verità degli eventi narrati (una «vera, ma ignuda immagine di quella Pallade Trionfante; cioè a dire di quella eccelsa Vittoria, che ‘l Ciel diè in sorte di vedere a questo Secolo»); tempestività e verità funzionali alla piena dimostrazione del vero «intendimento» del Ragionamento (più volte ripetuto, a mo’ di refrain, nel corso dell’argomentazione): «il dare a vedere, come qual volta si tratti della causa del Cielo, l’unico nostro interesse dee star riposto in abbassar Noi del tutto ogni nostro interesse»45. L’aspetto peculiare e più interessante di questo testo, evidente anche a una lettura non sistematica, è però rappresentato dalla volontà dell’autore di articolare il proprio discorso su simmetrie e temi fermamente impostati e caparbiamente perseguiti, e sui quali mi soffermerò nei prossimi capitoli. A livello strutturale, il Ragionamento di Pignatelli si avvale con insistenza dell’elemento ternario: tre sono infatti i protagonisti principali della vicenda (Innocenzo XI, Leopoldo I e Giovanni III), alla cui raffigurazione

MDCCXXXI. Con Licenza de’ Superiori, rispettivamente nei tomi primo, pp. 204-205, e quarto, pp. 191-192. La gratitudine era doverosa: come attesta la biografia ufficiale arcadica del poeta, Menzini venne annoverato nell’Accademia Reale di Cristina di Svezia grazie all’interessamento di Pignatelli («soggetto grandemente erudito, ed assai caro a Sua Maestà») e del cardinale Decio Azzolino (cito da G. PAOLUCCI, Vita di Benedetto Menzini Fiorentino detto Euganio Libade, in Le Vite degli Arcadi illustri scritte da diversi Autori e pubblicate d’ordine della Generale Adunanza da Giovan Mario Crescimbeni Canonico di S. Maria in Cosmedin, e Custode d’Arcadia. Parte Prima, Alla Santità di N.S. Papa Clemente XI. In Roma, Nella Stamperia di Antonio de’ Rossi alla Piazza di Ceri, 1708. Con licenza de’ Superiori, pp. 169-188). Anche Vincenzo da Filicaia dimostrò un’inclinazione positiva nei suoi confronti, manifestando a Redi, in una lettera del 25 ottobre 1684, la propria soddisfazione nel vedere le sue rime «applaudite da un letterato di sì celebre, e chiaro grido» (cfr. Lettere di Benedetto Menzini e del Senatore Vincenzio da Filicaia a Francesco Redi, cit., pp. 197201). La sua esperienza fu tuttavia troncata in modo piuttosto improvviso: Menzini testimonia che il 3 novembre 1685 Pignatelli godeva ancora di buona salute e si prodigava in attestati di stima e ammirazione per lo scienziato-poeta aretino (ivi, pp. 101-102), mentre, poco più di due mesi dopo, il 5 gennaio 1686, giaceva «malato d’una, come dicono questi medici, o forse ne dubitano, infiammazione di polmoni, o mal di punta», ed era talmente preoccupato per le proprie condizioni di salute da «desiderare», «con frequenti sospiri», la presenza e le preziose e competenti cure di Redi (ivi, pp. 108-109). Ma era ormai troppo tardi: due settimane dopo, il 19 gennaio, Menzini comunicava la notizia della sua morte (ivi, pp. 111-113) e, in una lettera successiva, confesserà di aver assistito il moribondo ininterottamente nelle sue ultime ore (ivi, pp. 113-115). La notizia colpì molto lo stesso Redi, come attestato in una lettera a Giovan Battista Fossombroni del 25 gennaio 1686 (Lettere di Francesco Redi Gentiluomo Aretino. Dedicate all’Ill.mo Signor Conte Antonio Beccari, cit., pp. 220-222). 45 PIGNATELLI, I Trionfi delle Armi Cristiane, cit., pp. 2-3.

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viene riservata la porzione più ampia del testo; mentre una seconda terna, di grado inferiore nella scala gerarchica dell’opportunità celebrativa ma caratterizzata ugualmente con decisa regolarità, è rappresentata dai principali comandanti militari (Carlo duca di Lorena, Ernst von Starembergh e Massimiliano Emanuele di Baviera). ***** Accanto alle raccolte organiche e opportunamente predisposte da alcuni direttivi accademici – gli Aborriti di Livorno nel 1683 46; gli Infecondi di Roma nel 1684; gli Arcadi e i Quirini di Roma, gli Argonauti di Bologna 47, gli Innominati di Bra48 nel 1716-1717 – una considerevole diffusione godettero, in quegli stessi anni, altri edifici testuali collettanei di diversa tipologia, su cui è opportuno soffermarsi in quanto testimoni di un particolare gusto poetico e, soprattutto, di una consolidata pratica letteraria che rinvia ancora alla produzione lepantina del tardo Cinquecento. L’indagine su alcune costruzioni antologiche allestite all’indomani della vittoria navale ha infatti permesso di rilevare, in alcuni casi, l’evidente chiarezza del disegno costruttivo che informa l’antologia. Avvalendosi di criteri tematici eterodiretti nella giustapposizione dei testi, il curatore incardinava l’elemento testuale preesistente in una serialità di tipo soggettivo, che modificava gli accostamenti originari dei vari elementi poetici, nel contesto di una destrutturazione sistematica che infrangeva gli insiemi originari scorporandoli in nuove unità riplasmate e, in ultima istanza, altre. Si trattava, in sostanza, di una strategia che avvicina la figura del curatore (e/o del tipografo) a quella di un collezionista che procede ad archiviare i suoi “pezzi” secondo criteri spesso a essi esterni. L’operazione condotta da Luigi Groto, il Cieco d’Adria, con l’allestimento della sua antologia, il Trofeo della Vittoria Sacra, costituiva un esempio paradigmatico di tale opzione strutturale49, un modello con il quale 46 Il Valore in Parnasso. Gioie poetiche degl’Accademici Aborriti di Livorno per la vittoria dell’armi Christiane contro l’Ottomane, con la liberatione di Vienna, dedicate all’Altezza Sereniss. di Cosimo III Granduca di Toscana, nella loro Accademia il die 17 ottobre 1683. In Livorno. Appresso Gio. Vinc. Bonfigli, 1683. Con licenza de’ Superiori. 47 Il Campidoglio aperto al trionfo degl’affetti, e dell’Armi. Accademia d’Esercizj letterarj, e cavallereschi tenuta da’ signori Accademici Argonauti [...] per augurio di felicità all’Armi Cesaree Cattoliche contro del Turco. In occasione del publicarsi il Foglio laureato, in cui [...] si da ragguaglio del profitto nelle lettere [...] d’un anno compreso dal luglio del 1716 fino al luglio del 1717. In Bologna, per Ferdinando Pisarri, all’Insegna di S. Antonio, 1717. Con Licenza de’ Superiori. 48 Le Gare del Consiglio, e del Valore dedicate al Serenissimo Signor Principe Eugenio di Savoja, dagli Accademici Innominati di Bra Instituiti sotto la Protezione di M.R. In Torino, appresso Gianfrancesco Mairesse, e Giovanni Radix Stampatori dell’Accademia, 1717. 49 MAMMANA, Lèpanto. Rime per la vittoria sul turco, cit. pp. 69-72.

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due raccolte poetiche tardosecentesche – uscite la prima in occasione della vittoriosa difesa di Vienna del 1683 e la seconda, tre anni dopo, per la (ri)conquista di Buda del 1686 – manifestano significative convergenze architettoniche. La prima antologia, intitolata Applausi poetici per la liberazione di Vienna dall’Armi Ottomane, fu allestita da Francesco Antonio Tinassi tra la fine del 1683 e i primi del 1684, quando venne pubblicata a Roma con dedica al cardinale Benedetto Pamphilj50. Le attribuzioni ormai certe (grazie alle erudite e pazienti ricerche di Biliński e a qualche “scoperta” di chi scrive) di molti dei componimenti, che nel testo risultano tutti privi di paternità; il titolo del volume (Componimenti di varii soggetti raccolti); quanto si legge nella dedica («Le Muse di Europa si sono accinte à portarvi in Trionfo que’ Campioni, dal Zelo, e dal Valore de’ quali riconosce questa più bella Parte del Mondo la preservazione da un’empio servaggio, e da una tirannica schiavitudine. Io hò raccolti in questo Libro gli Applausi fatti da esse a’ Trionfanti»: corsivi miei): sono tutti elementi che smentiscono quanto rilevava Saverio Franchi, secondo cui il giovane Tinassi «si fece onore dimostrando anche capacità poetiche: all’inizio del 1684 pubblicava una sua raccolta di Applausi poetici […], apprezzata dal cardinal Benedetto Pamphili cui fu offerta in dedica»51. In realtà, Tinassi operò esclusivamente da curatore dell’antologia: nessuno dei componimenti inclusi sarebbe infatti ascrivibile al suo nome. Al contrario, le sue «capacità poetiche» andrebbero ricercate nelle sue doti da «collezionista» e nell’operazione di “smontaggio” e “rimontaggio” dei vari elementi testuali preestistenti – ciò che, in sostanza, rende la sua raccolta un caso piuttosto interessante all’interno della messe di testi consultati. Rispetto al volume degli Accademici Infecondi precedentemente preso in considerazione – un volume con cui gli Applausi poetici condividono molti componimenti – l’opzione preliminare compiuta dall’allestitore riguarda la lingua: nella raccolta è infatti prevista la quasi esclusiva inserzione di testi

50 Applausi poetici per la liberazione di Vienna dall’Armi Ottomane. Componimenti di varii Soggetti raccolti da Francesco Antonio Tinassi e dedicati all’Eminentiss. e Reverendiss. Signore il Signor Cardinale Benedetto Panfilio. In Roma, per il Tinassi Stampator Camerale. MDCLXXXIV. Con licenza de’ Superiori, e Privileggio. Lodovico Sergardi non risparmiava ai Tinassi una feroce stoccata polemica, paragonando l’interminabile vaniloquio dei perditempo da caffè romani – in apparenza lettori curiosi e onnivori, in sostanza intellettualmente incapaci e sprovvisti di un solido bagaglio culturale – alla febbrile attività tipografica della famiglia («allor che stassi / per le piazze da vespro insino a nona / d’ogni caffè cinguettatore, e fassi / a recitare più scritture a mente / che in quindici anni non stampò il Tinassi»: Satira seconda, vv. 104-108, in L. SERGARDI, Le satire, a cura di A. Quondam, Ravenna, Longo, 1976). 51 S. FRANCHI, Le Impressioni Sceniche. Dizionario bio-bibliografico degli editori e stampatori romani e laziali di testi drammatici e libretti per musica dal 1579 al 1800, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1994, p. 739.

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italiani, mentre le incursioni latine (soltanto sei testi: cinque distici e un elogium conclusivo), del tutto irrilevanti sul piano statistico, vengono relegate in calce al volume (a esclusione di due distici, che concludono la sezione encomiastica riservata a Giovanni III). La seconda opzione riguarda la macro-struttura: superato il vincolo di una bipartizione strutturale connessa alla scelta linguistica, Tinassi può invece avvalersi di una bipartizione di tipo formale, che prevede due ampie sezioni antologiche, la prima riservata ai sonetti52 e la seconda ai componimenti più complessi ed estesi, come cantate, odi e canzoni53. Il contributo originale di questa raccolta risiede tuttavia nell’organizzazione tematica interna dell’immenso patrimonio testuale che la professione di stampatore permise al giovane Tinassi di accumulare in un arco di tempo assai breve. Si tratta, in estrema sintesi, di un’organizzazione tematica che si avvale non solo di classificazioni categorico-assertive di tipo più generale – ad esempio nel riunire in un unico gruppo i testi incentrati sulle lodi del papa o dell’imperatore – ma anche modulazioni di tipo più raffinato e meno “appariscente” – ad esempio con l’inserzione strategica di un componimento in stile pedantesco, la Narratiuncula di Bartolomeo Nappini, che con la sua commistione linguistica latina e italiana può assolvere la funzione di “ponte di passaggio” tra la messe dei testi italiani e il micro-corpus latino che chiude il volume. Procedendo verso il piano strutturale microtematico, si può notare come la silloge venga inaugurata da un trittico di sonetti di diversi autori, riuniti assieme non solo a costituire una sorta di introduzione, ma anche, e soprattutto – con il “tema mariano” in essi sviluppato – a dichiarare fin dall’esordio un’ideale offerta del libello al culto della Vergine, in linea con la volontà di papa Innocenzo XI, il quale, come si è visto, aveva deciso di intitolare il giorno della vittoria al “Santo Nome di Maria”. Anche nell’esiguità del loro numero, i tre sonetti riescono a sviluppare un nucleo narrativo, una sorta di storia in miniatura: essi costituiscono un valido esempio non solo della “metodologia antologica” di Francesco Antonio Tinassi – ossia della sua capacità editoriale di “montare” in un insieme narrativamente “altro” e per quanto possibile coerente testi già circolanti ed elaborati per finalità diverse – ma anche del “tono” e del formulario simbolico e ideologico di cui è colorata e intrecciata l’intera raccolta. Il primo sonetto, di autore incerto, intitolato Preghiera alla B.ma Vergine nell’angustie di Vienna, si apre con una rapida sintesi di quanto sta accadendo intorno alla capitale asburgica («Già la face d’Aletto agita, e spira / odio, e furor ne l’Ottomano insano; / e già il Lunato acciar de l’empia mano / sazia in sangue fedel la sete e l’ira»); modula, subito dopo, sul motivo della richiesta dell’intercessione della Vergine («Mira il pio lagrimar d’occhio Cristiano; / senti il timido cor, ch’a tè

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Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., pp. 1-90. Ivi, pp. 91-166.

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sospira»), attraverso il ricordo del passaggio, a Roma, dal paganesimo al cristianesimo («Roma cieca nel culto errò tal ora; / mà cangiando per Te poscia fortuna / ne’ Tempj, in cui t’offese, oggi t’onora»), e chiudendo con l’auspicio di una metamorfosi consimile per la capitale ottomana («Così sforza à lambir la Tracia Luna / le Porte à Vienna; e un dì Bizanzio ancora / torni à lattar la Santa Fede in Cuna»)54. Il secondo sonetto, di Giovanni Antonio Magnani, intitolato Maria Vergine à Vienna e pubblicato anche nelle Poesie de’ Signori Accademici Infecondi, costituisce la risposta – naturalmente affermativa – della Vergine alla richiesta d’intercessione formulata nel testo precedente: la sua promessa è che nonostante tutti gli sforzi bellici («Franga a l’Albi la pace Odrisia Prora; / turbi il Drago Lunato a l’Istro il seno»; «Fumi il Sitonio Marte»; «Venga Furia Ottomana à farti esangue»), i turchi mancheranno inevitabilmente il segno («vedrai Tu per il valor Ruteno / ir sanguinosa la nimica Aurora», «sciolto troverà Turbante Armeno / entro il Batavo umor Tomba sonora», «vedransi l’onde ad una ad una / del Bosforo, arrossir col Patrio sangue»). Il sonetto si conclude infine con il ricorso al formulario tipico (e topico) della rappresentazione mariana, declinando il riferimento apocalittico alla «donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi, e sul suo capo una corona di dodici stelle» (Apoc., 12, 1), qui esposto in funzione consolatoria: «Né cada in te d’orror’ ombra veruna, / che dal mio piè schiacciato il Drago langue; / e sotto il piede mio freme la Luna»55. Il terzo sonetto di questo brevissimo ciclo introduttivo, infine, anch’esso anonimo e intitolato Ringraziamento alla Beata Vergine per la Vittoria ottenuta contra il Turco sotto Vienna, porta a compimento il motivo dell’assegnazione della vittoria all’intercessione della Madonna («tu desti la Vittoria, & or giocondo / t’offre in voto ogni cor l’affetto interno»), i cui meriti non si esauriscono soltanto nell’intervento diretto sul campo di battaglia («de’ tuoi colpi al pondo / vinta l’Asia fuggì; crollò l’Inferno»), ma anche e soprattutto nell’aver favorito l’estinzione – ed è il motivo che chiude “circolarmente” questa sorta di introduzione alla raccolta – della collera divina nei confronti dell’umanità traviata («Grazie gran Madre à Te; grazie al tuo Figlio, / che mosso à prieghi tuoi lo sdegno estinse, / crebbe à l’Austria il valor, tolse il periglio»)56. Dopo questo exordium, il movimento tematico modula verso la sezione della lode diretta dei protagonisti della vittoria. Non si tratta tuttavia di una modulazione brusca, o di una rigida giustapposizione tematica: un sonetto di Giovanni Francesco Quartieri – anch’esso antologizzato nella raccolta degli Infecondi – pare assolvere la funzione di “ponte modulante”, racchiudendo, nell’ultima e più significativa terzina, i nomi dei personaggi dei quali saranno intessute le

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Ivi, p. 1. Ibidem; cfr. inoltre Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 144. Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 2.

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lodi nelle successive sezioni del volume: «Perché Cesare vinca, e l’Asia dome, / basta il Zelo di Pier, la Fè d’Ernesto, / il Cor di Carlo, e di Giovanni il Nome»57. Gli attributi che in questo passaggio vengono associati alle varie personalità (la vittoria dell’imperatore; lo zelo del papa; la fedeltà del comandante delle forze di presidio a Vienna; il coraggio del duca di Lorena; l’eco biblica del nome del re di Polonia) risultano altamente e ulteriormente significativi: come si vedrà nei capitoli successivi, l’encomio lirico dei personaggi indicati – nonostante la molteplicità delle situazioni narrative, delle variazioni e delle contaminazioni tematiche, delle trasposizioni tonali – ruoterà sostanzialmente attorno a questi elementi fondamentali. Soltanto a questo punto ha inizio la vera e propria sezione elogiativa dell’antologia. In particolare, nell’ordine, il primo posto, nell’encomio lirico, spetta a papa Innocenzo XI (16 sonetti), cui fanno seguito le lodi dell’imperatore Leopoldo (9 sonetti)58. Un sonetto, di autore incerto, sembra assolvere poi, ancora una volta, la funzione di “raccordo”, modulando dalla lode per i vincitori “ideali”, il papa e l’imperatore («De l’Aquila di Piero a’ pii fulgorj, / de l’Aquila Cesarea à i lampi, à l’armi»), a quella per i vincitori “reali”, per coloro i quali comandarono effettivamente gli eserciti in campo («Col Sarmatico Rè glorie produce / fra le stragi de’ più barbari Antei / l’Ercole Lubomirski, e Carlo il Duce») 59. Come rilevato a proposito delle Poesie degli Infecondi e delle Canzoni di Filicaia, anche la disposizione in successione prevista per questi ultimi si preoccupa di non valicare i rigidi confini imposti dal cerimoniale delle precedenze nobiliari: il re di Polonia Giovanni III Sobieski (59 sonetti e 2 distici latini); due sonetti di raccordo, di cui il primo dedicato all’Elettore e duca di Baviera Massimiliano Emanuele; il duca di Lorena Carlo V (12 sonetti); il conte Ernst von Starembergh, comandante delle forze cittadine di presidio (10 sonetti)60. Dopo la proemiale offerta mariana e l’encomio dei protagonisti principali, la sezione tematica successiva è riservata al dileggio dello sconfitto, con una serie di componimenti dalla titolazione eterogenea ma tutti riconducibili sotto il comune denominatore tematico dell’irrisione sarcastica61. Gli elementi – macabri, talvolta – su cui si fonda l’irrisione, come si vedrà nel prossimo capitolo, ricalcano uno schema consolidato che prevede l’allusione diretta alla folle temerità del progetto d’invasione turco («E che credesti, ò temerario Trace?»), alla codardia dei soldati ottomani («or fuggi pur, ritorna al patrio lito»), al loro mas-

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Ibidem; cfr. inoltre Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 162. Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., pp. 3-15. Ivi, p. 15. Ivi, pp. 16-57. Ivi, pp. 58-63.

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sacro sotto le mura di Vienna («Vanta colà de tuoi l’aspro Macello; / dì, che di Turco sangue è l’Istro empito. / Và, riporta al Tuo Rè trofeo sì bello»), alla delineazione, grazie alla vittoria viennese, di un comodo exemplum, a futura memoria, del valore cristiano («Ecco già t’insegnò speme fallace / quali Alcidi hanno à fronte i Gerioni»)62. I rimanenti cinquantaquattro sonetti della prima parte del volume, con la loro ampia escursione tematica, manifestano una sorta di refrattarietà alla riduzione. Probabilmente la febbrile, convulsa attività tipografica di quei mesi; il numero vieppiù esorbitante e difficilmente gestibile dei vari componimenti che pervenivano giorno dopo giorno alle sue mani; l’incalzare inesorabile dei tempi editoriali, che pretendeva una perfetta aderenza tra tempi della storia e tempi della stampa ai fini di una maggior divulgazione del prodotto, e dunque di un maggior margine di guadagno; tuttò ciò dovette contribuire non poco alla crescente disattenzione che il materiale testuale inserito da Tinassi nella propria antologia evidenzia man mano che ci si inoltra nella lettura. Alcuni motivi principali possono però essere ugualmente rintracciati. Oltre alla costante riproposizione di componimenti dedicati allo Stendardo del Profeta (la principale insegna turca, che i cristiani credevano di aver conquistato durante la battaglia) e alla presenza di altri sonetti di impostazione encomiastica ma inspiegabilmente non ricondotti nei luoghi deputati, campeggiano innanzitutto gli accorati appelli di sapore “crociato”, inoltrati dai vari autori affinché le potenze europee proseguano nella guerra contro il Turco (qualche titolo, a mo’ d’esempio: Si minaccia totale sconfitta all’Armi Ottomane preparate contra il Cristianesimo; Doppo la segnalata Vittoria ottenuta da’ Cristiani contra i Turchi si pregano li primi à proseguire la Vittoria; Doppo la liberazione di Vienna seguitano le sconfitte del Turco; Il Giordano Penitente. Sperandosi coll’Esterminio de’ Turchi la rovina della Setta Maomettana 63). Strettamente collegati al tema della prosecuzione della guerra antiturca sono poi i sonetti dedicati agli auguri di buon Capodanno rivolti all’imperatore e al re di Polonia64 e i sonetti “astrologici” ispirati alla comparsa sulla volta celeste, proprio in quei mesi, di alcune comete, giudicate come sicuri presagi di sventura per la potenza ottomana e inviti a condurre la guerra a oltranza («Vi promette il novo Astro alta Fortuna: / Ite, ove ha la Cuna il Sol, che a i gran litigi / fia la Cuna del Sol Tomba a la Luna»)65. Ampio risalto è inol[L. MATTEI] Per la fuga del Visir, e de i due Ribelli sconfitti da l’Armi Cesaree, e Polacche, ivi, p. 61. Ristampato, col titolo S’illude la Fuga del Primo Visire, e disfatta dell’Armata Turchesca, e de Rebelli sconfiti dalle Armi Cesaree e Polacche, in MATTEI, Arte Poetica d’Horatio parafrasata, cit., p. 61 63 Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., rispettivamente alle pp. 69, 72, 78 e 79. 64 Ivi, pp. 81 e 86. 65 Ivi, p. 82. 62

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tre dedicato all’insurrezione del principe magiaro Imre Töcköly e al tema della «congiura» dei ribelli ungheresi ai danni dell’imperatore. La seconda parte del volume, come si è detto, raccoglie componimenti di più ampio respiro e di maggior ampiezza testuale. A differenza della sezione sonettistica, è qui meno in evidenza il progetto architettonico della costruzione antologica: in generale, si può rilevare che i componimenti inseriti sviluppano una sorta di “narrazione in versi” della guerra di Vienna, con sporadiche e contenute puntate nel campo della gratulatoria e dell’encomiastica. Da quest’ultimo punto di vista spiccano i tre componimenti, inseriti in successione66, dedicati a Giovanni III Sobieski (la canzone di Filicaia, qui stranamente definita “oda”; una “Canzona per Musica” di Bartolomeo Duranti e un’ode in quartine di Domenico Bartoli) e i due componimenti che vedono per protagonista Ernst von Starembergh (il dialogo per musica che inaugura la sezione e un’altra canzone di Domenico Bartoli67). Gli altri componimenti – anche se rimandano, nel titolo o nella dedica, a questo o quel personaggio – si configurano invece come grandiosi affreschi della battaglia, oppure come rapide panoramiche sui sentimenti suscitati dalla notizia dell’assedio e poi della liberazione della capitale imperiale. L’inserzione dei testi di Filicaia negli Applausi poetici per la liberazione di Vienna offre ancora una volta un esempio paradigmatico delle intenzioni e delle “disattenzioni” – entrambe consapevoli e strategiche – dell’allestitore. Oltre alla canzone encomiastica dedicata a Giovanni III, la raccolta di Tinassi include anche le canzoni Sopra l’Assedio di Vienna e Per la Vittoria degl’Imperiali, e Pollacchi, i due testi che, come si è visto, sviluppano nella cornice della silloge filicaiana il motivo generale del ringraziamento alla divinità, e si configurano come il tributo più genuino versato dall’autore ai sentimenti della collettività cristiana a lui contemporanea; mentre le lodi ufficiali ai vari protagonisti della vicenda trovano luogo in un’apposita (e ben definita) sede nella sezione centrale del corpus delle Canzoni. Sulla scorta di questi rilievi, l’ipotesi è che se il giovane Francesco Antonio Tinassi avesse inteso ricreare, anche nella seconda parte della sua raccolta, una sezione rigidamente encomiastica, avrebbe potuto agevolmente scegliere e inserire gli altri testi filicaiani, anch’essi già circolanti, più conformi a un progetto di dedica immediata. La conferma definitiva dell’intenzionale disinvoltura dimostrata dal curatore nell’allestimento della sua raccolta proviene tuttavia dall’esempio più clamoroso di de-contestualizzazione e ri-contestualizzazione del materiale poetico di cui sono riuscito a ricostruire il percorso: il rinvenimento della paternità di una serie di otto sonetti, ascrivibili alla penna del marchese Francesco Maria Santinelli. L’inserzione negli Applausi poetici, a mo’ di blocco unitario, di questi testi – pubblicati quattro anni prima

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Ivi, pp. 94-104. Ivi, pp. 91-94 e 105-108.

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(1680) nell’edizione lionese delle Poesie di Santinelli edite da Johann de Treves, ma certamente riferiti alle vicende del conflitto turco-austriaco del 1664 poi conclusosi con la pace venticinquennale di Vasvár – permette dunque di affermare senza riserve che, nel contesto delle celebrazioni poetiche della vittoria di Vienna del 1683, la possibilità della ri-proposizione in una nuova veste editoriale di testi “storicamente” datati faceva parte integrante della finalità – antologiche e insieme strategiche – del curatore68. ***** Il 2 settembre 1686, dopo oltre due mesi di feroce assedio, la roccaforte di Buda, capitale dell’Ungheria ottomana, capitolava sotto i colpi degli eserciti imperiali al comando di Carlo di Lorena e di Massimiliano Emanuele di Baviera. Come la vittoriosa difesa di Vienna, anche questo episodio scosse profondamente la fantasia poetica dei contemporanei, dal momento che la conquista dell’importante centro strategico magiaro, in mano turca da un secolo e mezzo e base operativa per ogni tentativo d’invasione, avvenne il medesimo giorno in cui Innocenzo XI annunciava, dopo mesi di ponderata riflessione, le sue nomine cardinalizie. La “doppia felicità” di quel giorno è ribadita anche negli Annali di Ludovico Antonio Muratori, il quale osservava: «Che strepito facesse sì glorioso acquisto, non si può abbastanza esprimere. Parve che Dio avesse rivelato questo fortunatissimo giorno al santo pontefice Innocenzo XI, perché egli nello stesso dì rallegrò infinitamente Roma colla tanto differita e tanto sospirata promozione di ventisette Cardinali»69. Anche in questa occasione un intraprendente curatore, il milanese Giuseppe Ambrogio Maietta, non esitava a raccogliere e sistemare in tutta fretta il materiale poetico relativo all’avvenimento (militare e religioso) e a pubblicare una raccolta, con dedica al duca di Mantova Carlo Ferdinando Gonzaga70. Più che il

68 La serie di sonetti inserita alle pp. 81-85 degli Applausi poetici per la liberazione di Vienna si legge in Delle Poesie del Marchese Francesco Maria Santinelli Conte della Metola, Marchese di S. Sebastiano, Cameriero della Chiave d’Oro, e Consigliere Aulico Imperiale di Sua Maestà Cesarea. Seconda Parte. Divisa in Heroiche, Morali, Amorose, e Sacre. Consacrata alla Sacra Cesarea Maestà della Imperadrice Leonora. In Lione, MDCLXXX. Appresso Io: de Treuis, alle pp. 6-11, 37 e 39. Su Santinelli cfr. il mio S. CANNETO, Da «ingegno focoso» a «canaglia». Appunti sul marchese Francesco Maria Santinelli, in «Studi (e testi) italiani», 28 (2011), pp. 9-52 e la bibliografia ivi indicata. 69 MURATORI, Annali d’Italia, dal principio dell’era volgare, cit., p. 107. 70 Poesie di diversi Autori per la gloriosa Conquista fatta dall’Armi Cesaree della Real Città di Buda Metropoli dell’Ungheria li 2. settembre 1686. Raccolte da Giuseppe Ambrogio Maietta milanese. Dedicate all’Altezza Serenissima di Carlo Ferdinando Gonzaga Duca di

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titolo riportato dal frontespizio del libello, colpisce l’occhietto, che recita, evocativamente e in sintonia con l’entusiasmo del tempo, Poesie di diversi autori sopra la creazione de’ cardinali, presa di Buda, e la nascita del terzogenito del Delfino di Francia nello stesso giorno. Tuttavia, se numericamente consistenti risultano le sezioni testuali riservate ai primi due elementi di questa sorta di trittico tematico, di gran lunga inferiore, se non quasi assente risulta la messe di testi incentrati sulla nascita del terzogenito del Delfino: oltre a qualche sparso e fugace accenno nel resto del corpus, un solo componimento risulta direttamente intitolato, e per di più in condominio con gli altri due temi71. In sintomatica consonanza con quanto affermato da Giacomo Hertz a proposito della raccolta degli Infecondi sopra analizzata – e si noti en passant che la presenza di Accademici Infecondi risulta, nel contesto antologico qui preso in considerazione, di corposo rilievo – Maietta offre nell’avviso «al benigno lettore» in primo luogo una giustificazione che possa rendere conto delle motivazioni e degli scopi dell’operazione editoriale da lui approntata: l’intenzione «d’aver qualche Componimento, allor che à gara più penne Italiane s’unirono à celebrare le Gesta di tanti Alcidi». È dunque ancora una volta l’adesione immediata alle contingenze storiche a costituire lo sprone principale all’intrapresa letteraria: «né perciò devo esser tacciato», incalza Maietta, «quando è da incolparsi più tosto colui, che in simile occasione tacque». Procedendo con la giustificazione, il curatore anticipa le accuse che probabilmente gli sarebbero state mosse dai detrattori («già mi persuado essere io da taluno biasimato con aver posposto molti nel dedicare i presenti Componimenti»), spiegando che, trattandosi di una raccolta approntata giorno per giorno e man mano che il materiale gli perveniva tra le mani, una diversa struttura antologica sarebbe stata difficilmente edificabile («Impercioche pervenendomi alle mani le presenti Composizioni di giorno in giorno andava stampandole; Onde per non haverle havute da principio in mio potere, essendo la Stampa un’atto irrevocabile son forzato à darle in luce nella presente ordinanza»): ragion per cui egli sperava, nel lettore, sentimenti di indulgente clemenza onde evitare d’incorrere in forme di biasimo ingenerose oltre che fuori luogo. Anche qui si tratta di una exusatio non petita, o meglio di una giustificazione preventiva e programmatica, che non collima perfettamente con la struttura del volume. Come nel caso della raccolta di Tinassi, le Poesie raccolte da Maietta tradiscono la volontà, sebbene non soddisfatta puntualmente in ogni passaggio, di organizzare lo schieramento testuale secondo direttrici tematiche ben definite. Innanzitutto va considerato che diversi autori sono pre-

Mantova & c. In Roma, per Gio. Battista Komarek, all’Angelo Custode, MDCLXXXVI. Con licenza de’ Superiori. La dedica del volume è datata 23 novembre 1686. 71 C. DI NAPOLI, Promozione de’ Cardinali, Caduta di Buda, e nascita del Terzogenito di Francia nel medesimo giorno, ivi, p. 137.

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senti nell’antologia con più componimenti, ma questi ultimi non vengono inseriti secondo un innesto organico e sequenziale. Se si scarta l’ipotesi che gli autori spedissero a Maietta il proprio materiale in più occasioni (ipotesi plausibile, ma a mio avviso improbabile), ne consegue che la disposizione dei testi fu organizzata dal curatore secondo criteri esterni che nulla avevano a che fare con la reperibilità del materiale poetico. Ciò si rileva, infatti, fin dai primi testi presentati nella raccolta, raggruppati intorno a linee tematiche ben definite le quali esigevano uno scompattamento dei corpora testuali eventualmente preesistenti e, di conseguenza, una nuova disposizione che si conformasse con più aderenza alla strategia del curatore. Il Sonetto Proemiale sopra le Composizioni fatte da Varij, ed Eruditi Ingegni nelle presenti Vittorie riportate dall’Armi Christiane, del non meglio identificato accademico infecondo Nucci, sembra incentrato – per la verità, e a dispetto del titolo – soprattutto sulle lodi dell’imperatore («In queste del valor belliche Istorie / del Gran Leopoldo in sù i trofei sudati, / legga il genio guerrier vive memorie, / e fian bell’onta à i Secoli volati»); tuttavia il suo carattere di encomio generico, e il riferimento finale alla dimensione europea del conflitto («Quì di Smirna la Tromba arma i Guerrieri, / e de l’Unghera Troia udir già parmi / quì d’Achilli Europei gl’Itali Omeri»72) consentivano a Maietta di adoperarlo, in sede liminare, come “cornice” introduttiva. Successivamente il curatore indugiava su una serie di sonetti elogiativi ed encomiastici organizzati secondo la consueta disposizione: innanzitutto le lodi per il papa, poi per l’imperatore, infine per i comandanti militari dell’impresa, il duca Massimiliano Emanuele e il duca Carlo di Lorena73. L’encomio prosegue ancora con una corona di componimenti, gran parte dei quali anonimi, in lode dei «ventisette Cardinali» di recente elezione: ventisette sono, infatti, i sonetti che afferiscono a questa linea tematica74. Il resto della raccolta presenta una serie di componimenti (nella stragrande maggioranza sonetti: ma non mancano testi più lunghi, come un madrigale e una «lettera eroica» in terza rima di Donato Antonio Serio) diversamente titolati e intitolati, ma tutti sostanzialmente riconducibili, ancora una volta, sotto il comune denominatore dell’elogio encomiastico, che prende spunto dal fatto d’arme o dalla nomina cardinalizia (o, come da programma, dalla fusione di entrambi gli elementi). Di un certo interesse risultano, in questo gruppo tematico più ampio, i sonetti dedicati all’eroica morte del barone romano Michele d’Aste, il venticinquenne tenente dei granatieri che guidò il reggimento cui era stato riservato l’onore di inaugurare l’assalto finale a Buda, il 2 settembre 1686. La sua morte, avvenuta sulle porte della città per mano dei giannizzeri che la difendevano, fu immorta-

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Ivi, c. A4. Ivi, pp. 1-5. Ivi, pp. 6-32.

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lata in diversi componimenti dell’epoca, tra i quali il più celebre risulta senz’altro la canzone Vider Marte, e Quirino di Alessandro Guidi, composta su invito di Cristina di Svezia appunto per «celebrare» il giovane eroe, e in seguito inserita nel primo tomo delle Rime degli Arcadi 75. Nelle Poesie di diversi Autori raccolte da Maietta, all’eroismo e alla tragica fine del barone D’Aste sono dedicati ben undici sonetti, tra i quali, a mio avviso, spicca, per un’esagerazione encomiastica che rasenta la blasfemia, un sonetto dell’abate Francesco Brandani, intitolato Al Barone Michele d’Asti morto per cinque ferite ricevute nella presa di Buda e volto a istituire una comparazione cristologica osée ma senz’altro d’effetto: («và pur: da ferro tuo cinta la Croce / porta entro Buda ad inalzar la Fede. [...] Mà, oh Dio! da cinque colpi un Santo ardire / cade trafitto? ah sì; con cinque piaghe / se la Croce portò dovea morire»76). Spiccano infine, quasi in conclusione del volume, due altri brevi cicli, entrambi opera del sacerdote napoletano Donato Cupeda, poeta cesareo e autore di numerosi e fortunati drammi77. Il primo ciclo è, da un punto di vista tematico, incentrato sulle fittizie richieste di pace che il Turco, sbaragliato a Buda e timoroso del proprio imminente tragico destino, avrebbe inoltrato all’imperatore – richieste puntualmente rifiutate nelle risposte di quest’ultimo. Da un punto di vista strutturale, invece, lo scambio di sonetti (quattro in tutto) tra i turchi e Leopoldo si avvale della tecnica metrica della “tenzone” polemica, qui tradizionalmente suffragata dalla risposta “per le rime” o, meglio, “per le parole-rima”: laddove il serraschiere domanda l’armistizio, nella finzione di Cupeda, in nome delle divine leggi di misericordia («Pace, ò Cesare, pace. Abbian pur fine / l’Armi, e sazie di sangue hor sian le spade, / se tuona il Ciel, non sempre il fulmin cade, / né fan molto durar l’ire Divine»), l’imperatore espone con implacabile fermezza il suo disegno politico e religioso di distruzione («Pace io non vuò: finche non giunge al fine / il Tracio Imper, fulmineran mie spade; / non cadrà l’Ira mia, se pria non cade / chi sprezza, e Leggi Umane, e insiem

75 Rime degli Arcadi. Tomo primo. All’Illustrissimo, ed Eccellentissimo Signore, il Signor D. Francesco Maria Ruspoli Principe di Cerveteri. In Roma, per Antonio Rossi alla Piazza di Ceri. 1716. Con licenza de’ Superiori, pp. 127-129. Michele D’Aste fu autore di un importante diario, incentrato sugli eventi militari ungheresi successivi all’assedio di Vienna, il cui manoscritto è stato scoperto e pubblicato solo qualche anno fa: Il Diario dell’assedio e liberazione di Buda del 1686 del barone romano Michele D’Aste, a cura di E. Piacentini, Roma, Bulzoni – Budapest, Corvina, 1991; cfr. inoltre E. PIACENTINI, Il diario dell’assedio e liberazione di Buda (1686) del barone romano Michele d’Aste, in «Rivista di Studi Ungheresi», 2 (1987), pp. 89-95. 76 Poesie di diversi Autori per la gloriosa Conquista fatta dall’Armi Cesaree della Real Città di Buda, cit., p. 132. 77 Cfr. ALFESIBEO CARIO, Donato Cupeda, in Notizie Istoriche degli Arcadi morti, tomo secondo, cit., pp. 42-43.

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Divine»); e laddove è il sultano in persona a implorare pietà e a spingere per una tregua («Pietà nel Regio petto abbia pur loco: / questo sparso fin’hor, mare di sangue / basti à smorzar di nostre guerre il foco»), il diniego non può che essere ribadito, in nome di una collera ancor tutta da placare («La pace, che desij, non hà più loco, / deve tutto versarsi il Turco sangue, / per ismorzar de lo mio sdegno il foco»)78. Subito dopo questo scambio – il cui motivo peculiare va senz’altro individuato nell’idea poetica (e nella proposta politica) di una guerra da proseguire a oltranza contro l’infedele turco, sotto la spinta dell’urgenza crociata – segue nella raccolta di Maietta un secondo ciclo di sonetti di Donato Cupeda79, composto anch’esso da quattro componimenti, incentrati sull’ormai prossima sospensione della campagna militare a causa dell’arrivo della stagione invernale e della crescente ostilità del clima. In un’atmosfera sospesa tra la minaccia dell’imminente distruzione e il rimpianto nostalgico per il silenzio delle armi («Già torna il Verno, e pallido, e piovoso / copre d’oscure bende al Sole i rai, / invilito Ottoman, ti posa omai; / quanto ti costerà breve riposo!»; «Sospende ‘l Verno i bellicosi agoni, / ma da tal posa, empio Ottoman, che speri? / Lascia dormir d’Austriaco Giove i tuoni, / perché poscia in ferir sian più severi»), l’autore non si sottrae alla malìa dell’indugio compiaciuto su concetti arguti («Sempre dal gelo egli soccorso attende: / se co’ la fuga hà il suo timor gelato, / e gelata stagione anco ‘l difende») e su motivi paradossali: Quando al gel darà bando April vezzoso, Tù di languida tema agghiaccerai, Quando ‘l suol fiorirà, tù cinto avrai Di novelli Cipressi il crin fastoso. Quando l’aria cangiando i suoi costumi Piogge non verserà, torrenti amari De le Vedove Achee saranno i lumi. Quando di Febo à rai più dolci, e chiari Di sciolto gel si gonfieranno i fiumi, Di Turco sangue inonderanno i Mari80.

Al di là delle giustificazioni programmatiche e/o editoriali, molti intraprendenti personaggi dell’ambiente letterario italiano dell’epoca sfruttarono le diver-

78 Poesie di diversi Autori per la gloriosa Conquista fatta dall’Armi Cesaree della Real Città di Buda, cit., pp. 150-153. Sul medesimo argomento insiste un altro sonetto di F. BRANDANI, Il Turco desidera la Pace, ne gli viene conceduta nell’occasione del pericolo in che si vede perder Buda, ivi, p. 148. 79 Ivi, pp. 154-157. 80 Ivi, p. 154.

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se possibilità editoriali che le guerre turche avevano innescato per scopi individuali e individualistici. L’esigenza di rivendicare la propria letteraria adesione al corso della storia, evidente per certi aspetti, in altre occasioni si risolveva, in ultima istanza, in un gradus ad Parnassum esteriore, un tentativo chiaro e risoluto di scalata culturale che potesse garantire, per il futuro lavorativo del curatore, una ben assestata notorietà; come del resto lascia intendere la nota finale posta in calce da Maietta alla “sua” raccolta: «vado intrecciando in un’altra parte alcuni Componimenti, trà quali havrai le Rime giocose, e Latine. Però ti fò sapere, che capitandoti nelle mani Sonetti, ed altre Composizioni fatte in simile occasione, havendo desiderio gl’Autori di essi di Stamparle potrai farmele pervenire alle mani». Parallelamente a diversi altri annunci, o, meglio, “lanci” editoriali in cui è facile imbattersi scorrendo la produzione letteraria dell’epoca, quello di Giuseppe Ambrogio Maietta non sortì, a quanto mi risulta, alcuna conseguenza. 5. Le «lingue» della partecipazione Un’altra prospettiva di lettura parallela tra la produzione lepantina e quella viennese riguarda le lingue attraverso cui la vittoria venne celebrata. La commozione universale e l’urgenza partecipativa precedentemente individuate appaiono infatti veicolate da una universalità linguistica altrattanto plebiscitaria, e delineano un panorama all’interno del quale all’uso del volgare si affianca, in misura significativa, l’opzione dialettale, talvolta con sconfinamento nel terreno della contaminazione plurilinguistica. Come è stato segnalato per la produzione lepantina, inoltre, la presenza di composizioni in greco appare assai trascurabile, per non dire quasi del tutto inesistente81. Il dialetto, la lingua del popolo, operò nel contesto viennese tardosecentesco da veicolo linguistico per non pochi componimenti, d’ispirazione soprattutto popolare e popolaresca, e generalmente incentrati sui motivi del dileggio dello sconfitto, dell’irrisione sarcastica, del ludus carnascialesco. Si tratta di motivi la cui circolazione dovette senz’altro essere stata favorita dalla scomparsa repentina del secolare sentimento di timore e soggezione nei confronti del “pericolo turco”: come si vedrà nel prossimo capitolo, l’intensità dell’irrisione e la crudeltà impietosa del dileggio dello sconfitto assolvevano infatti una funzione (e una finzione) consolatoria e lustrale, tanto evidente quanto inconfessabile e inconfessata. Il tono della celebrazione,

81 Sull’articolazione linguistica plurima delle celebrazioni poetiche lepantine cfr. QUARTI, La battaglia di Lepanto nei canti popolari dell’epoca, cit.; M. CORTELAZZO, Plurilinguismo celebrativo, in Il Mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce di Lepanto, cit., pp. 121-126. MAMMANA, Lèpanto. Rime per la vittoria sul turco, cit., pp. 33-42.

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insomma, e in particolare nei componimenti popolari e popolareschi dialettali, rappresenta una spia eloquente, che tradisce e illumina in tutta la sua evidenza il sentimento di terrore sospeso su cui la notizia della vittoria viennese, fulminea e inaspettata, calava come un colpo di spugna, a estirpare dalla radice l’atmosfera precedente e contribuendo a incanalarla sui binari del riso e dell’irrisione. Accanto alla produzione sonettistica, in grado di assolvere con maggiore immediatezza a tale funzione liberatoria, il dialetto servì da veicolo linguistico anche per scritture quantitativamente e qualitativamente più impegnate, come poemi e poemetti; e all’interno di questi due generi le varietà linguistiche regionali preludevano inoltre a un’altrettanto vasta varietà di nomenclatura formale oltre che cromatica. Così i poemi in ottava rima non si accontentavano dell’usuale definizione del sottogenere (“eroicomico”), ma si fregiavano di altre etichette che ne specificassero ulteriormente il contenuto, i toni e le finalità, come il «poema giocoso» del romano Giuseppe Berneri o il «puema strampalà» del bolognese Geminiano Megnani, entrambi volti a descrivere le «allegrezze» cui si abbandonarono i romani e i bolognesi alla notizia del successo viennese82. Nell’ambito del genere poemetto, accanto ad alcune persistenze convenzionali caratterizzate soltanto dalla specificazione cromatico-tonale (come nel caso del poemetto giocoso del bolognese Lotto Lotti83), l’ipertrofizzazione della titolatura conduce talvolta all’abbandono del rinvio diretto alla forma di partenza, come testimoniano, in seno alla letteratura popolare veneziana, gli esempi delle operette di Pietro Zini, La Volpe hà lassà el pelo sotto Vienna, e di Giovanni Astolfi, El malanno de’ Turchi (che si riferisce alle vicende del 1716-1718)84.

82 Il Meo Patacca, overo Roma in Feste ne i Trionfi di Vienna. Poema Giocoso nel Linguaggio Romanesco, di Giuseppe Berneri Romano Accademico Infecondo. Dedicato all’Illustriss. et Eccellentiss. Sig. il Sig. D. Clemente Domenico Rospigliosi. In Roma, per Marc’Antonio, & Orazio Campana, MDCXCV. Con licenza de’ Superiori; [G. MEGNANI] Bulogna iubilant, puema strampalà fatt pr’ gl’algrezz d’ la liberazion d’ Vienna, presa d’ Buda , e altr piazz in t’ l’Ungarie, Morea, e Dalmatia, cun al sfratt d’i turch da tutt’ qui luogh, fuogh, e fallo, fatt pr’ tutt l’ piazz, stra, stradlin, e stradlitt d’ Bulogna. [...] D’ Zorz Burliton pueta poc’accort. In Ferrara, per Bernardino Pomatelli, 1688. 83 Chi n’hà zervêll, ava gamb, o sia La liberazion d’ Vienna. Poemetto giocoso di Lotto Lotti in lingua popolare bolognese, che leggo in Collezione di componimenti scelti in idioma bolognese. Volume II. Bologna 1828. Presso Riccardo Masi. 84 La Volpe hà lassà el Pelo sotto Vienna, quaderni venetiani per la straggie, de Turchi, e Ribelli fatta dall’Arme Cesaree, e Collegate. Dedicato all’Illustr. Sig. mio Sig. e Patron Col. il Signor Simon Nasini Cittadino Veneto. In Venetia. MDCLXXXIV. Presso Domenico Milocco, e Pietro Zini. Con licenza de’ Superiori, e Privilegio. Si vende al Ponte dei Dai sotto le Procuratie Vecchie; El malanno de Turchi dell’Astrologo novello per l’anno della nostra salute 1718. Ottave alla veneziana di Zuanne Astolfi. In Venezia, & in Ancona, nella Stamperia Cam. Vesc. e del S. Officio degl’eredi Salvioni, 1718.

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Ed è proprio in seno alla letteratura dialettale di area veneta che – comprensibilmente – si può riscontrare il rinvio formale più immediato e significativo alla produzione lepantina. Sul finire del 1683 il «contain pavan» Bottazzo Tombolon pubblicava un testo dal titolo In allegrazion per la gran Vettuoria, nel quale – al di là dell’orgogliosa rivendicazione di appartenenza alla cultura popolare, evidentemente esteriore e topica – era riscontrabile il rinvio a un ben preciso modello letterario di marca lepantina, l’Herculana in lingua venetiana (1571) del poeta e pittore vicentino Giovanni Battista Maganza, di cui riprendeva, oltre all’atmosfera di esultanza popolare e a qualche rinvio verbale, il particolare schema formale: uno schema – appunto quello dell’ercolana: Ab7Ab7(c5)c5(d5)d5(e5)e5F – che rendeva il testo di Maganza una sorta di unicum all’interno del panorama celebrativo lepantino85. Il caso di Bottazzo Tombolon dimostra dunque che anche i (sedicenti) cantori “popolari” dell’evento viennese non esitarono a rintracciare i modelli più consoni alle loro intenzioni letterarie nella produzione precedente, a partire proprio da quella tematicamente e strutturalmente più vicina: la produzione celebrativa di Lepanto, appunto. La distanza tra la vocazione apertamente popolaresca del testo e l’alto profilo intellettuale e letterario dell’autore viene confermata anche nell’ambito del dialetto romanesco, che trova un interprete di eccezionale rilevanza in Giuseppe Berneri86. Un suo sonetto, incluso nelle citate Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma (dei quali Berneri era Segretario), intitolato Marco Pepe Romanesco sospettando, che per la futura Campagna possa tornare sotto Vienna il Primo Visir, così dice, anticipa quella dimensione smargiassa e vanagloriosa che, più di dieci anni dopo, costituirà il tratto caratteristico del protagonista eponimo del poema Meo Patacca (il cui sottotitolo, si ricordi, è Roma in feste ne i trionfi di Vienna): Se dopo havè battute le calcagna Con tremacore, Paccheta, e Vergogna Torna Laut a Vienna a cercà Rogna Lo Scioto del Visir Pappalasagna; Sto fusto glie la gratta, che rampogna Per la gran foia, e non glie la sparagna; Perche a sé ntè la prossima Campagna Fò calche prova, ch’el Ciafeo non sogna.

In allegrazion per la gran Vettuoria delle Arme Christiane contra el Turco gi 14. [sic] settemb. 1683. Scazzò dall’Assidio della Imperiale Città de Vienna. Canta dedicà a tutti gi Cattuolici Fedili Christian da Bottazzo Tombolon Contain Pauan. Ancuò prim. ottob. 1683. In Padova, per Gio: Battista Pasquati. Con Lic. de’ Sup. 86 Su cui cfr. G. MORELLI, Di Giuseppe Berneri e delle sue poesie dialettali inedite, in «Strenna dei Romanisti» (1977), pp. 247-254 e i diversi saggi che compongono il volume Se chiama e se ne grolia, Meo Patacca. Giuseppe Berneri e la poesia romana fra Sei e Settecento, a cura di F. Onorati, Roma, Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli, 2004. 85

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Gli aspetti formali della celebrazione Al deto Marco Pepe se la segna, E de scialà ce na Vittoria insigna La fionda de Nostrordine s’impegna. Se scaglio il Selcio, bigna allora, bigna, Che caschi freddo quella razza indegna, Perche tach. Lo coglio’ ntè la Tigna87.

Intento alla denigrazione impietosa e oltremodo ingiuriosa è anche un componimento inedito in quartine, sempre in dialetto romanesco e sempre di mano del Berneri, intitolato Un romanesco rimproverando a i Turchi le perdite e sconfitte haute in più giorni, rintracciato da Giorgio Morelli nell’Archivio Segreto Vaticano88. In esso, l’immagine del massacro di alcuni soldati turchi, accerchiati dai cristiani nei dintorni della palude presso la quale avevano tentato di trovare rifugio e di scampare a una morte certa quanto atroce, testimonia eloquentemente del tono che informa l’intero testo: Fu poi della palude il caso strano Vedè i Turchi, canaglia berettina, Anzi, canaglia io chiamar turchina, Restà come ranocchio ntel pantano. Bell’infizzalli, e poi pe più dispetto Piglianne 10 o 15 a bon conto, Mettelli al sole e fanne colà l’onto Per ugne li stivali a Macometto89.

Il vernacolo campano trova invece espressione in un curioso sonetto anonimo composto in occasione della riconquista di Buda del 1686, intitolato Nardella Panara si rallegra, che li Turchi habbino avuto la sconfitta in Buda, rintracciato nell’Archivio di Stato di Roma da Donato Tamblé. Come nel testo di Berneri, il tratto peculiare più evidente di questo sonetto risulta la compiaciuta insistenza sul piacere procurato dalle notizie relative alla strage che la mano vindice dei cristiani compie sulla soldataglia turca. Eloquente, per esempio, l’allusione all’impresa cruenta dell’Elettore Massimiliano Emanuele – «il Gran Baviera», il quale «con faccia serena / te le mandette [i soldati turchi] in aria come paglia», «e gl’altri gli ha trinciati comu Rapa» – significativamente situata in netta priorità rispetto alle generiche lodi del papa e dell’imperatore che chiudono il componimento («Mò grida ogn’omu con visu giucundu / viva sempre con Cesare lu Papa / pe fine che lo Munnu sarà Munnu»). Né manca l’allusione, anch’essa in chiave comica e polemica, alla decapitazione del pascià di Buda

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Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 219. Roma, Archivio Segreto Vaticano, Fondo Bolognetti, ms. 91, ff. 159-168: 165v-166v. MORELLI, Di Giuseppe Berneri e delle sue poesie dialettali inedite, cit., p. 250.

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(«Allu Bassà gli hannu fattu la capa») come giusta ricompensa per l’incapacità di tenere una piazza strategica così importante per il destino dell’impero turco90. Uno dei sonetti vernacolari del già incontrato Loreto Mattei, intitolato Sopra il Visir decapitato, offre – accanto alla testimonianza della vitalità del dialetto reatino anche nel contesto della celebrazione poetica del successo viennese – un’ulteriore insistenza sul medesimo motivo denigratorio: quello della crudeltà ferina e implacabile del sultano, che premiava gli errori militari dei suoi principali luogotenenti militari con la morte per strangolamento e decapitazione. Alludendo dunque alla sentenza di morte per il comandante della spedizione viennese, Kara Mustafà (eseguita a Belgrado il 25 dicembre 1683), Mattei insiste sugli aspetti potenzialmente denigratori della vicenda: il compianto ironico sulla triste sorte del visir («O poeru Iscirru sfortunatu, / te l’ha sonata lu patone teo»), che avrebbe potuto essere ben diversa se solo questi si fosse convertito a cristianesimo («Accostà ti potei allu veru Deo: / e Maumettu lassà scommunecatu. / Non sarristi così cettu strangulatu»), magari per mano – e qui il sarcasmo si fa ancor più tagliente – di quel Giovanni III Re di Polonia che fu il principale protagonista, con i suoi ussari alati, del massacro delle truppe ottomane sotto le mura di Vienna («E lo Re d’Appellonia coe creo, / t’avria fattu sta de paru teo, / issu t’aeria ifesu, e aiutatu»). Ma si tratta di considerazioni posticce, altamente improbabili, e di conseguenze che di certo non avrebbero reso giustizia alle innumerevoli e ingiustificabili colpe del visir: la vendetta celeste deve dunque compiersi, benché attraverso la mano sacrilega del Gran Turco («Eramente so iuste le ennette, / che a tanti a tuortu tu la ita hai tota, / e però chi la fa cetto l’aspette»)91. A proposito dell’ultimo verso di questo sonetto, è da rilevare che il noto (e impietoso) adagio – “Chi la fa, l’aspetti” – qui attestato in versione dialettale costituva un ulteriore argomento privilegiato per l’irrisione sarcastica post triumphum viennensem anche sul versante iconografico. Diverse incisioni di Giuseppe Maria Mitelli, ad esempio, vertono proprio sul tema della crudeltà del Turco che si ritorce contro sé stesso, in una dimensione satirica che sembra prendere le mosse dalla concezione del contrappasso dantesco. Emblematici, in tal senso, risultano i lavori intitolati Chi cerca accatta (1683), Chi è causa del suo mal pianga se stesso (1683-84) e Regali che fa il Turcho a suoi fedeli (1686), in cui Mitelli insiste sulla coesistenza, in un’unica rappresentazione,

90 D. TAMBLÈ, Giuseppe Berneri, le accademie e le istituzioni culturali a Roma nel Seicento, in Se chiama e se ne grolia, cit., p. 107. Altri sonetti, sempre in vernacolo campano, e sempre incentrati sulla riconquista di Buda, si leggono inoltre in Sententioso Testamento fatto dalla Real Città di Buda nella sua agonia a tutte le Città dell’Imperio Ottomano, esortandole à sottomettersi all’Armi Cristiane. Con alcuni redicolosi Sonetti. In Roma, per Domenico Antonio Ercole, 1686. Con licenza de’ Superiori. 91 FORMICHETTI, Inediti di Loreto Mattei, cit., p. 217.

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della componente “proverbiale” e di sicura presa sul pubblico sopra accennata, da una parte, e della denuncia a scopo propagandistico della crudeltà propria del sistema sociale ottomano, che puniva con la morte l’incompetenza e il fallimento, dall’altra (FIG. 6, FIG. 7 e FIG. 8). La riconquista della capitale magiara nel 1686 – un’impresa degna di lode sul piano poliorcetico – fu all’origine di una nuova espressione proverbiale che entrò ben presto a far parte dell’uso toscano, e quindi italiano. Stilando la voce “Buda” nel suo Vocabolario dell’uso toscano, il filologo e lessicografo Pietro Fanfani affermava infatti che l’espressione “Gli par d’aver preso Buda” si dovesse riferire «a chi, per aver fatto cosa di non gran momento, la magnifica e millanta per modo che sarebbe da pareggiarsi alle imprese più grandi». Nel medesimo contesto, inoltre, egli riportava alcuni poco conosciuti sonetti caudati d’argomento turco di tal Ottavio Messerini da Empoli, giudicandoli «garbatissimi e un vero giojello della lingua parlata»92. Il primo di essi, intitolato Dopo la liberazione di Vienna dall’assedio de’ Turchi al Gran Visir, si connota, ancora una volta, per l’intento comico e violentemente denigratorio, al limite della scurrilità e dell’allusione oscena, che anima questi testi: Ma non te lo diss’io? corpo di Bacco! Non t’arrischiar, non t’accostare al lecco: A voler pigliar Vienna, o darle il sacco, Vedi, e’ c’è da pigliare un granchio a secco. E tu forbice; e dii: Vo’ darle scacco, I’ le vo’ dar di barba ‘n culo; ed ecco Comparisce in iscena il Re pollacco: Visirre mio, tu se’ rimasto becco. O impara a dare a que’ bricconi appicco, Che dicevan ch’e’ c’era da far bocco, E ch’e’ c’era da far picco e ripicco. Egli è toccato a te l’essere il tocco; E tu volevi farti grande e ricco, E i’ t’ho vedere un povero pitocco. Dimmi un poco, il mio sciocco, Che pensavi trovarci uomin di stucco? Volerci ingojar vivi! Mammalucco!93

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Sonetti piacevoli del Sig. Ottavio Messerini da Empoli fatti da lui a nome del Capitan Cipollone battilano di detto luogo in congiuntura di queste ultime presenti guerre fra la sacra cesarea Maestà di Leopoldo Imperatore e i suoi collegati e Maometto IV Sultan de’ Turchi. In Firenze nel Garbo MDCLXXXVI. All’Insegna della Stella. Con licenza de’ superiori, in Vocabolario dell’uso toscano. Compilato da Pietro Fanfani, Firenze, G. Barbèra Editore, 1863, pp. 183-184. Su questi temi cfr. ZS. FÁBIÁN, Quando gli italiani andavano a Buda…, in «Rivista di Studi Ungheresi», I (1986), pp. 69-78. 93 FANFANI, Vocabolario dell’uso toscano, cit., p. 183.

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Uno degli aspetti più interessanti di questo sonetto, oltre al veicolo linguistico, è rappresentato dalla preziosità e dalla ricercatezza dello schema delle rime e dalla loro successione fonetica (-acco, -ecco, -icco, -occo, -ucco): si tratta di un elemento caratteristico, di matrice “leporeambica”, su cui ritornerò più avanti. ***** La versatilità linguistico-formale della produzione celebrativa lepantina si era avvalsa anche di diverse modalità “contaminative”. In primo luogo, per l’alta incidenza statistica individuata in sede critica, va sottolineata la semplice giustapposizione dei linguaggi, che si manifestava secondo le molteplici direttrici della compresenza in uno stesso autore – e talvolta in un medesimo testo – di lingua e latino, di lingua e dialetto, di dialetto e latino. Degna di rilevo risultava anche la presenza di isole linguistiche latine, strutturate in modo tale che il testo latino potesse talvolta configurarsi come una sorta di “guida” per la successiva parafrasi in volgare, oppure, altrove, come un’inserzione autonoma e priva di dialogo con il contesto. Di notevole rilevanza si colorava inoltre il vero e proprio “plurilinguismo”, attestato in diversi componimenti, nei quali veniva prospettata la curiosa fusione di diverse lingue (in genere latino, italiano e turco), o in testi in cui si attuava una sorta di travestimento linguistico di uno stesso motivo poetico, al limite della traduzione94. Si tratta di aspetti di cui è possibile rintracciare la presenza anche nella produzione tardosecentesca a tema “viennese”. In particolare, a proposito del plurilinguismo e dell’uso connotativo del linguaggio in seno alla letteratura celebrativa qui presa in considerazione, due particolari esperienze letterarie permettono di ampliare ulteriormente gli orizzonti della contaminazione linguistica, aggiungendo due nuove modalità a quelle sopra individuate. In primo luogo va rilevato il “pedantesco” – una sorta di “fidenziano” calato nel ventaglio verbale tipico del patrimonio lessicale scolastico-grammaticale – di cui fu indiscusso promotore il pedagogo, avvocato e religioso calabrese Bartolomeo Nappini, all’epoca noto con il nome di Don Polipodio. I suoi componimenti d’argomento turco si snodano attraverso un lunghissimo arco cronologico, che va dagli anni Cinquanta del Seicento (l’epoca dell’interminabile assedio turco di Candia, allora possediemento veneziano) alla morte (avvenuta nel 1717 o nel 1718, comunque dopo i successi balcanico-ungheresi del principe Eugenio di Savoia). Nel contesto delle celebrazioni poetiche per lo scampato pericolo viennese, Nappini compose un testo che godette di una notevole diffusione editoriale, la Narratiuncula del preterito bello grammaticalmente Esarata,

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MAMMANA, Lèpanto. Rime per la vittoria sul turco, cit., pp. 36-40.

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nonostante la circolazione dei versi pedanteschi di Don Polipodio avvenisse sostanzialmente (se non quasi esclusivamente) attraverso i canali della diffusione manoscritta95. I principali episodi relativi all’assedio di Vienna trovano un puntuale – e talvolta, bisogna ammetterlo, comicamente efficace – riscontro in termini e immagini mutuate dal repertorio pedantesco e grammaticale: l’invasione ottomana («Orrida pugna al Nostro Imperativo / mosse i mesi transatti il Barbarismo; / credè trovare in Vienna il Sollicismo, / e pensò d’introdurvi l’Ablativo»); la precipitosa fuga da Vienna e il rifugio nella fortezza di Linz della famiglia imperiale, anche qui velata da quelle considerazioni “cosmetiche” su cui mi soffermerò nei capitoli successivi («Al or parve, che in senso litterale / fuggisse il Nostro Rè laxata habena; / ma ciò che sembrò errore in apparenza, / misticamente fù frase, ò eleganza: / e ponno stare in buona concordanza / maschio valore, e provida temenza»); le continue azioni di disturbo condotte da Carlo di Lorena in attesa dei rinforzi polacchi («Moti locali il Duca Carlo usò / seguendo l’orme de l’Avverbio ubique; / e fè vedere a quelle Schiere inique, / che risponder sapeva a l’ubi, e al quò»); le preghiere del papa («Intanto il gran Pastore, il di cui Zelo / anche né casi obliqui è indeclinabile / per dar soccorso a la Città già labile / con l’Optativo si rivolse al Cielo»); il fallimento totale del progetto turco d’invasione («Il Visir, che credea co i Traditori / entrare in Vienna, e farci ad ogni etate / regola de expugnanda Civitate, / come un Scolion vi restò di fuori»); infine la controffensiva cristiana («Nè vonno i Nostri Eroi, ch’egli si lassi / qual Greco sine lege andar vagando, / mà veloci lo seguono insegnando / molt’Appendici à sue supreme Classi. / E perche ben ne

95 Come sottolinea Crescimbeni nel profilo biografico di Nappini, «i suoi componimenti erano applauditissimi [...] per Roma tutta, per la quale sono iti, e van tuttavia continuamente in giro», ma «non abbiam veduti impressi, che alcuni Sonetti in occasione della liberazione di Vienna, della presa di Buda, e d’altre Vittorie, che l’Armi Cesaree ebbero de’ Turchi in quei tempi» (ALFESIBEO CARIO, Bartolomeo Nappini, in Notizie Istoriche degli Arcadi morti, tomo secondo, cit., pp. 254-256). Cfr. inoltre Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie raccolte a cura di Luigi Accattatis Socio di varie Accademie e Società italiane e straniere. Volume II. Secoli XVI e XVII. Cosenza, dalla Tipografia Municipale, 1870, pp. 411-412 (ristampa anastatica: Bologna, Forni, 1977); G. FALCONE, Poeti e rimatori calabri. Notizie ed esempi. Seconda edizione. Volume Secondo. Napoli, Stabilimento Tipografico R. Pesole, Piazza Bettini, 6, 1902, ad vocem; L. ALIQUÒ-LENZI, Gli scrittori calabresi, Messina, Stab. Tip. Luigi Aliquò fu Ros., 1913, pp. 301-302; C. CHIODO, Le rime pedantesche di Bartolomeo Nappini, in ID., Il gioco verbale. Studi sulla rimeria satirico-giocosa del Seicento, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 127-137. Di recente pubblicazione è il volume B. NAPPINI, Rime pedantesche, a cura di P. Crupi, 3 tomi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, che riproduce l’edizione (erroneamente attribuita a Giuseppe Baretti) Rime pedantesche di Celebre autor Calabrese. Sopra varj Morali, Critici e dilettevoli argomenti secondo il gusto del presente Secolo. Opera data in luce da Aristarco Scannabue che serve di utile intrattenimento per ogni onesta, e civil Conversazione. Parte prima [- terza]. In Londra. Vale Paoli Sei. MDCCLXXX.

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l’Ottomani s’imprima / la lezion data à lui de bello agendo, / la repetizion li van facendo; / et à Strigonia è fatta già la prima»)96. Nel 1894 Alfonso Professione rinveniva e pubblicava un testo anonimo, «una satira d’origine Toscana», in cui i protagonisti della vicenda viennese «sono posti in caricatura con finissima ironia», nel cui svolgimento si vede «predominare la nota caratteristica epicurea di chi brinda al vino e vuol godere la vita alle spalle altrui» e in cui, infine, le «allusioni argute alle cose politiche» si configurano come «manifestazione […] dell’opinione pubblica che non si può né si deve trascurare»97. Oltre a queste considerazioni, peraltro sostanzialmente corrette e pienamente condivisibili, in questa sede importa tuttavia sottolineare l’unico aspetto su cui Professione non aveva indugiato nella sua disamina del testo: appunto la sua particolare veste linguistica. Esso si presenta infatti come una mescidanza in cui il tessuto linguistico – per gran parte italiano, ma con consistenti inserzioni di forestierismi puri di origine teutonica – viene rivestito di una patina fonetica mutuata dalla pronuncia tedesca (per cui, ad esempio, v = f; b = p; d = t; g = c, e così via). Scandito ritmicamente dal réfrain del brindisi («Lanzmain in Compagnie / Trinch vain in allegrie»; e la fama che voleva i tedeschi trincatori e ghiottoni era già in Dante: «li Tedeschi lurchi» di Inferno, XVII, 21 98), il testo viene costruito attorno a fugaci tasselli narrativi, che servono solo da pretesto per l’esibizione dell’usuale immagine impietosa del Turco sconfitto e massacrato («Scelm [birbante] Turche star tisfatte / Gutt’ morghen Amuratte»; «Ottomani tutti quanti / son fuggiti con Passà, / li Spai con loro Agà, / star tisfatti in fete mia»). Un’immagine, del resto, ben presente anche nel frangente del rinvio encomiastico ai protagonisti del successo (il papa, l’imperatore e il re di Polonia): Gutt’ Pape Roma sante Sempre sgheltr tante tante Ha mandato alli Toteschi, Poi pregato Sgian Sobiescki Alemagne foler’ fenire Romper teste a Gran Visire Far lui furt e mantar fie. Lanzmain trinch’… Nostr’Aucusto cran Senniore

Cito da Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 21-23. A. PROFESSIONE, Un «canto» sulla liberazione di Vienna nel 1683, Modena, Tip. -Lit. A. Namias e C., 1894, pp. 25-26 e 31-32. 98 Mutuo l’osservazione da Q. MARINI, Immagini di capitali europee dell’età barocca nei bischizzi di un ambasciatore della Serenissima, in «Italianistica», XXXVIII (2009), 2, pp. 315-329: 322-325. 96

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Gli aspetti formali della celebrazione Leopoldo Imperatore Sempre fiva sua persona D’Austria fiva la corona Fato ha al Turco scacche matte Tutt’esercite tisfatte E ruppate Artellerie. Lanzmain trinch’…99

Un ultimo, interessante esempio di commistione linguistica in chiave comica – un polilinguismo sovraccarico di deformazioni burlesche, e che godette di una notevole fortuna, tra Sei e Settecento, soprattutto in ambito teatrale e teatralmusicale – è costituito dall’utilizzo per scopi letterari della lingua franca o sabir, su cui avrò modo di soffermarmi nell’ultimo capitolo di questo lavoro. 6. Generi, metri, sperimentazioni: appunti Alcune significative convergenze formali tra la letteratura celebrativa lepantina e l’omologo corpus viennese appaiono evidenti anche sul versante dell’opzione dei generi e dei metri attraverso i quali veicolare la propria lettura poetica degli eventi storici. In particolare il capitolo in terza rima si propone come la zona metrica di dominio pressoché esclusivo di quella che potremmo definire la “voce dell’altro”, ovviamente a scopi comici, satirici o violentemente denigratori. In terza rima sono infatti composte le otto epistole poetiche di Donato Antonio Serio, accademico infecondo e poi arcade: in esse è forse possibile rinvenire alcuni tra i momenti di più dissacrante derisione indirizzata contro il “nemico della Cristianità” sconfitto sotto Vienna100. L’artificio narrativo del rim-

99 Ivi, pp. 26-27. In un progetto antologico manoscritto allestito da Giovanni Lori – Il Coro de’ poeti Compositione varie intorno all’Assedio e Liberatinone [sic] di Vienna et Vittorie riportate contro il Turco l’Anno MDCLXXXIII dal’Armi Pontificie Cesaree e Polache collegate Consacrate ai meriti infiniti de’ medemi Tre Personaggi da gl’Autori de le medeme tesiture poetiche, Bologna, Biblioteca comunale dell’Archiginnasio, Ms. A 2179 – è contenuto un testo nella stessa lingua, intitolato Biagino Oste à Siena fuori della Porta à San Marco risponde al Beolinghine mandatoli da Monsù Mattia Albergatore in Firenza alla Croce Bianca (cc. 44v.-46v.), il quale con ogni probabilità rappresenta la “risposta” proprio al componimento pubblicato da Professione: «Schilt filz pon Mattia / Trinch vain in allegrie / Cantar pen tue peolinghine / Che mandar à me Piacine / Render grazie à te Signore / Troppo fatt à mè fagore / Che si lunghe nostre vie / Schilt filz / Drau filz / Brinder Strindier Compagnie» (c. 44v.). 100 Lettere Eroiche di Donato Antonio Serio, nelle quali si loda il Valore de’ Cristiani Guerrieri, contro l’Armi Ottomane. Consecrate alla Serenissima Republica di Venetia. In Roma, per Domenico Ant. Ercole. 1685. Con licenza de’ Superiori.

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provero al Turco attraverso la sua stessa voce è funzionale all’ampliamento e alla messa in rilievo della derisione, come testimonia ad esempio l’Epistola VII. Macmete Quarto al Gran Visir 101. Nella finzione messa in scena da Serio, essa costituisce l’immaginaria risposta che il Sultano regnante Maometto IV avrebbe inviato a Kara Mustafà subito dopo aver appreso la notizia della sonora – e per lui incredibile – sconfitta delle sue truppe nei pressi della capitale asburgica. Il violento attacco all’operato del Visir, con cui il componimento si apre («Dell’Ismari Guerrieri al Capitano / ludibrio vil di Battezate Schiere / così risponde il Prencipe Ottomano»), la rapidità della descrizione del disastro militare («Dunque l’invitte mie falangi intiere / In un Baleno il Sarmata disface»), il catalogo delle considerevoli forze messe a disposizione del capitano affinché potesse terminare vittoriosamente l’impresa («L’Ircano, il Siro, il Geta, il Greco, il Trace, / il Perso forte, il Medo d’ira armato, / l’astuto Parto, il Tartaro rapace, / li Mauri, e quei del Caucaso gelato»), la collera impotente, soprattutto nei confronti del Regno di Polonia («Vò vendicarmi: olà sdegno, e furore / ite della Sarmazia alle ruine [...] Ma che vanegio senza Duci, e senza / arme, & armati»): tutto, insomma, diviene funzionale e atto a declinare attraverso prospettive molteplici l’irrisione sarcastica102. La ricognizione testuale e l’indagine critica hanno evidenziato la rilevanza e la varietà, all’interno del panorama testuale lepantino, delle influenze esercitate a più livelli (lessicale, sintagmatico, versale, rimico, ecc.) da materiali petrarcheschi su generi altri e, più in generale, delle vere e proprie riscritture petrarchesche, eseguite secondo lo schema del ribaltamento di alcuni significanti in altri di marca polare. Benché non costituiscano un campo di interesse privilegiato in seno alla celebrazione poetica viennese, le riscritture petrarchesche fanno comunque una timida comparsa nel Saggio di letterati esercizj pubblicato dagli Accademci Filergiti di Forlì nel 1699 a cura del segretario Ottaviano Petrignani103. Il volume risulta articolato in quattro distinte sezioni, di cui l’ultima, la più consistente, contiene i «Sonetti del Petrarca esaminati sin ora nell’Accademia ridotti al morale da Ottaviano Petrignani». Vi si legge, tra le altre, una riscrittura petrarchesca – o, più correttamente, una «riduzione al morale» – d’argomento turco, intitolata Zelo del Santissimo Pontefice Innocenzo XI per la liberazione di Vienna. Il testo mantiene lo schema delle parole in rima del sonetto XXVII dei Rerum Vulgarium Fragmenta di Petrarca, «Il successor di

Ivi, cc. M2 sgg. Ivi, p. 1 – c. N 103 Su cui cfr. LAUSO DIOFANIO, Ottaviano Petrignani, in Notizie Istoriche degli Arcadi morti. Tomo primo. All’Eminentiss., e Reverendiss. Principe il Signor Cardinale Giuseppe Vallemani. In Roma, Nella Stamperia di Antonio de Rossi, 1720. Con licenza de’ Superiori, pp. 326-329. 101

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Karlo, che la chioma» (solo al v. 5 l’originario e neutrale «soma» viene sostituito con «Maoma»), che ben si prestava, con il suo rinvio alla Crociata promessa da Filippo VI di Valois nel 1332 e indetta da Giovanni XXII nel 1333, a una declinazione attualizzante esemplare quanto agile ed evidente104. Petrarca, RVF, XXVII:

«Riduzione» di Ottaviano Petrignani:

Il successor di Karlo, che la chioma Co la corona del suo antiquo adorna, Prese à già l’arme per fiaccar le corna A Babilonia, et chi da lei si noma; E ‘l vicario de Cristo colla soma De le chiavi et del manto al nido torna, Sì che s’altro accidente nol distorna, Vedrà Bologna, et poi la nobil Roma. La mansueta vostra et gentil agna Abbatte i fieri lupi: et così vada Chiunque amor legittimo scompagna. Consolate lei dunque ch’anchor bada, Et Roma che del suo sposo si lagna, Et per Iesù cingete omai la spada.

Principi eccelsi, cui la Regia chioma Più la virtù, che ‘l Real serto adorna, L’armi prendete; ite a fiaccar le corna A ria Babelle, e a chì da lei si noma. Già con astio crudel l’empio Maoma La nostra pace a disturbar sen torna. Vostro invitto valor se nol distorna, Già sente il gran periglio Italia, e Roma. Mostrate come mansueta un’Agna Abbatta i fieri Lupi; e così vada Chiunque il cor dal vero Dio scompagna. Se diverso talento ad altro bada; Ben con ragione il buon Pastor si lagna: “Deh per Giesù cingete omai la spada”.

I punti di contatto tra la letteratura celebrativa lepantina e l’omologa letteratura viennese risultano significativi anche dal punto di vista dell’analisi microformale. L’indagine sui testi lepantini e sul loro ordito retorico ha infatti permesso di rilevare una predisposizione per alcune tipologie correlative, e in particolare per le correlazioni di tipo pentamembre105. Una predisposizione analoga 104 Saggio di letterati esercizj de gli Accademici Filergiti di Forlì diviso in quattro parti. Raccolti da Ottaviano Petrignani Segretario dell’Accademia, e dal medesimo dedicati all’Eminentiss.mo e Rev.mo Sig. Cardinale Fabrizio Paulucci Vescovo di Ferrara. In Forlì, per Gioseffo Selva, 1699. Con lic. de’ Sup. , p. 213. 105 MAMMANA, Lèpanto. Rime per la vittoria sul turco, cit., pp. 50-53. Per un’analisi della presenza di versi plurimembri nel poema crociato tassiano cfr. A. SOLDANI, Attraverso l’ottava. Sintassi e retorica nella Gerusalemme liberata, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 1999, pp. 7889. Sul sistema correlativo cfr. D. ALONSO, Pluralità e correlazione in poesia, Bari, Adriatica, 1971; qualche osservazione anche in QUONDAM, La parola nel labirinto, cit., pp. 75-82 (a proposito dell’«esasperazione […] decisamente artificiosa e arguta» dei sonetti d’argomento lepantino di Ferrante Carafa) e pp. 171-173 (su alcuni aspetti formali peculiari del Manierismo). Sulla poesia iconica e artificiosa cfr. G. POZZI, La parola dipinta, Milano, Adelphi, 1981 e ID., Poesia per gioco. Prontuario di figure artificiose, Bologna, Il Mulino, 1984. Spunti interessanti anche in G. R. HOCKE, Manierismus in der Literatur, Hamburg, Rowohlt Tachenbuch Verlag, 1959 (trad. it.: Il manierismo nella letteratura. Alchimia verbale e arte combinatoria esoterica, Milano, Il Saggiatore, 1965).

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appare evidente anche nei cantori del successo viennese. Talvolta il procedimento correlativo pentamembre risulta efficace e in grado di offrire una duplice possibilità di lettura del componimento, in orizzontale e in verticale («Aeternus, Pastor, Caesar, Lorena, Polonus, / In cruce, divitijs, viribus, arte, manu, / Deprimit, auget, adit, terret, sequiturque trucidat, / Turcas, Bellantes, Agmina, Corda, Duces»106); talvolta, invece, esso risulta basato – più ingenuamente – su meri processi accumulativi e improntato sull’effetto uditivo e visivo piuttosto che su quello logico-razionale: Vedo Dardi, Saette, Archi, Turbanti, Sciable, Lance, Turcasi, Aste, Cimieri, Tende, Bronzi, Stendardi, Oro, Guerrieri, Rotte, laceri, presi, uccisi, infranti. Odo voci, urli, lai, sospiri, pianti, Bestemmie, gridi, omei, lamenti fieri, Scrosci, strepiti, Trombe, assalti altieri, Ognun langue, ognun geme, e moion tanti107. Eroe possente, pio, forte, sovrano, Con prove, opre, sapere, ingegno, ardire, Fiacca, estingue, calpesta, opra che spire, L’orgoglio, ira, furor, foco Ottomano. In campo, in schiere, in tende, in valle, in piano, Porge, semina, imprime, e fà sentire, Soccorso, vanto, onor, gloria, gioire, A Vienna, à Pietro, à Dio, al Ciel Romano. Con la man, occhio, mente, e braccio, e piede, Fere, fulmina, atterra, apre, e diparte, Turbe Tartare, Egizie, Arabe, e Mede. Perche in senno, in valor, forza, armi, & arte, Eguaglia, passa, vince, avanza, eccede, Giulio, Pompeo, Scipione, Ercole, e Marte108.

106 Anonimo, Pro Bello apud Viennam obsessam N.N. Epigramma, in La Congiura fallita per Vienna liberata dall’Armi Austriache, sotto il Comando del Generalissimo Carlo Buglioni V Duca di Lorena, colla Unione del Serenissimo Rè di Polonia Giovanni Subieschi, Starembergh, & altri Principi Elettori. Distinta in trè Ode dal R.D.D. Gio: Domenico Gentile da Martone. Dedicata all’Illustriss. Signore D. Fortunato Carafa de’ Principi di Roccella. L’Anno della nostra Redenzione 1683. In Napoli. Per Gio: Francesco Paci, MCLXXXIII. Con licenza de’ Superiori, s.n.p. 107 Anonimo, Per la Vittoria dell’Armi Cristiane contra li Turchi sotto Vienna, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 67. 108 D. MANZONI, Alla Real Maestà di Giovanni III Rè di Polonia, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 56.

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Accanto alle correlazioni di tipo pentamembre, risultano ugualmente incidenti sul piano statistico le correlazioni di tipo “trimembre” («Trombe infrante, Elmi incisi, e Brandi ignudi, / sciolte bende, archi rotti, e busti offesi, / trombe tronche, Aste mosse, e vinti arnesi, / fessi usberghi, arme sparse, e pesti scudi»109), anch’esse talvolta piegate a veicolare quella duplice possibilità di lettura – orizzontale e verticale – cui si faceva prima riferimento: Gran Leopoldo, e Mercurio, e Marte, e Giove Ne Licei, frà Steccati, e sovra i Troni T’apre il labro, arde il sen, gli occhi ti move, Se discorri, se armeggi, ò se perdoni. Taccion l’aure, escon Palme, un Gange piove A i tuoi detti, a i tuoi colpi, ed ai tuoi doni: Nove Idee, novi Assalti, e Grazie nove Scopri a Pito, apri à Palla, offri a i Maroni110.

Dalla correlazione alla simmetria, alla continuità, il passo è breve. Lo sperimentalismo formale di alcuni autori giunge infatti a creare delle vere e proprie “gabbie” entro cui dipanare il proprio dettato poetico: il risultato – evidentemente scontato – è che costoro si allontanano tanto più dalla realizzazione artistica quanto più estremamente sofisticata è la costruzione, o meglio la costrizione che si propongono di perseguire. In particolare il sonetto continuo, con l’alternanza di due parole-rima fortemente allusive sul piano simbolico-religioso, si presta agevolmente a illustrare, già nella disposizione visiva del componimento, l’inconciliabilità dei due mondi in conflitto, come in questo sonetto anonimo, le cui parole-rima sono «Sole» e «Luna» (una coppia oppositiva su cui mi soffermerò nel prossimo capitolo): In vinta Insegna al Vaticano Sole, Ecco ne vien la Maomettana Luna Fosca, e languente, poiche in faccia al Sole Smorta non può se non languir la Luna.

109 F. BAMBINI, La Statua dell’Invittissimo Rè di Polonia, ivi, pp. 79-86: 86. Un ulteriore esempio, tratto sempre dallo stesso volume: «Con inviti, con preci, e col comando, / con il gesto, col moto, e con il ciglio, / co l’aspetto, co l’opra, e col consiglio, / co la man, co la voce, e con il brando» (G. A. SPINOLA, Vienna assediata dal Turco, difesa da Ernesto Conte di Starembergh, e liberata dall’Armi di Leopoldo Primo Cesare Augusto, e Giovanni III Subieski Rè di Polonia, ivi, pp. 129-136: 132). 110 [F. M. SANTINELLI] Al medesimo [Leopoldo I], in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 83.

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Salvatore Canneto Del Leon Pontificio arrabbi al Sole Il Can de l’Asia, che latrò a la Luna: Tutt’è sparito in un girar di Sole Quant’ei di pregio avea sotto la Luna. Proserpin Infernal, perfida Luna, Tu ch’ecclissar bramasti il vero Sole, Vuota di forze ecco sei scema Luna: E far scabello oggi ti vede il Sole O de l’eterno orror vicaria Luna A un Sol Vicario de l’Eterno Sole111.

Il seguente sonetto, indirizzato a Giovanni III di Polonia, rappresenta un’ulteriore evoluzione dello schema di base: oltre alle parole-rima simbolicamente rilevanti (qui «Giovanni» e «Fede»), l’anonimo autore decide di costringere il proprio dettato all’interno di una griglia resa ancor più vincolante dall’insistenza, anch’essa alternata, sul nome degli altri protagonisti («Leopoldo» e «Innocenzo»): Vinse INNOCENZO, e trionfò GIOVANNI: LEOPOLDO guerreggiò, gode la Fede: Vinse LEOPOLDO, e guerreggiò GIOVANNI: Gode INNOCENZO, e trionfò la Fede.

111 Per lo Stendardo Reale dell’Esercito Turchesco conquistato, e mandato alla Santità di Nostro Signore, ivi, p. 62. Un altro sonetto, del romano Ruggiero Caetani, è giocato anch’esso su parole-rima fortemente allusive («Cielo» e «Mondo»), sebbene non calate in una dimensione oppositiva: «Mostruoso stupor; gl’Astri dal Cielo / a Caratteri d’or svelano al Mondo, / che trè di loro in un congresso in Cielo / danno in un giorno trè Prodigi al Mondo. / Un’Innocenzo datoci dal Cielo / promove à gl’Ostri le Virtudi al Mondo, / per dar trè Eroi al Gran Delfino il Cielo / concede un Terzo Figlio al Franco Mondo, / nel perder Buda l’Ottomano Cielo / lascia la Luna ottenebrata al Mondo, / trofeo di fidi Eroi scritto nel Cielo. / Venere splende à prò de’ Franchi al Mondo; / cede à Carlo l’Acciar Marte dal Cielo; / s’inchina Giove al Pio Rettor del Mondo» (R. CAETANI, Il Trifauce Infernale abbattuto dal Gerione Celeste per li trè Memorabili portenti successi nel Mondo alli 2. di Settembre 1686. Buda presa dall’Armi Imperiali; Crea il Pontefice 27. Cardinali, e nasce il Terzo Genito del Gran Delfino a Parigi, in Poesie di diversi Autori per la gloriosa Conquista fatta dall’Armi Cesaree della Real Città di Buda, cit., p. 145). A conferma della loro pregnanza allusiva, le medesime parole-rima («Cielo» e «Mondo») compaiono anche in un sonetto anonimo intitolato All’Invittissimo Re di Francia, per la potente Lega fatta contro di Lui, inserito in Trionfi di Parnaso per l’Eresia flagellata dalla Destra Insuperabile di Ludovico XIV il Grande, Monarca delle Gallie, raccolti, e consagrati alla Reale Altezza del Serenissimo Duca di Borgogna Primogenito della Altezza Reale del Serenissimo Mon. il Dolf: di Francia, dal Co. Andrea Zabarella. Ristampati con due aggiunte, l’una à S.M. Christianissima, l’altra per le Glorie della Sereniss. Repub. di Venezia, & altri Principi distruggitori della Infedeltà Musulmana. In Padova, MDCXCIII. Nella Stamperia del Seminario. Con Licenza de’ Superiori, p. 34 («Or che contro di te armato è un Mondo, / ti si fà scudo adamantino il Cielo, / e in van co’ sforzi suoi t’assale il Mondo, / mentre le tue ragioni sono del Cielo»).

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Gli aspetti formali della celebrazione Vinse INNOCENZO se pugnò GIOVANNI; Vinse LEOPOLDO se pugnò la Fede: Se INNOCENZO pugnò vinse GIOVANNI; Se LEOPOLDO pugnò vinse la Fede. Mancò la Luna, e s’ingrandì la Fede: Cadde Maometto, e l’atterrò GIOVANNI: Servì l’Idolatra, regnò la Fede. Molto col Gran LEOPOLDO oprò GIOVANNI: Molto con INNOCENZO oprò la Fede; Ma co la Fede il tutto oprò GIOVANNI112.

Sono poi da segnalare i “giochi linguistici” più ricorrenti con cui molti autori si dilettano a farcire il loro testi. Risaltano e risultano numerosi in particolare i ludi fonici: in alcuni casi essi si situano al limite del pastiche («Che il tradimento hà il Traditor tradito, / e che la fellonia fallito ha il fello»113), mentre altrove fanno invece leva sulle suggestioni uditive evocate dal nome che si vuol porre in evidenza («Dux, Rex, & Caesar Dij sunt; et contra, Visire / Vis ire? Irae vis te triplicata manet»114; «Col portarti in Belghrado à questi dì / brutto Grado il tuo capo ottenne affè, / retrogrado il destin con te si fè, / s’al fin ti degradò chi t’aggradì»115). Sempre a proposito dell’importanza della dimensione fonica all’interno della produzione celebrativa del successo viennese, resta infine da segnalare una particolare tipologia testuale di chiara ispirazione “leporeambica”. Secondo una sintetica definizione, Lodovico Leporeo aveva escogitato «un sistema metrico laboriosissimo, fondato sulla moltiplicazione delle rime all’interno del verso e sulla regolamentazione restrittiva di quelle finali», «sul principio della continuità ossessionante dei suoni e sulle sonorità forti e insistite che a esso inevitabilmente conseguivano»116. Di questa serie di elementi, sono in particolare la continuità sonora e la regolamentazione restrittiva delle rime finali a svolgere un ruolo rilevante nell’esperimento metrico proposto dall’accademico della

Al medesimo [Giovanni III], in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 32. MATTEI, Arte Poetica d’Horatio parafasata, cit., p. 61. 114 G. LOTTI, Primo Visiro obsidenti Viennam, ante pugnam cum Heroibus immortalibus Lotharingiae Duce, Poloniae Rege, et Leopoldo Caesare, Author minatur cladem, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 349 (corsivo mio). 115 Anonimo, Per la Voce Sparsa che d’ordine del Gran Sig.re sia stato decapitato il Primo Visire in Belghrado. Sonetto con la loda al Stesso Visire, in Il Coro de’ Poeti, cit., c. 20r. 116 P. PROCACCIOLI, L’altro canto. Il Seicento non marinista, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di N. Borsellino e W. Pedullà, vol. VI, Il secolo barocco. Arte e scienza nel Seicento, Milano, Federico Motta, 2004, pp. 199-247: 246. Cfr. inoltre C. CHIODO, Il gioco verbale di Ludovico Leporeo, in ID., Il gioco verbale, cit., pp. 13-36. 112

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Crusca, poi arcade, Luca Terenzi117. Nel 1687 egli pubblicava una silloge di Sonetti, gli ultimi dei quali si configurano come una sorta di “corona” di 13 componimenti dedicati alle vittorie imperiali118. L’aspetto peculiare di questi testi, e che funziona da comune denominatore per l’intera serie, consiste infatti nell’insistenza allitterante degli omoteleuti, la cui variazione deriva esclusivamente dall’alternanza, in successione, di tutta la serie vocalica: Chi Re del Ciel, vinca di noi pietade La tua giust’Ira, e da quell’alta sede Volgi cortese il guardo alle contrade D’Europa, albergo di verace Fede. Mira, come vilmente oppressa cade, E aita indarno a’ suoi figli chiede: Come di nuovo a insanguinar le spade Nel suo bel seno armata Asia riede. Come le Madri, e i pargoletti uccide, Atterra i Templi, e a Verginelle ignude, Il bel fior d’Onestà togliendo, gode. E se ritarda l’immortal Virtude A punir l’Empia, che di Te si ride, Chi più Ti canterà Inni di lode?119 Scoppia di fiele, empio Tiranno insano, Di troppo fasto, e d’arroganza pieno, E chiedi a’ pochi fuggitivi, ù sieno Le schiere, ch’ingombraro i monti, e ‘l piano? Fremendo udrai; che da guerriera mano Tutte trafitte mortalmente il seno Impinguan d’Austria il fertile terreno, E son d’impaccio all’Arator villano. Or va, spregia ogni patto, e del divino Sdegno ti burla, e di’: In Terra io sono Arbitro, e Dio, se tante forze aduno. Ma gastigo maggior scorgo vicino; Barbaro contro te s’arma ciascuno, E sotto il piede hai vacillante il Trono120.

117 Su cui vedi ALFESIBEO CARIO, Luca Terenzi, in Notizie Istoriche degli Arcadi morti. Tomo secondo, cit., pp. 160-162. 118 Sonetti di Luca Terenzi Accademico della Crusca. Al Serenissimo Principe di Toscana. In Firenze, MDCLXXXVII. Nella Stamperia di Piero Matini all’Insegna del Lione. Con Licenza de’ Superiori, pp. 69-81. 119 Preghiera a Dio, movendo improvvisa Guerra il Turco, ivi, p. 69. 120 Rimprovero al Gran Turco, ivi, p. 71.

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Gli aspetti formali della celebrazione

La relazione sperimentale tra i testi di Lodovico Leporeo e quelli di Luca Terenzi era del resto già stata focalizzata dal Crescimbeni critico e storiografo letterario, il quale, nei Comentarj intorno all’Istoria della Poesia italiana, si soffermava sull’originalità dell’esperimento stilistico-formale dell’accademico della Crusca Terenzi: un esperimento che, a suo giudizio, si risolveva nel “contaminare” uno stile presumibilmente d’appannaggio della tradizione comica con elementi tematici mutuati da una dimensione stilistica “alta” e “altra”. «Giudicò [Terenzi] la parechesi in desinenza, unita coll’obbligo della rima, potersi convenire anche al presente a’ gravi e serj componimenti», scrive il Custode d’Arcadia, citando a questo proposito proprio uno dei sonetti terenziani d’argomento turco, Lodi al gran Dio delle battaglie, e tanto 121. L’apparente neutralità del rilievo serviva solo a preparare l’affondo censorio: simili esperimenti, concludeva Crescimbeni, «quivi certamente riso non muovono, ma ne anche riescono graditi»122.

121 A Nostro Sig. Innocenzo XI che vedendo stretta Vienna, pianse avanti ad un Crocifisso, ivi, p. 73. 122 Cito da Comentarj intorno all’Istoria della Poesia italiana, ne’ quali si ragiona d’ogni genere e specie di quella. Scritti da Gio. Mario Crescimbeni, ripubblicati da T. J. Mathias. Vol. III. Londra: presso T. Beckett, Pall Mall; dalla Stamperia di Bulmel e Co. Cleveland-Row, St. James’s. 1803, pp. 155-156.

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III La rappresentazione dello scontro

Ecco trà schiere infide mi rapisce sù l’Istro Austriaco Marte, e di prove non finte empio le carte. Francesco Maria Santinelli

1. L’elemento ternario, tra tema e struttura L’ipotesi dell’esistenza, da un punto di vista della forma, di una sorta di relazione “parentale” tra l’encomio lirico incentrato sulle vicende militari viennesi del 1683 e la produzione poetica celebrativa della vittoria di Lepanto del 1571 sembra dunque trovare una decisa conferma. Quasi incitati e sospinti dalla propaganda ufficiale del Papato – come dimostra la forte persistenza del culto mariano1 e la volontà dei pontefici di istituire rimandi simbolici e allusivi alla vittoria navale – i cantori del successo viennese si mossero, più o meno consapevolmente, nel solco già tracciato dai loro predecessori cinquecenteschi. Partendo da rilievi più generali, come l’analisi delle modalità esemplari di cir-

1 Come, ad esempio, nei Panegirici in Lode del SS. Nome di Maria Detti in Roma nella sua Chiesa da diversi Soggetti in occasione dell’Ottavario della Festa, che si celebra dalla sua Archiconfraternita eretta in memoria della liberazione di Vienna. Dedicati all’Eminentiss. e Reverentiss. Principe Alderano Cybo Decano del Sacro Collegio e Protettore Vigilantissimo. In Roma, MDCXCIX. Per Luca Antonio Chracas. Presso la Gran Curia Innocenziana. Con licenza de’ Superiori. Nell’«avvertimento» posto in calce al volume si legge che «a’ giorni nostri hà voluto la Gloriosa Vergine, che il suo Nome resti più che mai con particolar memoria, e veneratione glorificato presso li Fedeli. [...] Questa divozione del Nome di Maria [...] ultimamente si è per l’Universo distesa a i cenni della Santa Memoria d’Innocenzo XI Sommo Pontefice, à causa dell’insigne, e memorabile Vittoria riportata dall’armi Cristiane contro li Turchi, e della Città di Vienna in Austria, liberata dallo strettissimo assedio» (pp. 235-236).

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colazione di ampia parte di questa produzione, e attraversando contesti di diversa natura, come l’allestimento dei corpora antologici, le lingue adoperate dai poeti, alcuni tentativi sperimentali di genere e di metro da essi condotti, si è visto come molte delle modalità formali peculiari della letteratura lepantina trovassero un’interessante corrispondenza in un contesto storico e letterario cronologicamente e culturalmente posteriore, e come venissero utilizzate per veicolare topoi emotivi e letterari di marca sostanzialmente analoga. Dal punto di vista tematico – dell’analisi cioè dei temi più ampi e generali, e dei motivi più particolari e minuti – la corrispondenza Lepanto-Vienna sembrerebbe farsi invece più complessa e problematica: i cantori delle vicende viennesi, pur rimanendo all’interno della precedente dimensione descrittiva e senza mai distaccarsene nettamente, sembrano approfondire alcuni elementi che la letteratura lepantina aveva mantenuto in secondo piano. Alcune osservazioni a proposito della ricorrenza dell’elemento ternario – una ricorrenza che invade entrambi i versanti, strutturale e tematico, della produzione letteraria dell’epoca – costituisce, a questo proposito, un significativo esempio. L’analisi dei testi poetici lepantini sembra evidenziare l’alta incidenza dell’elemento ternario soprattutto sul piano esteriore, strutturale e formale. Mentre sul piano tematico il numero tre rinviava alla “perfezione”, in quanto cifra di spiccata pregnanza simbolica su un duplice versante – da una parte con il rimando ai concetti dottrinali di Trinità e insieme di Unità; dall’altra con l’allusione ai tre membri della Lega santa costituitasi nel 1571 tra Papato, Spagna e Venezia – sul piano formale esso risultava significativo in particolar modo in quel processo moltiplicativo-aggregativo che, sull’esempio petrarchesco delle tre “canzoni degli occhi” (RVF, LXXI-LXXIII), alcuni poeti lepantini (come Giulio Ballino, Curzio Gonzaga, Guido Gualtieri, ai quali va aggiunto il caso, cronologicamente successivo, del “trittico tragico” di Gabriello Chiabrera2) sfruttarono per produrre trilogie sororali di canzoni incentrate sulla riduzione di più individui all’unicità3. Sul piano della sperimentazione strutturale, questo processo si rivelò infatti destinato a funzionare e a offrire, un secolo dopo, soluzioni interessanti per i cantori del successo di Vienna, i quali non si lasciarono sfuggire l’opportunità di implementare le potenzialità narrative delle forme complesse della tradizione lirica alta – in particolare delle odi e delle canzoni – tramite l’aggregazione testuale di tipo ternario. È il caso, ad esempio, di Giovanni Antonio Marsilio, che per la sua operetta intitolata Il Trionfo della fede (1686) optava per una

2 Si tratta delle tre canzoni Per Agostino Barbarigo, Per Astorre Baglione e Piange la città di Famagosta, inserite nel libro secondo Delle Canzoni del Signor Gabriello Chiabrera (Genova, Bartoli, 1587). Cfr. TURCHI, Riflessi letterari in Italia della battaglia di Lepanto, cit., pp. 430-433. 3 Su cui cfr. MAMMANA, Lèpanto. Rime per la vittoria sul Turco, cit., pp. 85-92.

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distribuzione del materiale narrativo attorno a tre nuclei principali, in cui il racconto poetico dello scontro militare (che trovava luogo nella seconda ode del trittico, intitolata La Vittoria), veniva dapprima presentato nelle sue fasi preparatorie (prima ode, L’Assedio) e infine concluso con un componimento propriamente encomiastico-celebrativo (terza ode, Il Trionfo della Fede). La volontà di ricondurre i tre testi sotto un’unica intenzione narrativa è evidente, oltre che nello spazio loro assegnato (32 e 31 strofe nelle prime due odi; 56, quasi il doppio, nella terza), nell’opzione metrica: i tre componimenti presentano infatti una medesima struttura strofica di nove versi, la quale prevede a sua volta la medesima disposizione dello schema delle rime (abCabCcDD)4. Probabilmente, Marsilio traeva ispirazione da un altro testo, il trittico La congiura fallita (1683) di Giovan Domenico Gentile da Martone, nella cui architettura strutturale l’elemento ternario rappresentava un’opzione analoga. Si tratta infatti di un componimento poetico «distinto», come recita il titolo, in tre odi, le quali, possiamo aggiungere, sono introdotte da tre epigrammi elogiativi latini. Le odi risultano prive di un vero e proprio titolo autonomo, ma sono incentrate ciascuna su un particolare aspetto dell’evento narrato/celebrato (nella prima Si trattano tutti gli apparati della sanguinosa Guerra di Vienna; nella seconda si trattano gli accidenti Marziali occorsi nella sanguinosa Battaglia intorno le mura di Vienna; la terza, infine, narra Il Trionfo di Vienna, e l’allegrezze comuni delle Città più singolari d’Italia, etc.) secondo la medesima disposizione narrativa attuata nel testo di Marsilio. Inoltre – ancora una volta a sottolineare il processo aggregativo-riduttivo dei tre componimenti – essi sono costituiti dallo stesso numero di stanze (ventisette per ciascuna ode) e dallo stesso schema metrico (aBCaBcDdEE). Il numero delle stanze, evidentemente, deriva dalla tripla moltiplicazione del numero tre (27 = 3x3x3)5. Accanto alla volontà di ricondurre, quasi integralmente, gli elementi strutturali di cui la propria operetta è intessuta sotto il segno tipicamente ternario, l’a4 Il Trionfo della fede per la liberatione di Vienna, e Vittoria dell’Armi Cesaree, diviso in tre odi di Gio. Antonio Marsilio. Consecrato all’Altezza Serenissima di Ferdinando Carlo Duca di Mantova. In Roma, nella Stamperia di Gioseppe Vannacci. 1686. Con licenza de’ Superiori. Per un esperimento analogo, si veda inoltre Narrazione poetica distinta in tre Ode sopra l’assedio, e liberazione di Vienna vittoriosa de’ Turchi, e Ribelli l’anno 1683. Dedicata all’Eminentiss. [...] Cardinale Francesco Buonvisi [...] dall’Autore Iacopo Grappini. In Faenza, per Giorgio Andrea Zarafagli Stampatore Camerale, 1683. Con Licenza de’ Superiori, e Privilegio. 5 La Congiura fallita per Vienna liberata dall’Armi Austriache, sotto il Comando del Generalissimo Carlo Buglioni V Duca di Lorena, colla Unione del Serenissimo Rè di Polonia Giovanni Subieschi, Starembergh, & altri Principi Elettori. Distinta in trè Ode dal R.D.D. Gio: Domenico Gentile da Martone. Dedicata all’Illustriss. Signore D. Fortunato Carafa de’ Principi di Roccella. L’Anno della nostra Redenzione 1683. In Napoli. Per Gio: Francesco Paci, MDCLXXXIII.

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spetto più enigmatico del testo di Gentile da Martone è dato dal fatto che alcune informazioni, inserite in funzione narrativa, tradiscono una conoscenza approfondita e forse “di prima mano” degli eventi, dietro alla quale si celerebbe un interesse per le vicende della Casa d’Austria e dei suoi rappresentanti non legata esclusivamente alla sfera religiosa o soltanto ampiamente “storica”. La precisione dei dati sulla consistenza delle forze in campo e del numero delle vittime – ad esempio la dicitura puntuale «la Corrente di 284 mila Nemici»6 invece di una più comune cifra tonda – o l’accenno al frate Marco d’Aviano celebrante la messa alla vigilia della battaglia, alla presenza dell’intero stato maggiore confederato – «Del Serafico Padre un Figlio all’ora / con voce alta, e sonora / stese la destra, e ‘l Campo benedisse, / e ‘n fronte la Vittoria anco predisse»7 – presuppongono che, a un’altezza cronologica quanto meno sospetta per le possibilità di movimento e di circolazione delle notizie proprie della società dell’epoca (la dedica del testo è datata 6 novembre 1683), Gentile da Martone disponesse di una massa di informazioni più puntuali di quelle confuse e non del tutto veritiere consegnate dai vari Avvisi e Ragguagli alla fantasia degli altri poeti. Ciò induce a pensare che, probabilmente, egli disponesse di un canale privilegiato di contatti con l’ambiente filoasburgico napoletano: quell’ambiente che, qualche anno dopo, avrebbe contribuito attivamente all’instaurazione della breve parentesi austriaca nel governo della città8 e che, al momento opportuno, non avrebbe mancato di premiare la “fedeltà” di lunga data del poeta. Questi sarebbe infatti da identificare con il Domenico Gentile, accademico Inculto, vincitore, nell’aprile-luglio del 1723, della «Cattedra Primaria Matutina» di Diritto Civile presso la Real Università di Napoli. La prestigiosa assegnazione – immeritata, a detta degli storici (e della Storia) – gli fu favorita proprio dall’appoggio dell’allora vicerè asburgico, il cardinale Michele D’Althann; e si trattò di una vittoria che deluse molto Giambattista Vico, in quel frangente uno dei concorrenti sconfitti: «infelice evento» e «disavventura» sono, infatti, gli epiteti adoperati nell’Autobiografia per designare l’episodio9. Lo stesso Vico optava – per chiu-

Ivi, dedica, c. A2. Ivi, ode seconda, p. 32. 8 Sull’interferenza tra eventi politici e fenomeni letterari nella Napoli dei primo Settecento rinvio ai lavori di B. ALFONZETTI, in particolare i capitoli La congiura napoletana del 1701 nelle tragedie di Gravina e Pansuti e Controfigure di Eugenio nella tragedia eroica: l’Orazia di Pansuti, in EAD., Congiure. Dal poeta della botte all’eloquente giacobino (1701-1801), Roma, Bulzoni, 2001, pp. 37-107; EAD., Eugenio eroe perfettissimo. Dal canto dei Quirini alla rinascita tragica, in «Studi storici», I (2004), pp. 259-277; EAD., Politica e letteratura nel settecento. Ultimi studi e nuove prospettive, in Teatro e letteratura. Percorsi europei tra ’600 e ’900, a cura di S. Bellavia, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 47-78, in part. il paragrafo Letteratura e mito asburgico, pp. 55-60. 9 G. VICO, L’autobiografia, il carteggio e le poesie varie, a cura di B. Croce e F. Nicolini, Bari, Laterza, 1929, pp. 44-47. I testi di Vico si leggono oggi nell’edizione delle Opere, a 6

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dere circolarmente questa breve digressione – per l’elemento strutturale ternario nel Panegirico in tre Canzoni (1693-1694), composto in onore del duca Massimiliano Emanuele di Baviera, giovane colonnello a Vienna e conquistatore di Buda nel 1686 con Carlo di Lorena. Massimiliano Emanuele fu dedicatario, sempre nel 1694, di un’altra canzone encomiastico-epitalamica di Vico in occasione delle sue nozze con Teresa Cunegonda, figlia di Giovanni III Sobieski, l’eroe di Vienna10. L’ode La Sconfitta del marchese Francesco Maria Santinelli costituisce invece un significativo e paradigmatico esempio di una particolare modalità compositiva che insiste sulla ricorrenza dell’elemento retorico ternario sia nell’allestimento dell’iter narrativo che nell’istituzione dei parallelismi11. Da notare, in primo luogo, che l’ode è costruita secondo uno schema strofico di nove versi, predisposti secondo la tripla occorrenza della successione settenario-endecasillabo-endecasillabo (secondo lo schema aBCcBDdEE), il quale risulta senz’altro tra i più diffusi nel panorama della letteratura viennese12. Sondando il livello più

cura di A. Battisini, Milano, Mondadori, “I Meridiani”, 20074. Sul concorso napoletano del 1723 cfr. B. CROCE, I due concorsi universitarii di G.B. Vico. Documenti inediti, in «La Critica», VI (1908), fasc. IV, pp. 306-310; F. NICOLINI, La lezione di prova pel concorso alla cattedra mattutina di diritto civile, in G. VICO, Versi d’occasione e scritti di scuola, con appendice e bibliografia generale delle opere, a cura di F. Nicolini, Roma-Bari, Laterza, 1941, pp. 288-289; F. NICOLINI, Commento storico alla seconda Scienza nuova, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 1950, pp. 157 (n. 1156) e 178 (n. 1281). Sull’ambiente culturale napoletano del tempo, cfr. B. DE GIOVANNI, La vita intellettuale a Napoli fra la metà del ’600 e la restaurazione del Regno e A. QUONDAM, Dal Barocco all’Arcadia, in Storia di Napoli, Napoli, Società Editrice Storia di Napoli, 10 voll., 1967-1974, vol. VI (1970), rispettivamente alle pp. 401-500 e 809-1094; A. BATTISTINI, La cultura del primo Settecento, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di N. Borsellino e W. Pedullà, Milano, Federico Motta, 2004, vol. VII, Il secolo riformatore. Poesia e ragione nel Settecento, pp. 28-115. 10 VICO, Versi d’occasione e scritti di scuola, cit., pp. 10-27; ora in ID., Opere, cit., pp. 230-247. 11 La Sconfitta all’Altezza Serenissima del Signor Duca Carlo di Lorena per la formidabile vittoria riportata contro il Primo Visir, con la disfatta di tutto l’Esercito innumerabile de’ Turchi sotto Vienna liberata, e trionfante. Oda del marchese Santinelli Consagrata alla Sagra Maestà di Leopoldo I Imperadore. In Roma, nella Stamperia di Nicolò Angelo Tinassi Stampator Camerale, 1683. Con Licenza de’ Superiori. L’ode venne poi ripubblicata – con il titolo abbreviato Per la formidabile vittoria riportata contro il Primo Visir [...] – in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 88-93 (da cui cito) e di nuovo in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., pp. 116-120. 12 Solo per citare qualche altra occorrenza, segnalo le odi di Ignazio Marconi (Appalusi di Roma, per le vittorie dell’Armi Cristiane contro il Turco) e Nicolò Madrisio (Il Tempio del Dio delle Vittorie), con schema aBCaBCcDD; e di Gabriel Maria Meloncelli (Il Colosso) con schema aBCcABbDD (cfr. Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., rispettivamente alle pp. 241-248, 268-278, 112-120). Il numero totale delle strofe (30), la consistenza

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propriamente retorico del componimento, si può poi notare come tre siano le strofe dedicate, a mo’ di protasi, a individuare e ampliare – secondo una modulistica letteraria che trova anch’essa ampi riscontri nella produzione del tempo – la distanza incolmabile che separa le leggendarie imprese dell’Ercole mitologico, frutto «favoloso» della menzognera fantasia degli antichi (le «menzogne Argive»), dalle imprese dell’Ercole moderno, «vero Heroe» in carne e ossa e sotto gli occhi di tutti (il feldmaresciallo lorenese). Cetra, che al Ciel consegni Del Domator Teban l’Heroiche prove, Non più risuoni di menzogne Argive. Lasciate Aonie Dive Di più favoleggiar, ch’è figlio à un Giove, E historiar di Mostri Etherei segni. Paragoni più degni Chiedo al vostro furor, che non rimbomba D’hiperboli canore Isaura Tromba. Non di sognate Fere Per me Colonia Achea l’Etra diventa, Nè di stragi Lernee fecondo i laghi. Lascio gli Hesperj Draghi A gli Horti loro, ed Acheloo non tenta Segnar con piè di Tauro orme guerriere. Non vacillan le sfere Sul vecchio dorso à imaginario Atlante, Che sotto il peso lor gema anhelante. Di favoloso Alcide Non à i Colli latini anima gli echi, E assorda il sacro Ciel l’Epica Tuba. Un vero Heroe mi ruba Lontan da le follie d’Argivi spechi, Anzi lontan da la Romulea Elide, Ecco trà schiere infide Mi rapisce sù l’Istro Austriaco Marte, E di prove non finte empio le carte13.

versale (9 versi) e lo schema metrico (tripla occorrenza della successione settenario – doppio endecasillabo) testimoniano che l’opzione formale ternaria fu tenuta in considerazione anche da Bartolomeo Beverini (cfr. Nella Liberazione dell’Imperial Città di Vienna dall’Armi Turchesche. Oda. In Firenze MDCLXXXIII. Per Andrea Orlandini, all’Insegna de la Passione alla Condotta. Con Licenza de’ Superiori). Su Beverini cfr. C. LUCCHESINI, Vita del P. Bartolomeo Beverini Chierico Regolare della Madre di Dio, in Opere edite e inedite del Marchese Cesare Lucchesini, Tomo II, Lucca, dalla Tipografia Giusti, 1832, pp. 3-23. Una biografia di Beverini era stata inserita da Sarteschi nel suo De scriptoribus Congregationis clericorum regularum Matris Dei (Roma, 1753). 13 SANTINELLI, La Sconfitta, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 88-89.

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È da rilevare l’insistita e del tutto evidente simmetria che l’autore intende instaurare tra i diversi elementi delle tre strofe, o meglio tra i tre motivi principali (e topici) di cui è costituita ciascuna delle tre strofe. Schematizzando, si può notare come il motivo polemico della mendacità delle costruzioni mitologiche antiche sia posto in evidenza nei primi tre versi di ogni strofa (e sottolineato dai costrutti vagamente anaforici «non più», «non di», «Di… non»), cui segue, nei successivi tre versi, il motivo dell’abbandono della modalità tradizionale dell’encomio eroico («lasciate», «lascio», «mi ruba / lontan da le follie»), mentre il motivo della maggiore aderenza del proprio fare poetico alla realtà è esposto negli ultimi tre versi (con i costrutti «paragoni più degni», «non… à imaginario», «prove non finte»). Dopo un incipit del genere, così polemicamente violento e vigorosamente assertorio nella sua accusa alla mendacità mitologica antica, il mito erculeo viene di nuovo richiamato – ma questa volta con toni positivi – nella stanza successiva, come parte di un “trittico” di riferimenti indispensabili per definire la grandezza dell’eroe moderno. O del pio Capitano, Che il Gran Sepolcro liberò di Christo Reliquia Trionfal, maggior Nipote; Tù l’Hercol sei, che puote Far con più pronto, e glorioso acquisto Tomba a un Mondo di Thraci il suol Germano. Col senno, e con la mano Tù sei, che il Turco Faraon sconfitto Fai, che trovi ne l’Istro il mar d’Egitto14.

Anche in questa strofe il confronto è retto su un paragone di tipo ternario: nell’ordine, Goffredo di Buglione, Ercole e Mosè. Al tratteggio di ciascuna delle tre figure del rimando, seguendo la medesima disposizione retorica sopra individuata, l’autore dedica tre versi. Esse appartengono inoltre a tre diversi momenti culturali (la storia, la mitologia classica e la mitologia sacra) di uno scontro che l’autore intende ricondurre all’interno di un’unica dimensione: il tassello di evidente marca tassiana («pio Capitano», «glorioso acquisto», «col senno, e con la mano»), opportunamente inserito e ben evidenziato in ciascuno dei tre gruppi di versi, sembrerebbe infatti riportare l’intera strofa sotto il comune denominatore – come vedremo, il “contenitore” ideologico di riferimento – della lotta crucisignata. È proprio questo il senso del rimando erculeo, a prima vista così dissonante e incoerente con il precedente attacco: Ercole come uccisore dei mostri della Tracia e dunque, per estensione, degli Ottomani.

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Infine, è ancora di tipo ternario (tematico e insieme retorico) il paragone istituito, nella strofa successiva, tra la situazione viennese del 1683 e alcuni dei più celebri assedi della storia: l’avventura di Serse in Grecia, nel V sec. a C.; la caduta di Gerusalemme; il primo assedio di Vienna del 1529, ai tempi di Carlo V, a opera del sultano Solimano: Incredibil racconto Penso il ridir quante falangi avverse Trasse sotto Vienna il fier Visire. Quando tentò d’unire L’Asia à l’’Europa il temerario Xerse Meno assai ne varcar l’ampio Hellesponto. Sotto Sion non conto Tante armi unite, e Soliman non parmi, Ch’unisse contra Carlo unqa tante Armi15.

L’opzione ternaria sul piano della disposizione retorica, così evidente nel testo del marchese Santinelli, compare anche in un’ode anonima, intitolata Vienna liberata e dedicata al principe di Parma Alessandro Farnese. Anche in questo testo risalta l’intenzione dell’autore di instaurare – attraverso insistiti procedimenti anaforici – una relazione iso(tri)membre tra le due strofe, l’ultima delle quali conclusa da un ulteriore suggello ternario: Chi dunque è mai, che in sanguinoso Agone Su Giganti Ottomani De l’Etra favolosa i vanti avvera? Chi con destra severa D’aggressori Titani Or riporta su l’Istro ampie corone? Qual Divino Campione Erge sicuro con possanza integra D’alte offese atterrate Austriaca Flegra? Del combattuto Ciel d’Imperio invitto Tu sei Monarca Augusto Ch’apri in Scena di gloria Odrisij danni. Tu Regnator Giovanni Ch’al fuggitivo ingiusto In seno al Rab desti feral tragitto: E Tù nel gran conflitto Carlo primo à gl’assalti; onde le prove Sì, che son d’un Alcide, un Marte, e un Giove16.

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Ibidem. Anonimo, Vienna liberata, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 113.

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Nel panorama della letteratura encomiastica viennese la cifra ternaria appare veicolata anche attraverso una molteplicità di aspetti che, talvolta, convergono nel definirsi elemento propriamente tematico. In particolare quando essi tradiscono l’intenzione degli autori di istituire simmetrie ben definite tra la veste retorica del testo e il contenuto che essa veicola, tra l’elemento tematico allusivo al numero tre e la disposizione retorica dell’allusione. In un sonetto di Bartolomeo Duranti, per esempio, l’empia discordia civile tra tre protagonisti aveva condotto al crollo della Repubblica di Roma («Ma se d’empie discordie in vil trofeo / tre Marti a Roma dier crollo funesto, / un’Antonio, un’Ottavio, & un Pompeo»), mentre la pia concordia dei tre comandanti cristiani ha permesso il felice scioglimento dell’assedio viennese («Su l’Istro, uniti a prò del Popol mesto, / fulminaron tre Alcidi il Tracio Anteo, / un Giovanni, un Lorena, & un Ernesto»)17. Da notare inoltre, in questo passaggio, l’aderenza della disposizione retorica al contenuto tematico: tre sono i versi dedicati a ciascuna coppia; il «tre» citato in evidenza nel secondo verso di ogni terna; l’ultimo verso costruito interamente sul nome dei tre protagonisti. Un procedimento non dissimile si legge anche nell’inno Al Vicedio di De Lemene: la domanda, retorica, su chi abbia compiuto lo sterminio ottomano (tre domande in tre versi: «Chi vibra l’asta, e tanto ardire abbatte? / Chi ruota il brando, e tante schiere ha sparte? / Chi ‘ncalza, e fiede a’ fuggitivi il tergo?») trova risposta in una triade di protagonisti («L’Eroe Starembergo, / l’Ercol d’Austria, e di Sarmazia il Marte»); ma anche in questo caso, come altrove, la distinzione ternaria deve essere ricondotta sotto il segno dell’unicità («Tre fulmini del Cielo, ò un Fulmin solo, / che con punta trifulca impenna il volo»18). Infine, un sonetto di Ruggiero Caetani risulta anch’esso costruito con l’intenzione di veicolare con un’adeguata veste retorica il contenuto esposto. La prima quartina espone due motivi principali: il rinvio all’interferenza “celeste” nei fatti del mondo («Mostruoso stupor; gl’Astri dal Cielo / a Caratteri d’or svelano al Mondo») e il rinvio di marca ternaria, anche in questo caso nel tentativo di uniformarlo sotto il segno dell’unicità («che trè di loro in un congresso in Cielo / danno in un giorno trè Prodigi al Mondo»). Successivamente l’autore dedica tre coppie versali alla descrizione dei tre episodi cui vuole alludere: la promozione dei cardinali annunciata da papa Odescalchi («Un’Innocenzo datoci dal Cielo / promove à gl’Ostri le Virtudi al Mondo»), la nascita del terzo figlio del Delfino di Francia («Per dar trè Eroi al Gran Delfino il Cielo / concede un Terzo Figlio al Franco Mondo»), e la conquista cristiana di Buda («Nel perder Buda l’Ottomano Cielo / lascia la Luna ottenebrata al Mondo»), quest’ultima coppia chiusa circolarmente dal rinvio alla

B. DURANTI, Alla Maestà di Giovanni III Rè di Polonia, Carlo Duca di Lorena, Ernesto Conte di Starembergh, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 153. 18 DE LEMENE, Al Vicedio, in ID., Dio. Sonetti, & Hinni, cit., p. xxij. 17

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dimensione “celeste” del verso successivo («trofeo di fidi Eroi scritto nel Cielo»). La terzina finale suggella l’incontro tra la disposizione retorica e il predicato tematico: «Venere splende à prò de’ Franchi al Mondo; / cede à Carlo l’Acciar Marte dal Cielo; / S’inchina Giove al Pio Rettor del Mondo»19. 2. Il «Sole» e la «Luna», l’«oscurità» e la «luce» Le metafore del sole e della luce vittoriosa sulle tenebre sono immagini che si impongono universalmente; e, in rapporto ai loro opposti, rappresentano antitesi senza età, le quali – in determinati periodi segnati dal conflitto e dal dissidio – riescono a sovraccaricarsi, con una predilezione appassionata, di valori profondi e di molteplici sfumature20. Per riduzione simbolica, il “Nemico” (politico, religioso, civile) assume l’apparenza di una nube oscura, di una notte buia, di un flagello cosmico; e la lotta contro di esso, mantenendo lo stesso linguaggio simbolico, deve avere come obiettivo l’irruzione della luce. Il mito solare, secondo Jean Starobinski, «è una di quelle rappresentazioni collettive il cui carattere generale e impreciso ha per controparte un gran potere di diffusione. […] Questo mito si situa a un livello di consapevolezza che è al tempo stesso quello dell’interpretazione del reale e quello della produzione di una nuova realtà. È una lettura immaginaria del momento storico, e contemporaneamente un atto creatore […]. A partire da qui, è forse possibile trattare su uno stesso piano un certo numero di idee, di eventi, di opere d’arte, la cui parentela diventa riconoscibile grazie al legame favoloso che tutti li unisce. La semplice immagine della luce trionfante […] è un’immagine chiave»21. In ambito italiano, la metafore del sole e della luce rivelano – al tempo della guerra di Vienna, e poi ancora per qualche decennio – una prosperosa fecondità e una notevole vitalità. Per quanto concerne l’accezione filosofico-razionale, Amedeo Quondam ha attraversato l’analisi del simbolismo della luce in seno agli studi sulle Egloghe di Gianvincenzo Gravina; o, meglio, di alcuni aspetti dell’approccio conoscitivo elaborato dal filosofo-giurista calabrese nei suoi componimenti pastorali con riferimento alla “filosofia della luce” e dei “luminosi”22. In

19 R. CAETANI, Il Trifauce Infernale abbattuto dal Gerione Celeste per li trè Memorabili portenti successi nel Mondo alli 2. di Settembre 1686, in Poesie di diversi Autori sopra le gloriosa Conquista fatta dall’Armi Cesaree della Real Città di di Buda, cit., p. 145. 20 Per un’analisi dell’immagine solare nell’età della Rivoluzione in Francia cfr. J. STAROBINSKI, 1789: Le emblémes de la raison, Paris, Flammarion, 1979 (trad. it.: 1789. I sogni e gli incubi della ragione, Milano, Garzanti, 1987). 21 Ivi, pp. 27-29. 22 A. QUONDAM, Cultura e ideologia di Gianvincenzo Gravina, Milano, Mursia, 1968; ID., Filosofia della luce e luminosi nelle egloghe del Gravina. Documenti per un capitolo della cultura filosofica di fine Seicento, Napoli, Guida, 1970.

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anni più recenti, Sabrina Stroppa ha invece analizzato le implicazioni religiose riscontrabili negli oratori sacri di Metastasio, all’interno dei quali l’insistenza del poeta sull’immagine della luce concorre a delineare, nell’analisi condotta dalla studiosa, un interessante percorso di lettura23. Oltre alla dimensione filosofico-conoscitiva e teologico-dottrinale, infine, è da notare la vitalità della metafora sul piano esoterico, alchemico ed ermetico (già segnalata, del resto, da Quondam24), come dimostrano, ad esempio, l’importanza dell’immagine e delle allusioni al “Sole” presenti nelle incisioni inserite nelle opere del gesuita Athanasius Kircher25, o in alcuni sonetti del poeta-alchimista Francesco Maria Santinelli26. Si tratta di richiami che, in definitiva, mettono in guardia lo studioso da un’enunciazione critica troppo invasiva e assertoria e che non tenga conto delle molteplici implicazioni cui l’allusione alla “luce” e al “sole” sembra rimandare27. Nel contesto della produzione celebrativa della vittoria viennese, queste immagini trovano una ricorrenza notevole, favorita innanzitutto, sul piano della costruzione letteraria, dalla facilità con cui l’enunciazione positiva riservata ai cristiani (il sole e la luce) – anche sulla scorta di Apocalisse, 12:1 («una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi»)28 – trova il corrispettivo opposto,

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1993.

S. STROPPA, «Fra notturni sereni». Le azioni sacre di Metastasio, Firenze, Olschki,

QUONDAM, Filosofia della luce e luminosi, cit., pp. 17-18. Cfr. su questi aspetti L. TONGIORGI TOMASI, Il simbolismo delle immagini: i frontespizi delle opere di Kircher; V. RIVOSECCHI, Il simbolismo della luce; M. G. IANNIELLO, Kircher e l’Ars Magna Lucis et Umbrae, in Enciclopedismo in Roma barocca. Athanasius Kircher e il museo del Collegio romano tra Wunderkammer e museo scientifico, a cura di M. Casciato, M. G. Ianniello, M. Vitale, Venezia, Marsilio, 1986, rispettivamente alle pp. 165-175, 217-222, 223-235; A. M. PARTINI, Atanasius Kircher e l’alchimia. Testi scelti e commentati, Roma, Edizioni Mediterranee, 2004, in part. le pp. 23-29 e 167-184. Sulle metafore della luce e del sole come raccordi tra tradizioni dottrinali esteriormente diverse e antagoniste (cristiane e arabo-giudaiche; cristiane ed ermetiche), cfr. F. A. YATES, The Rosicrucian Enlightment, London, Routledge & Kegan Paul, 1972 (trad. it.: L’Illuminismo dei Rosacroce, Torino, Einaudi, 1976). 26 F. M. S ANTINELLI , Sonetti alchemici, a cura di A. M. Partini, Roma, Edizioni Mediterranee, 1985. 27 Per un approccio multidisciplinare al tema si veda il volume La luce e le sue metafore, a cura di B. Donatelli, Roma, Nuova Arnica, 1993; in particolare i saggi di E. ZOLLA, La luce nelle tradizioni, ivi, pp. 13-23; B. PAPASOGLI, La luce nella poesia di Hopil, o l’icona della gloria, ivi, pp. 24-35; J. RISSET, La lumière paradisiaque, ivi, pp. 67-75; N. CABIBBO, La fisica della luce, ivi, pp. 93-102. 28 Come ad esempio nel lungo «epinicio» di G. PRATI, Il Trionfo di Cesare per la memorabil Vittoria riportata sopra l’armi Ottomane: «Deh tu, Diva, ch’ascondi / Cinthia sotto le piante, il braccio stendi, / e da insidie cognate Austria difendi» (in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 175-195: 193). Il testo era già stato pubblicato in 24

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di stampo negativo, riservato agli infedeli (la luna e le tenebre); un’opposizione, inoltre, agevolata dall’immaginario araldico tradizionale, che identifica l’Islam con la nota immagine della Mezzaluna crescente. Tra le più rappresentative articolazioni del tema “luce vs tenebra” è da segnalare in primo luogo il motivo della coppia oppositiva “luce che beatifica” vs “mancanza di luce come simbolo di cecità bestiale”. Il primo termine dell’opposizione – la “luce che beatifica” – trova un’interessante declinazione nel poemetto Della Vittoria ottenuta contro l’Armi Ottomane sotto i ricinti di Vienna (1684 o 1685) del poeta folignate Ovidio Unti: Luce ch’eternamente il raggio ardendo Alla beatitudine conduce, Luce che incomprensibile lucendo Non confonde abbagliando ove riluce, Luce, che irriga il Ciel, che versa amica Da fonti suoi, l’eternitade antica. Luce, abisso di luce, il più lucente Cagion di ogni altra luce, al cui splendore Riceve ogni sua luce il raggio ardente Del Sol lucido prencipe dell’ore, Luce, che beatifica ogni mente, Luce, ch’ove non luce è sempre orrore, Luce Trina, che luce in Una essenza, Luce eterna, altra Luce, e Luce immenza29.

Il secondo termine dell’opposizione, il motivo della “mancanza di luce come simbolo di cecità bestiale” – è invece enunciato nella Congiura fallita di Giovanni Domenico Gentile. Secondo la lettura politico-militare offerta dall’autore, la ribellione dei nobili magiari contro l’autorità imperiale («l’ingiurie macchinate contro i Grandi»), con l’ungherese Imre Töcköly (il «Conte Teklì») alla loro guida, che favorì l’ingresso dell’armata turca nel cuore dell’impero asbur-

foglio volante: Il Trionfo di Cesare per la memorabil Vittoria riportata sopra l’armi Ottomane, ch’assediavano la Imperial Vienna, generosamente liberata dalla zelante Assistenza di N.S. Innocenzio XI. P.O.M. e dal formidabile Essercito di Gio: Terzo Rè inuittissimo di Polonia. Epinicio consegrato all’Illustrissimi, & Eccellentissimi Signori Don Paolo e Don Scipione Fratelli Borghesi, Giovani nella loro adolescenza d’alte speranze. Da Gio. Prati Accademico Infecondo di Roma, e Pacifico di Venezia. In Roma, per Francesco Tizzoni. 1683. Con Lic. de’ Sup. Si vendono in Piazza Madama in bottega di Francesco Leone Libraro, su cui cfr. BILIŃSKI, Le glorie di Giovanni III Sobieski, cit., pp. 203-209, 261, 281, 304. 29 Della Vittoria ottenuta contro l’Armi Ottomane sotto i ricinti di Vienna. Racconto di Ovidio Unti da Fuligno. [...] In Fuligno, per Gaetano Zenobj, Stampatore Episcopale, p. 26, su cui cfr. P. LAI, Vienna assediata dal turco invasore nell’anno 1683 in un poemetto di Ovidio Unti folignate, in «Bollettino storico della città di Foligno», vol. XII (1988), pp. 322-348.

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gico, viene infatti rappresentata come un gesto di dissennata stoltezza («melensaggine»), la cui bestialità («a guisa di Talpe») è resa ancor più evidente dall’incapacità intellettuale dimostrata dai ribelli («La libertà del Senso sovente accieca l’occhio dell’intelletto»; «non potendo alzar un raggio colle pupille dell’intelletto») di comprendere la reale portata della loro azione, qui lapidariamente definita con una consueta perifrasi iperbolica e paradossale («parve loro à bell’agio poter bendare i raggi luminosi del Sole Austriaco, al quale da simpatia fissavano gli occhi l’Aquile Imperiali de’ Cesari»)30. Questo stesso motivo trova un’ulteriore declinazione – su un piano che coinvolge, insieme, dimensione politico-militare e riflessione religiosa – nella canzone per musica intitolata Lamento del Gran Sultano di Giovanni Pietro Monesio: secondo un modulo che trova ampio riscontro nella produzione celebrativa di quegli anni, la dichiarazione di fallimento che nella finzione letteraria il sultano è costretto a pronunciare all’indomani dei fatti viennesi è accoppiata a una seconda, conseguente dichiarazione, relativa all’eventualità di rinnegare la religione islamica («Per me s’oscuri / l’Odrisia Luna / nel fosco Pol») e abbracciare la fede cristiana “vincente” («Che i veri auguri / di mia fortuna / havrò del Sol; / da quel Sole, che a i Giusti i rai dispensa, / e a la mia cecità dà luce immensa»31). Accanto all’opposizione luce vs tenebra, ampia eco assume poi il motivo dell’opposizione sole vs luna, intrecciato a sua volta al motivo astronomico e “naturale” della scomparsa dell’astro notturno all’apparire del sole («L’Odrisia Luna impallidisce, e langue, [...] inclito Sol, ed oscurata omai, / al tuo apparir fugge, e sparisce esangue»32; «Se clima opposto al Sol sempre s’imbruna / deve, hor che il Sol nell’Occidente nasce, / nell’Oriente tramontar la Luna»33; «Ostro, in cui tutti i raggi il Sole aduna, [...] raggi, che oscureran la Thracia Luna»34). Per quanto concerne l’immagine “assoluta” della luna, un notevole rilievo assumono i giochi d’immagine dedicati a questo motivo: in particolare la luna 30 «La libertà del Senso sovente accieca l’occhio dell’intelletto, com’anche offusca i sentimenti della ragione. Dalle nubi di questa libertà sensuale velato il discorso del Conte Teklì, col Budiani, & altri, parve loro à bell’agio poter bendare i raggi luminosi del Sole Austriaco, al quale da simpatia fissavano gli occhi l’Aquile Imperiali de’ Cesari. […] A guisa di Talpe, non potendo alzar un raggio colle pupille dell’intelletto alla loro melensaggine, e confessare, che l’ingiurie macchinate contro i Grandi, à forza d’astri propizj ridondano all’esterminio di loro stessi, si rese fugace, e raminga la Turba hostile de’ Traditori Cesarei» (GENTILE, La Congiura fallita, cit., c. A2). 31 G. P. MONESIO, Lamento del Gran Sultano per la Rotta havuta dal suo Esercito sotto Vienna, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 170-174: 173. 32 N. F. SAULINO, Sul medesimo Soggetto [Giovanni III], ivi, p. 270. 33 MATTEI, All’Augustissima Eleonora. Per la nascita dell’Arciduca Nipote e per la inclusion della Pace, in ID., Arte Poetica d’Horatio parafrasata, cit., p. 52. 34 SANTINELLI, All’Eccellentissimo Signore Leonardo Dolfin nell’Entrata alla Procuratia di S. Marco, in ID., Delle Poesie, cit., parte prima, p. 25.

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come “falce” che miete vittime turche («Egli à mieter sù l’Istro Arabe Vite / quasi cangiò l’Ismara Luna in Falce»35), o l’opposizione luna crescente vs luna calante, tesa a simboleggiare che, una volta raggiunto l’apice della sua potenza, l’impero turco dovrà necessariamente vivere una nuova fase di regressione e scomparsa («già di Macon son l’armi stanche; / già cade il Trono: e se la Tracia Luna / crebbe al segno maggior, forz’è che manche»36; «Quando la Luna / hà l’Orbe già pieno, / allora vien meno»37). Quantitativamente significativa è poi la persistenza del motivo della “luna dolente” o del “lamento della luna”, che compare generalmente nel contesto di una dimensione polemica e paradossale, a sottolinearne l’aspetto tendenzialmente comico-denigratorio. Talvolta la Luna viene rappresentata nell’atto di esprimere le sue risentite lamentele al fratello “solare” Apollo, nume protettore dei poeti («Del biondo Dio la candida Sorella [...] al fulgido German così favella») per gli oltraggi poetici e le offese in versi che la vicenda viennese continua incessantemente a procurarle («ne l’eccidio del barbaro Ottomano, / de’ Poetici scherzi oggetto strano»): E che hò fatt’io a la tua Turba ancella, De le Suore Pimplèe Rettor Sovrano, Che con garrula sferza, ardire insano, Mi deride, m’oltraggia, e mi flagella? Se porgendo a’ miei Rai sciocche preghiere M’incensa il Trace, e riverisce il Geta, Perche fare al mio Nume onte sì fiere? Ma de’ Vati al furore in van fui meta, Che più, ch’il Turco ne le sue bandiere, Ha nel cervel la Luna ogni Poeta38.

Altrove, invece, l’accento è posto sull’aspetto latamente religioso, come nei versi per musica di Iacopo Sardini, che sembrano ironicamente invertire le parti

35 DURANTI, Alla Maestà del Rè di Polonia, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 146-148. 36 ID., Alla Sacra Cesarea Maestà dell’Imperatore Leopoldo I, ivi, p. 149. 37 LOTTI, Arietta morale, in Poesie latine, e toscane del Sig. Giovanni Lotti, date in luce da Ambrogio Lancellotti suo Nipote, e secondo la mente dell’Autore divise in trè parti. E dedicate all’immortalità del Nome degli Eminentissimi Signori Cardinali Carlo Barberini, e Francesco Nerli, e dell’Eccellentiss. Principe Sig. D. Lorenzo Colonna, Vicerè, e Gran Contestabile del Regno di Napoli & c. In Roma, per Gio: Giacomo Komarek Bohemo, 1688. Con licenza de’ Superiori, parte prima, pp. 45-46. 38 MONESIO, Si duole la Luna con Febo suo fratello, d’essere stata tanto oltraggiata da’ Poeti ne’ loro Componimenti in occasione della presente Vittoria avutasi contro il Turco, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 168.

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assegnate dalla Storia ai due contendenti in conflitto39. Alla notizia che l’assedio di Buda sta per giungere alle sue battute conclusive, la Luna si reca da Giove («Superno Tonante / del primo Ciel la Dea mesta, e dolente / al piede tuo s’inchina») per esporre le proprie accorate querele («mira / di gente à me nemica hoste possente / a’ danni sol de’ miei seguaci accinta») e per chiedere un intervento decisivo, senza il quale la città a lei fedele risulterà condannata («Giove; se giusto sei, sull’empio stuolo / tua destra ultrice i fulmini n’avventi»)40. La preghiera della Luna ricalca – letteralmente e letterariamente – le preghiere rivolte dai cristiani alla Madonna alla vigilia della battaglia per Vienna: Tuo guardo volgi alla Pannonia [...] Della Città Reina Ch’all’immagine mia offre gl’incensi, Mira l’alto recinto Cader lacero al suolo. [...] Delle Madri dolenti Odi i singulti, odi le voci, e i voti. Danne aita, e consiglio Tu, che puoi tutto, in sì vicin periglio. Non sdegnare udir chi prega O suprema deità. S’a te il mondo umil si piega...41

Dopo aver ricevuto dal dio della guerra Marte la notizia della clamorosa caduta di Buda («Il Musulman fu vinto; e la sì forte / Unghera Reggia a lui rapita a forza») e dell’eccidio turco che ne è seguito («Ostinato contrasto / più bella rese la vittoria, e tanti / Traci svenati al suol mirai, ch’il giuro / a stragi così vaste / il Danubio non à tomba, che baste»)42, la dea prorompe nel vero e proprio “lamento” – che sfiora i toni dell’accusa – fondato sostanzialmente su una motivazione di fondo: adorando la Luna, i turchi non fanno che rendere omaggio a una delle divinità del pantheon olimpico; per questo motivo essi meritano, così come gli “apollinei”, la protezione e il conforto delle altre divinità («Di chi del Ciel le Deitadi onora, / con sì barbaro esempio / tal si permette scempio? / O Numi voi, che mie querele udite, / favellate, che dite?»), dal momento che, sco-

39 [I. SARDINI] La Luna dolente nel Trionfo de gli Austriaci. Concerto per Musica cantato nell’Accademia de gli Oscuri di Lucca per l’acquisto di Buda l’anno 1686. In Lucca MDCLXXXVI. Per i Marescandoli. Con Licenza de’ Superiori. 40 Ivi, parte seconda, p. 5. 41 Ibidem. 42 Ivi, pp. 6-7.

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prendosi d’un tratto abbandonati dai celesti, gli uomini potrebbero comprensibilmente maturare perniciosi sentimenti d’ateismo o blasfemia («Nostra aita a chi l’impetra / se non diam, che si dirà? / Che noi siam quassù nell’Etra / insensate Deità»). Il silenzio degli altri dei olimpici non può che persuadere la Luna della propria solitudine e convincerla dell’inutilità della richiesta («Pur voi tacete, e col silenzio vostro, / Numi v’intendo, il duolo mio schernite»)43. Di fervido trionfalismo di marca religiosa si nutre, infine, anche il motivo dell’“apostrofe alla luna”, ancora una volta intesa come simbolo supremo della “infernale” empietà musulmana, e dunque bersaglio preferito della polemica dottrinale. In un’ode di Pier Ugolino Aresti, ad esempio, l’apostrofe alla luna coinvolge un’eterogenea molteplicità di allusioni, tutte esposte in chiave decisamente denigratoria: dal riferimento astronomico («Luna infelice: or dove i tuoi progressi? / Retrograda oggi sei; ben ti ravviso / partita in Quarti; e sol con rai dimessi / spieghi macchie d’obbrobrio intorno al viso») a quello mitologico («Fosti Arbitra del Mar, Diva degli Astri, / fu il tuo Cerchio agli Eroi nido divino; / or ludibrio del Mar, Dea di disastri, / la tua sfera è de’ Bruti antro ferino»), a quello “storico” e “religioso” contemporaneo («Le tue barbarie, ch’inumani insulti / portaro al sacro Impero, egli [Innocenzo/Giove] ha già dome: / Trivia abborre or nel Mondo, e n’odia il culto, / e in Terra, e in Ciel vuole abolirne il nome»). La “caduta” della Luna dalla sua antica posizione di rilievo – fra gli astri del Cielo come fra i popoli della Terra – testimonia quindi del suo irrimediabile esilio infernale («Misera or che farai? Ma s’è prefisso, / che tu col Ciel perda la Terra ancora; / sia conforto al tuo cor, ch’unqua l’Abisso / a te non mancherà, né a chi t’adora»)44. Quest’ultima allusione risulta vitale anche all’interno della produzione iconografica coeva. La conquista di Buda del 1686 ispirò a Giuseppe Maria Mitelli un’incisione, intitolata La Chiesa Trionfante in Lega d’altri Potentati Cattolici contro li Giganti ottomani (FIG. 9): in alto, alle spalle della raffigurazione allegorica della Chiesa, splende un grande Sole che dissipa le nubi, illumina tutta la scena, e allontana e “oscura” con i suoi raggi – per riprendere l’espressione concettosa cara ai poeti del tempo – la Mezzaluna, qui raffigurata come calante a sottolineare il motivo trionfalistico e allo stesso tempo denigratorio. La scena riporta inoltre altri motivi topici. In riferimento alla polemica religiosa, ai lati della scena si vedono due diavoli (allegoria dell’empietà del loro “errore” di

Ivi, p. 7. La Luna esterminata. Alla Santità di Nostro Sig.re Innocenzio Undecimo. Oda di Pier Ugolino Aresti. In Macerata, appresso Carlo Zenobj, MDCLXXXVI. Con licenza de Superiori, s.n.p. Su questo autore, cfr. Biblioteca Picena, o sia Notizie istoriche delle opere e degli Scrittori piceni. Tomo I. Lett. A. Osimo, MDCCXC. Presso Domenicantonio Quercetti Stamp. Vesc. e Pubb: Con Approvazione, p. 206. 43

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fede) che trascinano a sé, con lacci e forconi, due turchi, questi ultimi raffigurati nell’atto – anch’esso significativo – di cadere dalla sommità della montagna. Per quanto concerne invece la dimensione storico-politica, vanno notate, in alto e al centro della scena, le raffigurazioni allegoriche degli stati membri della Sacra Lega (il Cavaliere di Polonia, l’Aquila Imperiale e il Leone alato di San Marco, sormontate e illuminate dalla Chiesa trionfante) mentre si accaniscono contro un turco che cerca invano di proteggere lo Stendardo del Profeta, l’emblema per eccellenza del potere militare ottomano. ***** Oltre che in opposizione alla “luna”, l’immagine del “sole” viene accostata ai protagonisti principali della vicenda viennese anche secondo modalità assolute. Nelle pagine precedenti si è suggerito come uno degli aspetti peculiari del Ragionamento di Stefano Pignatelli sulla vittoria viennese fosse la volontà dell’autore di giocare tutto il proprio discorso su simmetrie fermamente impostate e su temi caparbiamente perseguiti. Mentre a livello macro-strutturale il testo appare articolato intorno all’elemento ternario – nell’instaurazione cioè di due “terne” di protagonisti, “ideali” e “reali” – dal punto di vista tematico l’elemento principale – che precorre, percorre e a un certo punto invade tutte le articolazioni concettuali del discorso – è invece l’immagine del «Sole», qui presentata secondo una strategia che prevede il puntuale accostamento di essa a ogni elemento architettonico o, talvolta, soltanto decorativo del testo45.

45 Il Ragionamento di Stefano Pignatelli fu dedicato a Don Livio Odescalchi (16521713), nipote di papa Innocenzo XI, cultore di studi alchemico-ermetici e astrologici, e autore di un trattato De Sphera, rimasto inedito e oggi conservato a Roma tra le carte dell’Archivio della famiglia Odescalchi (cfr. ALFESIBEO CARIO, Livio Odescalchi, in Notizie istoriche degli Arcadi morti, tomo primo, cit., pp. 308-313). Marco Pizzo rimanda ad alcune medaglie celebrative eseguite in seguito alla vittoria di Vienna, dove Livio viene paragonato al sole nascente (PIZZO, La vittoria di Vienna (1683) e gli Odescalchi, cit., in part. le pp. 352 sgg.). Per un’eventuale decodificazione del riferimento “solare”, così insistente in numerosi testi collegati (per dedica o secondo diverse modalità) alla figura di Livio Odescalchi – che, ricordo en passant, fu uno dei rappresentanti del partito filoimperiale romano; fu uno degli acquisitori, con i filofrancesi Ottoboni, della celebre collezione della defunta Cristina di Svezia (su cui cfr. Cristina di Svezia: le collezioni reali. Catalogo della mostra, Milano, Electa, 2003); fu, infine, tra i primi protettori della “scismatica” Accademia dei Quirini – credo si debba partire appunto da queste osservazioni. Cfr. inoltre R. G UÊZE , Livio Odescalchi e il Ducato di Sirmio, in Venezia, Italia, Ungheria fra Arcadia e Illuminismo, cit., pp. 43-50; G. PLATANIA, Maria Casimira Sobieska a Roma. Alcuni episodi del soggiorno romano di una regina polacca, in «Effetto Roma». Il viaggio, Roma, Istituto Nazionale di Studi Romani, 1995, pp. 9-48; PIZZO, Italia e Europa nelle carte Odescalchi, in L’Europa di Giovanni Sobieski, cit., pp. 37-54.

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La «verità» del tema, che come si è visto costituisce per Pignatelli uno dei «pregi» dell’opera, viene infatti fin dall’esordio paragonata al «sole» («I fregi della Poesia in tal uopo niente posson giovarmi: è la luce della verità il mio tema, simile a quella del Sole, a cui ogni ornamento serve di velo»46); allo stesso modo, tutto lo svolgimento della guerra di Vienna non può che presentarsi come l’alba di una nuova era («Allorché il Sole indora co’ suoi splendori le cime de’ Monti, che può appresso aspettarsi, salvo che di veder fra poco tutto il Mondo illuminato?»47), l’era che vedrà finalmente l’Oriente infedele tornare cristiano («Se il Sol della Fede spuntò dapprima nell’Oriente, & indi s’indirizzò col suo Carro ad apportar il Giorno nell’Occidente; ragion chiede, che con un viaggio incognito al Sole; volga ora la stessa Fede nuovamente il suo Carro dall’Occidente ad arrecar un più bello, e più chiaro Giorno nell’Oriente»48) e godere dello splendore dei raggi di un sole intramontabile («Taccia chi disse che [...] abbiam Noi un’illustre notte, splendendo ora molte stelle, e non un chiaro giorno; perché siam privi d’un Sole. [...] Splendettero quel dì tanti Soli, e di tal Sorte, che mai non àn veduto, e non vedranno l’occaso»49). Anche l’«unione» – l’alleanza – dei tre protagonisti principali della vicenda («dalle propizie influenze de’ quali, quasi da tanti Soli, chi non vede esser germogliata la nostra salute, la nostra felicità?»50) viene suggellata dal rimando alla similitudine solare: Non è sì bella, ne tanto s’ammira l’Iride in Cielo, quanto è bella, e ammirasi in Terra la vostra Unione, che può anch’ella, come l’Iride altresì nominarsi, fregio del Cielo, e Prole del Miracolo. Ne con sì splendidi caratteri dipigne l’Iride in Cielo la Vittoria, che riporta il Sol delle nuvole; cioè a dire di que’ negri vapori terreni, che osarono d’impossessarsi del Cielo, e fin d’oscurar il medesimo Sole; quanto la vostra bella Unione ne’ lucidi caratteri del proprio sangue hà dipinta in Terra la Vittoria conseguita dal Cielo, non pur contro quegl’infidi vapori terreni, ma contro que’ negri infernali, che tentarono d’insignorirsi del Cristianesimo: anzi d’adombrar, per quanto fù in lor, quel Sol Divino, che diè nel Cielo i lampi al medesimo Sole51.

Papa Innocenzo XI Odescalchi è il protagonista principale del discorso: «vera idea de’ più santi, e de’ più saggi Pontefici», egli rappresenta la «fonte di tutte le conseguite Vittorie», dal momento che nel suo cuore «altra umana affezzione [...] mai non sorse [...] fuorché una ferma, e serventissima brama di mirar

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PIGNATELLI, I Trionfi delle Armi Cristiane, cit., p. 3. Ivi, p. 52. Ivi, p. 59. Ivi, pp. 4-5. Ivi, p. 5. Ivi, p. 4.

La rappresentazione dello scontro

il Turco abbattuto»52. La sua missione, nel dissestato mondo della cristianità di questi anni, è chiara e duplice: innanzitutto proteggere i regni cristiani dal feroce assalto di empi e infedeli di ogni sorta («qualvolta vengono infestati da’ più contumaci Ribelli della Fede, e dalla formidabil forza de’ Macomettani») e mantenere in pacifica concordia i governanti europei («a porger i più valevoli aiuti, e a metter lega tra loro l’armi Cattoliche»)53; in secondo luogo, operare al meglio per la conversione – e dunque per il recupero morale e civile – dei noncristiani («Sembra che non ad altro intendimento il Cielo riserbi in Vita Innocenzio, salvo che per compiere interamente la Conversione degli Empi; e perché divengan Fedeli quelle tante e sì popolose Nazioni soggette alla tirannica Podestà de’ Macomettani»54). Come si vedrà nel prossimo capitolo, uno dei meriti principali dell’istancabile attività diplomatica pontificia al tempo di Innocenzo XI Odescalchi fu la promozione della pace di Nimega del 1678, che permise al Regno di Polonia di sottrarsi lento pede all’influenza francese e di stringere, nel marzo 1683, l’alleanza militare in funzione antiturca con l’impero asburgico che, pochi mesi dopo, avrebbe condotto al successo viennese. Da questa alleanza ebbe origine l’anno seguente la cosiddetta Lega Santa, che riuniva, sotto l’ala paterna delle sante benedizioni e soprattutto dei ricchi finanziamenti del papa, gli eserciti dell’Impero, del Regno di Polonia, del Regno di Moscovia e la flotta della Serenissima. Appunto le capacità carismatiche, suasorie e organizzative del papa comasco che in gioventù era stato banchiere caratterizzano l’accorata apostrofe in cui Innocenzo è accostato al «sole» («Tu per servir alla causa del Cielo tirasti, e di pari adunasti forze cotanto formidabili di Genti sì pregiate, e sì disperse: Siccome i vapori sparsi nell’aria convien che sieno uniti, ed attratti da’ raggi del Sole per farne ruggiada e perle; ed appunto la perla vien chiamata da’ Latini col nome d’unione»55). E ancora, sempre riguardo alla ferrea politica economica dell’Odescalchi, che tassò il clero di tutta Europa per trovare i fondi necessari alla “nuova crociata”: «Chi può mai a ragion querelarsi del Sole, perché attrae i vapori del mare, i quali non ritien per sé, ma li converte in universal benefizio del Mondo? […] Chi dice che il nostro discretissimo Principe da più parti tirasse le pecunie davanti commemorate? È falso; è ben un’aperta verità, ch’esso le ricevesse: son termini tra lor diversi, attrarre, e ricevere; l’uno sà del violento, l’altro è tutto soavità»56. Anche lo stupore del papa alla notizia della strepitosa vittoria diventa «simile a quello, che potesse prender il Sole, che mai non gli fu conceduto di veder la Notte, né pur per brev’ora, né

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Ivi, pp. 3, 8 e 13. Ivi, p. 21. Ivi, p. 58. Ivi, p. 7. Ivi, pp. 23-24.

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in alcun lato della Terra; ma che sempre, e da pertutto ritrovi uno splendidissimo Giorno»57. Di notevole interesse – perché foriera di ulteriori rielaborazioni poetiche e iconografiche – è poi un’altra immagine che Pignatelli elabora per illustrare l’efficacia delle iniziative e dell’azione del pontefice, tanto che Innocenzo può a ben diritto essere definito lo «scudo di tutto il Cristianesimo»: Fù vago Fidia per una smisurata ambizione di poter soscrivere il suo nome a piè della celebrata statua di Minerva da sé formata: e venendogli ciò disdetto; con un tal’ingegno effigiò nello scudo di quella Dea la propria sembianza, che non ne venisse cancellata, senza che unitamente non si disfacesse tutto quel simulacro; il qual’era comunemente riputato per un miracolo dell’arte umana. Bramò tutto al contrario Innocenzio, per un’eccedente umiltà, che nella celebrata Vittoria, la qual’è una vera, e non favolosa Minerva, non rimanesse noto il suo nome: ma volle il Cielo scolpire nello scudo di lei, che fù insieme di tutto il Cristianesimo, l’immagine d’Innocenzio; con sì mirabil’artifizio, che non lo potesse giammai rader il ferro del Tempo; senza che non venisse in un distrutta, ed estinta interamente quella stessa Vittoria, destinata ad esser immortale per tutti i Secoli che verranno, come un prodigioso lavoro dell’arte Divina58.

Un’interessante consonanza intercorre tra questo passo e un passo del Dio. Sonetti, et Hinni di Francesco De Lemene, un’opera che vide la luce nel medesimo 1684, anch’essa con dedica a Livio Odescalchi. Nell’inno proemiale Al Vicedio, De Lemene intesse un’immagine – riproposta, a sottolinearne la valenza, anche in una delle incisioni che fregiano il volume – che sembra una ripresa letterale del passo appena citato (o, forse, ne costituisce lo spunto ispiratore: la questione è di difficile soluzione). Trattandosi di un’opera dalla profonda vocazione devozionale, il riferimento smaliziato alla «Minerva» classica presente nella prosa di Pignatelli, viene sostituito, nei versi di De Lemene, con un più “ortodosso” e pio rimando a «Michele». È fama pia, che a la Città fedele Di cento teste armato Recasse il fato estremo horribil Mostro: Ma che mandasse Dio da l’alto chiostro Un suo Guerriero alato A domare, a fugar l’Idra infedele. Il celeste Guerriero era Michele: Ma pria, che con la spada il Mostro assaglia, De la Romana Fe scopre lo scudo, Che di quel Mostro crudo Con Effigie scolpita i lumi abbaglia:

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Ivi, p. 18. Ivi, pp. 18-19.

La rappresentazione dello scontro E l’horrenda Gorgone a l’empio Drago Fu d’Innocenzo il Pio la sacra Imago59.

L’incisione relativa a questo passo inserita nel volume (FIG. 10) manifesta ulteriori consonanze con il testo di Pignatelli: l’arcangelo Michele leva lo scudo con l’effigie di Innocenzo davanti all’Idra; alle sue spalle, i raggi del sole disperdono le nubi; il riferimento antiturco dell’Idra è sottolineato dalle corna a forma di mezzaluna che si possono vedere su ogni testa del mostro, mentre il riferimento all’assedio di Vienna viene sottolineato dalla presenza di un arco, di una faretra e di una scimitarra (le armi tradizionali degli ottomani) e, soprattutto dell’immancabile Stendardo60. Il secondo personaggio per importanza, seguendo la rigida gerarchia nobiliare, presentato da Pignatelli è l’imperatore Leopoldo I Asburgo, al quale l’autore riconosce – in linea, come vedremo, con il ritratto delineato dai poeti del tempo – un’inclinazione «religiosissima», che lo rende «primogenito del Cielo fra tutti i Monarchi della Terra» e «unicamente inteso al culto Celeste»: «d’altro non mai si vide calergli, che del servigio divino»61. Se il papa rappresenta il «sole» da cui sono attratti i «vapori sparsi nell’aria», l’imperatore, coerentemente, viene raffigurato innanzitutto come un’«aquila». Si tratta di un’immagine dalla duplice valenza, che da una parte, con il rinvio al tradizionale topos dell’unico animale in grado di fissare il sole, permette di mantenere la simmetria dell’accostamento “solare” ai protagonisti della narrazione; dall’altra, con l’allusione all’araldica ufficiale degli Asburgo e dell’Impero (l’aquila bicipite), pone l’attenzione sulla sacralità della missione “celeste” assegnata all’Impero e sul diritto di cui quest’ultimo gode nel rivendicare la supremazia nel mondo cristiano: E ben’egli è del tutto simile a sì generoso Augello [l’Aquila], ch’hà per innato costume di tener sempre fisso lo sguardo al Sole, e di non riconoscer per sua, anzi svenar quella prole, che con la nobiltà delle proprie luci non regge a un tanto splendore; da cui essa non mai volgerebbe i grand’occhi, se non vedesse tal volta sorger in terra qualche nocevol serpente, sopra del quale infin dall’alto si scaglia, e senza riparo lo strangola; con quella insuperabil forza, che nel suo artiglio le impresse contro di lor la Natura. Da un pregio tanto singolare nell’Aquila, si diè a creder la Gentilità, ch’altri due ne procedessero, per essa altresì fuor di modo avventurosi. Il primo fù, l’aver ottenuto l’imperio sopra tutti gli augelli. Il secondo, che

DE LEMENE, Al Vicedio, in ID., Dio. Sonetti, et Hinni, cit., p. xxij. Su De Lemene cfr. L. A. MURATORI, Vita di Francesco De Lemene Lodigiano detto Arezio Gateate, in Le Vite degli Arcadi illustri, parte prima, cit., pp. 189-198; C. DI BIASE, Francesco De Lemene l’«Orfeo cristiano», in ID., Arcadia edificante, cit., pp. 527-611; M. G. ACCORSI, Ultimo Seicento: un poeta galante e spiritoso, introduzione a F. DE LEMENE, Scherzi e favole per musica, Modena, Mucchi, 1992. 60 Su questi aspetti cfr. PIZZO, La vittoria di Vienna (1683) e gli Odescalchi, cit., pp. 349-350. 61 PIGNATELLI, I Trionfi delle Armi Christiane, cit., p. 26. 59

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Salvatore Canneto fosse scelta da Giove per ministra de’ suoi fulmini. Or qual più bella, e più espressiva immagine dell’invitto Leopoldo62.

Le testimonianze “storiche”, secondo le quali Leopoldo deve essere considerato, tra i sovrani del tempo, il «ministro dei fulmini del Cielo», sono state, prima della gloriosa giornata di Vienna, la vittoria diplomatica sullo «Sueco», «che avea appena ridotto in sua balìa il Reame della Polonia» – l’allusione è all’epilogo della “Seconda Guerra del Nord”, la pace di Oliwa del 3 maggio 1660 – e la vittoria di San Gottardo sul Raab (del 1° agosto 1664), quando, «quattro lustri son già trascorsi», Leopoldo, «allor novello Imperadore», sconfisse «il Trace»63. Tuttavia, a differenza delle vittorie precedenti – e qui avviene, puntuale, la modulazione dall’immagine dell’«aquila» a quella del «sole» – «porta questa [la vittoria di Vienna] nel suo splendidissimo aspetto tutti i lampi del Sole; in virtù di cui rimangono in prima oscurate, quasi tante fulgide stelle, tutte l’altre memorande Vittorie del medesimo Cesare»64. Gli accenni alla vis catholica propria del casato degli Asburgo («quasi un’animato Tempio della Cattolica Religione»65) e di Leopoldo in particolare permettono inoltre un’interessante quanto curiosa comparazione tra la figura dell’imperatore e quella,

Ivi, p. 28. Il motivo dell’aquila che fissa gli occhi al sole è tra i più rappresentativi nel contesto dell’allusione encomiastica alla Casa degli Asburgo d’Austria. L’incisione posta a capolettera del primo canto del poema Carlo Sesto il Grande di Annibale Marchese (Napoli, Mosca, 1720), per fare un esempio (FIG. 11), raffigura appunto un’aquila che protegge i suoi due pulcini e indirizza il loro sguardo verso il sole, mentre il motto recita «Vim promovet insitam» (Orazio, Odi, IV, IV, 33). Sottolinea il vero e proprio «ruolo letterario» di simili raffigurazioni R. PALMER, Panegirici napoletani al tempo degli Asburgo d’Austria, in Settecento napoletano. Sulle ali dell’aquila imperiale, Napoli, Electa, 1994, pp. 115-122: 116. 63 PIGNATELLI, I Trionfi delle armi Christiane, cit., p. 28. In un lucido «memoriale» steso dall’ambasciatore veneziano a Vienna, il letterato Giovanni Sagredo, e presentato nel 1664 all’imperatore per persuaderlo a rigettare l’insidiosa proposta di non belligeranza del sultano – che intanto rendeva la Transilvania un regno vassallo – e a intraprendere la guerra col consenso dell’intera cristianità cattolica europea, Leopoldo viene tutt’altro che elogiato per la sua politica incerta e ambigua nei confronti del nemico orientale. Nel quadro di una sorta di “doppiogiochismo” asburgico sullo scacchiere europeo – l’adesione all’idea della lega unitaria cattolica promossa dal papa da una parte, i clandestini maneggi per evitare lo scontro armato con i turchi dall’altra – Leopoldo non riuscì a evitare, se non nelle battute finali e tardive di quella vicenda, che il Turco rafforzasse le sue posizioni strategiche alle porte dell’Austria e della Cristianità (cfr. Compendio della vita civile e politica di Missier Zuanne Sagredo, Cavaliere e Procuratore, fu di Ser Agostin, in Patria ed in Estere Corti, in G. SAGREDO, L’Arcadia in Brenta, a cura di Q. Marini, Roma, Salerno, 2004, pp. 477-521: 488493). Cfr. inoltre Q. MARINI, Immagini di capitali europee dell’età barocca nei bischizzi di un ambasciatore della Serenissima, cit., pp. 322-325. 64 PIGNATELLI, I Trionfi delle armi Christiane, cit., pp. 28-29. 65 Ivi, p. 42. 62

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mitica, di Enea: così come quest’ultimo, infatti, era divenuto «fondatore dell’Imperio Romano in guiderdone della sua pietà, per aver condotti sul proprio dorso gl’Iddij Penati nelle ruine della sua Troia», allo stesso modo Leopoldo, «già Imperador de’ Romani, […] si vide nel più forte rischio della sua Vienna lasciar in abbandono tutti i suoi più ricchi tesori, […] ne d’altro calergli, se non di trasportare seco alcuni pochi, e sacri avanzi dell’adorata Insegna della nostra Redenzione; e qualche altra piccola parte delle spoglie mortali di quell’anime fortunate cittadine del Cielo»66. Sia il ricordo dei successi giovanili dell’imperatore che il ricordo della “fuga” da Vienna di quest’ultimo, alla vigilia dell’assedio, nell’ottica attraverso la quale vengono proposti rappresentano due evidenti tentativi di mistificazione del reale a scopo encomiasticolaudativo, una vera e propria “cosmesi letteraria” di cui la lirica celebrativa coeva offrirà, come si vedrà nel prossimo capitolo, amplissima testimonianza. Il trittico dei protagonisti principali si conclude con Giovanni III Sobieski, «famosissimo Rè della Pollonia, gloria insieme, e sostegno di tutta la Repubblica Cristiana»67: anche le sue «virtù» sono «simili a quelle del Sole»68. Per questo re deciso, irruente, coraggioso, più volte vincitore sugli ottomani, comandante supremo delle forze confederate giunte in soccorso di Vienna, Pignatelli elabora la metafora solare più estesa e articolata, preparata ed eseguita con cura sul piano retorico. Una pagina che vale la pena riportare per intero: Il Sole si dinomina Rè de’ Pianeti, perché si vale di tal preminenza, solamente a fine di recar benefizio ad altrui, non indirizzando i suoi fulgidissimi corsi, se non per fugar dalla Terra le tenebre, e per rendere il Cielo sereno, ed allegro; con che vien’egli a rinascere a novella, e luminosissima vita in un altro mondo, a cui ridona con la sua luce la primiera bellezza. E tutto questo fà il Sole, allorché sembra allo sguardo degl’imperiti mortali, che corra precipitosamente all’occaso. Giovanni, che può intitolarsi Rè di quell’anime avventurate, ed eccelse, che risplendono sulla Terra, non si serve del sublime Grado, a cui lo chiamò l’alto suo Merito; se non ad altrui profitto; come ben si parve nel suo splendidissimo, e commemorato viaggio; per mezzo del quale si videro al suo primiero apparire messe in fuga le tenebre con tutta la loro malnata Progenie. [...] Così con una tanto preclara Vittoria si rendè da Giovanni sereno, ed allegro il Cielo; e in un la sua primiera bellezza, e la sua pristina libertà a tutta la Germania, che a buona ragione può nominarsi un’altro Mondo; in cui s’è mirato risorger egli avventurosamente a una nuova, e risplendentissima vita; quando si facevan a credere Coloro, a’ quali non è ben noto il suo soprumano valore, e non tengon la debita fidanza nell’aiuto divino, che sen’andasse ad incontrar l’occaso. Nè solamente adeguò Giovanni quelle sì benefiche virtù, che sono nel Sole, ma di molto avanzolle con quel tanto di più ch’appresso a ciò egli trasse a compimento. Il Sole allorché comparisce nel Cielo, rende con la sua luce i colori alle cose, ma non li crea: conserva ad esse ciò che le inimiche tenebre avean quasi lor

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Ivi, p. 56. Ivi, p. 3. Ivi, p. 45.

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Salvatore Canneto tolto, ma nulla porge di più di quanto possedean per l’addietro. Giovanni all’incontro non contento d’aver liberata Vienna, e renduto il suo antico splendore alla Germania, ne crebbe in lei de’ nuovi, e de’ maggiori; i quali fur procreati per opera della sua, quasi non dissi, celeste virtù; essendosi innoltrato con tanta prosperità nell’avverse Contrade, che miracolosamente sortì, tanto a lui, come all’Armata di Cesare di rendere in sua balìa in pochi giorni l’importante Fortezza della famosa Città di Strigonia, e di far altre Conquiste molto opportune al sostentamento dell’Esercito Fedele69.

Anche in questo frangente, l’autore non cela una sottintesa e compiaciuta adesione alla produzione encomiastica del tempo, che aveva dedicato appunto al Sobieski e alle sue gesta gli sforzi quantitativamente e qualitativamente più consistenti. Nella seconda terna di personaggi – come Sobieski, presenti sul campo e impegnati in prima persona durante la battaglia – sui quali il Ragionamento si sofferma, l’immagine del «sole» viene accostata in modo diretto soltanto a Carlo di Lorena («Chi può negare a tè altresì, o degnissimo Carlo Duca di Loreno, dopo sì eccelse prove che desti del tuo esimio merito, che la luce della tua somma virtù non si scorga anch’essa, come quella del Sole?»70; e ancora: «se io mi ponessi in cuore di farlo comparir co’ più vaghi colori dell’arte adorno di splendidissimi fregi; non altra inchiesta imprenderei, che d’indorar le ruote del Sole, acciocché più ricco di splendori apparisse il suo luminosissimo carro»71). Massimiliano Emanuele di Baviera è invece assimilato a un «leone» («sprezza i rischi minori; quasi regio Leone, che ricusa la pugna con le men feroci belve, le quali non riguarda come degne dell’ira sua»), e a un «fulmine» («comparì quasi un fulmine, che corra precipitosamente in più luoghi ad un tempo; prima sen venne ad armar la destra di Cesare; indi tutto scagliossi contro il nimico Ottomanno», come se fosse «disceso dal Cielo a punizione degli Empi»72). Tuttavia, benché per via indiretta, anche per l’Elettore bavarese Pignatelli elabora un’immagine che rinvia alla dimensione “solare”, qui resa evidente dall’opposizione implicita al rimando alla luna («esso col primo raggio della sua luce, adombrò quella della Luna Ottomanna»73). Ernst von Starembergh, infine, «idea del più perfetto difensore d’una assediata Città», è paragonato a uno «scoglio» in mezzo al mare «che urtato frange l’onde»: «unico bersaglio delle frecce Turchesche», egli «era divenuto il capo di quegli Assediati; col troncamento del quale speravano [i Turchi], che dovessero rimaner come morte tutte le altre membra di quel fortissimo corpo»74. Unico “Conte” fra tante 69 70 71 72 73 74

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Ivi, pp. 46-47. Ivi, p. 5. Ivi, p. 35. Ivi, pp. 40-41. Ivi, p. 39. Ivi, pp. 36 e 39.

La rappresentazione dello scontro

“Altezze Reali”, Starembergh è il solo, tra i personaggi del discorso, a non essere identificato con il rimando al sovrano dei pianeti. 3. Alcune linee tematiche: la descrizione dello scontro La rappresentazione dello scontro attraverso il passaggio rapido e lo squarcio fulmineo è, prima che una scelta tematica – o meglio, insieme a essa – una necessità strutturale. L’esiguità spaziale della forma encomiastico-celebrativa più ricorrente, il sonetto, non consente ampi affreschi: conseguentemente, tale limitazione spinge in alcuni casi i poeti a impegnarsi in descrizioni che travalicano gli angusti confini della singola forma e si aggregano in edifici testuali più complessi, in cui l’elemento strutturale non solo contiene, ma sostiene e amplifica il dato tematico. Le osservazioni sulle costruzioni antologiche e sulle trilogie testuali esposte nelle pagine precedenti vanno quindi inquadrate anche in questo contesto. Ciò non toglie tuttavia che, in alcuni casi, il dato tematico e l’opzione strutturale convergano, e che la dimensione “fulminea” della rappresentazione venga privilegiata come traslazione, sul piano poetico, della tempestività con cui le forze cristiane, soccorse dalla potenza divina, travolsero gli infedeli. Nell’ode Il Pegaso di Francesco Maria Santinelli75, ad esempio, la descrizione della fase principale dello scontro è condensata in un’unica strofe, in cui all’iniziale esclamazione di stupore («Che formidabil scena / al mio ciglio mental s’apre or repente!») segue una stringata ma puntuale e veritiera successione degli eventi tattici: l’iniziale zuffa tra turchi e fanti della Baviera («Ecco in pugna crudel Bavari, e Traci»), che vedeva i maomettani in netto vantaggio («Impetuosi, audaci / soverchian questi, ohimè! la nostra Gente, / che di strage fedel bagna l’arena»), viene risolta in favore dei cristiani dall’improvviso attacco delle truppe imperiali del duca di Lorena sul fianco e sulle retrovie del nemico («De la Real Lorena / ecco il novo Buglion di fianco investe / le Batterie funeste. / Respiro»), prima della carica finale degli ussari polacchi che scompiglia definitivamente lo schieramento ottomano provocandone la completa disfatta («Ecco pur giunge il Gran Giovanni, / ed ecco in fuga al fin gli empj Ottomanni»)76. Ancor più sintetico è invece lo squarcio delineato da F. M. SANTINELLI, Il Pegaso per le memorabili Vittorie riportate contro il Primo Visire dall’Essercito Imperiale, e dall’Armi confederate con Cesare retto, e gouernate dalla Sacra Real Maestà del Re Giovanni Terzo di Polonia, e dall’Altezza Serenissima del Duca Carlo di Lorena, sotto il Zelo impareggiabile delle generose assistenze di N. Sig. Papa Innocentio XI. Oda del marchese Santinelli [...] In Roma, Nella stamp. della Rev. Cam. Apost., 1683. Con Licenza de’ Superiori. L’ode venne ripubblicata in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., pp. 120127, e in Poesie de’Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 94-101 (da cui cito). 76 Ivi, p. 97. 75

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Benedetto Menzini nella canzone Per la liberazione di Vienna: «Ecco, in un sol momento, / quì dove l’Empio a’ nostri danni apparve, / io ‘l ricercai col guardo, e quei disparve»77. La constatazione – e, quindi, la descrizione – della rapidità del rovesciamento delle sorti avvenuto sotto le mura di Vienna è presente con particolare insistenza soprattutto negli scrittori a maggiore vocazione religiosa: come costoro sembrano suggerire nei loro scritti, più fulmineo è tale rovesciamento, più eloquente e diretta risulta la testimonianza della potenza di Dio e del suo riconciliato favore verso i cristiani. Ad esempio lo storico Simpliciano Bizzozeri, che pur dedica nella sua poderosa opera sulle guerre antiturche di Leopoldo fiumi d’inchiostro – nella descrizione di tutte le fasi dello scontro, delle sue premesse, delle sue conseguenze – al momento di individuare il motivo della pienezza della vittoria (nelle sue intenzioni, la volontà divina) non esita a fare riferimento, mutuando l’immagine dal repertorio semantico teatrale, appunto alla repentinità del “cambio di scena”: «Iddio placato dagli olocausti dell’addolorato suo Popolo, in un momento cambiò la tragica apparenza di quella scena, in un fastoso teatro di trionfi, e col dissipamento della Turchesca alterigia, preservò al Pio Leopoldo la sua diletta Reggia, a que’ Cittadini la cara Patria, & al Mondo Cristiano la gloria di avere preservato i seguaci della Croce dal Vassallaggio, e schiavitù del Tiranno dell’Oriente»78. Il momento cruciale dello scontro (e della vittoria) viene dunque preferibilmente rappresentato in maniera “fulminea”, così da creare una sorta di collegamento – biunivoco e simbolico – tra la potenza divina o militare e la rapidità della descrizione. Le stesse modalità, tuttavia, non costituiscono un’opzione vincolante per quanto riguarda la descrizione di altri aspetti della vicenda: per la rappresentazione dei protagonisti, per esempio, su cui mi soffermerò nel prossimo capitolo; o anche per la descrizione delle complesse fasi preparatorie dell’assedio. Giovanni Prati, ad esempio, dedica ampio spazio alla descrizione delle infrastrutture poliorcetiche ottomane – come l’allestimento dell’accampamento e del reticolato delle trincee; i primi bombardamenti e i primi assalti della fanteria alle mura – e della versatilità tattica dei reparti turchi – come il fuoco di

77 B. MENZINI, Per la Liberazione di Vienna dall’Assedio dell’Esercito Turchesco, nel MDCLXXXIII, in Opere di Benedetto Menzini Fiorentino accresciute, & riordinate e divise in Quattro Tomi, cit., tomo primo, p. 179. 78 La Sagra Lega contro la Potenza Ottomana. Successi delle Armi Imperiali, Polacche, Venete, e Moscovite; rotte, e disfatte di eserciti de’ Turchi, Tartari, e Ribelli; assedj, e prese di Città, Piazze, e Castelli; acquisti di Provincie, e di Regni; ribellioni, e sollevazioni nella Monarchia Ottomana; origine della ribellione degli Ungari; con tutti gli accidenti successivamente sopraggiunti dall’anno 1683 fino al fine del 1689. Racconti veridici brevemente descritti da Don Simpliciano Bizozeri Barnabita Milanese. In Milano, MDCXC. Nella Regia Ducale Corte, per Marc’Antonio Pandolfo Malatesta Stampatore Reg. Cam. Con Privilegio, p. 64 (corsivo mio).

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copertura delle truppe leggere dalle retrovie. La descrizione, naturalmente, è funzionale alla rappresentazione della potenza e della maestosità dell’esercito nemico schierato sotto le mura di Vienna. Fiero è ‘l veder un Mondo Di faretrata Plebe à i danni nostri Profanar di Germania e ‘l Genio, e ‘l Nume. Vedi quel, che presume, Sviscerato nel suolo antro profondo, Piantare un Dite in sotterranei chiostri; Altri con ferrei rostri Figger selve di travi, altri pretende Alzar Trinciere, e assicurar le tende. Chi con bipenne agreste, Chi con ritorta spada, e chi con gole Fulminatrici, al grand’assalto corre; Chi con mine ‘l precorre; Chi de la Regia in sen bombe funeste Vibra tutto spavento; ed altri suole Con improvisa mole Lento accostarsi, ed altri poi nel corso Grave aereo sentier porta sul dorso. V’è chi, à Cretica fionda Avvezzo il braccio, entro prigion filata (Parte del proprio cor) confina un sasso; E sovra immoto passo Tre volte à pena l’aria egli circonda Co vacui giri suoi, che scarcerata Vola in van la rotata Balza, che tosto entro li scudi urtando, S’infrange; e cede al riurtar del brando. Tante l’ardua Bacene Fronde non conta; e ‘l Caucaso gelato Non porta ‘l crin di tante nevi onusto, Come Essercito ingiusto, Sceso del Rab à funestar l’arene, In mille vaste membra ei stà schierato: Un Briareo accampato Sembra di cento armate braccia; e pare Pieno di Vele un fluttuante mare79.

PRATI, Il Trionfo di Cesare, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 179-180, con eco tassiana nei versi finali: «e si feo / con cento armate braccia un Brïareo» (Gerusalemme liberata, XVIII, 35, 7-8). 79

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L’adesione dei cantori del successo viennese al noto cliché storiografico classico – che era solito rappresentare, in particolar modo dopo una vittoria, per ampliare l’effetto trionfalistico e allo stesso tempo denigratorio, l’armata nemica come composta da un numero spropositato di guerrieri – risulta evidente nella tendenza a porre in risalto, nella descrizione dell’armata nemica infedele, soprattutto gli elementi che potevano risultare utili a una lode anche “indiretta” dell’armata cristiana. Ciò che colpisce la fantasia dei poeti è infatti l’incredibile quantità di risorse impiegata dai turchi in fatto di armamenti e strumenti bellici («Quante il Trace tenea Trombe, e Bandiere, / Clave, Sciable, Archi, Strai, Fanti, e Cavalli, / Globi di fuoco, e concavi Metalli, / tutt’ei raccolse, e ne guarnì le Schiere»80; «Quanti produr ne’ sotterranei Chiostri / suol nocenti Metalli / di sviscerati Monti il cupo seno; / Quanti Barbaro freno / imbrigliar può Cavalli; [...] un Campo solo / assorbe, e inonda ostil Teutonio Suolo»81) e, soprattutto, di materiale umano («Quanti Regni comanda / il gran ladron de’ battezati Imperi / d’Europa, e d’Asia a’ danni suoi sospinse: / quà venner da ogni banda, / Arabi, Traci, Egizzi, Albani, Iberi»82; «Quanta gente fereoce / dalla Meotia a i termini d’Alcide / Nereo vagheggia, a danni tuoi fù unita. [...] Sotto i Turchi vessilli, / e Caspie genti, e genti dell’Aurora / tolte a gli ultimi alberghi, erraron miste»83). Davanti a un’invasione di tali epiche proporzioni, la natura sembra non essere in grado di sostenerne il peso; addirittura l’aria, l’acqua dei fiumi, i frutti della terra paiono scarseggiare al solo passaggio delle truppe ottomane («l’aria vasta / di tanti petti al respirar non basta»84; «alla sua sete / l’acque vid’io non liete / mancar dell’Istro»85; «A la sete rurale esausti i fiumi /

80 Anonimo, «Erubescet Luna cum regnaverit Dominus Exercituum» (Isaias cap. 23). Legge il Caldeo: «Cum regnaverit Aquila cum Leone». S’allude allo Stemma della Santità di Nostro Signore Papa Innocenzo XI, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 9. 81 Anonimo, Vienna liberata, ivi, p. 114. 82 BEVERINI, Nella liberazione dell’Imperial Città di Vienna, cit., p. 4. 83 MADRISIO, Il Tempio del Dio delle Vittorie, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 268-278: 269. I passaggi citati amplificano lo spunto tassiano «Qui l’Africa tutta / traslata viene e qui l’Asia è condutta» (Gerusalemme liberata, XIX, 58, 7-8). 84 MARSILIO, Il trionfo della fede, cit., ode prima, p. 5. Il medesimo motivo ricorre anche nella successiva descrizione poetica delle battaglie di Eugenio di Savoia. Così, ad esempio, il quirino Gaetano Lemer descrive l’esercito turco giunto in soccorso del presidio di Belgrado assediata dalle armate imperiali del principe: «Deh qual torrente inonda / d’ignote genti da lontane sedi, / al suono, al volto, agl’abiti diversi. / Arabi, Egizj, Battriani, e Persi, / Fenici, Assirj, Babiloni, e Medi, / e Colchi, e Sciti, e Bulgari feroci, / e chi beve alle foci / d’Eufrate, e chi su ‘l Tanai gelato / vive, coll’arme stan dall’altro lato» (G. LEMER, Canzone II, in Componimenti delli Signori Accademici Quirini, cit., p. 42). 85 FILICAIA, Alla Sagra Real Maestà di Giovanni III Re di Pollonia, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., p. 39.

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rende il passaggio solo»86; «Mira, che il loco / a tant’empito manca, e a tanta gente / par, che l’Istro sia poco»87). Il modello archetipico di alcuni particolari motivi deve essere rintracciato nella ricostruzione erodotea delle guerre persiane che insanguinarono la Grecia nel V sec. a.Cr. (Storie, VII, 55-239). Significativi, a questo proposito, risultano dunque i rimandi di tipo generale all’impresa di Serse o ai “cento regni d’Oriente riuniti sotto la bandiera di un unico tiranno” («Rinovella di Xerse / le superbe memorie / con l’Hoste immensa il Musulmano infido»88; «Già s’arma il Trace, e Popoli infiniti / fanno al vento ondeggiar Turche Bandiere; / Xerse d’Assirij, Egizi, Arabi, e Sciti / mai non armò sì numerose Schiere»89) e, più in particolare, l’allusione al “giorno oscurato dalle frecce scoccate dal nemico” («Già da l’Ismaro dardo / cacciato è il giorno» 90 ; «Già di nubi di strali, / ch’al Sol coprono i rai, fischia il rimbombo»91). Di ascendenza erodotea è anche il motivo dell’opposizione tra l’eroica virtù dei pochi (cristiani) e la forza bruta dei molti (musulmani): «Con molti insulta il gran valor de’ pochi. // Con la Virtù l’Eroe, / Non col numero pugna»92. Strettamente connesso al motivo del numerus innumerus dei soldati nemici è poi quello – anch’esso di derivazione erodotea, ma filtrato da secoli di immaginario polemico cristiano – della ricchezza, del fasto, della lussuosa mollezza

86 G. C. MARI, L’Armi Ottomane fugate sotto Vienna, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 207-217: 209. 87 FILICAIA, Sopra l’assedio di Vienna, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., p. 2. Evidente, nei lacerti testuali appena citati, il rimando ancora alla Gerusalemme liberata: «vidi che dove [l’oste] giunga, ove s’accoste, / spoglia la terra e secca i fiumi e i fonti, / perché non bastan l’acque a la lor sete, / e poco è lor ciò che la Siria miete» (XIX, 121, 5-8). 88 N. M. SOLYMA, Il Trionfo dell’Innocenza, per la Vittoria ottenuta dall’Armi Christiane contro il Turco, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 284-288: 285. 89 Anonimo, Esortatione di non temere l’Arme Ottomane à i Popoli d’Ungheria, difesa da sì Grande Imperadore, come è Leopoldo Primo, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 84. 90 PRATI, Il Trionfo di Cesare, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 178. 91 DE LEMENE, Al Vicedio, in ID., Dio. Sonetti, ed Hinni, cit., p. xxij. Per il motivo delle “frecce che oscurano il giorno”, cfr. Erodoto, Storie, VII, 226: «non appena i Barbari avessero cominciato a scagliare i loro dardi, per la moltitudine delle frecce avrebbero scurato il sole (tanto grande era il loro numero)»; e poco oltre: «se i Medi oscuravano il sole, la battaglia contro di loro si sarebbe svolta all’ombra e non sotto i raggi del sole». 92 PRATI, Il Trionfo di Cesare, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 176. Cfr. Erodoto, Storie, VII, 210: «[i Medi] dimostravano così chiaramente a tutti e, meglio che a ogni altro, al re stesso, che molti là erano gli uomini, ma pochi gli uomini valenti»).

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delle truppe ottomane: un motivo, come si vedrà, funzionale a un’ulteriore e più feroce irrisione. Esso viene declinato, da un punto di vista più generale, nella descrizione della sfarzosa moltitudine dei soldati infedeli («O come ben di Giubbe, e di Turbanti / prezioso Volume il Ciel flagella: / e la gente mal nata, a Dio rubella / lussureggia di Perle, e di Adamanti!»93), e, da un punto di vista più particolare, nelle raffigurazioni della figura, terribile e insieme maestosa, del gran Vizir Kara Mustafà: Sotto ‘l mobile tetto Giacea inclemente, e su origlier gemmato Stendea del fianco d’or la grave Mole; Ributtava nel Sole Quei stessi rai, che ricevea nel petto Di tersissime squamme intorno armato: Stringea Scettro adirato, E gli rendea la fronte più crudele Una nube mestissima di tele94.

Nel contesto della descrizione delle fasi precedenti la battaglia di Vienna, un interesse privilegiato viene talvolta riservato a un tema apparentemente estraneo: quello di una “congiura” ordita ai danni dell’imperatore. Agli occhi del lettore, l’insistenza narrativa sugli elementi sopra individuati – in particolare sulla consistenza dell’armata nemica – avrebbe potuto rispondere adeguatamente alla primaria esigenza dei vari autori di tratteggiare l’affanno di una città cinta da un improvviso assedio. Da questo punto di vista il ricorso al tema della congiura non sembrerebbe dunque celare ragioni oggettive di natura poetica, bensì tradirebbe ragioni soggettive, di natura politica. Costituisce infatti una questione storiografica ancora ampiamente dibattuta, per risolvere la quale sono state avanzate ipotesi diverse e contrastanti: come fu possibile che, nonostante i ripetuti allarmi lanciati nei loro dispacci dai diplomatici imperiali residenti a Costantinopoli (tra i quali gli italiani Caprara e Marsigli), l’esercito di Kara Mustafà potesse dirigersi verso il cuore dell’Europa centrale senza incontrare resistenze di sorta da parte degli austriaci, se non tardive e inadeguate – quando cioè il piano d’invasione turco era talmente evidente da obbligare l’imperatore Leopoldo, la sua famiglia e tutta la Corte a una tempestiva fuga? Alcuni storici sostengono che la campagna del 1683 prevedesse inizialmente l’invasione della Polonia, anch’essa tradizionale nemica degli Ottomani, e che solo in un secondo

93 SPINOLA, Vienna assediata dal Turco, difesa da Ernesto Conte di Starembergh, e liberata dall’Armi di Leopoldo Primo Cesare Augusto, e Giovanni III Subieski Rè di Polonia, ivi, p. 130. 94 PRATI, Il Trionfo di Cesare, ivi, p. 181.

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momento il Visir optò per l’assedio di Vienna. Altri, più maliziosamente, sostengono che Leopoldo, il quale era a conoscenza dei piani turchi contro i Polacchi ed era intenzionato ad approfittarne per questioni territoriali, fu alla fine egli stesso ingannato. Quale che fosse la verità, sta di fatto che nel luglio del 1683 l’immensa turba turca giunse alle porte di Vienna e la cinse d’assedio, mentre le mura non erano state rinforzate, le difese erano ancora traballanti e, soprattutto, l’esercito non era stato pienamente mobilitato. Per molti europei dell’epoca, dunque, Vienna non fu cinta d’assedio soltanto improvvisamente, ma anche inspiegabilmente. Così stando le cose, i poeti non esitarono a colorare le inquietudini della realtà (l’apparente incapacità strategica dei governanti) con le ragioni della poesia. E l’insistenza “poetica” sul motivo della congiura ai danni dell’imperatore recava in sé l’allettante – perché adulatoria – conseguenza “storica” di scagionare i poeti dalle costrizioni della realtà, consentendo loro di porre l’accento, più che sulle mancanze del fronte cristiano, dei suoi strateghi e del suo più importante rappresentante, sull’empia, e disumana, e mostruosa condotta di un pugno di traditori, in particolare dei magnati ungheresi vassalli della corona imperiale, tradizionalmente poco inclini ad accettare una sovranità transnazionale estranea di tipo imperiale, fosse essa quella cristiana/austriaca o quella islamico/ottomana. Nei testi italiani, i “congiurati” principali vengono individuati nel conte (poi principe) Imre Töcköly («Teclì») e nei conti Batthyan («Budiani»)95 e Zrínyi («Isdrino»). Nella già citata dedica della Congiura fallita del filoasburgico Giovanni Domenico Gentile, ad esempio, la loro colpa è conseguenza dell’innata codardia e ambizione («Questi forsennati reputando incomparabili le schiere marziali del Sultano Ahmet, e che potessero almeno rinfrescare l’efimera febbre della loro accalorata Congiura»), da cui deriva il tradimento della patria e dell’imperatore («con arte rubella s’adoprò il Conte Budiani far trapassare la Corrente di 284. mila Nemici l’onde smisurate del Danubio, [...] e con la consulta del suddetto Teklì, Isdrino, & altri, cagionare la rovina della Patria

95 A proposito delle invettive contro quest’ultimo (il cui tradimento colpì profondamente gli uomini del tempo, giacché perpetrato da un personaggio di fede cattolica), si legga il seguente epigramma: «A Michaele Satan quondam detrusus ab Axe est; / Nunc verò Michael vertitur in Satanam», quasi a sottolineare lo sfondo “diabolico” dell’azione del conte (F. GRISENDI, In Michaelem Budianum Perduellem, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 337). Sui progetti politici di Imre Töcköly cfr. R. GUÊZE, Echi di storia ungherese nel «Diario» di un dignitario pontificio del secolo XVII: Carlo Cartari, in Venezia e Ungheria nel contesto del Barocco europeo, cit., pp. 271-285; B. KÖPECZI, L’eco italiana delle lotte per l’indipendenza ungherese contro gli Asburgo nella seconda metà del secolo XVII, in Venezia, Italia, Ungheria, cit., pp. 23-34; A. TOSONI, Il disegno politico di Imre Tököli, capo dei ribelli ungheresi, attraverso l’inedito carteggio Colletti-Barberini (16811684), in L’Europa e il pericolo turco, cit., pp. 215-251.

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natia»96). Anche per Bartolomeo Beverini la scelta della “congiura” dei nobili ungheresi costituisce l’esito scontato della loro anima lordata dal vizio e mossa dall’invidia, dalla cupidigia e dagli spiriti infernali: Congiurato s’aggiunse L’uno avvezzo à predar, l’altro à tradire Il ladro Scita, e l’Onghero fellone: Invidia i cori punse E fù mantice occulto à le lor’ire, E del suo reo voler si fè ragione: Di Scettri, e di Corone Megera ancor con ordimenti e trame Spirò nel sen la scelerata fame97.

L’intreccio tra la personalità viziosa dei magnati magiari schieratisi contro l’imperatore, la loro innata predisposizione all’empietà e all’infamia – aggravata dall’apostasia della religione cristiana – e la loro intelligenza politica – raffinata, ma volta al male – costituiscono i motivi peculiari su cui anche lo storico religioso Simpliciano Bizzozeri intesse la propria narrazione. Per conseguire lo scopo finale del suo progetto («concorrere co’ suoi infami seguaci alla distruzione del Cristianesimo»), il traditore Töcköly mette a frutto la perfida scaltrezza di cui è dotato («con la forza del suo Satannico ingegno») per corrompere alcuni nobili ungheresi – «sempre beneficiati da Cesare», sottolinea maliziosamente l’autore – a schierarsi dalla sua parte, «accioche sopra molte colonne fusse stabile l’edificio della sua perfidia, e difficile di recidersi l’idra della Ribellione, dalla quale nasceano tanti Capi». I nobili posti da Leopoldo a difesa degli importanti punti di passaggio sul Danubio – i «Conti Batthiany, e Drascovitz» – accettano quindi di tradire: La fellonìa del Teckely fece breccia nell’animo di questi per sempre infami Cavalieri: gli quali dimenticati di Dio, e del Vangelo, non ostante che si professassero Cattolici; cacciati dalla memoria gli benefizj continui, e le grazie delle quali da Cesare loro sovrano erano sopra gli altri privilegiati, accordarono coll’Apostata del Vangelo (parlo dell’eretico Teckely) la più esecranda orditura, qual non avrebbe mai ritrovata la stessa empietà; e fu, la fedele promessa di aprire allo stesso Teckely, Conduttiere di Tartari, & Ottomani, il posto confidatogli di S. Gottardo, lasciando libero il transito per lo stesso ponte del Rab a’ Barbari disolatori delle più belle Provincie dell’Europa.

Un simile «esecrabile tradimento» e «infame attentato» rischiava di compromettere radicalmente la strategia difensiva dello stato maggiore imperiale, il

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GENTILE, La Congiura fallita, cit., c. A2. BEVERINI, Nella Liberazione dell’Imperial Città di Vienna, cit., p. 4.

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quale «avea fondata sopra sì deboli colonne la speranza della sua salute», e di permettere ai ribelli traditori «di spiantare dalla Germania la Cattolica Religione, di inalberare ne’ templi, in vece della Croce, la meza Luna; di levare non solo ad un Monarca tutto pietà lo Scettro dell’Ungarico Regno dalle mani, ma ancora dal capo l’Imperial diadema, risoluti di condannarlo a privata vita in qualche angolo delle scoscese balze del Tirolo». Una volta concordato il tradimento («Uniti dunque Ribelli a’ Ribelli, e questi seguitati da’ Turchi, e da’ Tartari»), prima di superare il ponte sul Raab che conduceva al cuore dell’impero era necessario eliminare ogni forma di resistenza residua, soprattutto tra le file dei soldati di guarnigione, alcuni di origine germanica e non tutti disposti a tradire la propria patria («rivolsero tutti d’accordo le arrotate sciable contro quel piccolo stuolo di Alemani, dati all’empio Bathiany per compagni nella custodia di quel ponte, per cui insieme co’ Barbari passò la fama a spargere per l’Universo l’infame nuova di così esecrabile tradimento»98). La violenta zuffa che seguì tra i ribelli e i lealisti, conclusa con l’eccidio di questi ultimi, trova ampio spazio nella narrazione di Gentile, il quale nella sua finzione poetica non esita a trasformare la sconfitta degli imperiali in una vittoria della religione e della virtù, ottenuta sotto il segno del martirio e della difesa dell’onore: De’ Rubelli accertato, Che se ‘l tentar non giova, almen non nuoce: Assicurata la maggior’impresa, L’Esercito schierato Del Danubio passò l’onda veloce, Perche il Conte in difesa Stava del Ponte. (Ah Traditore, indegno Della Patria, e del Regno!) Fatt’illese passar l’Arabe Genti, Il Fellon’, e ‘l Visir parver contenti. Soldati Venturieri, Eran sei mila, e più sotto il Budiani, Tutti à prò della Patria, e dell’Onore: Di contrarij pareri Pochi col Conte, di costume Hircani; Previsto il Traditore, Negarongli ubbidienza, e ‘n quello istante Posto l’Onor davante, In quelle prime zuffe a’ laberinti, Non si scorgean, se vincitori, ò vinti.

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S. BIZZOZERI, La Sagra Lega contro la Potenza Ottomana, cit., libro primo, pp. 24-25.

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Salvatore Canneto Si vedon vincitori, Mentre che della Fede a’ sacri Altari Vittime coraggiose offriro il petto. Trà Barbari Aggressori Nel proprio sangue immersi, eran più chiari. Purgato ogni difetto, Che dalla Umanità fragile nasce Anche fin da le fasce; Le tempie ornando d’Ostri, e di Rubini, Candidati volar tra’ Serafini99.

Un ultimo motivo relativo alle fasi precedenti la vera e propria battaglia, e circolante con una certa insistenza nella produzione dell’epoca, è costituito dagli elogi della scolaresca viennese, della gioventù universitaria che prese parte attiva alla difesa della città, arruolandosi tra le forze dei miliziani volontari, creando – assieme agli stampatori e ai librai – un corpo ausiliario di circa 700 uomini100 e rinforzando così, benché con forze non professionali, lo sparuto presidio della città. Per ovvie ragioni questo motivo compare con particolare insistenza in autori che svolgevano la professione di insegnante o la mansione di pedagogo, i quali osservavano con maggior interesse e percepivano forse come un vanto “corporativo” l’eroico comportamento degli studenti austriaci. Per esempio nei componimenti pedanteschi di Bartolomeo Nappini – alias Don Polipodio Pedagogo Calabro – il quale dedicava un sonetto Alla Scolaresca di Vienna lodandone il coraggio e il prezioso aiuto recato alle forze regolari («Tu quoque strenuè bellico labori / in prò di Vienna operam navasti», «Tù con fera beltà, con bei furori / eleganter così l’ense rotasti, / che quotquot furo i Turchi, che necasti, / credibile est sic voluisse mori»), nonostante il frangente non godesse di un’adeguata risonanza letteraria («E pur Cigno non v’è ch’i tuoi gran fasti / canti: Mà un Corvo supplirà gl’Olori»)101. Anche il più volte citato Gentile da Martone – futuro docente di Legge all’Università Reale di Napoli – si dimostra sensibile al coraggio dimostrato dagli studenti viennesi. Anzi, proprio gli studenti di Legge (i «seguaci d’Astrea») costituiscono l’oggetto diretto della sua forse eccessiva lode, comparendo in diversi punti della narrazione. Dapprima essi si presentano all’Imperatore come combattenti volontari, ottenendo l’incarico di rinforzare i vari drappelli di presidio ove la situazione o le necessità sembrassero richiederlo: GENTILE, La Congiura fallita, cit., ode seconda, pp. 21-34. STOYE, L’assedio di Vienna, cit., p. 148. 101 Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 24. CHIODO, Le rime pedantesche di Bartolomeo Nappini, in ID., Il gioco verbale, cit., p. 132, sottolinea come uno degli aspetti peculiari della produzione poetica del calabrese sia da rintracciare appunto nelle tematiche connesse al rapporto con la scuola e, soprattutto, con i suoi allievi. 99

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La rappresentazione dello scontro Uscito [Leopoldo] dalle stanze, Dove si tratta la comun difesa, Ode strida, vedd’Armi, & egli ammira Giovenil sembianze, Che corrono dal Foro alla Contesa: Trinciera, che sospira Da’ Circoli, e Licei passar’ all’Armi. Musa, seconda i Carmi, Ch’a’ Secoli futuri Io possa dire De’ seguaci d’Astrea l’Armi, e l’Ardire. A Starembergh fà noto, Che di questi s’avvaglia a’ primi intoppi: Perche Virtù coll’Armi insieme unita Manda i disastri à vuoto; Il nemico all’ardir forz’è, che zoppi Da schiera sì fiorita: La Maestà de’ Cesari, e ‘l Decoro Si conservò da loro: In somma ogni riparo di Vienna A squadron sì volante ordina, e accenna102.

Successivamente, nel racconto di Gentile, è proprio il corpo dei volontari universitari – ormai giunti all’iperbolico numero di «dodici mila» – a sventare uno dei pericoli più consistenti durante le prime fasi dell’assedio: il disinnesco di una mina sotterranea, la cui deflagrazione avrebbe causato l’apertura di una breccia nelle mura, esiziale per le esigue e stremate forze di difesa. È proprio l’avventura «de’ coraggiosi Venturier d’Astrea» a permettere, in brevissimo tempo, il sacrificio rituale dei soldati nemici («à tempo poco / venti mila sacrar Vittime al foco») che segna l’inizio dell’«eclissi» della luna ottomana: Starembergh, accertato del periglio, Previde gran ruina Da questa all’altre Mine, che pareggia. Nacque all’or gran bisbiglio Trà gli Amanti d’Astrea, schiera fiorita, Che l’un l’altro s’invita; Al fin dodici mila uniti sono A tesser l’alme, ò à raffrenare il Tuono. Questi avvezzi alle carte De le Dogme Civili, e de le Genti, S’offron anche à trattare il ferro ignudo; A Bellona, ed à Marte (Abbandonando Astrea) corrono attenti;

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GENTILE, La Congiura fallita, cit., ode prima, pp. 19-20.

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Salvatore Canneto Se imbracciano lo Scudo, Maraviglia non fia; già che ne’ carmi Si vede Astrea coll’armi; E se di Libri onusta appar la Legge, L’infamità, le fellonie corregge. Con arte assai ingegnosa Vuotar le Mine, predaro il Bitume: Rintuzzano ogn’inganno con inganni. Da Scarpa maestosa Fin che ritrovan fuor de’ muri il Fiume, Nè senza grave affanno, Sanno torr’à Vienna le rovine, Colle lor proprie Mine; Di modo, che ad istanti, e à tempo poco Venti mila sacrar Vittime al foco. Udita già la fama De’ coraggiosi Venturier d’Astrea, E che comincia ad eclissar la Luna […]103

***** Per quanto concerne la descrizione della battaglia vera e propria, su cui alcuni autori si compiacciono di insistere – fatti salvi i rilievi sopra esposti a proposito della scelta, insieme tematica e formale, di far coincidere stringatezza narrativa e potenza cristiana – spiccano in primo luogo le particolarità cruente e macabre della descrizione, in una sorta di trionfo di teste mozze e corpi squartati, di corpi umani e animali mescolati confusamente, di ire e atti minacciosi non sopiti neppure al momento della morte, in linea, del resto, con alcune tonalità lugubri riscontrabili nella produzione iconografica di quegli anni (FIG. 12)104. Superfluo ribadirlo, scenari simili sono in genere deputati a fornire un’immagine esclusiva del massacro degli empi ottomani, i soli che meritano di soccombere tra le più atroci sofferenze; al contrario, la morte dei soldati cristiani, quando non circonfusa di un’eroica aura di gloria (come nell’episodio dell’eccidio della

Ivi, ode seconda, pp. 30-31. Si vedano a questo proposito le due incisioni simmetriche di Mitelli, intitolate Trionfo dei liberatori di Vienna e Trionfo di Bologna per la liberazione di Vienna, entrambe del 1683. La scena è dominata da particolari macabri e raccapriccianti, tutti relativi all’ecatombe degli ottomani: corpi defunti o nell’atto di spirare, teste mozze o infilzate sulle picche dei vincitori; a destra, sullo sfondo, si può vedere un soldato cristiano nell’atto di dare il colpo di grazia a un gruppo di turchi agonizzanti (riporto in appendice quella relativa ai liberatori di Vienna). Su particolarità cruente dell’immaginario e su alcune ritualità macabre del comportamento cristiano nei confronti dei turchi (impiccagioni, decapitazioni, oltraggi a cadaveri, “teste di turco impagliate”) il rimando obbligato è a RICCI, Ossessione turca, cit., passim. 103

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La rappresentazione dello scontro

guarnigione austriaca sul Raab narrata da Gentile), viene puntualmente velata da un pio e rispettoso silenzio. Il massacro dei turchi, e il compiacimento che i poeti cristiani manifestano nelle loro descrizioni, fanno quindi da doveroso contraltare alla precedente descrizione della consistenza numerica e dello sfarzo dell’armata turca, che tanto terrore aveva ingenerato nel cuore dei cristiani e dei loro poeti. Le battezzate Schiere Accese in tanto a gloriosa pugna, Empian di stragge l’inimiche genti. Non che ‘l labro ridir, non pon le menti Imaginar le forme Che le perfide torme Facean di sé nelle miserie estreme. Altri more, altri geme, Chi bestemmia, chi mugge; inonda il tutto Sangue, polve, sudor, fremito, e lutto. Cade il Cavallo, e ‘l Cavalier calpesta; Presso il morto Signor giace il valletto; Manca l’amico, ove il compagno spira. Guizzar colà si mira Tronca un man col ferro ancora stretto; Là recisa dal busto erra una testa. Sembra il Campo infedel mare, o foresta, Cui fiero turbo assaglia; Infuria la battaglia, Vince il timore ogni ragion di guerra. Piovon men foglie à terra Al primo gel, dell’anime perverse, Che ne’ gorghi Letei piombano immerse105. Tal gl’invitti Campioni Strage allor fan de l’inimiche torme,

105 La Superbia Ottomana abbassata sotto le Mura di Vienna. All’Eminentiss. e Reverendiss. Sig. Cardinale Bonvisi Nunzio appresso S.M.C. Canzone del Sig. Domenico Bartoli. In Lucca, per Salvator Marescandoli, e Fratelli. Con Licenza de’ Superiori. 1683. Questa canzone godette di una rilevante diffusione editoriale: accanto alla circolazione sciolta in foglio volante, essa venne ristampata nelle varie antologie (Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 44-55: 47-48, da cui cito, e in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., pp. 143-151) e nell’edizione complessiva delle canzoni di Bartoli (Il Canzoniero del Signor Domenico Bartoli (Parte Prima – Parte Seconda). In Lucca, per Iacinto Paci, e Domenico Ciuffetti. 1695. Con Licenza de’ Superiori, parte seconda, pp. 126137). Evidente l’eco tassiana: «giace il cavallo al suo signore appresso, / giace il compagno appo il compagno estinto, / giace il nemico appo il nemico, e spesso / su ’l morto il vivo, e ’l vincitor su ’l vinto» (Gerusalemme liberata, XX, 51, 1-4).

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Salvatore Canneto Né regge al lor furor piastra né maglia: Rovescian da gli arcioni I Traci cavalieri, e in mille forme Il ferro vincitor ferisce e taglia: Non v’è schermo che vaglia, Giacciono insieme e gambe e braccia, e in queste Tronche da’ busti lor vedove teste. Vedi starsi confusi Cavalli, e cavalieri, armi & armati; E in fiumi d’atro sangue andar natanti: E perduti i lor’usi Miri cadute à terra in tutti i lati Haste rotte, elmi rotti, e scudi infranti: Qua sfasciati turbanti, Qua di trombe spezzate i cheti squilli, E sciable mozze, e laceri vessilli. Altri cade pugnando, Altri geme, altri fugge, altri con vano Zelo Macone in suo soccorso implora: Altri lui bestemmiando Sua fede accusa, e quasi muor Cristiano, E chi vivo sprezzò, morendo adora. Cadono à una sol’hora Tanti, che ‘l suolo à ricettarli manca, E morte stessa in ammazzarli è stanca. Né sol cade tra’ vinti Turba vil senza nome, & ombre ignote, Miste e confuse in funeral plebei: Ma si veggono estinti, Che Marte anco i più grandi à terra scote, Bassà, Cadì, Sangiacchi, e Beglierbei: Fuggono da’ corpi rei L’alme dannate, e ne le morte facce, Vivon non spente ire e minacce106. Altri dal foco estinto Piomba ne l’acque, e vi rimane assorto: Altri à l’aure sospinto 106 BEVERINI, Nella Liberazione dell’Imperial Città di Vienna, cit., pp. 8-9, con tassello di marca tassiana (al v. 2 della seconda strofe qui riportata: «cavalieri e cavalli, arme ed armati»: Gerusalemme liberata, IX, 48, 8). Motivi non dissimili inoltre in Giovanni Antonio Marsilio: «Frà le confuse strida / de’ gemiti, e dell’ire / colli più vili cadono gl’audaci, / che quasi ancor capaci / di danno, par ch’il cumulo d’estinti, / contro del Vincitor sia scala à i Vinti». E ancora: «Nuota nel Sirio Sangue / l’Araba testa, e geme / sù ‘l Moro Feritor l’Egittio Arciero, / presso al Medo, che langue / vomita l’ire estreme / spirando il Dace, e il Getico Guerriero, / l’Affricano cimiero / tinge dentro al suo sangue, al Persa à canto, / che le piaghe non sue lava col pianto» (MARSILIO, Il trionfo della fede, cit., ode prima, p. 6, e ode seconda, p. 16).

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La rappresentazione dello scontro More cadendo; e chi trà vivo, e morto Geme senza spirar l’Anima infida, Prega al men chi l’uccida. Piove il Ciel sanguinoso in ogni parte Aste, Spade, Bandiere, e membra sparte. […] Ò che strage, ò che scempio Fan del Campo Ottoman l’armi di Cristo! Col tuo feroce esempio Di Salme ostili ergonsi monti; e misto Co i Torrenti de l’Istro il sangue infido Fà nel Pontico lido Precorrere al Tiranno il tristo avviso De l’Esercito suo vinto, & ucciso107.

La partecipazione emotiva dell’autore inneggiante al sangue del nemico abbattuto appare implicita nei passi riportati. Talvolta, però, diviene essa stessa esibizione poetica: l’orrore e il macabro perdono il necessario contorno di ineffabilità (come nell’esempio precedente: «Non che ‘l labro ridir, non pon le menti / imaginar le forme»), trasformandosi – ad esempio in Giuseppe Piselli – in «giubili immensi!», «del gran Reno / bell’Orror, bei trionfi!», in mezzo ai quali l’autore non può che esclamare: «Vago è veder de Musulmani infranti / nuotar le membra (ò gloriosa scena!) / sovra l’onde de l’Istro ancor tremanti; / e più Teschi guizzare in sù l’Arena»108. Accanto alle tonalità macabre e sanguinolente, acquistano poi ampio risalto le connotazioni “patetiche” dello scontro. A questo proposito va notato come statisticamente consistenti appaiano gli accenni al triste quanto certo destino – e la schiavitù non costituisce che il male minore – in cui incorrerebbero senz’altro le donne cristiane in caso di vittoria dei turchi. Si tratta dell’antica questione – riportata in chiave mitica da Livio e Plutarco nell’episodio del ratto delle Sabine, e in chiave comica da Aristofane nella Lisistrata – delle conseguenze delle azioni di guerra sull’universo femminino e muliebre. Agli uomini-guerrieri è in genere riservata la gloria, sia in caso di vittoria sul nemico – e allora il guerriero viene celebrato come eroe – che in caso di sconfitta e morte per mano di esso – e allora lo sconfitto viene tratteggiato come un martire dell’onore. Alle donne, siano esse madri, spose, figlie, sorelle, in genere comunque non guerriere e dunque non partecipi della gloria militare del vincitore, non resta invece

107 [BARTOLI] Per il Sig. Conte di Starembergh, che col suo valore ha difesa Vienna dall’Esercito formidabile del Turco, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., pp. 107-108. 108 G. PISELLI, Vienna liberata, e Trionfante per la prodigiosa Sconfitta data all’Ottomano, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 226-230: 228.

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che la speranza di sottrarsi a un destino di cui la morte – è la lezione, per esempio, delle romane Lucrezia e Virginia – costituisce il volto più benigno. Ed è appunto sulla delineazione del destino delle donne in caso di sconfitta cristiana che le tonalità patetiche dei cantori del successo viennese acquistano una consistenza notevole. Si potrebbe inoltre aggiungere en passant – e non senza una punta d’ironia – che nel quadro di questa produzione le donne, eccezion fatta per le più influenti aristocratiche delle varie corti europee dedicatarie dei vari testi, compaiono esclusivamente nel contesto appena delineato; e che l’analisi di simili indugi, statisticamente rilevanti soprattutto nei testi composti da religiosi improvvisatisi poeti, potrebbe costituire un curioso momento di “psicostoria”109. Accanto alla profanazione delle chiese, e al massacro indiscriminato degli inermi110, dunque, è la meditazione sul destino dell’onore delle teutoniche pulzelle a impensierire gli autori e a tramutarsi in un motivo letterario di notevole fortuna: Soffrirai tu, ch’intatte verginelle Tue dolci spose, e che in solinghi chiostri Di Santo nodo incatenar le voglie, Fuor de l’amate soglie Rapite à forza, di lascivi mostri Sian dannate à sfamar brame rubelle? Fia che le tolte à noi spoglie più belle Ornin sozza Sultana; E da la Meca vana Penderan per trofeo nostri stendardi? Sacerdoti bugiardi Sovra gl’Altari tuoi, fatte Moschee, Spargeranno à Macon nebbie Sabee?111 S’ascriva a te [Giovanni III], se ‘l pargoletto in seno Alla ferita genitrice esangue Latte non bee col sangue; A te s’ascriva, se intatte, e caste Vergini, e Spose, di pestifer’angue Non son dal morso guaste,

Mutuo l’espressione da RICCI, Ossessione turca, cit., pp. 74-75. Come per esempio in Giovanni Antonio Marsilio: «Ahi che vista crudele! / Dalle mani de gl’Empi / si svena il Figlio al vecchio Padre à canto, / e per l’alte querele, / che ne’ tragici scempi / sparge il buon Genitor miste col pianto, / anch’ei trafitto intanto / sovra gli cade, e pria, che l’alma esprima, / tornano i sangui all’union di prima (MARSILIO, Il Trionfo della fede, cit., ode prima, p. 4). 111 B ARTOLI , La superbia Ottomana abbassata, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 46. E ancora: «Come le Madri, e i pargoletti uccide, / atterra i Templi, e a Verginelle ignude, / il bel fior d’Onestà togliendo, gode» (TERENZI, Preghiera a Dio, movendo improvvisa Guerra il Turco, in Sonetti di Luca Terenzi, cit., p. 69). 109

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La rappresentazione dello scontro Nè cancellan col sangue il fallo osceno: Per te sue faci Aletto, e sue Ceraste Lungi dal Ren trasporta, Per te, di santo amor pegni veraci, Dannosi amplessi, e baci Giustizia, e Pace, e la già spenta, e morta Speme è per te risorta; E, tua mercè, l’insanguinato solco Senza tema, o periglio ara il Bifolco112.

***** Il luogo in cui viene finalmente delineata la narrazione della vittoria costituisce, in molti testi, un fondamentale punto di svolta nel racconto degli eventi. I motivi precedentemente individuati – come il terribile e patetico scenario previsto per i cristiani e le osservazioni sulla consistenza qualitativa e quantitativa dell’armata ottomana – subiscono un sostanziale mutamento di segno, riconfigurandosi ulteriormente sul piano dell’irrisione, del sarcasmo, del dileggio. L’ode Il Vaticinio di Giovanni Antonio Magnani, ad esempio, è in gran parte incentrata sul tema generale della delusione delle speranze ottomane; in questo contesto, alcuni dei motivi individuati vengono ripresi per sancire e descrivere,

112 FILICAIA, Alla Sacra Real Maestà di Giovanni III Re di Pollonia, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., p. 43. E ancora: «Omai senza timor [...] stringon le Madri al sen l’amata prole: / né ‘l Reno più si duole, / che di sue Spose i talami più casti / d’adultero Ladron l’onta sovrasti» ([G. B. CAMPIONI] Nella liberazione della Città di Vienna dall’Armi Ottomane. Si riconosce dalle mani di S. Santità la Vittoria de l’Armi Cattoliche, e si supplica per la Lega universale contra il Turco, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 129; l’ode era già comparsa in foglio volante in più luoghi: a Roma, col titolo Vienna assediata dall’armi ottomanne, hora gloriosamente liberata. All’Eccellentissimo Signore il Signore D. Marc’Antonio Borghese. In Roma, per Michel’Ercole. 1683. Con lic. de’ Supp. Si vendano in Piazza Madama da Francesco Leone; e a Genova, col titolo Nella liberazione della città di Vienna dall’Armi Ottomane. Ode di Gio: Battista Campioni Accademico Affidato consecrata alla Santità di N. S. Papa Innocenzo XI. In Genova, Nella Stamperia d’Antonio Casamara. 1683. Con licenza de’ Superiori). Soltanto qualche anno dopo, in un’incisione intitolata Il Soldato. Osserva quel che fa (1693), Giuseppe Maria Mitelli – incarnando, ancora una volta, il disgusto degli uomini del tempo per la guerra, fosse essa “crociata” (contro i Turchi) o “fratricida” (contro i vari regni protestanti nordeuropei) – dimostra un atteggiamento più equanime. I soldati raffigurati, ritratti mentre compiono diversi “crimini di guerra”, sono chiaramente di provenienza europea, e dunque cristiana. La scena presenta, probabilmente in un ordine di “gravità” crescente, da sinistra a destra: un soldato mentre uccide un civile che si difende; un altro soldato nell’atto di sgozzare un vecchio che implora pietà e offre in cambio un sacchetto di denari; un terzo soldato che rapisce una fanciulla; un quarto e ultimo soldato intento a appiccare il fuoco a un edificio e a colpire con una picca un fanciullo inerme (FIG. 13).

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in modo inequivocabile e definitivo, la sconfitta. L’iniziale riferimento all’invasione, con le solite allusioni all’infamità ribelle («Si ch’à l’Austriaco bue / il Solco macchierà Pannonia infame, / e l’aree imbrutterà spada ribelle») e alla desertificazione prodotta dall’avanzare dell’armata nemica («Le campagne non sue / co’ labri spoglierà la Turca fame / profanando dell’Albi le procelle»), viene bruscamente interrotto, nella strofe successiva, dalla notizia del fallimento, decretato dall’intervento divino («Ma tutto invan, che Dio / al Sitonio guerrier trarrà l’orgoglio»). Quindi, fino alla conclusione («che più dir posso?»), il componimento risulta integralmente intessuto di riprese, in chiave triofalistico-denigratoria, dei motivi noti, come il riferimento alla consistenza numerica del nemico (che qui si trasforma in una torma di anime dannate così numerose da sfiancare Caronte: «che Stige logrerà, la turma esangue: / e stanco sù la ripa io già ravviso / il Pilota infernal giacere assiso») o l’allusione alla millantata sicurezza di vittoria (qui con un ludus d’argomento arboreo: «S’asconderà sul funeral promesso / a chi palme sperava anche il cipresso») e alla devastazione ambientale provocata dalla sua marcia (qui celata dietro l’immagine dei cadaveri ormai divenuti concime: «Perche i Batavi campi / col sangue inaffierà lunato arciero, / seminando il confin di membri, e d’ossa»; «Dall’odiabil’Osso / sarà distolto il vomere futuro, / di cui campo German vedrò fecondo»)113. Preliminare a tutte le apostrofi sarcastiche dirette agli sconfitti Ottomani è tuttavia l’individuazione dell’elemento principe da cui scaturiscono, come da una sorgente, le irrisioni successive: la loro incapacità bellica ormai definitivamente svelata. Quei giannizzeri, quegli spahi, quell’artiglieria che un tempo faceva tremare l’intera Europa cristiana hanno offerto sotto le mura di Vienna – è l’unanime giudizio dei poeti – un pessimo spettacolo di incompetenza, di superficialità, di mancanza di coraggio, di imperizia bellica. E non si può non notare come i letterati del tempo, che pure sul piano storico non potevano che rallegrarsi della notizia, manifestassero una sorta di stupore, che traspare in tutta la sua consistenza anche dietro i veli della felicità per lo scampato pericolo, del

113 G. A. MAGNANI, Il vaticinio, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 137-143: 139-141. Testimonia della vitalità del motivo, crudelmente macabro e sarcastico insieme, del corpo del soldato turco che feconda da morto quella terra che da vivo intendeva devastare, anche Meloncelli: «e ‘l tutto è sparso / di Archi d’avorio, e di faretre d’oro, / a’ pretiosi panni, / a’ gemmati Turbanti il Campo è scarso, / lussi del Bizantin, pompe del Moro, / d’un immenso Tesoro / messe del Vincitor la Terra abbonda, / e chi vivo estirpò, morto feconda» (G. M. MELONCELLI, La Pietà Trionfante per la Liberazione di Vienna, assediata dall’Armi Ottomane, e per la gloriosa Vittoria ottenuta sopra di esse. Ode del P. Gabriel Maria Meloncelli Bernabita. E frà gli Accademici Infecondi l’Opposto. In Roma, nella Stamperia di Marc’Antonio, & Orazio Campana Success. del Fei 1683. Con licenza de’ Superiori, poi ristampata in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 104111: 109, da cui cito).

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ringraziamento alla divinità per una vittoria così insperata, del dileggio per quel nemico fino a un momento prima reputato imbattibile. Stefano Pignatelli, ad esempio, si sofferma ampiamente sull’analisi della condotta della campagna viennese da parte del comandante turco. Benché gli invasori rappresentassero «quella poderosissima Nazione, ch’è l’universal terrore di tutta la Cristianità»114, il letterato romano non può fare a meno di sottolineare, con impietosa puntualità, i numerosi «falli militari» commessi da Kara Mustafà, il generale «che imperava ad un numero senza numero d’Infedeli»115, «al qual’ubbidivano tutte le Genti di Macometto»116. Dopo il passaggio del Raab, favorito dalla defezione dei nobili magiari («per la poca lealtà di Coloro, che ne soprastavano alla cura»), risulta militarmente inspiegabile, agli occhi dell’autore, la decisione del generale nemico di procrastinare l’attacco alla capitale ancora sguarnita di uomini e difese, «corrompendo con tal indugio la commodità offerta ad esso d’insignorirsi tantosto di Vienna mancante allora degli opportuni apparecchi». Anche le scelte successive – tutte riconducibili all’ostinata responsabilità di Kara Mustafà – paiono obbedire alla medesima, sconcertante assenza di lucidità strategica e competenza logistica: Chi per altro saprebbe ridire [...] come Mustafà, dopo un’aperto sperimento della fortezza di quelle sì ben guarnite mura [di Giaverino]; e non men dell’esimia prodezza di chì n’era alla guardia, avvisando di non poterla più render soggetta con l’agevolezza dapprima immaginata; non prese consiglio di sospinger un’ampio Stuolo delle tante sue Squadre a conquistar la Città di Possonia per erger in quell’estremo dell’Ungheria un varco sopra il Danubio, per opera di cui gli venisse fatto di guerreggiar felicemente le Schiere Imperiali, ch’eran un glorioso sì, ma non un formidabil avanzo di tutta l’Oste primiera? A cui darà l’animo d’indagar qual fosse l’intendimento del medesimo Mustafà; allor che si scorse non curar di trasmetter molte delle sue Turbe a guernir le falde del monte di Calembergh; per cui si sarebbe renduto, non pur malagevole, ma per poco impossibile alla Sacra Lega d’innoltrar il soccorso alla vita, non che presso all’assediata Città?117

La felice conclusione degli eventi viennesi, insomma, secondo l’analisi seguita da Pignatelli, non può che condurre l’intera Cristianità alla consapevolezza – ormai storicamente accertata – che le tanto decantate virtù belliche dell’implacabile e inarrestabile conquistatore turco rappresentano soltanto un incubo dal quale l’Occidente si sta liberando; il ricordo di un passato di paura e sopravvalutazione ormai svanito nell’animo dei cristiani. La sconcertante imperizia dimostrata a Vienna rappresenta quindi un segno evidente dell’innata viltà e codardia del nemico secolare, e un segnale fragoroso che chiama a raccolta il mondo europeo, invitandolo alla definitiva riscossa: 114 115 116 117

PIGNATELLI, I Trionfi delle Armi Cristiane, cit., p. 34. Ivi, p. 30. Ivi, p. 31. Ivi, pp. 30-31.

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Salvatore Canneto Nè di sì bella illuminazione, men fertile di grandissimi beni, o men’intesa al premostrato fine [cioè la sconfitta definitiva del Turco] dee riputarsi la cecità de’ medesimi Turchi apparita nell’inchiesta ultimamente impresa contro Noi, con tal’audacia incominciata, con tanti errori proseguita, e con una sì strana viltà terminata. Chi può dubitar, che quella codardia, quell’imperizia, quella lentezza, e quell’impotenza non è naturale ne’ Turchi; e che non entrassero quasi pellegrini tra loro i mentovati difetti? Ma tanto è lunge, che da ciò debba ritrarsi, che sien’eglino, come sotto Vienna comparirono, frali, sconsigliati, ed improvidi; ch’all’incontro con la medesima testimonianza di que’ lor difetti si convince qual sia l’innata forza del lor valore118.

Conseguente a una lettura degli eventi di questo tipo, l’irrisione sarcastica dello sconfitto campeggia dunque nel motivo generale della superbia eccessiva dei turchi, a sua volta collegato in primo luogo al motivo, particolare e topico, dell’ubi sunt vanae gloriae. I poeti cristiani, al colmo della felicità per essere scampati a un pericoloso destino, e consapevoli che le armate europee hanno assestato al nemico un colpo micidiale quanto inaspettato, prorompono in esclamazioni in cui il ricordo dell’antica possanza del nemico risulta funzionale all’attuale dileggio impietoso e trionfalistico, come ad esempio in Luca Terenzi («Scoppia di fiele, empio Tiranno insano, / di troppo fasto, e d’arroganza pieno, / e chiedi a’ pochi fuggitivi, ù sieno / le schiere, ch’ingombraro i monti, e ‘l piano»119), Donato Antonio Leonardi («Or dove son le tue vittorie, e dove / le tue palme sognate, i tuoi trionfi, / i vantati trofei, stolto Visire?»120), Innocenzo Maria Fioravanti («Vanne, deposti l’alterigia, e ‘l fasto, / e quella, che spirava oltraggi, ed onte, / piega sì altera fronte / entro la tua confusion rimasto»121). Un secondo motivo denigratorio tra i più ricorrenti – e anch’esso rovesciamento del motivo precedentemente individuato – riguarda invece il riferimento alle lussuose e lussuriose mollezze dell’harem, che i cantori del successo vien-

Ivi, pp. 53-54. TERENZI, Rimprovero al Gran Turco, in Sonetti di Luca Terenzi, cit., p. 71. 120 [D. A. LEONARDI] Vienna liberata. Canzone di Donato Antonio Leonardi dedicata all’Emin.mo e Rev.mo Prencipe il Signor Cardinale Carlo Pio. In Roma, nella Stamperia di Nicolò Angelo Tinassi Stampator Camerale, MDCLXXXIII. Con licenza de’ Superiori. Il testo venne pubblicato anche in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 57-62: 61 (da cui cito) e in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., pp. 159-164. Un breve profilo biografico dell’autore si legge in Notizie istoriche degli Arcadi morti, tomo secondo, cit., pp. 341-342. 121 I. M. FIORAVANTI, Per la solenne Vittoria ottenuta dall’Armi Cesaree contro la potenza Ottomana, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 249-251: 250. Un breve profilo dell’autore si legge in Memorie, Imprese, e Ritratti de’ Signori Accademici Gelati di Bologna Raccolte nel Principato del Signor Conte Valerio Zani il Ritardato. All’Eminentiss. e Reverendiss. Sig. Card. Francesco Barberino Decano del Sacro Collegio Accademico, e Protettore. In Bologna, Per li Manolessi. MDCLXXII. Con licenza de’ Superiori, pp. 287-288. 118

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nese tendono a descrivere come l’unico agone bellico degno del valore del Sultano122, oltre che luogo privilegiato – assieme all’aldilà infernale, come si vedrà – in cui collocare le scene poetiche che prevedevano la presenza di quest’ultimo. Il riferimento al Serraglio presenta quindi, nella maggioranza dei casi, la duplice allusione all’inclinazione lasciva («Dentro al Serraglio appunto / tra le lascivie il gran Signor’ immerso»123) e imbelle («Riedi, ò Trace orgoglioso, e a l’Istro in riva / imprima orme codarde il piede imbelle; / e cingendoti il sen veste lasciva / và à guerreggiar co le Tue Turche Ancelle»124) del Gran Turco: Sù fuggi, e torna ove l’impuro gregge De le Veneri tue, par che ti chiame, Per dar al tuo dolor qualche ristoro; E se giurasti loro Le vaghe spoglie di Tedesche Dame, Dì, che ‘l destino hà variato legge125. Ne l’impuro Serraglio Vanne, e per sempre al chiaro dì l’ascondi, Ch’è Campidoglio al tuo valor ben degno. Senza cura e travaglio De le Sultane tue tra’ vezzi immondi Marcisci senza lode in ozio indegno. E s’hebber da tè pegno D’ir tra’ Tedesche ancelle alte e pompose, Accusin tua fè le turche spose126.

La disfatta completa e la precipitosa fuga del «formidabile Essercito» che tanto superbamente aveva progettato e millantato di conquistare Vienna e invadere la Cristianità permette inoltre ai poeti di giocare, sul piano del ludus verbale e con intenzioni parimenti denigratorie, sul nome degli Ottomani («Senz’onor, senz’ardir, senza consiglio / l’Ottoman tutto piè fugge sconfitto»127; «A fuggir fui

Cfr. a questo proposito PRETO, Venezia e i Turchi, cit. p. 266. Lamento del Gran Turco per la perdita di Buda, in Doloroso Pianto, e Lamento fatto da Mehemet Quarto Gran Turco per la perdita di molte Città, e Fortezze nella Morea, Dalmatia, Tartaria, Ungaria, e particolarmente per la Real Città di Buda. Presaggio della Ruina dell’Ottomano Impero. In Roma, per Domenico Antonio Ercole. 1686. Con licenza de’ Superiori, s.n.p. 124 Anonimo, A gl’auspici del Leone d’Innocenzo XI, e dell’Aquila di Cesare, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 58. 125 B ARTOLI , La superbia Ottomana abbassata, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 53. 126 BEVERINI, Nella Liberazione dell’Imperial Città di Vienna, cit., p. 11. 127 Anonimo, Per la vittoria ottenuta dal Rè di Polonia contra il Turco sotto Vienna, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 66. 122

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costretto / con furia tal, che si stupia la Gente; [...] e per quei Colli, e per quei vasti Piani / sembravan d’otto piedi gli Ottomani»128). Il ludus verbale e il gioco delle immagini rappresentano le principali modalità attraverso cui il sarcasmo dei vincitori e l’irrisione degli sconfitti raggiungono il loro culmine topico, come testimonia il seguente sonetto, di autore incerto («M. L.»): Deh Gran Signor non bestemmiar Macone, Perche à la Luna tua fù rotto il Corno Che se scemando và di giorno in giorno Corna non mancheran, mà ben Corone. Fuggendo dal Caprara il tuo Caprone, Non sarà senza Corna il suo ritorno Non tosto sconterà scorno con scorno Lasciando in man del Boia il suo Testone. O di barbaro Ciel scene funeste? Chi fugge pere, e chi non fugge è preso, E mancano Corone, e crescon teste. Gli Ottomani al pugnar non trovan verso, Gli otto piedi al fuggir trovan tempeste Chi Rè Ungaro fù, divien Rè perso129.

Secondo un modello che trova ancora una volta i suoi antecedenti nel contesto lepantino130, i motivi denigratori più compiuti, infine, risultano veicolati in particolare nei testi in cui la finzione letteraria presuppone che sia lo stesso sconfitto ad ammettere la propria sconfitta, i propri errori, il proprio pentimento, il proprio pianto. In generale, l’opzione formale riservata a una simile esposizione tematica prevede il ricorso al formulario – strutturalmente indefinito, e quindi privo di vincoli nella scelta dei metri da adoperare – del «lamento» («Quel Suldano son’io, che ‘l mondo tutto / possiedo, e reggo con possente braccio: / hoggi mi vedo sconfitto, e destrutto. [...] Cangiatasi in un tratto la mia sorte / non son più qual fui, ò me meschino, / sol mi sovrasta miserabil morte»131), oppure dell’«epistola» – in terzine dantesche, secondo la tradizione – nella duplice modalità fittizia del testo inviato dal comandante militare al Gran Sultano per comunicargli il vergognoso disastro o, al contrario, della comunicazione indirizzata da quest’ultimo – sempre ritratto al colmo della collera – ai suoi incapaci e inaffidabili sottoposti, primo tra tutti il Gran Vizir. 128 C. BANI, Si suppone, che il Primo Visire dia parte in Costantinopoli al Gran Signore della sconfitta dell’Esercito accampato sotto Vienna, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 36-39: 37. 129 M.L., Al Gran Turco, in Poesie di diversi Autori sulla gloriosa Conquista fatta dall’Armi Cesaree della Real Città di Buda, cit., p. 114. 130 Cfr. ad esempio, a questo proposito, GIBELLINI, L’immagine di Lepanto, cit., pp. 72-73. 131 Doloroso Pianto, e Lamento fatto da Mehemet Quarto Gran Turco, cit., s.n.p.

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Le Lettere Eroiche sul valor de’ Cristiani (1685) di Donato Antonio Serio, come si è anticipato nelle pagine precedenti, si configurano come il testo forse più rappresentativo in questo senso. L’avviso della sconfitta recato dal generale al suo signore è declinato nella terza epistola (Il Primo Visir al Gran Sultano), in cui, come recita la didascalia introduttiva, «Mustafà Primo Visir essendo stato costretto abbandonare l’assedio di Vienna già dal medesimo assediata con sopra cento cinquanta mila Soldati, disperato alla fine vicino le sponde del Fiume Rab dà raguaglio al gran Signore di tutto ciò che si operò»132. L’attacco del componimento – simmetrico in tutti i testi di cui l’opera è costituita nell’esporre il luogo da cui proviene la missiva, il destinatario e l’autore che ne ha vergato le righe – anticipa già la successiva dimensione cromatica («Presso l’infauste, e memorande rive / del Rabbo insanguinato il Duce afflitto / Mustafà al Gran Signor piangendo scrive»), mentre alla fulminea notizia del disastro («L’Edonia gente, il tuo valore invitto / giace sul Campo») fanno seguito la descrizione puntuale del proprio operato («Vittorioso io venni, e alla mia voce / turbossi ogni Campione, ogni Guerriero / propugnator della nemica Croce: / venni, e del vasto occidentale Impero / la Regia circondai...») e delle azioni del nemico. Per ciascuno di essi l’afflitto Mustafà non può che usare espressioni di stupore e ammirazione che ne sottolineano il valore e la netta superiorità: la difesa diretta da Starembergh («Starembergh implacabile, e severo. / Questi difeso hà sì l’oppresse mura, / che si vidde in più posti à un tempo stesso / a dispetto del Fato, e di Natura»); le azioni di disturbo organizzate da Carlo di Lorena («un Descendente / dal gran Goffredo, un Carlo di Lorena / rintuzzò l’armi tue con poca gente», «Delle mie glorie sì trattenne il corso, / che oprò ben più del gran Trattenitore. / Or mi fuggiva, or mi premeva il dorso, / or distrugea le machine sotterra...»); l’arrivo di Giovanni Sobieski, che pone fine a ogni speranza di successo («Quì mi trema la mano, e ‘l duolo atterra / tutti i miei senzi...»). A nulla sono valsi i ripieghi tattici tempestivamente ordinati da Mustafà («E benche all’or tutte le forze unite / io l’opponessi, ei della Tracia luna / derisore, schernì l’armi infinite»), il quale chiude l’epistola con la finale descrizione della desolazione del campo turco ormai definitivamente in mano ai cristiani («Or de’ Spai lo stuolo, & or la schiera / del forte Agà nel suolo estinta io miro») e della fuga degli ufficiali superstiti («A sì fieri spettacoli s’udiro / voci interrotte, e piene di cordoglio, / onde i tuoi Duci attoniti fuggiro, / et io resto confuso, e chiudo il foglio»)133. La già citata epistola settima (Macmete Quarto al Primo Visir) costituisce la risposta del sultano al testo precedente, ed è esplicativa della seconda modalità denigratoria sopra individuata, che prevede da una parte l’accusa di incapacità mossa al comandante turco (come recita la

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D. A. SERIO, Lettere Eroiche sul valor de’ Cristiani, cit., c. F. Ivi, pp. 1-8.

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didascalia: «Sdegnato il Gran Signore risponde à Mustafà Primo Visir ascrivendo alla sua dapocaggine, e crudeltà, non solamente la disfatta dell’Esercito, che assediò Vienna, ma la totale ruina, che sovrasta tutto l’Imperio Ottomano») e, dall’altra, la rievocazione delle imprese eroiche dei cristiani per bocca del nemico sconfitto. L’apertura del componimento («Dell’Ismari Guerrieri al Capitano / ludibrio vil di Battezate Schiere / così risponde il Prencipe Ottomano») e la rapida rievocazione di quanto successo sotto le mura di Vienna («Dunque l’invitte mie falangi intiere / in un Baleno il Sarmata disface?») introducono il tema e il tono del successivo discorso, in cui il sultano dapprima ripropone il catalogo delle proprie forze secondo il noto cliché dei numerosi popoli sottomessi coinvolti nell’operazione («L’Ircano, il Siro, il Geta, il Greco, il Trace, / il Perso forte, il Medo d’ira armato, / l’astuto Parto, il Tartaro rapace, / li Mauri, e quei del Caucaso gelato / son disfatti»); poi prorompe in un accesso d’ira vendicativa contro il principale nemico responsabile dello sfacelo («Vò vendicarmi: olà sdegno, e furore / ite della Sarmazia alle ruine, / e fia preda d’un pallido timore»), repentinamente congelata dall’amara riflessione sull’inoffensività del suo impero ormai disarmato («Ma che vanegio senza Duci, e senza / Arme, & armati»), i cui soldati, un tempo vanto del loro signore, galleggiano senza vita sul Danubio («Teschi infranti, Ossa rotte, Aste, e Cimieri / raggira l’Istro, e par che dican l’onde: / ecco di Libia, e d’Asia i bei Guerrieri!»). I pochi sopravvissuti rientrati nella capitale ottomana riferiscono al sultano del vero comportamento del visir («Del Danubio ò Signore in sù la riva / veder mi parve Mustafà dolente, / che disarmato attonito fuggiva») e dei motteggi di stampo religioso direttigli contro dai nemici («Chiamare inetta, barbara, & impura / dell’Alcorano la Sacrata Legge / la nostra Fè sacrilega, e spergiura»). La colpa del disastro, dunque, deve essere ascritta integralmente a Kara Mustafà («Codardo Mustafà, la tua fierezza / me vinto fece, e l’inimico invitto!»)134. In un sonetto di Paolo Abriani viene delineato il motivo del pentimento del visir sconfitto, introdotto da un anagramma con il quale l’autore intende condensare, già nel nome del protagonista, l’infelice esito delle sue brame e delle sue aspirazioni («Anagramma: Carà Mustafà Gran Visir – Strana fù mia sciagura»). Il componimento, in prima persona, si apre con un’ammissione di colpa e sconfitta («Io, che assorbir, non ch’espugnar vantai / d’Augusto il Soglio, e fulminar gl’Allori, / vidi, ahi lasso! cangiarsi in tetri orrori, / sul primo albor, de le mie glorie i rai»), e si chiude con una contrita confessione di pentimento e di piena accettazione delle conseguenze («Tardi pentito or grido in flebil voce: / strana fù mia sciagura, e le mie doglie / altro fin non havran, che morte atroce»135). Il passaggio

Ivi, cc. M2 sgg. (pp. 1-6). P. ABRIANI, Querele di Carà Mustafà Primo Visir fuggito dall’assedio di Vienna, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 293. 134

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dal pentimento alla conversione, e dunque dall’apologia di una fede al rinnegarla, nelle narrazioni allestite dai cantori cristiani, diviene quasi una sorta di conseguenza poetica obbligata che tuttavia, come si vedrà, appartiene a una dimensione ben definita della rappresentazione letteraria del successo viennese, incentrata oltre che sugli aspetti sarcastico-denigratori, sulla lettura in chiave escatologica dello scontro. In Giovanni Pietro Monesio, ad esempio, è il sultano in prima persona a proclamare l’intenzione di abbandonare la religione islamica («sommergendo in Lete / i riti Maomettani iniqui, e pravi»), purificare la propria anima con le acque lustrali («Vuò ben tosto, che lavi / entro Conche più pie, / onda battesimal le colpe mie»; «Al suddito Giordano / volgasi il piede or’ora; / e quei sagrati Argenti, / che il crin bagnaro a l’Umanato Dio, / formino egual lavacro al Capo mio») e convertirsi al cristianesimo. La scelta individuale del sultano si ripercuote naturalmente sulla scelta della religione ufficiale di stato («Moschee profanate / da Tracie preghiere / a l’uso tornate / di Chiese primiere») e sul riconoscimento del magistero spirituale del pontefice romano («Tempio di vera fede è il Vaticano»)136. Sempre all’interno della dimensione sarcastica e denigratoria dei turchi sconfitti, infine, emerge il motivo – formale e insieme tematico – del “contrasto”, generalmente eseguito secondo una duplice contrapposizione. Da una parte, analogamente a quanto avviene nell’allestimento delle epistole in terzine, vi è lo scontro verbale tra il sultano e il visir sconfitto, come ad esempio nel seguente sonetto di Giuseppe Berneri, intitolato Dialogo frà il Gran Turco, & il Primo Visire: Riedi ò Visir? ma con rossor su ‘l volto: Che rechi a me? d’ossequio ampio tributo: Dico quai nuove? in poco io dirò molto: Vienna? la liberò lo straniero aiuto. L’Esercito? È sconfitto: ohime, che ascolto! L’Ottomano valor? restò abbattuto: Lo Stendardo Reale? à me fù tolto: Il tuo Treno, il Tesor? tutto è perduto: Il Rè nemico? vincitor si vanta: I suoi Guerrier? di spoglie onusti, e ricchi: Cesare? le sue glorie ognun decanta: E tu? tornar vorrei; non me la ficchi: Dammi Signor nuova condotta: ò canta! Voglio darti una forca, che t’appicchi137.

136 MONESIO, Lamento del Gran Sultano [...]. Si finge che habbia giusto motivo di detestare la legge Maomettana, e di abbracciare la vera Fede di Cristo, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 173-174. 137 Ivi, p. 218. Un ulteriore esempio: Contrasto seguito tra il Gran Sultano de’ Turchi col Primo Visir, fuggito vergognosamente da Vienna, con la sconfitta di tutto il suo numeroso, e

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Altrove il contrasto si configura invece come un dialogo tra le anime dannate dei soldati ottomani caduti sotto Vienna e un demonio – in genere Caronte, talvolta lo stesso Maometto – che li “accoglie” al momento della loro improvvisa precipitazione negli abissi infernali. È questo uno dei temi comici e sarcastici più sfruttati, che i cantori del successo viennese recuperavano dal patrimonio letterario lepantino138: Chi vi piomba agli Abissi? un cieco ardire: E qual? la Guerra al Cesare Romano: La Causa? Ingiusta. Il Capo? il Gran Visire: Mosso da chi? dal Teclì, e dal Budiano. Fu posto assedio? In Vienna: Or perche vano? Perche fù d’uopo un Partico fuggire: Chi v’impaurì? Del Sarmata la mano: Giovanni fù? furo i suoi odj, e l’ire. Ahi sempre un nome tal produsse affanni; Tre furon già, che sparsero il Vangelo, E a l’Alcoran fà scorno ora un Giovanni. Tutti infiamman per Dio l’Alma di Zelo; Priegan quei, pugna questo; e d’Asia a i danni L’un m’è Nemico in terra, e gli altri in Cielo139.

L’atteggiamento denigratorio – e in alcuni momenti quasi “monitorio” – costituisce dunque una delle linfe vitali della produzione esplosa all’indomani della vittoria di Vienna. Si potrebbe anzi affermare che l’esito della vicenda – dapprima paventato e temuto, in seguito implorato e sperato, infine festeggiato e osannato – divenne in brevissimo tempo esso stesso motivo di vanto per la parte cristiana, oltre che di denigrazione “concreta” per i successivi intenti “revanchisti” ottomani, che non tardarono ad attuarsi. Poco dopo la vittoria del 1683, insomma, il

ricchissimo Essercito. Dove si accusa per unica cagione l’hauer mancato di Fede alla triegua fatta con Leopoldo primo Imperatore [...] In Milano, per Gio. Battista Baltramino [1683]. 138 Si vedano, a questo proposito, il famoso sonetto Giunto il vecchio Caronte a l’alta riva del Cieco d’Adria, inserito nella raccolta Trofeo della Vittoria sacra, e alcuni passi del poema di Francesco Bolognetti, la Cristiana vittoria marittima. Cfr. inoltre TURCHI, Riflessi letterari italiani della battaglia di Lepanto, cit., p. 417; GIBELLINI, L’immagine di Lepanto, cit., pp. 69-74. 139 DURANTI, Maometto vedendo precipitare tante Anime Turche a Casa del Diavolo così le interroga, e così da loro si risponde. Si allude a S. Gio: Battista, S. Gio: Evangelista, Beato Gio: da Capestrano, e Gio: III Rè di Polonia, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 156. Un ulteriore esempio: Contrasto seguito alla Porta dell’Inferno, tra il Demonio, e i Turchi morti sotto Vienna. In Lucca, Genova, & in Milano, Stampa di Carlo Antonio Malatesta, 1684.

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ricordo di Vienna, benché ancora fresco nella memoria, si era tramutato in una sorta di exemplum con le parvenze del mito, da esibire come un crudele memento ai nemici infedeli al momento del loro eventuale nuovo attacco. Nel 1687 Giuseppe Maria Mitelli pubblicava un’incisione dal titolo A’ strali d’Austria è sempre segno il Trace, caratterizzata da una notevole quantità di rimandi allusivi, esplicati in parte nella didascalia (FIG. 14). Al centro della rappresentazione, in alto, l’Aquila (il «Giove Austriaco») regge negli artigli la spada e i fulmini, e, sotto di essa, falciati e fatti a pezzi dalla Morte, si trovano i simboli principali del mondo musulmano (archi, frecce, faretre, turbanti, scimitarre, lo Stendardo del Profeta). A sinistra, una processione funebre vede un gruppo di turchi che porta in spalla il catafalco contenente le spoglie del Sultano (il «Turco morto»), al quale sono appesi due cartelli, di cui uno recita, significativamente, «Testamento. Lascio un ricordo a’ Turchi, che mai più non vadino sotto Vienna». Sempre a sinistra, sotto la processione, si vede l’allegoria della Turchia che si dispera e si strappa i capelli (ancora in mezzo ai principali simboli del mondo islamico). A destra, infine, Kara Mustafà – a indicare ulteriormente l’allusione viennese della rappresentazione – è raffigurato nell’atto di scavare una fossa, su cui campeggia una lapide che recita: «Turco sei morto, e il ferro mio rissolve / di non tagliarti più li panni addosso. / Finisco: e già ch’altro più far non posso, / io taglio il sasso, che ti manda in polve». Anni dopo, nel 1716, quando il conflitto austro-ottomano assurgeva nuovamente a evento catalizzatore dell’attenzione dell’opinione pubblica, il quirino Domenico Ottavio Petrosellini apriva e chiudeva significativamente una delle sue canzoni turchesche inserite nella raccolta allestita in onore di Eugenio di Savoia con il medesimo motivo, il memento Viennae rivolto al Turco e sospeso tra l’istanza monitoria e il dileggio sarcastico. Evidente già nell’interrogativa dell’attacco della prima strofe («E t’è sì presto dalla mente uscita, / Asia superba la mortal percossa, / che sulla fronte ti risuona ancora?»), il ricordo del massacro dei soldati ottomani («E pur la bellicosa Austria t’addita, / e la Campagna di Pannonia ognora / de’ tuoi figli insepolti il sangue, e l’ossa») e della loro vergognosa fuga («Vienna poderosa / con intrepida faccia / a Bizanzio orgogliosa / la tua fuga rinfaccia») è il motivo con cui, nel congedo, il componimento si chiude circolarmente: «Canzon cangiati in tuono, / e vanne il Rè feroce / ad atterrir sul Trono / colla terribil voce: / digli, che fuma ancor la Terra rossa / di sangue, e sparsa d’ossa»140.

140 D. O. PETROSELLINI, Canzone I, in Componimenti delli Signori Accademici Quirini, cit., p. 23 e p. 26.

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4. «Et fiet unum Ovile et unus Pastor» La prospettiva della guerra mossa dal Turco alla Cristianità intesa come vendetta divina “purificatrice” e come giusta punizione dei peccati dei cristiani, che ampio rilievo aveva ottenuto già in seno alla letteratura lepantina141, compare con notevole insistenza anche nel contesto della produzione sorta in occasione dell’evento militare viennese. Moltissimi poeti vi alludono spesso e volentieri, trattandosi evidentemente di un motivo di forte valenza religiosa e di sicuro impatto emotivo sui lettori. Sono in particolare gli encomi e le ricostruzioni narrative in prosa ad articolare più distesamente tale prospettiva, permettendo quindi di coglierne le sfumature più ampie e puntuali. Nel più volte citato Ragionamento di Stefano Pignatelli, ad esempio, il motivo dell’assimilazione dell’attacco turco alla volontà divina di fustigare l’umanità traviata viene declinato come un’ulteriore argomentazione in favore della santità di Innocenzo XI, al cui «zelo» – come si vedrà distesamente nel prossimo capitolo – i letterati del tempo ascrivevano il merito principale della vittoria. In più occasioni l’autore sembra infatti raffigurare il pontefice nelle vesti del martire, di colui il quale è disposto a offrirsi volontariamente come «vittima» e bersaglio dell’ira della divinità: e forse solo una prudenza sorretta da un solido buon senso gli ha impedito di spingere più oltre il parallelo di tipo “cristologico” che appare, in questo passaggio, soltanto velato: «Stavasi questo [il Cielo] tutto cruccioso per le gravi, ed impunite scelleratezze del Secolo, ed era già presto a scaricar i fulmini della sua vendetta; allorché il nostro Santissimo Innocenzio, qual somigliante copia del suo celeste originale, offerì sé per vittima innocente a placar l’ira divina»142. Il buon Innocenzo non ottiene soltanto «di sveller di mano all’Angelo fulminatore la spada di fuoco», ma anche che l’ira divina «tutta si rivolgesse all’esterminio degl’Infedeli»; inoltre, laddove questi ultimi si erano «infin a quì apparecchiati contro Noi, come tanti strumenti dello sdegno divino: per l’opposto si scorsero a un tratto essi medesimi divenuti oggetto dell’ira del Cielo, il qual a un tempo stesso si valse del nostro braccio a scaricar contro loro le più sterminatrici saette»143. In modo analogo – e dunque sintomatico di una prospettiva ideologica ampia e condivisa – il frate barnabita Simpliciano Bizzozeri amplifica in chiave decisamente apocalittica le medesime osservazioni di Pignatelli, ponendole significativamente come incipit della sua voluminosa ricostruzione storica. L’attacco proemiale del primo tomo dell’opera sviluppa infatti, in poche righe, il concetto

141 MAMMANA, Lepanto, cit., pp. 111-122. Cfr. inoltre LEFÈFRE, Immaginario e ideologia apocalittica nelle rime per la battaglia di Lepanto. Poeti italiani e spagnoli, cit., pp. 97 sgg. 142 PIGNATELLI, I trionfi delle Armi Cristiane, cit., p. 9. 143 Ivi, p. 13.

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“storico” della guerra come strumento dell’ira divina, la quale, mossa soprattutto dall’empietà dilagante, si riversa furiosamente sul popolo cristiano per emendarne le colpe e riportarlo al precedente stato di purezza: Sono le Guerre il flagello, che ben sovente prende Iddio nelle mani, e per punire la baldanza de’ Popoli, e per isbalzare talora i Regnanti dal Trono, sopra del quale orgogliosi pretendono di stabilire la cattedra dell’empietà. Con questo giusto rigore, il braccio dell’Onnipotente, de’ Medi, de’ Persiani, e de’ Macedoni le Monarchie spiantò, e a stato tale con la sferza delle arme la ridusse, che delle Monarchie stesse, e degli empi Regnanti che le reggeano, è rimasta appena nel Mondo la funesta, e lagrimevole rimembranza. Quando la fede di Cristo fù dalle trombe Apostoliche bandita, e stabilita nell’Universo; trovò de’ perfidi, gli quali, mentre ella era bambina, la soffocarono nella culla; & altri, che ingigantita la sfregiarono co’ vizj, la mutilarono con le Eresie: azzioni, che obbligarono Iddio, per levare dalla superfizie della terra tanta infezione, a dare in mano de’ Barbari la spada bene affilata dell’irritato suo sdegno, accioche e nel sangue de’ suoi ribelli, e falsissimi suoi seguaci si ammorzasse il suo furore, e col fuoco delle divampate Provincie si purgasse l’aere da quella corruzione de’ vizj, gli quali, per lo troppo licenzioso vivere, aveano nel Mondo tutto gittate alte radici144.

A proposito dei «perfidi» cui accenna Bizzozeri in questo passaggio, i quali «sfregiarono» la religione cristiana «co’ vizj» e «la mutilarono con le Eresie», va ricordato che la tendenza a considerare il Turco quale strumento dell’ira divina provocata dal decadimento morale della Cristianità era stata già espressa ai primi del Cinquecento da Martin Lutero nell’ambito della sua polemica riformista antiromana. Lo stesso Pignatelli – membro di rilievo dell’entourage di Cristina di Svezia, la regina che aveva abiurato alla fede protestante per abbracciare quella cattolica – non tralascia di riproporre nel suo Ragionamento questa osservazione, declinandola come ulteriore motivo polemico di stampo filocattolico e antiluterano: Oh s’io non avessi temenza [...] di far quì comparire uno spirito, il più dannato di quanti ne racchiuda l’Abisso; fin di là chiamerei lo sventurato Lutero per udir da lui quai cose sapesse ridire intorno a sì felici avventure della Cattolica Religione. Fù sua sentenza, che non lice a Noi di guerreggiare il Turco, o di schermirci da lui qualvolta ne assale; rassembrando ad esso, che ciò sia, come opporre un’aperta resistenza alla Divina volontà. Stoltissima bestemmia145.

L’ideologia di derivazione “apocalittica” che si cela dietro argomentazioni di questo tipo appare evidente, sul piano della rappresentazione poetica, nel motivo del “rivolgimento epocale”: dello stravolgimento, cioè, di una quotidianità consueta e familiare ma proiettata, nel momento dell’attacco degli Ottomani,

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BIZZOZERI, La Sagra Lega contro la Potenza Ottomana, tomo primo, cit., p. 1. PIGNATELLI, I trionfi delle Armi Cristiane, cit., p. 49.

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verso un futuro irrimediabilmente oscuro e decisamente “altro”. Gli esempi adducibili a questo proposito possono essere ragguppati attorno a tre nuclei tematici principali, i quali, dal punto di vista letterario, veicolano motivi esposti ancora una volta in chiave “patetica”, di quello stesso patetismo di sicuro impatto emotivo precedentemente rilevato a proposito del “destino” delle donne. La prima (e più ovvia) dinamica di rovesciamento riguarda l’ambito storico, e si riferisce al destino «dell’Imperial Città di Vienna»; della città, cioè, prima “regina” e orgogliosa “sovrana di popoli” – dantescamente: «donna di province» – ma che ora si avvia verso un minaccioso futuro di servaggio e schiavitù: Bella Città dunque potrò mirarti Senza gran pianto incatenata un giorno Fatta scherno servil di turba ardita? Vedrò Tè, Gran Regina, al piè chinarti De l’infame Sultano, e con tuo scorno A l’usanza di Tracia andar vestita?146

In secondo luogo, e in senso più propriamente religioso, campeggia il motivo della sacrilega trasformazione e sostituzione dei luoghi e dei simboli principali della religione cristiana negli omologhi di parte islamica. L’eventuale conquista turca, negli affreschi delineati dai vari autori, vedrebbe infatti le chiese mutarsi in moschee; la Mezzaluna sostituirsi alla Croce; il Vangelo soppiantato dal Corano. Dunque le Torri avvezze Su Sacri marmi à sostener la Croce Base saranno di lunate Insegne? E con barbare asprezze Regnar potran de l’Abidena foce In onta al Vangel le leggi indegne?147 Se là dunque, ove d’inni alto concento A lui si porge, in suol profano atroce Non s’ode Araba voce, Se sacrilego incenso a nume folle Colà non fuma, e se impietà feroce Da i sepolcri non tolle Il cener sacro, e non lo sparge al vento...148

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p. 59.

LEONARDI, Vienna liberata, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit.,

147 CAMPIONI, Vienna assediata dall’armi Ottomane, e liberata colla sconfitta delle medesime, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., pp. 133. 148 FILICAIA, Alla Sacra Real Maestà di Giovanni III Rè di Pollonia, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., p. 42. Similmente in Lodovico Adimari:

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Il terzo nucleo di motivi relativo alle dinamiche di rovesciamento, infine, riguarda il tracollo più propriamente civile, secondo il quale la città di Vienna – un tempo luogo di vanto e di ricchezza della civiltà cristiana ed europea – e le campagne dei dintorni della capitale – un tempo fertili, rigogliose, ubertose – diverrebbero, dopo l’eventuale conquista turca, un luogo di degrado e d’abbandono, di miseria e di aridità, in cui regnano il silenzio e la desolazione: Ma sarà mai, ch’io veggia Fender barbaro aratro all’Austria il seno, E pascolar la greggia, Ove or sorgon Cittadi, e senza tema Starsi i Getici armenti in riva al Reno? Nella ruina estrema Fia, che dell’Istro la famosa Reggia D’Ostile incendio avvampi, E dove siede or Vienna, abiti l’Eco In solitario speco, Le cui deserte arene orma non stampi?149 Temea, che un dì saresti, Di baldanza, e d’onor rasa le ciglia, Scherno a’ Nemici ingiuriosi, e fieri; Tu, che gran Donna, in signoril famiglia, Già mille intorno avesti Al Regio fianco, ognor Duci, e Guerrieri: Temea, che spenti i prodi tuoi pensieri; Cinta da vil catena Vedresti in erma arena Cangiar le Strade, ed i Teatri augusti; Già d’onda popolar termini angusti150.

«Con infelice evento / cadrà Vienna eccelsa, e in preda a gli empj / n’andran distrutti i Sacerdoti, e i Templj» e «Deh non fia ver, mio Dio, / ch’altrui sull’Are al tuo gran Nome ardenti / porga a Mostro Infernal gli onor divini» (L. ADIMARI, Per l’ultimo assedio di Vienna, in Poesie sacre e morali di Lodovico Adimari Nobil Patrizio Fiorentino Gentiluomo della Camera del Sereniss. di Mantova e Accademico della Crusca. All’Altezza Serenissima di Cosimo Terzo Gran Duca di Toscana. In Firenze, MDCXCVI. Nella Stamperia di S.A.S. per Gio: Filippo Cecchi. Con Licenza de’ Superiori, parte seconda, p. 86). Simili immagini sembrano riecheggiare, ma rovesciandoli di segno, alcuni momenti del discorso del Satana di Tasso: «[soffrirem] Che sian gl’idoli nostri a terra sparsi? / ch’i nostri altari il mondo a lui converta? / ch’a lui sospesi i voti, a lui sol arsi / siano gl’incensi, ed auro e mirra offerta?» (Gerusalemme Liberata, IV, 14, 1-4). 149 FILICAIA, Sopra l’Assedio di Vienna, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., p. 7. 150 MENZINI, Per la Liberazione di Vienna dall’Assedio dell’Esercito Turchesco, nel MDCLXXXIII, in Opere di Benedetto Menzini Fiorentino accresciute, & riordinate e divise in Quattro Tomi, cit., tomo primo, pp. 175-176.

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Davanti a un pericolo così incombente, davanti a uno scenario di mutamento storico, religioso, civile così spaventosamente delineato – e mentre la Reverenda Camera Apostolica ordina la pubblicazione di Litaniae, et Preces recitandae ad Divinam opem contra Turcas implorandam, in cui il popolo dei fedeli viene invitato a pregare per la preservazione del mondo151 – si affaccia talvolta, quasi a inscenare una tenzone tutta interna alla coscienza del poeta tra la fede cristiana e la tentazione “ateistica”, il motivo (letterario) dell’impotenza divina: il dubbio che, di fronte allo scempio della fede e dei fedeli cristiani, la divinità possa non disporre di adeguate armi di difesa. «Ma che! nel vuoto Empiro i Numi, e Dio / son per fama inventrice / racconti forse di mendace istoria?», si domanda un anonimo poeta, «O impotenza il fà pio / che intorno al rogo d’Innocente fede / sacrilega impietà danzar si vede?». Ma è un dubbio indegnamente empio, e come tale prontamente allontanato («Lungi da umano sen d’un Ateo i sensi»152). La prospettiva “apocalittica” così delineata, secondo la quale la “cristianità”, se non addirittura la “civiltà” tout court, si troverebbe di fronte al bivio tra la mera sopravvivenza e l’annientamento radicale, conduce i poeti alla continua e costante invocazione del soccorso della divinità. Di conseguenza, si assiste talvolta allo slittamento – dal punto di vista letterario come da quello religioso – della dinamica dello scontro dal piano umano a quello divino (celeste o infernale), verso una sorta di teomachia dal sapore squisitamente epico, il cui modello paradigmatico di riferimento deve essere rintracciato nel quarto canto della Liberata. Per quanto concerne l’intervento delle forze infernali – della personificazione dei vizi e dei peccati capitali schierati in favore dei turchi153 – è da rilevare che, oltre a essere inserita in componimenti poetici incentrati stricto sensu sugli eventi militari154, una simile tipologia rappresentativa può spesso

151 «Ut Turcarum, & Haereticorum conatus reprimere, & ad nihilum redigere digneris» e «Omnipotens sempiterne Deus, in cuius manu sunt omnium potestates, & omnia iura regnorum: respice in auxilium Christianorum; ut gentes Turcarum & Haereticorum, quae in sua feritate, & fraude confidunt, dexterae tuae potentia conterantur» (Litaniae, et Preces recitandae ad Divinam opem contra Turcas implorandam, & pro alijs Ecclesiae necessitatibus. Romae, Ex Typographia Rev. Cam. Apostolicae. MDCLXXXVII). 152 Anonimo, Vienna liberata, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 115. 153 Per i precedenti “lepantini” di questa modalità rappresentativa di tipo “epico” cfr. TURCHI, Riflessi letterari della battaglia di Lepanto, cit., pp. 415-423; GIBELLINI, L’immagine di Lepanto, cit., p. 99. 154 Riporto alcuni esempi tratti da contesti poetici diversi. La poesia “popolareggiante” del poeta dialettale veneto Pietro Zini immagina che «Da la Grotta Infernal sbocca Megera / E fa ch’el Teclì casca in Ribellion, / E ch’el manda dal Turco à far union. / Quel cala’ in Ongaria fa stragie fiera» (P. ZINI, La Volpe hà lassà el Pelo sotto Vienna, cit., quartina di sommario, p. 1). L’opera musicale del Marchese Santinelli, in cui Cinthia chiede a Pluto di mandar le sue Furie «à vendicar l’ingiurie, / à rinversar l’offese», così che «d’ogni intorno / de la

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essere individuata anche in contesti poetici relativi a soggetti decisamente “altri” ed “estranei”. Tali declinazioni apparentemente eterodosse assegnano al richiamo “infernale” una valenza significativa, che induce a riflettere su una sensibilità (ideologica e letteraria) e su una maniera (poetica) fortemente condizionate dal contesto della lotta antiturca del tempo. Nel 1686 compare a Venezia un poemetto in ottave dal titolo L’incendio veneto, opera prima (poi ripudiata) di un poeta appena diciassettenne e di belle speranze, futuro Poeta Cesareo: Apostolo Zeno. Vi si racconta di un grave incendio realmente avvenuto qualche tempo prima nella città lagunare, nella contrada detta “Barberia delle Tavole”, le cui cause non furono mai del tutto accertate, anche se, molto probabilmente, furono di origine non dolosa. Si trattò in ogni caso di un evento che scosse gli animi e l’immaginazione dei Veneziani, e «fu assai memorabile, giacché l’impeto del fuoco che ardeva molte case, ad un tratto faceva volar le tavole, fin nel canale, che conduce a Murano; ond’è, che in que’ contorni non erano secure nemmeno le barche»155. Quel che qui importa rilevare è la singolarità, sul piano letterario, dell’operazione poetica condotta dal giovane Zeno in questo poemetto, la cui forma espressiva marcatamente tassiana – e che ricalca i precetti del gusto tardobarocco del momento, poi ripudiati dalla successiva evoluzione poetica dell’autore, che tenderà al razionalismo arcadico in opposizione al gusto secentista – è già stata debitamente evidenziata156. Maggiormente significativa risulta l’opzione tematica e narrativa: prendendo spunto da un fatto di mera cronaca, tutto interno alla vita quotidiana di Venezia e apparentemente alieno da ogni riferimento alla guerra antiturca (che in quegli anni assisteva al coinvolgimento della Serenissima nella Sacra Lega), l’autore costruisce una fabula epica incentrata sulla «vendetta» che le forze di

vasta Germania arda ogni lito»; la risposta di Pluto: «sorgan […] Mostri orrendi / à rinovar gl’incendi, / e di Leopoldo à flagellar la Pace. / […] Sù l’Austria homai ne porti / cruda Guerra empie fraudi, horride morti» (Il Trionfo di Buda conquistata dall’Armi Austriache. Opera Musicale Divisa in Trè Attioni del Marchese Francesco Maria Santinelli Conte della Metula, Marchese di S. Sebastiano, Cameriero della Chiave d’Oro, e Consegliere Aulico Imperiale di Sua Maestà Cesarea. Consegrata all’Altezza Serenissima di Francesco II d’Este Duca di Modena. In Roma, per Gio: Giacomo Komarek, all’Angelo Custode. MDCLXXXVII. Con licenza de’ Superiori: azione prima, conclusione). Il “poema epico” di Annibale Marchese, secondo il quale «Poiche guerra non vale, tentan la pace / le Furie, e di essa ancor Pluto si pente. / Sì che à l’armi in rei modi invita il Trace / Ch’indi raccolta ha innumerabil gente» (Carlo Sesto il Grande. Poema di Annibale Marchese Patrizio Napoletano. In Napoli, nella stamperia di Felice Mosca, 1720, canto V, ottava di sommario) 155 Cito da La vita di Apostolo Zeno scritta da Francesco Negri. Venezia, dalla Tipografia Alvisopoli, 1816, pp. 438-439, nota VIII. 156 Cfr. A. MEDIN, La storia di Venezia nella poesia, Milano, Hoepli, 1904, pp. 363-368; MARASSO – STOURAITI, Immagini dal mito. La conquista veneziana della Morea, cit., p. 44.

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Satana, il Dio adorato dai Turchi, attuano ai danni di Venezia157. Lo schema narrativo di fondo è chiaramente quello tassiano (Gerusalemme Liberata, IV, 1-19), come inoltre non mancano di segnalare le numerose spie testuali agevolmente riscontrabili del testo. Il dio infernale è invidioso dell’opulenza della Serenissima, che prospera a scapito delle potenza ottomana («Fuor d’ogni noja, e d’ogni acerbo affanno / de le vittorie sue l’Adria godea; / né ad altro fuor che de la Tracia al danno / la sua mente guerriera ella volgea»: VI, 1-3), ed è inoltre furioso per il fatto che la fede cristiana continui a prosperare a scorno di quella musulmana («L’Empio Satan, che de l’infame Averno / frena con Scettro d’Angui Idre, e Serpenti, / in veder ne la Tracia il proprio scherno»: IX, 1-3). L’«irato Satan» ordina quindi a tutti i suoi sudditi – l’intera armata delle forze del male riunita in concilio – di rivolgersi contro Venezia, in una sorta di congiura – di cui Megera («de’ Mostri il Mostro, il più tremendo, / che le Tartaree Soglie unqua abitasse [...] col Meduseo sembiante / un nuovo Inferno a suscitar bastante»: XXIV, 3-4 e 7-8) si assume la responsabilità della conduzione – tesa a minarne e rovesciarne dalle fondamenta la stabilità e la potenza («Presto l’animo tuo contento avrai / a nuovo Incendio inusitato, e strano [...] Arso in breve cadrà de l’Adria il Regno: / come mia fia la cura è mio l’impegno»: XXVIII, 34 e 7-8). Nella finzione poetica di Zeno, dunque, la cronaca quotidiana (l’incendio), lo sfondo storico contemporaneo (la guerra contro il Turco), la polemica religiosa (l’assimilazione di Satana a nume tutelare del culto antagonista) e la tradizione letteraria (il tassismo epico-cristiano) si incontrano e si fondono in un congegno testuale singolare quanto significativo, in cui nessuno degli elementi costitutivi sembra prevalere sull’altro158.

157 L’Incendio Veneto Rime di Apostolo Zeno. Dedicate al Serenissimo Marc’Antonio Giustiniano Principe di Venezia. In Venezia, presso il Bosio, MDCLXXXVI. Con licenza de’ Super. Si vendono in Merceria all’Insegna della Ragione. Zeno affrontò la tematica bellica turchesca in altre due operette giovanili, anch’esse poi ripudiate: La conquista di Navarino, componimenti poetici di Apostolo Zeno. Dedicati all’Illustriss., ed Eccellentiss. Sig. Lorenzo Morosini Cavalier. In Venezia, presso Pietr’Antonio Brigonci, MDCLXXXVII e La resa di Modone Racconto poetico di Apostolo Zeno. Dedicato all’Illustriss., ed Eccellentiss. Sig. Girolamo Morosini. In Venezia, MDCLXXXVII. Presso Pietr’Antonio Brigonci. Con Licenza de’ Superiori. 158 Un’operazione analoga, per esempio, può rintracciarsi nel Bacco in Toscana di Francesco Redi, che si scagliava contro il caffè («Beverei prima il veleno, / che un bicchier che fosse pieno / dell’amaro e reo caffè»), sottolineando la predilezione dell’Oriente per tale bevanda («Colà tra gli Arabi / e tra i Giannizzeri / liquor sì ostico, / sì nero e torbido / gli schiavi ingollino»), “inventata” nelle tenebre infernali («Giù nel Tartaro / giù nell’Erebo / l’empie Belidi l’inventarono / e Tisifone e l’altre Furie / e Proserpina il ministrarono») per il piacere degli stolti musulmani («e se in Asia il Musulmano / se lo cioca a precipizio / mostra aver poco giudizio»). Cfr. D. TAMBLÈ, La poesia del caffè nella Roma del tardo Seicento, in «Strenna dei Romanisti», LXV (2004), pp. 561-569: 564-565.

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In alcuni casi lo stesso Sultano viene ritratto al colmo dell’ira e nelle vesti di supplice impetrante l’intervento delle forze infernali in aiuto del proprio popolo («Empie furie di Cocito [...] Crudi spiriti di Acheronte / fin che l’onte meco usate / vendicate / con gran strage io non discerno, / tutto mi bolle in seno il vostro Inferno»159), mentre talvolta l’immagine si spinge oltre, e la funzione di intermediario tra Inferno e Terra rivestita dal Sultano diviene una vera e propria assimilazione con la divinità infernale, come dimostra il caso – benché risalente al repertorio lepantino – più eloquente e noto: l’incisione di Nicolò Nelli intitolata Superbia turchesca (1572), costruita come un’immagine reversibile che raffigura, a seconda della disposizione, un sultano con ampio turbante o un demonio con ampie corna. Per quanto concerne invece l’intervento delle forze celesti in favore dei cristiani, va notato in primo luogo che la tendenza poetica dominante è quella di assegnare il merito della vittoria direttamente ai protagonisti, secondo una strategia encomiastico-celebrativa che prevede il ricorso alla divinità ausiliatrice – sia essa Dio, o la Vergine, o qualche angelo guerriero – quasi esclusivamente per sottolineare le virtù cristiane dello stesso eroe protagonista. L’intervento divino – quando chiamato in causa – si configura quindi come il necessario coronamento di un percorso di pietas, di purezza e di valore quasi cavallereschi che l’eroe per il quale il Cielo interviene ha già intrapreso in precedenza, e che la vicenda militare viennese ha soltanto consentito di esplicitarsi in tutta la sua chiarezza. Si è già visto il passo di De Lemene in cui la personificazione della Fede, imbracciando lo scudo in cui è effigiata l’immagine di Innocenzo XI, sconfigge l’Idra ottomana. Non dissimile, per riportare un altro esempio, risulta un’immagine elaborata da Giovanni Prati, in cui, al momento della carica degli ussari polacchi nelle fasi finali della battaglia per la liberazione di Vienna, un angelo in vesti guerriere si para innanzi al re di Polonia, per soccorrerlo, proteggerlo e aiutarlo nel massacro dei maomettani: Fama è, ch’in fier sembiante Fù visto allora da le rotanti sfere Scendere à lui [Giovanni III] vago guerriero alato, E gran scudo inalzato Opporlo al sen del Pio Signore avante, Vibrar il ferro, e spaventar le schiere: Fra le Libie bandiere Poscia s’ascose, & il pietoso Duce Sparse di Rose, e seminò di Luce160. 159 MONESIO, Lamento del Gran Sultano per la Rotta havuta dal suo Esercito sotto Vienna, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 172. 160 PRATI, Il Trionfo di Cesare, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 190.

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***** Il contenitore ideologico ampio entro cui sembra muoversi con più agio la rappresentazione letteraria del successo viennese risulta di matrice “crociata”, e concentrato sul raggiungimento di un obiettivo finale imprescindibile, l’unico in grado di nobilitare le azioni degli eroici protagonisti e stagliarle sullo sfondo di un disegno provvidenziale e troppo a lungo procrastinato: la “liberazione del Sepolcro”161. Se la guerra mossa dagli infedeli, come si è visto, rientra in un imperscrutabile progetto divino che, attraverso la strumentalizzazione del “flagello” turco, tenta di ridestare le energie di un Cristianesimo ormai decadente; e se le divinità celesti decidono di entrare nell’agone bellico per contrastare l’intervento dell’Inferno in favore degli Ottomani, risulta dunque evidente agli occhi dei poeti – e non solo dei poeti – contemporanei che Dio ha finalmente decretato che la “palingenesi universale” – quella renovatio mundi che gli araldi dell’apocalisse preconizzavano da secoli – possa e debba definitivamente compiersi e dar inizio a una nuova “Età dell’Oro”, un’età di giustizia e prosperità, da cui l’eresia, l’empietà e il conflitto religioso siano eternamente banditi. Appare chiaro, di conseguenza, come l’ultimo ostacolo che si frappone all’instaurazione di questa novella “Età dell’Oro” sia l’Impero ottomano: un’entità storica, politica e religiosa ancora nel pieno della sua potenza militare – benché di una potenza dimidiata dal fallimento viennese – e che ancora nutre la turpe ambizione di propagare con la forzata imposizione la propria religione. Da qui scaturiscono l’insistenza sul tema della “crociata”, l’appello alla lotta finale contro l’infedele, la proposta della continuazione della guerra a oltranza. Soltanto in questi termini la volontà divina troverebbe quella compiuta realizzazione preliminare alla distribuzione dei premi celesti, riservati esclusivamente a coloro i quali, con cieca devozione, sappiano interpretare il comando di Dio – «Deus vult!» – e portare a compimento la missione assegnata loro dal Cielo. Nel corpus poetico viennese l’appello alla “crociata”, alla lotta contro l’infedele turco, attraversa in modo più o meno pronunciato, ma sempre riscontrabile, il ritratto di tutti protagonisti della vicenda militare, dipanandosi strutturalmente

161 Sull’ideologia crociata, e sulla sua persistenza tra la fine del Seicento e i primi del Settecento, cfr. F. CARDINI, Le crociate tra il mito e la storia, Roma, Nova Civitas, 1984; ID., Studi sulla storia e sull’idea di crociata, Roma, Jouvence, 19932; P. ROUSSET, Histoire d’une ideologie. La Cruisade, Lausanne, L’Age d’homme, 1983 (trad. it.: L’ideologia crociata, presentazione di F. Cardini, Roma, Jouvence, 2000); A. TAMBORRA, Unione delle Chiese e “crociata” contro il Turco alla fine del Seicento: le missioni del gesuita C. M. Vota in Moscovia e Polonia, in «Archivio Storico Italiano», 1-4 (1975), pp. 102-131; D. CACCAMO, Guerra santa e guerra turca nel Seicento, in Marco d’Aviano e il suo tempo, cit., pp. 396-428; G. PLATANIA, Innocenzo XI Odescalchi e l’idea di «Crociata» al tempo della liberazione di Vienna, in Giovanni Sobieski e il terzo centenario della riscossa di Vienna, cit., pp. 69-106.

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lungo due direttrici principali e conseguenti: la riconquista di Costantinopoli e la liberazione del Sepolcro. Ancora una volta l’esperienza di Vincenzo da Filicaia si dimostra significativa, oltre che paradigmatica di una modalità – ideologica, prima che letteraria – di costruire l’edificio poetico. L’appello alla riscossa cristiana in oriente, infatti, insistente e circolante per tutta la raccolta delle Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, costituisce il sostrato peculiare su cui poggia l’intera impalcatura tematico-ideologica del corpus. Si osservi, per quanto riguarda la figura dell’imperatore, come Filicaia faccia appello – conformemente all’imago vulgata di Leopoldo I Asburgo quale “sovrano religioso per vocazione, guerriero per necessità”, e quale “snodo” politico-religioso degli eventi piuttosto che agente militare stricto sensu – all’idea non compiutamente tratteggiata della continuazione della guerra contro il Turco anche – o soprattutto – dopo la vicenda viennese; una guerra ispirata, imposta da Dio, cruenta e senza scrupoli, da condurre a oltranza nel tentativo di sfruttare, al meglio delle possibilità dei cristiani, le difficoltà dei turchi in ritirata: Odimi attento; aspro governo Fa’ dell’Araba Setta, e a niun perdona; Ogni sesso, ogn’età fiacca, e flagella, Struggi Città, Castella, Provincie, e Regni, e ch’i’ son Dio s’intenda: Tempo è ben d’abbassar cotanto orgoglio, Io fin qui l’ho sofferto, or così voglio162.

Nelle canzoni a Giovanni III Sobieski e a Carlo di Lorena – comandanti effettivi, presenti sul campo di battaglia in mezzo ai loro eserciti, che il poeta toscano celebra appunto in queste vesti – il riferimento va, invece, a una ben definita dimensione “crociata”, anch’essa di guerra totale, che nella proposta di Filicaia prevede non solo l’abbattimento finale dell’Impero ottomano attraverso la (ri)conquista di Costantinopoli, ma anche (o forse soprattutto) l’abbattimento finale della religione musulmana, possibile soltanto con la riconquista di Gerusalemme («il memorando acquisto») e il ristabilimento del cattolicesimo in chiave ecumenica («il sacro Ovile / stender da Battro a Tile»). Ma mentr’io scrivo, in questo punto istesso Tu [Giovanni III] nuove ne tenti, e non men giuste imprese [...] Se il Ciel per te combatte, Sprona pur tuo Destriero, e ‘l brando impugna,

162 FILICAIA, Alla Sacra Cesarea Maestà di Leopoldo I Imperatore, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., p. 27.

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Salvatore Canneto Rocche, e Cittadi espugna; Vedrai Provincie incenerite, e sfatte, Schiere vedrai disfatte, Vedrai, Signor, (pe’ tuoi trionfi il giuro) Cader di Buda, e di Bizzanzio il Muro. Sù sù, fatal Guerriero, a te s’aspetta Trar di ceppi l’Europa, e ‘l sacro Ovile Stender da Battro a Tile; Qual mai di starti a fronte avrà balìa Vasta bensì, ma vecchia, inferma, e vile Cadente Monarchia Dal proprio peso a ruinar costretta? A chi per Dio guerreggia ogn’erta via Piana, ed agevol fassi: Te sol chiama il Giordano, a te sol chiede La Galilea mercede: Te priega il Tabor, che affrettando i passi Per lui la lancia abbassi, A te l’egra Betlemme, a te si prostra Sion cattiva, e ‘l servo piè ti mostra. Vanne dunque, Signor; se la gran Tomba Scritto è lassù, che in poter nostro torni, Che al santo Ovil ritorni La sparsa greggia, e al buon Popol di Cristo Corran dell’uno, e l’altro Polo i giorni, Del memorando acquisto A te l’onor si serba: Odi la tromba, Che in suon d’orrore, e di letizia misto Strage alla Siria intima; Mira, com’or dal Cielo in ferrea veste Per te Campion Celeste Scenda, e l’empie falangi urti, e reprima, Rompa, sbaragli, opprima! Oh qual trionfo a te mostr’io dipinto! Vanne, Signor; se ‘n Dio confidi, hai vinto163.

La medesima prospettiva “crociata”, inoltre, per quanto riguarda la figura di Carlo di Lorena, è ulteriormente rafforzata dal richiamo – ed è un richiamo, come si vedrà, caratterizzante la rappresentazione del personaggio – al suo antenato Goffredo di Buglione, capo supremo della prima spedizione militare europea in Palestina e primo (ri)conquistatore della Città Santa:

163 FILICAIA, Alla Sacra Real Maestà di Giovanni III Re di Pollonia, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., pp. 47-49.

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La rappresentazione dello scontro Viva il gran Dio, che dona A te Vittorie, a me parole. Io veggio Nuova d’Allor corona Circondarti le tempie: Osa, e confida; Cadrà, cadrà dall’usurpato seggio La scelerata infida Monarchia d’Oriente; ecco già tuona L’alta orribil vendetta, e non lontano È il fatal colpo: or tu l’ardita mano Le caccia entro i capegli, E ‘l folto crin le svegli; E benche in mezzo al suo Covil s’appiatti La sozza Fera imbelle, ivi l’abbatti. Oh come or mille, e mille Il tuo Goffredo in sen t’accende, e desta Generose faville! Ei di Betlemme, e di Sion t’addita L’alto retaggio: a questa impresa, a questa Impresa il Ciel t’invita; Oda il sacro Giordan l’Austriache squille, E via più, che ‘l tu’ onore, a te sia sprone L’onor di Cristo...164

Accanto alla proposta di proseguire una guerra che, da sforzo bellico meramente difensivo, si è mutata in impresa offensiva con finalità crociate, e nel contesto della riflessione sulla palingenesi universale, sulla necessaria conversione dei musulmani e dell’instaurazione di un cristianesimo in chiave ecumenica, acquista un risalto particolare – per la lapidaria standardizzazione della formula propositiva, oltre che per l’elevata ricorrenza con cui quest’ultima occorre – il motivo dell’“un solo ovile, un sol pastore”. L’archetipo, ideologico e testuale, è di evidente matrice evangelica («et fiet unum ovile et unus pastor», Giov., 10:16), e vanta esempi illustri nella nostra tradizione letteraria («e vuol che sotto a questo imperatore / solo un ovil sia, solo un pastore», Orl. fur., XV, 26,

164 FILICAIA, All’Altezza Serenissima di Carlo V Duca di Lorena, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., pp. 62-63. Ulteriori esempi: «A voi dunque mi volgo, Anime Grandi, / Leopoldo, e Giovanni: ancor finite / non son l’Imprese, e la Famosa Lite / pende indecisa ancor da vostri brandi. / Inseguite chi fugge, e nel più interno / dell’Impero Ottoman spingete il corso [...] O venga il dì, che del Divin Flagello / provi gl’ultimi scempi il fiero Mostro: / e da voi riconosca il Secol nostro / la Libertà del Sacrosanto Avello» (SPINOLA, Vienna assediata dal Turco, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 135136); «Vinceste, Eroi Cristiani: [...] Mà in Regni più lontani / a trionfar volate. Iddio vi chiama / a liberar l’imprigionata Aurora; / bel lampo il Ciel’ indora / di fausti auguri, or che v’invita Cristo / de l’Asia immensa al generoso acquisto» (Anonimo, Applausi trionfali all’Arme Invittissime & c., in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 112).

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7-8), oltre che nel contesto tematicamente omogeneo della letteratura lepantina, in cui si dipana lungo un arco testuale diafasico che contempla significative occorrenze sia nella poesia “alta” che in quella di matrice popolaresca165. Il motivo fa insistentemente la sua comparsa anche tra i cantori del successo viennese: Assai regnò la sozza Iniqua Setta, e tempo è ben, che deggia Tutta tornare ad un Pastor la greggia 166. su’ marmi è lo mio scritto Da la Libia all’Egitto; Nè cessarò, fin che d’Austria Imperadore Vedrà Roma, un’Ovile, un sol Pastore 167. Al suo estremo valor forz’è, che ceda Bizanzio il fasto, e porga à i lacci il crine: Accioche il Mondo unitamente veda, Ch’ei del Trace crudel sù le ruine Vuol un Pastor, ch’à un sol Ovil presieda 168. Al Popol battezzato indi si dia Del verace Messia l’Inclita Tomba; Ma prima a lei soccomba, Il mio cor, la mia fè con zel profondo, E sia un Pastor, & un’Ovile al Mondo 169.

Simili arditi proclami poetici relativi a un ecumenismo cristiano prossimo venturo si scontravano tuttavia con la realtà storica, con i fatti e le vicende storicamente documentabili. Gli storici che si sono occupati delle questioni relative ai temi della “conversione”, dell’“apostasia”, del “rinnegare” la propria religio-

165 Per la lirica “alta” il motivo compare per esempio nella canzone di C. MAGNO, Aprite, o Muse, i chiusi fonti, aprite (in Rime di Celio Magno e Orsatto Giustiniano, Venezia, 1600, pp. 21-26), mentre, sul versante “popolareggiante”, esso compare nell’anonima Canzone in lingua forlana ovvero Barzelletta e nella Ration in miezi versuri di Tognon (entrambi i testi sono riportati in QUARTI, La battaglia di Lepanto nei canti popolari, cit., pp. 263 e 241-242). Su questi aspetti cfr. TURCHI, Riflessi letterari della battaglia di Lepanto, cit., pp. 428-429; MAMMANA, Lèpanto, cit., pp. 109, 113 e 122; GIBELLINI, L’immagine di Lepanto, cit., p. 74. 166 FILICAIA, Per la Vittoria degl’Imperiali, e Pollacchi sopra l’Esercito Turchesco, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., p. 18. 167 GENTILE, La Congiura fallita, cit., ode terza, p. 48. 168 Anonimo, Al Medesimo [Giovanni III], che doppo liberata Vienna passa in Ungheria a gran progressi, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 38. 169 MONESIO, Lamento del Gran Sultano per la Rotta havuta dal suo Esercito sotto Vienna, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 174.

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ne per abbracciare quella “nemica” – da parte dei musulmani come da parte dei cristiani – insistono infatti nel confermare che già la semplice indagine statistica dimostra chiaramente come i casi di apostasia del Cristianesimo siano stati, durante i secc. XV-XVIII, ben più numerosi dei casi di conversione dall’Islam. Certamente la questione è molto più complessa, e in genere è riferita in connessione con il problema della pirateria (sia di parte barbaresca che cristiana) e del traffico di uomini e schiavi (anch’esso sia di parte cristiana che barbaresca) nella cornice geografica del Mediterraneo e nel quadro cronologico dell’epoca moderna170. Tuttavia, come ha efficacemente sintetizzato Giovanni Ricci, le «spinte all’abiura» erano, per i prigionieri e per gli schiavi cristiani in mano ai musulmani, molto più numerose e probabilmente molto più allettanti e persuasive. Queste «spinte» erano principalmente «di ordine sociale e psicologico», come «la fine delle speranze di riscatto, la prospettiva di un addolcimento della condizione [schiavile], l’attrattiva della parziale tolleranza religiosa turca e di una morale sessuale più distratta, la nascita di nuovi legami affettivi, il fascino dell’avventura o il desiderio di vendetta, la possibilità di ascesa [sociale] offerta dall’assenza di privilegi di sangue», mentre sul piano strettamente religioso «esisteva anche il sincero convincimento favorito dalla semplicità delle regole dell’Islam»171.

Sulla pirateria mediterranea cfr. S. BONO, I corsari barbareschi, Torino, ERI, 1964; F. RUSSO, Guerra di corsa. Ragguaglio storico sulle principali incursioni turco-barbaresche in Italia e sulla sorte dei deportati tra il XVI ed il XIX secolo, Roma, Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito, 1997; J. HEERS, I barbareschi. Corsari del Mediterraneo, Roma, Salerno, 2003; R. CANCILA, Mediterraneo in armi (secc. XV-XVIII), Palermo, Mediterranea, 2007. Oltre all’attività corsara dei Cavalieri di Malta e delle galee pontificie, giocarono un ruolo notevole i toscani Cavalieri di Santo Stefano, su cui cfr. F. ANGIOLINI, I cavalieri e il principe. L’Ordine di santo Stefano e la società toscana in Età moderna, Firenze, EDIFIR, 1996; R. BERNARDINI, Breve storia del Sacro Militare Ordine di S. Stefano papa e martire dalla fondazione a oggi e dell’Istituzione dei cavalieri di S. Stefano, Pisa, ETS, 1995; L’Ordine di Santo Stefano e il mare. Atti del Convegno di Studi (Pisa, 11-12 maggio 2001), Pisa, ETS, 2001. All’attività dei Cavalieri medicei di Santo Stefano diversi autori toscani dedicavano ampia risonanza letteraria, come ad esempio Vincenzo da Filicaia (nelle ottave Nella partenza delle galere del Serenissimo Granduca e nella canzone Nel ritorno delle galere del Serenissimo Granduca dalla Morea, poi raccolte in Poesie toscane di Vincenzio da Filicaia Senatore Fiorentino e Accademico della Crusca. All’Altezza Reale del Serenissimo Cosimo III Granduca di Toscana. In Firenze, MDCCVII. Appresso Piero Matini Stampatore Arcivescovale. Con Licenza de’ Superiori, rispettivamente alle pp. 299-306 e 307-318) e Benedetto Menzini (nella canzone Al Serenissimo Gran Duca di Toscana Cosimo III per la Vittoria delle Galere di S.A.S. ottenuta il dì 20 di Luglio 1675 contro a quelle di Biserta nel Canale di Piombino. Fu presa valorosamente la Padrona nemica. Schiavi 120 e fra questi il Generale de’ Vasselli di Tunis: E Cristiani liberati 270, in Opere di Benedetto Menzini Fiorentino accresciute, & riordinate e divise in Quattro Tomi, cit., tomo primo, pp. 32-35). 171 RICCI, Ossessione turca, cit., pp. 173-192: 179. La questione della conversione all’islam (e dall’islam al cristianesimo) costituisce uno dei temi più dibattuti dalla storiografia cri170

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Ritornando dal piano della storia a quello della letteratura, al medesimo clima ideologico appartengono quei numerosi componimenti, costruiti sulla falsariga formale degli “oracoli”, delle “profezie” e dei “pronostici” – spesso veicolati dalla contemplazione anagrammatica di un breve testo – relativi al destino degli imperi e alla conversione dell’oriente che, ancora sull’esempio lepantino, i cantori del successo viennese non esitarono a esibire nella loro produzione172. Un «Anagramma purissimo» sul nome del re polacco, ad esempio, costruito da Lucio Mario Guidicelli («Programma: GIOVANNI TERZO SUBIESCHI PER LA DIO GRATIA RE DI POLONIA – Anagramma: GODI, O VIENNA, HO PRESO STRIGONIA, PERIRA’ BUDA, ANZI IL TECLI»), viene successivamente ripreso da Giovanni Battisa Neri, che ne sfrutta i quattro elementi testuali per costruire gli incipit delle quartine e delle terzine di un suo sonetto dedicato Alle glorie semper grandi del Marte della Chiesa e Terrore dei Turchi. Tale modalità operativa, inoltre, si presenta come paradigmatica, ed esemplare di una pratica letteraria secondo la quale i diversi poeti non disdegnano di appoggiarsi – riproponendoli, modificandoli, interpretandoli – a elementi testuali precedenti e di paternità estranea: Godi, o Vienna festante e al Ciel sovrano Ergi senza timor la fronte altera. Che se piaghe ti fè l’arco Ottomano Te le fasciò la barbara Bandiera. Preso ho Strigonia, al di cui scampo in vano Sudò di mille mille eroi l’opra guerriera E trasse il giusto ardir della mia mano Da ciglio traditor lagrima nera. Perirà Buda e fra l’insidie e l’onte Spada non batterà di sdegno herede

tica; ricordo qui C. DE FREDE, Il proselitismo musulmano, in ID., La prima traduzione italiana del Corano, cit., pp. 49-60; L. ROSTAGNO, Mi faccio turco. Esperienze ed immagini dell’islam nell’Italia moderna, Roma, Istituto per l’Oriente C.A. Nallino, 1983; G. BENZONI, Il «farsi turco», ossia l’ombra del rinnegato, in Venezia e i Turchi. Scontri e confronti di due civiltà, cit., pp. 91-133; B. BENASSAR – L. BENASSAR, I cristiani di Allah. La straordinaria epopea dei convertiti all’islamismo nei secc. XVI e XVII, Milano, Rizzoli, 1991; L. SCARAFFIA, Rinnegati. Per una storia dell’identità occidentale, Roma-Bari, Laterza, 1993; SFORZA, Corsari, pirati, galeotti, schiavi, rinnegati, in ID., La paura del turco e lo spirito di crociata nei secoli XVI-XVII, cit., pp. 27-40; M. MAFRICI, Dalla croce alla mezzaluna: rinnegati meridionali nell’universo barbaresco (secoli XVI-XVIII), in Alberto Tenenti. Scritti in memoria, a cura di P. Scaramella, Napoli, Bibliopolis, 2005, pp. 479-512. 172 Sull’argomento, per l’ambiente veneto, cfr. P. PRETO, Le profezie sui Turchi, in ID., Venezia e i Turchi, cit., pp. 67-91; in part., per il periodo che qui ci interessa, cfr. le pp. 85-91. Cfr. inoltre C. GINZBURG, Due note sul profetismo cinquecentesco, in «Rivista Storica Italiana», LXXVIII (1966), I, pp. 205-207 e 210; MAMMANA, Lepanto, cit., pp. 111-124.

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La rappresentazione dello scontro Sovra Asiatica incude il Tracio Bronte. Anzi il Teclì, prostrato al regio piede, Farà col dorso suo l’ultimo ponte, Ond’io ne passi a stabilir la Fede173.

Altri interessanti anagrammi a vocazione profetica sono quelli redatti in latino dal Padre D. Antonio Maria Buronzio. Un primo esempio è ancora una volta un anagramma puro, qui estratto dal nome di Livio Odescalchi e significativamente incentrato sulla nota opposizione sole-luna («Programma: Don Livius Odescalcus – Anagramma purum: Divus Sol occide Lunas»); e, ancora una volta, il risultato testuale viene decostruito dall’autore per essere successivamente adoperato in una nuova forma, qui un epigramma tetrastico («Fulmina de Coelo trahit Innocentius Hostes / in Thraces, auro, tum prece, Monstra domans. / Utra Nepos, hic iungas, OCCIDE tumentes / LUNAS SOL DIVUS; Vivat Uterque canam»174). Il secondo esempio, un anagramma cifrato di tipo “numerico-sillabico”, risulta forse più interessante e significativo, dal momento che appare costruito secondo la tecnica di derivazione cabalistica della “gematria” (ghematriah), o meglio, dello sviluppo cristiano-occidentale di questa tecnica interpretativa ebraica: l’“aritmomanzia”, l’arte di recepire i significati reconditi delle parole e delle frasi attraverso la sommatoria del valore numerico di ciascuna lettera. In esso Buronzio costruisce due affermazioni incentrate sulla figura di Kara Mustafà, la cui sommatoria riporta, in entrambi i casi, la data di morte del visir: Hoc Programmate Numerico. abc de fgh i l m n o p q r s t u x y z 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 20 30 40 50 60 70 80 90 100 200 300 400 Carà Mustafà Primus Visirius, Turcis in fine caedar? 75 298 329 457 352 39 50 84

= 1684

Respondetur eidem Visirio Hoc Anagrammate puro syllabico, & numerico. Finis pravi Viri stat acra furca, sanum Ius mercedis. 134 230 188 261 75 180 231 189 196

= 1684 175

Il Coro de’ poeti, cit., c. 43v. A. M. B URONZIO , Illustriss. & Excellentiss. D.D. Principi Sanctissimi D.N.D. Pont.Opt.Max. Nepoti Don Livio Odescalco Duci Cerri quod ex Ispius Nominis Omen, extraxit, reddit inter Infoecundos Aridus. Tetrasthicon, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 323. 175 ID., Conqueritur Primus Visirius in suos die 25. Decembris, anno a Nativitate D.N.I.C. 1684, ivi, p. 324. Un esperimento analogo, basato sulla stessa griglia numerica di 173

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Accanto alle sperimentazioni anagrammatiche e numeriche, la produzione poetica viennese assistette inoltre all’implementazione editoriale – ancora una volta seguendo una tendenza già consolidata nella letteratura lepantina – di testi più complessi e di maggior respiro afferenti a una tradizione tipicamente profetica e oracolare. Tra le profezie più note assume una certa rilevanza la cosiddetta “Profezia del Pomo Rosso”176, la quale fu «sicuramente la più diffusa dell’epoca», e «venne ristampata più volte, inserita in altre opere, citata praticamente da ognuno che scrivesse sui Turchi»177. Si trattava di una profezia di origine bizantina, accolta dai Turchi ottomani dopo la caduta dell’Impero d’Oriente. Gli europei ne vennero a conoscenza verso la metà del Cinquecento, quando l’umanista ungherese-croato Bartholomaeus Georgijević ne eseguì una traduzione latina e la diffuse nell’ambiente cristiano con il titolo Prognoma sive praesagium Mehemetanorum (1545). In Italia essa circolò attraverso molteplici e significativi canali di diffusione 178. Venne tradotta nel 1548 da Lodovico Domenichi, e circolò sia autonomamente179 sia all’interno di alcune fortunate opere d’argomento ottomano, come I costumi, et la vita de Turchi del genovese Giovanni Antonio Menavino, che ebbe due edizioni nel giro di pochi anni (a Venezia, nel 1548, per i torchi di Vincenzo Valgrisi, e a Firenze, nel 1551, per i torchi di Lorenzo Torrentino180). Come secondo canale di diffusione, la profezia

riferimento (benché non esplicitata) si legge nell’anonimo sonetto Per la Gloriosa Impresa di Buda sotto il Commando de’ Serenissimi Elettore di Baviera, e Duca di Lorena, in Poesie di diversi Autori per la gloriosa Conquista fatta dall’Armi Cesaree della Real Città di Buda, cit., p. 136: la sommatoria del nome dei due generali vittoriosi, secondo l’espressione «Carlo di Lorena, & Emanuelle di Baviera», è 1105; la stessa sommatoria data dall’espressione «Atlanti scelti à sostentar la Fede», su cui l’autore costruisce il successivo componimento. 176 Su cui cfr. E. ROSSI, La leggenda turco-bizantina del Pomo Rosso, in «Studi bizantini e neoellenici», V (1937), pp. 542-553; L. MICHELACCI, La nostalgia dell’altro, introduzione a P. GIOVIO, Commentario de le cose de’ Turchi, Bologna, CLUEB, 2005, pp. 7-63: 13-14. 177 A. RIGO, Oracula Leonis. Tre manoscritti greco-veneziani degli oracoli attribuiti all’imperatore bizantino Leone il Saggio (Bodl. Baroc. 170, Marc. gr. VII.22, Marc. gr. VII.3), Venezia, Editoriale Programma, 1988, p. 13. 178 Sulla circolazione italiana delle opere di Georgijević, cfr. DANTI, L’aspetto «utopico» della letteratura antiturca in Italia e in Polonia alla metà del XVI secolo, cit., in part. le pp. 553-554; cfr. inoltre il repertorio di GÖLLNER, Turcica, cit., vol. I, pp. 412-13, nn. 880 e 882. 179 Prophetia de maometani, et altre cose Turchesche. Tradotte per M. Lodovico Domenichi. Con privilegio, in Firenze 1548; cfr. inoltre Profetia de i Turchi, della loro rovina, o la conversione alla fede di Christo per forza della spada Christiana. Il lamento delli Christiani, che vivono sotto l’imperio del gran Turcho. La essortatione contra li turchi alli rettori della repu. christiana […]. Novamente composte et divolgate per Bartolomeo Georgievitz Pellegrino di Gierusalem. 1553 (Impresso in Roma, per M. Antonio Blado, 1553). 180 I Cinque Libri della Legge, Religione, et Vita de’ Turchi: et della Corte, & d’alcune guerre del Gran Turco: di Giovan Antonio Menavino Genovese da Vultri. Oltre cio, una

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La rappresentazione dello scontro

di Georgijević – «celebratissima tra i maomettani»181 – circolò tuttavia all’interno di una famosa raccolta di vaticini e profezie attribuite a Gioacchino da Fiore e al vescovo Anselmo, che ebbe numerose edizioni, in particolare in area veneta, a partire dal 1589 182 e ancora a Venezia nel 1646, quando nel clima di ridestata sensibilità “profetica” seguito allo scoppio della Guerra di Candia (16451669) venne accolta favorevolmente la (ri)pubblicazione delle famose Profetie dell’abbate Gioacchino et di Anselmo vescovo di Marsico 183. Nel 1684 gli eventi successivi alla liberazione della capitale imperiale, con la conquista cristiana di rocche strategicamente essenziali per il possesso dell’Alta Ungheria, e con gli eserciti asburgici diretti a Buda, sembravano poter confermare inequivocabilmente, da una parte, i «fausti Auspicij» per la vittoria cristiana; dall’altra, i foschi «Oracoli Turcheschi» predicenti sventure in Oriente. La profezia del “Pomo Rosso” quindi ricompare in due diverse situazioni editoriali e contesti letterari: in un enigmatico testo dal titolo Presagio dell’imminente rovina, e caduta dell’Imperio Ottomano, delle future Vittorie, e prosperi successi della Christianità, allestito da Nicolò Arnù con materiale oracolare di diversa estrazione184, e nella raccolta degli Accademici Infecondi di Roma, sotto le vesti di

Prophetia de’ Maomettani, et la miseria de’ prigioni, et de’ Christiani, che vivono sotto ‘l Gran Turco, & altre cose Turchesche, non più vedute. Tradotte da M. Lodovico Domenichi. Tutte acconcie & non poco migliorate. In Vinegia, appresso Vincenzo Valgrisi. MDXLVIII; I costumi, et la vita de Turchi, di Gio. Antonio Menavino genovese da Vultri. Con una prophetia, & altre cose turchesche, tradotte per M. Lodovico Domenichi. In Fiorenza, appresso Lorenzo Torrentino, 1551 (Stampato in Fiorenza, appresso Lorenzo Torrentino impressor ducale, nel mese di Ottobre 1551). 181 Prophetia de maometani, et altre cose Turchesche. Tradotte per M. Lodovico Domenichi, cit., c. A IIIv. 182 Vaticinia, sive Prophetiae Abbatis Ioachimi, & Anselmi Episcopi Marsicani, cum imaginibus aere incisis, correctione, et pulcritudine plurium manuscriptorum exemplarium opere, et variarum imaginum tabulis, et delineationibus alijs antehac impressis longe praestantiora. Quibus Rota, et Oraculum Turcicum maxime considerationis adiecta sunt. Una cum praefatione, et adnotationibus Paschalini Regiselmi. Vaticinii overo Profetie dell’abbate Gioachino & di Anselmo Vescovo di Marsico. Con l’imagini intagliate in rame, di correttione, et vaghezza maggiore che gl’altri sin’hora stampati, […] A’ qualli è aggionta una Ruota, et un’Oracolo turchesco di grandissima consideratione. Insieme con la prefatione et annotationi di Pasqualino Regiselmo. Venetiis: apud Hieronymum Porrum, MDLXXXIX (la profezia di Georgijević è a p. 49). L’opera, col medesimo titolo bilingue, venne poi ristampata nel 1600, sempre a Venezia. 183 Cfr. PRETO, Venezia e i Turchi, cit., pp. 83-84. 184 Presagio dell’imminente rovina, e caduta dell’Imperio Ottomano, delle future Vittorie, e prosperi successi della Christianità. Cavato da diverse Profetie, Oracoli, Vaticinij, e Pronostici antichi, e moderni; dato alla luce sotto gli felicissimi auspicij della Lega Santa trà l’Augustissimo Leopoldo Primo Imperator de’ Romani, il Sereniss. Rè di Polonia Giovanni III, e la Serenissima Republica di Venetia, dal M. R. Padre Maestro F. Nicolò Arnù Lorenese,

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un’ode intitolata Sovra il famoso antico oracolo Turchesco, novamente ridotto al suo germano sentimento, di Paolo Abriani185, da cui riporto il testo: Verrà l’Imperator nostro: Prenderà il Regno d’un Prencipe Gentile: Ancora prenderà un Pomo rosso, e lo ridurrà in suo potere; Che se insino al settimo anno non s’è levata la Spada de’ Cristiani, sino al duodecimo anno si signoreggierà, edificherà case, pianterà vigne, fortificherà gli orti con le siepi, genererà figliuoli. Dopo il duodecimo anno, che sarà stato ridotto in suo potere il Pomo Rosso, apparirà la Spada de’ Cristiani, che per tutte le parti caccierà in fuga il Turco186.

Quale oscuro presagio poteva celarsi dietro queste parole? Dopo aver indicato dapprima le «quattro maniere» in cui «suole Iddio rivelare, e manifestare» i «futuri accidenti» – in primo luogo «per mezzo de Sacri Profeti suoi legati, & ambasciatori, come consta dalle Scritture»; secondariamente «per mezzo di rivelationi fatte à persone particolari, come si può veder in molte historie de Santi, e Sante del novo Testamento, & altre historie humane»; in terzo luogo «per le massime congiontioni de’ Pianeti, & influssi loro»; infine «per mezzo di Comete, Fenomeni, ò apparitioni Celesti; Prodigij, Mostri»187 – Nicolò Arnù non esita ad affermare «ch’è molto verisimile, e probabile esser venuto il tempo pronosticato per molti vaticinij della sua [dell’impero ottomano] caduta, e rovina»188. A questo proposito la prima profezia su cui l’autore si sofferma è proprio quella del “pomo rosso”, di cui Arnù riporta due possibili interpretazioni. La prima – per la quale egli stesso propende – si fonda sull’assegnazione dei vari riferimenti presenti nel testo (assoggettare in regno di un sovrano “pagano”; conquistare il “pomo rosso”; affrontare la coalizione dei sovrani cristiani; assitere al tracollo del proprio regno) all’esperienza di un unico «imperatore». Il caso del sultano Mehmet IV “il Cacciatore” (1648-1687), sembrava infatti aderire pienamente al contenuto profetico. Il «Regno d’un Prencipe Gentile» sarebbe rappresentato dall’isola di Candia (Creta), conquistata nel 1669, secondo alcuni autori classici patria del dio supremo della gentilità Giove. Il «Pomo Rosso» sarebbe invece la fortezza di Caminiez in Podolia, sottratta ai Polacchi nel 1671. Esattamente dodici anni dopo, nel 1683, dopo un periodo in cui «non s’è levata la Spada de’ Cristiani», l’evento viennese avrebbe confermato l’ipotesi dell’im-

dell’Ordine de’ Predicatori, e pubblico Metafisico nella celebratissima Università di Padova. Funiculus triplex difficilè rumpitur. Eccl. c. 4. In Padova, MDCLXXXIV. Nella Stamperia del Seminario. Con Licenza de’ Superiori, e privilegio. La profezia del “pomo rosso” viene discussa nei capp. II e III, pp. 5-11. 185 Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 289-292. 186 Ivi, p. 289. 187 N. ARNÙ, Presagio dell’imminente rovina, e caduta dell’Imperio Ottomano, cit., pp. 3-5. 188 Ivi, p. 5.

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minente tracollo turco, ulteriormente giustificata dalle ripetute sconfitte successive («per tutte le parti caccierà in fuga il Turco»). Meno probabile, anche se non del tutto peregrina è per l’autore l’interpretazione alternativa del testo, secondo la quale il regno “pagano” era l’Impero Bizantino, il “pomo rosso” la città di Costantinopoli. Il riferimento crononogico ai “dodici anni” non rappresenterebbe tuttavia una successione di anni solari, bensì una linea dinastica di dodici imperatori alternantisi alla guida dell’impero turco189. In questo caso Mehmet IV reppresenterebbe il tredicesimo sultano, colui il quale dovrà assistere alla rovina finale dell’entità imperiale; mentre il riferimento al “settimo anno” andrebbe invece alle sconfitte subite da Mehmet III (1595-1603), il “settimo” imperatore, nel primo anno del suo regno, quando i Transilvani, gli Austriaci e i Valacchi, pur avendo ottenuto qualche successo militare di un certo rilievo nelle terre pannoniche, non furono tuttavia in grado di assestare il colpo definitivo alla casa ottomana190. Concorda con l’interpretazione avallata da Arnù la lettura in versi dell’oracolo proposta dal vicentino Paolo Abriani (1607-1699), frate carmelitano, “dottore” in Filosofia e Teologia (donde la titolatura che di frequente accompagna il suo nome), membro dell’Accademia degli Incogniti, degli Infecondi e futuro membro dell’Arcadia191. Traduttore dell’Arte poetica (Venezia, 1663) e delle Odi di Orazio (Venezia, 1650) – tradotte, queste ultime, «con simil ordine di metro, & egual numero di Sillabe, e sovente minore» – e della Farsaglia di Lucano (Venezia, 1668), Abriani fu autore inoltre di alcuni «discorsi accademici», intitolati I Fonghi (Venezia, 1657 e 1673), e di una raccolta di Poesie (Venezia, 1663), precedendemente apparse in volumi miscellanei. Partecipò attivamente alle discussioni e alle polemiche letterarie del tempo, curando la seconda edizione de Il memoriale della lingua italiana di Jacopo Pergamini, cui aggiungeva una considerevole sezione contenente un «gran numero vocaboli, e frasi d’altri autori de’ primi del secolo» (Venezia, 1656 e 1686-88), e componendo alcune «risposte apologetiche» alle «Osservationi» che anni prima il padre Veglia aveva mosso al Goffredo di Torquato Tasso, raccolte nel volume Il Vaglio (Venezia, 1662). L’aspetto forse meno noto dell’attività letteraria di

189 Era questa, nel Cinquecento, l’interpretazione più diffusa: cfr. RIGO, Oracula Leonis, cit., pp. 13-4. 190 ARNÙ, Presagio dell’imminente rovina, e caduta dell’Imperio Ottomano, cit., pp. 5-11. 191 Su questo autore cfr. Biblioteca, e storia di quegli scrittori cosi della città come del territorio di Vicenza che pervennero fin’ ad ora a notizia del P. Angiolgabriello di Santa Maria Carmelitano Scalzo Vicentino. Volume Sesto, ed Ultimo. Dall’Anno MDCI di Cristo al MDCC. In Vicenza. MDCCLXXXII. Per Gio Battista Vendramini Mosca. Con licenza de’ Superiori, e privilegio, pp. CLI-CLVI; G. LOVASCIO, Un secentista: Paolo Abriani Vicentino, Terlizzi, Antonio Di Bari, 1907; G. BROGNOLIGO, Un professore del Seicento, Genova, Tipografia della Gioventù, 1907; A. ASOR ROSA, Abriani Paolo, in DBI, vol. I (1960), pp. 62-63.

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Abriani sembra essere l’interesse per gli studi di tipo esoterico e alchemico: era infatti di sua mano la «spiegazione delle allegorie» che avrebbero dovuto accompagnare la pubblicazione del poema – epico/storico all’apparenza, iniziatico e alchemico nella sostanza – Carlo Quinto, ovvero Tunesi racquistata del marchese Francesco Maria Santinelli, rimasto poi inedito192. L’idea di comporre un testo poetico di derivazione “profetica”, che allo stesso tempo fornisse un’interpretazione delle allegorie e dei simbolismi presenti nel vaticinio utilizzato non sembrerebbe dunque un’opzione meramente ludica e occasionale o imposta dalle contingenze celebrative, né del tutto estranea agli interessi dell’autore. Nelle Poesie degli Infecondi in onore del successo viennese è infatti riportato tra gli altri testi di Abriani un secondo vaticinio sulla caduta dell’impero ottomano, che l’autore (o l’editore) afferma essere stato edito nel 1670 («Pauli Abriani S.T.D. Academici Infoecundi, Vaticinium de Othomanici Imperij declinatione anno 1670 editum. Monostichon»): traducendo in cifre numerali determinate lettere del monostico latino – opportunamente evidenziate in sede tipografica: «ThraX tVa DefICIeT praefIXo teMpore LVna» – si ottiene come risultato il fatidico numero 1683 («Cuius literae numerales indicant annum 1683»)193. L’ode Sovra il famoso antico Oracolo turchesco è quasi interamente costruita come un’apostrofe al sultano, e già dall’incipit è violentemente diretta nel minacciare il crollo ormai imminente della potenza ottomana («Giunta è pur quell’Età, che del tuo Impero / dee la mole crollar, Trace Superbo»); che si tratti di un evento prevedibile e previsto lo testimoniano, agli occhi del poeta, da una parte i continui avvicendamenti al potere, di cui la storia offre numerosi esempi («Cangia vicende ogni poter terreno: / ferme basi non hà l’alta Fortuna»), dall’altra i numerosi oracoli, che da tempo, inascoltati o incompresi, predicono una tale sorte («De’ Vaticini tuoi le dubbie note, / ch’or si svelano appien, rileggi, e

192 Di questo poema rimangono diversi testimoni manoscritti. Esemplari integrali, in venti canti, si trovano a Napoli, Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III”, Collezione Albani, ms. XIII, C, 27 (privo però della dedica all’imperatore e delle Allegorie di Paolo Abriani) e a Vienna (che costitusce l’esemplare forse più completo, e già pronto per la stampa: comprende la dedica, l’avviso dello stampatore, uno scambio epistolare tra Santinelli e Torcigliani e dieci sonetti encomiastici di vari letterati in lode del poema e dell’autore). Altri esemplari incompleti (in sei canti), sono invece a Roma e a Pesaro. Cfr. SANTINELLI, Sonetti alchemici e altri scritti inediti, cit., pp. 67-128 e T. MATTIOLI, Il Carlo Quinto di Francesco Maria Santinelli tra autobiografia e storia, in Dopo Tasso. Percorsi del poema eroico. Atti del Convegno di studi (Urbino, 15-16 giugno 2004), a cura di G. Arbizzoni, M. Faini e T. Mattioli, Padova, Antenore, 2005, pp. 163-210. A Santinelli Abriani aveva dedicato la sua traduzione della Farsaglia di Lucano. 193 Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 366.

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trema»). Il contenuto del vaticinio («Del tuo fero Destin tale è l’accento») è rapidamente condensato in due quartine: D’un Regno d’altra Fè quivi è serbato, E d’un Purpureo Pomo a te l’acquisto, Stabil per Tre Olimpiadi, ove di Cristo Non osti anzi un Settennio il gregge armato. Ma poscia la fatal fulminea Spada De le Cristiane destre in ogni parte Fugherà le tue schiere, e al nobil Marte Fia che l’alto tuo Soglio a terra cada.

Riprendendo quindi l’interpretazione fornita da Nicolò Arnù, Abriani sembra parafrasarne in versi le argomentazioni: il “regno gentile” è quello di Giove («che del Prence straniero il vinto Regno / è quel di Giove, a cui l’Argivo ingegno, / di favole inventor, diè Scettro il Cielo»), mentre Candia – conquistata, dopo venticinque anni di assedio, con la diplomazia, e non con il valore («i cui guerrier, non già tue curve spade, / ma il quinto Lustro alto decreto vinse») – rappresenta il “pomo”, reso “dorato” dalla dominazione veneziana («Candia è il Pomo Real, cui d’Ostro tinse / l’Adriaca Maestà per lunga etade»). I tempi previsti dall’oracolo volgono ora al termine («Il Settimo anno / senza guerra passò; ma il fine è giunto / del Duodecimo ancor, da cui disgiunto / star non può guari il minacciato affanno»), e la sconfitta di Vienna non può che confermarne la veridicità («De le sventure tue prenunzia è stata / l’assediata Vienna, ove repente / l’oste tua innumerabile, e possente / fù dal ferro Cristian vinta, e fugata»). Nelle battute finali dell’ode, l’autore muta il destinatario dei suoi versi, e la minaccia di distruzione diretta al Turco si trasforma in un invito alla conquista diretto a tutti i sovrani cristiani d’Europa, affinché in nome della riconquista del Sepolcro procedano verso l’annientamento radicale del nemico: Ma che parlo col Trace? A voi favello, Prencipi Eccelsi a l’alta impresa eletti; Armate i forti, e generosi petti A racquistar di Cristo il Sagro avello. Del trionfato Scita Allori, e Palme Serba al vostro valor promessa arcana. Cada dunque per voi l’Arca profana, Che fà in Cocito ogn’or cader tant’alme. Sorge omai, quasi Sol da i ciechi abissi, Il fatidico senso, e i cori affida, Che del Cielo Ottoman la Luna infida Deggia da voi provar l’eterne Ecclissi194. 194 ABRIANI, Sovra il famoso antico oracolo Turchesco, novamente ridotto al suo germano sentimento, in Poesie de’ Signori Infecondi di Roma, cit., pp. 289-292.

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Benché con modalità meno appariscenti e forse più prudenti, alla medesima dimensione profetica e al medesimo clima di rivolgimento epocale vanno ricondotte alcune incisioni di Giuseppe Maria Mitelli. In questo contesto si rivela di particolare interesse l’incisione del 1683 intitolata Il Muftì (FIG. 15). Come recita il sottotitolo del foglio, la massima autorità religiosa islamica viene presentata come la personalità «à cui come ad’Oracolo ricorrono ne dubij della lor legge i Turchi ò Maumettani». In primo piano è raffigurato il Muftì, in preda alla disperazione e nell’atto di strapparsi la folta barba, con ai piedi il Corano. Alle sue spalle altri due turchi fuggono via terrorizzati: il primo si strappa i capelli, l’altro straccia un foglio, probabilmente contenente il testo dell’oracolo interpretato dal Muftì. L’aspetto denigratorio del ritratto di questi personaggi “disperati” va ricondotto, nelle intenzioni di Mitelli, alla duplice interpretazione dell’espressione «tradita fede» contenuta nelle quartine esplicative inserite in fondo al foglio. Da un lato, in senso religioso, essa veicola il solito riferimento alla falsità della religione maomettana («false note») e al «tradimento» che quest’ultima opera nei confronti della “vera” fede cristiana («vilipesa pietà»). Dall’altro, in senso politico, contiene l’allusione – non estranea, del resto, neanche alla produzione letteraria – al fatto che l’attacco turco del 1683 avvenne prima dello scadere della tregua venticinquennale firmata a Vasvàr tra Leopoldo e Mehmet IV nel 1664 («pace infranta»). L’assedio di Vienna si configurava dunque, agli occhi dei contemporanei europei, come il “tradimento” di un patto diplomatico solennemente sancito («tradita fede») e, di conseguenza, come un’ulteriore conferma della malafede innata nell’empio Turco, dell’incompatibilità tra i due mondi e della necessità che il fronte cristiano austriaco travolga e annienti il musulmano («che preda fia dell’Aquilone Augusto / chi contrasta co ‘l Cielo, e offende ‘l Giusto»). Analogamente, si ricollega alla dimensione “profetica” – benché di una profezia veicolata dall’elemento onirico – anche un’incisione successiva al 1683 intitolata Sogno di Mehmet Quarto e ispirata a un aneddoto narrato nel Ragguaglio historico della guerra tra l’Armi cesaree, e Ottomane di Giovanni Battista Megnavini (FIG. 16). Il Sultano vi è raffigurato nell’atto disperato di riconoscere, tra i vari ritratti che i dignitari ottomani presentano alla sua attenzione, quello dell’imperatore Leopoldo, nel cui volto Mehemet IV ravvisa quello del «Prencipe Christiano» che, in un sogno di quindici anni prima, gli mozzava il capo (nell’incisione la scena è illustrata sullo sfondo a sinistra). Il clima profetico, l’attesa apocalittica, l’ansia della purificazione dalle «colpe del Secolo», l’uso strumentale della ricostruzione storica e del materiale oracolare di varia tradizione ed estrazione195 divennero dunque componenti

195 Segnalo ancora un curioso testo comico, un «capriccio astromantipoetico» del cortonese Francesco Moneti (Urania Fatidica Commedia Nuova da recitarsi nel Gran Teatro del

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essenziali nella raffigurazione poetica e iconografica degli eventi e dei personaggi principali dello scontro viennese, veicolando rimandi allusivi a una congerie di elementi topici – e più spesso utopici – tra i quali spiccano, per l’insistenza circolatoria e per l’intensità della declinazione rappresentativa, l’appello ricorrente alla “crociata” e alla riscossa cristiana in Oriente, il declino definitivo dell’impero ottomano e la totale conversione dei musulmani. 5. «O Vittoria maggior d’ogni Vittoria!» Su un piano interpretativo generale, è stato osservato che i poeti lepantini affiancavano, al dispositivo semiotico di marca tradizionale e d’individuazione piuttosto immediata che prevedeva gli accostamenti usuali del tipo “Papa = pastore”, “Impero = aquila”; “Venezia = leone”, etc., la mobilità propria di una combinatoria alquanto variegata di possibilità segnico-metaforiche, all’interno della quale il termine di confronto o di assimilazione prescelto nella designazione di una delle parti determinava, in un processo di tipo consequenziale, il corrispettivo antagonistico196. Si tratta di una modalità istitutiva dei rimandi storici o mitici che trova un puntuale riscontro nel corpus celebrativo tardosecentesco, e secondo la quale la scelta dei vari termini del confronto risulta connessa a un’opzione, piuttosto che “individuativa”, nettamente “oppositiva”. Ciò che in primo luogo interessa alla maggior parte dei poeti è infatti delineare, all’interno

Mondo in quest’Anno MDCLXXXV. Capriccio astromantipoetico di Francesco Moneti da Cortona. Dedicato all’Illustrissimo Signore, Conte, e Cavaliere Bustico Davanzati Gentilhuomo Fiorentino. In Firenze. Per Andrea Orlandini, alla Condotta. Con Licenza de’ Superiori), in cui lo studio degli influssi astrali sulle vicende umane dell’anno 1685 permette all’autore di predire, con compiaciuta certezza, i prossimi successi dei cattolici nel conflitto contro gli ottomani. Riporto solo qualche esempio, cogliendo fior da fiore. Sul piano degli «affari politici», il pianeta Marte «promette felici progressi all’armi Cristiane nelle parti dell’Ungheria, Schiavonia, e Dalmazia», mentre Mercurio, in congiunzione con Venere, promette «uno scaccomatto alla Turchia con gran spargimento di sangue» (ivi, p. 11). Le eclissi di sole e di luna, secondo tradizione, dovrebbero significare «la morte d’huomini illustri»; ma l’autore soggiunge: «piaccia à Dio che siano tanti Bassà o Comandanti della Turchia» (ivi, p. 12). Nell’atto della pièce intitolato «Primavera», Marte canta: «Il paese del Trace / tutto da ferro e fuoco / disfatto di mia mano / proverà di Fortuna un brutto gioco. // Sù sù Mustafà / tornate à battaglia / con l’altra canaglia / e tutt’i Bassà // Con torbida fronte / vi dice il Muftì / ch’andiate à Caronte / a darli il buondì» (ivi, atto secondo, scena settima, p. 40). Analogamente, poco più avanti (è sempre Marte a cantare): «La razza Ottomana / io voglio incalzare, / per farla crepare / di febbre quartana. // Spezzare i cancelli / dell’empio Serraglio, / e fare un gran taglio / a tutt’i Ribelli: / come apunto minaccia / la stella mia con la sdegnosa faccia» (ivi, atto terzo, scena quarta, pp. 62-63). 196 Su questi aspetti cfr. MAMMANA, Lèpanto. Rime per la vittoria sul turco, cit., pp. 104-107.

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delle grandiose vicende narrate, quadri circoscritti e affreschi di ampio respiro dai quali poter far risaltare l’opposizione netta e inconciliabile tra due termini evidentemente antitetici – e si tratta di un’opposizione che rimanda all’inconciliabilità profonda delle parti in causa, il mondo cristiano e il mondo infedele. Solo ed eventualmente in secondo luogo essi propongono criteri associativi volti a istituire una sorta di continuità strategica e consapevole tra idea e rimando, tra personaggio e richiamo letterario. L’intenzione di istituire una forte dimensione antagonistica è evidente, ad esempio, in un sonetto di Mario Cevoli, riferito a Giovanni III Sobieski: l’impresa eroica della vittoria sul Turco («De l’orgoglio Ottoman le corna infrante / se ‘l tuo braccio immortal render poteo») conduce l’autore a proporre una possbilità di paragone caratterizzata, più che dall’assimilazione positiva e definitiva, dall’opposizione mobile con il corrispettivo negativo di volta in volta proposto («Ercol sarai, s’egli risorge Anteo: / Giove sarai, s’ei s’armerà Gigante»)197. Persino la nota immagine del «drago», tradizionalmente adoperata nella raffigurazione del “mostro” Turco («turbi il Drago Lunato a l’Istro il seno»198), può incontrare un significativo rovesciamento, come nell’ode Vienna assediata dall’Armi Ottomanne di Giovanni Prati: se in relazione oppositiva con il corrispettivo antagonista (in questo caso il «Pitone Ottomano»), anche il rimando metaforico al «drago» può acquistare il diritto di cittadinanza nell’immaginario “positivo” cristiano («L’Austriaco Impero / parmi per la tua man già liberato. / Già il tuo Drago adirato / parmi à fronte veder di Turbe infeste / sul Pitone Ottomano erger le creste»)199. Anche in questo contesto l’esperienza poetica di Vincenzo da Filicaia veste i tratti di una spiccata esemplarità e propone alcuni significativi esempi di come, nello stesso autore, e talvolta nello stesso testo, una medesima immagine possa essere di volta in volta risemantizzata per veicolare idee (e ideologie) di segno diametralmente opposto. Nella canzone Alla Sacra Cesarea Maestà di Leopoldo I Imperatore viene infatti usata una similitudine di cui, nell’arco di breve spazio, si possono rinvenire due declinazioni antitetiche. La prima, di valenza positiva, presenta Leopoldo nelle vesti di un pio e affannato «nocchier» il quale, dopo aver miracolosamente superato un pericoloso fortunale («Dunque come al

197 M. CEVOLI, Alla Sacra Real Maestà del Rè di Polonia, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 264. 198 MAGNANI, Si finge che Maria sempre Vergine così parli a Vienna, ivi, p. 144. 199 PRATI, Vienna assediata dall’Armi Ottomanne, hora gloriosamente liberata, cit., p. 8. Anche nella dedica a Marc’Antonio Borghese l’autore rimandava, attraverso il codice allusivo dello stemma gentilizio del dedicatario e del gioco verbale sul proprio nome di famiglia, alla medesima immagine: «Sarà in tanto mia gran fortuna il ricoverarmi sotto l’ali d’un’Aquila, che resasi sempre formidabile contro i Titani m’assicurerà da’ Maligni, e il porre alla custodia non d’un’esperio Giardino, ma d’un Adriatico Prato, un Drago, che sempre veglierà a discacciarne i Profani» (ivi, p. 1).

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soffiar d’Euro, e di Noto / nocchier, che in van contrasta, e quasi assorto / in van gli scogli, ed il naufragio schiva»), ed essere riuscito a trarre in salvo da un naufragio ormai quasi certo il vascello di cui è responsabile (figura dell’Impero), rende grazie alla divinità che ha permesso l’insperata salvezza («il lido afferra, di paura smorto, / e raso il crine, in sull’amata riva / Dio ringrazia a man giunte, e scioglie il voto», con clausola tassiana)200. Significativamente, qualche strofa più avanti, un’immagine nautica della medesima tipologia, ma di segno diametralmente opposto, viene riservata per rappresentare l’estremo pericolo in cui è venuta a trovarsi, dopo il fallimento dell’assedio viennese, «del Turco Imperio la sdrucita barca», una barca ormai prossima al naufragio («Vedi, che a poggia, e ad orza [...] / piega, e guarda d’intorno, e par, che voglia / spiar, qual lido d’intorno i suoi naufragi accoglia, / tanto d’orrore, e di spavento è carca!»)201: un’immagine, dunque, che concorre a delineare l’idea dell’incompetenza del “nocchiero-Sultano”. Analogamente, sempre nella canzone Alla Sacra Cesarea Maestà di Leopoldo I Imperatore campeggia l’immagine, sospesa tra l’auspicio e la trionfalistica, della cavalleria e delle greggi austriache che pascolano in un oriente ormai pacificato e cristianizzato dalle vittorie imperiali («Se fia, Signor, ch’io veggia / ber l’Eufrate, e l’Oronte i tuoi Cavalli, / e per l’Egizie Valli / gir pascolando la Tedesca greggia»202); e la medesima immagine dev’essere posta in relazione con lo scenario di desolazione descritto poco prima nella canzone Sopra l’assedio di Vienna, una desolazione vista come conseguenza di un’eventuale vittoria turca («Ma sarà mai, ch’io veggia / fender barbaro aratro all’Austria il seno, / e pascolar la greggia, / ove or sorgon Cittadi, e senza tema / starsi i Getici armenti in riva al Reno?»203). Anche nel caso degli accostamenti o dei paralleli tra i protagonisti del trionfo austriaco e gli exempla biblici di virtus trionfante – in primo luogo con la figura di Giuditta, che gode di particolare risonanza204; ma anche con le cop-

200 FILICAIA, Alla Sacra Cesarea Maestà di Leopoldo I Imperatore, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., p. 26. Sui versi conclusivi della Gerusalemme liberata – Goffredo che, presa Gerusalemme, «il gran Sepolcro adora e scioglie il voto» – e sulla questione dei giuramenti e dei voti cristiani e pagani nell’architettura del poema si è soffermata B. ALFONZETTI, «Oh vani giuramenti!». Tragico ed eroico in Tasso e Trissino, in Sylva. Studi in onore di Nino Borsellino, a cura di G. Patrizi, Roma, Bulzoni, 2002, vol. I, pp. 355-385). 201 FILICAIA, Alla Sacra Cesarea Maestà di Leopoldo I Imperatore, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., p. 31. 202 Ivi, p. 30. 203 FILICAIA, Sopra l’Assedio di Vienna, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., p. 7. 204 L’esempio forse più celebre di declinazione del mito biblico di Giuditta in relazione alle vicende del conflitto tra turchi e cristiani è rappresentato dall’oratorio Juditha

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pie oppositive David e Golia, Mosè e il Faraone – o con personaggi celebri della storia antica, sia greca (Alessandro, Temistocle) che romana (Scipione, Fabio Massimo, Cesare), appare evidente la funzionalità in termini squisitamente comparativistici. Nella stragrande maggioranza dei casi il confronto si risolve sostanzialmente in una dialettica di emulazione e superamento, in cui la “superiorità” non è individuata soltanto nell’opposizione “eroe moderno vs eroe antico” a netto vantaggio del primo, ma anche, in un senso più largo, nella presente vittoria rispetto a ogni altra del passato, dal momento che si tratta di una “vittoria cristiana”, sorretta e animata dalla volontà di Dio, ideologicamente giusta e legittima, il cui significato è universale. Giovanni Andrea Spinola, ad esempio, sottolinea con enfasi iperbolica che le più celebri imprese che la memoria collettiva conserva possono ormai decadere nell’oblio («De le Imprese più eccelse, e memorande / bagni l’onda d’oblio l’alte memorie»), giacché la vittoria di Vienna offre, all’immaginazione dei poeti come al rigore degli storici, un’opzione decisamente obbligata quanto degna e illustre («degno Argomento a le moderne Istorie / porge fatto più illustre, opra più grande»)205. Per Ignazio Marconi è invece la stessa meraviglia che dovrebbe stupirsi per un trionfo tanto glorioso e inaudito («Inarchi ognora il ciglio / la meraviglia istessa, e poi racconte / se mai vide più grandi opre nel Mondo»): nessun evento, tra quanto deve ancora accadere («Ed in qual’altra impresa / vedrà l’Orbe in epilogo scolpite / le famose virtù d’ogni Campione?») o tra quanto è già avvenuto («Cessi omai la contesa / con gli anni scorsi»), potrà impedire che in ogni epoca dell’umana vicenda l’invidia collettiva si concentri proprio su coloro i quali hanno avuto la fortuna di assistere a una simile esperienza («O nostra età felice, / che le trascorse, e le venture a invidia / moverà, fin che il Cielo havrà splendori!»)206.

Triumphans di Jacopo Cassetti e Antonio Vivaldi, eseguito nel 1716 per festeggiare le vittorie della Serenissima in Morea (Juditha Triumphans devicta Holofernis barbarie Sacrum Militare Oratorium hisce Belli temporibus a Psalentium Virginum Choro in Templo Pietatis canendum. Jacobi Cassetti Eq. metrice votis expressum. Piissimi ipsius Orphanodochii Praesidentibus ac Gubernatoribus submisse dicatum. Musice expressum ab Admod. Rev. D. Antonio Vivaldi. Venetiis MDCCXVI. Apud Bartholomaeum Occhium, sub signo S. Dominici. Superiorum Permissu). Su questi aspetti cfr. STROPPA, Fra notturni sereni. Le azioni sacre di Metastasio, cit., pp. 182-84 e A. BENISCELLI, La città assediata: luogo letterario, genesi, storia, in La letteratura e la storia. Atti del IX Congresso Nazionale dell’ADI (Bologna-Rimini, 21-24 settembre 2005), a cura di E. Manetti e C. Varotti, prefazione di G. M. Anselmi, 2 voll., Bologna, Gedit, 2007, vol. I, pp. 105-129: 119-129. 205 SPINOLA, Vienna assediata dal Turco, difesa da Ernesto Conte di Starembergh, e liberata dall’Armi di Leopoldo Primo Cesare Augusto, e Giovanni III Subieski Rè di Polonia, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 129. 206 MARCONI, Appalusi di Roma, per le vittorie dell’Armi Cristiane contro il Turco, ivi, pp. 241-248: 245 e 247.

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L’emulazione e il superamento dei protagonisti moderni a scapito degli antichi eroi viene sorretta, in una simile dinamica dialettica, da riferimenti a personaggi e contesti storici diversi. Sul versante greco il confronto è obbligatoriamente con Alessandro di Macedonia: la suprema abilità di costui nello sciogliere «nodi», tramandata dalle mitografie alessandrine («Taccia la Fama Achea, che da la spada / del suo Grande in valor non mai secondo / il Nodo Gordian sciolto sen vada»), è stata superata dalle gesta dell’eroe moderno, Giovanni III, colui che è capace di compiere un’analoga impresa, che tuttavia valica gli angusti confini dell’eroismo individuale e si proietta invece sull’orizzonte collettivo della salvezza universale («La Gloria è tua, se de’ tuoi colpi al pondo / ogni barbaro ceppo avvien, che cada: / d’Alessandro maggior Tu sciogli un Mondo»)207. Altrove, invece, sempre a proposito del re polacco, viene ribadito che la fama che circonda i tre grandi eroi dell’antichità romana sacranti agli dei latini le spolia opima dei nemici (le spoglie, cioè, del comandante avversario ucciso personalmente nel corso della battaglia) è stata oscurata dal gesto del «Sarmata Alcide» che offre al pontefice Innocenzo XI la suprema insegna turca conquistata a Vienna («l’acquistato Vessil di Genti infide»). La distanza dagli exempla classici di Romolo («Sacrò Romolo à Giove in Campidoglio / del debellato Acron le spoglie opime»), Aulo Cornelio Cosso («Cosso poiche i Veienti atterra, e opprime / vota pur a Volumnio il Regio Soglio») e Marco Claudio Marcello («Del Duce Britomaro il fiero orgoglio / Marcel non men, che ‘l gran valor deprime, / e sù l’Ara de’ Numi alta, e sublime / de le dovizie al fine offre lo spoglio») è ulteriormente rafforzata dal riferimento polemico di marca religiosa antipagana («Quegli à Nume bugiardo offrir si vide; / tu per man d’Innocenzo al Nume vero»)208. Un sonetto indirizzato a Ernest von Starembergh riunisce in sé i diversi motivi del richiamo a celebri eroi della storia romana, del superamento di essi da parte dell’eroe moderno e, nella costruzione dei parallelismi e nella chiusura finale, dell’elemento ternario. I tre exempla, introdotti in sede anaforica dall’ipotetico «se», e rinvianti alle eroiche imprese di Muzio Scevola («Se le fiamme a schernir Muzio si mosse, / per la Patria sottrar di Marte à l’onte»), Orazio («Se Orazio al rotto Varco il piè non scosse / argin sol di tutta Etruria a fronte») e Clelia («E se a nuoto di Clelia il petto casto / varca il Tebro aspirando à i Patrij Lari»), sono giustapposti ad altrettante confutazioni, simmetricamente introdotte dall’anaforico «Tù» che apre l’allocuzione diretta all’eroe Starembergh («Tù per l’Austria, di mine à l’Etne scosse / sai più bella Fenice offrir la

207 Anonimo, Al Medesimo [Giovanni III], che in testa de suoi Eserciti liberando Vienna dall’assedio diviene Liberatore della Cristianità tutta, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 33. 208 Anonimo, La Maestà del Rè di Polonia presenta alla Santità di Nostro Signore lo Stendardo preso a’ Turchi, ivi, p. 10.

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fronte», «Tù fai, de l’Asia in rintuzzar le posse, / curvar la Luna ad inalzarti un Ponte», «Tù pur solchi di sangue un Mar più vasto»). La rassegna sancisce la definitiva superiorità dell’eroe moderno («Or cedete o di Roma Eroi più chiari») che raccoglie in un unico exemplum metaforico le virtù militari del disprezzo del pericolo, della conquista della gloria e della strage del nemico («Ch’Ernesto sol contro l’Odrisio Fasto / sprezza l’Etne, alza i Ponti, e solca i Mari»)209. Dopo l’espugnazione dell’inespugnabile rocca di Buda – sogno proibito e nemesi, nel corso dei decenni, di schiere di generali austriaci – l’encomio per Carlo di Lorena e Massimiliano Emanuele di Baviera prevede l’inserzione del loro nome in cima all’intero canone dei più grandi strateghi ed eroi di guerra: «Alessandro, Pompeo, Pirro, ed Achille / Camillo, e l’uno, e l’altro Scipione, [...] Bruto, Fabio, Valerio, e Formione», Ulisse («Colui ch’in Troia vomitò faville»), Enea («il Semideo nemico di Giunone, / che del Tebro solcò l’onde tranquille»), «il flagello de l’Asia, il Pio Buglione», Caio Mario («Gaio terror di mille schiere, e mille»), infine Quinto Fabio Massimo («Il Vecchio, ch’Annibal vinse, e disperse, / e Roma liberò dal giogo indegno, / e con l’indugio sol puote espugnarlo»). La rassegna converge verso una domanda retorica («Chi di loro giamai tanto sofferse?»), che prelude a un’ulteriore rielaborazione del motivo dell’inimitabilità dell’imprea condotta a termine dai due generali austriaci («Quant’opraro con l’armi, e con l’ingegno / a prò di Christo Emmanuelle, e Carlo»)210. Il dispositivo semiotico degli accostamenti eroico-mitici sembra dunque privilegiare, almeno nelle sue linee generali, l’opzione “oppositiva” rispetto a quella “identificativa”, configurandosi così come un sistema “aperto”, all’interno del quale ogni immagine, anche se apparentemente eterodossa, può ricevere un’ulteriore riproposizione, purché ricondotta nei termini di un solido antagonismo; un sistema, inoltre, sorretto dall’idea centrale del superamento del termine “moderno” sul suo antagonista “antico”. Parallelamente, l’encomio letterario di personaggi così profondamente diversi, sul piano della gerarchia nobiliare e del prestigio internazionale, oltre che diversamente influenti sulle vicende narrate, permette di individuare, nella rappresentazione dei vari protagonisti, alcune linee tematiche marcatamente peculiari, che

209 G. MONACI, Al Conte Ernesto Roggiero di Starembergh per haver sì gloriosamente difesa la Città di Vienna dall’Assedio de’ Turchi. Si paragona a Muzio, Orazio, e Clelia nella difesa di Roma dall’Armi Toscane, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 127. 210 F. PRIMIERO, Per la presa di Buda si celebrano li Serenissimi Baviera, e Lorena, in Poesie di diversi Autori sopra la gloriosa Conquista fatta dall’Armi Cesaree della Real Città di Buda, cit., p. 126.

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favoriscono un’agevole ricostruzione della specificità dei vari elogia e ritratti poetici211.

211 Per una ricognizione generale relativa all’immagine del capitano militare in epoca moderna rinvio al volume Il “Perfetto Capitano”. Immagini e realtà (secoli XV-XVII), a cura di M. Fantoni, Roma, Bulzoni, 2001; in particolare, all’interessante saggio introduttivo di M. FANTONI, Il “Perfetto Capitano”: storia e mitografia, pp. 15-66. Non mi pare tuttavia condivisibile l’affermazione, più volte ribadita, che tra la fine della Guerra dei Trent’Anni e l’epopea napoleonica la figura del capitano «scompare di fatto dalle pagine della letteratura e [...] non è né al centro dell’immaginario collettivo né della storiografia» (p. 21) (per alcune analoghe e più mirate considerazioni rinvio a ALFONZETTI, Eugenio eroe perfettissimo, cit., p. 272 nota 34). Gli esempi – per citare i nomi più noti – di Giovanni Sobieski, di Carlo di Lorena, di Massimiliano Emanuele di Baviera, di Francesco Morosini, di Eugenio di Savoia, e la strepitosa eco suscitata dalle loro imprese guerresche testimoniano dell’insostenibilità di questa affemazione. Lo stesso Napoleone, è noto, includeva il principe Eugenio nel suo personale canone dei più grandi strateghi, accanto alla famosa triade classica (Alessandro Magno, Annibale, Cesare), ai grandi capitani del ’600 (Gustavo Adolfo di Svezia e Turenne) e a Federico II di Prussia, a sua volta ammirato discepolo del Savoia.

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Perché Cesare vinca, e l’Asia dome, Basta il Zelo di Pier, la Fè d’Ernesto, Il Cor di Carlo, e di Giovanni il Nome. Giovanni Francesco Quartieri

1. Diplomazia, prodigalità, zelo: il ritratto di Innocenzo XI Odescalchi Non appena ricevuta la conferma della definitiva liberazione di Vienna le autorità vaticane vollero subito creare – anche a fini politico-propagandistici – un rimando immediato alla più celebre e celebrata vittoria cristiana. A tale sollecitazione i poeti del tempo risposero prontamente, istituendo in sede letteraria una sorta di identificazione netta tra le figure e l’operato di Pio V, il papa di Lepanto, e il «Pio novello» Innocenzo XI (il «Pio novel, che in Vatican s’onora»1; «Egli qual Pio novello, / per dar soccorso à la Cittade oppressa, / de la terra e del Cielo aprì il tesoro»2). L’analogia tra alcuni aspetti caratteristici del ritratto lepantino di Pio V e la figura di Innocenzo XI trova numerosi riscontri in sede storiografica. Sia durante la crisi mediterranea del 1571 che in occasione del conflitto continentale del 1683, il pontefice interpretò la propria missione evangelica proponendo il collante ideologico (la liaison religiosa crucisignata) e proponendosi come l’anima profonda della lega di stati che dovette essere mobilitata per far fronte a forze nemiche superiori per numero ed equipaggiamento. Oltre che con il suo magistero spirituale e la sua saggezza politica, Innocenzo XI contribuì alla vittoria anche sul piano della concretezza materiale attraverso un’abile gestione economico-finanziaria dei fondi ecclesiastici. Non

[CAMPIONI], Nella liberazione della Città di Vienna dall’Armi Ottomane, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 129 (corsivo mio). 2 BEVERINI, Nella Liberazione dell’Imperial Città di Vienna, cit., p. 10 (corsivo mio). 1

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appena insediatosi sul soglio di Pietro, Benedetto Odescalchi, rampollo della celebre famiglia di banchieri comaschi, attuò una politica di ferreo rigore economico, fondata sulla rinuncia all’inutile e dispendioso fasto che aveva caratterizzato i pontificati precedenti – soprattutto dell’epoca barberiniana – e che aveva mantenuto le finanze vaticane costantemente sull’orlo del collasso e della bancarotta. All’abbandono della sontuosa sfarzosità dell’apparato vaticano – e approfittando dell’evolversi degli eventi internazionali, che seppe abilmente gestire per conseguire fini di riordinamento interno – Innocenzo XI fece poi seguire un altrettanto rigoroso invito alla morigeratezza dei costumi, emanando disposizioni che non soltanto vietavano il tradizionale carnevale, ma che imponevano alle donne romane – alle grandi matrone nobiliari come alle semplici popolane – di evitare le scollature “alla francese”, così poco consone al nuovo, misurato decoro della Città dei Papi. La nuova linea promossa dal pontefice permise, in pochissimi anni, di raggiungere la parità del bilancio della Camera Apostolica; e fu grazie a essa che nel 1683, di fronte all’inarrestabile avanzata delle truppe ottomane, Innocenzo XI riuscì a trovare – imponendo nuove tasse; traendo ulteriori sussidi dalle decime; invitanto, talvolta obbligando i più alti gradi ecclesiastici e nobiliari a lucrose donazioni – i fondi necessari da una parte al finanziamento della guerra, dall’altra a sostenere gli intrighi diplomatici che permisero la stipulazione dell’alleanza tra l’Impero e il Regno di Polonia, ai quali si unirono, dal 1684, anche Venezia e il Regno di Moscovia3. In questo modo, quello che in assenza del pericolo turco sarebbe probabilmente passato alla storia come uno dei pontefici – e dei pontificati – più parsimoniosi e taccagni, e forse più bigotti, ebbe invece la fortuna di assistere all’apoteosi della propria “prudenza” e alla glorificazione del proprio “zelo”. Il regno di Innocenzo XI, nei devoti e compiaciuti fedeli, incarnava l’immagine ideale del buon governo apostolico: «Cadono gl’Empi, e

3 Cfr. [G. B. PITTONI] Vita d’Innocenzo Undecimo Pontefice Massimo descritta da D.G.B.P. Seconda impressione, con nuove notizie. In Venezia, presso Leonardo Pittoni. Si vende in Merzeria, all’Intelligenza Coronata, MDCXCI. Con licenza de’ Sup.; Papa Innocenzo XI e lo sterminio della dominazione turca in Ungheria. Articolo di giornale con nuove note e aggiunte. In base alle rispettive opere degli storiografi Onno Klopp, Edmondo Michaud, Árpád Károlyi, Guglielmo Fraknói, Ignazio Acsády e Massimiliano Immich, Firenze, Seeber, 1909; M. PETROCCHI, La politica della Santa Sede di fronte all’invasione ottomana, 1444-1718, Napoli, Libreria Scientifica, 1955; ID., Il pericolo ottomano, in Roma nel Seicento, Bologna, Cappelli, 1970, pp. 23-28; D. CACCAMO, Guerra santa e guerra turca nel Seicento, in Marco d’Aviano e il suo tempo, cit., pp. 396-428; S. P IFFERI , Papa Odescalchi dai trionfi del «possesso della cattedra» a quelli della lega santa polacco-imperiale del 1683, e G. PLATANIA, Le corti d’Europa e il pericolo turco (1683) attraverso l’inedita documentazione conservata nei fondi archivistici romani e vaticani, in L’Europa di Giovanni Sobieski, cit., rispettivamente alle pp. 139-178 e 233-314.

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le Vittorie sono / del gran cor d’Innocenzo, e gloria, e dono», cantava ad esempio il poeta ufficiale di Cristina di Svezia, Alessandro Guidi4. I poeti non ebbero difficoltà nel sostenere, con i loro componimenti celebrativi, simili istanze. La raffigurazione di Innocenzo XI, infatti, ruota sostanzialmente intorno ad alcuni motivi ben definiti e unanimemente riconosciuti; ed è una rappresentazione favorita, talvolta, dall’intrinseca essenzialità strutturale della forma-sonetto. Papa Odescalchi rappresenta il difensore della sacralità imperiale romana («Che non calcasse il Sacrosanto Impero / Romano il sozzo piè di Trace immondo») e della supremazia religiosa cattolica («che la Religion del Nume vero / profanata non fosse, o posta al fondo»), l’ideatore della reazione antiottomana («che de’ Regi Ottomani il collo altiero / cominciasse à sentir di giogo il pondo / e perdesse Macon suo rito fiero»), il cui «zelo di Padre, e di Pastore» ha spento i contrasti interni e spinto i sovrani alla lega («l’Armi, e i cuor lontan leghi in bel misto»): i meriti del pontefice («À Te si deve, ò Vice Dio del Mondo, / Grand’Innocenzo Imitator di Christo») meritano quindi il privilegio dell’esclusività (con ricorso alla consueta modalità ternaria e anaforica: «Tu sol reprimi il barbaro furore / Tu sol vinci, e debelli il Popol tristo, / e Tu solo conservi al Ciel l’Onore»)5. Altrove è invece il motivo della saggia prodigalità di Innocenzo a richiamare l’attenzione dei poeti: le risorse economiche, gestite con cura e inviate dove necessario, hanno condotto la vicenda verso l’esito trionfale («Mà tu Sacro Pastor, da le Latine / sponde colà versasti ampio tesoro, / che de l’Austria fermò l’alte ruine. [...] altri vinse col ferro, e tu con l’Oro»6; «Con l’oro tù de’ preziosi erarj / strano argine opponesti / de l’inimico ferro à i flutti insani»7). Nell’ode Il Colosso di Gabriel Maria Meloncelli risultano inscindibilmente intrecciati vari motivi encomiastici, come la devozione del

4 A. GUIDI, Per la Vittoria riportata dall’Armi Cristiane contro il Turco, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 1-6: 5. Su Guidi cfr. P. J. MARTELLO, Vita dell’Abate Alessandro Guidi Pavese detto Erilo Cleoneo, in Le Vite degli Arcadi illustri, parte terza, cit., pp. 229-252; G. CAPONI, Alessandro Guidi, Pavia, Premiata Tipografia Fratelli Fusi, 1896; DI BIASE, Alessandro Guidi. L’“emulo di Pindaro”, in ID., Arcadia edificante, cit., pp. 263-430; ID., La “Fortuna” di Alessandro Guidi, in «Ausonia», XXIV (1969), 1, pp. 28-34; B. MAIER, Introduzione, in A. GUIDI, Poesie approvate, Ravenna, Longo, 1981, pp. 774; A. PERELLI, Alessandro Guidi e la regina di Svezia, in Cristina di Svezia e la cultura delle accademie, cit., pp. 297-314; L. SALVARINI, “Le vertigini dell’umanità”. Il barocco di Alessandro Guidi, in A. GUIDI, Prima dell’Arcadia. Le poesie liriche e l’Amalasonta in Italia (1671-1681), a cura di L. Salvarini, Trento, La Finestra, 2005, pp. III-XIX. 5 Anonimo, Alla Santità di Nostro Signore Innocenzo XI dimostrando, che la Vittoria ottenuta contra il Turco sotto Vienna sia effetto delle sue vigilantissime operazioni, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 7. 6 Anonimo, Sua Santità contribuisce gran copia d’oro per Vienna, ivi, p. 8. 7 CAMPIONI, Nella liberazione della Città di Vienna dall’Armi Ottomane, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, p. 128.

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pontefice («Tu Pastor Coronato, / del Cattolico Gregge in alto ergesti / tutto zelo, e pietà la viva Mole»), l’abilità diplomatica («Trasser le tue parole / il Rè de l’Orsa al gran soccorso armato, / Scoglio fatale agli Aggressori infesti»), le elargizioni in denaro («Da gli Erarj si spande / l’Armonia de le Trombe, e rende l’Oro / bellicoso l’Acciar, l’Anima ardita»), favorite dalla frugalità economica («Con l’opportuna aita / sei de l’Orbe fedel provido influsso, / e se impingui la fè, maceri il lusso»)8. In alcuni casi la qualità primaria del pontefice, il suo «zelo», viene identificata nella «pietà», nel «pianto», nella «penitenza»: allora divengono queste le vere ragioni della vittoria viennese, le vere armi della causa cristiana, ben più efficaci del «valor guerriero» delle «spade» cattoliche («Dunque non vinse nel guerriero affronto / Valor Tedesco al Sarmata congiunto: / il pianger d’Innocenzo è quel, ch’ha vinto» 9; «Ond’io non sò, se a l’Ottomane Schiere / portin più danno, più spavento, e lutto / l’Austriache Spade, ò pur le tue preghiere»10; «Onde se sì famosa alta vittoria, / o de la Chiesa Difensor più forte, / opra è del Zelo tuo, tua sia la Gloria»11; «Autor d’ogni Vittoria è il tuo gran zelo; / Tu Giovanni ad Augusto unisti in guerra, / poi con entrambi hai collegato il Cielo»12). Ancora nell’ode Il Colosso di Meloncelli si può rinvenire un significativo ribaltamento prospettico: tutti gli elementi del repertorio penitenziale innocenziano – la «pietà», il «flagel», le «Spine», i «Cilicij», il «singhiozzo», i «sospir», il «digiuno», le «lagrime» – divengono i principali strumenti d’offesa che il «Mosè del Tarpeo» imbraccia e fa imbracciare ai milites Christi che si oppongono al «Popol’Empio»: Così mentre anelante Il Mosè del Tarpeo Vittorie prega Il buon Popol di Dio Vittorie ottiene: Al Principe zelante Grande Arsenal’ è il Tempio; invitta lega Quella è sol, che Pietà guida, e sostiene; Ch’una intrepida spene Vanta Real potenza unita al Zelo, S’hà con l’Armi del Suol l’Armi del Cielo.

8 MELONCELLI, Il Colosso per la Liberazione di Vienna, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 112-120: 116. 9 TERENZI, A Nostro Sig. Innocenzio XI che vedendo stretta Vienna, pianse avanti ad un Crocifisso, in Sonetti di Luca Terenzi, cit., p. 73. 10 Anonimo, Alla Santità di Nostro Signore Papa Innocenzo XI. per il di cui zelo s’è ottenuta la Vittoria, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 5. 11 Anonimo, Alla Santità di Nostro Signore Papa Innocenzo XI, ivi, p. 9. 12 M ADRISIO , Alla Santità di Nostro Signore Innocenzio XI, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 279.

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La rappresentazione dei protagonisti Squallida, e sciolta il crine Duro flagel la Penitenza impugna, E nel ferir sé stessa il Turco cade: Hà per Elmo le Spine Per Usberghi i Cilicij, e ne la pugna Più d’ogni altro Guerrier le schiere invade, Tutte l’Aste, e le Spade Vibra ella sola, e à le Bombarde orrende Co la polve del Capo i tuoni accende. De le sue Verginelle L’Ala destra, e sinistra è di Colomba, E la Croce è il Vessil, ch’alza ogni Schiera, Per soccorsi hà le Stelle, Il singhiozzo, e ‘l sospir serve di Tromba, Amato suon de la Pietà guerriera: La sua milizia austera Seco hà il digiun per cibo, e d’ogni banda Ne le lagrime poi trova bevanda13.

Secondo un procedimento raffigurativo che troverà ampio riscontro anche in alcuni passaggi encomiastici riservati a Giovanni Sobieski, Innocenzo XI viene spesso “plasticamente” ritratto nel momento culminante della sua esperienza di «Vicedio»: durante la preghiera, nell’atto angoscioso di implorare l’assistenza e l’aiuto divini nei confronti di un’umanità che, pur avendo commesso molti «errori», non merita l’umiliante castigo della conquista musulmana. Diversi autori non esitano a infarcire, ai fini di una maggior resa encomiastico-devozionale, forse anche in chiave patetica, i loro componimenti con frammenti di questa immaginaria preghiera. Domenico Bartoli, ad esempio, dipingendo il papa in lacrime alla notizia dell’assedio turco a Vienna («à quella / troppo acerba novella / di lagrime pietose asperse il guardo»), dedica alcune strofe all’invocazione che il contrito Innocenzo rivolge a Dio, affinché «‘l dardo / ricada in chi vibrollo, e lunge roti / da la sua greggia»: Deh Padre, egli pregò, Padre Superno D’unico figlio, e tu Figliuol Divino, Che eguale al Padre hai tra’ Beati Regno; Per questo Sacro Legno Ch’al sen mi stringo, ove il livor ferino Fè già de’ membri tuoi sì mal governo, Teco a parlar mi tira un foco interno; Al labro umil, che prega Tu cortese ti piega,

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MELONCELLI, La Pietà Trionfante per la Liberazione di Vienna, ivi, pp. 108-109.

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Salvatore Canneto E in me solo di mille il pianto ascolta. Di nostra frale, e stolta Umanità non rammentar l’errore: Ceda à dolce pietà vinto il rigore. […] Per quel piacer, che ti sospinse à morte, Per quel morir, ch’à noi donò la vita, Per quell’amor, che ti votò le vene, Tra barbare catene De’ Servi tuoi la libertà gradita Non sospiri il tenor d’iniqua sorte. Terror de’ rei, ch’aggiungi forze al forte, Gli Austriaci difensori De’ crudi assalitori Frangano à nome tuo l’audace orgoglio: Reggi il Cesareo Soglio; E in quella di Clemenza inclita sede Serba l’onor de la Romana fede. Tal orava Innocenzo, e co’ pungenti Flagelli, ch’à sferzar gl’omeri impugna, Battea sé stesso, e combattea le sfere14.

Il momento narrativo della preghiera a Dio di Innocenzo diviene, per alcuni, l’occasione propizia per ribadire la profondità della propria fede e della propria dottrina teologica. In tal modo il passaggio testuale tende a configurarsi come un sincero atto di contrizione e fede, e, talvolta, addirittura come un banco di prova per ardite speculazioni filosofiche. Ne è testimone, ad esempio, l’oratorio La Fede Cattolica Guerriera del medico – «Fisico», come egli stesso si definisce – veneziano Girolamo Oddoni15. L’incipit della sua preghiera è costruito come un’invocazione meditata, allusiva ai più profondi dogmi e misteri della religione cattolica: l’infinitezza e l’onniveggenza di Dio, l’imperscrutabilità dei Suoi disegni, la Trinità («Prima Entità infinita, / Una, e Trina indivisa, / adorata per fede / non per Saper intesa, / Principio Eterno, Eternità incompresa; / causa dell’esser mio / mio Signor, mio Dio: / Tù che nulla imperfetto, e nulla in vano / opri nel mondo, e vedi / nel Presente il Passato, e l’Avenire»). Al solenne attacco segue il rapido accenno alla missione del pontefice in terra e alle attuali urgenti necessità («Se m’inalzasti al Soglio / humil tuo Servo à custodir la Fede, / ed in tempo sì angusto / contro Cesare il Giusto / di gran vicende Spettator

14 B ARTOLI , La superbia Ottomana abbassata, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 45-47. 15 La Fede Cattolica Guerriera condotta al Campo dalle Quattro Aquile Coronate. Oratorio del Dottor Girolamo Oddoni. Dedicato alla Maestà Cesarea, & Regia di Leopoldo Primo Imperatore. In Venetia, per Gio: Battista Tramontin a’ Frari. MDCLXXXV.

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sciegliesti») e, infine, la richiesta dell’intercessione divina nelle tristi vicende viennesi, ribadita con l’allusione ai meriti personali («Permetti à me, che almeno / se piansi già cadente il Quarto Impero; / e con quello disperso / dal mio Ovile il tuo Grege io sospirai, / doppo le angoscie, e guai / vegga del Trace à scorno / là nell’Ungaro Ciel sereno il giorno»)16. Nell’azione di papa Innocenzo XI si riscontrano dunque tre «meriti» fondamentali (il denaro per finanziare le armate cristiane, l’autorità morale e il magistero spirituale per invocare il perdono divino e spingere la cristianità alla coesione), legati ad altrettanti ambiti semantici e concettuali («oro»/«tesoro», «pianto»/«lacrime» e «pietà»/«zelo») i quali appaiono nella maggior parte dei casi intimamente riuniti e inscindibili l’uno dall’altro. In Filicaia, ad esempio, lo spirito di raccoglimento e devozione che aleggia sulla Cristianità («Ecco d’Inni devoti / risonar gli alti Templi, ecco soave / tra le preghiere, e i voti / salire a te [Dio] d’Arabi fumi un nembo») è connesso alla prodigalità – spirituale e insieme materiale – del pontefice («Già i tesor sacri, ond’ei sol tien la chiave, / dall’adorato grembo / versa il grande Innocenzio, e i non mai voti / erarj apre, e comparte»), la cui azione risulta evidente e risolutiva, in primo luogo, sul piano della diplomazia europea («Già i Principi Cristiani alla gran lega / strigne, commuove, e piega»), in particolare per quanto riguarda la grave situazione austriaca («e in un raccoglie le Milizie sparte / del Teutonico Marte») e la necessità del soccorso polacco («e fa, che incontro alle Sitonie Lune / tutte sue forze il fier Polono adune»). Nella strofa successiva viene invece sviluppato il motivo devozionale, con la consueta preghiera di Innocenzo, «Mosè novello», che invoca Dio «affinché pera il formidabil Geta». Nell’elaborazione poetica il gesto del pontefice viene accostato ad altri exempla biblici di invocazioni a Dio levate in frangenti di estremo pericolo e immediatamente esaudite – la preghiera di Ezechia in 2 Re, 20: 1-6 («Pianse, e pregò l’afflitto / buon Re di Giuda, e gli crescesti etate») e il pentimento degli abitanti di Ninive in Giona, 3: 10 («Lagrime d’umiltate / Ninive sparse, e si mutò l’Editto / già intimato, e prescritto») – funzionali a ribadire la possibilità di sfuggire al castigo che Dio avrebbe assegnato al suo popolo smarrito («Or chi ti vieta / di ritrattar tua sentenza, / e spegner l’ira, che nel sen ti bolle?») e la sostanziale liceità della richiesta di Innocenzo («ed esser può, che ‘l tuo Pastor devoto / non si sforzi, pregando, a mutar voto?»)17.

Ivi, parte prima, pp. 19-20. FILICAIA, Sopra l’Assedio di Vienna, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., pp. 8-9. Non diversamente in Giovanni Andrea Spinola: «Diansi al Grande Innocenzo eterni onori; / ei fù, che armato di Pietade, e Zelo, / interessò con le sue Preci il Cielo, / ed a prò de la Fè sparse i Tesori. / Tanto fè, tanto disse, e in tante guise / diè mano a l’opra il Generoso, il Santo, / tanto contribuì con divoto pianto, / che a’ suoi voti pro16

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I medesimi motivi encomiastici riaffiorano – a sottolinearne la persistenza, oltre che la vitalità – nei componimenti per la presa di Buda in cui compare il riferimento all’azione del pontefice: la vittoria sul Turco, dovuta in gran parte alla sua profonda pietas cristiana («un’Innocente priego, ah ben lo vedi, / sicuro il Calle a la Vittoria aprio»18), può essere ascritta in ultima istanza alla sua «zelante» controffensiva («Ben si dovea al fervoroso zelo / d’un’Amante Pastor preda sì degna, [...] / per sua mercè la Fede in Buda regna»19), e talvolta in modo pressoché esclusivo («da Pietà Innocente, e zelo estinta / più che da forza Augusta esser si vede»20). Una delle insistenze più rappresentative sul motivo dello «zelo» di Innocenzo XI è tuttavia costituita da un’«orazione panegirica» di Pietro Saffi, intitolata La Caduta di Gerico, recitata dall’autore nella chiesa di San Frediano di Lucca proprio in occasione della conquista di Buda, nel settembre 1686 21. Il tema principale dell’opera, annunciato nel titolo ed esposto fin dalle primissime battute del testo, è l’intenzione di istituire un puntuale parallelismo tra la sorte delle due città, quella palestinese (conquistata, come narra l’Antico Testamento, dalle armate israelite al comando di Giosuè: Giosuè, 6: 1-21) e quella ungherese (conquistata dagli eserciti imperiali guidati da Carlo di Lorena e Massimiliano Emanuele di Baviera). Fin dalle prime battute del discorso compare inoltre l’elemento ternario, come al solito impiegato nella costruzione del testo ai diversi livelli strutturale, retorico e tematico. Il parallelismo tra le due città – che coinvolge, nella ricostruzione di Saffi, già il loro profilo urbanistico («Fu Gerico cinta da tre fortissimi muri [...] e Buda vien circondata da trè muraglie») – si rileva dalla funzione “storica” di ricettacolo del Male e del Nemico rivestita nell’antichità da Gerico («Gerico s’interpreta per un misto di colpe, per un asilo di reprobi, per regia di Satanasso») e nell’età moderna da Buda («Ma a chi più di Buda s’appartenevano questi epiteti ove s’innestavano alle bugìe dell’Alcorano le perfidie dell’Ebraismo resultandone il misto impero al Demonio?»).

pizio il Cielo arrise» (SPINOLA, Vienna assediata dal Turco, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 134). 18 Anonimo, Nella Presa di Buda. Augurio di maggiori acquisti, in Poesie di diversi Autori sopra la gloriosa Conquista fatta dall’Armi Cesaree della Real Città di Buda, cit., p. 74. 19 Anonimo, Sopra la Presa di Buda Capitale dell’Ungheria, ivi, p. 33. 20 [F.M.M.] Nell’Acquisto della Real Città di Buda si presagisce quello dell’Imperio Greco, ivi, p. 99. 21 La caduta di Gerico Orazione Panegirica del P. D. Pietro Saffi della Congregazione Lateranense detta nella chiesa di S. Frediano di Lucca de’ Canonici Lateranensi nel Solenne rendimento di grazie à S.D.M. per il glorioso acquisto di Buda fatto dall’Armi Cristiane l’Anno 1686. Dedicata all’Illustriss. e Reverendiss. Sig. Priore D. Gio: Francesco Sardini Ordinario di Carrara Nullius Diaecesis & c. In Lucca MDCLXXXVI. Per i Marescandoli. Con Licenza de’ Superiori.

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L’analogia si estende anche alla logistica: per espugnare la «Gerico Ottomana», sostiene infatti l’autore, «fu necessario poc’anzi alle schiere di Cesare valicare il Danubio come fu di bisogno a’ soldati di Giosuè trapassare il Giordano». La perfetta sovrapposizione giunge infine al motivo encomiastico-celebrativo: Gerico, secondo la narrativa veterotestamentaria, «finalmente fù trionfata dalle trombe, dalle spade, dal fuoco»; allo stesso modo, Buda è stata superata «dalle fiamme innocenti di quel zelo che risplende sù ‘l Vaticano, dalle Trombe parlanti de’ Consiglieri di Vienna, dalle spade in fine de’ Campioni di nostra Fede». Questi ultimi costituiscono i «tre punti» sui quali Saffi intende «discorrere»22. Dopo l’enunciazione progettuale liminare la riflessione di Saffi si concentra sul motivo dell’«ardente zelo» di Innocenzo XI e delle sue conseguenze sugli eroici successi cristiani degli ultimi anni. «Suscitato» nel cuore del pontefice, poco tempo prima, dall’assalto turco a Vienna, e da allora mai sopito, lo «zelo» ha ricoperto un ruolo di primissimo piano sia sul versante dell’attività diplomatica che su quello della motivazione “crociata” della lotta all’infedele – che nel testo di Saffi appaiono intimamente connessi – riscontrabile nell’azione dei membri della Sacra Lega: Venezia («il Leone generoso dell’Adria, che stimolato da questo Zelo, da questo fuoco, rugge vittorioso su l’arene della Morea superata fra le stragi, e i timori»), Polonia («l’Uomo armato della Polonia, che temprando i suoi acciari in questo Zelo in questo fuoco forma impenetrabil riparo

22 Ivi, pp. 5-6. L’accenno alle «perfidie dell’Ebraismo», a prima vista peregrino, si colloca invece all’interno di una concezione antisemita che, all’epoca della conquista dell’Ungheria (1684-1699), toccava uno dei suoi vertici. Significativi, in questo senso, numerosi componimenti che apparvero subito dopo l’espugnazione di Buda, come la Copia del gran Lamento che fanno gl’Ebrei per l’acquisto fatto dall’Armi Cesaree dell’insigne Fortezza di Buda nuova. In Vienna, & in Milano. Per Camillo Corrada vicino a S. Sebastiano, 1686. All’entrata degli imperiali in città, il 2 settembre 1686, fece seguito, come spesso succedeva, l’eccidio in massa degli abitanti: gli ebrei, da sempre accusati d’intelligenza con gli ottomani – date le condizioni di libertà e floridezza di cui godevano nelle terre del Sultano –, subirono una sorte non dissimile a quella dei loro concittadini musulmani, come attesta il massacro di un centinaio di essi all’interno della sinagoga in cui si erano rifugiati. Testimone privilegiato di questi fatti fu Iszák Schulhof, un ebreo sefardita che viveva in quegli anni a Buda e che scrisse una narrazione (una meghillà) diaristica degli eventi relativi alla guerra turco-imperiale degli anni Ottanta del Seicento (I. SCHULHOF, La Meghillà di Buda (1686), prefazione e traduzione di P. Agostini, postfazione di F. Szakály, Roma, Carucci, 1982), su cui cfr. P. AGOSTINI, La Meghillà di Itzhaq Schluhof, testimone e vittima della caduta della Buda turca (1686), in «Rivista di Studi Ungheresi», XII (1997), pp. 27-36. Del resto lo stesso pontefice Innocenzo XI non mascherò mai la sua inclinazione antisemita: fu lui, il papa-banchiere, a emanare nel 1682 le leggi contro la pratica dell’usura perpetrata dai mercanti giudei. Ricci avanza l’ipotesi secondo la quale l’atteggiamento (vero o presunto) degli ebrei durante le guerre contro i turchi contribuì alla trasformazione dell’antigiudaismo in antisemitismo (RICCI, I turchi alle porte, cit., pp. 91-92).

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all’inondazione de’ Tartari disturbatori della quiete de’ suoi Vassalli») e Impero («le miserie di Buda, non meno di Gerico fatta in cenere da questo Zelo, da questo fuoco»)23. Saffi prosegue poi il suo discorso intessendovi anche gli altri motivi ricorrenti nella raffigurazione del pontefice; in particolare, la prodigalità (i «fiumi d’oro ad inondar la Germania») e il «pianto» del papa, le «lagrime» lustrali che, da sole, erano riuscite a raddolcire la collera divina («dolorosi lamenti, cari lamenti che svegliaste alle vendette il Leone addormentato di Giuda») e a ottenere l’aiuto di Dio contro «il Sifara della Tracia». L’azione di Innocenzo rispecchia quella di Giosuè nella terra di Moab (in particolare Giosuè, 3: 5). Alla vigilia dello scontro il condottiero ebreo spronava i suoi guerrieri, rassicurandoli sul favore divino (Sanctificamini cras enim faciet Dominus inter vos mirabilia); analogamente, nella finzione di Saffi, il pontefice intimava, «avanti la caduta dell’inimica Fortezza»: «Sì sanctificamini, ne vi fia cuor sì restìo, che non accompagni con le sue preghiere i miei voti, non vi fia petto sì rigido, che non lo riscaldi il mio fuoco, non vi fia Uomo sì crudo, che non unisca i suoi sospiri al mio Zelo. Sì sanctificamini, & io per parte di Dio v’assicuro, che Buda, la Gerico inespugnabile dell’Ottomanna potenza cederà alle trionfanti vostre armi»24. Il punto d’arrivo di un simile percorso, naturalmente, è chiaro: «Sì sì tua è la gloria, se cadde Buda o Sacrosanto Pontefice, già che per distruggere quella Gerico dell’empietà non poco giovarono del tuo Zelo le fiamme»25. La conclusione dell’orazione panegirica di Saffi, infine, è giocata sulla finzione dell’apparizione di un gruppo di statue, «intagliate non da scalpelli dell’arte, ma dalla mano industriosa della Virtù»26, davanti agli occhi di un oratore ormai in preda all’esaltazione religiosa, il quale giunge a confessare che proprio per questo motivo è costretto alla brusca interruzione del discorso: «Questi sono i prodigj, che nel tempio della Gloria rimiro, ed oh come volontieri io m’accingo a parlarvene: ma se mi afficco in quella tomba onorata, dolore tu mi nieghi la voce, se riguardo que’ simulacri famosi, Gioia tu non mi permetti di discorrere»27, sono le ultime parole del testo. Prima della conclusione egli ha tuttavia la possibilità di descrivere la prima di queste statue, che rappresenta simbolicamente l’operato di papa Odescalchi. Ancora una volta, veicolati dalla consueta insistenza di tipo ternario, compaiono in essa i tre meriti principali dell’azione di Innocenzo XI: l’abilità diplomatica («il Triregno, già che seppe collegare col suo valore a’ danni d’un Tiranno tre Regi»), la perizia nella gestione economi-

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P. SAFFI, La Caduta di Gerico, cit., p. 7. Ivi, p. 8. Ivi, p. 9. Ivi, p. 13. Ivi, p. 14.

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co-amministrativa («Tesoriero della Fede accumulò, ma per altri») e il fervore devoto del suo credo («Moisè del Vaticano vinse orando; trionfò alla fine col suo Zelo di Buda»)28. 2. Per una “cosmesi letteraria”: Leopoldo I Asburgo e la gloria de loinh Il lungo regno di Leopoldo I Asburgo (1658-1705) attraversò, malgrado gli sforzi della Corte e dello stesso imperatore, un periodo travagliato e complesso, solcato da aspirazioni divergenti e da spinte contraddittorie. Da una parte, esse tendevano a indirizzare la politica dell’Impero verso un obiettivo primario e urgente: la necessità di un periodo di pace prolungato, di un silenzio delle armi grazie al quale poter ridisegnare, una volta per tutte, un complesso statal-imperiale che sul piano economico, amministrativo e militare rivelava con sempre maggiore evidenza la propria sostanziale inadeguatezza. Tali aspirazioni ideali si frangevano tuttavia sul piano della realtà, a causa dello stato di conflitto permanente in cui l’impero si trovò ad agire per gran parte del secolo: contro l’eterno nemico francese, Luigi XIV, a occidente; contro le istanze autonomiste e indipendentiste dei vari elettorati e principati gravitanti nell’orbita imperiale, tedeschi a nord, magiari e transilvani a sud; contro la minaccia della pressione turca, a oriente29. Risulta quindi significativa, nonostante i cinquant’anni di guerra continua che l’Impero visse sotto il regno di Leopoldo, la reticenza dei poeti viennesi a delineare un ritratto dell’imperatore in chiave marziale, nonostante la ritrattistica ufficiale perseguisse tutt’altra direzione, raffigurandolo nelle tradizionali vesti eroiche, in armatura, con in mano il bastone del comando e con le tempia cinte d’alloro30. Beninteso, la stragrande maggioranza dei comIvi, pp. 13-4. Cfr. I. ACSÁDY, La liberazione di Vienna dall’assedio turco del 1683 e la liberazione dell’Ungheria dal giogo turco, fino alla pace di Karlovicz del 1699, traduzione dall’ungherese, Firenze, Libreria internazionale successori B. Seeber, 1908; V.-L. TAPIÉ, Monarchie et peuples du Danube, Libraire Arthème Fayard, 1969 (trad. it.: Monarchia e popoli del Danubio, Torino, SEI, 2003, in part. le pp. 153-224); J. RAINER, Leopoldo I, gli Asburgo e la questione turca e D. FRIGO, La concezione dell’Impero nella pubblicistica e nelle fonti diplomatiche italiane della seconda metà del Seicento in Marco d’Aviano e il suo tempo, cit., rispettivamente alle pp. 29-43 e pp. 342368; J. BÉRENGER, L’Empereur Léopold Ier et la dèfense de la Chrétienité au debut des années 1680, in L’Europa centro-orientale e il pericolo turco, cit., pp. 83-118. 30 Scrive Wandruszka: «Come Filippo II, a cui somigliava, non possedeva ingegno politico né militare e si tenne lontano dalle campagne militari, non dissimile in questo da quasi tutti gli Asburgo che per trecento anni, da Massimiliano I all’arciduca Carlo, vincitore di Aspern, non brillarono per speciali doti strategiche» (A. WANDRUSZKA, Das Haus Habsburg. Die geschichte einer europaischen dynastie, Stuttgart, Vorwerk, 1956; trad. it.: Gli Asburgo, Milano, Dall’Oglio, 1974, p. 122). 28 29

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ponimenti encomiastici d’argomento imperiale segue la ritrattistica ufficiale e poggia ben salda sulle immagini tradizionali31. In primo luogo campeggia, tra di esse, il motivo “aquilino”, in cui la dimensione araldica dell’Aquila degli Asburgo (emblema familiare) trova una felice doppia convergenza: sul piano politico, con la dimensione simbolica dell’Aquila Romana (emblema del potere imperiale); e sul piano religioso, con la dimensione allegorica della nota opposizione «sole» vs «luna» (emblema dello scontro religioso tra Cristianità e Islam): Del Sole Autriaco ad ecclissar gl’Imperi Cinta d’orror la Tracia Luna io miro, Che di quei lieti, e splendidi sentieri Con un Mondo d’Armati infesta il giro. Quando di sì gran Sol figli Guerrieri I balenanti fulmini s’uniro; E del Cesareo Augel da i Rostri arcieri A incenerir l’empia Nimica usciro; Il Giove all’or del Vaticano Monte Contra la rea col balenar de l’Oro Fulmini accrebbe à l’Aquila bifronte. Arsa cadde la Luna à i lampi loro, E à coronar de’ Vincitori la fronte Fin dal Cenere suo nacque l’alloro32.

In modo sostanzialmente analogo, altrove l’accento encomiastico è posto invece su un altro motivo topico: l’Austria o, più ampiamente, la Germania, vista come una terra «madre d’Eroi»33, una terra in cui, ormai da secoli, vedevano la luce i più famosi e celebrati combattenti della fede – e milites Fidei non solo contro il secolare nemico turco, ma anche contro gli eretici luterani del Settentrione («Non più Sueco Leon forma ruggiti, / già tieni umili al piè l’altere Fronti») – i quali vengono tutti novellamente incarnati e superati dalle glorie di Leopoldo («Non più [la Gloria] racconti / de gli Augusti sepolti i vanti aviti. / Miri in Te solo, in bel compendio uniti / gli Eroi più Grandi, i Cesari più

31 Propone una ricostruzione generale FRIGO, La concezione dell’Impero nella pubblicistica e nelle fonti diplomatiche italiane della seconda metà del Seicento, cit., pp. 342-368. 32 F. M. DE LUCO SERENI, Vienna assediata da’ Turchi, difesa, e liberata dall’Armi Cristiane, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 102. E ancora: «Tutt’il valor ne l’Aquila s’aduna, / che se col guardo ella non teme il Sole, / come temer già mai potè la Luna?» (P. P. LEONI DE MAGISTRIS, Alle Glorie di Leopoldo I Augustissimo Imperatore, ivi, p. 299). 33 «L’Austria Madre d’Eroi sparsa d’orrore / languia ne’ danni suoi pallida, e bruna; / e l’Augel, che del Sol non ha timore / quasi fù astretto à paventar la Luna» (DURANTI, Per la Maestà di Giovanni III Rè di Polonia, ivi, p. 151).

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conti»34). Si tratta, in sostanza, del motivo “genealogico” e “dinastico”, per fare un esempio diacronicamente più tardo (e diastraticamente più “illustre”), cui il giovane Metastasio avrebbe offerto ampio sviluppo nella sua prima raccolta poetica, le Poesie edite a Napoli nel 1717. Il primo componimento inserito nel volume, l’«idillio» Il Convito degli Dei, era incentrato sul tema dell’eredità del trono imperiale in occasione della nascita del figlio di Carlo VI ed Elisabetta, e fu composto, come afferma l’autore nella dedica a Donna Aurelia d’Este Gambacorta, «per la divotione, che a quest’invittissimo Germe è dovuta da chiunque Romana Religione, e Romane Leggi professa». Il futuro Poeta Cesareo tratteggia abilmente una fittizia genealogia dinastica imperiale che affonda le sue radici nell’antica Grecia («con Carlo [Magno], ogni Imperial ragione / nel Germanico suol di Grecia venne», XXVII, 5-6), e che di conseguenza vede nella «Germania altera […] / altrice invitta de’ guerrieri Eroi» (XXVIII, 1-4) l’innesto e la fioritura del valore troiano trasfuso nei discendenti di Enea: «E quella Stirpe, che da’ Greci inganni / fè ritorno fuggendo al Suol Quirino, / dopo aver varii nomi, e forme prese, / un ramo al fin nella Germania stese» (XXXI, 5-8)35. Vedremo tra poco quale sarà il peso, nel contesto viennese, del rimando a Enea in riferimento a Leopoldo d’Asburgo. Nonostante l’insistita presenza di motivi riconducibili a tale tipologia encomiastica, gli elementi peculiari del ritratto dell’imperatore Leopoldo devono tuttavia essere rintracciati altrove. In particolare nel motivo che più sembra scontrarsi con la sua celebrazione ufficiale: quello del sovrano religioso per vocazione ma guerriero per necessità. Si tratta di una considerazione evidente e che, negli autori più consapevoli, fu all’origine di una serie di incertezze – se così si può definirle – relative alla delineazione del ritratto “eroico” dell’imperatore. Ne è per esempio eloquente testimonianza una lettera di Filicaia a Francesco Redi, in cui l’autore, consapevole dei “rischi” – ma non si comprende in riferimento a cosa: all’eccesso adulatorio? all’eccessivo distacco dalla realtà? –

34 Anonimo, Al medesimo [Leopoldo], in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 85. 35 Poesie di Pietro Metastasio romano. In Napoli, MDCCXVII. Nella Stampa di Michele Luigi Muzio. Con Licenza de’ Superiori. Il Convito degli Dei, composto da Metastasio nel 1712 (quando il poeta contava appena quattordici anni) si legge ora in Tutte le opere di Pietro Metastasio, a cura di B. Brunelli, Milano, Mondadori, 19652, vol. II, Opere varie, pp. 855871. La riflessione sulla legittimità della discendenza imperiale e sulla crisi dinastica assumerà un rilievo notevole nella riflessione e nell’elaborazione poetica di Metastasio: mi limito a segnalare, a questo proposito, G. GIARRIZZO, L’ideologia di Metastasio tra cartesianesimo e illuminismo, in Atti dei Convegni Lincei 65. Convegno indetto in occasione del II centenazio della morte di Metastasio (Roma, 25-27 maggio 1983), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1985, pp. 43-77 e E. SALA DI FELICE, Sogni e favole in sen del vero. Metastasio ritrovato, Roma, Aracne, 2008, in part. le pp. 177 sgg.

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impliciti nella raffigurazione di Leopoldo, confessa: «ho desiderato di farla [la canzone dedicata all’Imperatore] grave, enfatica, e religiosa: e giacché questo monarca non è guerriero, mi sono ingegnato di dimostrarlo pio»36. Coerentemente, la canzone filicaiana, se da una parte sviluppa il motivo encomiastico della vittoria militare imperiale, dall’altra lo costringe in una dimensione sostanzialmente devozionale e pietosa; e da questa “costrizione” deriva l’evidente insistenza del poeta, nel ritratto di Leopoldo, su concetti tratti dal repertorio religioso, quali i «sospiri», le «preghiere», il «pianto», il «cuor contrito umile», «la pietate, e ‘l divin culto» dell’Imperatore. Tutti concetti, insomma, caratteristici del ritratto del pontefice, come si è visto, e che acquistano una luce piuttosto significativa in riferimento all’imperatore. Non tu indarno pregasti: Udì ‘l gran Dio, Udì ‘l gran Dio de’ sospir tuoi devoti La flebil voce, e le preghiere, e i voti. […] Ma qual arte fu mai, che ‘l Ciel costrinse Teco a strignersi in lega? arte fu ‘l pianto Misto di prieghi, e ‘l cuor contrito umile. Quando in te l’Asia imperversò cotanto, E quando il ferro scelerato ostile Più d’un tuo reo Vassallo in te sospinse, E poi di sangue il tinse, Pien Tu di fede al Re de’ Re dicesti: Di questa Imperial caduca spoglia Tu, Signor, mi vestisti, e tu mi spoglia; Ben puoi ‘l Regno a me tor tu, che mel desti: Ma del fedel tuo servo Deh pur t’incresca; che tuo servo i sono. Così pregava il buono Re Palestin, quando il figliol protervo Gl’intimò guerra, e così Dio conquise L’Oste ribella, e lui nel Tron rimise. […] Ma tu, Signor, che più, che vita, e Regno, Hai la pietate, e ‘l divin culto a cuore, Già l’alto impulso a secondar t’accingi; Di tue forti Milizie il nerbo, e ‘l fiore Dell’Ebro entro le viscere già spingi Flagel dell’Asia, e della Fe sostegno; Non mai sì nobil segno Tue saette feriro; ecco s’appressa

36 Lettere di Benedetto Menzini e del Senatore Vincenzio da Filicaia a Francesco Redi, cit., p. 166 (corsivo mio).

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La rappresentazione dei protagonisti Il dì, che i gran litigi, e le gran risse A decider coll’arme il Ciel prescrisse: Fatto è il sommo de’ fatti, or che si cessa? Contro viltà prodezza Entrerà ‘n campo, e la tenzon fia corta: Non è, non è ancor morta L’antica possa…37

Anche nei componimenti di Carlo Maria Maggi il ritratto di Leopoldo acquista sfumature non dissimili. All’interno di una cornice d’argomento “mariano” («A Voi cara, o Maria»), la recente vittoria di Vienna viene infatti presentata come un momento esemplare di santità attiva ed eroica («fu chiaro esempio / la Reggia di Pannonia a’ Santi Eroi»), propiziata dalla pietas del devotissimo Imperatore («Cesare il vostro, il pio») prima ancora che dal valore delle armi austriache («empie col suo gran cuor, co’ prodi suoi / d’armi il suol, d’Alme il Ciel, di voti il Tempio»; «arma quante mai fur sotto uman velo / virtù divine»)38. Analogamente, in riferimento alla vittoria di Buda del 1686, Maggi sostiene che «Religion, Prodezza, ed Innocenza [...] in Cesare s’unir»: a Leopoldo è concesso infatti di piegare la «resistenza» dell’inferno poiché egli è padrone delle «arti di innamorar l’Onnipotenza»39. Nella canzone indirizzata all’arciduca Giuseppe, figlio di Leopoldo e futuro imperatore, Maggi insiste ancora sulla devozione e sulla religiosità dell’Asburgo, tratti che l’autore prospetta al giovane erede designato come il più genuino retaggio paterno («Co’ proprj esempj a te il gran Padre insegna, / che in Dio si vince, e sol per Dio si regna») e come la miglior scuola di governo che egli potesse sperare («Ma per idea dell’Alma, e degl’Imperi, / hai più bel magistero, e più vicino»). Le migliori massime di buon governo si ripropongono nella figura di Leopoldo e confluiscono nell’ere-

37 FILICAIA, Alla Sacra Cesarea Maestà di Leopoldo I Imperatore, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., pp. 23, 25 e 28. 38 C. M. M AGGI , sonetto XXXVI, Per le Vittorie ripotate in Ungheria dall’armi dell’Augustissimo Imperator Leopoldo, in Rime varie di Carlo Maria Maggi, Sacre, Morali, Eroiche, raccolte da Lodovic’Antonio Muratori, Bibliotecario del Sereniss. Sig. Duca di Modena, e dedicate all’Illustriss, ed Eccellentiss. Signor D. Giansimone Enriquez De Cabrera, del Consiglio di Guerra, Mastro di Campo Generale, e Governatore della Città e Provincia d’Alessandria per Sua Maestà Cattolica nello Stato di Milano. [Tomi I-IV]. In Milano, per Giuseppe Malatesta 1700. Con licenza de’ Superiori; e Privilegio, tomo I, p. 86. Su Maggi si vedano L. A. MURATORI, Vita di Carlo Maria Maggi Milanese, detto Nicio Meneladio, in Le Vite degli Arcadi illustri, cit., parte prima, pp. 79-88; M. CAPUCCI, Lettura del Maggi lirico, in «Studi Secenteschi», III (1962), pp. 65-87; B INNI , L’Arcadia e il Metastasio, cit., pp. 169-175; C. DI BIASE, Carlo Maria Maggi poeta «morale», in ID., Arcadia edificante, cit., pp. 431-526. 39 MAGGI, sonetto LXVI, Per la Vittoria di Buda, in ID., Rime varie, cit., tomo I, p. 178.

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dità magistrale consegnata al giovane rampollo («Queste di Stato a te vere dottrine / col sangue instilla il Padre, e con l’esempio»): la giustizia sociale («È misero il regnare su le rapine»), se da una parte preclude l’inutile sfarzosità dell’apparato del potere, dall’altra rende quest’ultimo più solido perché condiviso («Più sublime, e men saldo il Trono ha l’Empio»), mentre un’affiatata alleanza tra “trono” e “altare” offre il suo sostanziale contributo alla prosperità del regno («Solo è lieto, fedel, fermo confine / quel della Reggia, onde s’onora il Tempio»)40. A una dimensione puramente devozionale e pietosa, di una pietas etimologicamente intesa, deve dunque essere ricondotto quel paragone tra Leopoldo ed Enea che così spesso si rileva nei componimenti riferiti all’imperatore – e che, come si è visto, anche il giovane Metastasio avrebbe esibito di lì a poco nei suoi primi esperimenti poetici. Come in Filicaia e in Maggi, nel Ragionamento di Stefano Pignatelli Leopoldo è definito «religiosissimo», «primogenito del Cielo fra tutti i Monarchi della Terra», «unicamente inteso al culto Celeste»: un sovrano del quale, in ultima istanza, si può dire che «d’altro non mai si vide calergli, che del servigio divino»41. Della «pietà» di Leopoldo, continua Pignatelli, «discorre la Fama, perch’essa è quella, che liberollo da tante insidie a lui tese da’ suoi Ribelli; e dall’Assedio, sì della sua celebre Regia, come della sua Imperial persona, tramato a lui da quel barbaro, e in un Infedele Tiranno»42. Significativo risulta, in questo contesto, il legame istituito dall’autore tra la figura di Enea – quest’ultimo inteso come «fondatore dell’Imperio Romano in guiderdone della sua pietà, per aver condotti sul proprio dorso gl’Iddii Penati nelle ruine della sua Troia» – e quella di Leopoldo, il quale «già Imperador de’ Romani [...] si vide nel più forte rischio della sua Vienna lasciar in abbandono tutti i suoi più ricchi tesori [...] né d’altro calergli, se non di trasportare seco alcuni pochi, e sacri avanzi dell’adorata Insegna della nostra Redenzione; e qualche altra piccola parte delle spoglie mortali di quell’anime fortunate cittadine del Cielo»43. L’accenno a Enea, in Pignatelli, non prosegue oltre: ma suggerisce soltanto uno spunto che altri autori credettero opportuno – o, forse, necessario – approfondire ulteriormente. Oltre che alla proverbiale pietas dimostrata dal «figliuol d’Anchise» in fuga da Troia, il rimando a Enea lasciava adito infatti a una sorta di “cosmesi letteraria”, il cui fine era quello di ammantare d’un velo poetico ciò che sul piano storico dovette invece apparire, agli occhi dei contem-

40 MAGGI, canzone XIV, Al Serenissimo Arciduca Gioseffo d’Austria dopo la presa di Buda, in ID., Rime varie, cit., tomo II, pp. 139-142. 41 PIGNATELLI, I trionfi delle Armi Cristiane, cit., p. 26. 42 Ivi, p. 27. 43 Ivi, p. 56.

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poranei, come un gesto inequivocabile di mera viltà. L’atteggiamento di Leopoldo I Asburgo – che, per salvarsi, abbandonò con tutta la Corte la propria capitale e i suoi cittadini nel momento più critico dell’avanzata turca – se paragonato all’eroismo di Giovanni III Sobieski – che invece, esponendosi al pericolo in prima persona alla testa dei suoi ussari alati, aveva lasciato il proprio regno per soccorrere quello altrui – sembrò infatti richiedere un intervento poetico tanto edulcorativo quanto delicato. Un intervento sostanzialmente imposto da una duplice contingenza: in primo luogo per creare narrazioni opportunamente costruite e che rendessero conto in positivo del comportamento evidentemente poco dignitoso di Leopoldo; in secondo luogo per creare un contrappeso encomiastico-celebrativo che potesse riequilibrare le lodi per il re di Polonia, in modo da non ledere la suprema autorità e il maggior prestigio nobiliare dell’Imperatore Cattolico44. Da tale duplice contingenza deriva quindi tutta una serie di racconti, episodi, allusioni, riferimenti, tutto un materiale letterario, insomma, in cui la fuga da Vienna di Leopoldo viene presentata, di volta in volta, sotto sfumature diverse. In un sonetto anonimo, ad esempio, quella dell’Asburgo non costituisce affatto una fuga, bensì un ripiegamento pianificato, una ritirata strategica: dopo la consueta allusione alla consolidata fede cristiana dell’imperatore («O di grado primier frà quanti Regi / di Cristo il Nome vantano, e la Fede»), l’autore passa infatti a elogiare proprio questa azione di sganciamento («Cesare Invitto, or che ritiri il piede, / Oh di qual nuovo onor ti adorni, e fregi!»), esibendola come un abile e ben ordito stratagemma volto a confondere i sudditi, e con essi i nemici («Tu fuggi, è ver, da i muri Augusti, e Regi, / mà con fuggir ti stabilisci in Sede: / e de’ sudditi tuoi dubj di fede / guasti il pensier con artificj egregi») 45. Nelle odi del filoasburgico Giovanni Domenico Gentile la fuga dalla capitale assediata viene invece presentata come una scelta non pianificata dall’imperatore: è l’alto comando militare, nella persona di Carlo di Lorena, a imporla tra mille difficoltà e reticenze a un «eroe» che si mostra recalcitrante e pieno d’ardore battagliero. Le obiezioni di Leopoldo, nella finzione narrativa e nelle intenzioni encomiastiche di Gentile, assolvono il compito di discolparlo dalla pericolosa e poco lusinghiera accusa: L’Imperadore intanto, De’ più Nobili Eroi visto l’ardire Al volto, che del Cuor è messaggiero

44 A questo proposito risulta assai preziosa una testimonianza di Giovanni Lori, Il Coro de’ Poeti, cit., f. 3: «insomma il solo aspetto di Mustafà, primo Visire, bastò per porre in fuga un Cesare […] e ci voleva il Sarmata Giove [Giovanni III] affinché quelli truci tiranni traci fossero sconfitti». 45 Anonimo, Si lodano le risoluzioni prese da Sua Maestà Cesarea nel ritirarsi dalla Città di Vienna, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 14.

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Salvatore Canneto Agili, e snelli à canto Per la Fè, per la Patria atti à morire, Cerca l’Armi, e ‘l Destriero: Poi si fà innanzi di Vienna al piano, E à tutti alzò la mano, Dando segni di vita, e disse all’ora: Per difesa comune oggi si mora. All’or fece Lorena Impeto grande, e disse: ò Pio Signore, Non è de’ Grandi esporsi à gran periglio: L’Esser d’Austria raffrena; Io sono eletto Duce; Io con terrore Darò ‘l Trace in scompiglio. Vanne dentro Vienna, e tu procura Far munire le mura. Per la Campagna io toglierò ogni dubbio, E ‘l Budian guidarà tutt’il Danubbio. Parea termine angusto Guidar un muro à chi governa un Mondo; Ma, per non impedir l’arte di Guerra, Il Gran Cesare Augusto Dentro ritorna, in viso alm’, e giocondo. Indi poi si riserra Nel sacro Tempio, & ora attento, e fisso A’ piè del Crocifisso […]46

Non diversamente in Francesco De Lemene: per il poeta lodigiano è addirittura la personificazione della Germania a implorare il suo figlio più diletto di sottrarsi al pericolo, onde poter salvare, con la sua persona, l’«anima» e il «cuore» dell’intera Europa. Anche in questo caso Leopoldo, pieno d’«ardire», è obbligato a cedere obtorto collo alla richiesta. Ed è soltanto a questo punto che nella ricostruzione poetica di De Lemene, galvanizzati dall’inattesa notizia, gli invasori turchi pongono l’assedio alla capitale asburgica: O del popol di Dio, che afflitto geme, O d’Europa tremante, Invitto Leopoldo, anima, e core, Togli, ah togli te stesso al rio furore Del diluvio baccante, Togli te stesso a le rovine estreme. Salvo te, salvo è il Mondo; Augusta speme Data dal Ciel per ristorare i danni Di naufragj comuni, e di tempeste;

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GENTILE, La Congiura fallita, cit., ode prima, pp. 16-17.

La rappresentazione dei protagonisti Verrà l’Iri celeste Nel gran diluvio a terminar gli affanni, O Noè laureato, e in dì sereni Ti vedran Trionfante i colli Armeni. Così disciolta il crin, lacera il petto, Palma congiunta a palma, Genuflessa Germania e parla, e prega. Nulla concede Augusto, e nulla nega; Ch’agita la grand’Alma Di pietate, e d’ardire un doppio affetto. Pur lascia al fin l’insidiato tetto, E cedendo a pietate Austriaco Eroe, Passa da l’alta Sede a vicin lito. A l’hor più fatto ardito L’inondante furor de l’armi Eoe: Viva, dice, Macone, e il volo impenna Ad assalir l’Imperiale Vienna47.

Altrove, infine, il motivo della fuga da Vienna viene strategicamente posto in rilievo secondario, mentre il motivo encomiastico si dipana sullo sfondo del post factum, del grandioso evento bellico già gloriosamente e felicemente concluso («Libero è l’Istro [...]; Più non paventa i barbari nitriti; / più timor non li fanno Aste, e Cimieri»), su cui l’imperatore può soltanto apporre il suggello personale della ricostruzione («Vieni, ò grande Leopoldo, e gli sdruciti / Muri ripara, e gl’Edificj altieri») e della distribuzione di premi e onori («Vieni aspettato, e à i Difensori arditi / Premj comparti, & altri onor guerrieri»), mentre la gloria marziale viene procrastinata a future e ben più prestigiose vittorie («Quindi verso Bizanzio il passo porta…»)48. Leopoldo, dunque, non fu – e non venne raffigurato come – un eroe guerriero. Mentre le sue armate, dopo la vittoria di Vienna, costringevano gli Ottomani alla ritirata dalle pianure ungheresi, e mentre i suoi generali, nel volgere di pochissimi anni, si coprivano di gloria e acquistavano gradi e onori, scalando la gerarchia sociale austriaca, nelle campagne antiturche – si pensi a Carlo di Lorena, a Massimiliano Emanuele di Baviera, a Ludovico del Baden (Türkenlouis, “Luigi dei Turchi”), e al più celebre e celebrato di tutti, Eugenio di Savoia – la ricostruzione letteraria delle vittorie imperiali, quando ricondotta all’encomio diretto ed esclusivo dell’imperatore, acquista un colore particolare, spesso forzato se non posticcio, come ben testimonia anche in questo frangente la già

DE LEMENE, Al Vicedio, in ID., Dio. Sonetti, et Hinni, cit., pp. xx-xxi. Anonimo, Al Medesimo per la Vittoria ottenuta sotto Vienna invitandolo à portar l’Armi gloriose all’acquisto del Santo Sepolcro, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 14. 47

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citata orazione La caduta di Gerico di Pietro Saffi. L’autore non può non notare l’assenza dal campo di battaglia dell’imperatore, tra i conquistatori di Buda domata e in fiamme; il che, naturalmente, richiede una pennellata “cosmetica” che possa rendere conto ai lettori (e agli ascoltatori) di questa ingiustificata e problematica assenza. L’astuto Saffi individua questa possibilità di cosmesi letteraria appunto nell’allusione al trionfo de loinh: «Leopoldo Imperatore», sostiene il predicatore nelle battute finali del suo discorso, «trionfò de’ suoi nemici, perché a suo prò combatte la Giustizia, non mai vinto senza frode, non mai vincitore senza ragione; nella espugnazione di Buda non venne, non vide, mà vinse, perche trionfano di lontano i consigli, & alla forza del suono, non alla presenza delle Trombe s’ascrive la sovversione di Gerico»49. 3. Tra «San Giovanni» e «Giulio Cesare»: Giovanni III Sobieski Nel panorama della letteratura encomiastica viennese nessun personaggio – non il papa, né l’imperatore – diviene oggetto di sincera ammirazione, di elogio appassionato, quanto il re polacco Giovanni III Sobieski (1624-1696)50. Per comprendere il ruolo di primissimo piano che la sua figura, quasi sovrumana e semidivina, rivestì nella produzione italiana del tempo basti pensare al consistente numero di componimenti a lui dedicati: una consistenza che ha indotto alcuni studiosi a concentrare l’attenzione sull’allestimento di nutrite bibliografie “sobiesciane”, aperte al contesto europeo oltre che a quello italiano, le quali potessero adeguatamente gettar luce sull’estesione in senso bibliografico di uno

SAFFI, La Caduta di Gerico, cit., p. 14. Il rinvio va agli studi di G. PLATANIA: La Polonia di Giovanni Sobieski e “l’infedele turco” nelle inedite carte di Tommaso Talenti segretario regio, in L’Europa centro-orientale e il pericolo turco, cit., pp. 133-172; ID., Diplomazia e guerra turca nel XVII secolo. La politica diplomatica polacca e la “lunga guerra turca” (1673-1683), in I Turchi, il Mediterraneo e l’Europa, cit., pp. 242-268; ID., Venimus, vidimus et Deus vicit. Dai Sobieski ai Wettin, cit. Cfr. inoltre J. GIEROWSKI, Da Chocim a Vienna, in Giovanni Sobieski e il terzo centenario della riscossa di Vienna, cit., pp. 15-28; J. W. WOS, Giovanni III Sobieski e la battaglia di Vienna (12 settembre 1683), presentazione di C. Violante, Roma, Fondazione Giovanni Paolo II, 1984 (ora in ID., La Polonia. Studi storici, introduzione di P. Bellini, Pisa, Giardini, 1992, pp. 153-177). Riproduco in appendice alcuni significativi ritratti di Giovanni Sobieski. Alexandre Jan Tricius lo ritrae assieme al figlio Jakub che, appena diciassettenne, partecipò con lui alla battaglia del Kahlemberg (FIG. 17). Jan Matejko lo raffigura in armatura, con in mano lo scettro regale e il bastone del comando, mentre alle sue spalle campeggiano, a simboleggiare la sua fede e il suo valore, le scritte «Roma» e «Vindobona» (FIG. 18). Infine riporto i due ritratti di Jerzy Siemiginowski-Eleuter, che lo ritraggono entrambi in veste di guerriero, con chiare allusioni alla sua gloria militare (FIGG. 19-20). 49

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dei soggetti poetici più eseguiti in assoluto51. Si tratta tuttavia di contributi che spesso si risolvono nella mera indicazione tassonomica, e che non individuano, neppure a grandi linee, gli snodi tematici essenziali della raffigurazione dell’eroe viennese. Persino lo studio monografico per molti aspetti più prezioso (e più ambizioso) non esula dal solco di una linea di ricerca soprattutto elencativa, talvolta descrittiva, quasi mai interpretativa. Eppure la ricchezza, nei toni e nelle immagini, dei rimandi che i poeti dell’epoca intesero instaurare nelle loro lodi al re polacco costituisce un percorso d’indagine di indubbio interesse. In primo luogo – nell’ambito di quel collegamento, ideale e testuale, tra i fatti viennesi e la vittoria di Lepanto che più volte si è sottolineato in qeste pagine – va osservato che non sfuggì ai poeti del tempo la possibilità di creare una liaison nominale, netta e immediatamente individuabile, con l’eroe del successo lepantino, Don Giovanni d’Austria. Il motivo evangelico, in sostanza, rintracciabile già nel nome dei due eroi, era fin troppo evidente: e le prime parole del Vangelo di Giovanni («fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Johannes», 1:6), riferite nei due frangenti a entrambi gli eroi, non potevano che sancire, ancora una volta, l’idea del combattente celeste e semidivino, inviato dalla divinità sulla terra per proteggere il popolo cristiano e favorire la vittoria contro gli infedeli. Nel contesto lepantino il motivo è rintracciabile, per fare un esempio, nella ricostruzione della battaglia vergata da Girolamo Diedo: «Uditola [la notizia della vittoria] il buon Pio V, rivoltossi a Dio: e poi corso col pensiero al molto felice signor don Giovanni, generalissimo della Lega, al suo nome accennando disse: Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Joannes»52. Analogamente, come segnala Cardini53, il medesimo motivo si ritrova anche nel contesto viennese, in riferimento al re di Polonia, sia nell’ambito dell’encomiastica e della gratulatoria latina (come in Francesco Grisendi: «Tunc vox prò Christo auditur; nunc audio: ab Alto / Numine, Ioannis nomine, missus homo est»54) che nell’ambito della produzione celebrativa in lingua: 51 S. CIAMPI, Sobesciade italiana. Lettere militari con un piano di riforma dell’esercito polacco del re Giovanni Sobiescki ed altre de’ suoi segretari italiani, Firenze, presso Borghi e Compagni all’Insegna dei Quattro Classici Italiani, 1830 (contiene, alle pp. 81 sgg., una Biblioteca e Galleria Sobesciana in Italia); BILÌŃSKI, Giovanni III Sobieski tra Campidoglio, Vaticano e plebe romana, cit.; ID., Le glorie di Giovanni III Sobieski vincitore a Vienna, cit.; ID., Sobiesciana Romana (Monumenti e Ricordi letterari), cit.; R. C. LEWAŃSKI, Cenni d’iconografia sobieskiana in Italia e Bibliografia sobieskiana in Italia, in Giovanni Sobieski e il terzo centenario della riscossa di Vienna, cit., rispettivamente alle pp. 243-249 e 269-310. 52 Cito da Lettera di Girolamo Diedo a Marc’Antonio Barbaro, nella quale si descrive la battaglia di Lepanto, in Arte militare, da varii autori. Volume unico. Venezia, co’ Tipi del Gondoliere, MDCCCXL, pp. 297-348: 346-347. Cfr. TURCHI, Riflessi letterari in Italia della battaglia di Lepanto, cit., pp. 402-406. 53 Cfr. CARDINI, Europa e Islam, cit., p. 238. 54 GRISENDI, De Ioanne III Poloniae Rege et Columba supra eius Exercitum volitante. Epigramma, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 331.

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Salvatore Canneto O nato à riparar del Cielo i danni, Scelto là sù per custodir la Fede, Ne l’opre emulator, ne’ pregi Erede Del diletto di Cristo altro Giovanni. Involto Quei fra pescarecci panni Facea de l’onde in sen mistiche prede; E Tu cinto d’acciar ti stendi al piede In mar di sangue i barbari Tiranni. Discepol’Egli, e Tu Campion la strada Spianasti al vero Sol tra Mostri orrendi: Quindi l’eccelso Augello ad ambi aggrada. Illustre Emulator di Lui ti rendi, Egli trattò la Penna, e tu la Spada: Il Vangelo Egli scrisse, e Tu ‘l difendi55.

In alcuni casi, il riferimento nominale – originariamente evangelico – si allarga e si amplifica, fino a inglobare un più ampio motivo, che potremmo definire “giovanneo”. Le sante qualità dei più celebri “Giovanni” della storia religiosa sembrano infatti fluire e concretizzarsi nuovamente nell’eroe di Vienna: questi si è dimostrato abile a trattare, in nome della religione, la «spada» e l’«acciaro», così come essi avevano saputo trattare, sempre ai fini dell’evangelizzazione ecumenica, la «lingua» e la «penna»: Venne [Sobieski], e de i due Giovanni a prò di Christo, Del Precursore insieme, e del più Caro, Giovanni anch’egli imitator fù visto. Quei de la Fè sostegni, & Ei riparo, Mà tutti de la Fè diero in acquisto Un la Lingua, un la Penna, & un l’Acciaro56.

Accanto a questi motivi di ispirazione latamente religiosa – e benché, bisogna ribadire, sia difficile separare in questi testi la dimensione teleologico-religiosa da quella laica e/o storica – ampio risalto acquista poi un motivo encomiastico di tipo più squisitamente storico e marziale: la lode della tempestività dell’atto bellico, ulteriore segno del favore divino, e dunque la lode del comandante che è in grado di far eseguire una fulminea, imprevista e per questo vittoriosa operazione militare. Si tratta, in sostanza, del «Veni, vidi, vici» che Giulio Cesare pronunciò dopo la vittoria sui Pontici di Farnace nel 47 a.C. (riportato in

55 Anonimo, Al medesimo [Giovanni III], in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 20. 56 DURANTI, Per la Maestà del Rè di Polonia, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 151.

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Plutarco, Cesare, L, 6); quell’espressione che l’imperatore Carlo V, debellati i principi luterani di Sassonia nella battaglia di Mühlberg del 1546, modulò in «Veni, vidi, et Dominus Deus vicit»57 e che diversi poeti lepantini adoperarono, qualche anno dopo, come lapidaria espressione dell’efficace fulmineità dell’azione cristiana contro il nemico58; quell’espressione, infine, che lo stesso Giovanni Sobieski adoperò nella lettera in cui dava al pontefice il fausto annuncio della definitiva vittoria di Vienna 59: «Venimus, Vidimus: Deus vicit. Assentisca V. Santità, come la supplico, ricever benignamente per novel testimone del mio filiale ossequio l’avviso che le porgo della gran vittoria conceduta dalla Maestà divina a tutto il cristianesimo»60. Diverse appaiono le tipologie modulative di questo topos nel repertorio viennese. Un anonimo poeta, ad esempio, lo colloca in cima alla successione ternaria degli eroi (Starembergh, Lorena, Sobieski), nell’ultimo verso della terzina del sonetto, in fedele traduzione del dettato cesariano («Ernesto sorse, e l’Aggressor respinse: / Carlo minaccia, e sterminar lo vuole; / venne il Sarmato Rege, e vidde, e vinse»)61. Gentile da Martone e Filicaia si dimostrano invece più fedeli all’espressione carolina-sobiesciana, che prendeva spunto dal motto cesariano per stornare sulla divinità il merito della vittoria: «Io con pochi soldati, / se venni, hò visto; e se fù vinto il Trace, / di Dio fù l’opra, di mia destra audace»62; «Ond’è, ch’i’ grido, e griderò: Giugnesti, / guerreggiasti, vincesti, / o Re famoso, ò Campion forte, e pio: / per Dio vincesti, e per te vinse Iddio»63. Un altro poeta anonimo, infine, sviluppa il motivo in senso formale: alla citazione letterale («Io venni, vidi, e vinsi ardua Fortuna») segue lo sviluppo dei tre elementi verbali sul piano di quella rappresentazione oppositiva tanto cara all’immaginazione poetica del tempo («Venni, e fui Marte a’ Barbari Ottomani; / Vidi, e fui Sole à impallidir la Luna; / Vinsi, e fui Giove a fulminar Titani»)64.

BEECHING, La battaglia di Lepanto, cit., p. 10. MAMMANA, Lèpanto. Rime per la vittoria sul turco, cit., p. 108, in part. la nota 222, in cui sono riportati diversi esempi di riferimento poetico a questo motivo. 59 BILÌŃSKI, Le glorie di Giovanni Sobieski, cit., pp. 6 e 209-210. 60 CIAMPI, Sobesciade italiana, cit., p. 75. 61 Anonimo Il Sole guerriero, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 24. 62 GENTILE, La Congiura fallita, cit., ode terza, p. 38. 63 FILICAIA, Alla Sacra Real Maestà di Giovanni III Rè di Pollonia, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., p. 41. 64 Anonimo, In occasione del soccorso dato dal Gloriosissimo Re di Polonia alla Città di Vienna invasa da’ Turchi: Anagramma. «Giovanni Re di Polonia. Io son Gloria di Vienna». Con senso misterioso, e fatale muta questo Anagramma il P, in S, le quali due lettere altro non devono significare, che Piazza soccorsa, e che Polonia soccorre, in L’Infedeltà Musulmana depressa dalla Gloriosissima, e Invittissima Republica di Venezia, et altri Principi. Compositioni Poetiche raccolte, e dedicate all’Eminentiss: & Reverendiss: Sig. Cardinal 57

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Naturalmente il confronto tra le figure di Giovanni Sobieski e di Giulio Cesare non si limita solo all’allusione o alla menzione diretta del proverbiale motto. Stefano Pignatelli, per esempio, istituiva nel suo Ragionamento un paragone secondo il quale il Romano doveva necessariamente cedere la palma al Polacco per l’acume strategico e l’ardito coraggio dimostrato in battaglia65. Un paragone che viene ripreso e ampliato, per riportare solo un esempio tra i più significativi, in un sonetto di Giovanni Antonio Magnani, significativamente intitolato L’Invittissimo Rè di Polonia togliendo la Bandiera Turchesca, si fà maggiore di Giulio Cesare il più glorioso vincitore delle Spagne: Va’ Tu, che cento Marti accogli in seno, Rè (ch’Io più dir non so) Rè di Te stesso, Vanne, e fa’ bere entro a l’Austriaco Reno Al Vessillo Lunato il fio promesso. Va’, che di Giulio il gran valore è meno Al tuo valor paragonato appresso, Vins’egli è ver di Tirannia ripieno; Mà ‘l debellar Tiranni è à Te concesso. Egli rintuzzi al Vespro Asta rubella, Che ne l’Occaso il suo valor s’imbruna, Se l’Aurora da Te poi si debella. Mà quì maggior disparità s’aduna; Esso morto sul Ciel porta una Stella, Tu vivo al Turco Ciel togli la Luna66.

Un’altra insistenza poetica che risalta, per la frequenza della sua attestazione, nel panorama encomiastico viennese riguarda un aspetto piuttosto interessante della ricostruzione della figura di Giovanni Sobieski: i numerosi richiami al «merito» del personaggio, quel sincretismo di capacità individuale e successo oggettivo che gli garantì, ben prima dei gloriosi fatti viennesi, l’elezione al trono e l’acquisizione della dignità regale. Si trattava infatti – e anche questo è un dato storico accertato e accettato – di un’elezione e di un’acquisizione conseguite “sul campo”, grazie esclusivamente alle capacità e virtù militari che Sobieski aveva dimostrato nel corso di un’intera esistenza trascorsa nel tentativo di arginare (e rintuzzare) la minaccia militare turca e tartara ai confini sudorientali del regno di Polonia – dapprima da hetman (maresciallo) e in seguito

Panciatici dal Co: Andrea Zabarella Nobile Padovano. In Padova, MDCXCIII. Nella Stamperia del Seminario. Con licenza de’ Superiori cit., p. 37 (seconda parte della già citata raccolta allestita da Andrea Zabarella, i Trionfi di Parnaso per l’Eresia flagellata dalla Destra Insuperabile di Ludovico XIV il Grande). 65 PIGNATELLI, I Trionfi delle Armi Cristiane, cit., p. 48. 66 Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 145.

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da re – e che gli valsero il soprannome, impostogli dagli sconcertati Ottomani, di «Leone di Lehistan» (cioè di Polonia, in turco)67. È appunto su questa sorta di “consuetudine” alla vittoria e allo sterminio turco che Bartolomeo Beverini intesse un motivo poetico encomiastico, incentrato sul richiamo topico alla «Luna» e alle reiterate prove di virtù guerriera del condottiero: E al suo venir, come al venir del giorno Piega la Luna impallidito il corno. Riconosce la destra Ne’ campi di Podolia al gran conflitto Di palme à lei rapite ancora onusta: Rammenta la maestra Nobil’arte di guerra, e il core invitto Cui già non vide egual l’età vetusta: Riconosce l’augusta Maestosa sembianza, e ‘l noto braccio, E le trema nel sen il cor di ghiaccio68.

L’elezione di Sobieski a re di Polonia e granduca di Lituania avvenne in un momento particolarmente delicato della storia polacca, appena qualche mese dopo il successo ottenuto dall’armata da lui condotta sui turco-tartari nell’importante battaglia di Chocim (1673) in Podolia; in un momento, inoltre, in cui l’alleanza franco-polacca – o meglio, l’orbita satellitare della Polonia nella sfera d’influenza francese – veniva messa in crisi dai diversi interessi dei grandi magnati del regno, rischiando così di aprire pericolose fratture politiche interne, delle quali il tradizionale nemico, sempre vigile e in agguato appena oltre la linea di confine, avrebbe potuto approfittare, e forse in maniera irreparabile. La felice conclusione degli eventi viennesi sembrò quindi concretizzare nell’immaginario cristiano del tempo, definitivamente e inequivocabilmente, l’idea del re prudente e coraggioso, saggio e valoroso, del combattente per la Fede la cui giusta elezione al trono regale era stata prevista e favorita dal Cielo per la difesa della Cristianità pericolante69. Anche in questo caso i poeti dimostrano una mol67 Secondo Jerzy Miziolek, Giovanni III Sobieski – «il più grande condottiero tra i re del paese», «eroe per antonomasia» e «prototipo del perfetto capitano» – «ebbe anche la glorificazione più piena e complessa della storia della monarchia polacca» (J. MIZIOLEK, L’ideale classico nelle raffigurazioni dei re di Polonia come capitani (secoli XVI-XVII), in Il “Perfetto Capitano”, cit., pp. 401-447). 68 BEVERINI, Nella Liberazione dell’Imperial Città di Vienna, cit., p. 7 69 L’intrigo politico dei francesi alla Corte polacca, i dubbi politici di Sobieski, il suo valore sul campo di battaglia, la fede religiosa, l’amore per Maria Casimira: sono tutti elementi su cui è costruito un romanzo polacco che ha avuto, di recente, un certo successo editoriale anche in Italia: J. DOBRACZYNSKI, Sotto le mura di Vienna. Il romanzo di Giovanni Sobieski, Brescia, Morcelliana, 1985 (poi 20042 e 20063).

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teplice possibilità declinativa, generalmente accomunata dal riferimento agli omologhi concetti di «valore» («Teatro a le tue Glorie è un Mondo intero, / che se il valor seppe donarti un Regno / potrà meglio la Fè darti un’Impero»70), «virtù» («Ben si sà, che virtude al Regio Marte / sol diè Scettro a la man, Serto a le chiome»71), e «braccio» vittorioso («il più temuto in guerra, e in pace, / Sarmazio Rè, che col tuo braccio solo / ti festi del regnar degno, e capace»72). Talvolta, come nei testi di Filicaia e Domenico Bartoli, l’immagine trova un ampio sviluppo, connotato in chiave encomiastica, volto sostanzialmente a ripercorrere l’intera carriera dell’eroe e quasi a giustificarne la presenza in quel particolare teatro di scontro: Non perche Re se tu, sì grande sei; Ma per te cresce, e in maggior pregio sale La Maestà Regale: Apre sorte al regnar più d’una strada; Altri al merto degli Avi, altri al natale, Altri ‘l debbe alla spada; Tu a te medesimo, e a tua virtute il dei. Chi è, che con tai passi al soglio vada? Quando in Re fosti eletto, Voto fortuna a tuo favor non diede, Non palliata fede, Non timor cieco; ma verace affetto, Ma puro merto, e schietto. Fatt’avean tue prodezze occulto patto Col Regno, e fosti Re pria d’esser fatto 73. Forse quel, che s’inostra Di Turco sangue, e fulmina qual Giove, È di Polonia il coronato Marte? Certo non posso celebrare in Carte Col suon di roze rime Quella destra sublime,

70 SPAGNA, All’Eroe del nostro Secolo Giovanni III Rè di Polonia per la insigne Vittoria ottenuta de’ tre Nemici Visir, Teclì, e Budiani, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 16. 71 SPINOLA, Vienna assediata dal Turco, difesa da Ernesto Conte di Starembergh, e liberata dall’Armi di Leopoldo Primo Cesare Augusto, e Giovanni III Subieski Rè di Polonia, ivi, pp. 131. 72 Anonimo, Nel Nome immortale dell’istesso [Giovanni III], perche l’Armi di S.M. abbiano partorita la Vittoria al Mondo Cristiano, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 39. 73 FILICAIA, Alla Sacra Real Maestà di Giovanni III Rè di Pollonia, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., p. 36 (corsivi miei).

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La rappresentazione dei protagonisti Che nel mieter trionfi è già maestra. Mà che dico la destra? Senza che vibri lancia, ò piombo scocchi, L’esterminio Ottoman porta negli occhi. Nacque, e crebbe alle palme: il suo diporto Fù trattar aste, e faticar destrieri; Temprò col senno il marzial coraggio. Sudò del Sole al raggio; Gelò d’inverno; a gl’impeti guerrieri Pace non diè pur d’un momento corto; Di prische età, dal valor proprio scorto Pareggiò le memorie, Adombrò le vittorie; D’estinti alzò talor funesto monte; E se la nobil fronte Cinse, acclamato, di Real diadema, Caso non fù, mà sua virtù suprema 74.

Altri motivi che colpirono la fantasia dei poeti e che vengono insistentemente richiamati nei loro testi ruotano, potremmo dire, attorno a un concetto fondamentale e già individuato anche nella raffigurazione dei protagonisti precedenti, Innocenzo e Leopoldo: la pietas, la devozione – in questo caso connotata in chiave decisamente eroica – di re Giovanni Sobieski. Spesso questi viene ritratto in una sorta di posa “plastica”, nel momento in cui, deponendo lo scettro e la corona ai piedi dell’altare, cinge la corazza per correre in soccorso di Vienna, mantenendo fede, in questo modo, al patto di alleanza con l’Imperatore e mettendo a repentaglio non solo la propria real persona, ma anche quella del figlio primogenito Jakub, che lo seguì nella spedizione e al quale furono dedicati numerosi componimenti, sui quali non mi soffermerò, e che compare spesso accanto al genitore nelle raffigurazioni iconografiche. Per esempio in Filicaia, per il quale la lode del sovrano polacco oltrepassa i confini dell’umana consuetudine per le motivazioni che lo hanno spinto alla scelta “interventista”: Sobieski «i fianchi / d’acciar vestì» non perché spinto da ambizione o vanagloria («non per tema, o sdegno, / non per accrescer regno, / non per mandar dall’una all’altra Dori / tuo nobil grido oltre l’Erculeo segno»), bensì per devozione e afflato religioso («ma perche Dio s’adori, / e al divin culto adorator non manchi»). È stato «con profondo consiglio», con inaudito esempio di altruismo che egli, «per salvar l’altrui Regno», ha abbandonato il proprio («il tuo lasciasti, / e ‘l capo tuo donasti / per la Fe, per l’onore al gran periglio»), mettendo a repentaglio anche la sicurezza del figlio («E ‘l figlio istesso, il figlio / della gloria, e

74 B ARTOLI , La superbia Ottomana abbassata, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 48-49 (corsivi miei).

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del rischio a te consorte / teco menasti ad affrontar la morte»)75. Analogamente in Gentile da Martone: non appena ricevuta la notizia dell’estremo pericolo di Vienna e della Cristianità, Sobieski «le giuste imprese sue manda in oblio», e si dispone al sacrificio, anzi al martirio («Sol nella Fede acceso, / che per quella morir già s’è disposto»); deposti tutti gli ornamenti che conferiscono l’autorità regale alla sua persona («e dell’Altare genuflesso à canto, / si spoglia il Regio Manto, / la Porpora, lo Scettro, e la Corona»), il pio re si rivolge direttamente a Dio, levando una preghiera in cui, secondo il più genuino spirito crociato, la morte in battaglia non rappresenta un esito meno glorioso del ritorno da vincitore: Queste Insegne mortali, Che per la tua bontade ottenni à sorte, A te consacro, à te dono, e confido: S’haverò Dì fatali, O se trà l’armi Io abbatterò la Morte, Se tornerò al mio lido, Quì le ripigliarò dal tuo Ministro; Ma se incontro sinistro Succederà per me, sò che più belle, Tua mercè, l’haverò ricche di Stelle76.

Interamente costruito sulla meditazione del sovrano-guerriero circa l’opportunità di partire per Vienna, in una sorta di colloquio con se stesso, è costruito un sonetto di Giuseppe Margalli. L’autore immagina che l’eroe, rivolgendosi al «sordo suo Cor», incroci motivi legati alla prudenza politica (la vittoria turca a Vienna costituirebbe infatti un’ulteriore esposizione al pericolo per la Polonia) e alla sfera religiosa (la missione regale richiede anche la tutela del mondo cristiano) per persuadersi infine a partire: Sordo mio Cor, de l’Arabo Ladrone I barbari attentati ancor non odi? Forsi vuoi pria, ch’in disugual tenzone Frà ceppi Rodopei l’Austria s’annodi? Sai, che son le sue Palme, e le Corone A la Sarmazia tua Cipressi, e nodi; Vanne dunque à fugar d’Asia il Leone: Son de l’Ovil di Cristo i Rè Custodi.

75 FILICAIA, Alla Sacra Real Maestà di Giovanni III Rè di Pollonia, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., p. 45. 76 GENTILE, La Congiura fallita, cit., ode seconda, p. 26. Similmente in Giovanni Prati: «Io stesso, io stesso abandonato il Manto / di Rè mi spoglio, e ‘l dolce nome oblìo. / Chi combatte per Dio / certe hà le palme; il zelo è gran saetta: / grand’usbergo è la Fede» (PRATI, Il Trionfo di Cesare, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 186).

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La rappresentazione dei protagonisti Sì sì, mia Reggia fia Campo guerriero, Diadema l’elmo, e Scettro il brando mio, E per Soglio Regal serva il Destriero. Reggia, Scettro, Diadema, e Soglio oblio; Per sostener la Fè sprezzo ogn’impero: Rè sono, è ver, mà son Vassallo à Dio77.

Ma è forse nel Panegirico a Giovanni III di Giovanni Cosimo Villifranchi che è possibile rinvenire un ampio sviluppo del tema dell’indecisione e dei dubbi che accompagnarono la scelta di Sobieski, eseguito tuttavia da un angolo prospettico originale e poco rilevato nei testi coevi. Come è stato infatti segnalato, il Panegirico differisce dalle consuete poesie sobiesciane: mentre negli altri testi veniva messo in rilievo il carattere “guerriero” del re polacco, il componimento di Villifranchi contiene alcuni elementi che riflettono la sua predilezione teatrale, evidente nelle meditazioni del re che si dibatte tra diversi dubbi di natura costituzionale, politica e diplomatica, che toccano da una parte la sua posizione personale e dall’altra si riferiscono alla diplomazia e politica polacca in generale78. Altrove la devozione religiosa di Giovanni III viene richiamata in maniera più puntuale e specifica, e si sintetizza in quella devozione mariana che, come si è visto, rientrava con maggior aderenza nel contesto simbolico-allusivo della secolare lotta antiturca. Significativa in questo senso, dal punto di vista iconografico, è un’incisione encomiastica anonima, raffigurante la battaglia di Chocim, che testimonia come il culto dell Vergine costituisse un aspetto caratteristico della personalità del Sobieski già negli anni precedenti la battaglia di Vienna (FIG. 21). I seguenti esempi testimoniano invece del medesimo culto in riferimento alle vicende dell’assedio viennese, sia nell’invocazione alla protezione di Maria nel momento della partenza del re (come in un sonetto di Gasparo Albruini), sia nella rivendicazione della vittoria – già conseguita – all’intervento della Vergine (come in un sonetto di Bartolomeo Duranti): Ecco il Manto, e lo Scettro: Io Rè non sono Se pria non corro à sostener la Fede; Patria, Regno, Consorte, Io v’abbandono: In Vienna solo il mio pensier risiede; 77 G. MARGALLI, Giovanni III Rè di Polonia udito l’Assedio di Vienna, così persuade a sé stesso il soccorso, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 224. 78 Raccolta di opuscoli del dottore Gio. Cosimo Villifranchi. In Firenze: appresso Giuseppe Manni, MDCCXXXVII. Con Licenza de’ Superiori. Sull’autore cfr. EULISTO MACARIANO, Giovan Cosimo Villifranchi, in Notizie istoriche degli Arcadi morti, cit., tomo terzo, pp. 334-339 (il biografo riporta, alle pp. 335-336, la lettera di ringraziamento che Sobieski indirizzò all’autore per le lodi contenute nel Panegirico); R. MAFFEI, Tre volterrani: Enrico Ormanni, Giovan Cosimo Villifranchi, Mario Guarnacci, Pisa, Tip. Nistri e C., 1881. Su questi aspetti cfr. BILIŃSKI, Le glorie di Giovanni III Sobieski, cit., pp. 83-92.

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Salvatore Canneto Vergine, à cui l’Empiro è Sede, e Trono, Tu difendi il mio Trono, e la mia Sede: La Vittoria da Te richieggo in dono, Che sò ben, che la Luna hai sotto al piede. Disse, corse, soccorse, e vinse, à segno, Che in sostener di tanti Armati il pondo Li diè sola Maria forza, & ingegno. Io spero più, né la ragione ascondo: Che chi in man di Maria depone un Regno, Da le mano di Maria riceve un Mondo79. Del Tracio ardir l’orribile periglio Maria tu col mio braccio hai reso infranto, Et io l’acciar di sangue ancor vermiglio, Mando a tuoi piè, come già sei del manto. L’Austria già oppressa io rasciuttai dal pianto, Io de l’Aquile sue sciogliei l’artiglio, E di tal pregio a me doveasi il vanto, Mentre, s’io son Giovanni, io son tuo figlio. Io la Luna atterrai, Tù la premesti, Ma di tue grazie a l’immortal memoria, S’io quei mostri investij, tu gli occidesti. D’ogni mia gloria infine è tua la gloria, Io strinsi il brando, e tu la man reggesti, Io l’Istromento fui, tu la Vittoria80.

Tutti i motivi encomiastici sopra individuati compaiono ancora – a testimonianza della loro pregnanza e vitalità – in un testo del 1708, la cantata La Vittoria della Fede, composta da Carlo Sigismondo Capece in onore di Maria Casimira Regina di Polonia, vedova di Giovanni III Sobieski, allora residente a Roma81. L’occasione era ufficiale: il componimento fu infatti eseguito la sera del 12 settembre, nel venticinquesimo anniversario della vittoria viennese, e celebrava la vittoria sui Turchi secondo un processo di “osmosi” encomiasticotematica che prevedeva da una parte il richiamo alla devozione mariana del re; mentre, dall’altra, il rinvio al “Santo Nome di Maria” – la festività che nel calendario ecclesiastico ricorre proprio il 12 settembre in onore della vittoria –

G. ALBRUINI, Il Medesimo Rè di Polonia depone in mano di Maria Vergine lo Scettro, ed il Regno, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 16 (poi ristampato, con alcune significative varianti, in L’Infedeltà Musulmana depressa, cit., p. 33). 80 DURANTI, Suppone l’Autore, che la Maestà del Rè di Polonia dopo la vittoria ottenuta così parli alla Vergine mandandole in regalo la spada, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 150. 81 Cfr. A. CAMETTI, Carlo Sigismondo Capeci (1652-1728), Alessandro e Domenico Scarlatti e la Regina di Polonia in Roma, in «Musica d’oggi», XIII (1931), 2, pp. 55-64. 79

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diventava a sua volta motivo laudativo attualizzante nel suo riferirsi al nome stesso della dedicataria dell’opera: VITTORIA Quando in un mar di Sangue A tramontar costrinsi L’Odrisia Luna pallida, & esangue, Non fui io, che allor vinsi, Fù Colei, che calcar col sacro piede La Luna ognor si vede. FEDE Quella, che già fù Madre Al mio Nume, al mio Sol, quella fù ancora D’un sì bel dì la fortunata Aurora: Delle nemiche Squadre Quella atterrò l’orgoglio Del vacillante Impero, Quella difese, e poi disciolse il Soglio. […] [FEDE] Quando mentre premea le vinte Squadre De’ Sarmati robusti il Rè feroce, E i lunati Vessilli Del Corridor veloce Calpestavan le piante; D’un’abbattuta Mole Tra le macerie infrante Discoprì di Maria la bella Imago, In cui quasi presago De’ suoi trionfi, e de gli hostili danni Vaticinò il pennel con tali note; IN QUESTA IMAGO VINCERAI GIOVANNI, E con egual stupore Ne l’altro lato espresse GIOVANNI IN QUESTA IMAGO È VINCITORE82.

Infine – e, forse, soprattutto – l’immaginario cristiano dell’epoca fu colpito dalla raffigurazione e dal ricordo del gesto che sancì in maniera inequivocabile 82 La Vittoria della Fede Componimento per Musica di Carlo Sigismondo Capece fatto cantare nel Palazzo della Regina di Pollonia la Sera delli 12 Settembre 1708. In Roma, per Antonio de’ Rossi alla Piazza di Ceri. Con licenza de’ Superiori. Sull’arrivo e permanenza dei Sobieski a Roma cfr. G. ANGELINI, I Sobiesky e gli Stuards in Roma. Parte I. Giovanni III, in «La Rassegna Italiana», a. III (1883), v. III, fasc. 2, pp. 145-156; Parte II. I Sobiesky in Roma, ivi, pp. 157-168; G. PLATANIA, Gli ultimi Sobieski e Roma, cit.

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la strepitosa vittoria di Vienna; un gesto che si incise nella memoria collettiva e che, ancora per lungo tempo, costituì il soggetto privilegiato della raffigurazione di Giovanni III: l’immagine del re che conquista lo Stendardo del Profeta e lo invia al papa, per mezzo del segretario Talenti, assieme al messaggio della vittoria83, come attestano numerose rappresentazioni iconografiche e pittoriche coeve e come non mancavano di ricordare, ancora due secoli dopo l’evento, gli artisti polacchi Jan Matejko (1838-1893), e Juliusz Kossak (1824-1899), le cui opere riproduco in appendice (FIGG. 22-25). 4. L’«arte della guerra» del «novello Buglione»: il duca Carlo V di Lorena La carriera di Carlo Leopoldo Nicola Sisto, quinto duca di Lorena e duca di Bar (1643-1690) si svolse tutta sotto le insegne dell’Impero austriaco. Privato non del titolo, ma del possesso effettivo dei territori che gli spettavano per diritto dinastico – durante la sua reggenza la Lorena era stata invasa dalle truppe di Luigi XIV – al giovane duca non rimase altra scelta che arruolarsi nell’esercito imperiale. Da questo punto di vista la sua vicenda sembrerebbe anticipare, nelle sue linee generali, quella del giovane Eugenio di Savoia, successiva di un ventennio. Le due biografie manifestano infatti molti punti di contatto. Entrambi si arruolarono tra gli imperiali inizialmente più per un’aperta opposizione al Re Sole che non per sincera fedeltà asburgica, dal momento che i loro vincoli dinastici avrebbero all’epoca dovuto propendere per un deciso filofrancesismo. Carlo sostenne il proprio battesimo del fuoco appena ventenne, sotto la guida del grande generale italiano Raimondo Montecuccoli (1609-1680), nella battaglia di San Gottardo del 1° agosto 1664; così come il principe Eugenio l’avrebbe avuta, vent’anni dopo, anch’egli appena ventenne, nella battaglia di Vienna, sotto il comando del Lorena. Questi si distinse, col tempo, come ufficiale di cavalleria, e seguì il cursus honorum militare fino a raggiungere il grado supremo di feldmaresciallo proprio nel 1683, nei giorni dell’assedio turco; così come il principe Eugenio, cui venne inizialmente affidato il comando di una compagnia di dragoni e che verrà anch’egli investito del comando supremo delle armate austriache in occasione della nuova avanzata ottomana del 1697, che culminò nella battaglia di Zenta (quest’ultima spesso ricordata come «gloria Christianorum»). Tra gli altri aspetti peculiari della biografia del duca va sottolineato che la sua fedeltà alla Casa d’Asburgo venne poi cementata attraverso il matrimonio con Eleonora d’Austria, sorella dell’imperatore Leopoldo: un matri-

Lettera scritta dalla Maestà del Rè di Pollonia alla Santità di N. Sign. Innocenzo XI. E dell’arrivo in Roma del Sig. Tomaso Talenti Secretario di Sua Maestà con lo Stendardo di Maometto. In Lucca. Per Iacinto Paci, 1683. 83

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monio da cui ebbe origine l’alleanza dinastica degli Asburgo-Lorena, la dinastia che avrebbe svolto, nei due secoli successivi, un ruolo non secondario nelle vicende politiche italiane. Carlo, infine, fu anche il candidato del partito imperiale, nel 1673-74, al trono di Polonia, vacante per la morte di Michał Korybut Wiśniowiecki: e in quell’occasione si trovò a competere con il suo futuro collega d’arme, Jan Sobieski, poi eletto re. L’importanza e il ruolo di attore protagonista di Carlo di Lorena, non solo in occasione della liberazione di Vienna del 1683, ma anche nella successiva guerra di liberazione dell’Ungheria, è incontestabile sul piano storico e, conseguentemente, su quello letterario. Fu sotto il suo comando – e in coordinazione con Massimiliano Emanuele di Baviera – che nel 1686 venne finalmente riconquistata al Cristianesimo la roccaforte di Buda, da un secolo e mezzo in mano agli Ottomani: un evento che, come ho già avuto modo di sottolineare, suscitò nei contemporanei un entusiasmo forse non inferiore a quello suscitato dalla notizia dell’insperata liberazione di Vienna84. La produzione poetica relativa a questo personaggio si sofferma in particolare su due aspetti. In primo luogo, quello che ricorre e risalta con più insistenza – quello che, si potrebbe aggiungere, risulta provvisto di una maggiore aderenza alla realtà storica – riguarda l’elogio delle sue competenze marziali, della sua «arte della guerra». Interessanti per la competenza “tattico-operativa” sono ad esempio i passi che nel Ragionamento Stefano Pignatelli dedica alla condotta militare del feldmaresciallo austriaco, allertato dal sopraggiungere dell’esercito ottomano nei dintorni di Vienna. Alla guida di un’armata nettamente inferiore per numero di soldati e per equipaggiamento, e in attesa dei possibili rinforzi polacchi e tedeschi, Carlo di Lorena fu costretto dalle contingenze a quella che l’autore definisce una «memoranda Ritirata», una manovra di sganciamento e ripiego che – per quanto a prima vista poco coraggiosa – riuscì tuttavia a perse-

84 Si vedano per esempio Vera, e distinta relatione dell’infermità, morte, e funerali dell’Altezza Serenissima di Carlo Duca di Lorena [...] morto li 18. aprile 1690. Con tutte l’imprese fatte dal medesimo nella presente guerra contro il nemico della Santa Fede. In Roma, per Gio. Francesco Buagni. Si vendono in piazza Madama da Francesco Leone libraro, 1690; C. FRESCHOT, Vita di Carlo V Duca di Lorena, e di Bar, & c. Generalissimo dell’Armi Imperiali & c. Dedicata all’Illustriss., [...] Gio. Carlo Cristiano di Landas [...] In Milano, nella Reg. Due Corte, per Marc’Antonio Pandolfo Malatesta Stampatore Reg. Cam. 1692. Sul Freschot, giudicato uno «storico spesso superficiale e poco attendibile», cfr. PRETO, I servizi segreti di Venezia, cit., pp. 296-297 e p. 437. Per i rimandi biografici a Eugenio di Savoia, cfr. N. HENDERSON, Prince Eugen of Savoy, London, Weidenfeld & Nicolson, 1964 (trad. it.: Eugenio di Savoia. Un generale fra Italia, Francia e Austria: la storia di un grande «mercenario» europeo, Milano, Corbaccio, 2005); F. HERRE, Prinz Eugen. Europas heimlicher Herrscher, Stuttgart, Deutsche Verlags-AnstaltGmbH, 1997 (trad. it.: Eugenio di Savoia. Il condottiero, l’uomo, lo statista, Milano, Garzanti, 2001); C. PAOLETTI, Il principe Eugenio di Savoia, Roma, Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, 2001.

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guire gli scopi che si era proposta: salvare il grosso dell’esercito dalla completa distruzione; presidiare Vienna con un’adeguata guarnigione e con gli strumenti bellici necessari alla difesa; concedere il tempo necessario a scortare l’imperatore e la sua famiglia in salvo, fuori dalla città; presidiare i punti strategici di vitale importanza lungo il Danubio e lungo le principali vie di comunicazione; impegnare distaccamenti separati dell’esercito turco in scaramucce continue e logoranti per l’invasore. «Tanta è la gloria, e di pari il profitto, che colse il Duca di Loreno dalla sua immortal Ritirata», non può che concludere Pignatelli85. Anche se non in termini di «ritirata» – per quanto «memoranda» – il motivo della competenza logistica, della prudenza, della determinazione di Carlo di Lorena – di quelle qualità, insomma, che resero celebre il «Cunctator» per antonomasia, il dittatore romano Quinto Fabio Massimo, alle prese con l’invasione cartaginese dell’Italia – è ripreso da diversi poeti, i quali sembrano tracciare sul profilo del duca l’idea quasi “manualistica” del perfetto capitano d’armata che, in condizione di netta inferiorità, riesce a sostenere l’urto del nemico, ad attendere pazientemente, e a rintuzzarlo nel momento più propizio. Un poeta anonimo, ad esempio, manifesta il proprio «stupor novello» davanti alla perizia militare del duca («l’Eroe, che [...] l’Arti tutte di Guerra apprese, e i modi; / le cupe industrie, e gl’andamenti sodi»), indicata nel consueto contesto di emulazione e superamento del paragone classico alessandrino («Più d’Alessandro, e con minor Drappello. / Contra il fiero Ottoman, contra il Rubello / il senno oprando, e le lodate frodi»)86. Un altro autore anonimo celebra l’operare «da esperto» del duca, che condusse «à glorioso fine / la grand’Impresa», elencando la sostanziale correttezza delle sue scelte operative iniziali («Vide, e provide ogni accidente incerto: / munì le Mura al ferro ostil vicine; / al Nimico apportò stragi, e ruine, / e sul Fiume s’oppose à petto aperto»), le uniche in grado di condurre gli imperiali al successo finale («con maniere memorande, e conte / soccorse il Popol combattuto, e lasso; / e di gloria immortal cinse la fronte»)87. Non diversamente in Beverini, che elogia la rapida mobilità dell’armata di Carlo, capace di infastidire il nemico continuamente e continuamente disimpegnarsii («con valore & arte / l’assalita Città primo rinforza, / e con ugual virtù ne tragge il piede: / a la campagna riede, / e in mille luoghi, in mille guise al Campo / nemico assalitor serve d’inciampo»)88. Il motivo non sfugge nemmeno alla raffigurazione che di Carlo di Lorena costruisce Filicaia, in cui l’encomio dei «bellici artificj» e «di Guerrier gli ufficj» viene introdotto dal consueto rimando al motivo della «luce»:

85 86

p. 48. 87 88

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PIGNATELLI, I trionfi delle Armi Cristiane, cit., pp. 31-32. Anonimo, Al medesimo [Carlo], in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., Anonimo, Al medesimo, ivi, p. 52. BEVERINI, Nella Liberazione dell’Imperial Città di Vienna, cit., p. 7.

La rappresentazione dei protagonisti Ma sì bella è la luce Delle tue glorie, che l’ingordo audace Desio mi riconduce A vagheggiarla; e sebben’io non aggio Pupille forti a sostener di face Sì luminosa il raggio, Scorgo, che tu di gran Campione, e Duce Tutti adempiesti, e di Guerrier gli ufficj, E ‘l senno, e ‘l braccio, e i bellici artificj Tutti mettesti in opra, Per rimaner di sopra, E far bastion dell’Austria al fianco infermo, E vincer poi lo schermitor di schermo89.

Né quest’insistenza – forzata, forzosa, quasi esclusiva – sulle competenze militari di Carlo di Lorena può stupire, considerate le condizioni familiari e politiche in cui egli versava: titolare di un ducato invaso da forze nemiche, e dunque, in pratica, un duca “senza terra”, la lode della sua saggezza e prudenza belli ac domi sarebbe parsa per lo meno inopportuna, anche a poeti e letterati spronati all’atto scrittorio da una vena encomiastica decisamente non problematica. Da qui sembrerebbe dunque discendere la rilevanza statistica acquisita dal secondo motivo, anch’esso quantitativamente preponderante, rintracciabile nella produzione encomiastica relativa a Carlo di Lorena: il motivo dinastico, o meglio il motivo della discendenza da Goffredo di Buglione, duca di quella che nel sec. XI era definita Bassa Lorena, la cui signoria egli abbandonò quando, accogliendo l’invito di papa Urbano II, decise di imbracciare la Croce e partire per la Terrasanta. In sede letteraria, l’istituzione di un elemento encomiastico di questa tipologia consente, anzi quasi impone un ovvio rimando al poema tassiano («che se ugual sei [Carlo], ò à Noi dal Ciel mandato, / nel pugnar per la fede al tuo Buglione, / or che non viene à dir di Te un Torquato?»90). Si tratta inoltre di un rimando che si snoda su più livelli e si articola attraverso diversi codici allusivi, declinati in successione o più spesso in sovrapposizione: al personaggio storico “Goffredo”; al “Goffredo” letterario, protagonista della Liberata; al poema ispirato alla vittoriosa Crociata contro gli infedeli musulmani; al testo di una delle più alte creazioni letterarie italiane. Riporto di seguito alcuni esempi la cui cifra caratteristica è costituita da un’evidente omogeneità: si notino, in essi, oltre alla reiterata insistenza del più ampio motivo “goffrediano”, gli esibiti calchi verbali e sintagmatici dal primo canto della Liberata (come già notato a proposito delFILICAIA, All’Altezza Serenissima del Duca Carlo V di Lorena, in ID., Canzoni in occasione dell’Assedio, e Liberazione di Vienna, cit., p. 59. 90 Anonimo, Al medesimo, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 52. 89

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l’operetta giovanile di Apostolo Zeno, L’incendio veneto). Tra i più ricorrenti, spesso posti in evidenza in sede versale: il «popol misto» «d’Asia, e di Libia» che «s’armò»; l’«acquisto»; il celebre sintagma «col senno, e con la mano»; il «Sepolcro»; «l’armi pietose»; il «pio capitano», i quali sembrano quasi innalzare di un grado esponenziale la dimensione letteraria allusiva implicita al rimando. Del grand’Avo Buglion fama non tace L’Eroica impresa all’or, che il Popol misto D’Asia, e di Libia à lui s’oppose audace. Ei fè di gloria memorando acquisto: Mà se il Sepolcro ei liberò dal Trace; Salvi dal Trace Tù la Fè di Cristo91. Se già d’Asia, e di Libia il Popol misto Armossi a contrastar pio Capitano, Ch’ugualmente col Senno, e con la mano Fè de l’Urna negletta il Sacro Acquisto, De l’Avito Buglione ecco or s’è visto L’emol Nipote al Cesare Romano Liberar l’alta Reggia, e al Vaticano Trionfante serbar la Fè di Cristo92. Quegli è regal germoglio Del Magnanimo Eroe, che al grand’acquisto Già fè pellegrinar l’Armi Pietose, E l’Ottomano orgoglio Rintuzzerà sino à scoprir di Cristo Al pio fedel l’alte memorie ascose93. O del pio Cavalier, che su ‘l Giordano Portò le gloriose armi divote, Degno seguace, emulator Nipote, Del Campo Imperial Duce sovrano. [...] Segui felice il celebrato acquisto; Che son degli Avi tuoi degni Trofei Lasciar i Regni, e conquistarli a Christo94.

91 Anonimo, Al Serenissimo Duca Carlo di Lorena per la Vittoria ottenuta contra il Turco, ivi, p. 47. 92 Anonimo, All’Altezza Serenissima di Carlo Quinto Duca di Lorena, per la famosa difesa, e liberazione di Vienna dall’Essercito Ottomano, ivi, p. 87. 93 MELONCELLI, La Pietà Trionfante, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 107. 94 M. STRINATI, All’Altezza Serenissima di Carlo Duca di Lorena, ivi, p. 262.

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La rappresentazione dei protagonisti O risorto Goffredo, alto sostegno Di Cesarea Pietà, d’Augusti allori, Al Tuo valore, a i bellici furori Ritorna in Buda tributario un Regno. […] E fia d’un Pio Buglion certo conquisto Del rio Macone il soggiogar la Tomba, E ‘l gran Sepolcro liberar di Christo95.

Un sonetto anonimo riunisce in sé, oltre al motivo del rimando a Goffredo di Buglione («di Goffredo il Brando»), anche un altro significativo rimando storico, il quale, benché in termini quantitativamente inferiori, nondimeno fa la sua comparsa in diversi componimenti. Si tratta dell’associazione nominale tra Carlo di Lorena e un altro illustre “Carlo” del passato: l’imperatore “dei due Mondi”, Carlo V Asburgo («del Quinto Carlo il Cor guerriero»). Anche quest’ultimo fu – o meglio, venne in un modo o nell’altro considerato – un “eroe” della lotta antiturca («ambo terror de l’Ottomano Impero. [...] È sempre il Musulmano / da una Carlo domo, ò da un Buglione estinto»96). Fu infatti lui a donare, nel 1524, l’isola di Malta ai Cavalieri di San Giovanni (che da allora iniziarono a chiamarsi Cavalieri di Malta), dopo la loro cacciata da Rodi, così che potessero creare un nuovo centro nevralgico di resistenza (e offesa) alle vessazioni dei pirati barbareschi che scorazzavano per il Mediterraneo centro-occidentale (e che saranno protagonisti, nel 1565, di un altro memorando assedio, guidati dal Gran Maestro Jean de la Vallette). Fu sotto il suo regno, inoltre, e per sua decisione, che una delle capitali della pirateria barbaresca, Tunisi, venne temporaneamente occupata dalle forze cristiane (1535-1541). Fu infine sotto il suo regno, nel 1529, che i Turchi tentarono per la prima volta di assediare Vienna, e per la prima volta ne vennero respinti. In particolare l’allusione a quest’ultima vicenda sembra interessare maggiormente i cantori dei successi imperiali del 1683 e del 1686:

95 F. M. ABBATI, Al Serenissimo Duca Carlo V di Lorena per l’impresa di Buda, in Poesie di diversi Autori sopra la gloriosa Conquista fatta dall’Armi Cesaree della Real Città di Buda, cit., p. 57. Anche Filicaia non si sottrae all’obbligo del rimando («Oh come or mille, e mille / il tuo Goffredo in sen t’accende, e desta / generose faville! / Ei di Betlemme, e di Sion t’addita / l’alto retaggio»: FILICAIA, All’Altezza Serenissima di Carlo V Duca di Lorena, in ID., Canzoni in occasione dell’assedio, e liberazione di Vienna, cit., p. 63), mentre interamente intessuta sul motivo della discendenza di Carlo di Lorena da Goffredo di Buglione è la canzone Per Vienna liberata di Lodovico Adimari («Del valor di Lorena / la Palestina è piena; / e la Giudea tremar pur anco io vedo, / membrando il nome del real Goffredo»; «A te le vie ben note / altri impedir non puote; / che del primier Buglion l’invitta spada / facil già rese a i successor la strada»: ADIMARI, Poesie sacre e morali di Lodovico Adimari Nobil Patrizio Fiorentino, cit., pp. 87-93: 90 e 92). 96 Anonimo, Al medesimo, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 50.

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Salvatore Canneto Già d’Austria or di Lorena il Carlo Quinto Vanta per Argin suo l’Istro Germano Per l’un le piante arretra di Solimano Per l’altro è di Karà l’ardir respinto97. Carlo del Quinto già l’opre pareggi, Se de l’Austriaco mondo or fatto Alcide, Egli acquistò gl’Imperi, e tu li reggi98. Tutta l’Austria sen corse ad onorarlo Conoscendo per suo Liberatore In sembianza di Marte un altro Carlo99. Deh segui à debellar l’Empia Masnada, Che se al nome esser vanti un Carlo Quinto Le sue Vittorie ereditò tu’ Spada100.

5. Uno «scoglio» nel mare in tempesta: Ernest von Starembergh Al momento di lasciare la capitale del suo impero per trasferirsi in sicurezza altrove, Leopoldo nominava il conte Ernest von Starembergh – appartenente a un’antica famiglia di provata fede asburgica, i cui membri da tempo e ancora a lungo avrebbe servito, anzi comandato, nelle file dell’esercito imperiale – comandante in capo delle forze di presidio (composte soprattutto da miliziani cittadini e da qualche rinforzo regolare) che si sarebbero di lì a breve confrontati con gli aggressori turchi sulle mura della città. Per quanto parte della storiografia di stampo cristiano possa aver insistito principalmente sull’inefficienza delle truppe ottomane durante l’assedio, o sul freno loro imposto da Kara Mustafà, che intendeva conquistare Vienna per fame così da assicurarsene le ricchezze

97 F. CAPISTRELLI, Al Serenissimo Duca di Lorena Generalissimo dell’Armi Imperiali, in Poesie di diversi Autori per la gloriosa Conquista fatta dall’Armi Cesaree della Real Città di Buda, cit., p. 94. 98 MONACI, Per il Serenissimo Carlo V Duca di Lorena sul Comando Generale dell’Armi datoli da Cesare negli affari di Guerra della Germania col Turco, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 126. 99 Anonimo, Il medesimo [Carlo di Lorena] libera Vienna dall’Assedio Ottomano con fortuna maggiore di quella ch’ebbe Carlo Quinto in tempo di Solimano, in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 51. 100 A. DE SANTIS, Al Serenissimo Carlo Quinto Duca di Lorena Generalissimo dell’Armi Imperiali. S’allude al suo valore nell’haver debellato il Visir, che portava il soccorso all’assediata Città di Buda, in Poesie di diversi Autori per la gloriosa Conquista fatta dall’Armi Cesaree della Real Città di Buda, cit., p. 95.

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sottraendole al saccheggio della soldatesca101, è certo che la superba e responsabile difesa organizzata dall’attivissimo conte colpì profondamente i contemporanei: e Starembergh, corpo e anima della resistenza sugli spalti, venne osannato al pari degli altri ben più illustri protagonisti. Ne rappresenta una valida testimonianza – per riportare un esempio significativo per estensione e compiutezza di motivi – l’omaggio resogli nella canzone La Superbia ottomana abbassata sotto Vienna di Domenico Bartoli, nella quale l’autore si sofferma a elencare tutti i meriti dell’eroe, sul piano delle operazioni militari come sul piano dell’invito alla resistenza rivolto ai concittadini: Del forte Starembergo A dir le glorie un bel desio mi punge, Di lui scoglio animato, immobil torre: Non tanto faticò per Troia Ettorre, Quant’egli suda, e ferve, Perche non piangan serve Le difese da lui Cesaree mura. Oh saldezza! oh bravura! Oh fede! oh petto! oh cor! futuri Tempi Non mandate all’oblio sì rari esempi. L’Asia intiera l’assale, ei non paventa; Minaccia il Turco à lui mortal rovina; Ei ripromette à lui funesta tomba: Rende bomba per bomba; Sotterra fà cozzar mina con mina; A chi saette invia, folgori avventa; Tutte per non cader l’arti ritenta; Sempre à difesa veglia, E seco i suoi risveglia Con la voce, con l’opre, e col consiglio: Ove cresce il periglio Fra’ primieri guerrier primo lampeggia. Sprezza il morir chi per la Fè guerreggia. Oppon la fronte à un nembo di ferite; Lo bacia un dardo, e benche sangue versi, Per difender’altrui sé stesso oblia. Or per occulta via Sbocca improviso, e in su’ ripari avversi Porta il terror di repentine uscite: Or vuol, che à lacerar dannate vite Piovan zolfi e bitumi: Stridan grandini e fumi

101 Su quest’ultimo aspetto cfr. PEDANI, I due volti della storia: padre Marco d’Aviano e lo şeyh Vani Mehmed efendi, cit., pp. 5-8.

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Salvatore Canneto Dal nero sen de’ tonator metalli; Fuga fanti e cavalli, Rompe squadroni, e di fiumane rosse Empie spaldi, trinciere, argini, e fosse102.

Ho sottolineato con il corsivo, nel brano citato, quelli che in sostanza costituirono gli elementi che colpirono maggiormente la fantasia degli autori del tempo nel delineare il ritratto del conte: la ferita inflittagli da una freccia nemica durante un combattimento («lo bacia un dardo»); la sua risposta alla proposta di resa fattagli pervenire dal nemico («Minaccia il Turco à lui mortal rovina; ei ripromette à lui funesta tomba»); la sua immagine di «scoglio animato», in grado di resistere alla marea tempestosa degli invasori ottomani. Di un certo interesse risulta un sonetto di Giuseppe Piselli, per il quale il motivo della “freccia” («Solo in faccia a l’Eroe fra mille, e mille / vola un quadrel, che nel ferir non tardo, / li spruzza i crin di gloriose stille») rappresenta l’occasione per uno scontato rimando, polemico e allo stesso tempo denigratorio, alla codardia del soldato orientale, incline a usare armi da lancio piuttosto che ingaggiare il corpo a corpo, e alla mitica vicenda di Achille («Or và co gl’Archi tuoi Trace codardo: / che se uccise uno stral nel piede Achille, / nel volto Ernesto hà immortalato un dardo»)103. L’interesse di questo sonetto sembra risiedere anche nel termine di paragone scelto dall’autore: per Bartoli, nel testo appena citato, era «Ettorre»; per Piselli, al contrario, «Achille». Si tratta ancora una volta di un’antinomia caratteristica e paradigmatica; di un’ulteriore testimonianza di quel procedimento che, nella costruzione del sistema dei parallelismi istituiti nel contesto della produzione viennese, privilegia il rimando in chiave oppositiva piuttosto che identificativa. Lo stesso motivo della “freccia” – intrecciato con toni di sarcasmo irrisorio, e sostenuto con un ampio ricorso al ludus verbale e al pastiche fonico – è poi sviluppato da Francesco Grisendi in un epigramma latino: per il poeta, infatti, l’onore immortale risplende sul volto ferito di Ernesto, mentre la vergogna promana dai piedi in fuga dei turchi («In vultu Ernesti decus immortale refulget; / scilicet est Turcis dedecus in pedibus»); la ferita non abbatte l’eroe cristiano, ma da essa ha origine la sconfitta ottomana («Non cadit Ernestus, sed Turca hoc vulnere cedit»); Starembergh oppone il petto ai nemici, mentre questi gli oppongono le terga («Staremberga Scythis exponit pectus in arma: / attamen opponunt tergus in Arma Scythae»), e via di seguito104.

102 BARTOLI, La Superbia Ottomana abbassata sotto le Mura di Vienna, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., pp. 51-52 (corsivi miei). 103 PISELLI, Al merito singolare del valorosissimo, e fedelissimo Signore Conte Ernesto Starembergh; alludendosi al colpo che ricevette in faccia da una frezza inimica, mentre coraggiosamente difendeva Vienna, ivi, p. 233 (corsivo mio). 104 G RISENDI , De levi vulnere à Turcica Sagitta inflicto in vultu Ernesti Rugeri Starembergae, et maxima Turcarum fuga, ivi, p. 334.

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Oltre al motivo della ferita subita in battaglia e, conseguentemente, del sangue eroicamente versato per la difesa della patria e della cristianità, ampia eco riscosse – ché probabilmente si trattò, anche in questo caso, di un episodio realmente accaduto, benché non mi sia stato possibile rintracciarne la fonte – il motivo della sua “ingegnosa” e orgogliosa risposta al messaggio del Visir, che gli richiedeva la resa immediata e gli concedeva l’onore delle armi: una risposta, non è chiaro se a un tentativo di corruzione o a un messaggio minatorio, che amplificava l’alone di cavalleresca fedeltà al proprio signore già gravitante attorno alla figura del conte, e che i poeti non esitarono a riproporre in chiave celebrativa: Ch’io mi renda, e ti ceda? all’or fia questo Quando risorga il Sol dal Mar d’Atlante: E può caderti in cuor pensier sì errante, Ch’ardisca di viltà tentar’ Ernesto? Manchino il Vitto, e l’Armi, Io non m’arresto; Mà chiuso in sen d’un gran Metal tonante Farommi in te scagliar palla volante, Quando manchi ogni palla: Io ciò protesto. Ma nò; che se mia fè predice il vero, Dal Germano valor la Tracia doma Veder qui vinta, e trucidata io spero. E le voci diran d’ogni Idioma, Ch’entro un sol muro io conservai l’Impero, La Fè, l’Onor, Germania, Italia, e Roma105. Freme il Barbaro freme Ne le perdite vaste, e d’empi accenti Grava le carte, e ci promulga schiavi. Le legge Ernesto, e gravi Di terror militar scotendo i sensi, Tali al reo messo espone arditi sensi. Vanne al tuo Duce, e estendi Ch’io lieto sprezzator d’onte, e minaccia Alma non ho, che a le fatiche ceda; Pria che misera preda I’ cada, me vedrà dai seni orrendi D’un gran bronzo tonante uscirli in faccia. Cor non ho, che soggiaccia A superbe lusinghe; e in forma tale Sarò tra gl’empj, e sagittario, e strale106.

105 MATTEI, Il Conte Hernest Starembergh nella Piazza assediata di Vienna fattogli intender dal Primo Visir se voleva renderla così risponde, in ID., Arte Poetica d’Horatio parafasata, cit., p. 60 (corsivi miei). 106 PRATI, Vienna assediata dall’Armi Ottomanne, cit., p. 4 (corsivi miei).

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L’elemento tematico che, associato al nome di Ernest von Starembergh, ricompare con più frequenza è tuttavia quello dello «scoglio», conseguenza dell’immagine dell’esercito turco assediante Vienna come una “marea” umana, variopinta nelle divise e nel colore della pelle. Si tratta di un motivo presente anche nel Ragionamento di Stefano Pignatelli – per il quale Starembergh rappresentava l’«Idea del più perfetto difensore d’una assediata Città», e quindi di uno «scoglio» in mezzo al mare «che urtato frange l’onde»107 – e che venne estensivamente sfruttato soprattutto in ambito poetico, come testimoniano le diverse e numerose occorrenze rintracciabili – e limito solo a questo volume il raffronto esemplificativo che propongo qui di seguito – nelle Poesie degli accademici Infecondi: Contro il furor de l’Ottomano orgoglio, Che per l’Austria inondò torbido, infesto, Fù il tuo saldo valore argine, e scoglio 108. Ma sorgi or che ti desta il Turco orgoglio; E fia, che da tua man l’Arabo cada, Fatto a l’empio Aggressor bellico scoglio 109. Del fiero ardir, del furibondo assalto Eletto è un solo a rintuzzar l’orgoglio, Che quasi Alpina Quercia, immoto scoglio, Mostra petto di bronzo, e cor di smalto110. Scoglio animato, e non Guerriero, è questo Fatal Eroe, che quì d’usberghi è cinto, Rupe di fede, onde languì respinto L’ostinato furor d’Abido, e Sesto111. A le Selve de l’aste A i diluvi d’Acciaro Egli è immobile Scoglio, Etna tonante112 Mà già non cede à le minaccie, e à l’onte Il formidabil Conte, E di sangue nimico in mezzo à un mare

PIGNATELLI, I trionfi delle Armi Cristiane, cit., p. 36. STRINATI, Al Signor Conte Ernesto di Starembergh Maresciallo di Campo per la gloriosa Difesa di Vienna contro il Turco, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 263. 109 A. F. NUCCI, Al Signor Conte di Starembergh, ivi, p. 11. 110 SPAGNA, Al Conte Ernesto di Starembergh Difensore di Vienna, ivi, p. 18. 111 MADRISIO, A Sua Eccellenza il Signor Conte di Starembergh, ivi, p. 283. 112 SOLYMA, Il Trionfo dell’Innocenza, per la Vittoria ottenuta dall’Armi Christiane contro il Turco, ivi, p. 286. 107

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La rappresentazione dei protagonisti Frà guerriere tempeste immoto appare. […] Così freme d’intorno à un sordo scoglio Il mare al or che non ammette pace, E che fà mormorar l’onda sonora, Ride lo scoglio, e s’inargenta il crine De le spumose brine113.

6. Lo Stendardo del Profeta Oltre ai protagonisti “umani”, compare nella produzione encomiastica relativa alla battaglia di Vienna un elemento “non umano” ma altrettanto “protagonista”, per l’alta incidenza statistica del numero di componimenti e di materiale iconografico che a esso fanno riferimento, e per l’ampiezza dei motivi che si intrecciano con la sua menzione. Si tratta dello Stendardo del Profeta, l’insegna più importante dell’esercito ottomano, la cui perdita sembrò sancire in modo inequivocabile, agli occhi dei cristiani, la disastrosa sconfitta dell’armata turca nella grande battaglia svoltasi sotto le mura della capitale austriaca114. Nei convulsi giorni che seguirono la vittoria cristiana e la ritirata turca, si credette che la bandiera conquistata dagli “ussari alati” polacchi di Sobieski nella fase più accesa della mischia fosse da identificare nel famoso Stendardo di Maometto, l’insegna che il Profeta avrebbe consegnato di propria mano ai califfi suoi successori, e che in seguito fu gelosamente custodita dai sovrani mamelucchi d’Egitto. Lo Stendardo sarebbe poi stato conquistato e trasferito a Costantinopoli dal sultano turco Selim I nel 1517, dopo la definitiva vittoria sugli egiziani. Si può dunque comprendere quanto profonda fosse l’importanza e la consistenza simbolica di cui questa insegna era intrisa: la custodia dello Stendardo concedeva infatti la santità e la benevola protezione accordata da Allah a quanti marciassero in battaglia dietro di esso. Da allora, e per molto tempo, questo vessillo divenne l’insegna principale di ogni sultano – l’esempio

113 LEONARDI, Vienna liberata, ivi, p. 58. L’immagine dello scoglio ritorna anche in Marsilio, e benché non riferita direttamente a Starembergh, compare proprio nel momento in cui il nome di quest’ultimo viene citato nel testo per la prima volta: «sembra Scoglio frà l’onde / la gran Città, che immobile, e costante / a gl’impeti frequenti / con quel valor risponde, / che spira Ernesto al nobile sembiante» (MARSILIO, Il trionfo della fede, cit., ode prima, p. 7). 114 RICCI, Ossessione turca, cit., pp. 100-103. Qualche dato statistico-numerico a proposito dell’insistenza dei poeti sul motivo dello Stendardo: sui 180 componimenti che compongono la raccolta degli Applausi poetici per la liberazione di Vienna di Francesco Antonio Tinassi, una ventina circa sono direttamente intitolati all’«Insegna tolta a’ Turchi», mentre numerosissimi sono i riferimenti a quest’ultima rintracciabili negli altri testi che compongono l’antologia ma che presentano una diversa titolatura.

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più famoso è quello di Solimano il Magnifico (o, più propriamente, Suleyman il Legislatore) – che conducesse personalmente le campagne militari alla testa delle proprie truppe. Quando poi, alla fine del Cinquecento, i sultani – ormai più inclini alla caccia e all’harem che non ai rigori della vita da soldato – presero a demandare ai loro generali (seraskier) il comando supremo delle armate imperiali, furono questi ultimi a spiegare il vessillo nel nome di Allah. Così avvenne per la campagna viennese: davanti alle truppe ottomane schierate in rassegna ad Adrianopoli, agli inizi del 1683, il sultano Mehmet IV lo consegnò personalmente e con solenne cerimonia al visir Kara Mustafà: lo sacralità dello stendardo avrebbe infatti dovuto favorire la vittoria in una campagna difficile e di vitale importanza, che si proponeva, con la conquista di Vienna, di creare una sorta di testa di ponte che garantisse in un futuro non troppo distante l’accesso via terra verso l’Europa continentale (gli Stati tedeschi) e verso l’Europa meridionale (l’Italia e Roma). Probabilmente, però, quello mandato a Innocenzo XI da Vienna non era affatto lo Stendardo del Profeta bensì, semplicemente, un’insegna di indiscussa ma non suprema importanza. È stato infatti ipotizzato che il vero Stendardo di Maometto fosse stato messo in salvo, in extremis, da Vani Mehmed Efendi (il predicatore musulmano aggregato alla spedizione turca) o dal Khan dei Tatari di Crimea, il quale, avendo compreso in anticipo la piega degli eventi e avendo previsto la totale disfatta dell’esercito, fuggì con le proprie truppe di cavalieri in direzione di Adrianopoli, per poter conferire, o meglio discolparsi con il sultano prima che l’astuto e crudele Kara Mustafà potesse scaricare sui suoi sottoposti colpe e mancanze di cui egli era con tutta evidenza l’unico responsabile115. Quale che fosse la reale natura dell’insegna, ciò che è certo è che durante le fasi finali della battaglia un grande vessillo verde e ricamato in oro venne prontamente mandato a Roma, in segno di deferenza al pontefice Innocenzo XI. Esposto nella capitale della Cristianità per qualche tempo, le sue iscrizioni in lingua orientale furono tradotte dal più insigne arabista del tempo, Ludovico Marracci. Esso venne infine mandato a Loreto, per essere custodito nel grande Santuario mariano, come ulteriore testimonianza della centralità della devozione lauretana nei confronti del pericolo turco116. Ricci ha osservato

115 PEDANI, I due volti della storia: padre Marco d’Aviano e lo şeyh Vani Mehmed efendi, cit., pp. 5-8; EAD., Ludovico Marracci: la vita e l’opera, cit., p. 28. 116 L. SCARAFFIA, Loreto. Un lembo di Terra Santa in Italia, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 26. Nel 1684 venne coniata una medaglia pontificia che raffigurava da una parte il busto di Innocenzo XI, dall’altra la Madonna di Loreto che poggia sul vessillo turco: cfr. GALLAMINI, Innocenzo XI, i Turchi e il «Turco cristianissimo di Versailles», cit., p. 66. Vedi inoltre Giovanni III Sobieski alla battaglia di Parkan. La medaglia commemorativa, lo stendardo conquistato e le sue vicende. Spoglio del santuario loretano nel 1797. Illustrazione storica del march. Filippo Raffaelli bibliotecario della comunale di Fermo Camerino, Tip. T. Mercuri, 1886.

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giustamente, a questo proposito, che «la sacralizzazione della guerra fece sì che le prede del nemico ufficiale venissero convertite a gloria del proprio Dio»117. ***** Dal punto di vista sia iconografico che letterario, si è già osservato come il motivo dello Stendardo compaia nella produzione viennese in primo luogo in convergenza con l’immagine di Giovanni III Sobieski trionfante. Assai numerosi sono tuttavia i motivi che i vari cantori vi intersecano, variamente modulandolo ma non discostandosi sostanzialmente da quella che rimaneva una solida, monolitica architettura concettuale che vedeva, in esso, il simbolo incontestabile della sconfitta turca (e della vittoria cristiana)118. In qualche caso, il recupero dell’insegna da parte dei cristiani rappresenta il punto di svolta dell’intera battaglia, e segnala anche agli ottomani il profilarsi di una sconfitta ormai non più rimediabile, come ad esempio in Marsilio: «La speme d’Egitto / tutta entro un lino ascosa, / ondeggia alfin fuor dell’odrisie tende, / e là del Rege invitto / la Spada gloriosa / fà strage tal, che suo trofeo la rende, / all’or chiaro comprende / dal barbaro tesor l’Asia tradita, / ch’ad un lino è follia fidar la vita» 119. Testimonia inoltre del consistente peso assegnato da molti poeti a questo motivo la terza ode del trittico La Congiura fallita di Gentile da Martone, interamente costruita sul racconto del viaggio dell’insegna – e del suo latore Talenti – dal campo ottomano di Vienna a Roma, dalle mani di Giovanni III a quelle di Innocenzo XI, e della descrizione dei festeggiamenti organizzati dalle varie città italiane al momento del suo passaggio. Da questo peso, da questa importanza discendono dunque le immagini più ricorrenti e interessanti – o forse interessanti perché ricorrenti – relative allo Stendardo del Profeta. Donato Antonio Leonardi elabora l’immagine trionfale di un’insegna rosseggiante di sangue turco e mossa, persino tra le chiuse mura di San Pietro, dai sospiri degli infedeli sconfitti: Questa, che pende al Vaticano appesa Di nostr’Armi in trofeo Real bandiera, Là nei Campi de l’Austria a l’Aure stesa Fù già guida al furor de l’Asia intiera. Quando più di Bellona ardea l’accesa Nel gran cor degli Eroi face guerriera, Da un’esercito d’Aste in van difesa Tolse il Sarmata Rè la Spoglia altera. RICCI, I Turchi alle porte, cit., p. 82. Sullo stendardo come «uno degli oggetti prediletti dalla stampa celebrativa dell’epoca» cfr. inoltre PIZZO, La vittoria di Vienna (1683) e gli Odescalchi, cit., p. 349. 119 MARSILIO, Il Trionfo della Fede, cit., ode seconda, p. 21. 117

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Salvatore Canneto Poi donolla a Innocenzo; e se la miri Di purpureo color, l’han fatta rossa Con l’immondo lor sangue Arabi, e Assiri. Che se chiusa nel Tempio, ancora scossa Par che da’ Venti sia, sol da’ sospiri De la Tracia abbattuta ella è commossa120.

Uno dei motivi più ricorrenti è poi quello che individua nello Stendardo turco una «vela», un simbolo positivo di propagazione della fede. Si tratta di un motivo fecondo, che viene sviluppato su entrambi i fronti, cristiano e musulmano. Ovviamente la «vela» cristiana è proiettata verso un radioso futuro di conversione ecumenica. Per Carlo Amadio, lo stendardo è giunto a Roma «per far lo strato al riverito piede» del pontefice: il re di Polonia non avrebbe infatti potuto inviare a Innocenzo «Vela più franca ad animar la Fede»121. Per Giovanni Prati, esso affretterà il corso delle vittorie di Giovanni III («Che la Fortuna, che a te sol si svela, / per affrettare a tue Vittorie i corsi, / l’apre di nuovo, e lo trasforma in vela»)122. Per un poeta anonimo, infine, «la gran Nave di Pier ben presto attende, / per formar Vele à la fedel Fortuna, / di quel Barbaro Crin tutte le Bende»123. Al contrario, la «vela» musulmana diviene ancora una volta il simbolo assoluto di un’arroganza empia e ormai definitivamente tramontata. Per Loreto Mattei essa «de l’Europa poc’anzi era spavento, / de la Tracia fortuna era la vela», e «gonfia poi d’aure fallaci / sù l’Istro il volo arditamente sciolse»: ma dopo il vittorioso intervento di Sobieski, «perche più non dia voli sì audaci, / a la Fortuna lor la vela ei tolse»124. Mentre per un poeta anonimo, se essa «fù già d’Ismara Luna il manto, / trofeo di Roma or si calpesta, e preme»; e quand’anche «il vinto Scita» dovesse anelare a nuove stragi cristiane, egli «cadrà [...] naufrago in Mar di sangue, or che smarrita / la sua cieca Fortuna hà già la vela»125. 120 LEONARDI, Per lo Stendardo inviato dal Rè di Polonia al Pontefice, e appeso in Vaticano, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 63. 121 C. AMADIO, Alla Santità di Nostro Signor Innocenzo XI per l’Insegna Reale tolta a’ Turchi, e mandata alla Santità Sua dalla Maestà di Giovanni III Rè di Polonia, ivi, p. 28. Un breve profilo dell’autore si legge in Memorie, Imprese, e Ritratti de’ Signori Accademici Gelati di Bologna, cit., pp. 135-137. 122 PRATI, Per il medesimo Stendardo Regio tolto a i Turchi da Giovanni III Rè di Polonia, ivi, p. 198. 123 Anonimo, Sopra la rapita Insegna Ottomana, parlando con il Rè di Polonia, il quale la mandò à donare al Pontefice, per il Sig. Secretario Talenti, in L’Infedeltà Musulmana depressa, cit., p. 35. 124 MATTEI, Per lo Stendardo Reale dell’Esercito Ottomano conquistato dall’Invittissimo Rè di Polonia, e mandato in dono a N. Sig. Innocenzo XI, in Poesie de’ Signori Accademici Infecondi di Roma, cit., p. 256. 125 Anonimo, Al medesimo [Giovanni III] nell’istesso sogetto [la conquista dell’insegna], in Applausi poetici per la liberazione di Vienna, cit., p. 19. Osservo che, negli Applausi poeti-

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La rappresentazione dei protagonisti

Nel contesto dell’esaltazione della Cristianità vincitrice – e, e converso, della rampogna per l’infedeltà sconfitta – non poteva mancare, sul piano dottrinale, la violenta denigrazione del contenuto testuale ricamato sull’insegna viennese. L’«islamologo» Ludovico Marracci, in quei giorni a Roma, fu infatti prontamente incaricato di tradurre i versetti coranici che vi si leggevano, e il risultato fu la pubblicazione di un prezioso e ben fatto foglio volante126 che riproduco in appendice (FIG. 26). L’evidente – agli occhi dei Cristiani – blasfemia del contenuto delle parole dello stendardo spinse alcuni autori a incentrare i loro testi sulla negazione e/o sul rovesciamento degli spunti dottrinali veicolati dalle parole arabe. Ad esempio in Loreto Mattei: Non è Dio, chi ciò nega? altri che Dio; Io lo scrivo nel Cor, Tu ne l’Insegna; Ma solo è Dio quel, che mia Fede insegna; Idolo è il tuo: Nume verace è il mio. Non quel che adori Tu, quel che ador’io, È il Gran Motor, che su le Stelle regna: Ogn’altra Deità di culto è indegna, Empio ogni Tempio, ogn’altro Altare è rio. Uno e Trino è quel Dio, cui porgo i prieghi: S’altro Dio fuor di questo essere intendi, Bestemmia è ciò, che nel Vessil Tu spieghi:

ci raccolti da Tinassi, il sonetto di Mattei appena citato e il presente vengono riportati di seguito e nella stessa pagina, quasi a creare un “dittico della vela”, a ulteriore conferma delle finalità architettoniche e simmetriche perseguite del curatore. 126 Disegno dello Stendardo del Primo Visir levato sotto Vienna dal Serenis.o et Invittis.o Giovanni III Re di Polon.a e da S.M. mand.to alla S.tà di N.S. Papa Innocenzo XI. Aggiuntavi la pura interpretatione delle parole Arabiche che in detto Stendardo sono artificios.te intessute, diffusamente spiegate, dal reverendiss.mo P. Lodovico Marracci della Congr.ne della Madre di Dio; [...] In Roma. Si vendono in piazza Navona da Matteo Gregorio Rossi all’Insegna della Stampa, 1683. Molte altre furono le stampe, in diversi luoghi d’Italia e sempre in fogli volanti, intese a riprodurre e diffondere il disegno dello stendardo turco: Lo Stendardo Ottomanico spiegato, overo dichiaratione delle parole Arabiche poste nello Stendardo Reale, preso dal Serenissimo Rè di Polonia Giovanni III al Gran Visire de’ Turchi, e dal medesimo Rè inviato per tributo della sua Pietà alla Santità di N.S. PP. Innocenzo XI […] In Roma & in Milano, nelle Stampe dell’Agnelli [1683]; Descrizione dello Stendardo Regale del Gran Turco inviato dal Rè di Pollonia Giovanni III al Sommo Pontefice Innocenzio XI. Con la sposizione delle parole Arabiche, ivi tessute. All’Eminentiss. e Reverendiss. Signor Cardinal Vincenzo Maria Orsini. In Napoli, presso Giuseppe Roselli, a spese di Antonio Bulifon, 1684; Nuova descrittione del Stendardo Reale del Gran Turco consignato al Gran Visir, e presoli dalla Maestà del Rè di Polonia, e da questo mandato a Roma al Sommo Pontefice. In Genova, nella stamperia del Franchelli [1683-1684].

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Salvatore Canneto Quel che par, che confessi, e che difendi, Quando Tu lo confessi all’or il nieghi, Quando Tu lo difendi, all’or l’offendi127.

Un altro esempio di denigrazione del contenuto dottrinale delle parole dello stendardo è infine rappresentato da un sonetto anonimo, nel quale vengono convogliati alcuni dei motivi encomiastici e strutturali già rintracciati nelle pagine precedenti: il rinvio “giovanneo” in riferimento al re polacco e l’elemento tematico e strutturale ternario, in netta evidenza nella terzina conclusiva del testo: Nuncio di Dio Maomet? Menti empio detto: Nuncio di Dio, chi al vero Re fà guerra? Nuncio di Dio, chi già si rese in terra Nuncio Infernal de la Tartarea Aletto? Quel di Senacherib Nuncio diletto Ben di Polonia è il Re, che mai non erra, Ei che l’Arme più infide abbatte, e atterra De l’Ottoman con il suo eccelso aspetto. Nuncio di Dio, chi al più glorioso acquisto Prode s’accinse, onde di gloria erede Oggi un terzo Giovanni in lui s’è visto. Mà trè Giovanni eterni il Mondo vede, L’un Precursor, l’altro Scrittor di Christo, Questo Preservator de la sua Fede128.

127 MATTEI, Nello stendardo Reale tolto a Turchi e mandato al Pontefice in Roma vi è scritto in Arabico, Non è Dio altri che Dio. Si parla al Turco, in ID., Arte Poetica d’Horatio parafasata, cit., p. 62. 128 Anonimo, Al Medesimo [Giovanni III] per le parole scritte in lettere Arabe sopra lo Stendardo Turchesco, che in Italiano dicono «Maometto Nuncio di Dio», in L’Infedeltà Musulmana depressa, cit., p. 40.

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V «L’addottoramento dell’Asino». Per un percorso “turco” nell’opera di Girolamo Gigli

Boracco se ne ride, / perché del ver s’intende, e disputa, e difende / ardue Tesi; di Conti, e di Marchesi / uno stuolo giolivo l’hanno in superlativo / addottorato. Girolamo Gigli

1. La lingua del turco Nell’autunno del 1670, per rispondere al grazioso comando del Re Sole che gli chiedeva l’allestimento di una turquerie – nella fattispecie una comédie-ballet con turbanti, scimitarre, salamelecchi e muftì – Molière compose Le bourgeois gentilhomme: l’opera andò in scena, con le magnifiche musiche di Jean-Baptiste Lully, le coreografie di Pierre Beauchamp e la consulenza, per gli aspetti costumistici turchi, del Cavaliere Laurent d’Arvieux, il 14 ottobre al Castello di Chambord, «per il divertimento del Re», e il 23 novembre a Parigi, a Palais-Royal1. È probabile che l’interesse della Corte parigina verso l’argomento turco – la turquerie – sia stato imposto all’attenzione e alla curiosità francesi dai recenti eventi politico-militari e da alcuni pettegolezzi pervenuti dagli ambienti diplomatici. L’attenzione fu suscitata, naturalmente, dalle vicende storiche. Solo sei anni prima l’Impero ottomano aveva tentato l’ennesimo scacco dell’invasione all’Austria, ma il suo esercito era stato fermato sul Raab, alle porte di Vienna, dalle armate imperiali di Raimondo Montecuccoli (1° agosto 1664). In quell’occasione si assistette – forse per la prima e ultima volta – a un concreto “aiuto” prestato da Parigi agli odiati Asburgo, con l’invio al fronte ungherese – più sim1 MOLIÈRE, Le bourgeois gentilhomme, in ID., Oeuvres complètes, textes établis, présentés et annotés par G. Couton, Paris, Gallimard, “Bibliothèque de la Pléiade”, 1971, vol. II, pp. 693-787.

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bolico, tuttavia, che effettivo – di un contingente di soldati che pare non abbia poi nemmeno preso parte alla battaglia. La curiosità fu invece dettata dal contatto diretto della Corte con il mondo turco. Il sultano Solimano III, preoccupato dal profilarsi, all’orizzonte, dell’eventuale nascita di un compatto fronte antiturco franco-austriaco, si vide costretto a inviare un ambasciatore straordinario presso il Re Sole, Suleiman Mustafà Agà, per tentare un approccio diplomatico che invitasse il francese alla neutralità – se non alla cooperazione. L’incontro, avvenuto verso la fine del 1669 dopo una serie di fastidiose schermaglie cerimoniali, non andò a buon fine: Suleiman si ritirò, indignato per la superbia che il Re Sole aveva dimostrato prima ancora di conoscere il tenore del messaggio del Sultano2. Che comunque l’esito negativo di questo incontro non abbia pregiudicato i rapporti tra Versailles e la Sublime Porta è un dato di fatto, confermato dal rilievo che, durante tutte le difficili campagne militari che l’Impero d’Austria dovette sostenere, negli anni successivi, contro il nemico infedele, Luigi XIV non si preoccupò mai di mandare aiuti o rinforzi di sorta; fu anzi sua costante premura tentare di strappare continuamente qualche ulteriore fazzoletto di terra agli Asburgo, come confermano i ripetuti attacchi condotti contro i Paesi Bassi e lungo la frontiera del Reno ogni qual volta le armate imperiali venivano dirottate sul fronte danubiano3. La «turcheria» escogitata da Molière in Le bourgeois gentilhomme risiede, in particolare, in una serie di intermezzi musicali, inseriti dopo il quarto atto, che rappresentano una «Cérémonie turque» e che prevedono la presenza in scena di un muftì, diversi dervisci danzanti e una strumentazione musicale tipica delle sonorità “giannizzere”4. Nell’economia generale della pièce, l’allestimento della

2 La relazione francese dell’evento diplomatico riscosse un notevole successo e venne prontamente tradotta in italiano: cfr. L’Ambasciatore straordinario mandato dal Gran Turco in Francia. Relatione dell’udienza data dal Sig. Secretario di S.M. a Soliman Mustafa Aga inviato al Re Christianissimo dall’Imperatore de’ Turchi a Sucrena. Tradotta dal francese da Giovanni Andrea Zanotti. In Carmagnuola, Genova, Lucca, Siena, Ronciglione, & in Bologna. Per il Longhi, 1677. 3 Sulla politica del Re Sole durante gli anni della Guerra di Vienna cfr. J. BÉRENGER, La politique ottomane de la France dans les années 1680, in I Turchi, il Mediterraneo e l’Europa, cit., pp. 269-295. 4 La strumentazione musicale tipica delle “bande di Giannizzeri” prevedeva un ampio ricorso a strumeni a fiato, come oboi, chalumeaus e pifferi, e a percussione, come rullanti, timpani e tam-tam, tutti strumenti solitamente usati durante le marce dell’esercito turco in tempo di parate e mobilitazioni. Fu appunto attraverso il canale militare che tali sonorità penetrarono nel mondo musicale occidentale, con finalità di tipo realistico. Si ascolti, per esempio, la bella esecuzione “filologica” delle musiche di scena de Le bourgeois gentilhomme incise da “La Petite Bande” diretta da Gustav Leonhardt (Lully, Molière: Le bourgeois gentilhomme. Campra: L’Europe galante. / La Petite Bande; G. Leonhardt, Deutsche Harmonia Mundi, 1988, GD77059, 2 cds; per la Cérémonie turque, cd 01, tr. 10). Ampio risalto alle sonorità e alla strumentazione “giannizzere” è dato anche da Antonio Vivaldi alle musiche del già citato «Sacrum Militare Oratorium» Juditha Triumphans (cat. RV644), su testo di Jacopo Cassetti, eseguito all’Ospedale della Pietà di Venezia nel novembre del 1716 per celebrare la vittoria contro i turchi del 18 agosto durante l’assedio di Corfù (di cui cfr. la recente edizione critica della partitura, a cura di M. Talbot, Milano, Ricordi, 2008).

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«L’Addottoramento dell’Asino». Per un percorso “turco” nell’opera di Girolamo Gigli

cerimonia è funzionale all’inganno ordito contro il protagonista: da semplice e ingenuo “borghese”, Monsieur Jourdain viene “nobilitato”, seppur di un titolo “turco”, e insignito della carica immaginaria di «Mamamouchi»5. Nella prima scena del quinto atto – la prima che segue l’intermezzo – Madame Jourdain, la moglie del protagonista, si ritrova davanti il marito, il quale è ancora vestito “alla turca”. Il borghese blatera parole per lei senza senso e in uno strano linguaggio. Alla fine la signora, stremata, non può far altro che domandare: «Qu’est ce donc que ce jargon-là?». Il “gergo” cui fa riferimento la donna – le parole che Jourdain ha ascoltato dai turchi durante la cerimonia, e che ora sta ripetendo con ingenuo trionfalismo – non è un’invenzione comica del versatile autore; è, invece, un’alchimia linguistica ufficiale e di consolidata tradizione: il sabir (secondo la definizione francese) o la lingua franca mediterranea (secondo la definizione italiana), attestata a partire dagli inizi del XIV secolo con il Contrasto della Zerbitana, e in seguito usata dai mercanti, dai viaggiatori – e dai pirati. Benché la questione della nascita e della ragione di tale lingua/linguaggio sia ancora lungi dall’essere risolta in sede critica, si trattava in sostanza di un pidgin a base romanza fortemente italianizzata; di un vocabolario misto di italiano, spagnolo, portoghese e maltese che faceva leva su una struttura logico-sintattica assai semplificata, in cui i modi verbali si limitavano sostanzialmente all’infinito6. Dal punto di vista linguistico, la cerimonia d’investitura di Monsieur Jourdain è dunque tutta giocata sul sabir. Molière ne aveva già fatto uso per far parlare alcuni suoi personaggi levantini, come nella canzone di Hali inserita nell’ottava scena del primo atto di Le Sicilien, ou L’amour peintre (1667): ma è ne Le bourgeois gentilhomme che esso assurge, definitivamente, all’immortalità artistica. L’intermezzo della Cérémonie si apre con l’ingresso in scena di diversi personaggi turchi, di alcuni dervisci e del Muftì, la massima autorità religiosa musulmana. È suo il compito di dirigere il rito dell’investitura. Questi domanda al borghese – che è vestito e rasato alla turca, ma è privo di turbante e scimitarra – chi sia: Se ti sabir Ti respondir; Se non sabir, Tazir, tazir.

5 MOLIÈRE, Le bourgeois gentilhomme, cit., pp. 769-771. Il testo integrale dell’intermezzo della Cérémonie turque venne stampato per la prima volta nell’edizione postuma di tutte le opere di Molière (Paris, La Gange et Vinot, 1682). 6 Il rimando, a proposito, va agli studi di G. CIFOLETTI, Il vocabolario della lingua franca, Padova, Clesp, 1980; ID., La lingua franca mediterranea, con un’appendice di testi letterari in lingua franca a cura di R. Zago, Padova, Unipress, 1989; ID., La lingua franca barbaresca, Roma, Il Calamo, 2004. Cfr. inoltre per alcune osservazioni di carattere più generale il saggio ormai “classico” di A. BAUSANI, Le lingue inventate. Linguaggi artificiali – Linguaggi segreti – Linguaggi universali, Roma, Ubaldini, 1974 (poi Torino, Trauben, 1997).

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Salvatore Canneto Mi star Muftì: Ti chi star ti? Non intendir: Tazir, tazir.

Davanti al silenzio sconcertato di Jourdain, il Muftì si rivolge ai turchi del seguito, chiedendo loro a quale religione appartenga il borghese («Dice, Turche, chi star chista?»), e questi assicurano che è «mahametana». Poi, dopo aver finalmente conosciuto il suo nome («Giurdina»), il Muftì comunica al neofita lo scopo e il senso della cerimonia: farne un paladino per la difesa della Palestina musulmana, in una sorta di ribaltamento della figura del cavaliere crociato. Mahameta, per Giurdina, Mi pregar sera e matina. Voler fara un Paladina De Giurdina, de Giurdina. Dar turbanta, e dar scarsina, Con galera e brigantina Per deffender Palestina. Mahameta, per Giurdina, Mi pregar sera e matina.

Dopo aver ripetutamente richiesto ai turchi del suo seguito la conferma dei buoni propositi della conversione di Jourdain («Star bon Turca, Giurdina?», «Ti non star furba?», «Non star forfanta?»), il Muftì ordina che venga donato il turbante al borghese («Donar turbanta»). Ottenuto, così, il rango nobiliare, Jourdain può avere anche la scimitarra («Ti star nobile, non star fabbola. / Pigliar sciabbola»). Il rito d’investitura prevede infine una serie di percosse simboliche («Dara, dara, / bastonara») che il neofita deve accettare di buon grado, mentre il Muftì, sempre oltremodo premuroso, tranquillizza e rassicura l’impaurito borghese («Non tener honta: / questa star l’ultima affronta»). La conclusione dell’intermezzo ricalca l’entrée: i turchi, i dervisci, la banda e il Muftì, danzando e cantando, conducono via un Monsieur Jourdain ormai “fatto turco”. ***** Successivamente al trionfo scenico del capolavoro molieriano, la lingua franca o sabir divenne, in Francia e non solo, un elemento caratterizzante la figura del turco piuttosto frequente nel contesto letterario, e in particolare teatrale. Essa ricomparve, per esempio, ne L’Europe Galante di Houdar De La Motte e André Campra, del 1697, e in alcuni testi “esotici”, inseriti negli anni Trenta del Settecento nei Divertissement pour le Nouveau Théâtre Italien di Jean

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«L’Addottoramento dell’Asino». Per un percorso “turco” nell’opera di Girolamo Gigli

Joseph Mouret7. Anche in Italia furono numerosi gli autori che utilizzarono – con finalità più spesso satiriche che realistiche – l’impasto verbale del sabir per caratterizzare la figura del levantino. Per rimanere nel solco della tradizione viennese, si possono segnalare due esempi, tratti da contesti poetici diversi: gli intermezzi intitolati Il Visir amante geloso di Giovanni Andrea Lorenzani e alcuni sonetti usciti a Roma tra il 1683 e il 1686 a nome del «Gran Caporal Giurgia», cioè Giorgio Saffà, un armeno che vendeva il caffè a piazza Navona. In occasione della conquista di Buda da parte degli Imperiali, e a seguito delle vittorie in Morea degli eserciti della Serenissima, Giurgia fece circolare diversi sonetti – ma altri simili erano usciti per la vittoria di Vienna, e avevano conosciuto una notevole diffusione8 – la cui veste linguistica, chiaramente “levantina”, si rivela tuttavia in una forma sostanzialmente più “italianizzata”. Nessuno degli studiosi che di Saffà e dei suoi sonetti hanno fatto menzione nei loro contributi, a quanto mi risulta, hanno rinviato alla lingua franca per il sostrato linguistico di questi testi: per qualcuno si tratta semplicemente di un «linguaggio rozzo e primitivo»9, mentre altri ha insistito sull’origine “nordica” del personaggio, la cui lingua sarebbe quindi una storpiatura germanica dell’italiano10 – ma ben diversa, si ricorderà, era la lingua del “brindisi” in versi «Lanzmain in Compagnie / Trinch vain in allegrie» cui si è fatto cenno nelle pagine precedenti. Nel sonetto che segue, intitolato La disperazione del gran Turco per la presa di Buda, l’autore Giurgia paragona la perdita della capitale ungherese alla caduta di tutti i peli della barba del Sultano. Si tratta ancora della consueta variazione su un motivo topico: la raffigurazione della disperazione del Turco, sempre ritratto – nelle testimonianze letterarie, così come in quelle iconografiche (FIG. 15) – nell’atto di strapparsi la barba: Quando Lorena à Gran Signor pigliar Pest, un pelo de barba lui perder E quando più Stregonia non haver Senza d’un altro pelo lui restar. Quando che Venetian Coron graffiar Per altro pel di barba via veder E quando più Modon non posseder Un altro pelo à Gran Signor cascar. 7 Cfr. CAMPA, Dal tableau esotico alla rappresentazione di carattere: la storiografia musicale, le turcherie e lo spirito enciclopedico, cit., in part. le pp. 423-424; cfr. inoltre EAD., Il Théâtre Italien, la parodia e le “querelles” del primo Settecento, in «Nuova Rivista Musicale Italiana», a. 1989, luglio-settembre, pp. 342-377. 8 BILIŃSKI, Le glorie di Giovanni III Sobieski, cit., pp. 13, 103, 255; ID., Giovanni III Sobieski tra Campidoglio, Vaticano e plebe romana, cit., pp. 66-69. 9 BILIŃSKI, Giovanni III Sobieski tra Campidoglio, Vaticano e plebe romana, cit., p. 66. 10 TAMBLÈ, Giuseppe Berneri, le accademie e le istituzioni culturali a Roma nel Seicento, cit., p. 107.

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Salvatore Canneto Ma quando trista nova a lui venir, Che Buda star de nostro Imperador, Presa sul babbio de suo Gran Visir, Se vero star qual ch’a me dir e ‘l cor Mi creder certo, che sua gente dir Tutta la barba aver perso Gran Signor11.

Altrove Giurgia, seguendo anche in questo caso un modulo consolidato, intesse uno “scambio” poetico. Dapprima indirizza un sonetto denigratorio Al Gran Visir, non privo di minacciosi rimbrotti ed espressioni squisitamente popolaresche («Signor Visir [...] à cacar / andate, che quest’è vostro mestier»; «Gran Turco stare in bestia, e con furor / voler che strangolato Voi morir / poi nel pilao cocèr el vostro cor»; «non gioveravvi pateracchia dir»). Il dato storicomilitare da cui questo testo prendeva le mosse («Che cosa in Buda esser venuta a far, / Se voler dall’assedio liberar, / poi come statua non mover»12) permetteva effettivamente illazioni burlesche di questa intensità. Buda venne infatti conquistata dopo diversi mesi d’assedio, e davanti agli occhi sconcertati dell’esercito del Gran Visir: questi, nonostante fosse accampato a poca distanza dalla città, ritenne impossibile compiere qualsiasi azione d’attacco in cui una buona parte delle sue truppe non rischiasse la distruzione. La Risposta del primo Visir al sonetto precedente non può che ricalcare, anch’essa, lo spirito “zelante” dei tempi e la schematizzazione letteraria che ne conseguì: l’ammissione della sconfitta da parte dello stesso sconfitto («Io non voler più dir, ma ben saper / cosa poter in Buda più sperar»), congiunta alla polemica contro i propri usi giurisdizionali («Razza de Boij esser il Tracio cor / strangolato per lo dover morir»), è funzionale alla presentazione del successivo e più importante messaggio comico-satirico del testo, l’abiura all’Islam («Per tanto poi io già non m’avvilir / se me fa strangolare Gran Signor / la fede Turca voler far fallir»)13. Si tratta, è chiaro, di testi ingiustificabili da un punto di vista artistico e letterario. Tuttavia i sonetti del Caporal Giurgia conobbero una notevolissima diffusione, almeno a Roma, e in ciò consiste il dato storico essenziale da rilevare: il caffettiere-poeta, infatti, divenne in breve egli stesso un noto personaggio teatrale, e la sua figura contribuì a consolidare – mutuando vari elementi dalla tradizione precedente – la tipologia drammaturgica del mercante-furfante levantino, pavido e smargiasso, furbo e gonzo allo stesso tempo. È questo il personaggioGiurgia che fa la sua apparizione nell’«Introduzzione Drammatica per un Lotto» intitolata Il Visir amante geloso overo le disgrazie di Giurgia di Giovanni Andrea Lorenzani, rappresentata (con musiche di Carlo Flavio Lanciani) e pub-

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Ivi, pp. 109-110. Ivi, p. 110. Ivi, pp. 110-111.

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blicata nel 1685 14. La pièce, nei canonici tre intermezzi comici, presenta una fabula molto semplice. Partito da Roma per acquistare una partita di caffè ad Aleppo, Giurgia viene fatto prigioniero, sulla via del ritorno, dai soldati turchi. Poiché si è finto storpio, viene condotto schiavo sotto Vienna, con la mansione di custodire e abbeverare i cammelli. Dopo la disfatta contro gli austro-polacchi e la fuga del Visir, Giurgia riesce anch’egli a fuggire e a nascondersi in un bosco. Credendosi ormai in terra cristiana, comincia a controllare le vesti e gli altri oggetti che al momento della fuga è riuscito ad arraffare e a condurre via, naturalmente con l’intenzione di svenderli al più presto per recuperare quanto perso al momento dell’arresto. In attesa che passi qualcuno, Giurgia rievoca dunque le vicende a cui ha assistito durante la prigionia nel campo turco: Chi havesse detta a Giurgia Ne l’assedio di Vienna Tante cose veder. Turca star sotto muraglia E de’ morti empita fossa, Fuggir via tutta canaglia, Amazzata gente grossa, Fatto foco, e Turchi in aria, Star caldo mese Agosto, Stata Luna sempre varia, Cascar giù, e fatto arosto15.

Entrano poi in scena nell’«azzione seconda» il Visir e la Sultana, anch’essi in fuga da Vienna. Il duetto tra i due – e si noti, en passant, che nonostante siano turchi, il Visir e la Sultana cantano in un perfetto italiano melodrammatico – fa capire che essi sono sentimentalmente legati; ma il Visir si mostra geloso del Pascià di Buda, antica fiamma della donna. Il rilievo trasferisce su un piano teatral-sentimentale quello che fu un dato storico: l’ostilità di Kara Mustafà nei confronti del saggio pasha Ibrahim, fortemente critico nei confronti del visir e del suo piano d’attacco a Vienna, fatto decapitare per suo ordine a Buda all’indomani della sconfitta viennese. Scorgendo nel bosco alcuni oggetti che prima si trovavano nel suo padiglione a Vienna, il Visir, stupito, fa cercare il ladro, probilmente ancora nascosto nei paraggi. Giurgia viene ritrovato sotto la massa

14 Il Visir amante geloso, overo le disgrazie di Giurgia Introduzzione Drammatica per un Lotto. Del Sig. Gio: Andrea Lorenzani Romano. Dedicata all’Ill.ma Sig.ra Chiara Lanci Accorambona. In Todi per Vincenzo Galassi, con licenza de’ Sig. Sup. 1685. Si vendono in piazza Madama in Bottega di Francesco Leone. La pièce fu rappresentata alla presenza di Cristina di Svezia, come testimonia il Prologo fatto in occasione d’esser stata recitata avanti la Sacra Real Maestà della Regina di Svetia in cui si legge che «suo aspetto Reale / quest’orrida Scena / con luce serena / ha resa immortale» (pp. 15-16). 15 Ivi, azione prima, pp. 19-20.

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di vestiti, tutto impaurito e tremante. Viene perquisito, e gli si rinviene addosso una lettera in cui un amico gli descrive i festeggiamenti avvenuti a Roma a seguito della notizia della vittoria cristiana sui Turchi. La finzione scenica è, anche in questo caso, funzionale alla denigrazione: è lo stesso Visir, leggendo la lettera al pubblico in sala, a narrare il dileggio e gli atti dissacratori a cui il popolino festante dell’Urbe sottopose un fantoccio di paglia con le sue fattezze: A Giurgia Levantina Scriver mercante Christiana Da la Città Romana, Star burlata Visir, Perché fuggir da Vienna: Da gente tutta di Piazza Navona, In prima far gran festa, Tutta Roma far foco, E far Visir di paglia, E poi tutta canaglia Con corde al collo strascinare per tutta E fatto foco sutta, Veder con tanto lume Visir andata in fiume16.

Questo passaggio collima in gran parte con le osservazioni del diarista Galeazzo Marescotti, che descriveva in termini non dissimili le licenze e le sconsideratezze cui il popolo in festa si era lasciato andare: per Roma «non si vidde altro tutta la notte, che varie truppe di diversi quartieri che conducevano in trionfo il Gran Vizir chi sopra l’asinello, chi entro una gabbia, e chi in una foggia e chi in un’altra, tirando seco tutto il popolo»; altrove, altri campagnoli tenevano «una simil assemblea, nella quale giustiziavano il Gran Vizir»17. Indignato dalla lettera e dalla lettura, il Visir di Lorenzani crede che Giurgia sia una spia imperiale; ordina quindi alle guardie di condurlo a Belgrado e giustiziarlo per impalamento. La preoccupazione del povero levantino, a questa notizia, non è tuttavia per la morte imminente, bensì per una fine così ingloriosa e per il pettegolezzo malevolo che essa avrebbe senz’altro suscitato a Roma: Dunque Giurgia haver morir, E pietà per me non star, E à Roma poi ridir, Per me vituperar Giurgia impalato star18.

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Ivi, azione seconda, p. 26. MARESCOTTI, Avvisi di Roma, cit., vol. 787, p. 41, in data 2 ottobre. G. A. LORENZANI, Il Visir amante geloso, cit., azione seconda, pp. 28-29.

«L’Addottoramento dell’Asino». Per un percorso “turco” nell’opera di Girolamo Gigli

Nell’«azzione terza», il Visir trova sotto un mazzo di rose una scatoletta contenente il ritratto del Pascià di Buda, che la Sultana aveva giurato di aver gettato nel Danubio. L’affetto e l’amore del Visir per la donna si tramutano, per un eccesso di gelosia, in un’istantanea sete di vendetta e in furia omicida. Giurgia, richiamato per risolvere il mistero del ritrovamento, testimonia dell’innocenza della Sultana; ma quest’ultima, addolorata per la scarsa fiducia dimostratale dall’uomo che ama, rimane sorda alle scuse e alle proteste del Visir e decide di togliersi comunque la vita. Ciò che in sostanza la donna gli rinfaccia è la sua indole crudele e cruenta, divenuta ormai proverbiale: Io moro a tuo malgrado Per saziar le tue ferine voglie A bastanza non sazie Per tante, e tante ingiustamente uccise Con memorando eccesso D’ogni età, d’ogni grado, e d’ogni sesso19.

Anche qui il dato sembra corrispondere ad alcune reali illazioni diffusesi all’epoca dei fatti. Kara Mustafà fece sgozzare le centinaia, forse migliaia di fanciulle cristiane che aveva fatto rapire, durante i mesi dell’assedio, dai cavalieri tatari che su suo ordine compivano scorrerie contro i villaggi e i piccoli centri danubiani. Giunte schiave sotto Vienna per essere destinate agli harem degli ufficiali o essere spedite a Costantinopoli, esse avrebbero però rallentato la ritirata dell’esercito, provocando in questo modo la trasformazione di una disfatta, pesante ma non definitiva, in un olocausto completo e irrimediabile. L’opera si chiude, dopo un’ulteriore schermaglia verbale/canora tra il Visir e la Sultana, con la loro riappacificazione, ma soprattutto con la salvezza in extremis di Giurgia. Quest’ultimo, che vede commutare la pena di morte per impalamento cui poco prima era stato condannato non in libertà, ma in carcere a vita, è naturalmente più che felice: Volontier, voler star Allegra, Giurgia, allegra, Non haver più da impalar. Signor mi havere assai ringraziato, Che per vostra cagion non star’impalato20.

Nonostante l’inesauribile ricchezza delle possibiltà combinatorie e modulatorie, personaggi simili a quello di Giurgia – il levantino mercante e/o prigionie-

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Ivi, azione terza, p. 37. Ivi, pp. 39-40.

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ro di guerra su cui si riversa la carica comico-satirica del testo letterario – o ambienti letterari e situazioni sceniche in cui si realizza lo sfruttamento linguistico della lingua franca – in chiave di volta in volta parodica, satirica, realistica – godranno di una fortuna costante e significativa ancora per tutto l’arco del Settecento letterario italiano, come testimoniano ad esempio alcuni lavori di Carlo Goldoni21. 2. Gli Intermezzi in derisione della setta maomettana di Gigli e Gasparini È stato osservato che centoquarantatré anni dopo la prima recita de Le bourgeois gentilhomme, con L’Italiana in Algeri (1813), «che peraltro rispondeva a un dato di cronaca, la recrudescenza nel suo tempo della guerra di corsa barbaresca», Gioacchino Rossini avrebbe «restituito la pariglia ai finti turchi di Molière» facendo investire dell’immaginaria carica di pappataci il bey Mustafà22. La suggestione del rilievo non rende tuttavia giustizia alla tempestività della risposta letteraria. In realtà, infatti, la «pariglia» ai finti turchi di Monsieur Poquelin era stata restituita – e con gli interessi, come vedremo – già un secolo prima, in una pièce drammatica dalla fortissima carica satirica e dissacrante, opera di uno degli ingegni più versatili, estrosi e acuti del periodo a cavaliere tra Sei e Settecento: il senese Girolamo Gigli (1660-1721)23.

21 Una rapida rassegna di alcune pièces di Goldoni può dimostrare la vitalità della lingua franca nei diversi versanti del genere teatrale praticati dal commediografo veneziano: per quanto concerne le commedie in prosa, basti pensare al mercante turco Alì de L’Impresario delle Smirne, al venditore armeno Musa de I Pettegolezzi delle Donne e al “levantino” Isidoro de Le Donne de casa soa; per quanto concerne invece il dramma giocoso per musica, ne La Fiera di Sinigaglia, Prospero deve modificare anche la sua lingua per completare il travestimento da «mercante greco» (cfr. C. GOLDONI, Tutte le opere, a cura di G. Ortolani, Milano, Mondadori, 14 voll., 1956-1964). Sul versante della lirica, invece, si vedano i testi intitolati Il mercante armeno e Un turco inamorà raccolti in V. MALAMANI, Il Settecento a Venezia, Torino (e Roma), L. Roux, 1892, vol. II, La Musa popolare, pp. 83-86. Cfr. su tutti questi rilievi R. ZAGO, Appendice di testi letterari in lingua franca, in CIFOLETTI, La lingua franca mediterranea, cit., pp. 228245: 235 sgg. 22 CARDINI, Europa e Islam, cit., p. 279. 23 Per una ricostruzione delle sue vicende biobibliografiche cfr. [F. CORSETTI] La vita di Girolamo Gigli Sanese, detto fra gli Arcadi Amaranto Sciaditico scritta da Oresbio Agiéo Pastore Arcade, con aggiunta delle lettere delle principali Accademie dell’Italia scritte al medesimo in approvazione delle opere di S. Caterina da Siena. In Firenze MDCCXLVI. Nella Stamperia all’Insegna d’Apollo. Con licenza de’ Superiori; G. LAMI, Hieronymus Lilius, in ID., Memorabilia Italorum eruditione praestantium quibus vertens saeculum gloriatur. Florentiae. Tip. Societatis ad insigne Centauri, tomus I (1742), ad vocem; L. DE ANGELIS, Girolamo Gigli, in ID., Biografia degli scrittori sanesi, Siena, Stamperia Comunitativa Giovanni Rossi, 1824 (ristampa anastatica: Bologna, Forni, 1976), t. I (unico pubblicato), pp. 323-334; G. BASEGGIO, Girolamo Gigli, in Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo XVIII, e de’ contemporanei. Compilata da letterati italiani di ogni provincia e pubblicata per cura del professore Emilio De Tipaldo. Venezia, dalla tipografia di Alvisopoli, 10 voll., 1834-1845, vol. VIII

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Le strepitose vittorie degli Imperiali in Ungheria sotto il comando del feldmaresciallo Eugenio di Savoia suscitarono, come era avvenuto dopo la battaglia di Vienna, a Roma come altrove, il gusto quasi “liberatorio” di una satira oltremodo violenta contro i Turchi sconfitti. In questo clima di festeggiamenti e di dissacrazione due autori, entrambi al servizio del principe Francesco Maria Ruspoli – il letterato Girolamo Gigli e il musicista Francesco Gasparini – composero gli Intermezzi in derisione della setta maomettana, rappresentati al Seminario Romano nel febbraio del 1717, forse con il patrocinio del mecenate Ruspoli24 o, più probabimente, dell’ambasciatore cesareo25. Come sottolinea Saverio Franchi, «il Maestro del Sacro Palazzo fra Gregorio Selleri, autorità preposta alla concessione dell’imprimatur, si allarmò alla lettura dell’aperta derisione dei riti religiosi turchi [...] e per prudenza impose che il libretto fosse stampato fuori dello Stato della Chiesa»26. Probabilmente, dunque, le note tipografiche (Napoli, per Felice Mosca) di questa pubblicazione furono «di comodo»27. Sembrerebbe plausibile che Gigli – ottimo conoscitore e traduttore di teatro francese, sia comico che tragico28 – avesse ben presente, nella sua biblioteca (1841), pp. 330-337; T. FAVILLI, Girolamo Gigli sanese nella vita e nelle opere. Studio biografico-critico con appendici di documenti inediti e di ricerche bibliografiche, Rocca San Casciano, Cappelli, 1907; U. FRITTELLI, Girolamo Gigli, in «Bullettino senese di storia patria», XXIX (1922), pp. 235-278; L. SPERA, Gigli Girolamo, in DBI, vol. LIV (2000), pp. 676-679. Per ulteriori e più puntuali rimandi critici rinvio alle note seguenti. 24 Per alcuni rilievi sui legami tra la famiglia Ruspoli e la corte asburgica di Vienna lungo l’arco del Settecento mi permetto di rinviare al mio S. CANNETO, Un «divinizzatore» di Vittorio Alfieri: per una biografia di Lorenzo Ruspoli, in Alfieri a Roma. Atti del Convegno nazionale (Roma, 27-29 novembre 2003), a cura di B. Alfonzetti e N. Bellucci, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 107-141: 125-127. 25 Intermezzi in derisione della setta Maomettana, coll’espressione d’alcuni Riti de’ Turchi nel porgere preghiere al loro falso Profeta. Da recitarsi in Seminario Romano nella Commedia de’ Signori Convittori delle Camere Piccole per le vacanze del Carnevale del 1717. La Musica è del Sig. Francesco Gasparini Virtuoso dell’Eccellentiss. Sig. Principe Ruspoli. In Napoli, per Felice Mosca [1717]. 26 Cfr. S. FRANCHI, Drammaturgia Romana II (1701-1750). Annali dei testi drammatici e libretti per musica pubblicati a Roma e nel Lazio dal 1701 al 1750, con introduzione sui teatri romani nel Settecento e commento storico-critico sull’attività teatrale e musicale romana dal 1701 al 1730, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1997, p. 128, nota 181 e, per la ristampa del 1730 di questo testo, p. 265. Cfr. inoltre F. PIPERNO, Francesco Gasparini «virtuoso dell’eccellentissimo sig. principe Ruspoli»: contributo alla biografia gaspariniana (1716-1718), e E. ZANETTI, La presenza di Francesco Gasparini in Roma. Gli ultimi anni (1716-1727), entrambi in Francesco Gasparini (1661-1727). Atti del primo convegno internazionale (Camaiore, 29 settembre – 1 ottobre 1978), a cura di F. Della Seta e F. Piperno, Firenze, Olschki, 1981, rispettivamente alle pp. 191-214 e 259-319. 27 Sull’inclinazione filoasburgica dello stampatore Felice Mosca cfr. PALMER, Panegirici napoletani al tempo degli Asburgo d’Austria, cit., pp. 115-122. 28 M. APOLLONIO, Storia del teatro italiano [1938-1950]. Vol. II. Dall’età barocca al Novecento, nuova edizione integrata, Milano, Rizzoli, 2003, pp. 337-341; B. BRUNELLI – R. ALLORTO, Girolamo Gigli, in Enciclopedia dello Spettacolo, Roma, Le Maschere, 9 voll., 1954-1965, vol. V (1958), pp. 12821283; W. BINNI, Il teatro comico di Girolamo Gigli, in ID., L’Arcadia e il Metastasio, cit., pp. 176-206: 192-193; R. CARLONI VALENTINI, Girolamo Gigli interprete di Giovanni Racine, in «Aevum», XLVI (1972), 1, pp. 49-114; B. STRAMBI, Girolamo Gigli nel teatro senese del primo Settecento, in «Bullettino Senese di storia patria», C (1993), pp. 148-195.

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ideale, la Cérémonie turque inserita ne Le bourgeois gentilhomme di Molière, il cui Tartuffe, rivestito di panni italiani e inserito nel contesto sociale senese, servì da modello per il Don Pilone, la commedia più fortunata e pungente dell’estroso autore o, come ha ribadito Roberta Turchi sulla scorta dei rilievi di Binni, «la commedia “più resistente e viva del teatro pregoldoniano”»29. A partire da queste considerazioni, si potrebbe ipotizzare che Gigli abbia tratto proprio dal modello francese l’idea generale della propria “turcheria”, sebbene con un’intenzione notevolmente più satirica e una carica decisamente dissacratoria. La lunga permanenza a Roma, inoltre, gli permise con molta probabilità di imbattersi nel mondo “levantino” del Caporal Giurgia – una sorta di paladino letterario della lingua franca all’interno dell’ambiente romano – e di maturare, infine, la decisione di tratteggiare il suo personaggio ottomano, lo schiavo Alì, prendendone a modello la lingua. Molière, dunque, per l’idea generale e per l’uso della lingua franca; la trafila romana di Giurgia per la tipizzazione scenica, oltre che per la lingua: furono questi, probabilmente, i modelli letterari che ispirarono gli intermezzi comici firmati da Gigli e dal musicista Gasparini, il cui senso generale e il cui scopo sono dichiarati nell’avviso al lettore: Le ultime Vittorie delle gloriosissime Armi Cesaree, per le quali tutto il Popolo Cristiano ha tanto giubbilato, e particolarmente quel di Roma, hanno suggerito all’Autore l’intreccio di quest’Intermezzi, per mezzo de’ quali mettendosi in deriso i Riti de’ Maomettani, ed i loro superstiziosi prognostici, si è dato luogo a diverse operazioni de’ Signori Convittori30.

Si tratta realmente di un «deriso» feroce e irriverente, impietoso, da cui è aliena ogni forma di rispetto umano per la morte di migliaia di uomini, benché nemici religiosi e militari, e in cui vengono messe alla berlina quasi tutte le usanze musulmane che – allora come adesso – rappresentano idealmente e caratterizzano concretamente, su un piano di civiltà oltre che di religione, la distanza che separa il mondo “cristiano” e occidentale da quello orientale e “turco”. Già l’apertura del primo intermezzo offre la misura della successiva irrisione. Alì, un giovane musulmano fatto schiavo dopo una grande battaglia persa contro gli Imperiali, è addolorato per la morte di suo padre, il Visir. Balocco, un inserviente nel campo cristiano, lo consola con cinica e macabra ironia: «Alì non pianger più: / tuo Padre è morto, era il Visir lo so: / il Diavol sel portò. / Dattene pace, e pensa a campar tu: / Alì non pianger più»31. Le proteste dello schiavo, che tenta di proteggere almeno il ricordo paterno, servono solo a incre-

29 Il teatro italiano, vol. IV. La commedia del Settecento. Tomo primo, a cura di R. Turchi, Torino, Einaudi, 1987, p. 6. 30 GIGLI, Intermezzi in derisione della setta maomettana, cit., c. A2. 31 Ivi, intermezzo primo, p. 5.

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mentare la carica denigratoria dell’interlocutore, che non mostra alcuna magnanimità, alcun rispetto per l’eroica morte in battaglia del comandante nemico: BALOCCO Ma il Corpo di tuo Padre, Ch’era grasso, cred’io, come un majale, Avrà parecchi Cani Tenuti in Carnevale. ALÌ No Cani non toccara il Padre mio Perché star benedetto Dal Muftì gran Papasso Di nostro gran Profeta Maometto. BALOCCO Io so, ch’un Can da lasso D’un Capitan Tedesco, Senza aver soggezzione Del gran Papasso, e sua benedizione, Un osso fresco fresco Si rodea poco fà, E si rodeva ancora il barzacchino Che parea d’un Visir, o d’un Bassà; E per quanto un tantino Puzzasse la vivanda, ei si leccava La bocca ad ogni poco Del Turchesco cosciotto, Sentendo forse il sito del Pillotto, Che all’anima di lui dà Belzebù: Alì non pianger più. ALÌ Star bugiardo Balocco, e non potera Né Visir, né Bassà, né Seraschiera Né membra musulmane Toccar tedesco Cane, Che Maometto Profeta onnipotente Far a lui cascar dente, E se mia Sciabla a me esser rimasa, Volera a te Balocco rinegato Eunucar tua nasa32.

Bandita dunque ogni forma di rispetto umano, l’intermezzo prosegue incentrando l’aspetto satirico sui riti e sulle prescrizioni alimentari dei turchi, incom-

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Ivi, pp. 5-6.

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prensibili e inaccettabili agli occhi dei cristiani. In primo luogo l’attacco derisorio va contro il digiuno penitenziale diurno al quale i musulmani vengono invitati durante il Ramadam: BALOCCO Musulmanetto Nato Visir Questa ciambella Ti vo donar. ALÌ Star interdetto, Sino che stella Non apparir, Oggi il mangiar. BALOCCO Non c’è gazzir, L’assaggia un po’. ALÌ Mangiar nò nò BALOCCO Solo un boccone ALÌ Nostro santone Scomunicar. [...] Oggi di nuova Luna Star sesto giorno, e a noi star comandato Far nostra gran digiuna, Perche Dio perdonar nostro peccato33.

Anche il secondo intermezzo si apre sulla feroce derisione delle prescrizioni alimentari musulmane. Nel banchetto organizzato nel campo cristiano per festeggiare la vittoria, Alì viene destinato a servire il vino («A te di servir tocca / col nappo intorno, e la bevanda eletta / portar cogli altri Paggi. Or tieni, e va; / già si nettan la bocca / molti, che voglion bere»34). Le sue proteste davanti all’idea di prestare questo servizio («Nò nò non toccara / né tazza né fiasco, / vietara Macone / cotesto liquor») servono soltanto a irritare ulteriormente Balocco («O Macone, ò Machella, / non star a replicar Turco superbo»), il quale per tutta risposta minaccia di mandarlo a servire in cucina, a cuocere il maiale allo spiedo («all’Arrosto del Porchetto / a dispetto di Maometto / lavorar io ti farò»35).

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Ivi, pp. 6-7. Ivi, intermezzo secondo, p. 8. Ivi, p. 9.

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L’irrisione sarcastica, in questo scambio, è chiara: il contatto con la carne suina e con le bevande alcoliche fermentate (vino e birra), come è noto, è prescritto dal Corano. La carica denigratoria prosegue tuttavia con virulenza sempre maggiore. Durante l’alterco fisico che segue allo scambio sopra riportato, Alì rovescia il vassoio con la brocca del vino a terra, suscitando il disappunto e la feroce reazione di Balocco («Ahi furfante, razzaccia / circoncisa, infedele e maledetta»), che decide di far bere Alì contro il suo volere («Tu non vuoi Vino? Aspetta / tel vò spruzzar come a’ Cavalli in faccia. / Ci sei, ci starai / Sì, sì, lo berai / Turcaccio de Cani»)36. Alì, benché nolente, assaggia dunque il vino per la prima volta nella sua vita. A quale esito condurrà questa nuova esperienza lo si può agevolmente comprendere: all’ubriacatura – stavolta volente – del giovane musulmano, che si inoltra in una sperticata lode del vino e dei suoi benefici, soprattutto in battaglia, e comincia a manifestare qualche dubbio sull’effettiva opportunità delle prescrizioni alimentari coraniche. Mà per l’orecchio manco Esser vin bianco In bocca mia passato Ed avere ingollato. Maometto perdono, Mà aver pazienza, Peccar per violenza, Peccato non star. Mai più voler far Peccato, se vivo, Peccato è cattivo Mà vino star buono: Maometto perdono. O che soave odore Gettar vino versato Dal Profeta vietato! Mettere gran vigore All’huomo addosso e dar coraggio in guerra. Ah se versato in terra Portar tanta fragranza, e gagliardezza, Maggior cuore, e fortezza Dar al Cristiano Fante, e Cavaliero Se versar fiasco intero In corpo suo: e non aver or dubbio, Che Turchi avere avuto Vittoria, e non Todeschi, se bevuto

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Ivi, pp. 9-10.

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Salvatore Canneto Aver poveri Turchi Fiume Monte Pulciano, e non Danubio. Ma creder certamente, Che quando Turco aver buona intenzione Di volera disfar Cristiana gente, Al men due tazze buone Poter pigliar di Vino, Di sera, e di mattino, E che nostro Profeta Maometto Quando dar simil caso, Doppo fatta Orazione Bever d’ogni calore vino pretto Per bocca, per orecchi, e fin per naso. Gran Profeta Alì protesta Non ber vino per ghiottizia, Mà per fara e gambe, e testa De’ Cristiani alla milizia37.

La conclusione del secondo intermezzo, in linea con quanto si è venuto a creare nelle battute finali, è dunque anch’essa significativa nella sua carica satirica. La didascalia recita infatti che «Mentre Alì si consola un poco intorno ai fiaschi della bottigliera violando il precetto Maomettano, vengono molti Turchi schiavi, che vedendolo bere il vino fanno cenno volerlo strozzare; ed esso gli spruzza del buon moscatello in viso, e gli conforta ad imbriacarsi, come fanno tutti allegramente»38. Questi sono gli ultimi momenti che prevedono la presenza in scena del giovane schiavo turco (e della lingua da questi parlata): nell’intermezzo successivo si scoprirà infatti che Alì «cotto in Cucina / sta addormentato»39. All’uscita di scena del povero Alì, tuttavia, non corrisponde affatto, come si vedrà, una diminuzione della carica dissacrante della pièce verso il mondo musulmano. 3. L’«Addottoramento dell’Asino» Il nucleo tematico e la carica satirica degli intermezzi turcheschi risiedono, nell’opera di Molière, più che nella lingua franca adoperata per far parlare il Muftì e gli altri levantini, nella rappresentazione di una situazione comica e paradossale che, in ultima istanza, si configura come un’ulteriore variazione sul tema peculiare della satira molieriana, di tipo squisitamente sociale. L’investitura “nobiliare”, per quanto immaginaria e inverosimile, di un personaggio – il 37 38 39

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Ivi, pp. 10-11. Ivi, p. 11. Ivi, intermezzo terzo, p. 13.

«L’Addottoramento dell’Asino». Per un percorso “turco” nell’opera di Girolamo Gigli

“borghese” Jourdain – con un “titolo” il cui conseguimento non gli sarebbe possibile raggiungere e che è assai distante dalla sua reale posizione sociale rappresenterebbe, dunque, una frecciata polemica che Molière scaglia contro la famelica e ai suoi occhi ingiustificabile aspirazione al titolo aristocratico tipica, in Francia come altrove, della nuova borghesia rampante nella piena età moderna. Sul piano formale della situazione scenico-teatrale, Gigli sembra proporre negli Intermezzi una situazione analoga, estraendola però della sua dimensione di satira dei costumi: il parossismo denigratorio antiislamico sottrae infatti la vicenda al piano dell’inverosimiglianza sociale – il borghese che, nella sua “maniacalità”, riesce a ottenere l’investitura aristocratica, seppur fittizia40 – e la trasferisce su un piano diverso, “altro”, di “scontro di civiltà”. In questo nuovo contesto il modello molieriano si (ri)configura dunque come una struttura drammaturgica funzionale, ripresa nella sua manifestazione esteriore ed esclusiva di puro e pratico meccanismo teatrale, rivestita però di un nuovo senso e di un significato diverso. Preparata abilmente con sporadici accenni disseminati nel corso dei primi due intermezzi, la scena dell’«Addottoramento dell’Asino» trova la sua rappresentazione completa e definitiva nel terzo e ultimo intermezzo dell’operetta gigliana. Anche in questo caso il senso generale e il significato della rappresentazione – il «disprezzo della Dottrina di quel falso Profeta» – vengono illustrati, in sede liminare, nell’avviso al lettore: «in fine si celebra l’Addottoramento dell’Asino di Lui, che secondo alcuni Scrittori fu chiamato Boracco, voce araba, donde Buricco procedette, nome, che a tutti i giumenti suole appropriarsi»41. Il Corano non nomina esplicitamente questo animale. La leggenda di al-Burāk nacque infatti in connessione con il racconto del miracoloso «viaggio notturno» del profeta Maometto, che, nell’arco di una sola notte, e con il suo corpo in carne e ossa, venne condotto dalla Mecca a Gerusalemme, e di qui al cielo, e ritorno, in compagnia dell’arcangelo Gabriele (Corano, s. XVII, 1). Il viaggio fu compiuto sul dorso di un animale meraviglioso, al-Burāk appunto, di cui il testo sacro non parla ma che è stato oggetto d’interpretazione per molti commentatori successivi. In genere si è giunti a descriverlo come un animale simile a un mulo o a un asino, dal dorso allungato e dalle lunghe orecchie, forse di colore bianco, talvolta con testa umana; per alcuni era addirittura alato. L’etimologia del nome, inoltre, rimanderebbe ad ambiti concettuali legati alla “velocità”42. Nonostante

40 Sulla soluzione teatrale di Molière, che nel Bourgeois gentilhomme fa sì che il «maniaco» Jourdain, invece di essere punito o escluso, come avveniva in alcune precedenti pièces, diviene invece «il re della festa a cui tutti finiscono per partecipare», rinvio a F. FIORENTINO, Il ridicolo nel teatro di Molière, Torino, Einaudi, 1997, pp. 190-203. 41 GIGLI, Intermezzi in derisione della setta maomettana, cit., intermezzo terzo, c. A2. 42 Cfr. R. PARET, al-Burāk, in Encyclopaedia of Islam. New Edition, vol. I, Leiden, E. J. Brill, 1979, pp. 1310-1311.

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l’evidente carattere di ricercatezza, rispetto alla nota e abusata satira cristiana sulle prescrizioni rituali o alimentari dei musulmani, questo topos polemico godette in Italia di una fortuna in certo qual modo significativa, come dimostrano ancora una volta alcune incisioni di Francesco Maria Mitelli circolanti a Bologna alla fine del Seicento e ai primi del Settecento; incisioni che molto probabilmente Gigli ebbe modo di conoscere, dato lo stretto e prolungato rapporto che egli intrattenne con alcuni autori e stampatori dell’ambiente felsineo. Il senese fu infatti in contatto con il bolognese Pier Jacopo Martello43; fece parte dell’Accademia degli Accesi di Bologna; infine alcuni editori bolognesi, con in testa Longhi, si incaricarono spesso della stampa (o della ristampa) di diverse sue opere. Ma è il raffronto diretto con le incisioni di Mitelli a evidenziare la consonanza sintomatica tra i due autori: una consonanza che, come si vedrà, facendo leva su piani artistici differenti – iconografico e letterario – converge verso una visione satirica omogenea e ugualmente dissacrante. L’elemento asinino – nucleo principale della rappresentazione gigliana – compare spesso nelle incisioni d’argomento turco di Mitelli. Ricordo qui, a titolo meramente esemplificativo, che è appunto un asino l’animale su cui Kara Mustafà fa mesto ritorno, assieme agli altri scampati, verso Costantinopoli dopo la cocente sconfitta viennese, nella già citata Chi cerca accatta del 1683 (FIG. 6); sempre da un asino, inoltre, lo stesso Visir crolla a terra, in una rappresentazione volta a simboleggiare e prefigurare l’imminente crollo della monarchia ottomana (FIG. 27, che riproduce la replica che dell’incisione mitelliana eseguì Ludovico Mattioli nel 1684: da notare, inoltre, gli altri motivi allusivi analoghi rintracciabili nella composizione: la mezzaluna calante e, sullo sfondo, la Fortuna che si allontana con il solito stendardo a farle da vela). Significativa, a questo proposito, sebbene non direttamente riferita alla sfera turca, risulta anche l’incisione intitolata Così va il mondo, del 1685, in cui la Fortuna, la cui volubilità è figurata dalla ruota su cui essa si adagia, regge sulle sue braccia un somaro riccamente bardato (FIG. 28). L’incisione mitelliana che a mio parere fornì alcuni degli spunti più significativi all’ingegno irriverente e sarcastico del letterato senese può essere tuttavia individuata nella grande tavola dal titolo Relatione venuta da Costantinopoli, del 1698 (FIG. 29). Si tratta di un lavoro eseguito in occasione della pace di Carlowitz, stipulata proprio in quell’anno a conclusione della guerra iniziata quindici anni prima con l’assedio di Vienna, e che aveva assistito al confronto armato tra il mondo europeo-cristiano – in particolare Impero, Venezia e Polonia, assistiti dal papato – e quello turco- maomettano e alla definitiva cessione, da parte di quest’ultimo, di diversi territori. Già dal titolo completo del-

43 Cfr. M. CARMI, Pier Jacopo Martelli – Studi. I. Pier Jacopo Martelli, Apostolo Zeno e Girolamo Gigli (Una pagina della storia del Vocabolario Cateriniano), Firenze, Seeber, 1906.

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«L’Addottoramento dell’Asino». Per un percorso “turco” nell’opera di Girolamo Gigli

l’incisione – Relatione venuta da Costantinopoli delle Carovane, Digiuni, Penitenze, Flagelli, et altre cose fatte l’anno 1698 per tutto l’Impero Ottomano d’ordine del Gran Turco per placar l’ira del suo falso Profeta Maometto, vedendosi vinto dall’armi Christiane. MIRA CHE FANNO I TURCHI PER IL SUO FALSO PROFETA – si potrebbe forse intuire una certa filiazione del testo di Gigli (Intermezzi [...] coll’espressione d’alcuni Riti de’ Turchi nel porgere preghiere al loro falso Profeta). Sotto il titolo, poi, si snoda la rappresentazione iconografica, eseguita come una una processione in cinque righe di numerosi turchi che si dirigono verso la Mecca, pregando, sacrificando, e naturalmente disperandosi; alcune figure e i diversi gruppi sono contrassegnati da undici numeri arabi che rimandano alla leggenda vergata in calce. Alcuni punti di questa leggenda risultano interessanti ai fini del mio discorso. Li riporto: 1. Molti Turchi portano una cassa d’ossa di morti, et altre casse di Morti suoi valorosi soldati, e vanno gridando, et urlando vestiti di sacco, e corda con tutte l’armi da guerra fracassate, e gettate per terra. 2. Quantità di Mussulmani, gridando si strazzano le loro vesti. 3. Altri Turchi mezi nudi si percuotono la Schiena, e petto con spine, e flagelli. 4. Numero di Spaì senza turbanti portano la Cassa di Maometto incensandola, e molti Bascià con sciabla alla mano li vanno girando intorno, e se alcuno ardisce fissarli il guardo resta trucidato, e gettato à cani il di lui Cadavere. 5. Ogni miglio di strada tagliano à pezzi un schiavo Christiano, et un ebreo lasciandoli morire nel proprio sangue. [...] 7. Ammazzano un ebreo, et un asino, e con quel sangue tingono una benda, che portano nel turbante. [...] 10. Quantità di penitenti da loro chiamati Santoni, quali con urli, e strida si feriscono con coltelli la vita, che piove sangue, senza potersi asciugare.

La derivazione gigliana da questa tavola appare riscontrabile nella netta convergenza tra il testo della leggenda e alcuni dettagli dell’immagine rappresentata con alcuni passi degli Intermezzi in derisione della setta maomettana. In particolare, nel primo intermezzo il musulmano Alì racconta di una processione religiosa che i suoi correligionari sono soliti fare verso la Mecca in particolari occasioni di penitenza e di espiazione: come nella tavola di Mitelli, anche qui la processione è legata al fatto d’armi della sconfitta subita per mezzo degli eserciti imperiali. Le altre convergenze – la presenza di «Santoni» vari, Muftì, sangue, occhi bassi e barba scarmigliata, il sacrificio di un asino e di un ebreo – sono agevolmente riscontrabili nel passo che segue: ALÌ Oggi fare alla Mecca Solenne Processione, E ogni nostro Santone Tagliar pezzi di carne benedetta,

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Salvatore Canneto E scorrer sangue tanto, Che a Dio chieder vendetta: Gran Muftì co’ i Papassi Marciar con occhi bassi Senza turbante, e barba scarmigliata Chiedendo a Dio pietà: Allà Bessem mabalamesì Allà. BALOCCO Ma dimmi: È vera questa, Che ad ogni miglio della Processione A un Asino, e a un Giudeo faccian la testa?44

Altre sintomatiche convergenze si riscontrano poco dopo, nelle parole di Despino appena sopraggiunto. Questi descrive la processione religiosa che il colonnello dell’esercito imperiale ha ordinato di allestire a imitazione di quella turca: con «Santoni» e «Spaì» vestiti di sacco, con indosso una corda come simbolo penitenziale, che si percuotono il petto in segno di dolore e contrizione. Ma vuol, che cento [Turchi schiavi] or ora Davanti al Padiglione, Dove a diporto il gran Consesso siede, Faccian la Processione, Come in Bizanzio l’ordinò il Muftì, Co i Santoni, e Spahì Vestiti a sacco, e con la fune al collo; Che si frustin le spalle, E si picchino il petto: Vedrai ’l Visir, e appunto eccolo quà, Che cavalcando un Asino storpiato, Con un baston di canna insanguinato, Grida: Bessem, Mabalamesì, Allà45.

Nel terzo intermezzo, si è detto, si consuma la cerimonia dell’«Addottoramento dell’Asino», in cui si assiste alla confluenza definitiva nel testo gigliano degli elementi mutuati dalla Cérémonie turque di Molière e dalle incisioni mitelliane. L’attacco vede entrare in scena Osmino, quasi sfinito per il gran ridere: questi racconta che durante la processione voluta dal colonnello, nel momento culminante del sacrificio dell’asino, si è verificato un episodio improvviso e inaspettato che ha sconvolto le intenzioni originarie e ha fornito ai Cristiani – o meglio: all’autore Gigli – il destro per un’ulteriore rappresentazione di scherno e di dileggio verso i nemici sconfitti. L’occasione permette inoltre una fugace 44 45

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GIGLI, Intermezzi in derisione della setta maomettana, cit., intermezzo primo, p. 7. Ivi, pp. 7-8.

«L’Addottoramento dell’Asino». Per un percorso “turco” nell’opera di Girolamo Gigli

frecciata satirica d’argomento politico interno – a proposito dell’«Asin trionfale» che «ha da ragliare un giorno in Campidoglio» – alla quale il poeta non si sottrae. OSMINO Nella gran Processione I Turchi Schiavi un Asin da molino Voleano al suo Macone Sagrificar; e già del basto, e sacchi L’aveano scaricato, Mà l’Asino indovino Del suo malanno; a loro si è voltato Con calci, e morsi; e a’ due primi Sangiacchi Ha sfondato la pancia, E a cert’altri Santoni Gambe hà rotte, e garoni Tirando quà, e là sempre a piè pari. BALOCCO È la quarta de’ Muli, e de’ Somari. OSMINO Finche un tal venerando Turco; fermate, ha detto, Gente crudele infame, Non vedete al pelame, E all’Asinina insolita fortezza, Che quest’Asin discende Dall’Asin di Maometto, Dal gran Boracco, dico, Del cui gran seme generoso antico Promette l’Alcorano, Ch’un Asin trionfale Ha da ragliare un giorno in Campidoglio? BALOCCO Credo, che l’Alcoran non dica male. OSMINO E cacciarne il Caval Marc’Aureliano: Onde ciascun la mano Chinando, al buon Somar fatta hà onoranza, E attaccandogli i voti All’orecchie, e alla coda L’han posto coi Santoni in ordinanza46.

46

Ivi, intermezzo terzo, pp. 12-13.

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Osmino continua a raccontare che il colonnello, per rendere anch’egli onore all’Asino del Profeta, ha deciso di organizzare una solenne cerimonia accademica, durante la quale, «per far sollazzo a tutti i Convitati, / e alla Tedesca gente», intende «Laurearlo Dottore»47. L’esilarante cerimonia, che avviene in scena poco dopo, è un trionfo di superlativi, nonsense e ragli asinini. Di fronte all’incalzare delle «somaresche tesi» esposte da Osmino, il povero somaro Boracco non può far altro che ragliare; e il raglio viene comicamente interpretato come una dotta dissertazione accademica sugli argomenti proposti, al termine della quale non può che avvenire un’ancor più comica – e interamente eseguita per superlativi – cerimonia di conferimento del titolo dottorale. Ne riporto un’ampia sezione: OSMINO Contro il mio Condiscepolo Boracco Prendo ad impugnar le somaresche tesi, E vò metterlo in sacco. Non è buon Procuratore Chi non sa ben far l’Agente: Ma Boracco è Paziente: Non può dunque esser Dottore. DESPINO La maggior non si contrasta; La minor distinta via. BORACCO

Ah, ah.

BALOCCO Ha risposto basta, basta. OSMINO Benissimo, bravissimo Boracco studiosissimo, Boracco eloquentissimo. BALOCCO Giumento eruditissimo, Somaro legalissimo, Boracco eccellentissimo. OSMINO Rimango appagatissimo Del vostro elevatissimo Ingegno sottilissimo.

47

242

Ivi, p. 13.

«L’Addottoramento dell’Asino». Per un percorso “turco” nell’opera di Girolamo Gigli [...] OSMINO Fate la cerimonia Di rivoltar la pagina Dell’Alcorano altissimo, Di cui dovete in Cattedra Esser Dottore interprete, Ch’io vi darò la laurea Per parte del Cesareo Caval di Marc’Aurelio, Che sta nel Capitolio, Ch’un Asino ogni secolo Può metter di collegio Con ogni privilegio Onore, e facoltà, Che a Bartolo si dà. BORACCO

Gli fanno voltare un libro

Ah, ah.

OSMINO, BALOCCO e DESPINO à 3 Benissimo, bravissimo Boracco studiosissimo, Boracco eloquentissimo. Giumento eruditissimo, Asino eccellentissimo, Benissimo, bravissimo. OSMINO Or or vi metto l’Anulo, Dottor Pseudoprofetico Nella grand’ugna destera, Con pietra famosissima Cioè pietra di macina, Dove portaste il carico Del sacco pesantissimo Facendovi dottissimo Al suon dell’arri là. BORACCO

Ah, ah.

à3 Benissimo, bravissimo. etc.48

La conclusione della pièce sembra anch’essa ricalcare l’idea fondamentale della cerimonia turca allestita da Molière, con le sue danze e i suoi conferimenti 48

Ivi, pp. 14-16.

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simbolici. Mentre il Muftì dà inizio a una nuova invocazione a Maometto, facendo diverse contorsioni e molte smorfie, i dervisci e gli altri turchi in scena gli ballano intorno e lentamente conducono via Jourdain. In Gigli, come si legge nella didascalia finale, Facendo tutti plauso al nuovo Dottore superlativo Asinino gli mettono il Cappello, e danno solennemente la Laurea. L’analogia simmetrica appare dunque evidente: al «Turbanta» nobiliare e alla «Schiabbola» da «Paladina» donati dai turchi al borghese Jourdain fanno da contraltare il «Cappello» accademico e la «Laurea» dottorale assegnati dai cristiani all’asino Boracco. 4. La Brandaneide (e dintorni crociati). Il 13 gennaio 1720 veniva eletto alla carica di Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di Malta l’italiano Marc’Antonio Zondadari (1658-1722). Appartenente a un’antica e illustre famiglia aristocratica di Siena, e imparentato per parte di madre con papa Alessandro VIII Ottoboni, la sua ascesa in seno all’ordine gerosolimitano era cominciata a Napoli, all’ombra del Gran Maestro Gregorio Carafa (1615-1690). Nel 1712, mentre sul soglio di Pietro regnava Clemente XI, fu nominato ambasciatore presso la Santa Sede: papa Albani nutriva infatti per Zondadari una stima particolare, e sembra che ne avesse previsto, in futuro, l’elezione alla guida suprema dell’Ordine maltese. Durante il Gran Magistero di Zondadari, e nonostante la sua breve durata, i Cavalieri vissero un nuovo periodo di floridezza e felice attività: le fortificazioni sull’isola vennero riprogettate e ricostruite; la disciplina fu restaurata tra i membri; il commercio marittimo riprese a fiorire. Zondadari lasciò un breve opuscolo istruttivo e descrittivo sull’Ordine dei Cavalieri di Malta, pubblicato per la prima volta a Roma nel 1719, ristampato a Parigi nel 1721 e infine uscito in seconda edizione postuma – accresciuto con una parafrasi del salmo XLI di pugno dello stesso Gran Maestro – a Padova, nel 1724 49. L’elezione di Zondadari venne festeggiata, con diverse cerimonie solenni, in tutta la Penisola, ma con uno sfarzo particolare a Siena, sua patria50, e a Roma, la città che lo aveva ricevuto e apprezzato come ambasciatore, e in cui dimorava una consistente e

49 Breve e particolare Istruzione del Sacro Ordine Militare degli Ospitalari, detto oggidi volgarmente di Malta, e della diversa qualita di Persone, e di Gradi che lo compongono. Stesa da un Cavalier Professo della medesima religione. Edizione seconda Arricchita della Parafrasi al Salmo XLI. Composta dallo stesso autore. In Padova. Nella Stamperia di Giuseppe Comino. Per Giovanni Baldano, 1724. 50 Lettera all’Illustrissimo Signor Bali d’Acri Fra Don Antonio Emanuel di Lisbona Contenente la Relazione delle Feste fatte in Siena in occasione dell’Esaltazione al Gran Magistero di Malta dell’Eminentissimo e Reverendissimo Fra Marc’Antonio Zondadari. In Siena, nella stamperia di Francesco Quinza, 1720.

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attivissima comunità di cittadini senesi. Tra questi ultimi, naturalmente, era presente Girolamo Gigli, autore di una Lettera indirizzata a Francesco Piccolomini, pubblicata nello stesso 1720, in cui il letterato descriveva all’amico il solenne apparato celebrativo allestito nella Città dei Papi per festeggiare l’evento51. La paternità gigliana di questo testo, non riportata nel frontespizio, è deducibile da alcuni “indizi” e “firme” che Gigli disseminò lungo il testo: l’elogio della città di Siena e della sua gloriosa storia, così ricorrente in gran parte delle opere dell’autore; l’acronimo «G. G.» posto in calce al documento; infine il fatto che l’autore della lettera si attribuisca la paternità dell’«Operetta titolata, La Città diletta di Maria, che poco fa ho messa alla luce»52 e del Giornale Sanese 53, entrambi testi indiscutibilmente frutto della penna di Gigli. L’encomio diretto al nuovo Gran Maestro gerosolimitano e l’elogio della città che gli ha dato i natali rientrano, va da sé, nella dimensione esteriore e “topica” dei festeggiamenti. Più interessante risulta invece sottolineare in questa sede il ruolo rilevante della dimensione “crociata”, di cui la Lettera si fa latrice e promulgatrice: una dimensione, del resto, perfettamente in linea con la dinamica politico-strategica e cultural-ideologica che come si è visto si era venuta man mano delineando e rafforzando ininterrotamente ormai da più di un trentennio. Il sostrato ideologico di questo testo manifesta infatti un’interpretazione del Gran Magistero maltese come una di una «Dignità» «a tutto il Mondo cattolico venerabile e a tutto il Mondo infedele formidabile sempre mai», e una prospettiva storica secondo la quale i Senesi «non cedettero nei tempi andati ad ogni altra più potente Signoria nello zelo del racquisto di Terra Santa»: nessun’altra città, afferma Gigli, ha del resto sacrificato «tanto sangue patrizio alla difesa Cristiana sotto le bandiere di Malta» quanto Siena54. L’autore non manca inoltre di sottolineare che la festa solenne fu volutamente organizzata per il 20 maggio, giorno che il calendario religioso dedica a San Bernardino da Siena, dal momento che il Gran Maestro Zondadari «l’insegne di Gesù dovrà sostenere, stendendone tanto lontano le glorie colla spada, quanto lontano fece udirle Bernardino colla lingua»55: un’immagine sintagmatica, quest’ultima, che si rifà a un procedimento insieme ideologico e letterario di consolidata tradizione, già visto ad esempio nell’encomio lirico per Giovanni Sobieski con il motivo “giovanneo” della «penna» e della «spada». 51 Lettera scritta da Roma all’Illustrissimo Signor Francesco Piccolomini a Siena, in cui da un’Amico suo si descrivono le solenni Feste celebrate dalla Inclita Nazione Sanese nella Strada Giulia. Il giorno di S. Bernardino per la gloriosa esaltazione dell’Eminentiss. e Reverendiss. Fra Marcantonio Zondadari Al gran Magistero della Eminentissima, e sempre invitta Religione Gerosolimitana di S. Giovanni. In Roma MDCCXX Nella Stamperia del Tinassi. Con licenza de’ Superiori. 52 Ivi, pp. 4-5. 53 Ivi, p. 33. 54 Ivi, p. 4. 55 Ivi, p. 8.

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Anche la scelta del materiale iconologico che il direttivo degli organizzatori decise di associare alla scenografia veicola una non dissimile concezione ideologica che insiste, con una significativa continuità, su motivi e allusioni di crociata memoria. La descrizione dell’arco trionfale di Zondadari eretto «nell’entrare della strada Giulia»56 è eloquente in tal senso: gli elementi principali erano costituiti dalle due statue della «Pietà» e del «Valore», mentre una serie di nove medaglioni fregiati in bassorilievo celebrava alcuni significativi momenti della vita del Gran Maestro. Particolare importanza era riservata ai medaglioni settimo, che riportava l’«acclamazione de’ suoi Popoli, e delle Nazioni tutte Cattoliche» alla notizia dell’elezione dell’eroe al Gran Magistero, e nono, in cui erano istoriate «le prime vittorie conseguite sopra i legni Affricani dalle Vele Maltesi, [...] preludio avventuroso di maggiori vicine conquiste»57. Un secondo arco trionfale era collocato «dalla parte di sotto a chi venia dal Ponte Sant’angelo»: anche su di esso erano stati collocati altri medaglioni fregiati in bassorilievo, che riportavano altrettanti episodi «in riguardo di più Spedizioni fatte, a conforto di alcuni Sommi Pontefici, di molti Reggimenti de’ suoi [di Siena] valorosi Cittadini contro gli occupatori della terra Santa»58. I riferimenti andavano, nei primi sette medaglioni, a vicende avvenute all’epoca delle Crociate; nell’ottavo all’assemblea generale tenuta dai Cavalieri di Rodi, nel 1445, proprio a Siena; e nell’ultimo all’«Armata navale Cristiana sotto le insegne di tutti i Monarchi battezzati raccolta nel porto d’Ancona per opera di Pio II Sanese»59. Tra i due archi si stendevano, su entrambi i lati, «come ad ordine di Galleria preziosi arazzi»: da una parte vi erano i ritratti «di alcuni Capitani insigni di Siena (in gran parte Gerosolimitani) che trionfarono sopra i nemici della Fede Romana», dall’altra «altrettanti Cavalieri Gerosolimitani, che si segnalarono o in custodia di Fortezze, o in comando di Armate in Terra, o in Mare a difesa del Nome Cristiano, senza sparammio di sangue»60. Infine, «in faccia alla Chiesa» era collocato un grande quadro raffigurante Zondadari inginocchiato ai piedi di Santa Caterina da Siena, «la quale presentavagli incatenate l’Europa, l’Asia, e l’Africa, che in tutto, o in parte servono alla tirannia Ottomana, sollecitandolo a liberarle, e promettendogli assistenza dal Cielo»61. Oltre che in riferimento alla persistenza e alla riproposizione di motivi e ideali crociati, l’interesse veicolato dal volumetto contenente la Lettera di Gigli risiede anche in un secondo aspetto: l’autore si propone nelle vesti di antologiz-

56 57 58 59 60 61

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Ivi, p. 9. Ivi, p. 12. Ivi, p. 13. Ivi, p. 16. Ivi, pp. 16-17. Ivi, p. 19.

«L’Addottoramento dell’Asino». Per un percorso “turco” nell’opera di Girolamo Gigli

zatore poetico62. Come egli stesso afferma, «furono letti, e pubblicati molti componimenti ingegnosi in onore dell’E. S. Ne ho trascelti i migliori, [...] che da questo Bosco Parrasio sono usciti, per far corona al suo inclito, e generoso Pastore»63. ***** Nello stesso tempo in cui stava lavorando alla Lettera, Gigli attese anche a un’altra opera tematicamente e ideologicamente affine, una «poesia fanatica» polimetrica cui diede il titolo significativo Il pazzo di Cristo, ma che divenne nota come Brandaneide 64. Si tratta di un testo piuttosto complesso, pieno di riferimenti a tradizioni municipali e all’attualità anche cronachistica di non facile decodificazione, e di allusioni encomiastiche e, soprattutto, satiriche che causarono all’autore non pochi problemi65. Strutturalmente, esso è costituito da diverse sezioni metriche: l’incipit è costruito come una successione di nove stanze di canzone, in cui l’autore presenta il risveglio dalla tomba di Brandano e l’inizio del suo pellegrinaggio profetico tra la popolazione; il congedo dell’opera è invece impostato come una libera successione di endecasillabi e settenari variamente rimati. All’interno di questa cornice, le parole pronunciate dal «pazzo di Cristo» sono costruite su strofe di quartine (a schema a7b7b7c5 – c7d7d7e5 etc.). Sono poi presenti diversi altri metri, tra i quali i martelliani, le coppie di settenari a rima baciata, la serie di ottonari sdruccioli, le terzine di endecasillabi con rima costante al mezzo; non mancano, infine, versi sciolti di varia misura, dal trisillabo all’endecasillabo. Per quanto concerne invece la fabula di questo testo, va osservato in primo luogo che la molteplicità dei temi affrontati e dei motivi riproposti – spesso senza un apparente filo logico, ma

62 La lettera è riportata alle pp. 3-35 del volume, mentre le pp. 40-85 riportano una Raccolta di alcuni componimenti, che da varie Università, e Accademici di Roma e di fuora, furono mandati agl’Illustrissimi Governatori della Nazione Inclita Sanese per la Festa celebrata in onore dell’Eminentissimo, e Reverendissimo Fra Marcantonio Zondadari Nuovo Gran Maestro dell’Ordine Eminentissimo Gerosolimitano. Molti de’ quali si dispensarono il giorno stesso. Gli accademici antologizzati appartengono alla Crusca di Firenze, all’Arcadia di Roma o ai Rozzi di Siena. 63 Ivi, p. 35. 64 Il pazzo di Cristo, ovvero il Brandano da Siena vaticinante nell’esaltazione gloriosissima al Gran Magistero Gerosolimitano dell’Eminentissimo, e Reverendissimo Fr. Marc’Antonio Zondadari. Poesia fanatica di Amaranto Sciaditico P.A. In Siena presso Francesco Quinza alle tre Rose d’oro. Con licenza de’ Superiori. 65 In particolare le allusioni all’Arcadia di Crescimbeni gli procurarono il temporaneo allontanamento dall’accademia. Cfr. su questi aspetti A. MORETTI, Girolamo Gigli, estr. dall’«Ateneo Veneto», aprilegiugno 1891, p. 19; CARMI, Pier Jacopo Martelli – Studi. I. Pier Jacopo Martelli,, Apostolo Zeno e Girolamo Gigli, cit., pp. 67-72; FAVILLI, Girolamo Gigli sanese nella vita e nelle opere, cit., p. 32 e pp. 68-69. I verbali dell’espulsione di Gigli sono conservati a Roma, nella Biblioteca Angelica, Ms. 35, p. 16 sgg. e Fatti dell’Arcadia, III, pp. 54 sgg.

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quasi seguendo il libero corso della fantasia – rende praticamente irriducibile all’esposizione l’intreccio narrativo. In generale, si può dire che Gigli prende a pretesto il risveglio di Brandano per intessere un canto di lode per l’esaltazione al Magistero maltese di Zondadari, del quale vengono profetizzate una serie di imprese di sapore crociato, tra le quali, naturalmente, la riconquista del Sepolcro di Cristo; quest’ultimo viene riportato a Roma per essere ricollocato in San Giovanni in Laterano. Da questo esile percorso narrativo dipartono tuttavia moltissime digressioni che coinvolgono figure storiche (come Margherita Marsili, la bellissima gentildonna senese, rapita dai pirati barbareschi di Khared-Din, il famoso «Barbarossa», nel XVI sec.), religiose (come il profeta Balaam), e soprattutto attuali, come i diversi cardinali dei quali vengono evidenziati i pregi o più frequentemente i difetti, oltre che gli Arcadi riuniti in accademia. Coerentemente con quanto descritto nella coeva Lettera, Gigli non nasconde la prospettiva crociata che si cela dietro alle affermazioni di Brandano. Costui sembra inoltre rappresentare una sorta di personificazione dell’autore, come spingono a credere varie affermazioni disseminate lungo l’intero arco del testo. Eloquenti in questo senso sono i seguenti versi, che alludono – ed è ancora una tentazione alla quale Gigli spesso non riusciva a resistere – alle note e burrascose vicende biografiche e culturali che segnarono la sua esistenza: Canterà queste imprese un Cigno paesano 66, Che canta in buon Sanese, come canta Brandano; Che prese dura briga67 per la favella nostra; Cimineia, e Buttiga egli mantenne in giostra, Che in prosa, e in poesia diè di mano, e di denti Contro l’Ippocrisia68, e tutti i suoi Conventi: Sostenne false accuse 69, come fece Susanna, Né contro lui concluse la criminal condanna70.

Per quanto concerne la dimensione che segna il sostrato ideologico di questo testo, essa compare già nella cornice narrativa in cui l’autore immagina il “risveglio” di Brandano, e costituisce il significato ultimo delle parole da questi pronunciate: l’idea della crociata (con il rimando «al Sepolcro di Cristo») e la prospetiva profetica (con il rimando a Elia e a Giona):

«Forse vuol dire dell’Autore di questa Canzone» (n.d.A.). «Allude alle controversie Gramaticali, che il medesimo prese pel Dialetto di Siena» (n.d.A.). 68 «In più opere la prese l’Autore contro gl’Ippocriti, onde fu chiamato da un grande Scrittore Malleus Hypocritarum» (n.d.A). 69 «È nota l’impostura, e l’assoluzione capite innocentiae» (n.d.A.). 70 GIGLI, Il pazzo di Cristo, cit., p. 36. 66

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«L’Addottoramento dell’Asino». Per un percorso “turco” nell’opera di Girolamo Gigli adesso dalla tomba uscito Si è, non so come, di bordon provisto, Che al Sepolcro di Cristo Vuol, che d’Europa addrizzino i Vessilli: Par, che il Ciel gli sfavilli Negli occhi accesi, come a Elia, e a Giona71

Molti sono poi i passi in cui è lo stesso Brandano a esortare gli ascoltatori alla lotta contro gli infedeli, sempre allo scopo di restaurare in Oriente, Africa ed Europa il cattolicesimo romano. Così, fin dagli esordi del suo discorso, il «pazzo di Cristo» non circoscrive il suo canto al mero encomio celebrativo del Gran Maestro Zondadari, ma soprattuto invita l’intera cristianità e i suoi sovrani più potenti a pensare che i luoghi santi gemono ancora sotto il giogo maomettano, e attendono sempre più disperati l’atteso momento della liberazione: Serrate il gran Banchetto, Che manca troppa gente! Le Spose d’Oriente Le più belle Gemono vili ancelle Di adulteri feroci, Ed alle bianche Croci Alzan le ciglia. Manca troppa Famiglia Per far nozze gioconde, Troppa infamia nasconde Il nostro pregio! Il Cavaliere egregio Onor d’Italia tutta, Finche l’Asia distrutta Al piè non guarda; E finche l’Anglia tarda Alla Croce il ritorno Non vuol di lauri adorno Avere il Crine: O tutte le Reine Vuol vedere senza laccio Accolte in stretto abbraccio Avanti a Piero; O di Spada, e Cimiero Non sia, che si disarmi: Dunque anch’io prendo l’armi...72

Ivi, p. 5. Ivi, pp. 7-8. Qualche altro esempio di rimando allusivo o profetico al tema crociato: «Già l’Asia posterga / da’ Barbari Altari; / i chiari / Guerrier di Giovanni, / scacciati i Tiranni, / già rendono a Piero / 71

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Non manca, inoltre, il rimando biblico a Giosuè, «il gran Duce ebreo» che «il Sol tenne in briglia», anch’esso topico: il suo gesto – fermare il corso del Sole per permettere la continuazione della battaglia – costituiva l’esempio più calzante e più facilmente declinabile di eroe cristiano direttamente coinvolto nell’opposizione contro la Luna: un’opposizione che, come si è visto, era all’origine di una rappesentazione poetica costante e ormai cristallizzata: «Ugual maraviglia / di Marco vi narro; / che fatta ha dal carro / la Luna cader!»73. Infine, sempre all’interno della prospettiva escatologica in cui si colloca la Brandaneide, va ricordato il motivo della “conversione” degli empi, anch’esso parte integrante del sostrato ideologico peculiare in contesti di questo tipo. Qui, inoltre, il motivo diviene a sua volta strumentale per una puntura di dileggio religioso: sono gli stessi musulmani – e si noti l’impiego, anche in questo testo, della lingua franca – a chiedere il battesimo cristiano e a bestemmiare il loro profeta Maometto. Al prisco Battisterio, U’ Costantin si lava, La turba a Marco schiava Assorda i Cieli; Gridando; star fedeli A Figliuol di Maria; Lassar Maometta ria, E Alcorana. Voler acqua Giordana, Come aver Costantina, E a buon Papa d’Urbina Baciar piede. Così la Turca Fede La Cristiana confonde, E in lacrime gioconde Ogn’un si strugge74:

Le vicende dell’asino Boracco, che qualche anno prima tanto spazio avevano ottenuto negli Intermezzi in derisione della setta maomettana, ritornano anche in questa «poesia fanatica». Boracco compare dapprima – come narrato nella precedente opera – come il mezzo di trasporto privilegiato dei pellegrini in viaggio verso la Mecca. La feroce denigrazione antiislamica affiora anche in

il primo suo Impero, / la prima sua Sede; / già il Mare si vede / coperto d’Antenne!» (ivi, pp. 22-23); «Più non si pellegrina / all’Idumee pendici, / ma a’ tuoi colli felici / o alta Roma. / A te la Santa soma / del Sepolcro di Cristo / suo glorioso acquisto / il Zondadari / reca, e a’ Cristiani altari / il Sasso, ove cadèo / Dio in spoglia di Reo / Ostia innocente» (ivi, p. 30). 73 Ivi, p. 27. 74 Ivi, pp. 52-53 (i corsivi sono nel testo).

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«L’Addottoramento dell’Asino». Per un percorso “turco” nell’opera di Girolamo Gigli

questi versi, in cui viene accennato il motivo della stoltizia e della dabbenaggine del pellegrino musulmano, che alla fine si ritrova a portare sulle spalle l’asino che invece avrebbe dovuto cavalcare. Boracco ecco, che raglia; L’Asinel di Maometto Giumento sì diletto Al suo Padrone. Asino bacchettone, Che mangia in questa etate Le fave masticate Dal Muftì. Due Pellegrini il dì Porta per carità Dello stuolo, che va Al rio Maoma. Ma rovescia la soma A mezzo del camino, E al fine il Pellegrino Porta quello75.

Né manca il richiamo – ancora un’autocitazione letteraria, del tipo assai caro a Gigli – al titolo dottorale conseguito dall’asino di Maometto, ormai talmente perito nelle dottrine religiose da permettersi di guardare con un sorriso di superiorità le dispute che attanagliano gli uomini: Boracco se ne ride, Perche del ver s’intende, E disputa, e difende Ardue Tesi; Di Conti, e di Marchesi Uno stuolo giolivo L’hanno in superlativo Addottorato76.

Ne Il pazzo di Cristo le vicende dell’asino Boracco trovano tuttavia un ulteriore sviluppo. Il poeta ha deciso che, dopo avergli fatto ottenere la laurea, sarebbe ora opportuno trovargli una degna moglie («Ed or, che tu hai studiato / Boracco, io vo accasarti, / e per moglie vo darti / una tua pari»). L’Asina del profeta Balaam, di cui parla l’Antico Testamento (Numeri, 22-28), sembra perfetta: come Boracco, è un’«Asina di alti affari», una somara molto dotta «che

75 76

Ivi, pp. 13-14. Ivi, p. 16.

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preval nelle scuole / fra l’Asinine figliuole / e fra le Mamme», che «oggi fa / tanta autorità, / quanta Vergilio», e che è una «Bestia di chiaro nome, / avvezza a portar some / di Profeti»77. Perciò posta al rimbecco Si è l’Asina fedele, E fa le sue querele Con Balamo; Parla, e dice, in che diamo, Padre Predicatore? Questo è troppo rigore Col compagno! A mezzo del guadagno Entrai delle missioni, E di tai guiderdoni Ora mi saldi? Un de’ celesti Araldi Iddio ti manda sopra; Lascia, ch’io ti ricopra Dal suo braccio. Così me’ del Boccaccio Parlò quella giumenta, E Balam si rammenta D’esser reo. Nel Dizionario Ebreo Quest’Asina oggi fa Tanta autorità, Quanta Vergilio78.

Un’incisione che riproduce i due asini – «Boracco Asino lussurioso di Macometto» e «N.N. Asina celibe di Balaam», come recita la didascalia – fu fatta inserire da Gigli nel volume della Brandaneide: la riproduco in appendice (FIG. 30). 5. Tra Giuseppe e Baldovino: altri testi “turchi” nell’opera di Gigli. L’elezione di Zondadari al Gran Magistero maltese fu festeggiata, come si è detto, anche dall’Accademia dell’Arcadia. I poeti del Bosco Parrasio non solo parteciparono attivamente alla celebrazione romana componendo e recitando i loro componimenti encomiastici; il loro Custode Generale Crescimbeni volle

77 78

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Ivi, p. 16. Ivi, pp. 18-19.

«L’Addottoramento dell’Asino». Per un percorso “turco” nell’opera di Girolamo Gigli

anche dedicare alla nuova Gloria tutta italiana l’ottavo tomo delle Rime degli Arcadi. Si trattava di una dedica che, se da una parte rapresentava un’ulteriore testimonianza di quella ostinata rivendicazione di solidarietà letteraria con il corso degli eventi storici cui si è fatto cenno nelle pagine precedenti, dall’altra si configurava come l’ennesimo tentativo promosso dallo scaltro Alfesibeo Cario di scavalcare – attraverso l’offerta del dono poetico più prestigioso e del prodotto editoriale meglio confezionato, nel cui contenuto era distillato, secondo i proclami del Custode, il fiore della poesia italiana del tempo – e di sovrastare «col grido» l’attività eventualmente lesiva del prestigio arcadico di altri consessi letterari, in direzione della preminenza su scala nazionale dell’Arcadia romana da lui promossa e rappresentata sul piano della realizzazione editoriale79. L’offerta in dedica al Gran Maestro di Malta di una una silloge di testi originariamente composti con finalità tematiche diverse presupponeva un’evidente ri-configurazione del senso generale dell’opera, mentre la proiettava – quasi “di peso” – all’interno di una dimensione “altra” e decisamente connotata come quella antiturca. Del secolare conflitto con l’infedele musulmano, infatti, il dedicatario Zondadari rappresentava una delle incarnazioni storiche più antiche, oltre che una delle personificazioni individuali più potenti – dopo il papa, naturalmente, e i sovrani cattolici regnanti. Allora come oggi, l’ordine monastico-miltare dei Cavalieri di Malta suscitava negli osservatori una suggestione particolare, essendo uno dei rari lasciti diretti – se non l’unico, a parte un’eredità ferina di odio e rancore – della complessa epoca delle prime Crociate: nel XII secolo erano infatti noti come Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme – in breve, Ospitalieri. Da allora in poi, e con fasi alterne e contrastanti, essi avevano continuato a rappresentare, assieme al Papato e ai vari Stati che nel corso dei secoli dovettero combattere i turchi più per necessità politiche che per finalità religiose (Spagna, Venezia, Genova, Impero, Polonia), una notevole spina nel fianco per l’Impero ottomano, che temeva le loro non numerose ma agguerrite galee più di ogni altra imbarcazione che solcasse le acque del Mediterraneo. Il grande (e fallimentare) assedio turco a Malta del 1565, pochi anni prima della disfatta di Lepanto, dimostrava quale fosse l’intenzione (e la strategia) della Sublime Porta nei confronti dei Cavalieri: senza la definitva caduta delle roccheforti cristiane maltesi, qualsiasi idea relativa all’infiltrazione nel Mediterraneo occidentale avrebbe dovuto essere preventivamente accantonata. Ancora dopo l’assedio del 1565 i Cavalieri si resero molesti alla flotta ottomana, infliggendole una sonora sconfitta ai Dardanelli, il 26 luglio 1656, quando l’allora Gran Priore di La Rochelle

79 Rime degli Arcadi. Tomo ottavo. All’Eminentissimo, e Reverendissimo Principe Fra Marco Antonio Zondadari Gran Maestro della Sacra Religione Gerosolimitana. In Roma, per Antonio de’ Rossi. MDCCXX. Con licenza de’ Superiori.

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Gregorio Carafa, assieme alla flotta veneziana di Lorenzo Marcello, inflisse alla numericamente superiore flotta turca «la più grande disfatta navale dopo Lepanto»80. ***** Nel 1720 Gigli tradusse, o meglio «adattò» ancora una tragedia francese alle scene italiane. Rispetto ai rifacimenti dai poeti del Grand Siècle, da Pierre Corneille (il Nicomède 81 e l’Horace 82, entrambi del 1701) e da Jean Racine (l’Ester 83, del 1720), e rispetto al Regulus di Nicolas Pradon84, la versione del Joseph di Charles-Claude Genest (1639-1719) rappresenta una vera novità editoriale. L’originale francese era stato rappresentato per la prima volta nel 1706, e pubblicato a Parigi nel 1711: i pochi anni che lo separano dalla traduzione italiana attestano dunque il costante interesse per i frutti più recenti della letteratura d’Oltralpe nell’ormai anziano Gigli. Il Giuseppe da questi tradotto venne quindi pubblicato, nello stesso 1720, in due città: a Roma, con il patrocinio del cardinale Annibale Albani, che lo fece stampare nella Tipografia Vaticana di Giovanni Maria Salvioni85 – il volume contiene infatti lo stemma della famiglia Albani – e a Siena, con dedica degli Accademici Rozzi a Marc’Antonio Zondadari86; altre due edizioni uscirono nel 1732 e nel 1755, a conferma della vitalità scenica di questo testo. Sembra probabile – giacché i paratesti non forniscono dati rilevanti in questa direzione – che l’edizione romana sia posteriore a quella senese, e che, dunque, la dedica al Gran Maestro maltese, in cui gli

EICKHOFF, Venezia, Vienna e i Turchi, cit., pp. 142-147. La gara della virtù Trà i Discepoli di Roma, e di Cartagine, ò vero Il Nicomede. Opera tirata dal Francese per le Scene d’Italia. E dedicata all’Illustriss. Sig. Cavaliere Aurelio Sozzifanti Auditor Generale della Città, e Stato di Siena per S.A.R. In Siena alla Loggia del Papa. Con Licenza de’ Superiori [1701]. 82 L’Amor della Patria sopra tutti gli Amori, O’ vero L’Oratio Tragicommedia dal Francese all’Illustriss. Sig. il Sig. Marchese Anton.o Fran.o Montauti Consigliere di Stato, e segretario di Guerra del Serenissimo Gran Duca di Toscana. In Siena, Nella Stamperia del Pubbl. 1701. Con Licenza de’ Superiori. 83 L’Ester Tragedia cavata dalla Sagra Scrittura per Monsù Racine e volgarizzata. In Roma per il Salvioni, MDCCXX. Con licenza de’ Superiori. 84 L’Attilio Regolo Tragedia dal Franzese Rappresentata in Roma nel Teatro domestico dell’Illustrissimo, ed Eccellentissimo Signor Principe di Cerveteri [Francesco Maria Ruspoli] Nel Carnevale del 1711 da una Nobil Conversazione, e dalla medesima dedicata All’Illustrissimo, ed Eccellentissimo Signore il Signor D. Carlo Albani Nipote di Nostro Signore. In Siena nella Stamperia di Francesco Quinza. Con licenza de’ Superiori [1711]. 85 Il Giuseppe Tragedia dal francese. In Roma, presso il Salvioni, 1720. Con licenza de’ Superiori. 86 Il Giuseppe Tragedia Sacra Rappresentata dagli Accademici Rozzi, e dedicata all’Eminentissimo, e Reverendissimo Prencipe F. Marco Antonio Zondadari coll’occasione delle Feste solenni Celebrate in Siena per l’esaltazione gloriosa dell’Eminenza Sua al Gran Magistero della Sacra Religione Gerosolimitana. In Siena, nella Stamp. del Pub. 1720. Con licenza de’ Sup. (da cui cito). 80

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«L’Addottoramento dell’Asino». Per un percorso “turco” nell’opera di Girolamo Gigli

Accademici Rozzi istituiscono un parallelo diretto tra Zondadari e il protagonista Giuseppe, rappresenti qualcosa in più di una consueta gratulatoria encomiastica. La storia del fanciullo figlio di Giacobbe, venduto dai fratelli, schiavo e prigioniero in Egitto, poi potente ministro e saggio amministratore del Faraone, infine artefice della salvezza delle popolazioni dalla fame (Genesi, 37-50), si configurerebbe nel testo di Gigli, di conseguenza, come un’ulteriore e originale modulazione del tema “turco”. L’avviso al lettore informa sia della paternità della traduzione, sia del modus vertendi tenuto dal traduttore nella sua versione: Quest’azione, che l’Autore Franzese il Signor Abbate Genest chiamò Tragedia piuttosto, perché tal denominazione suole adattarsi ancora a tutte le rappresentazioni eroiche di sfortunati avvenimenti ordite, come sono le calunnie, le prigionìe, le condanne, ella non è che il solo filo della sua istoria, di cui la più tenera non può trovarsi nelle sagre carte. L’Economico Intronato [cioè Girolamo Gigli], che la volgarizzò, protesta di averci aggiunto di suo qualche tratto [...] Quanto poi il traduttore siasi studiato di accordare la locuzione di Francia al suono, e proprietà del buon volgare Italiano, da per te lo conoscerai87.

L’aspetto più interessante del Giuseppe risiede nella lunga dedica a Marc’Antonio Zondadari, datata 11 giugno 1720 e firmata a nome di tutta l’Accademia dei Rozzi, ma dietro la quale non è difficile scorgere – per la comunanza di immagini e di espressioni con il tessuto narrativo della Lettera a Francesco Piccolomini, dello stesso anno – la mano di Gigli. Essa esordisce con un’affermazione consueta e ormai stereotipata, l’intenzione di associarsi a un coro ben più ampio inneggiante il destinatario («Nel festeggiare, che fa la nostra Patria l’esaltazione gloriosa dell’E.V. vogliamo ancora noi concorrere con distinti segni di gioja, e d’ossequio nel concerto delle pubbliche acclamazioni»), e prosegue, successivamente, istituendo un singolare parallelismo tra il protagonista dell’opera e il dedicatario («cavammo fuori dalla sacra Istoria uno di que’ più perfetti originali, che si compiacesse l’Onnipotenza Divina formar di sua mano. Egli è il Patriarca Gioseppe Gran Salvadore dell’Egitto; che nell’occasione del suo trionfo apprestatogli dal Re, e dal Popolo beneficato, ci porta subito d’avanti agli occhi quello di V.E. cui alzano archi di palme tutte le Nazioni Cattoliche»). Il parallelismo Zondadari-Giuseppe, che nel prosieguo del discorso risulta ribadito con particolare insistenza, è perseguito attraverso molteplici e ben precise declinazioni: la dilatazione del nome del Signore in luoghi dove esso è sconosciuto («il nome Cristiano dal zelo dominante dell’E.V. che vuol dilatarlo, e colla Spada, e coll’esempio fino là, dove Gioseppe medesimo fece stendere il nome del Dio di Giacobbe»); la liberazione degli schiavi fedeli dalle mani degli infedeli («Sente V.E. le catene delli Schiavi battezzati, a’ quali traspira in quest’elezione di V.E. qualche speranza di libertà, e veggonsi di costì nelle

87

Ivi, avviso al lettore, s.n.p.

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vicine rive dell’Affrica infedele alzar le mani al Cielo, sentendo acclamare il nome dell’invitto loro Liberatore»); la nostalgia e il ricordo dell’amata patria, pur in mezzo alle ineludibili incombenze professionali («nel modo, che Gioseppe, mentre sedeva nel cocchio d’oro in Egitto viaggiava coll’immaginazione alle Valli del Giordano per consolarvisi tra gli amplessi del vecchio amato Padre, e del tenero amabile Beniamino; così appunto l’E.V. spedisce dal suo Trono sublime militare ad ogni momento qualche pensiero alla Patria, qualche pensiero a Roma»). Si tratta, evidentemente, di motivi funzionali a individuare «nel soglio di Malta i tributi degli universali ossequj di tutta la giubbilante Repubblica Cristiana», e a trasferire il senso del testo dall’encomio gratulatorio, esteriore e impersonale, all’adesione spontanea all’idea della “crociata” («Scorge V.E. [...] il sembiante per altro afflitto di tutta l’Europa, e ribollire nel più chiaro sangue di tanti Regni Cattolici gli antichi spiriti magnanimi, che spinsero i Vessilli Cristiani a riscattare quelle pendici benedette, ove innalzossi il vittorioso Stendardo della Redenzione Umana»). A conferma della profondità e della sincerità dell’adesione dell’autore al modello storico “crociato” incarnato dal Gran Maestro, Zondadari si configura come un eroe cristiano, un eroe santo, il supremo modello, ancora una volta, di «pietà» e di «valore», da imitare, da seguire, da venerare: Eccoci tutti prima a’ vostri piedi, e tutti poi dietro a’ vostri passi. Gioseppe non potè trasferirsi a Giacobbe; e perciò Giacobbe trasferissi a Gioseppe, e con Giacobbe vi andarono tutti gli Abitatori del Giordano. Così se il Gran Maestro Zondadari non puote portare i passi alla Patria, muovasi tutta la Patria per portarsi a sì gran figliuolo. Ecco che i Professori delle Meccaniche non vogliono in Siena imparare altro, che a tessere vele, intrecciar gomene, atterrare antenne, impeciar bastimenti, fonder bronzi guerrieri! Ecco che dalle destre nobili non si vuol trattare che la spada, non si vuol maneggiare, che il freno! Tutte le nutrici accennano il Ciel di Malta a i Bambini; ed ammaestrandoli nella pietà, e nel valore, dicono loro: così pregava Marc’Antonio; così sosteneva il Zondadari88.

Il testo della dedica del Giuseppe, infine, si chiude ancora con un’immagine significativa, oltre che eloquente: quella del Gran Maestro maltese che giunge «trionfale» sui monti della Palestina. [...] per quella Croce, che prima le fu posta al collo su le fasce, e che poi scolpitasi da lei sul cuore, e finalmente inalzata nelle Bandiere della sua sagrata milizia Eminentissima sarà da V.E. medesima portata nella sua Corona trionfale fino a quel Monte vittorioso, dove la sostenne su gli omeri il Salvatore del Mondo.

Un’immagine che porta a compimento un percorso, grazie al quale la figura biblica di Giuseppe sembra arricchirsi di un ulteriore e nuovo significato. Gigli 88

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Ivi, dedica, s.n.p.

«L’Addottoramento dell’Asino». Per un percorso “turco” nell’opera di Girolamo Gigli

la (ri)propone attraverso un processo identificativo graduale, che passa dall’iniziale identificazione di Giuseppe con Marc’Antonio Zondadari, e di questi con l’ideale e lo spirito crociato, alla sovrapposizione del senso devozional-militare crociato all’esperienza letteraria del richiamo a Giuseppe. Gigli non potè approfondire, semmai avesse voluto, queste riflessioni: ormai anziano, non ebbe il tempo necessario, giacché la morte lo colse di lì a due anni. L’ipotesi che qualche letterato o poeta, in un torno di tempo di poco successivo, abbia saputo o voluto cogliere questo spunto e lo abbia declinato nei suoi scritti, potrebbe forse costituire un fecondo stimolo all’approfondimento. ***** Strettamente intrecciata alla coeva dimensione antiturca – per la tematica affrontata (le Crociate) e per i tempi in cui fu ideata (il 1716) – risulta infine un’altra opera teatrale di paternità gigliana, Il Balduino 89, che fu pubblicato come “traduzione” da un fantomatico originale di Pierre Corneille, ma che invece costituiva una «finta traduzione dal francese»90, uno di quegli artifici editoriali in direzione dell’anonimato (o della confessione di estraneità nei confronti della paternità dell’opera) con cui l’imprevedibile ed estroso Gigli presentava spesso i suoi volumi91. A proposito della letteratura teatrale seicentesca d’argomento turco, Cecilia Campa ha segnalato in particolare la circolazione di due temi: quello del pentimento del Turco, rinvenibile già nella tragedia Il Solimano di Prospero Bonarelli, e quello della virtù individuale di alcuni personaggi musulmani, una virtù che si mostra pienamente confacente all’ideale cristianocavalleresco e che, in ultima istanza, garantisce una sorta di riabilitazione della figura letteraria del personaggio stesso, come dimostrava Il Mustafà di Cicognini92. Entrambi i temi risultano rintracciabili nel Balduino di Gigli. I figli del sultano musulmano, nonostante la «legge» professata – e sul contrasto tra “legge” (religione) e “fede” (fedeltà / amore) ruota il senso ultimo della pièce – si dimostrano infatti magnanimi, generosi, riconoscenti, umili, e soprattutto manifestano un’inclinazione al sacrificio notevole e sincera, a differenza del sultano loro padre, che si dimostra incapace di sottrarsi ai suoi istinti ferini e

89 Il Balduino Opera di M. Pietro Cornelio Tradotta in Italiano dall’Abate Gigli di Siena. In Bologna, Per il Longhi. Con licenza de’ Superiori [s.d., ma come si rileva dall’imprimatur, 1716]. 90 L. FERRARI, Le traduzioni italiane del teatro tragico francese nei secoli XVII e XVIII. Saggio bibliografico, Paris, Librairie ancienne Edouard Champion, 1925, pp. XII-XIII, nota 4. 91 Cfr. su questi aspetti R. GAGLIARDI, Quando la maschera è il volto. La scelta dell’apocrifo in Girolamo Gigli come funzione di costume sociale e culturale senese tra fine Seicento e primo Settecento, in «Bullettino Senese di storia patria», IC (1992), pp. 210-227. 92 CAMPA, Dal tableau esotico alla rappresentazione di carattere: la storiografia musicale, le turcherie e lo spirito enciclopedico, cit., pp. 420 sgg.

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crudeli, soprattutto per quanto concerne la capacità di perdono (la sua opzione è sempre per la scelta cruenta) e la volontà di potenza (le sue decisioni non devono soggiacere a nessun vincolo devozionale). I due principi musulmani posseggono dunque nel loro animo gli aspetti di una virtù innata e già tipicamente cristiana, una virtù che verrà sancita, nel corso dell’opera, dalla loro finale conversione al cristianesimo. Non a caso l’unico personaggio che in quest’opera soccombe, e la cui morte nessuno rimpiange, è proprio l’«empio» sultano, sempre irremovibile e implacabile nella sua crudeltà e brama di potere. Il sostrato storico attualizzante del Balduino – il conflitto religioso antiturco – va individuato in primo luogo nella scelta del soggetto: il personaggio eponimo è infatti Baldovino di Buglione, fratello di Goffredo e primo re di Gerusalemme (1100-1118), la cui vicenda si iscrive, nella finzione scenica, al tempo della «prima Crocciata de’ Latini contro i Turchi in Oriente». L’evidente (e strategico) anacronismo, già di per sé significativo, risulta più agevolmente comprensibile se si pensa che l’opera fu composta negli anni della mobilitazione Imperiale in Ungheria e in Serbia: negli anni, dunque, delle strepitose vittorie del principe Eugenio a Belgrado, a Temesvar, a Petervaradino (1716-1717). Acquistano allora una pregnanza rilevante le allusioni – fortemente simboliche, come si è visto – all’opposizione sole vs tenebra, rinvenibili fin dalle primissime battute che aprono la pièce: EUSTACHIO Doppo dieci giorni d’errori, sempre più lungi da Gerosolima? HEROCHILDE Anzi in mezzo à Pagani. Le notti d’Armenia mi sembrano più oscure. EUSTACHIO Dove dorme Rodoano, è lungi il Sole due volte. BALDUINO Sperate: A i Crocciati Latini splende il Sole ancor doppo sera93.

Un’allusione – quella alla componente di salvezza che accompagna la «luce» – che ritornerà, a proposito della conversione dei figli del sultano, anche nell’ultima scena, quasi a segnalare la propensione dell’autore alla circolarità del tema e della struttura: «[BALDUINO] Herochilde, Araspe, piango la rotta Fede del Genitore; mà mi consolo, che il Cielo habbia da un fuoco sì cieco ritratta una luce sì bella»94. Gli unici riferimenti diretti a Maometto e alla sua religione – il testo tende infatti all’esibizione di un conflitto, di tipo più generico, tra la «vera Legge» e un non troppo particolareggiato «paganesimo» – si riducono alle battute seguenti, pronunciate dal fratello minore di Balduino, prigioniero nelle carceri del sultano, alla notizia della sua condanna a morte:

93 94

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GIGLI, Il Balduino, cit., atto I, scena I, p. 7. Ivi, atto III, scena ultima, p. 139.

«L’Addottoramento dell’Asino». Per un percorso “turco” nell’opera di Girolamo Gigli EUSTACHIO [Io morirò] Al Sepolcro d’un empio Maumettano per mano d’un Carnefice? [...] EUSTACHIO Cieli, di Crocciato Cavaliero è questo il voto! Cinsi la Spada, vestij anch’io la Croce per cader vittima all’adorata Tomba di Gerosolima, non all’Avello d’un sordido Mossulmano. Non voglio morir così95.

Nonostante la violenza di questi epiteti, la reticenza de Il Balduino all’accanimento verbale in senso antimusulmano risulta comunque degna di rilievo, se si pensa alla situazione storica in cui l’opera vide la luce, al tema che essa si proponeva di mettere in scena (l’esibizione del confronto polemico tra le “virtù” crociata-cavalleresca e saracena, a netto scapito di quest’ultima), e soprattutto all’autore, Girolamo Gigli, che non aveva affatto esitato a presentare al pubblico dei lettori e degli spettatori una delle esperienze letterarie “antiturche” più ampie, intense e “originali” dell’epoca.

95

Ivi, atto I, scena 14, pp. 36-37.

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ILLUSTRAZIONI1

1 Le incisioni di Francesco Maria Mitelli elencate qui di seguito e riprodotte nelle tavole seguenti sono tutte tratte, ove non altrimenti specificato, dal volume Le collezioni d’arte della Cassa di Risparmio di Bologna. Le incisioni. I. Giuseppe Maria Mitelli, a cura di Franca Varignana, Bologna, Cassa di Risparmio di Bologna, 1978, cui rinvio per ogni ulteriore indicazione bibliografica.

261

Illustrazioni

FIG. 1. Francesco Maria Mitelli, Compra chi vuole (1684).

263

Illustrazioni

FIG. 2. Francesco Maria Mitelli, Il corriere in lontananza aspettato dagl’appassionati di guerra (1692).

264

Illustrazioni

FIG. 3. Innocenzo XI. La liberazione di Vienna. Medaglia in argento di Giovanni Hamerani (1683).

FIG. 4. Innocenzo XI. Alleanza quadripartita contro i turchi. Medaglia in bronzo di Johann Ignaz Bendl (1684).

265

Illustrazioni

FIG. 5. Innocenzo XI. Alleanza quadripartita contro i turchi. Medaglia in argento di Giovanni Hamerani (1684).

FIG. 6. Francesco Maria Mitelli, Chi cerca accatta (1683).

266

Illustrazioni

FIG. 7. Francesco Maria Mitelli, Chi causa è del suo mal pianga se stesso (1683-84).

FIG. 8. Francesco Maria Mitelli, Regali che fa il Turcho a suoi fedeli (1686).

267

Illustrazioni

FIG. 9. Francesco Maria Mitelli, La Chiesa Trionfante in Lega d’altri Potentati Cattolici contro li Giganti ottomani (1686).

268

Illustrazioni

FIG. 10. Illustrazione tratta da Dio. Sonetti, ed Hinni consagrati al Vicedio Innocenzo Undecimo Pontefice Ottimo Massimo da Francesco de Lemene. In Milano. Per Camillo Corrada vicino a S. Sebastiano 1684. Con Licenza de’ Superiori.

269

Illustrazioni

FIG. 11. Capolettera del primo canto de Carlo Sesto il Grande. Poema di Annibale Marchese Patrizio Napoletano. In Napoli, nella stamperia di Felice Mosca, 1720.

270

Illustrazioni

FIG. 12. Francesco Maria Mitelli, Trionfo dei liberatori di Vienna (1683).

271

Illustrazioni

FIG. 13. Francesco Maria Mitelli, Il Soldato. Osserva quel che fa (1693).

272

Illustrazioni

FIG. 14. Francesco Maria Mitelli, A’ strali d’Austria è sempre segno il Trace (1687).

273

Illustrazioni

FIG. 15. Francesco Maria Mitelli, Il Muftì (1683).

274

Illustrazioni

FIG. 16. Francesco Maria Mitelli, Sogno di Mehmet Quarto (post 1683).

275

Illustrazioni

FIG. 17. Alexandre Jan Tricius, Ritratto di Jan Sobieski con il figlio Jakub, Wilanow, Museo del Palazzo.

276

Illustrazioni

FIG. 18. Jan Matejko, Ritratto di Giovanni III Sobieski, incisione tratta dal volume E. H. Lewinski Corwin, The political history of Poland, New York, Polish Book Importing Co., 1917, p. 266.

277

Illustrazioni

FIG. 19. Jerzy Siemiginowski-Eleuter, Ritratto del Re di Polonia Giovanni III Sobieski (1693), Wilanow, Museo del Palazzo.

278

Illustrazioni

FIG. 20. Jerzy Siemiginowski-Eleuter, Giovanni III Sobieski alla battaglia di Vienna (1686), Varsavia, Museo Nazionale.

279

Illustrazioni

FIG. 21. Anonimo, Giovanni Sobieski alla battaglia di Chocim (1673).

280

Illustrazioni

FIG. 22. Jan Matejko, Giovanni III Sobieski consegna al can. Denhoff la lettera per il Papa (1880), Cracovia, Museo Nazionale.

281

Illustrazioni

FIG. 23. Jan Matejko, Giovanni III Sobieski manda al papa il messaggio della vittoria (1883), Roma, Musei Vaticani (part.).

FIG. 24. Juliusz Kossak, La battaglia di Vienna (1882), Varsavia, Museo Nazionale.

282

Illustrazioni

FIG. 25. Juliusz Kossak, Entrata di Jan III Sobieski a Vienna (1883), Wrocław, Museo Nazionale.

283

Illustrazioni

FIG. 26. Disegno dello Stendardo del Primo Visir levato sotto Vienna dal Serenis.o et Invittis.o Giovanni III Re di Polon.a e da S.M. mand.to alla S.tà di N.S. Papa Innocenzo XI. Aggiuntavi la pura interpretatione delle parole Arabiche che in detto Stendardo sono artificios.te intessute, diffusamente spiegate, dal reverendiss.mo P. Lodovico Marracci della Congr.ne della Madre di Dio; [...] In Roma. Si vendono in piazza Navona da Matteo Gregorio Rossi all’Insegna della Stampa, 1683.

284

Illustrazioni

FIG. 27. Lodovico Mattioli, Al fin d’ Mustafà, da un’incisione di Francesco Maria Mitelli (1684).

285

Illustrazioni

FIG. 28. Francesco Maria Mitelli, Così va il Mondo (1685).

286

Illustrazioni

FIG. 29. Francesco Maria Mitelli, Relatione venuta di Costantinopoli […] Mira che fanno i Turchi per il suo falso Profeta (1698).

287

Illustrazioni

FIG. 30. Illustrazione tratta da Il pazzo di Cristo, ovvero il Brandano da Siena vaticinante nell’esaltazione gloriosissima al Gran Magistero Gerosolimitano dell’Eminentissimo, e Reverendissimo Fr. Marc’Antonio Zondadari. Poesia fanatica di Amaranto Sciaditico P. A. In Siena presso Francesco Quinza alle tre Rose d’oro. Con licenza de’ Superiori [1720].

288

INDICE DEI NOMI

Abbati, Francesco Maria 209n Abriani, Paolo 138 e n, 160-163 Accorsi, Maria Grazia 111n Acsády, Ignazio 183n Adimari, Lodovico 40, 41n, 144n, 145n, 209n Agostini, Paolo 181n Albani, Annibale, cardinale 254 Albruini, Gasparo 201, 202n Alessandro Magno 169, 171n Alessandro VIII papa (Pietro Vito Ottoboni) 244 Alessandro Farnese, principe di Parma, 98 Alfesibeo Cario vedi Crescimbeni, Giovanni Maria Alfonzetti, Beatrice 13, 48n, 94n, 167n, 171n, 231n Alì, kapudan pashà 12 Aliquò-Lenzi, Luigi 79n Allorto, Riccardo 231n Almansi, Guido 37n Alonso, Damaso 83n Amadio, Carlo 218 e n Angelini, Franca 21n Angelini, Gennaro 203n Angiolini, Franco 155n Annibale Barca 171n Anselmi, Gian Mario 168n Anselmo, vescovo 159 Apollonio, Mario 231n Arbizzoni, Guido 162n Aresti, Pier Ugolino 106 e n Aristofane 129 Arnù, Nicolò 159 e n, 160 e n, 163 Arrivabene, Andrea 24 Asor Rosa, Alberto 161n

Astolfi, Giovanni 73 Azzolino, Decio, cardinale 59n Baldovino di Buglione 258 Ballino, Giulio 92 Bambini, Francesco 85n Bani, Cosimo 136n Barbero, Alessandro 12n Baretti, Giuseppe 79n Barnard, Paolo 8n Bartoli, Domenico 52 e n, 66, 127n, 129, 130n, 135n, 177, 178n, 198, 199n, 211, 212 e n Baseggio, Giambattista 230n Batthyan, conte 121 Battistini, Andrea 95n Bausani, Alessandro 223n Beauchamp, Pierre 221 Becattini, Francesco 20 e n Beeching, Jack 10n, 12n, 195n Bellavia, Sonia 94n Bellingeri, Giampiero 32n Bellini, Paolo 192n Bellucci, Novella 13, 231n Benassar, Bartholomé 156n Benassar, Lucile 156n Benedetto XVI papa (Joseph Ratzinger) 9 Benetti, Antonio 32 e n Beniscelli, Alberto 168n Benzoni, Gino 16n, 28n, 156n Berénger, Jean 183n, 222n Bernabò, Rocco 45 Bernardini, Rodolfo 155n Berneri, Giuseppe 17n, 73-75, 139 Bertinotti, Fausto 10, 11 Bessarione, Giovanni 11n

289

Indice dei nomi Beverini, Bartolomeo 96n, 118n, 122 e n, 128n, 135n, 173n, 197 e n, 206 e n Bibliander (Theodor Buchmann) 23, 24 Biliński, Bronislaw 16 e n, 33n, 61, 102, 193n, 195n, 201n, 225n Billanovich, Liliana 27n Bilotto, Antonella 34n Binni, Walter 50n, 187n, 231n, 232 Bizzozeri, Simpliciano 116 e n, 122, 123n, 142, 143 e n Bolognetti, Francesco 140n Bombaci, Alessio 32n Bonarelli, Prospero 257 Bono, Salvatore 155n Borghese, Marc’Antonio 49n, 166n Borsellino, Nino 87n, 95n Bortolotti, Franco 42n Branca, Paolo 22n, 24n Branca, Vittore 17n Brandani, Francesco 70, 71n Brognoligo, Gioacchino 161n Brunelli, Bruno 185n, 231n Buonaventuri, Tommaso 49n Buronzio, Antonio Maria 157 e n Busetto, Giorgio 18 e n, 31n Bush, George W. 9n Bussotti, Alviera 13 Cabibbo, Nicola 101n Caccamo, Domenico 150n, 174n Caetani, Ruggiero 86n, 99, 100n Caffiero, Marina 12n, 42n Camarotto, Valerio 13 Cametti, Alberto 202n Campa, Cecilia 20n, 225n, 257 e n Campioni, Giovanni Battista 131n, 144n, 173n, 175n Campra, André 224 Cancila, Rossella 155n Canneto, Salvatore 67n, 231n Canosa, Romano 12n Capece, Carlo Sigismondo 202 Capistrelli, Filippo 210n Caponi, Gustavo 50n, 175n Capucci, Martino 37n, 187n Caprara, Enea 120 Carafa, Ferrante 83n Carafa, Gregorio 244, 254

290

Cardini, Franco 8 e n, 12n, 19 e n, 20 e n, 150n, 193 e n, 230n Carducci, Giosue 50 e n Carli, Gian Rinaldo 32 e n Carlo II Asburgo, re di Spagna 41 Carlo V Asburgo, imperatore 98, 195, 209 Carlo V Buglione, duca di Lorena 56, 58, 60, 64, 67, 69, 79, 95, 114, 137, 151, 152, 170, 171n, 180, 189, 191, 195, 204207, 209 e n Carlo VI Asburgo, imperatore 45, 185 Carlo Ferdinando Gonzaga, duca di Mantova 67 Carloni Valentini, Renata 231n Carmi, Maria 238n, 247n Casciato, Mariastella 101n Cassetti, Jacopo 168n, 222n Cavan, Paola 56n Cesare, Caio Giulio 171n, 194, 196 Cevoli, Mario 166 e n Chiabrera, Gabriello 92 e n Chiodo, Carmine 79n, 87n, 124n Ciampi, Sebastiano 193n, 195n Cicognini, Giacinto Andrea 257 Cifoletti, Guido 223n, 230n Clemente XI papa (Giovanni Francesco Albani) 42, 244 Coco, Carla 28n Corbelli, Nicolò Maria 35 Corneille, Pierre 254, 257 Coronelli, Vincenzo 29 Corradi, Carla 37n Corsetti, Francesco 230n Cortelazzo, Manlio 72n Costantini (o Costantino), Antonio 17n Couton, Georges 221n Crescimbeni, Giovan Mario (Alfesibeo Cario) 47, 48n, 51, 70n, 79n, 88n, 89, 107n, 247n, 252 Cristina di Svezia, regina 58n, 59n, 70, 107n, 143, 175, 227n Croce, Benedetto 94n, 95n Crupi, Pasquino 79n Cupeda, Donato 70, 71 D’Althann, Michele, cardinale 94 Danti, Angiolo 23n, 158n D’Arvieux, Laurent 221

Indice dei nomi D’Aste, Michele 69, 70 e n De Angelis, Luigi 230n De Frede, Carlo 23n, 24n, 156n De Giovanni, Biagio 95n De La Motte, Houdar 224 Del Beccaro, Felice 21n De Lemene, Francesco 39, 42 e n, 43, 99 e n, 110, 111n, 119n, 149, 190, 191n Del Fuoco, Maria Grazia 28n Della Seta, Fabrizio 231n Del Negro, Piero 33n, 34n De Luco Sereni, Francesco Maria 184n De Michelis, Ida 16n De Puels d’Aramon, Gabriel 24 De Rossi, Antonio 46, 47 De Santis, Antonio 210n Di Biase, Carmine 50n, 111n, 175n, 187n Diedo, Girolamo 193 e n Di Gregorio, Francesco 46n Di Napoli, Carlo 68n Dionisotti, Carlo 15 e n, 32 Dobraczynski, Jan 197n Domenichi, Lodovico 158 e n Donà, Andrea 30 Donà, Giambattista 21, 28-32, 34 Donatelli, Bruna 101n Duranti, Bartolomeo 66, 99 e n, 104n, 140n, 184n, 194n, 201, 202n Eickhoff, Ekkehard 12n, 254n Elasgo Crannonio (Domenico Fabbretti) 46n Eleonora, imperatrice 46 Eleonora d’Austria, moglie di Carlo di Lorena 204 Elisabetta, imperatrice 185 Enzensberger, Horst 28n Erodoto, 119n Este Gambacorta, Donna Aurelia 185 Eugenio di Savoia, principe 11, 13, 40n, 41, 44, 45, 48, 51, 56n, 78, 118n, 141n, 171n, 191, 204, 205n, 231, 258 Eulisto Macariano (Saverio Maria Barlettani Attavanti) 201n Fábián, Zsuzsanna 77n Faini, Marco 162n Falcone, Giuseppe 79n Fanfani, Pietro 77 e n

Fantoni, Marcello 171n Faroqhi, Suraya 19n Favilli, Temistocle 231n, 247 Federico II, re di Prussia 171n Felici, Lucia 24n Ferrari, Giorgio Emanuele 32n Ferrari, Luigi 257n Filelfo, Francesco 11n Filicaia, Vincenzo 7, 17n, 42n, 43 e n, 4954, 57-59, 64, 66, 118n, 119n, 131n, 144n, 145n, 151-155, 166, 167n, 179 e n, 185, 187n, 188, 195 e n, 198-200, 206, 207n, 209n Filippo VI di Valois 83 Fioravanti, Innocenzo Maria 134 e n Fiorentino, Francesco 237n Firpo, Luigi 30n Formichetti, Gianfranco 46 e n, 76n Formisano, Luciano 24, 25n Fossombroni, Giovanni Battista 59n Franchi, Saverio 61 e n, 231 e n Freschot, Casimiro 205n Frigo, Daniela 183n, 184n Frittelli, Ugo 231n Gagliardi, Roberto 257n Gallamini, Luigi 42n, 216n Galland, Antoine 20 Gasparini, Francesco 231, 232 Geddes da Filicaia, Costanza 50n Genest, Charles-Claude 254 Gentile da Martone, Giovanni Domenico 84n, 93 e n, 94, 102, 103n, 121-125, 127, 154n, 189, 190n, 195 e n, 200 e n, 217 Georgijević, Bartholomaeus 158 e n, 159 e n Giacomo II Stuart, re d’Inghilterra 40 Giannone, Pietro 15 Giarrizzo, Giuseppe 185n Gibellini, Cecilia 13n, 16n, 136n, 140n, 146n, 154n Gierowski, Józef 192n Gigli, Girolamo, 221, 230-232, 237-240, 244-248, 251, 252, 254-259 Ginzburg, Carlo 156n Gioacchino da Fiore 159 Gios, Pierantonio 27n Giovanni d’Austria, don 10n, 12, 193

291

Indice dei nomi Giovanni III vedi Sobieski, Giovanni III Giovanni XXII papa (Jacques Duèze), 83 Giovio, Paolo 24, 158n Giuseppe I Asburgo, arciduca, poi imperatore 187 Giustinian, Marcantonio, doge 42n Goffredo di Buglione, 152, 207, 209 e n Goldoni, Carlo 21, 230 e n Göllner, Carol 16n, 158n Gonzaga, Curzio 92 Gori, Francesco 51 Gorini, Giovanni 42n Graciotti, Sante 33n Grappini, Iacopo 93n Gravina, Gianvincenzo 100 Gregorio XIII papa (Ugo Buoncompagni) 12 Grisendi, Francesco 121n, 193 e n, 212 e n Groto, Luigi detto Cieco d’Adria 54 e n, 60, 140n Gualtieri, Guido 92 Guglielmo d’Orange, re d’Inghilterra 40 Guêze, Raoul 107n, 121n Guidi, Alessandro 70, 175 e n Guidicelli, Lucio Mario 156 Gullino, Giuseppe 28n Gustavo Adolfo, re di Svezia 171n Hamerani, Giovanni 42n Hocke, Gustav René 83n Heers, Jacques 155n Henderson, Nicholas 205n Herbelot de Molainville, Barthélemy 20 Herbester, Johann 23 Herre, Franz 205n Hertz, Giovanni Giacomo 55, 56, 68 Huntington, Samuel P. 8n Ianniello, Maria Grazia 101n Ibrahim, pashà 227 Imbruglia, Girolamo 24n Infelise, Mario 18 e n, 31n, 32n, 34 e n Innocenzo XI papa (Benedetto Odescalchi) 12, 25, 41, 42 e n, 56-59, 62, 64, 67, 91n, 107-109, 111, 142, 149, 169, 173175, 177-182, 199, 216 e n, 217, 265, 266 Innocenzo XII papa (Antonio Pignatelli) 58n

292

Jakub, figlio di Giovanni III Sobieski 192n, 199 Kara Mustafà Köprülü, vizir 12, 35, 76, 82, 120, 133, 137, 138, 141, 157, 210, 216, 227, 229, 238 Khar-ed-Din, detto Barbarossa 248 Kircher, Athanasius 101 Köpeczi, Bela 17n, 121n Kossak, Juliusz 204, 282, 283 Kostick, Conor 12n Lai, Pietro 102n Lami, Giovanni 230n Lami, Lucio 11 e n Lanciani, Carlo Flavio 226 Lauso Diofanio (Fabrizio Monsignani) 82n La Vallette, Jean de 209 Lefèvre, Matteo 16n Leibniz, Gottfried Wilhelm 31 Lemer, Gaetano 118n Leonardi, Donato Antonio 134 e n, 144n, 215n, 217, 218n Leone, Francesco 44n Leonhardt, Gustav 222n Leoni de Magistris, Pietro Pier 184n Leopoldo I Asburgo, imperatore 25, 41n, 42n, 56-59, 64, 70, 111-113, 116, 120-122, 151, 164, 166, 183-191, 199, 204, 210 Leporeo, Lodovico 87, 89 Lessing, Gotthold Ephraim 21 Levi della Vida, Giorgio 26n, 53 e n Lewański, Riccardo Casimiro 16n, 193n Lewinski Corwin, Edward Henry 277 Lewis, Bernard 18, 19 e n Locke, John 21 Lorenzani, Giovanni Andrea 225, 226, 228 e n Lori, Giovanni 81n, 189n Lotti, Giovanni 87n, 104n Lotti, Lotto 73 e n Lovascio, Giuseppe 161n Lucano, Lucio Anneo 162n Lucchesini, Cesare 96n Ludovico (Luigi) del Baden 191 Luigi XIV Borbone, re di Francia 40, 183, 204, 222 Lully, Jean-Baptiste 221, 222n Lutero, Martin 22, 23, 143

Indice dei nomi Madrisio, Nicolò 56 e n, 95n, 118n, 176n, 214n Maffei, Raffaello 201n Mafrici, Mirella 156n Maganza, Giovanni Battista 74 Maggi, Carlo Maria 187 e n, 188 e n Magnani, Giovanni Antonio 63, 131, 132n, 166n, 196 Magno, Celio 154n Maier, Bruno 175n Maietta, Giuseppe Ambrogio 67-72 Malamani, Vittorio 230n Malvezzi, Aldobrandino 24n Mammana, Simona 16n, 46n, 49n, 52n, 53n, 54n, 60n, 72n, 78n, 83n, 92n, 142n, 154n, 156n, 165n, 195n Manetti, Elisabetta 168n Mango, Francesco 15n Manzonetto, Flora 28n Manzoni, Domenico 84n Marana, Gian Paolo 37 e n Marasso, Laura 17n, 31n, 33n, 36n, 37n, 38n, 147n Marcello, Lorenzo 254 Marchese, Annibale 112n, 147n Marco d’Aviano, padre 94 Marconi, Ignazio 95n, 168 e n Marescotti, Galeazzo 41 e n, 228 e n Margalli, Giuseppe 200, 201n Mari, Giulio Cesare 119n Maria Casimira, moglie di Giovanni III Sobieski 197n, 202 Marini, Quinto 80n, 112n Marlborough, John Churchill duca di 41 Marracci, Lodovico 21, 25-28, 31, 34, 53, 216, 219 e n Marsigli, Luigi Ferdinando 120 Marsili, Margherita 248 Marsilio, Giovanni Antonio 92, 93 e n, 118n, 128n, 130n, 215n, 217 e n Martello, Pier Jacopo 175n, 238 Martinelli, Renzo 9, 10 e n, 12 Martinelli, Zenda 13 Massimiliano Emanuele, duca di Baviera 41, 56, 58, 60, 64, 67, 69, 75, 95, 114, 170, 171n, 180, 191, 205 Matejko, Jan 192n, 204, 277, 281, 282 Mattei, Loreto 46 e n, 47, 65n, 76, 87n, 103n, 213n, 218-220

Mattioli, Ludovico 238, 285 Mattioli, Tiziana 162n Maylender, Michele 58n Mazzoni, Guido 15n, 33 e n Medin, Antonio 147n Megnani, Geminiano 73 e n Megnavini, Giovanni Battista 164 Mehmet (Maometto) III, sultano 161 Mehmet (Maometto) IV, sultano 30, 82, 160, 161, 164, 216 Meloncelli, Gabriel Maria 95n, 132n, 175177, 208n Menavino, Giovanni Antonio 158 Menzini, Benedetto 51, 58n, 59n, 116 e n, 145n, 155n Messerini da Empoli, Ottavio 77 e n Metastasio (Pietro Trapassi) 101, 185 e n, 188 Michelacci, Laura 158n Minuti, Rolando 21n, 24n, 28n Mioni, Teodoro 36 e n Mirra, Alessandra 13 Mitelli, Francesco Maria 33, 76, 106, 126n, 131n, 141, 164, 238, 239, 261n, 263, 264, 266-268, 271-275, 285-287 Miziolek, Jerzy 197n Molière (Jean-Baptiste Poquelin) 221-223, 230, 232, 236, 237 e n, 240, 243 Molmenti, Pompeo 15n Monaci, Gaetano 170n, 210n Monesio, Giovanni Pietro 103 e n, 104n, 139 e n, 149n, 154 Moneti, Francesco 164n Montecuccoli, Raimondo 204, 221 Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, barone di 20, 37 Moravia, Sergio 21n Morelli, Giorgio 20n, 74n, 75 e n Moretti, Alcibiade 247n Morosini, Francesco 171n Mosca, Felice 231 e n Motta, Giovanna 12n Mouret, Jean Joseph 225 Mozart, Wolfgang Amadeus 20, 21 Mozzarelli, Cesare 34n Muratori, Ludovico Antonio 7, 8n, 67 e n, 111n, 187n

293

Indice dei nomi Napoleone, 171n Nappini, Bartolomeo (Don Polipodio) 62, 78, 79n, 124 Nelli, Nicolò 149 Neri, Giovanni Battista 156 Nicasio Porriniano (Alessandro Pompeo Berti) 52n Nicolini, Fausto 94n, 95n Nucci, Anton Francesco 69, 214n Nuovo, Angela 23n Oddoni, Girolamo 178 e n Odescalchi, Benedetto vedi Innocenzo XI papa Odescalchi, Livio 107n, 110, 157 Onorati, Franco 74n Orazio 112n Orlando, Francesco 20, 21n Ortolani, Giuseppe 230n Paganini, Alessandro 23 Palmer, Rodney 112n, 231n Pamphili, Benedetto, cardinale 46, 61 Paoletti, Ciro 205n Paoli, Maria Pia 50n Paolucci, Giuseppe 59n Papasogli, Benedetta 101n Paret, Rudi 237n Partini, Anna Maria 101n Patrizi, Giorgio 167n Pazzaglia, Francesco Maria 32 Pedani Fabris, Maria Pia 19n, 26n, 27n, 211n, 216n Pedullà, Walter 87n, 95n Perelli, Antonella 175n Pergamini, Jacopo 161 Perini, Sergio 18n Pertusi, Agostino 11n Petacco, Arrigo 11 e n Petrarca, Francesco 43n, 82, 83 Petrignani, Ottaviano 82, 83 e n Petrocchi, Massimo 174n Petrosellini, Domenico Ottavio 141 e n Piacentini, Ernesto 70n Piccolomini, Enea Silvio 11n Piccolomini, Francesco 245, 255 Pietro il Venerabile, abate di Cluny 22, 27 Pifferi, Stefano 174n

294

Pignatelli, Stefano 58 e n, 59 e n, 107 e n, 108 e n, 110-113, 133 e n, 142 e n, 143 e n, 188 e n, 196 e n, 205, 206 e n, 214 e n Pio V papa (Antonio Ghislieri) 12, 41, 42, 173 Piperno, Franco 231n Piselli, Giuseppe 129 e n, 212 e n Pittoni, Giovanni Battista 174n Pizzo, Marco 107n, 111n Platania, Gaetano 16n, 17n, 107n, 150n, 174n, 192n, 203n Plutarco 129, 195 Poli, Diego 50n Pozzi, Giovanni 83n Pradon, Nicolas 254 Prati, Giovanni 49 e n, 101n, 116, 117n, 119n, 120n, 149 e n, 166 e n, 200n, 213n, 218 e n Préchac, Jean de 32, 35, 36 Preto, Paolo 11 e n, 20n, 21n, 28-32, 36 e n, 38n, 135n, 156n, 159n, 205n Primiero, Francesco 170n Procaccioli, Paolo 87n Professione, Alfonso 80 e n, 81n Proietti Pannunzi, Giorgia 13 Quarti, Guido Antonio 15n, 72n, 154n Quartieri, Giovanni Francesco 63, 173 Quataert, Donald 19n Quondam, Amedeo 54n, 56, 57n, 61n, 83n, 95n, 100 e n, 101 e n Racine, Jean 254 Rainer, Johann 183n Redi, Francesco 50, 51, 58n, 59n, 148n, 185 Reeland, Adriaan 27 e n Ricci, Giovanni 8 e n, 12n, 126n, 130n, 155 e n, 181n, 215n Rigo, Antonio 158n, 161n Risset, Jacqueline 101n Rivosecchi, Valerio 101n Rizzardi, Giuseppe 26n Roberto di Chester 22, 23 Roscioni, Gian Carlo 37n Rossi, Ettore 158n Rossini, Gioacchino 21, 230 Rostagno, Lucia 156n Rousset, Paul 150n

Indice dei nomi Rotta, Salvatore 37n Ruspoli, Francesco Maria 231 Russo, Flavio 155n Saffà, Giorgio detto Caporal Giurgia 225 Saffi, Pietro 180 e n, 181, 182 e n, 192 e n Sagredo, Giovanni 112n Sagundino, Niccolò 11n Said, Edward W. 22n Sala di Felice, Elena 185n Salvarini, Luana 175n Salvioni, Giovanni Maria 254 Sammarco, Manuela 13 Santagata, Marco 54n Santinelli, Francesco Maria 66, 67 e n, 85n, 91, 95, 96n, 98, 101 e n, 103n, 115 e n, 146n, 162 e n Saracco, Lisa 25n Sardini, Iacopo 104, 105n Sárközy, Peter 16 e n, 17n, 44n Sarteschi, Federico 96n Saulino, Nicolò Francesco 103n Scaraffia, Lucetta 156n, 216n Scaramella, Pierroberto 156n Schulof, Iszák 181n Selim I, sultano 215 Selleri, Gregorio 231 Sergardi, Lodovico 61n Serio, Donato Antonio 69, 81 e n, 82, 137 e n Sforza, Michele 16n, 156n Siemiginowski-Eleuter, Jerzy 192n, 278, 279 Silvestrini, Flavio 13 Simon, Bruno 28n Simonato, Ruggero 28n Simonutti, Luisa 24n Sobieski, Giovanni III, re di Polonia 12, 16, 17, 41n, 42n, 56-59, 62, 64, 66, 76, 86, 95, 113, 114, 137, 151, 166, 169, 177, 189, 192 e n, 195-197, 199-202, 204, 205, 215, 217, 218, 245 Socci, Antonio 10, 11n, 12 Soldani, Arnaldo 83n Solimano il Magnifico, sultano 18, 24, 98, 216 Solimano III, sultano 222 Solyma, Nicolò Maria 119n, 214n Soykut, Mustafà 28n

Spagna, Arcangelo 56 e n, 198n, 214n Spera, Lucinda 35n, 37n, 38n, 231n Spinola, Giovanni Andrea 85n, 120, 153n, 168 e n, 179n, 180n, 198n Starembergh, Ernst von 58, 60, 64, 66, 114, 137, 169, 195, 210-212, 214 Starobinski, Jean 100 e n Stouraiti, Anastasia 12n, 17n, 18n, 31n, 36n, 37n, 38n, 147n Stoye, John 12n, 124n Strambi, Beatrice 231n Strinati, Malatesta 208n, 214n Stroppa, Sabrina 101 e n, 168n Suleiman Mustafà, agà 222 Szakály, Ferenc 181n Talbot, Michael 222n Talenti, Tommaso 204, 217 Tamblè, Donato 75, 76n, 148n, 225n Tamborra, Angelo 150n Tapié, Victor-Lucien 183n Tasso, Torquato, 17n, 145, 161 Terenzi, Luca 88 e n, 89, 130n, 134 e n, 176n Testaverde, Tommaso 13 Tinassi, Francesco Antonio 47, 61 e n, 62, 66, 68, 215n, 219n Tito Livio 43n, 129 Töcköly, Imre 35, 66, 102, 121 e n, 122 Toderini, Giambattista 30n Toldo, Pietro 37n Tombolon, Bottazzo 74 e n Tongiorgi Tommasi, Lucia 101n Torcellan, Gianfranco 20n Tosoni, Alessio 121n Treves, Johann de 67 Tricius, Alexandre Jan 192n, 276 Turchi, Marcello 16n, 38n, 92n, 140n, 146n, 154n, 193n Turchi, Roberta 232 e n Turenne (Henri de La Tour d’Auvergne) 171n Unti, Ovidio 102 e n Urbano II papa (Ottone di Lagery) 207 Vani Mehmed, efendi 216 Varano, Valentina 13

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Indice dei nomi Varignana, Franca 261n Varotti, Carlo 168n Veglia, padre 161 Vico, Giambattista 94 e n, 95n Villifranchi, Giovanni Cosimo 201 e n Vincentini, Girolamo 46n Violante, Cinzio 192n Vitale, Maria 101n Vivaldi, Antonio 168n, 222n Voltaire (François-Marie Arouet) 21 Wandruszka, Adam 183n Warren, Donald 37n Wheatcroft, Andrew 12n, 40n Wiśniowiecki, Michal Korybut 205

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Wos, Jan Wladislaw 192n Yates, Frances Amelia 101n Zabarella, Andrea 86n, 196n Zago, Renata 223n, 230n Zampaglione, Vincenzo 13 Zanetti, Emilia 231n Zeno, Apostolo 147, 148 e n, 208 Zini, Pietro 73 e n, 146n Zolla, Elémire 101n Zondadari, Marc’Antonio 244-246, 248, 249, 252-257 Zrínyi, conte 121 Zwingli, Uldrich 23

Finito di stampare nel mese di febbraio 2012 da IRIPRINT Coordinamento tecnico CENTRO STAMPA di Meucci Roberto CITTÀ DI CASTELLO (PG)